giovedì 1 maggio 2014

Repubblica 1.5.14
Ma non basta la solidarietà
di Stefano Rodotà


PER cercar di capire che cosa stia accadendo intorno al ministero dell’Interno, bisogna partire dal fatto, abbastanza inedito, di un esplicito conflitto tra il vertice politico e amministrativo e uno dei sindacati di polizia. Non è cosa da poco, perché siamo di fronte ad una vicenda che riguarda diritti fondamentali della persona e la garanzia di sicurezza assoluta dell’incolumità che deve accompagnare ciascuno di noi quando siamo soggetti ad un qualsiasi potere pubblico.
QUESTE non sono parole, ma una delle regole fondative della democrazia. Ministro e Capo della polizia si sono espressi in modo chiaro, ma il Sap ha ribadito con durezza la sua posizione, contestando radicalmente una decisione della magistratura, respinta come parte di un inammissibile linciaggio mediatico.
Qui è evidente il contagio determinato da un clima per cui, di fronte ad una sentenza sgradita, subito ci si sente legittimati a respingerla, dipingendola come il frutto di una prepotenza o, addirittura, di un colpo di Stato. Questa è la cultura alimentata da molte parti, e robustamente confermata in ogni occasione, con un crescendo inquietante, da chi è stato addirittura investito del ruolo di padre delle riforme costituzionali in corso. Un altro pezzo di quella regressione nella quale siamo piombati ormai da vent’anni, e nella quale vicende come questa ci immergono ancor più profondamente.
Per comprendere adeguatamente una vicenda così inquietante, proviamo a mettere in ordine gli argomenti adoperati in questi giorni. Sono fuor di luogo, in primo luogo, i riferimenti al lavoro difficile e pericoloso svolto da poliziotti mal pagati. Fatti veri, ma che non possono divenire giustificazioni o autorizzare franchigie, come ha scritto benissimo Michele Smargiassi, e che divengono riferimenti insinceri in bocca a chi ha condiviso responsabilità di governo, preoccupandosi poco o nulla della condizione degli agenti di polizia. E, soprattutto, dov’era il pericolo di fronte ad un ragazzo di 19 anni che aveva bisogno di aiuto e ha trovato un pestaggio? Colpiscono l’inconsapevolezza, meglio il cinismo, del segretario del Sap che ha parlato di quella morte facendo un paragone con i morti per incidenti e dicendo che, in questi casi,
non si può certo dare la colpa alla strada. È consapevole di quello che ha detto? Quando un ragazzo incontra la polizia è come se si trovasse in una curva pericolosa o su un tratto di strada stretto, per cui può succedergli di tutto? Che razza di rispetto dell’altro compare in queste parole?
Né può convincere l’argomento di chi in qualche grado derubrica l’episodio, lo riduce ad un boomerang che danneggia la polizia stessa. Non siamo di fronte ad un episodio isolato. Da anni, almeno dai fatti sanguinosi di Bolzaneto, si susseguono vicende nelle quali molte sentenze della magistratura hanno accertato responsabilità specifiche anche di dirigenti della polizia. Permane nel profondo del corpo della polizia una cultura che legittima una riserva di reazione violenta che, invece d’essere oggetto di una azione deliberata volta ad estirparla, ha finito con l’essere accettata per non ferire un malinteso “spirito di corpo”, e nella quale si radicano quei comportamenti che non possono essere considerati solo come la reazione di un “cretino”. Non era questo lo spirito con cui era nato il sindacato di polizia, la cui vicenda d’origine ho avuto la ventura d’accompagnare fin dalla sua fase quasi clandestina insieme a quel pioniere che fu Franco Fedeli. La smilitarizzazione e il diritto a costituire sindacati erano visti appunto come la via maestra verso la riconciliazione piena della polizia con democrazia e diritti. Gli ultimi fatti, purtroppo, confermano che quel percorso è stato almeno interrotto, e quante siano le difficoltà che si oppongono alla sua ripresa.
Le parole sacrosante e forti della madre di Federico, Patrizia Moretti, potranno avere il benefico effetto di aprire gli occhi a qualcuno, al di là delle manifestazioni di solidarietà, e di cominciare ad interrompere quella che, negli ultimi tempi soprattutto, sembra divenuta una deriva? Sono parole che ci ricordano la necessità di privilegiare sempre la dimensione dell’umano, il rispetto totale dell’integrità e della dignità d’ogni persona. Sono parole che dovrebbero evocare il dimenticato articolo 54 della Costituzione, dove si parla del dovere di adempiere le funzioni pubbliche “con disciplina e onore”. Se questo avvenisse, non si comincerebbe soltanto a ricostruire l’indispensabile cultura dei diritti, unico possibile contrasto al rischio di nuove vittime, ma si potrebbe guardare ai poliziotti e ai loro diritti liberi del pericolosissimo schema che legittima qualsiasi loro reazione con l’argomento della difficoltà del contesto in cui spesso si trovano ad operare. Ho ammirato molto la compostezza di quel poliziotto che, nel corso di una difficile manifestazione, veniva apostrofato da una ragazza con termini di un classismo che sconfinava nel razzismo. E vorrei ricordare il vice-commissario Roberto Mancini, scomparso ieri per un linfoma determinato dal suo indagare nella Terra dei Fuochi, nei confronti del quale lo Stato ha un debito che va ben oltre i 5000 euro di indennizzo che gli erano stati riconosciuti.
A quest’”altra polizia” va rivolto lo sguardo, perché possa espandersi quella cultura del rispetto che già essa pratica. L’ostacolo vero sta nel vuoto della politica, che oggi può rendere impraticabile questa impresa, già per sé difficile. D’accordo, le dichiarazioni di solidarietà del Presidente del Consiglio e del ministro dell’Interno sono significative. Ma sono il minimo che dovessero fare. E dopo? Non ci si può ritenere appagati, e comportarsi come se quella vergognosa vicenda degli applausi dovesse ormai ritenersi ufficialmente archiviata. Dopo la solidarietà viene il tempo delle azioni concrete, della politica che, in un caso come questo, si vorrebbe davvero ispirata a quella velocità di cui tanto si predica.

Corriere 1.5.14
Rodotà e Zagrebelsky dicono no all’invito del ministro Boschi
di D.Mart.


ROMA — Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky al seminario del Pd? «Certo, li inviterò, sarebbe bello venissero. L’importante è che non sia solo un dibattito accademico». Così, una settimana fa, la responsabile delle Riforme Maria Elena Boschi rispondeva a chi le chiedeva se avesse invitato anche «i professori che da 30 anni bloccano tutto» (sua definizione) al seminario su «Riforma del Senato e del Titolo V». Ma, ricevuto l’invito, Rodotà e Zagrebelsky hanno fatto sapere che impegni già assunti per il 5 maggio avrebbero reso impossibile la loro partecipazione all’iniziativa che verrà chiusa da Renzi. Mentre il 12 maggio Rodotà e altri costituzionalisti (come Barbera, Ceccanti, Clementi, Luciani, Onida, Violante, che partecipano al seminario del Pd) parleranno alla I commissione del Senato.

l’Unità 1.5.14
Il coraggio di cambiare
Contro il vento del populismo, abbiamo scelto di dire «Più lavoro, più Europa, più solidarietà»
di Susanna Camusso


QUELLO DI OGGI NON SARÀ UN PRIMO MAGGIO COME TUTTI GLI ALTRI. GIUNTI AL SETTIMO ANNO di una crisi pesantissima, che con altrettanta forza si è riversata sulle condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori, sarà il primo maggio del lavoro che manca. I dati sulla disoccupazione segnano continuamente nuovi tristi record, specie per quanto riguarda i giovani e le donne, anche in ragione di un processo di deindustrializzazione che procede altrettanto inesorabilmente.
Le vertenze aperte, e al momento ancora senza soluzione, sono centinaia, così come i processi di ristrutturazione che si accompagnano troppo spesso ad una riduzione della base occupazionale. Ed è proprio per accendere un faro sul tema lavoro e industria che abbiamo scelto di essere a Pordenone, sede di uno degli stabilimenti al centro della vertenza Electrolux.
Siamo lì perché quella vertenza è il paradigma della crisi in cui è coinvolto il Paese. Non solo perché è una delle tante, troppe, vertenze insolute per l’assoluta mancanza di un’idea di futuro, di una strategia di politica industriale che possa traghettare il Paese fuori dalla crisi, ma anche perché è l'emblema di quella scelta suicida di contrastare la crisi stessa attraverso il taglio dei salari e la progressiva diminuzione della produzione. Il tutto mentre, senza alcuna forma di ritegno «sociale», questa - come tante altre multinazionali - usa il Paese e i suoi lavoratori mentre distribuisce lauti dividendi ai suoi azionisti. Una prassi usata e abusata, che allarga la forbice della diseguaglianza e che si è ampiamente rivelata fallimentare, per molti aspetti fattore determinante della crisi che stiamo vivendo.
Saremo così a Pordenone, come in tante altre piazze del Paese, con questo spirito: i lavoratori non possono e non devono dover pagare il conto di una crisi le cui cause sono da ricercare nell’avidità della finanza, nella strada facile, scelta anche da molte imprese, di ricercare facili guadagni trascurando se non sfruttando le attività produttive, negando e ritardando le uniche politiche economiche che potevano portare l’intero continente al di fuori delle secche della crisi per continuare a seguire quell’ideologia liberista e quelle politiche di austerità che in questi anni hanno segnato l’Europa e contagiato i singoli Paesi.
Sulle spalle dei lavoratori e dei pensionati ha pesato la crisi, così come le errate soluzioni. È ora di invertire la marcia, di mettere il lavoro al centro, di difenderlo, di crearlo. Se non si assume questa idea non ci sarà alcuna inversione di tendenza.
Non è dunque un caso se tra le parole d’ordine di questo primo maggio, alla vigilia di un cruciale appuntamento elettorale in un’Europa dove spira forte il vento del populismo, abbiamo scelto di dire «Più lavoro, più Europa, più solidarietà». Ci troviamo in un momento cruciale per il futuro stesso del Paese, sia per le future politiche economiche e sociali europee, sia per la tenuta del settore manifatturiero, conteso com’è tra processi di globalizzazione, di dumping, di una necessaria revisione della produzione, di una irresponsabile carenza di capitale.
L’industria, specie quella manifatturiera, è l’asse che sostiene il Paese. Difendere la produzione, riqualificare il sistema produttivo, investire nel pubblico come nel privato, intervenire sui processi e sui prodotti, valorizzare il lavoro e i lavoratori, nel riconoscimento pieno dei suoi diritti e della sua dignità, il tutto in un’ottica strategica, sono la sola via perché si possa avere concretamente un’idea di futuro.
È d’obbligo e non più rinviabile mettere al centro dell’azione politica il lavoro, la difesa e la crescita del sistema produttivo. Questi devono essere i punti centrali dell’agenda di governo.
Per questo chiediamo coraggio, per questo vogliamo che si alzi la voce della politica, che interrompa quel silenzio durato fin troppo.
Centralità del lavoro. Questa deve essere la via, la sola alternativa se si vuole invertire la tendenza al declino. È il lavoro il propulsore di una nuova crescita, fondata su basi di eguaglianza e solidarietà, il solo modo per garantire un futuro a questo nostro Paese.

Corriere 1.5.14
Primo maggio, Camusso al governo: «Basta impoverire il Paese»
La leader della Cgil al corteo di Pordenone: «Basta scaricare i costi sui lavoratori, servono investimenti per creare occupazione»

qui

l’Unità 1.5.14
«Questa è la festa dei disoccupati»
Camusso chiede al governo una svolta di politica economica, per il lavoro
Presentato il congresso: dagli iscritti sì all’accordo sulla rappresentanza
di Massimo Franchi


Con la «suspense» sulla presenza di Matteo Renzi, martedì a Rimini la Cgil va a congresso. Preceduto dal primo maggio a Pordenone e dalle Giornate del lavoro - una tre giorni di dibattiti, incontri, lectio magistralis - sempre a Rimini. Susanna Camusso presenta questi otto giorni di fuoco affrontando i tanti temi sul tavolo. Si parte da una constatazione amara quanto reale. Il primo maggio è diventato ormai «all'insegna della disoccupazione più che del lavoro. Un primo maggio caratterizzato dal lavoro che non c'è, soprattutto per i giovani». E nel giorno in cui escono i nuovi dati sulla disoccupazione il segretario generale della Cgil avverte il governo: «Non si parla di uscita dalla crisi e di crescita se non si inverte significativamente il dato della disoccupazione».
Cgil, Cisl e Uil hanno deciso di festeggiare il Primo maggio a Pordenone, dove c’è lo stabilimento Electrolux di Porcia, il principale dei quattro italiani. La vertenza contro la proprietà svedese è infatti «emblematica perché si tratta di una delle tanti multinazionali che stanno ridimensionando il loro impegno nel nostro Paese e perché Electrolux ha attaccato il valore retributivo del lavoro » quando «inizialmente aveva proposto un taglio del 20 per cento del salario » ma anche adesso «quando spaccia per produttività i tagli delle pause, dei distacchi, delle assemblee, continuando come gran parte delle imprese a scaricare la crisi sui soli lavoratori». È il settore industriale quello che sta peggio «e non si capisce come con questa tendenza potremo mantenere l’obiettivo europeo del 20 per cento di attività industriale, difficile se non si innova, masi chiude soltanto: c’è un divario - sottolinea Camusso - tra le indicazioni e le disponibilità del capitalismo italiano, con i soli fondi esteri che investono ». Al centro della crisi c’è la siderurgia che rischia di chiudere tutta: Lucchini, Acciaierie di Terni e Ilva: «I tre governi che si sono succeduti hanno sottovalutato la crisi di Piombino», Terni è stata lasciata «terra di nessuno » e «a Taranto non ci sono ancora i piani di bonifica», riassume Camusso.
«NESSUNO DEMOCRATICO COME NOI»
Si passa poi a parlare del Congresso. E il primo aggettivo scelto per definirlo - «sobrio» - dà bene l’idea del momento che attraversa il Paese e il sindacato tutto. Più corto rispetto al passato «solo tre giorni», sarà anche l’occasione per interrogarsi sullo strumento: «Salvaguardando la partecipazione e la delega alle assemblee, costruiremo un percorso meno faticoso ma più ricco».
Ma i dati parlano chiaro - «quasi 1,7 milioni di votanti nonostante i milioni di lavoratori in cassa integrazione, 40mila assemblee in aumento sullo scorso congresso» - e portano ad un’orgogliosa rivendicazione del ruolo e della natura della Cgil: «Si tratta di uno straordinario esercizio democratico e di un elemento di vitalità della nostra organizzazione: sfidiamo altri soggetti a fare di più», aggiunge Camusso. Saranno dunque 953 i delegati al congresso di Rimini - equamente divisi fra categorie e territori - in rappresentanza dei 5,7 milioni di iscritti a fine 2012 e in proporzione al 97,6% di voti al documento «Il lavoro decide il futuro», quello che inizialmente teneva assieme tutto il gruppo dirigente, Landini incluso.
«TESTO UNICO, ALTRA STAGIONE»
E qui si arriva al tema del Testo unico sulla rappresentanza. Ieri la Cgil ha ufficializzato i dati della consultazione degli iscritti afferenti a Confindustria e Confservizi - le due organizzazioni datoriali che hanno sottoscritto l’accordo con i sindacati - e il risultato è schiacciante: su 447mila votanti il Sì ha prevalso con il 95,5 per cento dei voti. Nella stessa scheda viene - con un eloquente asterisco - riportato anche il dato della consultazione della Fiom - 86,6 per cento di No- portata avanti con modalità diverse: era aperta a tutti i metalmeccanici. Sul tema - detto che il leader della mozione congressuale minoritaria Giorgio Cremaschi ieri ha ribadito di aver presentato un ricorso al tribunale di Roma perché «il testo del 10 gennaio viola la Costituzione e lo statuto della Cgil, la causa sarà discussa il 30 settembre » - Susanna Camusso ha spiegato: «Non facciamo finta che non ci sia stata la consultazione della Fiom, ma non faremo il congresso su quell’accordo. C’è una decisione chiara dei nostri iscritti, ora si passa ad un’altra stagione, quella dell’applicazione che viene demandata alla categorie». E a Landini che chiede di «migliorarlo assieme», il segretario generale Cgil risponde: «È difficile chiedere ad un’organizzazione di contrastare ciò che ha approvato».

