mercoledì 23 aprile 2014

di Flamigni e Melega, “Ru486. Non tutte le streghe sono state bruciate”, L’Asino d’oro, Roma 2010)
L’Unità 23.04.14
Aborto farmacologico, fermiamo le bugie
di Carlo Flamigni e Corrado Melega


TEMPO FA ABBIAMO SCRITTO UN PICCOLO LIBRO DEDICATO INTERAMENTE ALL’ABORTO FARMACOLOGICO (Flamigni e Melega, Ru486,Non tutte le streghe sono state bruciate, L’Asino d’oro, Roma 2010), per contestare una voce altrettanto ricorrente quanto falsa e basata su informazioni ricavate dalle pagine scientifiche di Topolino, secondo la quale interrompere le gravidanze con metodi farmacologici ( in particolare usando le compresse di mifepristone e di prostaglandine in associazione) era responsabile di una importante mortalità materna, certamente più elevata (cose del tutto incontrollabili si inventavano un drammatico «dieci volte tanto») di quella attribuibile agli interventi chirurgici. In quei tempi la polemica era così accesa che avevamo avuto la sensazione che qualcuno, ad ogni notizia di una complicazione da farmaci, gioisse. Scrivemmo nel nostro libro che non era vero, che la letteratura metteva i due tipi di intervento sullo stesso piano per tutto ciò che ha a che fare con le complicazioni, che non era giusto e non era civile diffondere dati chiaramente inventati per puro amor di fede. Non è bastato, a distanza di qualche anno, a causa del decesso di una donna che aveva iniziato la procedura per abortire con il metodo farmacologico, si torna a parlare delle stesse cose, si pubblicano le stesse menzogne, si torna a far sfoggio di mala-fede. Non vogliamo nemmeno affrontare quello che dovrebbe essere il problema più importante, il fatto cioè che la responsabilità del mifepristone in questa morte non è per nulla dimostrata, anzi. Siamo invece tornati a controllare la bibliografia – non si sa mai e non abbiamo trovato novità di rilievo. Rispetto alla nostra ormai vecchia pubblicazione, nemmeno un dato che ci consenta almeno di porci qualche dubbio: solo per fare un esempio, UpToDate, che fa una revisione critica della letteratura due volte all’anno, non ha praticamente cambiato un rigo. È morta una donna, è vero, e ne siamo profondamente addolorati: ma poche settimane prima – e sempre in Italia erano morte due donne a seguito di un intervento chirurgico (sempre eseguito per interrompere una gravidanza) e nessuno di noi aveva creduto civile commentare quei decessi. Ma al di là delle macabre classifiche di morte bisogna sottolineare che la metodica farmacologica usata praticamente in tutto il mondo, in alcuni casi fin dai primi anni 90, provoca secondo statistiche che ormai si basano su milioni di procedure, un’incidenza di eventi avversi sovrapponibile alla procedura chirurgica; viene apprezzata dalle donne in misura praticamente simile all’altra, ed è in definitiva una maniera alternativa di abortire con gli stessi vantaggi e svantaggi. È importante che le donne adeguatamente informate possano scegliere. In Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna, nei Paesi scandinavi, praticamente metà delle interruzioni viene eseguita con il metodo farmacologico, la Oms l’ha dichiarata farmaco essenziale senza se e senza ma, non ha mai, ripetiamo mai, confermato le drammatiche asserzioni di chi ritiene che tutta la legge 194 (definita creontea da coloro che non amano la tragedia greca) debba essere cancellata dal nostro ordinamento e ha definito la Ru 486, con particolare buon gusto, la «pillola morte ». Abbiamo comunque chiesto delucidazioni ad alcuni esperti e in particolare a Christian Fiala (christian.fiala@aon.at) che ci ha inviato una grande quantità di riferimenti bibliografici dai quali si evince quello che già sapevano: si muore di aborto, una volta ogni 100.000 interventi, quali che siano le tecniche; si muore molto meno di aborto che di gravidanza (il rischio per le gravide è 13 volte più elevato), molto meno di aborto che di assunzione di Viagra (il rischio per gli equilibristi del sesso è cinque volte più elevato, se si calcola la mortalità tenendo conto del numero di prescrizioni); la somministrazione di un farmaco è una opzione, non è la soluzione finale del problema, e le scelte vanno precedute da una completa e corretta informazione, che renda possibile e responsabile l’autonomia. Abbiamo deciso di non entrare in modo più dettagliato nella letteratura, ma se qualcuno lo chiederà potremo mandargli i dati bibliografici che abbiamo ricevuto e un certo numero di pubblicazioni. A noi basta così, anche se ci piacerebbe che gli influenti esponenti del mondo cattolico che continuano a mentire su questi temi si rendessero conto di comportarsi in modo disonesto e irresponsabile, anche se il fatto che siano relegati a scrivere sui giornali meno importanti del Vaticano li dovrebbe ormai far considerare esclusi dalle discussioni con le persone perbene. Ci piacerebbe anche che investissimo tutti di più nella prevenzione delle gravidanze non desiderate, una cosa che al mondo cattolico non va bene perché significa educazione sessuale e contraccezione. Abbiamo letto recentemente che l’opinione di questo stesso mondo cattolico (non certo quella del Magistero) nei confronti delle interruzioni volontarie della gravidanza si è completamente modificata, in Italia e nel mondo, a riprova del fatto che quel famoso «scisma sommerso » del quale scriveva Pietro Prini molti anni or sono, è finalmente uscito dalle acque; abbiamo seguito una discussione molto civile che ha coinvolto soprattutto i cattolici delle comunità di base, che hanno esaminato con grande coraggio il problema della dottrina e della possibilità che le modificazioni della morale di senso comune possa modificarla. Siamo sempre stati convinti che la norma etica si forma e si modifica proprio per i mutamenti di questa morale, che è molto sensibile alle intuizioni dei vantaggi che derivano dalla scienza e dalle conoscenze possibili, vantaggi che debbono necessariamente riguardare i nostri fratelli più sfortunati, e che è molto più ricca di compassione di quanto il complicato e scettico mondo delle religioni possa immaginare. Ci piacerebbe che le persone religiose che hanno voglia di discutere con noi ci rispondessero proprio su questo: può la compassione modificare la dottrina?

L’Unità 23.04.14
«Il 25 aprile è la festa di tutti. Ora serve un’Europa libera»
Il presidente dell’Anpi lancia l’allarme sulle riforme: «La nuova legge elettorale e un Senato di non eletti riducono gli spazi di democrazia»
di Alessandra Rubenni


È con un’agenda più fitta del solito che quest’anno l’Associazione nazionale dei partigiani si avvicina all’anniversario della Liberazione. In programma c’è ovviamente la grande manifestazione del 25 Aprile a Milano, accompagnata dalle tante altre che si svolgeranno in contemporanea in tutta Italia. E poi appena qualche giorno dopo, il 29 aprile a Roma, una grande iniziativa per parlare di riforme costituzionali e lanciare un allarme rispetto al progetto che sta prendendo forma in queste settimane. «Il 25 Aprile è sempre una grande festa, con tanti appuntamenti, ed è una festa di tutti. Certo non lo è per il sindaco di Bellaria che scelto questa data per rimuovere il monumento alla Liberazione dalla piazza. Ma per fortuna ci sono tanti altri che credono in queste manifestazioni e sono contenti di stare insieme in una giornata così significativa», riflette il presidente nazionale dell’Anpi, Carlo Smuraglia, citando il caso scoppiato appena prima di Pasqua nella cittadina romagnola. Presidente Smuraglia, che sapore ha questo 25 Aprile?
«Quest’anno ha un significato tutto particolare. Si celebra il settantesimo anniversario della Liberazione, ovvero di quel periodo che finisce con l’insurrezione, dopo un anno cruciale per lo sviluppo della lotta partigiana intesa come lotta armata, ma non solo, grazie all’impegno di tante donne, contadini e cittadini non armati. Sono settant’anni dall’anno delle repubbliche partigiane e delle grandi e terribili stragi nazifasciste. Ciò che è accaduto quando i tedeschi hanno cominciato a sentire l’odore della sconfitta e le tante stragi sono un lato della storia che va tenuto sempre presente, pur nella giornata di festa».
Ma tra poco ci saranno anche le elezioni...
«Infatti quest’anno il 25 Aprile è anche l’occasione per celebrare in modo particolare un momento di unione, di fratellanza e di quella che Claudio Pavone ha chiamato “moralità della resistenza”, di cui c’è tanto bisogno anche oggi nei comuni, nelle regioni. La correttezza della amministrazione pubblica e la moralità indiscutibile di chi pensa agli interessi collettivi e non ai propri devono essere tra i cardini fondamentali delle nuove amministrazioni. Ma insieme alle amministrative ci sono anche le elezioni europee. E quando noi pensiamo all’Europa pensiamo all’Europa della Resistenza, dei tanti che furono perseguitati e reagirono al regime, pensiamo a un’Europa unita, democratica e antifascista, come quella che era nei sogni di tanti che hanno combattuto e spesso sacrificato la propria vita. Pensiamo a un’Europa che unisca gli antifascisti di sempre e riesca a sconfiggere ogni tentazione di far riemergere forze fasciste e neonaziste, insieme a una destra xenofoba e razzista».
Avete in programma qualcosa di particolare?
«Come sempre ci sarà la manifestazione nazionale a Milano, quest’anno con un elemento di novità. Una delle oratrici centrali sarà la senatrice a vita Elena Cattaneo, una scienziata. Una presenza con cui vogliamo segnalare che c’è bisogno di cultura e di un grande impegno per cambiare un Paese che fa molta fatica sul campo dell’innovazione e della cultura. C’è bisogno che si rinnovi la cultura politica e anche la cultura democratica, che qualche volta incontra qualche inciampo. Ma, pure, la cultura senza aggettivi, che è alla base della nostra storia e che si colleghi alla scienza, all’innovazione e alla ricerca, per i tanti che oggi, in questo campo, sono costretti a cercare lavoro fuori dall’Italia». Ma veniamo all’appuntamento del 29 aprile al teatro Eliseo. «Al Senato si sta lavorando molto intensamente sulle riforme costituzionali e noi abbiamo pensato a una manifestazione nazionale per far sentire, per tempo, la nostra voce. Nella nuova legge elettorale vediamo aspetti negativi che riguardano il complesso degli spazi di democrazia riservati ai cittadini. Siamo convinti che sia stata concepita al di fuori di quanto ha affermato la Corte costituzionale e che non dia ai cittadini la possibilità di esprimere le proprie opzioni né gli garantisca di essere adeguatamente rappresentati. Speriamo possa essere modificata, perché questo difetto di parola ai cittadini in prima persona riduce uno spazio di democrazia».
Voi siete critici anche sulla riforma del Senato, per come è stata profilata finora.
«La riforma del Senato è un grande tema. Non si tratta di cambiare la rotellina di un ingranaggio, ma di toccare uno dei pilastri del nostro sistema. Non diciamo che non si possa riformare, va modificato ciò che si è rivelato difettoso, ma in linea di coerenza con il complesso della Costituzione. È vero che il sistema attuale ha allungato il procedimento legislativo, ma ha anche reso possibile ripensamenti su temi importanti. Ebbene, ci sono tanti sistemi di altri Paesi che correggono il bicameralismo perfetto senza eliminare la seconda Camera. Un modello possibile è quello di una Camera che faccia le leggi principali ed è l’unica a votare la fiducia, però con un Senato ugualmente elettivo, affinché non diventi una Camera di serie C, per poter influire sulle leggi di bilancio, di carattere costituzionale e su questioni di particolare importanza. Penso a quei sistemi che ad esempio prevedono, su richiesta, di poter coinvolgere la seconda Camera su questioni di particolare interesse».
Il Senato dei non eletti insomma sarebbe svuotato di competenze?
«Si può pensare a un sistema che unisca l’elezione diretta dei cittadini all’inserimento di rappresentanze di carattere regionale o locale, che invece dai modelli di cui si parla ora non si capisce bene cosa dovrebbero fare, visto che questi rappresentanti avrebbero già un mestiere, quello di amministratori locali. Riflettiamo poi sulla possibilità di attribuire al Senato quel ruolo di equilibrio che è necessario per evitare un concentramento di poteri eccessivo in una sola Camera, eletta oltretutto con il premio di maggioranza. Penso a un modello di garanzia, come previsto dai padri costituenti. Il punto fondamentale è che il cittadino sia rappresentato da organismi equilibrati. Mentre con un Senato di non eletti euna legge elettorale già squilibrata si riducono i necessari spazi di democrazia».
Crede ci sia lo spazio per rivedere l’impianto delle riforme?
«Ricordo che si parla di riforme costituzionali, la materia più delicata su cui ci si possa esprimere. È necessaria una riflessione attenta, la fretta è una cattiva consigliera. Noi chiediamo che si ascolti la voce di tanti costituzionalisti. E ora c’è anche l’Anpi che entra in campo e propone di rispettare la quota di democrazia che spetta ai cittadini. Il 29 aprile, insieme a me, ci saranno costituzionalisti come Lorenza Carlassarre, Gianni Ferrara e Stefano Rodotà. Forniremo materia di discussione e vorremmo dare il nostro contributo. Dispiacerebbe non essere ascoltati perché le date di scadenza fissate sono troppo ravvicinate. Né le voci di esperti meritano di essere liquidate con ironia dicendo che sono i “soliti” professori».

l’Unità 23.04.14
L’intervista
Chiti: non ritiro il mio testo, niente paletti alla Costituzione
di Ninno Andiolo


«Se De Gasperi avesse posto paletti la Costituzione italiana non sarebbe mai nata....».
Vannino Chiti tiene il punto, non torna indietro e insiste sulla necessità di un «confronto di merito che allarghi il consenso».
L’esempio da seguire spiega è quello «dei padri costituenti che votarono quasi all’unanimità la Carta fondamentale». Senatore, il ministro Boschi torna a chiederle di ritirare il suo disegno di legge sulla riforma del Senato...
«Non posso ritirarlo. Sono convinto che quella proposta presenti coerenze complessive che portano al superamento del bicameralismo paritario in modo preferibile rispetto alla via indicata dal governo. Io, poi, ho firmato assieme ad altri 36 colleghi. Quel testo quindi non è di mia proprietà. C’è da ricordare, infine, che le riforme vanno fatte con rapidità ma vanno fatte bene. Le obiezioni di fondo esistevano a prescindere. Il mio ddl ha fatto sì che non ci fosse una bandiera alternativa affidata ad altre forze che potevano essere prevalentemente d’opposizione...».
Settori dell’opposizione condividono il suo testo, la maggioranza meno...
«Il fatto che su certe impostazioni convergano chi è uscito dalM5S,Sel, i Popolari e altri, dovrebbe essere visto come una potenzialità. Le riforme si fanno con la massima convergenza».
Il gruppo Pd al Senato ha approvato il testo del governo...
«È la verità. La maggioranza ha votato legittimamente perché il testo base per le riforme sia quello del governo. A partire da questa impostazione però in molti nel gruppo hanno posto questioni simili alle mie. Rischiamo di passare da un bicameralismo paritario assoluto a un Senato che diventa una specie di Cnel istituzionale, un’istituzione congegnata solo per dare pareri...».
Torneremo al merito, ma il ministro Boschi la richiama alla scelta della direzione e del gruppo Pd...
«Sui temi che riguardano la Costituzione c’è sempre stata piena autonomia e responsabilità non solo dei gruppi ma anche dei singoli parlamentari. La Costituzione non è né dei governi né dei gruppi. È dei cittadini italiani. Non pretendo di avere la verità rivelata in tasca, ma chiedo di poter seguire i miei convincimenti. Il diritto all’obiezione di coscienza dobbiamo riservarlo solo alle questioni bioetiche? Non deve avere un senso quando parliamo di temi costituzionali che quegli aspetti in qualche modo contengono e fondano?»
Cosa rimprovera al ddl del governo?
«Io penso che non si possa fare una riforma a pezzi, occorre uno sguardo d’insieme. La Costituzione è fatta di equilibri tra poteri e istituzioni. Partiamo dall’Italicum allora, una legge iper maggioritaria: conil37%dei consensi, e con l’aiuto di chi non raggiunge il 4,5% per accedere ai seggi, si può fare l’en plein. Il nuovo Titolo V non rappresenta quella razionalizzazione attesa da tempo, ma una ricentralizzazione di competenze allo Stato in controtendenza con l’Europa».
Ma è vero o no che la proposta del governo sul Senato ricalca quella dell’Ulivo? «Ricordiamo le cose in modo corretto. Una strada da seguire può essere quella della Germania federale dove i Länder hanno poteri veri. La loro legge elettorale per la Camera è simile a quella che avevamo costruito tra il 2006 e il 2008, durante il secondo governo Prodi, e che fu spazzata via dalle elezioni anticipate: proporzionale con sbarramento al 5%. Il Bundesrat, il Senato tedesco, è fatto solo dai delegati dei governi regionali. Da noi si va in quella direzione? Verso una Repubblica federale alla tedesca? Evidente che no».
Nemmeno il suo ddl guarda a Berlino...
«Propone l’alternativa di un Senato di garanzia e di rappresentanza dei territori. Di garanzia perché la Camera ha una legge elettorale che serve per formare i governi; di garanzia perché la Camera ha l’ultima parola sull’insieme delle leggi e dà la fiducia all’esecutivo. Per questi motivi servono equilibrio e, appunto, funzioni di garanzia. E perché il Senato possa svolgerle pienamente bisogna che su alcune materie modifiche alla Costituzione, ordinamenti Ue, leggi elettorali, ratifica dei trattati internazionali, diritti dei cittadini Palazzo Madama mantenga un rapporto paritario con la Camera».
Lei chiede anche il Senato elettivo...
«Il bicameralismo paritario va superato. Ma per svolgere a pieno le loro funzioni di garanzia i senatori devono essere eletti. Nella mia proposta le elezioni dei senatori coincidono con quelle dei consiglieri regionali, in modo che gli eletti risultino legati ai territori».
Un modello simile a quello spagnolo....
«Sì. Il Senato spagnolo è eletto per 4/5 dai cittadini e per 1/5 è designato dalle comunità autonome. Può intervenire per emendare o anche per respingere le leggi che ha approvato la Camera. Questa però ha l’ultima parola. Su diritti dei cittadini e autonomie locali tuttavia esiste un bicameralismo paritario ed è prevista la maggioranza assoluta nelle due assemblee. Per le leggi costituzionali poi ci vogliono i 3/5 in ogni ramo del Parlamento. Certo che bisogna far funzionare la democrazia, ma servono equilibri altrimenti si rischia di impoverirla».
Nella minoranza Pd c’è chi ritiene più utile la partita per l’Italicum piuttosto che per cambiare il testo del governo sul Senato. Non rischia l’isolamento nel suo partito?
«La partita vera si gioca sulla coerenza tra i tre momenti: Titolo V, Senato e legge elettorale. Io non faccio parte di correnti e muovo dalle mie convinzioni. Non faccio calcoli. Mi ricordo due cose però: la prima è che bisogna fare le battaglie che si ritengono giuste, e farle alla luce del sole e senza trappole; la seconda è che le sconfitte più grandi sono quelle di battaglie giuste che non si è avuto il coraggio di affrontare». L’idea di un Senato dimezzato anche nei costi ai cittadini piace....
«Nella mia proposta non si riduce soltanto il numero dei senatori, ma anche quello dei deputati. La riduzione delle indennità? Non può essere prevista con legge costituzionale, ma ho proposto che vengano equiparate subito a quella del sindaco di Roma».
Il testo base arriverà a breve in commissione, lei come si comporterà?
«Sulla base di ciò che conterrà quel testo valuterò se e quali emendamenti presentare in commissione ed eventualmente in Aula. Chi si è imbattuto in me sa bene che non cerco visibilità e che non è questa la mia caratteristica. Sostengo l’azione e il programma del governo, ma sulla Costituzione non si può scherzare. Mi amareggia molto chi sostiene che difendo i privilegi dei senatori. Difendo il diritto dei cittadini a scegliere i propri rappresentanti. C’è una crisi di fiducia gravissima nelle istituzioni, va allargata la partecipazione».
Il governo punta al 25 maggio, il Senato approverà la riforma entro quella data? «Sicuramente faremo la riforma e la completeremo nel 2015 con un referendum. Con il confronto e un lavoro positivo entro il2014 potremo completare la prima e la seconda lettura».

l’Unità 23.04.14
Riforme, cresce il fronte per il Senato elettivo
M5S e pezzi di Fi aprono alla proposta di Chiti
Ma Renzi stoppa la fronda Pd: «Così perderete la faccia». Pontieri al lavoro Entro la fine di aprile il testo base dei relatori Finocchiaro-Calderoli
di Andrea Carugati


La strada della riforma del Senato voluta dal premier Renzi sembra in salita. Il nodo dell’elezione diretta dei senatori continua il dividere il governo da un fronte di senatori trasversale, guidati dal Pd Vannino Chiti, a cui ieri si è aggiunto ufficialmente il M5S che ha detto sì alla bozza dell’ex ministro delle Riforme del governo Prodi pur con «alcune correzioni».
Chiti, dal canto suo, ha risposto picche al ministro Maria Elena Boschi che ieri gli ha chiesto un’altra volta di ritirare il ddl. Il fronte per l’elezione diretta trova consensi anche dentro Forza Italia e Ncd, con una proposta firmata dall’ex direttore del Tg1 Augusto Minzolini e una quarantina di firme, e anche l’esperto forzista Donato Bruno chiede una «nuova riflessione su questo tema tra Renzi e Berlusconi». Lucio Malan, sempre di Fi, giudica il testo del governo «una boiata pazzesca» mentre sul ddl Chiti dice di trovarlo «ragionevole». Oggi la commissione Affari costituzionali del Senato chiuderà la discussione generale, per l’inizio della prossima settimana i due relatori, Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli, predisporranno il testo base su cui poi sarà possibile proporre e votare degli emendamenti. Quale sarà il testo base non è ancora chiaro. Probabile che possa essere quello del governo, come vuole il premier, ma i due relatori hanno dei margini di manovra. Spiega Calderoli: «Dei 52 disegni di legge che sono stati presentati, solo tre sono per un Senato non elettivo: quello del governo, di Lanzillotta e della Svp...». La forza dei numeri sembrerebbe propendere per un testo base diverso da quello di Renzi, ma poi c’è la ragion politica. Ed è molto difficile che i senatori della maggioranza presenti in commissione, a partire da quelli del Pd, affossino il disegno governativo. Il premier ieri al Tg1ha ribadito: «Ci sono senatori in cerca di visibilità. Dobbiamo ascoltare e riflettere con tutti ma alla fine si decide o la politica perde la faccia. Se loro vogliono perdere la faccia facciano pure, io no».
L’idea che circolava ieri a palazzo Madama è che questa sia ancora una fase di pretattica, in cui ognuno mostra le sue carte. Poi, al momento del voto sugli emendamenti, la musica è destinata a cambiare. Soprattutto in casa Pd dove, come ha ricordato Boschi, «sul progetto di Renzi c’è stato il voto delle primarie e poi della direzione del partito». Del resto, lo stesso governo si è già detto pronto a rinunciare a un punto controverso, i 21 senatori di nomina quirinalizia, come ha ribadito ieri la senatrice renziana Isabella De Monte. E anche a venire incontro alle Regioni che chiedono di essere rappresentate in misura proporzionale al numero di abitanti. Sul nodo dell’elezione diretta invece palazzo Chigi resta fermo: «Non stanno insieme un Senato eletto e un Senato che non vota né la fiducia né il bilancio dello Stato», ha ribadito Boschi.
Dentro il Pd resta attiva una squadra di «facilitatori», riuniti attorno al senatore Francesco Russo, convinti che la seconda camera debba essere eletta in modo indiretto, ma interessati ad alcune modifiche che possano fungere da mediazione. Nel suo intervento ieri in commissione, Russo ha illustrato alcune delle sue proposte: voto del Senato non solo sulle leggi costituzionali ma anche su quelle elettorali e i trattati internazionali e la possibilità di intervenire sulla nomina delle Authority e di mantenere le commissioni d’inchiesta. Oltre ad un quorum più alto (tre quinti) per l’elezione del Capo dello Stato anche dopo la quarta votazione. Un modo per bilanciare il peso della Camera e per restituire peso ai senatori nella scelta del presidente della Repubblica.
Quanto all’elezione dei senatori, c’è chi, come il bersaniano Miguel Gotor, ipotizza la creazione di collegi su base regionale, composti da tutti i consiglieri regionali, i sindaci e i consiglieri comunali. A questi collegi, regione per regione, il compito di scegliere i senatori al loro interno, sul modello francese. Dice Gotor: «Serve un testo autonomo dei relatori che integri quello del governo per mediare tra le diverse posizioni. Se il governo insiste col “prendere o lasciare” il processo riformatore rischia di rallentare ». L’obiettivo di Boschi resta il voto dell’Aula prima del 25 maggio. In teoria i tempi ci sono.

