l’Unità 30.4.14
Rodotà: tolga il segreto al patto del Nazareno
di Rachele Gonnelli
I
partigiani si preparano ad «una battaglia di civiltà che non sarà
breve», ad «una mobilitazione nei territori fondata sull’informazione». I
toni di Carlo Smuraglia, il presidente dell’Anpi, sono drastici, quasi
ultimativi, al Teatro Eliseo diRoma. Sul palco c’è la bandiera
dell’Anpi, «comitato nazionale», con accanto il medagliere ricamato in
oro, dal loggione pendono gli striscioni delle sezioni locali, da Napoli
a Cattolica. Il pubblico, fatto di anziani e giovanissimi, porta il
fazzoletto tricolore al collo. Prima dei discorsi degli oratori, si
assiste a un video che riproduce il discorso di Pietro Calamandrei agli
studenti in difesa della Costituzione, anno 1955. «Una questione
democratica » è il titolo della manifestazione a pochi giorni dalla
festa del 25 aprile ma si parla unicamente delle riforme messe in essere
dal governo Renzi.
L’approccio è quello di una ferma e argomentata
contrarietà, l’appello alla mobilitazione in nome dei valori
«dell’antifascismo e della Resistenza». La giovane anpista Elena De
Rosa, quindi Carlo Smuraglia e poi ancora di più Stefano Rodotà e Gianni
Ferrara nei loro interventi entrano nel dettaglio, sia sul Senato sia
sull’Italicum, affrontano paragoni con altri Paesi europei, con altri
periodi storici, tipo la legge truffa. L’uditorio non solo ascolta,
partecipa, sottolinea con gli applausi i passaggi più graditi. Non piace
soprattutto la fretta con cui Matteo Renzi sta procedendo alle riforme
costituzionali. «È cattiva consigliera soprattutto in materia
costituzionale», dice Smuraglia, che trova «inaccettabile» il mix di
leggi elettorali proposte, «inconcepibile» che si motivi interventi su
materia così delicata con la necessità di risparmi. Prende di mira anche
il cosiddetto «voto a data certa »: sarebbe a dire il calendario
imposto dal premier per le riforme, uno scadenzario che «tende a ridurre
a nulla l’iniziativa parlamentare, determinando l’agenda del massimo
organo mentre l’esecutivo potrebbe solo suggerire le priorità». Gianni
Ferrara è particolarmente sferzante contro quella che vede come una
cultura istituzionale raffazzonata e approssimativa, che non garantisce
il sistema di pesi e contrappesi. Se la prende persino, con una battuta,
con l’eccessiva prodigalità in lauree dei colleghi dell’ateneo
fiorentino. Per Ferrara la Costituzione «è in pericolo», il Parlamento è
di fatto illegale dopo la sentenza della Corte costituzionale e siamo
«ad un golpe permanente» in cui si chiede solo «una investitura del
capo».
«Non siamo conservatori», ripete Smuraglia dicendosi pronto a
discutere un differente ruolo delle due Camere, e lo stesso respinge
l’idea di un Senato svilito da una elezione di secondo livello «con
rappresentanti delle Regioni che verrebbero a Roma ogni tanto,
gratuitamente, non si sa a fare cosa». Rodotà avverte nel disprezzo
dimostrato per i «professoroni» una regressione anticulturale mutuata
dal berlusconismo, mentre «il contatto con la cultura libera la politica
dalla pressione degli interessi». E mette l’accento sul patto
extraparlamentare che sta alla base dell’intero percorso di riforme, il
patto del Nazareno, i cui contenuti - nota - restano celati. «Visto che
Renzi vuole levare il segreto su tutto, cominci a levarlo su questo».
l’Unità 30.4.14
Ma in Senato i tempi si allungano E spunta il sistema francese
Testo
base il 6 maggio Finocchiaro: non sarà quello del governo Migliaia di
amministratori locali potrebbero essere i grandi elettori dei senatori
di Andrea Carugati
Sul
nuovo Senato il premier apre a una mediazione, ma i tempi si allungano.
L’adozione del testo base, prevista per oggi, è slittata al 6 maggio. E
così non solo non ci sarà il fatidico sì dell’aula di palazzo Madama
entro il 25 maggio, ma è assai difficile che anche la commissione Affari
costituzionali possa esprimersi entro quella data. Per il ministro
Boschi l’opzione è ancora «fattibile», ma ieri in Senato si respirava
l’aria del rinvio. Con somma soddisfazione di Forza Italia e dei
grillini.
I primi, con il capogruppo in commissione Donato Bruno,
snocciolavano il calendario, consapevoli che «dopo il 18 maggio il
Parlamento sarà fermo per la chiusura della campagna elettorale...».
«Renzi ha dovuto prendere atto della situazione, altrimenti il governo
andava sotto», ha commentato Bruno. Mentre i grillini hanno incassato le
parole di Anna Finocchiaro, presidente della commissione, che ha
assicurato che il testo base «recepirà le indicazioni maggiormente
condivise nella discussione generale».
Insomma, sembra svanire uno
dei paletti che era emerso dal vertice di lunedì mattina a palazzo Chigi
con Renzi, Boschi, Finocchiaro e Zanda: e cioè che il testo di partenza
fosse proprio quello del ministro delle Riforme. Ieri Calderoli, che è
relatore insieme a Finocchiaro, gongolava: «Portare il testo del governo
era come offrire pesce a una tavola di commensali che aveva chiesto
carne...». L’ex ministro leghista sta dunque lavorando insieme alla
presidente al testo che arriverà martedì prossimo. E ha apprezzato la
proposta fatta ieri mattina da Renzi ai senatori Pd: e cioè che ogni
regione decida autonomamente come indicare i propri senatori. Qualcuna
facendoli eleggere dai consiglieri regionali, altre con un listino ad
hoc da presentare ai cittadini alle elezioni regionali. Per Calderoli
«funziona benissimo, anche oggi ogni regione sceglie la sua legge
elettorale », ma a palazzo Madama molti sono scettici su questa
soluzione. «Una confusione inaccettabile», tuona Paolo Romani di Forza
Italia che in serata ha visto Zanda e Finocchiaro.
La mossa di
Renzi, che sembra aver fatto rientrare molti dei malesseri in casa Pd,
viene interpretata come un’apertura al dialogo, così come l’allungamento
dei tempi. «Non c’è più il muro contro muro, e questo è un fatto
positivo», dice il bersaniano Miguel Gotor. Una sorta di «palla al
centro», in attesa di trovare una soluzione tecnica per l’elezione dei
senatori che accontenti tutti ma che soprattutto funzioni. Ieri ha
ripreso quota il modello francese, apprezzato dallo stesso Gotor, che
configura una elezione indiretta dei senatori. A scegliere gli inquilini
di palazzo Madama sarebbe una vasta platea composta da tutti i sindaci e
i consiglieri comunali e regionali di ogni regione. Un modello che
comporterebbe assemblea di alcune migliaia di persone, in numero
inferiore a quanto accade in Francia, ma comunque molto ampie.
Il
sistema francese piace anche al sottosegretario Luciano Pizzetti, che
lavora con il ministro Boschi. E rispetta il paletto del premier:
nessuna elezione popolare. Tra oggi e martedì prossimi i relatori
avranno tempo per cucire il testo-base. «Uno schema ce l’abbiamo già in
testa», assicura Calderoli, mentre Finocchiaro rispetta rigorosamente la
consegna del silenzio. Di certo c’è che nel testo base, a differenza
della bozza del governo, non ci saranno più i 21 nominati dal Quirinale
(al massimo saranno 5), i rappresentanti delle Regioni saranno in
proporzione molto maggiore dei sindaci e ogni regione avrà un numero di
senatori proporzionale agli abitanti, come chiedono da tempo i
governatori. Per il premier non è stato facile rinunciare alla
rappresentanza paritaria degli ex colleghi sindaci, come ha spiegato a
Vespa. «Io avrei messo più sindaci, ma non sono un pasdaran, serve un
compromesso, queste non sono le riforme di Matteo».
Per lui la nuova
dead line per il sì del Senato alla riforma è il 10 giugno. La
settimana prossima saranno auditi dalla commissione molti
costituzionalisti. Tra questi anche i «professoroni» Rodotà e
Zagrebelsky (il secondo con una relazione scritta). Ieri da Rodotà è
arrivata un’altra stoccata: «Se Renzi vuole levare il segreto, cominci a
levare il segreto sull' accordo del Nazareno con Berlusconi... ». Al
premier arriva l’appoggio convinto dei montiani. E anche dentro il Pd le
acque sembrano più calme: «ci sono punti significati di avvicinamento
», dice il ribelle Vannino Chiti. E l’esperto Giorgio Tonini avverte:
«Invece che sulle modalità di elezione, è opportuno concentrarci sulle
funzioni di garanzia del nuovo Senato, a cominciare dall’elezione del
Capo dello Stato ».
Repubblica 30.4.14
La paura di Matteo: “Non voglio paludi, qualcuno proverà a far saltare l’Italicum”
di Goffredo De Marchis
ROMA.
«Gli strappi di Berlusconi sono frutto della campagna elettorale, io
spero che il patto regga. Ma adesso l’importante è blindare la mia
maggioranza». Matteo Renzi si prepara ad affrontare il cammino delle
riforme con l’occhio rivolto a dopo il 25 maggio. Teme un crollo di
Forza Italia, una tenuta di Grillo e dunque un problema generale sulla
progetto costituzionale e sull’Italicum. Per questo ha cercato di
ricucire con il suo partito ed ha praticamente portato a casa il
risultato, con l’assemblea dei senatori Pd di ieri. Per questo ha
accettato un allungamento dei tempi sulla cancellazione del Senato. Per
questo, nei colloqui privati, considera «l’Italicum in bilico, almeno
nella sua formula originale. Io sono molto pratico. So che dopo le
Europee Berlusconi potrebbe sfilarsi. Allora andrò incontro alle
richieste dei partiti più piccoli, alzando la soglia del ballottaggio al
40 per cento e abbassando il quorum per l’ingresso in Parlamento».
Nelle riunioni a Palazzo Chigi con il ministro delle Riforme Boschi e
con i tecnici, si sente sempre più spesso dire che «i numeri per
approvare le riforme da soli ci sono, anche per la riforma del Senato.
Sono quelli della maggioranza di governo».
Non è un caso che ieri il
premier-segretario abbia speso metà dell’intervento ad avvertire il
Partito democratico sui pericoli che possono venire da Grillo. Invitando
a non leggere i sondaggi, chiedendo a tutti compattezza e unità in
vista della campagna elettorale. E non è un caso che in tutti i suoi
interventi continui a trattare con rispetto Berlusconi anche quando le
spara grosse. Perché un cambio di equilibri il 25 maggio metterebbe nei
guai il governo e le riforme. È impossibile infatti sostituire Forza
Italia con i 5stelle. In caso di rottura del patto del Nazareno
rimarrebbe una sola strada: fare da soli, con Ncd e Scelta civica. I
numeri della maggioranza semplice vanno bene anche per cambiare la
Costituzione salvo costringere la legge a passare per il referendum
confermativo.
Renzi però è convinto di aver superato il giro di boa.
Finora i pericoli maggiori per le riforme erano arrivati dal suo
partito. Il clima è decisamente migliorato. Anzi, «la partita è
praticamente chiusa -annuncia il senatore lettiano Francesco Russo -.
Decideremo come eleggere i senatori ma una mediazione è nella logica
delle cose. C’è l’ipotesi di un listino a parte nelle regionali o
l’elezione indiretta tra i consiglieri. Non ci fermeremo per così poco».
Il premier guarda con più tranquillità anche al confronto con i
“professoroni”. Lunedì è fissato il seminario con gli accademici
organizzato da Maria Elena Boschi e dal Pd. Gustavo Zagrebelsky e
Stefano Rodotà verranno sentiti anche dalla commissione Affari
costituzionali di Palazzo Madama. Ma il testo del governo è stato già
arricchito: sono aumentate le funzioni e le garanzie. «Non somiglia alla
Camera co- me vorrebbero alcuni progetti alternativi. Ma è tornato a
essere una gamba del sistema: elegge il presidente della Repubblica,
interviene sulla Costituzione», spiega Russo.
Vannino Chiti,
portabandiera del Senato elettivo e del dissenso nel Pd, ieri non ha
preso la parola. È apparso più isolato dentro il Partito democratico e
quindi meno in grado di offrire sponde ai grillini e ai ribelli di Forza
Italia. Il Movimento è pronto alle barricate, a inondare il dibattito
con quasi 2000 emendamenti al testo base che stanno elaborando i
relatori Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli. Alzerà il muro anche in
commissione per evitare che prima del 25 maggio le forze dell’intesa
possono arrivare a una votazione.
Su quei 2000 emendamenti
annunciati, Renzi e il Pd costruiranno una parte della loro campagna
elettorale contro Grillo accusandolo di voler mantenere lo status quo,
di salvare il Senato e l’indennità dei senatori. Ma è quello che succede
dopo il voto a orientare le scelte di Renzi. Il 10 giugno è la nuova
dead line «perché non possiamo finire nella palude». I gruppi
parlamentari del Pd continuano a rappresentare un’incognita nel cammino
renziano. Ogni tanto il premier teme di non riuscire a controllarli. Ma
ieri è uscito molto confortato dall’incontro con i senatori. E le
riforme non sono solo un suo pallino, una sua conquista. Palazzo Chigi
sa di poter contare sull’appoggio di Giorgio Napolitano che non
accetterà un fallimento o un impasse, tanto più dopo il primo voto
sull’Italicum e un successo più vicino sulla riforma costituzionale.
Corriere 30.4.14
Premier costretto a tenere in conto i rapporti di forza
di Massimo Franco
L’insistenza
e la frequenza con le quali Matteo Renzi minaccia o promette di
andarsene se non si fanno le riforme «presto», cominciano un po’ a
impressionare. Non è chiaro se si tratti di un segnale forte dato per
accelerare la soluzione in un passaggio parlamentare decisivo; o se sia
un indizio di crescente debolezza del presidente del Consiglio. In
apparenza, va tutto bene. Al Senato i parlamentari del Pd sembrano
pronti a siglare un compromesso che garantisca almeno in parte le
condizioni poste da Renzi e dal suo ministro per le riforme, Maria Elena
Boschi: anche se ieri lei e l’autore della proposta della minoranza del
Pd, Vannino Chiti, si sono beccati. Il premier continua ad assicurare
che rimarrà perché « per ora», dice, « le cose le sto cambiando».
Perfino
la decisione di votare la trasformazione dell’assemblea di Palazzo
Madama in una sorta di Camera delle Regioni il 10 giugno e non prima
delle elezioni europee del 25 maggio, viene spiegata dal capo del
governo come la dimostrazione che non si tratta di una mossa elettorale.
Insomma, un piccolo scarto nella strategia della velocità viene
presentato come un merito. E probabilmente lo è, sebbene nasca dalle
difficoltà e dalle resistenze che il governo incontra. Non si tratta
soltanto delle punzecchiature di Forza Italia, spiegabili in buona parte
con i pessimi sondaggi in mano a Berlusconi.
Quando il centrodestra
attacca su Renzi «molto fumo e poco arrosto», o che tassa gli italiani,
o che insabbia la riforma elettorale, il cosiddetto Italicum , fa il
suo mestiere d’opposizione: tanto più nettamente perché sa che
appiattendosi su palazzo Chigi il partito di Berlusconi potrebbe perdere
altri consensi a favore di Beppe Grillo. Dunque, da una parte si
conferma l’asse istituzionale col Pd; dall’altra lo si mette in mora,
attribuendo il pericolo di una rottura alle divisioni della sinistra.
In
simili accuse c’è molta strumentalità ma anche molta verità. Nei gruppi
parlamentari, il «modello Renzi» fatica a passare. La miscela di
velocità e di rottura con la quale è andato avanti nelle prime settimane
deve fare i conti con rapporti di forza coriacei. Per questo è
costretto a rallentare, seppure di malavoglia, a minacciare dimissioni
ed elezioni anticipate; e a spiegare all’opinione pubblica che occorre
un po’ più di tempo. Ma anche a tentare di non fermarsi, perché «se
fallisco mi fanno fuori politicamente», ammette in tv. Così,
l’impressione è che la sua strategia non nasca solo dalla volontà di
cambiare l’Italia, ma anche da una sorta di istinto di sopravvivenza.
E
sa che solo un risultato confortante alle europee può aiutarlo, in
assenza di altri risultati tangibili. Da questo punto di vista, però, il
più ansioso è Berlusconi. Ripetere, come ha fatto ieri il suo
consigliere Giovanni Toti, che a FI andrebbe bene comunque sopra il 20
per cento, significa prepararsi ad una sconfitta bruciante; e sapere che
l’insidia del non voto e di Grillo è in agguato. Pur di esorcizzarla,
Berlusconi non esita a cercare di strattonare lo stesso Giorgio
Napolitano, lanciandogli accuse velenose. Ma «chi pensa di far campagna
elettorale utilizzando il capo dello Stato», lo ammonisce il
vicepresidente del Csm, Michele Vietti, «scherza col fuoco».
Repubblica 30.4.14
Vannino Chiti
“Così va meglio, ci si confronta, però servono altri emendamenti”
intervista di Tommaso Ciriaco
ROMA.
Simbolo della resistenza a Matteo Renzi, Vannino Chiti apprezza «i
passi avanti». Ma promette: «Se necessario, presenterò emendamenti alla
riforma del Senato».
Ritira il suo ddl, senatore?
«Il tema non esiste. Oggi il ddl c’è. Quando il 6 maggio i relatori presenteranno un testo base, ci sarà solo quello».
Sembra cauto. Non diventerà anche il “suo” testo?
«Se
confermano quanto detto, saranno punti di convergenza. Vedrò se mi
convince o se è possibile migliorarlo. E senza riduzione dei
parlamentari, presenterò un emendamento».
Eppure ha ammesso che sono stati compiuti passi avanti.
«Intanto
sul metodo: si è tornati a un confronto politico. E poi sulle
competenze e sul ruolo di garanzia del Senato. Su questo c’è vicinanza
con il mio ddl».
E però ha parlato anche di nodi da sciogliere.
«Vorrei
un confronto sereno su alcuni altri punti. Si parla di arrivare a 148
senatori, nel mio ddl invece sono 106. E poi il numero dei deputati: per
me devono passare a 315».
Insomma restano alcune criticità.
«Sul
sistema elettorale del Senato. Renzi ha detto: si scelgano i senatori
con un listino alle Regionali. Oppure lasciamo libere le Regioni di
definire se eleggerli direttamente nel consiglio regionale. Mi ritrovo
nella prima ipotesi. La seconda no, è un guazzabuglio con interrogativi
costituzionali».
Dicono però che sul suo ddl sia rimasto isolato.
«Se nel testo base c’è quanto annunciato, su che cosa sarei stato isolato? Se è così, spero di essere isolato a lungo...».
Ha creato problemi al governo. Voleva frenare le riforme?
«Non volevo ostacolarle, né ho mai cercato visibilità».
