martedì 29 aprile 2014

Repubblica 29.4.14
La verità dagli scavi: “I grandi eventi narrati dalle Scritture non sono reali”
Da Gerico a Re Salomone la Bibbia smentita dagli archeologi israeliani
di Vanna Vannuccini


GERUSALEMME. CHI ha distrutto le mura di Gerico? Oggi molti in Israele direbbero che sono gli archeologi ad averle distrutte, o quanto meno “decostruite”. Perché tutto quello che emerge dal lavoro scientifico degli archeologi israeliani che scavano e hanno scavato per decenni i siti delle Sacre Scritture è radicalmente diverso da ciò che racconta la Bibbia sulla storia del popolo ebraico. Così ad esempio non furono i sacerdoti israeliti a fare, come si legge nel Libro di Giosuè, sette giri intorno alle mura per sette giorni e a far crollare le mura dando fiato alle loro trombe di corno. Semplicemente perché le mura non c’erano. Le città di Canaan non erano «grandi», come si legge nella Bibbia, non erano fortificate, non avevano mura «che si levavano alte fino al cielo». «E perciò l’eroismo dei conquistatori, che erano pochi contro i tanti canaaniti ma erano sorretti dall’aiuto di Dio che combatteva per la sua gente, non è che una ricostruzione teologica priva di qualsiasi base fattuale», dice l’archeologo Zeev Herzog, uno dei più noti professori alla Facoltà di archeologia di Tel Aviv. «Ormai tutti questi risultati scientifici sono acquisiti, e la grande maggioranza degli studiosi nei campi
che vanno dall’archeologia agli studi biblici e alla storia nel popolo ebraico concorda che gli eventi narrati dalla Bibbia non sono fatti storici. Sono leggende, come per voi quella di Romolo e Remo. Si tratta di una vera e propria rivoluzione scientifica ».
A lungo l’archeologia in Israele era servita a provare quello che scrive la Bibbia. Anzi, dopo che nell’800 la scuola tedesca di Julius Wellhausen aveva negato la verità storica della Bibbia, sostenendo che tutta la storia da Abramo e Isacco fino alla conquista della terra da parte delle tribù degli Israeliti era una ricostruzione successiva, motivata da scopi teologici, la spinta alla ricerca per provare il contrario divenne frenetica. I primi a scavare, soprattutto a Gerico e a Nablus, furono i ricercatori biblici che cercavano i resti delle città menzionate nelle Sacre Scritture. Come l’americano padre Albright negli anni 20. I sionisti adottarono con entusiasmo l’approccio biblico e cominciarono a scavare i siti dell’età dei Patriarchi e le città canaanite distrutte. Secondo la Bibbia infatti gli israeliti avevano attraversato il Giordano a Bet Shan e Gerico e di lì erano penetrati nella Terra d’Israele conquistandola ai canaaniti. «L’archeologia diventò un vero e proprio hobby nazionale negli anni 50 e 60», dice Herzog. «Le nazioni nuove trovano un sostegno nell’archeologia per rafforzare la coesione nazionale, rifondare la nazione. E i figli degli immigrati avevano bisogno di relazionarsi con la terra. Diventò una passione collettiva, per questo io stesso sono diventato archeologo ». «Così abbiamo scavato e scavato. Ma lentamente sono cominciate ad apparire le prime contraddizioni. E alla fine tutti questi scavi ci hanno rivelato che gli israeliti non erano mai stati in Egitto, non avevano mai vagato nel deserto, né avevano conquistato militarmente la terra per poi consegnarla alle Dodici tribù d’Israele. Nessuno degli eventi centrali della storia degli israeliti veniva corroborato da quello che trovavamo. Nei tanti documenti egiziani per esempio non c’è traccia dell’esodo, vi si parla invece dell’abitudine di pastori nomadi di entrare in Egitto nei periodi di siccità e accamparsi sulle rive del Nilo. Al massimo l’esodo può aver riguardato qualche famiglia, la cui storia era stata poi allargata e ‘nazionalizzata’ per ragioni teologiche ».
Una rivoluzione così clamorosa è difficile da far penetrare nella consapevolezza generale, dice il professore. Di tutte le contraddizioni con il racconto biblico quella più difficile da digerire, per chi ha sempre creduto che la Bibbia sia un documento storico, è che il grande Regno di Davide e Salomone, che le Scritture descrivono come il culmine della potenza politica, militare ed economica del popolo d’Israele, un regno che secondo il Libro dei Re si estendeva dalle rive dell’Eufrate fino a Gaza, sia, come dice Herzog, «una costruzione storiografica immaginaria ».
«La grandezza del regno di Davide e di Salomone è epica, non storica. Forse la prova ultima è che di questo regno non abbiamo mai conosciuto il nome», dice Herzog. «Gerusalemme, per esempio, è stata quasi tutta scavata. E gli scavi hanno dato una quantità impressionante di materiali dei periodi precedenti e successivi al Regno unito di Davide e Salomone. Di quel periodo invece non è stato trovato nulla, tranne qualche pezzetto di coccio. Quindi non è che non abbiamo trovato nulla perché magari abbiamo scavato nel posto sbagliato. Abbiamo trovato una quantità di materiale che ci dimostra come al tempo di Davide e Salomone Gerusalemme non fosse che un grosso villaggio, dove non c’era né un tempio centrale né un palazzo reale. Davide e Salomone erano capi di regni tribali che controllavano piccole aree, David a Hebron e Salomone a Gerusalemme. Contemporaneamente si era formato sulle colline della Samaria un regno separato. Israele e Samaria sono stati dall’inizio due regni separati e a volte avversari».

il Fatto 29.4.14
Costretti a scioperare per poter festeggiare il Primo Maggio
Cgil, Cisl e il del commercio indicono lo stop per il giorno di festa come reazione al decreto Salva Italia che ha liberalizzato gli rari degli esercizi
di Salvatore Cannavò


Firenze. Sul fronte delle imprese, Confcommercio, con il suo vicepresidente Lino Stoppani, considera “commercialmente fuori luogo” lo sciopero perché “il commercio genera sviluppo e contribuisce a creare posti di lavoro”. Confesercenti, però, in un rapporto sui primi 18 mesi del decreto Salva Italia, ha definito l’apertura continuativa, giorni festivi compresi, “un regime insostenibile” che in 18 mesi ha fatto registrare “un saldo negativo di quasi 32 mila aziende, con la perdita stimata di oltre 90 mila posti di lavoro”.
Il sindacato replica illustrando la situazione in Europa. In Germania, ad esempio, per quanto riguarda le domeniche e i festivi esiste un sistema di deroghe con 10 giornate a disposizione delle imprese. Lo stesso accade in Belgio, Austria e Francia. In Italia, al momento, di limiti non ce ne sono più.

il Fatto 29.4.14
I posti di lavoro virtuali di Poletti
Il ministro annuncia il portale “Garanzia giovani” e promette occupazione per 900mila giovani
di S. C.


Per il momento è solo un sito vuoto con scritto in bella evidenza: “Presto online”. La Garanzia giovani è un progetto da 1,5 miliardi di euro, messi a disposizione dalla Commissione europea per “assicurare ai giovani con meno di 25 anni un’offerta qualitativamente valida di lavoro, proseguimento degli studi, apprendistato, tirocinio o altra misura di formazione, entro 4 mesi dall'uscita dal sistema di istruzione formale o dall'inizio della disoccupazione”.
Il governo Renzi intende giocarsi molte carte su questo progetto e l’annuncio da parte del ministro Giuliano Poletti, di rendere operativo il sito
www.garanziagiovani.gov.it  
proprio   il 1 maggio lo dimostra . Il fattore simbolico è quello su cui Matteo Renzi scommette di più e cosa c’è di meglio della Festa dei lavoratori per promettere posti di lavoro come se piovesse? Poletti ha assicurato più volte, l’ultima ancora ieri su l’Unità, che il piano dovrà interessare 900 mila giovani, in forme che, però, non sono mai state chiarite o precisate. Del resto, è la stessa Youth Guarantee a rendere il progetto poco agguantabile.
“Garanzia Giovani”, infatti, deve offrire una prospettiva ai giovani che si affacciano al mondo del lavoro dopo il completamento degli studi, ma anche a coloro che, si legge sul sito del ministero del Lavoro, “disoccupati e scoraggiati, hanno necessità di ricevere un'adeguata attenzione da parte delle strutture preposte alle politiche attive del lavoro”.
COME FUNZIONA? “Ai giovani che presenteranno i requisiti verrà offerto un finanziamento diretto (bonus, voucher, ecc.) per accedere a una gamma di possibili percorsi”. E qui si entra nelle diverse tipologie ormai note: “L’inserimento in un contratto di lavoro dipendente, l’avvio di un contratto di apprendistato o di un’esperienza di tirocinio, l’impegno nel servizio civile, la formazione specifica professionalizzante e l’accompagnamento nell’avvio di una iniziativa imprenditoriale o di lavoro autonomo”. C’è di tutto ma niente di concreto e, soprattutto , nessun posto di lavoro definito. Di fatto, si tratta di allestire un mega-portale che faciliti la domanda e l’offerta di lavoro mettendo in connessione i Centri per l’impiego, le imprese, le Regioni. L’applicazione del piano spetta proprio a queste ultime, ma finora solo tre Regioni hanno firmato la convenzione con il ministero e altre due “sono pronte per la firma”. Il ministero di Poletti, dal canto suo, ha firmato lo scorso 28 marzo due convenzioni, una con Confindustria e l’altra con Finmeccanica. Nei giorni scorsi è stata siglata quella con la Cia, la Confederazione Italiana Agricoltori, e l’Agia, Associazione Giovani Imprenditori Agricoli. Tutto quanto sarà “presto online”. Il timore è che resti lì.

il Fatto 29.4.14
80 uro. Bonus fiscale anche ai sacerdoti

Arriva la circolare dell’Agenzia delle Entrate che stabilisce i dettagli di come deve essere pagato il bonus fiscale da 80 euro assegnato dal governo Renzi con il decreto Irpef. Nelle 10 pagine del documento disponibile sul sito dell’Agenzia, si legge che hanno diritto al bonus i contribuenti che nel 2014 percepiscono redditi da lavoro dipendente (e alcuni redditi assimilati) – al netto del reddito da abitazione principale – fino a 26 mila euro, purché l'imposta lorda dell’anno sia superiore alle detrazioni per lavoro dipendente. Il bonus spetta invece se l’imposta lorda è azzerata da altre detrazioni, come quelle per carichi di famiglia. I sostituti d’imposta (cioè il datore di lavoro) riconosceranno il credito di imposta –la forma fiscale del bonus – dalle buste paga di maggio. Ma anche i dipendenti senza sostituto di imposta potranno chiedere il bonus quando compileranno la dichiarazione dei redditi. Una curiosità: tra i redditi assimilati a quelli da lavoro dipendente che concorrono alla soglia dei 24 mila euro c’è quello dei sacerdoti che, se sotto il tetto, beneficeranno quindi del bonus.

l’Unità 29.4.14
Riforma Senato: il Pd ritrova l’accordo
Renzi ricompone la spaccatura nel Pd e apre a modifiche: «Ci siamo»
Resta il nodo dell’elezione diretta
Bersani: «Non c’è muro contro muro»
di Vladimiro Frulletti


La riforma del Senato va avanti. Il premier vede il capogruppo del Pd Zanda e Finocchiaro, apre a modifiche ma difende il testo base del governo. Resta il nodo dell’elezione diretta. Contrari alla mediazione Chiti e Civati che parlano di «pasticcio».
Dunque «sulle riforme ci siamo» come twitta il premier mandando poi l’oramai consueto affettuoso (si fa per dire) saluto agli amici gufi.
In effetti dalle finestre di Palazzo Chigi vedono lo striscione d’arrivo. Almeno della prima tappa di quel tour che è la riforma degli assetti istituzionali. Un appuntamento atteso da 30 anni, come ama ripetere Renzi. Il che fa quindi apparire difficile che qualcuno voglia davvero mettersi di mezzo per far saltare il tavolo. A meno che non voglia correre il rischio, è il pensiero di Palazzo Chigi, di passare come il portabandiera di chi vuol lasciare le cose come stanno. Ea fare la parte dei conservatori, dei nemici delle riforme è ovvio che non ci vogliano stare in tanti.
Certamente non la minoranza congressuale del Pd (la cui forza parlamentare è diametralmente opposta a quella nel partito) che infatti, almeno nella stragrande maggioranza dei suoi esponenti, non ha nessuna intenzione di ri-mettere in discussione l’impianto della proposta del governo sulle riforme costituzionali. Ovviamente non ci sono dubbi sulla necessità di eliminare il Cnel e tanto meno di cambiare il Titolo V per ridisegnare relazioni più efficienti tra Regioni e Stato centrale. Ma anche sul Senato.
Ieri mattina dopo un incontro con il capogruppo al Senato Luigi Zanda e la presidente della commissione affari costituzionali del Senato Anna Finocchiaro, Renzi, assieme alla ministro alle riforme Maria Elena Boschi, ha trovato il punto di mediazione possibile partendo però dal disegno di legge del governo che sarà sostanzialmente il testo base che mercoledì dovrebbe adottare la commissione. Il Senato diventa “Senato delle Autonomie” e i senatori saranno eletti dai consiglieri regionali al proprio interno. Ci saranno un po’ meno sindaci (ma sicuramente quelli dei capoluoghi regionali) a vantaggio di rappresentanti delle Regioni che saranno calcolati in maniera proporzionale agli abitanti (come chiede Forza Italia). E anche i 21 senatori indicati dal Presidente della Repubblica caleranno parecchio: forse 10 o 5,ma forse anche nessuno. Non c’è quindi l’eleggibilità diretta dei nuovi senatori. «Da qui non si torna indietro» è stato il messaggio di Renzi.
Del resto sull’eleggibilità dei futuri senatori, è difficile trovare molti sponsor nella minoranza democratica, se si eccettua Civati che parla esplicitamente di «pasticcio» e contesta lo stesso vertici a Palazzo Chigi.
L’obiettivo di superare il bicameralismo è infatti largamente condiviso in tutto il Pd. E certamente non varrebbe la pena di far fallire la riforma costituzionale per un particolare che viene definito «marginale». «Che importanza ha se i senatori sono eletti in un listino di consiglieri o dai consiglieri che a loro volta sono stati eletti dai cittadini. Ma davvero si può pensare che questo aspetto sia determinante? Guardate che se anche questa volta non riusciamo a cambiare le nostre istituzioni saremo tutti quanti terremotati e con noi le stesse istituzioni democratiche» ragiona un esponente di primissimo piano della minoranza Pd. Insomma da quelle parti grandi problemi Renzi non ne troverà. E stamani quando ne parlerà davanti al gruppo democratico in Senato ne avrà la conferma. Il premier avrà un atteggiamento «pragmatico». Disposto cioè a qualche aggiustamento a cominciare dalla scelta di alcuni senatori tra i consiglieri. Sul come si può discutere: «è l’offerta che sono disposto a fare pur di chiudere insieme la partita» spiega ai suoi. «Il fallimento delle riforme sarebbe un inaccettabile suicidio. Non vince o perde Renzi, mail sistema democratico» è infatti l’avvertenza che manda il capogruppo alla Camera Roberto Speranza. E non è mica un caso che anche un bersaniano doc come Alfredo D’Attorre inviti Chiti a trasformare il proprio testo alternativo al governo in emendamenti. «Nel Pd, non c’è stato e non ci sarà nessun muro contro muro. E lo sa bene anche Chiti» annota lo stesso Pierluigi Bersani. Difficile anche che i problemi possano arrivare dal Ncd o da Scelta Civica, è il ragionamento renziano. L’unica vera preoccupazione quindi riguarda Forza Italia. Il vicesegretario Pd Lorenzo Guerini ieri sera ha parlato sia col capogruppo al Senato Paolo Romani che con Denis Verdini. Guerini professa ottimismo e chiede pazienza. L’impressione è che Forza Italia rallenterà un po’ la tempistica ma non si metterà di traverso per avere senatori eletti direttamente. Ma è già certo che non ci sarà entro il 25 maggio il primo sì in aula al disegno di legge costituzionale. Tempi stretti, si fa notare visto che il Senato dovrebbe chiudere per le elezioni il 18 maggio. Ma in realtà c’è da considerare Silvio Berlusconi che, impegnato in una campagna elettorale particolarmente difficile, non vorrà fare alcun regalo a Renzi. Il premier lo sa e oramai lo dà per scontato. «Non mi impiccherei su una settimana prima o dopo» ribadisce Guerini. Sempre che, ovvio, poi si tagli davvero il traguardo.

Repubblica 29.4.14
Nuovi contatti tra il democratico Guerini e il forzista Verdini
Ieri mattina vertice a Palazzo Chigi con Boschi e Finocchiaro
La mediazione di Renzi “Posso tenere unito il Pd e avanti con Forza Italia”
Vannino Chiti non ritirerà il suo disegno di legge, come conferma uno dei firmatari, Massimo Mucchetti
di Goffredo De Marchis


ROMA .
Correggere. Poco. Aspettare. Poco. «Posso fare qualche passo avanti per chiudere insieme con il Pd la partita. È troppo importante realizzare le riforme che aspettano l’Italia e l’Europa». Matteo Renzi si prepara ad affrontare l’assemblea dei senatori democratici usando più il “noi” che l’”io”. Obiettivo: portare a casa la riforma del Senato. Ha ormai rinunciato ad approvare in prima lettura il disegno di legge Boschi entro il 25 maggio. Non c’è più tempo e gli equilibri politici consigliano prudenza. Forza Italia non vuole fargli incassare un successo alla vigilia del voto e il premier preferisce avere il via libera di Berlusconi anziché indispettirlo con il rischio di mandare tutto all’aria. Vuole avere un Pd compatto che combatta unito la battaglia per il voto di Strasburgo e infatti ieri ha ascoltato con piacere i toni della prima riunione di Area riformista, la corrente dei bersanian-lettiani, che ha garantito il sostegno alle riforme. «Se non le facciamo è un suicidio », dice il capogruppo del Pd Roberrto Speranza.
Le concessioni sono minime, ma in grado sbloccare l’impasse. «Non mi impicco sulla data », dice Renzi. E i senatori possono essere scelti tra i consiglieri regionali. «Sul come vedremo più avanti», spiega il premier. L’importante è che la struttura fondamentale della riforma non cambi. Lo ha ripetuto anche ieri mattina in unvertice con il ministro delle Riforme Boschi, la presidente della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama Anna Finocchiaro e il presidente dei senatori Pd Luigi Zanda. «Il testo base non deve cambiare, poi voteremo gli emendamenti ». Ma il “come” è importante perché si gioca lì la partita contro i dissidenti del Pd, che si saldano al Movimento 5stelle e ai ribelli di Forza Italia guidati da Augusto Minzolini. Il quale giura: «Ormai posso contare su 38 firme nel mio gruppo a favore di un Senato elettivo». L’elezione dei senatori è la mediazione su cui sta lavorando la maggioranza di governo. «Io ho un atteggiamento pragmatico », spiega ora Renzi. Ma non vuole stravolgere l’impianto della legge. Il Nuovo centrodestra lavora a un compromesso in grado tenere insieme i berlusconiani e i democratici dissidenti. A partire da Vannino Chiti che non ritirerà il suo disegno di legge, come conferma uno dei firmatari, Massimo Mucchetti. Finocchiaro ha fatto presente a Renzi le difficoltà del cammino. E dopo una consultazione con il coordinatore di Ncd Gaetano Quagliariello ha parlato del compromesso: dentro i consigli regionali, i cittadini possono essere chiamati a votare un listino particolare di consiglieri-senatori. Sapendo che quei nomi sarebbero destinati a Roma. È una forma di elezione diretta, che Renzi fatica ad accettare viste le promesse iniziali. Ma che secondo i mediatori è l’unica strada per blindare la riforma. Del resto, un gruppo di senatori eletti è la garanzia, per il Senato, di poter mantenere alcune funzionichiave. Nel testo Boschi alla mancata elezione dei senatori corrisponde infatti un sostanziale svuotamento di funzioni. Che possono essere recuperate vincendo la battaglia della scelta affidata agli elettori. Più facile la mediazione sulla rappresentanza regionale proporzionale agli abitanti, la riduzione da 21 a 10 dei rappresentanti scelti dal Quirinale (con l’idea di abolirli del tutto), e il taglio ai sindaci nel provvedimento originario sovradimensionati.
Non è detto che basti, anche se oggi Renzi punta a ricompattare il gruppo del Pd. Non è detto che dopo le elezioni europee non torni tutto in ballo: la riforma del Senato e la legge elettorale. Però la promessa va mantenuta, almeno con un voto della commissione che vincoli i partiti a non fare scherzi in aula. E quel voto arriverà, se non ci saranno altri ostacoli tra il 15 e il 16 maggio.

