mercoledì 30 aprile 2014

l’Unità 30.4.14
Rodotà: tolga il segreto al patto del Nazareno
di Rachele Gonnelli


I partigiani si preparano ad «una battaglia di civiltà che non sarà breve», ad «una mobilitazione nei territori fondata sull’informazione». I toni di Carlo Smuraglia, il presidente dell’Anpi, sono drastici, quasi ultimativi, al Teatro Eliseo diRoma. Sul palco c’è la bandiera dell’Anpi, «comitato nazionale», con accanto il medagliere ricamato in oro, dal loggione pendono gli striscioni delle sezioni locali, da Napoli a Cattolica. Il pubblico, fatto di anziani e giovanissimi, porta il fazzoletto tricolore al collo. Prima dei discorsi degli oratori, si assiste a un video che riproduce il discorso di Pietro Calamandrei agli studenti in difesa della Costituzione, anno 1955. «Una questione democratica » è il titolo della manifestazione a pochi giorni dalla festa del 25 aprile ma si parla unicamente delle riforme messe in essere dal governo Renzi.
L’approccio è quello di una ferma e argomentata contrarietà, l’appello alla mobilitazione in nome dei valori «dell’antifascismo e della Resistenza». La giovane anpista Elena De Rosa, quindi Carlo Smuraglia e poi ancora di più Stefano Rodotà e Gianni Ferrara nei loro interventi entrano nel dettaglio, sia sul Senato sia sull’Italicum, affrontano paragoni con altri Paesi europei, con altri periodi storici, tipo la legge truffa. L’uditorio non solo ascolta, partecipa, sottolinea con gli applausi i passaggi più graditi. Non piace soprattutto la fretta con cui Matteo Renzi sta procedendo alle riforme costituzionali. «È cattiva consigliera soprattutto in materia costituzionale», dice Smuraglia, che trova «inaccettabile» il mix di leggi elettorali proposte, «inconcepibile» che si motivi interventi su materia così delicata con la necessità di risparmi. Prende di mira anche il cosiddetto «voto a data certa »: sarebbe a dire il calendario imposto dal premier per le riforme, uno scadenzario che «tende a ridurre a nulla l’iniziativa parlamentare, determinando l’agenda del massimo organo mentre l’esecutivo potrebbe solo suggerire le priorità». Gianni Ferrara è particolarmente sferzante contro quella che vede come una cultura istituzionale raffazzonata e approssimativa, che non garantisce il sistema di pesi e contrappesi. Se la prende persino, con una battuta, con l’eccessiva prodigalità in lauree dei colleghi dell’ateneo fiorentino. Per Ferrara la Costituzione «è in pericolo», il Parlamento è di fatto illegale dopo la sentenza della Corte costituzionale e siamo «ad un golpe permanente» in cui si chiede solo «una investitura del capo».
«Non siamo conservatori», ripete Smuraglia dicendosi pronto a discutere un differente ruolo delle due Camere, e lo stesso respinge l’idea di un Senato svilito da una elezione di secondo livello «con rappresentanti delle Regioni che verrebbero a Roma ogni tanto, gratuitamente, non si sa a fare cosa». Rodotà avverte nel disprezzo dimostrato per i «professoroni» una regressione anticulturale mutuata dal berlusconismo, mentre «il contatto con la cultura libera la politica dalla pressione degli interessi». E mette l’accento sul patto extraparlamentare che sta alla base dell’intero percorso di riforme, il patto del Nazareno, i cui contenuti - nota - restano celati. «Visto che Renzi vuole levare il segreto su tutto, cominci a levarlo su questo».

l’Unità 30.4.14
Ma in Senato i tempi si allungano E spunta il sistema francese
Testo base il 6 maggio Finocchiaro: non sarà quello del governo Migliaia di amministratori locali potrebbero essere i grandi elettori dei senatori
di Andrea Carugati

Sul nuovo Senato il premier apre a una mediazione, ma i tempi si allungano. L’adozione del testo base, prevista per oggi, è slittata al 6 maggio. E così non solo non ci sarà il fatidico sì dell’aula di palazzo Madama entro il 25 maggio, ma è assai difficile che anche la commissione Affari costituzionali possa esprimersi entro quella data. Per il ministro Boschi l’opzione è ancora «fattibile», ma ieri in Senato si respirava l’aria del rinvio. Con somma soddisfazione di Forza Italia e dei grillini.
I primi, con il capogruppo in commissione Donato Bruno, snocciolavano il calendario, consapevoli che «dopo il 18 maggio il Parlamento sarà fermo per la chiusura della campagna elettorale...». «Renzi ha dovuto prendere atto della situazione, altrimenti il governo andava sotto», ha commentato Bruno. Mentre i grillini hanno incassato le parole di Anna Finocchiaro, presidente della commissione, che ha assicurato che il testo base «recepirà le indicazioni maggiormente condivise nella discussione generale».
Insomma, sembra svanire uno dei paletti che era emerso dal vertice di lunedì mattina a palazzo Chigi con Renzi, Boschi, Finocchiaro e Zanda: e cioè che il testo di partenza fosse proprio quello del ministro delle Riforme. Ieri Calderoli, che è relatore insieme a Finocchiaro, gongolava: «Portare il testo del governo era come offrire pesce a una tavola di commensali che aveva chiesto carne...». L’ex ministro leghista sta dunque lavorando insieme alla presidente al testo che arriverà martedì prossimo. E ha apprezzato la proposta fatta ieri mattina da Renzi ai senatori Pd: e cioè che ogni regione decida autonomamente come indicare i propri senatori. Qualcuna facendoli eleggere dai consiglieri regionali, altre con un listino ad hoc da presentare ai cittadini alle elezioni regionali. Per Calderoli «funziona benissimo, anche oggi ogni regione sceglie la sua legge elettorale », ma a palazzo Madama molti sono scettici su questa soluzione. «Una confusione inaccettabile», tuona Paolo Romani di Forza Italia che in serata ha visto Zanda e Finocchiaro.
La mossa di Renzi, che sembra aver fatto rientrare molti dei malesseri in casa Pd, viene interpretata come un’apertura al dialogo, così come l’allungamento dei tempi. «Non c’è più il muro contro muro, e questo è un fatto positivo», dice il bersaniano Miguel Gotor. Una sorta di «palla al centro», in attesa di trovare una soluzione tecnica per l’elezione dei senatori che accontenti tutti ma che soprattutto funzioni. Ieri ha ripreso quota il modello francese, apprezzato dallo stesso Gotor, che configura una elezione indiretta dei senatori. A scegliere gli inquilini di palazzo Madama sarebbe una vasta platea composta da tutti i sindaci e i consiglieri comunali e regionali di ogni regione. Un modello che comporterebbe assemblea di alcune migliaia di persone, in numero inferiore a quanto accade in Francia, ma comunque molto ampie.
Il sistema francese piace anche al sottosegretario Luciano Pizzetti, che lavora con il ministro Boschi. E rispetta il paletto del premier: nessuna elezione popolare. Tra oggi e martedì prossimi i relatori avranno tempo per cucire il testo-base. «Uno schema ce l’abbiamo già in testa», assicura Calderoli, mentre Finocchiaro rispetta rigorosamente la consegna del silenzio. Di certo c’è che nel testo base, a differenza della bozza del governo, non ci saranno più i 21 nominati dal Quirinale (al massimo saranno 5), i rappresentanti delle Regioni saranno in proporzione molto maggiore dei sindaci e ogni regione avrà un numero di senatori proporzionale agli abitanti, come chiedono da tempo i governatori. Per il premier non è stato facile rinunciare alla rappresentanza paritaria degli ex colleghi sindaci, come ha spiegato a Vespa. «Io avrei messo più sindaci, ma non sono un pasdaran, serve un compromesso, queste non sono le riforme di Matteo».
Per lui la nuova dead line per il sì del Senato alla riforma è il 10 giugno. La settimana prossima saranno auditi dalla commissione molti costituzionalisti. Tra questi anche i «professoroni» Rodotà e Zagrebelsky (il secondo con una relazione scritta). Ieri da Rodotà è arrivata un’altra stoccata: «Se Renzi vuole levare il segreto, cominci a levare il segreto sull' accordo del Nazareno con Berlusconi... ». Al premier arriva l’appoggio convinto dei montiani. E anche dentro il Pd le acque sembrano più calme: «ci sono punti significati di avvicinamento », dice il ribelle Vannino Chiti. E l’esperto Giorgio Tonini avverte: «Invece che sulle modalità di elezione, è opportuno concentrarci sulle funzioni di garanzia del nuovo Senato, a cominciare dall’elezione del Capo dello Stato ».

Repubblica 30.4.14
La paura di Matteo: “Non voglio paludi, qualcuno proverà a far saltare l’Italicum”
di Goffredo De Marchis



ROMA. «Gli strappi di Berlusconi sono frutto della campagna elettorale, io spero che il patto regga. Ma adesso l’importante è blindare la mia maggioranza». Matteo Renzi si prepara ad affrontare il cammino delle riforme con l’occhio rivolto a dopo il 25 maggio. Teme un crollo di Forza Italia, una tenuta di Grillo e dunque un problema generale sulla progetto costituzionale e sull’Italicum. Per questo ha cercato di ricucire con il suo partito ed ha praticamente portato a casa il risultato, con l’assemblea dei senatori Pd di ieri. Per questo ha accettato un allungamento dei tempi sulla cancellazione del Senato. Per questo, nei colloqui privati, considera «l’Italicum in bilico, almeno nella sua formula originale. Io sono molto pratico. So che dopo le Europee Berlusconi potrebbe sfilarsi. Allora andrò incontro alle richieste dei partiti più piccoli, alzando la soglia del ballottaggio al 40 per cento e abbassando il quorum per l’ingresso in Parlamento». Nelle riunioni a Palazzo Chigi con il ministro delle Riforme Boschi e con i tecnici, si sente sempre più spesso dire che «i numeri per approvare le riforme da soli ci sono, anche per la riforma del Senato. Sono quelli della maggioranza di governo».
Non è un caso che ieri il premier-segretario abbia speso metà dell’intervento ad avvertire il Partito democratico sui pericoli che possono venire da Grillo. Invitando a non leggere i sondaggi, chiedendo a tutti compattezza e unità in vista della campagna elettorale. E non è un caso che in tutti i suoi interventi continui a trattare con rispetto Berlusconi anche quando le spara grosse. Perché un cambio di equilibri il 25 maggio metterebbe nei guai il governo e le riforme. È impossibile infatti sostituire Forza Italia con i 5stelle. In caso di rottura del patto del Nazareno rimarrebbe una sola strada: fare da soli, con Ncd e Scelta civica. I numeri della maggioranza semplice vanno bene anche per cambiare la Costituzione salvo costringere la legge a passare per il referendum confermativo.
Renzi però è convinto di aver superato il giro di boa. Finora i pericoli maggiori per le riforme erano arrivati dal suo partito. Il clima è decisamente migliorato. Anzi, «la partita è praticamente chiusa -annuncia il senatore lettiano Francesco Russo -. Decideremo come eleggere i senatori ma una mediazione è nella logica delle cose. C’è l’ipotesi di un listino a parte nelle regionali o l’elezione indiretta tra i consiglieri. Non ci fermeremo per così poco». Il premier guarda con più tranquillità anche al confronto con i “professoroni”. Lunedì è fissato il seminario con gli accademici organizzato da Maria Elena Boschi e dal Pd. Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà verranno sentiti anche dalla commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama. Ma il testo del governo è stato già arricchito: sono aumentate le funzioni e le garanzie. «Non somiglia alla Camera co- me vorrebbero alcuni progetti alternativi. Ma è tornato a essere una gamba del sistema: elegge il presidente della Repubblica, interviene sulla Costituzione», spiega Russo.
Vannino Chiti, portabandiera del Senato elettivo e del dissenso nel Pd, ieri non ha preso la parola. È apparso più isolato dentro il Partito democratico e quindi meno in grado di offrire sponde ai grillini e ai ribelli di Forza Italia. Il Movimento è pronto alle barricate, a inondare il dibattito con quasi 2000 emendamenti al testo base che stanno elaborando i relatori Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli. Alzerà il muro anche in commissione per evitare che prima del 25 maggio le forze dell’intesa possono arrivare a una votazione.
Su quei 2000 emendamenti annunciati, Renzi e il Pd costruiranno una parte della loro campagna elettorale contro Grillo accusandolo di voler mantenere lo status quo, di salvare il Senato e l’indennità dei senatori. Ma è quello che succede dopo il voto a orientare le scelte di Renzi. Il 10 giugno è la nuova dead line «perché non possiamo finire nella palude». I gruppi parlamentari del Pd continuano a rappresentare un’incognita nel cammino renziano. Ogni tanto il premier teme di non riuscire a controllarli. Ma ieri è uscito molto confortato dall’incontro con i senatori. E le riforme non sono solo un suo pallino, una sua conquista. Palazzo Chigi sa di poter contare sull’appoggio di Giorgio Napolitano che non accetterà un fallimento o un impasse, tanto più dopo il primo voto sull’Italicum e un successo più vicino sulla riforma costituzionale.

Corriere 30.4.14
Premier costretto a tenere in conto i rapporti di forza
di Massimo Franco


L’insistenza e la frequenza con le quali Matteo Renzi minaccia o promette di andarsene se non si fanno le riforme «presto», cominciano un po’ a impressionare. Non è chiaro se si tratti di un segnale forte dato per accelerare la soluzione in un passaggio parlamentare decisivo; o se sia un indizio di crescente debolezza del presidente del Consiglio. In apparenza, va tutto bene. Al Senato i parlamentari del Pd sembrano pronti a siglare un compromesso che garantisca almeno in parte le condizioni poste da Renzi e dal suo ministro per le riforme, Maria Elena Boschi: anche se ieri lei e l’autore della proposta della minoranza del Pd, Vannino Chiti, si sono beccati. Il premier continua ad assicurare che rimarrà perché « per ora», dice, « le cose le sto cambiando».
Perfino la decisione di votare la trasformazione dell’assemblea di Palazzo Madama in una sorta di Camera delle Regioni il 10 giugno e non prima delle elezioni europee del 25 maggio, viene spiegata dal capo del governo come la dimostrazione che non si tratta di una mossa elettorale. Insomma, un piccolo scarto nella strategia della velocità viene presentato come un merito. E probabilmente lo è, sebbene nasca dalle difficoltà e dalle resistenze che il governo incontra. Non si tratta soltanto delle punzecchiature di Forza Italia, spiegabili in buona parte con i pessimi sondaggi in mano a Berlusconi.
Quando il centrodestra attacca su Renzi «molto fumo e poco arrosto», o che tassa gli italiani, o che insabbia la riforma elettorale, il cosiddetto Italicum , fa il suo mestiere d’opposizione: tanto più nettamente perché sa che appiattendosi su palazzo Chigi il partito di Berlusconi potrebbe perdere altri consensi a favore di Beppe Grillo. Dunque, da una parte si conferma l’asse istituzionale col Pd; dall’altra lo si mette in mora, attribuendo il pericolo di una rottura alle divisioni della sinistra.
In simili accuse c’è molta strumentalità ma anche molta verità. Nei gruppi parlamentari, il «modello Renzi» fatica a passare. La miscela di velocità e di rottura con la quale è andato avanti nelle prime settimane deve fare i conti con rapporti di forza coriacei. Per questo è costretto a rallentare, seppure di malavoglia, a minacciare dimissioni ed elezioni anticipate; e a spiegare all’opinione pubblica che occorre un po’ più di tempo. Ma anche a tentare di non fermarsi, perché «se fallisco mi fanno fuori politicamente», ammette in tv. Così, l’impressione è che la sua strategia non nasca solo dalla volontà di cambiare l’Italia, ma anche da una sorta di istinto di sopravvivenza.
E sa che solo un risultato confortante alle europee può aiutarlo, in assenza di altri risultati tangibili. Da questo punto di vista, però, il più ansioso è Berlusconi. Ripetere, come ha fatto ieri il suo consigliere Giovanni Toti, che a FI andrebbe bene comunque sopra il 20 per cento, significa prepararsi ad una sconfitta bruciante; e sapere che l’insidia del non voto e di Grillo è in agguato. Pur di esorcizzarla, Berlusconi non esita a cercare di strattonare lo stesso Giorgio Napolitano, lanciandogli accuse velenose. Ma «chi pensa di far campagna elettorale utilizzando il capo dello Stato», lo ammonisce il vicepresidente del Csm, Michele Vietti, «scherza col fuoco».

