venerdì 25 aprile 2014

l’Unità 25.4.14
«Lasciateli annegare»
Su Left il piano contro Mare Nostrum
di Giovanni Maria Bellu


Questa settimana la copertina di left ha un titolo apparentemente brutale «Lasciateli annegare» che, però, non è altro che la sintesi di un movimento in atto tra l’Italia e il resto dell’Unione europea per interrompere l’operazione Mare Nostrum.
Nei giorni scorsi la Lega e Forza Italia ci hanno «messo la faccia» annunciando una mozione parlamentare per la cessazione della operazione di salvataggio avviata dopo la strage di Lampedusa. Ma in verità un lavorio finalizzato a questo risultato è in atto da tempo.
Se ne sono accorti per primi, un mese fa, il Consiglio italiano dei rifugiati
e l’Unhcr che hanno lanciato l’allarme. Senza avere alcuna risposta chiara. Perché, Lega e Forza Italia a parte, nessuno dice che Mare Nostrum deve finire. Anche se, contemporaneamente, il governo non è in grado di assicurare che andrà avanti fino al momento in cui saranno aperti dei corridoi umanitari per consentire a quanti hanno diritto all’asilo di raggiungere l’Europa legalmente e in condizioni di sicurezza.
Il lavorio consiste nel creare le «condizioni oggettive» per interrompere Mare Nostrum senza che nessuno debba assumersi la responsabilità politica della decisione. Left svela i contorni di un disegno elementare quanto ipocrita: l’operazione di salvataggio costa troppo, nove milioni al mese, ed è quasi totalmente a carico dell’Italia; gli altri Paesi europei (con la sola eccezione della Slovenia) non intendono dare alcun contributo economico.
Dunque: impossibile andare avanti. Ma può l’Europa essere, come dice il Trattato di Lisbona, «uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia» e nello stesso tempo ostacolare quanti vittime di persecuzioni e di guerre vorrebbero avere ospitalità in questo suo spazio? È ammissibile una simile divaricazione tra i valori proclamati e i comportamenti?
Evidentemente no: è anche possibile agire in modo coerente. C’è chi lo fa. Per dimostrarlo, in questo numero left ha una “contro-copertina”: è dedicata ad Antonio Mumolo, consigliere regionale del Pd in Emilia Romagna e presidente dell’Associazione Avvocato di strada che, da anni, assiste gratuitamente i senzatetto che hanno bisogno di assistenza legale.
Sono migliaia e il loro numero è destinato a crescere. Soprattutto se il Piano Casa del governo sarà approvato senza che venga corretta la norma che vieta la concessione della residenza agli occupanti abusivi.
Essere privi di residenza, come spiega Antonio Mumolo, è perdere la possibilità di accedere a diritti fondamentali, a partire da quello alla salute. E, in definitiva, ritrovarsi – ma da cittadini italiani in una condizione molto simile a quella dei migranti soccorsi da Mare Nostrum. Finché andrà avanti.

Repubblica 25.4.14
Democrazia e rappresentanza
Quale altra parola adoperare se non autoritarismo quando il Parlamento è minacciato di continuo di essere “mandato a casa”?
di Stefano Rodotà


DA ANNI è aperta una riflessione critica sulla democrazia che giunge fino a certificarne la sostanziale scomparsa. Parole nuove e vecchie s’intrecciano: postdemocrazia e controdemocrazia, iperdemocrazia e ultrademocrazia. Si indagano le ragioni che hanno dato origine a quello che Jacques Rancière ha definito «l’odio per la democrazia » o che, meno radicalmente, Carlo Galli chiama «il disagio» della democrazia.
È il tempo del disincanto? Certo è che oggi ben pochi sarebbero disposti a dire che «i mali della democrazia si curano con più democrazia», che è stata la bussola indicata da T. B. Smith agli americani e che, comunque, rimane un ammonimento a non abbandonarsi alle semplificazioni, a non cedere alla tentazione di liberarsi dei problemi impoverendo la democrazia, riducendola ad un involucro sempre più misero nei contenuti. La democrazia vittima del suo successo, dell’eccesso di domande che essa stessa produce, della contraddizione tra i suoi tempi distesi e l’imperiosa richiesta di velocità da parte di chi contempla solo il bene della decisione? Scarnificata dei diritti, sottomessa alla logica economica e finanziaria, sfidata dalla tecnologia, la democrazia sembra non reggere alla forza delle cose e cerca all’esterno una ragion d’essere che non ritrova più in se stessa. I tempi difficili suggerirebbero che non possiamo più permetterci i lussi della democrazia. E quindi via gli equilibri tra poteri bilanciati, riduzione d’ogni forma di controllo parlamentare o giudiziario, soprattutto fine dell’illusione rappresentativa. Da molto tempo sentiamo ripetere che le elezioni non servono per dare rappresentanza ai cittadini, ma per investire un governo. La democrazia “d’investitura” viene presentata come l’unica accettabile.
Ma proprio a questo punto s’incontrano paradossi e contraddizioni. Di fronte a noi stanno la rinnovata presa dei populismi, nei quali si manifesta pure una reazione alle pesanti chiusure oligarchiche, e le promesse della Rete, con la tecnologia elettronica presentata come un soccorso alla democrazia morente. Entrambe queste spinte concorrono nel corrodere la democrazia rappresentativa. E il paradosso sta nel fatto che, dietro l’enfasi posta sul trasferimento al popolo d’ogni potere, si scorge troppo spesso una nuova maniera per concentrarlo. L’astuzia tecno-populista sembra così indicare pure la strada per «sciogliere il popolo», secondo l’ironica espressione di Bertolt Brecht. O, almeno, per approdare ad una “democrazia senza popolo”, liberata da quei conflitti che pure sarebbero nella sua natura e che, esclusi dalla sfera istituzionale, si riproducono nella sfera sociale in modo virulento, incentivando interventi autoritari, in una spirale che logora gli stessi residui democratici.
Questi problemi non sono eludibili, perché la democrazia va certamente ripensata, come altre volte è storicamente avvenuto, in un contesto in cui i tradizionali mediatori sociali, i partiti di massa in primo luogo, scompaiono o devono fare i conti con un sistema informativo che non solo incide sulla comunicazione, ma sulle forme dell’organizzazione e della partecipazione dei cittadini. In Italia, peraltro, la discussione sulla democrazia rappresentativa non può essere scansata con una mossa infastidita, come un perditempo teorico, perché è stata rimessa al centro dell’attenzione dalla sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità del Porcellum , indicando nell’effettività della rappresentanza la condizione necessaria per la legittimità delle leggi elettorali.
Ma, affrontando il grande tema del rapporto tra democrazia e rappresentanza, la Corte ne ha giustamente allargato l’orizzonte. Nel luglio scorso, dunque ben prima della decisione sul Porcellum, in una sentenza originata da un ricorso della Fiom contro l’esclusione dei propri rappresentanti da parte della Fiat si è sottolineata l’essenzialità della garanzia della rappresentanza, non solo per i sindacati, ma per i singoli lavoratori. E, modificando un suo precedente orientamento, la Corte ha messo in evidenza un mutamento di contesto, determinato dalla fine dell’unità sindacale e dal moltiplicarsi dei sindacati, sottolineando così il nesso tra rappresentanza e pluralismo. Il principio di rappresentanza diviene così la misura della legittimità delle istituzioni e dell’agire sociale, e dovrebbe essere massimamente tenuto in considerazione quando si interviene su aspetti essenziali dell’ordine costituzionale. Ma la discussione in corso sta mostrando l’inadeguatezza culturale dei riformatori, che sembrano del tutto inconsapevoli degli effetti sul sistema delle loro proposte. E, come capita quando una cultura approssimativa si sente a disagio, e quindi non è in grado di discutere seriamente, si inventa un nemico esterno, il professore o il parlamentare indisciplinato, e si chiama conservatorismo quel che non si è in grado di comprendere.
Se si considera il punto d’avvio del progetto di riforma, il cosiddetto Italicum, diviene subito evidente la sua distanza dal quadro costituzionale, teso com’è a limitare la rappresentanza e a deprimere il pluralismo, oltre ogni giustificazione addotta in nome della governabilità. Tutto questo è frutto d’una logica politica che ha affidato la riforma elettorale all’inedito duo Renzi-Berlusconi, che hanno ritagliato un figurino sulle esigenze dei loro partiti. Scelta palesemente strumentale e fragile, tanto che quel patto già vacilla per il timore di un crollo elettorale di Forza Italia e di una ascesa al secondo posto del Movimento 5Stelle. Ma rimane una sostanza fatta di accentramento di poteri nel Governo, di riduzione del ruolo della Camera dei deputati che, già svuotata dalla sua mancanza di rappresentatività, viene configurata come luogo di ratifica delle decisioni governative. E tutto questo incide sul complesso delle garanzie riguardanti i diritti dei cittadini.
La conclusione è una curvatura autoritaria del sistema. La parola può sconcertare, ma oggi viviamo tempi in cui l’autoritarismo non passa per i metodi aggressivi conosciuti in passato. E quale altra parola adoperare quando il Parlamento, già espropriato dell’iniziativa in una materia che lo vorrebbe protagonista, è continuamente minacciato d’essere “mandato a casa” se non vota docilmente testi elaborati fuori d’ogni vera procedura democratica (e della grammatica costituzionale)?
Una riforma consapevole delle attuali difficoltà della democrazia dovrebbe contemplare l’orizzonte più largo in cui questa ormai si pone, e muovere da un doppio ripensamento della rappresentanza: nel suo rapporto con le procedure di decisione e con la partecipazione dei cittadini. Non sarebbe una impresa difficile. Ma richiede una cultura simile a quella che, nel Trattato di Lisbona, affianca democrazia rappresentativa e partecipativa; che sia consapevole della necessità di rispettare l’equilibrio tra i poteri; che guardi alle tecnologie come strumenti che, saggiamente adoperati per ampliare le iniziative dei cittadini, consentano di iniziare tragitti dove la democrazia torna ad incontrare il suo popolo.

l’Unità 25.4.14
Le radici dell’ottimismo
di Matteo Renzi


CI SONO ANCORA OCCHI CHE, OGGI, POSSONO TESTIMONIARE CIÒ CHE ACCADDE IERI. Alcuni sono stati rintracciati e fotografati settant’anni dopo: sono occhi, volti, rughe e ombre di chi scampò alla strage di Sant’Anna di Stazzema. Occhi che hanno visto razzie, morte, devastazioni.
Ma non si sono arresi alla violenza e hanno vissuto per costruire un futuro di libertà, non di vendetta.
L’Italia che oggi ha lo sguardo fiero è quella uscita settant’anni fa da tragedie, lutti e indicibili sacrifici. Ed è a quanto è costato a tutti il percorso per arrivare sin qui che penso quando penso al 25 aprile. E penso, ancora, al fatto che un Paese in grado di rialzarsi da quelle macerie e ricostruirsi così è un Paese in grado di affrontare e superare tutto. Tutto.
Il volto di oggi è stato pagato a caro prezzo ieri. E forse è arrivato anche il momento di capitalizzare quei sacrifici: l’Italia del 25 aprile non è quella di una parte ma quella di tutti («Abbiamo combattuto assieme per riconquistare la libertà per tutti: per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contro», come diceva Arrigo Boldrini). Lì abbiamo scelto di scrivere per la prima volta, la nostra carta d’identità, che si chiama Costituzione. Lì abbiamo messo nero su bianco chi volevamo essere e dove volevamo andare.
Potrei, anzi forse dovrei parlare delle sfide che ci attendono, delle opportunità che ci stanno davanti, dell’economia, del lavoro, dell’avvenire dei nostri figli. Mi dicono che ne parlo pure troppo tutti i giorni, è il mio lavoro, è la responsabilità che porto. Ma non intendo farlo oggi, di 25 aprile, come fosse una epokhé, una sospensione del tempo ordinario. Una occasione per non mescolare i piani, per portare rispetto, per ricordare insieme e dare senso.
È grazie a quel passato che oggi possiamo immaginare il nostro futuro e immaginarlo con fiducia: l’ottimismo che deve accompagnarci non è dunque un auspicio, un io-speriamo-che-me-la-cavo ma è la certezza di poter contare su radici come queste. Da lì arriviamo. Dall’aver scelto di ripartire dalla libertà. Dall’aver scelto di ripartire insieme.

Il Sole 25.4.14
Il bonus 80 euro arriva come «credito» in busta paga

Perché il valore reale mensile può scendere a 53,33 euro
di Nelvio Bianchi

qui

Il Sole 25.4.14
Polemica sulla previsione della Relazione tecnica di maggiore prelievo fiscale sui depositi per 755 milioni
di Em. Pa.

L'aumento dell'aliquota sulle rendite finanziarie dal 20 al 26% comporterà un aumento della tassazione sui rendimenti dei conti correnti di 755 milioni nel 2015. È la valutazione contenuta nella relazione tecnica predisposta dal governo al decreto Renzi che il Sole 24 Ore ha anticipato ieri. Un dato inedito, calcolato dai tecnici dell'Economia, che ha avuto l'effetto di sollevare una polemica politica, legata alla preoccupazione dell'aumento del prelievo sulle famiglie.
(...)

Il Sole 25.4.14
Ok della Camera al decreto lavoro
Con 283 sì (compresi Ncd e Sc) e 161 no il testo passa al Senato dove la maggioranza si presenta divisa
di Claudio Tucci


ROMA L'acausalità dei contratti a termine sale da 12 a 36 mesi, comprensivi di un massimo di cinque proroghe (erano otto nel testo originario). Viene introdotto un tetto del 20% di utilizzo del lavoro a termine calcolato sui dipendenti a tempo indeterminato (non più sull'organico complessivo). La formazione pubblica per gli apprendisti torna obbligatoria (ma se la Regione non si attiva entro 45 giorni l'impresa è esonerata). Viene ripristinato il piano formativo individuale, seppur con modalità semplificate di redazione; e viene reintrodotta una quota legale di stabilizzazione di apprendisti (20% per le aziende con almeno 30 dipendenti) necessaria per consentire al datore di lavoro di poter sottoscrivere nuovi contratti di apprendistato.
L'aula della Camera ieri ha confermato la fiducia al governo accendendo semaforo verde al dl Poletti. I sì sono stati 283, compresi quelli di Ncd e Scelta civica (oltre ai deputati Pd), 161 i no, un astenuto. Ma non sono mancate le scintille durante le dichiarazioni di voto con i deputati del M5S che si sono incatenati in Aula per protestare contro i contenuti del provvedimento. Per il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Graziano Delrio, il testo votato dalla Camera va nella direzione di «maggiore flessibilità e meno burocrazia, come chiedono le imprese, ma al tempo stesso garantisce i precari» e punta a rilanciare l'apprendistato oggi «ancora troppo poco sfruttato» (gli ultimi dati Isfol, Inps e ministero del Lavoro hanno certificato nel 2012 appena 469.855 rapporti, con un calo in 5 anni, dal 2008 cioè, di oltre 175mila contratti).
Il dl 34 inizierà martedì 29 aprile il suo percorso in Senato, in commissione Lavoro (relatore Pietro Ichino di Scelta civica), con un iter piuttosto serrato visto che il provvedimento scade il 19 maggio (e se modificato nuovamente deve poi tornare alla Camera per la conversione definitiva).
Ma a Palazzo Madama la maggioranza si presenta piuttosto divisa, visto che il testo uscito da Montecitorio, seppur migliora la legislazione vigente, è diverso, e in alcuni punti anche sostanzialmente, rispetto al dl originario licenziato dal governo a metà marzo, che più incisivamente correggeva le rigidità introdotte dalla legge Fornero. A chiedere cambiamenti al testo è soprattutto Ncd. Ma pure Scelta civica. Il ministro Maurizio Lupi (Ncd) si dice infatti convinto che a Palazzo Madama, «d'accordo con il collega Giuliano Poletti, si migliorerà il provvedimento in particolare sull'apprendistato e sulla obbligatorietà delle assunzioni». E il vicepresidente vicario di Scelta civica alla Camera, Antimo Cesaro, incalza il governo a inserire nel dl anche un riferimento al contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (già previsto nel ddl delega sul Jobs act) «per stringere la forbice tra i contratti temporanei e quelli stabili».
In vista della partita al Senato, un punto su cui si potrebbe raggiungere un compromesso tra la maggioranza e con il governo è sulla sanzione della conversione a tempo indeterminato dei rapporti a termine che superano la nuova soglia del 20% introdotta alla Camera. Un vincolo giudicato, un po' da tutti, eccessivamente oneroso per le imprese e che potrebbe essere "alleggerito" trasformandolo in un mero indennizzo economico (da corrispondere al lavoratore a termine non confermato). In discesa potrebbe essere anche l'intesa sulla formazione pubblica per gli apprendisti, lasciando libero il datore di lavoro di scegliere se avvalersi dell'offerta regionale o formare il ragazzo all'interno dell'azienda. L'acausalità a 36 mesi e il numero di 5 proroghe non dovrebbero più essere oggetto di modifiche. Mentre appare appesa la questione della stabilizzazione del 20% di apprendisti. Ncd preme per cancellare questo obbligo legale. Ma va trovato ancora un accordo con il Pd e con il ministro Poletti.

CGIL.it Ufficio Stampa 23.4.14
Lavoro: Cgil, ddl delega riduce protezioni e crea complicazioni

Roma, 23 aprile - “Sul ddl lavoro occorrerà discutere ogni singolo articolo perché così com'è rischia di ridurre le protezioni e creare ancora più complicazioni in una materia su cui si interviene da anni senza mai ricostruire un disegno organico”. E' quanto afferma il segretario confederale della Cgil, Serena Sorrentino, in merito all'audizione presso la commissione Lavoro del Senato sul disegno di legge delega sul lavoro.
Un testo, prosegue, che “contiene cose su cui da sempre chiediamo di intervenire e che riteniamo prioritarie come la riforma delle politiche attive, quella universale degli ammortizzatori sociali, il rilancio dei servizi pubblici per il lavoro, la semplificazione delle norme e la revisione delle leggi sul mercato del lavoro che hanno solo aumentato la precarietà”. Da qui, per la dirigente sindacale, la necessità di un'attenta discussione sul ddl. “Appare per questo ancora più sconcertante l'operazione di accorpare ben 26 disegni di legge, più le norme approvate dalla Camera sulle dimissioni in bianco, all'ordine del giorno dell'audizione di oggi in commissione Lavoro del Senato”.
Secondo Sorrentino “già così la delega al governo appare ampia, in contraddizione con molte norme, e aggiungere così tanti campi e argomenti ad iniziativa della sola commissione di palazzo Madama appare più come il tentativo di spostare la discussione su altro che di lavorare affinché si smetta di fare uno spezzatino del mercato del lavoro e si provi a ricostruire un po' di tutele per i precari, per i lavoratori anziani espulsi dalle imprese, per i giovani che non entrano nel mondo del lavoro. Se si vuole semplificare e estendere le protezioni sociali - conclude - la strada è abbastanza semplice: ammortizzatori universali e pulizia di tutte le forme improprie di contratti. Posto che senza un necessario piano del lavoro che faccia ripartire gli investimenti non sarà possibile contrastare la disoccupazione agendo sulle sole regole”.

Il Sole 25.4.14
Sindacati e partiti
Da D'Alema a Renzi, costi e benefici della «cinghia» con la Cgil
Lina Palmerini


Non è un amarcord da reduci, quello di Nicola Rossi e Tiziano Treu, ma piuttosto il bilancio di più di vent'anni di storia di quella cinghia di trasmissione tra partiti e sindacati che ancora oggi rimette sul tavolo riflessi condizionati e antiche ruggini. Nicola Rossi era con Massimo D'Alema quando l'ex premier tentò il primo, vero braccio di ferro con la Cgil di Sergio Cofferati; Tiziano Treu fu il ministro del lavoro che per primo – in un governo di sinistra guidato da Romano Prodi – introdusse le norme sulla flessibilità del lavoro. Insomma, di diktat e altolà se ne intendono – avendoli patiti e avendo anche perso – e guardando quello che accade oggi in Parlamento non trattengono le parole, come fa Treu che non vede alcuna somiglianza con la sua esperienza. «Ma insomma, quelle verso Poletti mi sembrano schermaglie! I sindacati sono in declino, non hanno la forza di vent'anni fa e nemmeno di dieci. È vero in Parlamento c'è un gruppo "ostile" a Poletti ma basta aspettare le elezioni e se Renzi vorrà sarà nelle piene condizioni di governare al di là della Cgil». In sostanza, la cinghia di trasmissione resiste in una parte del Pd, peraltro sconfitta alle ultime primarie, e dunque non può diventare un alibi per Matteo Renzi. «In alcun modo», ribatte Rossi, che racconta quei giorni di battaglie Ds-Cgil. «Non c'è paragone con ciò che tentò di fare D'Alema: a quel tempo il rapporto tra Cgil e sinistra era forte, era il suo elettorato di riferimento, la sua base ideologica. D'Alema provò a sfidare un tabù e l'intimidazione nei suoi confronti fu brutale. Renzi ha di fronte un sindacato e una politica molto più deboli».
L'attuale premier è senz'alibi quindi. Anche se quel riflesso condizionato tra partito e sindacato resiste ma per vie assolutamente diverse: è vero che il gruppo parlamentare portato da Pierluigi Bersani è ricco di ex sindacalisti, è vero che un nucleo ideologico resiste ma è vero che il rapporto è diventato più strumentale. In che senso? Basta guardare le primarie Pd: una parte del partito ha necessità di quella rete capillare e di elettori che provengono dal sindacato – e in particolare dal sindacato dei pensionati – che può assicurare una "spina dorsale" organizzativa che nel partito si è indebolita. «I costi sociali ed economici dei no sindacali sono stati alti ma ha pagato un prezzo anche la sinistra rinunciando a guidare il cambiamento di questi vent'anni che infatti vengono ricordati per Berlusconi», ribatte Rossi che fa un elenco di quei costi. «Comincerei dai no sulle pensioni che hanno avuto un costo enorme per lo Stato e per le giovani generazioni, accadde nel '99 quando ero a Palazzo Chigi con D'Alema. Il sindacato giocò cinicamente sulla pelle dei giovani tutelando solo i suoi iscritti: questo è legittimo da un punto di vista della rappresentanza ma per la sinistra – che doveva dare una sua visione generale – è stata la sconfitta politica e culturale più cocente». Di pensioni si ricorda pure Treu. «La Cgil disse sì alla Dini ma a prezzo di una lunghissima transizione che ha avuto i costi finanziari che sappiamo. Per non parlare dell'abolizione dello "scalone" nel 2006: il costo fu di circa 10 miliardi ma poi c'è stata un'altra riforma».
La storia dei "no" è dunque una tela di Penelope, paletti messi e poi smontati a prezzo dei ritardi sul risanamento finanziario: infatti le riforme delle pensioni sono state almeno cinque. E a prezzo dell'inserimento dei giovani al lavoro perché prima della legge Treu c'era il tempo indeterminato o il lavoro nero. «Mi ricordo che la Cgil corresse norma dopo norma, fu un compromesso difficile ma meglio di niente. E infatti quei paletti della Cgil – dal lavoro temporaneo al tempo determinato – caddero negli anni successivi». Dunque vittorie in qualche caso brevi anche se una sconfitta brucia a Treu: «La bocciatura della riforma degli ammortizzatori universali fatta con Prodi e Onofri: a quel tempo la Cgil si coalizzò con Confindustria a tutela della Cig. E ora siamo ancora allo stesso punto. Quanto tempo perso». E, oggi, sul contratto a tempo determinato Treu parla di polemica strumentale. «In Germania il 60% delle assunzioni è a tempo determinato ma dopo un paio d'anni vengono stabilizzate perché l'economia funziona: è altrove che bisogna concentrarsi». E soprattutto c'è un "mestiere" che nessuno vuol fare. «Spiegare ai militanti la ragione del cambiamento senza dare deleghe in bianco al sindacato. È quello che non ha fatto la sinistra e dovrebbe iniziare a fare Renzi», suggerisce Rossi. Alla fine i costi sono caduti sugli outsider come le generazioni penalizzate dalla Dini mentre sul lavoro «qualcuno dovrebbe chiedere scusa ai tanti giovani che non hanno trovato lavoro dopo le rigidità imposte alla legge Fornero», dice Rossi. I benefici? Agli insider e ai loro numi tutelari nei sindacati e nei partiti.

l’Unità 25.4.14
Mussa Abu Marzuk
Leader di Hamas e negoziatore dell’accordo di Gaza: «La trattativa ha coperto l’occupazione israeliana. Per loro pace è sinonimo di resa»
«Israele teme la nuova unità tra Hamas e Fatah»
«Stavolta né noi né Fatah possiamo permetterci un fallimento. Divisi ci consegnamo al nemico»
di Umberto De Giovannangeli


«Israele ha deciso di sospendere i colloqui di pace? E quando mai sarebbero iniziati? Per i governanti israeliani la «pace» è sinonimo di resa. Vogliono la nostra capitolazione. Ebbene, non l’avranno mai. E l’accordo raggiunto l’altro ieri a Gaza è l’inizio di una fase nuovo non solo nei rapporti tra le forze della resistenza ma anche di un confronto con l’occupante israeliano». A parlare è una delle figure più rappresentative della leadership di Hamas, l’uomo che assieme a Ismail Haniyeh ha trattato per il movimento islamico palestinese l’accordo con al-Fatah del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen) e le altre fazioni dell’Olp: Mussa Abu Marzuk, numero due dell’ufficio politico di Hamas.
In risposta all’intesa Hamas-Fatah, il governo israeliano ha deciso di sospendere i colloqui di pace con l’Autorità nazionale palestinese.
«Israele teme l’unità della resistenza palestinese e ha sempre fatto di tutto per impedirlo, praticando il terrorismo di Stato contro dirigenti, militanti e civili palestinesi. Questa unità non nasce dall’alto ma scaturisce dalla volontà del popolo palestinese che ha chiesto a tutte le forze della resistenza di mettere da parte vecchie divisioni e rinunciare a qualcosa per un bene superiore: la liberazione della Palestina».
Quella che lei definisce «resistenza» per Israele è terrorismo che non distingue tra militari e civili.
«Quando parliamo di resistenza intendiamo qualcosa che viene sancita dal Diritto internazionale, un diritto del nostro popolo. Ai senza memoria, vorrei ricordare che nonostante le tante risoluzioni delle Nazioni Unite contro l’operato d’Israele, siamo rimasti l’unico Paese al mondo ancora sotto occupazione».
Stati Uniti ed Europa chiedono ai palestinesi, e anche a Hamas, di riconoscere l’esistenza d’Israele.
«Il problema non è l’esistenza d’Israele. Il problema è che quello che viene chiesto a Hamas è di riconoscere la legittimità dell’occupazione. E questo non l’accetteremo mai».
Già in passato Hamas e Fatah erano giunti ad accordi che poi sono rimasti sulla carta. Perché stavolta dovrebbe essere diverso?
«Perché siamo consapevoli che non possiamo più permetterci un fallimento. Perché perpetrare le divisioni finisce per fare il gioco del nemico sionista, e perché oggi tutti siamo chiamati a rafforzare e rilegittimare le istituzioni rappresentative palestinesi».
Il governo di unione nazionale dovrebbe portare entro sei mesi a nuove elezioni politiche e presidenziali. È una prospettiva realistica?
«Dobbiamo far sì che lo sia. Hamas è pronta, e non da oggi, a una verifica popolare. Non abbiamo paura del voto. Le prime e finora ultime elezioni democratiche nei Territori (gennaio 2006, ndr) hanno visto il successo di Hamas, a cui Israele con l’avallo dell’Occidente ha reagito inasprendo la guerra al popolo palestinese, stringendo l’assedio a Gaza, realizzando il muro dell’apartheid in Cisgiordania. Nonostante questo, Hamas ha rafforzato i suoi legami dentro la società palestinese, di cui è parte fondamentale...».
Come lo è al-Fatah.
«Nessuno lo mette in discussione, ma nessuno può ambire a rappresentare tutto il popolo palestinese. Perché questa presunzione ha portato a compiere errori molto gravi in passato».
C’è chi sostiene che questo accordo rafforza Abu Mazen.
«Non dobbiamo cadere nella trappola dei nostri avversari. Lo ripeto: questa intesa è una vittoria del popolo palestinese, di ogni fazione della resistenza, e certamente Abu Mazen ha avuto una parte importante in questa riconciliazione».
Una riconciliazione che, sostiene il presidente Abu Mazen, non mette in discussione la scelta del negoziato con Israele. «Di quale negoziato parliamo? È negoziare rubare ai palestinesi la loro terra? È negoziare la pulizia etnica portata avanti dagli israeliani ad Al Quds (Gerusalemme, ndr)? È negoziare dare ai coloni licenza di uccidere? Israele abusa della parola pace, ma l’unico linguaggio che parla e pratica è quello della forza».
Resta il fatto che il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato, al termine di una lunga riunione del Gabinetto di sicurezza, che l’accordo dell’Anp con Hamas «uccide la pace».
«Il carnefice che si maschera da vittima! Assieme alla pace, Netanyahu è responsabile dell’uccisione di centinaia e centinaia di palestinesi. Da questo signore non accettiamo lezioni di democrazia».
Il capo negoziatore dell’Anp, Saeb Erekat, ha affermato che i palestinesi stanno valutando «tutte le opzioni» per rispondere alla decisione di Israele di sospendere i negoziati di pace e di sanzionare l’Anp
«Siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Come vede, la riconciliazione è in atto».