La Stampa 23.4.14
Mineo: “Asse con il M5S sulle riforme?
Lo dice Matteo di fare intese con tutti”
Il senatore sostenitore del ddl Chiti: il governo non s’intestardisca
di Francesco Grignetti


I grillini aprono al controprogetto di riforma del senato di Vannino Chiti. Sono pronti a votare un ddl alternativo a quello del governo, pur condizionandolo a un paio di modifiche. Un’apertura che sembra tanto un bacio della morte. Eppure il senatore Corradino Mineo, uno dei 22 del Pd che spinge per soluzioni diverse da quelle del governo, non deflette. Anzi. «Non è il segretario del mio partito - ironizza - a sostenere che le riforme si fanno con tutti? E noi siamo pronti a dialogare davvero con tutti, dal pregiudicato Berlusconi a Grillo, a Sel, passando per Calderoli, i centristi, e le varie anime del Pd».
Mineo, però il governo vuole un Senato delle Autonomie, senza senatori eletti dai cittadini, e voi volete un Senato con gli eletti, ma dimezzato.
«Premesso che oggi non ho ascoltato altro che interventi critici contro il ddl Boschi, e che quindi il dissenso è ben più vasto di quel che rappresentiamo noi del ddl Chiti, mi sento di dire al governo che c’è uno storico obiettivo a portata di mano. Si va formando una maggioranza vastissima che comprende l’intero arco parlamentare. E la cosa più incredibile, me lo lasci dire, è che sarebbe il trionfo di Matteo Renzi».
Mica tanto, senatore Mineo. Voi gli state sabotando la riforma. E questo è fuoco amico.
«Scusi, restiamo con i piedi per terra. Renzi ha avuto l’incredibile merito di imporre alla politica la riforma del Bicameralismo perfetto. E su questo ormai siamo tutti d’accordo. Così come sul dimezzamento dei parlamentari. Ci siamo arrivati tutti, in un modo o nell’altro. E anche sulla necessità di lasciare solo alla Camera il voto di fiducia e le leggi di bilancio. Se il governo non si intestardisce sulla sua proposta, con il prendere o lasciare, c’è dietro l’angolo una riforma davvero epocale. E io spero davvero tanto che Renzi colga l’occasione. Non mi saprei spiegare un’altra posizione. A meno che ci sia qualcosa di non detto».
Un retroscena?
«Se mi chiede un parere personalissimo, io azzardo la seguente ipotesi: forse Renzi, che ben conosce la realtà italiana, pensa (ma non può dire) che siamo andati troppo in là con il federalismo. E allora la soluzione non sarebbe soltanto la riforma del Titolo V della Costituzione, riportando alcune competenze regionali allo Stato, ma con il Senato delle Autonomie, portando cioè a Roma per qualche giorno al mese sia i Governatori, sia i sindaci delle principali città, il governo riporterebbe tutti sotto il suo controllo politico. Il problema esiste, sia chiaro. Anche per i risvolti di spesa. E la soluzione non è mica disprezzabile. Ma allora lo si dica che non è questione di parrucconi contro riformatori. Machiavellicamente parlando, si tratta di un “promoveatur ut amoveatur”. Li promuovono per rimuovere qualche ostacolo».

La Stampa 23.4.14
Il fantasma della Cgil su Renzi impone lo stop alla mediazione
In Commissione decisivi gli 11 membri del Pd su 21 che vengono dal sindacato
di Fabio Martini

qui

La Stampa 23.4.14
Quei “nostalgici” del Senato,  così duri da convincere
Il vero ostacolo alle riforme viene da chi difende la propria poltrona e da coloro che giudicano sbagliato il testo di Boschi. Riuscirà Renzi a metterli in riga?
di Ugo Magri

qui

La Stampa 23.4.14
Per il Senato ci vorrà un miracolo
di Elisabetta Gualmini

qui

il Fatto 23.4.14
Riforme. Renzi: “Non perdo la faccia per voi”


Vannino Chiti non ha accolto la richiesta da parte del ministro delle Riforme Maria Elena Boschi a ritirare il proprio ddl sul nuovo disegno del Senato. Così in commissione Affari costitu- zionali di Palazzo Madama ieri è proseguito il brac- cio di ferro, non solo all’interno del Pd. In questa frattura ha infatti cercato di incunearsi M5s, che ha annunciato il sostegno al ddl Chiti, alternativo a quello del governo. Non solo. La posizione di Forza Italia, ha visto montare la fronda contraria alla riforma, nonostante il nuovo incontro Berlusco- ni-Renzi di due settimane fa. In questo quadro, interviene il premier parlando di alcuni senatori che “cercano visibilità”. Ma io non ci sto a perdere la faccia, ribadisce intervistato dal Tg1. Da qui la conferma della necessità assoluta di decidere entro maggio sulla partita riforme. A sostenere il ddl del governo è intervenuta in commissione la renziana Isabella De Monte. Gli altri senatori intervenuti, di M5s, ex M5s, Sel e Forza Italia si sono tutti espressi per un Senato con elezione diretta. La partita resta complicata.

Repubblica 23.4.14
M5S: Sì a Chiti. Consensi anche da FI
Sul Senato elettivo l’ira del premier “Cercano visibilità”
di Silvio Buzzanca


ROMA L’idea del Senato elettivo caldeggiata da Vannino Chiti e altri senatori democratici prende piede, raccoglie consensi, sembra diventare maggioritaria. Una bella fetta di Forza Italia, 33 senatori, ha un progetto analogo, i grillini, con qualche aggiustamento, sono pronti a votare i testi della minoranza pd. Hanno anche pronto un progetto che prevede una composizione mista.
Un fronte ampio e trasversale. che fa presagire la possibilità che il progetto di Matteo Renzi finisca in minoranza. Ipotesi che il forzista Donata Bruno fotografa così: «Se la riforma deve avere una ampia maggioranza l’elezione diretta del Senato sembrerebbe far premio sul testo del governo ». Scenario che prende sostanza anche attraverso una sortita di un altro forzista come Lucio Malan che, parafrasando il mitico ragionier Fantozzi, dice del progetto renziano: «È una cagata pazzesca. Io questa roba qui non la voto, a meno che non sia ampiamente modificato e per disciplina di partito».
La prospettiva dello scontro non ferma però, almeno a parole, il premier ed Elena Maria Boschi che insistono nel loro progetto, sicuri che il Senato darà il suo sì prima del vertice europeo del 27 maggio. Renzi ne sembra proprio convinto e sfida Chiti e il suo gruppo. «Alcuni senatori sono alla ricerca della visibilità, è comprensibile ma la politica è un’altra cosa», dice il premier. «La politica — continua — è finalmente risolvere i problemi come abolire il bicameralismo perfetto. Noi lo facciamo entro maggio. Credo che dobbiamo ascoltare e riflettere con tutti ma alla fine si decide o la politica perde la faccia. Se loro vogliono perdere la faccia facciano pure, io no».
Posizioni estreme che un gruppo di pontieri democratici, in prima fila Francesco Russo, cerca di smussare e avvicinare. La location dove si svolge lo scontro per il momento è la sala al secondo piano di Palazzo Madama che ospita la commissione Affari costituzionali. La presidente Anna Finocchiaro, relatrice insieme al leghista Roberto Calderoli, ha messo in discussione i 52 progetti di riforma del Senato. Ben 49 prevedono forme di elezione dei senatori e i primi interventi confermano la propensione generale verso questa soluzione.
La Finocchiaro però invita alla prudenza, vuole ascoltare tutti gli interventi e poi tirare le somme. Oggi e domani ci sarà spazio per la discussione generale e le audizioni degli esperti. Poi, martedì prossimo, ci dovrebbe esserci la proposta di testo base. I renziani vogliono che sia scelto il testo del governo, gli altri chiedono qualcosa che tenga conto delle posizioni dei partiti. E anche questo è materia di scontro. E alla fine è ancora Bruno a cercare di metterci una pezza: «Sull’elettività serve una nuova riflessione insieme di Berlusconi e Renzi».

dimmi con chi vai, ovvero: tutti sul carro di Benitino Renzi
La Stampa 23.4.14
Una lettera alla Stampa di Sandro Bondi (sic...)
FI ha fallito, sosteniamo Renzi
di Sandro Bondi

ex ministro della Cultura del governo Berlusconi

Gentile Direttore,
la mia impressione, da osservatore esterno ormai alla vita politica italiana, è che il centrodestra non solo sia diviso, com’è evidente, ma soprattutto sia privo di una strategia per il futuro. 
Tutto in fondo è affidato più ancora che nel passato al carisma di Berlusconi, che suscita ancora un forte rapporto con l’elettorato moderato e il cui intuito politico è tuttora capace di produrre esiti inaspettati e sorprendenti. 
Anche in caso di successo di Berlusconi, tuttavia, resta un gigantesco problema che riguarda l’identità del centrodestra in Italia, soprattutto dopo l’insediamento del governo Renzi e il cambiamento profondo di cui l’elezione al soglio pontificio di papa Francesco è solo una delle espressioni.
In un recente libro del politologo Piero Ignazi, pubblicato dall’editore Il Mulino e intitolato: Vent’anni dopo. La parabola del berlusconismo, l’autore giunge a conclusioni molto severe per il centrodestra. Ignazi sostiene in sostanza che il berlusconismo terminerebbe sotto il segno di tre fallimenti: la costituzione di un grande partito liberal-conservatore; la modernizzazione del Paese e la rivoluzione liberale.
A mio avviso il centrodestra dovrebbe cercare di riflettere su queste conclusioni. Diversamente la corsa verso un successo elettorale potrebbe rivelarsi un’altra illusione e un’altra opportunità perduta per l’Italia.
C’è un dato innanzitutto da cui partire. Renzi rappresenta senza dubbio la prima vera cesura nella sinistra italiana rispetto alla sua tradizione comunista. Anzi, la sinistra di Renzi si colloca oltre la tradizionale socialdemocrazia europea, ed è più simile alla sinistra liberal americana di Obama e al nuovo labour party di Blair. Si potrebbe dire che Blair sta alla Thatcher così come Renzi sta a Berlusconi. Con la differenza però che Berlusconi non ha potuto portare a compimento una vera e propria rivoluzione liberale e una necessaria modernizzazione dell’Italia come ha fatto invece la Thatcher in Gran Bretagna, sia nella sfera economica che in quella dei diritti civili.
Un’autentica rivoluzione liberale Berlusconi non ha potuto farla perché i suoi principali alleati, da Fini a Casini, da La Russa a Bossi erano tutto fuorché liberali.
C’è poi da considerare che il dominus dei governi presieduti da Berlusconi, cioè il ministro dell’economia Giulio Tremonti, forte di un rapporto privilegiato con la Lega, ha imposto di fatto le sue concezioni, le sue ricette e perfino le sue idiosincrasie, all’intera compagine di centrodestra con risultati molto discutibili. 
La forza di Renzi nasce in fondo dal fatto di proporsi di realizzare quel cambiamento e quella modernizzazione che il centrodestra non può dichiarare di aver realizzato pienamente.
Per queste ragioni il centrodestra dovrà scegliere, soprattutto dopo l’esito delle elezioni europee, quale tipo di opposizione condurre al governo Renzi: contrastare il suo impeto riformatore e modernizzatore oppure incalzarlo e sostenerlo in un’opera di cambiamento dal cui fallimento nessuno beneficerebbe.
Questa sfida riguarda soprattutto Berlusconi, perché il suo partito in quanto comunità di valori e di solidarietà è assolutamente assente, riguarda il desiderio di Berlusconi di lasciare una memoria positiva della sua persona e del suo impegno politico a favore dell’Italia.
Mi piacerebbe che Berlusconi dicesse chiaramente che se Renzi farà delle cose giuste lo sosterrà e che lo criticherà o lo avverserà con fermezza solo se non manterrà fede alle sue promesse di cambiamento e di modernizzazione dell’Italia.
Forse questa scelta può essere l’unica a rendere possibile una ricostruzione delle basi ideali, politiche e programmatiche del centrodestra.

il Fatto 23.4.14
Anche Bondi abbandona Berlusconi
"Forza Italia ha fallito, sostengo Renzi"
 Ed esalta la sinistra del presidente del Consiglio che "è più simile alla sinistra liberal americana di Obama e al nuovo labour party di Blair”

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La Stampa 23.4.14
La lettera di Bondi scuote Forza Italia

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La Stampa 23.4.14
«Da Forza Italia all’Idv, ora il Pd. Sono un socialista coerente»
di Marco Bresolin


Claudio Bucci, produttore cinematografico, si candida alle Europee con il Partito Democratico.
Ma lei è lo stesso Bucci che stava in Forza Italia?
«Sì, però sono uscito nel 2006. Ho avuto uno scontro duro con Tajani. Roba pesante, eh. Pensi che siamo finiti persino sui giornali locali».
Adesso la accusano di trasformismo.
«Il contrario: la coerenza è una mia dote, chi mi conosce lo sa benissimo.Pensi che ho iniziato la mia attività nel sindacato, ero nella Cgil».
E che c’entra la Cgil con Berlusconi?
«Sono da sempre un socialista ed eravamo in molti a credere nel suo sogno. Brunetta, Sacconi, io... Poi però è rimasto solo un partito padronale. E io sono passato alla Rosa nel Pugno di Boselli».
Ma nel 2010 si è candidato con l’Idv di Di Pietro, uno che ai socialisti ha fatto fare una brutta fine...
«Vero, ma non sono salito su quel carro solo per vincere, anche perché l’Idv era ai minimi storici. Però ho preso tanti voti e sono stato eletto».
Con lo stesso manifesto usato per Forza Italia.
«Quelli che facevano la campagna mi chiesero una foto e io dissi: prendete la prima che trovate. E loro hanno preso proprio quella...».
La riutilizzerà anche quest’anno col simbolo Pd?
«Ci ho pensato, magari funziona. Non trova?».
Bisogna chiederlo a Renzi, il suo nuovo leader...
«Ma quale leader! Io non sono del Pd e di entrare in quel partito non ci penso nemmeno».
Ma scusi, allora perché si candida col Pd?
«Solo perché sono stato inserito in lista in quota Psi. Io sono un socialista coerente, da sempre».

L’Unità 23.04.14
Padoan: entro l’anno servono altri risparmi
«No a nuove manovre» ma nelle pieghe di bilancio si dovrà tagliare ancora
di Bianca Di Giovanni


ROMA Il lavoro del ministro dell’Economia non è finito con il decreto sugli 80 euro in busta paga. Anzi: quello non è che il primo passo. Lo dichiara apertamente Pier Carlo Padoan, prima in un colloquio con «Il Sole 24 Ore», poi intervenendo a Radio anch’io. Bisognerà subito reperire altre risorse, per alcune voci ancora scoperte in corso d’anno. In primo luogo c’è l’emergenza cig in deroga, che per ora viene valutata in un miliardo da reperire al più presto. Anche se la «matassa» della cig in deroga sarà sbrogliata anche attraverso nuovi parametri da definire nella delega sugli ammortizzatori sociali. Poi ci sono le cosiddette spese indifferibili, come le missioni internazionali. Un «pacchetto» non proprio leggero, che fa ripartire l’attacco frontale di Renato Brunetta. «Ci avevano chiamati gufi, oggi è Padoan ad ammettere che serve una manovra», dichiara il vulcanico capogruppo di FI. In realtà il ministro nega la necessità di una manovra correttiva, sostenendo che le risorse necessarie saranno reperite nelle pieghe del bilancio. Altri tagli, nuova cura dimagrante. In ogni caso «la situazione finanziaria del nostro pese è solida dichiara alla radio Padoan l'obiettivo del governo è completare il consolidamento fiscale che in Italia è molto più avanti che in altri Paesi».
Intanto in queste ore gli uffici tecnici stanno limando il testo del decreto Irpef, che dovrebbe essere pubblicato in Gazzetta oggi o al massimo domani. Il Tesoro conferma che il contributo sarà erogato sotto forma di credito d’imposta, e sarà pari a 80 euro mensili per tutti i lavoratori che hanno un reddito tra 8.000 e 24mila euro all’anno. Da quel punto in poi comincia il decalage che si azzera a 26mila euro annui.
IL DECRETO
Nonostante il traguardo raggiunto con la manovra Irpef, Padoan non nasconde tutti i limiti che persistono nel provvedimento. Prima tra tutte quella esclusione dei pensionati dagli sgravi fiscali. «Sarebbe costato troppo e non sarebbe stato credibile» perché il bonus è stato dato alle «famiglie che devono essere disponibili a spenderlo». Così il ministro ha spiegato la scelta del governo, provocando la reazione dello Spi Cgil («Il governo sarebbe stato molto più credibile se avesse pensato subito anche ai pensionati»). Comunque quello sull’Irpef è un «bicchiere mezzo pieno continua Padoan che contiamo di riempire man mano che le misure si  rafforzano».
Già deciso una volta per tutte invece
l’aumento del prelievo sulle rendite finanziarie (esclusi i titoli di Stato) dal 20 al 26% per finanziare lo sgravio Irap. Il ministro ha negato effetti negativi per il Paese. «Siamo in una situazione in cui gli investitori guardano con estremo interesse all'Italia ha detto L'innalzamento della tassazione sulle rendite finanziarie al 26% è un adeguamento alla media europea e non ci risulta che l'attrattività finanziaria dell' Italia possa venire intaccata». Tra i capitoli più interessanti per gli osservatori stranieri c’è quello sulle privatizzazioni, che secondo Padoan continuerà per diversi anni, e su cui il governo conta molto. L’aumento del prelievo sulle rendite peserà molto sulle banche, col-
pite anche con l’aumento del prelievo sulla rivalutazione delle quote Bankitalia (triplicato). Di qui la preoccupazione di una ulteriore stretta sul credito, con tutte le pesanti conseguenze per la ripresa economica. Un rischio reale, tanto che il ministro sembra inviare un messaggio inequivocabile ai gruppi del credito italiano. «La tassazione sulla rivalutazione delle quote in Bankitalia lascia alle banche in sede patrimoniale un po’ meno di quanto previsto dichiara ma è sempre una rivalutazione importante e sono convinto che le banche faranno il loro lavoro, che è dare credito all'economia, cosa che è e nel loro interesse, perché così fanno profitti e se l'economia riprende anche le banche ne beneficiano». Come dire: cari banchieri, fate il vostro lavoro. Piazzato così un tassello necessario a far ripartire il Pil, il ministro ne indica un altro non meno importante: quello del lavoro. Il decreto Poletti servirà ad aumentare l’occupazione, ma la partita del lavoro e della crescita dovrà essere giocata soprattutto in Europa. È lì, a Bruxelles, che bisogna cambiare rotta per riuscire a superare le secche della bassa crescita. Quella partita è ancora tutta da giocare, e molto dipenderà dall’esito delle elezioni di fine maggio.

La Stampa 23.4.14
La rivolta delle Regioni
“Impossibile tagliare ancora”
Devono contribuire con 700 milioni al risanamento dei conti, l’80% del loro bilancio è speso per la salute. I presidenti si riuniscono domani, sono pronti a dar battaglia sulla sanità: abbiamo già ridotto all’osso
di Francesca Schianchi

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La Stampa 23.4.14
Gabrielli: “Servono 40 miliardi
per mettere in sicurezza l’Italia”
di Cristian Pellissier e Stefano Sergi

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il Fatto 23.4.14
L’Università Per Renzi è tutto, infatti la taglia
di Marco Palombi


MA COME? Di fronte alla crisi economica parti dalle scuole? Sì: di fronte alla crisi economica non puoi non partire dalle scuole”. Matteo Renzi lo disse durante il suo primo discorso in Parlamento, quello per la fiducia. Al congresso del Pse a Roma la mise ancora meglio: “La sfida è avere attenzione per scuola, università e ricerca”. E infatti l’attenzione non è mancata: quella mediatica con la visita in vari istituti della penisola e l’annuncio (solo questo per ora) di un nuovo piano per l’edilizia scolastica; e quella contabile che si è espressa in un taglio da 30 milioni quest’anno e 45 a partire dal prossimo al Fondo di finanziamento ordinario dell’università (una sforbiciata, di cui ancora non si conosce l’entità, dovrebbe toccare pure al Fondo per gli enti di ricerca) per pagare il bonus fiscale da 80 euro per chi guadagna tra ottomila e 24 mila euro l’anno. Il ministro per così dire, competente, Stefania Giannini, prima ha gioito perché non c’erano i soliti tagli all’università, poi in un’intervista a Repubblica ha negato che si tratti di tagli (“sono accantonamenti necessari per motivi di contabilità”) per poi ammettere che “a tutti i ministeri sono stati chiesti sacrifici” e quindi “abbiamo dovuto mettere quella voce a bilancio”. C’è chi dice, persino tra i vecchi vertici della Conferenza dei rettori, che non si tratta poi di una cifra eccessiva per un Fondo che vale quest’anno 6,8 miliardi di euro: sarebbe però il caso di ricordare che nel 2008 lo stesso Fondo superava i nove miliardi ed è stato in questi anni una delle vittime preferite di tutti i ministri dell’Economia, Giulio Tremonti su tutti.
   Ammettendo pure che si tratti di spiccioli, “il segnale di attenzione” del premier è arrivato forte e chiaro: l’università è ancora terreno di caccia per i tagliatori della spesa pubblica.
   Eppure con toni aulici – sempre al congresso del Pse di inizio marzo – s’era sdilinquito sul Rinascimento e quei furbacchioni dei banchieri fiorentini che “capirono che investire in operazioni culturali era la chiave per il successo” e che “bisognava garantire l’accesso al sapere a tutti, anche e soprattutto ai figli dei piu' poveri”, così da favorire quella mobilità sociale che è “motore della crescita”. Insomma, Matteo la teoria la sa, speriamo passi alla pratica.

il Fatto 23.4.14
Il ministro Boschi:
”Sogno tre figli e un compagno”


FIGLI? Ne vorrei tre. E a volte penso di essere già in grave ritardo”. Per allentare l’immagine un po’ austera, il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi ha regalato un inedito ritratto di sé al settimanale Vanity Fair, che le dedica la copertina del numero in edicola. Non c’è solo il governo Renzi nei progetti del ministro, ma anche una famiglia: “Desidero molto trovare un compagno. Sono single da un anno e la vita di coppia mi manca”. Il peso delle riforme si fa sentire: “Torno tardi dal lavoro – continua la Boschi – la casa è sempre vuota, sono lì da sola a bermi una tazza di latte e magari ho passato la giornata a discutere di emendamenti con uno dell’opposizione. Vorrei almeno trascorrere il mio tempo libero con qualcuno con cui sognare un futuro insieme”. Poi risponde anche alle polemiche: “Reagisco con il sorriso. Però se un attacco viene da una donna mi ferisce di più”.