l’Unità 1.5.14
Quattro giovani su dieci restano senza occupazione
di Luigina Venturelli


La realtà dei numeri, punto più punto meno, continua ad essere drammatica. L’Istat ha diffuso ieri i dati provvisori di marzo che, ancora una volta, raccontano di un’emergenza occupazionale da livelli record, con un tasso di disoccupazione pari al 12,7%, in calo dello 0,1% rispetto al mese precedente, ma in aumento dello 0,7% rispetto ad un anno fa. Variazioni decimali che non cambiano l’ordine di grandezza del fenomeno e fotografano una situazione «sconvolgente», per usare le parole scelte dal premier Matteo Renzi.
Ma se il quadro generale è stabile, ed è caratterizzato dal lavoro che non c’è, soprattutto per i giovani che si ritrovano con una disoccupazione ferma al 42,7% - vale a dire, quasi un giovane su due tra quelli che hanno dai 15 ai 24 anni cerca inutilmente lavoro - si vede anche qualche piccolo segnale di ripresa. Per la prima volta in questa fase della crisi, infatti, si registra un’inversione di tendenza nell’andamento dell’occupazione, il cui tasso si assesta ora al 55,6%. A marzo gli occupati sono saliti a 22 milioni e 356mila, in crescita dello 0,3% su febbraio (con un guadagno di 73mila posti di lavoro), benché in diminuzione dello 0,6% su marzo 2013 (con una perdita di 124 mila posti).
Un cambio di rotta i cui effetti sono ancora di impatto limitato sull’economia reale, come sottolinea il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi, che intravvede «qualche modesto spiraglio positivo ancora assolutamente insufficiente». Ma che è nondimeno importante per quanto lascia sperare per l’immediato futuro, con gli analisti più prudenti che ci leggono almeno «l’arresto del processo di contrazione del mercato del lavoro», e quelli più ottimisti che tirano un sospiro di sollievo perché «il peggio è passato», visto che la ripresa del ciclo è iniziata e sono buoni i segnali che arrivano dalle indagini sulla fiducia.
Non a caso arrivano notizie cautamente positive anche sul fronte dei consumi, visto che sembra farsi un po’ più lontano lo spettro della deflazione, la spirale di abbassamento dei prezzi generata dalla depressione dei consumi che attualmente rappresenta un vero e proprio spauracchio per la ripresa economica italiana ed europea in genere. L’inflazione ad aprile torna a salire allo 0,6% dallo 0,4% di marzo, con un incremento su base mensile dello 0,2%, anche se le variazioni sono quasi nulle se si considera solo il carrello della spesa tipo, cioè i prezzi dei prodotti ad alta frequenza di acquisto.
L’IMPEGNO DEL GOVERNO
Un quadro, quello delineato dai dati Istat, che non fa che aggiungere pressione sul mondo politico, impegnato nel frattempo nell’approvazione del decreto voluto dal ministro Giuliano Poletti che, tra mille polemiche e trattative all’interno della maggioranza, ha iniziato il suo iter parlamentare. «Oggi il lavoro attraversa un momento di grande difficoltà» commenta il responsabile del Welfare, sottolineando però «l’inversione di tendenza» rilevata tra gli occupati per la prima volta dal febbraio 2013. «Ma il tasso di disoccupazione è ancora drammaticamente elevato, soprattutto tra i giovani» aggiunge Poletti. «Per questo l’impegno prioritario del governo è quello di attuare interventi che possano favorire la ripresa economica e stimolare la crescita dell’occupazione». E il ministro confida che «il parlamento provveda a convertire il decreto legge nei tempi previsti, confermandone l’ispirazione di fondo ed i contenuti fondamentali. Auspichiamo, nello stesso tempo, che ci sia la volontà di assicurare un rapido iter al disegno di legge delega».

l’Unità 1.5.14
Decreto Poletti, disinformazione sulla pelle dei lavoratori
Nuovo decreto e vecchi ballisti
di Cesare Damiano


Sul decreto lavoro abbiamo avuto nella scorsa settimana la prova di come la narrazione dei fatti possa essere fortemente compromessa e distorta da media non obiettivi e da partiti angosciati dall’appuntamento elettorale del 25 maggio. In particolare dal Ncd che si gioca la partita della soglia di sbarramento alle Europee. Le correzioni al decreto presentate e sottoscritte da tutti i ventuno parlamentari della Commissione lavoro della Camera (da chi al congresso ha votato Cuperlo, Civati o Renzi) sono state attribuite alla «minoranza del Pd», in particolare identificata con quei parlamentari che provengono dalla Cgil.
Per il Ncd aver militato in una grande organizzazione di lavoratori è di fatto una colpa, un peccato originale per il quale non esiste pentimento sufficiente. Lo stesso discorso evidentemente non vale per quei deputati che provengono dal mondo dell’impresa o delle professioni, dalla magistratura e così via. Fatto passare questo “marchio d’infamia” si è alzato il coro indignato di chi si dichiara sorpreso dal fatto che molti ex sindacalisti siano in commissione Lavoro: è un po’ come stupirsi di trovare quotidiani e riviste dal giornalaio. Per buona pace dei censori della destra aggiungo che nella commissione ci sono anche ex Cisl, Uil e, se comprendiamo Forza Italia, nientemeno che l’ex segretaria generale dell’Ugl Renata Polverini e che persino uno dei due rappresentanti del Ncd ha dichiarato di essere stato sindacalista della Uil. Tutte persone che, per fortuna, di lavoro dovrebbero intendersene. Impostato in questo modo il problema, si è passati alla fase successiva: le correzioni al decreto, volute dalla parte estremista del Pd subordinata alla Cgil (che peraltro ha criticato fortemente il testo del governo, anche dopo le correzioni), stravolgerebbero l’impostazione originale! Non sono bastate le ripetute dichiarazioni del ministro del Lavoro che ha affermato l’esatto contrario e cioè che le correzioni non toccano i fondamentali e che non c’è nessuno stravolgimento. Si è dimenticato di dire che tutti gli emendamenti approvati hanno avuto il consenso del rappresentante del governo, il sottosegretario Luigi Bobba.
Ha ragione Matteo Renzi quando afferma che si tratta di quisquilie da attribuire, più che al merito, alla campagna elettorale in corso. Pur di raggranellare lo zero virgola in più, la destra farebbe carte false. Il colpo finale, in questa escalation di disinformazione, è avvenuto il 22 aprile, quando il governo ha messo la fiducia sul decreto. Poco prima, fallito il tentativo di mediazione tra i partiti della maggioranza avanzato dai ministri Boschi e Poletti, in una conferenza stampa Maurizio Sacconi e Nunzia di Girolamo, capigruppo del Ncd al Senato ed alla Camera, spiegavano che l’accordo era saltato perché il Pd aveva respinto l’intesa proposta dal governo: un falso clamoroso, il puro e semplice rovesciamento della verità.
In realtà, alla fine della discussione, il ministro Poletti aveva raccolto le opinioni di tutti i partiti e formulato due proposte: la prima, minimale, consisteva nel modificare la sanzione prevista nel caso di superamento del 20 % del tetto previsto dei contratti a termine in rapporto all’organico complessivo, trasformando l’obbligo all'assunzione a tempo indeterminato in sanzione pecuniaria; un secondo punto riguardava l’inserimento nel preambolo del decreto di un riferimento al Contratto di Inserimento a tempo indeterminato contenuto nella delega del governo.
La seconda ipotesi, oltre a questi due punti, comprendeva anche la correzione proposta dal Ncd sulla formazione per gli apprendisti (la possibilità di scelta tra formazione pubblica o privata da parte dell’imprenditore, peraltro già contenuta nelle linee guida del governo Letta) ed il passaggio da 5 a 4 proroghe richiesto dal Pd. Su queste proposte il sottoscritto, il capogruppo Roberto Speranza ed il capogruppo della commissione Lavoro Maria Luisa Gnecchi, abbiamo acconsentito.
Chi ha detto no è stato il Ncd, che aveva chiesto di sospendere la riunione per un confronto interno. Si parla spesso delle ideologie di sinistra e meno sovente di quelle di destra. In questi giorni, tuttavia, si è avuta conferma che una parte della destra nutre un vero pregiudizio nei confronti dei diritti dei lavoratori che si evidenzia peraltro con una ossessione deregolatoria, nel presupposto che i dipendenti abbiano cattive inclinazioni dalle quali bisogna proteggersi con il minor numero di tutele possibili. Si tratta del prolungamento di quella teoria neoliberista, figlia della destra, che ci ha portato in questa drammatica situazione. Se si vuole inventare la “corrente” dei sindacalisti della Cgil, perché dimenticare quella dei socialisti craxiani che sono passati armi e bagagli prima in Forza Italia e che adesso sono in gran parte trasmigrati nel Ncd? Politici che hanno teorizzato e perseguito lo smantellamento dello stato sociale, l’iperflessibilitá del mercato del lavoro (utilizzando impropriamente Marco Biagi, che nei suoi scritti ha sempre sostenuto la necessità di un equilibrio tra le ragioni dell’impresa e quelle dei lavoratori, come ha recentemente ricordato il suo allievo ed erede Michele Tiraboschi) e la divisione sindacale come strumento di governo dei processi di crescita e di innovazione del Paese. Una visione puramente ideologica che, di recente, ha persino impedito che venisse discussa al Senato la legge sulle dimissioni in bianco approvata di recente dalla Camera che, oltre a tutelare meglio i lavoratori, semplifica il processo burocratico a carico dell’impresa rispetto al precedente dispositivo dell’ex ministro Fornero.
Ma si sa che in campagna elettorale tutto fa brodo. Per noi restano i contenuti ed il merito delle questioni ed è per questo che ci auguriamo che la conversione del decreto proceda speditamente. Il Pd ha semplicemente operato in modo serio e riformista per modificarlo positivamente, a partire dalla diminuzione delle proroghe da 8 a 5 per i contratti a termine, fino al reinserimento dell’obbligo della formazione per l’apprendistato. Con le modifiche della commissione Lavoro della Camera si è trovato un migliore equilibrio tra lavoro ed impresa. Ulteriori correzioni ci potranno essere al Senato a condizione che siano minime e che tengano conto delle richieste di tutti i partiti della maggioranza come proposto dal ministro Poletti.

l’Unità 1.5.14
Si può criticare il capitalismo?
di Claudio Sardo


UN TWITTER DI PAPA FRANCESCO HA SEMINATO IL PANICO FRA I TEO-CON E, PIÙ INGENERALE, fra quanti intendono il capitalismo come la religione naturale dell’uomo moderno. «L’inequità è la radice dei mali sociali»: è il messaggio lanciato il 28 aprile dall’account @Pontifex. Non si tratta, a dire il vero, di una novità assoluta. L’espressione è la sintesi di un più complesso periodo della Evangelii gaudium, l’esortazione apostolica che costituisce finora il «manifesto programmatico» di Francesco. Il problema è che soltanto nella lingua italiana il termine inequità attenua la forza della condanna morale. In inglese inequality vuol dire ineguaglianza. In tedesco Ungleichheit si traduce con diseguaglianza. E così anche in spagnolo, la lingua del Papa: la parola inequidad non consente altra traduzione che diseguaglianza. Insomma, non c’è più una diseguaglianza iniqua da condannare e una più morbida da perseguire: la radice del male è l’«economia dello scarto» che rende gli uomini sempre più diseguali.
L’impatto non poteva non essere traumatico, soprattutto negli Stati Uniti dove si è scatenata immediatamente una vivace polemica sui social network. Stiamo parlando dei fondamenti stessi dell’etica del capitalismo. La diseguaglianza non è più un male necessario, il costo inevitabile di un meccanismo sociale che comunque assicura sviluppo e dividendi per la comunità. È la sua giustificazione morale a venir meno. E questo avviene mentre la crisi sta cambiando i paradigmi stessi della scienza economica. Non c’è soltanto Papa Francesco a delegittimare l’etica del capitalismo e l’idea di una sua «naturalità ». Ormai il fior fiore degli economisti spiega, numeri alla mano, che la crescita delle diseguaglianze nelle società avanzate sta favorendo la decrescita, la recessione, la rottura delle reti di coesione sociale. Fa riflettere il successo nelle librerie americane dell’ultimo libro del francese Thomas Piketty. Il filone è lo stesso di Joseph Stiglitz e di Paul Krugman: il prezzo della diseguaglianza è ormai insostenibile nella prospettiva stessa del mercato e dello sviluppo.
Tornano alla mente gli articoli di Michael Novak, guida intellettuale dei teo-con, a commento della Evangelii gaudium. L’avversione era netta. Anche se la critica trattenuta da ragioni diplomatiche. A Novak non era sfuggito nel testo del Papa la contestazione più radicale al cuore del capitalismo, e cioè alla teoria della «ricaduta favorevole». Non è vero, ha scritto il Papa, che «ogni crescita economica, favorita dal libero mercato» produce maggiore equità e inclusione sociale. «Questa opinione, mai confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante». Quel participio, «sacralizzati», è spietato: denuncia ogni tentativo di assimilare il capitalismo alla natura o alla religione.
C’è nuovo materiale per discutere le diversità tra culture cattoliche e protestanti. La prospettiva di Francesco, comunque, non è quella di aggiornare la dottrina sociale della Chiesa. Non gli interessa una terza via cattolica tra il liberismo e il marxismo. Né tra il mercato e lo Stato. Alla Chiesa chiede di stare evangelicamente con i poveri e di guardare il mondo dal loro punto di vista. Di gridare le ingiustizie che altri non denunciano. Di offrire al mondo, ai cattolici in special modo, una riserva di pensiero critico sulla contemporaneità. Questo non è il solo mondo possibile. Non c’è sfiducia, o delegittimazione della politica. Anzi, Papa Francesco mostra di avere un’idea alta della politica (il contrario del populismo). Ma devono svolgerla i laici, i cittadini del mondo, di cui i credenti sono parte. Se i cattolici hanno un segno particolare, è quello di non fare un «idolo» di questa economia o di qualche altra ideologia.
Per i teo-con il cristianesimo è il cemento dell’Occidente, l’impronta morale sul capitalismo, la fortezza da difendere contro la secolarizzazione e l’Islam. Ora attaccano il Papa sostenendo che è comunista o che deraglia dalla dottrina millenaria: argomenti ricorrenti delle destre reazionarie. Per Francesco vale invece, come per Paolo VI, il principio di «non appagamento» della politica. I governi, i partiti devono fare di tutto per il bene comune, ma qualunque soluzione sarà sempre criticabile e perfettibile. Il pensiero critico resta la risorsa più preziosa a disposizione dell’uomo.
Anche a sinistra c’è chi farebbe volentieri a meno del principio di uguaglianza. Nel dibattito di questi anni è entrata a sinistra, eccome, la parola «equità» proprio per ammorbidire il senso dell’uguaglianza e per tenersi nel mainstream. Ma così la sinistra si è allontanata dalle contraddizioni reali. Nell’illusione di conquistare la modernità ha pagato un tributo al pensiero unico. La radicalità sta soprattutto nel pensiero, nella libertà di sottrarsi all’omologazione. La politica concreta sarà comunque e sempre un compromesso. Il problema è se nel compromesso la sinistra si sentirà appagata, o penserà ancora a un domani più giusto.