Repubblica 30.4.14
Vannino Chiti
“Così va meglio, ci si confronta,  però servono altri emendamenti”
intervista di Tommaso Ciriaco


ROMA. Simbolo della resistenza a Matteo Renzi, Vannino Chiti apprezza «i passi avanti». Ma promette: «Se necessario, presenterò emendamenti alla riforma del Senato».
Ritira il suo ddl, senatore?
«Il tema non esiste. Oggi il ddl c’è. Quando il 6 maggio i relatori presenteranno un testo base, ci sarà solo quello».
Sembra cauto. Non diventerà anche il “suo” testo?
«Se confermano quanto detto, saranno punti di convergenza. Vedrò se mi convince o se è possibile migliorarlo. E senza riduzione dei parlamentari, presenterò un emendamento».
Eppure ha ammesso che sono stati compiuti passi avanti.
«Intanto sul metodo: si è tornati a un confronto politico. E poi sulle competenze e sul ruolo di garanzia del Senato. Su questo c’è vicinanza con il mio ddl».
E però ha parlato anche di nodi da sciogliere.
«Vorrei un confronto sereno su alcuni altri punti. Si parla di arrivare a 148 senatori, nel mio ddl invece sono 106. E poi il numero dei deputati: per me devono passare a 315».
Insomma restano alcune criticità.
«Sul sistema elettorale del Senato. Renzi ha detto: si scelgano i senatori con un listino alle Regionali. Oppure lasciamo libere le Regioni di definire se eleggerli direttamente nel consiglio regionale. Mi ritrovo nella prima ipotesi. La seconda no, è un guazzabuglio con interrogativi costituzionali».
Dicono però che sul suo ddl sia rimasto isolato.
«Se nel testo base c’è quanto annunciato, su che cosa sarei stato isolato? Se è così, spero di essere isolato a lungo...».
Ha creato problemi al governo. Voleva frenare le riforme?
«Non volevo ostacolarle, né ho mai cercato visibilità».
Dicono che si sia mosso da pasdaran.
«Ponevo questioni che hanno prodotto un miglioramento».
Ha subito pressioni da Palazzo Chigi, in queste settimane?
«Non certo nascoste, ma mai con colpi sotto la cintura. Poi, certo, Renzi ha detto che mi muovevo per stare tre giorni sui giornali. La Boschi che rappresento un ostacolo alle riforme. Non scendo su questo piano, resto sui contenuti ».
Promette nuovi emendamenti.
Farà arrabbiare il premier.
«E perché? Si vorrà opporre alla riduzione dei parlamentari?».
Ieri il premier ha avvertito: riforme presto, o vado a casa.
«Quando ha posto questioni che apparivano diktat, l’ho criticato. Oggi no, fa un discorso che vale per tutti noi».
Neanche l’Italicum le piace, vero?
«Le liste di più candidati, senza preferenza, rischiano di apparire ai cittadini un mini Porcellum».

l’Unità 30.4.14
La mediazione, una bella parola
di Claudio Sardo


Non è impazzito Berlusconi quando lancia contro la cancelliera Merkel accuse volgari e iperboliche, o quando tenta di trascinare Napolitano nella rissa, o quando si dichiara vittima non di uno bensì di quattro «colpi di Stato».
C’è del calcolo nella sua apparente follia. È indietro nei sondaggi, la sua forza politica è ai minimi storici, dunque gioca la carta della disperazione. Cerca di rimontare urlando più forte di Grillo e spiegando il suo fallimento come l’esito di una congiura mondiale. Provoca persino i giudici che gli hanno concesso i benefici dei servizi sociali. Tanto, l’obiettivo è solo questo: ottenere qualche voto in più il 25 maggio per sedere ancora ad un tavolo di trattativa. Berlusconi non ha più la pretesa di governare alcunché, né l’idea di un programma per il Paese. Non è un contendente politico: è un giocatore marginale, il cui scopo è condizionare, inibire, minacciare per incamerare dividendi.
Per Grillo gli eccessi verbali sono la quotidianità. Mai uscite da quella bocca, o da quel blog, parole meno che violente e insulti meno che estremi. Del resto, sul «vaffa» ha costruito una politica. E una buona rendita. Non c’è alcun motivo perché rinunci al filone aurifero. Certo, c’è una malattia di fondo nel sistema se il nichilismo di Grillo e la voglia di autodistruzione catturano tanti consensi. C’è una malattia che la crisi economica aggrava e che la democrazia non riesce a curare. Ma anche Grillo, come Berlusconi, pesca nel torbido perché non ha alcuna intenzione di governare. Non vuole uscire dalla crisi. Vuole lucrare sulla crisi. Vuole che si allarghino le fratture, che si renda ingovernabile il sistema. Così in Europa: giocherà la partita per impedire il cambiamento e spingere le contraddizioni fino al punto che esplodano.
È uno strano tripolarismo quello italiano. Due dei tre poli non intendono governare. Sono out. Altro che consociativismo. Il sistema-Italia è vicino al collasso, l’economia è al punto più basso dal dopoguerra e c’è un solo partito, il Pd, in grado oggi di sostenere le istituzioni e guidare un cambiamento. Qualcuno tenta di sfuggire alla cruda realtà inseguendo il miraggio di un bipolarismo che non c’è più. Intanto il tripolarismo si diffonde anche in Europa.
Si parla tanto degli errori delle classi dirigenti del centrosinistra nell’ultimo ventennio. Ne sono stati compiuti di gravi. Ma è anche vero che quelle classi dirigenti sono riuscite a costruire l’Ulivo e (sia pure in ritardo) il Pd. E hanno consegnato ai quarantenni di oggi uno strumento nuovo, pensato proprio per far uscire il Paese dalla palude della seconda Repubblica. Questo è negato da molti commentatori. Sembra che lo facciano per compiacere Renzi e alimentare il mito del demiurgo. Ma in realtà lo fanno per indebolire Renzi, per ridurre la sua autonomia separandolo dal Pd e dal processo storico che lo ha generato. Questa è la partita che si gioca oggi tra i poteri più forti del Paese. Tutti sanno bene che, nel breve, non ci sono alternative. Se il governo fallisse, le conseguenze sarebbero devastanti. Il tentativo di chi ha sempre avversato il Pd e la sinistra è allora quello di scollegare Renzi dal retroterra politico e sociale che lo ha portato alla leadership del Paese. Il tentativo è usare Renzi - e il rinnovamento che interpreta - contro quel retroterra.
Dietro la dialettica, talvolta aspra, tra il premier e la minoranza di sinistra del Pd c’è questo nodo.Eci sono questi interessi. Devono esserne consapevoli sia il premier che la minoranza. Dire che la responsabilità del rilancio dell’Italia e della sua stessa tenuta democratica è oggi quasi per intero sulle spalle del Pd, non vuol dire affatto che il compito del centrosinistra sia semplicemente quello di applaudire Renzi. Al contrario, vuol dire che il Pd deve allargare la sua capacità di rappresentanza, esprimere una dialettica costruttiva e coinvolgente, comporre sintesi più avanzate. La forza personale di Renzi non può temere il confronto sui contenuti e la mediazione. Mediazione è una bella parola della politica: va recuperata nel suo significato ri-costruttivo. Tutto il contrario dei «bastoni tra le ruote».
Qualcuno paragona il Pd di oggi alla Dc del dopoguerra. Per molti aspetti la somiglianza è forte: le condizioni interne ed esterne portano oggi la sinistra ad assumere quella funzione che sessant’anni fa ebbe il centro. Anche allora i benpensanti tiravano De Gasperi per la giacchetta e cercavano di contrapporlo ad alcune forze interne alla Dc. Volevano spingere la Dc su una linea clericale, oppure farne strumento esclusivo degli interessi confindustriali. Il radicamento sociale e la capacità dialettica di quel partito divenne invece un presidio di autonomia politica. Si possono riprodurre oggi quelle virtù senza pagarne i prezzi in termini di instabilità governativa? Questa è la sfida. Del resto, cosa sarebbe il tripolarismo italiano se si trasformasse in un tri-leaderismo, o peggio in un tri-populismo? Cosa sarebbe del nostro tessuto democratico, se il Pd non fosse capace di dialogare e di offrire una sponda anche a quelle parti della destra che hanno rotto con Berlusconi e agli ex-grillini che si sono ribellati al Capo e hanno aperto un confronto con Sel? Solo un Pd vivo, plurale, autonomo, può farsi strumento di una ricostruzione più ampia dei confini stessi del partito.
La grande responsabilità del Pd è sulle spalle di tutte le sue componenti. Il leader va aiutato, integrato. Così sarà più forte. E la dialettica interna deve porsi il suo limite nel merito delle scelte, perché il fallimento, quello sì, travolgerebbe tutti.

il Fatto 30.4.14
Il pifferaio magico Renzi: annunci, minacce e rinvii
In Senato parla di dimissioni, a “Porta a porta” spiega che sulla PA indicherà solo linee guida. E per la campagna elettorale punta su Palazzo Chigi
di Wa. Ma.


Mentre qualcuno fa solo campagna elettorale, noi siamo qui a lavorare”. Matteo Renzi, versione premier, a Porta a Porta. Non è proprio uno slogan elettorale, ma ci assomiglia. Peccato che il lavoro da presidente del Consiglio, quello che nelle sue intenzioni deve essere il biglietto per vincere (e magari stravincere) alle europee è evidentemente più complicato di quel che sembra. Prendiamo la giornata di ieri, quando minaccia per due volte le dimissioni, una di mattina a Palazzo Madama, e una di sera in tv (“Io non ci sto a tutti i costi. Io ci sto se posso cambiare le cose. Se vogliono qualcuno che le cose le abbuia prendano un altro”) e nello studio di Bruno Vespa utilizza una formula rivelatrice, a proposito della Pa: “Noi raccontiamo le riforme”. Prima parte della mattinata al gruppo del Pd, dove Renzi va a proporre una mediazione sul Senato, con una soluzione sull’eleggibilità che però ancora non c’è (ipotesi di lavoro: lasciare alle Regioni la facoltà di individuare il metodo per l’elezione dei consiglieri regionali che andranno a comporre il futuro Senato). Mentre quello che c’è di certo è un ulteriore slittamento di tempi: il testo base in Commissione arriverà il 6 maggio, forse la stessa Commissione riuscirà ad approvarlo prima del 25. Forse. Quel che è certo è che in Aula arriverà dopo. Renzi dà una nuova dead line per l’approvazione in prima lettura: il 10 giugno. Si preferisce evitare la drammatizzazione in Aula prima delle elezioni, anche perché con la necessità di tutti in campagna elettorale di piantare la propria bandierina, visti i numeri, può succedere di tutto. Meglio rimandare a dopo. A proposito di rimandi, eccone un altro annunciato dallo stesso presidente del Consiglio. Per oggi era previsto il Cdm sulla Pa. “Non faremo un decreto, ma solo le linee guida della riforma”, dice Renzi a Porta a Porta. Anticipazioni: “dirigenti a tempo determinato”, “premi di produzione variabili”, criteri per “beccare quelli furbi”, “lavorare sull’età media” che è troppo alta. Poi, in programma c’è la riduzione degli stipendi degli statali, a partire da chi guadagna più di 90mila euro. Misure del genere si possono fare a tre settimane e mezzo dal voto, con tutte le categorie coinvolte (magistrati, medici, diplomatici, militari, ministeriali) pronte alla ribellione almeno nell’urna? Lui lo sa: “La cosa più difficile che possiamo fare è cambiare la pubblica amministrazione e lì non ci basta nemmeno la Nasa, forse i Marines”.
NON È FACILE per un premier che ha annunciato grandi riforme, molto difficili da realizzare, portare avanti una campagna elettorale con Grillo e Berlusconi, che lui stesso definisce “professionisti”. Senza contare che il Renzi precedente ha sempre puntato sulla rottura. Non a caso, ieri sera c’è stato un punto tra lui e Lorenzo Guerini, vicesegretario Pd, per capire come gestirla questa campagna. La filosofia di fondo la spiega Stefano Bonaccini, responsabile Enti locali Pd, che ci sta lavorando a livello anche fattuale. Niente cedimenti all’alzata dei toni grillini: “Grillo vuole trasformarla in un referendum su Renzi e il governo. Per questo confonde l’elezione del Parlamento europeo con quello italiano”. E poi, spiega che c’è molta attenzione anche alle amministrative (dove vanno al voto 4000 comuni e 27 capoluoghi), con l’intenzione di strappare alla destra Piemonte e Abruzzo. Renzi dovrebbe andare a Bari e Firenze, Modena e Reggio Emilia. Dovrebbe scegliere anche comuni simbolo come Prato e Sassuolo. La chiusura in una piazza, non in un teatro, modello Bersani. E intanto, Youdem sotto la gestione di Francesco Nicodemo si lancia in iniziative “rock”: chiedendo, per esempio, alle capolista di fare la loro playlist in trasmissione. Un po’ di leggerezza serve.

il Fatto 30.4.14
La rivincita di Renzi e la diserzione dei poteri forti
Declino Nel 1992, Enrico Cuccia riuniva nel suo ufficio i grandi capitalisti per affrontare Mani Pulite, oggi non saprebbe chi invitare. Il premier regna da solo
di Giorgio Meletti


C’è grossa crisi, come diceva il profeta di Quelo. Il 23 febbraio scorso l'economista di Forza Italia Renato Brunetta ha fulminato il nascente governo di Matteo Renzi: “È imposto dai poteri forti e si chiamano banche”. Due mesi dopo l'Abi, associazione dei poteri forti che si chiamano banche, minaccia di fare causa al governo per la pillola da 2 miliardi di tasse che gli ha rifilato per far tornare i conti dei famosi 80 euro. C'è disorientamento. Enrico Cuccia è morto, Gianni Agnelli è morto e il presidente di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli, “banchiere di sistema” per eccellenza, è costretto a sfidare l'imprenditore Diego Della Valle su una pista di sci per mostrargli la tonicità dei suoi 81 anni.
Dopo esserci baloccati per anni con l'idea che l'onda anomala dell'antipolitica preparasse il trionfo della società civile, scopriamo che nell'Italia di Matteo Renzi, per la prima volta dalla fine del fascismo, il potere politico non ha una borghesia industriale che lo fronteggi. Sul Corriere della Sera Giuseppe De Rita lamenta che anche la recente tornata di nomine al vertice di aziende pubbliche del calibro di Eni, Enel e Poste si è consumata nell'assenza, e comunque nella “carenza di cultura”, della “classe manageriale italiana”.
“Nessuno si preoccupa più delle sorti del Paese”
Uno dei più importanti ed esperti avvocati d'affari milanesi allarga le braccia: “Qui non c'è più nessuno che si preoccupi delle sorti del Paese. I Pirelli, i Pesenti, i Marzotto... Dissolti. Ogni famiglia ricca si occupa solo degli affari suoi, e tutti sono contenti di Renzi perché hanno capito che non romperà troppo le scatole. Per loro è il compromesso ideale tra il berlusconismo e la sinistra: gli imprenditori non si aspettano più niente dalla politica, sono contenti di un governo che non faccia danni ai loro interessi. E comunque avvertono: andateci piano a rimpiangere l’Avvocato, anche lui pensava molto agli affari suoi, sennò non ci saremmo ridotti così”. Usciamo da un'epoca in cui l'oligarchia detta classe dirigente dava la rotta alla politica, anche se non sempre con successo e con l'interesse generale in mente. Un testimone privilegiato degli incroci tra politica e affari come Luigi Bisignani racconta che nell'estate del 1992 il boss di Mediobanca, Enrico Cuccia, riunì nel suo ufficio la crema del capitalismo italiano per fare fronte comune contro l'inchiesta Mani Pulite. C’erano Agnelli, Cesare Romiti, Leopoldo Pirelli, Marco Tronchetti Provera, Carlo De Benedetti e Giampiero Pesenti. Oggi a una riunione così non si saprebbe chi invitare. Intorno a Renzi c’è il deserto dei poteri forti italiani, mentre quelli stranieri premono alle frontiere mirando agli ultimi gioielli dell'industria italiana. Un manager pluridecorato e provvisoriamente fermo ai box ricorda l'origine della storia: “Proprio nel ‘92 Cuccia mi confidò il suo progetto di dare alle grandi famiglie del capitalismo italiano delle rendite sicure, come fanno gli imprenditori ricchi con i figli scemi. Tentò di dare la Telecom alla Pirelli e agli Agnelli, fece consegnare ai Benetton le Autostrade. Ormai delle grandi famiglie non c'è più niente. Hanno liquidato molte attività, magari vivono a New York o a Montecarlo, hanno investito in finanza e immobili, quasi sempre all'estero. Quel che è peggio è che non c'è più nessuno dotato di una visione”. La differenza tra ieri e oggi è lampante in una battuta polemica dell'allora presidente di An, Gianfranco Fini, datata 1997: “Una politica per la famiglia il governo Prodi ce l'ha, è che si tratta della famiglia Agnelli”. La seconda repubblica è stata dominata dallo scambio di accuse tra i politici sull'acquiescenza a poteri forti riconoscibili, con nome e cognome: Agnelli, De Benedetti, Cuccia, Berlusconi. Oggi i poteri forti sono fantasmi misteriosi e indefiniti, la grande finanza internazionale, il Gruppo Bilderberg, le banche. Durante il primo governo Prodi (1996-1998), in due anni e mezzo ci sono stati almeno sette incontri ufficiali tra il premier e l'avvocato Agnelli, che era senatore a vita e votava regolarmente la fiducia ai governi dell'Ulivo, come prima l’aveva votata a Berlusconi. Il successore di Prodi, Massimo D'Alema, non solo dialogava regolarmente con Agnelli, ma addirittura uscì a piedi da Palazzo Chigi per incontrare Cuccia in casa del comune amico Alfio Marchini. Il vecchio banchiere ebbe due faccia a faccia con il primo (e ultimo) premier ex comunista, il primo durante la scalata di Roberto Colaninno alla Telecom (di cui Mediobanca era regista) e il secondo in occasione della fusione tra Assicurazioni Generali e Ina. Il confronto tra governo e potere politico era serrato e costante, con la politica sempre leggermente genuflessa.
La partecipazione di grandi banchieri come Bazoli, Corrado Passera e Alessandro Profumo alle primarie del 2005 fu considerata un punto di forza per il ritorno di Prodi a Palazzo Chigi. Gli anni della grande crisi economica hanno lasciato in mutande i re dell'economia. Tecnici sussiegosi come Mario Monti e Corrado Passera, che per anni avevano guardato dall'alto in basso la politica, rilasciando tutt'al più salvacondotti privati per le ambizioni di questo o quel leader, hanno giocato la carta del partito personale. Un imprenditore importante come Alberto Bombassei (freni Brembo) si è fatto eleggere alla Camera. Lo stesso Profumo, prima di andare a presiedere il Monte dei Paschi di Siena, aveva selezionato un potente del calibro di Rosy Bindi per dare ampia disponibilità a incarichi romani. L'ex presidente della Fiat Luca di Montezemolo ha tenuto per anni in ansia il Paese minacciando la discesa in campo. Ma se nel 1976 Umberto Agnelli entrò in Parlamento per rappresentare la grande borghesia italiana, e se Gianni suo fratello nel 1991 fu nominato senatore a vita da Francesco Cossiga per lo stesso motivo, le ambizioni politiche dei loro tardi epigoni sopra ricordati appaiono invece storie personali di limitato interesse generale.
Il primo a prendere il potere senza il permesso della Fiat
L’Italia di Renzi è un posto dove i lobbisti non sanno con chi parlare a Roma “perché tanto decide tutto lui”. Ma anche il capo del governo, se volesse incontrare il capitalismo italiano, non saprebbe a chi telefonare. Ha liquidato il presidente della Confindustria Giorgio Squinzi come insignificante e si rivolge direttamente (via satellite) alle masse di piccoli e medi imprenditori disperati, mentre i protagonisti dell'economia che frequenta sono solo suoi vecchi amici. Oppure – il mondo si è davvero capovolto – imprenditori che lo assillano in cerca di patenti renziane.
Il leggendario scambio di complimenti tra Renzi e Sergio Marchionne (“Firenze città piccola e povera”, “Si sciacqui la bocca prima di parlare, noi abbiamo fatto il Rinascimento, lui la Duna”) risale a diciotto mesi fa: il potente manager lo definì inadatto a governare l'Italia e il sindaco di Firenze ha preso il potere senza il permesso della Fiat. La politica sta come sta, ma il capitalismo italiano sta messo proprio male.