La Stampa 23.4.14
Io bella da sola
di Massimo Gramellini


Chissà perché, quando una donna bella dichiara di sentirsi sola si trasforma subito in una notizia. Ultimo caso, la ministra delle riforme Maria Elena Boschi che rivela a Vanity Fair quanto le piacerebbe poter riformare almeno la sua esistenza, trovando un marito e abrogando le tazze di latte bevute in solitudine la sera davanti alla tv. Parole che ci sorprendono. Come se esistesse un’associazione automatica tra bellezza e pienezza del vivere. E fosse impossibile, a chi magari bellissimo non è, immaginare la perfezione estetica abbinata a una condizione latente di infelicità. Eppure già Apuleio, agli albori della letteratura, raccontò in una favola immortale il percorso tormentato di Psiche, la creatura più bella del mondo, rimasta a lungo zitella proprio a causa della sua esagerata e inibente avvenenza, mentre le sorelle trovavano con disinvoltura marito.
Curioso e feroce il destino delle donne: crescono con l’idea, instillata da altri, che solo la bellezza e il successo le renderanno felici. Ma appena raggiungono uno o entrambi gli obiettivi, si accorgono che il loro punto di vista è cambiato. Si scoprono insicure per la paura di perdere ciò che sono diventate. E al tempo stesso più esigenti: sentendosi all’apice, pretendono il massimo dal proprio compagno e di rado lo trovano, perché è ancora piuttosto difficile incontrare un maschio che accetti di stare accanto a una donna simile senza andare in crisi di identità. Inutile illudersi: la bellezza non dà la felicità. Figuriamoci la bruttezza.

la lettera al Corsera di oggi della “bella solitaria”
Corriere 23.4.14
Tre mosse per uscire dalla palude
di Maria Elena Boschi

Ministro per le Riforme costituzionali  e rapporti con il Parlamento

Caro direttore, il suo colloquio con il Presidente della Repubblica mi ha colpita come cittadina. La gratitudine verso il Capo dello Stato non è più sufficiente: occorre realizzare le riforme di cui si parla da anni. Come ministro, allora, provo a fare un rapido punto della situazione sulla riforma costituzionale proposta dal Governo. Senza trascurare che nel frattempo la legge elettorale ha passato la prima lettura della Camera e il 25 maggio non voteremo più per le Province grazie alla Legge Delrio.
Possiamo dividere il testo attualmente all’esame del Senato in tre capitoli.
Cominciamo dalle cose che tutti giudicano giuste e facili — che però nessuno ha mai fatto — e cioè dall’abolizione del Cnel. Questa scelta si inserisce peraltro di un più vasto programma di semplificazione del quadro politico e di riduzione dei costi del potere: l’anticasta non può diventare un’ideologia, ma mi sembrano primi passi fondamentali la drastica diminuzione delle spese per auto blu, la riduzione delle metrature degli uffici pubblici, il tetto agli stipendi dei dirigenti che lavorano con l’amministrazione.
Il secondo. Prendiamo atto del fallimento della riforma del Titolo V (approvata nell’ottobre 2001, ndr) e chiariamo le responsabilità tra Regioni e Stato. Quante aziende hanno evitato di investire in Italia per la mancanza di chiarezza nelle competenze tra Roma e i territori? È normale una legislazione costituzionale in cui il conflitto istituzionale è permanente? No. La stragrande maggioranza delle forze politiche è d’accordo sulla proposta di un nuovo Titolo V come avanzata dal Governo. Mi permetterà di dire che questo è un passo in avanti significativo, agevolato dall’ottimo lavoro della Commissione dei 35. Abbiamo aggiunto un elemento di moralità nelle retribuzioni e nei rimborsi dei consiglieri regionali, atteso non solo dall’opinione pubblica.
Il terzo è il Senato. Una maggioranza ampia concorda sul superamento del bicameralismo perfetto: il Senato non potrà più dare la fiducia, né votare il bilancio. Tutti condividono — almeno a parole — la necessità di ridurre il numero dei parlamentari. E una maggioranza schiacciante ha dato la disponibilità a individuare nel Senato un luogo alto di confronto sulle relazioni con l’Europa e con i territori, incentrando la composizione dell’Aula su rappresentanti di Regioni e Comuni, integrati da personalità individuate dal Presidente della Repubblica, senza alcuna indennità.
Su questo punto — e solo su questo — si è aperta un dura polemica. Che naturalmente non sottovaluto, né circoscrivo, ma che colpisce solo una parte di un complesso testo di riforma costituzionale. Si può e si deve ancora discutere, naturalmente. Abbiamo dato la disponibilità ad individuare un parametro perché le Regioni si sentano più correttamente rappresentate, secondo il principio per cui la Lombardia non può avere gli stessi senatori del Molise. Qualcuno ha chiesto di ridurre il numero dei componenti designati dal Presidente della Repubblica.
In questo scenario insistere per l’elezione diretta di una piccola parte dei Senatori assume le caratteristiche più di un tentativo di bloccare la riforma che non l’affermazione di un valore imprescindibile. Il fatto che la proposta venga da parte della minoranza interna del Pd è poi particolarmente stupefacente, essendo proprio la minoranza Pd quella che ha chiesto e ottenuto alla Camera di eliminare dall’Italicum ogni riferimento alla legge elettorale del Senato proprio in forza dell’assunto per il quale il Senato non sarebbe mai stato elettivo. Anche per questo il Pd ha proposto una posizione che è in linea con le tesi dell’Ulivo del 1996, con le tesi del Governo Prodi nel 2006, con le proposte di Renzi alle primarie del 2013: possiamo essere accusati di tutto, ma su questo punto non abbiamo cambiato idea noi.
Un ultimo passaggio, infine, sul metodo. Abbiamo scelto una strada non convenzionale. E lo stiamo facendo come Governo su tutti i provvedimenti più importanti. Quando abbiamo pronto un testo lo presentiamo in bozza e per venti giorni lo proponiamo alla discussione. Non abbiamo paura delle idee e per queste le apriamo al dibattito di tutti. Una sola cosa ci sta a cuore: discutere con tutti, ma poi decidere. Da anni l’Italia è ferma nella palude. Il dibattito è bello, dà stimoli, arricchisce: ma poi la politica ha il compito di decidere, altrimenti è mera accademia.
Sulle riforme costituzionali siamo veramente a un passo da un risultato storico. Fare questo ultimo miglio è fondamentale anche per dare una risposta al gesto di generosità del Presidente Napolitano.

l’Unità 23.04.14
Adesso Renzi apre gli archivi sulle stragi
Niente più atti riservati: saranno disponibili a tutti
Sono carte dal 1969 al 1984 più il caso Ilaria Alpi
di Adriana Comaschi


Niente più atti riservati o segreti se relativi alle stragi che hanno insanguinato il Paese, come quella di piazza Fontana o della stazione di Bologna, o a episodi oscuri anche recenti, vedi l’assassinio della giornalista Ilaria Alpi a Mogadiscio. La direttiva annunciata dal presidente del Consiglio Matteo Renzi per portare alla luce documenti su bombe e attentati che hanno segnato la storia repubblicana tra il 1969 e il 1984 è stata firmata ieri. E promette di riportare sotto lo sguardo pubblico dell’Archivio di Stato materiali finora off limits.
Quanti? Non lo sa nemmeno il governo, proprio perché come racconta chi da decenni si è battuto per abbattere muri di gomma, diradare nebbie e veleni quello che anzitutto manca per costruire una memoria completa di quegli avvenimenti è una “mappa” delle centinaia di archivi in cui possono essere depositate informazioni utili. Quel che conta è che «una mole enorme di documenti sarà presto a disposizione degli studiosi, degli organi di informazione, di tutti i cittadini», rivendica il premier.
COSA CAMBIA E COME
Con buona pace poi di Beppe Grillo che su Fb prima dei dettagli sul provvedimento insorge contro «Renzi e e il segreto di Stato. L’abbiamo smascherato in mezzo secondo, basta balle» non c’è in gioco tanto il segreto di Stato, che non può mai essere opposto per reati di strage e terrorismo. Piuttosto una marea di atti per la maggior parte catalogati come «riservati», e per il resto «riservatissimi» «segreti» e «segretissimi »: quattro classificazioni che di per sé non hanno scadenza. Il segreto di Stato può durare invece al massimo 30 anni, dopo la riforma varata nel 2007 che mancava però ancora dei decreti attuativi e che ora «trova concreta attuazione rivendica il sottosegretario Marco Minniti in un aspetto rilevante come quello del riconoscimento degli archivi dell’intelligence come patrimonio a disposizione di tutti». Si parla di carte in mano a tutti i gangli della pubblica amministrazione: Servizi segreti ma anche ministeri, degli Interni come degli Esteri, che potrebbero essere determinanti in casi come quello di Ustica. Le carte verranno trasferite all’Archivio di Stato e ancora prima a una commissione ad hoc, incaricata di fare ordine in questo magma ancora indistinto, secondo un criterio cronologico (dal più antico ai tempi più recenti), «superando l'ostacolo posto dal limite minimo dei 40 anni previsti dalla legge », si legge nel provvedimento twittato in parte dallo stesso premier.
La direttiva firmata da Renzi dopo il Comitato Interministeriale per la Sicurezza di venerdì dispone la «declassificazione » degli atti relativi a «piazza Fontana (1969), Gioia Tauro (1970), Peteano (1972), Questura di Milano (1973), piazza della Loggia a Brescia e Italicus (1974), Ustica e stazione di Bologna (1980), rapido904 (1984)». Il presidente del Consiglio rivendica «trasparenza e apertura come uno dei punti qualificanti del nostro governo» e lo presenta la svolta come «un dovere verso i cittadini e i familiari delle vittime di episodi che restano una macchia oscura nella nostra memoria comune». La mossa dell’esecutivo in effetti riporta sotto i riflettori drammi nazionali che troppo spesso hanno conosciuto depistaggi, verità parziali e magari solo giudiziarie, mentre sono rimasti nell’ombra mandanti e ispiratori, il ruolo della destra eversiva e massonica, quello di apparati deviati dello Stato.
UN PUZZLE DA RICOMPORRE
L’operazione appare dunque tanto ambiziosa quanto complessa. Si partirà subito. Manon si speri in rivelazioni sconvolgenti aprendo qualche cassetto o «armadio della vergogna», la partita è più articolata e richiederà mesi, chiarisce lo stesso esecutivo. «È come dover mettere insieme i pezzi di un puzzle. Ma intanto questa è un’ottima novità» premette Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione parenti delle vittime di Ustica che della campagna per una verità completa per quanto scomoda sugli 81 morti del Dc9 Itavia ha fatto una ragione di vita. Contro tutta una serie di apparati, che per decenni hanno negato quello che la sentenza della Cassazione del gennaio 2013 ha invece riconosciuto: la sera del 27 giugno 1980 nel cielo di Ustica c’erano diversi aerei che hanno dato vita a uno scontro di guerra in tempo di pace, il volo Palemo-Bologna fu abbattuto da un missile di provenienza non ancora identificata.
«Per anni abbiamo chiesto che al di là della verità giudiziaria la politica, il governo si facessero carico di tutto il materiale ricorda allora Bonfietti ancora non messo a disposizione nè dei magistrati né degli storici. Ricordo un convegno proprio sul tema degli archivi che abbiamo organizzato nel 2011 a Bologna: Massimo D’Alema, allora alla guida del Copasir, ci disse di aver trovato oltre cento archivi mai aperti. La direzione insomma è questa, le difficoltà saranno moltissime ma è la volontà politica il fatto importante e nuovo, finora solo le associazioni e chi era più vicino a questi fatti si era posto il problema ».
Il punto insomma è anzitutto recuperare quanto disperso, «solo così potremo scacciare i fantasmi che da decenni schiacciano il nostro Paese. La trasparenza da Renzi è un fatto molto, molto positivo», così lo saluta il deputato Pd Paolo Bolognesi, guida dei parenti delle vittime della strage alla stazione di Bologna. «Ancora l’anno scorso in un’audizione parlamentare un alto graduato dei Carabinieri negava che l’Arma avesse un archivio su certi fatti continua Bolognesi -, occorre invece bussare anche alla loro porta». E una volta avuto accesso a tutte le fonti, il passo successivo dovrebbe essere quello di «digitalizzare tutto: si può fare anche senza costi eccessivi, abbiamo già presentato un progetto in questo senso al Guardasigilli».
Forte della sua lunga esperienza l’ex magistrato Libero Mancuso tra l’altri pm nel processo contro Mambro e Fioravanti per la bomba del 2 agosto a Bologna e giudice degli assassini di Marco Biagi invita comunque a non trascurare i casi in cui è stato opposto il segreto di Stato (ultimo quello sul rapimento dell’iman Abu Omar da parte della Cia, nel 2003 a Milano): «Si dovrebbe prevedere una sanzione per chi l’abbia imposto senza ragioni adeguate, ma solo per coprire alcuni personaggi, altrimenti non verremo mai del tutto fuori da dinamiche che hanno bloccato la nostra democrazia». Chiede chiarezza su questo nodo anche il senatore Pd Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani, con un’interrogazione proprio a Renzi per sapere «in quali casi e in quali date è stato apposto il segreto di Stato e per quali di questi è tuttora valido».

il Fatto 23.04.14
La mossa di Renzi
Via i segreti sulle stragi: non si sa quali e quando
di Gianni Barbacetto


È “la più importante operazione di declassificazione della storia repubblicana”, proclama Marco Minniti, autorità delegata per la sicurezza della Repubblica, subito dopo la firma, da parte del presidente del Consiglio Matteo Renzi, della direttiva che dispone la declassificazione degli atti relativi alle stragi di Gioia Tauro, piazza Fontana, piazza della Loggia, Peteano, Italicus, stazione di Bologna, Ustica, rapido 904. Gli specialisti di intelligence, ma anche i magistrati che hanno indagato sulle stragi, sono scettici. “Non uscirà nulla di nuovo”. Le ragioni dello scetticismo sono forti, intanto perché dire “togliamo il segreto di Stato” non ha senso, poiché il segreto di Stato non c’è, non è opponibile ai fatti di strage e di eversione dell’ordine democratico. Del resto, non è mai stato opposto ai magistrati su piazza Fontana, su Brescia, su Bologna (solo sull’Italicus), eppure i processi per strage sono tutti pieni di tracce di depistaggi e di carte negate. E, più vicino nel tempo, i processi sul sequestro di Abu Omar sono stati resi impossibili dal segreto di Stato, per intervento degli ultimi presidenti del Consiglio (Prodi, Berlusconi, Monti, Letta) e della Corte costituzionale. È dal 2007 che assistiamo a una promessa di trasparenza che non viene mai mantenuta. Già nella riforma dei servizi segreti varata quell’anno si diceva che il segreto sarebbe stato a tempo. Invece non sono mai stati completati i regolamenti attuativi, così siamo rimasti al segreto che resta segreto. Ora ci riprova Renzi, che promette la declassificazione, di fatto già contenuta nella legge del 2007. Vedremo come e quando avverrà. Non promette bene l’annuncio della diluizione nel tempo dei versamenti agli archivi pubblici: per seguire, come annunciato , l’ordine cronologico, i fascicoli dovranno essere spacchettati, con il risultato che un documento prodotto in un certo anno risulterà incomprensibile, se non addirittura fuorviante, se slegato da tutti gli altri.
CHE COSA, POI, diventerà pubblico? Prevedibilmente, i documenti già acquisiti nei decenni scorsi dalle autorità giudiziarie che hanno indagato sulle stragi, sul golpe Borghese, su Gladio... Tutte carte che stanno già negli archivi della Casa della memoria o nei libri di studiosi come Giuseppe De Lutiis o Aldo Giannuli. Chi deciderà che cosa tirar fuori dai cassetti? Chi prenderà la responsabilità di esibire carte nuove e davvero significative, ammesso che siano state conservate, dopo il passaggio negli archivi dei servizi di tanti magistrati (da Rosario Minna a Libero Mancuso, da Leonardo Grassi a Gianpaolo Zorzi, da Carlo Mastelloni a Felice Casson, fino a Guido Salvini)? Se qualcosa di nuovo dovesse arrivare, qualcuno dovrà spiegare come mai l’ha negato, in passato, ai magistrati che l’avevano chiesto. E quella spiegazione sarebbe l’ammissione di un reato, benché forse prescritto. Ci sono quattro cose che Renzi potrebbe invece utilmente fare (chieste a gran voce da quella strana comunità che si è formata in Italia, composta da investigatori, magistrati, ricercatori, famigliari delle vittime, cittadini a caccia della verità). Uno. Completare i regolamenti attuativi della riforma del 2007, che darebbero finalmente alla desecretazione un carattere strutturale e non “eccezionale”, come fa la direttiva di ieri. Magari aggiungendo anche un elenco di tutti gli archivi dove stanno i depositi da declassificare: non c’è, è il vero mistero italiano. Due. Farsi dire dov’è l’archivio dell’Arma dei carabinieri: nessuno lo sa, nessun magistrato l’ha scoperto e dunque è probabile che resti fuori anche dalla mirabolante declassificazione promessa ieri. Tre. Chiedere gentilmente se nell’operazione finestre aperte è coinvolto anche l’archivio del Quirinale, che già rispose picche al giudice che chiedeva carte sul progetto del principe Borghese di far arrestare il presidente Saragat da Licio Gelli nel 1970. Quattro. Che ne sarà dei documenti degli Uffici Sicurezza Patto Atlantico? Sono collegati con i ministeri della Difesa e degli Esteri, ma hanno copertura Nato: sono dunque fuori dalla disponibilità dell’Italia?
“Attenti”, dice un magistrato che indagò su Bologna, “se fatta senza controlli e garanzie di terzietà, questa operazione può diventare una distribuzione di polpette avvelenate, o addirittura un colossale depistaggio. Non più dei processi ormai, andati come sono andati, ma della storia”.

il Fatto 23.4.14
Ultime dal Pd, arrivano gli anti-giudici
risponde Furio Colombo


IO VOTAVO a sinistra (Pd) credendo che fossimo sempre impegnati a soste- nere i giudici che combattono da soli il grande male italiano della corruzione. Adesso apprendo che dobbiamo smet- terla, che i giudici hanno invaso il campo della politica e bisogna rimetterli al loro posto. È un brutto sogno?
Marco

IL LETTORE fa esplicito e stupito riferi- mento a due interviste rilasciate dal giuri- sta Giovanni Fiandaca, nuovo e celebrato candidato Pd per le elezioni europee, al “Corriere della Sera” e a “Repubblica” (16 aprile). Secondo Fiandaca “sono scattati ampi consensi (per lui, ndr) non appena si è lanciato contro l’“Antimafia delle Star” (cito dal “Corriere”) e aggiunge che “nessu- no può assurgere ad Ayatollah dell’Anti- mafia, arrogandosi il diritto di decretare cosa è Antimafia autentica e fasulla”. E poi la frase più ambigua, ma anche la più adat- ta a questo periodo di larghe intese: “Ripen- sare l'Antimafia significa (...) cominciare a riconoscere che il pluralismo non è un male da combattere ma un valore da apprezzare e promuovere”. Ma quale pluralismo, con chi? Tutti sulla strada di Beirut? E ancora: “A venti anni di distanza da Tangentopoli si deve prendere atto che è una vera illusio- ne affidare alla magistratura le leve del cambiamento. Devono essere la società e la politica a rinnovarsi”. Splendido. E se non lo fanno? Ma ecco ciò che l’astro nascente ha detto a “Repubblica”: “La sinistra, per 20 anni, ha coltivato l’idea dell’intoccabili- tà dei magistrati. Da intellettuale non pos- so che criticare questo appiattimento fidei- stico e dogmatico. In uno Stato moderno i comportamenti, le scelte, persino le senten- ze dei magistrati devono essere sottoposte
al controllo della pubblica opinione”. Ma in uno Stato moderno il condannato in via definitiva a quattro anni di reclusione per importante reato fiscale (commesso a favo- re della sua impresa, anche mentre era pre- sidente del Consiglio) non resta uno stati- sta ricevuto con tutti gli onori e con tutti i poteri, in grado di guidare una sua delega- zione al Quirinale, di fare campagna elet- torale e di definire la sentenza che lo ha condannato “mostruosa”, usando una del- le televisioni di sua proprietà. È mai acca- duto, dove? In che mondo le “star dell'An- timafia” (definizione di Fiandanca per i magistrati ostinati) danzano libere e irre- sponsabili, mentre la mafia (ci avverte il “New York Times” del 14 aprile in prima pagina) controlla e domina gli affari italia- ni e si avvia per le promettenti strade d’Eu- ropa? Che senso ha ignorare che nei venti anni citati ha sempre governato (o comun- que controllato il Paese) Berlusconi e la sua gente variamente indagata? Poteva la ma- gistratura farsi indietro in presenza di reati di parlamentari e membri del governo re- golarmente salvati dalla immunità della Camera o del Senato? Così come l’Antifa- scismo e la Resistenza si fondano sui fratelli Rosselli, Calamandrei, Pertini, l’Italia de- gli ultimi venti anni su cui riflette il nuovo celebrato candidato Pd si fonda sul Dell’U- tri, Previti, Berlusconi. Essi stessi lo sanno e qualcuno tenta di fuggire. In nome loro do- vremmo respingere l’intromissione dei giu- dici (chiamati dai reati, non dai partiti) e fondare (con loro) un nuovo pluralismo? Che cosa è successo, chi ci ha portato in un altrove da Mago di Oz?

il Fatto 23.4.14
D’Alfonso, il giudice e la lista dei “Templari”
Un candidato Pd in Abruzzo sugli elenchi di una Loggia
di Antonio Massari


Non ho mai conosciuto Luciano D’Alfonso. Non ho mai aderito a nessuna associazione. Neanche alla bocciofila. È una bufala da campagna elettorale e sono pronto a querelare chiunque sostenga il contrario”. Il giudice Italo Radoccia, rintracciato da Il Fatto, nega categoricamente di aver mai aderito alla Suprema Militia Equitum Templi.
A VERIFICARE se dice il vero, oppure no, ci sta pensando la polizia giudiziaria che ha acquisito alcuni atti d’un vecchio procedimento della Procura di Pescara. Un’inchiesta del 2008 avviata dal pm pescarese Gennaro Varone che, durante alcune perquisizioni, trovò un “elenco di nominativi” della congregazione. La polizia postale segnalò d’aver trovato “16 nominativi, tra cui quello di Guido Dezio indicato come politico e Luciano D’Alfonso, scritto a penna e fuori elenco”. In un secondo documento si ritrovarono invece 23 nominativi tra i quali “al numero 18 Luciano D’Alfonso”. Il Fatto Quotidiano è in grado di rivelare che il numero 6 dell’elenco è occupato dal nominativo di tale “Angelo Radoccia - magistrato”. Il punto è che l’unico Radoccia magistrato in Abruzzo si chiama Italo e, soprattutto, è il giudice che pochi mesi fa ha assolto Luciano D’Alfonso dall’accusa di corruzione nel processo Ecosfera. Un’assoluzione che ha consentito a D’Alfonso di candidarsi con il Pd per la poltrona di presidente della Regione Abruzzo. Sulla vicenda è stata anche presentata un’interrogazione parlamentare firmata dal M5S e presentata dal deputato Andrea Colletti. “In uno degli elenchi – scrive Colletti si trovano nominativi di imprenditori, politici, militari, giudici e professionisti, fra cui l'ex sindaco di Pescara, Luciano D'Alfonso, il suo braccio destro, Guido Dezio” e chiede ai ministri dell’Interno e della Giustizia, se siano a conoscenza “di tale associazione e le sue attività, in particolare al fine di sapere se tali azioni siano o possano essere confliggenti con la pubblica sicurezza e con il buon andamento della pubblica amministrazione”. Il dettaglio in più, che Il Fatto è in grado di rivelare, è la presenza, nell’elenco in questione, della dicitura “Angelo Ra-doccia – magistrato”. Il nome non corrisponde a quello del giudice che ha assolto D’Alfonso e, come abbiamo già scritto, Radoccia nega categoricamente. Il punto è che la vicenda è oggetto di un approfondimento giudiziario e, se il giudice in questione fosse davvero Italo Radoccia, e se fosse davvero iscritto alla Suprema Militia Equitum Templi, sull’assoluzione di D’Alfonso, menzionato nello stesso elenco, s’addenserebbero parecchi dubbi. Il Fatto ha provato inutilmente a rintracciare D’Alfonso: intendevamo chiedergli se ha mai aderito alla congregazione di templari e se conosceva Radoccia prima del giudizio. Nessuna risposta né al telefono ai nostri sms. La polizia giudiziaria ha acquisito nei giorni scorsi gli elenchi dei presunti adepti alla Suprema Militia Equitum Templi per verificare se si tratti di millanterie o di fatti certi. Fu nel febbraio 2008 che due agenti della polizia postale, perquisendo la sede della società Aquila srl, notarono su un mobile, nell’ufficio dell’imprenditore Tommaso Di Nardo, un intero faldone con la documentazione sulla “Suprema Militia Equitum Templi – Gran Priorato di Toscana”. In un’agenda, invece, fu trovata una lettera in cui Di Nardo veniva nominato “commandeur” per la regione Abruzzo. E sempre nell’agenda gli agenti rinvennero i fogli con l’elenco di “16 nominativi di politici, imprenditori, militari e professionisti”. La Suprema Militia Equitum Templi non si definisce una loggia massonica, ma una Onlus, che si ispira agli antichi templari. Le cerimonie prevedono abito nero, camicia bianca e papillon per i “fratelli” e “abito scuro, Rosa e Mantiglia” per le dame. Il Guido Dezio nominato insieme ad Angelo Radoccia e D’Alfonso, invece, è il braccio destro di quest’ultimo, soprattutto per la battaglia elettorale in corso.
L’INDAGINE sulla veridicità dell’elenco, affidata in questi giorni alla polizia giudiziaria, è tanto più necessaria per dissipare qualsiasi tipo di dubbio sia sulla posizione di Radoccia, sia su quella, tutta politica, di D’Alfonso che, in queste settimane, sembra sempre più lanciato verso la poltrona di presidente. Se le verifiche porteranno a confermare l’adesione di Radoccia e D’Alfonso alla Suprema Militia Equitum Templi, il passo successivo sarà il trasferimento del fascicolo alla Procura di Campobasso, competente per i magistrati abruzzesi, o una segnalazione alla commissione disciplinare del Csm.