La Stampa 25.4.14
Gaza, banchi vuoti e cambi di casacca
“Abu Mazen ci salverà”
La Striscia si prepara ad accogliere il leader ritrovato Vessilli di Al Fatah al posto di Hamas: “Basta guerre”
di Maurizio Molinari


Kefiah a scacchi dell’Olp fra i banchi della verdura, immagini di Yasser Arafat dal macellaio e piccole tv sintonizzate sui canali di Ramallah: simboli e volti di Al Fatah riappaiono nel mercato Firas di Gaza, dove batte il cuore della Striscia che aspetta Abu Mazen come un salvatore all’indomani della sigla dell’accordo di riconciliazione con Hamas. «Ne abbiamo abbastanza di guerre e liti fra palestinesi, siamo alla fame» dice il verduraio Rafik Aljaruj, ammettendo di aver accolto l’intesa Hamas-Fatah «con la speranza di poter tornare a vivere dopo sette anni di impoverimento». Due banchi più in là Akram Jingiam, macellaio, indica sconsolato il corridoio centrale del mercato coperto dove, dal 1954, si vende e compra gran parte del cibo consumato a Gaza: «Guardate, è semivuoto, la Striscia è in ginocchio, non ci sono più soldi neanche per le uova, abbiamo bisogno di questa pace fra palestinesi, se Abu Mazen verrà qui lo abbracceremo». Il fruttivendolo Salman Atallah è più prudente: «Nessuno può dire come finirà questa intesa, c’è pessimismo in giro perché già in due occasioni le riconciliazioni sono fallite, dobbiamo solo sperare in Abu Mazen».
Se il popolo della Striscia aspetta il presidente palestinese come un salvatore è perché Hamas appare in ginocchio: la chiusura totale dei tunnel da parte dell’Egitto dei militari l’ha privata delle entrate «doganali», gli aiuti economici garantiti dai Fratelli musulmani di Mohamed Morsi sono svaniti, la Turchia e perfino il Qatar si sono allontanati. Il risultato è non poter pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici né quelli della polizia e ciò consente ai gruppi salafiti di guadagnare consenso popolare. «Se volete sapere perché Hamas dopo sette anni di rottura con Al Fatah ha scelto la riconciliazione - riassume Isra Almodalal, 23enne portavoce del governo palestinese nella Striscia - dovete guardare all’Egitto, ha avuto timore di implodere come i Fratelli Musulmani al Cairo e si è rivolta ad Abu Mazen».
Da qui l’intesa siglata giovedì su nuovo governo in 5 settimane e elezioni in 6 mesi così come l’annuncio sull’arrivo di Abu Mazen nella Striscia, per la prima volta dalla guerra civile del 2007, appena formato del nuovo esecutivo. Non si tratta tuttavia di un passaggio semplice. «Fatah e Hamas hanno concordato di affidare ad Abu Mazen la guida di un governo composto di esperti, tutti estranei ai partiti» spiega Talal Okal, commentatore di «Al Ayam» e possibile ministro. Si tratta dunque di scegliere i nomi «in maniera che siano accettabili a tutti, anche ad americani, egiziani e, sebbene nessuno lo ammetta, israeliani» aggiunge Okal, secondo cui «il governo sarà espressione dell’Autorità palestinese e dunque riconoscerà Israele come fatto da quelli precedenti». Hamas si limiterà a fare un passo indietro «lasciando ad Abu Mazen i negoziati» spiega il candidato-ministro, secondo cui «la prima cosa che dirà ad Israele è che l’uscita di scena di Hamas e l’arrivo delle forze palestinesi obbligano Israele a togliere il blocco a Gaza».
A Gerusalemme l’atmosfera è tutt’altra. Il governo di Benjamin Netanyahu sospende i colloqui con Abu Mazen «perché ha preferito Hamas alla pace», il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman assicura non «dialogheremo con i terroristi di Hamas» e Washington gli dà manforte con Jan Psaki, portavoce del Dipartimento di Stato: «È assai difficile chiedere a Israele di negoziare con un’organizzazione come Hamas che ne invoca la distruzione». La replica arriva da Isra Almodalal: «Washington ha già fatto troppi danni ai palestinesi, deve smetterla di interferire, anziché continuare a difendere Israele dovrebbe porsi il problema di come porre fine alle sofferenze dei palestinesi». Il capo-negoziatore Saeb Erakat rincara la dose da Gerico: «Netanyahu ha usato la spaccatura fra Fatah e Hamas per evitare la pace, ora non avrà più scuse».
Il duello con l’amministrazione Obama è la prima prova da superare per il patto Fatah-Hamas anche se, a ben vedere, le maggiori urgenze sono sul fronte interno. «I tre argomenti che scottano - osserva uno dei negoziatori di Fatah impegnato nelle trattative all’hotel Moevenpick - sono chi pagherà gli stipendi dei dipendenti di Hamas, a chi risponderanno le Brigate Qassem di Hamas e come reagiranno i gruppi della resistenza armata, da Jihad a salafiti, che non vogliono deporre le armi». Nel tentativo di sciogliere il primo nodo Ismail Haniyeh, capo di Hamas a Gaza, ha telefonato alle sceicco del Qatar, Tamim bin Hamad al-Thani, ed al ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, per chiedere «fondi urgenti» a sostegno della riconciliazione. Ma non è tutto perché si riaprono anche le ferite della sanguinosa faida del 2007: i parenti delle vittime di Fatah uccise da Hamas contestano la scelta di Abu Mazen di «dimenticare i nostri morti» e inscenano sit in di protesta contro la riappacificazione «pagata col nostro sangue».

l’Unità 25.4.14
Un nuovo «vincolo» per unire la Nazione
di Michele Ciliberto


«LA NAZIONE È UN PLEBISCITO DI TUTTI I GIORNI», DICEVA ERNEST RENAN, VOLENDO AFFERMARE CHE LA NAZIONALITÀ È UN PROBLEMA CHE ATTIENE ALLA COSCIENZA, NON ALLA NATURA. Si è italiani oppure francesi o tedeschi perché ci si riconosce in una comune identità etico-politica e anche religiosa; non perché si nasce in un territorio o in una regione geografica piuttosto che in un’altra. La nazione è un fatto culturale, che si costituisce nel tempo attraverso lo sforzo secolare delle generazioni. Ed essendo un fatto culturale, come nasce può morire, oppure attraversare momenti di crisi, di declino, di decadenza.
Come disse Benedetto Croce, in un momento tragico della nostra storia, la civiltà, la cultura è infatti come un fiore che nasce sulla dura roccia e che un colpo di vento può stroncare e portare via. Scrisse queste parole dopo la tragica esperienza della guerra che l’aveva indotto a esprimere parole di profonda sofferenza ma non di ripulsa nei confronti degli aerei statunitensi che attraversavano il cielo per bombardare «Napoli nobilissima», la sua città. Croce però sapeva anche, e meglio di tutti, che la Nazione italiana è una realtà spirituale e che come era caduta così essa poteva rinascere, se fosse stata capace di riafferrare le sorgenti originarie della propria storia cioè della propria identità.
È quello che avviene in Italia con la lotta antifascista e la Resistenza, di cui oggi conosciamo anche il doloroso travaglio, i lato oscuri, i prezzi pagati come avviene con le guerre civili che non si fanno con i «paternostri» e che lasciano sul terreno vittime e carnefici. Fu però allora, in quella lotta crudele e anche spietata che la Nazione italiana tornò a nuova vita, e riuscì ad alzarsi in piedi dopo lo sfarinamento dello Stato, dell’esercito, di tutte le strutture istituzionali e amministrative.
Un paesaggio desolato: contemplandolo alcuni storici hanno parlato della morte della patria, sbagliando. L’hanno fatto perché non hanno inteso la profondità e la lunga durata della nazione italiana confondendo confuso nazione e Stato, due realtà che, per quanto storicamente contigue e a volte strettamente intrecciate, vanno distinte con precisione, se si vuole comprendere la storia italiana e anche la rinascita della Nazione italiana dopo la fine del fascismo e la guerra civile.
Per riprendere la battuta di Renan, la nascita della repubblica è stata il «plebiscito» con cui gli italiani sono tornati a essere cittadini di una patria comune, di uno stesso Stato. Ma tutto questo non sarebbe stato possibile se non fossero stati capaci, insieme alle loro classi dirigenti, di mettere a base del loro vivere un nuovo patto: quello che li ha lungamente uniti, almeno fino alla fine del secolo scorso. È il «vincolo» rappresentato dalla Costituzione repubblicana, nella quale sono confluite le correnti popolari e democratiche italiane dai cattolici ai socialisti dagli azionisti ai comunisti -, ma riuscendo a dar vita a un testo che, per la sua lungimiranza, è anche un programma politico imperniato sul concetto di eguaglianza, come appare da tutta la prima parte della Costituzione e, primo luogo, dall’articolo 3.
Negli anni scorsi, un leader che ha avuto un peso rilevante nella storia della Repubblica, e che ora è affidato ai servizi sociali, ha detto varie volte, pensando si stupire, che la Costituzione italiana è di tipo sovietico, un frutto del bolscevismo.
È invece il «punto dell’unione» della esperienza culturale, spirituale e politica di uomini come La Pira, Moro, Basso, Nenni, Togliatti, Laconi... I rappresentanti migliori dell’antifascismo nelle sue varie componenti, quelli che, dopo il fascismo, ridanno vita alla nazione italiana, dischiudendole un nuovo, e fecondo, ciclo della sua lunga storia.
È proprio questa cultura che entra progressivamente in crisi fin dagli ultimi decenni del secolo scorso e che oggi appare a molti solo una sorta di residuo del passato. Ma è un errore, anche questo. La Costituzione italiana non è consegnata ai libri di storia, sa parlare al nostro tempo, è vitalissima specie nella parte dei «principi generali», nei quali sono delineati obiettivi di eguaglianza e libertà che aspettano ancora di essere realizzati.
Ma per realizzarli, e mantenere viva la nostra Costituzione, è necessario capire che alla base della nostra Repubblica oggi va messo un nuovo patto, un nuovo «vincolo» civile che faccia i conti con tutte le trasformazioni della nostra società, a cominciare da quelle demografiche. La Nazione italiana non è più quella che avevano di fronte i Costituenti: è cambiata, in profondità, sia sul piano strutturale che sul piano degli orientamenti ideali, culturali e anche religiosi. E con queste trasformazioni occorre oggi confrontarsi. Certo è difficile, tanto più dopo un ventennio in cui le diseguaglianze si sono inasprite, le contrapposizioni fra nativi e immigrati sono state acuite fino al razzismo. La cultura della solidarietà è stata frantumata, fino all’imbarbarimento, alzando la bandiera della cultura «liberale». È questa la responsabilità più grave del berlusconismo nella storia della Repubblica, e qui stanno anche le responsabilità delle forze della vecchia sinistra che non hanno saputo contrastare questa deriva, in cui affonda le radici quello che, con termine sommario, si chiama populismo. Né è facile liberarsi di questo duro fardello: oggi noi continuiamo a essere nel pieno di una crisi organica, bisogna saperlo. Eppure sarebbe sbagliato esprimere un giudizio pessimista sulla Nazione italiana settanta anni dopo la Liberazione e la rinascita della Nazione. Da mille segni, appare evidente che l’Italia è un Paese ferito, risentito, deluso, ma non vinto. È pronto a rialzarsi in piedi, a rimettersi in cammino, a far sentire la sua voce. Ma perché questi segni possano svolgersi, e consolidarsi, c’è bisogno di un nuovo «vincolo», che consenta a tutti nativi e immigrati di sentirsi parte di una comunità di un comune vivere civile, cittadini dello stesso Stato capace di contribuire a distruggere le forme più intollerabili di diseguaglianze. E, come avviene nei momenti più gravi, per questo è indispensabile una sinergia feconda tra forze della cultura, della politica, della religione, come fu negli anni della rinascita della Nazione dopo il fascismo. È venuto il momento che ciascuno si assuma le proprie responsabilità, uscendo dalla tenda in cui per troppo tempo si è rifugiato. Come avvenne settanta anni.

l’Unità 25.4.14
La Festa della Liberazione
Ore una: insurrezione
All’alba del 25 aprile 1945 dalle radio italiane risuona la parola d’ordine
«Aldo dice 26 X 1»:
di Bruno Gravagnuolo


«ALDO DICE 26 X 1». ALL’ALBA DEL 25 APRILE 1945 AL NORD RISUONA DALLE RADIO ITALIANE QUESTA STRANA FORMULA, METÀ SCIARADA, METÀ MISURA DI MOBILÌA. Invece è la parola d’ordine dell’insurrezione che allerta tutte le grandi città ancora occupate dai nazifascisti, e invita i partigiani di pianura e di montagna a sferrare l’attacco. Con i resistenti armati già operanti in territorio urbano. È Milano la prima ad insorgere e a liberarsi prima dell’arrivo degli alleati. Ma l’invito è rivolto a Genova, Torino, Venezia, Novara, Alessandria, Reggio Emilia, Parma, Modena, città queste ultime dove la Resistenza aveva già preso il controllo dei luoghi strategici importanti.
La formula dice «26», come data massima entro cui insorgere e «1» a indicare l’ora d’avvio. Milano è in anticipo. È il luogo simbolico più importante, sede del Clnai con lo stato maggiore operativo della lotta. E lì è il cuore del Nord. Dove il 16 dicembre del 1944 era tornato Mussolini, per annunciare al Lirico che il nemico sarebbe stato inchiodato nella Valle Padana. Invece Alleati e Partigiani sfondano in primavera la Linea Gotica, dopo aver pagato enormi prezzi da Massa Carrara fino a Nord di Pesaro e passando per l’Appennino insanguinato di rappresaglie. L’ora è arrivata perciò e anche l’Unità clandestina parla chiaro: «Insurrezione».
Vale la pena di leggerlo tutto quello strano comunicato, in realtà un telegramma inviato a tutti i comandi di zona partgiani:«Nemico in crisi finale. Stop. Applicate piano E 27. Stop. Capi nemici e dirigenti fascisti in fuga. Stop. Fermate tutte macchine et controllate rigorosamente passeggeri trattenendo persone sospette. Stop. Comandi zona interessati abbiano massima cura assicurare viabilità forze alleate su strade Genova-Torino et PiacenzaTorino. Stop. 24 aprile 1945». Non è questione di filologia o di enfasi celebrativa ricordare il dettaglio del dispaccio, da cui vien fuori la parola in codice. Perché nel dettaglio c’è una politica di massa che diventa linea generale, da applicare nei luoghi chiave indicati, entro il giorno 26. Eccola: fare prima, insorgere prima dell’arrivo alleato e imprimere alle cose una dinamica precisa. Un principio di autogoverno nazionale. Nello stesso momento in cui si procedeva insieme agli Alleati, ma senza subalternità.
Quindi precise norme di controllo del territorio, presa di possesso dei punti chiave, eliminiazione dei focolai di contro-resistenza e via libera agli angloamericani nell’inseguire i nazifascisti in fuga. Accorciando così i tempi della guerra che ormai volgeva al termine. Dopo lo sfondamento della Gustav e il fallimento dell’offensiva tedesca nelle Ardenne. In Maggio sarebbe tutto finito ma la Resistenza italiana con il suo apporto, militare e civico, imprimeva un suo sugello agli eventi, accorciando la tragedia e risollevando l’onore di una nazione trascinata nel baratro dal fascismo, e dalle colpe della Monarchia. Non senza le annesse istruzioni, a presidiare fabbriche, edifici, ponti, strade e materiale rotabile. Oltre all’onore, venivano messe in salvo le dotazioni del paese non ancora distrutte dalla furia bellica del biennio 1943-45. Cose che avrebbero consentito al paese pur sconfitto, di pagare un prezzo meno amaro alla disfatta e di piantare le basi per ordinamenti civili saldamente democratici e condivisi. Insomma grazie alla Resistenza vittoriosa politicamente più che militarmente non ci fu né scenario greco di guerra civile né restaurazione monarchica e conservatrice. E il tutto passando per una alleanza anche con le forze moderate e monarchiche. Contando la «tutela» di chi, come Churchill, avrebbe voluto la continuità con i Savoia e un ruolo puramente ausiliario di partigiani e Cln. Ma come ci si era arrivati a quel «miracolo», che poneva le basi della futura Costituzione e salvava il salvabile di un’Italia in ginocchio?
Almeno due date vanno ricordate al riguardo, ma appartengono all’anno precedente: il 1944. La prima è il 22 aprile 1944: governo di unità nazionale con Badoglio. Che rinvia la questione istituzionale, da risolvere con referendum a guerra finita. E poi, il 31 di gennaio dello stesso anno: il Cln di Roma guidato da Bonomi dà delega al Cln milanese di tramutarsi in Cln alta italia, con dentro comunisti, socialisti, azionisti, democristiani, liberali, monarchici. Presidente Alfredo Pizzoni, liberale. Che rimarrà fino al 27 aprile, per cedere il posto al socialista Morandi. Il Clnai, assumerà ufficialmente il 26 dicembre 1944, il ruolo di «terzo governo», o «governo ombra» nei territori occupati. E come si accennava non senza frizioni con gli Alleati, timorosi di dinamiche rivoluzionarie imprevedibili. Il miracolo sta in questo: la coesione tra forze opposte in quella situazione drammatica e senza collegamenti. Con il paese spossato e spezzato. Ma prima c’è un altro miracolo da ricordare, che fu una vera e propria «invenzione»: la Svolta di Salerno. Annunciata da Togliatti dopo il suo ritorno in Italia il 22 marzo 1944, e concretizzatasi nel primo governo di unità nazionale, con gli obiettivi già visti. La svolta era stata in verità lanciata già a fine settembre 1943 da Mario Correnti alias Togliatti tramite Radio Milano Libertà, che trasmetteva da Ufa, capitale della Baskiria sovietica. E diceva la voce: «Badoglio è il legittimo capo del popolo italiano». Una cosa enorme, rifiutata dall’antifascismo militante, incluso quello comunista. E che crea un’impasse, a partire dal Congresso di Bari 28-29 gennaio 1943 che vede il Cln diviso proprio sulla Monarchia e la linea unitaria da seguire. È Togliatti che sblocca tutto, proponendo anche la Luogotenenza di Umberto, insieme all’abdicazione di Vittorio Emanuele III. Croce la definì «la bomba Ercoli», certo autorizzata dalla «geopolitica» di Stalin, e però tutta farina del sacco di Togliatti. Fu quello «sblocco» a consentire di unire azione armata sul territorio e quadro istituzionale legittimo. Popolo e continuità legale dello stato. Contro il nemico principale e per la Liberazione. Di lì, da quel sangue e da quell’intelligenza, viene il primo stato democratico italiano. Di lì veniamo tutti noi e lì dobbiamo sempre ritornare. A quei princìpi, direbbe Machiavelli. Anche quando immaginiamo futuro.

l’Unità 25.4.14
Qui sono appese tutte le storie del resistere
Partigiano, come poeta, è parola assoluta
Questa data è il simbolo della vita di chi ha saputo esistere in un tempo estremo e lo ha trasformato in un sorriso certo e duraturo
di Giacome Verri


Cos’è il 25 aprile? Cos’è il 25 aprile dell’anno 2014? Cosa fu il 25 aprile del 1945? Fu il punto fermo dopo 20 mesi, dopo 585 giorni di Resistenza, di fatiche, di pericoli, di strazi e di gioie altissimi. Le donne e gli uomini della Resistenza sapevano ridere e piangere, vivere per resistere e resistere per vivere. Vogliamo pensare a cosa ha significato? Resistere per vivere: sembrano due concetti che fan la lotta l’uno con l’altro. Il vivere mi fa venire alla mente un fluire continuo, a volte denso, a volte rarefatto, un procedere alla meta nel quale si coglie per via quello che la sorte riserva, il bello o il cattivo tempo, gli accidenti o le grazie del cammino. Ma il Resistere è un’altra cosa: vuol dire andare contro, vuol dire contrastare, combattere, ribellarsi, riuscire a farcela. La parola Resistere disegna nei miei occhi una bocca in salive, la chiostra di denti che stride come un gesso sulla lavagna, le labbra contratte, il muscolo del cuore fatto duro dallo spasimo. Eppure ce l’hanno fatta. Dico i partigiani, i resistenti: donne e uomini fatti di carne resistente, carne buona per faticare, per camminare, per saltare, per sparare, ma anche, certo, per piangere e per gioire. Dentro la Resistenza, dunque, dentro un tempo fatto di privazioni e di travagli, dentro un tempo scomodo, rigido e arduo, la gente della Resistenza ha saputo vivere.
Il 25 aprile è allora il simbolo della vita di chi ha saputo esistere in un tempo estremo. Il 25 aprile è la data dopo la quale quella bocca digrignata, tenuta stretta dai ferri della sofferenza, ha potuto aprirsi in un sorriso certo e duraturo, serbato per mesi, sognato e desiderato come si sognava e si desiderava una pagnotta fresca o un letto caldo.
Ma questa data è anche il punto sommo a cui sono appese tutte le storie del resistere, storie infinite impossibili da dire, ma che proprio tutte assieme fanno la vena potente del ricordo. Vanno ascoltate. I partigiani in vita sono sempre di meno, ma quelli che ci sono resistono ancora e dobbiamo prestare loro orecchio. Nel 2010, Anita Malavasi, nome di battaglia Laila, staffetta partigiana di Reggio Emilia, raccontava su un celebre rotocalco la sua resistente giovinezza, la sua vita straordinaria e tremenda di donna combattente: «quando, con le armi addosso, passavo al posto di blocco in bicicletta mi mettevo la gonna stretta e fingevo di abbassarmela, loro, fessacchiotti, fischiavano e io passavo». Ma raccontava anche di torture orrende. «Nella mia formazione avevo una ragazza, Francesca, che era incinta, ma era lo stesso così magra che scappò dalla prigione passando tra le sbarre della finestrina del bagno. Per raggiungerci camminò scalza nella neve per 10 km. Quando il bambino nacque lo allattò solo da un seno perché il capezzolo dell’altro le era stato strappato a morsi da un fascista». E che dire di quei bambini buttati in terra e calpestati dagli scarponi? o di quei neonati lanciati in cielo, quando il cielo è celeste e stupendo -, e usati come bersagli per raccapriccianti tiri al piattello?
Abbiamo capito? Solo ascoltando questi racconti si può comprendere la Resistenza; solo così il verbo resistere assume intera la monumentale potenza che gli compete. Ascoltare e imparare. Anita Malavasi concludeva dicendo: «sarebbe bello se, per legge, ognuno fosse obbligato ad ascoltarne uno». Si riferiva ai partigiani: ascoltarne uno, uno di loro, uno dei loro racconti. Racconti così incredibili che, parafrasando quanto lo scrittore Walter Siti dice a proposito del Realismo, «colgono impreparata la realtà, o ci colgono impreparati di fronte alla realtà».
Per seguitare a rendere un buon servizio alla memoria non basta dire che la memoria è importante, è doverosa, è imprescindibile. Prescrivere il ricordo come si fa di un medicinale non serve a niente se quel ricordo non è sostanziato dalla carne di parole dense e stupefacenti; esso infatti è tanto più potente quanto meglio sa ritrovare le parti più proibite della realtà. E per trovarle, a volte, occorre immaginare, occorre cercare ciò che abbiamo dimenticato, o non abbiamo mai saputo. Bisogna anche supplire con la fantasia ai guasti della memoria, certo una fantasia manzonianamente della verosimiglianza. E sono tanti gli episodi che si potrebbero mettere dentro agli occhi: tremende battaglie, rumori di mitragliatrici, tumultuosi fracassi apocalittici entro cui vennero inghiottite le speranze giovani di chi per parafrasare Fenoglio avrebbe voluto fare l’amore e invece gli toccò di fare la guerra e di resistere per vivere.
CON LE PAROLE DI FENOGLIO
E, ancora oggi, occorre resistere per ricorda0re. «Guai a far naufragare la Resistenza nelle parole encomiastiche. Basterà dire, che un tempo lontano, c’erano dei giovani. E poi iniziare a raccontarla da quel punto. La Storia» (Nello Quartieri, di Villafranca Lunigiana). La Storia fatta di tante storie relative ma così importanti da diventare somme; perché scrisse ancora Beppe Fenoglio «partigiano, come poeta, è parola assoluta», non ammette le gradazioni, non sente le scalfitture, non teme i distinguo, né quelli doverosi portati dalla ricerca storica, né quelli arbitrari e degenerati avanzati dai revisionismi.
Così, infine, mi piace ricordare queste parole di Alberto Asor Rosa: «dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l’Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, ché di queste non ce ne sono».

il Fatto 25.4.14
25 aprile, partigiani e zingari
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, Santino Spinelli ha dedicato una poesia, che le mando, ai partigiani Rom e Sinti che hanno dato la vita per la Repubblica italiana. Sarebbe bello ricordare anche loro il 25 aprile. Sastipè ta Baxt!
Daniela

IL SALUTO DELLA LETTERA che precede è in lingua Rom. Santino Spinelli, docente universitario, musicista e musicologo di fama internazionale, è coordinatore e organizzatore di molti importanti eventi Rom e Sinti nel nostro Paese, ed è rom lui stesso. La poesia, che è stata mandata al “Fatto Quotidiano” sia in lingua Rom che nella versione italiana di Spinelli, è bella e triste, e merita di essere pubblicata, anche se solo in parte, come ora sto facendo. “Giovani eroi impavidi / Con grandi ideali nel cuore / I vostri figli che cosa hanno trovato?/ Razzismo, discriminazione, segregazione/ Tutto ciò che avevate combattuto / Ai padroni si sono succeduti altri padroni/ Per i vostri figli/ Voi, splendidi eroi, siete morti invano / Voi, inghiottiti dall'oscuro oblìo / No, non vanificate il coraggio e il sacrificio / dei fratelli Rom e Sinti ! / Onorate la loro memoria/ E voi, difensori della democrazia / Dello Stato di diritto / Perché accettate i campi nomadi? / Non sono dei lager?”. Oggi, 25 aprile, i Rom e i Sinti che “sono morti invano” per un'Italia diversa, e che si sentono traditi e delusi da ciò che accade contro di loro e intorno a loro, e da ciò che aspettavano e non è accaduto, non sono soli. Sono in compagnia di una vasta caccia al partigiano che comincia con la negazione persino di sepoltura agli eroi di via Rasella e della Resistenza romana, alla insinuazione che, nella Roma della razzia di cittadini ebrei (bambini e malati inclusi) del 16 ottobre 1943 siano loro gli eroi di via Ra-sella, i colpevoli delle Fosse Ardeatine, e non Priebke, non i nazifascisti. E intanto si accumulano i grandi successi editoriali dei libri dedicati ai “crimini dei partigiani”, libri elogiati enfaticamente anche da presunti personaggi della “Sinistra”. Questi libri mettono radici, benché siano tradizione inventata, nel vuoto che sta fra le due parole, Destra e Sinistra, che adesso è di moda negare. L' argomento è che le due parole non significano più niente. La conseguenza è che coloro che sono “ex” di sinistra si imbarazzano se glielo dici. E la Destra torna, la più estrema, nell'indifferenza diffusa, come in tutta Europa. Accade da quando il negazionismo berlusconiano gridava in Parlamento (lo ha fatto per vent'anni): “Ci ha liberati la guerra, non i partigiani comunisti”, e ha così legittimato di nuovo i peggiori istinti che avevano alimentato il fascismo. Oggi, 25 aprile, è un motivo di orgoglio essere uniti nella celebrazione e nel ricordo, con Stinti e Rom, popoli senza terra ma carichi di storia, che hanno combattuto insieme per ideali che sono stati tranquillamente abbandonati. No, non sono morti invano. Ma se vivete in un campo rom, o siete lì in una notte di “sgombero”, dovete per forza pensarlo. È triste, in giorni come questi, in un'Italia e in una Europa come questa, non avere un Fausto Omodei che canti “Partigiani, Rom e Sinti, in questa Italia offesa voi siete ancora l'unica difesa”.

il Fatto 25.4.14
I 90 anni
Rossanda, ragazza di questo secolo
di Loris Campetti


Per fare un regalo gradito a Rossana per i suoi novant’anni, meglio sarebbe parlare della ragazza di questo secolo, e non del secolo scorso. Perché le sue domande, incalzanti, persino imbarazzanti per chi non si sente all’altezza o è troppo pigro o sfiduciato per rispondere, sono domande che riguardano il futuro non meno del passato. Chi siamo, da dove veniamo: parliamone, ma soprattutto parliamo di dove vogliamo andare. E quando Rossana ci interroga su come sia possibile cambiare lo stato di cose presente, non è pensabile cavarsela con Montale: “Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Rossana Rossanda è una ragazza di questo secolo con un’esperienza lunga novant’anni. Il Novecento l’ha attraversato da protagonista e oggi si chiede, ancora, come si possa rovesciare un mondo edificato sulla diseguaglianza, sull’ingiustizia, in parole povere sul capitalismo.
Comunista eretica, Rossanda, perché come diceva Aldo Natoli al momento della radiazione dal Pci, “si può essere comunisti anche senza tessera”. Il paradosso è che gli eretici del manifesto, nell’arco di un paio di decenni, resteranno gli unici comunisti disposti a rivendicare la loro scelta mentre l’ortodossia comunista si è sciolta come neve al sole, sommersa dai mattoni di un muro che non aveva voluto scavalcare a tempo debito, quando almeno il fallimento del socialismo reale era evidente. Lo era a Rossanda e al gruppo storico del manifesto sostenuto dal lavoro politico e giornalistico di un uomo straordinario come K.S. Karol che ha appena lasciato Rossana e tutti noi; non lo era al Pci che solo più tardi, con le parole di Berlinguer, scoprirà la fine della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre. Ma la fine di quella spinta, gli errori e persino gli orrori del socialismo reale, l’odierno approdo della lunga marcia di Mao, ci costringono a rileggere la grande Storia e la nostra piccola storia. Il senso e le ragioni delle rivoluzioni novecentesche non possono essere fatti coincidere con il loro esito. Scriveva Luigi Pintor, che con Rossana ha vissuto la rottura con il Pci e l’avventura del manifesto, su La signora Kirchgessner: “La diceria che di intenzioni è lastricato l’inferno è maligna. Deludenti ed effimeri sono gli esiti. I buoni proponimenti sono invece un polline che non fiorisce mai ma profuma l’aria”. Nella presentazione del libro La ragazza del secolo scorso, Rossana affronta di petto la questione: “Questo non è un libro di storia. È quel che mi rimanda la memoria quando colgo lo sguardo dubbioso di chi mi è attorno: perché sei stata comunista? Perché dici di esserlo? Che intendi? Senza un partito, senza cariche, accanto a un giornale che non è più tuo? (...)”.
Con Rossana, una decina d’anni fa ho avuto un nutrito e per me nutriente carteggio sull’opportunità di mantenere sotto la testata il manifesto la testatina quotidiano comunista. Lei la riteneva, se non direttamente un imbroglio, quanto meno un’ipocrisia e metteva a tacere i miei maldestri tentativi di coinvolgerla in una battaglia di difesa identitaria per frenare una deriva culturale in atto in un giornale diventato altro da sé. Cambiar nome, l’esperienza del Pci lo insegnava, spesso è solo il primo passo per il cambiamento della natura, ribattevo. Su un punto credo che ci capissimo e tutt’ora ci intendiamo: “L’orizzonte del comunismo deve restare aperto, non come speranza per il futuro ma come contraddizione del presente, contro la volontà di potenza del capitalismo, contro la violenza sui corpi e sulle vite dei poteri vecchi e nuovi, contro i manipolatori delle menti e i colonizzatori dell'immaginario”.
COSÌ SCRIVEVA un anno e mezzo fa un gruppo di noi spiegando la rottura, che Rossana aveva già effettuato, con una storia straordinaria durata quarant’anni. Rossana pone dunque le domande di sempre in un mondo non più bipolare, dominato dal pensiero unico che ha l’odore del dio mercato. Non sono le forme storicamente determinate del capitalismo – oggi liberismo – che chiede di mettere in discussione, ma il capitalismo stesso, la sua organizzazione del lavoro, delle coscienze, dei poteri, delle relazioni. In una stagione in cui ci raccontano che la lotta di classe è finita – per nascondere l’evidenza: gode di ottima salute, peccato che sia il capitale a farla contro il lavoro – Rossana continua a rivendicare la necessità di una lotta di classe dal basso verso l’alto, per evitare che il conflitto, da verticale, si trasformi in orizzontale, assumendo la forma della guerra tra poveri.
I novant’anni di Rossana raccontano le sue battaglie culturali dalla Resistenza al ’68-’69 nel Pci, poi nel manifesto, le caratteristiche di un giornalismo straordinario e di un impegno politico a tutto campo, permeabile ai sommovimenti sociali, agli studenti, al femminismo, ai movimenti che lei interroga e da cui si fa interrogare. I suoi novant’anni interrogano noi, e ci costringono a uscire dalla pigrizia e dalla rassegnazione. Tanti auguri Rossana.

Repubblica 25.4.14
Ex manicomi criminali, chiusi nel 2015
Il Senato approva la proroga. “Ma la reclusione non potrà superare la pena”

di O. L.

MILANO Ancora un anno. L’esistenza degli ospedali psichiatrici giudiziari — sono 6 in tutta Italia — è stata prorogata alla fine di marzo 2015. Il Senato ha approvato ieri il decreto legge che rimanda la loro chiusura e la sostituzione con le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems): per quanto fosse una decisione presa da tempo, nulla o quasi era stato fatto e quindi, se davvero gli Opg fossero stati chiusi il primo aprile, gli internati non avrebbero avuto un posto dove andare.
La proroga per molti è l’ennesima sconfitta dello Stato e lo stesso presidente Napolitano aveva firmato «con rammarico», dopo averle definite «strutture indegne di un Paese appena civile». Ora, con 171 voti a favore, 31 astenuti e un solo contrario al Senato, il provvedimento passa alla Camera. Arricchendosi, però, di un emendamento che introduce una novità sostanziale: la reclusione in un Opg non potrà avere durata superiore alla pena che il malato-detenuto avrebbe scontato in carcere se fosse stato ritenuto imputabile.
«Finora poteva accadere che l’internamento fosse prorogato per un numero indefinito di volte, fino a tradursi in una sorta di pena perpetua», spiegano i senatori del Pd Luigi Manconi e Sergio Lo Giudice.
Deciso anche lo stop a nuovi ricoveri (oggi i reclusi sono circa mille) e, per gli autori di reati per cui sarebbe previsto l’ergastolo, la permanenza nell’Opg fino a quando il soggetto sarà ritenuto socialmente pericoloso.
( o. l.)

Repubblica 25.4.14
Mantova, tra gli ultimi “detenuti-malati” condannati all’ergastolo bianco
di Oriana Liso


CASTIGLIONE DELLE STIVIERE (MANTOVA) LI CHIAMANO ergastoli bianchi, anche quando non durano una vita. A Castiglione c’è un ospite — che è sempre il modo più pietoso di chiamare i reclusi — rinchiuso da un quarto di secolo. C’è Christian, che non dovrebbe stare qui: ha una disabilità mentale, ma i servizi sociali del suo comune non se ne vogliono fare carico. C’è Moses, giovane ghanese arrivato a Lampedusa sui barconi, per due anni in campo profughi a Torino e adesso qui, perché un ordinamento storto e barocco non sa dove mandarlo.
Castiglione delle Stiviere è un ospedale psichiatrico giudiziario unico nel suo genere, in Italia. Qui non ci sono agenti di polizia penitenziaria, alte mura, fortini di vedetta, ma medici, infermieri, assistenti sociali e cancelli, alti e solidi, che permettono di vedere il mondo fuori, quella campagna mantovana punteggiata di piccole aziende, di vita vera.
L’ultima rilevazione sulle presenze racconta di 291 ospiti per una capienza ufficiale di 190 posti: 199 uomini, per la maggior parte lombardi, 92 donne che arrivano da tutta Italia, perché tra le particolarità di Castiglione c’è anche quella di essere l’unica struttura con un reparto femminile. È impietosa l’analisi di chi ci lavora: «In una società in crisi, quando le risorse per il welfare sono sempre meno, luoghi come l’Opg o il carcere finiscono per essere l’ultima spiaggia. Molte persone sono qui perché il territorio ha fallito o perché sul territorio non si è investito», dice Gianfranco Rivellini, responsabile della sezione femminile. E Cesare Maria Cornaggia, psichiatra che qui segue molti casi: «Gli Opg verranno superati soltanto quando ci sarà la riforma del codice penale e del concetto di pericolosità sociale ». Lo dicono, i medici di Castiglione, con la forza dei numeri: 220 delle persone attualmente ospitate non hanno avuto dal giudice la proroga della misura di sicurezza, la durata media della permanenza è scesa dai 4,9 anni del 2001 ai 2,8 di oggi e, soprattutto, la reiterazione del reato, per chi esce, è bassissima. Merito del modello Castiglione, oltre che di una nuova e timida disponibilità da parte di alcune regioni e alcuni comuni di farsi carico delle situazioni in uscita. Qui non si fa la valutazione clinica del malato-detenuto limitata al momento in cui ha commesso il reato, quello in cui era secondo la legge incapace di intendere e volere. Si ricostruisce il suo percorso, si cerca di capire quando e se è pronto a tornare nel mondo, prima in una comunità e poi — nei casi migliori — con una casa e un lavoro in autonomia. Sempre che il mondo sia pronto, e qui si torna allo sforzo culturale. «Chi è fuori si chiede: se quella persona ha ucciso una volta, non potrebbe rifarlo? Perché devo rischiare io di avere a che fare con lui? Su questo bisogna lavorare»: Andrea Pinotti dirige da poche settimane Castiglione, ma era già qui anni fa, quando passavano ospiti come Pietro Carretta, l’infermiera killer Sonya Caleffi, le tante mamme che ammazzavano (e continuano ad ammazzare) i loro bambini. Quasi mai i neonati, dicono le statistiche: ma i bimbi appena più grandi, nel momento in cui iniziano ad avere una loro autonomia. È allora che, nella testa di quelle mamme, qualcosa — ma qualcosa che c’era già — si rompe. Per ognuna e ognuno di loro c’è un percorso di cura personalizzato, con qualche passaggio comune: trattamento farmacologico, misure contenitive nelle fasi di violenza, controllo costante quando c’è il rischio suicidio, «quando il malato prende coscienza di quello che ha fat- to», conferma Pinotti. Nei casi migliori c’è anche un altro passaggio chiave: la richiesta di andare a vedere la tomba della persona uccisa, o il luogo in cui è avvenuto l’omicidio. Lo fanno soprattutto le mamme, con i loro bimbi.
A camminare per i viali della struttura — tra edifici puliti, campetto da calcio, piscina, laboratori, palestra, bar, biblioteca — c’è da pensare che tra stare qui e stare in carcere la scelta verrebbe ovvia a chiunque. E invece Omar, arrestato per furto e portato qui perché ha dato in escandescenza, non ha dubbi: «Io voglio andare in carcere, non stare qui con i matti». Nessuno qui dentro — ed è forse una premessa scontata — si considera matto. C’è chi parla di errore, chi di un momento di crisi, chi dà la colpa alla droga e chi a una delusione, per il reato commesso, che si parli di omicidio (uno su quattro è qui perché l’ha commesso o l’ha tentato) o di stalking.
Anna — a Castiglione da sei mesi proprio per quest’ultimo motivo, ma candidata a tornare presto nel mondo — lo chiama «un momento di debolezza, che ha reso la vita difficile a me stessa, non solo agli altri». Un buco nero che l’ha portata a una convivenza forzata e non sempre piacevole, in cui anche le relazioni fisiche e affettive sono amplificate e dove ogni momento può scoppiare una lite. Per una sigaretta, per un caffè, o per chi spera e sogna di uscire prima.