Repubblica 30.4.14
Fotografi, amici, consigliori Quella corte fiorentina che circonda Renzi a Roma
L’ultimo arrivato a palazzo Chigi è il paparazzo di Rignano
E anche le recenti nomine pubbliche portano in Toscana
di Filippo Ceccarelli



FIORENZA dentro da la cerchia antica. Che poi magari non sono tutti fiorentini purissimi perché vengono, come lui, dal contado. L’ultimo arrivato a Palazzo Chigi, o per meglio dire l’ultimo di cui grazie all’ Espresso si è saputo, è il fotografo ufficiale e personale di Renzi, Tiberio Barchielli, da Rignano, come il presidente.
Al comune paesello sull’Arno ha dedicato anche un libro di “ Immagini del Novecento ”. Per il resto, proviene dal paparazzismo regionale toscano, gioie e dolori, fra questi ultimi ebbe a suo tempo qualche problema con Di Pietro in visita a Firenze, e dirige un sito dal titolo al giorno d’oggi non troppo rassicurante: « Gossip blitz » anche se nella rubrica «Hot» i vip appaiono rappresentati con delle graziose stelline sul petto e sul pube. È possibile che dovendo raffigurare Renzi con i Grandi della Terra (Barchielli l’ha già fatto con Obama, Cameron e Hollande), prima o poi dovrà farsi sostituire a Rignano. Il fotografo personale è una figura delicata e di estrema fiducia, introdotta nei primi anni 80 da Craxi che del suo indimenticato Umberto Cicconi finì per diventare quasi parente (la sorella andò in sposa a Bobo Craxi).
Insomma ritrattisti, mogli e buoi meglio se dei paesi suoi. Però anche sottosegretari e capi del Dipartimento Affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio, che nel caso renziano rispettivamente sono l’onorevole Luca Lotti, per via della bionda chioma detto « i’ lampadina », da Montelupo fiorentino, un altro del contado; e poi, quando i magistrati della Corte dei Conti avranno smesso di fare i grulli, sempre al fianco di Matteo arriverà finalmente la dottoressa Antonella Manzione, già dirigente della polizia municipale e direttore generale del Comune di Firenze. La quale Antonella, ribattezzata ovviamente «la Vigilessa», è anche la sorella dell’ex magistrato Domenico, che in quota renziana da un paio di governi fa il sottosegretario al Viminale.
E insomma davvero molte opportunità offre oggi il potere ai fiorentini e ai toscani (ministro Boschi, capolista Bonafè), pure d’adozione o d’impegno ideologico e rottamatorio qual è anche l’imminente consigliere politico presidenziale Giuliano da Empoli, presidente del Gabinetto Viesseux di Firenze ed ex assessore alla Cultura a Palazzo Vecchio.
Da questo punto di vista le recenti nomine negli enti hanno messo a dura prova i giornalisti del ramo costringendoli ariannodare filiere di comando tanto a livello geografico quanto di fundraising Alberto Bianchi, cda Enel; Fabrizio Landi, cda Finmeccanica; Elisabetta Fabri, cda Poste; Marco Seracini, sindaco Eni - come non accadeva forse dai tempi d’oro dei dorotei veneti Rumor-Bisaglia, e poi durante l’epopea del «Clan degli Avellinesi».
E per quanto il Giglio Magico o Ribollita Power consentano elenchi ancora manchevoli, comunque denunciano nel giovane premier una naturale forma di diffidenza per il mondo grande e terribile, una certa attitudine a far valere le antiche amicizie come quella con «Marchino» Carrai, da Greve in Chianti, cui è stata delegata la macchina finanziaria dell’ascesa, poi anche la logistica, cioè procurava e per qualche tempo ha dispensato a Matteo una casa in centro, vedi le recenti polemiche, e al quale paiono ora affidate le cure degli Arcana imperii del renzismo, anche fuori Italia.
In ogni caso pare di scorgere una tendenza a fare tribù che da un lato scopre insicurezza, da un altro suscita sospetto, ma di cui nel mondo tenebroso del potere nessun capo si è mai dovuto troppo lamentare. Stil novo, quindi, come s’intitola la penultima fatica del presidente (Rizzoli, 2012), ma fino a un certo punto - anche nel senso che quando ritornano e convengono le identità municipali le cose non c’è nemmeno il bisogno di chiederle perché arrivano da sole.
Così proprio l’altro giorno s’è appreso che il prossimo festival di Sanremo lo presenterà Carlo Conti, che è certo un prodigio televisivo, però guarda caso è anche fiorentino, fiorentinissimo tifoso dei viola, già nel 1999 collaborava al primo libro di Renzi, da lui ha ricevuto il super-premio “Il fiorino d’oro” e da un po’ ha anche un figlio che si chiama Matteo.

il Fatto 30.4.14
Sel si spacca: mezzo partito in fuga da Vendola
Una ventina di deputati e tre senatori, guidati da Gennaro Migliore, sono pronti a entrare nel Pd e a sostenere il governo
di Antonio Massari e Loredana Di Cesare


Il dialogo con Matteo Renzi è stato già avviato”. Il primo tassello della diaspora, i dissidenti di Sel, sono pronti a metterlo tra pochi giorni. Non appena in Parlamento si discuterà del decreto sugli 80 euro in busta paga. Il provvedimento è approdato ieri in Senato. “Sarà guerra”, dice un parlamentare che preferisce mantenere l’anonimato, “perché la direzione di Sel non è ancora convinta se votare a favore. Noi invece – e siamo una ventina – vogliamo sostenere questo provvedimento con il nostro voto”. Non si tratta di una “semplice” spaccatura. È l’inizio di un esodo. E c’è chi azzarda l’ipotesi di una drammatica accelerazione. “Siamo pronti a passare nel Pd. Le trattative sono in corso. Anche prima delle elezioni europee, se necessario”. Di certo, l’argomento in questi giorni sta tenendo banco. E il riferimento alle elezioni europee del 25 maggio, ovviamente, non è un dettaglio. L’ala del partito legata a Gennaro Migliore – contrapposta ai fedelissimi di Nichi Vendola e Nicola Fratoianni – non ha mai gradito l’appoggio di Sel alla Lista di Alexis Tzipras, preferendo sostenere il tedesco Martin Schulz. Il motivo: da un lato l’allontanamento, in Europa, dal Pse; dall’altro il rischio di una sconfitta, poiché è difficile che la Lista Tsipras riesca a superare lo sbarramento del 4 per cento. E così una ventina di deputati e tre senatori sono già pronti all’ammutinamento : prima che Sel affondi in Europa, potrebbero abbandonare la barca, per creare la sinistra interna al Pd, alleandosi con Pippo Civati. Lo scenario della diaspora prima delle elezioni europee, comunque, è quello meno probabile: l'elezione per Bruxelles, infatti, resta l'occasione migliore per contarsi all’interno del partito – dal tesseramento ai voti ottenuti dai singoli candidati. I parlamentari malpancisti non sono d’accordo sulla direzione presa da Sel che, attestandosi sempre più in un ruolo di opposizione, si sta allontanando dall’originaria vocazione riformista.
LE SPINTE E I MALUMORI arrivano anche dai territori: “La scelta – sostiene la nostra fonte – è dettata anche da pressioni della base del nostro elettorato: ci chiedono di essere una forza di governo e non più solo di opposizione”. Alla camera si contano circa la metà dei deputati pronti a passare nel Pd. Secondo le indiscrezioni tra i dissidenti figurano il capogruppo di Sel alla camera dei deputati, Gennaro Migliore, il tesoriere del partito Sergio Boccadutri, Claudio Fava, Nazzareno Pilozzi, Gianni Melilla, Martina Nardi, Ileana Piazzoni, Ferdinando Ajello.
Nell’altro ramo del Parlamento, invece, sarebbero tre i senatori pronti a passare nel partito di Matteo Renzi: Massimo Cervellini, Peppe De Cristofaro e Luciano Uras. Forti segnali di rottura si sono registrati già durante il congresso di Sel – con la storica rivalità tra Fratoianni e Migliore che risale ai tempi di Rifondazione comunista – che ha rieletto Nichi Vendola segretario del partito. In quella sede Vendola chiuse a ogni possibile accordo con il governo. Il passaggio di un così cospicuo numero di parlamentari di Sinistra ecologia e libertà nel Pd rischierebbe di segnare la fine del partito nato nel 2008 dalla scissione con Rifondazione comunista.

La Stampa 30.4.14
Dante, Hitler e Marx
La campagna elettorale che riscrive la Storia
Sparate e revisionismo per conquistare il consenso
di Mattia Feltri


La storia, si diceva, non ci insegna nulla, il che rischia di accadere soprattutto se non la si conosce. Oppure se la si maneggia con la disinvoltura un po’ gaglioffa delle campagne elettorali, e allora si apprende, secondo le lezioni più recenti del capo di Forza Italia, che per i tedeschi «i campi di concentramento non ci sono mai stati». L’accuratezza e la pertinenza delle citazioni berlusconiane è uscita prepotente ieri quando, per tratteggiare un profilo psicologico di Beppe Grillo, la frase impegnata è stata la seguente: «Gli italiani devono imparare ad avere paura perché Grillo, lo si vede anche dal modo in cui organizza la sua setta, mi fa ricordare personaggi come Robespierre oppure Marx e Lenin. Grillo è il prototipo di questi signori, Hitler compreso». La vastità dei riferimenti probabilmente non aiuta a precisare il concetto partorito da Silvio Berlusconi, ma del resto l’obiettivo suo non è di contribuire all’elevazione delle materie umanistiche, piuttosto di dare fuoco a quel pagliaio che è il suo elettorato. Il quale ha sull’anima l’Euro e la Germania di Angela Merkel e del quale si deve evitare il passaggio al Movimento cinque stelle.
La via storiografica al consenso è una vecchia abitudine dell’ex premier, ma buon discepolo è il medesimo Grillo, talvolta in modi persino più goffi perché Grillo non possiede quella noncuranza con cui Berlusconi pronuncia le più spettacolari enormità. Grillo ha l’aria di quello che ci crede, va in Sicilia e ai siciliani offre un revisionismo su misura: «La mafia non ha mai strangolato i suoi clienti, si limita a prendere il pizzo. Ma qua vediamo un’altra mafia che strangola la sua vittima (i partiti, ndr)»; oppure va in Veneto e riassume il millenario splendore della Serenissima, in un Europa che ribolle di secessionismo da Trieste alla Catalogna fino in Scozia. A ogni occasione c’è la pagina giusta del manuale per cui il medesimo Grillo ieri ha ripetuto (dopo le polemiche di lunedì) la definizione data dei sindacati - «peste rossa» - che ricalca un canto delle Ss: «Abbiamo già combattuto molte battaglie / A sud nord est e ovest / E ora siamo pronti per l’ultima lotta contro la peste rossa». La prima volta fu forse un caso. Un po’ gaffe, un po’ opportunismo: la storia è così, è plastilina. Durante la campagna elettorale delle scorse politiche, Grillo citò Simone Weil e il suo Manifesto per la soppressione dei partiti politici a sostegno della sua teoria di democrazia diretta, cioè di parlamentari esecutori della volontà popolare; in realtà Simone Weil, terrorizzata dalle dittature in nome delle masse, diceva l’opposto: ogni parlamentare deve rispondere soltanto alla sua testa e alla sua coscienza. Ma non sarà mica un problema? Potrà mai esserlo per uno - Grillo, che si dichiarò «conservatore rivoluzionario» - magari persuaso di aver coniato un bell’ossimoro - ignorando che fra le due guerre i conservatori rivoluzionari ispirarono Adolf Hitler.
Ecco sì, un po’ strafalcione e un po’ doppio gioco. Matteo Renzi pare averne compreso i rischi e sta più attento. Fu proprio un «errore di confusione», come disse lo stesso Renzi (ma anche un errore di asineria), collocare la battaglia di Gavinana in un omonimo rione fiorentino anziché sulle colline di Pistoia. Erano tempi di imprudenze, e Renzi riuscì a dire che «Dante era di sinistra» e saltò su Agnese, la moglie, a rimettere le cose a posto: «Dante era un conservatore». Così oggi il presidente del Consiglio si trattiene dall’accostare i rivali ai peggio capoccioni del Novecento, ché oltretutto stabilire paralleli fra Berlusconi e Benito Mussolini o fra Grillo e Pol Pot non provoca più nemmeno mezzo brivido. E però qualche furberia non se la nega neppure lui: il 25 aprile ha salutato l’Italia dall’alba con un tweet sui partigiani, «i ribelli di ieri», sottintendendo per sé il ruolo di ribelle di oggi, e restituendosi una dimensione di sinistra tanto utile con quella fama di essere un neoberluschino; così come nel 2009, appena prima dell’elezione a sindaco, disse che sarebbe andato a pregare sulla tomba di Giorgio La Pira - il più amato sindaco del Novecento fiorentino - di modo da procacciarsi un adottante inconsapevole ma prestigiosissimo.

l’Unità 30.4.14
Una vita con l’Unità: foto e storie dei lettori
Lo speciale. Noi, con l’Unità in tasca per sempre audaci
Insieme al giornale del Primo maggio un fascicolo di 48 pagine
di Oreste Pivetta


Album di famiglia, di un paese e qualche cosa di più: nell’universalità delle facce, dei cuori, delle proteste, delle speranze, immagini di tante epoche e del mondo intero. L’Unità tra le mani di un operaio, di un contadino, di uno studente. L’Unità tra le mani di un pensionato o di una massaia in un tempo di lasagne e agnolotti tirati in casa. L’Unità nei cortei.
Perché l’Unità era il giornale «popolare», come lo aveva voluto Gramsci e come riapparve nelle edicole dopo la Liberazione. Per noi l’Unità era «grande giornale popolare», «politico» e aggiungevamo, con orgoglio, «di informazione», quasi a stabilire per statuto oltre che per scelta culturale il valore della «notizia», «l’oggetto fondamentale – come ti insegnano nei manuali - del lavoro giornalistico», per cui si possono leggere (grazie agli archivio alla ristampe) nel primo numero le recensioni teatrali.
O nel primo numero dopo la Liberazione le cronache sportive di una gara ciclistica o l’asterisco su un furto di gomme o di ferro in un cantiere, accanto naturalmente al «fondo», l’articolo con un titolo su due colonne che apriva il giornale che, allora, finché l’Unità fu senza tentennamenti l’organo del Pci, «dava la linea», «la via maestra», come indicava appunto l’editoriale del battesimo, novant’anni fa.
Ricordo d’essere stato rimproverato una volta da un vecchio dirigente, che era stato nel ventuno fondatore con Gramsci del partito comunista a Livorno, perché mi ero presentato ad un appuntamento per un viaggio alle sette del mattino senza l’Unità: gli mancava «la linea». Rimediammo alla prima rivendita. A me capitava di leggerlo quando tornavo da scuola, con i piatti ancora in tavola. Leggevo Ugo Casiraghi, Arturo Lazzari, Rubens Tedeschi, cioè il grande cinema, il teatro (così conobbi Strehler e il Piccolo), la grande musica. Leggevo Michele Rago, francesista e critico letterario assai impervio. Più tardi cominciai a leggere Giovanni Cesareo, allora Vice, custode di una rubrica televisiva (forse fu la prima a comparire su un quotidiano, poi vennero tutti gli altri) di condivisibile ferocia (ahimè, smarrita, nel compiacimento che avvolge morbidamente qualsiasi stupidata proposta in tv). Davano tutti il senso di una modernità straordinaria (oltre che di insuperata maestria pedagogica in un foglio che si voleva appunto popolare).
Capire il paese, le sue trasformazioni: per questo, per questa adesione alle tante «voci» della realtà, l’Unità poteva essere il giornale di tutti, secondo un determinato dichiarato orientamento politico ovviamente, ma con l’onestà, con la trasparenza che gli venivano da quell’etichetta in testata, «organo del…». Non un finto «quotidiano indipendente», governato dai padroni della Fiat o da un eterogeneo e più aggiornato «patto di sindacato» tra padroni di varia estrazione, ma un giornale per scelte e per definizione dalla «parte di…»: dei lavoratori, dei contadini e degli operai, degli sfruttati d’ogni angolo d’Italia e del mondo, giornale al fianco di chi si batteva per la propria libertà, per affrancarsi dal colonialismo… C’è un titolo che dice tutto (e che continua a sembrarmi tra i più belli apparsi sulla prima pagina dell’Unità): «La vittoria del Vietnam/ illumina il Primo Maggio » (credo che l’autore fosse stato Claudio Petruccioli). Lasciamo da parte un attimo le vicende successive: quelle due righe chiudevano una storia secolare di colonialismo in un giorno che celebrava universalmente la lotta dei lavoratori per la loro emancipazione. Un altro titolo, ben più citato, diceva semplicemente: «Eccoci». Era il marzo 1984: una manifestazione della Cgil, una gigantesca manifestazione per il lavoro, contro il taglio della scala mobile. La bandiera mostrata da centinaia e centinaia di persone non è una bandiera qualsiasi, per quanto rossa: è la prima pagina dell’Unità, che testimonia con una parola molto semplice la voglia di «esserci», di contare finalmente per quel che si vale in una società dove il lavoro dovrebbe sempre essere al primo posto. Non la speculazione…
Fu una giornata di «diffusione straordinaria». Una volta capitò di toccare un milione di copie. Le diffusioni straordinarie erano ad ogni festa comandata, alcune – come il Primo Maggio – più comandate di altre. In redazione un bollettino disponeva gli orari, servizio per servizio, della chiusura anticipata, per consentire la più alta tiratura. Splendeva ancora il sole e si doveva scendere in tipografia per «chiudere ». S’aspettava il rumore profondo della rotativa, la gigantesca rotativa che s’avviava lenta e prendeva velocità poco alla volta, allungandoci finalmente «la copia fresca di stampa». Se la macchina andava bene. Poi tutto dipendeva dai «compagni che diffondevano l’Unità»…
Nel fascicolo illustrato che troverete domani, scoprirete tante fotografie che raccontano questa storia: l’Unità e le feste dell’Unità (scusate, ma che follia cambiare nome, come si può buttare uno «storico marchio di successo»), i lettori, i diffusori, i cortei operai, tanti giovani, i funerali di Togliatti e di Enrico Berlinguer(un’altra pagina celebre: Berlinguer sorridente con indosso la cerata del velista). In una compaiono un giovanotto, con il profilo severo di quegli anni cinquanta, seduto di traverso su di una Lambretta, mentre legge l’Unità e, accanto, un bambino ben pettinato (il figlio, probabilmente) appoggiato alla moto, quasi in posa. In un’altra un gruppo di «compagni» circonda una Topolino. Loro tengono in mano l’Unità. Una copia ben aperta è stesa sul cofano dell’utilitaria. Mi viene in mente Italo Calvino (anche lui fu redattore dell’Unità) e un articolo, in cui da cronista inviato sul campo, raccontava la vita tra le risaie del Vercellese. Avvicinandosi a una cascina, vide appoggiata ad un muro una moto e, inoltrandosi nel cortile, lampeggiare da una stanza nel buio una luce bianca. Una motoretta e la televisione gli dissero quanto stesse cambiando la società italiana: s’inaugurava un’epoca che sarebbe stata quella della mobilità di massa, dell’informazione e della cultura di massa, dei consumi di massa. Vale lo stesso per quella Lambretta e quella Topolino, quasi esibite come segno di una forza: in più erano il simbolo dello sviluppo dell’industria italiana e pure delle virtù del lavoro operaio e l’Unità s’esaltava tra quei simboli. Altri scatti confermano quanto mi insegnarono un giorno: che l’Unità andava ripiegata per bene e infilata nella tasca della giacca in modo tale che all’esterno comparissero almeno le prime lettere della testata. Ad una cerimonia per il 25 Aprile, in un paese dove non ero mai stato, feci così e trovai subito tante persone con cui fraternizzare. Quasi una sorpresa (il paese ha un sindaco leghista che alla manifestazione non si era neppure fatto vedere). Meno rispetto al passato, ma l’Unità c’è sempre. Una volta i muratori ripiegavano l’Unità a busta per infilarsela in testa e proteggersi dalla polvere (la pratica è documentata dalle istantanee dei nostri lettori). Adesso si dovrebbe portare il casco anti infortuni. Anche in questo progresso non si può negare che l’Unità abbia avuto qualche merito.