l’Unità 23.04.14
I conti da fare con il centrodestra
di Claudio Sardo


NELLO SCONTRO POLITICO SUL DECRETO LAVORO, OVVIAMENTE, PIÙ DI OGNI ALTRA COSA CONTA IL MERITO. Per questo ci auguriamo che gli emendamenti del Pd, approvati alla Camera, resistano anche in Senato. E che la reazione del Nuovo centrodestra sia contenuta dal governo: la maggiore flessibilità in ingresso non deve diventare moltiplicatore di precarietà. Il braccio di ferro, tuttavia, mostra ragioni politiche che vanno anche oltre il merito. Si può dire che il decreto sia diventato l’occasione di una prova di forza sullo sfondo delle elezioni europee.
Il declino di Berlusconi e la crisi di Forza Italia rendono oggi il centrodestra il polo più debole del tripolarismo italiano. Per il partito di Alfano quello di maggio sarà l’esordio elettorale ed è prevedibile che faccia di tutto per intercettare la diaspora berlusconiana. L’obiettivo è piantare radici nel sistema politico, dimostrare quella consistenza che Berlusconi quotidianamente nega e che lo stesso Renzi riconosce solo a intermittenza. Il rapporto privilegiato sulle riforme istituzionali, finora costruito dal premier con Berlusconi, è un macigno sulle spalle di Alfano e dei suoi perché ne accentua il senso di subalternità, di marginalità.
Questa legislatura, a cui Renzi ha deciso di dare una nuova missione mettendosi alla guida di un governo pienamente «politico» (benché fondato su una maggioranza anomala), consegnerà comunque alla prossima un sistema politico modificato. Ei conti con questo centrodestra in trasformazione il Pd dovrà farli. Nell’azione di governo, ma anche, forse soprattutto, con le riforme elettorali e istituzionali. Oggi Renzi sembra disporre di una forza politica e comunicativa in grado di superare i limiti numerici del Pd in Parlamento. Ma, se la legislatura dovesse davvero proseguire, è ragionevole immaginare che altri scontri, come quello sul decreto Poletti, si ripeteranno. E magari, in stagioni e contesti diversi, potrebbero assumere una drammaticità anche maggiore, alzando la posta alla sopravvivenza stessa della strana maggioranza.
Certo, in una politica che accorcia sempre più i propri orizzonti temporali, si fa persino fatica a pensare al dopo-europee. Le elezioni di maggio sono importantissime. Dal risultato del Pd e dal distacco con i partiti collegati al Ppe potrebbe dipendere l’equilibrio complessivo dell’Europarlamento, l’eventuale primato del Pse e dunque la presidenza Schulz della Commissione. Il risultato di Grillo potrebbe aggravare ulteriormente la sconfitta di Berlusconi: quale esito avrà la crisi della destra se l’intero polo dovesse classificarsi al terzo posto? In ogni caso da quelle parti ci saranno cambiamenti profondi, che non riguarderanno solo i suoi attori.
Nell’autunno 2013 il Nuovo centrodestra di Alfano ha inferto a Berlusconi una sconfitta politica durissima. Enrico Letta ha valorizzato quell’atto di rottura, proponendolo come fondativo di una nuova competizione politica. Matteo Renzi sbaglierebbe ad archiviarlo, preferendo comunque Berlusconi come interlocutore della destra. Naturalmente, non tocca alla sinistra decidere l’assetto dei suoi avversari. Nèè possibile prevedere oggi l’evoluzione politica del partito di Alfano (che intanto ha stretto un’alleanza elettorale con l’Udc di Casini). Anche l’esito finale del decreto Poletti dirà qualcosa di importante sul grado di compatibilità, nella transizione, tra il centrosinistra e il centrodestra di governo.
Ma nel tripolarismo italiano c’è comunque un’interdipendenza tra le forze politiche. E questa riguarda anzitutto la progettazione del nuovo sistema che le riforme stanno delineando. In questo senso il Pd non è solo spettatore di ciò che accade in casa altrui (come non è immune dalle interferenze degli altri due poli). Sbaglierebbe il Pd a schiacciare di nuovo Alfano su Forza Italia. Sbaglierebbe annegargli pregiudizialmente quello spazio di autonomia che Berlusconi considera per sé un pericolo. Vedremo alle europee se Ncd otterrà una base di consensi minima per poter ripartire. Vedremo come evolveranno i contenuti programmatici di un centrodestra che intende superare Berlusconi. Ma ciò che il Pd deve assolutamente fare è rompere lo schema delle «coalizioni coatte», che dal Porcellum sembra trasferito tale e quale nell’Italicum. Non è un caso che questa sia una delle condizioni poste da Berlusconi a Renzi. La coalizione coatta è quella che costringe, già al primo turno, tutti i partiti e i partitini (comprese le liste-civetta) di un’area a riunirsi sotto la stessa bandiera e a sottomettersi al leader più forte. Se questa regola verrà confermata, Alfano diventerà sempre più un alleato di governo inaffidabile: perché dovrà prestare più attenzione ai diktat di Forza Italia che non alla ricerca di un compromesso nella maggioranza.
Cambiare l’Italicum è peraltro salutare per il sistema. I partiti possono benissimo presentarsi da soli al primo turno, sottoponendosi alle medesime regole sullo sbarramento (senza favoritismi incostituzionali), e poi comporre le coalizioni davanti agli elettori nel ballottaggio. Così l’autonomia dei partiti, dei grandi e dei medi, diventerebbe una protezione rispetto alle alleanze infedeli e ai trasformismi che hanno infestato la seconda Repubblica. Il governo Renzi godrebbe di maggiore forza e trasparenza nei rapporti politici. Ma ora tutti attendono i risultati delle elezioni europee.

l’Unità 23.04.14
Tagli agli F35, non riduciamo tutto a un gioco di numeri
di Umberto De Giovannangeli


IN UN PAESE CHE SI RISPETTI, SUL PIANO INTERNAZIONALE, E CHE SA RISPETTARSI, LA DISCUSSIONE SU QUALE modello di difesa è cosa troppo seria e delicata per essere ridotta a una sorta di suk o un misero gioco di bussolotti. Un discorso che bene si attaglia alla questione-F35. Novanta, no 45, piano «A», piano «B». Si danno i numeri, in una narrazione di piani «segreti», in attesa però, di un «Libro Bianco», cioè trasparente, a cui ha più volte fatto riferimento la ministra della Difesa, Roberta Pinotti. Una cosa è certa: l’ammodernamento della nostra flotta aerea non è una invenzione del sistema militare-industriale. È una necessità oggettiva per un Paese che non considera il necessario «dimagrimento» delle spese militari come un primo passo per lo smantellamento delle proprie forze armate. La riduzione del numero degli F35 acquistati dall’Italia è nelle cose. Già lo scorso anno, l’Unità aveva fatto il numero di 50-45 rispetto ai 131 iniziali, scesi poi a 90.Maanche il numero di 45 sarebbe troppo alto, ovvero insufficiente, se non si legasse questa acquisizione alla domanda più semplice, ma che attende ancora una risposta credibile ed esauriente: a cosa devono servire questi caccia? A quale idea di difesa funzionale, a quali priorità di politica estera? Razionalizzare è bene, ma senza mai dimenticare che lo strumento militare, adeguatamente calibrato, è comunque parte di una politica estera che, come fu il caso del Libano e della missione Unifil, per essere credibile a volte ha bisogno anche di forze (armate) in campo. Funzionali a un disegno politico, certo, ma in campo.
Ridefinire il «programma F-35 Joint Strike Fighter» non significa disarmare l’Italia, né relegarla ad un ruolo marginale nello scenario internazionale. Contenere ulteriormente il numero di caccia F-35 da acquistare nei prossimi anni, non vuol dire chiamarsi fuori, tout court, da un programma condiviso con altri Paesi alleati, Usa in primis, che resta comunque strategico per l’Italia. Ridimensionare questa spesa miliardaria non solo è in sintonia con tempi di contenimento di bilancio, ma può servire per delineare con più nettezza e meno velleitarismi, un modello di difesa più consono a un Paese come il nostro. Non è solo questione di risparmiare in una situazione di crisi. La sfida è un’altra e ben più ambiziosa: tagliare per rendere più efficiente, funzionale, produttivo il nostro sistema di Difesa. Ciò porta con sé la necessità di aprire un tavolo con i nostri partner internazionali e riflettere, in quell’ambito, se quel programma ha davvero un futuro e se sì, quale. E un confronto aperto, senza pregiudiziali ideologiche, va sviluppato anche all’interno, coinvolgendo non solo gli addetti ai lavori, in divisa e non, ma anche i settori più avvertiti dell’arcipelago pacifista. Sui cacciabombardieri F35 «è lecito immaginare che si può ripensare, si può ridurre, si può rivedere: a sostenerlo (16 Marzo) è stata la stessa ministra della Difesa, a SkyTg24, ospite di Maria Latella, aggiungendo, però, che prima di tagliare o ridurre «bisogna chiedersi: vogliamo un’aeronautica? Dobbiamo chiederci che tipo di difesa vogliamo, quale tipo di protezione ci può servire. C’è un impegno assunto dal governo, aspettiamo la fine dell’indagine conoscitiva per prendere una decisione». Il «Libro Bianco», nelle intenzioni di Pinotti, dovrebbe servire a distinguere spese (spesso sinonimo di sprechi) e investimenti, con la consapevolezza che «abbiamo bisogno di capire le minacce, i rischi e le risposte da dare». Un impegno di elaborazione a cui l’arcipelago pacifista intende far propria. E non da oggi. «Da tempo aveva detto recentemente a l’Unità Francesco Vignarca, coordinatore della Rete italiana per il disarmo lavoriamo sull’impianto generale della nostra Difesa e non solo sulle singole situazioni (che siano acquisti sistemi d’arma come gli F35 o temi e campagne legate all’export militare). Anche a noi dunque interessa che ci sia una discussione approfondita su cosa voglia dire oggi difesa per il nostro Paese. Sono stati invece la “politica” ed il ministero della Difesa a non volere se non sporadiche situazioni di confronto, negli ultimi anni, cercando anzi di andare a sminuire la portata della nostra grande competenza». È tempo che questo confronto si riapra ed entri nel merito dell’insieme delle spese e dei programmi di ammodernamento delle nostre forze armate. Ricordando che quanto a spesa, l’Italia, è la decima potenza militare al mondo su 153 Paesi monitorati. Spendiamo, in termini complessivi, per l’apparato militare più dell’India, del Brasile, del Canada, d’Israele (dati dello Stockholm International Peace Research Institute, Sipri). La sfida è conciliare riduzione di spesa e maggiore funzionalità. Il dibattito è aperto. Sugli F35. E non solo.

il Fatto 23.04.14
Banche, risultati scarsi ma stipendi al top


GLI STIPENDI dei top manager continuano a crescere in barba ai risultati delle banche che guidano. Il quadro che la Uilca, il sindacato dei lavoratori del settore bancario assicurativo, fa emergere è paradossale. Nel 2013 le undici principali banche italiane hanno perso complessivamente 21,87 miliardi di euro ma gli stipendi dei loro amministratori delegati sono cresciuti in un anno del 16,8%, a 19,2 milioni. Un banchiere vale come 62 dei suoi dipendenti bancari (il rapporto tra le due retribuzioni in media). Sono passati solo pochi giorni dalla "durissima omelia" del predicatore pontificio, padre Raniero Cantalamessa, e la Uilca non manca di ricordarlo. Durante la celebrazione della Passione a San Pietro, presieduta da Papa Francesco, il prelato ha definito "scandaloso che alcuni percepiscano stipendi e pensioni cento volte superiori a quelli di chi lavora alle loro dipendenze". Sull'aumento del monte stipendi degli amministratori delegati, fa notare il sindacato, hanno pesato "in parte" i 3,6 milioni di euro di penali pagate all’ex Ceo di Intesa Sanpaolo, Enrico Cucchiani, per recesso anticipato dal contratto.

il Fatto 23.4.14
Ma la Città eterna è una frana
di Tommaso Rodano


Roma si prepara ad accogliere – si dice – un milione di pellegrini. Il sindaco Marino si è impegnato a mostrare il lato bello ed efficiente della Città eterna. Intanto, però, la Capitale è una groviera. Alcune strade cruciali per il traffico cittadino sono ancora seppellite dalle frane dello scorso inverno, eredità delle piogge torrenziali del 31 gennaio e del 7 febbraio. In quei giorni intere pareti di Roma si sono letteralmente sgretolate di fronte agli occhi dei cittadini. Il sindaco e la giunta non hanno “barato” sui tempi: per riportare la situazione alla normalità ci sarebbero voluti diversi mesi (“non bastano una pala e un cucchiaio”, ha dichiarato Paolo Masini, assessore ai lavori pubblici). Nel frattempo, il colpo d’occhio è imbarazzante e il traffico è impazzito: Roma è una frana.

il Fatto 23.4.14
Dice “Repubblica”
Ricette di Eugenio: Trombati e felici
di Dario Fo


Per Pasqua Scalfari ci ha fatto una sorpresa: dentro l’uovo nel suo quotidiano abbiamo trovato una novità sconvolgente sul progetto Renzi: “Questa volta il premier mi piace ma... (sospensione a effetto). Riconosco le sue doti di comunicatore e di seduttore: è il figlio buono di Berlusconi ma senza scheletri nell'armadio”. Già, e noi ci permettiamo di aggiungere: ha solo qualche uovo degli scheletri, ma lasciagli il tempo e vedrai che quegli ovetti matureranno... Caspita che covata! Poi Scalfari riprende: “Ha coraggio ed ama il rischio, ma politicamente improvvisa, e spesso le sue improvvisazioni sono fragili, pericolose e preoccupanti”. Evviva, lo ammette perfino Eugenio, ma non si ferma qui: attenti, ora ci sarà pure l’elenco dei tonfi di Matteo nello scarampazzo della nostra politica. Dice: “Tanto per incominciare: la sua operazione di taglio del cuneo fiscale è preoccupante: appartiene a quel tipo di intervento per quanto riguarda le coperture, gran parte delle quali scricchiolano, cartoni appiccicati l’uno all’altro con le spille che spesso saltano via”. Cioè, conclude Scalfari, si tratta di operazioni arrangiate tanto per far effetto sui gonzi sprovveduti. Ma con le autorità europee come la mettiamo? A ’sto punto sarà difficile che quelli ci caschino al punto di concedere lo slittamento del 3% sul debito pubblico. Attenti: “La tassa sulle banche è retroattiva e comunque è una-tantum non ripetibile”. Accidenti che forza lo Scalfari! Siamo qui tutti stupiti ed ecco che in sovrappiù arriva a svelarci che i tagli alla difesa, cioè a dire gli F-35 da rifiutare, sono rinviati, non aboliti. Scalfari, trasformato all’istante in una voce della verità, ci avverte che quei denari che Renzi dichiara di voler togliere alla Lockeead sono una sottrazione fasulla, è denaro inamovibile: te lo tolgo per finzione ma lo do indietro per davvero.
PROSEGUENDO: il maggior incasso dell’Iva è un anticipo di un anno e ce lo ritroveremo sul groppone nel 2015; il pagamento dei debiti alle aziende creditrici, che doveva essere di almeno 17 miliardi, è stato ridotto a 7, quindi più che dimezzato. Oddio, vuoi vedere che è tutto un bidone?
Infine saltano fuori gli incapienti. Ma chi diavolo sono ’sti incapienti? Andiamo a scoprirlo sullo Zingarelli: “Incapiente è colui che si trova incapace di coprire determinate passività, cioè un debito in denaro”. Hai capito? Sono degli incapaci, cioè i colpevoli della propria condizione economica sono essi stessi, non è l’avidità delle banche. Papa Francesco li chiama “poveri”, ma ormai tutti i politici di rango hanno sostituito il termine “in povertà” di San Francesco con quest’altro in cui la colpa è giustamente addebitata agli incapaci-desueti. Infatti sono loro che creano le crisi internazionali, mica l’avidità delle finanze!
E che dire dei “contributi da parte dei Comuni il cui pagamento però può essere accompagnato dall’aumento delle imposte comunali che potrebbero vanificare o ridurre fortemente” il dono di 80 euro per i residenti nel Comune? Cioè a dire: il famoso “bonus” che i non-abbienti si troveranno nel portafoglio sarà asciugato ipso-facto per ricoprire il debito comunale. E qui Scalfari ammette che tutti questi aspetti negativi sono stati segnalati alla vigilia di Pasqua dai colleghi Boeri, Fabini, Bei, De Marchi, Conte proprio sul nostro giornale. Come si può ignorarli? In coro essi ci offrono un bilancio negativo dell’operazione Renzi, lo ammette Scalfari stesso.
MA QUI IL PRESIDENTE del quotidiano, dopo aver preso un’adeguata rincorsa, esegue un salto mortale all’indietro carpiato. Roba da spaccarsi in pezzi! Egli dichiara: “Eppure a me questi vari e sconnessi cartoni appiccicati da Renzi con le spille al muro, piacciono assai! Insolitamente, trovo soddisfacente tutta l’operazione”. Insomma, in poche parole Scalfari svela: tutta l’operazione è una bufala gigante, ma l’importante è che funzioni. Sì, perché: “Questa è una sveglia, uno squillo di tromba in un disperato silenzio di sfiducia e di indifferenza”. Splendida retorica! Sentenza offerta in gran stile. Sì, Scalfari riconosce: è un bidone suonato con la tromba, insomma si tratta di una trombata... a milioni di cittadini prossimi al voto. Sveglia! Come dice un vecchio adagio: “Chiagni, vota e tromba”. Scalfari ammette che si tratta di una spudorata operazione di marketing a effetto: “Probabilmente sposterà voti nelle prossime consultazioni europee pescando nell’elettorato dei non votanti, degli indecisi, dei grilli scontenti, dei berlusconiani delusi...”. Ammazza, che ammucchiata! Ma soprattutto sarà di gran vantaggio per il Pd, sarà una pesca miracolosa.
Le reti della menzogna e dell’inganno son già gettate nel mare torbido della nostra politica. Che retata di candidi e allocchi! Eccoli, guarda come sbattono sorpresi dentro i secchi del pescato! Ma si sa, il popolo degli elettori è composto da boccaloni facili. Scambiano tranquillamente l’inganno con la verità.
Ce l’ha dimostrato il padre putativo di Renzi, Silvio, il re delle televendite! “Abboccate tranquilli! È tutto registrato dal notaio”.
Scalfari continua con la sua confessione: “Si è detto da molte parti che l’operazione del bonus in busta-paga non è un programma organico ma uno spot elettoralistico. È esattamente così. E venerdì sera nella trasmissione Otto e mezzo lo ha ammesso lo stesso sottosegretario alla Presidenza del Consiglio (braccio destro di Renzi!) Graziano Delrio. Concordo con lui (ci confida Scalfari): questo è uno spot elettorale che forse, speriamolo, diventerà un programma pensato e strutturato nel 2015. (Siamo a cavallo!)
Meno male che Scalfari non ha mai azzeccato una previsione in 40 anni di articoli di fondo sul suo quotidiano!). Ma se, come i sondaggi indicano (Eugenio sta parlando delle sue inchieste) il risultato elettorale del 25 maggio vedrà il Pd al primo posto largamente davanti a Forza Italia e a Grillo, quel risultato non sarà soltanto un effimero successo di Renzi, che certamente soddisferà il suo amor proprio, ma cambierà anche i rapporti di forza nella politica italiana e la posizione del nostro paese nella politica europea”. Ascoltate le trombe di Eugenio e di Eustachio che squillano festanti la vittoria! Ammazza che botta! E tutto solo a forza di frottole!
Ma la beffa delle promesse elettorali esploderà come i palloncini di Carnevale. E continueremo a vedere centinaia di migliaia di operai licenziati causa esubero, laureati emigrati trasformati in camerieri e spazzini, donne avvilite nella loro condizione sotto-umana, pensionati in fila alla Caritas, piccoli imprenditori impiccati nei garage... Pardon, m’è scappata una boccata di populismo... con le tasse che aumentano, il debito che straripa e il Pil bloccato come un paracarro di pietra in mezzo alla strada. Oddio, che mi prende? Mi sto scoprendo: sono un pessimista, un gufo, un rosicone. Non riesco a immaginare un mondo migliore e sono anche antistorico, dimenticando di vivere nella patria di Machiavelli. Lui diceva che si può corrompere ogni verità, truffare, falsificare i fatti e la storia: è concesso, basta che questo serva a vincere la partita. No, veramente il Segretario della Repubblica fiorentina non diceva proprio così, ma che fa? L’importante è far deragliare la logica delle cose e portare a casa il bottino. E guai a chi guarda in bocca al mentitore. Sursum corda! Basta con gli impiccati per disperazione. Amen.

il Fatto 23.4.14
Taranto, processo Ilva
La Regione Puglia si costituisce parte civile contro Vendola


La Regione Puglia si costituirà parte civile nel processo per disastro ambientale a carico dell’Ilva di Taranto, che vede tra gli imputati il presidente della giunta pugliese, Nichi Vendola, accusato di concorso in concussione aggravata. Lo ha deciso la giunta regionale venerdì scorso. Il 19 giugno prossimo, dinanzi al gup del Tribunale di Taranto, Vilma Gilli, si aprirà l’udienza preliminare; alla sbarra 53 imputati (50 persone fisiche e tre società) nei confronti dei quali la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio. La decisione della giunta regionale è arrivata all’indomani dell’invio al premier Matteo Renzi, da parte dell’ex deputato nonché attuale co-portavoce e consigliere comunale di Taranto dei Verdi Angelo Bonelli, di una lettera con la quale si chiedeva di commissariare Vendola attivando “le procedure previste dalla Costituzione”. Secondo Bonelli, la nomina di un commissario avrebbe evitato il rischio che nella costituzione di parte civile della Regione Puglia venissero sollevate eccezioni da parte dell’Ilva e degli imputati della famiglia Riva, essendo Vendola "rappresentante legale della Regione"

La Repubblica 23.04.14
I re dormienti d’Europa
di Barbara Spinelli


Sono in pericolo anche tasse cui l’Europa pare tenere, sia per aumentare il magro bilancio comune sia per frenare operazioni speculative e degrado climatico: la tassa sulle transazioni finanziarie, e sulle emissioni di anidride carbonica. Una controffensiva UE contro il trattato commerciale ancora non c’è. Nell’incontro a Roma con Obama, Renzi ha auspicato l’accelerazione del negoziato senza chiedere alcunché, né per noi né per l’Europa.
Numerose mezze verità circolano sul patto. Alcuni assicurano che quando sarà pienamente in funzione, nel 2027, il reddito degli europei crescerà sensibilmente (545 euro all’anno per una famiglia di quattro persone), con un beneficio di 120 miliardi annui per l’Unione e di 95 per gli Usa. Altri calcoli sono meno ottimisti. L’istituto Prometeia, pur favorevole all’accordo, sostiene che i guadagni non supererebbero lo 0,5% di Pil in caso di liberalizzazione totale. L’istituto austriaco Öfse (Ricerca per lo sviluppo internazionale) prevede addirittura un aumento dei disoccupati nel periodo di transizione, a causa della riorganizzazione dei mercati di lavoro imposta dal Partenariato. Non meno grave: le controversie commerciali si risolverebbero non attraverso giudizi in tribunali ordinari, ma in speciali corti extraterritoriali. Saranno le multinazionali a trascinare in giudizio governi, aziende, servizi pubblici ritenuti non competitivi, e a esigere compensazioni per i mancati guadagni dovuti a diritti del lavoro troppo vincolanti, a leggi ambientali o costituzionali troppo severe.
Tutto questo in nome della «semplificazione burocratica »: parola d’ordine che Renzi predilige, virtuosa e al tempo stesso insidiosa. Nel contesto del Partenariato transatlantico, semplificare vuol dire abbattere le cosiddette «barriere non tariffarie», un termine criptico che indica parametri europei faticosamente elaborati: regole sanitarie a tutela della salute, canoni di sicurezza delle automobili, procedure di approvazione dei farmaci, e molto altro ancora.
Non per ultimo, la terza prova: il caso Snowden, l’informatico dei servizi Usa che portò alla luce un sistema di sorveglianza tentacolare, predisposto dai servizi americani con la scusa di prevenire attentati terroristici. Grazie a Snowden si è saputo che erano intercettati perfino i cellulari di leader europei (tra cui Angela Merkel), non si sa per quali ragioni di sicurezza. I governi dell’Unione hanno protestato, ma ciascuno per conto suo e sempre più flebilmente. In un messaggio al Parlamento europeo, il 7 marzo, Snowden ha ironizzato sulle sovranità presunte dei singoli Stati, spiegando come sia assurdo il compiacimento di governi che immaginano di poter fermare il Datagate senza mobilitare l’Unione intera.
La vicenda Snowden è anche questione di civiltà democratica. L’esistenza di smascheratori di misfatti — non spie ma whistleblower, denunziatori di reati commessi dalla propria organizzazione — potenzia la democrazia. È un bruttissimo segno e paradossale che i giornalisti implicati nel Datagate a fianco di Snowden abbiano ricevuto il Premio Pulitzer (uno schiaffo per Obama), e che lui stesso, il soffiatore di fischietto , abbia trovato riparo non in un’Europa che promette nella sua Carta la «libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera», ma nella Russia di Putin.