Dicono che si sia mosso da pasdaran.
«Ponevo questioni che hanno prodotto un miglioramento».
Ha subito pressioni da Palazzo Chigi, in queste settimane?
«Non
certo nascoste, ma mai con colpi sotto la cintura. Poi, certo, Renzi ha
detto che mi muovevo per stare tre giorni sui giornali. La Boschi che
rappresento un ostacolo alle riforme. Non scendo su questo piano, resto
sui contenuti ».
Promette nuovi emendamenti.
Farà arrabbiare il premier.
«E perché? Si vorrà opporre alla riduzione dei parlamentari?».
Ieri il premier ha avvertito: riforme presto, o vado a casa.
«Quando ha posto questioni che apparivano diktat, l’ho criticato. Oggi no, fa un discorso che vale per tutti noi».
Neanche l’Italicum le piace, vero?
«Le liste di più candidati, senza preferenza, rischiano di apparire ai cittadini un mini Porcellum».
l’Unità 30.4.14
La mediazione, una bella parola
di Claudio Sardo
Non
è impazzito Berlusconi quando lancia contro la cancelliera Merkel
accuse volgari e iperboliche, o quando tenta di trascinare Napolitano
nella rissa, o quando si dichiara vittima non di uno bensì di quattro
«colpi di Stato».
C’è del calcolo nella sua apparente follia. È
indietro nei sondaggi, la sua forza politica è ai minimi storici, dunque
gioca la carta della disperazione. Cerca di rimontare urlando più forte
di Grillo e spiegando il suo fallimento come l’esito di una congiura
mondiale. Provoca persino i giudici che gli hanno concesso i benefici
dei servizi sociali. Tanto, l’obiettivo è solo questo: ottenere qualche
voto in più il 25 maggio per sedere ancora ad un tavolo di trattativa.
Berlusconi non ha più la pretesa di governare alcunché, né l’idea di un
programma per il Paese. Non è un contendente politico: è un giocatore
marginale, il cui scopo è condizionare, inibire, minacciare per
incamerare dividendi.
Per Grillo gli eccessi verbali sono la
quotidianità. Mai uscite da quella bocca, o da quel blog, parole meno
che violente e insulti meno che estremi. Del resto, sul «vaffa» ha
costruito una politica. E una buona rendita. Non c’è alcun motivo perché
rinunci al filone aurifero. Certo, c’è una malattia di fondo nel
sistema se il nichilismo di Grillo e la voglia di autodistruzione
catturano tanti consensi. C’è una malattia che la crisi economica
aggrava e che la democrazia non riesce a curare. Ma anche Grillo, come
Berlusconi, pesca nel torbido perché non ha alcuna intenzione di
governare. Non vuole uscire dalla crisi. Vuole lucrare sulla crisi.
Vuole che si allarghino le fratture, che si renda ingovernabile il
sistema. Così in Europa: giocherà la partita per impedire il cambiamento
e spingere le contraddizioni fino al punto che esplodano.
È uno
strano tripolarismo quello italiano. Due dei tre poli non intendono
governare. Sono out. Altro che consociativismo. Il sistema-Italia è
vicino al collasso, l’economia è al punto più basso dal dopoguerra e c’è
un solo partito, il Pd, in grado oggi di sostenere le istituzioni e
guidare un cambiamento. Qualcuno tenta di sfuggire alla cruda realtà
inseguendo il miraggio di un bipolarismo che non c’è più. Intanto il
tripolarismo si diffonde anche in Europa.
Si parla tanto degli
errori delle classi dirigenti del centrosinistra nell’ultimo ventennio.
Ne sono stati compiuti di gravi. Ma è anche vero che quelle classi
dirigenti sono riuscite a costruire l’Ulivo e (sia pure in ritardo) il
Pd. E hanno consegnato ai quarantenni di oggi uno strumento nuovo,
pensato proprio per far uscire il Paese dalla palude della seconda
Repubblica. Questo è negato da molti commentatori. Sembra che lo
facciano per compiacere Renzi e alimentare il mito del demiurgo. Ma in
realtà lo fanno per indebolire Renzi, per ridurre la sua autonomia
separandolo dal Pd e dal processo storico che lo ha generato. Questa è
la partita che si gioca oggi tra i poteri più forti del Paese. Tutti
sanno bene che, nel breve, non ci sono alternative. Se il governo
fallisse, le conseguenze sarebbero devastanti. Il tentativo di chi ha
sempre avversato il Pd e la sinistra è allora quello di scollegare Renzi
dal retroterra politico e sociale che lo ha portato alla leadership del
Paese. Il tentativo è usare Renzi - e il rinnovamento che interpreta -
contro quel retroterra.
Dietro la dialettica, talvolta aspra, tra il
premier e la minoranza di sinistra del Pd c’è questo nodo.Eci sono
questi interessi. Devono esserne consapevoli sia il premier che la
minoranza. Dire che la responsabilità del rilancio dell’Italia e della
sua stessa tenuta democratica è oggi quasi per intero sulle spalle del
Pd, non vuol dire affatto che il compito del centrosinistra sia
semplicemente quello di applaudire Renzi. Al contrario, vuol dire che il
Pd deve allargare la sua capacità di rappresentanza, esprimere una
dialettica costruttiva e coinvolgente, comporre sintesi più avanzate. La
forza personale di Renzi non può temere il confronto sui contenuti e la
mediazione. Mediazione è una bella parola della politica: va recuperata
nel suo significato ri-costruttivo. Tutto il contrario dei «bastoni tra
le ruote».
Qualcuno paragona il Pd di oggi alla Dc del dopoguerra.
Per molti aspetti la somiglianza è forte: le condizioni interne ed
esterne portano oggi la sinistra ad assumere quella funzione che
sessant’anni fa ebbe il centro. Anche allora i benpensanti tiravano De
Gasperi per la giacchetta e cercavano di contrapporlo ad alcune forze
interne alla Dc. Volevano spingere la Dc su una linea clericale, oppure
farne strumento esclusivo degli interessi confindustriali. Il
radicamento sociale e la capacità dialettica di quel partito divenne
invece un presidio di autonomia politica. Si possono riprodurre oggi
quelle virtù senza pagarne i prezzi in termini di instabilità
governativa? Questa è la sfida. Del resto, cosa sarebbe il tripolarismo
italiano se si trasformasse in un tri-leaderismo, o peggio in un
tri-populismo? Cosa sarebbe del nostro tessuto democratico, se il Pd non
fosse capace di dialogare e di offrire una sponda anche a quelle parti
della destra che hanno rotto con Berlusconi e agli ex-grillini che si
sono ribellati al Capo e hanno aperto un confronto con Sel? Solo un Pd
vivo, plurale, autonomo, può farsi strumento di una ricostruzione più
ampia dei confini stessi del partito.
La grande responsabilità del
Pd è sulle spalle di tutte le sue componenti. Il leader va aiutato,
integrato. Così sarà più forte. E la dialettica interna deve porsi il
suo limite nel merito delle scelte, perché il fallimento, quello sì,
travolgerebbe tutti.
il Fatto 30.4.14
Il pifferaio magico Renzi: annunci, minacce e rinvii
In
Senato parla di dimissioni, a “Porta a porta” spiega che sulla PA
indicherà solo linee guida. E per la campagna elettorale punta su
Palazzo Chigi
di Wa. Ma.
Mentre qualcuno fa solo campagna
elettorale, noi siamo qui a lavorare”. Matteo Renzi, versione premier, a
Porta a Porta. Non è proprio uno slogan elettorale, ma ci assomiglia.
Peccato che il lavoro da presidente del Consiglio, quello che nelle sue
intenzioni deve essere il biglietto per vincere (e magari stravincere)
alle europee è evidentemente più complicato di quel che sembra.
Prendiamo la giornata di ieri, quando minaccia per due volte le
dimissioni, una di mattina a Palazzo Madama, e una di sera in tv (“Io
non ci sto a tutti i costi. Io ci sto se posso cambiare le cose. Se
vogliono qualcuno che le cose le abbuia prendano un altro”) e nello
studio di Bruno Vespa utilizza una formula rivelatrice, a proposito
della Pa: “Noi raccontiamo le riforme”. Prima parte della mattinata al
gruppo del Pd, dove Renzi va a proporre una mediazione sul Senato, con
una soluzione sull’eleggibilità che però ancora non c’è (ipotesi di
lavoro: lasciare alle Regioni la facoltà di individuare il metodo per
l’elezione dei consiglieri regionali che andranno a comporre il futuro
Senato). Mentre quello che c’è di certo è un ulteriore slittamento di
tempi: il testo base in Commissione arriverà il 6 maggio, forse la
stessa Commissione riuscirà ad approvarlo prima del 25. Forse. Quel che è
certo è che in Aula arriverà dopo. Renzi dà una nuova dead line per
l’approvazione in prima lettura: il 10 giugno. Si preferisce evitare la
drammatizzazione in Aula prima delle elezioni, anche perché con la
necessità di tutti in campagna elettorale di piantare la propria
bandierina, visti i numeri, può succedere di tutto. Meglio rimandare a
dopo. A proposito di rimandi, eccone un altro annunciato dallo stesso
presidente del Consiglio. Per oggi era previsto il Cdm sulla Pa. “Non
faremo un decreto, ma solo le linee guida della riforma”, dice Renzi a
Porta a Porta. Anticipazioni: “dirigenti a tempo determinato”, “premi di
produzione variabili”, criteri per “beccare quelli furbi”, “lavorare
sull’età media” che è troppo alta. Poi, in programma c’è la riduzione
degli stipendi degli statali, a partire da chi guadagna più di 90mila
euro. Misure del genere si possono fare a tre settimane e mezzo dal
voto, con tutte le categorie coinvolte (magistrati, medici, diplomatici,
militari, ministeriali) pronte alla ribellione almeno nell’urna? Lui lo
sa: “La cosa più difficile che possiamo fare è cambiare la pubblica
amministrazione e lì non ci basta nemmeno la Nasa, forse i Marines”.
NON
È FACILE per un premier che ha annunciato grandi riforme, molto
difficili da realizzare, portare avanti una campagna elettorale con
Grillo e Berlusconi, che lui stesso definisce “professionisti”. Senza
contare che il Renzi precedente ha sempre puntato sulla rottura. Non a
caso, ieri sera c’è stato un punto tra lui e Lorenzo Guerini,
vicesegretario Pd, per capire come gestirla questa campagna. La
filosofia di fondo la spiega Stefano Bonaccini, responsabile Enti locali
Pd, che ci sta lavorando a livello anche fattuale. Niente cedimenti
all’alzata dei toni grillini: “Grillo vuole trasformarla in un
referendum su Renzi e il governo. Per questo confonde l’elezione del
Parlamento europeo con quello italiano”. E poi, spiega che c’è molta
attenzione anche alle amministrative (dove vanno al voto 4000 comuni e
27 capoluoghi), con l’intenzione di strappare alla destra Piemonte e
Abruzzo. Renzi dovrebbe andare a Bari e Firenze, Modena e Reggio Emilia.
Dovrebbe scegliere anche comuni simbolo come Prato e Sassuolo. La
chiusura in una piazza, non in un teatro, modello Bersani. E intanto,
Youdem sotto la gestione di Francesco Nicodemo si lancia in iniziative
“rock”: chiedendo, per esempio, alle capolista di fare la loro playlist
in trasmissione. Un po’ di leggerezza serve.
il Fatto 30.4.14
La rivincita di Renzi e la diserzione dei poteri forti
Declino
Nel 1992, Enrico Cuccia riuniva nel suo ufficio i grandi capitalisti
per affrontare Mani Pulite, oggi non saprebbe chi invitare. Il premier
regna da solo
di Giorgio Meletti
C’è grossa crisi, come
diceva il profeta di Quelo. Il 23 febbraio scorso l'economista di Forza
Italia Renato Brunetta ha fulminato il nascente governo di Matteo Renzi:
“È imposto dai poteri forti e si chiamano banche”. Due mesi dopo l'Abi,
associazione dei poteri forti che si chiamano banche, minaccia di fare
causa al governo per la pillola da 2 miliardi di tasse che gli ha
rifilato per far tornare i conti dei famosi 80 euro. C'è
disorientamento. Enrico Cuccia è morto, Gianni Agnelli è morto e il
presidente di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli, “banchiere di sistema”
per eccellenza, è costretto a sfidare l'imprenditore Diego Della Valle
su una pista di sci per mostrargli la tonicità dei suoi 81 anni.
Dopo
esserci baloccati per anni con l'idea che l'onda anomala
dell'antipolitica preparasse il trionfo della società civile, scopriamo
che nell'Italia di Matteo Renzi, per la prima volta dalla fine del
fascismo, il potere politico non ha una borghesia industriale che lo
fronteggi. Sul Corriere della Sera Giuseppe De Rita lamenta che anche la
recente tornata di nomine al vertice di aziende pubbliche del calibro
di Eni, Enel e Poste si è consumata nell'assenza, e comunque nella
“carenza di cultura”, della “classe manageriale italiana”.
“Nessuno si preoccupa più delle sorti del Paese”
Uno
dei più importanti ed esperti avvocati d'affari milanesi allarga le
braccia: “Qui non c'è più nessuno che si preoccupi delle sorti del
Paese. I Pirelli, i Pesenti, i Marzotto... Dissolti. Ogni famiglia ricca
si occupa solo degli affari suoi, e tutti sono contenti di Renzi perché
hanno capito che non romperà troppo le scatole. Per loro è il
compromesso ideale tra il berlusconismo e la sinistra: gli imprenditori
non si aspettano più niente dalla politica, sono contenti di un governo
che non faccia danni ai loro interessi. E comunque avvertono: andateci
piano a rimpiangere l’Avvocato, anche lui pensava molto agli affari
suoi, sennò non ci saremmo ridotti così”. Usciamo da un'epoca in cui
l'oligarchia detta classe dirigente dava la rotta alla politica, anche
se non sempre con successo e con l'interesse generale in mente. Un
testimone privilegiato degli incroci tra politica e affari come Luigi
Bisignani racconta che nell'estate del 1992 il boss di Mediobanca,
Enrico Cuccia, riunì nel suo ufficio la crema del capitalismo italiano
per fare fronte comune contro l'inchiesta Mani Pulite. C’erano Agnelli,
Cesare Romiti, Leopoldo Pirelli, Marco Tronchetti Provera, Carlo De
Benedetti e Giampiero Pesenti. Oggi a una riunione così non si saprebbe
chi invitare. Intorno a Renzi c’è il deserto dei poteri forti italiani,
mentre quelli stranieri premono alle frontiere mirando agli ultimi
gioielli dell'industria italiana. Un manager pluridecorato e
provvisoriamente fermo ai box ricorda l'origine della storia: “Proprio
nel ‘92 Cuccia mi confidò il suo progetto di dare alle grandi famiglie
del capitalismo italiano delle rendite sicure, come fanno gli
imprenditori ricchi con i figli scemi. Tentò di dare la Telecom alla
Pirelli e agli Agnelli, fece consegnare ai Benetton le Autostrade. Ormai
delle grandi famiglie non c'è più niente. Hanno liquidato molte
attività, magari vivono a New York o a Montecarlo, hanno investito in
finanza e immobili, quasi sempre all'estero. Quel che è peggio è che non
c'è più nessuno dotato di una visione”. La differenza tra ieri e oggi è
lampante in una battuta polemica dell'allora presidente di An,
Gianfranco Fini, datata 1997: “Una politica per la famiglia il governo
Prodi ce l'ha, è che si tratta della famiglia Agnelli”. La seconda
repubblica è stata dominata dallo scambio di accuse tra i politici
sull'acquiescenza a poteri forti riconoscibili, con nome e cognome:
Agnelli, De Benedetti, Cuccia, Berlusconi. Oggi i poteri forti sono
fantasmi misteriosi e indefiniti, la grande finanza internazionale, il
Gruppo Bilderberg, le banche. Durante il primo governo Prodi
(1996-1998), in due anni e mezzo ci sono stati almeno sette incontri
ufficiali tra il premier e l'avvocato Agnelli, che era senatore a vita e
votava regolarmente la fiducia ai governi dell'Ulivo, come prima
l’aveva votata a Berlusconi. Il successore di Prodi, Massimo D'Alema,
non solo dialogava regolarmente con Agnelli, ma addirittura uscì a piedi
da Palazzo Chigi per incontrare Cuccia in casa del comune amico Alfio
Marchini. Il vecchio banchiere ebbe due faccia a faccia con il primo (e
ultimo) premier ex comunista, il primo durante la scalata di Roberto
Colaninno alla Telecom (di cui Mediobanca era regista) e il secondo in
occasione della fusione tra Assicurazioni Generali e Ina. Il confronto
tra governo e potere politico era serrato e costante, con la politica
sempre leggermente genuflessa.
La partecipazione di grandi banchieri
come Bazoli, Corrado Passera e Alessandro Profumo alle primarie del
2005 fu considerata un punto di forza per il ritorno di Prodi a Palazzo
Chigi. Gli anni della grande crisi economica hanno lasciato in mutande i
re dell'economia. Tecnici sussiegosi come Mario Monti e Corrado
Passera, che per anni avevano guardato dall'alto in basso la politica,
rilasciando tutt'al più salvacondotti privati per le ambizioni di questo
o quel leader, hanno giocato la carta del partito personale. Un
imprenditore importante come Alberto Bombassei (freni Brembo) si è fatto
eleggere alla Camera. Lo stesso Profumo, prima di andare a presiedere
il Monte dei Paschi di Siena, aveva selezionato un potente del calibro
di Rosy Bindi per dare ampia disponibilità a incarichi romani. L'ex
presidente della Fiat Luca di Montezemolo ha tenuto per anni in ansia il
Paese minacciando la discesa in campo. Ma se nel 1976 Umberto Agnelli
entrò in Parlamento per rappresentare la grande borghesia italiana, e se
Gianni suo fratello nel 1991 fu nominato senatore a vita da Francesco
Cossiga per lo stesso motivo, le ambizioni politiche dei loro tardi
epigoni sopra ricordati appaiono invece storie personali di limitato
interesse generale.
Il primo a prendere il potere senza il permesso della Fiat
L’Italia
di Renzi è un posto dove i lobbisti non sanno con chi parlare a Roma
“perché tanto decide tutto lui”. Ma anche il capo del governo, se
volesse incontrare il capitalismo italiano, non saprebbe a chi
telefonare. Ha liquidato il presidente della Confindustria Giorgio
Squinzi come insignificante e si rivolge direttamente (via satellite)
alle masse di piccoli e medi imprenditori disperati, mentre i
protagonisti dell'economia che frequenta sono solo suoi vecchi amici.
Oppure – il mondo si è davvero capovolto – imprenditori che lo assillano
in cerca di patenti renziane.
Il leggendario scambio di complimenti
tra Renzi e Sergio Marchionne (“Firenze città piccola e povera”, “Si
sciacqui la bocca prima di parlare, noi abbiamo fatto il Rinascimento,
lui la Duna”) risale a diciotto mesi fa: il potente manager lo definì
inadatto a governare l'Italia e il sindaco di Firenze ha preso il potere
senza il permesso della Fiat. La politica sta come sta, ma il
capitalismo italiano sta messo proprio male.