La Stampa 29.4.14
Senato, il premier apre e avvisa i dissidenti: “È la mia ultima offerta”
Senato Nella sempre più difficile sfida a scacchi con la minoranza Pd, il premier ha deciso di tendere la mano per chiudere la partita della riforma del Senato
Prova a trascinarsi dietro tutto il Pd, compresi i dissidenti di Chiti che vorrebbero un Senato di eletti
Ma la minoranza alza la posta: trattiamo subito sull’Italicum
di Carlo Bertini


Il premier ha deciso di tendere la mano per chiudere la partita provando a trascinarsi dietro tutto il Pd, compresi i dissidenti di Chiti che vorrebbero un Senato di eletti. Ma già il suo più strenuo avversario della minoranza, Stefano Fassina, alza il prezzo della trattativa. «Ora bisogna cercare una soluzione che includa oltre alle modifiche al testo costituzionale del governo, anche modifiche all’Italicum come quella alle soglie di sbarramento per i partiti non coalizzati». È una zeppa che serve a tenere alta la tensione e che il premier intende schivare. Ma che rende l’idea di cosa intendano i quarantenni che fanno capo a Speranza quando si definiscono «leali ma autonomi».
Ma ora lo scoglio da superare è la riforma del Senato e dopo una giornata di contatti ai più alti livelli, Matteo Renzi fa sapere che stamattina si presenterà all’assemblea del gruppo Senato con un’offerta che nessuno potrà rifiutare: quelli che con i suoi uomini derubrica come «un paio di aggiustamenti che non toccano il cuore e la sostanza delle riforme», si traducono in una disponibilità già anticipata a non incassare il voto dell’aula ma solo in commissione prima del 25 maggio; e soprattutto in un’apertura «sulla scelta di alcuni senatori tra i consiglieri regionali». Ma senza sbilanciarsi ancora, perché «sul metodo si discute». Detto questo, «mi presento ai miei senatori con dei passi avanti per chiudere insieme la partita, questa è l’offerta che sono disposto a fare pur di arrivare a realizzare una riforma epocale che il paese e l’Europa aspettano».
E il motivo per cui ancora resta aperto il rebus di come scegliere i senatori è chiarito da chi conduce le trattative: «Se molliamo subito, poi ci chiedono altre 50 cose», ammette il più alto in grado dei renziani fiutando l’aria. «Ora l’obiettivo è far adottare il testo base del governo, che prevede appunto che siano i consiglieri regionali ad eleggere i senatori, senza elezione diretta. Poi si vedrà». E dietro quel «si vedrà» si cela il possibile punto di arrivo di una trattativa che procederà lungo un tracciato irto di ostacoli: di certo per Renzi il ruolo di senatore non deve essere esclusivo e quindi allegare un «listino» ai consiglieri regionali quando si vota per i governatori può essere insidioso e non va bene. Oggi dunque il premier mostrerà bastone e carota al gruppo dei Senato dove si annidano «i talebani» come li chiamano i renziani, ma pure «i perplessi», quelli che si accontenterebbero di una via di mezzo, come la designazione di senatori da far eleggere con i consigli regionali.
Dopo aver fatto capire che di questo approdo se ne può parlare, il premiersi guarda bene dallo scoprire le ultime carte. Ieri alle 7,30 del mattino ha riunito a Palazzo Chigi la Boschi, il capogruppo dei senatori Zanda e la Finocchiaro che sarà relatrice insieme a Calderoli. Intanto alla Camera i renziani sono stizziti, non gradiscono queste concessioni alla minoranza. Il che conferma quanto stia salendo l’insofferenza verso i frenatori. «Con un Senato di eletti cade il potere dei territori e cresce il potere politico», scuote il capo Angelo Rughetti. Il fiorentino Dario Parrini prova a vedere il bicchiere mezzo pieno: «I consiglieri regionali designati come senatori però sarebbero cosa diversa dagli eletti, non ci sarebbe la scheda Senato nelle urne come ora». Il problema è che nella trattativa bisogna accontentare pure Forza Italia che, al di là delle bordate di Brunetta («un ridicolo baraccone, un dopo lavoro di consiglieri regionali in gita scolastica»), vuole tutelarsi garantendo alle regioni una rappresentanza proporzionale in base alla popolazione. E per questo ieri sera Guerini ha visto Verdini e Romani. Poi vanno stretti i bulloni anche dentro la maggioranza. L’alfaniano Quagliariello ieri, dopo aver visto Napolitano, si è spinto a scommettere che «finirà con un Senato di eletti». Spiegando come: «Nelle liste per votare i consiglieri regionali va inserito un listino speciale di quelli che possono fare pure i senatori».

l’Unità 29.4.14
Chiti e Civati bocciano l’ipotesi di mediazione: «È un pasticcio»
di Andrea Carugati


Parlando della possibile mediazione sul nuovo Senato, viene alla mente la più celebre massima del compianto Vujadin Boskov: è rigore quando arbitro fischia. E finora il fischio non c’è stato.
Ieri il premier Renzi e il ministro Boschi hanno incontrato a Palazzo Chigi il capogruppo Pd al Senato Luigi Zanda e la presidente della commissione Affari costituzionali Anna Finocchiaro. Dal vertice è emersa la volontà comune di adottare nei prossimi giorni in commissione la bozza del governo come testo base, ma contestualmente a una serie di emendamenti dei relatori che ritoccano alcuni capitoli importanti della riforma, a partire dal meccanismo di elezione dei senatori, fino alla minore presenza di sindaci (nella bozza originaria sono il 50%) e alla fortissima riduzione (fino a 5) dei 21 senatori illustri nominati dal Quirinale. Oltre al paletto posto con forza dalle Regioni, che vogliono un numero di senatori proporzionale al numero degli abitanti di ogni regione. Sul tavolo anche le funzioni del nuovo Senato, con la richiesta che si è levata da molti gruppi (compresa una fetta del Pd) di irrobustire i compiti della camera alta, sia nei rapporti con l’Europa sia nella vigilanza e nei poteri ispettivi, dalle nomine delle Authority alla possibilità di adire la Corte costituzionale. Oltre all’ipotesi- caldeggiata da molti gruppi- di ridurre anche il numero dei deputati.
Tutto questo pacchetto di modifiche dovrebbe essere tradotto domani in emendamenti dai relatori Finocchiaro e Calderoli, in modo da garantire un ampio sì della commissione all’adozione del testo base (che potrebbe però slittare all’inizio della prossima settimana). Tra le ipotesi di mediazione a cui stanno pensando i relatori circola anche l’idea che solo una quota di senatori siano eletti direttamente dal popolo, mentre gli altri (sindaci ed ulteriori esponenti delle regioni), scelti con una elezione di secondo grado.
In molti, a partire da Calderoli e Ncd, oltre ai cosiddetti «facilitatori» del Pd guidati da Francesco Russo, hanno colto come un «passo positivo» l’apertura di Renzi domenica su Rai3. E tuttavia il nodo dell’elezione dei senatori non è ancora sciolto. Per Renzi sono i consiglieri regionali a dover scegliere tra loro i senatori, per gli altri serve invece che i cittadini, sulla scheda dell’elezione dei consigli regionali, possano chiaramente individuare e scegliere quali saranno i componenti di palazzo Madama. «Ci stiamo avvicinando piano piano a una soluzione condivisa», spiega Russo. Molto più prudente Vannino Chiti, capofila dei ribelli Pd: «Se saranno i consigli regionali a eleggere i senatori sulla base di una sorta di indicazione di massima, allora non va bene. È un’altra cosa, confusa, che i cittadini non capirebbero». Il fronte del no a una mediazione che rischia di essere un poco «ingarbugliata» viene irrobustito da Pippo Civati e dai suoi senatori: «Non c'è nessun accordo sulla riforma del Senato. C'è un pasticcio che appare ancora più pasticciato ma vediamo. Renzi ha cambiato idea tante volte. Le riforme costituzionali si fanno in un altro modo», spiega lo sfidante alle primarie Pd, che insiste sull’elezione diretta e ricorda come il M5S abbia detto sì alla proposta di Chiti.
Stamattina alle 9 il premier incontrerà a palazzo Madama il gruppo Pd. Sarà una riunione molto delicata, con il capogruppo Zanda impegnato a far digerire ai malpancisti l’ipotesi che il testo base sia quello del governo. Russo e i suoi premono perché tra i consiglieri regionali vengano individuate, già al momento del voto, delle figure «specializzate che possano dedicare all’attività parlamentare tutto il tempo necessario ». «Siamo certi che alla fine il Pd sarà compatto», concludono. «Non ci sarà nessuna sponda del Pd contro le riforme del governo», dice il renziano Andrea Marcucci. «Renzi ha confermato la totale disponibilità dell’esecutivo ad emendare il ddl e a trovare l’accordo anche sul punto più controverso». Di certo c’è che il premier ha rinunciato alla data del 25 maggio per l’approvazione. Per il 25, al massimo, ci potrà essere il sì della commissione. «Non mi impiccherei su una settimana prima o dopo», ha ribadito ieri il vicesegretario Pd Lorenzo Guerini.
Calderoli sabato ha sentito il premier al telefono e ha colto un «atteggiamento flessibile». «Ora vediamo fin dove si arriva». Quanto al testo base, «ne parleremo domani mattina (oggi, ndr) con Anna Finocchiaro. Ma adottare il testo del governo significherebbe rinnegare tutta la discussione che c’è stata fin qui...». L’ex ministro Quagliariello di Ncd ieri è salito al Quirinale. Al termine, in conferenza stampa, ha spiegato che «nel nuovo Senato ci deve essere un numero molto inferiore di nominati e di sindaci, e i senatori possono essere anche consiglieri regionali ma scelti dai cittadini. Si sta andando in questa direzione». Ncd suggerisce che «nelle liste per l’elezione di consiglieri regionali sia inserito anche un listino speciale di quelli che possono fare anche i senatori ». Alla fine la mediazione potrebbe essere questa. Ma la trattativa non è ancora finita. Resta sempre l’incognita di Forza Italia. Brunetta ha definito un «ridicolo baraccone» la proposta emersa ieri da palazzo Chigi. «Con loro non si sa mai, ma siamo determinati...», sospira Guerini.

il Fatto 29.4.14
Schiaffi in arrivo per Renzi: sul Senato l’accordo non c’è
Il premier potrebbe cedere su una forma di elettività dei membri
di Wanda Marra


Oggi Matteo Renzi si presenterà all’assemblea dei senatori del Pd con un atteggiamento “pragmatico” per portare a casa “una riforma epocale”. Tradotto: è pronto ad accettare l’ennesimo slittamento dei tempi, ma soprattutto a ingoiare qualche compromesso sul metodo per individuare i membri del nuovo Senato. L’accordo, infatti, non c’è, ma se non sarà proprio un’elezione diretta di questo nuovo tipo di senatori che andranno a sedere in una Camera delle autonomie, ci assomiglierà molto. Il compromesso finale in questo momento più gettonato potrebbe prevedere che i cittadini indichino tra i consiglieri regionali che vanno a eleggere, quelli che saranno senatori. Un’ipotesi che a Renzi non piace: preferirebbe di gran lunga che fossero gli stessi consiglieri eletti a indicare i senatori. Perché la non elettività è dall’inizio uno dei suoi paletti irrinunciabili. Riuscirà a imporre la sua volontà? Per adesso, e nonostante l’intera giornata di mediazioni di ieri, non ce l’ha fatta. Ma la necessità di fare le riforme potrebbe prevalere.
E NELL’ULTIMA settimana di stop ai suoi progetti e alle sue intenzioni, il premier ne ha collezionato più d’uno. Alla Partita del Cuore ci ha dovuto rinunciare, dopo le polemiche sollevate per la violazione sulla par condicio. Giorgio Napolitano gli ha fatto capire che è il caso che le riforme le porti a casa, anche se questo significa qualche compromesso. Ieri, poi, è arrivato anche il no di Mediaset alla sua partecipazione ad Amici: Renzi era già pronto per la registrazione ieri pomeriggio, e alla fine niente.
A pomeriggio inoltrato, dirama un tweet: “Sulle riforme ci siamo, 80 euro ok, l’Irap va giù, pronti i soldi sulle scuole. Mercoledì Pa. Con un pensiero affettuoso agli #amicigufi”.
Ottimismo, ma la giornata non è andata del tutto liscia. Ieri mattina il premier a Palazzo Chigi ha incontrato Anna Finocchiaro e Luigi Zanda, insieme a Maria Elena Boschi. Il testo base delle riforme costituzionali (che sarà presentato forse domani, ma forse lunedì) ricalcherà grosso modo quello presentato dal ministro delle Riforme. Con alcune modifiche: la quota dei senatori di nomina presidenziale scenderà da 21 a un numero variabile tra 5 e
10. La rappresentanza delle Regioni sarà riequilibrata, secondo la grandezza delle stesse.
Sull’elettività dei senatori, l’accordo non c’era ieri e non ci sarà neanche stamattina. Escluso che si possa recepire la richiesta di Chiti, che voleva un senato elettivo tout court, si va verso soluzioni alternative, che vadano incontro alla minoranza Pd, ma soprattutto a Forza Italia. Perché poi in questi giorni tutti
- anche Ncd - hanno ribadito la richiesta dell’elettività. Richiesta che Renzi non può accettare, visto che fa parte dei suoi paletti irrinunciabili. E dunque, si tratta a partire dalla proposta di mediazione avanzata dal senatore leghista Roberto Calderoli, relatore di minoranza, e dal lettiano Francesco Russo, che prevede, appunto, un listino “ a parte” per i senatori. I quali, comunque, non avranno indennità. Anche Gaetano Quagliariello (ricevuto ieri da Napolitano), spiega che Ncd chiede che gli elettori, tramite un listino apposito, possano votare, tra i consiglieri regionali, chi poi andrà a comporre il Senato. Una soluzione molto simile a quella prospettata dai saggi. "Siamo convinti -ha ribadito lo stesso Russo in una nota sottoscritta insieme ad altri senatori demche Renzi valuterà positivamente la nostra proposta, molto vicina a quella espressa giovedì in audizione dalle Regioni, di collegare il ruolo dei senatori a quello dei consiglieri regionali, individuando delle figure 'specializzate’”. Ma Renzi può cedere? Intanto, è da ieri che Lorenzo Guerini tratta con Paolo Romani e Denis Verdini: “Con Berlusconi non si sa mai”, commenta però. Il tentativo è comunque quello di tenerlo dentro.
Sui tempi, poi, si va verso un’ulteriore allungamento: fino a una settimana fa il premier “sperava” in un’approvazione in prima lettura entro le europee, ora “non si impicca” alla data e spera di portare a casa almeno l’approvazione in Commissione. Spera, è tutt’altro che certo di farcela. “Con questi passi avanti mi presento ai miei per chiudere insieme la partita, questa è l’offerta che sono disposto a fare pur di arrivare a realizzare le riforme che il Paese e l’Europa aspettano”. Stamattina, Non dovrebbe esserci un aut aut finale sulle soluzioni, ma sul metodo sì. All’interno di una serie di paletti, ci sarà spazio per gli emendamenti. Se qualcosa va storto, c’è sempre il piano B: la possibilità di imputare agli altri il fallimento delle riforme.

l’Unità 29.4.14
Con l’elezione diretta non si supera il bicameralismo paritario
di Luciano Violante


PREMESSA. UNA RIFORMA COSTITUZIONALE È FATTA per durare e deve essere animata da pensieri lunghi. Vanno messi al bando pregiudizi e usi politici della Costituzione, come se si trattasse di vincere una temporanea partita a scacchi. Si tratta invece di darci regole e principi che devono valere per l’intero sistema democratico e per le generazioni che verranno. Perciò è venuto il momento della saggezza e della mediazione e fanno ben sperare le recenti prese di posizione del presidente del Consiglio. Provo a indicare possibili soluzioni per i temi più controversi, sulla base delle discussioni che da anni li approfondiscono.
Elezione diretta o elezione indiretta. In tutte le proposte del centro sinistra l’elezione indiretta dei senatori costituisce il fondamento del nuovo bicameralismo. Sulla base della nostra tradizione costituzionale, chi è eletto direttamente dal popolo, titolare della sovranità, non può essere privato del potere di conferire e togliere la fiducia al governo. Perciò l’elezione diretta impedirebbe il superamento del bicameralismo paritario. Esistono varie forme di elezione indiretta; una, già proposta, è quella della elezione di consiglieri regionali che rivestano anche il ruolo di senatori. Il loro numero dev’essere in ogni caso proporzionato al numero di abitanti di ciascuna Regione.
L’elezione diretta, infine, non riguarda il ruolo costituzionale del Senato, che è determinato dalle competenze che la riforma gli attribuirà. Riguarda la possibilità che alcune delle personalità che oggi siedono in Senato possano tornarvi. È interesse generale che nel nuovo Senato, accanto a consiglieri regionali, consiglieri comunali, personalità del mondo scientifico e culturale, siedano anche alcune personalità politiche che hanno già avuto esperienze significative di politica nazionale. Per una possibile soluzione, rinvio al punto successivo.
Composizione del Senato. Il progetto del governo prevede che il Presidente della Repubblica nomini 21 senatori. Potrebbe scegliersi una strada diversa. Pensare a una cooptazione dei nuovi senatori, potrebbero essere per esempio quarantacinque, da parte di quelli eletti indirettamente, sulla base di brevi liste di candidati, presentate dal Cnr, dall’Accademia dei Lincei, dalla Conferenza dei Rettori e dai gruppi parlamentari. In tal modo potrebbero essere candidate personalità della cultura scientifica, della cultura umanistica e della esperienza politica nazionale. Esistono tecniche che consentono di fare in modo che ciascuna delle tre categorie possa essere rappresentata in modo congruo nel futuro Senato.
Funzioni del Senato. Che tipo di Senato serve al futuro sistema politico? Dobbiamo guardare alle esigenze di equilibrio costituzionale e democratico in un ordinamento che vedrà prevedibilmente una Camera eletta con un sistema fortemente maggioritario. Il Senato quindi avrà un ruolo di watch dog tanto nei confronti del governo quanto nei confronti della Camera. Questo ruolo potrà essere esercitato confermando il carattere bicamerale delle leggi costituzionali ed elettorali e, come prevede il progetto Chiti, delle leggi in materia di confessioni religiose, tutela delle minoranze linguistiche, ineleggibilità, referendum, funzioni degli organi costituzionali (Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale, Magistrature). Per altre materie, per esempio diritti civili, si potrebbe stabilire che le proposte correttive del Senato possano essere superate dalla Camera solo con una maggioranza assai ampia. Al Senato inoltre spetterebbe, come attribuito dal Trattato di Lisbona a «ciascuna camera nazionale», il compito di verificare l’applicazione del principio di sussidiarietà da parte degli organismi della Ue. È essenziale, inoltre, che il futuro Senato svolga un attento esame delle politiche pubbliche e dello stato della legislazione. In qualche Paese, ad esempio la Finlandia, si è recentemente varata la cosiddetta «sunset clause» (clausola del tramonto): le leggi non durano più di dieci anni a meno che non vengano prorogate: la valutazione di questa opportunità potrebbe essere propria del Senato, in prima battuta. E la clausola potrebbe essere limitata per ora alle leggi in materia economica. È da riprendere infine, nel progetto Chiti, l’intervento della Corte Costituzionale sui ricorsi in materia di ineleggibilità e di incandidabilità. Data la particolare conformazione maggioritaria della Camera, mi sembra più garantista nei confronti delle minoranze che se ne occupi direttamente la Corte. Infine prenderei in considerazione la possibilità che il Senato possa ricorrere preventivamente alla Corte Costituzionale nei confronti di una legge approvata dalla Camera, prima della sua promulgazione. La Corte, come accade in Francia per casi analoghi, dovrebbe decidere in tempi molto brevi.
La forma di governo. Il disegno del governo tace, perché probabilmente Forza Italia ha avanzato la pregiudiziale del presidenzialismo. Sia ben chiaro: tanto il presidenzialismo (o semipresidenzialismo) quanto il parlamentarismo sono forme di governo democratico. Ma i regimi presidenziali si stanno rivelando troppo rigidi, poco duttili, di fronte al flusso rapidissimo dei processi economici e finanziari e di fronte all’intreccio tra globalizzazione e rivoluzione digitale. Non a caso i due sistemi più in difficoltà sono Francia e Stati Uniti, entrambi di carattere presidenziale, mentre i due sistemi più efficienti sono oggi Germania e Gran Bretagna, di carattere parlamentare. Ma il nostro sistema parlamentare va rafforzato. La solidità del governo non può essere demandata solo al premio elettorale di maggioranza. Va bene quindi la fiducia al solo presidente del Consiglio, il quale potrà chiedere al Presidente della Repubblica tanto la nomina quanto la revoca dei ministri. Va prevista anche la sfiducia costruttiva e, inoltre, la possibilità del presidente del Consiglio di chiedere al Capo dello Stato lo scioglimento della Camera e di ottenerla se la Camera entro quindici giorni dalla richiesta non elegge un nuovo presidente del consiglio.
Il nome. Mi permetto di perorare la causa del nome originario “Senato della Repubblica”. La Costituzione ogni qual volta parla di Repubblica fa riferimento a tutte le sue istituzioni, il Parlamento, il presidente, il governo, le magistrature, la pubblica amministrazione, la scuola, l’università, le Regioni, gli enti locali. Tutte le altre denominazioni mi sembrano riduttive anche del ruolo costituzionale del Senato. L’altra resterà la Camera dei rappresentati del popolo. Il Senato potrebbe essere la Camera di tutte le istituzioni repubblicane, ma questa volta davvero.