Corriere 25.4.14
Napoleone, il mio padre assente
L’imperatore raccontato con gli occhi del figlio illegittimo Alexandre
di Paolo Di Stefano


«Ho il colore grigio intenso dei suoi occhi e il suo timbro di voce». Chi parla? È un figlio che parla di suo padre, un padre incontrato qua e là, per brevi momenti: di lui, il figlio ricorda qualche frase, lo sguardo dolce, i modi gentili, lo smarrimento e la malinconia. Tutto ciò che non appare nei grandi monumenti equestri. Sì, perché il padre di cui stiamo parlando è Napoleone Bonaparte. Niente di meno. Dunque, chi parla nel romanzo di Massimo Nava, Infinito amore ? Parla «il bastardo più fortunato della storia», come si definisce: il suo nome è lunghissimo e comprende anche un titolo nobiliare: conte Alexandre Florian Joseph Colonna Walewski. «Sono orgoglioso del mio nome, che mi ricorda la Polonia e mia madre, la terra in cui lei volle che nascessi. Anche se venni di sicuro concepito a Schönbrunn, nel castello delle fiabe di Vienna, l’edificio più elegante d’Europa, il luogo ideale per i momenti d’amore dei miei genitori».
C’è quasi tutto in questo passo, che leggiamo verso la chiusura del libro. Una dichiarazione d’identità a cose fatte, a rimbalzo, com’è del resto tutta la narrazione: la rivisitazione della propria vita (la seconda vita, dopo aver saputo della vera paternità) narrata dalla distanza della vecchiaia, con pacata malinconia. C’è quasi tutto, in quel passo: c’è un bambino concepito clandestinamente; c’è sua madre, la contessa polacca Maria Walewska, la più bella donna del suo Paese, sfolgorante e inquieta; e c’è il suo amore infinito per l’imperatore; c’è la Polonia e ci sono le favole, che si riveleranno importanti anche se il romanzo di Nava è necessariamente un romanzo storico, i cui personaggi e i cui fatti sono attestati da cronache e carte d’archivio.
Quel che non c’è, in quel passo, ma che si può intuire, sono altri infiniti amori che percorrono il libro: quello dolcissimo tra madre e figlio, per lo più vissuto in solitudine; quello di (quasi) tutti per la Patria con la maiuscola; quello del figlio naturale per il padre. Infinito e anche insensato, se si vuole. Visto che, a qualificarlo con i termini della psicologia d’oggi, Napoleone sarebbe il più tipico dei padri assenti e deleganti, modernissimo per i suoi difetti, evanescente, giocherellone, affettuoso quanto in fuga dalla propria responsabilità. Antichissimo per la capacità di imporre una visione del mondo con poche parole e pochissimi gesti. È anche lì che si gioca il romanzo, nel contrasto tra la figura politica passata alla storia e il dietro-le-quinte privatissimo che più privato non si può, considerato il punto di vista. Ovvio che in questa prospettiva vengono messi nel conto del grande uomo anche i risvolti ridicoli, le sue ipocrisie, le fragilità, le dissimulazioni, gli escamotage penosi per districarsi tra una donna e l’altra, mogli, ex mogli, amanti, Madame Mère. Siamo nel solco del motivo archetipico della ricerca del padre: e qui si tratta di un padre speciale, reso ancora più speciale dal filtro materno e dal ricordo infantile del narratore, per forza enfatizzante e idealizzante. Il vecchio Alexandre deciderà di tornare sui passi del padre, per ricostruire non solo la vicenda intima dei genitori, ma anche la propria identità.
«Dopo tanti anni, ho deciso di mettere un po’ d’ordine nelle memorie di famiglia». L’artificio di Nava è quello di utilizzare i documenti fin dove si può (soprattutto lettere, differenziate dal carattere corsivo), facendo poi leva, per la vera ossatura del libro, su una forte dose di immaginazione e di empatia emotiva: «Quando i ricordi non coincidevano con notizie raccolte nel corso del tempo, ho scelto la versione che mi suggeriva il cuore», ammette, in una sorta di programma narrativo, il protagonista. In realtà, a guardar bene, nel suo racconto Alexandre non fa che mettere in scena la vera protagonista della storia: sua madre Maria.
Ma veniamo ai fatti. Si parte non dalla fine ma dalla metà, dal 31 agosto 1814: il viaggio verso l’Elba, sul vascello Abeille, della contessa, amante segreta di Napoleone, con il figlio, il fratello Teodor e la sorella Emile. La donna deve raggiungere clandestinamente l’imperatore in esilio: «Il sole calante accarezzava la baia ed esaltava il profilo delle montagne che incombevano sul villaggio. La spiaggia era deserta». Durante la traversata, mamma Maria rivela al bambino (di quattro anni) la sua vera paternità: è lui il figlio dell’uomo molto importante che stanno per incontrare. Si srotola così indietro e poi in avanti il racconto di quell’infinito amore: il primo incontro in Polonia, nato quasi per un’esaltazione infantile della ragazza che accorre a salutare il Salvatore (straniero) della Patria; la folgorazione dell’imperatore per quella meraviglia di donna, già sposata con un nobile molto più anziano voluto dalla madre di lei per motivi economici; la pretesa di averla, la mobilitazione della diplomazia per accontentare il sovrano (non si sa bene se incapricciato o perdutamente innamorato), le inutili ritrosie di Maria, che cede per carità di patria, per poi innamorarsi follemente. Seguono le notti infiammate al castello di Schönbrunn, i baci rubati in incognito nei giardini di Parigi, si ritorna alle notti dell’Elba, in cui sembra riaffiorare l’estasi dei primi incontri, la fuga. Poi ancora, via via, lo spegnersi degli entusiasmi e i barlumi che si riaccendono qua e là, fino alla deriva che segue la sconfitta militare definitiva.
In realtà sin dall’inizio Infinito amore si presenta come un romanzo degli infiniti addii: ogni volta il lettore è portato a credere che si tratti dell’ultimo incontro, dell’ultimo bacio, dell’ultimo abbraccio, dell’ultima carezza, dell’ultimo sguardo, dell’ultimo viaggio, per scoprire che invece no, c’è sempre un dopo che salva. Sarà perché la passione di Maria è cieca, disinteressata, persino a tratti ostinata al di là di ogni ragionevolezza. Sarà perché la voce postuma di Alexandre riesce a riscattare, con la sua leggerezza e il suo disincanto, anche i fatti più penosi. Ma questo valzer degli addii ricomincia a essere danzato ogni volta, quando sembrava spegnersi nel silenzio. È la resistenza dell’amore il vero motore del mondo. Più che un motore, un soffio continuo, come quello che Alexandre avverte nel cimitero Père-Lachaise, sulla collina alla periferia di Parigi. In un attimo di impensabile letizia.

Repubblica 25.4.14
Il generale delle Ss Hans Kammler
Spuntano documenti Usa: “Così il generale Hans Kammler fu trasferito in America”
La fuga segreta del custode dell’atomica nazista
di Roberto Brunelli


L’UOMO DEI MISTERI Sulla morte del generale delle Ss Hans Kammler ci sono cinque diverse versioni. Contraddette ora dalle carte dei Counter Intelligence Corps (sopra a destra): “Il generale si presentò ai nostri ufficiali e rilasciò una dichiarazione dettagliata”

LINZ (AUSTRIA) NO, non fu una pallottola né fu il cianuro ad uccidere il generale delle Ss Hans Kammler. Visse e morì da americano, l’uomo che è passato alla storia come “il tecnocrate dell’annientamento”: sotto una falsa identità, in una località segreta degli Stati Uniti e con in dote una montagna di segreti inconfessabili. A poco più di un mese dal suo ultimo incontro con il Führer, l’ufficiale che aveva avuto la supervisione della costruzione di tutti i campi di concentramento — crematori e camere a gas comprese — il responsabile della realizzazione dei missili V-2 e di tutti i progetti segreti sotterranei del Terzo Reich, il gerarca che per un capriccio aveva ordinato l’esecuzione a sangue freddo di 208 lavoratori-schiavi a Warstein, trattò con i servizi segreti nemici la sua fuga in America. Nei giorni convulsi del tracollo della Germania nazista, il generale si presentò di persona agli ufficiali dei Counter Intelligence Corps (Cic) in Austria: «Hans Kammler apparve agli uomini del Cic a Gmunden e fece una dichiarazione dettagliata sulle operazioni e le attività della Baustelle Ebensee»: questo è quanto si legge in un documento segreto dei Cic targato “Nnd 785009” e declassificato dalle autorità statunitensi nel 1978. La dicitura “Baustelle Ebensee” sta a indicare l’immenso sistema di gallerie sotterranee che comprendeva i campi di Ebensee, Mauthausen e Gusen.
La presa di contatto tra il “generale del diavolo” e gli americani èun fatto ad oggi del tutto inedito. In questi sessantanove anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale, gli ultimi giorni di Kammler sono sempre stati avvolti da una pesante coltre di mistero: ci sono molte e contraddittorie versioni sulla sua morte, che un tribunale ha stabilito essere avvenuta per suicidio il 9 maggio 1945 (avrebbe ingerito del cianuro ed in più un suo sottoposto gli avrebbe sparato un colpo di pistola su sua stessa richiesta), ma con un carico infinito di speculazioni e suggestioni che non sono mai venute meno. Oggi le carte dei servizi segreti americani nonché la testimonianza dei figli di un agente dell’Oss (Office of Strategic Services, antesignana della Cia) rivelano una nuova verità. «È stato mio padre, Donald Richardson, a interrogare Hans Kammler in Austria», afferma John Richardson. «Mio padre lavorava per i servizi segreti dell’esercito statunitense, ha lavorato per i presidenti Roosevelt, Truman e Eisenhower. Ha reso l’ Obergruppenführer Hans Kammler un buon tedesco, gli ha dato un nome americano, un indirizzo, un numero di telefono. Kammler è entrato a far parte del cuore del complesso militarindustriale americano». Richardson jr — che ha rilasciato un’intervista in questo senso al documentarista austriaco Andreas Sulzer, il quale da quattro anni lavora su un documentario sui “segreti nucleari” del campo di concentramento di Gusen — dice che solo a 50 anni dai fatti il padre decise di raccontare la storia di Kammler ai figli, con la promessa di non rivelarla a loro volta se non dopo la propria morte. L’altro figlio, Douglas, si esprime così: «Mio padre mi disse che dette protezione a Kammler dal 1945 al 1947. La prima volta che me ne parlò fu quando gli chiesi dell’ Operation Paperclip ». Dunque: “Paperclip” è il nome in codice di una missione strategica dell’Oss il cui obiettivo era di reclutare gli scienziati nazisti (uno fra tutti, Wernher von Braun). Donald Richardson era un ufficiale di primissimo piano dell’Oss. Il figlio John mostra orgoglioso le foto del padre insieme a Roosevelt e Truman. Ce n’è una in cui Donald sta impettito dietro a Roosevelt: di lato c’è Churchill, di fronte Stalin. Siamo a Yalta, 1943.
Le dichiarazioni dei due fratelli trovano un riscontro nelle carte dei National archives americani. Nella nota già citata dei Cic si fa riferimento ad una trascrizione del verbale in possesso di tal “Mr. Morrison”. Negli appunti firmati “Mr. Morrison” la località indicata è quella austriaca di Gmunden, i fogli sono datati 15, 16 e 17 luglio 1945, e il nome “Hans Kammler” è in bella evidenza. È più di due mesi dopo il 9 maggio, e siamo anche ben lontani da Praga, dove secondo un’altra tra le varie e contraddittorie testimonianze il generale si sarebbe rifugiato prima di togliersi la vita. Sulzer ha anche trovato copie autografe dei progetti di Kammler — di mestiere architetto e ingegnere — in America, tra le carte presenti nel lascito di Samuel Goudsmit, responsabile scientifico della “Missione Alsos”, messa in piedi per intercettare le risorse nucleari tedesche. Sulzer si entusiasma: «Come facevano gli americani ad avere le carte autografe di Kammler? Ovvio: avevano Kammler».
In altre parole: la merce di scambio del generale quasi certamente furono i suoi segreti nucleari. «Abbiamo le prove che il campo di Gusen fu l’ultimo quartier generale di Kammler», dice il documentarista. «Forniture regolari di materiali scientifici, la lista di carichi ferroviari indirizzati esplicitamente a lui». Come rivelato da Repubblica il 9 dicembre, nelle gallerie di Gusen sono stati rilevati nel 2012 elementi di radioattività «26 volte superiori alla norma»: è solo uno dei tanti indizi che fanno ritenere che in quelle gallerie, una specie di immensa “fabbrica di guerra” sotterranea sottoposta al controllo di Kammler, i nazisti avessero installato un vero e proprio laboratorio atomico. Lo storico Rudolf Haunschmied, che alle ricerche su questo lager ha dedicato tutta la sua vita, ne è convinto: «Dai documenti sappiamo che più si avvicina la fine della guerra, più Gusen diventa cruciale. Hitler esigeva di essere costantemente informato su Gusen. Tutta l’area del campo fu dichiarata “zona vietata”, il lager stesso venne completamente minato. Nessuno, in caso di sconfitta, doveva conoscere la verità». Poche settimane fa è stata fatta un’ulteriore scoperta vicino alle gallerie del campo, che in parte erano destinate all’assemblaggio dei caccia a reazione Messerschmitt, ma che secondo Sulzer facevano parte di una rete sotterranea molto più ampia di quella conosciuta. Gli scavi avviati in seguito alle rilevazioni di radioattività hanno portato alla luce un ottagono, una specie di gigantesco foro nel terreno: ogni lato è lungo 10 metri, per 26 metri di diagonale.
Secondo le analisi geologiche, nasconde un canale sotterraneo lungo 60-70 metri. Per gli esperti si tratta quasi certamente di una rampa di lancio missilistica. Dettaglio inquietante: è orientata verso ovest. «È identica ad un’altra rampa progettata proprio da Kammler in Francia», assicura Sulzer. Questa qui di Gusen fu frettolosamente ricoperta dai tedeschi subito prima la loro fuga. «Però dalle foto aeree realizzate dalla Us Air Force nell’autunno ‘44 l’ottagono si riconosce chiaramente. E si vede che sta all’interno di un’area di massima sicurezza».
Ancora una volta, non finisce qui. In questa cavità è stato rinvenuto un cilindro di ceramica largo 10 centimetri e lungo 6. Un pezzo di un acceleratore di particelle, dicono gli esperti. Uno strumento usato a quei tempi esclusivamente nella ricerca nucleare. Sulzer ha anche raccolto la testimonianza filmata di un ex deportato polacco, Stanislaw Zalewski, che racconta del suo trasferimento da Auschwitz a Gusen: con sua grande sorpresa, sul treno scopre che tutti i suoi compagni di viaggio e di martirio sono chimici, elettrotecnici, scienziati. Personale altamente specializzato, destinato alle medesime gallerie. A lavorare, probabilmente, al più segreto di tutti i progetti nazisti: quello nucleare.
«Il generale consegnò agli Stati Uniti il suo tesoro». Così dice il figlio dell’agente speciale Donald Richardson, questo fanno capire le carte riemerse dagli archivi Usa. Sì, fu l’ombra dell’atomica nazista il lasciapassare di Kammler per l’America.

Repubblica 25.4.14
Noi italiani cattolicissimi ma analfabeti in religione
Uno studio condotto dallo storico Alberto Melloni documenta quanto sia elevata l’ignoranza sui temi del cristianesimo e delle altre confessioni
Di ebraismo e Islam si conoscono quasi solo la Shoah e i conflitti con l’Occidente
di Giancarlo Bosetti


L’ITALIA , nel suo rapporto con la religione, è un paese «stonato », come e più di un pianoforte scordato. «Religiosamente non musicale», diceva di se stesso Max Weber (che però è stato un gigantesco studioso della religione). Ma applicata a noi italiani la «stonatura» è solo un eufemismo. Le cose stanno peggio e, considerando che siamo il paese che ospita gli eredi di Pietro da due millenni, ci meritiamo un giudizio crudo: siamo terribilmente ignoranti e, messi di fronte alla contraddizione, dovremmo esaminarla con coraggio e sincerità. Ce lo suggeriscono le 500 pagine del Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia, curato per Il Mulino dallo storico Alberto Melloni, con la collaborazione di una trentina di studiosi del campo. L’analfabetismo di base,
quello del leggere e scrivere, è stato in gran parte sconfitto, tra gli italiani.
RESTA molto da recriminare, ma non siamo più degli analfabeti generici, lo siamo in maniera «speciale», soprattutto in tre aree: la religione, la musica e l’arte. Qui la nostra incompetenza è cronica, rocciosa. E la scuola non risolve, ma peggiora le cose, perché quelle sono le tre aree dove mostra grandi debolezze. Altro che i lamentati eccessi di studi umanistici: nel paese del Rinascimento, della lirica e della Chiesa romana, si fa pochissima storia dell’arte, niente musica, e un’ora di catechismo cattolico, la cui insufficienza e il cui anacronismo sono ormai evidenti. Tre eccezionalità italiane che sono perversamente connesse con tre buchi della nostra formazione standard.
Il Rapporto Melloni si occupa del primo buco. Per tutto quello che ha a che fare con Dio, la trascendenza, riti e culture associate, non passeremmo un test di ammissione neanche al livello più elementare. Eppure la Bibbia ce l’ha in casa il 70 per cento degli italiani, e ancora di più, l’86 per cento di coloro che si dichiarano cattolici praticanti. Ma quelli a cui è capitato di leggerne almeno qualche pagina sono meno del 30 per cento. I non cattolici la leggono un po’ di più dei cattolici, e tra i cattolici quelli che hanno fatto corsi di catechismo leggono ancora meno degli altri. Imbarazzanti le risposte, nei sondaggi, alla domanda «Chi l’ha scritta? »: più di un quarto risponde «Mosè», un altro 20 per cento «Gesù». Un 15 ritiene che la Bibbia degli Ebrei e quella dei Cristiani non abbiamo niente in comune, ma c’è anche un 27 convinto che Vangeli e Bibbia siano la stessa cosa. Il che vuol dire che conversazioni sul tema in questo paese sono davvero una rarità. Il 30 per cento degli italiani conosce il nome dei quattro evangelisti, solo una élite dell’1 per cento conosce i dieci comandamenti; la gran parte si ferma a «Non rubare », il più famoso, considerato generalmente il primo; trascurato «Non avrai altro Dio fuori di me». Lunga ancora la missione della associazione laica «Biblia», che si propone di colmare un vuoto: la conoscenza della Bibbia è, tra molte cose, anche una porta di ingresso al pluralismo religioso.
La scarsa conoscenza della propria religione si spalanca poi sugli abissi dell’ignoranza di quella degli altri, dove fioriscono le più superficiali confusioni. Una enorme quantità di italiani crede che il Priorato di Sion ( Codice Da Vinci, Dan Brown), sia una entità biblica. Solo una minoranza sa che Primo Levi era ebreo. Chi interroga i manuali di storia, come nel severo saggio di Maria Chiara Giorda, trova testi standardizzati, che, con poche eccezioni, riflettono consuetudini redazionali più che originalità e precisione della ricerca di autori. Le conseguenze sono che la conoscenza sia dell’ebraismo sia dell’Islam vengono schematizzate e ridotte, il primo, alla pagina sulla Shoah e il secondo alle tappe militari del conflitto con l’Occidente, dalla battaglia di Poitiers fino all’11 settembre 2001. Difficile trovare un approfondimento della storia e cultura ebraica, così come è difficile incontrare tracce della civiltà Moghul o di un «jihad» che non sia esclusivamente guerra santa. Sottigliezze.
Anche per i media vale una certa licenza di superficialità. Così un celebre editorialista italiano ha potuto scrivere che il politeismo induista si tradu- ce spontaneamente in un generoso pluralismo, cosa che forse neanche Narendra Modi, leader del partito maggioritario Bjp, hindu, oserebbe azzardare nella campagna elettorale in India.
Sfortunatamente prevale in questo campo, a causa della polarizzazione tra laicismo e clericalismo, una forma di partigianeria che bada essenzialmente a sottrarre territorio agli avversari. Esemplare, in negativo, è la storia degli studi religiosi nelle università italiane. Qui è accaduto che i laicisti anticlericali, per il desiderio di espungere una fonte di contaminazione con il regno dei cieli, e i clericali per il desiderio di tenerne il monopolio, hanno saldato un patto: niente facoltà di teologia nelle università pubbliche (come accade in Germania o in Svizzera). Ciò mentre la forza scientifica dei Dipartimenti di studi religiosi delle università americane, anche di quelle non confessio- nali, mostra la rilevanza di questi saperi per l’analisi sociale, per l’economia e le relazioni internazionali.
Gli studi religiosi danno segni di vitalità anche da noi, ma devono allargarsi la strada a gomitate dentro i corsi di storia, di antropologia, sociologia, lingue, nelle facoltà di Lettere e filosofia. Corsi di scienze religiose si sono affermati a Torino, a Roma, e a livello inter-ateneo e interdipartimento a Padova- Venezia e a Bologna. Ma la disciplina degli studi religiosi si porrà come centrale quando si metterà mano al superamento dell’impasse dell’ora di religione alternativa - per coloro che «non si avvalgono» dell’insegnamento concordatario, affidato ai vescovi - e alla formazione di insegnanti ad hoc.
L’esigenza appare sempre più impellente di fronte ai numeri del pluralismo religioso che stiamo scoprendo: abbiamo 355 parrocchie cristianoortodosse per un milione e 500 mila immigrati, per lo più recenti, affiliati ai patriarcati romeno, serbo, di Costantinopoli, macedone, russo, greco, copto; 655 luoghi di culto per un milione 650 immigrati musulmani; 658 chiese neo-pentecostali africane. E il sorprendente studio di Enzo Pace si sofferma sugli 80 mila sikh, in gran parte ormai italo-sikh con i loro 36 templi (Gurudwara). Ancora in questi giorni un grande giornale li presentava come «uomini col turbante abituati a pregare Shiva e Visnù», mentre i sikh, a differenza degli induisti, sono monoteisti.
La conoscenza delle religioni sta diventando parte di uno standard di base per una pacifica convivenza e per contrastare le tendenze fondamentaliste e violente. In tal senso si sta formando un orientamento negli organismi internazionali: Unesco, Ocse e Unione europea. La conoscenza della pluralità è l’arma decisiva che demolisce le idiozie etnocentriche e i purismi di impronta razzista.
Sono dunque datate le invettive contro la minaccia che i nostri bambini venissero privati, nelle mense scolastiche, della amata mortadella o dei tortellini col prosciutto, a causa della presenza di famiglie musulmane. In questi dieci anni la dieta differenziata è diventata routine nel 76 per cento dei casi: vegani e carnivori potranno convivere con diete halal e kosher. E la via che porta dall’invettiva alla routine pluralista passa dalla conoscenza.

l’Unità 25.4.14
Scelto per voi. Il film di oggi
Che Guevara
il rivoluzionario e l’uomo secondo Soderbergh

CHE L’ARGENTINO (2008) Otto anni di lavoro, ricerche, documentazioni. Per Steven Soderbergh è stata una sorta di magnifica ossessione, ma il risultato è straordinario. Che Guevara col volto di Benicio Del Toro è raccontato non solo nei panni del rivoluzionario ma anche e soprattutto in quelli dell’uomo... «senza perdere la tenerezza». Dall’incontro con Fidel al cuore della rivoluzione cubana.
21.10 LAEFFE

giovedì 24 aprile 2014

25 aprile, lettere dei partigiani condannati a morte: Scamarcio legge Balbis
qui

«Dimmi con chi vai...»
Ieri anche la “sinistra” del Pd ha votato la fiducia, in Matteo Renzi e Angiolino Alfano...
Ma... se sostiene col proprio voto Benitino-Renzi, anche contro lo stesso sindacato dei lavoratori, che “sinistra” sarà mai?!
l’Unità 24.4.14
Lavoro, è tregua armata In Senato lo scontro finale
Tutta la maggioranza vota la fiducia alla Camera
Il sindacato apre il duello sulla disegno di legge
di Bianca Di Giovanni


Nessuna sorpresa nell’aula di Montecitorio, aspettando i «fuochi d’artificio» che Ncd promette in Senato. La fiducia che il governo ha posto sul decreto lavoro è passata con il sì di tutta la maggioranza (344 voti favorevoli, di Pd, Scelta civica, Ncd e Pi), e il no delle opposizioni (184 voti contrari di FI, Sel, M5S, Lega, Fratelli d’Italia). Oggi si procederà con il voto sugli ordini del giorno e il varo del testo, che passa così a Palazzo Madama.
E lì il presidente della commissione Lavoro, Maurizio Sacconi, riapre la partita. «La commissione Lavoro del Senato svolgerà una seconda lettura approfondita del decreto lavoro - ha detto - per la quale ho incaricato il senatore Pietro Ichino di svolgere la funzione di relatore». Il senatore alfaniano - tra i più intransigenti nei confronti delle modifiche introdotte alla Camera - assicura che garantirà «che i lavori si svolgano in tempi utili a che il Senato possa compiere le eventuali modifiche garantendo altresì la conversione del decreto legge nei tempi previsti. Sono certo che la maggioranza saprà operare una sintesi, aperta a recepire i contributi positivi delle stesse opposizioni».
Non è complicato immaginare la direzione di marcia che Sacconi intende imprimere al decreto. «Il nostro mercato del lavoro, che allo stato si caratterizza per l’esclusione di troppe persone, ha evidente bisogno di misure urgenti per incrementare la propensione ad assumere - dichiara - L’esame dei dettagli non è certo secondario perché anche un solo dettaglio può fare la differenza tra un apprendista e un disoccupato». Per gli addetti ai lavori il messaggio è chiaro: via lacci e lacciuoli per le aziende. Assumere apprendisti senza vincoli, così come rinnovare contratti a termine senza tetti. Detta così non si capisce con quali criteri lo Stato dovrebbe finanziare l’apprendistato per circa due miliardi l’anno.
STRATEGIE PARLAMENTARI
Ncd è sicura di riuscire a ritagliarsi un ruolo di protagonista nelle stanze del Senato, dove si discuterà del decreto proprio nei giorni di campagna elettorale per le europee. Un’occasione da non perdere per gli alfaniani, che tuttavia si espongono a un rischio molto forte. Il decreto infatti scade il 20 maggio, e considerando ponti e festivi, il tempo non è molto lungo per consentire altri due passaggi parlamentari. Senza contare anche il fatto che nessuna modifica sarà possibile senza l’accordo del Pd, per un semplice problema di numeri. Dunque, una mediazione sarà ineludibile. Sulle modifiche introdotte alla Camera il partito di Renzi si dice compatto: non ci dovrebbero essere incrinature al Senato. Certo, molto dipenderà da come Sacconi e sodali sapranno muoversi: non è affatto escluso che riescano a spuntare qualcosa. Soprattutto su quella norma che prevede l’obbligo di stabilizzare il 20% degli apprendisti se si vuole procedere ad assumerne di nuovi. Il Sole24ore di ieri non nascondeva l’irritazione di Confindustria su questo punto, e non è detto che il pressing degli imprenditori non si faccia sentire in Senato.
Intanto ci sono già i commercianti a suonare la gran cassa della deregulation. «Sull’apprendistato manca il coraggio di semplificare fino in fondo e sul contratto a termine si torna a ventilare il tema della precarietà, quando la disoccupazione è ormai a livelli record e occorrono risposte urgenti», scrive Confcommercio in una nota. Evidentemente non bastano i 36 mesi senza causale né articolo 18: è ancora troppo poco. Così come non basta che si possa scrivere un piano formativo di un rigo nel contratto per l’apprendistato. Tutto questo per Confcommercio è un passo indietro. Anche i commercianti se la prendono con le sanzioni: in particolare con quella che prevede l’assunzione se si supera il tetto del 20% dei contratti a termine. Per la verità in questo caso si tratta di rispettare una legge quadro, che impone dei vincoli al contratto a termine (vedi intervista sotto): altrimenti di fatto si cancella il contratto a tempo indeterminato in favore del termine. In tempi di precariato spinto non sembra proprio una brillante idea.
Intanto il sindacato apre anche il confronto sul disegno di legge delega, che insieme al decreto completa il Jobs Act. «Sul ddl lavoro occorrerà discutere ogni singolo articolo perché così com’è rischia di ridurre le protezioni e creare ancora più complicazioni - il segretario confederale della Cgil, Serena Sorrentino - in una materia su cui si interviene da anni senza mai ricostruire un disegno organico». Anche dalla Uil c’è allarmeper l’incoerenza di alcuni aspetti della delega con il decreto.

Corriere 24.4.14
La fiducia al decreto sul lavoro
Più della fretta poté la paura
di Massimo Franco

qui

Sandro Bondi (Sandro Bondi!) ha dichiarato di sostenere Renzi....
Claudio Scajola (quello dell’appartamento): e Galan «Sandro Bondi ha ragione...»
Due fatti che dicono tutto!
Repubblica 24.4.14
“Sandro, tu mi pugnali alle spalle” Ma cresce la fronda della svolta
di Carmelo Lopapa


ROMA. «Sandro, ma ti sembra questo il momento per parlare di fallimento?» Giusto nel giorno tetro dell’avvio dell’esecuzione della pena, a un mese dalle Europee, alla vigilia dell’esordio tv della campagna elettorale, nelle stesse ore in cui Paolo Bonaiuti ufficializza il passaggio all’Ncd. La telefonata di Silvio Berlusconi a Bondi nel pomeriggio è ad alta tensione. La sortita dell’ex coordinatore forzista e pidiellino (per un decennio), la lettera di sfogo alla Stampa , raccontano abbia mandato il leader fuori dalla grazia di Dio, in mattinata. «Ma l’avete letta? È stata una pugnalata alle spalle, puro autolesionismo. Voi evitate di attaccarlo, con lui me la vedo io» ha intimato ai suoi da Arcore.
Così, in serata il senatore si è affrettato a precisare che la sua «fedeltà a Berlusconi non è in discussione» e che è «dispiaciuto e amareggiato: la mia analisi è stata male interpretata». La tempesta però si era ormai scatenata, proprio mentre Berlusconi aveva decisamente altro a cui pensare. Firma del decreto e avvio dei servizi sociali coi 96 minuti trascorsi all’Uepe di Milano, al fianco di Niccolò Ghedini. Ne esce provato in volto. Nell’istituto per anziani e disabili di Cesano Boscone dovrebbe andare per la prima volta venerdì 2 maggio. L’umore è quello che è, dopo la firma è volato a Roma perché oggi parte la campagna per le Europee con la registrazione
di Porta a Porta alle 17, poi di gran lena rientro obbligato ad Arcore entro le 23. Lo start della «maratona tv», come la chiama, che proseguirà domani con la registrazione a Milano di Matrix e a seguire tanti tg. Tutti i sondaggi, anche quelli più clementi, danno Fi ancora sotto la soglia-spartiacque del 20 per cento.
Ecco perché della tempesta scatenata dalla lettera di Bondi - con annessi trionfalismi di Alfano e dei suoi - Berlusconi avrebbe fatto volentieri a meno. Nonostante una prima avvisaglia l’avesse avuta già un paio di settimane fa, quando il senatore aveva presentato una lettera di dimissioni dalla carica di amministratore e commissario, dichiarandosi inadeguato a un ruolo che dovrebbe essere ad appannaggio di una figura più manageriale. «Le casse sono vuote e non si è voluto accollare la responsabilità di firmare provvedimenti di spesa» dicono le malelingue interne. Sta di fatto che, tra le altre cose, è rimasta in asso la firma dei contratti dell’ottantina di dipendenti in attesa di transitare dal Pdl a Fi, da due mesi senza stipendio. Poi l’eclissi in tv, Bondi che non si riconosce più nel nuovo entourage che circonda ormai il capo, fino all’exploit di ieri che spiazza i colleghi. Alla Camera e soprattutto al Senato nei capannelli forzisti non si parla d’altro, mentre le truppe Ncd accolgono al suono di trombe il passaggio dell’ex portavoce Paolo Bonaiuti. «Bondi decida, o sta nel partito o sta fuori» intima Alessandra Mussolini che esprime gli umori della pancia berlusconiana. Ma la vicenda, sostiene Daniela Santanchè, «con tutto il rispetto è nulla rispetto alla drammaticità di questa giornata, che richiederebbe ben altre riflessioni sulla nostra democrazia». Sarà Giovanni Toti a tentare di chiudere in fretta riducendo l’uscita di Bondi come «una sua posizione personale».
Ma se in queste ore è sceso di nuovo il gelo su Forza Italia, è perché in tanti temono quel che potrebbe accadere dopo un possibile flop al voto del 25 maggio. «La lettera ci induce a una riflessione molto profonda» mette le mani avanti Gianfranco Rotondi, già autoproclamatosi premier del “governo ombra”. Molti i parlamentari in posizione di sofferenza per varie ragioni. I senatori campani, l’ex ministro Elio Vito blindatosi nel silenzio da tempo, il deputato Giorgio Lainati (dichiaratosi comunque fedele a Berlusconi). Truppe in fibrillazioni alle quali il capo oggi detterà la linea in tv, per salvare il salvabile.