Repubblica 30.4.14
Fotografi, amici, consigliori Quella corte fiorentina che circonda Renzi a Roma
L’ultimo arrivato a palazzo Chigi è il paparazzo di Rignano
E anche le recenti nomine pubbliche portano in Toscana
di Filippo Ceccarelli
FIORENZA
dentro da la cerchia antica. Che poi magari non sono tutti fiorentini
purissimi perché vengono, come lui, dal contado. L’ultimo arrivato a
Palazzo Chigi, o per meglio dire l’ultimo di cui grazie all’ Espresso si
è saputo, è il fotografo ufficiale e personale di Renzi, Tiberio
Barchielli, da Rignano, come il presidente.
Al comune paesello
sull’Arno ha dedicato anche un libro di “ Immagini del Novecento ”. Per
il resto, proviene dal paparazzismo regionale toscano, gioie e dolori,
fra questi ultimi ebbe a suo tempo qualche problema con Di Pietro in
visita a Firenze, e dirige un sito dal titolo al giorno d’oggi non
troppo rassicurante: « Gossip blitz » anche se nella rubrica «Hot» i vip
appaiono rappresentati con delle graziose stelline sul petto e sul
pube. È possibile che dovendo raffigurare Renzi con i Grandi della Terra
(Barchielli l’ha già fatto con Obama, Cameron e Hollande), prima o poi
dovrà farsi sostituire a Rignano. Il fotografo personale è una figura
delicata e di estrema fiducia, introdotta nei primi anni 80 da Craxi che
del suo indimenticato Umberto Cicconi finì per diventare quasi parente
(la sorella andò in sposa a Bobo Craxi).
Insomma ritrattisti, mogli e
buoi meglio se dei paesi suoi. Però anche sottosegretari e capi del
Dipartimento Affari giuridici e legislativi della Presidenza del
Consiglio, che nel caso renziano rispettivamente sono l’onorevole Luca
Lotti, per via della bionda chioma detto « i’ lampadina », da Montelupo
fiorentino, un altro del contado; e poi, quando i magistrati della Corte
dei Conti avranno smesso di fare i grulli, sempre al fianco di Matteo
arriverà finalmente la dottoressa Antonella Manzione, già dirigente
della polizia municipale e direttore generale del Comune di Firenze. La
quale Antonella, ribattezzata ovviamente «la Vigilessa», è anche la
sorella dell’ex magistrato Domenico, che in quota renziana da un paio di
governi fa il sottosegretario al Viminale.
E insomma davvero molte
opportunità offre oggi il potere ai fiorentini e ai toscani (ministro
Boschi, capolista Bonafè), pure d’adozione o d’impegno ideologico e
rottamatorio qual è anche l’imminente consigliere politico presidenziale
Giuliano da Empoli, presidente del Gabinetto Viesseux di Firenze ed ex
assessore alla Cultura a Palazzo Vecchio.
Da questo punto di vista le
recenti nomine negli enti hanno messo a dura prova i giornalisti del
ramo costringendoli ariannodare filiere di comando tanto a livello
geografico quanto di fundraising Alberto Bianchi, cda Enel; Fabrizio
Landi, cda Finmeccanica; Elisabetta Fabri, cda Poste; Marco Seracini,
sindaco Eni - come non accadeva forse dai tempi d’oro dei dorotei veneti
Rumor-Bisaglia, e poi durante l’epopea del «Clan degli Avellinesi».
E
per quanto il Giglio Magico o Ribollita Power consentano elenchi ancora
manchevoli, comunque denunciano nel giovane premier una naturale forma
di diffidenza per il mondo grande e terribile, una certa attitudine a
far valere le antiche amicizie come quella con «Marchino» Carrai, da
Greve in Chianti, cui è stata delegata la macchina finanziaria
dell’ascesa, poi anche la logistica, cioè procurava e per qualche tempo
ha dispensato a Matteo una casa in centro, vedi le recenti polemiche, e
al quale paiono ora affidate le cure degli Arcana imperii del renzismo,
anche fuori Italia.
In ogni caso pare di scorgere una tendenza a fare
tribù che da un lato scopre insicurezza, da un altro suscita sospetto,
ma di cui nel mondo tenebroso del potere nessun capo si è mai dovuto
troppo lamentare. Stil novo, quindi, come s’intitola la penultima fatica
del presidente (Rizzoli, 2012), ma fino a un certo punto - anche nel
senso che quando ritornano e convengono le identità municipali le cose
non c’è nemmeno il bisogno di chiederle perché arrivano da sole.
Così
proprio l’altro giorno s’è appreso che il prossimo festival di Sanremo
lo presenterà Carlo Conti, che è certo un prodigio televisivo, però
guarda caso è anche fiorentino, fiorentinissimo tifoso dei viola, già
nel 1999 collaborava al primo libro di Renzi, da lui ha ricevuto il
super-premio “Il fiorino d’oro” e da un po’ ha anche un figlio che si
chiama Matteo.
il Fatto 30.4.14
Sel si spacca: mezzo partito in fuga da Vendola
Una ventina di deputati e tre senatori, guidati da Gennaro Migliore, sono pronti a entrare nel Pd e a sostenere il governo
di Antonio Massari e Loredana Di Cesare
Il
dialogo con Matteo Renzi è stato già avviato”. Il primo tassello della
diaspora, i dissidenti di Sel, sono pronti a metterlo tra pochi giorni.
Non appena in Parlamento si discuterà del decreto sugli 80 euro in busta
paga. Il provvedimento è approdato ieri in Senato. “Sarà guerra”, dice
un parlamentare che preferisce mantenere l’anonimato, “perché la
direzione di Sel non è ancora convinta se votare a favore. Noi invece – e
siamo una ventina – vogliamo sostenere questo provvedimento con il
nostro voto”. Non si tratta di una “semplice” spaccatura. È l’inizio di
un esodo. E c’è chi azzarda l’ipotesi di una drammatica accelerazione.
“Siamo pronti a passare nel Pd. Le trattative sono in corso. Anche prima
delle elezioni europee, se necessario”. Di certo, l’argomento in questi
giorni sta tenendo banco. E il riferimento alle elezioni europee del 25
maggio, ovviamente, non è un dettaglio. L’ala del partito legata a
Gennaro Migliore – contrapposta ai fedelissimi di Nichi Vendola e Nicola
Fratoianni – non ha mai gradito l’appoggio di Sel alla Lista di Alexis
Tzipras, preferendo sostenere il tedesco Martin Schulz. Il motivo: da un
lato l’allontanamento, in Europa, dal Pse; dall’altro il rischio di una
sconfitta, poiché è difficile che la Lista Tsipras riesca a superare lo
sbarramento del 4 per cento. E così una ventina di deputati e tre
senatori sono già pronti all’ammutinamento : prima che Sel affondi in
Europa, potrebbero abbandonare la barca, per creare la sinistra interna
al Pd, alleandosi con Pippo Civati. Lo scenario della diaspora prima
delle elezioni europee, comunque, è quello meno probabile: l'elezione
per Bruxelles, infatti, resta l'occasione migliore per contarsi
all’interno del partito – dal tesseramento ai voti ottenuti dai singoli
candidati. I parlamentari malpancisti non sono d’accordo sulla direzione
presa da Sel che, attestandosi sempre più in un ruolo di opposizione,
si sta allontanando dall’originaria vocazione riformista.
LE SPINTE E
I MALUMORI arrivano anche dai territori: “La scelta – sostiene la
nostra fonte – è dettata anche da pressioni della base del nostro
elettorato: ci chiedono di essere una forza di governo e non più solo di
opposizione”. Alla camera si contano circa la metà dei deputati pronti a
passare nel Pd. Secondo le indiscrezioni tra i dissidenti figurano il
capogruppo di Sel alla camera dei deputati, Gennaro Migliore, il
tesoriere del partito Sergio Boccadutri, Claudio Fava, Nazzareno
Pilozzi, Gianni Melilla, Martina Nardi, Ileana Piazzoni, Ferdinando
Ajello.
Nell’altro ramo del Parlamento, invece, sarebbero tre i
senatori pronti a passare nel partito di Matteo Renzi: Massimo
Cervellini, Peppe De Cristofaro e Luciano Uras. Forti segnali di rottura
si sono registrati già durante il congresso di Sel – con la storica
rivalità tra Fratoianni e Migliore che risale ai tempi di Rifondazione
comunista – che ha rieletto Nichi Vendola segretario del partito. In
quella sede Vendola chiuse a ogni possibile accordo con il governo. Il
passaggio di un così cospicuo numero di parlamentari di Sinistra
ecologia e libertà nel Pd rischierebbe di segnare la fine del partito
nato nel 2008 dalla scissione con Rifondazione comunista.
La Stampa 30.4.14
Dante, Hitler e Marx
La campagna elettorale che riscrive la Storia
Sparate e revisionismo per conquistare il consenso
di Mattia Feltri
La
storia, si diceva, non ci insegna nulla, il che rischia di accadere
soprattutto se non la si conosce. Oppure se la si maneggia con la
disinvoltura un po’ gaglioffa delle campagne elettorali, e allora si
apprende, secondo le lezioni più recenti del capo di Forza Italia, che
per i tedeschi «i campi di concentramento non ci sono mai stati».
L’accuratezza e la pertinenza delle citazioni berlusconiane è uscita
prepotente ieri quando, per tratteggiare un profilo psicologico di Beppe
Grillo, la frase impegnata è stata la seguente: «Gli italiani devono
imparare ad avere paura perché Grillo, lo si vede anche dal modo in cui
organizza la sua setta, mi fa ricordare personaggi come Robespierre
oppure Marx e Lenin. Grillo è il prototipo di questi signori, Hitler
compreso». La vastità dei riferimenti probabilmente non aiuta a
precisare il concetto partorito da Silvio Berlusconi, ma del resto
l’obiettivo suo non è di contribuire all’elevazione delle materie
umanistiche, piuttosto di dare fuoco a quel pagliaio che è il suo
elettorato. Il quale ha sull’anima l’Euro e la Germania di Angela Merkel
e del quale si deve evitare il passaggio al Movimento cinque stelle.
La
via storiografica al consenso è una vecchia abitudine dell’ex premier,
ma buon discepolo è il medesimo Grillo, talvolta in modi persino più
goffi perché Grillo non possiede quella noncuranza con cui Berlusconi
pronuncia le più spettacolari enormità. Grillo ha l’aria di quello che
ci crede, va in Sicilia e ai siciliani offre un revisionismo su misura:
«La mafia non ha mai strangolato i suoi clienti, si limita a prendere il
pizzo. Ma qua vediamo un’altra mafia che strangola la sua vittima (i
partiti, ndr)»; oppure va in Veneto e riassume il millenario splendore
della Serenissima, in un Europa che ribolle di secessionismo da Trieste
alla Catalogna fino in Scozia. A ogni occasione c’è la pagina giusta del
manuale per cui il medesimo Grillo ieri ha ripetuto (dopo le polemiche
di lunedì) la definizione data dei sindacati - «peste rossa» - che
ricalca un canto delle Ss: «Abbiamo già combattuto molte battaglie / A
sud nord est e ovest / E ora siamo pronti per l’ultima lotta contro la
peste rossa». La prima volta fu forse un caso. Un po’ gaffe, un po’
opportunismo: la storia è così, è plastilina. Durante la campagna
elettorale delle scorse politiche, Grillo citò Simone Weil e il suo
Manifesto per la soppressione dei partiti politici a sostegno della sua
teoria di democrazia diretta, cioè di parlamentari esecutori della
volontà popolare; in realtà Simone Weil, terrorizzata dalle dittature in
nome delle masse, diceva l’opposto: ogni parlamentare deve rispondere
soltanto alla sua testa e alla sua coscienza. Ma non sarà mica un
problema? Potrà mai esserlo per uno - Grillo, che si dichiarò
«conservatore rivoluzionario» - magari persuaso di aver coniato un
bell’ossimoro - ignorando che fra le due guerre i conservatori
rivoluzionari ispirarono Adolf Hitler.
Ecco sì, un po’ strafalcione e
un po’ doppio gioco. Matteo Renzi pare averne compreso i rischi e sta
più attento. Fu proprio un «errore di confusione», come disse lo stesso
Renzi (ma anche un errore di asineria), collocare la battaglia di
Gavinana in un omonimo rione fiorentino anziché sulle colline di
Pistoia. Erano tempi di imprudenze, e Renzi riuscì a dire che «Dante era
di sinistra» e saltò su Agnese, la moglie, a rimettere le cose a posto:
«Dante era un conservatore». Così oggi il presidente del Consiglio si
trattiene dall’accostare i rivali ai peggio capoccioni del Novecento,
ché oltretutto stabilire paralleli fra Berlusconi e Benito Mussolini o
fra Grillo e Pol Pot non provoca più nemmeno mezzo brivido. E però
qualche furberia non se la nega neppure lui: il 25 aprile ha salutato
l’Italia dall’alba con un tweet sui partigiani, «i ribelli di ieri»,
sottintendendo per sé il ruolo di ribelle di oggi, e restituendosi una
dimensione di sinistra tanto utile con quella fama di essere un
neoberluschino; così come nel 2009, appena prima dell’elezione a
sindaco, disse che sarebbe andato a pregare sulla tomba di Giorgio La
Pira - il più amato sindaco del Novecento fiorentino - di modo da
procacciarsi un adottante inconsapevole ma prestigiosissimo.
l’Unità 30.4.14
Una vita con l’Unità: foto e storie dei lettori
Lo speciale. Noi, con l’Unità in tasca per sempre audaci
Insieme al giornale del Primo maggio un fascicolo di 48 pagine
di Oreste Pivetta
Album
di famiglia, di un paese e qualche cosa di più: nell’universalità delle
facce, dei cuori, delle proteste, delle speranze, immagini di tante
epoche e del mondo intero. L’Unità tra le mani di un operaio, di un
contadino, di uno studente. L’Unità tra le mani di un pensionato o di
una massaia in un tempo di lasagne e agnolotti tirati in casa. L’Unità
nei cortei.
Perché l’Unità era il giornale «popolare», come lo aveva
voluto Gramsci e come riapparve nelle edicole dopo la Liberazione. Per
noi l’Unità era «grande giornale popolare», «politico» e aggiungevamo,
con orgoglio, «di informazione», quasi a stabilire per statuto oltre che
per scelta culturale il valore della «notizia», «l’oggetto fondamentale
– come ti insegnano nei manuali - del lavoro giornalistico», per cui si
possono leggere (grazie agli archivio alla ristampe) nel primo numero
le recensioni teatrali.
O nel primo numero dopo la Liberazione le
cronache sportive di una gara ciclistica o l’asterisco su un furto di
gomme o di ferro in un cantiere, accanto naturalmente al «fondo»,
l’articolo con un titolo su due colonne che apriva il giornale che,
allora, finché l’Unità fu senza tentennamenti l’organo del Pci, «dava la
linea», «la via maestra», come indicava appunto l’editoriale del
battesimo, novant’anni fa.
Ricordo d’essere stato rimproverato una
volta da un vecchio dirigente, che era stato nel ventuno fondatore con
Gramsci del partito comunista a Livorno, perché mi ero presentato ad un
appuntamento per un viaggio alle sette del mattino senza l’Unità: gli
mancava «la linea». Rimediammo alla prima rivendita. A me capitava di
leggerlo quando tornavo da scuola, con i piatti ancora in tavola.
Leggevo Ugo Casiraghi, Arturo Lazzari, Rubens Tedeschi, cioè il grande
cinema, il teatro (così conobbi Strehler e il Piccolo), la grande
musica. Leggevo Michele Rago, francesista e critico letterario assai
impervio. Più tardi cominciai a leggere Giovanni Cesareo, allora Vice,
custode di una rubrica televisiva (forse fu la prima a comparire su un
quotidiano, poi vennero tutti gli altri) di condivisibile ferocia
(ahimè, smarrita, nel compiacimento che avvolge morbidamente qualsiasi
stupidata proposta in tv). Davano tutti il senso di una modernità
straordinaria (oltre che di insuperata maestria pedagogica in un foglio
che si voleva appunto popolare).
Capire il paese, le sue
trasformazioni: per questo, per questa adesione alle tante «voci» della
realtà, l’Unità poteva essere il giornale di tutti, secondo un
determinato dichiarato orientamento politico ovviamente, ma con
l’onestà, con la trasparenza che gli venivano da quell’etichetta in
testata, «organo del…». Non un finto «quotidiano indipendente»,
governato dai padroni della Fiat o da un eterogeneo e più aggiornato
«patto di sindacato» tra padroni di varia estrazione, ma un giornale per
scelte e per definizione dalla «parte di…»: dei lavoratori, dei
contadini e degli operai, degli sfruttati d’ogni angolo d’Italia e del
mondo, giornale al fianco di chi si batteva per la propria libertà, per
affrancarsi dal colonialismo… C’è un titolo che dice tutto (e che
continua a sembrarmi tra i più belli apparsi sulla prima pagina
dell’Unità): «La vittoria del Vietnam/ illumina il Primo Maggio » (credo
che l’autore fosse stato Claudio Petruccioli). Lasciamo da parte un
attimo le vicende successive: quelle due righe chiudevano una storia
secolare di colonialismo in un giorno che celebrava universalmente la
lotta dei lavoratori per la loro emancipazione. Un altro titolo, ben più
citato, diceva semplicemente: «Eccoci». Era il marzo 1984: una
manifestazione della Cgil, una gigantesca manifestazione per il lavoro,
contro il taglio della scala mobile. La bandiera mostrata da centinaia e
centinaia di persone non è una bandiera qualsiasi, per quanto rossa: è
la prima pagina dell’Unità, che testimonia con una parola molto semplice
la voglia di «esserci», di contare finalmente per quel che si vale in
una società dove il lavoro dovrebbe sempre essere al primo posto. Non la
speculazione…
Fu una giornata di «diffusione straordinaria». Una
volta capitò di toccare un milione di copie. Le diffusioni straordinarie
erano ad ogni festa comandata, alcune – come il Primo Maggio – più
comandate di altre. In redazione un bollettino disponeva gli orari,
servizio per servizio, della chiusura anticipata, per consentire la più
alta tiratura. Splendeva ancora il sole e si doveva scendere in
tipografia per «chiudere ». S’aspettava il rumore profondo della
rotativa, la gigantesca rotativa che s’avviava lenta e prendeva velocità
poco alla volta, allungandoci finalmente «la copia fresca di stampa».