La Stampa 29.4.14
Renzi: “Subito le riforme o vado a casa”
Il premier ai parlamentari del Pd: «La nostra proposta per il Senato può avere
dei difetti, ma non è autoritaria». Su Forza Italia: «Doveroso tenerla dentro»

qui

Corriere 29.4.14
«Rispetteremo il patto con Forza Italia Il testo di Chiti? No ai personalismi»
Boschi: i nuovi senatori a Roma un giorno o due alla settimana
intervista di Monica Guerzoni


ROMA — «Siamo a un passo da un risultato storico».
Servirebbe un miracolo per approvare la riforma in Aula prima delle Europee...
«Anche se dovessimo metterci una settimana in più, è una riforma epocale, attesa da trent’anni. Non guardiamo la pagliuzza perdendo di vista la trave». La voce di Maria Elena Boschi, ministro per le Riforme, i Rapporti con il Parlamento e il Programma, tradisce un filo di stanchezza: «Sono tranquilla. Non stiamo facendo le riforme per avere una bandierina elettorale, ma come base per il rilancio della politica economica e la credibilità della politica ».
Siete convinti che Berlusconi ve le lascerà fare? Forza Italia è spaccata e il patto è a rischio.
«Berlusconi ha ribadito il sostegno alle riforme e noi siamo abituati a rispettare i patti. Cambiare le regole con una maggioranza che includa l’opposizione è un plusvalore che va preservato».
Il dialogo con l’ex premier non vi imbarazza, dopo l’uscita sui lager e l’attacco a Napolitano?
«Le dichiarazioni di Berlusconi sono inaccettabili».
Il compromesso sul Senato elettivo reggerà alla prova dell’Aula?
«Stiamo discutendo delle modalità con cui si individuano sindaci e consiglieri regionali. Poi penseremo alle tecnicalità con cui alcuni di loro andranno a fare anche i senatori, senza indennità».
La commissione adotterà il suo testo, è una vittoria del governo Renzi?
«Non è una vittoria di Renzi, ma del Pd e di tutti i partiti che hanno siglato questo accordo, compresa Forza Italia. Il fatto che l’esecutivo abbia mantenuto l’impegno di presentare una proposta entro marzo, che per venti giorni è stata sottoposta alla discussione pubblica, è un risultato per tutti i cittadini».
Sottoposta al fuoco amico...
«No. Abbiamo scelto una modalità nuova per arrivare al testo, raccogliendo le osservazioni di parlamentari, cittadini, professori. La proposta da cui siamo partiti è quella che gli elettori hanno votato alle primarie e lì siamo rimasti, con coerenza. È normale che ci possano essere delle modifiche, ma l’impianto non può essere snaturato».
Il testo è blindato?
«Nessuno lo ha detto. C’è una disponibilità a introdurre delle modifiche che non tocchino i punti qualificanti. Sul superamento del bicameralismo c’è un consenso ampio: avverto forte la responsabilità di passare finalmente dalle parole ai fatti».
Si ragiona di elezione diretta?
«Chi siede in Senato, come in Francia o in Germania, deve essere espressione dei territori e dunque sindaco o consigliere regionale».
Quanto lavoreranno i senatori?
«Tanto, ma nella loro regione. Non staranno cinque giorni alla settimana a Roma, ma un giorno o due. Non voglio mettere un limite... Però non siederanno a Palazzo Madama a tempo pieno, perché hanno il loro lavoro sul territorio».
Un dopolavoro per sindaci, come dice Berlusconi?
«Ma no... Anche Forza Italia condivide il fatto che il Senato non abbia le stesse competenze della Camera».
L’idea dei 21 nominati dal Colle ha sollevato molte critiche. Verranno eliminati?
«Vedremo, è una delle questioni su cui si sta lavorando. Credo che lasceremo la possibilità di nominarne fino a un massimo di cinque».
E i sindaci? Non sono troppi?
«È una delle richieste avanzate in commissione. Non c’è una preclusione. Nel sistema tedesco in effetti non ci sono sindaci, ma in Italia le municipalità rappresentano un pezzo della nostra identità. In molti chiedono di cancellare la presenza dei sindaci, ma ci impegneremo fino all’ultimo per garantire una loro rappresentanza».
Insomma, lei vuole che passi il testo che porta la sua firma.
«È una svolta epocale, che va ben oltre i singoli. Sono grata ai collaboratori del ministero che ci hanno lavorato a lungo, recependo i contributi dei migliori esperti a partire dalla Commissione dei 35. Il mio unico obiettivo è che passi una riforma seria e stavolta ci siamo».
L’Anpi lancia l’allarme sulla riduzione degli spazi di democrazia.
«Trovo questa polemica pretestuosa e lo dico da iscritta all’Anpi».
La sinistra del Pd si è placata, ma Vannino Chiti non ha ritirato il suo testo alternativo come lei gli aveva chiesto di fare.
«A dire il vero, non gliel’ho mai chiesto. Siamo a un passo dal fare quello che per anni abbiamo solo sognato: maggiore chiarezza di rapporti tra Stato e Regioni, semplificazione del procedimento legislativo, riduzione dei costi della politica. Il traguardo è a portata di mano e tutti abbiamo fatto uno sforzo dentro e fuori dal Pd. Rovinare tutto adesso per esigenze personalistiche sarebbe un errore».

il Fatto 29.4.14
Come diventare di destra
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, Renzi ha appena detto che “chi non cambia è di de-s t ra ”. Lo ha detto a Torino, la città di Gramsci, ed erano tutti contenti. Alessio
LA FRASE APPARTIENE alla tradizione più profondamente trasformista della politica italiana. Devi pensare che tutto ha inizio da una opposizione senza quartiere a Berlusconi, a cominciare dai rapporti subordinati di Berlusconi con Craxi e dalla misteriosa ricchezza dell'uomo di Arcore. Evidentemente però il terrore di essere di sinistra deve avere ben presto pervaso le fila dei più autorevoli ex Pci, che hanno cominciato a cambiare sotto gli occhi degli occasionali compagni di viaggio (coloro che si candidavano, credendo di dare una mano contro Berlusconi) come in un film di fantascienza, in cui ai corpi veri subentrano i corpi degli alieni, che solo a prima vista sembrano uguali. I nuovi alieni si sono distaccati molto in fretta dalla infatuazione di Gramsci, uno che non cambia neppure un dettaglio di ciò che dice o che scrive o che pensa, neppure se lo fanno morire in prigione. E cominciano a dirti che “cambiare è moderno”, che “si può sempre imparare dagli altri anche se sono avversari”, e che “le riforme si devono fare insieme”, anche se, ovviamente, saranno altre riforme. La parola è passata in un lampo tra le fila di deputati e senatori Pd. Nel corso di tre legislature si sono andate formando “larghe intese” molto prima che tale strana forma di accordo, fatta per annullare il voto ed espropriare gli elettori (non del mandato degli eletti, ma delle idee degli elettori) e per dar vita a un paesaggio irriconoscibile. La cosa interessante, che non mi pare sia stata notata, è che dati due termini di riferimento in un Parlamento, la destra e la sinistra, una, la sinistra, si è auto-annullata in uno slancio di donazione al nuovo clima di intesa. L'altra no. La destra è lì, intatta, con la ex sinistra gentile e vicina e pronta, se necessario (pare per il bene del Paese) a spostarsi ancora. Una prova? Prendete il discorso di Alfano (ministro dell'Interno di un governo che dovremmo chiamare “il nostro”, ci pensate?) erroneamente intitolato “in difesa della Polizia”, ma in realtà a esclusivo sostegno dei picchiatori più violenti, che purtroppo ci sono anche in Polizia. Quelli, per esempio, che salgono sul corpo di una ragazza caduta a terra e urlante, come se fosse un gradino. Il discorso di Alfano era convinto e appassionato, un vero, serio discorso della destra che sceglie la violenza fisica congiunta al potere sulle persone. Dunque la destra c'è, forte e viva. Mi trovate un discorso “di sinistra”, per esempio sul lavoro o sui diritti umani o l'immigrazione, o la scuola pubblica, o anche solo sul diritto a dimostrare secondo la Costituzione? Facile suggerire a Renzi, nella città di Gramsci, la stessa testardaggine di Gramsci. Oppure, con coraggioso realismo giovane, dire la frase giusta: questo cambiare è di destra.

l’Unità 29.4.14
Del partito e del governo
di Michele Ciliberto


Sono rimasto sorpreso nel leggere due giudizi sull’attuale presidente del Consiglio e segretario del Pd molto diversi, se non opposti, a distanza di una settimana, sullo stesso giornale, ad opera dello stesso editorialista. Nel primo si sosteneva che con i suoi ultimi interventi Renzi aveva avviato una nuova fase; nel secondo si dice invece che può essere al massimo un buon primo violino ma non un direttore d'orchestra. Mi sono chiesto la ragione di questa differenza di giudizi e mi pare di poter dire che essa testimoni un atteggiamento che riguarda ancora larga parte delle classi dirigenti italiane, compreso quelle del Pd.
È un atteggiamento di prudenza, talvolta di sospetto e anche di preoccupazione. Come se con Matteo Renzi si fosse avviata una stagione della Repubblica che è al tempo stesso foriera di speranze e di progresso, ma anche di timori e conseguenze imprevedibili. Credo che il carattere di Renzi - e il carattere conta in politica - acutizzi questo atteggiamento: basta pensare al modo brusco e addirittura insolente con cui ha trattato quella parte del Pd che non condivide il suo progetto di riforma del Senato.
Per capire da dove arrivino questi timori e queste preoccupazioni penso ci si debba interrogare su come e perché Renzi sia riuscito a prendere il potere, sia a livello di governo che di partito.
Entrambe queste cose sarebbero state impossibili se non ci fosse stato il ventennio berlusconiano; e con questo non voglio dire che Renzi è un «figlio» di Berlusconi (una vera sciocchezza). Intendo invece sostenere che è riuscito ad ottenere questi risultati perché il campo della politica italiana era stato profondamente trasformato, anzi devastato, dall’esperienza berlusconiana: la distruzione delle forme della politica di massa novecentesca; la riduzione in termini strettamente «carismatici» della leadership politica; l’imposizione, a livello di sensi comuni e di atteggiamenti individuali e di massa, di modelli antropologici che si possono definire, sommariamente, di tipo «consumistico» e individualistico.
Tutto questo è stato a sua volta reso possibile però da una disfatta campale della sinistra storica, quella per intendersi di matrice socialista e comunista, nonostante i vari tentativi di rilanciarla. È vero che in questo ventennio le forze di sinistra sono andate al governo due volte ma, conviene sottolinearlo, sotto la guida di Romano Prodi, cioè di un autorevole leader che non appartiene a questa tradizione ma viene dalle file del cattolicesimo democratico e si muove secondo schemi politici - ad esempio il bipolarismo - sostanzialmente estranei alla tradizione politica del comunismo italiano. Di questa crisi radicale il gruppo dirigente del vecchio Pci nelle sue varie metamorfosi si è reso conto e ha cercato di affrontarla e superarla anzitutto con lo strumento delle primarie.
Mentre accadevano processi di così vasta portata che cambiavano di fatto la storia del Paese, una violenta crisi economica di carattere internazionale ha colpito l’Italia acutizzando in forme mai viste le antiche diseguaglianze e generando un profondo risentimento sociale e politico che si è espresso, sul piano elettorale, o in un fortissimo sviluppo dell’astensionismo o nell’accreditamento di nuovi partiti.
Il merito di Renzi è stato quello di intuire, con le proprie categorie, quanto profondi fossero i processi di cambiamento e anche le esigenze di una leadership radicalmente nuova rispetto al passato, comprendendo che le cose non sarebbero mai più state come prima e che occorreva riproporre, in forme nuove, una prospettiva democratica e riformatrice, che facesse i conti con i problemi aperti nella società italiana. Su questo punto ha avuto ragione, è riuscito a intercettare lo spirito del tempo e ha giocato con spregiudicatezza una partita importante agevolato anche dalla disgregazione del sistema politico italiano nel quale la destra, oltre ad essersi lacerata, perde progressivamente peso senza più riuscire a proporsi come un’alternativa credibile agli stessi ceti moderati e di destra.
A mio giudizio può vincere questa partita che coincide - ed è questo il suo lato positivo - con un ristabilimento del primato della politica, con la proposta di una strategia riformatrice capace di incrociare l’ansia di riforme che viene dal profondo del paese, con la possibilità di contenere movimenti come quello di Grillo, dando così un contributo importante a un riassesto complessivo della democrazia italiana. Quello che mi lascia perplesso è il tono «giacobino» mi verrebbe da dire, evidente nel procedere di Renzi, che considero negativo proprio dal punto di vista degli obiettivi che intende conseguire. Mi fermo, in questo caso, solamente su un punto: Renzi stenta a comprendere che per poter avere successo deve poter contare su un partito vivo, vitale, energico, capace di proposte. È una questione che riguarda lo stesso governo e, in generale, la democrazia italiana: come diceva un grande studioso, è nei partiti che si formano le classi dirigenti della nazione.
So bene quanto sia profonda la crisi dei partiti nazionali e come sia necessario procedere a trasformazioni radicali perché essi riassumano credibilità; ma sono altrettanto persuaso che il problema della democrazia italiana non si risolva con le primarie né riducendo il partito a un docile strumento nelle mani del governo. Ricordo i conflitti che in anni passati ci sono stati, anche quando la sinistra era al governo, fra partito ed esecutivo e quanto questo abbia pesato negativamente, ma non si può ragionare assumendo che, dal momento che così è stato, così debba sempre accadere.
Il problema del rapporto tra partito e governo è decisivo - insisto - proprio se Renzi vuole dare forza ed energia alla sua azione riformatrice e allargare, oltre il consenso intorno al suo lavoro, il campo delle idee e delle energie che possono renderlo possibile. Anche in questo campo, dopo la distruzione berlusconiana bisogna cominciare a ricostruire.

il Fatto 29.4.14
Mediaset e Matteo: “Amici” ma non troppo
L’ex cavaliere infastidito per lo spazio concesso chiama Pier Silvio
Il Biscione lo ferma per Par condicio. E Maria De Filippi confessa al segretario Pd: “Pressioni dall’azienda”
di Carlo Tecce


Quando i dirigenti di Mediaset hanno divelto l’ultima barricata di resistenza, domenica sera, Maria De Filippi ha telefonato a Renzi, piccata per la travolgente offensiva di Cologno Monzese, che proprio non accettava l’inevitabile multa per il mancato rispetto di Amici di una legge da campagna elettorale, la par condicio, che la famiglia Berlusconi non ha mai tollerato: “Caro Matteo, ho ricevuto pressioni dai vertici aziendali. Non puoi venire in studio, mi dicono che ci sono esigenze di regole e di società da soddisfare”. E il paradosso non s’è compiuto, un titolo accattivante va archiviato: Mediaset paga (un’ammenda) all’Agcom per avere l’avversario di Berlusconi a Canale 5. Il gioco valeva la candela: un obolo da poche decine di migliaia di euro all’Autorità di controllo in cambio di un ritorno commerciale assai più cospicuo.
Ma le trattative vanno oltre le ambizioni di Renzi di ottenere una platea giovane e un ascolto facile, robetta preziosa da 5 milioni di pubblico, fascia di italiani che fa impazzire i pubblicitari, telespettatori non paganti epperò votanti. Un doppio intervento, quello burocratico dei legali di Cologno Monzese e quello paternalistico di Silvio Berlusconi, l’hanno impedito. Sempre domenica, di pomeriggio, l’ex Cavaliere aveva in agenda un’ora di colloquio a piacere con Barbara D’Urso. Dopo aver firmato il foglio per la liberatoria, Berlusconi ha esploso lì una battutina maliziosa: “Ho scritto Matteo Renzi, ho sbagliato? Già, oggi tocca a me, domani al presidente”.
L’ex Cavaliere infuriato telefona a Pier Silvio
Il padrone di casa ha saputo nei suoi locali il gran colpo di Matteo&Maria. Un favore immenso al giovane democratico, mentre al capo di Forza Italia era consentito, al massimo, la chiacchierata a Domenica Live con un pubblico meno interessante e meno numeroso: l’ora senza domande di Berlusconi ha raccolto 2 milioni di italiani. Come gareggiare in seconda categoria e ammirare Renzi che scende in campo al Bernabeu di Madrid. In diretta, elogiando gli ascolti (non ha portato fortuna) di Domenica Live, il papà ha parlato dei figli che comunicano poco. E spente le telecamere, il papà ha chiamato l’incolpevole Pier Silvio, che non sapeva nulla – spiegano al Biscione – di Renzi in replica ad Amici col giubbotto di pelle.
A Mediaset scatta la mobilitazione con il pretesto – che sono pronti a difendere con decine di esempi – che la De Filippi lavora in autonomia e scopre gli ospiti soltanto un giorno prima di registrare la puntata di lunedì che va in onda il sabato sera. Non ci sono cartelloni da agitare, imboscate da organizzare: basta applicare la par condicio, che non permette ai politici neanche di farsi inquadrare durante una trasmissione che non sia giornalistica. E Amici fa intrattenimento. Eliminiamo un dubbio lecito: sì, Domenica Live appartiene ai programmi d’informazione di Mediaset.
Sfumata la partita del Cuore, il premier a caccia di platee
Al telegenico inquilino di Palazzo Chigi, sfumata la prestazione agonistica per la Partita
del Cuore di Firenze, a sei giorni dai seggi elettorali aperti, occorreva una spintarella televisiva. E allora Renzi s’è ricordato di un rapporto mai interrotto con Maria De Filippi, che l’aveva sdoganato già l’anno scorso.
Matteo&Maria si scambiano spesso messaggi, complimenti, riflessioni. Maria non è una aziendalista classica, non è fedele berlusconiana. E Matteo, che non dispiace a Maria, anzi, aveva bisogno di un pubblico che non guarda né Ballarò né Porta a Porta. Matteo&Maria trovano un accordo semplice, anche perché la legge per la par condicio la conoscono bene entrambi : cinque minuti di discorso da presidente del Consiglio ai ragazzi in studio (e davanti allo schermo), infarcito di una massiccia dose di metafore, esortazioni e parabole renziane. Così la multa, pensavano ad Amici, sarà contenuta. Domenica mattina, concluse le mediazioni con Palazzo Chigi, il gruppo di Amici annuncia la visita e i giornalisti politici vengono accreditati, le richieste sono centinaia: possibile che a Mediaset ignoravano? Qualche ora di tempo per rinsavire, agevolati dall’ex Cavaliere, e gli uomini in giacca e cravatta di Cologno Monzese ordinano a Maria De Filippi di ritirare l’invito: la signora di Canale 5 battaglia, cerca di mediare, rassicura Matteo. E poi s’arrende. Anche a Mediaset vale la par condicio.