Corriere 24.4.14
Perché gli elettori di destra voteranno Renzi
La diaspora della destra
di Ernesto Galli della Loggia

qui

La Stampa 24.4.14
Comunisti
di Jena

Bentornato tra noi compagno Bondi.

La Stampa 24.4.14
La rivolta dei berlusconiani “Una lettera da maramaldo”
Ma Galan difende l’ex coordinatore: ha solo detto la verità
di Mattia Feltri


Sandro Bondi, dice Daniela Santanchè, «non è nulla». Niente di polemico ma «oggi non è nulla». «E’ solo inopportuno». Si è voluta mettere in un angolo del cortile di Montecitorio per accendersi una sigaretta e soffiare fuori fumo e depressione. Non si respira altro, da queste parti. Uno come Antonio Martino, vecchia guardia, vecchio liberale, uomo che vive di levità e disincanto, spende termini inconsueti: «Bondi è un maramaldo». 
Stefania Prestigiacomo cantilena amarezza: «Diciamo che non ha scelto il momento migliore». Il senatore Altero Matteoli, di passaggio alla Camera, dice che certe discussioni andrebbero affrontate dentro al partito e non sui giornali: «La lettera, Sandro non doveva mandarla a voi, ma a Forza Italia». Tirano tutti in ballo il modo e il momento. Proprio lui e proprio oggi, giorno in cui Silvio Berlusconi è a Milano a mettere la firma sotto l’accettazione della pena. E’ questo che intende Daniela Santanché, luttuosa oltre ogni aspettativa, e parrebbe oltre ogni ragionevolezza: «E’ un giorno terribile per la democrazia, un giorno in cui si stabilisce che un cittadino non ha diritto di parola. E io dovrei occuparmi di Bondi?». E d’improvviso scattano tutti. Scatta lei: «Bondi dice cose ovvie, sono venti anni che le sento dire. Forza Italia è morta? Evviva, è morto un partito per la centesima volta, un partito con un leader che da mesi non va in tv eppure sta oltre il venti per cento. Sarà un miracolo, chissà». Scatta Martino, soprattutto: «Bondi infierisce su un uomo che è alla fine del suo ciclo politico, sempre che alla fine poi ci sia davvero. Adesso che lo vede in difficoltà si permette anche le critiche. Io sono amico di Berlusconi. Lui non mi parla nemmeno più, non mi risponde al telefono, credo non abbia neanche voglia di sentirmi... Ma a Berlusconi ho sempre detto tutto in faccia. E quando lo contestavo, parlando di Forza Italia come di un partito con atteggiamenti antidemocratici, antiliberali e incivili, non c’era nessun Bondi a darmi ragione. Ma il partito di cui parla Sandro, è lo stesso partito del quale lui è stato dirigente sommo negli ultimi quindici anni? Davvero lui è estraneo a ogni responsabilità?».
Si cerca con sforzo da rabdomanti un po’ di buonumore. L’amarezza, a sera, è dello stesso Bondi critico col titolo della Stampa (“Fi ha fallito, sosteniamo Matteo”): «Sono molto dispiaciuto che la mia analisi oggi sia stata male interpretata, a cominciare dal titolo che non corrispondeva alle mie parole, e strumentalizzata. Voleva in realtà essere una seria riflessione per contribuire al rafforzamento di Forza Italia e a una nuova prospettiva per il centrodestra». La verità è che nessuno ce l’aveva col titolo. Ce l’avevano tutti con il pezzo: «Noi qui di pugnalate ne abbiamo ricevute già abbastanza da chi se n’è andato», dice Alessandra Mussolini. La Prestigiacomo, oltretutto, su qualche punto dà anche ragione all’ex coordinatore: «Abbiamo fallito nelle riforme, e questo purtroppo è vero, almeno in parte. Ma il partito è vitale. Lo vede moribondo soltanto chi rimane chiuso nelle stanze romane». Un altro liberale, Giancarlo Galan, condivide Bondi dall’inizio alla fine: «Dice che il centrodestra è in frantumi, ed è difficile dargli torto. Dice che Forza Italia non è mai diventato un grande partito moderato, che non ha fatto la rivoluzione liberale e neanche le riforme: analisi perfetta! Come si fa a smentire? Lo stesso Bondi dice che è successo per colpa degli alleati. Giustissimo. Però dico che abbiamo anche due meriti: nel ’94 abbiamo sconfitto il Pds di Achille Occhetto, che era una minoranza organizzata, e introdotto il bipolarismo che oggi è saldo. E se ora dall’altra c’è Renzi - uno che ha preso parecchio da noi, e la cui vittoria non sarebbe una tragedia - è perché in questi venti anni c’erano Forza Italia e un fuoriclasse come Silvio Berlusconi». 
Quelli del Nuovo centrodestra passano con altro spirito. Quasi saltellano di compiacimento. La Prestigiacomo scuote la testa: «Mah... A me, veramente, pareva che Sandro scrivesse anche della loro fallimentare scissione». Se si sposta il mirino, si spara anche meglio. «Sono traditori del loro leader e della loro storia, propugnatori di una politica miserabile dai toni volgari», conclude Galan: ed è la conclusione del ragionamento, e non solo.

La Stampa 24.4.14
Renzi resta cauto. Ma tra i renziani si apprezza l’apertura
Richetti: Matteo da sempre parla anche ai moderati
di Fabio Martini


Nel Transatlantico che tutto deglutisce e digerisce, la notizia del giorno viene accolta con un sorriso dal più irregolare dei big del Pd, Pippo Civati: «Bondi viene nel Pd? Basta saperlo in anticipo: noi ci organizziamo con una forza di sinistra...». Una battuta che “interpreta” scherzosamente l’intervento di due giorni fa su “la Stampa”di Sandro Bondi, che in realtà non preannunciava una adesione al Pd, ma conteneva un elogio davvero inatteso di Matteo Renzi. Un leader - a detta di Bondi - che sta modernizzando l’Italia con riforme che il centrodestra non è riuscito a fare, al punto che Forza Italia dovrebbe decidersi ad appoggiare apertamente il presidente del Consiglio. Sandro Bondi non è un personaggio qualunque: per anni è stato l’interprete dell’ortodossia berlusconiana con accenti di affetto personale per il capo inusuali anche in quel mondo e dunque la sua sortita non ha lasciato indifferente il Pd e il mondo renziano.
Certo, il presidente del Consiglio ha preferito glissare sull’endorsement: «Bondi? Anche no... Lui è innamorato di Forza Italia e di Berlusconi e quindi sta dall’altra parte del campo». Così Matteo Renzi ha risposto ad un follower, che gli aveva chiesto se fosse immaginabile un approdo di Bondi nel Pd. Ma lo stesso interlocutore chiedeva pure se Renzi si sentisse di destra e il presidente del Consiglio gli ha risposto: «I fatti parlano per noi, la nostra manovra è incentrata sulla giustizia sociale».
Il presidente del Consiglio sa che tra l’opinione pubblica di sinistra, Sandro Bondi non è amatissimo e dunque non restituisce la carezza ma certo non irride all’apertura. Stesso mood a chi chiede a Renzi se sia di destra. Il premier risponde che, figurarsi, lui è per la giustizia sociale. ma sta attento a dire che considera infamante l’etichetta destrorsa. E in queste due risposte si comincia a leggere l’”incasso” che il mondo renziano immagina di lucrare dalla sortita bondiana. Dice Matteo Richetti: «Renzi ha sempre parlato ad un elettorato più vasto di quello del Pd. Ricordiamoci delle Primarie tra lui e Bersani: già allora si intuiva che Matteo avrebbe potuto pescare oltre l’elettorato del Pd e perciò si imposero regole restrittive. Bondi ha scritto cose intelligenti: le risposte che il governo sta dando sono realmente trasversali. Per dirne solo una: nel decreto lavoro si offrono opportunità ai lavoratori ma con strumenti richiesti dalle imprese».
Con la sua sortita, l’”ultrà” Bondi finirà per legittimare il premier presso l’opinione pubblica di centrodestra? Finirà involontariamente per fornire a Renzi un assist insperato? Beppe Fioroni, uno dei pochi che nel Pd non è schierato col premier, mette in guardia: «Timeo Danaos et dona ferentes», cioè mi fannno paura i greci anche se portano doni. Come dire: occhio agli elogi di un nemico storico. Ma quattro giorni fa Gianroberto Casaleggio, il guru del Cinque Stelle, aveva sostenuto che «chi dovrebbe aver paura di Renzi è Berlusconi perché può darsi che Renzi gli prenda molti voti». Sostiene Paolo Gentiloni, già ministro della Comunicazione: «Renzi vanta oggi livelli di fiducia, attorno al 60%, di solito accordati ai Presidenti della Repubblica o ai sindaci più popolari: può sfondare sia nell’elettorato di Berlusconi che di Grillo e per farlo potrebbe evitare battaglie frontali contro l’uno e contro l’altro». Una tattica dello svuotamento che ha incontrato in Sandro Bondi un alleato involontario e inatteso.

l’Unità 24.4.14
Riforme, scontro nel Pd
Boschi contro Chiti: «È stupefacente che la minoranza freni»
La replica: «C’è una maggioranza favorevole al Senato elettivo»
Il premier: «Non delego la materia ai professori»
di Andrea Carugati


«Stupefacente che la minoranza Pd cerchi di bloccare la riforma del Senato», attacca di primo mattino il ministro Maria Elena Boschi dalle colonne del Corriere della Sera. «Non si può dire che chi vuole l’elezione diretta dei senatori da parte dei cittadini non vuole le riforme», replica nel pomeriggio Vannino Chiti, capofila dei senatori ribelli alla linea del premier. «Come ho detto al ministro Boschi, se la maggior parte dei parlamentari vuole l’elezione diretta basta assumere questo e le riforme galoppano...».
Il faccia a faccia tra il ministro e il senatore dissidente si realizza nel pomeriggio a Palazzo Madama, in una affollata riunione della commissione Affari costituzionali che oggi concluderà la prima parte della discussione sulla riforma. Boschi non interviene, ascolta una parte della discussione e poi scappa alla Camera per la fiducia. Chiti, a margine, sembra soddisfatto, perché l’idea del Senato eletto dai cittadini in questa prima fase dal dibattito ha riscontrato parecchi consensi. Dal M5S che si è detto pronto a sostenere la proposta Chiti «con alcune modifiche», fino a Forza Italia che con il capogruppo Paolo Romani spiega che «intendiamo mantenere i patti con Renzi, ma un’ulteriore riflessione è necessaria sul sistema di elezione dei membri del Senato». Romani è sibillino. Prima annuncia che sul Senato elettivo «è d’accordo buona parte dei gruppi in commissione, anzi mi pare che ci sia la maggioranza in commissione e anche in aula». Poi spiega che «se il governo richiamerà all’ordine la sua maggioranza, sia la minoranza Pd sia le altre componenti, noi ci uniformeremo alla proposta del governo».
Il vicesegretario Pd Guerini replica immediatamente: «Il Senato non elettivo è uno dei punti cardine dell’accordo tra noi e Fi». «Nessun problema dinumeri, Fi mantiene i patti», gli fa eco la Boschi. Gaetano Quagliariello, ex ministro e plenipotenziario di Ncd sulle riforme, prova a fare da paciere: «Il problema non è l’elettività diretta del Senato ma le sue funzioni. Se dovrà avere una funzione di contrappeso e garanzia allora la fonte di legittimazione non potrà che essere popolare».
Quagliariello rilancia la proposta di Ncd, che prevede l’elezione dei senatori in contemporanea con i consigli regionali. Un’idea che trova consensi trasversali e che alcuni vedono come un possibile punto di mediazione. Di certo la condivide Roberto Calderoli, che con Anna Finocchiaro è relatore del provvedimento. All’inizio della prossima settimana i due relatori dovranno partorire il testo base. Un’operazione complessa, con il governo e il capogruppo Pd Zanda che chiedono di adottare la bozza del governo, e molti altri, a partire da Chiti e M5S, che vorrebbero discutere su una base diversa.
I due relatori non hanno ancora preso una decisione. «Alla luce della discussione che abbiamo sentito mi pare difficile poter adottare il testo del governo. Credo che ci saranno parti di quel testo con alcune integrazioni», spiega a l’Unità Calderoli. Che sintetizza con una battuta il dibattito di ieri: «Il testo del governo è stato disintegrato a pallettoni da tutti tranne che da Zanda...». Di paletti e distinguo ne sono stati posti molti. Quasi nessuno vuole le 21 personalità illustri scelte dal Quirinale, Ncd non gradisce la presenza paritaria dei sindaci rispetto ai rappresentanti delle Regioni, il capogruppoM5sMaurizio Buccarella (in tandem con Grillo) spara a zero paragonando il progetto di Renzi a «quello della P2».
Loredana de Petris di Sel sbotta e chiede copia del patto Renzi-Berlusconi. «Se ne parla da mesi, lo vogliamo vedere!». «Il muro contro muro del governo non aiuta il processo di riforma», avverte il bersaniano Miguel Gotor. Stefano Fassina replica a Boschi e Renzi: «Nessuno vuole bloccare le riforme. Invece di lanciare accuse di sabotaggio o ricerca di visibilità sarebbe utile che il governo facesse attenzione alle soluzioni indicate da Chiti».
Luigi Zanda, politico d’esperienza, invita tutti alla prudenza. «Non mi sembra che ci sia stata sinora una prevalenza di opinioni a favore di un Senato eletto direttamente dai cittadini. Gli orientamenti diventeranno più chiari al momento del voto sugli emendamenti, quando le scelte dovranno essere esplicite». Sulla stessa linea anche Claudio Martini, vicino a Bersani: «Non vedo questa prevalenza per il Senato elettivo». Il capogruppo Pd infine ha auspicato che il ddl del governo sia adottato come testo base: «Ho dubbi che si possa trovare un altro testo che raccolga una base così ampia...».
Renzi, dal canto suo, spiega di non voler «delegare le riforme ai professori», ribadisce il suo no all’elezione diretta e all’Anpi dice: «la mia riforma rispetta i valori che noi tutti difendiamo». Secondo il forzista Romani, una volta definito il testo base, sarà «utile» un nuovo round tra il premier e Berlusconi. Di certo, calano le chance di ottenere un via libera dell’Aula prima del 25 maggio. «Non possiamo stressare il calendario parlamentare», ammette Guerini.

Corriere 24.4.14
Tensione tra i democratici
Boschi: ritirate il testo
Ma la minoranza resiste
di Monica Guerzoni


ROMA — «Con la Costituzione non si scherza, quando la riforma arriverà alla Camera bisogna che ci guardiamo negli occhi e decidiamo se vogliamo far funzionare il sistema oppure no...». I senatori hanno appena iniziato la discussione generale ed ecco che Pier Luigi Bersani già sposta l’attenzione sulla seconda parte della battaglia: quella della Camera, appunto. L’ex segretario del Pd è convinto che il progetto di Matteo Renzi, che pure «va portato a casa», non stia in piedi se non si ritocca anche l’altro ramo del Parlamento. «Se diamo vita a una sorta di monocameralismo rischiamo grosso, in nessuna realtà parlamentare del mondo c’è una sproporzione così evidente — ragiona Bersani —. Il Senato deve cambiare. Poi però anche la Camera dovrà autoriformarsi, cominciando col tagliare i deputati». Clima arroventato. La sinistra pd chiede modifiche importanti, il patto tra Renzi e Berlusconi traballa e il ministro Maria Elena Boschi, reduce dalla prima discussione in commissione Affari costituzionali, prova a tranquillizzare: «Problemi di numeri? No, assolutamente no... Forza Italia ha ribadito che rispetterà l’accordo. Non mi pare ci sia nulla di nuovo». A ben guardare qualcosa di nuovo c’è ed è l’apertura degli azzurri al Senato elettivo, pilastro del ddl alternativo sul quale il pd Vannino Chiti ha raccolto 37 firme, grillini compresi. La Boschi gli ha chiesto di ritirarlo, ma lui resiste e prega il governo di non porre «paletti insuperabili». Il ministro lo ha accusato di voler bloccare le riforme e Chiti, «amareggiato», ribalta il ragionamento: «La maggioranza dei senatori è per un Senato elettivo, quindi con il mio ddl le riforme galoppano». Può sembrare una provocazione e non lo è, visto che il capogruppo di Forza Italia, Paolo Romani, conferma: «Su questo punto mi pare ci sia la maggioranza in commissione e anche in Aula». A sentire Romani, insomma, il governo non ha i numeri per far approvare il suo testo, che non prevede l’elezione diretta dei senatori. Il relatore Roberto Calderoli, che sta scrivendo il testo con Anna Finocchiaro, sostiene che in commissione il ddl del governo «è stato preso a pallettoni da tutti, tranne che da Zanda». Dire «tutti» è eccessivo. Roberto Cociancich e Claudio Martini, del Pd, smentiscono che stia prevalendo la visione di chi si oppone al testo Renzi-Boschi, ma la novità è la nascita di un asse trasversale in favore del Senato elettivo, che potrebbe saldare Forza Italia, sinistra del Pd, Ncd, Sel e M5S, che per la prima volta entra nel gioco politico delle alleanze. «Voteremo il testo di Chiti» conferma il capogruppo Luigi Di Maio. Uno scenario che il vice di Renzi, Lorenzo Guerini, si affretta a scongiurare: «Il Senato non elettivo è uno dei punti cardine dell’accordo con Forza Italia, confido che si arrivi a un approdo corrispondente al patto del Nazareno». I renziani fanno muro, eppure già si parla di un possibile compromesso sull’elezione diretta dei componenti. Maurizio Gasparri (Fi) pensa a «una doppia scheda con l’elezione contestuale dei senatori e dei consiglieri regionali». E Miguel Gotor (Pd), che pure è favorevole all’elezione indiretta, invita il governo a «non sottovalutare i rapporti di forza» che stanno emergendo: «Il muro contro muro non aiuta il processo».
M. Gu.

Repubblica 24.4.14
Dalla fronda Pd ai falchi di Silvio
L’ira di Renzi contro i “nostalgici”
di Francesco Bei Giovanna Casadio



ROMA. Che ci sarebbero stati «fuochi d’artificio», Matteo Renzi l’aveva messo nel conto. Ma ieri il muro alzato dai senatori in commissione affari costituzionali ha sorpreso anche il premier, facendo scattare l’allarme rosso a palazzo Chigi. Renzi ha visto saldarsi un fronte inedito tra i falchi di Forza Italia e alcuni della sua minoranza «in cerca di visibilità». E si è convinto che l’obiettivo prescinda dal merito: «Vogliono solo rallentare la riforma per impedirci di portare a casa il risultato in tempo per le europee». Il rischio infatti è reale, i tempi sono strettissimi, e il capo del governo - che ha legato all’abolizione del Senato la sua permanenza in politica - può perderci la faccia. Non esiste ancora un testo base, le distanze sono ampie, arrivare in queste condizioni all’approvazione in prima lettura della riforma costituzionale in appena un mese, entro il 25 maggio, è quasi un miraggio.
Per questo ieri, non appena il ministro Boschi capisce il vento ostile che si sta alzando in commissione, suona il corno per chiedere rinforzi. Il paracadute si apre subito. Boschi avvisa Renzi che Paolo Romani, ossia il capogruppo forzista che in teoria dovrebbe garantire il patto del Nazareno, è intervenuto personalmente per affossare la riforma del governo e, soprattutto, il Senato non elettivo. Renzi è una furia e attiva Denis Verdini con un messaggino: «Che diavolo stanno facendo i tuoi?». Verdini, che ha concordato con il premier la fine del Senato, gira l’irritazione di Renzi a Berlusconi. E il Cavaliere chiude la triangolazione, richiamando Romani all’ordine. Non è un caso se Lorenzo Guerini, sorridendo sornione, ieri pomeriggio invitasse i colleghi del Pd a tenere d’occhio le agenzie di stampa. Di lì a poco infatti, ecco una lunga e puntuale nota dello stesso Romani dai toni molto diversi. Una mezza marcia indietro rispetto all’incendio appiccato in commissione. Forza Italia, ammette il capogruppo, «si è impegnata a sostenere un percorso di riforme in senso monocamerale che prevedesse l’elezione indiretta dei senatori». E pur insistendo su una richiesta di approfondimento, Romani lo limita «all’individuazione di un meccanismo di elezione indiretta che armonizzi le contraddizioni esistenti».
Messa in sicurezza la sponda forzista, Renzi si è dovuto dedicare ai dissidenti del suo partito. Un fronte largo, ben più ampio dei soli “chitiani”. Ieri infatti si è manifestata una vasta area grigia di insofferenza verso il modello elaborato dalla coppia Boschi-Delrio. È lettiano Francesco Russo, che ha riunito una trentina di senatori dem di tutte le correnti, a mandare un sms di avvertimento al sottosegretario Delrio e alla Boschi. E il tono è più perentorio del solito: «Usciamo dallo stallo, il governo presenti un “testo numero 2” e trovi una mediazione sul Senato». Sarebbe meglio lo facesse il governo - insisterà poi Russo - ma potrebbero essere gli stessi relatori in commissione Affari costituzionali a trovare la soluzione: una sorta di uovo di Colombo che smini i dissensi ed eviti un braccio di ferro. Non solo con Vannino Chiti e la ventina di democratici (più i fuoriusciti dei 5Stelle) che chiedono un Senato elettivo, e non vogliono retrocedere. Ma soprattutto con quanti bocciano un Senato che somigli a «un dopolavoro», in cui siedono nei ritagli di tempo i “governatori” e i sindaci.
A palazzo Madama è chiaro infatti che il vento è cambiato. Soffia più forte in direzione di un Senato “modello francese”, con un potere penetrante di controllo sul bilancio. E un sistema ibrido di elezione: una quota di consiglieri regionali eletti, destinati a sedere soltanto nella Camera delle autonomie, senza incarichi né nella giunta, né in consiglio. La proposta dei consiglieri-senatori ha più padri. E la stessa presidente della commissione Affari costituzionali, la democratica Anna Finocchiaro la ritiene una base di discussione possibile, un compromesso che può tenere unito il Pd. La sinistra del partito, accusata dal ministro Boschi di atteggiamenti strumentali, appare infatti una tonnara che ribolle. I ribelli reagiscono e non hanno intenzione di mollare. Chiti si dice amareggiato. Miguel Gotor, bersaniano, avverte della sterilità di un «muro contro muro» e invita Boschi a rendersi conto dell’aria che tira: «Si è visto in commissione che anche Forza Italia preferirebbe senatori eletti, lo ha detto Paolo Romani...».
I malumori sono molti nelle file dem e stavolta non si limitano ai “soliti” civatiani. Pierluigi Bersani, l’ex segretario, s’inalbera per gli attacchi di Renzi e Boschi: «Non mi piace sia demonizzato Chiti, che conosciamo da piccolo e non è uno che strumentalizzi. Stiamo al merito piuttosto. L’autoriforma del Senato porterà con sé un paio di messaggi impliciti. Per prima cosa la domanda: voi della Camera non vi date un’aggiustatina? E poi la questione della legge elettorale: l’Italicum va ripensato, perché con un sistema monocamerale porterebbe distorsioni serie del meccanismo democratico». Torna, Bersani, sulla necessità di cambiamento anche della Camera: snellimento del numero di deputati, nuovi regolamenti, riorganizzazione delle sessioni parlamentari in assenza della “navetta” che, spesso, serve anche a recuperare errori o sviste nelle leggi. È nuova carne al fuoco per il premier. Eppure Renzi, parato il colpo dei falchi forzisti, è sicuro che alla fine riuscirà a tirarsi indietro ancora una volta anche il Pd: «La stragrande maggioranza lo voterà».

il Fatto 24.4.14
Vannino Chiti
Il gran rifiuto che aprì le porte al giovane Renzi
di F. D’E.



ROMA. Che ci sarebbero stati «fuochi d’artificio», Matteo Renzi l’aveva messo nel conto. Ma ieri il muro alzato dai senatori in commissione affari costituzionali ha sorpreso anche il premier, facendo scattare l’allarme rosso a palazzo Chigi. Renzi ha visto saldarsi un fronte inedito tra i falchi di Forza Italia e alcuni della sua minoranza «in cerca di visibilità». E si è convinto che l’obiettivo prescinda dal merito: «Vogliono solo rallentare la riforma per impedirci di portare a casa il risultato in tempo per le europee». Il rischio infatti è reale, i tempi sono strettissimi, e il capo del governo - che ha legato all’abolizione del Senato la sua permanenza in politica - può perderci la faccia. Non esiste ancora un testo base, le distanze sono ampie, arrivare in queste condizioni all’approvazione in prima lettura della riforma costituzionale in appena un mese, entro il 25 maggio, è quasi un miraggio.
Per questo ieri, non appena il ministro Boschi capisce il vento ostile che si sta alzando in commissione, suona il corno per chiedere rinforzi. Il paracadute si apre subito. Boschi avvisa Renzi che Paolo Romani, ossia il capogruppo forzista che in teoria dovrebbe garantire il patto del Nazareno, è intervenuto personalmente per affossare la riforma del governo e, soprattutto, il Senato non elettivo. Renzi è una furia e attiva Denis Verdini con un messaggino: «Che diavolo stanno facendo i tuoi?». Verdini, che ha concordato con il premier la fine del Senato, gira l’irritazione di Renzi a Berlusconi. E il Cavaliere chiude la triangolazione, richiamando Romani all’ordine. Non è un caso se Lorenzo Guerini, sorridendo sornione, ieri pomeriggio invitasse i colleghi del Pd a tenere d’occhio le agenzie di stampa. Di lì a poco infatti, ecco una lunga e puntuale nota dello stesso Romani dai toni molto diversi. Una mezza marcia indietro rispetto all’incendio appiccato in commissione. Forza Italia, ammette il capogruppo, «si è impegnata a sostenere un percorso di riforme in senso monocamerale che prevedesse l’elezione indiretta dei senatori». E pur insistendo su una richiesta di approfondimento, Romani lo limita «all’individuazione di un meccanismo di elezione indiretta che armonizzi le contraddizioni esistenti».
Messa in sicurezza la sponda forzista, Renzi si è dovuto dedicare ai dissidenti del suo partito. Un fronte largo, ben più ampio dei soli “chitiani”. Ieri infatti si è manifestata una vasta area grigia di insofferenza verso il modello elaborato dalla coppia Boschi-Delrio. È lettiano Francesco Russo, che ha riunito una trentina di senatori dem di tutte le correnti, a mandare un sms di avvertimento al sottosegretario Delrio e alla Boschi. E il tono è più perentorio del solito: «Usciamo dallo stallo, il governo presenti un “testo numero 2” e trovi una mediazione sul Senato». Sarebbe meglio lo facesse il governo - insisterà poi Russo - ma potrebbero essere gli stessi relatori in commissione Affari costituzionali a trovare la soluzione: una sorta di uovo di Colombo che smini i dissensi ed eviti un braccio di ferro. Non solo con Vannino Chiti e la ventina di democratici (più i fuoriusciti dei 5Stelle) che chiedono un Senato elettivo, e non vogliono retrocedere. Ma soprattutto con quanti bocciano un Senato che somigli a «un dopolavoro», in cui siedono nei ritagli di tempo i “governatori” e i sindaci.
A palazzo Madama è chiaro infatti che il vento è cambiato. Soffia più forte in direzione di un Senato “modello francese”, con un potere penetrante di controllo sul bilancio. E un sistema ibrido di elezione: una quota di consiglieri regionali eletti, destinati a sedere soltanto nella Camera delle autonomie, senza incarichi né nella giunta, né in consiglio. La proposta dei consiglieri-senatori ha più padri. E la stessa presidente della commissione Affari costituzionali, la democratica Anna Finocchiaro la ritiene una base di discussione possibile, un compromesso che può tenere unito il Pd. La sinistra del partito, accusata dal ministro Boschi di atteggiamenti strumentali, appare infatti una tonnara che ribolle. I ribelli reagiscono e non hanno intenzione di mollare. Chiti si dice amareggiato. Miguel Gotor, bersaniano, avverte della sterilità di un «muro contro muro» e invita Boschi a rendersi conto dell’aria che tira: «Si è visto in commissione che anche Forza Italia preferirebbe senatori eletti, lo ha detto Paolo Romani...».
I malumori sono molti nelle file dem e stavolta non si limitano ai “soliti” civatiani. Pierluigi Bersani, l’ex segretario, s’inalbera per gli attacchi di Renzi e Boschi: «Non mi piace sia demonizzato Chiti, che conosciamo da piccolo e non è uno che strumentalizzi. Stiamo al merito piuttosto. L’autoriforma del Senato porterà con sé un paio di messaggi impliciti. Per prima cosa la domanda: voi della Camera non vi date un’aggiustatina? E poi la questione della legge elettorale: l’Italicum va ripensato, perché con un sistema monocamerale porterebbe distorsioni serie del meccanismo democratico». Torna, Bersani, sulla necessità di cambiamento anche della Camera: snellimento del numero di deputati, nuovi regolamenti, riorganizzazione delle sessioni parlamentari in assenza della “navetta” che, spesso, serve anche a recuperare errori o sviste nelle leggi. È nuova carne al fuoco per il premier. Eppure Renzi, parato il colpo dei falchi forzisti, è sicuro che alla fine riuscirà a tirarsi indietro ancora una volta anche il Pd: «La stragrande maggioranza lo voterà».

l’Unità 24.4.14
Da un professore al Presidente
Sull’Italicum vorrei chiedere a Napolitano se condivide le liste bloccate e il premio di maggioranza
di Gianfranco Pasquino


CARO PRESIDENTE,
CAPISCO IL TUO RISERBO IN MATERIA DI PROPOSTE DI RIFORME ISTITUZIONALI. IN VERITÀ, PERÒ, IL RISERBO NON LO HAI SEMPRE MANTENUTO. PER ESEMPIO, ANCHE DOPO LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE, che ha fatto a pezzettini il Porcellum, hai subito richiesto una riforma elettorale. Molti, invece, non a torto, pensano che l’esito di quella sentenza sia una legge elettorale proporzionale, il consultellum, quasi immediatamente praticabile. Sembra che tu desideri altro, ma, ecco una parte del tuo riserbo, non l’hai fatto trapelare. Vuol dire, dunque, che condividi le liste ancora bloccate, il premio di maggioranza e tutte le soglie di accesso al Parlamento? Per quel che concerne la riforma del Senato, hai dichiarato il tuo sostegno alla fine del bicameralismo paritario, ma, si sa, meglio, si dovrebbe sapere, che di bicameralismi differenziati ne esistono molte varianti. Possibile che quella prospettata da Renzi e Boschi sia la migliore? Qui stanno molti punti dolenti che, in parte, ti riguardano direttamente, in parte, riguardano l’istituzione Presidenza della Repubblica, il suo ruolo, i suoi compiti.
Davvero pensi, una volta terminato il tuo secondo mandato, quando lo vorrai, ma, preferibilmente per me, il più tardi possibile, sia opportuno e istituzionalmente utile per te (e per i futuri presidenti della Repubblica) diventare deputato a vita? Davvero ritieni una buona soluzione che tu e i futuri Presidenti siate dotati del potere di nominare ventuno senatori per sette anni? Facendo un passo indietro, certamente sei consapevole che, una volta privato il Senato del potere di eleggere il Presidente, toccherà alla sola Camera dei deputati procedere a questa importantissima elezione. Se il cosiddetto/ maledetto Italicum sarà approvato nella sua versione attuale, nella prossima Camera dei deputati ci sarà una maggioranza assoluta creata dal premio di maggioranza che potrà fare il bello e il cattivo tempo, pardon, che potrà da sola eleggere un Presidente che molto difficilmente apparirà Presidente di garanzia, rappresentante, come dice la Costituzione, della «unità nazionale».
Per di più, quel Presidente di parte avrà molti poteri di nomina che, è fortemente presumibile, eserciterà non contro la maggioranza che lo ha eletto e neppure a prescindere da quella maggioranza (sono sicuro che hai apprezzato il mio understatement). Quindi, non soltanto quei ventuno senatori avranno un colore molto visibile, ma anche, punto molto dolente, i cinque giudici costituzionali di spettanza del Presidente non arriveranno al Palazzo della Consulta con tutti i crismi della loro autonomia di pensiero e di giudizio. Insomma, fra deputati nominati dai dirigenti del loro partito e delle loro correnti, quindi, ubbidientissimi, senatori nominati da te, forse in carriera, di sicuro tecnicamente irresponsabili (non dovranno rispondere a nessuno né politicamente né elettoralmente tranne alla loro personale ambizione), con giudici costituzionali probabilmente espressione di una parte politica, dove vanno a finire i pesi e i contrappesi che, ci insegni, sono il pregio delle democrazie, non soltanto di quelle parlamentari? Con riferimento alla tua storia istituzionale e ai tuoi comportamenti politici, parlamentari e presidenziali sono fiducioso che tu condivida le mie preoccupazioni. Non sono un «professorone» (copyright ministro Boschi), anche se sto tuttora impegnandomi per diventarlo; non sono neppure un «solone del diritto» (copyright Dario Nardella, candidato sindaco di Firenze), quindi, ho pochissime chance di essere ascoltato e preso in considerazione.
Tu, caro Presidente, hai molte lauree ad honorem, ma è la tua autorevolezza personale che va anche oltre la carica istituzionale che ti consentirà, se ritieni degne di interesse almeno parte delle mie considerazioni, di essere ascoltato e, quel che più conta, di suggerire riforme che non siano uno spezzatino e che siano suscettibili, non di stravolgere i pesi e i contrappesi, togliendo potere agli elettori, ma di fare funzionare meglio (più velocemente…) la democrazia italiana.