Se la macchina andava bene. Poi tutto dipendeva dai «compagni che
diffondevano l’Unità»…
Nel fascicolo illustrato che troverete
domani, scoprirete tante fotografie che raccontano questa storia:
l’Unità e le feste dell’Unità (scusate, ma che follia cambiare nome,
come si può buttare uno «storico marchio di successo»), i lettori, i
diffusori, i cortei operai, tanti giovani, i funerali di Togliatti e di
Enrico Berlinguer(un’altra pagina celebre: Berlinguer sorridente con
indosso la cerata del velista). In una compaiono un giovanotto, con il
profilo severo di quegli anni cinquanta, seduto di traverso su di una
Lambretta, mentre legge l’Unità e, accanto, un bambino ben pettinato (il
figlio, probabilmente) appoggiato alla moto, quasi in posa. In un’altra
un gruppo di «compagni» circonda una Topolino. Loro tengono in mano
l’Unità. Una copia ben aperta è stesa sul cofano dell’utilitaria. Mi
viene in mente Italo Calvino (anche lui fu redattore dell’Unità) e un
articolo, in cui da cronista inviato sul campo, raccontava la vita tra
le risaie del Vercellese. Avvicinandosi a una cascina, vide appoggiata
ad un muro una moto e, inoltrandosi nel cortile, lampeggiare da una
stanza nel buio una luce bianca. Una motoretta e la televisione gli
dissero quanto stesse cambiando la società italiana: s’inaugurava
un’epoca che sarebbe stata quella della mobilità di massa,
dell’informazione e della cultura di massa, dei consumi di massa. Vale
lo stesso per quella Lambretta e quella Topolino, quasi esibite come
segno di una forza: in più erano il simbolo dello sviluppo
dell’industria italiana e pure delle virtù del lavoro operaio e l’Unità
s’esaltava tra quei simboli. Altri scatti confermano quanto mi
insegnarono un giorno: che l’Unità andava ripiegata per bene e infilata
nella tasca della giacca in modo tale che all’esterno comparissero
almeno le prime lettere della testata. Ad una cerimonia per il 25
Aprile, in un paese dove non ero mai stato, feci così e trovai subito
tante persone con cui fraternizzare. Quasi una sorpresa (il paese ha un
sindaco leghista che alla manifestazione non si era neppure fatto
vedere). Meno rispetto al passato, ma l’Unità c’è sempre. Una volta i
muratori ripiegavano l’Unità a busta per infilarsela in testa e
proteggersi dalla polvere (la pratica è documentata dalle istantanee dei
nostri lettori). Adesso si dovrebbe portare il casco anti infortuni.
Anche in questo progresso non si può negare che l’Unità abbia avuto
qualche merito.
l’Unità 30.4.14
Allarme immigrati. 800mila in arrivo
Nei Cie solo 6 mesi
Due emendamenti del governo alla legge comunitaria riducono la permanenza nei Centri
Il Viminale: «Sistema di accoglienza al collasso»
25 mila sbarchi solo da gennaio
di Claudia Fusani
Gli
allarmi sono ormai quotidiani. I numeri dicono tutto: 25 mila sbarchi
dall’inizio dell’anno (11 mila in tutto il 2013) e a fine 2014 saremo
ben oltre i 61 mila sbarcati nel 2011 sull’onda eccezionale della
Primavera araba. Quello alle coste siciliane è ormai un vero e proprio
assalto di fronte al quale l’Europa si gira dall’altra parte. Ed è
fondato l’allarme di Giovanni Pinto, il direttore centrale
dell’Immigrazione e della polizia di frontiera presso il ministero
dell’Interno. «Il sistema di accoglienza è ormai al collasso e nei paesi
da dove arrivano i flussi, a cominciare dalla Libia, non esistono più
interlocutori » ha detto ieri in audizione al Senato davanti alle
Commissioni Esteri e Difesa facendo il punto sull’Operazione Mare
Nostrum, sistema di controllo e salvataggio nato dopo i 600 morti nel
canale di Sicilia nell’ottobre 2013 e che ci costa la bellezza di 300
mila euro al giorno. Sono venute fuori analisi («Mare Nostrum ha
incrementato le partenze dalle coste africane») e numeri («800 mila
persone in partenza dall’Africa all’Italia») che hanno buttato altra
benzina sul fuoco acceso da settimane, soprattutto da Lega e Forza
Italia, contro Alfano, il Viminale e la politica dell’immigrazione.
L’allarme
immigrazione è diventato così, purtroppo, pane da campagna elettorale.
Il governo non si fa prendere alla sprovvista. Sul tavolo infatti ha già
pronti un paio di provvedimenti destinati a far discutere e che avranno
almeno il merito di mettere ordine in un altro luogo di offesa e di
spreco che sono i Centri di identificazione ed espulsione.
Il
ministro Alfano ha provveduto ad infilare due emendamenti nel testo
della legge Comunitaria che sta per arrivare in aula alla Camera nei
prossimi giorni. Il primo emendamento impone che l’identificazione debba
avvenire già in carcere. Sembrerà assurdo ma è proprio così: le
strutture carcerarie non possono procedere con l’identificazione del
clandestino fermato e portato in cella. L’emendamento corregge questa
mostruosità burocratica e cerca di accorciare i tempi. Il secondo
emendamento al testo della legge comunitaria è quello che scotta.
Prevede infatti che i tempi di trattenimento nei Cie non possono più
essere «fino a 18 mesi» ma «al massimo 5/6 mesi». Il governo comunque è
pronto ad intervenire anche con un decreto per accelerare questa parte.
Magari integrandola con altre decisioni prese con il ministero della
Giustizia dove, ad esempio, si lavora per rimpatriare i carcerati
comunitari. Solo i rumeni sono 3-4 mila unità. Allarme immigrazione e
allarme carceri sono, spesso, due facce della stessa medaglia.
La
decisione di ridurre di due terzi i tempi di permanenza nei Cie è stata
presa per più motivi. «È dimostrato - si spiega al Viminale - che dopo i
primi tre, quattro mesi la possibilità di identificare un soggetto è
quasi pari a zero. Poiché a quel punto è inutile, probabilmente ingiusto
(i più sono persone che vogliono transitare verso altri Paesi, ndr) e
anche dannoso e costoso tenerli chiusi nei Cie, tanto vale liberarli ».
Su dodici Cie, sette sono praticamente chiusi per devastazione,
distrutti dalle rivolte dei clandestini.
L’idea di limitare a sei
mesi la permanenza nei Cie era nata qualche mese in un’ottica di
spending review. Al netto di qualche scandalo, per i Cie sono stati
stanziati 236 milioni di euro per il 2013 (66 milioni in più rispetto al
2012), 220 per il 2014 e 178 per il 2015. La riduzione dei tempi
potrebbe come minimo dimezzare la spesa.
Poi c’è Mare Nostrum,
sistema di navi della Marina pronte a partire non appena i radar
segnalano la presenza di imbarcazioni al largo nel canale di Sicilia.
Costa 300 mila al giorno, circa 100 milioni l’anno. Ieri la parole di
Pinto sono state usate, tirate e stiracchiate, campagna elettorale
purtroppo. Il senso di quello che ha detto era emerso anche lunedì
mattina nel vertice sull’immigrazione voluto dal premier Renzi a palazzo
Chigi. Non c’è dubbio che Mare Nostrum sia «anche un pull factor
dell’immigrazione, un elemento cioè che favorisce i flussi dei disperati
in partenza dall’Africa». Scafisti e trafficanti di clandestini (207
arrestati dall’inizio dell’anno) è chiaro che partono volentieri sapendo
che basta uscire dalle acque territoriali e c’è qualcuno che ti viene a
prendere. La prova sono, racconta una qualificata fonte del Viminale,
«le tante imbarcazioni che vengono trovate in mare senza chiglia. Non
nelle condizioni cioè di fare la traversata ma perfettamente in grado di
accompagnare i disperati che pagano 5-6 mila euro in contanti fino al
punto di raccolta delle navi di Mare nostrum». Di opinione diversa la
Marina che invece sostiene «il valore umanitario dell’operazione». Le
due cose probabilmente non sono in contrasto.
Il sistema di
accoglienza nazionale comunque è allo stremo. «Non abbiamo più luoghi
dove portare i migranti e le popolazioni locali, non solo quelle
siciliane, non ne possono più di questi continui che condizionano anche
le attività ordinarie». Un esodo biblico da guerre, carestie, epidemie.
Palazzo Chigi ha riunito la conferenza stato- Regioni per distribuire i
flussi. Ma è chiaro che non può bastare. Il sottosegretario con delega
ai servizi Marco Minniti chiede l’intervento dell’Europa. «L’Italia -
dice - non può più farcela da sola, così non si può andare avanti ».
l’Unità 30.4.14
I disperati che arrivano dalle rivoluzioni fallite
di Umberto De Giovannangeli
NON
BASTA DARE I NUMERI, PERALTRO TUTTI DA VERIFICARE. NON È ACCETTABILE
parlare genericamente di immigrati, quando quell’umanità sofferente ha
un altro status da rivendicare: quello di richiedenti asilo. L’allarme
lanciato dal Viminale su una nuova, enorme, ondata di migranti in rotta
verso l’Europa, va tradotto in politica e non relegato a problema di
ordine pubblico. Va tradotto in politica e nell’ammissione di un
fallimento che investe l’Europa nel suo insieme e i Paesi
euromediterranei in particolare.
Da tempo i segnali che giungono dai
Paesi della sponda Sud del Mediterraneo, come dal devastato Corno
d’Africa, avrebbero dovuto determinare nelle cancellerie europee uno
scatto di responsabilità e un’azione condivisa. Così non è stato. Non lo
è stato per la Libia del dopo-Gheddafi, non lo è stato per la
martoriata Siria, distrutta da oltre tre anni di guerra che ha
trasformato il popolo siriano in un popolo di sfollati (oltre 5
milioni). Al di là delle dichiarazioni formali, rimaste sulla carta, nei
fatti l’Europa ha continuato a guardare alle frontiere Sud non come un
luogo di cooperazione e di interscambio, ma come un luogo da presidiare,
in armi, perché quei Paesi in guerra potevano essere la base di una
«invasione» di migranti.
Libia, Egitto, Siria, Tunisia, Somalia,
Nigeria, Sud Sudan...Da questi Paesi milioni di persone cercano di
fuggire, non per garantirsi una vita più agiata, ma per salvare la vita.
Una vita messa in discussione da pulizie etniche, da conflitti
«dimenticati» ma sempre più sanguinosi (Sud Sudan), dall’avidità senza
freni di organizzazioni di trafficanti d’uomini che calcolano una vita
in dollari, prendere o lasciare. L’epicentro di questa tragedia è il
Mediterraneo. Un mare trasformatosi in tomba per migliaia e migliaia di
disperati che hanno perso la vita nel momento in cui hanno messo i piedi
in una delle tante carrette del mare inabissatesi. La Libia è l’emblema
di una stabilizzazione inesistente. Un Paese in mano ad oltre 350
gruppi armati, alcuni dei quali autoproclamatisi «governo» (in
Cirenaica). La Libia è a un passo da casa nostra. Un passo tragico per
tanta, troppa gente. La Libia del post-Gheddafi è un Paese ingovernato e
ingovernabile, in balia di mercenari, trafficanti di esseri umani,
miliziani qaedisti... Da questo inferno cercano di fuggire in migliaia.
Parte di quel popolo di richiedenti asilo che ingrossa ogni giorno le
proprie fila in altri Paesi devastati dalla guerra. Paesi lasciati in
balia di dittatori senza scrupoli, di oligarchie che hanno ingrossato i
propri conti in banca sulla pelle, e non è una metafora, di milioni di
diseredati. La politica ha abdicato. La diplomazia ha fallito.
Di
fronte a questa bancarotta il minimo che si deve alle vittime di questa
débâcle è quelle di trattarle per ciò che sono, riconoscendone la
storia, dando ad esse la dignità dovuta, e concedendo asilo. Non siamo
di fronte a un cataclisma naturale. Siamo alle prese con rivoluzioni
fallite, fatte fallire. L’Europa non l’ha fatto. Così come ha assistito
inerme allo sfiorire delle Primavere arabe, sostituite da restaurazioni
in divisa (militare) o da teocrazie islamiste. Cooperazione è rimasta
una parola vuota, nel migliore dei casi è stata evocata con sincerità ma
mai praticata come si sarebbe dovuto fare. E farlo non in nome di
valori che pure dovrebbero far parte di una civiltà dei diritti e della
cittadinanza che ha rappresentato il meglio dell’Europa; solidarietà,
giustizia, inclusività...La ragione meno poetica, ma molto concreta, per
la quale l’Europa dovrebbe attivare finalmente politiche di sostegno
nei Paesi del Sud del Mediterraneo, è perché è nel nostro interesse.
Perché dare soluzione ai conflitti che agitano quella parte di mondo
significa dare una motivazione a milioni di persone per restare nelle
loro città, per scommettere su una vita possibile, non solo migliore. La
crisi libica, la guerra siriana, la restaurazione egiziana, non sono
capitoli della politica estera di una cancelleria europea. Sono,
soprattutto per Paesi frontalieri come l’Italia, parte della propria
politica interna. Perché non esistono barriere, muri, mari militarizzati
che possono fermare l’esodo biblico di una umanità sofferente che non
ha più nulla da perdere. Di questa sofferenza, l’Europa è parte.
Responsabile, anche se non lo ammette.
l’Unità 30.4.14
Lo sfregio su Aldrovandi Ovazione agli assassini
Cinque minuti di applausi a tre dei quattro poliziotti condannati
per l’omicidio durante il congresso del sindacato Sap
La madre: «Rivoltante»
di Roberto Rossi
Le
ferite alla memoria di Federico Aldrovandi, il ragazzo ferrarese ucciso
il 25 settembre del 2005 dopo un fermo da parte di una volante della
polizia mentre stava tornando a casa, non finiscono mai. Il caso è
chiuso, la Cassazione ha condannato quattro poliziotti per omicidio
colposo, ma questo non basta. Non per tutti. Certamente non per il Sap,
il sindacato autonomo di polizia, che da tempo si è messo dalla parte
degli assassini di Federico in maniera plateale, pianificata, brutale,
aggressiva.
Ieri, durante la sessione pomeridiana del suo congresso,
in svolgimento nella città di Rimini, tre dei quattro poliziotti sono
stati accolti in sala da cinque minuti di applausi. Un’eternità. Che
segna la distanza tra il buon senso e l’ottusità, tra la verità e la
calunnia. Paolo Forlani, Luca Pollastri e Enzo Pontani sono stati
accolti da questo gruppo di poliziotti, di destra è bene ricordarlo,
come degli eroi per aver pestato, schiacciato, soffocato un ragazzo di
diciotto anni una notte di autunno e aver cercato di coprire in tutti i
modi quell’omicidio alterando la realtà dei fatti. Oltre ai tre
poliziotti presenti al congresso riminese, nel caso Aldrovandi era
coinvolta anche un’altra poliziotta, Monica Segatto, che ieri, però, non
era presente in sala. I quattro hanno trascorso solo alcuni mesi in
carcere, graziati dall’indulto, e sono tornati al lavoro.
«È
terrificante, mi si rivolta lo stomaco » ha detto Patrizia Moretti dopo
aver appreso dell’applauso. «Cosa significa? Che si sostiene chi uccide
un ragazzo in strada? Chi ammazza i nostri figli? È estremamente
pericoloso». Il Sap, ha aggiunto Moretti su Facebook, «applaude a lungo i
condannati per l’omicidio di mio figlio. Provo ribrezzo per tutte
quelle mani. Alessandro Pansa era lì?», si domanda la Moretti. Il capo
della polizia, in realtà, aveva lasciato il congresso del sindacato da
alcune ore e da quel palco, ironia della sorte, aveva annunciato nuove
regole d’ingaggio per la polizia.
Non è la prima volta che il Sap si
concede il lusso della vergogna. Lo scorso 17 febbraio, ad esempio, il
segretario Gianni Tonelli aveva detto, a poche ore dalla marcia alla
quale parteciparono migliaia di ferraresi per chiedere la destituzione
dei quattro agenti riammessi in servizio una volta scontata la condanna,
che «le vere vittime della morte del diciottenne Federico Aldrovandi
sono i quattro agenti che lo hanno ucciso».
Il Sindacato Autonomo di
Polizia non è stato il solo a schierarsi apertamente dalla parte dei
colpevoli. In principio fu il Coisp, altra sigla sindacale di destra ma
meno rappresentativa della prima. Il 27 marzo del 2013 arrivò a
manifestare sotto la sede di lavoro della madre di Federico a Ferrara.
Una decina di poliziotti, sotto la tutela politica dell’europarlamentare
ex Pdl e poi Fli Salato, inscenò un sit-in con lo slogan «la legge non è
uguale per tutti ». Per quella manifestazione fu rimosso il questore di
Ferrara, arrivarono le scuse del ministro degli Interni Cancellieri,
non quelle dei poliziotti.
E andando dietro nel tempo come non
ricordare l’uscita, nel giugno 2012, di uno degli autori dell’omicidio,
Paolo Forlani, sulla pagina Facebook di Prima Difesa Due (poi chiusa
dalla polizia postale). Forlani scrisse, in riferimento proprio a
Patrizia Moretti, «ma che faccia da culo aveva sul tg». La pagina era
gestita da Simona Cenni, che a sua volta scrisse: «Federico faceva uso
di sostanze stupefacenti, alcool e mamma e papà sapevano… dormiva dal
nonno Federico e non a casa con i genitori… e Federico ha dato tanto
alla sua famiglia dopo la morte. Due milioni di euro… riposa in pace
ragazzo… sapendo che se i tuoi ti avessero aiutato saresti ancora vivo».
C’è un modo per mettere fine a questa vergogna? Il capo della polizia
batta un colpo.
l’Unità 30.4.14
Carceri, urla dal silenzio
di Luigi Manconi e Stefano Anastasia
È
proprio il caso di dire: ogni giorno ha la sua pena. Nel senso che, con
frequenza pressoché quotidiana, l'Italia viene sanzionata da organismi
sovranazionali in ragione delle sue gravi inadempienze, o peggio, sul
piano del rispetto dei diritti fondamentali della persona. Questa volta,
particolarmente severo è stato il Consiglio d’Europa.
Il quale ha
ribadito un’aspra verità: nel settembre del 2012 abbiamo strappato alla
Grecia il mortificante primato del sovraffollamento penitenziario tra i
Paesi dell' Unione europea; e nel più ampio bacino del Consiglio
d'Europa siamo secondi solo alla Serbia. In estrema sintesi il rapporto è
sempre quello: dove ci sono due posti letto, il sistema penitenziario
italiano colloca tre detenuti. Si dirà: ma sono dati vecchi, che
risalgono a quasi due anni fa. Vero. Ed è pur vero che da allora a oggi
la popolazione detenuta è diminuita di circa 6.500 unità, ma il
sovraffollamento resta e quasi ventimila detenuti ancora oggi non hanno
un posto letto regolamentare.
Quando il Consiglio d'Europa ha fatto
la sua rilevazione per il rapporto presentato ieri a Strasburgo, la
Corte europea dei diritti umani non aveva ancora deciso a proposito del
caso Torreggiani. E non aveva ancora formalmente ammonito l'Italia a
ricondurre il sistema penitenziario entro i binari della legalità.