L’Unità 23.04.14
Dalla parte dei profughi

di Luigi Manconi

Se due personalità politiche così incomparabilmente diverse come il sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini, e il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, pronunciano, su una materia così importante, parole non troppo dissimili, il fatto merita attenzione.
Giusi Nicolini, sul Corriere della Sera di ieri ha sottolineato la necessità dell'apertura di un «canale umanitario in Siria» coordinato dall' Europa.
Angelino Alfano lo scorso 16 aprile, ha detto che a far venire in Europa «migliaia e migliaia di disperati è la voglia di libertà». E ha precisato che si tratta in larghissima maggioranza di «esseri umani che fuggono dalle guerre, da conflitti etnici e religiosi e hanno diritto alla protezione umanitaria». Attaccato dai leghisti, prima, e da Forza Italia, poi, per i costi dell'operazione Mare Nostrum, Alfano ha risposto così: «quell’attività ha salvato 19 mila vite umane e noi non baratteremo mai un punto percentuale alle elezioni con 19 mila morti». Per una volta sono d'accordo con il ministro dell'Interno e, a sostegno di quella posizione, aggiungo un dato.
Il tasso di crescita demografica dell’Africa è molte volte quello italiano: e le proiezioni confermano che tra un paio di decenni la popolazione di quel continente supererà di circa un miliardo di individui la popolazione europea. Dunque, non si può ignorare l’esistenza di imponenti flussi provenienti dall’Africa e non si può impedire tantomeno con le motovedette e con i muri lungo i confini che parte di essi si indirizzino verso l’Europa. La sola strategia intelligente e razionale è quella che parte da una presa d'atto: i movimenti da un continente all’altro e da un territorio all'altro sono in corso da sempre e sono destinati a continuare. Dunque, più che ostacolati, quei movimenti vanno gestiti e governati. Non è un compito che spetta solo all’Italia, ovviamente, ma dev’essere un progetto europeo in cui viene riconosciuto il ruolo cruciale che si trovano a svolgere il nostro e gli altri Paesi dell’Europa mediterranea: e ciò vale soprattutto quando si prende in considerazione quella componente dell'immigrazione che raggiunge l'Italia via mare. Il nostro Paese ha circa 7500 km di costa e rappresenta il primo punto di approdo per chi proviene dall'Africa. Ma non solo. Oltre a quanti arrivano sui barconi, molti giungono attraverso percorsi altrettanto pericolosi: nascosti sotto i camion che si imbarcano in Grecia e in Turchia, approdano nei principali porti italiani, come Venezia e Ancona. Anche qui, seppure in percentuale inferiore, arrivano persone provenienti dalla Siria, dall'Eritrea e dalla Somalia. Finora l'Italia non si è dimostrata in grado di gestire autonomamente questo fenomeno ed ecco perché è necessario e urgente che l'intera materia sia condivisa dall'Unione europea nel suo complesso. Più precisamente, è possibile elaborare un vero e proprio piano di «ammissione umanitaria», attraverso l'istituzione di presidi dell'Unione europea nei Paesi di partenza e di transito per accogliere le richieste di asilo e di protezione umanitaria. È un'idea indubbiamente ardua da realizzare, ma la sola capace di ridurre le cifre crudeli della tragica contabilità dei morti nel Mediterraneo. Negli ultimi vent'anni, infatti, ogni giorno hanno perso la vita mediamente 6-7 fuggiaschi che cercavano di raggiungere il continente europeo. Sono stime per difetto fatte da organizzazioni internazionali e associazioni per i diritti umani, da cui si deve partire per la pianificazione di politiche drasticamente diverse. L'avvio del semestre europeo a guida italiana può consentire di operare attraverso un'intesa più stretta c'è da augurarselo con tutti i Paesi del continente. E il primo passo dovrebbe essere l'attuazione di un piano basato su un fondamentale dispositivo: se il principale attentato all'incolumità dei richiedenti asilo è rappresentato da quei viaggi illegali nel Mediterraneo, dobbiamo fare in modo che quel tragitto possa realizzarsi in condizioni di sicurezza.
Si deve puntare sull'anticipazione delle procedure di richiesta e consentire a uomini, donne e bambini che cercano un’opportunità di vita nel nostro continente, di chiedere all'Italia e alle altre nazioni europee una forma di protezione già nei Paesi dove si concentrano i flussi. Si tratta di anticipare geograficamente il momento della formulazione della domanda di tutela e di ricorrere a un piano di reinsediamento come già si fa per i profughi siriani e di concessione della protezione. Tutto ciò dev' essere fatto per evitare quella maledetta traversata e quindi nei Paesi della sponda sud del Mediterraneo: Tunisia, Egitto, Giordania, Libano, Algeria, Marocco e, se ve ne sono le condizioni, Libia. Tale procedura si dovrebbe attuare con il coinvolgimento della rete delle ambasciate e dei consolati degli Stati Membri, oltre che con le organizzazioni internazionali. Una volta riconosciuta la sussistenza delle condizioni per la protezione, l’Unione europea definirà le quote di accoglienza per ciascuno Stato membro. Un viaggio sicuro, dunque, dal presidio internazionale al Paese di destinazione, quest'ultimo individuato anche considerando l'eventuale presenza di familiari. È un progetto difficilissimo da realizzare ma, a ben vedere, ha più probabilità di riuscita di quante ne abbia la cupa utopia dell'Europa-fortezza.

La Repubblica 23.04.14
La scelta delle madri
di Chiara Saraceno


L’ITALIA è tra i Paesi sviluppati uno di quelli che più scoraggia l’occupazione femminile, con effetti negativi per lo sviluppo e la competitività. Lo ripetono da anni studiose e studiosi di vario orientamento. Di recente lo ha denunciato anche Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale. L’effetto negativo, tuttavia, non riguarda solo la scarsa valorizzazione del capitale umano e la resistenza ad ogni tipo di innovazione organizzativa. Riguarda anche lo scoraggiamento della fecondità.
Come avviene ormai in quasi tutti i Paesi Ue, in Italia il numero di figli desiderati è più alto rispetto al numero di figli che effettivamente si hanno. Lo scarto tra i due numeri, tuttavia, in Italia è mediamente maggiore, avendo l’Italia uno dei tassi di fecondità tra i più bassi. Il nostro è un Paese in cui conciliare responsabilità famigliari e lavoro remunerato è molto difficile: perché i servizi per la prima infanzia e le scuole a tempo pieno sono mediamente insufficienti e distribuiti in modo molto disomogeneo; perché la divisione del lavoro in famiglia continua ad essere molto asimmetrica tra uomini e donne; perché nell’organizzazione del lavoro si è diffusa più la flessibilità dettata dalle priorità aziendali che non quella che tiene conto delle esigenze dei lavoratori.
All’interno di questo fenomeno generale vi sono, tuttavia, importanti differenze tra donne, secondo il livello di istruzione, dell’area geografica di residenza, del tipo di professione. È più facile per le laureate che vivono nel Centro-Nord combinare lavoro remunerato e maternità. Anche per le laureate, tuttavia, lavoro e maternità possono apparire inconciliabili. Secondo gli ultimi dati Almalaurea, a cinque anni dalla laurea è occupato il 63,3% di coloro che hanno già un figlio a fronte del 75,8% di coloro che non ne hanno. La maternità allarga la differenza con i coetanei maschi, le cui percentuali sono rispettivamente 88,9% e 83,5%. Mentre la paternità è associata ad una più alta partecipazione al lavoro, per la maternità è vero il contrario. Il fatto è che le giovani laureate, oltre a sperimentare maggiori difficoltà di conciliare famiglia e lavoro quando hanno un figlio, rimangono anche più concentrate dei loro coetanei nei contratti di lavoro temporanei, quindi con minori garanzie in caso di interruzione per maternità.
Anche il tipo di contratto di lavoro, infatti, conta ai fini delle scelte di fecondità. I dati più recenti sulle forze di lavoro mostrano che tra le giovani tra i 25 e 34 anni esistono due tipi di distinzioni: una tra lavoratrici e casalinghe (una minoranza, in questa fascia di età), l’altra tra lavoratrici a tempo indeterminato e lavoratrici con contratti a tempo determinato. Le non lavoratrici hanno già almeno un figlio più frequentemente delle lavoratrici, al contrario dei loro coetanei uomini, che, se non sono occupati (e neppure studiano), nella stragrande maggioranza vivono ancora con i genitori e non hanno figli. Tra le donne occupate, la maggioranza in questa fascia di età, sono le lavoratrici stabili, insieme alle lavoratrici autonome, ad avere più spesso almeno un figlio. Nel 2013 aveva già un figlio il 34,1% di coloro che avevano un rapporto di lavoro stabile, a fronte del 23,8% di chi ne aveva uno a tempo determinato. Queste ultime, inoltre, più spesso non erano ancora uscite dalla famiglia d’origine.
È la precarietà nei rapporti di lavoro, più che l’essere tout court occupate, che pone vincoli alle scelte di fecondità. Non riduce solo la disponibilità di reddito e l’orizzonte temporale dei progetti di vita. Riduce anche le forme di protezione, aumentando, per le donne, i rischi lavorativi connessi alla maternità, imponendo rimandi che non sempre possono essere recuperati. Il proposito del governo di ridurre l’imposizione fiscale per le madri lavoratrici è un segnale di attenzione, anche se occorrerà fare attenzione a non farne pagare il prezzo alle famiglie monoreddito negli scaglioni più bassi. Ma i dati ci dicono che, almeno per quanto riguarda le scelte di fecondità, i due fattori più cruciali sono una ragionevole stabilità delle prospettive lavorative e la disponibilità di servizi per i bambini accessibili economicamente e di buona qualità.

Corsera 23.04.14
Le 234 ragazze rapite prima degli esami Boko Haram
Prelevate di notte dai jihadisti, di loro si è persa ogni traccia «Ora sono schiave del sesso»
di Michele Farina


‘‘Il termine popolare con cui è chiamata la «Congregazione della gente della tradizione e della jihad», fondata in Nigeria nel 2002 da Mohammed Yusef, significa «l’educazione occidentale è peccato». Boko in lingua Hausa vuol dire più precisamente alfabeto latino (dall’inglese book , libro), haram in arabo significa peccato. Il gruppo estremista islamico è infatti ferocemente contrario a ogni «contaminazione occidentale» .
Duecento familiari armati di archi, frecce e disperazione hanno vagato per ore nella foresta di Sambisa. «Abbiamo camminato per 25 chilometri senza vedere il cielo, un pastore ci ha detto che eravamo sulla strada giusta ma che era pericoloso andare avanti. La foresta è troppo grande, troppo fitta: alla fine siamo tornati indietro. E i soldati, i soldati dov’erano?». Così un padre, Mallam Amos Chiroma, ha parlato al governatore Kashim Shettima che l’altro giorno è andato a Chibok, cittadina a maggioranza cristiana nello Stato nigeriano di Borno, per vedere quel che resta della scuola femminile razziata dagli estremisti islamici di Boko Haram.
A una settimana dal sequestro di massa forse più incredibile della storia, le autorità litigano ancora sul numero degli ostaggi. I genitori hanno stilato la lista delle studentesse scomparse dal collegio la notte degli esami: ne mancano all’appello 234 dai 15 ai 18 anni, mentre 45 sono riuscite a fuggire. Spezzoni di racconti sulla stampa nigeriana: alcune si sono salvate saltando dai camion. Altre hanno chiesto di andare in bagno e si sono dileguate nella boscaglia. Alcune, una volta raggiunto il campo di prigionia, hanno ricevuto l’ordine di raccogliere fogliame per pulire i piatti e ne hanno approfittato per tentare la fuga. Sono così tante che i rapitori si possono permettere di perderne qualcuna o di giocare con la loro vita. Liatu, 23 anni, cristiana, ha raccontato alla Bbc di come è scappata un paio di mesi fa da un campo nella foresta. Un altro sequestro, lo stesso copione: «Gli uomini di Boko Haram hanno sgozzato 50 prigionieri. Mi hanno risparmiato. Un miliziano ha detto che gli piacevo e che dovevo convertirmi all’Islam per sposarlo. Il giorno dopo un altro ha detto a me e ad altre sei compagne che si muore una volta sola, e che se volevamo potevamo provare a scappare. Ci ha indicato una vecchia Volkswagen. Ci siamo buttate dentro, loro ci hanno inseguito in moto sparandoci addosso. Dopo una corsa pazzesca siamo arrivate sullo stradone, in salvo: solo allora ho capito che le 3 ragazze sui sedili posteriori erano tutte morte».
Anche le studentesse scampate al sequestro di Chibok «ce l’hanno fatta da sole, nessuna è stata liberata dall’esercito» va ripetendo la preside Asabe Kwambura, che accusa i militari di aver mentito. La settimana scorsa nella capitale Abuja un generale portavoce dell’esercito aveva dichiarato chiusa la vicenda: «Quasi tutte libere, con i rapitori ne restano solo otto». La rabbia dei genitori: «Mentono sulla pelle delle nostre figlie, non c’è insulto peggiore». Nei giorni seguenti la Difesa ha dovuto rettificare. Il governatore Shettima ha protestato per la poca sicurezza nelle regioni nord-orientali, per quelle ragazze destinate a diventare «schiave sessuali, cuoche e sguattere dei ragazzi di Boko Haram». Il presidente della Nigeria Goodluck Jonathan ha minacciato il governatore: «E se ritirassimo tutti i soldati?». Il capo di Boko Haram, Abubakar Shekau, in un nuovo video ha deriso il presidente Buonafortuna: «Troppo piccolo per noi».
Ci vuole un secondo con Google Earth per planare su Chibok (o Chibuk). Un posto fuori dal mondo: Borno è uno dei 3 Stati dove da un anno c’è lo stato d’emergenza. Comunicazioni cellulari bloccate, collegamenti ridotti, strade insicure. Nella foresta di Sambisa e tra le montagne lungo il confine ci sono le roccaforti dei ribelli. In quella zona è probabile che siano tenuti prigionieri anche i missionari italiani rapiti nel vicino Camerun alcune settimane fa. A fine marzo in un’operazione delle forze speciali sostenute dai caccia dell’aviazione sarebbero morti 2mila miliziani. Ma chi ci crede alle notizie ufficiali? Di certo Boko Haram ha attaccato indisturbato Chibok con diversi veicoli e una quarantina di moto, dalle 9 di sera alle 3 del mattino. Kalashnikov e divise militari. Nella scuola pubblica (makarantun boko, in lingua hausa) le studentesse erano tornate per gli esami di fine anno. I miliziani di Boko Haram («vietata l’educazione occidentale») hanno svegliato le ragazze nei dormitori fingendosi soldati: «La scuola è sotto attacco, vi portiamo in salvo». E invece sono cadute in trappola. Secondo l’Onu la Nigeria è in coda alle classifiche mondiali di scolarità: 10 milioni di minori non vanno a scuola come dovrebbero. Quanti tra quei genitori armati di archi e frecce nella foresta di Sambisa avranno rimpianto di non avere figlie analfabete .

Corsera 23.04.14 
Putin riabilita (70 anni dopo) anche gli italiani di Crimea
Mosca riconosce le loro sofferenze sotto Stalin
di Fabrizio Dragosei


MOSCA -Deportati da Stalin in Asia centrale, privati di tutti i loro averi, sballottati da un Paese all’altro, i pochi sopravvissuti della colonia italiana in Crimea potranno ora vedersi riconoscere dalla Russia lo status di perseguitati politici. E ottenere almeno un qualche compenso, per non parlare della restituzione delle case perse, ove questo sarà possibile. Vladimir Putin ha firmato nei giorni scorsi un decreto per la riabilitazione dei tatari di Crimea e di altre popolazioni che vennero deportate da Stalin durante la Seconda guerra mondiale con l’accusa di aver collaborato col nemico. Nel decreto sono citate varie etnie, ma non gli italiani che fanno parte di una piccola minoranza arrivata sul Mar Nero in varie ondate, a cominciare dall’epoca di Caterina la Grande.
Il Cremlino ha però confermato ieri al Corriere che anche i neo-cittadini russi di etnia italiana potranno beneficiare delle norme sulla riabilitazione delle vittime delle repressioni staliniane. In particolare, ci è stato spiegato, si applicherà a loro la legge 1761/1 del 18 ottobre 1991 che prevede misure per le «vittime delle repressioni politiche». Potranno avere indennizzi specifici e la restituzione dei beni confiscati, comprese le case quando queste non siano state distrutte in guerra o nazionalizzate. Una buona notizia in un periodo di grande angoscia. Che viene accolta con grande cautela da coloro che ancora abitano nella penisola appena passata dall’Ucraina alla Federazione Russa. Fino ad oggi Kiev non ha mai riconosciuto la persecuzione di queste popolazioni, compresi i tatari che sono circa trecentomila. «Speriamo che possa finalmente venircene qualche cosa di positivo», sospira Galina Scolarino, presidentessa dell’associazione degli italiani di Crimea.
Il grosso della migrazione avvenne nell’Ottocento, quando molti (soprattutto dalla Puglia) arrivarono qui per coltivare la terra. Erano concentrati in particolare a Kerch, sullo stretto che separa il Mar Nero dal Mare d’Azov. Il punto dove oggi i russi progettano di costruire un ponte per collegare direttamente la Crimea alla regione di Krasnodar. Il 29 gennaio 1942, dopo che i sovietici avevano riconquistato quella parte della Crimea, Stalin ordinò la deportazione degli italiani, accusati di aver collaborato con l’invasore. Migliaia di famiglie furono caricate su navi e poi su carri bestiame per essere trasportati in Kazakistan. Quelli che arrivarono vivi finirono nella steppa di Akmolinsk (l’attuale capitale Astana) e Karaganda. Abbandonati a sé stessi o inquadrati in squadre di lavoro forzato.
Dopo la morte del tiranno, molti poterono tornare in Crimea, ma non ottennero mai la restituzione dei loro beni. Ora Putin, dopo l’annessione della penisola, tenta di vincere anche le resistenze esistenti fra le minoranze, a cominciare dai tatari che si sono espressi contro l’annessione. Il decreto varato mirerebbe, secondo alcune interpretazioni, a riconoscere a questa popolazione il diritto a mantenere le terre che hanno occupato illegalmente dopo il ritorno. Per rendere il provvedimento più generale, Putin ha deciso di citare esplicitamente alcune delle altre popolazioni vittime delle persecuzioni in quest’area: armeni, bulgari, greci e tedeschi. Ora sappiamo che anche gli italiani (sarebbero meno di 300) potranno vedere riconosciute ufficialmente le loro sofferenze. Rimane aperta la questione di riottenere la cittadinanza italiana. Ma questa è un’altra storia.