il Fatto 23.4.14
Stragi, non è vero che Renzi toglierà il segreto
di Gianni Barbacetto

qui

il Fatto 24.4.14
Segreti di Stato, verità e propaganda
di Gianni Barbacetto


PER LE STRAGI italiane, il principio di non contraddizione non vale. Sono infatti vere due affermazioni contraddittorie: “non sappiamo niente”; e “non c’è niente da sapere”. Non sappiamo niente, perché le stragi (150 i morti, oltre 600 i feriti) non hanno colpevoli certi e condannati, tranne Bologna e Peteano. Ma non c’è niente da sapere, perché ormai le migliaia di pagine dei documenti processuali hanno accertato la verità sostanziale: le bombe, da piazza Fontana (1969) a Bologna (1980) le hanno messe i gruppi neofascisti, nel quadro della guerra “a bassa intensità” (ufficialmente “contro il comunismo”, di fatto contro la democrazia) pianificata dai servizi segreti italiani e dagli alleati occidentali che dovevano tenere a ogni costo l’Italia dentro il quadro geopolitico dell’Occidente. Anche a costo di fare, o lasciar fare, tante “operazioni sporche”, le covered operations che contrappuntano ogni low intensity war. Non c’è infatti strage, non c’è inchiesta, non c’è processo in cui non siano emersi depistaggi di apparati dello Stato, testimoni sottratti, prove inquinate. “Ci avete sconfitti, ma sappiamo chi siete”, ripete uno dei tanti magistrati che hanno indagato sull’eversione italiana, Libero Mancuso. È utile, allora, togliere il segreto di Stato sulle stragi? Le cose da sapere sono ancora molte, moltissime. Ma il segreto non c’è, non può essere opposto alla magistratura su fatti di stragi e di eversione dell’ordine democratico. Gli apparati di Stato si sono “difesi” in altro modo: disperdendo documenti, distruggendoli, decontestualizzandoli. O nascondendoli con altri pretesti. Anche su un grave reato come il sequestro di persona non è opponibile il segreto di Stato, eppure i (presunti) responsabili italiani del sequestro di Abu Omar sono stati salvati dal segreto di Stato, avallato da quattro presidenti del Consiglio (Prodi, Berlusconi, Monti, Letta). Di che cosa parla, allora, il nuovo presidente del Consiglio, Matteo Renzi? Promette la più grande declassificazione di documenti della storia repubblicana. Ma questa è già contenuta nella legge sui servizi segreti del 2007, mai realizzata perché mai sono stati completati i decreti attuativi. Sarà realizzata ora? Speriamo. Quando sarà fatto? Con che tempi? E soprattutto: da chi? Durante le indagini sulla rete Stay Behind (Gladio), l’intero archivio su quella pianificazione segreta fu posto sotto sequestro dai magistrati che indagavano. Ma a custodire l’archivio sequestrato fu posto il Sismi, lo stesso servizio che aveva formato e gestito (insieme alla Cia) Gladio. Il risultato fu che ai magistrati fu fatto vedere quello che il Sismi voleva. Dev’essere un’autorità terza a gestire la desecretazione se vogliamo sperare di scoprire qualcosa di nuovo negli archivi.
QUALI, quanti e dove sono gli archivi (compreso quello dell’Arma dei Carabinieri) con i depositi da declassificare? Non c’è un elenco, non c’è una mappa: è questo il vero mistero italiano. Inoltre l’attività degli apparati di sicurezza italiani è stata spesso sviluppata fianco a fianco dei servizi dei Paesi alleati, oppure sotto l’ombrello Nato. Un buon motivo per mantenere il segreto, con l’argomento che non è possibile decidere per conto della Nato, o della Cia o del Mossad. Scettici, dunque, gli esperti di intelligence. Non si aspettano grandi rivelazioni dalla grande desecretazione di Matteo Renzi e Marco Minniti. È già tutto scritto in libri di specialisti come Giuseppe De Lutiis o Aldo Giannuli. Ma molto altro dovrebbe essere reso pubblico perché, come diceva Orwell, “chi controlla il passato controlla il futuro”.

il Fatto 23.4.14
Europee, Quarta (Lista Tsipras):

“Dietro le donne capolista il Pd candida gli antiabortisti”
un video qui

Repubblica 23.4.14
Pillola abortiva e poi niente visita: la donna denuncia il medico obiettore
Genova, abbandonata in corsia per un giorno chiama la polizia
di Ava Zunino

qui
 

il Fatto 23.4.14
Renzi, il suo decreto Irpef è dunque un bluff?
di Giuseppe Valditara

Professore ordinario di Diritto Pubblico Romano e co fondatore di Crescita e Libertà
qui

il Fatto 24.4.14
Ecco il decreto: gli 80 euro ci sono soltanto per il 2014
Il governo crea un fondo che sarà usato per rendere strutturale il taglio dell’Irpef, ma per ora non ha le risorse necessarie dal 2015 in poi
di Stefano Feltri


I maligni, a cominciare da Renato Brunetta di Forza Italia, cominciavano a pensare che ci fosse qualche problema serio: è passata quasi una settimana dal Consiglio dei ministri in cui il premier Matteo Renzi ha deciso il bonus fiscale da 80 euro in busta paga e ancora il decreto legge non è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. E così ecco che ieri è stata fatta filtrare l’ultima bozza dettagliata del provvedimento che oggi dovrebbe essere firmato dal capo dello Stato ed entrare in vigore (basta un piccolo ritardo ulteriore e si rischia che i soldi non arrivino nelle buste paga di maggio). Nelle mille riscritture di queste settimane, l’unica certezza è rimasta che i soldi ci sono soltanto per il 2014: i lavoratori dipendenti che guadagnano fino a 24 mila euro riceveranno 80 euro al mese, 640 in tutto, un bonus che decresce fino ad arrivare a zero per chi supera i 26 mila euro. Agli incapienti – quelli che stanno sotto gli 8 mila euro e non pagano tasse – ai pensionati e agli autonomi vanno solo le promesse di interventi futuri. “Non si tratta tecnicamente di detrazione Irpef, ma di un bonus di 80 euro. A regime sarà intervento sui contributi sociali”, ha detto ieri Renzi, chiarendo, ma non del tutto, il meccanismo di erogazione. In pratica: nel 2014 il datore di lavoro che agisce come sostituto d’imposta restituisce al dipendente parte delle tasse che gli ha trattenuto per conto dello Stato che a sua volta compenserà all’impresa scontando il bonus dalle imposte dovute o, se necessario, anche dai contributi previdenziali. Dal 2015 invece il meccanismo dovrebbe basarsi soltanto sui contributi, per evitare fastidiosi effetti collaterali con le aliquote marginali: il datore di lavoro darà i soldi al dipendente, li recupererà dai versamenti all’Inps e l’istituto di previdenza, a sua volta, se li farà restituire dallo Stato. Proprio per garantire che questo meccanismo funzioni, la versione finale del decreto prevede la creazione di un apposito fondo da cui arriveranno le risorse necessarie (in modo da non dover cercare ogni volta le coperture tra le pieghe del bilancio). Il fondo deve avere circa 10 miliardi all’anno, al momento ha soltanto una parte di questi soldi per i prossimi: 2,7 miliardi per il 2015, 4,7 per il 2016, 4,1 per il 2017 e 2,0 dal 2018 in poi. Questo è il meccanismo e le coperture, almeno quelle che per il momento ci sono, da dove arrivano?
LA NOVITÀ dell’ultim’ora è che i ministeri dovranno contribuire anche più del previsto, 240 milioni di euro di risparmi sugli acquisti contro i 200 delle prime bozze. Sono misure dall’impatto quasi simbolico, ma è previsto anche un taglio alle consulenze e al ricorso ai contratti co.co.co. per la Pubblica amministrazione (e chissà come saranno redistribuite quelle mansioni, visto che c’è anche il blocco del turnover), mentre per limitare a 5 le auto blu di ogni ministero servirà un ulteriore provvedimento, un decreto di Palazzo Chigi. Poi ci sarà da luglio l’aumento della tassa sulle rendite finanziarie dal 20 al 26 per cento che riguarderà, e non era scontato, anche gli interessi maturati sul conto corrente e sui libretti di risparmio postali. La Rai dovrà trovare 150 milioni di euro, nel primo anno vendendo le torri di Raiway. Ben 2 miliardi derivano dalla lotta all’evasione. O meglio: dal far pagare sanzioni più elevate agli evasori che verranno scoperti.
Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, da Madrid, dice che il bonus da 80 euro “avrà ripercussioni positive sul Pil in quanto le famiglie potranno spendere di più e le imprese saranno stimolate a investire e, di conseguenza, a creare maggiore lavoro” e si spinge a ipotizzare che questo possa far crescere il Pil dell’Italia anche più dello 0,8 indicato nelle previsioni ufficiali.
Peccato che il Documento di economia e finanza del Tesoro (Def) indica l’impatto sul Pil delle misure: bonus e tagli praticamente si compensano, il risultato netto è zero. Ma il saldo dovrebbe essere positivo per il Partito democratico di Renzi alle elezioni europee del 25 maggio.

Il Sole 24.4.14
Decreto Renzi
Il testo al Colle: il peso dell'aliquota al 26% sui depositi nel 2015, pagamenti Pa a 5 miliardi
Dal 1° luglio aumento della tassazione su depositi, interessi e capital gain
Sui conti correnti tassa da 755 milioni
di Eugenio Bruno e Marco Mobili


ROMA La stangata sulle rendite finanziarie presenta il conto a cittadini e imprese. Dei circa 3 miliardi prodotti nel 2015 dall'aumento della tassazione dal 20 al 26%, ben 755 milioni arriveranno dal prelievo sugli interessi per depositi e conti correnti. A rivelarlo è la relazione tecnica al decreto sul cuneo fiscale approvato dal Consiglio dei ministri di venerdì scorso, che ieri è stato inviato al Colle e che oggi dovrebbe approdare sulla Gazzetta Ufficiale. Da quel momento partirà la corsa ad aggiornare i software per attribuire ai lavoratori dipendenti i "mitici" 80 euro in busta paga. Che, altra novità rispetto alle bozze circolate nei giorni scorsi, saranno riconosciuti a tutti i contribuenti con redditi fino a 24mila euro. Una misura da cui il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, si attende un impatto positivo sul Pil al punto che potrebbe essere rivista al rialzo la stima dello 0,8% di crescita.
Dall'incrocio tra il testo definitivo del dl e la relazione tecnica si delineano meglio i contorni dell'intera operazione cuneo fiscale. A cominciare dagli effetti attesi dall'incremento del prelievo sugli strumenti finanziari (esclusi i titoli di Stato) che scatterà dal 1° luglio 2014. Per quest'anno l'impatto sarà contenuto in 720 milioni necessari a coprire la riduzione delle aliquote Irap con gli acconti di fine novembre. Dal prossimo anno la curva dell'imposizione sulle rendite è destinata a salire. Passando, al netto delle ritenute sulle imposte dirette, dai 2,3 miliardi del 2015 ai 2,9 del 2016 per poi assestarsi ai 2,6 dal 2017 in poi. Dalle tabelle emerge che lo stesso andamento riguarderà il peso sui conti correnti: nel 2014 sarà pari a zero perché i versamenti degli istituti di credito sono commisurati alle ritenute effettuate nell'anno precedente con la vecchia aliquota del 20%; nel 2015 l'impatto salirà a 755 milioni con un saldo 2014 versato a febbraio dalle banche di 378 milioni e un acconto per il 2015 versato a giugno di pari importo; il top verrà raggiunto nel 2016 quando famiglie e imprese si vedranno prelevare oltre 1,1 miliardi.
A bilanciare la stretta per i contribuenti interverrà il credito di 80 euro in busta paga. Alla fine l'ha spuntata il premier Matteo Renzi. Rispetto alle simulazioni iniziali che prevedevano una progressività del bonus gli 80 euro saranno erogati a tutti i dipendenti che guadagnano fino a 24mila euro lordi. Per poi diminuire, fino ad azzerarsi, a 26mila euro. Il costo di tale misura – che sarà valida solo per il 2014 mentre per il 2015 toccherà alla legge di stabilità renderla strutturale, ndr – sarà di 5,8 miliardi quest'anno. Una cifra che, stando alla stessa relazione tecnica, non appare certo un taglio della pressione fiscale. Forse per effetto di un artificio contabile alla fine il bonus risulterà a bilancio, almeno per una parte, dal lato della spesa, come avviene già oggi per i crediti d'imposta.
Rinviando all'articolo qui sotto per il reale impatto dei tagli contenuti nel dl Irpef, la relazione tecnica e il testo definitivo confermano la stangata sulle banche che hanno quote di Bankitalia e che dovranno versare l'imposta sostitutiva del 26% e non più del 12% come prevedeva la legge di stabilità entro metà giugno prossimo. Per gli istituti di credito va registrata anche una riduzione (pari a 75 milioni per il 2014 e 100 milioni per gli anni a seguire) delle commissioni riconosciute dallo Stato con la liquidazione dei modelli F24 per il pagamento dei tributi. Mentre un sospiro di sollievo possono tirarlo i piccoli produttori agricoli che sul filo di lana si vedono confermare il regime agevolato Iva per chi ha un volume d'affari non superiore a 7mila euro annui.
Tra le voci di maggiori entrata necessarie per coprire il bonus Renzi spicca la lotta all'evasione. Che viene cifrata in via prudenziale per 300 milioni quest'anno e per ben 2 miliardi nel 2015. Introiti peraltro aggiuntivi rispetto ai 13 incassati nel 2013. Il che porta l'obiettivo del contrasto al sommerso alla quota record di 15 miliardi. Un accenno infine lo meritano le risorse per pagare i debiti della Pa. Degli oltre 8 miliardi stanziati dal dl soltanto 5 potranno arrivare, complici i vincoli del patto di stabilità, nelle casse delle imprese. Con un ritorno nelle casse dello Stato, sotto forma di maggiore Iva, per 650 milioni.

Corriere 24.4.14
Il prelievo salirà da luglio al 26% anche per depositi e conti correnti


Scatta dal primo luglio l’aumento dal 20% al 26% dell’aliquota sulle rendite finanziarie introdotta dal decreto che mette a disposizione il bonus da 80 euro per i redditi da 8 a 24 mila euro e nello stesso tempo taglia l’Irap alle imprese del 10%. L’aumento dell’aliquota interesserà le plusvalenze di azioni e fondi, nonché interessi sui depositi postali. E sui conti correnti. L’aumento non tocca soltanto i titoli di Stato. Per Bot e Btp l’aliquota resta ferma al 12,5%. E non riguarda nemmeno le forme di previdenza complementare, tassate all’11%. Per i titoli azionari la nuova aliquota si applica ai dividendi e agli utili incassati dal primo luglio 2014, a prescindere dal periodo di formazione dell’utile. Per i titoli di grandi emittenti (per esempio banche e società quotate), gli intermediari simuleranno una cessione con riacquisto al 30 giugno 2014, addebitando al cliente l’imposta sostitutiva con l’aliquota del 20% sul rateo maturato fino al 30 giugno e contestualmente riaccreditando l’imposta con la nuova aliquota del 26% dal 30 giugno in poi.

Il Sole 24.4.14
I tagli necessari
L'ambizione del premier, la dura realtà dei numeri
di Guido Gentili


A fronte di un'onda montante su Twitter, con le risposte live del presidente del Consiglio Matteo Renzi in maniche di camicia e un finale «ciao a tutti, ci vediamo alla prossima», la relazione tecnica che accompagna un decreto legge (il dl spending review) fa la parte dello scoglio impossibilitato ad arginare il mare. Come da celebre canzone di Lucio Battisti, quella delle "discese ardite" e delle "risalite".
Eppure anche questo testo arido, nel giorno in cui il capo del governo s'impegna ad abbassare le tasse per le partite Iva, gli incapienti e i pensionati, mantiene una sua utilità, a ben vedere niente affatto marginale. Serve a riportare tutti coi piedi per terra e, segnalando paradossi e dettagli significativi, disegna l'impegnativo futuro dei prossimi mesi che sfocerà, a metà ottobre, nella presentazione della legge di stabilità. Quella obbligata a sigillare il raccordo tra la manovra di "breve periodo" per il 2014, come l'ha definita il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan (centrata in particolare - in vista delle elezioni europee- sul decreto che stanzia a partire da maggio il bonus da 80 euro ai lavoratori dipendenti con reddito fino a 24/26 mila euro), e la manovra "strutturale" con coperture finanziarie (sperabilmente) solide, stabili nel tempo e ottenute per la gran parte con tagli e revisioni della spesa pubblica.
Ieri Renzi ha fatto bene a specificare che quella disposta dal decreto «non è una detrazione ma un bonus di 80 euro». A regime sarà «un intervento sui contributi sociali». Ma la relazione tecnica ci dice qualcosa di più, e cioè che la classificazione dell'operazione è imputata nella voce "minori entrate tributarie". Scende insomma la pressione fiscale? Non proprio, per il 2014. Si avverte che «trattandosi di una fattispecie particolare» (col bonus non siamo nel campo della curva delle detrazioni Irpef da lavoro dipendente) la classificazione definitiva verrà poi stabilita dall'Istat. E non si esclude che «una parte degli sgravi possa essere contabilizzata dal lato della spesa (trasferimenti alle famiglie) alla stregua di altri crediti d'imposta».
Risultato paradossale, e che comunque esclude una diminuzione della pressione fiscale così come sarebbe arrivata con una manovra classica sulle detrazioni Irpef. Non mancano, poi, altri particolari. Tipo il dato, relativo all'aumento della tassazione delle rendite finanziarie dal 20 al 26%, che cifra in 755 milioni per il 2015 l'impatto delle ritenute sugli interessi su conti correnti, depositi, libretti postali e certificati di deposito. O la conferma che per il 2014 lo sgravio Irap per le imprese ammonta a soli 700 milioni e che verranno nei fatti sbloccati - a motivo dei vincoli fissati dal patto di stabilità interno - pagamenti della Pa per 5 miliardi (si era partiti indicando 13 miliardi poi se ne sono stanziati sulla carta 8,77). Infine, non sono stimati né i risparmi né le platee interessate su capitoli ad altissima sensibilità mediatica come le mitiche auto blu e il tetto a 240mila euro degli stipendi dei manager e dei civil servant pubblici. Segno che l'impatto previsto è meno che modesto.
L'iniezione di realismo si completa con la constatazione che i tagli di spesa, per il 2014, sono meno di 3 miliardi, pari al 44% della copertura dei 6,65 miliardi messi in pista per dare una scossa al Pil. Vuol dire che la partita vera, per il governo Renzi, deve ancora cominciare, tanto più ora che è stato già stato preso l'impegno di abbassare le tasse per i pensionati, gli incapienti e le partite Iva. Con la prossima legge di stabilità due conteggi verranno subito a galla: quello sui risultati in termini di ripresa della manovra sugli 80 euro per il 2014 e quello dei numeri che servono per il 2015. Si parte, solo per rendere "strutturale" ciò che si è fatto quest'anno, da non meno di 10 miliardi. E sullo sfondo, come monito preventivo, dovrebbe così suonare il caso Imu, che ci siamo trascinati dietro per mesi alla ricerca delle coperture. Bisognerà decidere di tagliare, e tanto. Questa sì operazione molto ardita.

il Fatto 23.4.14
Europee 2014, Renzi per vincere è costretto a non parlare d’Europa
di Marco Venturini

qui

Corriere 24.4.14
Matteo Renzi ha già individuato il prossimo obiettivo da colpire in nome di una maggiore «giustizia sociale»: i singoli
Troppi luoghi comuni sui single
Sono anche pensionati e separati
di Antonella Baccaro

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il Fatto 24.4.14
La giornalista Barbara Palombelli
“Niente miracoli, essere gufi e rosiconi è lecito”
“Siamo i gufi rosiconi (di Matteo Renzi e del suo governo) o facciamo il nostro lavoro e non adoriamo il Bambinello?”
intervista di Alessandro Ferrucci


C’è un dubbio che attanaglia Barbara Palombelli, un dubbio espresso in un paio di occasioni sul Foglio: “Siamo i gufi rosiconi (di Matteo Renzi e del suo governo) o facciamo il nostro lavoro e non adoriamo il Bambinello?”.
Ha trovato la risposta?
Il problema è che ci accusano di essere scettici davanti al miracolo.
Disfattisti.
Agli spagnoli e ai greci è stata detta la verità, a noi no.
E qual è?
Che anche noi dovevamo sottoporci a una manovra choc, come loro, mentre né Monti, né Letta, tantomeno Renzi hanno avuto il coraggio. Il vero segreto di Stato è sui conti pubblici!
Un segreto inconfessabile.
A quanto pare sì, gli unici ad aver lanciato l'allarme sono stati Barca e poi Passera. Basta.
Lei accusa i media di trattare Renzi in chiave adorante.
Per forza, qualunque cosa dice, qualunque cosa fa, è sempre giusta, perfetta.
Come mai?
Perché ha un potere di nomina mai visto.
Specifichiamo.
Parlo di manager, di numeri uno, sta decidendo tutto lui. E tutti stanno zitti.
Stanno zitti su cosa?
Nessuno parla dei conti del Monte dei Paschi, di Antonveneta, di Rcs o di Alitalia.
Il Fatto ha aperto sui “capitani coraggiosi” .
Infatti, voi siete tra i pochissimi, siete dei corsari. In qualche modo lo è anche Libero.
Non cita Repubblica e Corriere.
Il loro azionariato ha dei grossi problemi con le banche.
Le banche che ha citato prima...
Esatto. Ribadisco: Renzi ha in mano un enorme potere di nomina.
Insomma, il premier non la convince.
Ma no! Tutti ci auguriamo che sia l'uomo del miracolo, ci mancherebbe, ma il giornalista ha il dovere di porre questioni, analizzare, pungolare.
Ad esempio?
Bisogna capire se il Jobs act proposto dal premier rispetta le norme europee.
Ha già una risposta?
Intanto l'Italia non è seduta al tavolo dei grandi, e questo dovrebbe essere indicativo.
Serie B.
Tre anni fa il governo doveva trovare il coraggio per varare una patrimoniale da 400 miliardi, come ventilato.
E invece.
Hanno traccheggiato, alla fine abbiamo subito almeno tre o quattro patrimoniali silenti. Le nostre case valgono niente, il potere di acquisto di tutti si è ridotto del 30 per cento. Cosa accadrà ai nostri figli?
Precari a vita.
Esatto, vada a vedere quali sono le cifre scritte sui nuovi contratti di apprendistato, anche 400 euro per 40 ore di lavoro settimanale. Ma siamo pazzi?
Niente miracolo della moltiplicazione.
No, qui c'è la differenza tra il paese reale e quello inventato.
Un paese sotto segreto.
Non ci dicono la verità.
Eppure la verità è rivoluzionaria, come diceva Gramsci.

il Fatto 23.4.14
DL Irpef, le conseguenze pratiche di 30 milioni di tagli all’Università
di Marco Bella
qui

il Fatto 24.4.14
L’Agcom richiama Mentana: troppo Matteo nel TgLa7


UN ORDINE di riequilibrio al Tg La7 per gli eccessivi tempi di parola fruiti dal premier Renzi. Lo ha rivolto il consiglio dell’Agcom in base al regolamento sulla par condicio. Richiami a riservare maggior spazio al M5S anche per Studio aperto, Rai News24 e Sky Tg24. Leggendo i dati pubblicati dall’Agcom emerge la presenza massiccia del premier Renzi in tutti i tg, nel periodo dal 5 al 18 aprile. Soltanto nei telegiornali della Rai per 10 ore e 23 minuti. A cui vanno aggiunte le oltre 9 ore riservate al Partito democratico. Così le opposizioni parlamentari: Sel 53 minuti, Forza Italia 19 ore e 41 minuti, Lega nord un’ora e 45 minuti, Movimento Cinque Stelle 6 ore e 34 minuti, Fratelli d’Italia 27 minuti.

il Fatto 24.4.14
Quante volte parla Renzi?
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, il tema è Renzi. Non posso credere che un uomo così attivo parli così tanto. Una conferenza stampa al giorno, e dichiarazioni in tutti i Tg. È possibile?
Linda

È POSSIBILE con l'aiuto, solidale e fraterno, di televisioni e giornali. Di Renzi i nuovi media (intendo per nuovi quelli che ci hanno accompagnato, solerti e informati, nei vent'anni di Berlusconi senza lasciarci mai scarsi di notizie) non buttano via nulla, non il twitter, non facebook, non la battuta carpita dallo svelto cameraman, non le parole che accompagnano il saluto cordiale dal finestrino dell'auto o del treno (per o da Firenze), non la foto da calciatore. Ci sono poi le cose che ha sentito qualcuno, quelle citate da una lettera riservata e le battute che vengono riferite prima e dopo il Consiglio dei ministri. Poi ci sono le conferenze stampa. Vanno in onda in diretta (complete), in differita, nei telegiornali e poi, a frammenti e secondo gli argomenti, ogni volta che entra in scena vuoi la salute, vuoi la burocrazia, vuoi il lavoro dei cinquantenni o quello dei giovani. Non confondete però la questione del lavoro, già grave in sé, con il Jobs Act, che è un progetto originale molto parlato ma ancora poco conosciuto e di cui dovremo aspettarci nuove notizie ad ogni nuovo dibattito sul lavoro, sull'impresa e sulla ripresa. C'è naturalmente la lunga serie dei tagli. Essi entrano in scena quando sono inevitabili, quando sono inesorabili, quando sono fatti senza guardare in faccia a nessuno. E, nel caso qualcuno si fosse distratto, quando vengono imposti anche a quei furbacchioni dei giudici che, con la scusa della indipendenza, si fanno le paghe da soli. Sui tagli alla Difesa, prudenza non vuol dire assenza di argomenti di conversazione. Anche un solo F-35 da 130 milioni può fare notizia, se data bene e con la dovuta ripetizione, in modo che nessun distratto possa sfuggire. Certo, un bel colpo sarebbe stato un taglio secco alle paghe dei due Marò trattenuti in India a far niente, ma bisogna anche sapere dove e come porre dei limiti all'entusiasmo taglia-spese. Va bene l'euforia adrenalinica di chi va sempre di corsa, ma un po' di cuore non guasta. Detto tutto ciò (da parte di Renzi e di tutte le fonti che lo stampano e lo ristampano, lo trasmettono e ritrasmettono almeno una ventina di volte per ogni intervento o frase o parola) basta un accenno di polemica, che so una cattiva battuta Cinque Stelle o un Mattinale un po’ aspro di Brunetta, ed ecco che l'occasione è preziosa per ristampare e ritrasmettere da capo, in parte o in toto, il patrimonio di comunicazione renziana. Un buon esempio è dato dalla domanda: quante volte gli italiani, negli ultimi 15 giorni, hanno trovato (va bene, troveranno, ma è cosa sicura) 80 euro in più nella loro busta paga? Diciamo, per parafrasare le Scritture, Ottanta volte Ottanta? Forse di più, perché non fate in tempo ad accendere la Tv, che subito gli 80 euro scattano. Insomma un primo capolavoro da riconoscere a Renzi c'è: una comunicazione libera ed efficace. E Pannella se ne faccia una ragione. Per il resto, continua la corsa.

il Fatto 24.4.14
Il premier occupa Twitter “datevi pace, ecco gli 80 euro”
Si presenta in jeans, i giornalisti restano fuori, lui risponde ai cittadini via web, ma a favore di telecamera. E così vola nei sondaggi
di Antonello Caporale


Lui di qua, il resto del mondo di là. In jeans (“il premier in jeans e senza giacca!”, le prime urgenti news) è sceso in sala stampa opportunamente svuotata di giornalisti. È come il mondo di Giò il twitter magico di Matteo Renzi, un miracoloso esperimento di “selfie” made man, la refrazione incessante della propria immagine su mille canali, e mille e mille ancora. Un tweet ha tirato l’altro e nella celebrazione tenuta ieri un castello di nuove iniziative promesse e autovalidate: soldi per incapienti, famiglie, il ceto dei nuovi bisognosi, quelle partite Iva che stramazzano al suolo sotto il peso di una crisi che ancora oggi annienta quotidianamente migliaia di iniziative economiche. E poi la rinascita di Alitalia, la rinascita di Piombino, il seppellimento delle ceneri della Costa Concordia, gli 80 euro che arriveranno (“altro che promessa elettorale”). E poi l’evasione fiscale, “che si combatte con l’innovazione”. E un sacco di altri propositi che il Consiglio dei ministri trasformerà in decreti urgentissimi. Serve velocità!
MEGLIO di una videolettera, della anziana calza sulla telecamera che serviva ad addolcire il volto e le orecchie di Berlusconi, meglio ancora dell’audiovisivo che partiva dagli studi Mediaset, la cassetta con la registrazione presidenziale del Cavaliere, impettito nell’eterno doppiopetto Caraceni. Renzi, geniale, ci porta tutti nella tasca del suo jeans, con un tweet accomoda, annuncia, ripara e riconverte il mondo. I giornalisti fuori dalla porta ma connessi, inutili eppure entusiasti osservatori del nulla, resi gioiosamente inabili al proprio mestiere. Ferventi resocontisti tenuti al di là del muro di Palazzo Chigi, vicini vicini ma lontani lontani da Matteo, l’imperforabile Renzi. Che al mattino si è dedicato su Facebook alla Partita del cuore spezzato, interrotto, vilipeso e “lordato” da polemiche pre-elettorali (cuore-amore, ricordate l’alfabeto di Crozza?), creando il clima giusto per il secondo tempo: l’esibizione dell’arma letale, l’indistruttibile tweet, il #matteorisponde che non veniva messo in campo dai tempi di Firenze. E qui qualche batosta al nemico grillino, l’unico oppositore in campo (“il deputato Di Maio guadagna il doppio di me, ma io sorrido”), una imbarazzata considerazione sulla vicinanza di Sandro Bondi per lui (“lui sta dall’altra parte”), una scudisciata ai professori (“Non sono loro a dettare le riforme”), una carezza a un amico in disagio che tremava per la scarsa tenuta della maggioranza (“non portare iella”) con la dimostrazione che Matteo è in grado – grazie alla destrezza di cui fa prova direttamente col popolo – di ridurre la catena del comando fino a renderla inutile. Velocità e voracità. Lui solo al governo, nessuno a destra né a sinistra, con solide realtà: “Non era una bufala. Gli 80 euro arriveranno dopo le elezioni. Non è propaganda elettorale, è un provvedimento rivoluzionario che cambia il rapporto tra istituzioni e cittadini, ragazzi datevi pace, questi soldi arrivano”.
Ieri, super magia, solo anche in sala stampa. Senza ministri e senza giornalisti, senza conduttori e senza professori, senza deputati e senza maggioranza. Faceva tenerezza la considerazione di Scelta civica sul fatto che il governo alla prova del Jobs Act si fosse retto su una maggioranza tecnica. Embè? Matteo ha garantito: Lui “durerà, durerà”. Nessuno può fermarlo, anzi, ed è questa l’unica minuscola angoscia, forse i giudici “che gli faranno pagare il fatto di aver decurtato lo stipendio anche a loro”, ha scritto tremante un fan preoccupato. Ma, toccando ferro, è una eventualità lontana, oggi impossibile da prevedere.
SI È FATTA SENTIRE la solita chiassosa ma evanescente minoranza che in Italia non tramonta mai. Non è quella di Berlusconi che, sempre ieri, è entrato sorridente nell’ufficio del magistrato chiamato a vigilare sul suo comportamento senile. Silvio non c’entra, la partita si gioca con Grillo. E i grillini, le cui energie sono assorbite quotidianamente dalla magica rete, gli hanno urlato: “Esci da questo twitter!”. Col cavolo che esce. I sondaggi confortano il premier: il Pd veleggia tra il 33 e il 34 per cento, e la campagna elettorale è appena iniziata, e altri tweet saranno sparati ad altezza-uomo, cosicché si capirà sempre meglio dov’è il sol dell’avvenire. Qualche contestatore in giro ha tentato di polemizzare e increspare il proficuo rapporto internettiano tra il premier e il popolo, la meravigliosa democrazia diretta. Uno ha domandato: “Ma le zebre sono nere a strisce bianche o bianche a strisce nere?”. Un altro: “Stasera che mangi Matteuccio?”. Il premier ha dato prova di prudenza ed equilibrio, ha sorvolato ed è rientrato, mentre le tv chiudevano le dirette da Palazzo Chigi, ai suoi impegni istituzionali. Ore 15: Africa.