La Stampa 29.4.14
Renzi, salta la presenza ad “Amici”
L’altolà arriva dai vertici Mediaset
Palazzo Chigi: è solo un rinvio

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il Fatto 29.4.14
Ermanno Rea, lista Tsipras
“Napolitano mi processò per il mio libro”
di Fabrizio d’Esposito


Ermanno Rea viene da lontano. Non solo per l’età, dal momento che ha 87 anni. La politica per lui, scrittore giornalista e anche fotoreporter, resta un concetto denso, profondo, tipografico, non televisivo. Tipico per un comunista antico. Argomenta la sua candidatura nella lista Tsipras per le Europee, capolista al sud, e parte da una vicenda dimenticata degli anni Quaranta e Cinquanta a Napoli: il gruppo gramsciano di Guido Piegari e Gerardo Ma-rotta, osteggiato dal Pci di Togliatti, Amendola e del giovane Napolitano. Una storia, questa, che sarà un capitolo aggiuntivo a uno dei suoi libri di maggior successo, bellissimo: Mistero napoletano.
VENT’ANNI dopo la pubblicazione per Einaudi, ritorna in libreria con Feltrinelli. Ma per la “coda” inedita bisognerà aspettare un altro po’. Rea la sta scrivendo in questi giorni. Prende in mano una copia di Mistero napoletano, la alza e spiega: “Nella seconda parte del libro ho già scritto di Piegari. All’epoca avevo raccolto una testimonianza drammatica
che raccontava la pazzia di Piegari, perché cacciato dal Pci, ma lui era ancora vivo e non la inserii. Adesso è il momento. Vede, Piegari era un personaggio
geniale e la sua polemica nei confronti del meridionalismo di Amendola ha una straordinaria attualità. Per Piegari, l’unità nazionale era decisiva per la questione del Mezzogiorno. Oggi, gramscianamente parlando, lo stesso vale per l’unità politica europea”. Come sottotitolo, Mistero napoletano, recita: “Vita e passione di una comunista negli anni della guerra fredda”. Ossia la vita di una figura tragica e sublime del Pci napoletano di quegli anni: Francesca Spada, che si suicidò nel Venerdì Santo del 1961. Francesca è il fantasma che compare nella scalata del Vesuvio che Mario Martone fa fare ad Antonio Bassolino, interpretato da Toni Servillo, nella Salita, episodio del film I Vesuviani. La Spada aveva una relazione con Renzo Lapiccirella, altro comunista di genio e antistalinista del Pci napoletano. Lo stalinismo togliattiano è la chiave per decifrare tutto, “come gestione dispotica del potere, come strumento di polverizzazione di ogni forma di dissenso, come complotto, menzogna, trama, morta gora”. Per i quadri del Partito, Francesca era “puttana” ed eretica. Ancora dal libro: “Lo stalinismo fu anche questo: continua violazione dell’altrui vita privata, ipocrisia di stampo moralistico, maschilismo”. Ed è per questo che quando Mistero napoletano uscì, nel 1995, Giorgio Napolitano e tutti gli amendoliani superstiti, poi miglioristi, non gradirono. Di più si arrabbiarono e tentarono di boicottare e ignorare il libro. L’attuale capo dello Stato, di estrazione borghese, fu allevato nel Pci di Napoli dallo stalinista Salvatore Cacciapuoti, su mandato di Giorgio Amendola. Rea ha uno sguardo dolce. Negli anni di “Francesca” e “Renzo”, lavorava all’ufficio partenopeo dell’Unità: “Io volevo fare il professore, mi presentai al partito e dissi: ‘Sono qui, come posso dare una mano?’”. Racconta: “Con Napolitano ho litigato per il libro. Non una cosa diretta, più obliqua, critiche riferite da più persone. Cascai pure in una trappola preparata dai miglioristi di Napoli. Mi invitarono a una presentazione che si trasformò in un piccolo processo. Ma fu tutto il partito che perse un’occasione per discutere, che preferì rimuovere. Ricordo che Nilde Iotti si rifiutò di rispondere sulla questione, infastidita”.
UN ALTRO modo, stalinista, per stroncare Mistero napoletano fu quello di degradarlo a romanzetto: “Fu Maurizio Valenzi, di cui ho un grande ricordo, a spronarmi polemicamente: ‘Dillo apertamente che hai scritto un romanzo’”. Nel corso dei decenni, Napolitano ha revisionato gran parte della sua parabola comunista, ma sul suo periodo stalinista napoletano ha concesso poco o nulla. Solo fastidio e irritazione, come nel caso dell’opera di Rea.
CONTINUA lo scrittore: “Dopo il litigio di vent’anni fa, ci sono stati incontri successivi per chiarirci. Di Napolitano ho apprezzato la prima fase del suo settennato, poi dopo per me è stato tutto incomprensibile. Va svilendo il suo passato di cui io stesso sono stato critico. Non lo capisco. Dovrebbe tutelare meglio il suo passato, anche perché è diventato un moderato troppo spinto, difficile da comprendere. E poi, qualunque cosa sappia più di noi, non giustifica tutto quello fa”. Rea si alza. Sono quasi le diciotto. Tra poco, suo figlio Carlo, artista, inaugura una mostra personale a Roma. E la campagna elettorale? “Ho aderito alla lista Tsipras perché è la forza a me più vicina. Quando mi hanno chiesto di candidarmi, ho risposto: ‘Tenete presente la mia età, ma se voi ritenete che il mio nome possa attrarre voti, sono qua’”. Ermanno Rea. Dopo una vita come la sua, sì, basta il nome.

l’Unità 29.4.14
«Per il martire e il gerarca» Fascisti in marcia a Milano
Croci celtiche e saluti romani, l’estrema destra sfilerà per ricordare Ramelli e Borsani
Tensione per un contro corteo. 500 poliziotti schierati
di Giuseppe Caruso


Sfileranno anche quest’anno con il passo ritmato dai tamburi e le croce celtiche, a ricordare che la storia (anche quella lugubre) si presenta sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa.
In questo modo verrà celebrato l’anniversario della morte di Sergio Ramelli, il giovane fascista che il 29 aprile del 1975 morì a Milano, appena diciottenne, dopo 48 giorni di agonia causati da un’aggressione di alcuni militanti di Avanguardia Operaia, che lo colpirono ripetutamente alla testa con delle chiavi inglesi.
MANIFESTAZIONE
La marcetta fascista in onore di Ramelli crea, da anni, tensioni a Milano, ma oggi la situazione sarà ancora più pericolosa del solito, perché alle 19 partirà da piazza Oberdan anche un corteo antifascista, a cui hanno aderito già diversi esponenti dell’Anpi e della Cgil. La manifestazione dell’estrema destra partirà alla stessa ora, ma da piazzale Susa per arrivare fino al civico 15 di via Paladini dove Ramelli venne aggredito. E lì si metterà in scena la solita pantomima di cori, braccia tese e saluti al duce.
Ad essere commemorati quest’anno saranno anche Carlo Borsani, gerarca fascista fucilato dai partigiani il 29 aprile del 1945, ed Enrico Pedenovi, avvocato e uomo politico militante nell’Msi, ucciso dai militanti di Prima Linea il 29 aprile 1976. Una sorta di macabro tre al prezzo di uno.
Da un paio di giorni a Milano sono anche comparsi dei manifesti che pubblicizzano la marcetta, firmati “I camerati”, con tanto di croce celtica per non confondersi. Per alleggerire la tensione il questore Luigi Savina ha diffidato i neofascisti a sfilare con croci celtiche ed a fare saluti fascisti, per non parlare del divieto di marciare a ritmo di tamburi. Ma ovviamente tutti questi divieti verranno bellamente ignorati. E del resto il comitato organizzatore ha già fatto sapere che «nessuno potrà toglierci l’Onore di sfilare in loro memoria, inquadrati ed ordinati, al ritmo dei tamburi, dietro le nostre bandiere, per arrivare a volgere l’unico saluto degno a chi è caduto per l’Idea! Il comitato organizzatore del Corteo Unitario per Sergio, Enrico e Carlo, dichiara che non consegnerà al futuro la memoria di un corteo privato dell’identità che da sempre ispira e muove gli animi dei suoi partecipanti ed il ricordo dei caduti che vi si commemorano». Il testo è rigorosamente autentico, ogni commento assolutamente superfluo.
In un primo momento era stata invece vietata la manifestazione antifascista, anche perché era stata chiesta l’autorizzazione a partire da piazzale Susa, punto di ritrovo dei fascisti. Dopo una trattativa ad oltranza si era arrivati a concedere il via libera per il 30, ma alla fine è arrivata una nuova richiesta, questa volta approvata, per un corteo in contemporanea, ma distante (anche se non molto).
Gli antifascisti hanno annunciato di aver già ottenuto l’adesione di circa duemila militanti e si augurano di arrivare ad avere un corteo composto da cinquemila persone per dare un segnale forte alla città. Tra le sigle che hanno aderito, oltre ai già citati Anpi e Cgil, ci sono i partiti, come Sel e Rifondazione Comunista, i centri sociali, come Cantiere, Zam, Vittoria, Conchetta e Torchiera ed anche i sindacati di base e i comitati no Tav e anti-sfratti.
Dal punto di vista della sicurezza, oggi la Questura mobiliterà in tutto 500 poliziotti, con due quartieri, Porta Venezia e Città Studi, che saranno rigorosamente blindati per alcune ore.
Il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, ha cercato di gettare acqua sul fuoco parlando di «una commemorazione giusta e doverosa per un ragazzo barbaramente assassinato. Però è altrettanto giusto e doveroso opporsi alla bieca strumentalizzazione di questo tragico evento attraverso la parata nazi-fascista che da anni deturpa la nostra città. Mi auguro vivamente che le autorità competenti facciano tutto quanto possibile per evitare questa grave offesa a Milano».
«Contro gli imbecilli» ha continuato Pisapia «dobbiamo essere uniti al di là degli schieramenti, perché solo in questo modo possiamo far vincere la democrazia».

il Fatto 29.4.14
“Fai ciò che devi... questi devono morire”
Dalla pasionaria del Centro sociale minacce ed estorsioni agli immigrati nelle case occupate a Roma
di Valeria Pacelli


Oltre alle denunce degli occupanti, quello che imbarazza nell’inchiesta per associazione a delinquere finalizzata all’estorsione a carico di alcuni gestori dell’Angelo Mai, sono i toni con i quali ci si rivolgeva agli occupanti delle case in via Tuscolana e via delle Acacie in Roma. Impartendo ordini al suo interlocutore, Pina Vitale, una dei due leader dell’organizzazione, finita tra gli indagati, diceva: “Ora o tu fai quello che devi fare... questi devono morire”, e annunciava: “Adesso prendo la mazza di 5 chili, vado e gli spacco tutti i vetri”.
Sono alcune delle frasi intercettate agli atti dell’inchiesta che ha portato allo sgombero degli edifici occupati in via delle Acacie, del cosiddetto ex Hertz e dell’Angelo Mai, e a iscrivere nel registro degli indagati (per reati che variano in base alle diverse posizioni) 39 persone. L’inchiesta racconta vessazioni, richieste di soldi per un “fondo cassa ” e ricatti. Ieri si è tenuta l’udienza del ricorso presentato dal pm nei confronti del gip che ha negato 14 misure cautelari (5 custodie cautelari e 9 divieti di dimora a Roma). Il giudice si è riservato di decidere, mentre fuori dal tribunale i militanti dell’Angelo Mai e del Comitato di lotta popolare per la casa hanno dato vita ad una performance di solidarietà ai loro leader. Se questi abbiano responsabilità, lo stabilirà l’inchiesta. Ma a leggere le carte dell’indagine, il quadro che ne esce è molto diverso dall’immagine che si ha a Roma dell’Angelo Mai. Bozena, una delle presunte “vittime di condotte estorsive”, ai pm racconta: “Durante i lavori continuavamo a pagare 20 euro di fondo cassa, ogni mese nelle mani di Samira, che annota ogni riscossione su un quaderno. Dall’agosto 2012 il fondo è stato aumentato a cento euro (...) Pina Vitale ha giustificato l’aumento con la necessità di pagare al Comune le bollette dei consumi energetici”. Per i pm l’allaccio dei consumi erano abusivi. “Al termine dei lavori - continua Bozena - Vitale ha fatto venire all’occupazione quelli che lei chiama ‘ospiti’ (..) Durante queste visite, siamo stati obbligati a preparare a nostre spese il rinfresco, eravamo controllati a vista e non potevamo parlare da soli con loro”. Agli atti c’è anche una conversazione del 17 febbraio scorso. Pina Vitale parla al telefono con Maurizio Longo (indagato) e commentano un’aggressione, “scaturita dalle richieste di pagamento del fondo cassa”.
Pina: “Souad ha aggredito Soumya, che è stata bravissima a non reagire, perché quella sta cercando rogna per poterla denunciare. (..) Adesso o tu fai quello che devi fare, (..) non me ne frega un cazzo di nessuno, questi devono morire (..) Adesso questa passa i guai, o fate quello che dico o veramente do’ fuoco alla Hertz”
Maurizio: “Io avevo pensato proprio di farla peggio (..) avevo pensato de faglie mette paura.. mo che ne so, gli butto un rauto, una bomba (..)”
Pina: “No, non è possibile, questa deve pagarla cara, io ho pensato, adesso prendo la mazzetta di 5 chili, vado e gli spacco tutti i vetri”.
Per i pm è significativo anche il racconto di Maria Aura Rossi che il 17 gennaio mette a verbale un episodio che le hanno raccontato gli occupanti, avvenuto dopo che lei era andata via: “Con la bambina in braccio, Souad era stata aggredita e picchiata da Samira, che le aveva fatto anche cadere la bambina, e per la concitazione aveva perso conoscenza. Maria mi ha detto che era dovuta intervenire per tirare fuori la lingua dalla gola di Souad, che non respirava più. Dopo l’aggressione a Souad, Serena (Malta, indagata) e Pina (Vitale, ndr) avevano rimproverato Maria di essere intervenuta. (..) Pina le ha urlato a brutto muso: ‘Tu devi farti i cazzi tuoi. Tu ce l’hai l’appartamento? Allora sta lì’. (...) Le riunioni avevano un contenuto violento e aggressivo, soprattutto verso gli arabi”. Un altro occupante racconta ai pm: “La Vitale ci toglie la serenità e ci insulta. Poi insulta in modo particolare noi arabi e ci dice: “Arabi di merda. Voi dite che siete musulmani. Ma quali musulmani. Io prendo il corano lo faccio a pezzi e ve lo infilo nel culo”.

il Fatto 29.4.14
Big Pharma
Così funziona il sistema della casta delle multinazionali sulla pelle dei pazienti
Regali, cene e fatture: la truffa dei venditori di medicine
Finte pandemie, patti tra colossi per alterare la concorrenza e mantenere
i profitti, le inchieste della magistratura
Farmaci venditori e mazzette

di Chiara Daina

Big Pharma sta uscendo allo scoperto per quello che è: una lobby planetaria, una casta di intoccabili che fa i miliardi sulla pelle dei cittadini, accumula scandali uno dietro l’altro, inventa le malattie prima di sfornare la pillolina miracolosa e ovviamente è impermeabile alla crisi. Glaxo Smith Kline, gigante britannico dei farmaci, si è comprata i medici di mezzo mondo. Solo ad aprile è stata accusata di corruzione in Libano, Giordania, Iraq e Polonia, dove il manager regionale dell’azienda e 11 dottori sono sotto indagine per un presunto giro di mazzette in cambio della prescrizione del farmaco anti-asmatico Seretide. Nel luglio 2013 è stata incastrata in Cina, dove ha sganciato 320 milioni di sterline per ingraziarsi la classe medica con regali di lusso e prostitute.
IL BOTTO negli Stati Uniti, anno 2012: 3 miliardi di dollari di multe per aver pompato le vendite di antidepressivi per indicazioni non autorizzate. La Roche spaccia il Tamiflu come il farmaco del secolo contro l’aviaria nel 2006 e tre anni dopo l’influenza suina (il virus A/H1N1) ma i ricercatori della Cochraine Collaboration, entrano in possesso dei risultati delle ricerche chiusi negli archivi, dimostrano che è un finto antidoto per una finta pandemia. Poi il cartello con l’altro colosso svizzero, Novartis, per favorire la diffusione del Lucentis, cioè il farmaco più costoso per la cura della maculopatia (1400 euro) contro l’analogo low cost Avastin (15 euro), con maxi-multa dell’Antitrust italiana da 180 milioni di euro. Solo per citare i casi più freschi. La magistratura ha messo la marcia. I media hanno rotto il tabù. Il tema è così scottante che anche il cinema pensa che valga la pena parlarne.
COSÌ HA FATTO per la prima volta Il venditore di medicine, il film di Antonio Morabito al cinema da stasera, che denuncia la pratica del comparaggio, cioè quando gli informatori scientifici sono disposti a tutto pur di convincere i medici a far prescrivere le loro molecole. Il Fatto Quotidiano ha intervistato in anonimato tre informatori scientifici che raccontano cosa significa giocare sporco quando c’è in ballo la nostra salute. Il presidente dell’Associazione nazionale di categoria, Carmelo Carnovale, ha invitato più volte il Parlamento ad affrontare quello che le aziende non dicono mai, ma fanno da sempre: “Negli ultimi tre anni – spiega – ci sono state circa 50 interrogazioni parlamentari”, risolte sempre con un nulla di fatto. Dentro alle ditte del farmaco le regole da rispettare sono misere eccezioni, al contrario le anomalie sono all’ordine del giorno. Carnovale fa qualche esempio: “Ci sarebbe il divieto di consentire al medico la vendita diretta del farmaco e l’obbligo di quattro o cinque visite ma ogni informatore in realtà incontra il dottore dalle 12 alle 20 volte”. All’estero chi fa questo mestiere è detto ‘rappresentante di farmaci’, solamente in Italia ‘informatore scientifico’. Il nostro compito è spiegare ai medici come funziona un farmaco, i suoi benefici, gli effetti collaterali e il costo” continua il presidente. Dal 2005 le aziende ne hanno mandati a casa 15 mila su 30 mila attivi. “Il business comincia dalla determinazione del prezzo: perché gli antitumorali costano così tanto? Non sono dei salvavita solo dei compassionevoli – conclude Carnovale –. Comunque ogni volta che la magistratura ci mette il naso il colpo va sempre a fondo, ma poi i casi finiscono in prescrizione o patteggiamento”.

Repubblica 29.4.14
Una causa alla Bayer: ecco l’ultima sfida di Erin Brockovich
di A. T.