l’Unità 30.4.14
Allarme immigrati. 800mila in arrivo
Nei Cie solo 6 mesi
Due emendamenti del governo alla legge comunitaria riducono la permanenza nei Centri
Il Viminale: «Sistema di accoglienza al collasso»
25 mila sbarchi solo da gennaio
di Claudia Fusani


Gli allarmi sono ormai quotidiani. I numeri dicono tutto: 25 mila sbarchi dall’inizio dell’anno (11 mila in tutto il 2013) e a fine 2014 saremo ben oltre i 61 mila sbarcati nel 2011 sull’onda eccezionale della Primavera araba. Quello alle coste siciliane è ormai un vero e proprio assalto di fronte al quale l’Europa si gira dall’altra parte. Ed è fondato l’allarme di Giovanni Pinto, il direttore centrale dell’Immigrazione e della polizia di frontiera presso il ministero dell’Interno. «Il sistema di accoglienza è ormai al collasso e nei paesi da dove arrivano i flussi, a cominciare dalla Libia, non esistono più interlocutori » ha detto ieri in audizione al Senato davanti alle Commissioni Esteri e Difesa facendo il punto sull’Operazione Mare Nostrum, sistema di controllo e salvataggio nato dopo i 600 morti nel canale di Sicilia nell’ottobre 2013 e che ci costa la bellezza di 300 mila euro al giorno. Sono venute fuori analisi («Mare Nostrum ha incrementato le partenze dalle coste africane») e numeri («800 mila persone in partenza dall’Africa all’Italia») che hanno buttato altra benzina sul fuoco acceso da settimane, soprattutto da Lega e Forza Italia, contro Alfano, il Viminale e la politica dell’immigrazione.
L’allarme immigrazione è diventato così, purtroppo, pane da campagna elettorale. Il governo non si fa prendere alla sprovvista. Sul tavolo infatti ha già pronti un paio di provvedimenti destinati a far discutere e che avranno almeno il merito di mettere ordine in un altro luogo di offesa e di spreco che sono i Centri di identificazione ed espulsione.
Il ministro Alfano ha provveduto ad infilare due emendamenti nel testo della legge Comunitaria che sta per arrivare in aula alla Camera nei prossimi giorni. Il primo emendamento impone che l’identificazione debba avvenire già in carcere. Sembrerà assurdo ma è proprio così: le strutture carcerarie non possono procedere con l’identificazione del clandestino fermato e portato in cella. L’emendamento corregge questa mostruosità burocratica e cerca di accorciare i tempi. Il secondo emendamento al testo della legge comunitaria è quello che scotta. Prevede infatti che i tempi di trattenimento nei Cie non possono più essere «fino a 18 mesi» ma «al massimo 5/6 mesi». Il governo comunque è pronto ad intervenire anche con un decreto per accelerare questa parte. Magari integrandola con altre decisioni prese con il ministero della Giustizia dove, ad esempio, si lavora per rimpatriare i carcerati comunitari. Solo i rumeni sono 3-4 mila unità. Allarme immigrazione e allarme carceri sono, spesso, due facce della stessa medaglia.
La decisione di ridurre di due terzi i tempi di permanenza nei Cie è stata presa per più motivi. «È dimostrato - si spiega al Viminale - che dopo i primi tre, quattro mesi la possibilità di identificare un soggetto è quasi pari a zero. Poiché a quel punto è inutile, probabilmente ingiusto (i più sono persone che vogliono transitare verso altri Paesi, ndr) e anche dannoso e costoso tenerli chiusi nei Cie, tanto vale liberarli ». Su dodici Cie, sette sono praticamente chiusi per devastazione, distrutti dalle rivolte dei clandestini.
L’idea di limitare a sei mesi la permanenza nei Cie era nata qualche mese in un’ottica di spending review. Al netto di qualche scandalo, per i Cie sono stati stanziati 236 milioni di euro per il 2013 (66 milioni in più rispetto al 2012), 220 per il 2014 e 178 per il 2015. La riduzione dei tempi potrebbe come minimo dimezzare la spesa.
Poi c’è Mare Nostrum, sistema di navi della Marina pronte a partire non appena i radar segnalano la presenza di imbarcazioni al largo nel canale di Sicilia. Costa 300 mila al giorno, circa 100 milioni l’anno. Ieri la parole di Pinto sono state usate, tirate e stiracchiate, campagna elettorale purtroppo. Il senso di quello che ha detto era emerso anche lunedì mattina nel vertice sull’immigrazione voluto dal premier Renzi a palazzo Chigi. Non c’è dubbio che Mare Nostrum sia «anche un pull factor dell’immigrazione, un elemento cioè che favorisce i flussi dei disperati in partenza dall’Africa». Scafisti e trafficanti di clandestini (207 arrestati dall’inizio dell’anno) è chiaro che partono volentieri sapendo che basta uscire dalle acque territoriali e c’è qualcuno che ti viene a prendere. La prova sono, racconta una qualificata fonte del Viminale, «le tante imbarcazioni che vengono trovate in mare senza chiglia. Non nelle condizioni cioè di fare la traversata ma perfettamente in grado di accompagnare i disperati che pagano 5-6 mila euro in contanti fino al punto di raccolta delle navi di Mare nostrum». Di opinione diversa la Marina che invece sostiene «il valore umanitario dell’operazione». Le due cose probabilmente non sono in contrasto.
Il sistema di accoglienza nazionale comunque è allo stremo. «Non abbiamo più luoghi dove portare i migranti e le popolazioni locali, non solo quelle siciliane, non ne possono più di questi continui che condizionano anche le attività ordinarie». Un esodo biblico da guerre, carestie, epidemie. Palazzo Chigi ha riunito la conferenza stato- Regioni per distribuire i flussi. Ma è chiaro che non può bastare. Il sottosegretario con delega ai servizi Marco Minniti chiede l’intervento dell’Europa. «L’Italia - dice - non può più farcela da sola, così non si può andare avanti ».

l’Unità 30.4.14
I disperati che arrivano dalle rivoluzioni fallite
di Umberto De Giovannangeli


NON BASTA DARE I NUMERI, PERALTRO TUTTI DA VERIFICARE. NON È ACCETTABILE parlare genericamente di immigrati, quando quell’umanità sofferente ha un altro status da rivendicare: quello di richiedenti asilo. L’allarme lanciato dal Viminale su una nuova, enorme, ondata di migranti in rotta verso l’Europa, va tradotto in politica e non relegato a problema di ordine pubblico. Va tradotto in politica e nell’ammissione di un fallimento che investe l’Europa nel suo insieme e i Paesi euromediterranei in particolare.
Da tempo i segnali che giungono dai Paesi della sponda Sud del Mediterraneo, come dal devastato Corno d’Africa, avrebbero dovuto determinare nelle cancellerie europee uno scatto di responsabilità e un’azione condivisa. Così non è stato. Non lo è stato per la Libia del dopo-Gheddafi, non lo è stato per la martoriata Siria, distrutta da oltre tre anni di guerra che ha trasformato il popolo siriano in un popolo di sfollati (oltre 5 milioni). Al di là delle dichiarazioni formali, rimaste sulla carta, nei fatti l’Europa ha continuato a guardare alle frontiere Sud non come un luogo di cooperazione e di interscambio, ma come un luogo da presidiare, in armi, perché quei Paesi in guerra potevano essere la base di una «invasione» di migranti.
Libia, Egitto, Siria, Tunisia, Somalia, Nigeria, Sud Sudan...Da questi Paesi milioni di persone cercano di fuggire, non per garantirsi una vita più agiata, ma per salvare la vita. Una vita messa in discussione da pulizie etniche, da conflitti «dimenticati» ma sempre più sanguinosi (Sud Sudan), dall’avidità senza freni di organizzazioni di trafficanti d’uomini che calcolano una vita in dollari, prendere o lasciare. L’epicentro di questa tragedia è il Mediterraneo. Un mare trasformatosi in tomba per migliaia e migliaia di disperati che hanno perso la vita nel momento in cui hanno messo i piedi in una delle tante carrette del mare inabissatesi. La Libia è l’emblema di una stabilizzazione inesistente. Un Paese in mano ad oltre 350 gruppi armati, alcuni dei quali autoproclamatisi «governo» (in Cirenaica). La Libia è a un passo da casa nostra. Un passo tragico per tanta, troppa gente. La Libia del post-Gheddafi è un Paese ingovernato e ingovernabile, in balia di mercenari, trafficanti di esseri umani, miliziani qaedisti... Da questo inferno cercano di fuggire in migliaia. Parte di quel popolo di richiedenti asilo che ingrossa ogni giorno le proprie fila in altri Paesi devastati dalla guerra. Paesi lasciati in balia di dittatori senza scrupoli, di oligarchie che hanno ingrossato i propri conti in banca sulla pelle, e non è una metafora, di milioni di diseredati. La politica ha abdicato. La diplomazia ha fallito.
Di fronte a questa bancarotta il minimo che si deve alle vittime di questa débâcle è quelle di trattarle per ciò che sono, riconoscendone la storia, dando ad esse la dignità dovuta, e concedendo asilo. Non siamo di fronte a un cataclisma naturale. Siamo alle prese con rivoluzioni fallite, fatte fallire. L’Europa non l’ha fatto. Così come ha assistito inerme allo sfiorire delle Primavere arabe, sostituite da restaurazioni in divisa (militare) o da teocrazie islamiste. Cooperazione è rimasta una parola vuota, nel migliore dei casi è stata evocata con sincerità ma mai praticata come si sarebbe dovuto fare. E farlo non in nome di valori che pure dovrebbero far parte di una civiltà dei diritti e della cittadinanza che ha rappresentato il meglio dell’Europa; solidarietà, giustizia, inclusività...La ragione meno poetica, ma molto concreta, per la quale l’Europa dovrebbe attivare finalmente politiche di sostegno nei Paesi del Sud del Mediterraneo, è perché è nel nostro interesse. Perché dare soluzione ai conflitti che agitano quella parte di mondo significa dare una motivazione a milioni di persone per restare nelle loro città, per scommettere su una vita possibile, non solo migliore. La crisi libica, la guerra siriana, la restaurazione egiziana, non sono capitoli della politica estera di una cancelleria europea. Sono, soprattutto per Paesi frontalieri come l’Italia, parte della propria politica interna. Perché non esistono barriere, muri, mari militarizzati che possono fermare l’esodo biblico di una umanità sofferente che non ha più nulla da perdere. Di questa sofferenza, l’Europa è parte. Responsabile, anche se non lo ammette.

l’Unità 30.4.14
Lo sfregio su Aldrovandi Ovazione agli assassini
Cinque minuti di applausi a tre dei quattro poliziotti condannati
per l’omicidio durante il congresso del sindacato Sap
La madre: «Rivoltante»
di Roberto Rossi


Le ferite alla memoria di Federico Aldrovandi, il ragazzo ferrarese ucciso il 25 settembre del 2005 dopo un fermo da parte di una volante della polizia mentre stava tornando a casa, non finiscono mai. Il caso è chiuso, la Cassazione ha condannato quattro poliziotti per omicidio colposo, ma questo non basta. Non per tutti. Certamente non per il Sap, il sindacato autonomo di polizia, che da tempo si è messo dalla parte degli assassini di Federico in maniera plateale, pianificata, brutale, aggressiva.
Ieri, durante la sessione pomeridiana del suo congresso, in svolgimento nella città di Rimini, tre dei quattro poliziotti sono stati accolti in sala da cinque minuti di applausi. Un’eternità. Che segna la distanza tra il buon senso e l’ottusità, tra la verità e la calunnia. Paolo Forlani, Luca Pollastri e Enzo Pontani sono stati accolti da questo gruppo di poliziotti, di destra è bene ricordarlo, come degli eroi per aver pestato, schiacciato, soffocato un ragazzo di diciotto anni una notte di autunno e aver cercato di coprire in tutti i modi quell’omicidio alterando la realtà dei fatti. Oltre ai tre poliziotti presenti al congresso riminese, nel caso Aldrovandi era coinvolta anche un’altra poliziotta, Monica Segatto, che ieri, però, non era presente in sala. I quattro hanno trascorso solo alcuni mesi in carcere, graziati dall’indulto, e sono tornati al lavoro.
«È terrificante, mi si rivolta lo stomaco » ha detto Patrizia Moretti dopo aver appreso dell’applauso. «Cosa significa? Che si sostiene chi uccide un ragazzo in strada? Chi ammazza i nostri figli? È estremamente pericoloso». Il Sap, ha aggiunto Moretti su Facebook, «applaude a lungo i condannati per l’omicidio di mio figlio. Provo ribrezzo per tutte quelle mani. Alessandro Pansa era lì?», si domanda la Moretti. Il capo della polizia, in realtà, aveva lasciato il congresso del sindacato da alcune ore e da quel palco, ironia della sorte, aveva annunciato nuove regole d’ingaggio per la polizia.
Non è la prima volta che il Sap si concede il lusso della vergogna. Lo scorso 17 febbraio, ad esempio, il segretario Gianni Tonelli aveva detto, a poche ore dalla marcia alla quale parteciparono migliaia di ferraresi per chiedere la destituzione dei quattro agenti riammessi in servizio una volta scontata la condanna, che «le vere vittime della morte del diciottenne Federico Aldrovandi sono i quattro agenti che lo hanno ucciso».
Il Sindacato Autonomo di Polizia non è stato il solo a schierarsi apertamente dalla parte dei colpevoli. In principio fu il Coisp, altra sigla sindacale di destra ma meno rappresentativa della prima. Il 27 marzo del 2013 arrivò a manifestare sotto la sede di lavoro della madre di Federico a Ferrara. Una decina di poliziotti, sotto la tutela politica dell’europarlamentare ex Pdl e poi Fli Salato, inscenò un sit-in con lo slogan «la legge non è uguale per tutti ». Per quella manifestazione fu rimosso il questore di Ferrara, arrivarono le scuse del ministro degli Interni Cancellieri, non quelle dei poliziotti.
E andando dietro nel tempo come non ricordare l’uscita, nel giugno 2012, di uno degli autori dell’omicidio, Paolo Forlani, sulla pagina Facebook di Prima Difesa Due (poi chiusa dalla polizia postale). Forlani scrisse, in riferimento proprio a Patrizia Moretti, «ma che faccia da culo aveva sul tg». La pagina era gestita da Simona Cenni, che a sua volta scrisse: «Federico faceva uso di sostanze stupefacenti, alcool e mamma e papà sapevano… dormiva dal nonno Federico e non a casa con i genitori… e Federico ha dato tanto alla sua famiglia dopo la morte. Due milioni di euro… riposa in pace ragazzo… sapendo che se i tuoi ti avessero aiutato saresti ancora vivo». C’è un modo per mettere fine a questa vergogna? Il capo della polizia batta un colpo.