il Fatto 24.4.14
Provare per credere
“Per ogni dubbio, mandatemi email” Nessuna risposta
Abbiamo inviato a matteo@governo.it 20 messaggi: senza diretta TV tutto tace


Renzi ottiene la fiducia del Parlamento e il giorno dopo è a Treviso, in una scuola dove i bimbi degli immigrati sono integrati e la tecnologia è di casa: “Cari ragazzi, se ci sono problemi scrivetemi tutto: la email è matteo@governo.it ”. Da quel 26 febbraio il comune cittadino ha trovato un indirizzo sicuro cui rivolgere le domande più pressanti. Un riferimento per amici vicini e lontani, come ha specificato il premier nella lettera di commiato da Palazzo Vecchio lo scorso 24 marzo: cari fiorentini, care fiorentine, sappiate che “ho cambiato email. L’indirizzo adesso è mat  teo@governo.it  . Vi leggerò la sera, da Palazzo Chigi”.
Ebbene: quanti e quali messaggi sono giunti alla casella email? Soprattutto, quante risposte il solerte comunicatore ha voluto battere sui tasti del suo portatile? Un modesto tentativo di contatto l’abbiamo lanciato anche noi del Fatto mandando 20 domande da 20 indirizzi email diversi: tutti attivi, intestati a persone di nostra diretta conoscenza, che hanno mantenuto copia dell’invio.
GLI ARGOMENTI ERANO VARI, dal lavoro alla procreazione assistita fino alla politica internazionale. Tipo: “Caro Matteo, a certe cose non ci credo, ma tu sei diverso e lo dico sempre a mio marito. Quindi ti scrivo perché voglio sapere una cosa: non riusciamo ad avere figli, e per colpa della Chiesa in Italia è tutto proibito. Per questo dobbiamo andare in Spagna e costa molti euro. Tu pensi di fare qualcosa? Grazie comunque per quello che stai facendo per noi”. Oppure: “Salve signor Matteo, sono una madre di tre figli. Due stanno finendo la scuola ma il più grande è già tre anni che cerca lavoro. Io penso che sia un bravo ragazzo, ma quanto è difficile per una madre stargli dietro e non essere preoccupati. Lei parla tanto di lavoro ma non potrebbe fare qualcosa di più preciso?”. I 20 messaggi sono partiti il 2 aprile, e al momento non hanno ottenuto alcuna risposta.
Meglio, forse, puntare sui tweet in favore di telecamera: quando il cittadino ti guarda in diretta tivù è più bello rispondere e fargli sapere che ti interessano molto le sue domande.

il Fatto 24.4.14
Lo scontro sulle riforme a Roma col toscano Chiti nel PD si intreccia con le nomine dell’ente cassa di risparmio
di Camilla Conti


Milano. I potentati fiorentini rimasti orfani di Matteo Renzi stanno seguendo con molta apprensione tre partite importanti: quella sulla holding regionale degli aeroporti, quella sugli assetti della Cassa di Risparmio di Firenze e il match sulla legge elettorale fra i renziani e i supporter del senatore Vannino Chiti. Le alleanze e soprattutto la forza dei rispettivi schieramenti saranno infatti determinanti per i futuri equilibri di potere. Perché il nuovo ruolo di Renzi più che consolidare il renzismo ha rianimato le correnti interne in riva all’Arno e riesumato i vecchi assetti del sistema economico gigliato.
Nel cerchio magico renziano, oggi spicca l’avvocato Alberto Bianchi, presidente della Fondazione Open (l’ex Fondazione Big Bang nata per raccogliere i fondi a favore delle campagne elettorali di Renzi) e da poco nominato dal ministero del Tesoro consigliere di amministrazione dell’Enel. Se fino a qualche mese fa Bianchi si presentava come l'uomo del sindaco, oggi è l'uomo del presidente del Consiglio per vincere là dove ha fallito il gran ciambellano Marco Carrai, incappato nella vicenda dell’appartamento affittato all’amico Matteo e rimasto fuori dal valzer romano delle poltrone. Lo scontro si sta consumando, in piena campagna elettorale, sull’Ente Cassa di Risparmio di Firenze: il mandato del presidente Giampiero Maracchi è scaduto ma per conoscere il nome del suo successore e quello di sei nuovi consiglieri bisognerà attendere il 15 maggio. Nel frattempo la contesa è fra chi vorrebbe promuovere l'attuale vicepresidente, l'84enne ematologo Pierluigi Rossi Ferrini, e i renziani vicini a Carrai (consigliere dell’ente) che invece puntano sull'avvocato 48enne Umberto Tombari, professore di Diritto commerciale e fondatore dello studio legale dove ha lavorato anche il ministro Maria Elena Boschi. L’area renziana, però, non può più contare sula maggioranza granitica nelle stanze dei bottoni della fondazione. Non solo. L’Ente possiede il 3,4 per cento di Intesa San Paolo e i nuovi assetti non dovranno in alcun modo rompere la sintonia con il dominus di Intesa Giovanni Bazoli. Senza dimenticare il 17,5 per cento di Adf, la società che gestisce l’aeroporto fiorentino presieduta dal solito Carrai e al centro di un’altra partita delicata.
Sulla concorrenza fra gli scali di Firenze e Pisa, che nei piani del governo dovranno fondersi in una holding toscana, sembrava pace fatta tra Renzi e il governatore Erico Rossi. Poi l’ex sindaco è diventato premier e in aeroporto sono arrivati i nuovi soci argentini. Il 29 aprile scatterà l’Opa lanciata dal gruppo di Eduardo Eurnekian su Adf e Sat che gestiscono le due strutture. A Pisa la Regione potrebbe vendere parte della sua quota permettendo a Eurnekian di avere il controllo e riunire in una holding le due società. La Regione resterà azionista, magari con il 5 per cento come a Firenze, e sia in Sat che in Adf i soci pubblici non scenderanno sotto il 20 per cento. Intanto la necessità di allungare la pista dell’aeroporto di Peretola, bocciata da Rossi, sta animando la campagna elettorale fiorentina. In vista del G8 2017, il presidente del Consiglio potrebbe decidere l’allungamento per decreto. Il candidato sindaco del Pd, Dario Nardella, ha detto di contare su 200 milioni per il G8 e che Renzi ha promesso che ci saranno sufficienti risorse per terminare tutte le infrastrutture in sospeso a Firenze. La vittoria di Nardella alle comunali pare scontata ma per governare la città avrà poi bisogno dell’appoggio della Confindustria fiorentina nonché dell’ala del partito vicina a Chiti e all’ex presidente della regione Claudio Martini. Quanto a Rossi, le dinamiche interne al partito peseranno sulla sua ricandidatura al vertice della giunta toscana.
La vera partita sulla durata del governo e sul futuro politico di Renzi non si gioca sulle politiche del lavoro o su quelle dei decreti economici, ma sulle riforme istituzionali, così come ha lasciato intendere Massimo D’Alema. Il testo depositato al Senato, e non ritirato, da Chiti ne è l'ulteriore conferma. Le lotte di potere toscano si proiettano a Roma, e su livelli sempre più elevati.

il Fatto 24.4.14
L’onorevole Pd
40 giorni di melina per non mandare Genovese in cella
di Enrico Fierro


Il caso Genovese imbarazza il Pd e la maggioranza che regge il governo Renzi. Stiamo parlando di Francantonio Genovese, re di Messina, renziano doc e padrone di ventimila voti che possono fare la differenza nel voto europeo. Per l’onorevole è stato chiesto l’arresto dalla procura di Messina per lo scandalo dei fondi della formazione professionale. Un business da centinaia di milioni di euro che vede al centro l’onorevole e la sua famiglia, proprietari e gestori di enti, vere e proprie macchine clientelari e mangiasoldi che in Sicilia hanno avviato al lavoro una quota ridicola di giovani disoccupati. Nei mesi scorsi sono finiti in galera la moglie dell’onorevole, Chiara Schirò, e alcuni suoi strettissimi collaboratori. Sulla questione dell’autorizzazione all’arresto la palla è nelle mani della Giunta per le autorizzazioni a procedere presieduta da Ignazio La Russa. Ma il sospetto è che Pd e soci stiano lavorando sottotraccia per far slittare la decisione a dopo le elezioni europee.
“SOSPETTO sbagliato - ci dice l’onorevole Anna Rossomanno, capogruppo del partito di Renzi in Giunta - abbiamo chiesto una proroga fino al 18 maggio perché emerge con chiarezza l’esigenza di un approfondimento. Siamo di fronte ad una ordinanza corposa, 380 pagine, più 16 faldoni di documenti che vanno esaminati. Abbiamo fissato due sedute per la prossima settimana...”. Insomma, deciderete dopo le europee? “Come giunta sicuramente prima, ma poi toccherà alla conferenza dei capigruppo fissare la data per la discussione e il voto in Aula”. Parole chiare, che accrescono il dubbio di uno slittamento a dopo le elezioni. “Questi parlano di acquisire nuovi documenti, è una perdita di tempo, gli elementi per valutare ci sono tutti, basta leggere gli atti. La richiesta di nuove carte giudiziarie fa parte di una tecnica dilatoria che non è accettabile. Li capisco, Genovese porta voti e il Pd ne ha bisogno”, è l'opinione di Giulia Grillo, deputata M5s eletta in Sicilia e membro della Giunta. Su cosa punta l’onorevole ras della formazione? Sulle decisioni del Tribunale della Libertà che nei mesi scorsi hanno portato alla scarcerazione della moglie Chiara Schirò e di altri personaggi coinvolti nell'inchiesta.
UN'ALTRO MODO per guadagnare tempo, secondo i parlamentari grillini. Ricostruiamo la storia delle revoche e delle controrevoche. Il 22 gennaio il Tribunale di Mesina annulla gli arresti domiciliari per Chiara Schirò, la moglie dell'onorevole Genovese, la Procura della Repubblica fa ricorso e il 3 marzo scorso il Tribunale revoca, sia pure parzialmente, la decisione precedente e stabilisce il divieto di dimora nella città di Messina per la signora. Perché, si legge nel provvedimento, si tratta di un “soggetto che non si è fatto alcuno scrupolo a porre in essere un meccanismo truffaldino per appropriarsi di milioni di euro di provenienza pubblica”. La signora, si legge ancora, esprime una particolare “versatilità a delinquere per raggiungere i propri interessi utilitaristici, che appare più che concreto il pericolo che la stessa possa riproporre la sua attività illecita in qualunque altra associazione o società”.
Stessa musica per Concetta Cannavò, un passato da militante del Pd, era l’amministrarice del partito a Messina, e per Elio Sauta, presidente di uno degli enti incriminati e stretto collaboratore dell’onorevole. Per lui, il 24 marzo, sono stati di nuovo disposti gli arresti domiciliari. Francantonio Genovese, scrivono i pm, è “al vertice di un sodalizio criminale” che negli ultimi anni ha divorato i fondi europei e regionali della formazione professionale. Un bottino di 6 milioni di euro accumulato grazie alla gestione, diretta o occulta, di almeno dieci enti. Va arrestato, scrive il gip di Messina, perché “il sodalizio criminale” che lo vede al vertice, è “diffuso, ben avviato e adeguatamente potente: ragionevolmente continuerà a delinquere”. L’esigenza cautelare “in carcere”, deriva dalla potenza dell’organizzazione, dall’esistenza degli enti che ancora agiscono nel business della formazione professionale in Sicilia: più di 400 milioni di euro l’anno.

l’Unità 24.4.14
Marescotti: «Via dalla fiction perché candidato, assurdo»
L’attore corre alle Europee con la lista Tsipras
«La Rai se n’è accorta dopo la prima puntata: tagliate le mie scene e il mio nome dai titoli di coda. Cialtroneria»
di Chiara Affronte


Oltre il danno la beffa. «E la dimostrazione lampante di cialtroneria», aggiunge Ivano Marescotti, attore teatrale e cinematografico, candidato alle Europee con la lista Tsipras, «cancellato» dai titoli di coda e da uno sceneggiato tv in onda su Rai Uno - “Una buona stagione” - non appena dalla Rai si sono accorti che l’attore era anche candidato. Solo alla seconda puntata, però.
Peccato tuttavia che proprio nei giorni in cui nasceva il caso - «a Pasqua» - un altro canale della tv pubblica, Rai Premium, mandava in onda un altro sceneggiato in cui Marescotti era interprete, “Raccontami”. Uno sì e l’altro no: misteri. O «cialtroneria», appunto, per Marescotti. Che nella fiction è il padre della protagonista. E racconta come sono andate le cose: «Io non mi sono accorto né dell’uno né dell’altro. Lo sceneggiato in questione l’ho girato nel 2012, due anni fa, e non sapevo neanche quando sarebbe andato in onda. I giorni di Pasqua li ho passati ininterrottamente al telefono, con agenti, responsabili... In sostanza si sono accorti, solo dopo che era andata in onda la prima puntata il primo aprile, che io ero interprete e candidato. Così mi hanno chiesto prima di ritirarmi dalle elezioni, ricordandomi che lo aveva fatto a suo tempo Cristiana Capotondi, candidata con Rutelli nel 2008, e poi di firmare il nulla osta con cui li autorizzavo a tagliare le scene in cui ero presente». Marescotti, però, non ha fatto e non ha intenzione di fare né l’una né l’altra cosa.
«La legge sulla par condicio ha i suoi limiti e questo è già un elemento - spiega l’attore - ma al di là di questa considerazione resta il fatto che, vista la mia candidatura, si poteva anche decidere di rinviare la fiction». Girata due anni fa, appunto. «Mi hanno parlato di danni enormi, immagino pubblicitari», aggiunge Marescotti. «Ma può essere un problema mio? Ho fatto 70-80 film, una ventina di fiction, è pensabile che io possa avvertire tutti i soggetti coinvolti della mia candidatura?».
SCOPRI LE DIFFERENZE
Questa per lui, più che par condicio, è «censura bella e buona - tuona - è una vicenda a dir poco pietosa». E lo è per Marescotti soprattutto dopo che ha scoperto - e questa è stata una sua scoperta davvero - che Rai Premium contemporaneamente alla bufera per “Una buona stagione” in onda su Rai Uno, trasmetteva “Raccontami”. «Me l’ha detto mia sorella - fa sapere divertito l’attore -, mi ha detto, “ti ho visto io sai? Non sei stato cancellato!”». E quindi, qual è la differenza tra l’una e l’altra fiction? Si chiede Marescotti. Certo, essere in onda sulla tv ammiraglia della Rai fa un po’ la differenza, in tempi di elezioni. Ma le motivazioni addotte da chi ha cancellato l’attore dovrebbero valere per l’uno e per l’altro sceneggiato: dimissioni o nulla osta alla cancellazione. «Che per altro stavano già facendo quando mi hanno chiesto di acconsentire, solo per liberarsi la coscienza...Folle pensare che l’avrei fatto», assicura l’attore. Che di battaglie politiche ne ha fatte molte: la più recente quella per la scuola pubblica e per la promozione del referendum che chiedeva l’eliminazione della convenzione comunale alle scuole paritarie private a Bologna. Ma da tempo in campo anche contro la violenza alle donne, in numerose campagne di comunicazione.
Sul piano legale Marescotti sta cercando di chiarire alcuni punti: «Ad esempio non sono certo del fatto che il mio nome possa essere tagliato dai titoli di coda, perché si tratta di accordi contrattuali». Diverso, invece, il discorso sul piano contenutistico: «Ti può sempre venire detto che, per esigenze di montaggio, la tua parte è stata tagliata». Ma non è stato così in questo caso, perché il personaggio da lui interpretato è comparso nella prima puntata in onda “per errore” ma è poi sparito.

il Fatto 24.4.14
Attore alle Europee Ivano Marescotti
“Tagliato dalla Rai perché candidato”
intervista di Emiliano Liuzzi


È accaduto tutto la domenica di Pasqua. Telefonate, sms, email. Dal suo produttore ai capi struttura della Rai. “Ritira la candidatura con la lista Tsipras, in questo mese sei in prima serata con una fiction”, la richiesta. Lui: “Voi siete tutti impazziti, io non ritiro niente”. Ivano Marescotti, 68 anni, romagnolo residente a Bologna, neanche ci voleva credere. “Ma che c’entra la fiction, girata due anni fa? Non è un problema mio se la Rai ha deciso di mandarla in queste settimane, è da un pezzo che sanno tutti della mia candidatura. Io a quel punto ho tenuto: prima l’impegno civile e politico, poi faccio anche l’attore. Per me da oggi la Rai sarà storia chiusa, ma non me ne frega assolutamente niente. Non era un ricatto al quale poter cedere. Ho passato le mie primavere , non sono un ragazzino”.
E com’è finita?
Che io sono rimasto candidato e loro hanno tagliato la mia parte. Recito il ruolo del padre della protagonista e ieri mi hanno detto che dal 17 per cento è scesa al 14. Ovvio che tagliare una parte sia complicato. Tra l’altro mi si vede una mano in una scena, io di spalle in auto in un’altra. Un pastrocchio.
Tutta colpa di Renzi che voleva giocare la partita del cuore?
Non lo so. Colpa di qualcuno che ha lavorato in maniera approssimativa. Io ho registrato due anni fa, mica sapevo quando sarebbe andata in onda la fiction. Recito una parte che non prevede monologhi. Non lo so, ancora stento a crederci. E non mi pongo il problema se sia l’effetto Renzi calciatore.
Domenica è uscito il Fatto Quotidiano con la notizia, domenica l’hanno sommersa di email e richieste.
Mettiamola così: se andava regolarmente in onda non si sarebbe accorto nessuno della coincidenza che sono candidato. Anche perché non sono capolista, non sono il segretario di un partito. Due mesi fa mi hanno chiesto la mia disponibilità e io ho accettato. Tornare indietro per un problema del genere mi sembra davvero una follia. Ripeto, quello di attore è il mio mestiere.
La Rai come l’ha presa?
Male, malissimo. So che con loro e con questa dirigenza ho chiuso. Ma non mi hanno messo nella possibilità di scegliere.
Avrà visto la puntata. Cosa ne è uscito?
Una schifezza. Hanno tagliato le scene tra domenica e lunedì. Un disastro.
Quanti minuti sono saltati?
Molti, non ho idea, ma ero il primo attore non protagonista.
Vero che l’hanno chiamata dai piani altissimi della Rai?
Si è mossa il giorno di Pasqua anche Tinni Andreatta che è la direttrice di Rai Fiction.
Almeno la polemica avrà fatto bene
alla sua campagna elettorale?
Senza dubbio. Ma loro pensavano a un altro effetto. Erano convinti che ritirassi la candidatura su due piedi. Credo sia accaduto in passato un caso simile a Cristiana Capotondi. Ma io sono Marescotti. E comunque la campagna elettorale l’ho fatta in altro modo. Io sono un vecchio comunista, molto rigido. E soprattutto uno che crede nelle battaglie civili. La scelta più comoda sarebbe stata quella di rinunciare.

Repubblica 24.4.14
L’intervista/Ivano Marescotti
“Io, attore cancellato dalla fiction per par condicio”
di Silvia Fumarola



ROMA. Cancellato per par condicio. «In una scena si vede solo la mia mano che versa da bere, non sono riusciti a tagliarla, ma hanno fatto sparire le persone che erano con me». L’attore Ivano Marescotti, 80 film alle spalle, una ventina di fiction, da sempre impegnato in politica a Bologna, è candidato alle Europee con la lista Tsipras. È sparito dalla serie di RaiUno Una buona stagione . «Hanno tolto il mio nome dai titoli» racconta «Non è dignitoso. In questa puntata avevo poche scene ma nelle altre? Abbiamo girato la fiction due anni fa, la Rai ha deciso di trasmetterla adesso».
Marescotti, cosa prevede la par condicio?
«La legge non include le fiction, ma l’applicazione dice che bisogna interpretarla per qualunque trasmissione dove vada il candidato».
Risultato: è sparito dalla fiction.
«Nei giorni di Pasqua alla Rai si sono accorti che sono candidato alle Europee. Mi avvisa la mia agenzia; per inciso, una puntata era già stata trasmessa, ma non è tutto. Mi cancellano da Una buona stagione e Rai Premium manda in onda le repliche di Raccontami , puntate intere con la mia faccia. Non hanno notato che ero nel cast».
Complimenti.
«Non so se sia incuria o cialtroneria. Noi attori giriamo una serie non ci dicono quando verrà trasmessa: avrei dovuto comunicare che sono candi- dato? Chi avrei dovuto avvertire?».
La Rai cosa le ha chiesto?
«Di dimettermi dalle elezioni. Mi hanno spiegato che c’era un precedente: Cristiana Capotondi si candidò nella lista di Rutelli nel 2008. E si dimise. Io ho rifiutato. Così mi hanno chiesto di firmare un nulla osta in cui acconsentivo a tagliare le scene, e non ho dato il consenso».
Non potevano rinviare la messa in onda?
«Gliel’ho detto. Hanno risposto che non era possibile, perché avrebbe creato problemi».
Passa alla storia come l’attore censurato per par condicio...
«In spregio del pubblico, il personaggio è sparito senza spiegazioni: sarà andato a comprare le sigarette? È morto sotto un camion? Non rispettano gli attori e gli autori».
Perché ha scelto di candidarsi?
«Sono impegnato politicamente, a Bologna abbiamo indetto un referendum contro il finanziamento pubblico della scuola privata, abbiamo vinto: è stato un caso nazionale. Il Comitato 33 ha proposto di candidarmi. Sono andato in Veneto e in Sardegna a chiedere le firme».
Che si aspetta?
«Di cambiare le cose. La lista Tsipras in Spagna ha il 14% i sondaggi ci danno sopra il 4%. È l’unica lista di sinistra alle Europee, che il Pd sia un partito di sinistra è discutibile».
Perché dice così?
«Non si fa un patto con un condannato a 4 anni di galera. Ho il cartello di fondatore del Pd del 2007 e mi sono dimesso dopo un anno, quando hanno eletto Dorina Bianchi - poi passata con Berlusconi - nel Comitato etico. Erano tutti bersaniani ora sono renziani, sono corsi in aiuto del vincitore. Non si fa».

il Fatto 24.4.14
Coop, e-commerce: lavoratori licenziati per aver scioperato


I LAVORATORI dell’e-commerce Coop, addetti al servizio “La spesa che non pesa”, hanno occupato a Roma la sede della Lega Nazionale delle Cooperative, in via Guattani. I dipendenti protestano contro il loro licenziamento, determinato dalla fine del subappalto alla Futura Servizi , cooperativa a cui era affidato il servizio di spesa on line su Roma per Unicoop Tirreno. Inizialmente prevista per il prossimo 30 giugno, la rescissione del contratto con la Futura Servizi è stata anticipata al 19 aprile scorso proprio a causa dello sciopero attuato dai dipendenti in difesa del posto di lavoro. “È un fatto di inaudita gravità – denuncia Francesco Iacovone, dell’Usb Lavoro Privato che sostiene la vertenza – Non solo questi lavoratori sono stati tenuti per anni nell’illegalità, nel lavoro nero e con contratti non pertinenti come quello Unci. Ora, dopo 12 anni di servizio, li si mette alla porta anche in anticipo perché hanno osato scioperare. L’Usb rimane al fianco della loro lotta e chiede alla Lega Nazionale delle Cooperative di attivare i percorsi necessari a tutelare questi lavoratori”, conclude il sindacalista.

l’Unità 24.4.14
Francesco sta con gli operai
di Massimo Franchi


«Piombino non deve chiudere!». Il grido degli operai è arrivato forte a Roma. Ad ascoltarlo e a rilanciarlo sono stati le due autorità più importanti: Papa Francesco e Matteo Renzi. Se il primo durante l’udienza generale del mercoledì ha raccontato: «Ho ricevuto un video-appello da parte degli operai della Lucchini di Piombino che mi ha davvero commosso», ha detto nel suo intervento in piazza San Pietro. «Cari operai, cari fratelli - ha aggiunto -, sui vostri volti era dipinta una profonda tristezza e preoccupazione di padri di famiglia che chiedono solo il loro diritto di lavorare per vivere dignitosamente. Siate sicuri della mia vicinanza, della mia preghiera. Non scoraggiatevi. Il Papa è accanto a voi. Cari operai, cari fratelli, vi abbraccio fraternamente». «E a tutti i responsabili - ha detto il Papa - chiedo di compiere ogni sforzo di creatività e generosità per riaccendere la speranze nei cuori di questi nostri fratelli e nel cuore di tutte le persone disoccupate a causa dello spreco e della crisi economica. Per favore aprite gli occhi e non rimanete con le mani incrociate».
Poche ore dopo è stato Matteo Renzi ad annunciare - come richiesto martedì dal presidente della Regione Toscana Enrico Rossi - che la firma sull’Accordo di programma per Piombino si sarebbe tenuta a palazzo Chigi. In una serie di tweet il presidente del Consiglio ha rassicurato i lavoratori. «Lo spegnimento dell’altoforno di Piombino è una brutta notizia per la città». «La ripartenza di Piombino - ha aggiunto - passa attraverso una serie di azioni punti ali inserite nel protocollo di intesa che firmiamo oggi (ieri, ndr) con i ministri e il presidente della Regione» ma tocca anche agli «investitori privati dare un futuro a Piombino».
La firma arriverà questo pomeriggio, ma sostanzialmente l’accordo si è chiuso alle 19 di ieri. Manca la formalizzazione di 70 milioni di fondi del ministero delle Infrastrutture, rimandata a domani per l’assenza del ministro Maurizio Lupi.
Il via libera è arrivato a fine pomeriggio, dopo una lunga maratona per limare i dettagli sul testo del Protocollo messi a punto dallo stesso Enrico Rossi e dal viceministro allo Sviluppo economico Claudio De Vincenti presso la sede di via Veneto. Alla fine tutto si è sistemato: i 139 milioni previsti per la bonifica, la riconversione verde dell’acciaieria, gli interventi per l’allargamento del porto - quasi impossibile però che la Concordia sia dismessa a Piombino -, la viabilità saranno finanziati per 60 milioni dalla Regione Toscana e per i restanti con fondi del ministero dell’Ambiente (50 milioni), del Mise, del ministero della Difesa per la dismissione di navi militari. A questi appunto vanno aggiunti i 70 milioni di Lupi per un totale di oltre 200 milioni.
IL FORNO ELETTRICO È IL FUTURO
Un altro importante finanziamento dovrebbe arrivare dall’Unione europea: si tratta dei fondi per la riconversione verde del settore acciaio, fondi che servirebbero per permettere la sostituzione dell’altoforno con il forno elettrico corex, mantenendo a Piombino l’area a caldo. La stessa per cui - per ora – non ci sono offerte sul fronte Lucchini. La partita infatti è doppia: accanto all’Accordo di programma, il 30 maggio il ministero dello Sviluppo comunicherà quali gruppi si sono aggiudicati il bando per subentrare alla Lucchini. Messa da parte la bufala Khaled - l’imprenditore giordano che prometteva di salvare l’altoforno - la speranza ora viene dall’India. L’offerta del gruppo Jswè ora limitata al laminatoio a freddo, ma è concreta la possibilità che si possa allargare a costruire un forno elettrico Corex. «Abbiamo insistito a lungo per inserire nel Protocollo un riferimento diretto a questa possibilità - spiega Gianni Venturi della Fiom - è l’unico modo per mantenere livelli occupazionali simili agli attuali, sebbene servano almeno tre anni e mezzo per una riconversione di questo tipo e quindi nel frattempo i lavoratori dovranno essere tutelati con i contratti di solidarietà (l’accordo è stato sottoscritto la scorsa settimana, ndr) e la cassa integrazione».
La FimCisl invece annuncia la festa del primo maggio nella città toscana. «Piombino rappresenta il secondo polo siderurgico del nostro paese dopo l’Ilva di Taranto e dà lavoro a circa 2500 persone a cui si aggiungono 1500 lavoratori dell’indotto, 528 della Magona (Arcelor Mittal) e altri 110 di Tenaris Dalmine. Per queste ragioni la Festa del primo Maggio a Piombino assume un carattere strategico», ha detto il segretario nazionale della FimCisl, Marco Bentivogli, annunciando che sarà presente anche il sindaco Gianni Anselmi. «La priorità è e resta la tutela dei lavoratori», dichiara il segretario generale dell’Ugl Metalmeccanici, Maria Antonietta Vicaro.
IERI SCIOPERO, OGGI ASSEMBLEA
Nelle stesse ore i lavoratori di Piombino erano in sciopero. Due ore contro lo spegnimento dell’altoforno. Ma una nuova speranza è arrivata da Roma. E questa mattina sarà lo stesso Enrico Rossi ad illustrarla ai lavoratori.

il Fatto 24.4.14
Casta pia Corsa sfrenata per un posto in prima fila in piazza San Pietro
I due Papi santi e la ressa dei politici imbucati
di Carlo Tecce


Nonostante la “scomunica” di Francesco all’ultima messa, i parlamentari non vogliono perdersi la passerella legata alla beatificazione di Roncalli e Wojtyla. E chiedono centinaia di biglietti: Pagano (Ncd) e Buttiglione (Udc) sei a testa. Renzi andrà con la famiglia, assieme a Lupi, Mogherini e Boschi Invece Razzi e Scilipoti andranno a vedere Teramo-Messina.
Ci saranno decine di telecamere spianate, antenne di mezzo mondo, oltre cento delegazioni. I colonnati di San Pietro ornati a festa, i picchetti d’onore, la distesa di porpore. Un raduno straordinario di pellegrini per una celebrazione straordinaria: papa Francesco che proclama santi Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II con l’esposizione in pubblico di un (riservato) pontefice emerito, Benedetto XVI. E ci sarà l’effetto dove-mi-si-nota-meglio? La politica che s'intrufola, che vuole presenziare, che vuole espiare: “Quando in futuro vedranno le immagini, non conterà la carica che ricoprivi, ma quanto eri vicino al potere”, dice Frank Underwood (Kevin Spacey) in House of Cards. E ancora viene interpretato il plateale gesto di stima in piazza San Pietro che Karol Wojtyla riservò a Giulio Andreotti, in quegli anni processato per i rapporti con i mafiosi, proprio mentre i fedeli esultavano per la beatificazione di Padre Pio da Pietrelcina (era il ‘99).
ANCORA IMMERSI in estenuanti penitenze o forse travolti da una profana delusione per la scarsa considerazione - ricordate l’anatema di Francesco durante la messa mattutina dei parlamentari, “i peccatori saranno perdonati, i corrotti no”? – deputati e senatori cominciano a sgomitare, a comporre nervosamente numeri, a bloccare compulsivamente seggiole per assistere alla canonizzazione di domenica in buona (e fotogenica) posizione. Il Vaticano ha rinunciato a una proverbiale fiducia istituzionale e vuole spuntare gli elenchi che verranno trasmessi dai cerimoniali di Palazzo Chigi, Madama e Montecitorio, che sopportano le pressioni dei politici per uno strapuntino ben in evidenza e persino le richieste eccessive. Alessandro Pagano (Ncd) e Rocco Buttiglione (Udc) chiedono sei tagliandi ciascuno; tanti spaventati parlamentari pretendono informazioni meteorologiche perché sostare immobili sotto la pioggia per quattro ore presuppone uno sforzo di fede. Matteo Renzi non dovrà correre a formulare prenotazioni, al primo ministro spetta il sagrato, lato sinistro di papa Francesco, assieme a Giorgio Napolitano e consorte, ai presidente Pietro Grasso (Senato), Laura Boldrini (Camera), Gaetano Silvestri (Consulta). Ma il cattolico praticante Renzi, che di solito di domenica va in chiesa a Pontassieve, vuole condividere l’esperienza con la moglie Agnese e i tre bambini. Questa è la compagine di rappresentanza tricolore, che sarà la più prossima a Francesco con i polacchi e gli spagnoli. Il settore più affollato sarà il centrodestra, un recinto per duemila preziosi sediolini per le autorità italiane e straniere. Anche la truppa di Ignazio Marino ha intasato la distribuzione dei biglietti: dal Campidoglio saranno in 36. Ma i parlamentari preoccupano gli organizzatori vaticani perché, dopo una rapida presa di coscienza nei corridoi dei palazzi (“Tu ci vai? Allora anch’io”), le prenotazioni sono lievitate, miracolosamente moltiplicate: ieri mattina erano duecento fra Camera e Senato compresi gli accompagnatori – figli, mogli e parenti di ogni grado – e in serata sono diventati trecento. E i pellegrini dovranno accamparsi di notte per occupare (in piedi) un po’ di sampietrini.
A DIFFERENZA dei colleghi, Pier Ferdinando Casini non ha mai indugiato, neanche Paola Binetti e Rosy Bindi. E come non prevedere Roberto Formigoni: “Certo che ci vado! Non potrei mai mancare”. E non mancheranno, in ordine alfabetico , Daniela Cardinale, Elena Carnevali, Lorenzo Cesa, Cesare Damiano, Antonio Misiani. I ministri Maria Elena Boschi, Federica Mogherini, Angelino Alfano, Maurizio Martina, Maurizio Lupi; i sottosegretari Mario Giro, Andrea Olivero, Pier Paolo Baretta, assiepati nel girone infernale con i parlamentari italiani. Sarà assente il senatore Antonio Razzi, che uscì frastornato da San Pietro dopo la predica di Jorge Bergoglio: “Mi spiace. Devo riprendere mia moglie in Svizzera e poi farò tappa per la partita Teramo-Messina per festeggiare la promozione in Prima Divisione. Il presidente ha invitato anche il mio amico Mimmo Scilipoti: io tifo Teramo, lui Messina. Sarà bello staccare la testa da Roma, da queste liturgie e divertirci un po’ con gli ultrà”. Finale di pezzo scontato: amen.