Eppure il presidente della Repubblica già si era espresso con forza
contro «una realtà che ci umilia in Europa» e il governo Monti aveva già
adottato il suo decreto cosiddetto «svuota carceri». Poi, dopo quella
rilevazione, è venuta la sentenza Torreggiani, un nuovo decreto
(Cancellieri I), il messaggio di Giorgio Napolitano alle Camere (8
ottobre 2013) e un nuovo decreto (Cancellieri II).
Dopo tutto
questo, la popolazione detenuta è diminuita solo di 6.500 unità su un'
eccedenza di circa ventimila: un po' pochino per poter dire di aver
fatto i compiti a casa.
Aveva ragione il presidente della
Repubblica: il sovraffollamento penitenziario si batte con riforme
ordinarie e con misure straordinarie. Con le riforme destinate a
introdurre un ampio ventaglio di alternative alla detenzione in cella,
con la drastica riduzione del ricorso alla custodia cautelare e con un
radicale mutamento della legislazione sulle sostanze stupefacenti e
sull'immigrazione irregolare. E con le misure straordinarie che
riportino immediatamente il nostro sistema penitenziario nella legalità,
mettendo fine alla perdurante violazione dei diritti umani che si
consuma nelle nostre carceri.
Insomma, prima di adottare le terapie
ordinarie (le riforme di sistema), è necessario abbassare drasticamente
la febbre che affligge e deforma il corpo malato del sistema
penitenziario.
Solo dopo aver abbattuto quella temperatura così
parossisticamente alterata e aver introdotto un po' di normalità,
attraverso un provvedimento di amnistia e indulto, si potrà intervenire
con misure di lungo periodo e che agiscano in profondità.
Un ceto
politico pavido ha futilmente discettato dell'uovo e della gallina, se
vengano prima le riforme o un misurato ed efficace atto di clemenza; e
non ha avuto il coraggio di dire (e di fare) quello che il presidente
della Repubblica sollecita, quello che Marco Pannella tenacemente
richiede, quello che papa Francesco - nel solco dei suoi predecessori
appena canonizzati - si è impegnato a sostenere («Cristo è stato
prigioniero», così ai reclusi nel carcere minorile di Casal del Marmo).
Il
28 maggio, data di scadenza dell'ultimatum della Corte europea dei
diritti umani, si avvicina. Il governo ha ancora in serbo qualche
«rimedio compensativo», finalizzato a riportare il contenzioso sulle
condizioni delle carceri alla competenza dei giudici nazionali.
Ma
che ne è dei rimedi preventivi? Che ne è della richiesta all'Italia di
rimuovere la cause strutturali del sovraffollamento? Sarà uovo o sarà
gallina? La via impervia della riforma ordinaria del nostro sistema
penale e penitenziario non riesce a cancellare qui e ora lo scandalo del
sovraffollamento.
Ne abbiamo un esempio in Parlamento in queste
ore: si vota la fiducia al decreto- legge sulle droghe e la principale
misura di decarcerizzazione in materia resta quella compiuta dalla
Consulta con la dichiarazione di incostituzionalità della legge
Fini-Giovanardi. Nel merito, le Camere non riescono ad andare più in là
di quanto viene loro imposto dai giudici della Corte costituzionale. È
una sconfitta della politica, questa, ma è anche il segno che la
politica - il confronto tra diversi programmi e diverse culture - ha
bisogno di trovare tempi e modi per scelte condivise. Intanto, però, la
realtà urge, la «nuda vita» reclusa e degradata in carcere chiede
dignità e diritti.
Possiamo permetterci di continuare a ignorarla?
l’Unità 30.4.14
Sovraffollamento carceri, peggio di noi solo la Serbia
di A. T.
L’ultima
vittima delle carceri italiane è un agente penitenziario di 47 anni
residente a Villafranca Padovana. Si è ucciso ieri nel garage della sua
abitazione sparandosi un colpo alla testa. Lavorava presso la Casa
Circondariale di Padova. «L'agente - dice Donato Capece, segretario
nazionale del Sappe - si sarebbe suicidato sparandosi alla testa per lo
stress da lavoro, una circostanza che accade sempre più spesso tra i
colleghi più fragili e generata dalla mancanza di personale e turni
troppo pesanti ». E mentre Capace annuncia che il Sappe si prepara a
istituire un «punto di ascolto», a cominciare da Roma, per poi
espanderlo in più località, per tutelare «i colleghi in difficoltà
psicologica generata dai carichi di lavoro e dalla situazione delle
carceri italiane in genere », dall’Europa arriva la nuova conferma dello
stato infernale dei nostri penitenziari.
La nuova certificazione è
contenuta in un rapporto redatto dal Consiglio d’Europa ed è relativo
all’anno 2012. Si legge che i Paesi dove la situazione rimane più grave
sono Serbia, Italia, Cipro, Ungheria e Belgio. L’organismo di Strasburgo
che sovrintende alla difesa dei diritti umani, torna a bacchettare lo
Stato italiano: le nostre carceri, infatti, continuano ad essere le più
sovraffollate in ambito europeo. La realtà riferita al nostro Paese
parla di 145,4 detenuti per 100 posti disponibili, contro una media di
98 su 100: è la situazione peggiore dell’Unione europea a 28 paesi,
mentre fra i 47 paesi che fanno parte del Consiglio d'Europa solo in
Serbia il sovraffollamento è maggiore.
Il problema, si legge ancora
nel rapporto, è grave in 22 Stati, e in particolare, oltre che in Italia
e Serbia, anche in Belgio, Ungheria e a Cipro. In Italia solo lo 0,7%
dei detenuti (quota tra le più contenute) è in carcere per reati legati
alla criminalità organizzata. Al contrario, sempre stando al rapporto
che fa riferimento a 47 delle 52 amministrazioni carcerarie d’Europa, da
noi è molto elevata la proporzione dei condannati a più di 20 anni di
reclusione: il 4,8% contro una media dell'1,9%. E ancora, in media, il
20% dei detenuti condannati sconta pene inferiori a un anno, e un quarto
di tutti i detenuti è ancora in attesa di una sentenza definitiva.
Oltre
ad essere le più affollate, le carceri italiane si evidenziano per un
altro record negativo: contengono il più elevato numero di detenuti per
reati legati al traffico di droga, pari al 38,8% del totale dei
condannati, contro una media europea del 17,1%. In generale, il furto e
il traffico di droga restano i reati per i quali più facilmente si
finisce in carcere in Europa, seguiti da rapina e omicidio.
L’Italia
nel 2012 è stato il paese - si legge ancora - con il maggior numero di
detenuti stranieri nelle sue carceri. In totale erano 23.773, e
rappresentavano quasi il 36% dell'intera popolazione carceraria. Il 45%
era in attesa di giudizio, e quasi il 21% era un cittadino di un altro
Stato membro dell’Unione europea. Inoltre il nostro Paese è quello con
il minore numero di fughe durante il trasporto in tribunale, ad altro
istituto penitenziario o all’ospedale. In totale in Italia nel 2011 sono
riusciti a evadere 5 detenuti. Il primato per numero di evasioni spetta
alla Svizzera (33), seguita dall'Austria (30), Francia (29), Belgio
(28), Turchia e Scozia entrambe con 24 evasioni. Dal rapporto 2012 sulle
carceri del Consiglio d'Europa risulta che la maggior parte dei
detenuti fugge durante i permessi d'uscita o quando è sotto un regime di
semi libertà. Le persone fuggite in Italia in queste circostanze sono
state 148 nel 2011. Numero molto distante da quelli riportati per la
Spagna (1.510), la Francia (888) o il Belgio (702).
Sul tema del
sovraffollamento è intervenuto anche Giovanni Tamburino, capo
dipartimento dell'amministrazione penitenziaria: «Dalle ultime stime di
ieri, la presenza dei detenuti nelle nostre carceri è quantificabile in
poco meno di 60mila, esattamente 59.700, ai quali vanno tolti 800mila
che sono in semilibertà, e quindi si trovano in sezioni esterne al
carcere».
l’Unità 30.4.14
In fuga dall’università devastata
di Pietro Greco
SOSTIENE
EUROSTAT, L’UFFICIO STATISTICO DELL’UNIONE EUROPEA: CON IL 22,4% DI
LAUREATI NELLA FASCIA DI ETÀ COMPRESA TRA I 30 E I 34 ANNI, nell’anno
2013 l’Italia risulta ultima assoluta tra i 28 Paesi dell’Unione
Europea. Superata, negli ultimi quattro anni, anche dalla Slovacchia
(26,9%), dalla Repubblica Ceca (26,7%) e, di poco, dalla Romania
(22,8%).
Sostiene l’Unione Europea: se vogliamo entrare nella
società della conoscenza entro il 2020 dovremo avere una media del 40%
di laureati tra i giovani dell’Unione. Oggi ci siamo vicini: siamo al
36,8%. Molti Paesi si sono dati obiettivi nazionali più ambiziosi. In
Scandinavia si parla del 50%. L’Irlanda, che già è al 52,6%, ha come
traguardo il 60% di laureati. L’Italia, invece, si è data l’obiettivo
più basso in assoluto dell’Unione: 27% di laureati tra i giovani di età
compresa tra 30 e 34 anni entro il 2020. Una soglia così piccola che,
come nota De Nicolao sul sito Roars, tutti gli altri, a eccezione di
Bucarest, già oggi hanno centrato.
Sostiene la Fondazione Agnelli:
con un taglio del 9,4% del personale dipendente, l’università è il
settore della pubblica amministrazione che ha subito la maggiore
sforbiciata al personale tra il 2007 e il 2012. Seconda solo alla
scuola, che ha subito un taglio del 10,9% delle sue «risorse umane». Ma
poiché il taglio medio del personale nella pubblica amministrazione è
del 5,6% e poiché tutti gli altri settori, diversi da scuola e
università, hanno subito un’erosione inferiore al 5,0%, ogni dubbio è
sciolto: l’Italia ha deciso di risparmiare prima e soprattutto sulla
formazione dei suoi giovani.
Sostiene il Cun, il Consiglio
universitario nazionale: i tagli non sono finiti. Se continueremo ad
applicare le leggi e le norme esistenti nei prossimi anni avremoun calo
del 50% dei professori ordinari nelle università e un calo molto simile
dei professori associati e dei ricercatori. Il sistema universitario
italiano ne uscirà semplicemente devastato.
Sostiene l’Anvur,
l’Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca,
in un rapporto ripreso di recente da l’Unità: negli ultimi anni c’è
stato un calo del 20% delle iscrizioni dei giovani all’università, con
una punta del 30% nel Mezzogiorno. Nel nostro Paese è in atto una vera e
propria «fuga dall’università».
Cinque categorie di dati proposti
da cinque istituzioni indipendenti ci dicono la stessa cosa:
l’università italiana è in piena emergenza. E non si tratta di
un’emergenza grave, ma contingente. Si tratta di un’emergenza
strategica. Di una devastazione, appunto. Il Paese sembra aver
rinunciato con sistematica determinazione a un futuro fondato sulla
conoscenza.
Si tratta di una scelta in assoluta controtendenza. I
giovani di età compresa tra i 25 e i 34 anni con una laurea in tasca nei
Paesi Ocse è del 40%. In alcuni Paesi come il Giappone, il Canada e la
Russia sfiorano il 60%. In Corea sfiorano il 65%. Per restare in Europa:
in Spagna già oggi i giovani laureati sono il 40,0%, in Francia il
44,0%, in Gran Bretagna il 47,6%, in Svezia il 48,3%. E la tendenza è
alla crescita. Tutti sono convinti che il futuro sarà sostenibile solo
se la gran parte della popolazione attiva avrà almeno 15/18 anni di
studi alle spalle e proseguirà in un long life learning. Tutti puntano
sull’università. Tutti tranne l’Italia.
La scelta di navigare
controtendenza è molto discutibile: nessun analista autorevole al mondo,
infatti, sostiene che il futuro appartiene all’ignoranza. Nessun
analista autorevole sostiene che è possibile sfuggire al declino
economico (e non solo economico) del nostro Paese con meno conoscenza
relativa rispetto agli altri.
Ma, per quanto discutibile, la scelta
sarebbe legittima se fosse avvenuta (e avvenisse tuttora) alla luce del
sole. Che fosse, appunto, frutto di un dibattito democratico. Invece la
scelta è stata effettuata in sordina. Senza che la domanda – volete
un’Italia fuori dalla società della conoscenza e, dunque, destinata a
restare ai margini dell’economia della conoscenza? – sia discussa
chiaramente in pubblico. Senza che i cittadini italiani possano
scegliere di tagliare il doppio nella scuola e sull’università rispetto a
ogni altro settore della pubblica amministrazione.
Il problema non è
settoriale. Ma è, appunto, strategico. Mette in gioco il lavoro dei
nostri figli e il ruolo che nei prossimi decenni l’Italia avrà in Europa
e nel mondo. Èun problema culturale. È un problema economico. È un
problema politico. Non lasciamo che a discuterne siano pochi addetti ai
lavori. I media devono portarlo in prima pagina. Gli economisti lo
devono portare in testa alle loro analisi. La politica deve metterlo in
cima alla sua agenda. Perché è, semplicemente, il primo dei problemi
politici: riguarda il futuro, anche quello immediato, dei nostri figli.
Riguarda il futuro, anche quello immediato, del Paese.
Corriere 30.4.14
Negozi aperti il Primo maggio Ma si pensa di chiuderli per legge
Il testo in Commissione alla Camera. «Così i consumi calano»
di Rita Querzé
MILANO
— Aperture festive dei negozi: prove di retromarcia. Quanto rapida è da
vedere. Resta il fatto che alla Camera si lavora per mettere qualche
paletto al «liberi tutti» introdotto dal governo Monti con il decreto
Salva Italia.
Dal primo gennaio 2012 i negozi possono restare aperti
quando vogliono, Natale e Pasqua compresi. Di qui le polemiche che si
rinnovano a ogni giorno segnato in rosso sul calendario. Non fa
eccezione il Primo maggio: in Veneto domani più della metà degli
ipermercati avrà le saracinesche alzate. In Piemonte saranno aperti
anche alcuni punti vendita Coop, nonostante l’insegna in molti territori
(è il caso di Coop adriatica) abbia esposto un manifesto con su scritto
«Primo maggio chiusi per scelta». Carrefour alzerà la saracinesca nel
70% degli iper. Le aperture nei festivi piacciono anche a insegne alla
moda come Eataly. E alle catene. Prendiamo Yamamay: «L’apertura festiva è
una opportunità, anche il Primo maggio», dicono dal quartier generale
dell’azienda.
Il sindacato risponde con una parola: sciopero.
Sciopero regionale in Toscana. Scioperi provinciali a tappeto in Emilia
Romagna, Lazio. E in Umbria (uno dei pochi casi in cui la protesta è
indetta solo dalla Cgil, le altre sono unitarie). A macchia di leopardo
agitazioni anche in Piemonte, Liguria, Veneto. Mentre in Lombardia
commesse e commessi incrociano le braccia solo a Milano.
Nei
territori la protesta si anima, sostenuta anche da numerosi comitati
(Liberiamo la domenica, Domenica no grazie, Salviamo la domenica). Ma la
linea più avanzata del confronto è altrove. In Parlamento. Settimana
prossima la Commissione attività produttive della Camera inizierà a
discutere una proposta di legge che è la sintesi dei testi presentati da
Pd, Pdl, M5S oltre che di un articolato di iniziativa popolare promosso
da Confesercenti e Cei.
Tre i cardini del nuovo testo. Il primo: un
numero di feste con chiusura obbligatoria in tutta Italia (cinque,
dieci, venti? Si sta discutendo). Il secondo: delega a Comuni e Regioni
sulle aperture domenicali. Il terzo: agevolazioni (anche economiche) per
il piccolo commercio. Relatore della proposta di legge è il Pd Angelo
Senaldi. Che cerca di ammorbidire le rivendicazioni delle parti in
causa: «È importante che tutti abbandonino le posizioni di bandiera per
adottare un atteggiamento improntato alla ragionevolezza». Per quanto
riguarda la tabella di marcia della proposta «l’obiettivo è dare il via
libera in Commissione entro la fine di maggio per portare il testo in
aula a giugno», spiega Senaldi.
Il testo è un netto cambio di passo
rispetto alla liberalizzazione totale di oggi. Avrà gambe per camminare?
«Lo vedremo nelle prossime settimane — risponde il presidente della
Commissione Attività Produttive, il Pd Guglielmo Epifani —. Di certo si
tratta di uno sforzo di sintesi reale e necessario».
Dal punto di
vista politico, la nuova proposta di legge potrebbe essere il terreno di
sperimentazione di geometrie variabili. Dentro a Pd e Forza Italia
sull’argomento esistono posizioni diverse. Solo Scelta Civica è compatta
in difesa della liberalizzazione. Mentre il M5S è disponibile a
sostenere il testo in gestazione: «Si reintroduce un numero di festività
in cui i negozi saranno tenuti a restare chiusi, perciò noi ci stiamo.
Anzi, per quanto ci riguarda andrebbero messi limiti anche sulle
domeniche», entra nel merito Marco Da Villa, in Commissione attività
produttive per il M5S.
Chi invece prende male, anzi malissimo,
l’iniziativa è Federdistribuzione, l’associazione delle grandi catene di
super e ipermercati. «Mediazioni? Ritocchi alla normativa vigente? No,
no e ancora no. Su tutta la linea», taglia corto il presidente, Giovanni
Cobolli Gigli. «Dal primo gennaio 2012 abbiamo creato 4.200 posti di
lavoro grazie alla libertà di apertura nei fine settimana. Mentre i
consumi calano, impedire le aperture festive sarebbe il più grande
errore». Sulla stessa lunghezza d’onda anche Confimprese di Mario Resca.
Sul fronte opposto Confcommercio. «Le liberalizzazioni garantiscono
efficienza economica ma creano disagio sociale», dice il vicepresidente
Lino Stoppani. Ancora più duro il segretario generale di Confesercenti,
Mauro Bussoni: «La coperta dei consumi è corta. La grande distribuzione
vuole spostarla tutta sui fine settimana. Strangolando i piccoli».
l’Unità 30.4.14
Predappio: Museo che sorgi libero e giocondo...
di Bruno Gravagnuolo
CI
AVETE FATTO CASO? LA POLEMICA CONTRO IL 25 APRILE SE NE È STATA CHETA A
parte Il Giornale che la rinfocola pateticamente con un Cucù di
Veneziani contro i «partigiani comunisti». Con versi dell’«ex» Octavio
Paz, pentito per la giovanile «ideologia del nemico» (ma era la guerra
civile spagnola! E l’aneddoto sulle voci umane degli «altri», oltre i
sacchi sabbia, non ha nulla di cruento, e anzi fa onore ai «rossi»). E a
parte il « dibattito» in cultura sempre del quotidiano sallustiano, su
un possibile «Museo del fascismo». A Predappio... Idea col marchio Pd,
del sindaco Frassinetti. Che però sembra svanire, per motivi di buon
senso e malgrado il dibattitone: con Nicholas Farrell, Francesco
Perfetti, Roberto Chiarini e Luciano Canfora. Ora un Museo è di fatto
qualcosa di celebrativo. Di esteticamente, archeologicamente, e
scientificamente degno di esser conservato, sistemato. O esecrato, o
rammemorato con pietas (i musei della Shoa). Un Museo non può coincidere
con un «problema storiografico» non del tutto risolto, come quello del
fascismo. Che in forma di Museo rischierebbe di essere mera ideologia
revisionista, o pura demonologia di sinistra. Oppure compromesso ibrido,
senza taglio, né criteri condivisi. Insomma, un Museo del fascismo
finirebbe in rissa o in rituale macabro. Con gadget, reliquie e
pellegrini neri. A Predappio poi! Del resto lo capisce alla fine anche
il buon Mario Cervi, chiamato a chiudere il dibattito: «meglio non farne
niente», sarebbe l’orgia di nostalgici. E se lo dice lui...