l’Unità 30.4.14
Carceri, urla dal silenzio
di Luigi Manconi e Stefano Anastasia


È proprio il caso di dire: ogni giorno ha la sua pena. Nel senso che, con frequenza pressoché quotidiana, l'Italia viene sanzionata da organismi sovranazionali in ragione delle sue gravi inadempienze, o peggio, sul piano del rispetto dei diritti fondamentali della persona. Questa volta, particolarmente severo è stato il Consiglio d’Europa.
Il quale ha ribadito un’aspra verità: nel settembre del 2012 abbiamo strappato alla Grecia il mortificante primato del sovraffollamento penitenziario tra i Paesi dell' Unione europea; e nel più ampio bacino del Consiglio d'Europa siamo secondi solo alla Serbia. In estrema sintesi il rapporto è sempre quello: dove ci sono due posti letto, il sistema penitenziario italiano colloca tre detenuti. Si dirà: ma sono dati vecchi, che risalgono a quasi due anni fa. Vero. Ed è pur vero che da allora a oggi la popolazione detenuta è diminuita di circa 6.500 unità, ma il sovraffollamento resta e quasi ventimila detenuti ancora oggi non hanno un posto letto regolamentare.
Quando il Consiglio d'Europa ha fatto la sua rilevazione per il rapporto presentato ieri a Strasburgo, la Corte europea dei diritti umani non aveva ancora deciso a proposito del caso Torreggiani. E non aveva ancora formalmente ammonito l'Italia a ricondurre il sistema penitenziario entro i binari della legalità. Eppure il presidente della Repubblica già si era espresso con forza contro «una realtà che ci umilia in Europa» e il governo Monti aveva già adottato il suo decreto cosiddetto «svuota carceri». Poi, dopo quella rilevazione, è venuta la sentenza Torreggiani, un nuovo decreto (Cancellieri I), il messaggio di Giorgio Napolitano alle Camere (8 ottobre 2013) e un nuovo decreto (Cancellieri II).
Dopo tutto questo, la popolazione detenuta è diminuita solo di 6.500 unità su un' eccedenza di circa ventimila: un po' pochino per poter dire di aver fatto i compiti a casa.
Aveva ragione il presidente della Repubblica: il sovraffollamento penitenziario si batte con riforme ordinarie e con misure straordinarie. Con le riforme destinate a introdurre un ampio ventaglio di alternative alla detenzione in cella, con la drastica riduzione del ricorso alla custodia cautelare e con un radicale mutamento della legislazione sulle sostanze stupefacenti e sull'immigrazione irregolare. E con le misure straordinarie che riportino immediatamente il nostro sistema penitenziario nella legalità, mettendo fine alla perdurante violazione dei diritti umani che si consuma nelle nostre carceri.
Insomma, prima di adottare le terapie ordinarie (le riforme di sistema), è necessario abbassare drasticamente la febbre che affligge e deforma il corpo malato del sistema penitenziario.
Solo dopo aver abbattuto quella temperatura così parossisticamente alterata e aver introdotto un po' di normalità, attraverso un provvedimento di amnistia e indulto, si potrà intervenire con misure di lungo periodo e che agiscano in profondità.
Un ceto politico pavido ha futilmente discettato dell'uovo e della gallina, se vengano prima le riforme o un misurato ed efficace atto di clemenza; e non ha avuto il coraggio di dire (e di fare) quello che il presidente della Repubblica sollecita, quello che Marco Pannella tenacemente richiede, quello che papa Francesco - nel solco dei suoi predecessori appena canonizzati - si è impegnato a sostenere («Cristo è stato prigioniero», così ai reclusi nel carcere minorile di Casal del Marmo).
Il 28 maggio, data di scadenza dell'ultimatum della Corte europea dei diritti umani, si avvicina. Il governo ha ancora in serbo qualche «rimedio compensativo», finalizzato a riportare il contenzioso sulle condizioni delle carceri alla competenza dei giudici nazionali.
Ma che ne è dei rimedi preventivi? Che ne è della richiesta all'Italia di rimuovere la cause strutturali del sovraffollamento? Sarà uovo o sarà gallina? La via impervia della riforma ordinaria del nostro sistema penale e penitenziario non riesce a cancellare qui e ora lo scandalo del sovraffollamento.
Ne abbiamo un esempio in Parlamento in queste ore: si vota la fiducia al decreto- legge sulle droghe e la principale misura di decarcerizzazione in materia resta quella compiuta dalla Consulta con la dichiarazione di incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi. Nel merito, le Camere non riescono ad andare più in là di quanto viene loro imposto dai giudici della Corte costituzionale. È una sconfitta della politica, questa, ma è anche il segno che la politica - il confronto tra diversi programmi e diverse culture - ha bisogno di trovare tempi e modi per scelte condivise. Intanto, però, la realtà urge, la «nuda vita» reclusa e degradata in carcere chiede dignità e diritti.
Possiamo permetterci di continuare a ignorarla?

l’Unità 30.4.14
Sovraffollamento carceri, peggio di noi solo la Serbia
di A. T.


L’ultima vittima delle carceri italiane è un agente penitenziario di 47 anni residente a Villafranca Padovana. Si è ucciso ieri nel garage della sua abitazione sparandosi un colpo alla testa. Lavorava presso la Casa Circondariale di Padova. «L'agente - dice Donato Capece, segretario nazionale del Sappe - si sarebbe suicidato sparandosi alla testa per lo stress da lavoro, una circostanza che accade sempre più spesso tra i colleghi più fragili e generata dalla mancanza di personale e turni troppo pesanti ». E mentre Capace annuncia che il Sappe si prepara a istituire un «punto di ascolto», a cominciare da Roma, per poi espanderlo in più località, per tutelare «i colleghi in difficoltà psicologica generata dai carichi di lavoro e dalla situazione delle carceri italiane in genere », dall’Europa arriva la nuova conferma dello stato infernale dei nostri penitenziari.
La nuova certificazione è contenuta in un rapporto redatto dal Consiglio d’Europa ed è relativo all’anno 2012. Si legge che i Paesi dove la situazione rimane più grave sono Serbia, Italia, Cipro, Ungheria e Belgio. L’organismo di Strasburgo che sovrintende alla difesa dei diritti umani, torna a bacchettare lo Stato italiano: le nostre carceri, infatti, continuano ad essere le più sovraffollate in ambito europeo. La realtà riferita al nostro Paese parla di 145,4 detenuti per 100 posti disponibili, contro una media di 98 su 100: è la situazione peggiore dell’Unione europea a 28 paesi, mentre fra i 47 paesi che fanno parte del Consiglio d'Europa solo in Serbia il sovraffollamento è maggiore.
Il problema, si legge ancora nel rapporto, è grave in 22 Stati, e in particolare, oltre che in Italia e Serbia, anche in Belgio, Ungheria e a Cipro. In Italia solo lo 0,7% dei detenuti (quota tra le più contenute) è in carcere per reati legati alla criminalità organizzata. Al contrario, sempre stando al rapporto che fa riferimento a 47 delle 52 amministrazioni carcerarie d’Europa, da noi è molto elevata la proporzione dei condannati a più di 20 anni di reclusione: il 4,8% contro una media dell'1,9%. E ancora, in media, il 20% dei detenuti condannati sconta pene inferiori a un anno, e un quarto di tutti i detenuti è ancora in attesa di una sentenza definitiva.
Oltre ad essere le più affollate, le carceri italiane si evidenziano per un altro record negativo: contengono il più elevato numero di detenuti per reati legati al traffico di droga, pari al 38,8% del totale dei condannati, contro una media europea del 17,1%. In generale, il furto e il traffico di droga restano i reati per i quali più facilmente si finisce in carcere in Europa, seguiti da rapina e omicidio.
L’Italia nel 2012 è stato il paese - si legge ancora - con il maggior numero di detenuti stranieri nelle sue carceri. In totale erano 23.773, e rappresentavano quasi il 36% dell'intera popolazione carceraria. Il 45% era in attesa di giudizio, e quasi il 21% era un cittadino di un altro Stato membro dell’Unione europea. Inoltre il nostro Paese è quello con il minore numero di fughe durante il trasporto in tribunale, ad altro istituto penitenziario o all’ospedale. In totale in Italia nel 2011 sono riusciti a evadere 5 detenuti. Il primato per numero di evasioni spetta alla Svizzera (33), seguita dall'Austria (30), Francia (29), Belgio (28), Turchia e Scozia entrambe con 24 evasioni. Dal rapporto 2012 sulle carceri del Consiglio d'Europa risulta che la maggior parte dei detenuti fugge durante i permessi d'uscita o quando è sotto un regime di semi libertà. Le persone fuggite in Italia in queste circostanze sono state 148 nel 2011. Numero molto distante da quelli riportati per la Spagna (1.510), la Francia (888) o il Belgio (702).
Sul tema del sovraffollamento è intervenuto anche Giovanni Tamburino, capo dipartimento dell'amministrazione penitenziaria: «Dalle ultime stime di ieri, la presenza dei detenuti nelle nostre carceri è quantificabile in poco meno di 60mila, esattamente 59.700, ai quali vanno tolti 800mila che sono in semilibertà, e quindi si trovano in sezioni esterne al carcere».

l’Unità 30.4.14
In fuga dall’università devastata
di Pietro Greco


SOSTIENE EUROSTAT, L’UFFICIO STATISTICO DELL’UNIONE EUROPEA: CON IL 22,4% DI LAUREATI NELLA FASCIA DI ETÀ COMPRESA TRA I 30 E I 34 ANNI, nell’anno 2013 l’Italia risulta ultima assoluta tra i 28 Paesi dell’Unione Europea. Superata, negli ultimi quattro anni, anche dalla Slovacchia (26,9%), dalla Repubblica Ceca (26,7%) e, di poco, dalla Romania (22,8%).
Sostiene l’Unione Europea: se vogliamo entrare nella società della conoscenza entro il 2020 dovremo avere una media del 40% di laureati tra i giovani dell’Unione. Oggi ci siamo vicini: siamo al 36,8%. Molti Paesi si sono dati obiettivi nazionali più ambiziosi. In Scandinavia si parla del 50%. L’Irlanda, che già è al 52,6%, ha come traguardo il 60% di laureati. L’Italia, invece, si è data l’obiettivo più basso in assoluto dell’Unione: 27% di laureati tra i giovani di età compresa tra 30 e 34 anni entro il 2020. Una soglia così piccola che, come nota De Nicolao sul sito Roars, tutti gli altri, a eccezione di Bucarest, già oggi hanno centrato.
Sostiene la Fondazione Agnelli: con un taglio del 9,4% del personale dipendente, l’università è il settore della pubblica amministrazione che ha subito la maggiore sforbiciata al personale tra il 2007 e il 2012. Seconda solo alla scuola, che ha subito un taglio del 10,9% delle sue «risorse umane». Ma poiché il taglio medio del personale nella pubblica amministrazione è del 5,6% e poiché tutti gli altri settori, diversi da scuola e università, hanno subito un’erosione inferiore al 5,0%, ogni dubbio è sciolto: l’Italia ha deciso di risparmiare prima e soprattutto sulla formazione dei suoi giovani.
Sostiene il Cun, il Consiglio universitario nazionale: i tagli non sono finiti. Se continueremo ad applicare le leggi e le norme esistenti nei prossimi anni avremoun calo del 50% dei professori ordinari nelle università e un calo molto simile dei professori associati e dei ricercatori. Il sistema universitario italiano ne uscirà semplicemente devastato.
Sostiene l’Anvur, l’Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca, in un rapporto ripreso di recente da l’Unità: negli ultimi anni c’è stato un calo del 20% delle iscrizioni dei giovani all’università, con una punta del 30% nel Mezzogiorno. Nel nostro Paese è in atto una vera e propria «fuga dall’università».
Cinque categorie di dati proposti da cinque istituzioni indipendenti ci dicono la stessa cosa: l’università italiana è in piena emergenza. E non si tratta di un’emergenza grave, ma contingente. Si tratta di un’emergenza strategica. Di una devastazione, appunto. Il Paese sembra aver rinunciato con sistematica determinazione a un futuro fondato sulla conoscenza.
Si tratta di una scelta in assoluta controtendenza. I giovani di età compresa tra i 25 e i 34 anni con una laurea in tasca nei Paesi Ocse è del 40%. In alcuni Paesi come il Giappone, il Canada e la Russia sfiorano il 60%. In Corea sfiorano il 65%. Per restare in Europa: in Spagna già oggi i giovani laureati sono il 40,0%, in Francia il 44,0%, in Gran Bretagna il 47,6%, in Svezia il 48,3%. E la tendenza è alla crescita. Tutti sono convinti che il futuro sarà sostenibile solo se la gran parte della popolazione attiva avrà almeno 15/18 anni di studi alle spalle e proseguirà in un long life learning. Tutti puntano sull’università. Tutti tranne l’Italia.
La scelta di navigare controtendenza è molto discutibile: nessun analista autorevole al mondo, infatti, sostiene che il futuro appartiene all’ignoranza. Nessun analista autorevole sostiene che è possibile sfuggire al declino economico (e non solo economico) del nostro Paese con meno conoscenza relativa rispetto agli altri.
Ma, per quanto discutibile, la scelta sarebbe legittima se fosse avvenuta (e avvenisse tuttora) alla luce del sole. Che fosse, appunto, frutto di un dibattito democratico. Invece la scelta è stata effettuata in sordina. Senza che la domanda – volete un’Italia fuori dalla società della conoscenza e, dunque, destinata a restare ai margini dell’economia della conoscenza? – sia discussa chiaramente in pubblico. Senza che i cittadini italiani possano scegliere di tagliare il doppio nella scuola e sull’università rispetto a ogni altro settore della pubblica amministrazione.
Il problema non è settoriale. Ma è, appunto, strategico. Mette in gioco il lavoro dei nostri figli e il ruolo che nei prossimi decenni l’Italia avrà in Europa e nel mondo. Èun problema culturale. È un problema economico. È un problema politico. Non lasciamo che a discuterne siano pochi addetti ai lavori. I media devono portarlo in prima pagina. Gli economisti lo devono portare in testa alle loro analisi. La politica deve metterlo in cima alla sua agenda. Perché è, semplicemente, il primo dei problemi politici: riguarda il futuro, anche quello immediato, dei nostri figli. Riguarda il futuro, anche quello immediato, del Paese.

Corriere 30.4.14
Negozi aperti il Primo maggio Ma si pensa di chiuderli per legge
Il testo in Commissione alla Camera. «Così i consumi calano»
di Rita Querzé


MILANO — Aperture festive dei negozi: prove di retromarcia. Quanto rapida è da vedere. Resta il fatto che alla Camera si lavora per mettere qualche paletto al «liberi tutti» introdotto dal governo Monti con il decreto Salva Italia.
Dal primo gennaio 2012 i negozi possono restare aperti quando vogliono, Natale e Pasqua compresi. Di qui le polemiche che si rinnovano a ogni giorno segnato in rosso sul calendario. Non fa eccezione il Primo maggio: in Veneto domani più della metà degli ipermercati avrà le saracinesche alzate. In Piemonte saranno aperti anche alcuni punti vendita Coop, nonostante l’insegna in molti territori (è il caso di Coop adriatica) abbia esposto un manifesto con su scritto «Primo maggio chiusi per scelta». Carrefour alzerà la saracinesca nel 70% degli iper. Le aperture nei festivi piacciono anche a insegne alla moda come Eataly. E alle catene. Prendiamo Yamamay: «L’apertura festiva è una opportunità, anche il Primo maggio», dicono dal quartier generale dell’azienda.
Il sindacato risponde con una parola: sciopero. Sciopero regionale in Toscana. Scioperi provinciali a tappeto in Emilia Romagna, Lazio. E in Umbria (uno dei pochi casi in cui la protesta è indetta solo dalla Cgil, le altre sono unitarie). A macchia di leopardo agitazioni anche in Piemonte, Liguria, Veneto. Mentre in Lombardia commesse e commessi incrociano le braccia solo a Milano.
Nei territori la protesta si anima, sostenuta anche da numerosi comitati (Liberiamo la domenica, Domenica no grazie, Salviamo la domenica). Ma la linea più avanzata del confronto è altrove. In Parlamento. Settimana prossima la Commissione attività produttive della Camera inizierà a discutere una proposta di legge che è la sintesi dei testi presentati da Pd, Pdl, M5S oltre che di un articolato di iniziativa popolare promosso da Confesercenti e Cei.
Tre i cardini del nuovo testo. Il primo: un numero di feste con chiusura obbligatoria in tutta Italia (cinque, dieci, venti? Si sta discutendo). Il secondo: delega a Comuni e Regioni sulle aperture domenicali. Il terzo: agevolazioni (anche economiche) per il piccolo commercio. Relatore della proposta di legge è il Pd Angelo Senaldi. Che cerca di ammorbidire le rivendicazioni delle parti in causa: «È importante che tutti abbandonino le posizioni di bandiera per adottare un atteggiamento improntato alla ragionevolezza». Per quanto riguarda la tabella di marcia della proposta «l’obiettivo è dare il via libera in Commissione entro la fine di maggio per portare il testo in aula a giugno», spiega Senaldi.
Il testo è un netto cambio di passo rispetto alla liberalizzazione totale di oggi. Avrà gambe per camminare? «Lo vedremo nelle prossime settimane — risponde il presidente della Commissione Attività Produttive, il Pd Guglielmo Epifani —. Di certo si tratta di uno sforzo di sintesi reale e necessario».
Dal punto di vista politico, la nuova proposta di legge potrebbe essere il terreno di sperimentazione di geometrie variabili. Dentro a Pd e Forza Italia sull’argomento esistono posizioni diverse. Solo Scelta Civica è compatta in difesa della liberalizzazione. Mentre il M5S è disponibile a sostenere il testo in gestazione: «Si reintroduce un numero di festività in cui i negozi saranno tenuti a restare chiusi, perciò noi ci stiamo. Anzi, per quanto ci riguarda andrebbero messi limiti anche sulle domeniche», entra nel merito Marco Da Villa, in Commissione attività produttive per il M5S.
Chi invece prende male, anzi malissimo, l’iniziativa è Federdistribuzione, l’associazione delle grandi catene di super e ipermercati. «Mediazioni? Ritocchi alla normativa vigente? No, no e ancora no. Su tutta la linea», taglia corto il presidente, Giovanni Cobolli Gigli. «Dal primo gennaio 2012 abbiamo creato 4.200 posti di lavoro grazie alla libertà di apertura nei fine settimana. Mentre i consumi calano, impedire le aperture festive sarebbe il più grande errore». Sulla stessa lunghezza d’onda anche Confimprese di Mario Resca.
Sul fronte opposto Confcommercio. «Le liberalizzazioni garantiscono efficienza economica ma creano disagio sociale», dice il vicepresidente Lino Stoppani. Ancora più duro il segretario generale di Confesercenti, Mauro Bussoni: «La coperta dei consumi è corta. La grande distribuzione vuole spostarla tutta sui fine settimana. Strangolando i piccoli».

l’Unità 30.4.14
Predappio: Museo che sorgi libero e giocondo...
di Bruno Gravagnuolo
 

CI AVETE FATTO CASO? LA POLEMICA CONTRO IL 25 APRILE SE NE È STATA CHETA A parte Il Giornale che la rinfocola pateticamente con un Cucù di Veneziani contro i «partigiani comunisti». Con versi dell’«ex» Octavio Paz, pentito per la giovanile «ideologia del nemico» (ma era la guerra civile spagnola! E l’aneddoto sulle voci umane degli «altri», oltre i sacchi sabbia, non ha nulla di cruento, e anzi fa onore ai «rossi»). E a parte il « dibattito» in cultura sempre del quotidiano sallustiano, su un possibile «Museo del fascismo». A Predappio... Idea col marchio Pd, del sindaco Frassinetti. Che però sembra svanire, per motivi di buon senso e malgrado il dibattitone: con Nicholas Farrell, Francesco Perfetti, Roberto Chiarini e Luciano Canfora. Ora un Museo è di fatto qualcosa di celebrativo. Di esteticamente, archeologicamente, e scientificamente degno di esser conservato, sistemato. O esecrato, o rammemorato con pietas (i musei della Shoa). Un Museo non può coincidere con un «problema storiografico» non del tutto risolto, come quello del fascismo. Che in forma di Museo rischierebbe di essere mera ideologia revisionista, o pura demonologia di sinistra. Oppure compromesso ibrido, senza taglio, né criteri condivisi. Insomma, un Museo del fascismo finirebbe in rissa o in rituale macabro. Con gadget, reliquie e pellegrini neri. A Predappio poi! Del resto lo capisce alla fine anche il buon Mario Cervi, chiamato a chiudere il dibattito: «meglio non farne niente», sarebbe l’orgia di nostalgici. E se lo dice lui...