l’Unità 1.5.14
Rivoluzione in ufficio
Renzi: nella Pa servono cambiamenti radicali
Una lettera a tutti i dipendenti con le linee guida e misure attuative
Consultazione online, senza tavolo con i sindacati
Provvedimento il 13 giugno: «Ma non è contro i lavoratori»
di Bianca Di Giovanni


Non ci sono i fannulloni, non ci sono gli esuberi, non si parte dal presupposto di un risparmio di spesa ma dalla ricerca di più efficienza. Matteo Renzi presenta la sua «rivoluzione» della pubblica amministrazione rottamando le parole d’ordine utilizzate finora. «Se cambiamo la pubblica amministrazione l’Italia torna a crescere - dichiara il premier - Se non la cambiamo rimaniamo un Paese impantanato e nella melma». Per ora però cambia poco: il Consiglio dei ministri di ieri non ha varato alcun provvedimento. Si sono invece presentate le linee guida della riforma, corredate da una lista di provvedimenti (veri e propri articoli) attuativi, che saranno comunicate via lettera a tutti i dipendenti, invitati poi a un confronto online (www.rivoluzione.governo.it) per avanzare proposte e correttivi. «Vogliamo vedere chi contesterà il nuovo tetto agli stipendi - commenta ironico il premier - chi contesterà la proposta di rivedere le funzioni dei magistrati amministrativi». La consultazione aperta a tutti (dipendenti, sindacati, amministratori) durerà fino al 13 giugno, giorno in cui il governo varerà molto probabilmente un disegno di legge («lo preferisco», dice Renzi).
Evidente e plateale il tentativo di scavalcare il sindacato, a cui viene sottratto il tavolo di concertazione. E non solo: tra le misure compare anche il dimezzamento dei permessi sindacali. «Noi non abbiamo paura di discutere coi sindacati - dichiara Renzi - Ma ci diamo dei tempi secchi». «Ho chiesto un confronto innovativo, cioè: no a un tavolo negoziale, ma sì a un confronto puntuale sul merito delle proposte - aggiunge la ministra Marianna Madia - Spero non abbiano nulla in contrario se consultiamo i lavoratori, d’altronde i referendum con i lavoratori li fanno anche loro».
La reazione a caldo è tranchant. «In questo Renzi è in assoluta continuità con Brunetta - commenta Michele Gentile, del dipartimento settori pubblici della Cgil - Tutti quelli che hanno annunciato la riforma epocale della pubblica amministrazione hanno iniziato con il taglio dei permessi sindacali. Mi chiedo dove si tratterà il caso degli esuberi che sicuramente si porrà, visti i tagli di posti annunciati (tutti gli uffici territoriali dello stato centrale occupano 100mila persone), si farà online?». Più aperturista Raffaele Bonanni. «Se il governo Renzi ha seriamente intenzione di riformare il pubblico impiego, noi saremo della partita - dichiara il leader Cisl - pronti a confrontarci con le nostre idee e a dare il nostro contributo propositivo».
I PILASTRI
La «rivoluzione» parte da tre punti: capitale umano, tagli agli sprechi (il cosiddetto «sforbiciaItalia»), infine la trasparenza, l’«open data». Il primo punto parte dalla possibilità di abrogare il cosiddetto trattenimento in servizio, che secondo Renzi consentirebbe di immettere nella Pa. 10mila nuovi assunti tra i giovani. Per Marianna Madia se si coniugasse con i prepensionamenti questa misura aprirebbe le porte a 15mila giovani. «Se obblighi tutti ad andare in pensione - insiste il premier - risulterebbe prudente la previsione di 10mila nuovi assunti, ma in realtà i calcoli che abbiamo fatto sono tra i 14 e i 15mila da qui al 2018». A dire la verità i numeri potrebbero essere sovrastimati. Il trattenimento in servizio infatti riguarda oggi qualche centinaio di alti dirigenti ministeriali che vengono mantenuti al lavoro oltre tra i 65 e i 67 anni, cioè per due anni oltre il tetto di età pensionabile. Per quanto riguarda gli altri comparti della pubblica amministrazione (magistratura, esercito, Università) le età pensionabili sono tutte più alte. Quanto ai prepensionamenti, la strada è percorribile, ma occorre avere coperture certe. In ogni caso Madia spiega che l’obiettivo della riforma è «sbloccare al massimo il turn over, in modo strategico, cioè con entrate strategiche e selettive per le amministrazioni che hanno fabbisogni e obiettivi che necessitano di nuove entrate». Tra le altre voci, la possibilità di demansionamento per chi risulta in esubero, il ruolo unico della dirigenza, che vuol dire in sostanza che «la carriera sarà portata avanti per incarichi e non per fasce - spiega Madia - Questo diventa fondamentale per le retribuzioni, ma anche che la valutazione verrà fatta durante la carriera». Tra gli altri punti, i licenziamenti per i dirigenti che non hanno incarichi da un certo periodo di tempo, la valutazione dei risultati per stabilire le retribuzioni. Sulla mobilità, si prevedono anche percorsi di mobilità obbligatoria, «ma sempre garantendo la dignità dei lavoratori», aggiunge la ministra.
Fitto il programma dello sforbiciaItalia. Si aggregano 20 enti di ricerca, le Authority con l’accorpamento della Covip (fondi pensione) in Bankitalia. Si prevede una centrale unica di acquisti per le forze di polizia, per le unioni dei piccoli Comuni. Si accorpano anche Aci, Pra e motorizzazione. La cura dimagrante prosegue con le scuole della Pa (ne resterà una), l’accorpamento delle sovrintendenze e con una revisione totale della presenza dello Stato sul territorio. La Ragioneria perderà le sedi provinciali, le prefetture non saranno più di 40, con una presenza in tutti i capoluoghi di Regione e nelle zone in cui la presenza dello Stato è strategica. Per le aziende viene eliminato l’obbligo di iscriversi alla Camera di commercio, si avvierà una razionalizzazione delle autorità portuali.
Quanto alla trasparenza e l’apertura dei dati, si conferma la proposta di costruire un pin per ciascun cittadino, attraverso cui si potrà accedere a certificati e documenti. Per ora le reazioni sono di cautela, visto che si tratta di un percorso aperto. «Renzi rinvia a dopo elezioni per paura reazione contraria dipendenti pubblici e loro famiglie», attacca Renato Brunetta.

il Fatto 1.5.14
Bastone e carota
La linea: mobilità obbligata e turn over
di Stefano Feltri


Per ora è soltanto una lista di titoli, ma lo spirito della riforma della pubblica amministrazione del governo Renzi è chiaro: niente guerra ai “fannulloni” (come provò a fare Renato Brunetta con minacce e tornelli) ma il tentativo di usare meglio gli organici a disposizione, di accompagnare alla pensione senza rimpianti chi è a fine carriera perché il passaggio della burocrazia al digitale si fa soltanto inserendo i giovani.
LA PARTE SU CUI IL PREMIER ha le idee più chiare è quella sulle norme “anti-casta”. Tetto a 240 mila euro per tutti, anche per chi somma vari incarichi o stipendio e pensione, ma niente riduzione proporzionale per le fasce intermedie (come era nei piani originali del ministro Marianna Madia e del suo sottosegretario Angelo Rughetti), per evitare orde di statali inferociti alla vigilia delle elezioni europee. E poi taglio dei prefetti: da oltre 200 a 40, anche se non è chiaro che fine faranno quelli in esubero, “razionalizzazione” delle autorità portuali, i 20 centri di ricerca pubblici saranno aggregati (l’ultimo esempio, il passaggio dell’Isae all’Istat non è ricordato come felice, visto che il Tesoro ha perso il suo think tank interno), vincoli più stringenti di incompatibilità per i magistrati amministrativi. Si parla anche di una “riorganizzazione delle Authority” che finora erano state un bersaglio soltanto degli strali del Movimento Cinque Stelle. Unico riferimento esplicito di Renzi: il passaggio della Covip, la commissione che vigila sui fondi pensione, alla Banca d’Italia che già aveva ereditato l’Ivass (assicurazioni) e che diventerà sempre più il guardiano unico del risparmio. Accorpate anche le soprintendenze e addio all’obbligo per le aziende di iscriversi alle camere di commercio. Attenzione: sono soltanto promesse, non c’è ancora un solo provvedimento con valore di legge. E non c’è un solo governo che negli ultimi trent’anni non abbia promesso di cancellare enti inutili, razionalizzare le funzioni disperse tra istituzioni e rendere più efficaci le autorità di vigilanza. Renzi confida che la sua forza politica sia tale da vincere le inevitabili resistenze corporative. In effetti l’Associazione nazionale magistrati, tra le prime a protestare per il limite a 240mila euro ai compensi, appare ora conciliante: “Non abbiamo mai detto che il tetto è un attentato alla nostra indipendenza”, ha detto ieri il presidente Rodolfo Sabelli.
La sostanza della riforma voluta dal ministro Madia è però nella gestione dei dipendenti: l’obiettivo è spostare gli statali là dove servono, che siano d’accordo o meno, togliendo ai sindacati il potere di blocco, e rendere le retribuzioni più legate alla performance (Brunetta ci aveva provato, ma i dirigenti finiscono sempre per assegnarsi i punteggi più alti e incassare il massimo dei bonus). Per quanto riguarda i quadri intermedi, Renzi promette di fare ricorso a una serie di strumenti giuridici che oggi già esistono ma sono poco efficaci: l’esonero dal servizio (il dipendente a fine carriera viene pagato anceh se non lavora, purché si impegni in attività part time dove serve), la riduzione del 50 per cento del monte ore per i permessi sindacali nel pubblico impiego, “una mobilità che funzioni, volontaria, ma anche obbligatoria, garantendo dignità al lavoratore”, come dice il ministro Madia, e “abrogazione dell’istituto del trattenimento in servizio, sono oltre 10.000 posti in più per giovani nella p.a., a costo zero”, cioè la possibilità di rimanere al lavoro anche per chi ha raggiunto i limiti di età. A differenza del passato, in cui si cercava di bloccare il turn over (il saldo tra uscite e nuove assunzioni), il governo Renzi vuole incentivare il ricambio nella scommessa che sia la premessa per un aumento dell’efficienza e quindi, nel medio periodo, di risparmi. Si vedrà quando ci saranno i provvedimenti se la Ragioneria generale dello Stato sarà dello stesso parere dopo aver fatto i conti.
POI CI SONO I DIRIGENTI, il vero bersaglio della riforma: il governo vuole imporre il principio che sono tutti uguali, sono manager pubblici con mansioni diversi, ma di fondo c’è il “ruolo unico della dirigenza, che è tanta roba”, sintetizza Renzi. Le implicazioni dovrebbero essere che le retribuzioni non saranno più legate agli status conquistati con l’anzianità, ma alla mansione e ai risultati e che, come i manager del settore privato, i dirigenti dovranno adattarsi a ruotare, premiati se fanno bene o destituiti se falliscono (oggi è quasi impossibile per le cariche non soggette allo spoil system politico). Roberto Bertolini, il presidente di Cida, un’associazione di categoria dei manager, parla di “novità interessanti” per l’enfasi sulla retribuzioni variabile, ma vede una “contraddizione” nel fatto che il governo voglia premiare i migliori ma poi livelli gli stipendi con il tetto a 240mila euro. Comunque è solo l’inizio, per i dettagli e i provvedimenti se ne riparla a metà giugno.

il Fatto 1.5.14
Statali, stipendi salvi: ci sono le Europee
Niente decreto, Renzi racconta la “rivoluzione” della P. A. rimandata al 13 giugno
E scavalca i sindacati: consulterà direttamente i lavoratori
di Wanda Marra


Se uno va a starnutire gli viene detto c’è la campagna elettorale. E questo ha modificato sensibilmente anche l’agenda del sottoscritto”. Eccola, la frase chiave della conferenza stampa di Matteo Renzi di ieri. Un premier particolarmente sorridente e insolitamente dialogante lo dice senza mezzi termini: tra tre settimane e mezzo ci sono le europee, e a questo punto è tutto rimandato a dopo. Inedita cravatta scura con pois bianchi, questa volta è accompagnato dal ministro della Pubblica Amministrazione, Marianna Madia, boccoli biondi lunghi e aria doverosamente sbattuta, visto il parto recente. Niente decreto, nè disegno di legge delega sulla riforma della Pa, ma solo delle linee guida, affidate a una lettera ai lavoratori, sulle quali il governo chiede consigli e valutazioni. Una sorta di referendum, come dice la Madia. Poi, il 13 giugno ci sarà un provvedimento di legge. Renzi la gira così: “Se avessimo presentato oggi il ddl delega e il decreto per la riforma della P.a. avremmo avuto contestazioni di atto tipico della campagna elettorale”. L’esigenza di “coinvolgere gli uomini e le donne che lavorano nella P.a.” va insieme al tentativo di “togliere dalla campagna elettorale” la riforma, “questione che già si è posta anche per le riforme costituzionali”.
Matteo Renzi è un politico abilissimo e sa che se vuole continuare a imporre la sua agenda, le europee le deve vincere. Il che significa arrivare almeno al 32-33% e sperare che Grillo non lo talloni troppo da vicino. Non a caso, il merito della riforma più difficile, quella per cui “servirebbero i marine” (parola di Matteo) resta nel vago. Non a caso, dai titoli dei capitoli della “rivoluzione” che in attesa di fare, Renzi cerca di raccontare (in maniera piuttosto sommaria per la verità) scompare uno dei punti cardine al quale il ministero della Pa stava lavorando: non ci sarà il taglio agli stipendi degli statali (diplomatici, ministeriali, magistrati, militari, polizia, medici). Statali che tradizionalmente votano Pd. Le europee valgono bene una riforma. Il presidente del Consiglio, che peraltro ha capito che è arrivato il momento di cominciare a girare l’Italia per la campagna elettorale prova a derubricare il tema: “Ci sono state alcune anticipazioni che sono diventate tavole della legge, come il fatto che noi avremmo detto che tagliamo gli stipendi”. Una Madia particolarmente in palla, che sfoggia una competenza sul tema maggiore del premier, dà una risposta che non lascia possibilità di equivoci e nega anche che ci siano state divisioni e resistenze in Cdm sul tema: “È una scelta politica. Noi abbiamo voluto per una ragione di equità sociale porre un tetto apicale ma non vogliamo intervenire sulla fasce intermedie. È una scelta politica”. Fine.
Renzi insiste molto sul “metodo” della consultazione e sulla “visione” che dovrebbe portare a una Pa diversa. “Se io passo le giornate a dire sei un fannullone che il lavoratore si senta particolarmente motivato”. E quindi, “la riforma non va fatta contro i lavoratori, ma con i lavoratori”. Arriva pure lo slogan: “Nella pa c'è un sacco di bella gente che lavora e va premiata, c'è qualche fannullone e quello lo stanghiamo”. Mentre cerca di far leva sull’orgoglio del lavoratore-votante, c’è un cambio di strategia comunicativa evidente: “Non c’è l'idea di un governo arrogante. Se ci sono altre idee le ascoltiamo ma sui contenuti: non dite che siamo arroganti ma che abbiamo torto”. Ecco un Renzi dialogante, non più asfaltatore, un po’ il premier della porta accanto, quello di cui ci si può fidare anche perché ascolta i tuoi consigli e i tuoi desideri. La lettera mandata ai lavoratori, sulla quale potranno rispondere entro 30 giorni, risponde a questa esigenza. Ma non solo. Ecco bypassati i sindacati. La Camusso dice che non li consultiamo? La parola alla Madia: “Non penso che i sindacati abbiamo nulla in contrario sul fatto che consultiamo direttamente i lavoratori”. Renzi rincara la dose: “C'è forse l’idea che il datore di lavoro non possa parlare con i lavoratori e che per discutere con i lavoratori il tramite del sindacato sia vincolante e imprescindibile? Sono argomenti interessanti...”. Oltre alla lettera è bell’e pronto anche l’indirizzo di posta elettronica: ri  voluzione@governo.it . La rivoluzione ancora non c’è, la mail invece sì.