BERLINO - Erin Brockovich, ve la ricordate la coraggiosa paladina dei diritti dei cittadini e dei consumatori, la bella ragazza dell’America profonda che sfida le multinazionali e ogni potente in nome della giustizia? Julia Roberts interpretò in un famoso film il personaggio reale, e nel 2001 vinse un Oscar. Raccontò la causa intentata e vinta contro la Pacific Gas Electric nel 1993 per la contaminazione delle acque della città di Hinkley in California per oltre 30 anni. E così Erin Brockovich divenne uno dei volti della star. Ma adesso Erin Brockovich, quella vera, torna in campo. Sfida una delle aziende global player più influenti del mondo, il colosso farmaceutico e chimico tedesco Bayer. L’attivista è mobilitata in appoggio alle ottomila donne americane, firmatarie di una petizione per chiedere il divieto di un prodotto della Bayer, un anticoncezionale meccanico concepito per chiudere le ovaie con l’installazione di un elementoostacolo, che però a moltissime ha causato gravi problemi: dolori e depressioni violente, aumento di peso e serie disfunzioni mestruali.
«L’installazione di quel prodotto è irreversibile, le donne che lo avevano scelto non hanno diritto né possibilità di ripensarci e tornare indietro, io voglio giustizia per loro», ha dichiarato Erin Brockovich citata da Spiegel online. Aggiungendo un tono conciliante: con la Bayer «voglio il dialogo », non il confronto muro contro muro.
E’ comunque un’avversaria temibile, quella che il gigante di Leverkusen, l’azienda famosa in tutto il mondo per l’Aspirina, si trova di fronte. Il prodotto si chiama Essure. E una delle sue vittime, Michelle Garcia, è stata l’iniziatrice della petizione collettiva. «Ho passato un periodo tremendo, dolori fortissimi, emorragie
continue, credevo di morire». Le ottomila donne guidate da Erin Brockovich chiedono il ritiro del prodotto dal mercato. Per ora la Bayer non ha accettato un contatto diretto con Brockovich, ma promette «piena compassione» alle donne. Pur mettendo le mani avanti: «Nessun anticoncezionale che sia efficace e sicuro al cento per cento, è scritto anche sulle confezioni». Vedremo chi vincerà, come nel film.

il Fatto 29.4.14
Il mercato mondiale tocca cifre record e crea mega-aziende


I MOVIMENTI di Big Pharma valgono 1.000 miliardi di dollari dall’inizio dell’anno 2014, un livello mai visto dal 2007, prima della crisi. Dopo le maxi operazioni di Novartis e Glaxo da un lato, Valeant e Allergan dall’altro, e l’attesa vendita di Merck della sua divisione consumatori, arriva la proposta acquisizione monstre: Pfizer torna alla carica per AstraZeneca con un’offerta - secondo indiscrezioni - da quasi 100 miliardi di dollari. La società inglese respinge però le nuove avance americane e boccia un’offerta ritenuta troppo bassa. Pfizer, produttore del Viagra, punta alla rivale britannica per ampliare il proprio portafoglio prodotti, creando un colosso mondiale tramite una delle acquisizioni maggiori della storia.

il Fatto 29.4.14
Strategie sul campo
I capi ci dicevano: “Fate le mignotte”
di Ch. Da.


Fate come le mignotte: la mattina vi lavate, vi profumate, date la vostra prestazione al medico, dal quale poi esigete il conto equivalente al vostro favore, come si fa coi clienti”. Un ex informatore scientifico racconta quello che si è sentito dire dal direttore del personale dell’azienda il primo giorno di un corso di comunicazione efficace, incluso nel pacchetto. Lei cosa ha pensato in quel momento?
Ero allibito. Non potevo stare zitto, ho alzato la mano e gli ho fatto una domanda.
Quale?
Le mignotte per strada quando chiedono il pagamento se il cliente se ne va si rivolgono al protettore, o sbaglio? Noi invece dobbiamo eseguire gli ordini vostri, risolverci le grane da soli e fare finta che voi non sapete niente. È sceso il silenzio e da lì i colleghi mi hanno isolato .
Lei faceva regali ai medici?
All’inizio no. Non ero all’altezza di gestire il budget, ero sprovveduto, non conoscevo bene i medici. Anche più tardi, mi sono sempre ribellato, chiedevo perché non potessimo fare informazione scientifica seria, organizzando corsi di formazione in reparto, ma mi ridevano in faccia. Dei miei colleghi intanto sono finiti in galera per aver trasformato i box di casa loro in filiali dell’azienda...
Come hanno reagito i capi alle sue rimostranze?
Si sono arresi perché alla fine portavo a casa i risultati lo stesso.
In che modo?
Io sceglievo i dottori seri, incorruttibili, pochi ma ce ne sono. Proponevo loro delle lezioni di approfondimento e funzionavano.
Dopo dieci anni ha mollato.
Perché?
Mi hanno umiliato. Il capo area mi pedinava o andava nello studio del medico dopo che c’ero stato io per verificare se avessi fatto il mio lavoro. E poi ho scoperto cose orrende. Lo sa che si ottiene una prescrizione in ambito nazionale di un farmaco se l’azienda farmaceutica intercetta il medico giusto di un ospedale che fa parte di una delle società scientifiche private, quelle che decidono le linee guida prescrittive per certe patologie...
E poi?
La multinazionale sponsorizza l’università con uno studio per creare una cattedra universitaria dal nulla su una materia completamente nuova. Solo perché la casa farmaceutica si è inventata l’ennesima pillolina. Funziona così quindi: prima si crea la cattedra e poi si gonfia la patologia.

Repubblica 29.4.14
L’inchiesta
Caso Magherini la folla ai militari “Basta con i calci”
di Laura Montanari e Luca Serranò



FIRENZE. «Ho urlato “piano, dovete fare piano”, e anche altre persone hanno gridato frasi simili perché il ragazzo era già immobilizzato a terra e quindi dargli calci era assolutamente inutile». La gente di San Frediano in strada a Firenze, la notte del 3 marzo, si ribella all’intervento dei carabinieri. Una ragazza urla: «No i calci no». Riccardo Magherini, 40 anni, fiorentino, fragile ex promessa del calcio toscano, viene arrestato in preda a una crisi di panico dovuta alla quasi certa assunzione di cocaina: muore gridando «aiuto», «mi sparano» «chiamate un’ambulanza». Nei fogli delle indagini difensive emerge, in più di una testimonianza, l’«atteggiamento intimidatorio dei carabinieri». Racconta un altro teste: «Mi sono avvicinato e ho detto loro: no i calci no, questo ragazzo ha bisogno di un’ambulanza». I militari rispondono con l’ordine di mostrare i documenti. Sono momenti di tensione. Per oltre 20 minuti Magherini rimane a terra, ammanettato, bloccato a faccia in giù, prima dell’intervento di un medico. Ha rotto il vetro di un locale, preso il cellulare di un pizzaiolo per chiamare le forze dell’ordine, è convinto di essere inseguito, teme per la sua vita. È un uomo disperato e nel panico. All’1.21 uno dei carabinieri chiama la centrale spiegando che sono intervenuti su una persona «completamente di fuori, a petto nudo, che urla», poi chiede un’ambulanza che arriva dopo 10 minuti con tre volontari a bordo. Ma lì c’è bisogno di un medico e proprio un volontario contatta il 118: spiega che l’uomo «ha reagito in maniera violenta, gli sono addosso in due per tenerlo fermo: vogliono il medico». Il dottore servirebbe a sedarlo, ma in quel momento, e lo raccontano diversi testimoni, Magherini ha già smesso di urlare, nelle sue ultime invocazioni la voce cambia tono, poco dopo non si muove più. Il volontario che contatta la centrale però non lo dice e l’operatrice, ignara del dramma che si consuma, scherza: «Ci vogliono due uomini forti, c’è uno che ha tirato le manette a un carabiniere, freddo non gli prende perché c’ha due carabinieri sopra». Un teste riferisce che un militare «gli premeva un ginocchio sul collo » e un altro racconta di un carabiniere che immobilizza Magherini «prendendolo per il collo». In quell’attimo l’arrestato incrocia lo sguardo del testimone e gli urla: «Scrivete la mia storia»...

il Fatto 29.4.14
La versione di D’Agostino
“Due Papi santi? La vera fede è nello show eterno”
Alla maestosa celebrazione per Wojtyla e Roncalli il sacro ha implacabilmente toccato il profano: pranzi, flash e sfilate di papaveri e finti devoti
intervista di Malcom Pagani


Osservando dalla sua finestra il Vaticano, Roberto D’Agostino, il creatore del sito Dagospia, sente di doversi affidare alla preghiera: “Speriamo non mi venga una broncopolmonite”. La domenica della doppia santificazione, iniziata alle 7 di mattina con relativo spirito cristiano – “Sono uscito di casa e ho trovato orde di polacchi sdraiati per strada. Gli mancava solo il comodino. Ho chiesto più volte di passare e mi hanno sempre risposto di no. Allora ho forzato il blocco e gli sono passato sopra” – lo ha lasciato ancorato all’antica dissacrazione: “Pregate il signore, gli dicevo. State soffrendo, poi arrivate in Paradiso”. E uno e trino nelle sue convinzioni: “È stato un grande spettacolo, cromaticamente straordinario, molto ben organizzato e senza un solo momento di noia”. Tra sacro e profano: “Sotto di noi c’erano camerieri , caffè e tramezzini. Gente che scendeva, saliva, faceva colazione e andava in bagno”, in cima al palazzo della Prefettura: “Hanno messo qualche sedia bianca all’ultimo istante, lo chiamano overbooking”, anche D’Agostino ha avuto la sua apparizione. Guy Debord. La società dello spettacolo nella sua casa deputata: “Se oggi abbiamo arte, cinema, teatro, musica, Broadway e Hollywood dobbiamo dire grazie alla Chiesa che anche nell’uso dei paramenti non perde mai il senso dello show. Sa che la vera ideologia è lo spettacolo perché canonizza lo stile e lo trasforma in legge. C’è una regia. Un tempo da rispettare. Una liturgia. Un gioco di quinte. Entra uno, esce l’altro, accade sempre qualcosa e non accade mai per caso perché in Vaticano l’improvvisazione non regna. Quando sono partiti i sacerdoti vestiti di bianco con l’ombrellino siamo rimasti senza parole. Ai nostri autori di varietà tv, fare un salto a San Pietro avrebbe fatto bene”.
Non c’erano?
Al loro posto sostavano cronisti incapaci di riconoscere la regnante belga, del tutto inadeguati a raccontare come la rappresentazione in mondovisione, un evento che si poteva vedere anche in 3D, nascesse proprio dal cuore dell’iconografia cattolica. La storia di Cristo, l’unico divo a non conoscere declino, è colma di segni e simboli. Pensi all’Ultima Cena. Alla Via Crucis.
Si mangiava anche l’altro giorno. Il brunch somigliava al Cafonal?
Non è il brunch che somiglia al Cafonal, è l’assalto al brunch che fa il Cafonal. Roma è così. C’è sempre chi arriva con il gomito largo e il piatto come oggetto contundente riempito ben oltre l’orlo perché non si sa mai quando ricapiterà un’occasione del genere. Comunque il pranzo è finito presto e c’era armonia tra gli elementi più diversi. L’ultima su Renzi, la santificazione di due Papi molto amati e tra loro lontanissimi, l’emozione, l’assalto al buffet e l’Ostia avevano pari diritti di fronte a Dio. Quando arriva il momento della comunione, io cado nella gaffe. Mi autodenuncio: “Sono divorziato e ho mangiato una brioche. Come faccio a confondere il corpo di Cristo con un cornetto?”. Vedo sguardi di benevola commiserazione. “Da quanto tempo non frequenti Messa?”. Così scopro che digiuno e divorzio non sanciscono più l’esclusione. Potevo riunirmi anch’io. Poteva “comunicarsi” anche il divorziato. “Basta che preghi e puoi fare tutto”. C’è una lezione dietro.
Quale?
Che l’unica cosa che per la Chiesa conti è la conquista delle pecorelle smarrite. Essere riusciti a imporre la croce dall’Alaska alle tribù del Borneo è un dono sincretico e una manifestazione di enorme forza icastica. Aver spiegato a miliardi di persone che la croce significa sacrificio e la morte di un uomo per gli altri è un miracolo di architettura. Bergoglio conosce la comunicazione e per fare il Papa, come insegna l’addio di Ratzinger, talento specifico ed empatia con i fedeli, servono.
Qualcuno ha parlato di marketing della fede.
È un insopportabile riflesso moralistico. Voler conquistare è normale. La seduzione è lo spirito della nostra vita e si misura con l’affetto degli altri. Tutti vogliamo piacere. Io non voglio essere antipatico agli altri. Lo sono purtroppo, ma vorrei essere idolo delle folle, rockstar o comico. Bergoglio va incontro allo spirito originario. Perché la Chiesa è questo, mai escludere quando si può aggiungere.
Il precetto è stato Tavola della Legge della politica romana.
Altra derivazione ecclesiastica. L’importante è che il fedele creda e magari dia pure qualche obolo. Aggiungi una sedia, stringiti, crea proseliti. La politica però, eccettuato un ciuffo di renziani, era assente. Non c’era né Prima né Seconda Repubblica.
Ma c’era una sintesi delle due esperienze, Bruno Vespa.
Vespa, sì. Vespa è tutto. Ma l’evento superava i confini del raccordo anulare. Quella che a prima vista sembra una terrazza alla Scola o alla Sorrentino, diventa spot planetario per Roma.
Questa volta è stato ringraziato anche il sindaco Marino.
Solo perché il Papa non ha visto il delirio in cui versava la città.
Non a concedere il colloquio privato con Scalfari ai lettori del giornale da lui fondato.
Scalfari ci ha provato. Pensava che la via fosse libera, ma Bergoglio ha detto no. Ti faccio fare il libro e anche lo scoop, ma se pubblichi le parole del nostro incontro, oscuri la canonizzazione, togli luce alla riunione cristiana e superi un’entità che quando decide di decidere, sa comandare e farsi ascoltare. Bergoglio è intelligente. I gesuiti sono visti con sospetto. Li chiamano pretucci. Pretucci un cavolo.

il Fatto 29.4.14
La vera Questura?
Da oggi è il Vaticano


Le stime spannometriche, si sa, sono attività pericolosa. Quelle per le manifestazioni pubbliche ancora di più: in genere, gli organizzatori sparano cifre altissime per magnificare la riuscita dell’evento, la Questura s’attesta sulla metà del primo numero e i giornali fanno la media. Ieri però, alla cerimonia per la canonizzazione dei due Papi, è accaduta una cosa che ha messo in crisi questo tranquillo tran tran, antico come la Repubblica. Il sindaco Ignazio Marino, per dire, è partito altissimo, come si conviene a un evento che celebra due religiosi assunti in cielo: “Stimiamo che le presenza siano state almeno un milione e mezzo”. Confermava la Questura, un po’ attenuando: “Oltre un milione di persone”. Poi passavano quei precisini del Vaticano: “800 mila”. Dal che si deduce che la vera Questura, a questo giro, era quella dei preti.

Repubblica 29.4.14
Dai musei romani all’archivio centrale la beffa dello Stato che affitta a se stesso
di Francesco Erbani



ROMA. È UN paradosso. Ogni anno dalle esangui casse dei Beni culturali escono oltre 10 milioni di euro e finiscono nel portafoglio di Eur s.p.a., la società al 90 per cento del ministero dell’Economia e al 10 del Comune di Roma che gestisce il quartiere omonimo a sud della capitale. È il prezzo dell’affitto degli edifici che ospitano alcuni musei e l’Archivio centrale dello Stato, 110 chilometri di scaffalature in cui è depositata la memoria cartacea del Paese. Alcuni di questi edifici sono anche offerti in garanzia dei debiti che l’Eur, uno dei fulcri della “parentopoli” allestita dall’allora sindaco Gianni Alemanno, ha contratto per le sue operazioni immobiliari, fra le quali la “Nuvola” di Fuksas, che non si sa quando mai verrà finita, e la Lama, il palazzo a specchio che dovrebbe diventare un albergo e ancora si cerca chi mai potrà gestirlo.
Un pezzo dello Stato, uno dei più immiseriti, si svena per rimpinguare un altro pezzo dello Stato, appartenente quasi interamente al ministero di Pier Carlo Padoan. La vicenda romana è la più eclatante. Ma non è la sola nel dissestato panorama dei nostri beni culturali. Dal 2008, quando aveva già subito tagli mortificanti dal governo Berlusconi, il ministero di Dario Franceschini si trova oggi con un budget ridotto quasi del 30 per cento (da 2 miliardi a 1 miliardo e mezzo: dallo 0,28 per cento del bilancio dello Stato allo 0,19). E nonostante questo paga ogni anno 21 milioni soltanto per affittare le sedi di alcuni dei suoi 100 Archivi. Dove è collocato un materiale che si alimenta costantemente e che potrebbe crescere ancora se si attuerà il proposito di Matteo Renzi di depositare le carte secretate negli ultimi decenni.
L’Archivio centrale dello Stato paga all’Eur 4 milioni e mezzo. Il Museo dell’età preistorica Luigi Pigorini 3 milioni 600 mila. Il Museo delle Arti e delle Tradizioni popolari 1 milione 890 mila. Il Museo dell’Alto Medioevo, a rischio chiusura, 370 mila. Paradosso nel paradosso, i soldi vanno dal ministero per i Beni culturali all’Eur s.p.a. per «la realizzazione di grandi progetti di sviluppo immobiliare e valorizzazione urbanistica», come si legge negli obiettivi della società presieduta da Pierluigi Borghini, ex candidato sindaco del centrodestra, una società che esercita una specie di governatorato su un intero quartiere di Roma e che con soldi pubblici agisce come un operatore privato. Basti ricordare la vicenda del Velodromo, l’opera di Cesare Ligini fatta esplodere con la dinamite per realizzarci torri e palazzine, oppure il progetto di un faraonico acquario con galleria commerciale (entrambe le iniziative furono avviate con Veltroni sindaco). O, ancora, l’idea di un Gran Premio di Formula 1, con i bolidi che avrebbero sfrecciato fra i metafisici edifici di travertino bianco. L’idea, poi decaduta, era caldeggiata da Alemanno e dal suo uomo di fiducia Riccardo Mancini, ex militante di gruppi neofascisti, fino alla primavera del 2013 amministratore delegato dell’Eur (dove ha assunto molti “camerati”), poi finito in galera per tangenti.
La condizione dell’Archivio centrale è esemplare. I 4 milioni e mezzo (3.575.287,96 euro più Iva) gravano su una struttura in preoccupante disagio, con personale sempre più ridotto, avanti nell’età e che fa salti mortali per garantire un servizio essenziale. I depositi sono affetti da umidità e lo spazio è carente. A differenza di un museo, l’Archivio non stacca biglietti e l’unica fonte dalla quale recupera un po’ di quattrini sono le fotocopie. Lo scorso capodanno un migliaio di ragazzi si sono scatenati nei saloni dell’edificio al ritmo della elettro-house. Questo in virtù di una convenzione con una società, la Let’s go che, a pagamento, ha preso in gestione vasti spazi e ha organizzato iniziative che si fa fatica a conciliare con un Archivio: un paio di appuntamenti dell’allora Pdl o una mostra della Range Rover. Si sono sollevate molte proteste. E faceva tristezza vedere fino a che punto si è costretti a snaturare un patrimonio culturale pur di sopravvivere.
La storia si trascina da decenni. In origine l’Archivio centrale pagava all’Eur un canone di “concessione in uso”, in attesa che l’Eur fosse liquidato e il palazzo rientrasse nel patrimonio dello Stato. Il canone era di 62 milioni di lire, poi salito a 200 nel 1987, quando si trasformò in affitto a prezzi di mercato. L’effetto fu lo stratosferico innalzamento a 4 miliardi e 200 milioni. Nel 2000 l’Eur, invece di essere liquidato, in epoca di ubriacatura da privatizzazioni venne trasformato in s.p.a.. Ed eccoci arrivati ai 4 milioni e mezzo di oggi. Che erano oltre 5 milioni fino all’anno scorso, poi ridotti del 15 per cento dalla spending review di Monti.
Sul cosa fare ci si interroga da anni. Un’ipotesi è il trasferimento sia dell’Archivio, sia dei musei: operazione costosa. Un’altra soluzione, meno onerosa per il patrimonio culturale, sarebbe la demanializzazione degli edifici dell’Eur, cioè il passaggio allo Stato. Il che porterebbe l’Italia al livello di civiltà culturale degli altri paesi europei, dove l’Archivio centrale è uno dei luoghi simbolici di una nazione. Ma per questo è necessaria un’iniziativa politica. E poi, di questi tempi, demanializzare sembra una cattiva parola.

Corriere 29.4.14
«Potremmo abolire il test per Medicina»
«Il sistema dei test è da rivedere» Modello francese per Medicina
Il ministro: fuori chi non supera lo sbarramento a fine primo anno
di Orsola Riva


È il test più discusso del nostro sistema d’istruzione. E a metterlo in discussione è addirittura la ministra Stefania Giannini. La selezione per l’accesso a Medicina potrebbe cambiare. Giannini, in un’intervista al Corriere, confessa di preferire «il modello francese, un primo anno aperto a tutti con sbarramento finale: se passi gli esami ti iscrivi al secondo anno, altrimenti sei fuori». Riconosce che «il bilanciamento tra fabbisogno di camici bianchi e numero di laureati, è sacrosanto. Ma non è detto che il sistema dei test a risposta multipla sia il migliore».