Repubblica 24.4.14
La chiesa di Bergoglio e il bisogno dei papi santi
di Vito Mancuso



TRA le religioni monoteiste è solo il cristianesimo a conoscere il fenomeno della santità, che invece rimane del tutto sconosciuto all’ebraismo e all’islam. Non che in queste due grandi religioni non vi siano stati e non vi siano uomini e donne di grande spessore spirituale, ma né l’ebraismo né l’islam nel riconoscerne il valore hanno mai sentito l’esigenza di dichiararli “santi”. Per queste due religioni infatti la santità appartiene per definizione solo a Dio, e l’uomo, fosse anche il migliore di tutti, fosse anche il profeta Elia o il profeta Muhammad, non può strutturalmente partecipare al divino, e quindi può essere sì giusto, osservante, devoto, ma
mai può essere santo.
Il cristianesimo al contrario crede nella possibilità della comunione ontologica tra il divino e l’umano.
DIUNA comunione cioè che non riguarda solo la volontà del credente ma giunge a comprenderne anche l’essere. In questo senso si può dire che la santità è una conseguenza dell’incarnazione, del farsi uomo da parte di Dio in Gesù di Nazaret: come il Figlio infatti da vero Dio è diventato uomo, così i suoi discepoli migliori da semplici uomini giungono alla possibilità di partecipare alla condizione divina denominata santità. C’è molto ottimismo, c’è molta simpatia verso l’uomo, nel dichiararne la santità.
E non è certo un caso che tra le diverse forme di cristianesimo siano in particolare il cattolicesimo e l’ortodossia a insistere sulla santità, che invece è quasi del tutto dimenticata nel protestantesimo la cui teologia è perlopiù caratterizzata da un’antropologia pessimista secondo cui l’uomo non potrà mai giungere a una natura pienamente riconciliata (per Lutero si è sempre simul iustus et peccator , il male cioè non può essere mai del tutto sradicato neppure nel migliore dei giusti).
In questa prospettiva il cattolicesimo mostra una grande affinità con l’induismo, per il quale la comunione tra il divino e l’umano è all’ordine del giorno, e con il buddhismo, per il quale la natura di Buddha appartiene di diritto a ogni essere umano. E infatti entrambe queste grandi religioni conoscono, come il cattolicesimo, il fenomeno della santità, fino a giungere a condividere l’appellativo “Sua Santità” che appartiene tanto al Romano pontefice quanto al Dalai Lama, mentre l’appellativo Mahatma (grande anima) riservato dall’induismo ai suoi figli migliori è solo un altro modo di dichiararne la santità.
Che cosa contraddistingue allora la santità cattolica? La risposta è la Chiesa, ovvero il fatto che la santità non viene riconosciuta dal basso, dal popolo, per gli evidenti meriti del maestro, come fu il caso di Gandhi chiamato Mahatma già in vita, ma diviene tale solo in seguito a una formale dichiarazione della gerarchia ecclesiastica detta canonizzazione.
E qui si inserisce, oltre alla dimensione teologico-spirituale dichiarata sopra, la valenza politica del fenomeno santità. La politica infatti ha sempre giocato un grande ruolo nella storia della Chiesa alla prese con la dichiarazione della santità dei suoi figli migliori. Nel bene e nel male. Si pensi nel primo caso alla rapidissima canonizzazione di Francesco d’Assisi, proclamato santo a neppure due anni dalla morte. E si pensi nel secondo caso alla canonizzazione dell’imperatore Costantino o alla beatificazione di Carlo Magno, uomini di immenso potere, dalla vita non proprio integerrima e tuttavia elevati agli onori dell’altare.
La canonizzazione da parte del papato di propri esponenti, compresa quella di domenica prossima, rientra alla perfezione in questa prospettiva dalla forte connotazione politica: degli otto pontefici del ‘900 ormai ben tre (Pio X, Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II) sono diventati santi e tre sono sulla via per diventarlo (Pio XII, Paolo VI, Giovanni Paolo I), lasciando peraltro la memoria degli altri due (Benedetto XV e Pio XI) in grave imbarazzo.
Aveva del tutto torto il cardinal Martini a essere contrario alla canonizzazione dei papi recenti? Tanto più che la politica ecclesiastica non si esprime solo sulle canonizzazioni in positivo, ma anche su quelle in negativo, sull’esclusione cioè di chi meriterebbe di essere riconosciuto santo ma non lo diviene. È il caso di monsignor Oscar Romero, ucciso dagli squadroni della morte il 24 marzo 1980 mentre celebrava la messa nella cattedrale di San Salvador per la difesa dei diritti dei poveri, e mai beatificato da Giovanni Paolo II, che anzi in vita l’umiliò, né in seguito da Benedetto XVI. Ed è il caso di Helder Camara, il vescovo di Recife, nel nord del Brasile, famoso per la sua lotta a favore degli ultimi (amava ripetere «quando do da mangiare a un povero dicono che sono un santo, quando chiedo perché è povero dicono che sono comunista») per la sua gente già santo ma non per il Vaticano.
La santità esprime un grande ottimismo sulla natura umana in quanto ritenuta capace realmente di bene e per questo il suo istituto è tanto importante e andrebbe governato con maggiore spirito di profezia. La politica però ha purtroppo spesso la meglio, e la canonizzazione parallela di domenica prossima di due papi tanto diversi lo dimostra ancora una volta.

La Stampa 24.4.14
Il New York Times: Errore farlo santo
“Da Wojtyla troppi silenzi sulla pedofilia”
di Paolo Mastrolilli


Non era un santo, perché ha chiuso gli occhi sugli abusi sessuali commessi all’interno della Chiesa. Così il New York Times rompe il coro delle celebrazioni per la canonizzazione di Giovanni Paolo II, con un editoriale della nota columnist Maureen Dowd.
Il titolo già dice tutto: «A Saint, He Ain’t», una forma quasi dialettale per smontare i meriti del papa polacco. La Dowd, cattolica di formazione, riconosce a Wojtyla di essere stata una figura storica della Chiesa, soprattutto per il ruolo avuto nel crollo dell’Unione Sovietica. Nello stesso tempo rende omaggio al suo coraggio intellettuale, ricordando che nonostante l’avversione al comunismo, una volta vinta la battaglia della sua vita non fu tenero neppure con il capitalismo, anticipando molte delle critiche che oggi rendono popolare Papa Francesco.
A giudizio della Dowd, però, Giovanni Paolo II ebbe il grave torto di chiudere gli occhi sul fenomeno della pedofilia, arrivando a proteggere in Vaticano il discusso cardinale di Boston Bernard Law, titolare della diocesi dove erano avvenuti gli abusi sessuali più gravi nella Chiesa americana, e difendere strenuamente il fondatore del Legionari di Cristo Marcial Maciel Degollado, accusato personalmente di molestie. La giustificazione data per questo comportamento è che Wojtyla non credeva alle denunce, perché gli ricordavano quelle scagliate contro la Chiesa polacca dal regime comunista per abbatterla. Secondo la Dowd, però, è una difesa che non regge, perché come papa avrebbe potuto e dovuto indagare meglio.
Nel suo articolo l’editorialista del New York Times fa un paragone diretto con l’altro pontefice destinato alla gloria degli altari, Giovanni XXIII, sostenendo che la sua canonizzazione è un atto di bilanciamento politico. In sostanza Benedetto XVI ha voluto fare santo il suo predecessore, considerato un conservatore come lui, ma sapendo le riserve che esistevano, ha cercato di prevenirle elevando anche il «Papa buono».
In questo modo la Dowd, che non si occupa generalmente di Chiesa, ha rivelato forse il vero obiettivo del suo attacco. E’ vero infatti che Giovanni Paolo II è stato criticato per il modo in cui ha affrontato il problema della pedofilia, anche se su questo punto esistono versioni contrastanti, perché buona parte degli abusi erano avvenuti prima del suo pontificato, e i sostenitori replicano che fu proprio lui a cominciare la pulizia. Le sue posizioni conservatrici in tema di dottrina, però, sono innegabili, e confrontandole in maniera negativa con le aperture progressiste di Giovanni XXIII, la Dowd punta a demolire soprattutto questo aspetto del pontificato di Wojtyla.

Repubblica 24.4.14
Sulla utilità sociale delle religioni
risponde Corrado Augias


Caro Augias, la sua risposta sulla “secolarizzazione” mi ha sorpreso. Lei sostiene il valore positivo delle religioni nel controllo sociale. In contrapposizione a un supposto vuoto causato dalla secolarizzazione con, cito, “le conseguenze che vediamo”. Quanto le religioni possano essere un rimedio alla deriva morale da lei temuta lo si evince dalla situazione di Stati in cui la religione è ancora preponderante, Arabia, Iran, Afghanistan. Non mi pare che il livello di convivenza civile sia invidiabile. Sarebbe anche opportuno chiedersi a che cosa sia dovuta la “insufficiente acculturazione media” che, accompagnandosi alla secolarizzazione, condurrebbe alla deriva da lei temuta; non potrebbe forse essere conseguenza di una guidata e non casuale volontà perpetrata dai poteri religiosi, quando ne hanno (o ne hanno avuto) facoltà? Infine ha pensato agli Stati già secolarizzati da anni (Olanda, Gran Bretagna, Scandinavia, ecc.) in cui l'acculturazione media è sicuramente sufficiente? Anche lì sente la mancanza delle religioni?
Massimo Albertin

Rischio calcolato. Sapevo bene dove andavo a mettere le mani parlando di utilità sociale delle religioni, soprattutto rivolgendomi a lettori avvertiti come sono quelli di Repubblica . Al tono scandalizzato del signor Albertin affianco una lettera critica e molto bella della professoressa Francesca Brezzi (Università di Roma Tre); isolo uno dei punti portanti: “Ritengo che definire il nostro tempo secolarizzato sia fuorviante; pensiamo al susseguirsi di parole d'ordine del Novecento: eclissi del sacro, demitizzazione, morte di Dio, ma anche rinascita del sacro, nuovi movimenti religiosi, nuove religioni. Al di là delle mode, tuttavia, queste espressioni sono tracce indicative di movimenti di pensiero che evidenziano la complessità dell’epoca in cui viviamo (…) la storia ha smentito il paradigma illuministico della progressiva perdita di peso sociale della religione (…) da un’inchiesta dell’ Economist emergeva che nel mondo le persone si identificano più con la religione che con il loro paese; dal 2000 ad oggi circa 20 milioni di persone sono state uccise in nome di dio”. Tutte cose vere e note. Io però ho volutamente ignorato le guerre di religione che funestano il mondo come accadeva in Europa del XVI secolo. Ho solo constatato che in molti paesi occidentali (Italia compresa) la religione influenza sempre meno i comportamenti degli individui; che in un paese culturalmente insufficiente come il nostro la tenuta sociale portata un tempo dalla religione non è stata rimpiazzata da una sufficiente educazione alla democrazia con i suoi diritti ma anche con i suoi doveri (devo dimostrarlo?). Si può volendo continuare a discuterne. Potrebbe essere utile.

Repubblica 24.4.14
Tra blog, spot e indotto la Grillo & Casaleggio spa rende 570mila euro l’anno
di Ettore Livini e Matteo Pucciarelli



MILANO. Il blog di Beppe Grillo è un affare - per la Casaleggio associati - da 92 centesimi per mille spot, pari a 570mila euro di entrate l’anno. Più, a pie’ di lista, l’indotto dei ricavi garantiti dalla catena di Sant’Antonio digitale che il guru dei 5 Stelle sta costruendo a scopo di lucro attorno alla sede ufficiale (per statuto) del suo partito. Affari e politica, nel cuore della rete grillina, viaggiano paralleli. E basta una pragmatica prova sul campo per dare una risposta a quello che sembra essere diventato il segreto di Fatima pentastellato: «Quanto guadagna il sito dell’ex- comico?». Dati ufficiali non ci sono: i bilanci della società di Casaleggio - 1,3 milioni di ricavi e 69 euro di utile nel 2012 - non lo dicono. Lui si guarda bene dal far chiarezza: «Uso una sola parola: Vaffa...», risponde sobriamente ai giornalisti che chiedono lumi. La società, interpellata, non dà spiegazioni. E sul web girano numeri come al lotto: dai 200mila euro di fatturato calcolati dai minimalisti (una sparuta minoranza) ai 10 milioni buttati lì da una fonte autorevole come “ Il Sole 2-4 Ore”. Quale è la verità? Per provare a capire quanto rende ai due fondatori il blog, La Repubblica si è messa dall’altra parte della barricata. E il 10 aprile scorso è stata testimone diretta di una campagna pubblicitaria - reale e pagata - sul blog. Ecco come è andata e che conclusioni empiriche si possono trarre sugli affari della “Beppe Grillo Spa”.
UN’ASTA DA 115,3 EURO
Buona parte degli spot nelle pagine di www. beppegrillo.it è venduta con un’asta da Google Adsense e Google Adwords, i servizi del colosso di Mountain View nel settore. Qualche inserzione - come quella di Coca-Cola - è stata venduta da Publy Ltd, domiciliata in Irlanda e controllata da Gianluca Bruno, Francesco Di Cataldo e Emanuele Aversano. «Che rapporti abbiamo con Casaleggio? No comment», ha detto contattato per telefono Di Cataldo. Il nostro test è transitato sulla piattaforma di Google. È iniziato di prima mattina lanciando un ordine “mirato” ai banner sul blog. Si è chiuso poche ore dopo con questo bilancio: 125.351 impressions (vale a dire visualizzazioni singole dello spot) acquistate per 115,3 euro. Pari a 0,92 euro ogni mille.
Non tutti questi soldi entrano nelle tasche della Casaleggio Associati. Le commissioni applicate da Google viaggiano attorno al 30%. Gli 0,92 euro scendono così a 0,64. Quanti sono gli spot disponibili in un anno sul blog? Numeri ufficiali non ci sono. Alexa, il misura- web di Amazon, lo classifica come 77esimo sito in Italia. Appena dietro a La Stampa, davanti a Rai e Sky. Beppe Grillo ha parlato di «500-600mila visite al giorno». Cifra compatibile con i dati di Google: Mountain View, che probabilmente conosce all’unità la cifra reale, stima un’offerta di 50-100 milioni di spazi pubblicitari al mese. Pari a un fatturato per la Casaleggio & Associati tra i 384mila e i 768mila euro annui, probabilmente assestato a metà strada a quota 570mila.
LA CATENA DI SANT’ANTONIO
«Se io e Grillo avessimo voluto fare soldi, ci saremmo tenuti i 42 milioni di rimborso pubblico ai partiti», risponde Casaleggio a chi critica la scarsa trasparenza degli affari del blog. Vero. Di aria però non si vive. E visto che «con i suoi ricavi il sito supporta se stesso» (ipse dixit), lui ne ha fatto il vertice di una catena di Sant’Antonio che moltiplica come pani e pesci gli spot disponibili. Basta digitare www. beppegrillo. ite sullo schermo appare una serie di link che rimandano a due aggregatori di notizie (privati) della scuderia Casaleggio: Tzetze.it- dove ieri brillava la pubblicità di Ford e Easyjet - e Lafucina.it. Tzetze, nata da poco, ha scalato la classifica di Alexa arrivando al 174esimo posto, La Fucina è al 318esimo. La controllata Amazon certifica pure il cordone ombelicale che unisce i tre siti della galassia: il 53% dei visitatori di LaFucina arriva dai due cugini (e un altro 24% da Facebok), mentre per TzeTze la quota è il 35% (con un altro 37% dal social network). Tutto fieno in cascina - leggi entrate pubblicitarie - per la Casaleggio & Associati.
GLI SPOT A RISCHIO
Gli spot sono sbarcati sul blog di Grillo nel 2012. «Senza pubblicità l’informazione online chiude», dice Casaleggio. E a tutela dell’immagine dei 5 Stelle assicura di aver creato una blacklist di investitori indesiderati. Quali non è chiaro. Negli ultimi giorni - accanto a inserzionisti “nobili” come Poste, Mercedes e Dolce & Gabbana - spuntavano su tutti e tre i siti di famiglia annunci per promuovere il gioco d’azzardo - settore contro cui i grillini hanno condotto benemerite battaglie in Parlamento - la costituzione di società offshore (tale Sfm) e la vendita di case in Costarica. «Il nuovo bilancio della Casaleggio Associati sarà molto migliore del 2013», ha promesso il guru del movimento. Vista la moltiplicazione dei siti, la vendita sulla vetrina del blog dei prodotti della casa editrice Adagio (sempre di sua proprietà) e le royalty sulle vendite di biglietti per i tour dell’ex-comico, nessuno ne dubitava.

Repubblica 24.4.14
Caro Padoan facciamo gli scongiuri
di Eugenio Scalfari


IL MINISTRO dell’Economia, Pier Carlo Padoan, mi ringrazia per averlo esortato a chiarire più diffusamente la politica economica da lui adottata per ridare speranza agli italiani modificando positivamente le loro aspettative ad un futuro meno buio del loro disagiato presente e per recuperare un’equità fin qui decisamente trascurata. A mia volta lo ringrazio per averci esposto la sostanza, il metodo e gli obiettivi che egli si propone di realizzare e che daranno frutti tra due o tre anni sostituendosi allo “spot” degli 80 euro nelle buste paga dei lavoratori dipendenti con redditi superiori agli 8 mila euro annui, fino ad un tetto di 24-26 mila euro.
Ciò premesso c’è un paio di questioni che desidero qui richiamare e che il ministro ha accennato sorvolandole un po’ alla lontana. Mi sembra invece che occorra tenerle ben presenti e sottolinearle.
LAPRIMAr iguarda appunto l’equità. Lo spot degli 80 euro ha trascurato i non capienti sotto gli 8 mila euro di reddito, i pensionati con modestissime pensioni, le partite Iva dei cosiddetti autonomi. C’è un buco non colmato che forse lo sarà nel 2015 senza però che ve ne sia certezza, così come non v’è certezza d’una riforma degli ammortizzatori sociali, cioè del nuovo welfare che dovrà sostituire l’antico spandendosi su una platea molto più vasta dell’attuale Cig. Padoan ammette che l’attuale taglio del cuneo fiscale è stato realizzato con coperture in larga misura posticce che saranno trasformate in un vero e proprio programma che lui ha già in mente ma sul quale è stato giustamente sobrio di notizie. Siamo tutti speranzosi e fiduciosi che sarà un buon programma. Perciò crepi il lupo e grideremo evviva a lui e al premier Matteo Renzi.
Quanto alla maggior flessibilità dell’Europa verso una politica di crescita, Padoan ne è certo. L’Italia lo chiede fin d’ora e il ministro ci informa che i presupposti ci sono già per quanto riguarda gli investimenti motivati dal lungo ciclo di depressione economica che non dipende da noi ma dall’intero mondo occidentale. L’Italia può sforare il bilancio perché quegli investimenti sono da tempo autorizzati dal trattato in vigore e non intaccano il paletto del 3 per
cento rispetto al quale resteremo al di sotto.
Questa affermazione non è del tutto esatta e lo conferma il fatto che, con apposito voto del nostro Parlamento, il governo è stato autorizzato ad informare la Commissione europea degli investimenti che si accinge ad effettuare per rilanciare nei limiti del possibile la crescita e l’occupazione giovanile.
Saremo senz’altro autorizzati sempre che la Commissione ne approvi la quantità e le modalità nonché riforme che aumentino la competitività e semplifichino opportunamente le istituzioni.
Qualora però l’esistenza di queste condizioni non fosse ravveduta dalla Commissione non credo che il governo possa prenderle senza subirne alcune sanzioni. Se così non fosse non si vede il perché dell’informazione che l’Italia ha trasmesso alla Ue. Perciò aspetteremo e anche qui crepi il lupo poiché se non crepa lui qualcun altro creperebbe in sua vece e non sarebbe un bel vedere.
La seconda questione riguarda invece il pagamento di 20 miliardi dei debiti dello Stato, dei quali 8 alle aziende e gli altri ai Comuni e Regioni debitrici. È un flusso di liquidità preziosa per l’economia italiana, cui si aggiunge l’impegno che d’ora in avanti Stato ed Enti locali dovranno saldare i nuovi debiti a 60 giorni dalle relative fatture, non ricadendo nell’accumulo di altri pregressi.
Benissimo, ma dove prenderanno i soldi i debitori per rispettare quel limite di tempo? Questo Padoan non lo dice e resta un sospetto tutt’altro che marginale.
Ma c’è un altro punto sul quale il sorvolo non mi sembra giusto: le banche sconteranno i debiti certificati pagando le aziende in soldi contanti. Benissimo. Ma a loro volta le banche vanteranno un credito nei confronti del Tesoro. È un debito fuori bilancio e non intacca il paletto del 3 per cento, questo lo sappiamo, ma è pur sempre un debito dello Stato e nasconderlo sotto il tappeto non serve a nulla, il debito c’è e prima o poi dovrà essere onorato, non è vero?
Infine: tutto riposa sulla presunzione che gli 80 euro in busta paga aumenteranno la domanda, cioè i consumi. Una presunzione non è pero una certezza. Molti beneficiari potrebbero invece di spendere risparmiarli quei soldi investendoli in impieghi monetari o tenendoli in contanti sotto il materasso per spese straordinarie che si presentassero in futuro. E se fossero molti di quei 10 milioni di beneficiati? Se fossero la maggioranza? I consumi aumenterebbero molto poco. Qui non si tratta di far crepare il lupo, se a settembre i consumi non avranno registrato aumenti sensibili il governo dovrà andarsene a casa e sarebbe un vero guaio per tutti. Speriamo fortemente di no. I sondaggi dicono positivo, ma i sondaggi non sono un fatto, sono la scommessa che un fatto avverrà.
Caro Padoan, facciamo i debiti scongiuri e intanto diciamo insieme evviva la Roma che però sarà seconda. Noi speravamo di più ma non è accaduto.

l’Unità 24.4.14
Hamas e Olp, il giorno della riconciliazione
Accordo per un governo di unità nazionale entro cinque settimane
L’ira di Israele, gioia a Gaza
di Umberto De Giovannangeli


La riconciliazione, sette anni dopo. E ora all’opera per un governo di unione nazionale che prepari le elezioni. Comunque la si valuti, è svolta politica in Palestina. Hamas e l’Olp hanno deciso di mettere fine alle divisioni. Ad annunciarlo a Gaza il capo dell’esecutivo di Hamas, Ismail Haniyeh. È stata adesso raggiunta «la riconciliazione nazionale», ha affermato. Nei colloqui fra Hamas e una delegazione dell’Olp è stata infatti concordata la formazione entro cinque settimane di un governo palestinese di unità nazionale. Entro sei mesi si svolgeranno nuove elezioni, sia apolitiche che presidenziali, nei Territori.
ROAD MAP
I colloqui a porte chiuse fra gli esponenti delle diverse fazioni palestinesi - in primo luogo Hamas ed al-Fatah - sono iniziati mercoledì mattina in un grande albergo di Gaza. Al tavolo Hamasera rappresentato dal capo dell’esecutivo a Gaza Ismail Haniyeh e da Mussa Abu Marzuk, un dirigente politico arrivato appositamente dall’Egitto. Al-Fatah ha inviato a Gaza Azzamel- Ahmad, che è giunto dalla Cisgiordania con esponenti di altre fazioni rappresentate nell’Olp. L’annuncio dell’accordo ha scatenato scene di giubilo a Gaza. Restano da appurare gli aspetti militari dell’accordo, a cominciare da cosa avverrà alle forze di Hamas a Gazae che rapporto avranno con il comando dell’Anp. Immediata, e dura, la reazione d’Israele, Il presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) «deve scegliere se desidera la riconciliazione con Hamas oppure la pace con Israele», ha dichiarato Benyamin Netanyahu Secondo il premier israeliano i due sviluppi si escludono: «Si può raggiungere uno di loro, ma non entrambi». «Io mi auguro-ha proseguito Netanyahu - che Abu Mazen scelga la pace, ma finora non lo ha fatto». «Noi cerchiamo di rilanciare le trattative con i palestinesi. Ogni volta che arriviamo a questo punto - ha detto ancora il premier - Abu Mazen aggiunge nuove condizioni, pur sapendo che sono inaccettabili per Israele». L’accordo raggiunto a Gaza, tuona il viceministro degli Esteri israeliano Zeev Elkin (Likud Beitenu), rivela «l’unità dei veri obiettivi dei terroristi di Hamas e dei leader di al-Fatah: la distruzione dello Stato ebraico». A giudizio di Elkin il presidente dell’Anp Abu Mazen«ha adesso trovato il proprio posto naturale, nel caldo abbraccio degli assassini di Hamas». «L’accordo tra Fatah, Hamas e la Jihad islamica porta il Medio Oriente in una nuova era diplomatica. L’Autorità palestinese si è trasformata nella più grande organizzazione terroristica del mondo, a 20 minuti da Tel Aviv», rincara la dose il ministro dell’Economia israeliano, Naftali Bennett. Come prima reazione politica all’intesa Fatah-Hamas, Netanyahu ha ordinato alla delegazione israeliana, guidata dalla ministra della Giustizia Tzipi Livni, di cancellare l’incontro (nell’ambito dei negoziati con i palestinesi) previsto per ieri sera. «Netanyahu ha sospeso i negoziati da molto tempo, ha scelto le colonie invece della pace», ribatte il capo-negoziatore palestinese, Saeb Erekat, precisando che oggi sarà in visita a Ramallah il mediatore statunitense Martin Indyk. Sul campo, Israele ha lanciato un attacco aereo sulla Striscia in seguito ad alcuni razzi lanciati da militanti di Hamas. Dodici persone sarebbero rimaste ferite, secondo le autorità sanitarie di Gaza, per quella che Gerusalemme definisce un’«operazione anti-terrorismo».
Gli Stati Uniti riconosceranno il governo di unità nazionale palestinese frutto dell’accordo di riconciliazione tra le fazioni di Fatah e Hamas solo se esso «riconoscerà Israele, rinuncerà alla violenza e aderirà agli accordi siglati in precedenza dall’Organizzazione perla liberazione della Palestina», ha dichiarato una fonte governativa statunitense al quotidiano israeliano Haaretz.

il Fatto 24.4.14
Palestina
Gaza adesso fa festa: c’è lo storico accordo tra Hamas e l’Olp
Ma un raid aereo di Israele ferisce tre civili Netanyahu: “Abu Mazen non vuole la pace”
di Roberta Zunini


Non hanno fatto in tempo a esultare per la riconciliazione tra Hamas e l’Olp, che i caccia israeliani hanno sganciato i loro missili intelligenti. Ma hanno fallito bersaglio, ferendo tre abitanti della Striscia di Gaza, anziché i jihadisti nel mirino.
COSÌ LA GIOIA dei gazawi, scesi in strada per festeggiare l’annuncio della più volte posticipata pace tra le due fazioni politiche palestinesi in lotta da sette anni, è stata smorzata dall’attacco aereo. Che sembra essere stato una risposta al lancio di razzi sul deserto del Negev israeliano da parte dei jihadisti presenti nella Striscia. Dove da due giorni gli emissari del presidente dell’Autorità Nazionale palestinese, Abu Mazen (esponente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e del principale partito che ne fa parte, Fatah) e i rappresentanti di Hamas stavano lavorando all’accordo. Quello – a quanto affermato dal premier del governo targato Hamas della Striscia, Ismail Haniyeh – in grado di ricomporre la frattura creata dalla sanguinosa guerra-lampo fratricida del 2007, scatenata dal risultato a favore di Hamas delle consultazioni politiche. Da allora, a causa della vittoria di Hamas nella guerra civile durata pochi giorni, i Territori occupati palestinesi (Striscia di Gaza e Cisgiordania) hanno una leadership bicefala : da una parte l’esecutivo di Hamas, dall’altra quello di Fatah. Secondo l’agenda dei lavori, fra cinque settimane nascerà un nuovo governo di unità “nazionale” e dopo sei mesi si terranno le elezioni amministrative e presidenziali. Se le cose andranno come da programma e se l’impasse del negoziato israelo-palestinese verrà superata, Israele dovrà pertanto interfacciarsi anche con Hamas, che non lo riconosce come Stato.
UN’IPOTESI CHE Benjamin Netanyahu ha immediatamente escluso sottolineando che chi sceglie Hamas, non vuole la pace perché questa predica la distruzione di Israele: “Stasera, mentre ancora dovevano svolgersi i colloqui per estendere il processo di pace, Abu Mazen ha optato per Hamas e non per la pace”. Per oggi Netanyahu ha convocato il Gabinetto di sicurezza. Il tempo della trattativa sembra dunque scaduto. Nonostante gli sforzi del Segretario di Stato Usa, John Kerry.

QUI HAARETZ

Corriere 24.4.14
Le troppe carte nascoste delle stragi italiane
di Giovanni Bianconi


«La principale novità di questa decisione è che gli atti dell’intelligence diventano un patrimonio culturale del Paese», dice un funzionario dei servizi segreti che sta mettendo mano all’operazione trasparenza lanciata da Matteo Renzi. Una chiave di lettura meno eclatante ma più veritiera di tante altre che hanno accompagnato l’annuncio del presidente del Consiglio. Corretto in corsa l’iniziale slogan «via il segreto di Stato dalle stragi» si è giunti a una più congrua comunicazione di quanto deliberato: la desecretazione anticipata dei documenti relativi ad alcuni attentati dell’ultimo mezzo secolo. Fatto non certo insignificante, ma nemmeno così dirompente come si
voleva far credere.
La pubblicità delle attività documentate dei servizi di sicurezza e delle forze di polizia, se e quando avverrà, sarà benvenuta perché risponde a un criterio di controllo — sebbene a posteriori — la cui assenza ha favorito, in passato, il proliferare di omissioni, bugie e depistaggi oggettivamente accertati. Ben più gravi del tanto vituperato segreto, che mai è stato opposto (salvo in un paio di situazioni superate da avvenimenti successivi) e dunque nessuno adesso potrebbe togliere. Se dunque la mossa di Renzi e del sottosegretario Minniti servisse a una migliore gestione delle decisioni e degli archivi da parte degli apparati di sicurezza, allora sì che sarebbe importante. Soprattutto per il futuro giacché per il passato, purtroppo, c’è poco da attendersi. I documenti riservati o segreti (e riservatissimi o segretissimi, secondo la tradizionale classificazione), infatti, sono stati per lo più già esaminati dai magistrati entrati più volte in quelle stanze blindate, e puntualmente trasfusi negli atti processuali. Sui quali hanno già lavorato molti studiosi e storici di professione. Inoltre gran parte di quelle carte sono state acquisite dalle commissioni parlamentari d’inchiesta — da Sindona a Moro, dalla P2 alle stragi —, e da qui girate alle biblioteche di Camera e Senato aperte alla pubblica consultazione (almeno in teoria, ché in pratica restano ostacoli burocratici che forse la firma del premier potrà adesso rimuovere). Il «versamento» all’archivio di Stato, quindi, difficilmente ribalterà le conclusioni storiche, oltre che giudiziarie, raggiunte finora. Con risultati insoddisfacenti, certo, proprio a causa dei depistaggi che hanno ostacolato quasi tutte le inchieste sulle bombe. Con una regolarità sconcertante, da piazza Fontana a Bologna, tanto per stare nei confini temporali fissati dal decreto Renzi: processi senza colpevoli, tranne poche eccezioni, ma con provate omissioni e deviazioni delle indagini. Per la strage di piazza Fontana, ad esempio, la giustizia è arrivata fuori tempo massimo dichiarando la responsabilità dei due neofascisti Freda e Ventura, in precedenza definitivamente assolti; una vicenda giudiziaria irta di ostacoli tra cui la fuga di un paio d’inquisiti favorita dal generale del Sid Gian Adelio Maletti, tuttora latitante in Sud Africa. E per piazza della Loggia a Brescia, di cui tra un mese sarà celebrato il quarantesimo anniversario, sopravvive un processo grazie ad alcune «veline» del servizio segreto militare in cui fin dall’estate del 1974 si delineava la responsabilità del gruppo veneto di Ordine Nuovo; documenti rigorosamente nascosti ai magistrati, scomparsi «per errore», non catalogati dove avrebbero dovuto essere e ritrovati casualmente undici anni dopo la bomba, da altri inquirenti, nel corso di un altro procedimento riguardante altri fatti. I vertici del Sid non solo li avevano occultati, ma quando uno dei capi andò a testimoniare indicò agli inquirenti una pista diversa, puntualmente falsa; era lo stesso generale Maletti, il quale nel 2009 s’è visto rifiutare un’improvvida domanda di grazia dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, con un atto che simbolicamente vale più delle annunciate desecretazioni. L’esempio delle veline su Brescia è significativo della gestione di certe informazioni «riservate»: prima nascoste a chi di dovere e poi fatte sparire (in quel caso recuperate fortuitamente). Come ribadisce Manlio Milani, presidente dell’Associazione vittime di piazza della Loggia, «più del segreto di Stato il problema è il silenzio di Stato». Che difficilmente sarà rotto dall’apertura degli archivi, se chi li ha allestiti e conservati contemporaneamente depistava e occultava. In ogni caso guardarci dentro potrà essere utile; sia nell’eventualità di qualche sorpresa, sia per la poco consolante conferma dei sospetti accumulati in tanti anni di verità negate.