Corriere 1.5.14
«La fine del posto fisso, il ceto medio ora conta meno»
De Rita: è una battaglia antica, cominciò Craxi
Ma non si governa senza l’amministrazione
intervista di Paolo Conti


L’unica fetta della pubblica amministrazione che interessa sono gli alti dirigenti, per via dei compensi. Tutto il resto no, non importa proprio niente».
Non c’è nemmeno un sentimento di inimicizia?
«In piccola parte. Ma se per trent’anni gli italiani si sono sentiti ripetere che i dipendenti pubblici sono lenti e corrotti, il sentimento prevalente diventa il disinteresse. Perché contano poco. Ma tanto, viste le circostanze attuali in cui viviamo, contiamo tutti un po’ meno che in passato. Figuriamoci la macchina amministrativa pubblica».
Quanto pesa la vittoria delle nuove tecnologie, ovvero il fatto che molti certificati ormai si ottengono online rendendo così poco rilevante la figura dell’impiegato?
«Conta anche questo, certamente. Ma il vero punto è nella crisi dell’apparato intermedio. Lo si vede anche nelle grandi aziende. Conosciamo solo i volti e i nomi dei grandi leader. Tutto il resto è sparito. È una crisi generalizzata, trasversale».
Cosa potrebbe fare il corpo dell’amministrazione pubblica, cioè la massa dei suoi dipendenti, per riscattare questa immagine assimilata dalla collettività?
«Oggettivamente ben poco. Un tempo la mano pubblica aveva una certa importanza, nella vita quotidiana di tutti noi. Assicurava un certificato scolastico, seguiva le pratiche catastali, trovava un certificato penale. E non sempre lavorando male, sia ben chiaro. Ma adesso?».
Renzi sta avviando una grande riforma. Cosa ne pensa?
«Renzi è l’ultimo anello di una catena cominciata con Craxi e proseguita con Berlusconi. Bisogna pensare alla vecchia piramide sociale in cui c’era un vertice, una base e un corpo intermedio, appunto l’amministrazione. Craxi per primo cambiò tutto e disse, non lo dimenticherò mai: per uscire dalla mediazione democristiana ci vuole decisionismo, bisogna verticalizzare il potere. Lo stesso discorso che ha fatto Berlusconi per vent’anni. Adesso tocca a Renzi. Al posto della piramide da diverso tempo, non solo da oggi, c’è una colonna. E sulla colonna c’è l’uomo solo al comando di turno. Inevitabile che quell’uomo pensi unicamente alla base che lo sorregge e veda il corpo intermedio come qualcosa di estraneo, come una realtà che non gli appartiene. Ecco la tentazione di eliminarlo. Ed è altrettanto evidente che l’opinione pubblica, vedendo che quel corpo intermedio è giudicato sempre meno utile e meno potente da chi ci governa, è pronta a ghigliottinarlo. Metaforicamente, intendo. In fondo abbiamo già visto altre scene del genere».
A cosa si riferisce, professor De Rita?
«Tutti gli altri corpi intermedi sono entrati in profondissima crisi. Penso ai partiti, ai sindacati. Con quali risultati, poi?»
E invece, sembra di capire dalla sua analisi, un corpo intermedio amministrativo è comunque utile a una società organizzata...
«Ma certo che è utile. Direi di più: è necessario. Cosa mai sarebbe un capo della polizia senza i commissariati, o un ministro degli Interni senza le prefetture? Per governare bene occorre una macchina intermedia che naturalmente funzioni. Per questo sarebbe un clamoroso errore immaginare di spazzarla via. Anche perché, distrutta la vecchia, entro poco tempo bisognerebbe costruirne un’altra».
Pensa che Matteo Renzi ragionerà in questi termini?
«Me lo auguro per lui. Perché non si può governare da soli guardandosi allo specchio. Purtroppo le figure di alcuni ministri confermano la mia ipotesi. La loro relativa debolezza lascia credere che siano lì per assicurare che venga eseguito ciò che è stato deciso da altri. Cioè da Renzi».

Il Sole 1.5.14
Una rivoluzione, ma tutta da fare
di Fabrizio Forquet


Le misure annunciate vanno in gran parte nella direzione giusta. Attaccano le inefficienze della burocrazia e avvicinano il cittadino alla pubblica amministrazione. Renzi le ha prospettate come una rivoluzione. Ancora una volta, però, si tratta di annunci e non di decreti e disegni di legge. Questi seguiranno. Forse. O magari seguiranno in parte. Ma intanto Renzi avvia il processo. Magari è una truffa, ma può anche essere un metodo: quello di creare il consenso sulle riforme per poi renderle praticabili. Si vedrà presto.
Nel merito dei singoli provvedimenti, una delle novità più importanti, anche se poco vistosa, è l'abolizione della distinzione tra dirigenti di prima e seconda fascia. Un sistema anacronistico, che oggi irrigidisce l'organizzazione degli uffici e ha l'unica ragion d'essere nella difesa delle posizioni (e degli stipendi) di un nucleo più ristretto di dirigenti.
Su mobilità obbligatoria e valutazione dei risultati, per ora, si può solo sperare che sia la volta buona. Un segnale forte è l'annunciato accorpamento delle (almeno) cinque scuole della pubblica amministrazione. Se ne parla da anni, ma finora nessuno è riuscito ad abbattere questo Moloch fatto di maxi-stipendi e incarichi di favore.
Altri intendimenti positivi sono l'estensione delle incompatibilità per i giudici amministrativi, le sanzioni per le liti temerarie e la stretta sul sistema delle sospensive negli appalti pubblici. Sorprende, invece, la facilità con cui Renzi ha liquidato in conferenza stampa la questione degli esuberi e dei risparmi nella pubblica amministrazione. In realtà, con le elezioni alle porte, se ne capiscono bene le motivazioni, ma non si può eludere un tema che in questi mesi ha monopolizzato il dibattito sulla spending review. Ricordiamo che nel piano Cottarelli si parla di 85mila esuberi possibili. Che fine hanno fatto?
Altrettanto accantonata appare la questione degli stipendi. Dopo tanto rumore di sciabole su privilegi e trattamenti eccessivi, il premier ha tagliato corto sulla questione ribadendo il solo limite di 240mila euro. Niente tetti intermedi, dunque, come invece si era ipotizzato nelle varie stesure del decreto sul bonus di 80 euro. Si pensava che la riforma della Pa sarebbe tornata sul tema, ma invece niente. Renzi sembra aver archiviato quei tetti. Rinunciando di fatto a ingaggiare uno scontro con categorie influenti, come quelle degli alti dirigenti pubblici, dei magistrati e dei diplomatici.
È una questione non secondaria. Renzi ha ragione, infatti, nel sostenere - come ha fatto ieri - che la riforma non deve essere contro i lavoratori pubblici. Ma perché la riforma sia una buona riforma deve saper superare le opposizioni corporative. Deve saper scontentare qualcuno per fare il bene dei tanti. Altrimenti ancora una volta la "rivoluzione" nella burocrazia sarà solo un cambiare tutto per non cambiare niente.
Ma qui si va oltre e si tocca il punto chiave su cui si gioca il riformismo di questa nuova generazione al potere. Il consenso, che il premier sa costruire con straordinaria efficacia, può essere un ariete dalle corna potenti per sfondare le tante resistenze e imporre le riforme di cui il Paese ha bisogno. Ma se il consenso diventa il metro su cui misurare ogni passo, il principio e il fine dell'azione del governo, quel consenso si trasformerà in una gabbia nella quale il riformismo renziano verrà archiviato come un'ennesima stagione di illusionismo politico.

il Fatto 1.5.14
La mi mandi un G8 a Firenze
Con 600 milioni di euro il premier promette l’evento per il 2017
Il candidato sindaco Nardella procede ai calcoli  alle richieste
Già sloccati i fondi per la rete dei tram
di Chiara Paolin


Su Wikipedia, tutto è già accaduto. La pagina dedicata agli incontri istituzionali del G8 contiene una casellina con su scritto: anno 2017, Matteo Renzi, Firenze.
Sul sito del governo italiano non c’è nulla di tutto ciò, ma basta andare su quello del comune toscano per avere conferma piena dell’evento: “Siamo già al lavoro, perché non si tratta di una eventualità, ma di una certezza. Nel 2017 il G8 tocca all’Italia e Renzi ne chiederà l’approvazione al governo”. Parola di Dario Nardella, già vicesindaco di Matteo Renzi e pronto a subentrare in Palazzo Vecchio con un doppio regalo in calendario: Papa Francesco in visita a novembre 2015, e poi il botto vero, gli 8 potenti del mondo che si ritrovano a passeggiare lungo l’Arno. “A partire dal prossimo giugno – continua l’operoso Nardella – un pool tecnico specializzato sarà in grado di coordinare tutti gli interventi necessari. Due anni e mezzo sembrano tanti, ma sono pochi per un evento così”.
DUNQUE, BANDO alle ciance. Come ha scritto Renzi nella sua lettera di commiato alla città, il G8 si farà e tante belle opere pubbliche verranno finanziate con i soldi dello Stato: “La nostra città potrà utilizzare questo appuntamento per concludere le tante iniziative infrastrutturali che sono in fase di realizzazione. E l’Italia, come sempre in questi casi, potrà fare bella figura proponendo ai leader dei Paesi più importanti del mondo il luogo simbolo del Rinascimento”.
Di quanti soldi si parla? Nardella ha fatto due conti, e ispirandosi ai parametri de L’Aquila s’è detto che 200 milioni di euro possono bastare. Metà della cifra è già prenotata dalla struttura base, la Fortezza da Basso, sede della Fiera, del Pitti, e di ogni grande appuntamento in città. Un vero colpo di fortuna, questo G8, perché l’ente fieristico è in crisi nera: dopo anni di fiacca progressiva, il 2013 s’è chiuso con un buco di oltre un milione d’euro e lettere di licenziamento per 13 dei 41 dipendenti. Già tutte le altre fiere toscane s’erano sfregate le mani: meno potere centrale, più business per la periferia. E invece Renzi ha cambiato le carte in tavola spingendo per un nuovo cda con presidente Luca Bagnoli, giovane professore di Economia all’Università di Firenze. “Gli aiuti statali per il G8 vanno benissimo, ma per noi la cosa importante è essere coinvolti nella progettazione degli spazi espositivi, insieme con Pitti Immagine che è il nostro principale cliente” ha detto Bagnoli. Cioè: ottimo il cash da Roma, però a noi interessa un’opera perfetta per chi conta a Firenze.
“Ecco qua i bastioni: oggi si presentano incolti, lasciati andare; domani dovranno tornare a essere percorribili” fraseggia intanto l’assessore all’urbanistica, Elisabetta Meucci, intervistata dal Corriere in un viaggio dentro la Fortezza che serve a spiegare quanti punti della città abbiano bisogno di interventi rapidi. Nei desiderata di Nardella, dieci milioni andranno per il Palazzo dei Congressi , 15 basteranno per le Scuderie delle Cascine, 60 per un nuovo auditorium, 50 per trasformare il vecchio Teatro Comunale in un hotel a 5 stelle e altrettanti per l’ex area Fiat, possibile mega-residenza del summit. Più qualche spicciolo per i parcheggi scambiatori e varie amenità.
I famosi 200 milioni preventivati sembrano pochini, e il meglio deve ancora venire.
Le due opere più importanti sono le nuove linee del tram e l’ampliamento dell’aeroporto. Per il tram nessun problema. Lo scorso 14 aprile il viceministro alle Infrastrutture (nonché ex assessore toscano) Riccardo Nencini ha portato da Palazzo Chigi la bella notizia: “Per il tram vengono liberati 121 milioni di euro che leghiamo a un crono-programma che avrà inizio nel maggio di quest’anno, e una conclusione nel dicembre 2017”. Aggiungendo: “Lavoreremo prestissimo sulla tratta che riguarda il passaggio a Firenze città, il Lungarno, e immagino il collegamento con Bagno a Ripoli: stiamo lavorando perché vi sia un finanziamento anche per quella tratta, con previsione intorno ai 200 milioni di euro”. Nel senso che il tracciato originario delle linee 2 e 3 sarà ampliato collegando varie zone della città, dalla stazione fino all’aeroporto.
E qui si gioca la partita più dura: in ballo c’è la fusione societaria tra l’aerostazione di Firenze e quella di Pisa, ma il progetto di allungare la pista fiorentina per farci atterrare l’Airforce One, anziché sfruttare le esistenti strutture pisane, sta facendo salire la tensione interna.
GIANNI CONZADORI, ex pilota e azionista di entrambe le società aeroportuali, parla chiaro: “In momenti di spending review, perché non far atterrare gli aerei del G8 a Pisa, dove già ci sono due piste adeguate e uno scalo militare in cui è normalmente predisposto un efficiente servizio di protezione multiforze?”. Risposta secca del viceministro Nencini, contestato persino dai suoi colleghi socialisti in quel di Pisa: “La mia opinione su Firenze non cambia, serve una pista adeguata a una città straordinaria come questa: il ministero condivide l’ipotesi di una pista di 2400 metri”.
Traducendo, una volta passato l’Airforce, saranno i bestioni di lunghissimo raggio a planare sulla Firenze reloaded, città finalmente degna di assurgere a scalo intercontinentale grazie al tocco magico di Matteo Renzi. E non è un dettaglio che ad asfaltare la pista extralong sarà Marco Carrai, amico storico del premier, assurto alle cronache per l’appartamento in centro prestato all’allora sindaco. Ora Carrai, quale presidente dell’aeroporto urbano, scrive nel suo masterplan che per i 2400 metri di pista serve assolutamente “una quota di contributi pubblici non inferiore a complessivi 120 milioni di euro”. Il vice, pro e futuro sindaco Nardella garantisce che tutto è sotto controllo: “Ne abbiamo parlato col presidente Renzi. Ma le modalità di utilizzare i fondi per il G8 dovranno essere ben approfondite, perché si tratta di un’opera di pubblico interesse, ma la proprietà è di un privato”. Eh già.