Non c’è pace per il test di Medicina. Dopo lo psicodramma del bonus maturità l’anno scorso e la pessima performance dei ragazzi alla prova anticipata di aprile quest’anno, ora spunta l’ipotesi che in futuro il sistema vada completamente rivisto. A dirlo non sono le organizzazioni degli studenti ma — a sorpresa — il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini davanti alla platea degli studenti dell’Università di Foggia.
«Voglio essere chiara — spiega il ministro di ritorno a Roma —. La programmazione a Medicina, cioè il bilanciamento tra fabbisogno di camici bianchi e numero di laureati, è sacrosanta. Ma non è detto che il sistema dei test a risposta multipla sia il migliore. Penso al modello francese che prevede un primo anno aperto a tutti con sbarramento finale: se passi gli esami ti iscrivi al secondo anno, altrimenti sei fuori. Non è che così passare diventi più facile. Semplicemente si spalma la valutazione dalla prova di un singolo giorno ai risultati di un anno intero di studio».
Va detto che, giusti o sbagliati, i test finora hanno dimostrato di «funzionare». I corsi di laurea ad accesso programmato come Medicina restano il fiore all’occhiello di un sistema universitario che tende, invece, a fabbricare fuoricorso e perde per strada buona parte dei suoi iscritti (come certificato dall’ultimo rapporto Eurostat in cui l’Italia è maglia nera in Europa per numero di laureati). Per questo, dopo anni di tagli lineari (un miliardo dal 2009), l’ultima sforbiciata da 15 milioni risulta particolarmente odiosa. «Prima di tutto voglio chiarire — dice il ministro — che non si tratta necessariamente di soldi tolti all’università, ma di risparmi chiesti al ministero dell’Istruzione che troveremo il modo di non far pesare sugli atenei. Però aggiungo che mi confronterò presto con il ministro Padoan per chiedergli una necessaria inversione di rotta. Il governo dev’essere coerente con le proprie dichiarazioni. Se così non fosse sarebbe un problema». Per il governo o per la sua permanenza in esso? «Entrambe le cose. Siamo una maggioranza che ha il suo perché in quanto intende cambiare strutturalmente il Paese non solo sul lavoro ma anche sulla scuola».
Giannini ha in mente due cantieri programmatici che resteranno aperti fino a luglio. Il primo è quello sulla «valorizzazione della funzione docente: la rottura di una visione monolitica del corpo insegnante, dove non importa quello che fai, l’impegno che ci metti, perché non sono previsti avanzamenti di carriera né scatti di stipendio se non quelli legati all’anzianità di servizio». Un patto al ribasso: ti do poco perché ti chiedo poco. «E invece no — dice il ministro —. Se vogliamo una scuola di qualità bisogna poter premiare il merito dei singoli prof. Ci sono i test Invalsi che misurano i risultati delle scuole, ma penso anche al modello anglosassone basato sulle visite degli ispettori e al coinvolgimento dei dirigenti scolastici». La posta in gioco è alta, altissimi anche i rischi: come mettere in relazione il rendimento dei ragazzi al singolo docente anziché alla scuola e al suo contesto, come evitare che si scateni la guerra di un prof contro l’altro e di tutti contro il dirigente? Giannini si dice fiduciosa. Intanto, in un’ottica di concertazione, il ministro procederà subito alla firma dell’atto di indirizzo che sblocca gli scatti per il 2012. Poi ha pronto il decreto per l’aggiornamento triennale delle graduatorie di istituto, quelle da cui si pescano i supplenti annuali e brevi: un occhio di riguardo verrà dato ai giovani neo abilitati con i tirocini formativi attivi che «avranno un pacchetto di punti in più per valorizzare il loro percorso». Infine annuncia un nuovo concorso da 17 mila posti per il 2015 (fatto salvo l’assorbimento degli oltre 11 mila vincitori del concorso del 2012).
E il secondo cantiere della scuola? «Punta al rilancio dell’istruzione tecnica e della formazione professionale — spiega Giannini —. Abbiamo intenzione di aprirlo a figure esterne al ministero, in particolare ai rappresentanti del mondo imprenditoriale». Il problema è quello, noto, del disallineamento fra la formazione scolastica dei ragazzi e le competenze richieste dalle aziende. Ma per far ripartire gli istituti tecnici e professionali prima, forse, bisognerebbe lavorare sulle scuole medie che mandano i più bravi al liceo e i più «asini» (o solo i meno fortunati) li condannano alla formazione professionale...

La Stampa 29.4.14
Miss Italia apre alle nuove italiane
Svolta nel concorso. Possono iscriversi le ragazze con genitori stranieri che vivono nel nostro Paese da almeno 18 anni (anche se non hanno la cittadinanza)

qui

La Stampa 29.4.14
Così Google sa tutto di noi
Siti web, email, video, smartphone e tablet: ecco le tracce che lasciamo ogni giorno. E che negli archivi di Mountain View rimangono per cinque anni
di Antonino Caffo

qui

Corriere 29.4.14
I Greci e noi, in viaggio per scoprire
Omero ed Erodoto: due modi contemporanei di guardare l’altro
Utet pubblica Ippopotami e sirene della giurista e antichista Eva Cantarella
di Nuccio Ordine


«Pensa a Itaca, sempre,/ il tuo destino ti ci porterà./ […]Non sperare ti giungano ricchezze:/ il regalo di Itaca è il bel viaggio,/ senza di lei non lo avresti intrapreso./ Di più non ha da darti./ E se ti appare povera all’arrivo,/ non t’ha ingannato./ Carico di saggezza e di esperienza/ avrai capito un’Itaca cos’è»: questi bellissimi versi di Constantinos Kavafis mostrano, a distanza di secoli, come il mito di Itaca e di Ulisse continui ancora a far vibrare le corde del cuore di poeti e di lettori.
Certo, le peregrinazioni dell’eroe omerico narrate nell’Odissea hanno rappresentato uno dei modelli costitutivi della letteratura occidentale: metafora della conoscenza, dell’esplorazione dell’ignoto, dell’incontro con l’«altro», dell’autonomia della coscienza, dell’autodeterminazione, della sfida del limite, della punizione divina, il viaggio — attraverso il movimento continuo delle strutture linguistiche e narrative — ha finito anche per diventare esso stesso immagine della scrittura letteraria.
Alle avventure cantate da Omero e alle esplorazioni «antropologiche» di Erodoto, ha dedicato recentemente un bel libro Eva Cantarella (Ippopotami e sirene. I viaggi di Omero e di Erodoto , Utet). Studiosa di fama internazionale, i suoi saggi sul mondo antico sono stati tradotti in varie lingue, ci offre ora, con la sua consueta chiarezza, un affascinante itinerario in sette capitoli, dove l’Odissea e le Storie vengono analizzate alla luce dei numerosi racconti elaborati dai due grandi autori, l’uno padre dell’epica e l’altro della storiografia.
Alla lettura comparata dei due testi, balzano subito agli occhi le differenze. Omero fa del viaggio uno strumento per marcare il divario tra la civiltà greca e la barbarie degli altri popoli: Polifemo rappresenta una socialità pre-politica, priva di valori religiosi, dove mancano leggi e assemblee e dove è assente l’agricoltura; Circe e Calipso (entrambe dedite al canto e alla tessitura) incarnano modelli femminili negativi fondati sull’inganno, che nulla hanno a che vedere con le virtù greche della moglie, della madre e della sorella; i Lotofagi esemplificano il rischio di perdere nei paesi stranieri la memoria della propria patria (mangiare il loto significava, infatti, «scordare il ritorno»).
Per Erodoto — nato in Asia Minore, probabilmente da padre persiano e madre greca — il viaggio diventa, invece, occasione di confronto con l’«altro» (con coloro che Greci non sono), senza aver paura di riconoscere i «debiti» contratti con le culture vicine: le descrizioni di Babilonia, per esempio, o le riflessioni sulla regina Nitocri o su Artemisia mostrano una sincera simpatia per alcuni aspetti della vita politica di questi popoli stranieri; le pagine dedicate agli animali conosciuti (i gatti) o a quelli sconosciuti (coccodrilli e ippopotami) rivelano un’attenzione per le tradizioni locali e per gli stretti legami intessuti con i riti religiosi; e, perfino, nella vendita all’asta delle mogli, l’autore riesce a cogliere gli aspetti positivi di una legislazione che pensava anche alla sopravvivenza delle donne brutte e storpie (i soldi ricavati, infatti, dalla vendita delle future consorti più belle andavano in dote a coloro che sposavano quelle destinate a restare senza marito).
Dal raffronto tra i testi omerici e le Storie , insomma, appaiono due cartografie diverse dei viaggi: Omero, lasciando da parte le tanto discusse questioni sui possibili riferimenti a luoghi del Nord Europa, naviga in Occidente, tra la Sicilia e le coste tirreniche dell’Italia, e in Oriente, lungo le coste dell’Anatolia; mentre Erodoto esplora i territori dell’Iran orientale, del nord del Mar Nero, il basso Nilo e l’Africa. Ma appaiono, soprattutto, due concezioni pedagogiche opposte dell’ignoto: se per l’epos l’avventura tra popoli sconosciuti è destinata a compiersi nel «ritorno» (nostos), per il racconto dello storico si concretizza, al contrario, in acute riflessioni sulla grandezza del mondo e sulle diverse culture delle genti che lo abitano.
Le pagine di Eva Cantarella invitano, a loro volta, a far viaggiare il curioso lettore tra luoghi reali e immaginari. E solo alla fine del libro si capirà che altri viaggi ci aspettano perché, come ricordava T. S. Eliot, ogni «finire è cominciare».

Corriere 29.4.14
Errori e declino dell’impero americano All’Europa unita serve una «terza via»
Nuovi attori come Cina e Brasile e il ritorno russo cambiano gli scenari
Il saggio di Sergio Romano che esce domani da Longanesi analizza perché gli Stati Uniti non sono più il «gendarme del mondo»
di Massimo Gaggi


C’era una volta un impero americano alquanto pasticcione e piuttosto ipocrita nel suo presentarsi come una forza del bene, una nazione di eletti, ma comunque capace di garantire la sostanziale tenuta dell’ordine internazionale uscito dalla Seconda guerra mondiale. Beh, scordatevelo: la superpotenza vive una stagione di irrimediabile declino non solo perché non è più in grado di funzionare da gendarme del mondo (e, probabilmente, non vuole nemmeno più esserlo), ma anche perché sta perdendo alcuni degli alleati più importanti sul piano strategico, dall’Arabia Saudita al Pakistan, mentre vacilla anche il rapporto con Israele.
L’egemonia di Washington è minacciata, certo, dalla crescita della potenza cinese e dal risorgente imperialismo russo, ma nell’analisi di Sergio Romano, che pubblica con Longanesi un nuovo libro, Il declino dell’impero americano , un colpo ancor più duro alla «leadership» a stelle e strisce lo assestano alcuni Paesi che stanno passando dal ruolo di fedeli alleati degli Usa a quello di potenze regionali che giocano in proprio trasformando quelli che fino a ieri erano patti d’acciaio in rapporti utilitaristici: la Turchia è, ormai, una potenza che gioca in proprio, a cavallo tra Medio Oriente e Asia Centrale. Con la sua dirompente forza economica il Brasile ormai domina un’America Latina che ha smesso da tempo di essere il «cortile di casa» degli Stati Uniti (con l’eccezione, forse, del Messico). In Medio Oriente, ormai, Arabia Saudita ed Emirati si sono sganciati, indispettiti dai tentativi di Obama di disinnescare l’atomica iraniana, ridando, così, un ruolo internazionale al regime sciita di Teheran. Perfino il Giappone che, privo di un grosso apparato difensivo e di armi nucleari, ha un disperato bisogno dell’ombrello militare americano per difendersi dalla minaccia cinese, comincia a diffidare dell’impegno di Washington e stringe nuovi rapporti con la Russia: una sorta di contratto di riassicurazione, nelle parole di Romano.
Grande assente, per ora, l’Europa, divisa e incerta sul da farsi. E che, pur avendo un enorme patrimonio di interessi comuni con gli Usa (l’autore cita economia, finanza, ricerca scientifica, lotta al terrorismo e alla criminalità internazionale, ma non i valori comuni di libertà, democrazia, tutela dei diritti civili), sarà più utile a Washington se assumerà il ruolo di «terza forza» in un mondo multipolare, anziché accompagnare e assecondare l’America nel suo declino imperiale.
Un saggio breve, agile, di facile lettura quello nel quale Sergio Romano tratteggia le nuove incognite di un quadro internazionale sempre più complesso e difficilmente governabile, sulla base della straordinaria esperienza accumulata nelle sue due carriere: quella di ambasciatore (ha rappresentato, tra l’altro, l’Italia alla Nato e a Mosca) e quella di storico, analista e commentatore politico. La crescente ingovernabilità del quadro internazionale che Barack Obama — e prima di lui Bill Clinton — spiega con l’inevitabile evoluzione di un mondo sempre più interconnesso e multipolare, nell’analisi di Romano è in buona parte attribuibile agli errori commessi dagli Stati Uniti da quando, con la caduta del blocco sovietico, hanno acquisito lo status di unica superpotenza mondiale.
Non che il libro sia tenero nel descrivere gli anni precedenti la caduta del Muro di Berlino. Il pensiero dell’ambasciatore, per nulla convinto che gli Usa siano stati una nazione eletta, oltre che indispensabile, con la missione di difendere libertà a diritti civili, oltre che la pace e lo sviluppo del traffici commerciali, è ben noto. E così nel 1956, durante la crisi di Suez (quando Francia e Gran Bretagna, insieme a Israele, cercarono di occupare il Canale) «gli americani negarono il loro aiuto al colonialismo europeo per prenderne il posto». Mentre anche nel Vietnam — dopo aver negato un aiuto ai francesi, costretti ad abbandonare l’ultimo grande avamposto di un’era coloniale ormai al crepuscolo — l’America sarà spinta dalle sue ambizioni imperiali a combattere una guerra (persa) contro i comunisti del Nord.
In questi giorni segnati dal conflitto in Ucraina e dalle ambizioni neoimperialiste di Vladimir Putin è interessante rileggere nelle pagine di Romano i tratti essenziali di quella che, per il presidente russo, è la maggiore disgrazia del ventesimo secolo: la dissoluzione dell’Unione Sovietica. La lungimiranza delle aperture democratiche di Gorbaciov, i suoi sforzi riformatori, ma anche l’incapacità di capire che «perestroika» e «glasnost» avrebbero inevitabilmente fatto implodere l’impero comunista fino alla dissoluzione dell’Urss della quale, scrive Romano, George H. W. Bush, nel frattempo succeduto a Reagan alla Casa Bianca, avrebbe fatto volentieri a meno: «Felice di avere a che fare con un Paese più debole e quindi meno aggressivo, Bush preferiva trattare con un solo Stato piuttosto che con una disordinata brigata di repubbliche litigiose e instabili».
Lo sguardo sulla Russia alla luce della crisi ucraina è forse la parte più interessante del libro, assieme all’analisi della nuova strategia americana che punta a mantenere la sua «leadership» strategica mondiale e ad alimentare la lotta al terrorismo sostituendo l’integrazione anche militare con alleati ormai traballanti con la tecnologia dei droni e dei centri d’ascolto che filtrano tutte le conversazioni del Pianeta.
Se tutto l’Occidente, non solo l’America, accusa Putin di aver compiuto un atto intollerabile che stravolge le regole della convivenza internazionale aggredendo un Paese indipendente, Romano, che certo non sottovaluta la gravità di quanto sta avvenendo, espone un punto di vista diverso: per lui sono gli Stati Uniti ad avere «una memoria selettiva ricordando solo ciò che giova ai loro interessi». Nelle ultime pagine del libro la crisi ucraina — il presidente Yanukovich che preferisce un patto con la Russia all’accordo con l’Unione Europea, la sollevazione popolare col Parlamento di Kiev che depone il presidente (per l’autore è un colpo di Stato), l’intervento di Mosca — viene paragonata a quella cubana del 1962. Quando, in piena «guerra fredda», gli Usa reagirono con un blocco navale al tentativo sovietico di costruire basi missilistiche nell’isola caraibica, a poche decine di miglia dalle coste degli Stati Uniti.
Un paragone audace, difficile da condividere, ma certamente Romano descrive con efficacia alcuni errori di sottovalutazione commessi dagli Usa e dall’Europa quando hanno allargato la Nato a gran parte dei Paesi dell’ex blocco sovietico fino ad arrivare a un passo dall’associare Georgia e Ucraina. Sviluppi che, magari accettabili nel clima di collaborazione dell’inizio del nuovo secolo (nel 2002 a Pratica di Mare lo stesso Putin siglò una partnership Russia-Nato), sono diventati per Mosca assai più sospetti dopo il lancio da parte di George W. Bush di un nuovo programma di difesa antimissilistica: presentato come uno scudo contro la minaccia dell’Iran o di nuovi Stati-canaglia, ma probabilmente concepito avendo in mente anche (o soprattutto) i missili balistici russi.

l’Unità 29.4.14
L’Egitto di Al Sissi seppellisce la Primavera
Condannati a morte 683 islamisti, tra loro la guida spirituale dei Fratelli musulmani
Al bando il Movimento 6 aprile che guidò le proteste di Tahrir
Nel mirino i ragazzi che animarono le proteste anti-Mubarak, accusati di cospirare contro il Paese
di Umberto De Giovannangeli


Quasi settecento condanne a morte, in un processo frettoloso e pieno di ombre. Non potrebbe essere più brutale il tentativo di cancellare la stagione della Fratellanza musulmana, incarnata dalla breve parabola di Morsi. Le sentenze capitali contro i suoi sostenitori cadono nello stesso giorno della messa al bando degli eroi di Piazza Tahrir. I giovani che avevano ispirato, e incarnato negli ideali, la rivolta popolare che portò alla caduta del regime dell’«ultimo faraone» Hosni Mubarak, i ragazzi del «Movimento 6 Aprile». Avevano lottato per la libertà e la giustizia. Assieme ai loro coetanei della «rivoluzione jasmine» tunisina, avevano dato corpo e anima alle «Primavere arabe». Ieri eroi, oggi criminali. Da mettere fuorilegge. Come è stato per i Fratelli musulmani. Nell’Egitto del generale-presidente (in pectore), Abdel Fattah al-Sissi, per loro non c’è posto, se non nelle carceri. Sono passati tre anni dai giorni che portarono alla caduta di Mubarak. Tre anni dopo, i venti di libertà non spirano più nel Paese delle piramidi. Il marchio del presente è quello della restaurazione.
GIRODI VITE
Quelli del «6 Aprile» per i militari al potere sono oggi dei pericolosi sovversivi. Come lo è diventato il premio Nobel per la pace, Mohammed El Baradei, costretto da mesi a rifugiarsi a Vienna. Secondo una Corte egiziana, gli attivisti del «6 Aprile» diffamano il Paese e sono collusi con forze straniere. Il tribunale ha chiesto al presidente ad interim egiziano Adly Mansour, al premier Ibrahim Mahlab, al ministro dell’Interno Mohamed Ibrahim, al titolare della Difesa, il generale Sedki Sobhi e al procuratore generale Hisham Barakat, di vietare tutte le attività politiche del «6 Aprile, la chiusura dei suoi uffici e l’organizzazione di dibattiti e manifestazioni. Il movimento è accusato di spionaggio e di avere commesso atti che hanno danneggiato l’immagine dello Stato egiziano. Lo scorso 7 aprile, un altro tribunale cairota aveva respinto il ricorso in appello di tre attivisti del movimento, Ahmed Maher, Mohamed Adel e Ahmed Douma, tra i protagonisti, della protesta di piazza Tahrir. Il 22 dicembre 2013, per aver violato la legge che impone il divieto di manifestare senza prima averne fatta esplicita richiesta alle autorità competenti, i tre erano stati condannati a tre anni di carcere e al pagamento di una multa di 5mila euro. L’accusa era, appunto, quella di aver organizzato una manifestazione non autorizzata durante le rivolte anti-Mubarak. Secondo quanto scrive l’agenzia ufficiale Mena, il coordinatore generale del movimento, AmrAli ha dichiarato che la sentenza è «debole», perché tutte le attività del movimento sono pacifiche. Alì ha poi aggiunto che il «6 Aprile» continuerà le sue attività e si esprimerà nella maniera che riterrà più adeguata.
TERRORIZZARE L’OPPOSIZIONE
La restaurazione per via giudiziaria non conosce soluzione di continuità. Ieri la Corte d’assise di Minya, in Alto Egitto, ha condannato a morte 683 pro-Morsi, tra cui la guida spirituale Mohamed Badie, nell’ambito del processo contro oltre 1200 sostenitori della confraternita. La sentenza passerà ora al vaglio dei Gran Mufti, come già accaduto con i primi 529 condannati a morte dalla stesso tribunale il 24 marzo. La guida suprema della Fratellanza Mohammed Badie e gli altri imputati sono stati ritenuti colpevoli di aver attaccato una stazione di polizia e di aver ucciso un agente di polizia il 14 agosto scorso - dopo la dispersione dei raduni dei pro-Morsi al Cairo. La stessa corte ha ieri commutato in ergastolo la pena capitale a 492 pro Morsi dei 529 condannati a marzo. La Corte di Minya in Alto Egitto ha fissato al prossimo 21 giugno, dopo aver ricevuto il parere del Gran Mufti, la data in cui verrà emesso il verdetto finale nei confronti dei 683 sostenitori dei Fratelli musulmani, condannati oggi.
La legge egiziana permette comunque un appello per la sentenza, scrive il sito in inglese del quotidiano al Ahram. Le organizzazioni per i diritti umani hanno espresso preoccupazione per le condanne di massa di oppositori al regime militare. «Sono le più vaste condanne a morte nella storia recente», ha sottolineato la direttrice esecutiva di Human Rights Watch per il Medio Oriente e il Nord Africa, Sarah Leah Whitson, «sembra che queste sentenze abbiano l’obiettivo di provocare terrore in coloro che si oppongono al governo ad interim». Intanto i legali dei 37 Fratelli musulmani a cui oggi la stessa corte di Minya ha confermato la pena capitale hanno annunciato che ricorreranno in Cassazione.