Repubblica 30.4.14
Più innovazione in parlamento
di Elena Cattaneo



NONOSTANTE i freni cui cultura, innovazione, scienza e medicina sono da sempre sottoposti nel nostro paese, l’Italia dispone di competenze scientifiche, umanistiche, tecnologiche e imprenditoriali, abituate a sfide e a vittorie mondiali, dimostrando così che ci siamo anche noi. Eccome. Tuttavia nei campi più diversi ci si è trovati spesso di fronte a soluzioni legislative che hanno dato l’idea di “farsi un baffo” di queste raggiunte competenze, così come dell’esame delle fonti e dei fatti controllati. Il risultato è stato che in troppe occasioni non si è riusciti a cogliere al massimo le opportunità di sviluppo economico e i miglioramenti sociali che scienze e tecnologie e la cultura in generale potevano offrire. In quelle occasioni a perderne è stata anche la crescita civile della nazione, dei suoi cittadini, mal allenati al pensiero critico da pratiche comunicative populiste e demagogiche. Cittadini ai quali non si spiega cosa siano gli ogm (anzi, si vieta persino di studiarli… per poi importarli dall’estero); che la diagnosi pre-impianto è una conquista medica e sociale; che Stamina è l’anti-compassione; che il metodo Di Bella -sul quale ora alcune Regioni pare investiranno (non è il caso che il Governo controlli?) -non è medicina; che la sperimentazione animale è inevitabile; che i vaccini non causano l’autismo e che i terremoti non si prevedono ma che il territorio può essere difeso salvando vite e denaro.
Insomma, fuori dalle aule legislative l’Italia ha fior di professionisti abituati a confrontarsi con il mondo intero in ambiti del sapere ad alto tasso d’innovazione, quelli sui quali le grandi economie basano il loro futuro, mentre dentro tutto ciò sembra “non esistere”. Sia chiaro, non è un’accusa dire che un politico non sappia abbastanza di staminali, geologia, pensiero probabilistico o di tecnologie della comunicazione. Ma informarsi e capire questi temi significa dovervisi dedicare quasi esclusivamente -e pochi politici sono in grado, lasciati soli, di farlo -per capire e poi votare. Non è quindi automatico che le grandi conquiste della scienza, della medicina o degli studi sull’ambiente si trasformino in un vantaggio per il Paese, sebbene lo siano per la singola disciplina o il singolo centro di ricerca (che dovrebbero ancora di più sostenere l’avvicinamento, anche attraverso una rinnovata etica interna). Ecco perché penso sia importante considerare la possibilità che il nuovo Senato sia composto anche da figure d’eccellenza negli specifici settori.
La discussione sulla riforma del Senato è stata sinora improntata (e comunicata) prevalentemente sul “tagliare i costi della politica”, tesa ad intercettare pulsioni popolari accese dai malfunzionamenti causati in passato da incompetenti collocati nel posto sbagliato. Ma questa istituzione secolare è un’altra cosa e va difesa. Riorganizzata, certamente, ma non svuotata. Competenze e capacità politica insieme possono aprire al Paese occasioni più alte di socializzazione delle opportunità che la cultura, largamente intesa, può offrire. Senatori “specialisti” possono fornire visioni strategiche sul futuro in settori complessi e in rapida evoluzione, fare da “sentinella” sulle scelte del presente, partecipare alla elaborazione delle leggi, controllare gli effetti delle stesse e proporre eventuali adattamenti. Fare leggi è uno dei compiti più importanti ma anche più rischiosi per una nazione. I padri costituenti ci hanno lasciato una Costituzione molto attenta al bilanciamento tra poteri dello Stato, congegnando un processo legislativo molto articolato. Oggi serve maggior “agilità” decisionale ma non minori garanzie. Questo va raggiunto senza stravolgere i fondamenti del nostro sistema e, stante la necessità di superare il bicameralismo paritario -ad esempio non votando la fiducia al Governo -l’obiettivo dovrebbe essere prima di tutto l’efficacia istituzionale, che si otterrebbe ridistribuendo i compiti e garantendo la capacità di assolverli al meglio. Un Senato che includa competenze e “allenatori” del pensiero critico in campi d’avanguardia saprebbe vagliare e migliorare le leggi necessarie per governare la convivenza civile. Nel passato gli italiani hanno avuto l’orgoglio di vedere, nei ranghi del Senato, la presenza di personalità con altissime qualificazioni, che hanno agito con disinteressato impegno civile, mossi da un’etica di responsabilità sociale, “senza vincolo di mandato”, unito alle competenze scientifiche e tecnologiche dei loro tempi. E si trattava di momenti lontani dalle straordinarie complessità e conquiste di oggi. Credo che il nuovo Senato debba essere pensato e organizzato anche con questo fine.
Per questo vorrei richiamare l’attenzione sulla opportunità di vedere la presenza di 21 senatori, rivendicata solo ieri dal presidente del Consiglio Matteo Renzi nel corso dell'assemblea con i senatori del Pd, che si siano distinti per aver «illustrato il Paese per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario». Senza banalizzazione e senza aut aut, neppure sul loro numero, ma riflettendo sulle ragioni della proposta. Immaginandoli, cioè, come il frutto dello sforzo di sottrarre una parte della futura Camera Alta alla fisiologica spartizione politica dei seggi senatoriali, per innestare stabilmente nel circuito delle decisioni parlamentari lo spazio per un apporto di esperienze d'eccellenza conoscitiva riconosciuta, oggi poco presente. In altre parole queste figure sarebbero di aiuto alla politica nello scongiurare errori clamorosi come alcuni recenti e nell'affrontare visioni sul futuro. Se vi fosse accordo sull’obiettivo, sono sicura che i nostri eccellenti costituzionalisti e esperti della materia saprebbero individuare un meccanismo di “nomina o elezione” funzionale a realizzare l'aspettativa comune.
Mi sono sempre occupata di scienza, che ha un metodo infallibile per separare il vero dal falso, qui e ora, o meglio il confutabile dall’inesistente, le scienze dalle pseudoscienze e dalle ciarlatanerie. Si chiama sperimentazione. Mi piace poter pensare e sperare che il metodo per affrontare le riforme si rifaccia a questo principio, che peraltro ispirò i grandi filosofi della democrazia vissuti nel Seicento o nel Settecento, quando libertà ed eguaglianza erano ancora solo delle aspirazioni. E mi piacerebbe, soprattutto, che quando questo processo di riforma sarà compiuto, gli italiani possano dire: questa legge l’ha esaminata il Senato, mi fido perché è stata pensata o controllata per me anche da competenti disinteressati. Spero che si possa fare.

Repubblica 30.4.14
Il Parlamento degli anti-europei
di Andrea Bonanni


L‘ EUROPA , così com’è, non gli va a genio. La moneta unica tanto meno. Ma neanche tra di loro si piacciono tanto. L’esercito di antieuro che si prepara ad invadere l’emiciclo del Parlamento europeo rischia di presentarsi come un’armata Brancaleone: minacciosa per la sua consistenza numerica e il disagio che rivela, ma politicamente insignificante e non in grado di influenzare le scelte dell’Europa. Se messi tutti insieme, estrema destra ed estrema sinistra, i deputati contrari ai Trattati europei e alla moneta unica così come viene gestita oggi, formerebbero il primo partito.
MAla coabitazione è evidentemente impossibile. Non solo perché la sinistra di Tsipras non potrebbe mai fare fronte comune con la destra della Le Pen, ma anche perché all’interno di quel grande «partito della paura» che intercetta i voti di destra, le incompatibilità sono maggiori delle sintonie.
Il Parlamento europeo funziona, come tutti i Parlamenti nazionali, sulla base dei gruppi politici. La riunione dei capigruppo è quella che, in base ad un criterio di proporzionalità, assegna i rapporti, distribuisce gli incarichi nelle commissioni, programma il lavoro politico dell’assemblea e si ripartisce i finanziamenti.
Chi non riesce a entrare in un gruppo politico o a crearne uno proprio, finisce inevitabilmente per essere un paria, senza possibilità di influire sul funzionamento dell’istituzione. Ma per formare un gruppo politico, il regolamento richiede che ci siano almeno 25 eurodeputati di almeno sette Paesi diversi. E nell’eterogenea armata di oltre duecento deputati anti europei, l’operazione si prospetta tutt’altro che semplice.
Cominciamo con gli inglesi. La Gran Bretagna manderà a Strasburgo un folto gruppo di euroscettici eletti nell’Ukip, lo Uk Independence Party, e un buon numero di Conservatori. I due partiti sono però rivali e incompatibili: lo Ukip vuole l’uscita dall’Ue, mentre i conservatori chiedono di rinegoziare i Trattati.
In compenso, nessuno dei due partiti britannici è disposto ad allearsi con un altro forte gruppo di euroscettici, che saranno gli eletti francesi del Front National di Marine Le Pen: troppo di destra, troppo xenofobo e troppo populista. La Le Pen, secondo i sondaggi, avrà un successo strepitoso, grazie al sistema elettorale proporzionale. Ma troverà non poche difficoltà a formare un gruppo politico. Pur facendo parte dell’estrema destra, non vuole allearsi con i neonazisti ungheresi di Jobbik, né con quelli greci di Alba Dorata, troppo eversivi per i suoi gusti, che pure sono dati in crescita nei sondaggi.
Potrebbe allearsi con la Lega Nord. Ma di certo risulta incompatibile con il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo, che i pronostici danno come un altro dei grandi outsider di queste elezioni.
I quattro “tenori” del fronte anti-euro risultano dunque incompatibili tra loro. Forse alla fine riusciranno a formare quattro gruppi politici distinti raccogliendo l’adesione di partitini minori e di “cani sciolti” eletti negli altri Paesi. Ma si tratterà comunque di gruppi minoritari, nessuno dei quali sarà in grado di diventare neppure la quarta forza del Parlamento, dopo popolari, socialisti e liberali.
In compenso, l’invasione degli euroscettici avrà paradossalmente l’effetto di rafforzare la maggioranza filo-europea dell’assemblea di Strasburgo. Già popolari, socialisti e liberali hanno stretto un patto di ferro per negoziare tra loro la designazione del prossimo presidente della Commissione europea e imporne la nomina ai capi di governo, che fino ad ora erano i soli a decidere chi dovesse sedersi sulla poltrona più importante d’Europa. Questa maggioranza, nata dalla volontà di democratizzare la vita delle istituzioni comunitarie e sottrarle all’egemonia dei governi, sarà rafforzata e consolidata dalla contrapposizione con il fronte anti-europeo e dalla necessità di contrastarlo in tutte le numerose decisioni che riguardano un rafforzamento dell’integrazione. Quella che si creerà sarà, insomma, una larga maggioranza di “salute nazionale” europea, che relegherà ancora di più ai margini i partiti euroscettici. In questo senso, una volta decisi i giochi per la presidenza della Commissione, il Partito popolare potrebbe finalmente affrontare la questione della manifesta incompatibilità nei suoi ranghi di personaggi imbarazzanti e sostanzialmente anti-europei, come Silvio Berlusconi e il premier ungherese Viktor Orban. Ora gli eletti di Forza Italia e gli ungheresi di Fidesz sono essenziali per garantire al Ppe la posizione di partito di maggioranza relativa. Ma, in un Parlamento nettamente diviso sulla discriminante tra pro e anti-europei, la loro collocazione naturale è dalla parte degli euroscettici. E un loro allontanamento dal Ppe rafforzerebbe la coesione e la determinazione del fronte filo europeo.

Repubblica 30.4.14
“Europee, i partiti populisti al 30%”
Sondaggio-choc del think tank inglese Open Europe: a Strasburgo conquisteranno almeno 218 dei 751 seggi
Gli esperti: le previsioni premiano Le Pen, Wilders e Grillo, ma la maggioranza pro-integrazione non è in pericolo
di Enrico Franceschini



LONDRA. I partiti populisti antieuropei potrebbero ottenere più del 30 per cento dei voti alle elezioni europee. Lo rivela uno studio pan-europeo condotto dalla think tank britannica Open Europe. Secondo il rapporto, pubblicato dal Guardian di Londra, i partiti anti-europei, un raggruppamento che comprende formazioni politiche diverse tra loro come il partito di destra di Marie Le Pen in Francia, i populisti anti-immigrati di Gert Wilders in Olanda, gli indipendentisti dell’Ukip in Gran Bretagna, il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo in Italia e altri, conquisteranno almeno 218 dei 751 seggi del parlamento di Strasburgo, con un aumento complessivo delle loro forze dal 21 per cento nell’attuale legislatura al 30 per cento e oltre nella prossima.
Non tutti gli analisti concordano con la previsione di Open Europe, che comunque stima un indebolimento degli antieuropeisti moderati, come i conservatori britannici (i quali dovrebbero scendere da 53 a 39 seggi), cosicché nel prossimo parlamento ci sarebbe in ogni caso una solida maggioranza favorevole a mantenere l’integrazione europea o perlomeno lo status quo. La crescita del populismo anti-europeo, tuttavia, non è un campanello d’allarme soltanto per il parlamento di Strasburgo: segnala pure il rafforzamento dell’anti-politica nei singoli paesi europei in vista delle elezioni legislative che vi si terranno nel prossimo futuro. Il calcolo sul voto europeo segue del resto di pochi giorni un sondaggio secondo cui l’Ukip diventerà il primo partito britannico con il 31 per cento dei consensi alle europee del 25 maggio, superando laburisti (al 29 per cento), conservatori (al 24) e liberaldemocratici (al 9). Un rilevamento che ha talmente spaventato il premier britannico David Cameron da indurlo a promettere di dimettersi se nel 2017 non manterrà l’impegno a svolgere un referendum sull’appartenenza del Regno Unito all’Unione Europea. Il leader conservatore spera in tal modo di togliere voti all’Ukip, dimostrando di essere non meno anti-europeo, sebbene in realtà miri a far votare il proprio paese “sì” alla Ue nel referendum, a patto che la Ue riformi le sue leggi e restituisca alcuni poteri a Londra. Una richiesta che però Bruxelles e i maggiori partner europei non sembrano intenzionati ad accontentare, per cui alla fine Cameron potrebbe essere costretto a fare campagna per il “no” all’Europa. Nel tentativo di indebolire l’Ukip, gli altri partiti britannici intendono lanciare una campagna per accusarlo di essere un partito “razzista”.

il Fatto 30.4.14
Gli Usa insistono: “Comprate tutti gli F-35”
Una nota dell’ambasciata ricorda l’appello di Obama: “I tagli agli acquisti incidono sull’occupazione”
di Daniele Martini


Usando toni assai poco diplomatici, l’ambasciata americana a Roma avverte: pensateci bene prima di tagliare l’ordine degli F-35 perché “ulteriori riduzioni sul programma potrebbero incidere sugli investimenti e, dunque, sui benefici non soltanto sotto il profilo militare, ma anche in termini economici in generale ed occupazionali in particolare”.
SI FA FATICA a trovare un termine diverso da ricatto per commentare un’uscita del genere. La nota è stata consegnata al giornalista Gad Lerner che affronta la faccenda dell’acquisto dei cacciabombardieri in una trasmissione su Laeffe. In pratica gli americani ci mandano a dire in un modo assai poco canonico e trattandoci nella sostanza alla stregua di sudditi non di alleati che la rinuncia da parte italiana all’integrale proseguimento del progetto degli F 35, cioè al programmato acquisto di 90 aerei, non sarebbe una faccenda indolore. La formulazione scelta è perentoria e tutto lascia credere che gli americani minaccino conseguenze ad ampio raggio. Nella stessa nota l’ambasciata americana ha ricordato che il presidente Barak Obama ha fatto presente a tutti gli alleati Nato che è necessario facciano la loro parte anche in momenti difficili come l’attuale. In effetti c’è un divario tra l’impegno americano per l'alleanza che si colloca intorno al 4 per cento del Pil e quello italiano che non arriva neppure all’1. Ed è comprensibile che gli Usa insistano perché questo divario venga colmato, almeno in parte. Meno comprensibile è che intendano imporre agli alleati, Italia compresa, come devono essere allocate le risorse, cioè quali armamenti comprare e quali no. Che un taglio da parte italiana degli ordinativi degli F-35 possa provocare conseguenze all’Alenia, l’azienda Finmeccanica che assemblea gli aerei a Cameri in provincia di Novara, e poi all’indotto e quindi all'occupazione (oggi 400 persone) è un dato scontato e non varrebbe certo la pena ricordarlo in una nota diplomatica. L’Italia lo sa e l’ha messo in conto quando ha deciso una prima riduzione dell'ordine dei caccia da 131 a 90. C'è da supporre quindi che gli americani vogliano dirci qualcosa di diverso e più imbarazzante dal nostro punto di vista. Del tipo: guardate che un ulteriore taglio sarebbe considerato da noi uno sgarbo tale che le ripercussioni sarebbero ad ampio spettro. La sorprendente uscita americana arriva subito dopo che il 25 aprile il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, pur non nominando mai gli F-35, aveva ribadito la necessità di non ridurre gli impegni militari dell’Italia e messo in guardia contro quello che lui considera un “nuovo anacronistico antimilitarismo”.
LETTE INSIEME le due uscite, quella americana e quella di Napolitano, fanno supporre che per gli F-35 siano intercorsi a suo tempo tra lo Stato italiano, gli Stati Uniti e l’azienda produttrice del superjet, la Lockheed Martin, patti vincolanti e assolutamente segreti, accordi praticamente immodificabili. Se le cose stessero in questi termini sarebbe una sorta di presa in giro la scelta del Parlamento italiano di subordinare l’acquisto degli F-35 ad una ricognizione parlamentare sulle esigenze della difesa.