La Repubblica R2 23.04.14
La Primavera di Sarajevo
Disoccupazione record, corruzione che dilaga e costi della politica alle stelle. La Bosnia si ribella a pochi mesi dalle elezioni di ottobre: bruciati i palazzi del potere, nazionalisti in piazza e ricchi in fuga. E 20 anni dopo la guerra civile, musulmani, serbi e croati si ritrovano: questa volta dalla stessa parte della barricata
di Renato Caprile


SARAJEVO. IL lavoro sporco, l’incendio a colpi di molotov dei palazzi del potere bosniaco lo hanno fatto loro, i duri della “brigata Ibraimovic”, mente e cuore del tifo della Zeljo, una delle due squadre di calcio di Sarajevo. Una ventina d’anni, testa rasata, braccia super tatuate, Amel non ha problemi ad ammettere: «Sì, siamo stati noi. La gente era incavolata di brutto, c’era bisogno di qualcuno che prendesse l’iniziativa, che avesse esperienza per dare “spessore” alla protesta di chi combatte gli affamatori del nostro popolo». I partiti, le etnie non c’entrano, giura Amel: «Siamo trasversali. Nessuno ci paga, nessuno ci manovra siamo cittadini incazzati anche noi. Pronti, conclude questo leader politico in erba, a scatenare l’inferno al prossimo segnale ».
Non è finita, dunque, la partita è appena iniziata. E non sono certo bastate un po’ di “elemosine” e le dimissioni di qualche governo locale a far rientrare la rabbia contro la mala politica. Il primo “messaggio” è arrivato forte e chiaro, basta vedere come i nuovi ricchi siano già corsi ai ripari blindando le loro sontuose residenze private sulla collina di Poljine.
«Non solo i soldi, si sono fregati anche il freddo e la neve...». Mujo la butta sul ridere in una mattina in cui il cielo è di un azzurro imbarazzante per queste latitudini e il sole picchia così forte da far pensare di essere ai tropici e non a Sarajevo, sulla Titova, di fronte alla sede della presidenza collegiale della Bosnia Erzegovina, assaltata e data alle fiamme qualche tempo fa. Una mezza dozzina di poliziotti è lì perché a qualcuno non venga in mente di riprovarci. Ma in questa giornata che sa di estate precoce i “rivoluzionari” sono tutti over 60, malandati per lo più, armati solo di chiacchiere e innocui cartelli «contro la mafia al potere». Sono lì a testimoniare. Come Mujo Porobic, veterano della difesa di Sarajevo ai tempi dell’assedio, che non ha perso la speranza nei “promjene”, i cambiamenti «di cui il Paese - dice - ha assoluto bisogno come e più del pane». Ogni giorno, a partire dalle 12 e fino alle 17, Mujo è lì con il suo fischietto a inveire contro la Casta. Come il suo amico Fahim, vedovo, senza più un lavoro e senza ancora una pensione dopo quarant’anni passati a spaccarsi la schiera in un’officina, che dichiara di avere un solo obiettivo: «Un futuro migliore per i nostri ragazzi». Già, perché il presente è per i più pessimo. Un cocktail di malaffare, corruzione e iper burocrazia sta letteralmente sbriciolando la Bosnia nell’indifferenza della Comunità internazionale che ha contribuito non poco a determinare questo stato di cose. Il problema etnico - è opinione diffusa - esiste solo sulla carta, poco o niente nella società civile. Serve da scudo ai politici per giustificare la loro esistenza. «Nonostante la guerra, l’assedio, perfino nonostante Srebrenica, tra musulmani, serbi e croati c’è assai meno odio di quanto si possa pensare», spiega Valentina Pellizzer, italiana, operatrice umanitaria, in Bosnia da oltre quindici anni dove vive e lavora. «Se è tutto finito? Mi auguro proprio di no. Ma il solo fatto che per una volta si siano trovati tutti dalla stessa parte, che sia emersa una cittadinanza trasversale è già una vittoria». Un ammonimento che la classe politica non potrà più ignorare. «Un mostro a tre teste, ecco cos’è la Bosnia del dopoguerra - sintetizza Sacir Filanda, docente di Scienze politiche all’Università di Sarajevo - la presidenza collegiale, la Republika Srpska, quella di Karadzic tanto per intenderci, nella quale i non serbi ormai si contano a poche decine di migliaia e la Federazione BH, l’entità a maggioranza croato-musulmana. E se a tutto questo sommiamo i 10 Cantoni, qualcosa di simile alle vostre regioni, i Comuni e il Distretto speciale di Bihac, ci si rende conto di tutto quello che non dovrebbe essere una nazione di meno di quattro milioni di abitanti, grande più o meno due ventesimi del vostro paese. E soprattutto che 14 diversi livelli di governo sono un lusso insostenibile per chiunque».
I numeri d’altra parte sono impietosi: la disoccupazione sfiora il 50%, con punte del 60 in zone come Tuzla, che era il polmone industriale del paese ed ora ne è l’anello più debole. L’80% delle privatizzazioni, secondo stime internazionali, è più che sospetto. E i risultati si vedono. Fabbriche che davano lavoro a migliaia di persone sono state scientificamente portate sull’orlo del collasso per essere poi cedute a prezzi stracciati all’amico straniero di turno. Austriaci, tedeschi e russi, tra coloro che si sono spartiti gli affari migliori. Perfino il mitico Holiday Inn, la leggendaria casa dei giornalisti occidentali durante l’assedio di Sarajevo non è sfuggito a questo destino. Ceduto nel 2003 a una società austriaca - che ne acquisisce il 76% grazie a un prestito ottenuto dando in garanzia l’albergo di cui non è ancora proprietario - oggi è chiuso e difficilmente riaprirà i battenti.
Ritorniamo sulla Titova di fronte alla Presidenza collegiale su cui sventola la bandiera giallo- blu bosniaca. Mujo e Fahim sono ancora lì insieme a pochi altri. «Nonostante la paura che pure c’è - prova a spiegare Mujo più a se stesso che a chi lo ascolta - la stanchezza e le minacce, soprattutto alle donne, fatte dagli “incappucciati”, squadracce di teppisti sguinzagliate in giro per la città per impedire che la gente si concentri davanti agli edifici pubblici, niente potrà essere più come prima della rivolta di febbraio». Quel venerdì, quando a migliaia assaltarono a colpi di molotov i palazzi del potere. Mentre Mostar, Tuzla, Zenica e la capitale Sarajevo bruciavano, la Tv di Stato trasmetteva a reti unificate le Olimpiadi di Soci. Non una sola parola o immagine su quanto di terribile stava accadendo in pieno giorno in quattro delle più importanti città della Bosnia. Se non fosse stato per i social network, la più violenta, spontanea ondata di protesta sociale mai registratasi in questo disgraziato lembo di ex Jugoslavia, sarebbe passata sotto silenzio. Nessun presidente (e sono cinque) deputato (e sono centinaia), ministro (e sono decine), consigliere (e sono centinaia) - serbo, croato o musulmano che fosse - dei 14, diversi livelli di governo in cui si articola la Bosnia del dopoguerra partorita a Dayton che trovasse il coraggio di uscire allo scoperto, di schierarsi, di stigmatizzare, di abbozzare una spiegazione o semplicemente ammettere di avere sbagliato. Un assoluto, criminale black-out di Stato, durato oltre 24 ore. Una muta, chiara ammissione di colpevolezza per aver fatto a pezzi un Paese, per averne svenduto le ricchezze, per aver affamato un popolo.

La Stampa 23.4.14
Coi palestinesi ad Auschwitz:, ora è accusato di tradimento
di Maurizio Molinari


è un ex guerrigliero di Al Fatah il docente palestinese che ha accompagnato i suoi studenti in una visita ad Auschwitz, andando incontro ad una reazione talmente violenta da obbligarlo a vivere blindato nella casa di Gerusalemme Est.

«Aspettavo le critiche ma non di essere additato come traditore del mio popolo, per cui mi batto da sempre», ci dice, con voce ferma.
Dajani nasce nel 1946 a Bakaa, Gerusalemme Ovest, nella famiglia dei Daoudi che si vanta di aver conservato per secoli le chiavi della Tomba di Davide, e dopo la nascita di Israele fuggono, iniziando un percorso che lo porta ad aderire all’Olp in Libano nel 1964, prima ancora della leadership di Yasser Arafat. Condivide la lotta armata, diventa il responsabile della propaganda dell’Olp in lingua inglese e Israele gli vieta, per 25 anni, di entrare nei Territori. Sono gli accordi di Oslo del 1993 a consentirgli di tornare e vede gli anziani genitori, gravemente malati, curati entrambi «da medici ebrei in ospedali israeliani». «Fu il momento in cui iniziai a vedere l’umanità del nemico», racconta, ammettendo che gli studi negli Usa «mi hanno aiutato ad avere una visione più ampia».
La formazione anglosassone lo porta a guidare il Centro di studi americani dell’ateneo di Al Quds, dove nel 2007 fonda Wasatia» (moderazione), il gruppo che si propone di «superare l’incomprensione fra i due popoli». «I palestinesi devono mostrare comprensione per la Shoà e gli israeliani devono farlo con la Naqba», spiega, precisando però che «lo sterminio degli ebrei non può essere paragonato alla tragedia dei palestinesi». Per Dajani «ciò che conta è la comprensione reciproca delle altrui sofferenze» senza «banalizzare la Shoà». Quando l’Università di Jena ha proposto un programma di dialogo sulla memoria, Dajani ha aderito per Al Quds in parallelo alle scelte di docenti israeliani di Beer Sheva e Tel Aviv.
E’ nato così «Cuori di carne, non di pietra», da una citazione di Ezechiele, che prevede la visita ad Auschwitz di 30 studenti palestinesi e una visita parallela di 30 coetanei israeliani in un campo profughi a Betlemme. «Ho ricevuto più di 70 richieste di studenti palestinesi e - ammette - le difficoltà sono arrivate subito». Alcuni ragazzi hanno dato forfait all’ultima ora e gli altri, una volta nel lager, hanno rifiutato un sopravvissuto come guida, preferendo un polacco. Poi, al ritorno, è stato il putiferio. «Mi hanno accusato di essere il re dei traditori, sono stato messo all’indice», dice con amarezza.
Anche Al Quds ha preso le distanze, parlando di «iniziativa di singoli» e alcuni studenti gli hanno imputato di «fare il gioco degli estremisti». Senza contare le minacce dei più estremisti. «Sfidare i tabù è sempre difficile ma non mi tiro indietro - afferma - se avessi saputo che sarebbe finita così, avrei fatto comunque il viaggio». Ecco perché: «Visitare Auschwitz spazza via i dubbi su veridicità storica e aberrazione morale di quanto avvenuto» e in questa maniera «possiamo parlare alla mente degli israeliani con maggiore possibilità di fargli comprendere le nostre sofferenze».
Dajani è convinto che il riconoscimento della Shoà sia un pilastro della convivenza e legge dunque come «un passo positivo» la scelta del presidente palestinese Abu Mazen di inviare ad Israele un messaggio per il giorno dell’Olocausto. Ciò non toglie che molto resta da fare: i libri del «Mein Kampf» sulle bancarelle di Ramallah celano un negazionismo frutto del rigetto di Israele. «Dobbiamo entrambi rinunciare ai grandi sogni e accontentarci di piccole speranze» conclude Dajani, spiegando che «il desiderio di veder sparire l’altro non si avvererà mentre l’empatia per la sofferenza altrui ci può portare lontano».

La Stampa 23.4.14
L’aviatore che resisteva prima della Resistenza
Su Rai3 l’impresa di Lauro De Bosis, dannunziano antifascista che nel 1931 lanciò su Roma i suoi volantini contro il regime
di Mirella Serri


Alle 8 di sera del 3 ottobre 1931, a Roma, il corrispondente del Chicago Tribune, David Darrah, sta attraversando piazza di Spagna. Si ferma e non crede ai suoi occhi: manifestini cadono a pioggia dal cielo. I romani stupefatti corrono a raccogliere quei 400 mila foglietti riversati sulla città, che contengono vari appelli: uno è rivolto al Re, al quale si chiede di schierarsi dalla parte della libertà; un altro è diretto ai cittadini che vengono esortati a rifiutare la dittatura di Mussolini. A questo «eclatante gesto antifascista», ovvero a questo oltraggio al regime di Lauro De Bosis, Rai3, in prossimità della ricorrenza del 25 aprile, dedica una bella puntata de Il tempo e la storia che andrà in onda alle 13,15 di domani con la partecipazione dello studioso Giovanni De Luna. 
Tramite immagini e documenti inediti, ripescati in archivio dal consulente storico Mauro Canali, il documentario ripercorre la straordinaria vita di De Bosis e l’umiliazione da lui inflitta a Mussolini. Infatti questi sono gli anni delle trasvolate di Italo Balbo sul Mediterraneo e l’Atlantico, in cui l’aeronautica è il simbolo del fascismo trionfante. Un ispiratore dello spettacolare gesto di Lauro è Gabriele D’Annunzio con il volo su Vienna, compiuto 13 anni prima. Il Vate era un frequentatore di casa De Bosis: il padre Adolfo era un celebre letterato, fondatore della rivista Il Convito, punto di riferimento per poeti del calibro di Pascoli e D’Annunzio, e pure Lauro si cimentava con versi e traduzioni. A soli 23 anni comincia a tenere cicli di conferenze, si divide tra Roma e gli States, insegna italiano a Harvard (dove ancora oggi sono attivi corsi sulla sua impresa). Intanto nella capitale, con un gruppo di amici di provenienza cattolica, socialista e liberale, si spinge sul terreno dell’antifascismo militante. 
Fonda un gruppo clandestino, «L’alleanza nazionale per la libertà», con Mario Vinciguerra e Umberto Zanotti Bianco. Il loro programma esorta ad avere fiducia nella monarchia e nel Vaticano, considerate le uniche istituzioni in grado di ristabilire le garanzie costituzionali. Però lo sparuto drappello finisce in manette, tranne De Bosis che in quel momento si trova in America. Si rifugia a Parigi, dove si impiega come portiere di notte, e poi a Londra. A questo punto è pronto al passo estremo a cui pensa da tempo. Tenta un primo decollo ma l’aeroplano per un guasto atterra in Corsica. Riprova dall’aeroporto vicino a Marsiglia con un piccolo velivolo dove ha stipato tutti i suoi voluminosi pacchi.Nei suoi appelli invita gli italiani a gesti di disobbedienza civile e a boicottare il tiranno (per esempio esorta a «non fumare. Il fumo rende al fascismo oltre 3 miliardi l’anno, tanto di che pagare tutti i suoi sbirri»).
La sera prima dell’impresa è del tutto consapevole dei rischi cui va incontro: compila un memoriale dal titolo Storia della mia morte. Il suo aereo precipita nel Tirreno durante il viaggio di ritorno, forse per mancanza di carburante. De Bosis, in precedenza, rivolgendosi a un immaginario interlocutore aveva annotato: «Tu certo imprechi contro il fascismo e ne senti tutta la servile vergogna. Ma anche tu ne sei responsabile con la tua inerzia. Non cercarti un’illusoria giustificazione col dirti che non c’è nulla da fare… Il secondo Risorgimento trionferà come il primo». De Bosis si era dato da fare e queste sue parole d’ordine sono le stesse che anni dopo animeranno la lotta di liberazione.

Corsera 23.04.14
Gli Illuminati che hanno conquistato i licei francesi
Sempre più studenti credono che esista un’élite segreta che domina il mondo
Di S. Mont.


Corrispondente Parigi. Perché faticare per trovare la propria strada nel mondo, per capirlo o magari provare a cambiarlo se non ci piace? Più rassicurante e comodo pensare che la partita è truccata, che «loro», coloro che detengono davvero il potere dietro la farsa della democrazia, nascondono la verità. C’è un po’ di questo atteggiamento nelle ricorrenti affermazioni elettorali del Front National contro «il partito unico Umps» (unione dei due avversari Ump e Ps), e anche nel notevole successo delle teorie di complotto nelle scuole di Francia.
Un anno fa, uno studio del think tank britannico Counterpoint suggeriva che la metà dei francesi crede alle idee di cospirazione. Oggi Le Monde ha compiuto un viaggio nella scuola della République, e lo ha significativamente intitolato «Maturità, indirizzo complotto»: se i politici tradizionali perdono prestigio e credibilità, lo stesso accade a insegnanti e media. La Storia, in quanto «ufficiale», non può dire la verità. Giornali e tv, in quanto espressione del «sistema», non sono mai attendibili. E quindi tanti ragazzi francesi che presto passeranno il Bac, esame simile alla Maturità italiana, preferiscono pensare che il mondo è stato, è e sarà retto dagli Illuminati.
Ripescati da Dan Brown, immessi nella cultura popolare dal «Codice da Vinci», gli Illuminati sarebbero gli adepti di una società segreta fondata in Baviera nel Settecento con lo scopo di affidare il mondo al governo occulto di una élite di plutocrati senza patria. Nella declinazione oggi in voga nei movimenti populisti europei e secondo l’inchiesta di Le Monde nelle scuole francesi, gli Illuminati sono indistintamente quelli che si ritrovano a Bilderberg, che mettono in scena l’inesistente conquista della Luna o organizzano l’11 settembre; sono quelli che in passato hanno lucrato sulla tratta degli schiavi e adesso tengono nascosta la cura del cancro, quelli che piazzano microchip sotto-pelle o fanno sparire il volo MH370 delle Malaysian Airlines.
Nel 2002 Thierry Meyssan -un francese -ha scritto «L’incredibile menzogna-Nessun aereo è caduto sul Pentagono» (edito in Italia da Fandango), bestseller mondiale e pietra miliare della letteratura cospirazionista. Oggi i suoi connazionali, amici ed eredi spirituali, sono il comico antisemita Dieudonné e il suo ideologo Alain Soral, fondatore del movimento «Égalité & Réconciliation» che predica la riconciliazione tra le frange a suo dire ugualmente sfruttate della popolazione, francesi cattolici e musulmani uniti contro i miliardari ebrei e i burocrati di Bruxelles.
Tanti ragazzi non conoscono questi deliri. Si accontentano di guardare i video di Katy Perry o Rihanna alla ricerca di riferimenti subliminali agli Illuminati, dove la «umbrella» della canzone è la cupola segreta che governa il mondo, o comprano le magliette del marchio Ünkut fondato dal rapper francese Booba che strizza l’occhio alla subcultura cospirazionista.
Benedicte G., professoressa di francese, storia e geografia in un liceo professionale di Nanterre, racconta: «I miei allievi mi hanno chiamato più di una volta Illuminati, l’ultima perché avevo una collana con un triangolo, è grottesco». Al di là del folklore, «molti sentono di essere presi in trappola da un sapere che l’élite vorrebbe imporre loro e noi, in quanto insegnanti e detentori di autorità, siamo i rappresentanti di questa élite (..). Credere che i media, i politici, i loro professori mentano, li deresponsabilizza. Se ne infischiano del loro avvenire, perché tanto secondo loro tutti dicono menzogne».
Non sarà la prima volta che degli adolescenti coltivano quel dolce nichilismo che porta a sentirsi soli contro il mondo ostile. La novità forse sta nel fatto che oggi questi sentimenti sono poi coltivati e canalizzati da partiti politici che fanno dall’avversione generica alle élite e al sistema la loro ragion d’essere. Altro che il rock e i presunti messaggi satanici di un tempo: la contro-cultura oggi comincia con gli Illuminati sui banchi di scuola, e finisce nei Parlamenti.

La Repubblica R2 23.04.14
Gli illuminati
Chi governa il mondo? “Una setta globale dove convivono Rihanna e Le Pen. Loro ci manipolano con messaggi subliminali su YouTube”
Un complotto internazionale l’ultima ossessione nei licei francesi
di Elisa Mignot


PARIGI. ARRIVANO con il contagocce alla riunione del seminario di lettura dei giornali. In questo liceo situato nella parte orientale del dipartimento Seine-Saint-Denis, banlieue parigina, sono una quindicina, soprattutto ragazze, gli studenti che seguono questo laboratorio. Quando chiedo se hanno sentito parlare degli Illuminati, l’ultima moda dei licei francesi, rispondono in coro: «Certo!». E attaccano: «Io ho sentito che era una specie di setta composta per lo più da personaggi importanti che hanno firmato un patto con il diavolo. Sembra che ci manipolino». Un altro liceale aggiunge: «Sì, vogliono dirigere il mondo».
Dove ne hanno sentito parlare? «Su Internet! ». Ci credono? «Io no», «Io neanche. Ma c’è lei che è super esperta». «Sì, io ci credo davvero », ammette una studentessa dell’ultimo anno. «Ho visto dei video su YouTube. Ci sono dei segni sui dollari americani, sugli imballaggi del Kit-Kat, e poi ci sono gli attentati dell’11 settembre». Si inserisce un ragazzo:
«E ne parlano anche in film come Paranormal Activity 4 ». «Ci manipolano attraverso le canzoni, i film, con messaggi subliminali», ipotizza un’altra studentessa. «Io ho smesso di guardare i videoclip dove ci sono i simboli degli Illuminati, come l’occhio, il triangolo…». E chi è che farebbe parte degli Illuminati? «Obama»; «Anche Sarkozy»; «E Jay Z, Rihanna, Beyoncé, Lady Gaga, Kanye West…»; «Anche Le Pen». «Rihanna e Le Pen!», esclama la loro professoressa, Stéphanie P. «Vorrei vederli quando si incontrano!».
La campanella suona per la seconda volta. I liceali restano ancora un momento intorno alla tavola rotonda, piuttosto intrigati dal fatto che l’argomento sia stato evocato ufficialmente. Di solito la loro professoressa di storia e geografia cerca di limitare le discussioni al riguardo. Da un po’ di tempo le sue lezioni sono regolarmente interrotte dall’immancabile «Ma signora, è colpa degli Illuminati!». Che si tratti degli attentati dell’11 settembre 2001 o della carenza di infrastrutture in Mauritania, della schiavitù o della povertà nel mondo, il nome di questa presunta setta viene brandito come spiegazione suprema.
In origine gli Illuminati, detti anche «Illuminati di Baviera», erano una società filosofica nata nel 1776 in Germania, che si richiamava alle idee dell’Illuminismo e predicava un governo mondiale guidato da élite intellettuali mosse da ideali umanistici. La società fu messa al bando nel 1784, ma il suo spettro è perdurato in una letteratura più o meno segreta. Gli Illuminati si sono immischiati nel XXI secolo grazie a libri di fantascienza come i bestseller di Dan Brown, giochi di società, videogame e blog a mai finire. Presso una frangia della gioventù francese hanno trovato un terreno propizio al loro sviluppo. Impossibile quantificare il fenomeno, dato che a tutt’oggi nessuno ha condotto studi di alcun genere al riguardo. Ma sono tanti i professori che non battono ciglio quando chiedi se i loro allievi menzionano questi illuminati. La Missione interministeriale di vigilanza e lotta contro le derive settarie dice di essere «attenta e preoccupata». È stata interpellata da genitori inquieti, ma non può avviare un’inchiesta perché non ci sono né santoni né pratiche né luoghi di culto.
«I miei studenti mi hanno tacciato più volte di far parte degli Illuminati! L’ultima volta perché avevo una collana con un triangolo, che sarebbe un simbolo della setta. È grottesco », racconta Bénédicte G., professoressa di francese e di storia e geografia in un istituto professionale di Nanterre. Come la moda del satanismo o dello spiritismo negli anni 90 e negli anni 2000, questo «illuminatismo» risponde a un desiderio di cercare spiegazioni esoteriche a un’età in cui è naturale mettere in discussione il mondo nel quale si cresce. «Ma è la loro convinzione che mi spaventa», prosegue Bénédicte G. Come lei, anche altri insegnanti osservano che il pubblico più permeabile a queste tesi complottiste spesso è rappresentato da giovani provenienti da ambienti disagiati. È nelle zone a istruzione prioritaria e nelle scuole professionali che i professori sembrano più preoccupati. «Con gli Illuminati », dice Bénédicte G, «ognuno difende la sua sofferenza. Per alcuni sono responsabili della schiavitù, per altri del conflitto israelo-palestinese. È come una rivincita su questa società che vedono come ingiusta».
Pierre-André Taguieff, che ha scritto La Foire aux illuminés (Mille et une nuits, 2005), insiste sul lato plastico e pratico di questa teoria. «La narrazione degli Illuminati ci dà l’impressione di conoscere la causa delle nostre sventure», sottolinea. «Per dei giovani che si sentono vittime, questa grande narrazione esplicativa onnipotente esercita una grande attrattiva: hanno trovato i loro colpevoli. Gli Illuminati inglobano i capitalisti, i massoni, gli ebrei, i monarchi, le cerchie di uomini politici, le società pseudosegrete, la finanza internazionale, i banchieri e così via».
Ecco l’aspetto forse più inquietante: la parola «Illuminati» è spesso seguita da affermazioni antisemite e negazioniste. «Questi giovani si fanno la loro cultura storica sul Web e si imbattono in video che gli spiegano il mondo in venti minuti con tanto di buoni e di cattivi», osserva Rudy Reichstadt, direttore del sito Conspiracy Watch, un osservatorio sulle teorie del complotto. «L’effetto può essere molto gratificante per giovani che vanno male a scuola, in questo modo acquisiscono un discorso politico proprio». Secondo Reichstadt, c’è un grosso lavoro da portare avanti sull’apprendimento (in particolare della storia) e anche sullo status delle informazioni che si raccolgono sulla Rete. «Abbiamo a che fare con una generazione che a volte fatica a distinguere le fonti affidabili dalle altre. Per esempio tendono a prendere per oro colato tutto quello che leggono su Wikipedia, qualunque sia l’argomento!», dice desolato.
Stéphane François, frequentemente citato su Conspiracy Watch, studia le destre radicali. Per lui il fenomeno, anche se sembra essere appannaggio di una gioventù depoliticizzata, non è scollegato da una sfera politicamente ben precisa. «Questi discorsi sono molto influenzati da personaggi come Dieudonné e Alain Soral», osserva il politologo. «I miei studenti non hanno letto Soral, ma lo hanno visto su internet!». Questo ideologo di estrema destra, molto vicino al comico condannato per antisemitismo, sostiene che il mondo è dominato da un’oligarchia finanziario- americano-israeliana che chiama «l’impero». Gli Illuminati sono una versione semplificata, più abbordabile per i giovani? «Soral non parla propriamente degli Illuminati, ma come altri imprenditori del complotto, riprende i codici di questa controcultura », osserva Rudy Reichstadt. «Oggi il cospirazionismo non è solo un’ideologia, è anche un business». (Le Monde/la Repubblica Traduzione Fabio Galimberti)

La Repubblica 23.04.14
“Ritrovato su eBay il dizionario usato da William Shakespeare”


DUE librai antiquari di New York, Daniel Wechsler e George Koppelman, sostengono di avere ritrovato, grazie a eBay, il vocabolario della lingua inglese utilizzato da William Shakespeare. Lo avrebbero acquistato sul sito di aste per 4.050 dollari nel 2008, quando non c’era alcuna certezza che Alvearie or Quadruple Dictionarie , questo il titolo del libro firmato da John Baret e stampato a Londra nel 1580, fosse stato realmente sfogliato dal Bardo. La loro è stata una intuizione che hanno cercato di confermare consultando i maggiori specialisti di Shakespeare nel mondo. Dopo sei anni l’annuncio: alcune note e le lettere S e W trovate tra le pagine confermerebbero il possesso dell’esemplare da parte del poeta. La storia del ritrovamento è raccontata dai due antiquari nel libro Shakespeare’s Beehive: An Annotated Elizabethan Dictionary Comes to Light , che esce oggi, 450esimo anniversario della sua nascita, in America in edizione limitata (75 dollari a copia). La storia è raccontata anche da Adam Gopnik sul nuovo numero della rivista The New Yorker.