Repubblica 1.5.14
Una rivoluzione da rinviare
di Sebastiano Messina


QUALCUNO si era lamentato: sul sito del governo c’è tutto, tranne l’indirizzo email del presidente del Consiglio. Ieri Matteo Renzi ha colmato anche questa lacuna. «Scrivetemi — ha detto — all’indirizzo rivoluzione@governo.it». Mossa che ha spiazzato tutti, perché il regolamento prevede che prima si faccia la rivoluzione e poi si prenda il potere, mentre Renzi vuol fare esattamente il contrario. Non solo, ma vuole farla da solo, la rivoluzione, senza organizzare non diciamo un’insurrezione ma una marcia, un corteo, un comizio o almeno una raccolta di firme. Anche perché si porrebbe il problema del tiranno da rovesciare, che in genere sta seduto esattamente dov’è lui adesso: a capo del governo. Forse sarebbe meglio rinviarla, questa rivoluzione. E nell’attesa, magari, fare qualcosa di rivoluzionario: le riforme.

l’Unità 1.5.14
Renzi, la sinistra e la lezione di Toynbee
di Luciano Canfora


CARO DIRETTORE, QUANDO L’ESPERIENZA STORICA DEL COSIDDETTO SOCIALISMO REALE SI ERA ORMAI ESAURITA CON LA DISSOLUZIONE DELL’UNIONE SOVIETICA, ALCUNI STORICI TRA CUI DAVID SASSOON, NELLA SCIA DI RIFLESSIONI acute dovute a Hobsbawm, formularono una interessante diagnosi: che cioè il più importante risultato, soprattutto in Europa, del socialismo reale, era stata la nascita a Occidente dello «Stato sociale». Era stata quella la risposta quasi obbligata, e alla fine vincente, alla sfida «rivoluzionaria», nella contesa tra i due sistemi che divisero l’Europa in due campi per tantissimo tempo. Era accaduto cioè che, nei Paesi nei quali l’esperienza comunista avviatasi nel 1917 era parsa per un certo tempo attraente e quasi vincente ma da un certo punto in poi declinante, furono nondimeno assunti orientamenti che miravano a togliere terreno all’avversario, ma al tempo stesso modificavano l’assetto economico e sociale: per l’appunto lo «Stato sociale». In un certo senso si trattava di un successo del sistema sconfitto ma che era nondimeno riuscito a modificare l’avversario. (Non a caso da anni in Occidente – scomparsa l’esperienza del socialismo reale – si mira sempre più a mettere in discussione e possibilmente demolire lo «Stato sociale». Ma per fortuna la partita è ancora aperta).
Questo modello, che Arnold Toynbee avrebbe definito «sfida e risposta», lo si può osservare, nel più piccolo contesto della realtà italiana dell’ultimo tempo, nel curioso fenomeno del grande successo e apprezzamento che l’attuale presidente del Consiglio consegue presso il più autorevole esponente del centro destra, il leader storico e tuttora operante di Forza Italia. Lunedì sera la emittente televisiva LA7 ha trasmesso un’intervista al leader di Forza Italia, concessa al giornalista Formigli, in cui campeggiava la reiterata domanda «Renzi le piace?» e la esplicita dichiarazione dell’anziano leader: «Renzi starebbe bene in Forza Italia».
Non giova lasciarsi andare a moralismi: si tratta invece di valutare un’opinione degna di attenzione e di estremo interesse. È questa infatti la principale vittoria conseguita dal leader del centro destra. Egli ha ottenuto che il Partito democratico, per riuscire finalmente a conseguire (questo per lo meno attualmente si pensa) un consenso significativo, per riuscire insomma a «sfondare », ha dovuto, nella persona del suo attuale leader, assumere i valori fondamentali della parte avversa. Grande Toynbee.

Al voto per la Camera nel 2013, il Pd prende 8,9 milioni di voti, il M5S 8,8. Ma senza contare il voto all’estero il M5S è primo (il 25,56% contro il 25,43)
La Stampa 1.5.14
Renzi e quella frase sul M5S "primo partito, dal 2013"
Una mezza verità, e una mezza furbizia
Qual è il primo partito in Italia, stando alle ultime elezioni politiche (dati veri, non sondaggi) attestate?
di Jacopo Iacoboni

qui

Dall’articolo di Carlo Bertini sulla Stampa di oggi:
E in questi giorni, siglata la tregua sulle riforme, rinviati tutti i nodi a giugno, Renzi ha accettato di rinviare pure quello sugli assetti interni del partito: la segreteria sarà rinnovata, ma dopo le europee, come chiesto dalla nuova corrente di giovani bersanian-dalemiani guidati da Speranza. «Sarà una segreteria unitaria staranno tutti dentro», conferma Guerini. Quindi, nei dodici posti di (relativo) potere nel partito di Renzi, siederanno pure esponenti della minoranza. Ma non i civatiani, perché Pippo resta il solo a fare opposizione in un Pd che in questa fase ha siglato una tregua.. Almeno fino alle europee, dopo si conteranno i voti, «si conteranno le preferenze dei renziani e dei nostri sul campo...», avvertono sibillini i bersaniani.

Il Sole 1.5.14
La posta in gioco il 25 maggio e quel brontolio eversivo che si avverte
di Stefano Folli


La vicenda del Sap un segnale che si lega al malessere fotografato da tutti i sondaggi
Il caso, anzi, lo scandalo dei poliziotti del Sap può essere derubricato a "incidente", come propone l'on. Giovanardi, oppure può essere definito una «vicenda indegna», come si legge nella lettera del presidente della Repubblica alla madre della vittima, il giovane Aldovrandi. Purtroppo è anche, forse soprattutto, un sintomo di degrado delle istituzioni. E infatti si avverte una sorta di istinto eversivo o almeno di disprezzo per le regole in vari campi della vita pubblica.
Sotto questo aspetto l'episodio dei poliziotti forse è circoscritto – ci si augura che lo sia – ma è anche emblematico e senza dubbio non di facile gestione. È come se in certi corpi dello Stato, sia pure minoritari, si respirasse oggi la stessa frustrazione, la stessa rabbia sorda che si percepisce sul piano politico. Dove è in corso un conflitto più aspro e decisivo di quanto l'opinione pubblica abbia finora intuito. "O noi o loro" dice Grillo e in questa brutale semplificazione, che evoca le barricate e la ghigliottina, c'è un fondo di vero. Perché le prossime settimane prima del 25 maggio saranno soprattutto il palcoscenico di un confronto radicale fra due idee delle istituzioni e del destino dell'Italia in Europa.
Guai dunque a sottovalutare lo scandalo del Sap, perché esso tradisce un brontolio di fondo che sale da profondità insondabili ed è, come dice un luogo comune, un segnale d'allarme. In questo caso lo è davvero. Naturalmente questo malessere non è solo italiano. Da giorni i sondaggi continentali insistono su un punto: il progressivo dilagare dei partiti cosiddetti "populisti" ed euroscettici. Sono considerati sopra il 30 per cento sia Marine Le Pen a Parigi sia Nigel Farage a Londra. E tutti capiscono che l'Europa rischia di non essere più quella che abbiamo conosciuto, nel bene e nel male, se lunedì 26 la mappa politica risulterà stravolta come si comincia a prevedere.
C'è un terzo personaggio che potrebbe rientrare a pieno titolo in questo triangolo della destabilizzazione ed è il nostro Beppe Grillo. Anche lui sopra il 30 per cento? Al momento, no. I sondaggi lo danno intorno al 24-25 per cento, ma la tendenza è all'aumento. Del resto, il capo dei Cinque Stelle è uno specialista delle campagne elettorali e la spregiudicatezza non gli fa certo difetto. Ad esempio, è indicativo che Grillo non abbia detto una sola parola sulla storia dei poliziotti. A conferma che quando c'è da ammiccare in modo ambiguo agli impulsi eversivi affioranti qui e là, l'uomo non si tira mai indietro.
Ieri un articolo di Elisa Calessi su "Libero" ha ben spiegato qual è la vera incognita delle elezioni. È l'ipotesi che il Pd di Renzi ottenga un discreto successo, sopra il 30 per cento; ma che i Cinque Stelle gli arrivino quasi a ridosso, diciamo con una percentuale intorno al 28. Un simile esito avrebbe come corollario inevitabile una grave sconfitta di Forza Italia e di conseguenza l'equilibrio politico generale entrerebbe in crisi. Altro che riforme concordate... È lo scenario peggiore, quello che lega il voto in Italia all'ondata euroscettica francese e inglese. Vedremo. Ma se queste tendenze fossero confermate, sarà necessario che la campagna elettorale di Renzi e del Pd si dimostri in grado di adattarsi alla sfida. Non è detto che inseguire il populismo sul suo terreno, come talvolta avviene, sia la migliore strategia per sconfiggerlo.

il Fatto 1.5.14
Grillo scippa ancora San Giovanni al Pd


ROMA «Non sono preoccupato per la presunta ascesa di Beppe Grillo nei sondaggi. Dalle ultime elezioni M5S è già il primo partito in Italia, ma scommetto che i prossimi risultati saranno diversi». Matteo Renzi è molto fiducioso sull’esito delle prossime elezioni Europee e non lo nasconde. Anche perché è convinto che i grillini stiano facendo «training autogeno dicendo “vinciamo noi, vinciamo noi”. Finora hanno solo criticato, non hanno fatto nulla ma solo show. Io li rispetto, rispetto chi ha votato M5S, ma votare Grillo è abbaiare alla luna». Il leader dei grillini , invece crede in un grande, nuovo, successo del suo movimento. E anche per questo ha deciso di concludere la campagna elettorale, che farà in camper partendo dalla Sardegna, nuovamente a Piazza San Giovanni, a Roma. Una risposta indiretta alle parole di Renzi, visto che nel 2013 i
grillini, sorprendendo tutti quella piazza la riempirono. «È la nostra piazza, dove abbiamo chiuso e vinto nel 2013», commenta Luigi Di Maio, il vicepresidente grillino della Camera.
L’annuncio che i grillini occuperanno per la seconda volta la piazza storica della sinistra è stato dato ieri dalla deputata Roberta Lombardi.
«Abbiamo una piazza! Il 23 maggio tutti a San Giovanni», ha esultato su Facebook la prima capogruppo dei grillini alla Camera. E per dimostrare che la notizia era vera ha postato sul social network la foto davanti alla questura di Roma che ha autorizzato l'uso della piazza.
Battibecchi che confermano come al momento lo scontro elettorale sia fra Renzi e Grillo.
Ma Renzi sfida l’ex comico: “Saremo il primo partito, ci posso puntare”

l’Unità 1.5.14
Eterologa, dopo la Consulta boom di richieste
Fecondazione assistita, segnalate migliaia di domande in seguito alla bocciatura «costituzionale» della legge 40
di Alessandra Rubenni


Un «boom». Nel tam tam di siti web e agenzie di stampa, i numeri arrivati ieri raccontano di come sarebbe una vera e propria esplosione per le richieste che riguardano la fecondazione eterologa. E ci mettono poco a scavalcare le altre notizie. In ventuno giorni, esattamente dal giorno in cui la Consulta ha rottamato di fatto la legge 40 del 2004 dichiarando incostituzionale il divieto a ricorrere a un donatore esterno di ovuli o sperma nei casi di infertilità assoluta, sarebbero tanti, tantissimi, a chiedere delle cure che in Italia erano state messe fuori legge. In media sarebbero 150 al giorno, per un totale di circa 3.400 in tre settimane, solo le richieste arrivate alla Cecos Italia, un’associazione cui fanno capo 20 sedi, dislocate tra 10 Regioni, e che in ogni centro avrebbe ricevuto dalle 3 alle 15 telefonate al giorno. Secondo una ricerca della stessa associazione le domande di fecondazione eterologa sarebbero in «costante e continuo incremento».
Numeri a parte, di certo la sentenza della Corte costituzionale rappresenta una rivoluzione per le coppie italiane che, volendo ricorrere all’eterologa finora (se potevano permetterselo economicamente) erano costrette a scappare all’estero. Secondo l’Osservatorio sul turismo procreativo circa 2mila coppie l’anno, dirette molto spesso in Spagna. Non numeri di massa, quindi, ma aspiranti genitori che adesso dovrebbero trovare una risposta in Italia, dopo che la Consulta - accogliendo i ricorsi presentati dai tribunali di Milano, Firenze e Catania - ha bocciato gli articoli 4, comma 3; 9, commi 1 e 3 e 12, comma 1, della legge 40, che oltre al divieto assoluto di ricorrere all’eterologa prevedeva anche sanzioni per i medici che la avessero praticata. Ma adesso, in attesa delle motivazioni della sentenza, che arriveranno entro il 9 maggio, il tema è di nuovo un caso politico. In un clima nebuloso, che ha visto subito la ministra della Salute Beatrice Lorenzin accogliere la sentenza della Consulta con una cautela che sembrava voler frenare ogni entusiasmo. Perché introdurre l’eterologa è «un evento complesso che difficilmente potrà essere attuato solo mediante decreti», aveva immediatamente messo le mani avanti Lorenzin. E di fronte all’evidenza che la sentenza va rispettata aveva subito annunciato una «road map» per fare chiarezza sui temi da definire. Questioni che però sembrano ridursi a una sola: semplicemente, andrà garantito l’anonimato e insieme la possibilità d’accesso ai dati genetici del donatore, come fanno notare le associazioni che ai tempi della legge 40 si sono battute contro quel divieto e ora dicono «no» alla prospettiva di infilarsi in un intricato percorso di norme e decreti.
Intanto il Movimento per la vita, con Paola Binetti, ha già alzato la polemica parlando di un nuovo «Far west» e presentato una proposta di legge «che sarà affidata, in particolare, ai 63 parlamentari che hanno sottoscritto l’iniziativa “UnoDiNoi” impegnandosi per la tutela del concepito». Mentre la ministra Lorenzin ieri si è sentita di dover tornare sull’argomento, invocando la necessità di inserire il tutto in quadro normativo, con il contributo di Ministero, Parlamento e di «tutte le altre istituzioni interessate». «Solo quando si conosceranno le motivazioni della sentenza sarà possibile individuarne le modalità di attuazione. Saranno molti gli aspetti da regolare - si legge nella nota del Ministero - con diversi tipi di provvedimenti, sia di tipo amministrativo che legislativo; bisognerà ascoltare gli operatori del settore e i soggetti coinvolti. Problematiche che vanno affrontate con grande rigore e nelle sedi opportune, evitando scorciatoie e tenendo in massimo conto l’appropriatezza e la sicurezza dei percorsi, per salvaguardare innanzitutto la salute delle coppie e dei nascituri. Il Ministero è pronto ad iniziare il lavoro, fin da quando sarà pubblicata la sentenza della Consulta».
Niente fretta, insomma. Ma nel frattempo, «tutte le coppie che si rivolgono a noi fanno la stessa domanda: qual è l’iter da seguire per la fecondazione eterologa?», riferisce Elisabetta Coccia, presidente di Cecos Italia. Aspiranti pazienti che chiedono delle eventuali liste di attesa, si informano sui costi, le procedure tecniche, le garanzie del centro a cui si rivolgono. Coppie che, sembra nell’80% dei casi, vorrebbero ricorrere all’eterologa per problemi di infertilità femminile, e che sono distribuite abbastanza omogeneamente in tutta Italia, ma si rivolgono soprattutto ai centri del Nord-est e al centro (Emilia-Romagna e Toscana in particolare), un poco meno al Sud. «Coppie consapevoli che vogliono risposte - sottolinea Elisabetta Coccia - e rimangono sorprese del fatto che a oggi non sono state emanate linee guida dal ministero della Salute, nonostante noi società della riproduzione abbiamo dato la disponibilità a un tavolo tecnico di confronto».