il Fatto 30.4.14
Palestina Falliti i colloqui di pace

Dopo la politica sul campo, anche il tempo ha decretato ufficialmente la fine dei negoziati tra israeliani e palestinesi: sono scaduti ieri i 9 mesi decisi nello scorso luglio a Washington, sotto la spinta del presidente Obama e del segretario di Stato John Kerry, per trovare un accordo tra le parti. LaPresse  

La Stampa 30.4.14
Raccogliamo la sfida di Abu Mazen
di Abraham B. Yehoshua


Gli esperti israeliani di politica palestinese sostengono che l’accordo recentemente siglato tra l’Autorità palestinese e Hamas non resisterà a lungo. Già in passato accordi simili si sono dissolti in breve tempo. Personalmente vedo con favore questa nuova alleanza e vorrei esprimere la speranza che questa volta perduri nel tempo. E questo perché la ritengo naturale, necessaria ed essenziale al progresso del processo di pace.
In Israele si sono avute diverse reazioni a questa iniziativa. Da un lato, sulla base dell’esperienza passata, c’è chi afferma che l’accordo non durerà. Dall’altro c’è chi dubita, nega e ostacola la possibilità di raggiungere la pace, in testa a tutti il primo ministro Netanyahu che ha approfittato di questa intesa per sospendere il processo di pace, evitare il proseguimento dei colloqui e il raggiungimento di un’intesa che richieda importanti concessioni da parte di Israele. Con la sospensione dei colloqui Netanyahu intende premere sull’Autorità palestinese per una revoca dell’accordo con Hamas supponendo (in maniera discutibile, a mio parere) che un governo palestinese senza tale movimento si mostri più malleabile nel negoziato con Israele.
Ma c’è anche chi vede la nuova intesa in una luce positiva.
E in effetti Abu Mazen ha lanciato una vera e propria sfida allo stato ebraico: «Forza», sembra voler dire, «mettetemi alla prova e guardate se dopo l’adesione di Hamas muterò le mie posizioni e inasprirò le richieste già poste durante il negoziato».
Dopo tutto gli israeliani hanno sempre sostenuto che un accordo di pace con l’Autorità palestinese includerebbe solo una parte del popolo palestinese, e quindi sarebbe poco sicuro e affidabile. Ma ora che si trovano davanti a un governo che rappresenta l’intero popolo, all’improvviso la situazione si fa scomoda perché i vecchi pretesti non valgono più e bisogna affrontare una realtà diversa.
Dobbiamo capire che la decisione di Hamas di unirsi al governo dell’Autorità palestinese e di accettare le sue condizioni di base per una pace con Israele è sostanzialmente l’ammissione di un cambiamento di rotta (nonostante questo non venga dichiarato ufficialmente). Hamas sa che alla fine dovrà riconoscere la realtà di Israele e non potrà continuare la politica fallimentare e distruttiva che ha intrapreso dopo il ritiro dello stato ebraico dalla Striscia di Gaza e che ha provocato continui disastri.
Anziché imprimere slancio all’edilizia e allo sviluppo della regione sotto il suo controllo il governo di Hamas ha iniziato a lanciare razzi su centri israeliani e, naturalmente, Israele non è rimasto a guardare ma ha reagito energicamente, inferendo duri colpi alla macchina da guerra del movimento palestinese e alla popolazione in generale. Nonostante un informale cessate il fuoco piccoli gruppi estremisti hanno continuato a lanciare razzi su Israele contribuendo a minare il regime di Hamas. A questo va aggiunta la destabilizzazione dei rapporti di quest’ultimo con l’Egitto persino durante il breve periodo del governo dei Fratelli Musulmani e, più di recente, con il consolidamento del regime militare. Hamas, garantendo il proprio aiuto a cellule terroristiche nella penisola del Sinai, è diventato nemico degli egiziani che hanno cominciato a trattarlo duramente.
La svolta di riconciliazione di Hamas con l’Autorità palestinese non scaturisce pertanto da un improvviso amore per Israele ma da una crescente consapevolezza che la situazione si fa via via più complessa e difficile. Quindi, a mio parere, l’iniziativa di Hamas non è una tattica momentanea ma nasce dalla volontà di sfuggire alle difficoltà e di riconoscere indirettamente la legittimità di Israele tramite l’Autorità palestinese, che da molti anni ha imboccato la via della pace e ha abbandonato quella della violenza.
Abu Mazen dice la verità quando ribadisce che le condizioni fondamentali per una pace con Israele – il ritorno ai confini del 1967, Gerusalemme Est come capitale dello Stato palestinese, eventuali scambi territoriali e l’accettazione delle condizioni di Israele in materia di sicurezza (in particolare la smilitarizzazione della Cisgiordania) – non cambieranno con l’adesione di Hamas al suo governo.
Anzi, chi dubita delle sue parole può metterlo alla prova, in primo luogo gli americani che hanno investito moltissimi sforzi in questo zoppicante processo di pace.
Ma quando il primo ministro israeliano mostra tanta poca considerazione verso il partner di pace palestinese più serio che abbiamo mai avuto nel corso di questo conflitto vecchio più di centovent’anni, come si può sperare che la recente iniziativa di unificare il popolo palestinese, da sempre lacerato e diviso, abbia esiti positivi? Quando Abu Mazen, il presidente legittimamente riconosciuto di tutto il popolo palestinese, parla con grande empatia della sofferenza degli ebrei durante la seconda guerra mondiale nel giorno della memoria (celebrato ieri in Israele) e dichiara che la Shoah è il più grande crimine della storia umana, il premier israeliano reagisce con disprezzo, definendo le sue parole «una dichiarazione vuota».
E in effetti non c’è da stupirsi che un leader che rilascia a sua volta dichiarazioni vuote tenda a credere che anche gli altri si comportino come lui.

Repubblica 30.4.14
Kenya
Poligamia legale senza il consenso delle mogli


NAIROBI La poligamia è diventa legge in Kenya: il presidente, Uhuru Kenyatta (sopra), ha promulgato ieri la sua controversa legge sul matrimonio, che fra le altre cose consente a un uomo di sposare quante donne desidera anche senza il consenso della o delle altre mogli. Il provvedimento, si legge in un comunicato della presidenza, «raggruppa le differenti legislazioni in materia di matrimonio» e stabilisce che «il matrimonio è l’unione volontaria di un uomo e di una donna in una unione monogama o poligama». Approvato a metà marzo, il parlamento di Nairobi eliminò dal testo originario la possibilità per le altre spose di opporsi al matrimonio, provocando l’indignazione delle deputate, che abbandonarono l’aula in segno di protesta. Il testo inoltre prevede che le donne possano sposare solo un uomo. Alla legge si sono duramente opposti diverse organizzazioni per i diritti umani e per i diritti delle donne, oltre al Consiglio nazionale delle Chiese del Kenya (Ncck) che raggruppa 40 fra chiese e organizzazioni cristiane.

Corriere 30.4.14
«Donna di conforto» Un insulto che fa male
di Gian Antonio Stella


«All’inizio ricevevo cinque-dieci soldati al giorno. Le ragazze che erano là da più tempo mi avevano detto di non oppormi, altrimenti mi avrebbero uccisa. Poi ci portarono in nave su alcune isole, in cui non c’erano donne per i soldati. Eravamo noi a recarci dove serviva. Quando scoppiò la guerra a Palau, dovevo ricevere 20-30 soldati al giorno. Formavano una lunga coda all’esterno della comfort station . Dopo i primi venti perdevo conoscenza, mi sembrava di morire. Piangevo perché volevo tornare a casa e mi picchiavano. Piangevo e mi picchiavano così tanto che, alla fine della guerra, non avevo più nessun dente...».
Soon-Aee aveva solo 13 anni quando fu «requisita» da tre poliziotti giapponesi nella sua casa di Masan, nella parte meridionale della Corea del Sud. L’orientalista Ilaria Maria Sala la incontrò qualche anno fa per il Diario al «Museo storico della schiavitù sessuale militare giapponese» che ricorda una delle pagine più spaventose della storia della II Guerra mondiale.
Dal 1931 al 1945, riassumeva la Sala, «l’esercito imperiale giapponese decise che per limitare gli stupri, proteggere i soldati dalle malattie veneree e mantenere alto il morale delle truppe era necessario creare una rete capillare di bordelli-prigione, che si estendesse dalle isole della Micronesia alla Birmania, in cui far servire donne che non fossero prostitute di professione, per evitare malattie. In mancanza di volontarie, le donne furono portate con le minacce nelle baracche presso le trincee chiamate “stazioni di conforto”».
Furono alcune decine di migliaia (addirittura 410 mila, secondo fonti cinesi citate dalla sinologa britannica Caroline Rose) le ragazze coreane ridotte alla schiavitù sessuale: «Quelle che non si suicidarono o non vennero uccise in tentativi di fuga passarono anni costrette a servire fino a cinquanta soldati al giorno. Le vittime di questa violenza furono poi ignorate da tutti: dagli Alleati, che ne rimpatriarono migliaia senza porsi troppe domande; dal processo di Tokyo contro i crimini di guerra; (...) dai loro governi, desiderosi di riallacciare buone relazioni col Giappone (...) e il dramma di così tante donne fu spazzato sotto il tappeto, mentre in molti mormoravano che, tutto sommato, si trattava di “puttane”.» O, come furono chiamate, «comfort women ». Donne di conforto...
Per questo la volgarità delle accuse sparate l’altro ieri dal governo nordcoreano contro la presidente sudcoreana Park Geun-Hye, additata come «una spregevole prostituta», è perfino più infame di quanto sia apparsa ai giornali occidentali. Perché le autorità di Pyongyang hanno usato quelle parole («una donna di conforto per gli Stati Uniti») sapendo che avrebbero ferito la donna più di qualunque altra. Ancora più indecente, se possibile, è il fatto che quelle poverette furono rastrellate in tutta la Corea, anche quella settentrionale, che oggi sta sotto il tallone canaglia di un giovane dittatore sanguinario sedicente comunista...

La Stampa 30.4.14
La Cina prima economia al mondo
Il sorpasso sugli Usa già nel 2014
Secondo lo studio dell’International Comparison Program della Banca  Mondiale riportato dal Financial Times

gli Stati Uniti perderanno
lo scettro prima del previsto. L’India, invece, si piazza in terza posizione

qui

Giuseppe Vacca: «Bisogna guardare e avere nuovamente come punto di riferimento Togliatti»
La Stampa 30.4.14
Togliatti: non fatemi monumenti
Raccolte le lettere 1944-64 del leader comunista: analisi politiche, ironia, giudizi tranchant e intuizioni che mezzo secolo dopo si confermano attuali
di Mirella Serri


Togliatti versus Berlinguer. «Se vogliamo rimodernare e ringiovanire la sinistra italiana, dobbiamo tornare alle origini». No, non ha dubbi Giuseppe Vacca, presidente della Fondazione Gramsci: nell’anno in cui ricorrono i trent’anni dalla scomparsa di Enrico Berlinguer e i 50 da quella di Palmiro Togliatti, che si spegne a Yalta 21 agosto 1964, è molto più attuale l’insegnamento del Migliore. «Bisogna guardare e avere nuovamente come punto di riferimento Togliatti. Qualche assaggio della sua modernità? Nel 1946 incarica Luigi Longo di compilare una relazione sul modello federativo del partito laburista inglese. Poi questa sua attenzione sarà frustrata dalle contrapposizioni più estreme della Guerra fredda. Ma appena può rilancia il progetto: nel 1962 ritorna alla carica e intensifica i suoi rapporti con il Labour, i socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi. Uno straordinario esempio per l’oggi».
Adesso, per aiutarci a riscoprire l’avventura umana ma soprattutto politica del capo del Pci, sono in arrivo le sue lettere: una ricca scelta della corrispondenza, in gran parte fino a ora inedita, la propone il volume La guerra di posizione in Italia. Epistolario 1944-1964, a cura di Gianluca Fiocco e Maria Luisa Righi, con la prefazione di Vacca (uscirà alla fine di maggio da Einaudi). I due storici che hanno selezionato la raccolta ricostruiscono la vicenda di Togliatti in Italia, dove era rientrato dopo gli anni dell’esilio, introducendo ogni singolo documento con lunghe note esplicative. Le lettere ricevute e scritte dal leader sono circa tremila e ci fanno ripercorrere anche l’avventurosa storia della sinistra italiana.
I primi scambi registrati nella raccolta sono del 1944 e annoverano, tra l’altro, un’importante lettera di Pietro Badoglio che ha individuato in Togliatti il leader che può aiutarlo a mantenere i contatti con l’Urss. Per mettersi in buona luce, il Maresciallo spiega di aver avviato, dopo l’8 settembre 1943, «un’intensa opera di collaborazione che facilitò grandemente lo sbarco alleato nei vari porti italiani», e lamenta di non aver avuto riconoscimenti per il suo brillante operato. Dimentica di ricordare la precipitosa fuga da Roma con il sovrano e la regina Elena e lo sfascio e lo stato di abbandono dell’esercito italiano. A proposito di questa lettera, Togliatti acutamente registra: «Sono convinto che Badoglio nutra per gli inglesi un odio profondo e che da Badoglio si possa ottenere molto […] se gli si dimostra che una data iniziativa sarà svantaggiosa per gli inglesi, ma necessaria per l’Italia. Badoglio ha un atteggiamento più tollerante nei confronti degli americani e non è contrario a civettare con loro per indebolire le posizioni inglesi in Italia».
Nell’epistolario si passa poi alle numerose missive inviate ai militanti che chiedono lumi sulla questione di Trieste occupata dalle truppe jugoslave e ai testi in cui il segretario del Pci si scontra con Giulio Einaudi sui fatti d’Ungheria. Vi sono poi le spiegazioni sulle sue preferenze poetiche offerte alla gente comune, le polemiche e gli scontri con gli artisti che chiedono indipendenza - come il musicologo Massimo Mila, collaboratore dell’Unità torinese - oppure le tirate d’orecchie agli intellettuali che criticano Il Gattopardo di Visconti. Il Migliore esprime considerazioni persino sulla lottizzazione della tv italiana da parte dei partiti (quando scrive non possiede ancora un televisore). E antepone sempre al telefono il mezzo epistolare: lo usa nei rapporti con Stalin, Krusciov, Evtušenko, Alcide De Gasperi, Sandro Pertini, Vittorio Valletta e tanti altri ancora. Lo adopera anche per dialogare a lungo con semplici compagni «di base» che gli inviano le più svariate, e a volte anche stravaganti, richieste: dai ragazzi che vogliono conoscere la storia di Gramsci approdato a Torino, a chi, meno giovane, sollecita una raccomandazione per far entrare il figlio in seminario, a chi vorrebbe il permesso di mettere un’immaginetta sacra nei locali condominiali.
Pure per le questioni strettamente personali prende carta e penna: per rifiutare, per esempio, un surprise party da parte per i suoi sessant’anni («Non si tratta, credo, di fare la sorpresa a un festeggiato minorenne»), o per indignarsi per la posa di un suo busto marmoreo («Decisamente contrario al busto. Si fa, da noi, ai morti ed è una cosa ridicola. Il mio busto, per ora, sono io»). Come si spiega questa spiccata inclinazione verso il testo scritto del Migliore? «“Scrivere vuol dire dirigere e si dirige scrivendo”: questa era la sua filosofia», osserva Vacca. «Inviando un bigliettino sia al compagno della porta accanto a Botteghe Oscure sia a esponenti del mondo cattolico, come don Giuseppe Dossetti, con cui aveva collaborato alla Costituente, Giorgio La Pira, Ada Alessandrini, Togliatti non dimenticava mai di essere un leader politico e un intellettuale. Aveva un senso fortissimo della comunicazione. E proprio questo lo rende assai adatto a rilanciare oggi un’immagine forte della sinistra».

l’Unità 30.4.14
Carla che non si rassegna
Le battaglie di Cantone in difesa dei più fragili
Anticipiamo un capitolo «Di lotta e di memoria» intervista sul futuro del sindacato e della politica alla leader dello Spi Cgili
di Carla Cantone e Massimo Franchi


PUBBLICHIAMO UN’ANTICIPAZIONE DEL LIBRO INTERVISTA DI CARLA CANTONE CON MASSIMO FRANCHI NELLE LIBRERIE DA DOMANI. Un libro che è una lunga intervista.
Da sei anni sei il segretario generale dello Spi, il sindacato dei pensionati Cgil. La più grande organizzazione che tutela gli interessi di una generazione–gli anziani–in espansione. Una generazione che in questi anni di crisi ha spesso tenuto in piedi le famiglie. (...) Da persona che ha a che fare quotidianamente con loro come definiresti la generazione che rappresenti e i tuoi iscritti in particolare?
«Io vedo, specie per gli iscritti allo Spi, una generazione di lotta e di memoria. Si potrebbe anche dire di memoria e di lotta. Perché questo? Dieci anni fa sono entrati nello Spi quelli che hanno iniziato a lavorare negli anni Cinquanta e Sessanta, persone che dopo aver fatto o vissuto la Resistenza, hanno portato avanti le grandi battaglie per la casa, per il diritto al lavoro, per il Piano del lavoro di Di Vittorio, per l’esproprio delle terre. In modo particolare nel Mezzogiorno, si tratta di quelli che sono tornati in Italia dopo essere stati migranti all’estero per cercare lavoro. Lo Spi di oggi invece è rappresentato di più dai pensionati che sono entrati nel mondo del lavoro negli anni Settanta. Si tratta di quei lavoratori che sono stati protagonisti di battaglie diverse, ma non meno importanti: per i diritti del lavoro e per i diritti civili, sia per quanto riguarda gli uomini che le donne. Quelli che hanno cominciato una grande battaglia contro il terrorismo, per lo Statuto dei lavoratori, per il contratto nazionale, per il riconoscimento dei consigli di fabbrica, dei consigli dei delegati, per le pari opportunità, per la riduzione dell’orario di lavoro. Oppure per i diritti civili: con le donne in prima fila per il divorzio, la maternità libera e consapevole, la parità fra uomo e donna. Gli anziani di oggi sono quindi quelli che hanno la memoria sempre lucida di battaglie sindacali e civili. Questa memoria, avendo vissuto quel periodo straordinario delle lotte sindacali, essendosele sudate, loro la hanno distintamente, sono portati a dire che sono pronti ad un’altra lotta per difendere quelle stesse conquiste (...)»
Una generazione che ha lottato e che ha memoria di queste lotte. Va bene. Però anche una generazione che, pur meritandosele con la lotta, ha avuto in dote conquiste ora impossibili per le giovani generazioni. Gli anziani di oggi sono una generazione di privilegiati?
«Oggi si dice sempre che i giovani stanno male, che hanno poche possibilità. Ma non è che i giovani di ieri all’epoca stessero meglio: un metalmeccanico, una lavoratrice tessile, un lavoratore agricolo, un muratore che aveva 18 anni negli anni Settanta non stava bene. (...) Quindi quelli che mano a mano sono diventati adulti e oggi pensionati non possono dimenticare la storia della loro vita lavorativa e il loro impegno sociale e civile. Ed è nel nome di quei ricordi, di quella memoria, che non è un amarcord, ma è un ricordo che gli ha toccato il sangue, la carne viva, che difendono con le unghie e coi denti ciò che faticosamente hanno conquistato. E come lo fanno? Lottando di nuovo. (...)».
Eppure questa generazione viene accusata di egoismo, di non voler rinunciare a conquiste e diritti che oggi sono insostenibili dal punto di vista finanziario, come le pensioni  calcolate col metodo retributivo…
«La verità, forse scomoda, ma la verità è che gli egoisti sono quelli della generazione di mezzo. (...) Poi c’è una categoria ancora peggiore, ancora più egoista verso i giovani: sono i cinquantenni, quelli che pensano solo a difendere la loro condizione, e non vogliono lasciare spazio ai giovani. Questo è un discorso che gli anziani non farebbero mai, perché è una generazione che ha già dato. Al massimo possono difendere la loro pensione, che non è neanche un granché. Ma continuano in nome dalla memoria di ciò che hanno fatto a lottare per consegnare ai giovani un modello di società diverso da quello in cui viviamo».