La Repubblica R2 23.04.14
Caro soldato di Macondo hai combattuto la mia guerra
“Il più grande di tutti noi” Salman Rushdie ricorda Gabriel García Márquez
di Salman Rushdie


Gabo vive. La straordinaria risonanza che ha avuto in tutto il mondo la morte di Gabriel Garcí a Márquez e il cordoglio sincero provato dai lettori di ogni Paese alla notizia della sua dipartita sono il segnale che i libri di Gabo sono più vivi che mai. Da qualche parte c’è ancora un «patriarca» dittatoriale che fa cucinare e servire il suo rivale in una cena sontuosa per i suoi invitati, un vecchio colonnello che aspetta una lettera che non arriva, una bellissima ragazza fatta prostituire dalla nonna senza cuore e un patriarca più gentile, José Arcadio Buendía, uno dei fondatori del nuovo insediamento di Macondo, un uomo interessato alla scienza e all’alchimia, che dichiara alla moglie inorridita che «la terra è rotonda come un’arancia».
Viviamo in un’epoca di mondi alternativi, di fantasia: la Terra di Mezzo di Tolkien, la Hogwart di J. K. Rowling, l’universo distopico di The Hunger Games, i mondi dove vampiri e zombie si aggirano in cerca di prede. È un momento d’oro per posti del genere. Ma a dispetto di questa moda della narrativa fantastica, nei più raffinati microcosmi immaginari della letteratura c’è più verità che fantasia: nella Yoknapatawpha di William Faulkner, nella Malgudi di R. K. Narayan e naturalmente nella Macondo di Gabriel García Márquez, l’immaginazione è usata per arricchire la realtà, non per fuggire da essa.
Cent’anni di solitudine è uscito ormai 47 anni fa, e nonostante continui a godere di una popolarità in generale smisurata e persistente, il suo stile - il realismo magico - in America Latina ha lasciato il posto ad altre forme di narrazione, in parte per reazione allo smisurato successo di García Márquez. Il più stimato tra gli scrittori latinoamericani della nuova generazione, Roberto Bolaño, è famoso per aver dichiarato che il realismo magico «fa schifo» e per essersi fatto beffe della popolarità di García Márquez, definendolo «un uomo terribilmente compiaciuto di frequentare tutti quei presidenti e arcivescovi ». È stato uno scatto infantile da parte di Bolaño, ma ha dimostrato quanto sia ingombrante, per tanti scrittori latinoamericani, la presenza del colosso. («Ho la sensazione », mi ha detto una volta Carlos Fuentes, «che gli scrittori latinoamericani ormai non riescano più usare la parola “solitudine”, per paura che la gente pensi che stiano alludendo a Gabo. E temo», aveva aggiunto maliziosamente, «che ben presto non potremo più usare nemmeno la locuzione “Cent’anni” ».) Nessuno scrittore mondiale ha mai avuto un impatto paragonabile a quello di García Márquez nell’ultimo mezzo secolo. Ian McEwan ha giustamente paragonato la sua preminenza a quella di Charles Dickens: nessuno scrittore, dai tempi del maestro inglese, è mai stato tanto letto e tanto profondamente amato come Gabo.
Il problema dell’espressione «realismo magico» è che quando la si dice o la si sente dire, se ne dice o se ne sente soltanto metà, il magico, e non ci si cura dell’altra metà, il realismo. Ma se il realismo magico fosse solo realismo, non conterebbe nulla. Sarebbe una semplice stravaganza dove tutto può succedere e di conseguenza nulla lascia il segno. Il magico del realismo magico funziona perché le sue radici affondano in profondità nel reale, perché si alimenta del reale e vi getta luce in modi meravigliosi e inaspettati. Prendiamo questo famoso passaggio di Cent’anni di solitudine : «Non appena José Arcadio chiuse la porta della camera, lo scoppio di una pistolettata rimbombò nella casa. Un filo di sangue uscì da sotto la porta, attraversò la sala, uscì in strada, continuò in un percorso diretto lungo marciapiedi disuguali, scese scalinate e scalò parapetti, si lasciò dietro la Strada dei Turchi, girò a destra in una cantonata e a sinistra in un’altra, piegò ad angolo retto davanti alla casa dei Buendía, passò sotto la porta chiusa, attraversò il salotto buono strisciando lungo le pareti per non macchiare i tappeti […] e finì nella cucina dove Úrsula stava per rompere trentasei uova per fare il pane. “Ave Maria Purissima!” gridò Úrsula ». Qui sta succedendo qualcosa di assolutamente fantastico. Il sangue di un uomo morto acquista uno scopo, quasi una vita propria, e si muove metodicamente attraverso le strade di Macondo fino a fermarsi ai piedi di sua madre. Il comportamento del sangue è «impossibile », eppure a leggere questo brano si ha la sensazione di leggere qualcosa di veritiero, il viaggio del sangue come il viaggio della notizia della sua morte dalla stanza dove si era sparato alla cucina di sua madre, e il suo arrivo ai piedi della matriarca Úrsula Iguarán è alta tragedia: una madre apprende che suo figlio è morto. Il sangue di José Arcadio può e deve continuare a vivere finché non riesce a portare a Úrsula la triste notizia. Il reale, grazie all’aggiunta delmagico, guadagna forza drammatica ed emotiva. Diventa più reale, non meno reale.
Il realismo magico non è stata un’invenzione di García Márquez. Prima di lui sono venuti il brasiliano Machado de Assis, l’argentino Jorge Luis Borges e il messicano Juan Rulfo. García Márquez studiò attentamente il capolavoro di Rulfo, Pedro Páramo , e ha detto che ebbe su di lui un impatto paragonabile a quello della Metamorfosi di Kafka. (Nella città fantasma di Comala, in Pedro Páramo, è facile vedere il luogo di nascita della Macondo di García Márquez.) Ma lo ripeto: per volare la fantasia ha bisogno di avere un solido terreno sotto di sé. Io conoscevo i colonnelli e i generali di García Márquez, o almeno i loro corrispettivi indiani e pachistani; i suoi vescovi erano i miei mullah, le sue strade del mercato i miei bazar. Il suo mondo era il mio tradotto in spagnolo. È più che normale che me ne sia innamorato, non per la sua magia (anche se per uno scrittore cresciuto con le storie di meraviglie dell’Oriente anche questo elemento non era privo di fascino), ma per il suo realismo. La differenza era che il mio mondo era più urbano del suo: è la sensibilità del villaggio che dà al realismo di García Márquez quel suo sapore particolare, il villaggio dove la tecnologia spaventa, ma una ragazza devota assunta in cielo è perfettamente credibile, dove - come nei villaggi indiani - si crede che il miracoloso sia dovunque e coesista con il quotidiano.
García Márquez era un giornalista che non perdeva mai di vista i fatti. Era un sognatore che credeva nella verità dei sogni. Era anche uno scrittore ca- pace di momenti di una bellezza farneticante, e spesso comica. All’inizio dell’ Amore ai tempi del colera : «L’odore delle mandorle amare gli ricordava sempre il destino degli amori contrastati». Nel pieno dell’ Autunno del patriarca , dopo che il dittatore ha venduto il Caribbean agli americani, «se lo portarono via in pezzi numerati gli ingegneri nautici dell’ambasciatore Ewing per seminarlo lontano dagli uragani, nelle aurore di sangue dell’Arizona, se lo portarono via con tutto quello che aveva dentro, signor generale, col riflesso delle nostre città, coi nostri annegati timidi, coi nostri draghi dementi». E naturalmente, l’indimenticabile: «Il colonnello Aureliano Buendía promosse trentadue sollevazioni armate e le perse tutte. Ebbe diciassette figli maschi da diciassette donne diverse, che furono sterminati l’uno dopo l’altro in una sola notte, prima che il maggiore compisse trentacinque anni. Sfuggì a quattordici attentati, a settantatré imboscate e un plotone di esecuzione. Sopravvisse a una dose di stricnina nel caffè che sarebbe bastata ad ammazzare un cavallo».
Per tanta magnificenza l’unica reazione possibile è la gratitudine. È stato il più grande di tutti noi. Traduzione di Fabio Galimberti

La Repubblica R2 23.04.14
Malamud Ecce Homo americanus
Con Bellow e Roth ha fuso radici yiddish e romanzo. Ma è con lui che nasce l’eroismo del perdente
di Nadia Fusini


Se esiste un Jewish American Movement, chi è il suo maggior esponente? Saul Bellow, Philip Roth o Bernard Malamud? Non si tratta di decretare chi sia il più bravo dei tre, ma piuttosto di addentrarsi nella domanda metafisica per eccellenza: se e come si possa cogliere l’essenza di un’esperienza di parola, che s’è affermata nel mondo della letteratura grazie alla lingua americana e all’immaginazione ebraica. Perché non v’è dubbio che il grande romanzo americano del Novecento è stato fatto anche da Saul Bellow, da Philip Roth, da Bernard Malamud.
Se ne volete una prova, leggete il primo dei due Meridiani dedicato a quest’ultimo per l’ottima cura di Paolo Simonetti. Qual è l’emozione- Malamud? Accade con Malamud che la lingua americana e la tradizione yiddish si coniugano sbocciando in una immaginazione narrativa tra le più straordinarie al mondo. In altri termini, in Malamud si dimostra come la coscienza puritana e quella ebraica copulino, dando prova di straordinaria vitalità e di coinvolgente emozione per l’universalità dei lettori, siano essi ebrei o gentili. Perché alla fine - questa la tesi di Malamud - l’ebreo è simbolo di tutti gli uomini, ebreo è l’uomo che soffre. Di qui la sua inquietante affermazione: «Tutti gli uomini sono ebrei, solo che non lo sanno...».
I protagonisti dei romanzi di Malamud, o dei suoi racconti - meravigliosi in particolare quelli del Barile magico - sono uomini messi di fronte al dolore. Per lo più, che sia il fuoriclasse, il giovane di bottega, o l’uomo di Kiev, il protagonista desidera una nuova vita, una seconda chance. È questa l’avventura narrativa dell’ebreo askenazita che lascia i ghetti dell’est europeo; ed è anche il grande tema della letteratura americana, già inscritto nel Pilgrim’s Progress di Bunyan, capolavoro della letteratura puritana, dove l’autobiografia prende l’andamento allegorico di un viaggio dell’anima. Un viaggio spossante, perché per il puritano come per l’ebreo la naturale tendenza dell’uomo è al peccato, perché ebrei e puritani sono ossessionati dal peccato, perché un Dio tremendo, niente affatto conciliante, li giudica - un Dio che è quello di Giobbe. Non finisce però in tragedia; piuttosto, secondo una tradizione propria della letteratura americana delle origini tragico e comico si mescolano. È un gusto che i pellegrini puritani derivano dal realismo shakespeariano, a cui la tradizione yiddish aggiunge i toni speziati del folklore.
L’ homo americanus mai si presenta con gli orpelli dell’eroe: è sempre “popolo”, e sempre anche un poco schlemiel, per usare categorie ebraiche - un anti-eroe in tutti i sensi. Ride di sé, mentre piange; lo protegge dalla dolorosa realtà un umorismo perverso, che nel contrasto tra ideale e reale si rivela come il più elaborato sistema di difesa a disposizione dell’uomo. È così in Malamud, il cui anti-eroe vive il contrasto tra l’altezza dei propri ideali e l’ignominia dei propri fallimenti: vorrebbe progredire, ma cozza contro la realtà. Continua ostinato a combattere, sempre più simile, piuttosto che a Prometeo, a un goffo Charlot che continua a non uscire dalla porta, a rompere i vetri della finestra... È qui che Malamud s’intona a un certo cinema americano con le sue gag indimenticabili.
Giovani pieni di speranze e talento vanno dunque in cerca di una nuova vita, ma la ricerca fallisce, a meno che non prenda una trasformazione interiore, e non volga, come nel caso dell’ uomo di Kiev, in vera e propria metanoia, o conversione. Se tremendo, secondo Simone Weil, è il dolore che non trasforma, nel caso di Yakov Bok il miracolo accade: il dolore dà senso alla sua esistenza martoriata. In questo senso L’uomo di Kiev è un grande romanzo di redenzione. E sempre in questo senso in esso più che in altri brilla una scintilla messianica.
A dimostrazione dell’aura che circonda il romanzo, nella stessa traduzione di Ida Omboni, L’uomo di Kiev viene ripubblicato da Minimum Fax, presentato dallo scrittore Alessandro Piperno. Un particolare interessante: nell’edizione del Meridiano alcuni titoli vengono «aggiustati», nella volontà di portarci più vicino all’originale. Per evidente impossibilità di evocare tutte le sfumature di quell’appellativo, the fixer, grazie al quale a Yakov Bok è attribuito il potere di “fissare” le cose, il titolo originale, bellissimo, in italiano resta L’uomo di Kiev . Anche così, nel fallimento di trasportare all’italiano quel termine, misuriamo la complessità della lezione del maestro Malamud, il cui dettato realistico sempre vira verso una dimensione allegorica.
L’uomo di Kiev prende a tema un fatto di cronaca: l’ondata di antisemitismo che si scatenò contro Mendel Beilis, ebreo ucraino accusato dalle autorità zariste di aver ucciso un bambino per scopi rituali, assolto al processo. Significativamente, però, Malamud non ci porta fino al processo; ci racconta un calvario, durante il quale la libertà è conquistata giorno dopo giorno nella resistenza al dolore. Anche se nella costituzione americana la felicità è promessa, nella vita quotidiana essa è negata alla moltitudine dei suoi cittadini. «Se vivi soffri, « commenta Yakov. Ma certi soffrono di più; ecco che cosa significa «essere ebreo».
«Lei è forse ebreo?», chiede Manischewitz a Alexander Levine ne L’angelo Levine . «Willingly», quello risponde: «Di buon grado»... È una risposta spiazzante, che induce nel primo un dubbio: «Non è più ebreo?». Si può forse smettere di «essere ebreo»? Adottare una flessibilità rispetto a quel dato dell’esistenza? O si tratta di imparare l’ amor fati? E in esso accogliere il singolare dolore di quell’uomo universale che è il personaggio di Malamud?

Corsera 23.04.14
Le tre età del libro: il testo continua a sfidare ottimisti e apocalittici
Dal manoscritto all’ebook: la creatività degli uomini si accende sempre con i grandi cambiamenti tecnologici
di Paolo Di Stefano


Diciamolo pure, la tentazione, trovandosi tra le mani il Libro di Gian Arturo Ferrari e scorrendone rapidamente l’indice, è quella di andare subito alle conclusioni, per capire che cosa ne dice del futuro del libro un conoscitore di lungo corso come Ferrari, che dopo l’esordio in redazione alla Boringhieri ha diretto la Rizzoli e per un paio di decenni la Mondadori fino a diventare l’uomo più influente dell’editoria italiana. Tentazione a cui vale la pena resistere, perché il discorso sul libro si sviluppa in modo tale che le conclusioni emergano lentamente dalle premesse storiche. Non una storia del libro, però: Ferrari ci tiene a precisarlo, «questa non è una storia del libro, ma una riflessione su alcuni suoi aspetti, ovvi e meno ovvi». Diciamo che in genere gli aspetti che potrebbero apparire ovvi Ferrari li discute, li capovolge, li mostra in una luce inattesa. Non c’è niente di più discusso (male) e (pre)giudicato del mondo del libro. E se ognuno si sente autorizzato a dire la sua, Ferrari insegna a diffidare degli apocalittici e degli ottimisti, dei nostalgici e degli entusiasti, di categorie come Bene e Male applicate al passato, al presente e al futuro dell’editoria.
Risalire alle origini non è un capriccio archeologico, ma la premessa per cogliere, senza paraocchi, le sfumature dell’oggi. Ferrari individua, nel corso della storia, tre svolte, che producono altrettanti Libri: il libro manoscritto, il libro a stampa e il libro digitale. È una storia che parte con la metafora del mosaico e con la stessa immagine, curiosamente, si chiude, per ripartire: «Il libro non è un’invenzione come la macchina a vapore o il telefono, qualcosa che prima non c’era e dopo c’è (...). È piuttosto un mosaico che si compone nel tempo e in cui ogni nuova tessera non soltanto aggiunge qualcosa, ma cambia il disegno d’insieme, la figura complessiva. A partire con la prima e ineludibile tessera, che è la scrittura». Le figure degli scribi, dell’autore, del lettore, infine (attorno al 500 a.C.) del libro ne sono alcune delle tante conseguenze. L’argomentazione, stringente e insieme molto colloquiale di Ferrari, coglie da subito alcune opposizioni che percorrono i secoli per non dire i millenni, e che si ritrovano ancora intatte ai nostri giorni. Si potrebbe leggere il Libro seguendo queste polarizzazioni: testualità-libro, immagine-scrittura, fisicità o pesantezza-leggerezza, contenuto-forma, lentezza-velocità, totalità-parzialità, alto-basso, originale-copia, cultura-business... Sono binomi su cui ancora oggi si dibatte, schierandosi su un fronte o sull’altro, come paladini del Bene e del Male, ma che sono insiti da sempre nella trasmissione della cultura, sin da quando il testo non si era ancora profilato come libro («possono esistere civiltà testuali senza libri»).
Il Libro è pieno di sorprese: per esempio, quando si scopre che la prima scrittura, indecifrata, che nasce con i logogrammi nella città sumera di Uruk (tra il 3259 e il 3100 a.C.), è ispirata da esigenze contabili e amministrative e dalla necessità di archiviazione: «Duole dirlo, ma la culla della nostra cultura è stata un magazzino». Il che offre la possibilità di ricordare che tutt’oggi circa metà del mercato mondiale è fatto di libri «per necessità»: repertori, elenchi matematici, depositi di informazioni, enciclopedie, leggi... Anzi, è questo il business migliore. Ferrari si guarda bene dal cadere nel tranello comune che è l’effetto metonimia, cioè la tendenza a confondere la parte per il tutto, avvertendo che il libro non si inaugura con la stampa. E poi: ovvio che non è solo il romanzo, ma una galassia testuale declinata in varie vesti e in molteplici generi e sottogeneri. E da buon filosofo della scienza qual è, si sofferma sugli aspetti tecnici: sul passaggio dal papiro alla pergamena e dalla pergamena alla carta, con i relativi aggiustamenti e gli effetti stimolanti che queste svolte e invenzioni hanno comportato. L’introduzione della scrittura alfabetica in Grecia produce una grande fioritura di «pre libri o libri che dir si voglia»: così dopo la metà del Quattrocento l’avvento della stampa (il cui segreto è essenzialmente nelle «arti del metallo») provocherà una diffusione enorme di libri; simmetricamente l’era digitale registrerà una moltiplicazione testuale, «più di post libri verrebbe da dire che di libri veri e propri».
Nessuna meraviglia, insomma, la creatività degli uomini si accende sempre in coincidenza con i grandi cambiamenti tecnologici. Intanto, va detto che nel millennio che separa la tarda antichità dalla comparsa della stampa il libro da «immoto deposito di sapere» diventa «una cosa viva, vitale (...), che partecipa, si muove e interagisce con la vita degli uomini, con le loro intenzioni, con le loro passioni, con il loro modo d’essere». Oggetto che trasmette affetti, sentimenti, emozioni. Non è strano, dunque, che si carichi di valori che lo distinguono da altri oggetti di consumo, fino a cadere nelle grinfie di ardenti agiografi. Il Libro è un libro di sottili passaggi, per esempio quelli che appartengono alla seconda fase (della stampa), dove si impone, con la copiatura (in poco tempo) potenzialmente illimitata, il trasferimento del testo in un nuovo mezzo, vera e propria svolta che fa rinascere il libro immettendolo nella sfera degli oggetti, delle merci. E dividendo il mondo della cultura tra editi e inediti, con le conseguenze (anche psicologiche) che conosciamo. Nascono il tipografo, il libraio, soprattutto l’editore, la figura più innovativa, cui spetta il compito di scegliere, di investire e di pubblicare, regalando prestigio al «suo» autore. E si afferma quello che Ferrari chiama il «pathos della novità». Il meglio non è più nel prima, ma nel futuro: presupposto dell’editoria industriale moderna, che dirotterà l’attenzione dalla cerchia ristretta di un lettore più o meno identificabile a priori alla dimensione indifferenziata del mercato. Con lo spostamento coassiale dal valore-autore al valore-fruitore.
Siamo già arrivati, facendo a piè pari brutali salti da gigante, al più recente campo di «tensioni» in cui il libro vive (sopravvive, anzi sopravviveva) in difficile equilibrio tra spinte e controspinte. Sempre di opposizioni si tratta, se si pensa al libro come creatura ibrida ispirata al contempo da una aspirazione ideale e da una urgenza economica: Dio e Mammona insieme, una specie di mostro guidato dall’imperativo di vendere l’anima a tutti i costi. Con il definitivo trionfo di Mammona, l’editore diventa l’anello debole della catena, la selezione cede alle richieste del marketing, che vorrebbe replicare all’infinito i successi, e per di più a breve termine. Una fenomenologia che ben conosciamo, ma che Ferrari illustra con occhio scientifico, non senza qualche punta amara: per esempio laddove segnala il tramonto della grande casa editrice come orchestra, il cui direttore (l’editore) detta (dettava) i tempi.
«I libri hanno costituito l’impalcatura dell’interiorità degli uomini, li hanno prima attratti e poi costretti a una mimesi che si trasformava in autocostruzione», scrive Ferrari. Che cosa ne rimarrà nel nuovo mondo digitale? L’ideologia totalizzante (totalitaria?) della rete -con la sua «utopia concreta», l’orizzontalità, l’ambizione monopolistica, la negazione della professionalità, l’abolizione del diritto d’autore, la pretesa della non-selezione -si oppone a tutto ciò che il libro ha rappresentato. Quale futuro, dunque? Niente catastrofismi. Non più libri, fisicamente riconoscibili come tali, ma «forme testuali» dai molteplici futuri. Qualche ipotesi in breve? L’editoria scientifica e professionale è già consegnata al digitale, ha realizzato la disgregazione dell’unità del libro tradizionale: dunque, «non più libri ma un mix di prodotti», di servizi ad alto livello, di informazioni in aggiornamento perpetuo. È qui il grande business. Un gradino più in basso -ma con enormi prospettive di sviluppo proporzionate alle speranze di un boom dell’alfabetizzazione mondiale -c’è il cosiddetto educational (l’istruzione primaria, secondaria e universitaria), non del tutto globale ma «localizzato» nei diversi Stati: un’editoria «plurinazionale» destinata a trovare il veicolo migliore nell’ebook educativo, il vero «strumento di emancipazione dall’ignoranza». Saranno i Paesi emergenti le culle dei nativi digitali, secondo Ferrari. La varia, intesa come saggistica e fiction, sarà l’ultima barriera del libro-libro di carta, identificato come status dal passato glorioso. Ma non sempre e non per sempre: già i cosiddetti «libroidi» vivono una vita ibrida. La saggistica sperimenterà interessanti formule tra scrittura e multimedialità. Per i romanzi (di qualità) sarà l’addio più lungo: la libreria tradizionale conserva ancora il fascino della scoperta. Difficile che gli algoritmi facciano innamorare il lettore forte come gli scaffali di un bel negozio. Il mosaico si è infranto, ne nascerà un caleidoscopio, in cui quel «gesto di ottimismo e di fiducia che è in sé il libro» troverà una sua (marginale) collocazione: «Il libro è uno scambio del meglio che abbiamo e che riceviamo. Il libro è un dono».