Repubblica 1.5.14
La scommessa di Ovadia “Tra populisti e sinistra Tsipras oltre il 4 per cento”
di Rodolfo Sala


MILANO. Attore teatrale, drammaturgo, scrittore, Moni Ovadia adesso sta girando come una trottola il Nordovest d’Italia, dov’è candidato alle elezioni europee nella lista «Un’altra Europa con Tspiras»: «Io sono per natura un ribelle, ma stavolta noi rappresentiamo il buon senso; la nostra affermazione sarà utile anche per il centrosinistra, servirà a svegliarlo dal suo torpore». E domenica Barbara Spinelli e altri candidati della lista saranno a Ventotene, dove vennero confinati dal regime fascista Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, e dove scrissero il manifesto “Per un’Europa Libera e Unita”. «Il documento politico più attuale che ci sia sull’Europa», assicura Curzio Maltese.
Moni Ovadia, nel merito: perché bisognerebbe votare per voi?
«Siamo l’unico voto utile, perché nel Parlamento europeo ci saranno due grandi blocchi entrambi non credibili: da un lato i populisti di ogni risma, compresi i neofascisti, tutta gente che ha una sostanziale repulsione per l’Europa; e al centro un grande partitone».
Lei mette insieme i popolari e i socialisti?
«Governano insieme, in Italia e in Europa. Una Grosse Koalition ogni trent’anni ci può stare, ma quando diventa routine provoca un cortocircuito nella dialettica democratica. Senza contare che questo partitone è liberista, vota provvedimenti da macelleria sociale».
E voi siete l’alternativa a entrambi questi blocchi...
«Non imboccheremo mai la deriva populista, non abbiamo la vocazione a farci bypassare dagli elettori».
Questa è per Renzi?
«Ovvio. Mi spiace dirlo, ma tecnicamente Renzi è un notorio bugiardo, ha mentito ai suoi elettori e al suo Paese, quando giurava che non sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dal voto».
Lei però nel 2006 è stato eletto consigliere comunale a Milano con il Pd...
«Mi ero detto: vuoi vedere che il progetto di Veltroni ci porta fiori dalla palude? E invece subito dopo le elezioni è cominciato il balletto con Berlusconi: un suicidio politico, e Renzi sta facendola stessa cosa».
E adesso ha scelto Tsipras.
«Candidarmi mi è già costato tre spettacoli, per via della par condicio. Non ci guadagno niente,anzi ci rimetto. Ma lo faccio molto volentieri».
Lei ha dichiarato che, una volta eletto, rinuncerà al seggio a Bruxelles. Perché?
«L’ho detto prima che cominciasse la campagna elettorale, non voglio fare da specchietto per le allodole. Come la Spinelli e Prosperi, mi sono messo in lista per sostenere un’idea in cui credo molto, per dare una mano a un progetto. E senza avere ambizioni personali».
Come sta impostando la campagna elettorale?
«C’è un tema che più di tutti mi sta a cuore: il lavoro. Il centrosinistra parla di flessibilità, e il risultato per l’occupazione è zero. Noi vogliamo che per creare lavoro l’Europa investa cento miliardi l’anno per dieci anni. Siamo anche per una Costituzione votata dai cittadini e per costruire in tempi brevi l’unità politica dell’Europa».
Non teme che quest’avventura sarà un altro buco nell’acqua per la sinistra radicale?
«Il nostro è un progetto europeo che ha una sua forza, per questo mi sono candidato. E al centro del progetto c’è Tsipras: in Grecia ha dimostrato che un partito di sinistra-sinistra può diventare maggioranza».
Dunque è ottimista sul risultato?
«Forse riusciremo a essere il terzo schieramento, io ci credo. E in Italia andremo ben oltre il quattro per cento».
Che cosa glielo fa pensare?
«Il paese è troppo conciato. E Renzi sta facendo il gioco delle tre carte, lo stesso di Monti e di Letta. Il premier parla bene, ma — lo dico da esperto e con verve — governare l’Italia non è come fare teatro».

il Fatto 1.5.14
Eterologa, centri privati pronti all’assalto
Già migliaia di coppie chiedono la fecondazione
Il ministero: “Per le regole aspettiamo le motivazioni della Consulta”
di Chiara Paolin


Ormai ci siamo. A quasi un mese dalla sentenza che ha dichiarato incostituzionale il divieto dell’inseminazione eterologa, sta per scattare il via libera alle cure fin qui vietate. L’ostacolo, non solo formale, è la pubblicazione della sentenza annunciata il 9 aprile: solo in quel momento, leggendo le motivazioni della Consulta e valutando le eventuali indicazioni contenute nel dispositivo, si potrà materialmente dare il via alle procedure.
Ieri l’associazione dei centri di fecondazione Cecos ha lanciato un fischio: “Nelle ultime settimane già 3.500 richieste per l’eterologa, ma il ministero non ha ancora dato indicazioni operative”. Non sfuggirà il dettaglio che Cecos è un’associazione di centri privati, i più impazienti di offrire il nuovo servizio grazie alla rapidità delle pratiche interne.
Carlo Bulletti, primario dell’Unità operativa di fisiopatologia della riproduzione dell’Asl Romagna, ha qualche guaio in più. Anche nella sua clinica di Cattolica fioccano le richieste, ma l’ipotesi di poterle soddisfare al volo è praticamente un sogno: “Noi del settore pubblico abbiamo vincoli di varia natura - spiega Bulletti -. Naturalmente sono indispensabili anche per noi le indicazioni che il ministero, o il parlamento, darà sulla materia. La differenza è che, appena le motivazioni saranno in Gazzetta, i privati potranno fare ciò che non è vietato, mentre a me mancherà anche solo la tipologia del ticket per emettere le varie prestazioni”.
IN EFFETTI, TRA LEGGI e sentenze pregresse su donazione d’organi e gestione dei tessuti, l’agilità dei centri privati potrebbe garantire alle coppie sterili di sfruttare questa opportunità. Con un bel vantaggio sulle Asl: “Sia chiaro - continua Bulletti -, io non ho niente contro i colleghi, ma vorrei ci fossero pari opportunità per tutti. Ho negli occhi la faccia di tante persone che non ho potuto aiutare, che si sono impegnate il quinto dello stipendio pur di tentare le cure all’estero. Adesso che siamo tornati nella legislazione contemporanea , sarebbe il colmo non poterla sfruttare”.
Concretamente, spiega il professore, una donna potrebbe andare da lui e donare un ovulo. A quel punto, svicolando tra le norme, forse si potrebbe procedere a un’inseminazione. Ma il fatto è che la complessità materiale della donazione, e la sua gratuità obbligatoria, rende assai improbabile l’evento: la maggior parte degli ovuli destinati all’eterologa proverrà da materiale biologico destinato all’inseminazione omologa, e non utilizzato. Però: con quali regole, per evitare i casi strazianti del Pertini, con genitori biologici e madri partorienti in lotta? “Su questo dovremmo imparare dagli inglesi - conclude Bulletti -: le loro linee guida ammettono esplicitamente che è impossibile tutelare allo stesso modo tutti i soggetti in ballo. Perciò si impone al donatore e al ricevente di scegliere la notorietà o l’anonimato del materiale biologico, e si dice che in casi controversi prevarrà sempre il diritto del nascituro”.
Poche regole così, Asl pronte quanto i privati a offrire il servizio, un’Italia normale a portata di mano: bastassero le motivazioni della Consulta, sarebbe un miracolo. Infatti, ieri sera, il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ha fatto sapere che “saranno molti gli aspetti da regolare, con diversi provvedimenti, sia di tipo amministrativo che legislativo. Sarà coinvolto il ministero e anche il Parlamento”.

l’Unità 1.5.14
Il voto sul decreto
Sì della Camera alla distinzione delle droghe pesanti


Sì dell'Aula della Camera al decreto legge tossicodipendenze. Il testo è stato approvato con 280 sì, 146 no e due astenuti, e ora passa al Senato per l’approvazione definitiva (con Ndc, che ha votato sì, ma punta a modifiche a Palazzo Madama). Il decreto legge su stupefacenti e farmaci off label - su cui, dopo la modifica in commissione, il governo ha ottenuto la fiducia alla Camera - punta ad armonizzare la disciplina delle sostanze stupefacenti e psicotrope dopo la sentenza della Consulta, che cancellando la Fini-Giovanardi ha ripristinato per il reato di traffico illecito la distinzione prevista dalla Iervolino-Vassalli tra droghe leggere (da 2 a 6 anni) e pesanti (da 8 a 20 anni).

l’Unità 1.5.14
Magherini, indagati i carabinieri e i medici che lo soccorseroI quattro militari accusati di omicidio preterintenzionale, per i sanitari l’ipotesi è di omicidio colposo
di Pino Stoppon


Qualcosa si muove per fare luce sul caso di Riccardo Magherini: quattro carabinieri e cinque sanitari sono indagati per la morte del trentanovenne avvenuta nella notte tra il 2 e il 3 marzo scorso in una strada di San Frediano, quartiere del centro fiorentino, immobilizzato a terra dai carabinieri.
La Procura di Firenze sta indagando su nove persone; per i quattro carabinieri che fermarono Magherini e lo bloccarono sulla strada e, secondo il racconto di alcuno testimoni oculari lo colpirono ripetutamente, l’ipotesi è di omicidio preterintenzionale, mentre i cinque sanitari che intervenirono sul posto le indagini sono per omicidio colposo.
Un caso che, tragicamente, sembra replicare quelli di Aldrovandi, Cucchi, Uva e altri, purtroppo. Nel video girato quella notte da un testimone e che ora è visibile in Rete si sentono le grida di Riccardo che invoca aiuto mentre è immobilizzato e delle voci che parlano del pestaggio che si sta compiendo. Il legale della famiglia Magherini, Fabio Anselmi, conferma la decisione della Procura: «I quattro carabinieri sono stati indagati per omicidio preterintenzionale. Per i 5 operatori del 118 abbiamo chiesto l’omicidio colposo e l’omissione di soccorso», ha aggiunto: «Finalmente non abbiamo davanti dei fantasmi ma uomini in carne ed ossa».
Anche questa battaglia si annuncia difficile. «L’intervento dei carabinieri è stato svolto nell’interesse del cittadino e dei cittadini, con tutte le precauzioni del caso, secondo il protocollo, nel pieno rispetto della legge, come sempre fa l’Arma dei carabinieri», ha dichiarato l’avvocato Francesco Maresca, difensore dei quattro militari indagati per omicidio preterintenzionale. «Viene rigettato ogni addebito a carico dei quattro carabinieri che hanno operato in modo consono. Farei un invito generale ad abbassare i toni nei confronti delle forze dell'ordine», ha aggiungo l’avvocato Maresca, che evidentemente tenta di collegare il caso alle polemiche scoppiate dopo l’applauso ai quattro poliziotti che uccisero Aldrovandi, gesto stigmatizzato da tutti, anche dal presidente Napolitano. E proprio Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, in questo momento che rinnova il suo dolore ha commentato: «Spero che emergano verità e giustizia».
L'inchiesta della Procura, di cui è titolare il pubblico ministero fiorentino Luigi Bocciolini, è stata aperta in seguito alla denuncia sporta dai familiari di Riccardo Magherini nei riguardi dei quattro militari e dei cinque sanitari. Il corpo dell’uomo è stato trovato infatti pieno di lividi sulle braccia, le mani e le gambe, escoriazioni sul volto e altri segni di violenza. Come riporta il Corriere fiorentino, in quell’ultima tragica notte di Riccardo, che sarebbe stato fermato perché vagava in stato confusionale (quindi semmai avrebbe avuto bisogno di aiuto e non di essere pestato), tra l’1 e 21 del 3 marzo, i carabinieri hanno chiamato il 118 chiedendo un’ambulanza, dicendo l’uomo «fa il matto». Comunicazioni che sarebbero andate avanti per cinquanta minuti e all’1,32 l’ambulanza arriva, ma senza il medico. Riccardo è inerte a terra. Ne arriva una seconda, con il medico, convinto di dover solo «sedare» Magherini. Inutile anche il massaggio cardiaco. Il medico alla centrale del 118 dice al telefono che «il ragazzo che era stato immobilizzato dai carabinieri è in arresto cardiaco. Sono per strada». In via Borgo San Frediano; altri volontari dicono «ha due carabinieri sopra, è nudo».
Nel video girato dal testimone oculare Magherini, che era un calciatore, promessa delle Fiorentina, si sentono le sue grida di aiuto. Roba che non deve essere vista, secondo l’avvocato dei carabinieri: «Si deve immediatamente interrompere questa ripetuta diffusione mediatica circa comportamenti non consoni dei militari - ha detto Maresca - che negano fortemente ogni addebito, e si mettono a disposizione del pm per ogni accertamento».
Luigi Manconi, senatore Pd e presidente della commissione Diritti umani del Senato, ha rivolto un’interpellanza ai ministro della Giustizia Orlando e della Difesa, Pinotti, per fare luce su quello che ritiene essere un nuovo caso Aldrovandi. Il senatore, con l’avvocato e i familiari, aveva mostrato le immagini di Riccardo e denunciato le incongruenze del comunicato, attribuito alla Procura, che negava le violenze persino nell’autopsia. Eppure, ha raccontato Manconi, dagli stessi uffici della Procura sarebbe stata inviata «una mail che affermava l’esistenza di “un fondato motivo di ritenere che almeno uno dei militari intervenuti abbia colpito il ragazzo con dei calci al fianco mentre era a terra ammanettato” ».
«Sulla morte di Riccardo Magherini va fatta la massima chiarezza», ha detto ieri la deputata del Pd, Simona Bonafè, «aspettiamo con fiducia che la giustizia faccia il suo corso. Le ipotesi di reato sono particolarmente inquietanti, per questo spero che tutti i dubbi intorno al decesso del quarantenne fiorentino siano risolti. Dobbiamo a Riccardo e alla sua famiglia un impegno straordinario a ricercare la verità. Per questo credo che l'iniziativa assunta dal senatore Manconi sia molto appropriata», conclude Bonafè. Anche in questo caso Carlo Giovanardi, senatore Ncd, solidarizza con i poliziotti, ritenuti vittima di «una lobby » contro di loro.

l’Unità 1.5.14
Il primo passo: codici identificativi per gli agenti
L’Unione Europea ha chiesto di garantire la riconoscibilità e misure per cui chi sbaglia non resti impunito. Funziona così ovunque, ma non da noi
di Massimo Solani


Il Parlamento europeo esprime preoccupazione per il ricorso a una forza sproporzionata da parte della polizia durante eventi pubblici e manifestazioni nell’UE; invita gli Stati membri a provvedere affinché il controllo giuridico e democratico delle autorità incaricate dell’applicazione della legge e del loro personale sia rafforzato, l’assunzione di responsabilità sia garantita e l'immunità non venga concessa in Europa, in particolare per i casi di uso sproporzionato della forza e di torture o trattamenti inumani o degradanti; esorta gli Stati membri a garantire che il personale di polizia porti un numero identificativo». Se c’è un punto da cui la politica può partire per dare risposte al grido di aiuto di Patrizia Moretti, è proprio questo: dall’articolo 192 della risoluzione sullo stato dei diritti umani in Europa approvata il 12 dicembre 2012 e dal suo richiamo agli stati membri per l’introduzione del codice identificativo per le forze di polizia. Un dibattito che in Italia si trascina da anni, in special modo da dopo il G8di Genova del 2001, e che dichiarazioni pubbliche a parte è rimasto sempre impantanato nella palude dei veti incrociati e dei no di parte dei sindacati di polizia e dei partiti di destra. L’ultimo episodio due settimane fa dopo gli incidenti di Roma alla manifestazione dei movimenti per la casa. Da una parte il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico che proponeva di «riflettere sull’introduzione di codici identificativi per i poliziotti impegnati in ordine pubblico», dall’altra il ministro Angelino Alfano: «Sono contrario. Anzi, se questi sono i manifestanti, l’identificativo lo metterei a loro e non alla polizia».
Quello che sfugge ai più nel dibattito sui codici identificativi, però, è che è stata l’Europa stessa a chiedere la sua introduzione. E a più riprese, visto che già nel Codice Europeo di Etica per la Polizia varato dal Consiglio d’Europa il 19 settembre 2001 attraverso una raccomandazione adottata dal Comitato dei ministri, all’articolo 45 si leggeva che «il personale di Polizia in occasione dei suoi interventi deve normalmente essere in grado di dar conto della propria qualità di membro della Polizia e della propria identità professionale». Lettera morta che l’Italia ha fatto finta di non vedere nonostante i richiami di Strasburgo e nonostante le numerose proposte di legge sul tema depositate in questi tredici anni. Le ultime, che risalgono a questa legislatura, portano una la firma del senatore Luigi Manconi e l’altra di alcuni deputati del movimento 5 stelle. In precedenza, invece, ne erano stati depositati uno nel 2002 dall’allora parlamentare di Rifondazione Comunista Elettra Deiana, un secondo nel 2008 ad opera di alcuni deputati Radicali e un terzo nel 2009 dai senatori del Pd Donatella Poretti e Marco Perduca. Diversi i testi, simile la formulazione identica la fine. Non se n’è fatto nulla.
«La mamma di Federico ha ragione a sostenere che la sola solidarietà da parte delle istituzioni non basta più e che la politica deve fare la sua parte per impedire il ripetersi di simili vergogne - spiegava ieri il senatore del Pd Miguel Gotor, componente della Commissione Diritti Umani - Anche per questo motivo sostengo il Ddl presentato dal senatore Luigi Manconi per introdurre un codice identificativo sui caschi e sulle divise delle forze dell’ordine a garanzia e nell'interesse di quella maggioranza di poliziotti e carabinieri che operano ogni giorno correttamente sul fronte della legalità; per isolare e sanzionare quanti commettono abusi e illegalità, mostrandosi indegni della divisa che portano». Ancora una volta, però, il fronte dei sindacati di polizia è spaccato. Se infatti dopo gli incidenti di via Veneto il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro spiegava che gli appartenenti alle forze dell'ordine «non hanno nulla da nascondere ed è dunque bene poterli identificare», non la pensano certo nello stesso modo alcune delle sigle più rappresentative fra gli agenti. «Affrontare questo argomento non ci spaventa, purché si apra il confronto», ribatteva infatti Daniele Tissone, segretario Silp Cgil. «Siamo contrari in maniera netta e anzi chiediamo telecamere sui caschi e magistrati presenti nelle manifestazioni per la convalida immediata dei fermi», è invece la tesi di Gianni Tonelli del Sap.
Nel frattempo, anche in questo, l’Italia si ritrova più o meno ultima mentre gli altri paesi si danno da fare. In Svezia, Norvegia e Danimarca è il numero di matricola è ben visibile sul casco mentre nomi, cognomi e qualifica sono stampati sulla divisa. In Belgio il cognome dell’agente si può leggere sulla visiera come accade nei Paesi dell’Est. Massima identificabilità anche in Slovenia, Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria e persino in Grecia. In Spagna, Guardia Civil e Policìa Nacional hanno l’obbligo del numeri di matricola sulle uniformi mentre in Inghilterra e Germania le regole variano da regione a regione. Da noi, invece, tante parole e nessun fatto. Per quanto ancora?