La Stampa 29.4.14
Le principesse in video: “Re Abdullah ci tiene recluse”
di Maurizio Molinari


Quattro principesse vivono da 13 anni recluse nel palazzo reale di Gedda e hanno deciso di affidarsi ad alcuni video amatoriali per sfidare chi le ha imprigionate: il padre Abdullah, re dell’Arabia Saudita.
Le recluse sono Sahar, Maha, Hala e Jawaher Al Saud, tutte figlie di Alanoud Al Fayez, moglie giordana del sovrano wahabita, esule da oltre vent’anni a Londra. È stata proprio la madre a rompere il silenzio, a inizio marzo, con un’intervista tv a «Channel 4» nella quale svelava di aver «subito il divorzio» a causa «del disprezzo di Abdullah nei miei confronti, colpevole di avergli dato solo figlie femmine».
Fuggì così in Gran Bretagna dove «13 anni fa» seppe che le quattro ragazze erano state «confinate nel palazzo reale di Gedda». Poche settimane dopo questa denuncia, in coincidenza con l’arrivo a Riad del presidente Usa Barack Obama, la figlia maggiore Sahar - 42 anni - ha girato con una webcamera il primo video, confermando la «vita da reclusa nel palazzo», da dove «è impossibile uscire». Le uniche visite ammesse, assicura la madre, sono di «componenti maschi della famiglia reale che percuotono le mie figlie».
Nel nono anniversario del regno paterno, Sahar ha rincarato la dose, con un nuovo video: «Siamo detenute e solidali con i prigionieri politici sauditi» afferma, paragonandosi a Nimr al-Nirm, l’imam arrestato perché protagonista di una campagna per il rilascio degli oppositori. La reazione di Riad arriva dall’ambasciata a Londra: «È una questione privata» e con la politica non c’entra.

l’Unità 29.4.14
Kerry: «Israele rischia di diventare Stato d’apartheid»
Il capo della diplomazia Usa avverte Netanyahu: nessuna alternativa a «due popoli due Stati»
di U.D.G.


Israele rischia di diventare uno Stato in cui vige l’apartheid. A sostenerlo non è un ayatollah di Teheran né un affiliato ad Hamas. A lanciare il grido d’allarme è il segretario di Stato Usa, John Kerry, durante un incontro a porte chiuse con la «Commissione Trilaterale», think tank non governativo fondato nel 1973 su iniziativa di David Rockefeller. «Ribadiremo la soluzione dei due Stati come l’unica vera alternativa. Perché uno Stato unitario finisce per essere uno Stato in cui vige l’apartheid, con cittadini di seconda classe, oppure uno Stato che nega a Israele la capacità di essere uno Stato ebraico», ha detto Kerry, secondo quanto riferiva ieri The Daily Beast.    
PERICOLO CONCRETO
Il capo della diplomazia Usa ha comunque insistito sul non considerare come «morti» i negoziati di pace, nonostante le ultime dichiarazioni del premier israeliano Benjamin Netanyahu, secondo il quale i colloqui si sarebbero del tutto interrotti in seguito all’accordo che il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen) ha siglato con Hamas.
Il riferimento all’apartheid era stato esplicitato in una intervista a l’Unità, da uno dei simboli, assieme a Nelson Mandela, della lotta contro il regime segregazionista in Sudafrica: Desmond Tutu. «In Sudafrica hanno cercato di ottenere la sicurezza dalla canna del fucile. Non l'hanno mai avuta. Perché la sicurezza per una parte non può essere realizzata sulla sofferenza, l’umiliazione, le punizioni collettive inflitte ad un’altra parte della popolazione o a un popolo che rivendica la propria libertà e autodeterminazione. È una lezione della storia di cui Israele dovrebbe far tesoro. Purtroppo ancora non è così», aveva rimarcato il Premio Nobel per la Pace. Che raccontò così ciò che aveva visto in un viaggio in Cisgiordania. Nel chiedergli cosa l’aveva più colpito, l’arcivescovo emerito della Chiesa anglicana aveva risposto: «I check-point. Sono centinaia e spezzano la Cisgiordania in mille frammenti territoriali. Quei check- point, assieme al Muro, isolano villaggi, spezzano comunità; quei check-point sono l’espressione di un dominio che segna la quotidianità di decine di migliaia di palestinesi. Li prostra, li umilia. Essi mi riportano indietro nel tempo, al Sudafrica dell’apartheid». Non solo Tutu. «Le politiche di Israele nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania equivalgono all’apartheid», il grave e documentato j’accuse è contenuto nelle 22 pagine del rapporto sui Territori palestinesi redatto da Richard Falk, l’accademico americano inviato speciale delle Nazioni Unite. Il motivo è che «i diritti dei palestinesi nei Territori vengono violati da Israele che da un lato prolunga l’occupazione in Cisgiordania e dall’altro pratica la pulizia etnica a Gerusalemme Est». A Gaza invece, afferma il rapporto di Falk (febbraio 2014), «l’intera Striscia resta occupata, nonostante il ritiro di Israele nel 2005, grazie ad un blocco terrestre, aereo e marittimo che nuoce in primo luogo ad agricoltori e pescatori». Da qui il suggerimento di Falk agli Stati membri dell’Onu di «imporre il bando totale alle importazioni da Cisgiordania e Gaza» con un particolare appello all’Europa «perché resta il partner commerciale più importante per Israele». In un capitolo ad hoc, Falk si sofferma su alcune «politiche stile-apartheid» come il fatto di «applicare il diritto civile nei confronti degli abitanti degli insediamenti e quello militare verso i palestinesi». Oppure «l’effetto combinato di misure che proteggono i cittadini israeliani, facilitano le loro aziende agricole, espandono gli insediamenti e rendono la vita impossibile ai palestinesi».
«Se non si favorisce una pace fondata sulla soluzione “due Stati”, allora Israele dovrà istituzionalizzare l’occupazione dei Territori, e ciò significa disgregare le base democratiche dello Stato e codificare un regime di apartheid. Questa sì sarebbe la morte del sionismo », rimarca a sua volta Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare laburista, figlia dell’eroe della Guerra dei sei giorni: il generale Moshe Dayan.

Repubblica 29.4.14
La “profezia” di Kerry “Apartheid in Israele”


WASHINGTON  Se non ci sarà un accordo di pace, Israele rischia di diventare uno stato con un sistema di apartheid come quello famigerato del Sudafrica. È l’opinione del segretario di Stato americano John Kerry, espressa secondo il Daily Beast durante un incontro a porte chiuse con esperti americani, europei, russi e giapponesi della Commissione Trilaterale. Il paragone, in passato respinto dal presidente Obama, è considerato molto irritante per gli israeliani. Kerry ha spiegato che se le parti non si metteranno d’accordo, potrebbe lui stesso proporre un piano «da prendere o lasciare». In questo piano, ha aggiunto, «la soluzione con due stati verrà evidenziata come unica vera alternativa. Perché un unico stato finirebbe per diventare uno stato caratterizzato dall’apartheid, con cittadini di serie B, oppure distruggerebbe la possibilità per Israele di essere uno stato ebraico».

La Stampa 29.4.14
Abu Mazen chiede aiuto alla Nato
L’Anp vuole un ruolo forte per l’Occidente. Perché?
di Maurizio Molinari


«Vado avanti, non mi fermo». Nell’ufficio al terzo piano della Muqata a Ramallah, il presidente palestinese Abu Mazen è teso in volto, parla con tono deciso. Vuole trasmettere, ai propri consiglieri come agli ospiti stranieri, la determinazione a portare a termine l’accordo di unità nazionale con Hamas. Usa e Ue gli chiedono di spingere Hamas a riconoscere Israele ma Abu Mazen, ricevendo Nichi Vendola leader di Sel, liquida la questione senza perifrasi: «Israele ha già trattato con Hamas, hanno fatto un accordo sul cessate il fuoco a Gaza attraverso Hillary Clinton, quando era Segretario di Stato, chiedete a lei». È una maniera per rilanciare la palla nel campo degli americani, puntando ad allentare la pressione di Washington. E sempre così si spiega l’altro concetto sul quale si sofferma Abu Mazen: «Siamo pronti a ricevere la Nato». Ovvero, per rassicurare Israele sulla sicurezza i palestinesi vedono con favore lo schieramento di truppe atlantiche lungo la Valle del Giordano. Invocare l’arrivo della Nato si lega alla svolta della posizione palestinese sul negoziato, favorevole a un sempre maggiore coinvolgimento dei fori internazionali in Medio Oriente: dopo l’adesione a 13 Trattati e organizzazioni dell’Onu, Ramallah si accinge a presentare 60 richieste al Palazzo di Vetro e Hanan Ashrawi, veterana dei negoziati auspica un «maggiore coinvolgimento dell’Ue». La convinzione di Abu Mazen è di poter far leva sulla legittimità di Stato garantita alla Palestina dal voto dell’Assemblea Generale dell’Onu per rivendicare sul terreno - in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est - un progressivo riconoscimento dei diritti degli abitanti palestinesi per «scardinare dal di dentro il sistema dell’occupazione» come afferma uno dei negoziatori, chiedendo l’anonimato. È questa strategia che spiega i sempre più frequenti richiami al leader sudafricano Mandela da parte di attivisti palestinesi come Fadwa Barghouthi, moglie di Marwan, l’ex capo dei Tanzim condannato a quattro ergastoli da Israele per il ruolo avuto nella Seconda Intifada. E John Kerry avvalora tale scenario ammonendo Israele sul rischio di essere additato come «Stato dell’apartheid» a causa del mancato rispetto dei palestinesi. Abu Mazen è convinto che la battaglia «sui diritti» nei fori internazionali è destinata ad essere più efficace grazie all’intesa con Hamas. Da qui l’urgenza di concordare la composizione del nuovo esecutivo di «tecnocrati».



La Stampa 29.4.14
Un’irachena alla Nasa
Velo e tacchi a spillo
Con Layla le Hipster indossano il hijab
La giovane ha creato il manifesto delle «Mipsterz»
di Nadia Ferrigo

qui

Corriere 29.4.14
In una scuola cattolica di Leeds
Uccisa a coltellate da un alunno in classe


Un’insegnante è stata accoltellata a morte in classe al Corpus Christi Catholic College, una scuola superiore cattolica di Leeds, Inghilterra del Nord. Il sospetto assassino è uno studente quindicenne, subito arrestato dalla polizia. Il delitto è stato commesso ieri mattina di fronte ai compagni di classe del presunto omicida. Anne Maguire (nella foto sotto) , 61 anni, è stata uccisa sul posto di lavoro, dopo 40 anni di carriera in cui era diventata una beniamina degli alunni. «Non posso credere che sia morta in questo modo — ha detto una studentessa —. Era una donna splendida, severa, ma in modo buono». Anche se le circostanze della sua morte non sono ancora chiare, gli investigatori stanno cercando di capire come sia stato possibile introdurre un coltello in quell’istituto. «I coltelli non sono permessi all’interno del College. Nemmeno ai corsi di cucina i ragazzi possono usare quelli affilati», ha riferito al Guardian Lidia Franco, che sino all’anno scorso lavorava nella scuola. La polizia del West Yorkshire si è affrettata a dire che si è trattato di un «episodio isolato». Ma il fatto sta avendo forti ripercussioni a livello nazionale. Il premier David Cameron lo ha definito «raccapricciante». «Il pensiero va ai parenti della vittima e all’intera comunità scolastica, di sicuro sotto shock», ha aggiunto. Intanto su Twitter vengono lasciati da colleghi e studenti messaggi di cordoglio per la signora Maguire. Era «una grande professoressa», era «straordinaria», «una amica» sono le parole più ricorrenti. Fin dal pomeriggio di ieri, di fronte ai cancelli della scuola molti hanno portato mazzi di fiori. Per trovare un precedente alla morte di Anne Maguire si deve risalire al 1995, quando Learco Chindamo, un ragazzo di 16 anni di padre italiano e madre filippina, uccise con una coltellata al cuore il preside di una scuola londinese, Philip Lawrence, di 48 anni.

l’Unità 29.4.14
Il caso letterario
La mia Resistenza
È nato un nuovo scrittore: Giulio Questi, 90 anni
Uomini e comandanti è un libro pieno di ricordi limpidissimi L’autore, partigiano ma anche regista e attore: «Ho sempre sentito il bisogno di mantenere viva la memoria»
di Alberto Crespi


FRA UN ANNO ESATTO IL 25 APRILE «COMPIRÀ» 70 ANNI, E CHIUNQUE ABBIA COMBATTUTO NELLA RESISTENZA SARÀ VICINO AI 90, SE NON OLTRE. L’idea di scoprire, oggi, una nuova voce capace di raccontare quei giorni accoppiando la profondità della memoria alla forza dello stile potrebbe sembrare pura utopia. Eppure è successo. Il volume di racconti Uomini e comandanti, pubblicato in questi giorni da Einaudi (190 pagine, 18 euro), è a tutti gli effetti una rivelazione, forse «la» rivelazione letteraria dell’anno. Lo scrittore ha, appunto, 90 anni ed è venuto allo scoperto solo ora. Ma dal punto di vista, diciamo così, «esistenziale» la rivelazione è tale solo per chi non lo conosceva.
Giulio Questi –di lui stiamo parlando – è un regista cinematografico e televisivo che i lettori dell’Unità conoscono bene. Ha diretto tre lungometraggi (Se sei vivo spara, La morte ha fatto l’uovo, Arcana), una consistente mole di telefilm (alcuni sceneggiati con una ex firma di questo giornale, David Grieco) e alcuni cortometraggi, raccolti nella silloge By Giulio Questi (dvd edito da Ripley) che nel tempo sono diventati veri e propri oggetti di culto. È stato anche, in casi isolati e abbastanza eccentrici, un attore: lo si vede in La dolce vita di Fellini (è il nobile che balla guancia a guancia con Nico, futura cantante dei Velvet Underground) e in Signore e signori di Germi. Gli amici sapevano da sempre che Giulio, da ragazzo, aveva militato in diverse formazioni partigiane sulle montagne sopra Bergamo, la città dov’è nato e cresciuto. Alcuni di loro avevano sentito i suoi racconti orali su quell’esperienza; e pochissimi, più cari di altri, avevano avuto l’onore di leggere alcuni racconti scritti nel corso degli anni e «pubblicati» in un’edizione squisitamente casalinga: «Ho cominciato a scrivere sulla Resistenza subito dopo la fine della guerra – ci dice Questi – e nel ’47 un mio racconto, La cassa, fu pubblicato sul Politecnico di Vittorini. Ho continuato nel corso degli anni, ma solo per mantenere viva la memoria dentro di me: scrivevo per me stesso. Quei due inverni in montagna, tra i 19 e i 20 anni (Questi è del ’24, ndr), sono stati il mio romanzo di formazione: ho sempre sentito il bisogno di non perdere quei ricordi. Poi, un giorno, ho scoperto il computer».
Piccolo passo indietro: Questi non ha mai smesso di essere un esploratore, nell’arte e nella vita. L’altro suo romanzo di formazione, dopo la guerra partigiana, è stato il periodo in Colombia, dove ha conosciuto Gabriel García Marquez (in Uomini e comandanti è protagonista dell’ultimo racconto, intitolato Caribe) ed è vissuto tra gli indios, in condizioni estreme che gli ricordavano proprio gli inverni trascorsi in montagna. Come regista, è rifiorito con la scoperta della videocamera digitale. Il computer, per lui, è invece un prezioso strumento mnemonico: «Potevo tenere i racconti tutti insieme, modificarli, impaginarli, stamparli. Sono diventato un virtuoso del copia & incolla. Le prime copie dei racconti le ho fabbricate letteralmente io, con tanto di colla riga e taglierino, e le ho regalate. Una è finita all’Istituto della Resistenza di Bergamo, diretto da uno storico che poi è diventato mio amico, Angelo Bendotti (firma la postfazione del libro, ndr). L’hanno letta prima Giovanni De Luna, poi Sergio Luzzatto. È stato lui a portarli da Einaudi, gliene sarò sempre grato, lo ringrazio pubblicamente anche se non ho ancora avuto modo di incontrarlo, succederà. Il giorno che mi hanno telefonato da Einaudi per propormi la pubblicazione pensavo ad uno scherzo».
Altro che scherzo: il libro ora esiste, ed è un libro straordinario. Non solo per la vivida forza degli eventi raccontati, quasi tutti visti e vissuti di persona. Ma per lo stile. Questi scrive benissimo, con una limpidezza scabra degna di Calvino (e lontana, per immediatezza, dallo stile espressionista di Fenoglio, che pure adora). Di più: Questi scrive meglio oggi di allora. Il racconto che apre il volume– Il roccolo – è del 1990 ed è incredibilmente più potente di La cassa (1947) o di Tre volontari(1949), i più antichi. Il «roccolo» – i non lombardi sono autorizzati a non saperlo – è una struttura costruita per l’aucupio, che a sua volta è la caccia a uccelli di piccola taglia con uso di richiami detti «zimbelli». Solitamente è una sorta di piccola torre, circondata da alberi e posizionata in una radura. Nel brevissimo racconto (9 pagine) è l’estremo rifugio di un partigiano in missione, che vi si rifugia per la notte credendolo disabitato. Invece vi trova un montanaro selvaggio che vive assieme a una quantità industriale di uccelletti chiusi in gabbia (i richiami, appunto).
La mattina dopo, prima che il partigiano se ne vada, l’uomo mette in atto la sua strategia: cattura un nugolo di storni, un altro di crocieri; scende nella radura, li toglie dalle reti e in modo metodico, come espletando un compito ancestrale, li uccide uno per uno schiacciando loro la testa con le dita. Disgustato da tanta brutalità, il giovane partigiano riparte e porta alla brigata la triste missiva di cui è latore: la condanna a morte di tre (presunti?) traditori.
«Sì, pietà era morta, da quelle parti»: con questa citazione dalla famosa canzone scritta da Nuto Revelli, Questi chiude un racconto che è narrato come un horror e costruito come la potentissima metafora di una guerra senza quartiere. È ufficiale: l’Italia ha un nuovo, grande scrittore, anche se la definizione – quanto quella di «regista» – a Questi non piace: «Detesto le professioni. Chi si definirebbe “scrittore” sulla carta d’identità?».