Repubblica 30.4.14
Più innovazione in parlamento
di Elena Cattaneo
NONOSTANTE
i freni cui cultura, innovazione, scienza e medicina sono da sempre
sottoposti nel nostro paese, l’Italia dispone di competenze
scientifiche, umanistiche, tecnologiche e imprenditoriali, abituate a
sfide e a vittorie mondiali, dimostrando così che ci siamo anche noi.
Eccome. Tuttavia nei campi più diversi ci si è trovati spesso di fronte a
soluzioni legislative che hanno dato l’idea di “farsi un baffo” di
queste raggiunte competenze, così come dell’esame delle fonti e dei
fatti controllati. Il risultato è stato che in troppe occasioni non si è
riusciti a cogliere al massimo le opportunità di sviluppo economico e i
miglioramenti sociali che scienze e tecnologie e la cultura in generale
potevano offrire. In quelle occasioni a perderne è stata anche la
crescita civile della nazione, dei suoi cittadini, mal allenati al
pensiero critico da pratiche comunicative populiste e demagogiche.
Cittadini ai quali non si spiega cosa siano gli ogm (anzi, si vieta
persino di studiarli… per poi importarli dall’estero); che la diagnosi
pre-impianto è una conquista medica e sociale; che Stamina è
l’anti-compassione; che il metodo Di Bella -sul quale ora alcune Regioni
pare investiranno (non è il caso che il Governo controlli?) -non è
medicina; che la sperimentazione animale è inevitabile; che i vaccini
non causano l’autismo e che i terremoti non si prevedono ma che il
territorio può essere difeso salvando vite e denaro.
Insomma, fuori
dalle aule legislative l’Italia ha fior di professionisti abituati a
confrontarsi con il mondo intero in ambiti del sapere ad alto tasso
d’innovazione, quelli sui quali le grandi economie basano il loro
futuro, mentre dentro tutto ciò sembra “non esistere”. Sia chiaro, non è
un’accusa dire che un politico non sappia abbastanza di staminali,
geologia, pensiero probabilistico o di tecnologie della comunicazione.
Ma informarsi e capire questi temi significa dovervisi dedicare quasi
esclusivamente -e pochi politici sono in grado, lasciati soli, di farlo
-per capire e poi votare. Non è quindi automatico che le grandi
conquiste della scienza, della medicina o degli studi sull’ambiente si
trasformino in un vantaggio per il Paese, sebbene lo siano per la
singola disciplina o il singolo centro di ricerca (che dovrebbero ancora
di più sostenere l’avvicinamento, anche attraverso una rinnovata etica
interna). Ecco perché penso sia importante considerare la possibilità
che il nuovo Senato sia composto anche da figure d’eccellenza negli
specifici settori.
La discussione sulla riforma del Senato è stata
sinora improntata (e comunicata) prevalentemente sul “tagliare i costi
della politica”, tesa ad intercettare pulsioni popolari accese dai
malfunzionamenti causati in passato da incompetenti collocati nel posto
sbagliato. Ma questa istituzione secolare è un’altra cosa e va difesa.
Riorganizzata, certamente, ma non svuotata. Competenze e capacità
politica insieme possono aprire al Paese occasioni più alte di
socializzazione delle opportunità che la cultura, largamente intesa, può
offrire. Senatori “specialisti” possono fornire visioni strategiche sul
futuro in settori complessi e in rapida evoluzione, fare da
“sentinella” sulle scelte del presente, partecipare alla elaborazione
delle leggi, controllare gli effetti delle stesse e proporre eventuali
adattamenti. Fare leggi è uno dei compiti più importanti ma anche più
rischiosi per una nazione. I padri costituenti ci hanno lasciato una
Costituzione molto attenta al bilanciamento tra poteri dello Stato,
congegnando un processo legislativo molto articolato. Oggi serve maggior
“agilità” decisionale ma non minori garanzie. Questo va raggiunto senza
stravolgere i fondamenti del nostro sistema e, stante la necessità di
superare il bicameralismo paritario -ad esempio non votando la fiducia
al Governo -l’obiettivo dovrebbe essere prima di tutto l’efficacia
istituzionale, che si otterrebbe ridistribuendo i compiti e garantendo
la capacità di assolverli al meglio. Un Senato che includa competenze e
“allenatori” del pensiero critico in campi d’avanguardia saprebbe
vagliare e migliorare le leggi necessarie per governare la convivenza
civile. Nel passato gli italiani hanno avuto l’orgoglio di vedere, nei
ranghi del Senato, la presenza di personalità con altissime
qualificazioni, che hanno agito con disinteressato impegno civile, mossi
da un’etica di responsabilità sociale, “senza vincolo di mandato”,
unito alle competenze scientifiche e tecnologiche dei loro tempi. E si
trattava di momenti lontani dalle straordinarie complessità e conquiste
di oggi. Credo che il nuovo Senato debba essere pensato e organizzato
anche con questo fine.
Per questo vorrei richiamare l’attenzione
sulla opportunità di vedere la presenza di 21 senatori, rivendicata solo
ieri dal presidente del Consiglio Matteo Renzi nel corso dell'assemblea
con i senatori del Pd, che si siano distinti per aver «illustrato il
Paese per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e
letterario». Senza banalizzazione e senza aut aut, neppure sul loro
numero, ma riflettendo sulle ragioni della proposta. Immaginandoli,
cioè, come il frutto dello sforzo di sottrarre una parte della futura
Camera Alta alla fisiologica spartizione politica dei seggi senatoriali,
per innestare stabilmente nel circuito delle decisioni parlamentari lo
spazio per un apporto di esperienze d'eccellenza conoscitiva
riconosciuta, oggi poco presente. In altre parole queste figure
sarebbero di aiuto alla politica nello scongiurare errori clamorosi come
alcuni recenti e nell'affrontare visioni sul futuro. Se vi fosse
accordo sull’obiettivo, sono sicura che i nostri eccellenti
costituzionalisti e esperti della materia saprebbero individuare un
meccanismo di “nomina o elezione” funzionale a realizzare l'aspettativa
comune.
Mi sono sempre occupata di scienza, che ha un metodo
infallibile per separare il vero dal falso, qui e ora, o meglio il
confutabile dall’inesistente, le scienze dalle pseudoscienze e dalle
ciarlatanerie. Si chiama sperimentazione. Mi piace poter pensare e
sperare che il metodo per affrontare le riforme si rifaccia a questo
principio, che peraltro ispirò i grandi filosofi della democrazia
vissuti nel Seicento o nel Settecento, quando libertà ed eguaglianza
erano ancora solo delle aspirazioni. E mi piacerebbe, soprattutto, che
quando questo processo di riforma sarà compiuto, gli italiani possano
dire: questa legge l’ha esaminata il Senato, mi fido perché è stata
pensata o controllata per me anche da competenti disinteressati. Spero
che si possa fare.
Repubblica 30.4.14
Il Parlamento degli anti-europei
di Andrea Bonanni
L‘
EUROPA , così com’è, non gli va a genio. La moneta unica tanto meno. Ma
neanche tra di loro si piacciono tanto. L’esercito di antieuro che si
prepara ad invadere l’emiciclo del Parlamento europeo rischia di
presentarsi come un’armata Brancaleone: minacciosa per la sua
consistenza numerica e il disagio che rivela, ma politicamente
insignificante e non in grado di influenzare le scelte dell’Europa. Se
messi tutti insieme, estrema destra ed estrema sinistra, i deputati
contrari ai Trattati europei e alla moneta unica così come viene gestita
oggi, formerebbero il primo partito.
MAla coabitazione è
evidentemente impossibile. Non solo perché la sinistra di Tsipras non
potrebbe mai fare fronte comune con la destra della Le Pen, ma anche
perché all’interno di quel grande «partito della paura» che intercetta i
voti di destra, le incompatibilità sono maggiori delle sintonie.
Il
Parlamento europeo funziona, come tutti i Parlamenti nazionali, sulla
base dei gruppi politici. La riunione dei capigruppo è quella che, in
base ad un criterio di proporzionalità, assegna i rapporti, distribuisce
gli incarichi nelle commissioni, programma il lavoro politico
dell’assemblea e si ripartisce i finanziamenti.
Chi non riesce a
entrare in un gruppo politico o a crearne uno proprio, finisce
inevitabilmente per essere un paria, senza possibilità di influire sul
funzionamento dell’istituzione. Ma per formare un gruppo politico, il
regolamento richiede che ci siano almeno 25 eurodeputati di almeno sette
Paesi diversi. E nell’eterogenea armata di oltre duecento deputati anti
europei, l’operazione si prospetta tutt’altro che semplice.
Cominciamo
con gli inglesi. La Gran Bretagna manderà a Strasburgo un folto gruppo
di euroscettici eletti nell’Ukip, lo Uk Independence Party, e un buon
numero di Conservatori. I due partiti sono però rivali e incompatibili:
lo Ukip vuole l’uscita dall’Ue, mentre i conservatori chiedono di
rinegoziare i Trattati.
In compenso, nessuno dei due partiti
britannici è disposto ad allearsi con un altro forte gruppo di
euroscettici, che saranno gli eletti francesi del Front National di
Marine Le Pen: troppo di destra, troppo xenofobo e troppo populista. La
Le Pen, secondo i sondaggi, avrà un successo strepitoso, grazie al
sistema elettorale proporzionale. Ma troverà non poche difficoltà a
formare un gruppo politico. Pur facendo parte dell’estrema destra, non
vuole allearsi con i neonazisti ungheresi di Jobbik, né con quelli greci
di Alba Dorata, troppo eversivi per i suoi gusti, che pure sono dati in
crescita nei sondaggi.
Potrebbe allearsi con la Lega Nord. Ma di
certo risulta incompatibile con il Movimento Cinque Stelle di Beppe
Grillo, che i pronostici danno come un altro dei grandi outsider di
queste elezioni.
I quattro “tenori” del fronte anti-euro risultano
dunque incompatibili tra loro. Forse alla fine riusciranno a formare
quattro gruppi politici distinti raccogliendo l’adesione di partitini
minori e di “cani sciolti” eletti negli altri Paesi. Ma si tratterà
comunque di gruppi minoritari, nessuno dei quali sarà in grado di
diventare neppure la quarta forza del Parlamento, dopo popolari,
socialisti e liberali.
In compenso, l’invasione degli euroscettici
avrà paradossalmente l’effetto di rafforzare la maggioranza filo-europea
dell’assemblea di Strasburgo. Già popolari, socialisti e liberali hanno
stretto un patto di ferro per negoziare tra loro la designazione del
prossimo presidente della Commissione europea e imporne la nomina ai
capi di governo, che fino ad ora erano i soli a decidere chi dovesse
sedersi sulla poltrona più importante d’Europa. Questa maggioranza, nata
dalla volontà di democratizzare la vita delle istituzioni comunitarie e
sottrarle all’egemonia dei governi, sarà rafforzata e consolidata dalla
contrapposizione con il fronte anti-europeo e dalla necessità di
contrastarlo in tutte le numerose decisioni che riguardano un
rafforzamento dell’integrazione. Quella che si creerà sarà, insomma, una
larga maggioranza di “salute nazionale” europea, che relegherà ancora
di più ai margini i partiti euroscettici. In questo senso, una volta
decisi i giochi per la presidenza della Commissione, il Partito popolare
potrebbe finalmente affrontare la questione della manifesta
incompatibilità nei suoi ranghi di personaggi imbarazzanti e
sostanzialmente anti-europei, come Silvio Berlusconi e il premier
ungherese Viktor Orban. Ora gli eletti di Forza Italia e gli ungheresi
di Fidesz sono essenziali per garantire al Ppe la posizione di partito
di maggioranza relativa. Ma, in un Parlamento nettamente diviso sulla
discriminante tra pro e anti-europei, la loro collocazione naturale è
dalla parte degli euroscettici. E un loro allontanamento dal Ppe
rafforzerebbe la coesione e la determinazione del fronte filo europeo.
Repubblica 30.4.14
“Europee, i partiti populisti al 30%”
Sondaggio-choc del think tank inglese Open Europe: a Strasburgo conquisteranno almeno 218 dei 751 seggi
Gli esperti: le previsioni premiano Le Pen, Wilders e Grillo, ma la maggioranza pro-integrazione non è in pericolo
di Enrico Franceschini
LONDRA.
I partiti populisti antieuropei potrebbero ottenere più del 30 per
cento dei voti alle elezioni europee. Lo rivela uno studio pan-europeo
condotto dalla think tank britannica Open Europe. Secondo il rapporto,
pubblicato dal Guardian di Londra, i partiti anti-europei, un
raggruppamento che comprende formazioni politiche diverse tra loro come
il partito di destra di Marie Le Pen in Francia, i populisti
anti-immigrati di Gert Wilders in Olanda, gli indipendentisti dell’Ukip
in Gran Bretagna, il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo in Italia e
altri, conquisteranno almeno 218 dei 751 seggi del parlamento di
Strasburgo, con un aumento complessivo delle loro forze dal 21 per cento
nell’attuale legislatura al 30 per cento e oltre nella prossima.
Non
tutti gli analisti concordano con la previsione di Open Europe, che
comunque stima un indebolimento degli antieuropeisti moderati, come
i conservatori britannici (i quali dovrebbero scendere da 53 a 39
seggi), cosicché nel prossimo parlamento ci sarebbe in ogni caso una
solida maggioranza favorevole a mantenere l’integrazione europea o
perlomeno lo status quo. La crescita del populismo anti-europeo,
tuttavia, non è un campanello d’allarme soltanto per il parlamento di
Strasburgo: segnala pure il rafforzamento dell’anti-politica nei singoli
paesi europei in vista delle elezioni legislative che vi si terranno
nel prossimo futuro. Il calcolo sul voto europeo segue del resto di
pochi giorni un sondaggio secondo cui l’Ukip diventerà il primo partito
britannico con il 31 per cento dei consensi alle europee del 25 maggio,
superando laburisti (al 29 per cento), conservatori (al 24) e
liberaldemocratici (al 9). Un rilevamento che ha talmente spaventato il
premier britannico David Cameron da indurlo a promettere di dimettersi
se nel 2017 non manterrà l’impegno a svolgere un referendum
sull’appartenenza del Regno Unito all’Unione Europea. Il leader
conservatore spera in tal modo di togliere voti all’Ukip, dimostrando di
essere non meno anti-europeo, sebbene in realtà miri a far votare il
proprio paese “sì” alla Ue nel referendum, a patto che la Ue riformi le
sue leggi e restituisca alcuni poteri a Londra. Una richiesta che però
Bruxelles e i maggiori partner europei non sembrano intenzionati ad
accontentare, per cui alla fine Cameron potrebbe essere costretto a fare
campagna per il “no” all’Europa. Nel tentativo di indebolire l’Ukip,
gli altri partiti britannici intendono lanciare una campagna per
accusarlo di essere un partito “razzista”.
il Fatto 30.4.14
Gli Usa insistono: “Comprate tutti gli F-35”
Una nota dell’ambasciata ricorda l’appello di Obama: “I tagli agli acquisti incidono sull’occupazione”
di Daniele Martini
Usando
toni assai poco diplomatici, l’ambasciata americana a Roma avverte:
pensateci bene prima di tagliare l’ordine degli F-35 perché “ulteriori
riduzioni sul programma potrebbero incidere sugli investimenti e,
dunque, sui benefici non soltanto sotto il profilo militare, ma anche in
termini economici in generale ed occupazionali in particolare”.
SI
FA FATICA a trovare un termine diverso da ricatto per commentare
un’uscita del genere. La nota è stata consegnata al giornalista Gad
Lerner che affronta la faccenda dell’acquisto dei cacciabombardieri in
una trasmissione su Laeffe. In pratica gli americani ci mandano a dire
in un modo assai poco canonico e trattandoci nella sostanza alla stregua
di sudditi non di alleati che la rinuncia da parte italiana
all’integrale proseguimento del progetto degli F 35, cioè al programmato
acquisto di 90 aerei, non sarebbe una faccenda indolore. La
formulazione scelta è perentoria e tutto lascia credere che gli
americani minaccino conseguenze ad ampio raggio. Nella stessa nota
l’ambasciata americana ha ricordato che il presidente Barak Obama ha
fatto presente a tutti gli alleati Nato che è necessario facciano la
loro parte anche in momenti difficili come l’attuale. In effetti c’è un
divario tra l’impegno americano per l'alleanza che si colloca intorno al
4 per cento del Pil e quello italiano che non arriva neppure all’1. Ed è
comprensibile che gli Usa insistano perché questo divario venga
colmato, almeno in parte. Meno comprensibile è che intendano imporre
agli alleati, Italia compresa, come devono essere allocate le risorse,
cioè quali armamenti comprare e quali no. Che un taglio da parte
italiana degli ordinativi degli F-35 possa provocare conseguenze
all’Alenia, l’azienda Finmeccanica che assemblea gli aerei a Cameri in
provincia di Novara, e poi all’indotto e quindi all'occupazione (oggi
400 persone) è un dato scontato e non varrebbe certo la pena ricordarlo
in una nota diplomatica. L’Italia lo sa e l’ha messo in conto quando ha
deciso una prima riduzione dell'ordine dei caccia da 131 a 90. C'è da
supporre quindi che gli americani vogliano dirci qualcosa di diverso e
più imbarazzante dal nostro punto di vista. Del tipo: guardate che un
ulteriore taglio sarebbe considerato da noi uno sgarbo tale che le
ripercussioni sarebbero ad ampio spettro. La sorprendente uscita
americana arriva subito dopo che il 25 aprile il presidente della
Repubblica, Giorgio Napolitano, pur non nominando mai gli F-35, aveva
ribadito la necessità di non ridurre gli impegni militari dell’Italia e
messo in guardia contro quello che lui considera un “nuovo anacronistico
antimilitarismo”.