l’Unità 1.5.14
Il compito della politica e quello di una mamma
di Luigi Manconi e Valentina Calderone


CONSIDERIAMO DUE FRASI DI PATRIZIA MORETTI, MADRE DI FEDERICO ALDROVANDI. La prima è di ieri: «Ora tocca alla politica». È proprio così. Patrizia Moretti, per nove anni, è stata parte civile in un processo, testimone pubblica di un dolore infinito, esigente interlocutore soggetti istituzionali, voce che raccontava una verità inconfutabile, immagine di un bisogno insaziabile di giustizia. Poi, i responsabili della morte del figlio sono stati condannati in via definitiva, ma non è finita: Patrizia Moretti è stata oggetto di ignobili accuse e di insulti feroci. Anche a tutto ciò ha replicato con forza e intelligenza. Così, quando l'altro ieri un congresso «sindacale» ha applaudito a lungo i responsabili della morte del figlio, si è fatta carico ancora una volta di rispondere a quell'oltraggio. E ha detto basta. Non possiamo, noi tutti cittadini e ceto politico e intellettuale, partiti e istituzioni, delegare a lei la risposta più efficace a un’offesa crudele, inflitta non solo ai familiari di Federico ma allo Stato di diritto e alle stesse regole della convivenza civile. Spetta al Parlamento elaborare provvedimenti adeguati affinché quanto accaduto non si ripeta (l'introduzione del reato di tortura, il codice identificativo per gli operatori di polizia, nuovi criteri di formazione e selezione del personale, regole interne adeguate alla delicatezza del compito); e spetta a tutti noi vigilare affinché ciò che è capitato a Riccardo Magherini neanche due mesi fa in una strada di Firenze - e con modalità non troppo dissimili da quelle della morte di Aldrovandi - non si ripeta, non resti impunito e non cada nell’oblio.
La seconda frase di Patrizia Moretti è quella pronunciata nel corso di Che tempo che fa. A Fabio Fazio, che le chiedeva la ragione più profonda della sua determinazione, ha risposto: «Questo per me è semplicemente essere mamma». Tra queste due frasi, nella loro nitida essenzialità, si ritrova tutto il senso più autentico di una battaglia che non è né solo privata né solo pubblica e che non appartiene solo a Patrizia ma che, di Patrizia, non può fare a meno. Spiegano bene, cioè, com'è possibile che il legame di sangue e il sentimento più antico possano trasformarsi nella più significativa risorsa di azione pubblica, nel più efficace strumento di consapevolezza e nel più formidabile mezzo di accertamento della verità.
Ci si deve ricordare di quelle parole leggendo un libro straordinario come Una sola stella nel firmamento, appena pubblicato da Il Saggiatore. La psicoanalista Francesca Avon ha scritto il racconto di Patrizia Moretti, dei suoi sentimenti e delle sue emozioni ma anche dei fatti in tutta la loro drammatica durezza.
Il libro è stato scritto solo dopo la condanna definitiva dei quattro agenti, e non è un dettaglio da poco. Proprio perché, in questi lunghi anni, tutte le forze della «mamma» sono state finalizzate a quel risultato. E i suoi interventi pubblici, la sua presenza fisica e le sue parole sono state un insegnamento prezioso per tutti. E questo perché da una madre che perde un figlio ci si aspetta altro. Si vorrebbe, forse, che possa piangerlo nel silenzio della sua casa e nello spazio intimo dei suoi affetti: per cercare di superare, lì, l'immenso dolore che una tale tragedia porta con sé e che ammutolisce e annichilisce. Patrizia Moretti ci ha dimostrato che è possibile non vivere solo privatamente la propria lancinante perdita. Tra le molte lezioni che ci ha offerto, c'è questa: una donna che mette a disposizione della collettività tutte le sue energie, così come le sue debolezze, trasformandole in una occasione di maturazione pubblica.
La «trasformazione» di Patrizia può sembrare quasi naturale, ma non è affatto scontata. Nei primi momenti dopo la tragedia, i familiari pensavano che Federico fosse stato investito da una macchina, tanto il suo corpo era sfigurato. La fiducia sempre riposta nella giustizia li portava a dire: saranno fatte scrupolose indagini e la verità verrà infine accertata. Nulla di tutto questo sarebbe avvenuto se non perché Patrizia lo ha fortissimamente voluto e ottenuto. E questo libro ha il sapore di una conclusione, alla quale, ancora una volta, un fattore esterno (quegli applausi osceni) sembra volerla strappare. Ma resta questo libro: una sorta di esercizio terapeutico, di flusso di coscienza libero da costrizioni, che forse solo un testo scritto con una psicoanalista poteva consentire.
Non si può essere genitori orfani di un figlio e allo stesso tempo essere chiamati a fare gli avvocati, gli investigatori, i difensori. Patrizia Moretti è riuscita in tutto questo. E dopo questo, dolorosamente, a vivere.

il Fatto 1.5.14
Lo Stato dell’odio
di Antonio Padellaro


Cos’è oggi lo Stato? Uomini in divisa che ammazzano di botte (letteralmente) cittadini in difficoltà che allo Stato si erano affidati. Dov’è oggi lo Stato? Nella sala affollata di un sindacato della Polizia di Stato, che inneggia agli agenti condannati dai giudici dello Stato per aver massacrato il ragazzo Federico Aldrovandi. Solidarietà che un giorno potrebbe essere estesa ai loro colleghi nelle cui mani sono morti, tra urla disperate e nel silenzio, Giuseppe Uva, Stefano Cucchi, Michele Ferrulli, Riccardo Magherini. Dove non è oggi lo Stato? Accanto all’ispettore della Polizia di Stato, Roberto Mancini, che per primo indagò sui veleni della Terra dei Fuochi e che nelle centinaia di siti tossici esplorati contrasse quel tumore del sangue che lo ha ucciso e per il quale il ministero degli Interni, organo del governo dello Stato, gli riconobbe un risarcimento di 5 mila (cinquemila) euro. Sui testi di diritto viene definito Stato l’organizzazione sovrana di un popolo su un territorio. Di questo Stato conosciamo l’organizzazione, i falansteri nei quali si addensano agglomerati inestricabili di funzioni e mansioni e quasi mai fattezze umane. Anche la sovranità ci è nota, quella che i dignitari esercitano sui sudditi, a loro discrezione e se capita agli amici il favore, a tutti gli altri l’arbitrio. Ma il popolo, dov’è il popolo? Se ne parla diffusamente nella Costituzione, ma nella realtà non conta niente e subisce tutto. Tartassato dallo Stato esattore, vessato dallo Stato riscossore è soprattutto un popolo disoccupato che il Primo maggio festeggia il non lavoro, rintronato dalle promesse dei politici che dello Stato sono l’espressione più perniciosa, l’avanspettacolo che intrattiene mentre ti frugano nelle tasche. Che fa oggi lo Stato? Si fa odiare perché se provi a protestare e non stai attento finisci soffocato nel tuo stesso sangue a opera di quegli uomini dello Stato che difendono appassionatamente i colleghi assassini. Il loro applauso ci dice: noi siamo lo Stato e voi non siete nulla.

il Fatto 1.5.14
Li chiamano eroi: ma di cosa?
di Pino Corrias


RICAPITOLANDO: i poliziotti condannati per la morte di Federico Aldrovandi sono stati accolti dall’applauso di una intera assemblea di colleghi. Il cadavere del ragazzo a loro non risulta e se risulta si voltano dall’a l t ra parte. Della sentenza se ne fregano. Anzi pretendono la revisione del processo. E sono poliziotti. Silvio B. che in questi giorni si fa vedere in tv ridipinto come Scaramacai, dice che i giudici che l’hanno condannato sono golpisti, la sentenza è una vendetta, avere la grazia era un suo diritto, i servizi sociali sono una barzelletta, che nessuno si azzardi a rieducarlo. Sui quattro anni di condanna per frode fiscale ci farebbe volentieri la pipì sopra se cortesemente gli dessero un bagno personale a Cesano Boscone, non quello collettivo dei vecchietti. E stiamo parlando di uno che da sveglio dice di sé: “Sono un uomo delle istituzioni”. Infine ci sono due disgraziati di fucilieri da due anni sotto processo in India perché hanno fatto fuori due pescatori. Va bene la presunzione di innocenza, ma qui non passa giorno che le più alte cariche dello Stato, da Napolitano in giù, gli dedichino l’inno, l’inchino, gli onori, e li chiamino eroi. Ma eroi di chi, di cosa?

il Fatto 1.5.14
La brutta storia degli applausi
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, da tre giorni cerco di capire che senso, per quanto inaccettabile, possano avere quei cinque minuti di applausi in piedi tributati - durante un convegno sindacale di polizia - a tre agenti condannati in via definitiva per la morte di un diciottenne che avevano arrestato. Applausi perché, in nome di che cosa, per celebrare o rivendicare che cosa? C’è una storia che non sappiamo?
Monica
LA DOMANDA È GIUSTIFICATA da una evidente confusione di fatti accaduti, di regole e di valori, non conosciuti o ignorati, che devono avere fatto scattare quell'applauso in piedi (cinque minuti di applausi sono una eternità) per colleghi appena usciti di prigione, dopo una condanna inequivocabile confermata in tutti i gradi di giudizio. Il fatto è talmente disorientante che sembra impossibile capire. L’applauso non può essere ai poliziotti in quanto innocenti. Neppure i loro difensori lo hanno detto. Hanno detto e cercato di dimostrare che atti di restrizione del diciottenne Aldrovandi, benché eseguiti secondo le procedure ammesse, sono, purtroppo, risultati mortali. Dunque ciò che segna l’episodio di quella azione di polizia, su cui si possono avere giudizi diversi, ma nessuno di plauso, è la morte di un giovane arrestato mentre era fisicamente trattenuto e indifeso. Chi li sostiene può parlare di un maledetto infortunio e giurare che la morte non era e non poteva essere nelle intenzioni. Ma la morte c’è stata. Ora come si può applaudire in piedi per cinque minuti la morte di un giovane in stato di fermo? Un applauso alla morte? C’è una intervista in cui un funzionario - sindacalista continua a ripetere che l’applauso non era per la morte del giovane ma “per la verità”. Può un funzionario di polizia credere e affermare che, in tre gradi di giudizio, con un completo collegio di difesa, non si possa dire, far conoscere, diffondere, un’altra verità oltre quella che conoscono i giudici, i media e i cittadini italiani? Possono esserci sentenze ritenute ingiuste. Ma è possibile e accettabile che una parte non piccola della polizia (quella che si riconosce in quel sindacato) si rivolti con sprezzo e pubblicamente contro una sentenza, senza violare tutte le regole dell’appartenenza a un corpo che deve tutelare e garantire l’intero Paese a cominciare dalle istituzioni dello Stato, e dunque della Giustizia? Non ho parlato del dolore della madre che, purtroppo, è stato ignorato e offeso già in precedenti episodi. Ma possibile che non vi siano state istruzioni rigorose sul come comportarsi in situazioni simili, sotto gli occhi di tutti? Come vedete parlo di regole e non di sentimenti, e resto ancora, come tanti italiani, incapace di capire l’indifferenza e l’automatismo del gesto. Certo, l’intero quadro della vita pubblica italiana in questo periodo, in cui un ex capo di governo definisce ogni giorno “mostruosa” e “colpo di Stato” una importante sentenza che lo riguarda, è una cattiva scuola. Cattiva anche perché quell'ex continua a fare politica, a girare con la scorta, a minacciare, a concordare grandi decisioni politiche e a farsi ricevere come un leader politico normale su cui non pesa alcuna condanna definitiva e alcuna esclusione dai pubblici uffici. E ha la sua folla e i suoi applausi. Forse a quel quadro deforme della vita istituzionale italiana si sono ispirati i poliziotti condannati in via definitiva che si sono presentati a ricevere l'ovazione, e i loro colleghi che l’ovazione hanno tributato.