Repubblica 30.4.14
Omosessualità chi ha paura di un libro a scuola
di Massimo Recalcati



QUELLI della mia generazione si ricorderanno forse improbabili corsi di educazione della sessualità di tipo botanico. Uno strano “esperto della materia” mostrava dei semi sulla
cattedra.
E LE loro possibili combinazioni da cui sarebbero scaturiti i caratteri del nuovo nato. I corpi sessuali in carne ed ossa restavano coperti e solo enigmaticamente allusi. Erano anni dove la censura morale prevaleva ottusamente provando ad esorcizzare il demone del sesso. Era l’Italia cattolico-fascista che dopo la contestazione del ‘68 avrebbe però ben presto lasciato il posto ad un altro padrone.
Questo nuovo padrone -quello che Pasolini denominava negli anni Settanta “nuovo fascismo” -non agirà più in nome della censura ma offrirà una immagine della libertà senza limiti. Il suo imperativo non risponderà più alla logica del dovere e del sacrificio ma a quella di un godimento senza argini.
Nel nostro ultimo ventennio questa rappresentazione della libertà troverà la sua enfatizzazione più radicale e, al tempo stesso, più fatua. È una constatazione banale: basta girare in un qualunque aeroporto italiano per trovarsi davanti agli occhi corpi di donne seminude e ammiccanti a promuovere prodotti coi quali non hanno alcuna relazione di senso.
La discreta solitudine dei semi sulla cattedra ha lasciato il posto ad una proliferazione di immagini sessuali o a sfondo sessuale che hanno ormai invaso la nostra vita più ordinaria. Ecco perché la denuncia nei confronti di alcuni professori del liceo Giulio Cesare di Roma che avevano proposto ai loro allievi un percorso di letture su temi di attualità, tra cui quella della differenza di genere, non può non colpire. Non l’opportunità dell’iniziativa di quei docenti -ai miei occhi totalmente legittima -, ma proprio l’atto che la vuole denunciare come “pornografica”. Il nuovo fascismo sembra qui lasciare il suo passo ad un ritorno del vecchio. L’ideale di una sessualità anatomicamente e naturalmente
eterosessuale, una educazione morale rigidamente normativa, accompagnata dall’omofobia e dall’esaltazione della virilità, sono stati invocati contro i professori degeneri. Grave errore di giudizio. Come non vedere che se c’è una salvezza dallo scempio iperedonista che ogni giorno ci invade facendo dei corpi erotici carne da macello, se c’è una salvezza dalla violenza che scaturisce da una rappresentazione tutta fallica della sessualità, essa non è nel ritorno ad un Ordine giustamente defunto, ma proprio nel libro, nella lettura, nella vita della Scuola.
È attraverso, il libro, la lettura, la Scuola che si gioca infatti la vera prevenzione ai rischi della barbarie e della dissipazione in un godimento senza soddisfazione. Il libro incriminato non è un libro pornografico, ma un libro che racconta la storia di una formazione e di una filiazione. Un libro di letteratura non è mai pornografico ma, casomai, erotico nel senso che anima il desiderio di sapere. Resta sullo sfondo la vera questione: come si può parlare a Scuola di sessualità senza ricorrere alla tristezza dei semi sulla cattedra e al suo moralismo implicito, ma senza nemmeno -come accade oggi -ridurre tutto all’altrettanto arida descrizione senza veli della spiegazione scientifica di come, per esempio, funzionano gli organi genitali. L’educazione alla sessualità dovrebbe preservare sempre il velo del mistero. Cosa di meglio allora della letteratura e della poesia? La sessualità senza amore ha il fiato corto sia essa cosiddetta omosessuale o eterosessuale. Quando invece l’amore feconda il sesso non c’è mai gesto erotico che rischi l’oscenità. Sia esso cosiddetto omosessuale o eterosessuale.

Repubblica 30.4.14
Tra angeli rock e demoni razzisti, viaggio nelle radici delle leggende complottiste che affascinano i giovani
Illuminati di tutta la Rete unitevi
di Guido Ceronetti


Su Repubblica del 23 aprile scorso era riportato, da Le Monde, un articolo, firmato da Elisa Mignot, sulla manipolazione mentale dei giovani (liceali dei sobborghi, la Rete come oracolo, un po’ di Dan Brown), mediante influenze indotte subliminalmente, attraverso cui un complotto di occultisti col nome tradizionale di Illuminati manifesterebbe le proprie mire di dominio mondiale. Posso osservare che, in ogni punto, la Rete non è innocua. L’ago magnetico è fisso sulla stella del Male, per quanto il bene più rassicurante possa fluirne a vagonate; resta infallibile la parola di McLuhan: «Il mezzo è il messaggio».
E la manipolazione per squilibrare la mente e ridurre all’impotenza la ragione è in atto dappertutto, anche ne più banale buonsensismo di Pensiero Unico- spray.
Illuminati autentici non pensano a dominare il mondo, ma a redimerlo, e per quanto gli è concesso a salvarlo. Uno dei più comuni esempi di manipolazione falsificatrice è il linguaggio delle cifre, la pseudoscienza statistica.
Diffidate di tutto, ragazzi. Credete a Vincent Van Gogh, illuminato vero, dunque disperato.
Messaggi criptici e subliminali non mancano nel repertorio Beatles. Che vorrà dire il cadenzato Sottomarino Giallo in cui «tutti viviamo »? Quei tutti sono i consumatori di Lsd in quegli anni? Nel celebre White Album c’è poesia pura accompagnata da incitamenti sottopelle al crimine e alla distruzione.
Impressionanti in specie sono Revolution Nine e Helter Skelter , adottato dalla banda assassina di Charles Manson in vista delle sue stragi rituali del 1969, e quella bomba ritmica nessuno ha pensato a disinnescarla. In sottofondo, Helter Skelter , nelle successive stragi americane e del Nordeuropa, a chi ha orecchie che intendono, è udibile.
Il meglio e il peggio della storia è lavoro di società segrete, e mi direi contento se potessi avere certezza che si tratti di emanazioni volontarie di un potere oscuro aldifuori di questo mondo, o da decreti immutabili. «Mi torco nel non-capisco» con un certo sollievo. Non immune da vizi gnostici, parlavo spesso, per spiegarmi gli enigmi più crudeli del mio secolo, di «attacco alla specie». La formula mi pare tuttora validissima, però inadatta agli orbi, amanti della facilità razionale.
Illuminismo non è tanto una filosofia laicista quanto una via tracciata da Illuminati, che negli anni della rivoluzione americana punta al rovesciamento della più solida monarchia continentale in Europa. E sarà il momento unico, in Francia, che nel suo meraviglioso libro Penser la Révolution française (1978) lo storico concettualista François Furet definisce perfettamente: «L’aprirsi di una società a tutti i suoi possibili ». Ma il rovescio religioso di questa definizione è: messianico. L’éra messianica, l’annuncio di una totale palingenesi, contenuti nell’illuminismo degli illuminati dei secoli moderni sta tra l’estate 1789 e la fine della monarchia di diritto divino nel 1792, come esattamente prevista nelle quartine di Nostradamus trecento anni prima. Bisognava vivere in quegli anni: saremmo stati infinitamente più vivi, anche abitando lontano da Parigi.
Tuttora l’illuminatismo maligno si caratterizza nel visibile per un segno inequivocabile: l’antisemitismo (Dieudonné, l’idolo di giovani alfabetizzati esclusivamente dalla Rete; la Golden Dawn ellenica, che non casualmente porta lo stesso nome della società occultista di cui fece parte Aleister Crowley, la Bestia 666). Il volo di Rudolf Hess nell’Inghilterra in guerra e sotto attacco aereo non è tanto misterioso: era stato pianificato con Hitler, che simulò collera e sdegno, per agganciare le sette segrete collegate alla Thule Gesellaschaft, fondata in Baviera nel 1918, madre ideologica del partito nazionalsocialista, fino alla celebre coppia antisemita e pro nazista dei duchi di Windsor, che di amici della stessa risma dovevano averne a iosa.
Di cripto-antisemiti, per opportunità politica, siano o no affiliati a una setta, non manchiamo neppure nell’Italia di oggi. Diciamo che non poche forme di persuasione attossicata confluiscono nei messaggi, aperti o subliminali, della Rete.
Sono perplesso di fronte a un presidente alonato d’ombra come Barak Obama. Un generale sogno ne avvolse gli inizi: non ne resta nulla; l’America, come necessità di presenza nel mondo, appare nei due mandati di Obama più in ritirata che nella stoica partenza dell’ambasciatore da Saigon. Brutto segno: non ne vengono che notizie di buona salute economica, sufficienti ad appagare gli stolti. Ma il nerbo, il Danda, dov’è? E ne viene la domanda: lasciando di fatto indebolirsi la presenza americana, che cos’altro ha in mente, di più importante, o più alto, o più pericoloso, il presidente Obama? Forse, un poco rassicurante Ordine Mondiale, controllato da Illuminati tenebrosetti che lo considerano uno dei loro, ma utile idiota nello stesso tempo? Qui non posso che rimandare qualche incuriosito al libro-inchiesta della giornalista Enrica Perucchietti, L’altra faccia di Obama (Uno Editori, 2011) visto come partecipe attivo dei piani di controllo totale della Cia (sono recenti le proteste europee e le scuse del mandante) e Illuminato di loggia potente in subordine. Saranno Illuminati di questo tipo quelli di cui si sentono e temono vittorie gli studenti francesi? Ma allora non sarebbero Loro i dominatori occulti di tutto quanto circola attraverso la Rete? Questo mi pare credibile. Il futuro ci dirà di più, se avrà voglia di scivolare fuori per un poco dall’eccesso di menzogne che sta soffocando tutto.
Per Illuminati buoni, anche modesti, reclutamento aperto.

Repubblica 30.4.14
Scoperta una nuova necropoli con cinquanta mummie “Cambierà la storia degli Egizi”
La Valle dei Re rivela al mondo l’ultimo segreto
di Franco Zantonelli


UNA scoperta che gli egittologi non esitano a definire “eccezionale”. Nella regione di Luxor, estremità occidentale della Valle dei Re, un team di archeologi dell’università di Basilea, in collaborazione con il Ministero dell’Antichità egiziano, ha portato alla luce una necropoli con 50 mummie. «La necropoli», ha spiegato il responsabile del museo di Luxor, Abdelhakim Karar, «si trova a una certa distanza dalla tomba di Tutankamen. E la sua importanza è da un lato nel fatto che si riteneva che la Valle dei Re non nascondesse più segreti, dall’altro che siamo venuti a conoscenza dei nomi e dei volti di
principesse sconosciute».
Secondo gli esperti, bisogna risalire al 1922, quando l’inglese Howard Carter scoprì la tomba di Tutankamen, per trovare un evento altrettanto importante. Dalla Valle dei Re non era uscito più nulla di significativo, nonostante la presenza di numerose spedizioni. La necropoli, secondo quanto comunicato dal Ministero egiziano delle Antichità, potrebbe ospitare le mummie della famiglia regnante della XVIII dinastia faraonica e, in particolare, dei figli dei re Thutmosi III (1504 -1450 a. C.) e Thutmosi IV (1419 -1386 a. C.).
Sul luogo sono stati rinvenuti anche i resti di alcuni sarcofagi, delle maschere mortuarie e vari vasi al cui interno venivano depositate le viscere dei defunti. Tutti questi vasi canopi recano l’iscrizione di circa 30 nomi di principi e principesse di cui, finora, non si sapeva nulla.
La scoperta rientra in un’operazione che l’università di Basilea sta portando avanti da diversi anni e che ha avuto un’accelerazione nel 2011. «In quel periodo», ha raccontato la responsabile della spedizione elvetica, Susanne Bickel, alla televisione pubblica di Zurigo, «eravamo intenti ad effettuare operazioni di pulizia attorno a una tomba. Stavamo costruendo un muretto, quando ci siamo imbattuti nel bordo superiore di qualche cosa che, all’inizio, pensavamo fosse un’opera incompiuta. In realtà abbiamo realizzato che ci eravamo imbattuti in un’altra tomba».
Gli archeologi svizzeri hanno dovuto interrompere lo scavo a causa della primavera araba. «Abbiamo messo un coperchio di metallo sulla tomba e siamo rientrati a Basilea, in attesa di tempi migliori», prosegue Susanne Bickel. I tempi migliori sono arrivati l’anno successivo. Nel gennaio 2012 Susanne Bickel e la sua squadra sono tornati nella Valle dei Re, per riprendere gli scavi. Dopo quattro giorni di lavoro è stato scavato un pozzo, all’interno del quale è stata fatta scendere una telecamera, che ha permesso a chi stava in superficie di ammirare un vero e proprio tesoro.
«Abbiamo potuto ammirare una tomba inviolata, un sarcofago perfettamente intatto, che non assomigliava, per nulla, a quelli che eravamo abituati a vedere», spiega Susanne Bickel. Era un sarcofago sobrio, privo di decori, Un sarcofago, ne hanno dedotto gli esperti, realizzato nel nono secolo avanti Cristo, quando le sepolture dei dignitari egizi erano maggiormente all’insegna dell’umiltà. Per intenderci prive degli ornamenti, tra cui ceramiche e mobili, che si trovavano, invece nei sarcofagi dei secoli precedenti.
Ma chi c’era in quella tomba apparsa dal nulla, nel deserto della Valle dei Re, a quegli archeologi venuti dall’Europa? «Verosimilmente una donna», secondo Susanne Bickel. Non era, comunque, una principessa, bensì una religiosa, probabilmente una sacerdotessa e questo, a quanto pare costituirebbe, già di per sé, un fatto abbastanza clamoroso, visto che si riteneva che, nella Valle dei Re, venissero sepolte solo delle nobildonne.
Intanto passano solo due anni ed ecco che il Ministero dell’Antichità del Cairo se ne esce annunciando che, nella Valle dei Re, sono state scoperte altre tombe, addirittura una necropoli. Che, hanno potuto appurare gli archeologi venuti da Basilea, è stata saccheggiata ripetutamente, nel corso dei secoli. Come dire che qualcuno era al corrente della sua esistenza, prima ancora che arrivassero delle spedizioni da fuori.

La Stampa TuttoiScienze 30.4.14
Se ami Shakespeare e l’alba è perché sei un po’ africano
di Gabriele Beccaria


Se tuo figlio di tre anni ha paura dei mostri nell’armadio e tua figlia di cinque dei mostri sotto il letto, un motivo c’è. La differenza risale a decine di migliaia di anni fa. Quando gli antenati Sapiens colonizzavano le savane africane, i maschi tendevano a dormire (con un occhio solo) ai piedi degli alberi, mentre le femmine, più agili, si spingevano sui rami per la siesta. Il pericolo, perciò, proveniva da direzioni diverse a seconda del sesso: di fianco o dal basso.
Nel mondo degli adulti, d’altra parte, è raro incontrare qualcuno che non provi una fitta di malinconia davanti a un tramonto e una scintilla di entusiasmo di fronte allo spettacolo di un’alba. Centomila anni fa l’inizio di ogni giorno era una promessa, la notte incombente una minaccia. E non è casuale che, quando scivoliamo nel sonno, un incubo ricorrente prenda le forme dei serpenti: erano uno dei pericoli più subdoli per i cacciatori-raccoglitori primordiali, che allenarono lo sguardo a percepire le caratteristiche forme geometriche dei rettili.
Ad attirarci, invece, sono le filastrocche e i romanzi. Ascoltare un racconto e narrare un evento, spesso alterandolo per ragioni machiavelliche, è un istinto invincibile. Nell’epoca della virtualità come nell’era della pietra: allora, oltre a forza e bellezza, il criterio per selezionare i partner si concentrava sulle capacità linguistiche e perciò sulla creatività di cervelli che elaboravano la scienza della sopravvivenza.
Siamo carne e protesi di silicio, eppure il nostro mondo emozionale resta paleo-africano: è un insieme immutabile di scatole psicologiche che non smette di accompagnarci, millennio dopo millennio, secolo dopo secolo. Le racconta Gordon Orians, professore della University of Washington, autore del provocatorio «Snakes, Sunrises and Shakespeare».

La Stampa 30.4.14
L’invidia, un’arma potente a servizio del successo
Tutto comincia dai social network, grandi generatori di invidia della società contemporanea. Ma gli studi avvertono: chi è invidioso ha buone possibilità di riuscire a emulare il successo dell’invidiato
di Francesco Semprini

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La Stampa MedicItalia 29.4.14
La minore esposizione del feto femmina al testosterone favorisce l'intuito femminile
Dr.ssa Teresita Forlano

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