LETTE INSIEME le due uscite, quella americana e
quella di Napolitano, fanno supporre che per gli F-35 siano intercorsi a
suo tempo tra lo Stato italiano, gli Stati Uniti e l’azienda
produttrice del superjet, la Lockheed Martin, patti vincolanti e
assolutamente segreti, accordi praticamente immodificabili. Se le cose
stessero in questi termini sarebbe una sorta di presa in giro la scelta
del Parlamento italiano di subordinare l’acquisto degli F-35 ad una
ricognizione parlamentare sulle esigenze della difesa.
il Fatto 30.4.14
Palestina Falliti i colloqui di pace
Dopo
la politica sul campo, anche il tempo ha decretato ufficialmente la
fine dei negoziati tra israeliani e palestinesi: sono scaduti ieri i 9
mesi decisi nello scorso luglio a Washington, sotto la spinta del
presidente Obama e del segretario di Stato John Kerry, per trovare un
accordo tra le parti. LaPresse
La Stampa 30.4.14
Raccogliamo la sfida di Abu Mazen
di Abraham B. Yehoshua
Gli
esperti israeliani di politica palestinese sostengono che l’accordo
recentemente siglato tra l’Autorità palestinese e Hamas non resisterà a
lungo. Già in passato accordi simili si sono dissolti in breve tempo.
Personalmente vedo con favore questa nuova alleanza e vorrei esprimere
la speranza che questa volta perduri nel tempo. E questo perché la
ritengo naturale, necessaria ed essenziale al progresso del processo di
pace.
In Israele si sono avute diverse reazioni a questa iniziativa.
Da un lato, sulla base dell’esperienza passata, c’è chi afferma che
l’accordo non durerà. Dall’altro c’è chi dubita, nega e ostacola la
possibilità di raggiungere la pace, in testa a tutti il primo ministro
Netanyahu che ha approfittato di questa intesa per sospendere il
processo di pace, evitare il proseguimento dei colloqui e il
raggiungimento di un’intesa che richieda importanti concessioni da parte
di Israele. Con la sospensione dei colloqui Netanyahu intende premere
sull’Autorità palestinese per una revoca dell’accordo con Hamas
supponendo (in maniera discutibile, a mio parere) che un governo
palestinese senza tale movimento si mostri più malleabile nel negoziato
con Israele.
Ma c’è anche chi vede la nuova intesa in una luce positiva.
E
in effetti Abu Mazen ha lanciato una vera e propria sfida allo stato
ebraico: «Forza», sembra voler dire, «mettetemi alla prova e guardate se
dopo l’adesione di Hamas muterò le mie posizioni e inasprirò le
richieste già poste durante il negoziato».
Dopo tutto gli israeliani
hanno sempre sostenuto che un accordo di pace con l’Autorità palestinese
includerebbe solo una parte del popolo palestinese, e quindi sarebbe
poco sicuro e affidabile. Ma ora che si trovano davanti a un governo che
rappresenta l’intero popolo, all’improvviso la situazione si fa scomoda
perché i vecchi pretesti non valgono più e bisogna affrontare una
realtà diversa.
Dobbiamo capire che la decisione di Hamas di unirsi
al governo dell’Autorità palestinese e di accettare le sue condizioni di
base per una pace con Israele è sostanzialmente l’ammissione di un
cambiamento di rotta (nonostante questo non venga dichiarato
ufficialmente). Hamas sa che alla fine dovrà riconoscere la realtà di
Israele e non potrà continuare la politica fallimentare e distruttiva
che ha intrapreso dopo il ritiro dello stato ebraico dalla Striscia di
Gaza e che ha provocato continui disastri.
Anziché imprimere slancio
all’edilizia e allo sviluppo della regione sotto il suo controllo il
governo di Hamas ha iniziato a lanciare razzi su centri israeliani e,
naturalmente, Israele non è rimasto a guardare ma ha reagito
energicamente, inferendo duri colpi alla macchina da guerra del
movimento palestinese e alla popolazione in generale. Nonostante un
informale cessate il fuoco piccoli gruppi estremisti hanno continuato a
lanciare razzi su Israele contribuendo a minare il regime di Hamas. A
questo va aggiunta la destabilizzazione dei rapporti di quest’ultimo con
l’Egitto persino durante il breve periodo del governo dei Fratelli
Musulmani e, più di recente, con il consolidamento del regime militare.
Hamas, garantendo il proprio aiuto a cellule terroristiche nella
penisola del Sinai, è diventato nemico degli egiziani che hanno
cominciato a trattarlo duramente.
La svolta di riconciliazione di
Hamas con l’Autorità palestinese non scaturisce pertanto da un
improvviso amore per Israele ma da una crescente consapevolezza che la
situazione si fa via via più complessa e difficile. Quindi, a mio
parere, l’iniziativa di Hamas non è una tattica momentanea ma nasce
dalla volontà di sfuggire alle difficoltà e di riconoscere
indirettamente la legittimità di Israele tramite l’Autorità palestinese,
che da molti anni ha imboccato la via della pace e ha abbandonato
quella della violenza.
Abu Mazen dice la verità quando ribadisce che
le condizioni fondamentali per una pace con Israele – il ritorno ai
confini del 1967, Gerusalemme Est come capitale dello Stato palestinese,
eventuali scambi territoriali e l’accettazione delle condizioni di
Israele in materia di sicurezza (in particolare la smilitarizzazione
della Cisgiordania) – non cambieranno con l’adesione di Hamas al suo
governo.
Anzi, chi dubita delle sue parole può metterlo alla prova,
in primo luogo gli americani che hanno investito moltissimi sforzi in
questo zoppicante processo di pace.
Ma quando il primo ministro
israeliano mostra tanta poca considerazione verso il partner di pace
palestinese più serio che abbiamo mai avuto nel corso di questo
conflitto vecchio più di centovent’anni, come si può sperare che la
recente iniziativa di unificare il popolo palestinese, da sempre
lacerato e diviso, abbia esiti positivi? Quando Abu Mazen, il presidente
legittimamente riconosciuto di tutto il popolo palestinese, parla con
grande empatia della sofferenza degli ebrei durante la seconda guerra
mondiale nel giorno della memoria (celebrato ieri in Israele) e dichiara
che la Shoah è il più grande crimine della storia umana, il premier
israeliano reagisce con disprezzo, definendo le sue parole «una
dichiarazione vuota».
E in effetti non c’è da stupirsi che un leader
che rilascia a sua volta dichiarazioni vuote tenda a credere che anche
gli altri si comportino come lui.
Repubblica 30.4.14
Kenya
Poligamia legale senza il consenso delle mogli
NAIROBI
La poligamia è diventa legge in Kenya: il presidente, Uhuru Kenyatta
(sopra), ha promulgato ieri la sua controversa legge sul matrimonio, che
fra le altre cose consente a un uomo di sposare quante donne desidera
anche senza il consenso della o delle altre mogli. Il provvedimento, si
legge in un comunicato della presidenza, «raggruppa le differenti
legislazioni in materia di matrimonio» e stabilisce che «il matrimonio è
l’unione volontaria di un uomo e di una donna in una unione monogama o
poligama». Approvato a metà marzo, il parlamento di Nairobi eliminò dal
testo originario la possibilità per le altre spose di opporsi al
matrimonio, provocando l’indignazione delle deputate, che abbandonarono
l’aula in segno di protesta. Il testo inoltre prevede che le donne
possano sposare solo un uomo. Alla legge si sono duramente opposti
diverse organizzazioni per i diritti umani e per i diritti delle donne,
oltre al Consiglio nazionale delle Chiese del Kenya (Ncck) che raggruppa
40 fra chiese e organizzazioni cristiane.
Corriere 30.4.14
«Donna di conforto» Un insulto che fa male
di Gian Antonio Stella
«All’inizio
ricevevo cinque-dieci soldati al giorno. Le ragazze che erano là da più
tempo mi avevano detto di non oppormi, altrimenti mi avrebbero uccisa.
Poi ci portarono in nave su alcune isole, in cui non c’erano donne per i
soldati. Eravamo noi a recarci dove serviva. Quando scoppiò la guerra a
Palau, dovevo ricevere 20-30 soldati al giorno. Formavano una lunga
coda all’esterno della comfort station . Dopo i primi venti perdevo
conoscenza, mi sembrava di morire. Piangevo perché volevo tornare a casa
e mi picchiavano. Piangevo e mi picchiavano così tanto che, alla fine
della guerra, non avevo più nessun dente...».
Soon-Aee aveva solo 13
anni quando fu «requisita» da tre poliziotti giapponesi nella sua casa
di Masan, nella parte meridionale della Corea del Sud. L’orientalista
Ilaria Maria Sala la incontrò qualche anno fa per il Diario al «Museo
storico della schiavitù sessuale militare giapponese» che ricorda una
delle pagine più spaventose della storia della II Guerra mondiale.
Dal
1931 al 1945, riassumeva la Sala, «l’esercito imperiale giapponese
decise che per limitare gli stupri, proteggere i soldati dalle malattie
veneree e mantenere alto il morale delle truppe era necessario creare
una rete capillare di bordelli-prigione, che si estendesse dalle isole
della Micronesia alla Birmania, in cui far servire donne che non fossero
prostitute di professione, per evitare malattie. In mancanza di
volontarie, le donne furono portate con le minacce nelle baracche presso
le trincee chiamate “stazioni di conforto”».
Furono alcune decine
di migliaia (addirittura 410 mila, secondo fonti cinesi citate dalla
sinologa britannica Caroline Rose) le ragazze coreane ridotte alla
schiavitù sessuale: «Quelle che non si suicidarono o non vennero uccise
in tentativi di fuga passarono anni costrette a servire fino a cinquanta
soldati al giorno. Le vittime di questa violenza furono poi ignorate da
tutti: dagli Alleati, che ne rimpatriarono migliaia senza porsi troppe
domande; dal processo di Tokyo contro i crimini di guerra; (...) dai
loro governi, desiderosi di riallacciare buone relazioni col Giappone
(...) e il dramma di così tante donne fu spazzato sotto il tappeto,
mentre in molti mormoravano che, tutto sommato, si trattava di
“puttane”.» O, come furono chiamate, «comfort women ». Donne di
conforto...
Per questo la volgarità delle accuse sparate l’altro
ieri dal governo nordcoreano contro la presidente sudcoreana Park
Geun-Hye, additata come «una spregevole prostituta», è perfino più
infame di quanto sia apparsa ai giornali occidentali. Perché le autorità
di Pyongyang hanno usato quelle parole («una donna di conforto per gli
Stati Uniti») sapendo che avrebbero ferito la donna più di qualunque
altra. Ancora più indecente, se possibile, è il fatto che quelle
poverette furono rastrellate in tutta la Corea, anche quella
settentrionale, che oggi sta sotto il tallone canaglia di un giovane
dittatore sanguinario sedicente comunista...
La Stampa 30.4.14
La Cina prima economia al mondo
Il sorpasso sugli Usa già nel 2014
Secondo lo studio dell’International Comparison Program della Banca Mondiale riportato dal Financial Times
gli Stati Uniti perderanno
lo scettro prima del previsto. L’India, invece, si piazza in terza posizione
qui
Giuseppe Vacca: «Bisogna guardare e avere nuovamente come punto di riferimento Togliatti»
La Stampa 30.4.14
Togliatti: non fatemi monumenti
Raccolte
le lettere 1944-64 del leader comunista: analisi politiche, ironia,
giudizi tranchant e intuizioni che mezzo secolo dopo si confermano
attuali
di Mirella Serri
Togliatti versus Berlinguer. «Se
vogliamo rimodernare e ringiovanire la sinistra italiana, dobbiamo
tornare alle origini». No, non ha dubbi Giuseppe Vacca, presidente della
Fondazione Gramsci: nell’anno in cui ricorrono i trent’anni dalla
scomparsa di Enrico Berlinguer e i 50 da quella di Palmiro Togliatti,
che si spegne a Yalta 21 agosto 1964, è molto più attuale l’insegnamento
del Migliore. «Bisogna guardare e avere nuovamente come punto di
riferimento Togliatti. Qualche assaggio della sua modernità? Nel 1946
incarica Luigi Longo di compilare una relazione sul modello federativo
del partito laburista inglese. Poi questa sua attenzione sarà frustrata
dalle contrapposizioni più estreme della Guerra fredda. Ma appena può
rilancia il progetto: nel 1962 ritorna alla carica e intensifica i suoi
rapporti con il Labour, i socialisti francesi e i socialdemocratici
tedeschi. Uno straordinario esempio per l’oggi».
Adesso, per aiutarci
a riscoprire l’avventura umana ma soprattutto politica del capo del
Pci, sono in arrivo le sue lettere: una ricca scelta della
corrispondenza, in gran parte fino a ora inedita, la propone il volume
La guerra di posizione in Italia. Epistolario 1944-1964, a cura di
Gianluca Fiocco e Maria Luisa Righi, con la prefazione di Vacca (uscirà
alla fine di maggio da Einaudi). I due storici che hanno selezionato la
raccolta ricostruiscono la vicenda di Togliatti in Italia, dove era
rientrato dopo gli anni dell’esilio, introducendo ogni singolo documento
con lunghe note esplicative. Le lettere ricevute e scritte dal leader
sono circa tremila e ci fanno ripercorrere anche l’avventurosa storia
della sinistra italiana.
I primi scambi registrati nella raccolta
sono del 1944 e annoverano, tra l’altro, un’importante lettera di Pietro
Badoglio che ha individuato in Togliatti il leader che può aiutarlo a
mantenere i contatti con l’Urss. Per mettersi in buona luce, il
Maresciallo spiega di aver avviato, dopo l’8 settembre 1943, «un’intensa
opera di collaborazione che facilitò grandemente lo sbarco alleato nei
vari porti italiani», e lamenta di non aver avuto riconoscimenti per il
suo brillante operato. Dimentica di ricordare la precipitosa fuga da
Roma con il sovrano e la regina Elena e lo sfascio e lo stato di
abbandono dell’esercito italiano. A proposito di questa lettera,
Togliatti acutamente registra: «Sono convinto che Badoglio nutra per gli
inglesi un odio profondo e che da Badoglio si possa ottenere molto […]
se gli si dimostra che una data iniziativa sarà svantaggiosa per gli
inglesi, ma necessaria per l’Italia. Badoglio ha un atteggiamento più
tollerante nei confronti degli americani e non è contrario a civettare
con loro per indebolire le posizioni inglesi in Italia».
Nell’epistolario
si passa poi alle numerose missive inviate ai militanti che chiedono
lumi sulla questione di Trieste occupata dalle truppe jugoslave e ai
testi in cui il segretario del Pci si scontra con Giulio Einaudi sui
fatti d’Ungheria. Vi sono poi le spiegazioni sulle sue preferenze
poetiche offerte alla gente comune, le polemiche e gli scontri con gli
artisti che chiedono indipendenza - come il musicologo Massimo Mila,
collaboratore dell’Unità torinese - oppure le tirate d’orecchie agli
intellettuali che criticano Il Gattopardo di Visconti. Il Migliore
esprime considerazioni persino sulla lottizzazione della tv italiana da
parte dei partiti (quando scrive non possiede ancora un televisore). E
antepone sempre al telefono il mezzo epistolare: lo usa nei rapporti con
Stalin, Krusciov, Evtušenko, Alcide De Gasperi, Sandro Pertini,
Vittorio Valletta e tanti altri ancora. Lo adopera anche per dialogare a
lungo con semplici compagni «di base» che gli inviano le più svariate, e
a volte anche stravaganti, richieste: dai ragazzi che vogliono
conoscere la storia di Gramsci approdato a Torino, a chi, meno giovane,
sollecita una raccomandazione per far entrare il figlio in seminario, a
chi vorrebbe il permesso di mettere un’immaginetta sacra nei locali
condominiali.
Pure per le questioni strettamente personali prende
carta e penna: per rifiutare, per esempio, un surprise party da parte
per i suoi sessant’anni («Non si tratta, credo, di fare la sorpresa a un
festeggiato minorenne»), o per indignarsi per la posa di un suo busto
marmoreo («Decisamente contrario al busto. Si fa, da noi, ai morti ed è
una cosa ridicola. Il mio busto, per ora, sono io»). Come si spiega
questa spiccata inclinazione verso il testo scritto del Migliore?
«“Scrivere vuol dire dirigere e si dirige scrivendo”: questa era la sua
filosofia», osserva Vacca. «Inviando un bigliettino sia al compagno
della porta accanto a Botteghe Oscure sia a esponenti del mondo
cattolico, come don Giuseppe Dossetti, con cui aveva collaborato alla
Costituente, Giorgio La Pira, Ada Alessandrini, Togliatti non
dimenticava mai di essere un leader politico e un intellettuale. Aveva
un senso fortissimo della comunicazione. E proprio questo lo rende assai
adatto a rilanciare oggi un’immagine forte della sinistra».
l’Unità 30.4.14
Carla che non si rassegna
Le battaglie di Cantone in difesa dei più fragili
Anticipiamo un capitolo «Di lotta e di memoria» intervista sul futuro del sindacato e della politica alla leader dello Spi Cgili
di Carla Cantone e Massimo Franchi
PUBBLICHIAMO
UN’ANTICIPAZIONE DEL LIBRO INTERVISTA DI CARLA CANTONE CON MASSIMO
FRANCHI NELLE LIBRERIE DA DOMANI. Un libro che è una lunga intervista.
Da
sei anni sei il segretario generale dello Spi, il sindacato dei
pensionati Cgil. La più grande organizzazione che tutela gli interessi
di una generazione–gli anziani–in espansione. Una generazione che in
questi anni di crisi ha spesso tenuto in piedi le famiglie. (...) Da
persona che ha a che fare quotidianamente con loro come definiresti la
generazione che rappresenti e i tuoi iscritti in particolare?
«Io
vedo, specie per gli iscritti allo Spi, una generazione di lotta e di
memoria. Si potrebbe anche dire di memoria e di lotta. Perché questo?
Dieci anni fa sono entrati nello Spi quelli che hanno iniziato a
lavorare negli anni Cinquanta e Sessanta, persone che dopo aver fatto o
vissuto la Resistenza, hanno portato avanti le grandi battaglie per la
casa, per il diritto al lavoro, per il Piano del lavoro di Di Vittorio,
per l’esproprio delle terre. In modo particolare nel Mezzogiorno, si
tratta di quelli che sono tornati in Italia dopo essere stati migranti
all’estero per cercare lavoro. Lo Spi di oggi invece è rappresentato di
più dai pensionati che sono entrati nel mondo del lavoro negli anni
Settanta. Si tratta di quei lavoratori che sono stati protagonisti di
battaglie diverse, ma non meno importanti: per i diritti del lavoro e
per i diritti civili, sia per quanto riguarda gli uomini che le donne.
Quelli che hanno cominciato una grande battaglia contro il terrorismo,
per lo Statuto dei lavoratori, per il contratto nazionale, per il
riconoscimento dei consigli di fabbrica, dei consigli dei delegati, per
le pari opportunità, per la riduzione dell’orario di lavoro. Oppure per i
diritti civili: con le donne in prima fila per il divorzio, la
maternità libera e consapevole, la parità fra uomo e donna. Gli anziani
di oggi sono quindi quelli che hanno la memoria sempre lucida di
battaglie sindacali e civili. Questa memoria, avendo vissuto quel
periodo straordinario delle lotte sindacali, essendosele sudate, loro la
hanno distintamente, sono portati a dire che sono pronti ad un’altra
lotta per difendere quelle stesse conquiste (...)»