l’Unità 29.4.14
Il giovane Mussolini
Una mostra ricca di documenti d’archivio nella casa restaurata
Esposte le carte sugli anni socialisti. Lo scopo?
Liberare finalmente Predappio dalla colpa di aver dato i natali al fascismo
di Vittorio Emiliani


È TRASCORSO ORMAI UN SECOLO DALLA PRIMA GUERRA MONDIALE CHE LACERÒ PROFONDAMENTE IL MOVIMENTO OPERAIO E SOCIALISTA INTERNAZIONALE fra neutralismo pacifista e interventismo dalle varie connotazioni (democratico, rivoluzionario, nazionalista), eppure le riflessioni storiche continuano, utilmente. Per approfondire le ragioni strutturali di quel conflitto che, al di là delle varie interpretazioni, cambierà in modo diverso ma radicale l’Europa. In Italia e in Germania la profondissima crisi della prima democrazia a suffragio universale maschile sarebbe sfociata a destra anziché a sinistra.
L’occasione della guerra viene cavalcata con esiti opposti da Lenin in Russia e da Mussolini in Italia, quest’ultimo partito da posizioni sovversive. E «Il giovane Mussolini» è il tema di una bella, documentata mostra che il Comune di Predappio (amministrato prima e dopo il fascismo dalle sinistre) ha organizzato nella casa natale del futuro duce acquistata e restaurata dall’amministrazione locale. Per il sindaco Giorgio Frassineti e per l’assessore alla cultura, Francesco Billi, essa rappresenta un punto di partenza. Il suo scopo? Liberare finalmente un Comune democratico e progressista «dalla colpa di aver dato i natali a Mussolini e quindi al fascismo» (che invero nasce a Milano, finanziato largamente dalla grande industria, dalla finanza e dalla banca, nonché dall’agraria padana).
Mostra resa particolarmente interessante dalla ricca documentazione d’archivio del collezionista e ricercatore Franco Moschi (la cui preziosa collaborazione, mi auguro, proseguirà col Comune), curatore dell’esposizione con lo storico e docente universitario Mauro Ridolfi. Del giovane Mussolini, socialista e rivoluzionario, tesserato al Psi fra 1901 e 1914, lo storico Roberto Balzani sbozza subito nell’introduzione i tratti fondamentali: in pieno giolittismo, nel cuore del riformismo municipale e della politica dei «blocchi popolari», «il percorso di Mussolini è del tutto al di fuori di questa traiettoria», lui «s’iscriverà fra gli irregolari, gl’imprevedibili, i marginali potenziali e reali», miscelando «la retorica estremista e la costruzione di una “carriera”, l’ambizione sfrenata e il bisogno di carisma», per uscire dal borgo rurale in cui è nato, ben descritto da Mario Proli.
Tornato a Forlì, dopo il soggiorno in Svizzera fra rivoluzionari, il suo esordio in piazza nel 1909, per manifestare contro la fucilazione del pedagogista libertario Francisco Ferrer, è incendiario: «Tutti al Vescovado!» per invaderlo e, come ripiego, per abbattere la colonna votiva della Madonna del Fuoco. Il disegno di Mussolini - nota lucidamente Ridolfi - allorché sarà poi direttore di successo dell’Avanti! e, in pratica, leader del partito è quello di ridefinire «in senso centralistico e militante il Psi inteso come punta di diamante e polo di riferimento di tutti i “sovversivi”». Centralismo politico e milizia partitica che saranno i pilastri del «mussolinismo » fascista. Così come l’insistenza retorica ossessiva su se stesso come «l’uomo nuovo».
Nel catalogo edito da Neriwolff (277 pagine, 28 euro), Ridolfi ridisegna bene anche lo stile giornalistico e oratorio del futuro duce in una regione di grandi comunicatori di piazza, fortemente influenzato dal sindacalismo rivoluzionario, con Filippo Corridoni in particolare, caduto in trincea dopo essersi peraltro pentito (lo provano le sue lettere dal fronte) di aver optato per l’intervento. Alle politiche del 1913 Mussolini perde contro l’uscente repubblicano Gaudenzi a Forlì (dove dirige Lotta di classe e, con grande autonomia, la Federazione), stravince a Predappio con 393 voti a 8,ma soprattutto pone le basi per la grande popolarità fra i giovani quando svolterà per l’intervento in guerra, fondando, coi denari degli industriali, il suo Popolo d’Italia.
Leader lo è sin dal tempo delle Magistrali di Forlimpopoli dov’è preside Valfredo Carducci, fratello del poeta. A volte si ritira a leggere sul campanile della vicina chiesa alternando Marx a Bakunin, ma ancor più a Nietzsche e a Stirner. «La più nobile aspirazione dell’uomo è di essere un capo», scrive un giorno sulla lavagna. Ora, siamo alla vigilia delle scelte decisive, Benito non è più il «Benitouscka» dell’esilio svizzero in mezzo ai russi, scrive con enfasi sul primo numero del suo Popolo d’Italia: «Gridare: non potrebbe essere - allo stato dei fatti - molto più rivoluzionario che gridare “abbasso”?» Raccontano che Lenin, dopo la scissione di Livorno (che Trotzki sarà poi incaricato, invano, di ricucire), accolse la prima delegazione del Pcd’I, guidata dal romagnolo Antonio Grazia dei, col sorprendente rimprovero: «Avevate un leader, Mussolini, che vi avrebbe fatto vincere, e l’avete perduto». Ma Benito nel 1921 era già da tutt’altra parte.

l’Unità 29.4.14
Guglielmo Marconi che disse «signornò» al Duce
La biografia di Chiaberge ricorda l’importanza delle innovazioni nella società di oggi
di Nicola Cacace


«WIRELESS, SCIENZA, AMORI E AVVENTURE » DI GUGLIELMO MARCONI, SCRITTO DA RICCARDO CHIABERGE (GARZANTI) È IL LIBRO PIÙ BELLO CHE HO ABBIA LETTO DA TEMPO, perché oltre ad essere avvincente, ha alcuni pregi culturali non comuni ad una biografia sia pure del profeta dell’era digitale. Riconferma la scarsa cultura dell’innovazione dell’Italia che ha pesato contro Marconi e pesa ancora nella crisi attuale, riconferma l’importanza della determinazione nel perseguire un obiettivo fortemente voluto, più ancora delle conoscenze teoriche, sollecita ad approfondire la basi scientifiche della rivoluzione digitale che sta trasformando il mondo.
Non era mai capitato ad un anziano ingegnere come me di essere spinto a rispolverare vecchi libri liceali di Fisica, per rinverdire conoscenze ormai sepolte di onde hertziane e di magnetismo. Perciò consiglio la lettura del libro a tutti, soprattutto ai giovani che oggi vivono perpetuamente connessi in rete, spesso sconnessi dal mondo reale. La grandezza di Guglielmo Marconi, nato nel 1875 e morto nel 1937, un italiano che malgrado la scarsa attenzione del paese natio verso le sue ricerche non ha mai rinunciato alla sua italianità, sta nel fatto che utilizzando conoscenze note, le onde che i loro inventori tra cui il tedesco Hertz, ritenevano di nessuna utilità pratica, inventò e realizzò una innovazione rivoluzionaria, trasmettere segnali a distanza da ogni parte del mondo. Egli non sa bene come il sistema funziona ma ci crede e si dà da fare per farlo funzionare. È sintomatico il problema del superamento della curvatura terrestre da parte delle onde: Marconi credeva che questo fosse possibile grazie al potere gravitazionale di terre e mari. In realtà, come si scoprì poi, il segreto sta nella ionosfera, dove le molecole di gas, colpite dai raggi solari, producono elettroni e ioni su cui le onde radio rimbalzano come sulle sponde di un bigliardo. Marconi non era né laureato né dotato di un curriculum di studi particolare.
È andato a scuola solo a 12 anni, dopo essere stato istruito in casa dalla madre irlandese Anne Jameson, più in Gran Bretagna che in Italia «perché i bimbi imparino i buoni principi della mia religione (protestante) senza venire in contatto della gran superstizione che si insegna ai piccoli in Italia». Guglielmo a 18 anni ha appena frequentato un istituto tecnico. Si appassiona giovanissimo ai problemi dell’elettricità e trasforma la casa del padre, a Pontecchio, in un laboratorio per costruire strumenti atti a trasmettere segnali a distanza. Lì ha fatto volare i suoi messaggi, i 3 punti della lettera S dell’alfabeto Morse, prima a 100, poi a 200, 400e600metri utilizzando il fratello Alfonso al ricevimento dei segnali, sino alla prima trasmissione oltre l’ostacolo della collina dei Celestini a 1,5Km,dimostrando che le onde hertziane attraversano i solidi, a differenza delle onde luminose. È con i suoi aggeggi-bobine di filo di rame, tubetti di vetro, limatura metallica, fili e lastre metalliche come antenne, etc.- contenuti in uno scatolone che Guglielmo si reca a 21 anni a Londra con la madre, sperando nell’ambasciatore Ferrero, lontana conoscenza di famiglia, ma invano. Dopo mesi di dimostrazioni varie, il primo sostegno lo trova nel British Post Office che gli mette a disposizione un piroscafo per le prove del Wireless.
Un anno dopo ottiene il primo brevetto «la trasmissione di segnali per mezzo di oscillazioni elettriche ad alta frequenza » e costituisce una società, Wireless Telegraph and Signal Co, poi battezzata Marconi Wireless, con 100mila sterline di capitale, una bella somma per una Start-up dell’epoca. A Londra ha ottenuto in un anno quello che in Italia non avrebbe ottenuto in 10 anni. Il primo contratto italiano lo stipula col ministero della marina molti anni dopo quello col ministero della marina britannico. Poi vennero tutti i successi, dalla prima trasmissione transatlantica al Premio Nobel, alle centinaia di naufraghi del Titanic salvati grazie allo Sos lanciato dalla nave colpita a morte. Marconi ha una vita molto avventurosa anche perché non è insensibile al fascino muliebre. Ha molte avventure, tradisce e divorzia dalla prima moglie, anch’essa irlandese come la madre, si risposa con una giovane nobile romana ed ha, alla fine della carriera un rapporto con Mussolini tutt’altro che pacifico. È uno dei pochissimi che si permette di dire qualche «signornò» al duce e, da presidente del Cnr si batte per rilanciare la scienza aiutando anche giovani promettenti come Enrico Fermi. Il libro di Chiaberge, oltre a divertire ed appassionare, può insegnare a tutti l’importanza delle innovazioni nella società tecnologica e globale di oggi.

ALAN Rusbridger fa un profondo respiro prima di rispondere. «Qual è il ruolo del giornalismo? Diffondere la consapevolezza che il potere non può esistere senza il consenso dei cittadini». Lui ne sa qualcosa: è il direttore del Guardian, messo sotto accusa in Gran Bretagna per le inchieste sulle rivelazioni del whistleblower Edward Snowden e premiato con il Pulitzer per lo stesso motivo. Di fronte a lui è seduto Ezio Mauro, direttore di Repubblica, un collega e una testata che lui sente «come fratelli di battaglia». Siamo all’“anteprima” del Festival internazionale del giornalismo di Perugia (30 aprile - 4 maggio), che per questa ouverture d’eccezione ha scelto l’Auditorium Parco della Musica a Roma. “War on Journalism - Lo scontro tra media e potere” è scritto alle spalle dei due direttori, interpellati da Enrico Franceschini: ed è proprio “il potere” il tema, l’unico possibile per un giornalismo che voglia non solo battere la crisi, ma ridefinire la propria nozione di qualità di fronte alla rivoluzione di Internet.
Lo spiega Mauro: «Oggi il potere ha una capacità di egemonia culturale che si esercita soprattutto nel banalizzare. Sapete qual è stata la risposta del potere nei confronti del Guardian: “Che c’è di nuovo? Sono tutte cose che si sanno, no?”. E invece non si sapeva che le ambasciate erano spiate, che i capi di Stato erano spiati, che ogni cellulare era controllato, che Silicon Valley aveva ceduto i propri dati ai servizi di intelligence. Il compito del giornalismo è dare un nome alle notizie che si pubblicano: dar loro un peso, una gerarchia, un senso. È quando si dà un nome alle cose che si sconfigge la banalizzazione del potere».
Non è un caso che Assange e Snowden abbiano cercato i giornali per diffondere le proprie rivelazioni, spiega ancora il direttore di Repubblica . Rusbridger ricorre alla motivazione cui sono ricorsi i giudici del Pulitzer: «Sono stato orgoglioso che ci abbiano dato il premio dicendo che il nostro era “servizio pubblico”: per me era semplicemente terribile l’idea che nel mio paese, patria della libertà di parola, non si potesse pubblicare la storia di Snowden».
«I giornali sono in crisi, ma il giornalismo non è mai stato meglio», ebbe a dire proprio il direttore del Guardian due anni fa. È il grande paradosso dei nostri tempi: testate che chiudono, copie che fuggono, la grande sfida dell’informazione in rete che appare ancora inafferrabile. Eppure - è questa una delle lezioni del festival - sembra essere proprio la qualità l’unico orizzonte di sopravvivenza. Ecco allora nel programma dei prossimi giorni a Perugia il colloquio tra Steve Buttry, Mathew Ingram e Luke Lewis sul “whistleblowing anonimo digitale”, oppure l’incontro con Brown Moses: non è un giornalista, non è mai stato in Siria, non conosce l’arabo e non è un esperto di geopolitica militare. Eppure il suo blog è considerato uno dei “luoghi” più autorevoli per quel che riguarda il tema delle armi usate nel conflitto siriano. Una lezione per i grandi giornali, anche questa.

Repubblica 29.4.14
Lo psichiatra che custodiva i misteri dell’Italia nera
Un libro racconta Aldo Semerari Aiutò neofascisti e mafiosi Coinvolto nella strage di Bologna finì decapitato dalla camorra
di Enrico Bellavia



Evocava i demoni, parlava con loro, e quando non c’erano era capace di inventarseli. Bravo, bravissimo, Aldo Semerari, un’autorità della psichiatria applicata alla sottile arte dell’impunità. Dalla sua arte, per il suo ricettario, passarono un po’ tutti. Da Luciano Liggio alle agguerrite batterie della Banda della Magliana di Nicolino Selis, Franco Giuseppucci “il Fornaretto”, Marcello Colafigli. Da Alessandro D’Ortenzi “zanzarone”,una specie di ufficiale di collegamento tra la Banda e i “neri”, al clan dei Marsigliesi fino al boia di Albenga, Luciano Luberti. Fior di criminali al suo cospetto diventavano agnelli divorati dal male oscuro che li rendeva crudeli all’inverosimile. Lui studiava e poi sentenziava: matto.
Per un insano di mente non c’è posto in galera. E Aldo Semerari, il medico criminologo professore de La Sapienza, era un biglietto da visita perché pluriassassini si trovassero a scontare una manciata d’anni in quegli inferni chiamati manicomi giudiziari e vedersi restituire la libertà in barba alla legge.
Perché il professore era un nome, con la fama accademica, il brevetto massonico, i rapporti con Licio Gelli e i modi risoluti di chi sa stare al mondo abitando nella sottile linea che separa diritto e delitto.
Bussarono al suo studio romano camorristi e mafiosi. E i “neri” alla Paolo Signorelli o alla Fabio De Felice teorici, come il professore, di una comune prospettiva rivoluzionaria per camicie nere e bolscevichi. E quei grigi spioni che vivevano a cavallo. Un po’ qui a prendere informazioni, ingaggiare mestatori spesso inconsapevoli, trafficare con la verità e un po’ lì a confezionare verbali e veline buone a fabbricare la realtà virtuale che tenne (tenne?) il Paese nella bolla delle stragi negate, della giustizia impossibile, delle prove sparite.
Passò per le sue mani anche un giovane Pier Paolo Pasolini e Semerari fu utile a bollarlo come un omosessuale molesto. Precedente necessario per la messinscena dell’Idroscalo.
Di quei demoni, in qualche modo, anche il professore doveva essere vittima. Lo ritrovarono lontano dagli agi dei salotti complottardi alle pendici di una collina dalla quale il boss Raffaele Cutolo dominava la sua Ottaviano. Il capo qui, il corpo altrove. Strangolato e poi decapitato nel macabro rituale degli assassini che si accaniscono così sulla testa, sul cervello di chi muore, punito per ciò che ha fatto in vita e potrebbe fare. Morì così il professore, la mente che scrutava le menti. Perché lo uccisero rimane un mistero a distanza di 32 anni.
Corrado De Rosa, (La Mente Nera , Sperling & Kupfer) psichiatra e scrittore, ha preso a scavare nella vita di Semerari, frugando tra le pieghe dei suoi inarrivabili referti, arrivando a far convergere una quantità di indizi su una data precisa: il 2 agosto del 1980. È il giorno in cui una bomba alla stazione di Bologna decreta la fine dell’età dell’innocenza di un Paese capace di spargere altro sangue, più di quanto non fosse già accaduto a Milano e a Brescia, perché quell’ondata di terrore fosse la coltre sotto cui ammantare altri decenni di stabilità.
Il 26 agosto 1980 accusano Semerari di avere avuto un ruolo non nella strage ma in ciò che l’aveva preceduta. Due giorni dopo l’arrestano. Quando il Sisde del generale Santovito mette in piedi il depistaggio chiamato “terrore sui treni”, facendo ritrovare un borsone di armi che era passato proprio per le mani del professore, lui in carcere capisce che può giocarsi la carta del cedimento. Fa filtrare all’esterno che potrebbe parlare. Allora gli amici, preoccupati, corrono a riprenderselo da quella cella, per tenerlo buono un po’. Era il 9 aprile del 1981. Semerari non parlò e nella sua testa fatta rotolare il primo aprile del 1982 dal camorrista Umberto Ammaturo, rivale di Cutolo, che si autoaccusò, ma non venne creduto, rimase sepolto il mistero di chi aveva davvero voluto la bomba alla stazione di Bologna.
Il professore era arrivato a Napoli tre giorni prima. Era andato a un appuntamento dal quale non era più tornato. Tra la scomparsa e il ritrovamento Fiorella Carrara, la sua assistente e principale confidente, fu vittima di uno strano suicidio nella sua casa di Roma.
Nell’Italia del tritolo come argomento politico, degli assassini dei giudici Mario Amato e Vittorio Occorsio, Aldo Semerari era stato «un sarto tra le frange del potere malato», come scrive De Rosa.
Avanguardista al crepuscolo del ventennio, poi comunista nella sua Puglia. L’intelligence rossa gli negò però il visto per la Cecoslovacchia dove l’allora giovane medico meditava di trasferirsi. Ripiegò su Roma e virò di 180 gradi. Si ritrovò uomo di destra all’ombra di Fernando Tambroni. Quando, molti anni dopo, lo spogliarono all’ingresso di quello stesso carcere dove era entrato mille volte per lavoro, si accorsero della svastica che si era tatuato. Se avessero frequentato il suo buen retiro a Castel San Pietro, nel reatino, si sarebbero accorti del letto a baldacchino nero con le croci uncinate e dei cimeli fascisti che teneva in bella mostra. Nel mondo buio delle grisaglie ministeriali, lui si segnalava per il nero ostentato nell’abbigliamento con quel cinturone da Ss e la pistola appresso. Seduttivo e ipnotico, incantava studenti e giudici sciorinando la scienza che gli era arrivata per via indiretta da Cesare Lombroso, allevato com’era alla scuola del successore del Maestro, Benigno Di Tullio.
Uscito dal carcere, fiaccato nello spirito, provato nel corpo, Aldo Semerari temeva per la sua vita, si era fatto guardingo. Non abbastanza per rendersi conto che neppure la sua scienza lo avrebbe salvato dall’abitudine di prestare i propri servigi a Cutolo e ai suoi avversari. Un doppiogiochista. Dissero così che lo avevano fatto fuori per vendetta. Fecero rotolare quella testa, forse l’unica che avrebbe potuto spiegare perché mai Aldo Moro era rimasto nella prigione del popolo brigatista e Ciro Cirillo ne era potuto uscire. Perché mai quegli stessi amici che si trovavano nello studio Semerari erano riusciti a vedersi nella cella di Cutolo ad Ascoli per accordare la musica che suonarono insieme camorristi e rivoluzionari, ministri e piduisti, con i servizi (segreti?) sul podio a dirigere l’orchestra.