Corriere 24.4.14
«Scopriremo chi ha depistato e se esiste un archivio dell’Arma»
Pellegrino: ma gli atti devono essere riuniti in un solo luogo
intervista di M. Antonietta Calabrò


Avvocato Pellegrino, lei è stato per lunghi anni Presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi, ha fatto bene Renzi a firmare la desecretazione di tutti gli atti?
«Sì, sicuramente»
Ma molti hanno ricordato che per il reato di strage non può esserci il segreto...
«E io tra questi: perché la legge già prevede che non sia possibile opporre il segreto di Stato».
Qual è, allora, la novità?
«Rispondo con un esempio, come presidente della Commissione parlamentare. Grazie all’intervento dell’ex presidente della Cassazione, Antonio Brancaccio, nominato ministro dell’Interno , i consulenti della Commissione stragi poterono avere accesso per mesi a molti documenti del Viminale, nonostante fossero ancora classificati».
Cosa accadde dopo?
«Quando la Commissione chiuse i suoi lavori, decidemmo che tutto il nostro archivio e i documenti raccolti dovessero essere pubblicati. Dal momento che i documenti del Viminale erano classificati, ed acquisiti solo per l’uso della Commissione, non fu possibile renderli pubblici. Allo stesso modo, dopo molti anni, quando il presidente del Senato Schifani annunciò che tutta la documentazione raccolta da noi era stata trasferita su supporto magnetico, comunque mancavano all’appello i documenti classificati che pure avevamo potuto studiare».
Invece, con la direttiva del premier Renzi, sarà diverso?
«Sì. Servirà a rendere pubblici tutta la sterminata mole di atti classificati, come riservati, riservatissimi, eccetera. Nonostante la Commissione parlamentare avesse deciso di rendere tutto pubblico, questo allora non era stato sufficiente. Adesso, c’è un ordine del presidente del Consiglio, cioè del capo dell’esecutivo, e quindi ritengo che la situazione cambierà».
Molti uomini degli apparati di sicurezza sono stati inquisiti o condannati non per strage, ma per depistaggio. La direttiva Renzi servirà a chiarire anche questi fatti?
«Sì, oggi molti degli uomini che comandavano gli apparati magari non sono più in servizio, altri sono morti. L’iniziativa di Renzi aiuterà a fare finalmente chiarezza. Spesso ci si è trovati di fronte alla resistenza dell’amministrazione. Mi domando, ad esempio se esista un Archivio centrale dell’Arma dei Carabinieri. A me venne detto che esistevano archivi solo su base territoriale. Ma presi questa risposta con il beneficio d’inventario».
Secondo lei, la decisione del premier contribuirà , in generale, a far voltare pagina al Paese, in modo che l’Italia possa andare avanti e non rimanere sempre con la testa voltata indietro?
« Quella di Renzi è una decisione che non solo risponde alla sofferenza delle famiglie coinvolte, si tratta di una vera e propria scelta di civiltà. C’è però un’altra necessità...».
Quale?
« Che tutti i documenti vengano riuniti in un unico luogo, l’Archivio di Stato. Solo così sarà effettivamente possibile agli storici studiarli con cura. Questo non vuol dire che tutto automaticamente diventerà chiaro e limpido. Anche perché possono esserci letture diverse degli stessi fatti. Ancora oggi, si sa, si discute se Napoleone a Sant’Elena sia stato o non effettivamente avvelenato. Poter avere a disposizione tutti documenti in un unico luogo, permetterà però di evitare il fenomeno definito da Benedetta Tobagi “segreto di stato strisciante”».
E che cos’è il “ segreto di Stato strisciante”?
«Se un documento importante che riguarda lei, è conservato nel faldone degli atti che riguarda me, nessuno lo troverà mai. Se invece la mia cartella e la sua sono disponibili nello stesso posto, trovarle e confrontarle sarà più semplice. Spesso non si vuole che ciò accada perché il segreto è una fonte di potere».

l’Unità 24.4.14
Rossana Rossanda, voce tra le generazioni che fende ancora il vento
I novant’anni di una donna luminosa e intransigente: una vita vissuta a pensare in grande
di Bruno Gravagnuolo


«NON MI PESA AVER LITIGATO CON QUALCUNO, UMANAMENTE FACCIO LA PACE SUBITO. IO NON FACCIO LA PACE CON LE IDEE, CHE È COSA MOLTO DIVERSA». Ecco, in occasione dei suoi novant’anni è con questa aforisma che vogliamo festeggiare Rossana Rossanda. Aforisma suo naturalmente, e «pronunciato» un anno fa, in un’intervista con Simonetta Fiori. Dietro c’è tutto il carattere di una donna luminosa e intransigente, per usare le parole di Jean Daniel in occasione della scomparsa del suo compagno di vita Karol, marxista polacco dissidente, giornalista e analista politico di vaglia. Un grande dolore quindi accompagna questo compleanno. Ma siamo convinti che questo e altri dolori e delusioni che hanno segnato la vita di Rossanda, nonne incrineranno minimamente la lucidità e la voglia di battersi ancora per le sue idee. Quelle sulle quali e con le quali non si deve far pace né darsi pace.
E nondimeno nessun dogmatismo nella sua vita, ma sempre inquietudine e ovviamente lealtà alla propria biografia, alla propria parte. E al proprio punto di vista. Un insieme di motivazioni profonde che le ha sempre consentito di esercitare una sorta di magistero simbolico sul suo gruppo storico e sulle nuove generazioni venute dopo la celebre rottura col Pci del 1969, culminata nella radiazione di Magri, Pintor, Natoli, Parlato (i fondatori con Rossanda del manifesto rivista, poi divenuto quotidiano).
Ma ecco, come si conviene, alcuni cenni biografici. Importanti per illuminare il presente di Rossana. Nasce a Pola il 23 aprile 1927 e frequenta il liceo classico Manzoni. In seguito è allieva del filosofo Banfi, e giovanissima partecipa alla Resistenza come partigiana. Iscritta al Pci e notata subito da Togliatti, diventa responsabile della politica culturale del partito. Benché «sinistra» tenta in ogni modo di evitare scomuniche e polemiche nel Pci, allorché Feltrinelli pubblica avventurosamente il Dottor Zivago di Pasternak, nel 1957. Nel 1963 è eletta alla Camera e nel dibattito sul «modello di sviluppo» - transizione e al socialismo o programmazione riformista? - si schiera dalla parte di Ingrao e di Lucio Magri. Una discussione che prosegue con l’XI congresso del 1967 e che si riaccende nel 1968, quando pubblica L’anno degli studenti. Tesi: gli studenti sono il battistrada di massa di una rivoluzione pacifica anticapitalistica. È la ripresa del dibattito sulla «transizione» che si ripropone, ma in un clima ben più favorevole dei primi anni 60. Lì inizia anche il dissenso col Pci, che si sostanzia di analisi e attacchi contro l’Urss e «il socialismo reale» (e anche di aperture di credito verso la Cina maoista).
Il punto rimane sempre quello però: spinta di massa studenti/operai oltre il capitalismo? Oppure politica di alleanze riformista contro la destra, in una prospettiva di guida democratica dell’economia? Il risultato è la radiazione, nel segno del «centralismo democratico», che nel Pci non consentiva correnti organizzate, e tantomeno contro la linea del gruppo dirigente. Qui comincia anche l’avventura del Manifesto quotidiano, organo trasversale e più ragionevole della sinistra extraparlamentare, con una specifica vocazione al giornalismo e all’analisi politica. Un giornale conteso e sempre diviso, tra una vocazione più al servizio di un progetto politico e un’indole più d’opinione. E sebbene nel 1972 avesse dato vita al Pdup, Rossana - pur in bilico tra queste due posizioni - non rinunciò mai alla lotta e alla guida dell’opinione. Esattamente su questo crinale che si guadagna un prestigio e un’influenza destinati a durare a lungo. Fino al punto di farne un riferimento etico, soprattutto per le donne di sinistra, e non solo per le generazioni femminili legate al Manifesto. Una sorta di «madre simbolica», insomma. Dopo essere stata a lungo direttrice del quotidiano abbandona per anni la politica attiva, fino all’ultimo clamoroso gesto, del 26 dicembre 2012, quando lascia definitivamente il giornale, a causa di un forte dissenso con la redazione. Temi: il mancato contrasto all’Europa finanziaria, l’abbandono del conflitto di classe e dei partiti. E poi: il mancato contrasto alle larghe intese di governo. «È stata una rottura generazionale», dirà Rossanda. Ma la sua voce di ragazza del Novecento fende ancora il vento e le generazioni. Impossibile non udirla.

l’Unità 24.4.14
E alla radio risuonò una canzone
Il 25 aprile di quarant’anni fa la Rivoluzione dei Garofani
La sollevazione pacifica guidata dai militari pose fine al regime autoritario fondato da António Salazar
Tutto ebbe inizio quando Rádio Renascença trasmise «Grândola vila morena» di Joè Alfonso
di Marco Ferrari


TUTTO EBBE INIZIO AL MINUTO 00,29 DEL 25 APRILE DEL 1974 QUANDO LA PRINCIPALE RADIO PORTOGHESE, RÁDIO RENASCENÇA, trasmise la canzone di José Afonso, Grândola vila morena, vietata dal regime. Era il segnale definitivo per l’inizio di quella che è passata alla storia come la Rivoluzione dei Garofani (Revolução dos Cravos). Sono passati quarant’anni e quella sollevazione pacifica, guidata dai militari, è stata soppiantata nella memoria da altri eventi più importanti e tragici. Forse resta un caposaldo indimenticabile di una generazione che aveva visto in quella rivolta un alito di speranza, come racconta il mio romanzo Alla rivoluzione sulla Due Cavalli edito da Sellerio. Era il 1974, una tiepida notte di aprile e d’improvviso si sbriciolò la distanza, oltre la barriera franchista, oltre l’orizzonte di El Greco, dei tzigani e dei templari, oltre gli speroni di arenaria della dormiente Spagna.
Dopo la dolorosa pagina del golpe in Cile, finalmente si alzava un canto libero nella più vetusta dittatura europea, 48 anni di isolamento, fascismo e brutalità. Il respiro si faceva largo sostituendo le grida dolorose della caduta di Allende, della guerra del Vietnam, tra le bombe fasciste e gli anni di piombo. Così, su due piedi, in tanti partirono con la voglia di rivoluzione, in treno, in macchina, in autostop con un sacco a pelo, i Ray-Ban, la sciarpa di Truffaut, i pantaloni a campana, il tascapane, le canzoni di Rino Gaetano e Gilbert O’Sallivan in testa. Erano attirati dalle immagini in bianco e nero dei carri armati portoghesi, colmi di garofani e di pugni alzati, che sfilavano pacifici nelle strade di Lisbona. Che cosa si poteva trovare in quella città quasi incredula di scoprire la libertà? Uomini che tornavano da trent’anni di esilio dall’allora Cecoslovacchia o dalla Francia e che aprivano la porta cigolante della neonata sede del Partito Comunista con un tremulo di paura stampato negli occhi oppure giovani portoghesi che rientravano da Roma o da Londra dove avevano evitato il servizio militare nelle guerre coloniali oppure ragazzi che si erano formati nel vasto impero senza aver mai visto la madrepatria.
Nella primavera del ’74 l’ora più bella di Lisbona era il tramonto al Rossio, la piazza centrale, quando le librerie si riempivano di gente che andava a scovare testi appena stampati, nei bar all’aperto si raccoglievano crocchi di persone per leggere i giornali della sera e nell’aria vibravano forti odori del caffè appena macinato e del lucido dei lustrascarpe. Il sabato, poi, nella Feira da Ladra (Mercato dei ladri), in Campo de Santa Clara, tra discussioni e bevute, si vendevano oggetti che uscivano fuori dalla cantine o dalle soffitte dove erano rimasti per anni, bandiere, riviste vietate, foto di scioperi e repressioni poliziesche. Di quegli eroi dei Garofani molti non ci sono più: Fernando José Salgueiro Maia, l’uomo che fece arrendere il dittatore Marcelo Caetano nella caserma do Carmo, è deceduto nel 1992; Josè Afonso, il cantante censurato, è scomparso nel 1987; Alvaro Cunhal, l’integerrimo segretario del Partito Comunista che non accettava compromessi, se n’è andato per sempre nel 2005 lasciandoci significativi libri di poesie; Antonio da Spinola, l’enigmatico fautore del golpe, è morto nel 1996; Vasco Gonçalves, il generale che attuò nel 1974 i principi socialisti della rivoluzione e che venne scalzato nel settembre dell’anno successivo, ci ha lasciati nel 2005.
Restano in vita due voci contrastanti tra loro: il padre putativo della democrazia, il socialista Mario Soares e l’artefice di quella notte rivoluzionaria, Otelo Saraiva de Carvalho. Il primo glorificato da una lunga carriera ai vertici dello stato, due volte Primo Ministro dal 1976 al 1978 e dal 1983 al 1985 e Presidente della Repubblica dal 1986 al 1996. Il secondo declassato e dimenticato: entrato nella Giunta di Salvezza Nazionale e nel Consiglio della Rivoluzione, creato nel marzo del 1975 per poi perdere le elezioni a presidente nel 1976 e nel 1980, essere accusato di contatti con formazioni terroristiche, finire in carcere nel 1984 ed essere amnistiato nel 1989. Qualche sbiadito ritratto di Otelo ancora resiste sui muri ocra di Lisbona.
Di certo questo 25 aprile li vedrà al centro dell’attenzione, se non altro per essere stati i paladini che hanno scalzato il regime, prima di Salazar e poi di Caetano, fatto di torture e esili, di sogni imperiali lusitani e di colonialismo ostinato.
António de Oliveira Salazar, cresciuto nel seminario di Viseu e diventato eminente professore universitario a Coimbra, aveva creato il più grande impero coloniale ed era caduto per colpa di una sedia. Era settembre del 1968, Salazar se ne stava come sempre al Forte di Santo Antonio all’Estoril, pensionando per generali e familiari. Lui adorava dimorare là anche fuori stagione come un pensionato normale con abitudini poco intime e per nulla formali, una passeggiata a piedi, una partita a carte, la lettura di un libro. Tanto lui l’impero ce lo aveva tutto in mente, nome per nome, indirizzo per indirizzo, scheda per scheda della polizia, pur non essendosi mai mosso dalla sua terra natia, se non per inoltrarsi due volte per una decina di chilometri in territorio spagnolo per incontrare Franco.
A Salazar accadde l’irreparabile in maniera quasi comica: come ogni mattina andava dal callista, in veranda, a farsi dare una guardatina alle unghie delle mani e dei piedi. Era l’unico momento in cui il catalogo delle donne e degli uomini uccisi, torturati o mandati a marcire negli angoli più remoti dell’Africa o di Timor Est non gli dava il mal di testa. Sbocciato nell’aprile 1928, nell’autunno del ’68 si spegneva il ciclo quarantennale di Salazar, non la dittatura più vecchia d’Europa. La sedia del callista si ruppe e il dittatore batté la testa a terra. Non morì, si trascinò in agonia per altri due anni. Marcelo Caetano mantenne in vita il salazarismo senza Salazar mostrandosi contraddittorio e ambiguo, incerto e titubante, schiavo della polizia politica Pide. Così la questione ultramarina gli scoppiò tra le mani come una bomba deflagrante: un impero troppo vasto per una nazione piccola non poteva reggersi a lungo senza democrazia, scambi commerciali, libertà di idee e economiche, imprenditoria e ricerca. Da lì partì la rivolta dei Capitani dei Garofani, (Movimento dos Capitães), figli della borghesia lusitana che non volevano morire nell’umidore delle colonie. Il 25 aprile sarà quindi un giorno decisivo per il ritorno della democrazia in Portogallo, ma anche, in seguito al definitivo abbandono di una secolare, sanguinosa ed aggressiva politica coloniale, per l’acquisizione dell’indipendenza di importanti paesi africani come l’Angola, il Mozambico, la Guinea Bissau.
Se sino a qualche anno fa i reduci del 25 Aprile erano nelle strade a inneggiare alla democrazia, oggi i membri superstiti delle forze armate rivoluzionarie del 1974 sfileranno, da pensionati, assieme agli «indignados» portoghesi, ai collettivi e alle organizzazioni sociali che si mobilitano contro i tagli alla spesa pubblica e per chiedere una soluzione ai gravi problemi del Paese, ai sindacati e alla sinistra parlamentare che rivendicano dal governo conservatore guidato da Pedro Passos Coelho politiche per stimolare la crescita e l’occupazione. Così quattro decenni dopo Grândola vila morena è diventata l’inno delle proteste sociali in Portogallo.

Corriere 24.4.14
25 aprile La brigata bolognese di Enzo Biagi, l’italo-tedesco che beffò la Gestapo: il fattore umano nelle vicende della Resistenza
Partigiani in carne e ossa, senza retorica
Intellettuali e contadini alla macchia per la libertà
di Dino Messina

qui

Corriere 24.4.14
Come ingannare i nazisti raccontando barzellette
di Antonio Carioti

qui

Corriere 24.4.14
La memoria degli ultimi

Sette ex combattenti raccontano la Resistenza Questo prezioso documento di Samuele Rossi (si raccomanda per le scuole, è in commercio in Dvd Cg) raccoglie le testimonianze di sette ex partigiani toscani, delle loro storie dalla pianura ai 1.900 metri della linea gotica. Un insieme di memoria storica e sentimenti che va al di là della ricorrenza del 25 Aprile, ignota ai giovani, ma interessa per ciò che dice sulla Resistenza anche dopo il ’45: sette vite difficili, da non dimenticare. (m. po.)

Repubblica 24.4.14
L’“errore” di Freud sui bambini
La ricerca di Ammaniti e Gallese sulla genesi dell’intersoggettività “Comincia con la vita prenatale”
di Paolo Legrenzi


Freud pensava che il bambino molto piccolo fosse come un uccelletto, rinchiuso entro un guscio, felice con la sua riserva di cibo, isolato dagli stimoli del mondo esterno. Massimo Ammaniti e Vittorio Gallese mostrano che le cose non stanno così. L’uso dei metodi più diversi permette di costruire un’affascinante sintesi degli studi su La nascita dell’intersoggettività (che è anche il titolo del loro libro), del formarsi cioè di relazioni tra figli e genitori dal periodo prenatale fino all’infanzia.
Il saggio mescola la tradizione neuropsicologica, di cui Gallese è un esponente internazionale, con gli studi clinici, di cui Ammaniti è un ricercatore altrettanto affermato. I risultati smentiscono l’idea dell’uccelletto nel nido. Per esempio, abbiamo l’esame e la codifica delle reazioni di un padre e di una madre, seduti uno vicino all’altro, di fronte all’ecografia del loro figlio. Possono vedere sullo schermo i movimenti parziali del feto, cogliendo l’intenzionalità dei gesti e, talvolta, addirittura imitandoli inconsapevolmente. Il bambino diventa, durante la gravidanza, una sorta di “compagno segreto”, prendendo in prestito il titolo di un racconto di Joseph Conrad (1909).
Le ricerche di Massimo Ammaniti e Vittorio Gallese mostrano che nasciamo già predisposti per molte abilità di natura motoria. I linguisti giocano una partita più facile, nel senso che possono interagire con delle persone “parlanti”. Più difficili da studiare sono la fase prenatale e l’infanzia di un bimbo. E tuttavia, negli ultimi trent’anni, l’ingegnosità dei ricercatori e i progressi delle tecniche non invasive hanno permesso di scandagliare i primi meccanismi della comunicazione, quelli ancorati al corpo. Per esempio, Merle Fairhurst, e altri ricercatori di Oxford, stanno facendo esperimenti servendosi di una sorta di pennello. Si possono modificare temperatura, flessibilità e altre caratteristiche dei peli del pennello, misurando così l’attenzione e il gradimento del bambino quando il pennello - più o meno veloce, caldo o flessibile - è fatto passare sul suo braccio. L’infante di nove mesi mostra di saper distinguere con grande finezza i casi in cui il pennello si muove poco delicatamente, oppure quelli in cui non ha la temperatura giusta. Questa capacità di discriminazione sembra innata, giacché i bambini di questa età non sono mai stati probabilmente sottoposti a carezze sgraziate.
Dal lato opposto della relazione, quello delle emozioni dei genitori, le nuove tecniche, di cui Gallese è un pioniere, registrano i diversi livelli di attività delle varie zone del cervello mentre la madre osserva immagini del proprio bambino e quelle di bambini sconosciuti. La maggiore concentrazione allo scopo di comprendere le emozioni dei propri figli, corrispondente ad attivazioni neurali più intense, conferma la teoria dell’attaccamento. Bowlby, fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso, aveva individuato, nei primi mesi di vita, una predisposizione biologica volta a creare un legame con la figura materna.
L’importanza di questo saggio non si limita alle ricerche originali sulla nascita dell’intersoggettività, ma testimonia anche il superamento del Novecento. Nel secolo scorso, le varie psicologie si erano sviluppate per scuole indipendenti: la psicoanalisi da una parte, la neuropsicologia da un’altra, la psicologia sperimentale da un’altra ancora. Questa storia è finita, speriamo per sempre: merito di ricercatori come Ammaniti e Gallese.

La Stampa 24.4.14
I giocattoli che ci fanno maschi (o femmine)
Dagli Usa all’Europa infuria il dibattito: bambole e macchinine sono l’ultima differenza tra i generi?
di Vittorio Sabadin


Le donne fanno ormai quasi tutto quello che fanno gli uomini, e giustamente si battono da anni contro gli stereotipi che differenziano il genere maschile da quello femminile.
Ma allora perché le stesse donne che hanno conquistato la parità dei sessi regalano alle loro bambine bambole e vestiti rosa da principessa e ai loro bambini pistole da cow-boy e auto radiocomandate? La lunga lotta per l’emancipazione femminile non ha ancora scardinato uno dei baluardi della differenza di genere: il negozio di giocattoli.
Il problema è più serio di quanto sembri ed è oggetto di dibattito in molti Paesi del mondo, dove sono nati comitati di genitori che hanno chiesto alle multinazionali dei prodotti per bambini di non differenziarli più tra maschili e femminili. Negli Stati Uniti è famosa la battaglia di Antonia Aires-Brown, cominciata quando aveva solo 11 anni e vinta pochi giorni fa, che ha chiesto a McDonald’s di abolire la distinzione maschietti-femminucce nella distribuzione degli Happy Meal Toys.
Altre campagne, in America, Inghilterra e Australia, hanno puntato a cancellare nei grandi centri di distribuzione come Toys R Us e Marks and Spencer ogni accenno alla distinzione di genere negli scaffali dei giocattoli, e per chiedere alla Disney di ridimensionare un po’ i 26 mila prodotti «da principessa» che vende nei suoi negozi.
In Inghilterra, Ross e James Ball hanno deciso di mettere online un diario della vita dei loro bambini, Josie di tre anni e Clem, un po’ più grande, per verificare se, quando e come avrebbero scoperto la differenza di genere. Volevano verificare con un metodo empirico se la divisione tra rosa e blu è innata, se la femmina è davvero destinata a essere passiva, gentile e carina e il maschio a diventare aggressivo, attivo e forte.
Ross e James hanno visto che, nel negozio di giocattoli, il maschio non aveva problemi a scegliere una tiara rosa da mettersi sul capo, o una pila a impulsi luminosi dello stesso colore. Era il proprietario del negozio a proporgli di cambiare i giocattoli almeno nel colore: per un maschietto come lui era più adatto il blu.
Kira Cochrane, in un articolo su «The Guardian» dedicato al problema, ha citato un libro di Jo B. Paoletti, una docente all’Università del Maryland, che ricorda come nell’epoca Vittoriana i bambini fossero tutti vestiti uguali, senza differenza di genere. Solo nel secolo scorso si è cominciato a far pagare loro un prezzo sociale molto alto, se manifestavano gusti diversi agli stereotipi dominanti.
Un maschio che giocava con le bambole o vestiva di rosa veniva e viene ancora ridicolizzato, le bambine con i capelli corti sono prese in giro dalle amiche. Si giudica tuttora strano che le donne si interessino alla matematica, alla scienza, alla tecnologia e alle costruzioni, e si dimentica che anche i giocattoli hanno un ruolo formativo per il lavoro che si sceglierà in futuro e per la vita da adulti.
La colpa, si dice, è del mercato: se la differenza di genere esiste, si vendono molti più giocattoli, perché i genitori non potranno passarli dalla femmina al maschio. Ma non può essere così semplice. Forse la differenza di genere è nel nostro subconscio culturale e da genitori non riusciamo a liberarcene. Forse esiste davvero, e non ci sarebbe niente di male. Almeno finché un genere non volesse prevalere sull’altro, costringendolo a ribellarsi.

La Stampa 24.4.14
Lo psicologo Paolo Valerio: “Il mistero rimane
L’identità è biologica e culturale”


«Quanto c’è di biologico e quanto c’è di culturale nell’identità di genere? Veniamo dal dualismo cartesiano, ma sappiamo che non è così semplice e che la cultura non può non interagire con la natura». Paolo Valerio ha pubblicato saggi sull’identità con Franco Angeli e il suo ultimo lavoro è sui femminielli napoletani. «Non abbiamo risposte per tutto. Possiamo solo fare ipotesi».
Facciamone una. Se dovessimo attribuire una percentuale ai diversi fattori quale sarebbe il più importate?
«Perché lei è donna? Solo perché ha un certo corredo cromosomico? Certamente c’è una base biologica, e diciamo che influisce per il 33%, ci sono le figure relazionali, i genitori, un altro 33%, e c’è il contesto sociale, ancora un 33%. Poi c’è il caso - l’ha ammesso anche il genetista Edoardo Boncinelli - che vale almeno l’1% e mette in gioco le altre componenti. Non è un cocktail e non è una formula, è un modo per capire le fluttuazioni, e accettare con la mente aperta il risultato».
Secondo la neuropsichiatra Louann Brizendine gli ormoni sono alla base delle differenze tra cervello maschile e femminile.
«Sì, è vero, ma che cosa provoca la reazione ormonale? Qualcosa che è successo prima. È un mistero come la cellula muti, e sappiamo che la fisiologia del cervello è inscindibile dall’attività psichica».
Due gemelli eterozigoti, a meno di un anno, sviluppano comportamenti diversi, anche se esposti alle stesse sollecitazioni: il maschio più aggressivo, la bambina più seduttiva. Come lo spiega?
«I gemelli vivono esperienze diverse l’uno dall’altro, a cominciare dal parto, o dall’ordine di nascita. L’identità è un arcobaleno, immaginiamone le sfumature: si formano già nei primi tre anni di vita».

La Stampa 24.4.14
L’antropologa Cecilia Pennaccini: “Non esistono comportamenti legati al sesso”


«In Australia hanno appena riconosciuto l’identità neutra (e anche in India). Da noi non è così: l’eterosessualità è naturale, tutto il resto è un problema». Per Cecilia Pennaccini «è arrivato il momento di aprire le gabbie - spiega - il fatto che il sesso non comprenda un particolare carattere è evidente nella comparazione etnologica. Non ci sono comportamenti fissi legati al genere, l’ha scoperto Margaret Mead negli Anni 30. I comportamenti sono il prodotto di un lavoro culturale».
Perché questo schema è così rigido?
«Perché serve. Sulla base delle differenze di genere si costruiscono le strutture sociali: famiglia, parentela, divisione del lavoro. Dove si distingue tra sesso biologico e genere, si trovano soluzioni più flessibili».
Qualche esempio?
«Gli Inuit hanno un sistema di definizione di genere non legata al sesso biologico. Il nome attribuito al bambino nella cerimonia sciamanica è quello di un antenato e può essere maschile o femminile. In India gli eunuchi diventavano prostitute sacre. Ci sono moltissimi modelli in giro per il mondo. L’Europa cristiana è eteronormativa: o sto da una parte o dall’altra».
E in Africa?
«In Uganda le donne si sposano, fanno figli, sono subordinate agli uomini. Ma le medium, le principesse e le regine vengono considerate “uomini” e possono accedere al potere politico/economico. Esiste anche il matrimonio tra donne, non di natura sessuale, ma giuridica».
Ma qualcosa sta cambiando..
«I movimenti Lgbt lavorano per relativizzare il modello eteronormativo, ed è un bene. Ma chi sceglie di cambiare sesso finisce per invocare la naturalità. Dice: “Sono nato così”, ma gli schemi si creano culturalmente e socialmente, ed è sui modelli che bisogna lavorare, non sui corpi».

Corriere 24.4,14
In scena all’Argot di Roma, con Pier Giorgio Bellocchio
L’inferno negli altri secondo Sartre
di Franco Cordellki


A distanza di tre anni dalla bella edizione di Virginio Liberti, ecco di nuovo Porte chiuse di Jean-Paul Sartre; ed ecco che di nuovo si propone il tema cui accennavo discutendo l’idea di Luca Ronconi, d’essere la critica teatrale diventata critica letteraria. Di fronte a un testo come quello di Sartre chi può prescindere dal racconto del dramma e da una sua interpretazione appunto letteraria? Dico di più. Quante opportunità Porte chiuse offre per variazioni sensibili in sede di scrittura scenica?
Il regista dello spettacolo in debutto all’Argot di Roma è Filippo Gili. Ne sono interpreti Pier Giorgio Bellocchio, Vanessa Scalera, Liliana Massari e Massimiliano Benvenuto. Due sono le idee che balzano agli occhi. Non c’è il salottino stile Impero che prescrive l’autore, ci sono quattro divani (uno senza spalliera) posti a formare un quadrilatero: sono divani che potremmo trovare in una casa di via Bertoloni a Roma o di corso Buenos Aires a Milano. Sotto i divani (per la cronaca) c’è una specie di tappeto a quadrati bianchi e grigio-scuro, i colori dell’intero arredamento. La seconda idea è di piazzare noi spettatori dietro i divani, anche noi a formare un quadrilatero: che è, afferma il regista, un duplice sbarramento per ciascuno dei tre protagonisti. Ognuno di loro è guardato non solo dagli altri due (il quarto è un cameriere) ma da tutti noi, tutti arbitri, tutti sorvegliati e, in ultima analisi, tutti dannati — poiché, mi chiedo, quale spettatore non ha un poco sbirciato i seduti, a lui di fronte o ai lati? E come può egli non essersi sentito osservato e valutato?
Ma nessuna di queste novità, se tali vogliamo considerarle, è appunto una novità: non aggiungono né modificano. Di maggior rilievo è la recitazione, anzi lo stile di recitazione — che accomuna in una identica maniera sia Bellocchio che Scalera e Massari. Sono tutti e tre eleganti e leggermente sopra le righe: in specie Vanessa Scalera. Ella muove gambe, mani (toccandosi in continuazione i capelli) e l’intero corpo in forma di moto perpetuo. Oserei dire in forme nevrotica o, di più, esibizionistica. Si tratterà allora di stabilire quanto codesto esibizionismo sia intrinseco al discorso di Sartre e quanto proprio del regista e dell’attrice (o degli attori). Su Porte chiuse — in cui tre da poco defunti, estranei l’uno all’altro, si ritrovano chiusi in una stanza — si sono dette una quantità di cose: erano in realtà la stessa, pronunciata con linguaggi diversi.
Per il filosofo Pier Aldo Rovatti il dramma è un «manifesto dell’idea sartriana dell’impossibilità del rapporto interpersonale: visualizzazione scenica d’uno dei capitoli più importanti de L’essere e il nulla , quello dedicato alle “Relazioni concrete verso gli altri”». Per un critico teatrale come Nicola Chiaromonte «il metafisico Sartre è chiuso in un universo realista tutto contingenza e probabilità, in cui niente è realtà né verità». Poiché qui siamo nell’inferno e sia Garcin che Ines ed Estella vi sono precipitati in ragione della loro pessima vita, per Massimo Bontempelli «la differenza tra la condizione di vivo e quella di morto sta solamente in ciò, che nella composizione della vita umana entra un ingrediente che morendo ci abbandona: la vanità, stupendo balsamo dei mediocri». O forse, sottintende Sartre, non solo dei mediocri, ma di tutti.
Tutti hanno bisogno, per essere, d’essere visti (cioè d’esibirsi), delimitati, circoscritti in una forma. È questo bisogno (questo manque à être , avrebbe detto più tardi Lacan) la nostra prigione, morti o vivi che si sia, ossia il nostro inferno.

La Stampa 24.4.14
Il Foro di Augusto rivive grazie alla tecnologia


Un tuffo nel passato, grazie alle più moderne tecnologie 3D. La Roma imperiale torna a vivere con il progetto «Foro di Augusto - 2000 anni dopo», presentato in occasione del 2767 mo Natale della capitale. Fino al 21 ottobre la «magia tecnologica» realizzata da Piero Angela e Paco Lanciano con la storica collaborazione di Gaetano Capasso, si ripeterà tutte le sere, alle 21, alle 22 e alle 23. Grazie a un sofisticato sistema di proiettori ed attraverso le dettagliate ricostruzioni virtuali della Capware dirette dal giovane architetto napoletano Marco Capasso, le rovine ridiventano pareti, le colonne tornano a svettare altissime mentre i riflettori tracciano i contorni degli antichi edifici, svelando dettagli e colori oggi perduti.
IL VIDEO QUI

Repubblica 24.4.14
Rai- Radio1
L’inno italiano con Abbado e i Berliner

Anche questo è il segno dei tempi che cambiano: da lunedì la programmazione della radio verrà aperta dall’inno nazionale eseguito dai Berliner Philarmoniker e diretto nientemeno che da Claudio Abbado. Finora andava in onda ma diretto da Giovanni Allevi.

Dialoghi sull’uomo
A PISTOIA FESTIVAL DI ANTROPOLOGIA