Una generazione
che ha lottato e che ha memoria di queste lotte. Va bene. Però anche una
generazione che, pur meritandosele con la lotta, ha avuto in dote
conquiste ora impossibili per le giovani generazioni. Gli anziani di
oggi sono una generazione di privilegiati?
«Oggi si dice sempre che i
giovani stanno male, che hanno poche possibilità. Ma non è che i
giovani di ieri all’epoca stessero meglio: un metalmeccanico, una
lavoratrice tessile, un lavoratore agricolo, un muratore che aveva 18
anni negli anni Settanta non stava bene. (...) Quindi quelli che mano a
mano sono diventati adulti e oggi pensionati non possono dimenticare la
storia della loro vita lavorativa e il loro impegno sociale e civile. Ed
è nel nome di quei ricordi, di quella memoria, che non è un amarcord,
ma è un ricordo che gli ha toccato il sangue, la carne viva, che
difendono con le unghie e coi denti ciò che faticosamente hanno
conquistato. E come lo fanno? Lottando di nuovo. (...)».
Eppure
questa generazione viene accusata di egoismo, di non voler rinunciare a
conquiste e diritti che oggi sono insostenibili dal punto di vista
finanziario, come le pensioni calcolate col metodo retributivo…
«La
verità, forse scomoda, ma la verità è che gli egoisti sono quelli della
generazione di mezzo. (...) Poi c’è una categoria ancora peggiore,
ancora più egoista verso i giovani: sono i cinquantenni, quelli che
pensano solo a difendere la loro condizione, e non vogliono lasciare
spazio ai giovani. Questo è un discorso che gli anziani non farebbero
mai, perché è una generazione che ha già dato. Al massimo possono
difendere la loro pensione, che non è neanche un granché. Ma continuano
in nome dalla memoria di ciò che hanno fatto a lottare per consegnare ai
giovani un modello di società diverso da quello in cui viviamo».
Repubblica 30.4.14
Omosessualità chi ha paura di un libro a scuola
di Massimo Recalcati
QUELLI
della mia generazione si ricorderanno forse improbabili corsi di
educazione della sessualità di tipo botanico. Uno strano “esperto della
materia” mostrava dei semi sulla
cattedra.
E LE loro possibili
combinazioni da cui sarebbero scaturiti i caratteri del nuovo nato. I
corpi sessuali in carne ed ossa restavano coperti e solo enigmaticamente
allusi. Erano anni dove la censura morale prevaleva ottusamente
provando ad esorcizzare il demone del sesso. Era l’Italia
cattolico-fascista che dopo la contestazione del ‘68 avrebbe però ben
presto lasciato il posto ad un altro padrone.
Questo nuovo padrone
-quello che Pasolini denominava negli anni Settanta “nuovo fascismo”
-non agirà più in nome della censura ma offrirà una immagine della
libertà senza limiti. Il suo imperativo non risponderà più alla logica
del dovere e del sacrificio ma a quella di un godimento senza argini.
Nel
nostro ultimo ventennio questa rappresentazione della libertà troverà
la sua enfatizzazione più radicale e, al tempo stesso, più fatua. È una
constatazione banale: basta girare in un qualunque aeroporto italiano
per trovarsi davanti agli occhi corpi di donne seminude e ammiccanti a
promuovere prodotti coi quali non hanno alcuna relazione di senso.
La
discreta solitudine dei semi sulla cattedra ha lasciato il posto ad una
proliferazione di immagini sessuali o a sfondo sessuale che hanno ormai
invaso la nostra vita più ordinaria. Ecco perché la denuncia nei
confronti di alcuni professori del liceo Giulio Cesare di Roma che
avevano proposto ai loro allievi un percorso di letture su temi di
attualità, tra cui quella della differenza di genere, non può non
colpire. Non l’opportunità dell’iniziativa di quei docenti -ai miei
occhi totalmente legittima -, ma proprio l’atto che la vuole denunciare
come “pornografica”. Il nuovo fascismo sembra qui lasciare il suo passo
ad un ritorno del vecchio. L’ideale di una sessualità anatomicamente e
naturalmente
eterosessuale, una educazione morale rigidamente
normativa, accompagnata dall’omofobia e dall’esaltazione della virilità,
sono stati invocati contro i professori degeneri. Grave errore di
giudizio. Come non vedere che se c’è una salvezza dallo scempio
iperedonista che ogni giorno ci invade facendo dei corpi erotici carne
da macello, se c’è una salvezza dalla violenza che scaturisce da una
rappresentazione tutta fallica della sessualità, essa non è nel ritorno
ad un Ordine giustamente defunto, ma proprio nel libro, nella lettura,
nella vita della Scuola.
È attraverso, il libro, la lettura, la
Scuola che si gioca infatti la vera prevenzione ai rischi della barbarie
e della dissipazione in un godimento senza soddisfazione. Il libro
incriminato non è un libro pornografico, ma un libro che racconta la
storia di una formazione e di una filiazione. Un libro di letteratura
non è mai pornografico ma, casomai, erotico nel senso che anima il
desiderio di sapere. Resta sullo sfondo la vera questione: come si può
parlare a Scuola di sessualità senza ricorrere alla tristezza dei semi
sulla cattedra e al suo moralismo implicito, ma senza nemmeno -come
accade oggi -ridurre tutto all’altrettanto arida descrizione senza veli
della spiegazione scientifica di come, per esempio, funzionano gli
organi genitali. L’educazione alla sessualità dovrebbe preservare sempre
il velo del mistero. Cosa di meglio allora della letteratura e della
poesia? La sessualità senza amore ha il fiato corto sia essa cosiddetta
omosessuale o eterosessuale. Quando invece l’amore feconda il sesso non
c’è mai gesto erotico che rischi l’oscenità. Sia esso cosiddetto
omosessuale o eterosessuale.
Repubblica 30.4.14
Tra angeli rock e demoni razzisti, viaggio nelle radici delle leggende complottiste che affascinano i giovani
Illuminati di tutta la Rete unitevi
di Guido Ceronetti
Su
Repubblica del 23 aprile scorso era riportato, da Le Monde, un
articolo, firmato da Elisa Mignot, sulla manipolazione mentale dei
giovani (liceali dei sobborghi, la Rete come oracolo, un po’ di Dan
Brown), mediante influenze indotte subliminalmente, attraverso cui un
complotto di occultisti col nome tradizionale di Illuminati
manifesterebbe le proprie mire di dominio mondiale. Posso osservare che,
in ogni punto, la Rete non è innocua. L’ago magnetico è fisso sulla
stella del Male, per quanto il bene più rassicurante possa fluirne a
vagonate; resta infallibile la parola di McLuhan: «Il mezzo è il
messaggio».
E la manipolazione per squilibrare la mente e ridurre
all’impotenza la ragione è in atto dappertutto, anche ne più banale
buonsensismo di Pensiero Unico- spray.
Illuminati autentici non
pensano a dominare il mondo, ma a redimerlo, e per quanto gli è concesso
a salvarlo. Uno dei più comuni esempi di manipolazione falsificatrice è
il linguaggio delle cifre, la pseudoscienza statistica.
Diffidate di tutto, ragazzi. Credete a Vincent Van Gogh, illuminato vero, dunque disperato.
Messaggi
criptici e subliminali non mancano nel repertorio Beatles. Che
vorrà dire il cadenzato Sottomarino Giallo in cui «tutti viviamo »? Quei
tutti sono i consumatori di Lsd in quegli anni? Nel celebre White Album
c’è poesia pura accompagnata da incitamenti sottopelle al crimine e
alla distruzione.
Impressionanti in specie sono Revolution Nine e
Helter Skelter , adottato dalla banda assassina di Charles Manson in
vista delle sue stragi rituali del 1969, e quella bomba ritmica nessuno
ha pensato a disinnescarla. In sottofondo, Helter Skelter , nelle
successive stragi americane e del Nordeuropa, a chi ha orecchie che
intendono, è udibile.
Il meglio e il peggio della storia è lavoro di
società segrete, e mi direi contento se potessi avere certezza che si
tratti di emanazioni volontarie di un potere oscuro aldifuori di questo
mondo, o da decreti immutabili. «Mi torco nel non-capisco» con un certo
sollievo. Non immune da vizi gnostici, parlavo spesso, per spiegarmi gli
enigmi più crudeli del mio secolo, di «attacco alla specie». La formula
mi pare tuttora validissima, però inadatta agli orbi, amanti
della facilità razionale.
Illuminismo non è tanto una filosofia
laicista quanto una via tracciata da Illuminati, che negli anni della
rivoluzione americana punta al rovesciamento della più solida monarchia
continentale in Europa. E sarà il momento unico, in Francia, che nel suo
meraviglioso libro Penser la Révolution française (1978) lo storico
concettualista François Furet definisce perfettamente: «L’aprirsi di una
società a tutti i suoi possibili ». Ma il rovescio religioso di questa
definizione è: messianico. L’éra messianica, l’annuncio di una totale
palingenesi, contenuti nell’illuminismo degli illuminati dei secoli
moderni sta tra l’estate 1789 e la fine della monarchia di diritto
divino nel 1792, come esattamente prevista nelle quartine di Nostradamus
trecento anni prima. Bisognava vivere in quegli anni: saremmo stati
infinitamente più vivi, anche abitando lontano da Parigi.
Tuttora
l’illuminatismo maligno si caratterizza nel visibile per un segno
inequivocabile: l’antisemitismo (Dieudonné, l’idolo di giovani
alfabetizzati esclusivamente dalla Rete; la Golden Dawn ellenica, che
non casualmente porta lo stesso nome della società occultista di cui
fece parte Aleister Crowley, la Bestia 666). Il volo di Rudolf Hess
nell’Inghilterra in guerra e sotto attacco aereo non è tanto misterioso:
era stato pianificato con Hitler, che simulò collera e sdegno, per
agganciare le sette segrete collegate alla Thule Gesellaschaft, fondata
in Baviera nel 1918, madre ideologica del partito nazionalsocialista,
fino alla celebre coppia antisemita e pro nazista dei duchi di Windsor,
che di amici della stessa risma dovevano averne a iosa.
Di
cripto-antisemiti, per opportunità politica, siano o no affiliati a una
setta, non manchiamo neppure nell’Italia di oggi. Diciamo che non poche
forme di persuasione attossicata confluiscono nei messaggi, aperti o
subliminali, della Rete.
Sono perplesso di fronte a un presidente
alonato d’ombra come Barak Obama. Un generale sogno ne avvolse gli
inizi: non ne resta nulla; l’America, come necessità di presenza nel
mondo, appare nei due mandati di Obama più in ritirata che nella stoica
partenza dell’ambasciatore da Saigon. Brutto segno: non ne vengono che
notizie di buona salute economica, sufficienti ad appagare gli stolti.
Ma il nerbo, il Danda, dov’è? E ne viene la domanda: lasciando di fatto
indebolirsi la presenza americana, che cos’altro ha in mente, di più
importante, o più alto, o più pericoloso, il presidente Obama? Forse, un
poco rassicurante Ordine Mondiale, controllato da Illuminati
tenebrosetti che lo considerano uno dei loro, ma utile idiota nello
stesso tempo? Qui non posso che rimandare qualche incuriosito al
libro-inchiesta della giornalista Enrica Perucchietti, L’altra faccia di
Obama (Uno Editori, 2011) visto come partecipe attivo dei piani di
controllo totale della Cia (sono recenti le proteste europee e le scuse
del mandante) e Illuminato di loggia potente in subordine. Saranno
Illuminati di questo tipo quelli di cui si sentono e temono vittorie gli
studenti francesi? Ma allora non sarebbero Loro i dominatori occulti di
tutto quanto circola attraverso la Rete? Questo mi pare credibile. Il
futuro ci dirà di più, se avrà voglia di scivolare fuori per un poco
dall’eccesso di menzogne che sta soffocando tutto.
Per Illuminati buoni, anche modesti, reclutamento aperto.
Repubblica 30.4.14
Scoperta una nuova necropoli con cinquanta mummie “Cambierà la storia degli Egizi”
La Valle dei Re rivela al mondo l’ultimo segreto
di Franco Zantonelli
UNA
scoperta che gli egittologi non esitano a definire “eccezionale”. Nella
regione di Luxor, estremità occidentale della Valle dei Re, un team di
archeologi dell’università di Basilea, in collaborazione con il
Ministero dell’Antichità egiziano, ha portato alla luce una necropoli
con 50 mummie. «La necropoli», ha spiegato il responsabile del museo di
Luxor, Abdelhakim Karar, «si trova a una certa distanza dalla tomba di
Tutankamen. E la sua importanza è da un lato nel fatto che si riteneva
che la Valle dei Re non nascondesse più segreti, dall’altro che siamo
venuti a conoscenza dei nomi e dei volti di
principesse sconosciute».
Secondo
gli esperti, bisogna risalire al 1922, quando l’inglese Howard Carter
scoprì la tomba di Tutankamen, per trovare un evento altrettanto
importante. Dalla Valle dei Re non era uscito più nulla di
significativo, nonostante la presenza di numerose spedizioni. La
necropoli, secondo quanto comunicato dal Ministero egiziano delle
Antichità, potrebbe ospitare le mummie della famiglia regnante della
XVIII dinastia faraonica e, in particolare, dei figli dei re Thutmosi
III (1504 -1450 a. C.) e Thutmosi IV (1419 -1386 a. C.).
Sul luogo
sono stati rinvenuti anche i resti di alcuni sarcofagi, delle maschere
mortuarie e vari vasi al cui interno venivano depositate le viscere dei
defunti. Tutti questi vasi canopi recano l’iscrizione di circa 30 nomi
di principi e principesse di cui, finora, non si sapeva nulla.
La
scoperta rientra in un’operazione che l’università di Basilea sta
portando avanti da diversi anni e che ha avuto un’accelerazione nel
2011. «In quel periodo», ha raccontato la responsabile della spedizione
elvetica, Susanne Bickel, alla televisione pubblica di Zurigo, «eravamo
intenti ad effettuare operazioni di pulizia attorno a una tomba. Stavamo
costruendo un muretto, quando ci siamo imbattuti nel bordo superiore di
qualche cosa che, all’inizio, pensavamo fosse un’opera incompiuta. In
realtà abbiamo realizzato che ci eravamo imbattuti in un’altra tomba».
Gli
archeologi svizzeri hanno dovuto interrompere lo scavo a causa della
primavera araba. «Abbiamo messo un coperchio di metallo sulla tomba e
siamo rientrati a Basilea, in attesa di tempi migliori», prosegue
Susanne Bickel. I tempi migliori sono arrivati l’anno successivo. Nel
gennaio 2012 Susanne Bickel e la sua squadra sono tornati nella Valle
dei Re, per riprendere gli scavi. Dopo quattro giorni di lavoro è stato
scavato un pozzo, all’interno del quale è stata fatta scendere una
telecamera, che ha permesso a chi stava in superficie di ammirare un
vero e proprio tesoro.
«Abbiamo potuto ammirare una tomba inviolata,
un sarcofago perfettamente intatto, che non assomigliava, per nulla, a
quelli che eravamo abituati a vedere», spiega Susanne Bickel. Era un
sarcofago sobrio, privo di decori, Un sarcofago, ne hanno dedotto
gli esperti, realizzato nel nono secolo avanti Cristo, quando le
sepolture dei dignitari egizi erano maggiormente all’insegna
dell’umiltà. Per intenderci prive degli ornamenti, tra cui ceramiche e
mobili, che si trovavano, invece nei sarcofagi dei secoli precedenti.
Ma
chi c’era in quella tomba apparsa dal nulla, nel deserto della Valle
dei Re, a quegli archeologi venuti dall’Europa? «Verosimilmente una
donna», secondo Susanne Bickel. Non era, comunque, una principessa,
bensì una religiosa, probabilmente una sacerdotessa e questo, a quanto
pare costituirebbe, già di per sé, un fatto abbastanza clamoroso, visto
che si riteneva che, nella Valle dei Re, venissero sepolte solo delle
nobildonne.
Intanto passano solo due anni ed ecco che il Ministero
dell’Antichità del Cairo se ne esce annunciando che, nella Valle dei Re,
sono state scoperte altre tombe, addirittura una necropoli. Che, hanno
potuto appurare gli archeologi venuti da Basilea, è stata saccheggiata
ripetutamente, nel corso dei secoli. Come dire che qualcuno era al
corrente della sua esistenza, prima ancora che arrivassero delle
spedizioni da fuori.
La Stampa TuttoiScienze 30.4.14
Se ami Shakespeare e l’alba è perché sei un po’ africano
di Gabriele Beccaria
Se
tuo figlio di tre anni ha paura dei mostri nell’armadio e tua figlia di
cinque dei mostri sotto il letto, un motivo c’è. La differenza risale a
decine di migliaia di anni fa. Quando gli antenati Sapiens
colonizzavano le savane africane, i maschi tendevano a dormire (con un
occhio solo) ai piedi degli alberi, mentre le femmine, più agili, si
spingevano sui rami per la siesta. Il pericolo, perciò, proveniva da
direzioni diverse a seconda del sesso: di fianco o dal basso.
Nel
mondo degli adulti, d’altra parte, è raro incontrare qualcuno che non
provi una fitta di malinconia davanti a un tramonto e una scintilla di
entusiasmo di fronte allo spettacolo di un’alba. Centomila anni fa
l’inizio di ogni giorno era una promessa, la notte incombente una
minaccia. E non è casuale che, quando scivoliamo nel sonno, un incubo
ricorrente prenda le forme dei serpenti: erano uno dei pericoli più
subdoli per i cacciatori-raccoglitori primordiali, che allenarono lo
sguardo a percepire le caratteristiche forme geometriche dei rettili.
Ad
attirarci, invece, sono le filastrocche e i romanzi. Ascoltare un
racconto e narrare un evento, spesso alterandolo per ragioni
machiavelliche, è un istinto invincibile. Nell’epoca della virtualità
come nell’era della pietra: allora, oltre a forza e bellezza, il
criterio per selezionare i partner si concentrava sulle capacità
linguistiche e perciò sulla creatività di cervelli che elaboravano la
scienza della sopravvivenza.
Siamo carne e protesi di silicio, eppure
il nostro mondo emozionale resta paleo-africano: è un insieme
immutabile di scatole psicologiche che non smette di accompagnarci,
millennio dopo millennio, secolo dopo secolo. Le racconta Gordon Orians,
professore della University of Washington, autore del provocatorio
«Snakes, Sunrises and Shakespeare».
La Stampa 30.4.14
L’invidia, un’arma potente a servizio del successo
Tutto
comincia dai social network, grandi generatori di invidia della società
contemporanea. Ma gli studi avvertono: chi è invidioso ha buone
possibilità di riuscire a emulare il successo dell’invidiato
di Francesco Semprini
qui
La Stampa MedicItalia 29.4.14
La minore esposizione del feto femmina al testosterone favorisce l'intuito femminile
Dr.ssa Teresita Forlano
qui