Corsera 23.04.14
Genio della matematica dopo un trauma L’uomo che disegna a mano i frattali
Ex patito di body building, una rissa in un bar gli ha cambiato la vita
di Anna Meldolesi


La missione di Jason Padgett nella vita era divertirsi. Gonfiare i bicipiti, scolpirsi i capelli col gel, tirare tardi nei bar. Poi improvvisamente tutto è cambiato. Nella mente di questo trentunenne americano allergico ai libri si è acceso un sesto senso per la matematica. La chiamano sindrome da savantismo acquisito e si calcola che in tutto il mondo esistano solo una quarantina di persone che ne sono state colpite. Nel caso di Jason il verbo colpire è particolarmente azzeccato: l’evento che lo ha trasformato è stata una spietata sequenza di pugni alla testa sferrati da un paio di sconosciuti in un locale notturno. Il ragazzo è caduto a terra, ha perso i sensi e quando si è ripreso ogni cosa aveva iniziato a splendere di una luce strana.
L’incredibile storia del body-builder tramutato in cervellone viene raccontata in un libro appena pubblicato oltreoceano. Titolo: «Struck by genius», che è come dire fulminato dal genio. Sottotitolo: «Come un trauma cerebrale mi ha reso un prodigio della matematica». Lo firma lo stesso Padgett insieme a Maureen Seaberg, la scrittrice che lo ha convinto a sottoporsi ai test medici che hanno confermato le sue nuove capacità. Ma è possibile che la nostra testa sia come uno di quei vecchi apparecchi elettronici che funzionavano meglio dopo aver preso una botta?
Quel che sappiamo è che Padgett ha abbandonato il college perché non gli piaceva studiare ma era tutt’altro che stupido. Prima dell’aggressione di 12 anni fa era esibizionista, socievole e spensierato. Dopo è diventato introverso e fobico, ossessionato dai germi. Ma gli è successo anche qualcosa di straordinario. I suoi sensi si sono fusi. I movimenti sono diventati fotogrammi e tracce luminose colorate. Oggi vede poligoni ovunque. La panna versata nel caffè del mattino disegna una spirale. Le foglie degli alberi sono teoremi di Pitagora. La luce riflessa è un inno al pi greco. Jason ha la rarissima dote di saper disegnare a mano i frattali, affascinanti figure che restano uguali anche osservate con la lente di ingrandimento, perché si ripetono allo stesso modo su scale diverse. E per capire l’universo che gli si è spalancato davanti, alla fine si è messo a studiare fisica e matematica. A certificare la sua sindrome è arrivato Darold Treffert, il più grande specialista di quelli che nell’800 venivano chiamati «idiot savant». Persone non istruite, spesso portatrici di qualche deficit intellettivo, e tuttavia capaci di eseguire calcoli difficilissimi o di ripetere interi libri al contrario. Secondo Treffert il savantismo può essere congenito o acquisito, si presenta più spesso nei maschi che nelle femmine, in una significativa minoranza delle persone affette da autismo e in una minima frazione di quelle colpite da danni cerebrali o ritardo mentale. Le loro abilità sono meccaniche ma ci sembrano eccezionali perché normalmente potrebbero essere inibite da altre funzioni superiori. Forse traumi e anomalie possono rendere queste informazioni di basso livello più accessibili, forse il resto del cervello si attiva di più per compensare il deficit. Quanto a Jason, i test hanno individuato un danno all’emisfero cerebrale destro e una super attivazione del lobo parietale sinistro. La sua nuova vita, come quella di altri illustri pazienti che hanno fatto la storia delle neuroscienze, rappresenta una finestra aperta sulla plasticità del cervello, sulle diverse forme di intelligenza, sul potenziale umano. Ma è presto per concludere che in tutti noi c’è un genio assopito pronto a svegliarsi. E comunque se c’è assomiglia più al protagonista di Rain Man o a Pico della Mirandola che a Einstein.

La Stampa 23.4.14
La scienza dice che il boy scout se la gode più del libertino
Uno studio di scienziati americani sulle attività cerebrali dimostrerebbe che il comportamento etico ci gratifica più dell'edonismo.
di Gianluca Nicoletti

qui

La Repubblica R2 23.04.14
La differenza sessuale quell’istinto che ci fa scoprire l’altro
L’arcivescovo di Milano in un saggio indaga amore e libertà
di Angelo Scola


L’UNIVERSALISMO scientifico ha evacuato dalla fisionomia originaria dell’uomodonna e del matrimoniofamiglia ogni dimensione di mistero (nuziale) favorendo la rimozione della “differenza sessuale”. Questa affermazione risulta, forse, più comprensibile se si pone mente alla tesi che la differenza sessuale è, in se stessa, non rappresentabile, non deducibile, in una parola è insuperabile. È originaria
e costitutiva dell’uomo.
Un esame, anche rapido, della letteratura, porta a concludere che la riflessione sulla differenza, proprio perché tale, resta sostanzialmente ostica. O si tenta di strumentalizzarla alla lotta per l’emancipazione della donna, o vi si fa riferimento per abolirla, quasi a voler esorcizzare lo iato che ogni uomo in essa inesorabilmente incontra.
In particolare, si assiste all’escamotage di sostituire il binomio identità- differenza che, a mio parere, connota adeguatamente l’uomo-donna, con quello di uguaglianza-diversità. Questo secondo binomio, disinnescando la carica di mistero contenuta nel tremendum sotteso al primo, risulta del tutto innocuo. L’escamotage incomincia col far slittare il significato della differenza sessuale verso quello della diversità. Ci si illude così di scavalcare l’insuperabilità della differenza sessuale assimilandola a diversità di altra natura (etniche, religiose, professionali...) di cui ogni uomo fa normalmente esperienza.
Ma la differenza sessuale non è diversità. Questa ultima infatti ha a che fare per sua natura con la molteplicità e la pluralità. Come dice il suo etimo (di-vertere), la nozione di diversità può riferirsi esclusivamente alla relazione inter-individuale ed è del tutto estranea al rapporto identità differenza. L’etimo della categoria di differenza infatti (dif-ferre) suggerisce l’idea del “portare altrove lo stesso”, cambiandovi collocazione. Essa è quindi strutturalmente inerente all’identità, le appartiene. Non ha immediatamente a che fare con la molteplicità e con la pluralità, ma è rintracciabile nella persona: è anzitutto intra-individuale.
L’escamotage si prolunga, poi, nell’alterazione del concetto di identità surrettiziamente rimpiazzato da quello di eguaglianza. Ma un’identità siffatta diventa espressione di una forma inerte. Incapace di relazione con l’altro da sé perché privata dell’irriducibile individualità, può significare soltanto una mortale uniformità. Una volta che la differenza ha abbandonato il territorio della identità per omologarsi alla diversità, diventa impossibile pensare fino in fondo l’uomo-donna. E pensarlo in chiave adeguatamente personale, secondo il binomio identità-differenza.
La differenza sessuale - proprio perché in un certo senso porta l’alterità all’interno della persona stessa, mantenendola permanentemente nel suo statuto altro - è parte determinante dell’esperienza umana comune a tutti. Tuttavia la sua indeducibilità, la sua insuperabilità le toglie il carattere del già costituito; più che spiegare solleva interrogativi e costituisce una via privilegiata mediante la quale il singolo è introdotto alla realtà; possiede il carattere dell’evento e dell’incontro.
La differenza sessuale permette al singolo un accesso al reale che ha a che fare, in ultima analisi, con il compimento della sua libertà in termini di soddisfazione. Lo introduce in tal modo all’esperienza del bisogno, della domanda, del desiderio, del piacere e del godimento. Sono questi i termini nei quali l’umana libertà scopre e impara simultaneamente il suo essere in-sé, per-sé e, soprattutto, il suo essere per-l’altro cogliendo così la propria condizione di creatura. La differenza sessuale pertanto apre obiettivamente la strada all’amore, la cui pregnanza si incontra nella fecondità.

Repubblica 23.4.14
Battute al vetriolo e sbalzi di umore quei piccoli difetti dei due Papi santi
Gli scatti di Wojtyla, l’ironia di Roncalli i postulatori e le debolezze dietro le quinte
di Marco Ansaldo


CITTA’ DEL VATICANO Santi sì. Uno sùbito, bruciando le tappe burocratiche, e l’altro senza aver fatto il secondo miracolo necessario dopo la beatificazione. Però santi riconosciuti, senza ombra di dubbio. Ma quanta fatica tenerli a freno in vita, a volte, Angelo Roncalli e Karol Wojtyla. Perché, con tutta la devozione e il rispetto sacro per la loro imminente canonizzazione, i sommi Pontefici di Santa Romana Chiesa, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, erano anche uomini. E, come tutti gli esseri umani, Roncalli e Wojtyla, benché pazienti come Giobbe, erano soggetti a scatti d’umore e preferenze, conoscevano l’ira e l’astuzia, l’ironia e la battuta salace. Avevano, insomma, carattere. E degli umanissimi difetti. Delle impercettibili debolezze. E forse, proprio per questo, erano santi.
Ricordava ieri nella Sala stampa della Santa Sede lo stesso postulatore della causa di Giovanni Paolo II, monsignor Slawomir Oder, che il Grande polacco «aveva difetti come ogni uomo». E allora «non dobbiamo pensare che la santità sia come un pezzo d’oro che nasce fuori da un contesto. Anzi, la santità vera è proprio correggere i propri difetti ». Qualche esempio? «Certamente — prosegue il postulatore, nel cui ufficio vaticano le carte raccolte arrivano letteralmente fino al tetto — Karol Wojtyla era un uomo emotivo, sanguigno, effettivamente reagiva. Mi viene in mente qualche sua risposta più brusca, un episodio a Cracovia quando uno dei suoi sacerdoti gli creò problemi, allora gli disse di lasciargli lì la patente e di andare a casa a piedi, poi si pentì. E in uno dei viaggi da Papa — continua Oder guardando timido padre Federico Lombardi, il portavoce ufficiale che gli sta a fianco, dicendogli «non so se questo lei lo possa dire» — gli proposero di indossare il giubbotto antiproiettile perché ci potevano essere dei pericoli. Ma lui non volle perché aveva, disse, un altro tipo di protezione».
“Peccato”, quest’ultimo, certamente veniale. Ma chi di noi ha dimenticato quel filmato che mostra un Wojtyla già avanti con gli anni, eppure, appena sceso dalla scaletta dell’aereo, durissimo in volto e capace di inanellare una serie di espressioni non propriamente dolci, non si sa all’indirizzo di chi, di fronte a un contrito don Stanislao, il suo segretario personale? Racconta oggi Philip Pullella, corrispondente in Vaticano dell’agenzia di stampa Reuters e veterano dei voli papali che «un giorno Giovanni Paolo II si arrabbiò moltissimo per la domanda rivoltagli in viaggio da un giornalista, al punto che sembrava che l’intero aereo tremasse».
Non meno umani i difetti del Grande bergamasco. «Giovanni XXIII — racconta il frate Giovangiuseppe Califano, postulatore della causa di Roncalli — sapeva fare ironia di se stesso. C’è l’aneddoto di un vescovo il quale andò a dirgli che da quando aveva assunto la carica non riusciva più a dormire per i tanti pensieri. «Anche io mi trovavo nella stessa condizione », gli rispose Giovanni XXIII, «quando ero stato eletto Papa avevo tanti pensieri, poi ho sognato l’angelo custode che mi ha detto: “Angelo, non prenderti troppo sul serio”. Da allora ho dormito benissimo».
Ironia tagliente, ma paciosa. E fin qui è quello che raccontano i postulatori, piuttosto delicati, com’è ovvio, per il loro ruolo di presentatori della causa di canonizzazione. Ma scrive senza remore lo storico Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, nel suo libro appena uscito dall’editore San Paolo “L’uomo dell’incontro. Angelo Roncalli e la politica internazionale”, che uno dei difetti del Papa del Concilio Vaticano II era la buona tavola, e la convivialità. «Era un uomo — dice Riccardi — che amava invitare ospiti a tavola. Nei suoi diari annota continuamente: “Lo trattenni a pranzo”. Ma questo, in fondo, è un tratto anche evangelico, basti ricordare il banchetto del regno di Dio. Roncalli veniva considerato un “semplice”. Valutazione errata. La semplicità roncalliana è piuttosto chiarezza interiore. Il “semplice” Roncalli è un uomo di cultura, uno storico, che penetra in profondità i mondi in cui vive o che incontra».
Aggiunge Guido Gusso, aiutante di camera e autista del futuro Giovanni XXIII fin dagli anni in cui fu nominato patriarca di Venezia, che tra le sue battute pronte una un po’ più pungente fu quando era nunzio in Francia. A un ricevimento pubblico gli venne presentato il Rabbino Capo di Parigi, con il quale cominciò a conversare amabilmente. A un certo punto gli ospiti si mossero per andare nel salone. Il Rabbino invitò cortesemente il Nunzio a precederlo, mentre Roncalli senza scomporsi, sbalordì il suo interlocutore dicendo: «Prego, prima l’Antico Testamento... ». Ma diventerà il “Papa buono”. Difficile trovargli difetti più grandi.

La Stampa TuttoScienze23.4.14
Chi è psicopatico fa più carriera
Lo studio: la follia è spesso il motore di chi arriva ai vertici del potere, dalla finanza alla politica
di Maurilio Orbecchi


Avete mai incontrato una persona intelligente, affascinante, attenta, egocentrica, grandiosa, con tendenza alla noia, con continuo bisogno di stimoli, ma che non s’interessa al dolore, alla felicità, alle conquiste dell’umanità come vengono presentate nella scienza, nella letteratura e nell’arte? E che, soprattutto, è privo della capacità di accorgersi che gli altri soffrono o provano emozioni? Se avete incontrato una persona del genere, e vi ha ingannato, manipolato, e avete subito dei danni dall’incontro, ebbene, ci sono buone probabilità che abbiate incontrato uno psicopatico.
«Psicopatia» è un termine molto utilizzato dagli psichiatri per definire il disturbo mentale di persone prive di empatia e che non hanno il minimo scrupolo a utilizzare mezzi distruttivi per affermarsi. La sindrome non è inclusa nel «Dsm-5», il manuale internazionale di riferimento degli psichiatri. Una certa scuola di pensiero vorrebbe, infatti, farla coincidere con il disturbo antisociale di personalità. Questo, però, non include i «corporate psychopaths», gli psicopatici di successo che non compiono necessariamente azioni delittuose. Sono persone cresciute in ambienti favorevoli, che hanno potuto sviluppare una notevole competenza sociale e riescono a perseguire i loro fini manipolativi e distruttivi senza dare l’impressione di essere psicologicamente disturbati.
Gli psicopatici, infatti, non sono soltanto i serial killer o i mafiosi che uccidono i figli dei pentiti senza il minimo turbamento (o magari con piacere). La categoria più diffusa tra gli psicopatici si trova, semmai, tra le persone di potere, dalla politica alla finanza, fino all’industria.
Gli psicopatici sostengono che il mondo è fatto di predatori e prede e hanno un’affettività superficiale, ma sono in grado di disperarsi per il danno recato a una loro proprietà, come un incidente all’automobile o la morte del loro cane. Le alte capacità cognitive, di solito, permettono loro di sapere esattamente come devono comportarsi nelle situazioni sociali e, quindi, sono in grado di fingere di provare emozioni ed empatia in caso di sofferenze o problemi degli altri, facendosi così passare per normali. Quasi tutti gli individui affetti da psicopatia hanno presentato seri problemi comportamentali da bambini - come bullismo e vandalismo - spesso con genitori conniventi che li hanno protetti in modo simbiotico.
Jon Ronson è famoso per aver scritto il libro da cui è stato tratto il film «L’uomo che fissa le capre». Dopo aver partecipato a un corso di Robert Hare, considerato il maggiore specialista sul tema, conosciuto in Italia per aver pubblicato «La psicopatia» da Astrolabio, ha approfondito l’argomento e ha scritto un saggio - «Psicopatici al potere», Codice edizioni - nel quale intervista numerose persone affette proprio da questa sindrome: Emmanuel «Toto» Constant, per esempio, leader del gruppo paramilitare Fraph (il Fronte Rivoluzionario Armato per il Progresso di Haiti), creato per terrorizzare i sostenitori del presidente Jean-Bertrand Aristide, mandato in esilio. I membri del Fraph erano in grado di «asportare» la faccia agli oppositori, senza la minima pietà, o di dar fuoco alle loro case, facendo prima entrare le persone dentro (anche i bambini).
Ma i peggiori, secondo Robert Hare, sono gli psicopatici aziendali: «I serial killer rovinano famiglie - spiega - mentre gli psicopatici ai vertici dell’economia, dell’industria e della politica rovinano società intere». Gli psicopatici dal colletto bianco usano il fascino, l’inganno e la manipolazione perché amano il potere e amano vincere e questo significa che una gran parte di loro riuscirà a posizionarsi in cima alla scala sociale, con danni enormi per intere società. Insomma, Hare ritiene che i maggiori problemi dei sistemi politico-economici derivino proprio dal fatto che al potere ci vanno gli psicopatici, che sono così messi nella condizione di creare danni incalcolabili.
Non è difficile essere in buona parte d’accordo, pensando agli effetti rovinosi di certi personaggi ai vertici di banche, industrie o altri gangli vitali delle nazioni, se non addirittura leader di intere nazioni.

La Stampa TuttoScienze 23.4.14
John Harris, direttore dell’«Institute for Science, Ethics and Innovation» dell’Università di Manchester
“Non confondiamo valori e fatti o la libertà muore”
Perché la ricerca non può essere controllata I rischi potenziali possono essere soluzioni future
di Gabriele Beccaria


«Gli italiani devo fidarsi di più dei loro scienziati! Non dimenticate che avete una grande storia scientifica, non solo artistica». John Harris, direttore dell’«Institute for Science, Ethics and Innovation» dell’Università di Manchester, confessa di avere un debole per i monumenti e i cibi italiani e a Roma - al terzo incontro del Congresso mondiale per la libertà di ricerca scientifica organizzato dall’Associazione Coscioni - ha spiegato in che cosa sbagliano i suoi amici italiani, quando affrontano le sfide e i dilemmi della scienza. Titolo della lezione: «Esiste una scienza della moralità?».
Professore, in Italia molti sono rassegnati all’idea che la scienza generi scontri continui e insanabili. Esiste una soluzione?
«Penso che, se si vuole che l’opinione pubblica cambi idea ogni volta che sbaglia, sia fondamentale che la scienza diventi più comprensibile».
E gli scienziati devono impegnarsi di più, spiegando meglio le loro scoperte?
«Assolutamente sì. Prendiamo il caso degli embrioni e di cosa succede al loro interno. È un processo così sofisticato che non è plausibile credere - come molti fanno - che nelle fasi iniziali siano una mini-versione di noi e abbiano quindi gli stessi diritti di un individuo. La natura, infatti, è incredibilmente sprecona, visto il numero minimo di embrioni che diventano feti e bambini. Dio stesso butta via embrioni in proporzioni colossali! Solo se lo si capisce si disinnesca una forma sbagliata di reverenza. Più si comprende la scienza, più sappiamo quali valori applicare».
Quali sono questi valori?
«Iniziamo dalla distinzione tra moralità ed etica: la prima - detto in modo un po’ platonico - è la scienza del giusto e dello sbagliato, del bene e e del male, la seconda è lo studio di questa scienza. Sono quindi due realtà diverse, anche se per molti appaiono intercambiabili. Ed è a causa di questa confusione che si ritiene che il bene e il male e le questioni etiche siano solo questioni di valori: si assume che siano materia di opinioni e non di fatti. A Roma ho spiegato, invece, che ciò che è buono per la collettività è sempre basato sui fatti».
Quindi qual è la conclusione?
«La mia idea è che le proposizioni morali - i valori - sono come le affermazioni della scienza. Tendono a essere oggettive e quindi ben comprensibili».
Molti, però, ribatterebbero che si tratta di concetti di «bene» o di «male» diversi, a volte addirittura incompatibili: cosa risponde?
«Che non è così. Il mio concetto è che tutti sappiamo qual è questa differenza, come dimostra l’esperienza di allevare i figli. E, oltre gli individui, lo sanno - o dovrebbero saperlo - anche i governi, sebbene spesso tendiamo a dimenticarlo».
Purtroppo siamo lontani da questa chiarezza di idee: c’è bisogno di nuove regole?
«Non c’è dubbio che ci siano problemi su come gestire ciò che possiamo fare e su ciò che facciamo nel nome del “public interest”, l’interesse collettivo: ci sono cose “buone” per alcuni e non per altri. Non nego certo queste complicazioni. Ma i calcoli di valore che richiedono sono come i calcoli scientifici sulle variabili in gioco. E, invece, si tende a esagerare i toni e arriviamo a invocare gli scontri di principi, trascurando le priorità autenticamente razionali».
Com’è riuscita la Gran Bretagna a diventare un caso esemplare di gestione delle grandi questioni scientifiche, dalla sperimentazione sugli embrioni all’eutanasia?
«Abbiamo evoluto un sistema che ha alle spalle i terribili conflitti religiosi del passato e si basa su due principi che non tutte le nazioni hanno. Il primo è che non è consentito appellarsi a considerazioni di tipo settario. La conseguenza è che la Chiesa cattolica, a differenza di quanto accade in Italia, non ha titolo per dominare la discussione pubblica. Il secondo elemento è la predisposizione a instaurare lunghi e approfonditi dibattiti pubblici. Ci sono molti esempi».
Uno clamoroso?
«Pensiamo alla possibilità di riprogrammare le cellule della pelle in uova e spermatozoi: significa poter essere, allo stesso tempo, sia madre sia padre del proprio futuro figlio. È una prospettiva che fa paura, ma con applicazioni riproduttive davvero straordinarie. È anche un esempio di come la natura sia mutevole».
La libertà di ricerca dev’essere assoluta o no?
«Non si deve tentare di controllare la ricerca, ma, quando individua qualcosa di potenzialmente pericoloso, si deve regolarla meglio, il che significa capirla meglio, dato che la scienza può avere utilizzi e applicazioni multipli. Cancellare un settore di studio potrebbe significare anche eliminare soluzioni future, oltre che potenziali pericoli. La scienza è nata per soddisfare la curiosità della nostra specie. E io sono molto felice che siamo così curiosi. Ma la scienza - non dimentichiamolo - è anche ciò che ci permette di ridurre il male e accrescere il bene di cui parlavo all’inizio».