Corriere 1.5.14
La stagione delle stragi e la nostra glasnost doverosa
Ora occorre una legge che consenta a tutti di visionare gli atti pubblici
di Corrado Stajano


Le promesse non mancano mai in tempo di elezioni. Qualche volta meritano persino rispetto se l’intenzione è buona come nel caso della declassificazione o meglio della desecretazione anticipata dei documenti sulle stragi che hanno insanguinato il Paese dal 1969 agli anni Novanta del Novecento e oltre. Speriamo che adesso non si creda di trovare i famosi scheletri negli armadi della leggenda nera e che non nascano nei parenti delle vittime e in tutta l’Italia pulita dolorose illusioni di arrivare finalmente a conoscere chi sono i mandanti in carne e ossa.
Le carte, in gran parte, sono già state viste dai magistrati e dalle Commissioni parlamentari d’inchiesta. Si conosce più o meno la verità storico-politica delle tragedie, non quella giudiziaria. Ma forse spunterà qualche dettaglio sfuggito ai giudici, la prova di qualche compromissione in più di chi aveva il dovere di difendere la Repubblica e tradì invece la Costituzione. Si riuscirà anche a sapere o a capire chi e perché coprì gli uomini dello Stato che si macchiarono di gravi nequizie. Non altro. Gli assassini e i loro mandanti politici, infatti, non lasciano tracce o cercano di non lasciarle. Non esistono, si sa, gli atti notarili delle stragi. La liberalizzazione avviene più nel nome della memoria storica che della politica e della giustizia.
In che cosa consiste la declassificazione andata ora in porto. Si accorciano i tempi del deposito dei documenti che le diverse amministrazioni devono obbligatoriamente versare all’Archivio centrale dello Stato; vengono cancellati i quattro livelli usati per distinguerli, riservati, riservatissimi, segreti, segretissimi. Devono essere consegnati i documenti degli uffici escludendo quelli che potrebbero mettere in pericolo certe fonti d’informazione, confidenti e chissà chi. (Gli omissis seguitano a incombere). Poi una commissione mista — presidenza del Consiglio e Archivio di Stato — coordinerà i faldoni di carte destinate all’Archivio.
La direttiva ha disposto che il lavoro di selezione e di deposito riguardi la strage di piazza Fontana, l’esplosione e il deragliamento del treno del Sole a Gioia Tauro, la strage di Peteano, la strage di piazza della Loggia, la strage del treno Italicus a San Benedetto Val di Sambro, l’esplosione del DC 9 dell’Itavia a Ustica, la strage della stazione di Bologna, l’assassinio di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin a Mogadiscio.
Furono terribili anni di sangue e d’angoscia. Ma lo Stato, con qualche concessione all’emergenza, seppe tenere, si poteva ancora parlare di forza della democrazia. Queste date tombali non furono le sole perché dal 1969 al 1994 e anche dopo accaddero un’infinità di atti orrendi, una ragnatela di morte: tentati colpi di Stato, bombe, colpi di mano, colpi di mitra, il golpe Borghese, la morte dell’editore Feltrinelli, l’assassinio del commissario Calabresi, la strage della Questura di Milano, la Rosa dei Venti, il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. E poi la mafia politica, l’assassinio di Giorgio Ambrosoli, le Brigate rosse, Prima linea, l’assassinio di Walter Tobagi, la scoperta della P2 (mentre i giudici indagano sulla mafia), l’attentato al Papa, l’assassinio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, Gladio, gli assassinii di Cosa nostra, la morte di Falcone e Borsellino e di tanti altri innocenti.
La declassificazione è stata propagandata in modo enfatico, un po’ presuntuoso, quasi fosse la scoperta della luna. La nostra glasnost casalinga è diventata il simbolo assoluto della trasparenza, parola oggi di moda come i «paletti» di poco fa. È un doveroso punto di partenza, piuttosto, non un traguardo. I problemi non sono semplici. I documenti devono essere versati dalla presidenza del Consiglio, dai ministeri, la Difesa e gli Interni, soprattutto. E poi dai servizi segreti dal torbido passato, dai Carabinieri, dalla Polizia, dalla Guardia di finanza. Alcuni si chiuderanno a riccio nella difesa di se stessi, dei loro padri e fratelli. Non sarà facile obbligarli ai versamenti che rifiutano di fare. Non si possono inviare i caschi blu dell’Onu a prelevare le carte. E poi: chi potrà, con neutralità e con libertà di giudizio, selezionarle?
Una studiosa che lavora alla Direzione generale per gli archivi, Giulia Barrera, ha spiegato: ben venga la direttiva Renzi, ma bisogna riordinare tutta la materia introducendo limiti temporali certi per la classificazione la cui durata massima deve essere imposta dalla legge.
Il nostro è un Paese arretrato, con uno Stato da rammodernare, risanare, ricomporre. Un gruppo di studiosi, giuristi, tecnici dell’amministrazione, avvocati, professori, giornalisti ha preparato un progetto per introdurre anche in Italia il Freedom of information Act che permette a chiunque, anche privo di uno specifico diritto personale, di poter avere visione e conoscenza degli atti pubblici di ogni materia, in ogni luogo. In 80 Paesi — Europa, Asia, Americhe — il Freedom Act è già funzionante e proficuo. Forse anche noi dovremmo occuparci di più dei problemi della comunità, non siamo soltanto il Paese dei cuochi, del cibo, della moda.

Repubblica 1.5.14
Al terzo tentativo il “Salva Roma” è legge, la capitale obbligata al piano anti-deficit


ROMA Al terzo tentativo, dopo un percorso cominciato quando c’era ancora il governo Letta, il decreto legge salva Roma è legge. Il provvedimento è stato approvato dal Senato con 132 voti favorevoli, 71 voti contrari e 9 astenuti. Nella legge vengono aiutati molti comuni ma il finanziamento più cospicuo è per la Capitale, da mesi sull’orlo del fallimento. Il decreto ora prevede un piano di rientro dal debito per la città molto serrato. In tre anni bisognerà raggiungere l’obiettivo. Il sottosegretario alla presidenza Giovanni Legnini ha seguito tutte le tappe del provvedimento: «Roma è finalmente nelle condizioni di poter predisporre quel piano di riequilibrio finanziario, di cui il bilancio di previsione per il 2014 potrà costituire un primo passo». Il voto di ieri è stato molto contestato dal Movimento 5 stelle. Il sindaco Ignazio Marino può però tirare un sospiro di sollievo: «È un decreto che riguarda Roma solo per un articolo ma voglio ringraziare tutte le persone in Parlamento, prima alla Camera e poi al Senato a cominciare da chi addirittura ha dato la propria disponibilità a lavorare alla cabina di regia per il piano di rientro del Campidoglio».

La Stampa 1.5.14
Da Parigi a Londra con la cultura (italiana) c’è chi mangia
di Maurizio Assalto


Con la cultura non si mangia», ha sentenziato una volta l’allora ministro Tremonti. Sarà (è) vero in Italia, ma altrove c’è chi con cultura non solo si nutre, ma pasteggia a caviale e champagne. Spesso utilizzando proprio i beni culturali italiani.
Prendete il caso del Louvre. Ieri a Parigi è stata presentata alla stampa la mostra «Nascita di un museo», una sorta di preview delle opere in partenza per Abu Dhabi, dove nel dicembre dell’anno prossimo, sull’isola di Saadiyat (l’isola della felicità), aprirà la locale filiazione del museo parigino, nell’avveniristico edificio progettato da Jean Nouvel. Si va dall’antichità ai giorni nostri: ci sono, tra l’altro, un bracciale d’oro fabbricato in Iran 300 anni fa, una fibula di oro e granati dall’Italia del V secolo a.C., ma anche capolavori del nostro Rinascimento come una Vergine con Bambino di Bellini, e ancora quadri di Manet, Caillebotte, Gauguin, Magritte, un papier collé di Picasso, nove tele di Cy Twombly. Tutti pezzi acquistati dagli Emirati Arabi, con un impegno di 40 milioni di euro l’anno, da quando nel 2007 è stato firmata la convenzione con il Louvre.
Ma sono le cifre in gioco con il museo di Parigi a fare impressione. Per esempio: soltanto per potersi fregiare del nome «Louvre», per una durata trentennale, da Abu Dhabi verranno alla casa madre 400 milioni di euro; ai quali vanno aggiunti 190 milioni in dieci anni ai musei prestatori (oltre alle opere acquistate sul mercato, quelle fornite dallo stesso Louvre e da numerosi altre istituzioni francesi); 195 milioni in quindici anni per l’organizzazione di mostre temporanee; 164 milioni in vent’anni che andranno all’Agence France Museums per l’allestimento delle collezioni e la formazione di personale in loco. A Parigi si gozzoviglia.
Anche a Londra, però, non fanno la fame. La mostra-evento «Vita e morte a Pompei e Ercolano», andata in scena al British Museum da marzo a settembre del 2013, con materiali prestati dall’Italia dove in gran parte giacciono nei depositi, ha venduto 471 mila biglietti, risultando la terza più vista di sempre nel museo di Bloomsbury, dopo quella su Tutankhamon del 1972 (1,6 milioni) e quella sull’armata di terracotta cinese del 2007 (850 mila). L’incasso finale non viene rivelato, ma è stimabile in diversi milioni di sterline. A cui si devono sommare almeno altrettanti milioni di merchandising, più i proventi del film Pompei Live at the British Museum, vera e propria full immersion nella vita quotidiana della città distrutta dal Vesuvio nel 79 d.C., realizzato in proprio dal museo, costato l’equivalente di 100 mila euro e visto da oltre 53 mila persone soltanto nel Regno Unito, oltre che da 36 mila in mille cinema di 51 paesi: compresa - ironia o beffa - l’Italia, dove è approdato in oltre cento sale a fine novembre costringendo in qualche caso - come al Barberini di Roma, 10 mila euro in un weekend - a prolungare la programmazione per soddisfare le richieste.
Tutto questo mentre Pompei, quel che ne rimane, sprofonda nell’incuria perché «non ci sono i soldi». E perché noi - allora aveva ragione Tremonti - con la cultura non mangiamo. Auguriamo agli altri buon appetito.

il Fatto 1.5.14
La tortura mortale del condannato Clayton
Il nero, dopo l’iniezione letale agonizza per 43 minuti
di Angela Vitaliano


New York. Dopo la prima iniezione, Clayton Lockett, martedì sera, aveva chiuso gli occhi: lo stadio iniziale, prima che il resto del cocktail mortale gli fosse iniettato per togliergli l’ultimo respiro vitale. Dieci minuti: tutto regolare, con i presenti che assistono silenziosi, grazie a quella macabra tradizione legata alla pena capitale che consente di essere pubblico di un omicidio. Poi qualcosa comincia ad andare storto e il respiro di Lockett non è più “sereno” ma agitato e affannato, i denti si stringono in una smorfia orribile e la mano si solleva come a chiedere aiuto. Una parola, una sola esce dalla bocca, ben percepibile: “Oh, man” che in americano ha, in certi casi, valore di imprecazione o di sorpresa. La sorpresa di un dolore non atteso, di una morte non arrivata.
Qualcuno capisce che c’è un problema in atto e si affretta ad abbassare le tende, a mettere una barriera di decoro fra gli sguardi e l’oscenità di una sofferenza atroce. Decoro, ma anche tentativo di proteggere quel “pasticcio” da sguardi indiscreti, da domande inevitabili; tende abbassate per ritrovare un senso, se un senso ci può essere, a quella inumana sofferenza. Per 43 minuti, dopo quella prima iniezione, il corpo di Clayton è rimasto sospeso fra la vita e la morte, molto e più drammaticamente di quanto non lo sia stato in tutti gli anni nel “braccio della morte”.
Poi il cuore ha ceduto al dolore. L’autopsia, effettuata ieri, confermerà dettagli che aiuteranno a definire quanto lontani ci si è spinti da quei “critieri di umanità” che, anche Jay Carney, portavoce della Casa Bianca, ha detto ieri, “non sono stati rispettati”. Per porre fine alla vita di Lockett, era stato predisposto l’utilizzo di un cocktail letale mai usato prima, sebbene sperimentato in altri stati, che ha come componente principale il midazolam. La dose che era stata scelta per il condannato, prevedeva 100 milligrammi mentre, a esempio, in Florida, uno degli Stati, dove è stato utilizzato “con successo”, ne vengono solitamente usati ben 500 milligrammi.
L’esecuzione di Lockett era fissata giusto due ore prima di quella di Charles F. Warner, che ora è stata sospesa per almeno due settimane. L’avvocato di Warner ha denunciato il fatto che non siano state fornite le informazioni basilari relative alla combinazione sperimentale di medicinali che compongono il cocktail letale usato per indurre la morte.
SPIEGA ROBERT PATTON, dell’Oklahoma Department of Corrections, a proposito di Clayton, “avevamo iniziato ad iniettare il secondo e il terzo medicinale previsti dal protocollo, quando abbiamo cominciato ad avere dei segnali che non stavano funzionando. Cosi il dottore ha costatato che la vena del condannato era esplosa”. La brutalità dell’esecuzione di martedì sera, se non altro, è già servita a riaccendere il dibattito, sempre più pressante nel paese, sulla pena di morte che vede crescere il fronte di oppositori. Solo lunedi, peraltro, era stato pubblicato uno studio secondo cui il 4% dei condannati alla pena capitale negli Stati Uniti, è probabilmente innocente . “La maggior parte degli innocenti che sono condannati al braccio della morte, non saranno mai identificati e liberati”, ha detto Samuel Gross, uno degli autori dello studio e professore all’Università del Michigan, uno dei pochi Stati Usa in cui non è mai stato giustiziato nessuno e, dove, la pena di morte è stata abolita nel 1846. I responsabili dello studio, hanno rivisto il risultato di 7.482 condanne a morte emesse fra il 1973 e il 2004: di questi condannati, 117 sono stati scagionati e, secondo gli autori, con più tempo a disposizione, lo stesso risultato avrebbe riguardato, appunto, il 4% dei casi. Secondo gli autori, molti condannati a morte riescono ad ottenere una prima revisione dei loro casi con la trasformazione della pena in ergastolo. A quel punto, troppo spesso, mancano energie e risorse economiche per puntare a processi che potrebbero dimostrare una totale innocenza.

La Stampa 1.5.14
Usa, un condannato su 25 è innocente
Uno studio pubblicato in “Proceedings of the National Academy of Sciences” rivela che dal 1973 a oggi almeno 200 detenuti sarebbero stati liberati, se avessero ricevuto l’assistenza legale necessaria a portare i loro ricorsi fino alla conclusione
Nella maggior parte dei casi si tratta di errori giudiziari
di Paolo Mastrolilli

qui

La Stampa 1.5.14
Usa, il Senato a maggioranza dem blocca l’aumento del salario minimo
Slitta il tentativo di aumentare lo stipendio a 10,10 dollari all’ora

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l’Unità 1.5.14
Nigeria, vendute le ragazze rapite
di U.D.G.


Vendute per 12 dollari. Prede per miliziani stupratori. Duemila naira, equivalenti a 12 dollari: questo il prezzo chiesto per ciascuna delle studentesse nigeriane rapite due settimane fa in Nigeria e vendute come mogli ai combattenti islamici nei vicini Camerun e Ciad. È quanto ha riferito un leader locale della città di Chibok, nel nord-est della Nigeria, dove il 14 aprile è avvenuto il sequestro di almeno 220 ragazze, portate via da uomini armati in piena notte da una scuola secondaria. Familiari e abitanti della città hanno denunciato l’indifferenza del governo verso la vicenda e hanno condotto nei giorni scorsi ricerche nella vicina foresta Sambisa, noto covo dei miliziani islamici, mentre ieri in centinaia hanno sfilato nella capitale per chiedere un’azione decisa per salvare le ragazze.
I miliziani usano le donne come facchini, cuoche e schiave del sesso. Le notizie, racconta Halite Aliyu del Forum del popolo di Borno-Yobe, provengono da abitanti dei villaggi nella foresta Sambisa, sul confine con il Camerun dove Boko Haram ha i suoi nascondigli. «Le ultime informazioni rivelano che sono state portate oltre confine, alcune in Camerun e in Ciad», ha aggiunto Aliyu, mentre le notizie non possono essere verificate in modo indipendente. Intanto, dure critiche sono piovute sul governo e sull’esercito nigeriani per non essere riuscito a portare in salvo le ragazze, sequestrate due settimane fa nella scuola, dove erano tornate per sostenere un esame. Cinquanta di loro sono riuscite a fuggire da sole durante il rapimento, ma delle altre si sono perse le tracce.
Il Senato nigeriano ha chiesto all’Onu e all’Ecowas di intervenire urgentemente per aiutare a salvare le 224 studentesse rapite dal liceo femminile «Chibok». Il presidente della Camera alta, David Mark, ha anche chiesto al presidente Jonathan di lanciare un’offensiva militare contro Boko Haram. Mark ha affermato: «Non ci sono dubbi che la nazione sia in guerra. Il nemico ha chiaramente mostrato al Paese le sue vili intenzioni. Unadecisiva e inequivoca risposta militare da parte del governo, con l’imposizione di uno Stato di emergenza, è urgentemente necessaria in questa circostanza. I ribelli vogliono distruggere lo Stato laico e il Paese. Per loro una Nigeria moderna, vibrante, progressista, multietnica e multireligiosa è un anatema. Sono accecati dal fanatismo e dall’estremismo e non si fanno influenzare da alcuna apertura. D’ora in poi non dovremo combattere i terroristi, ma l’insurrezione».

Corriere 1.5.14
Nigeria, solo il coraggio delle donne contro i rapitori di studentesse
di Alessandra Muglia


Non è bastata la pioggia torrenziale a soffocare la loro voce. Al grido di «riportate a casa le nostre ragazze» ieri è andata in scena la marcia delle donne nigeriane. In diverse centinaia (poche per la verità rispetto al milione annunciato) hanno sfidato l’acqua per protestare nelle vie della capitale, Abuja. Volti disperati, per l’inefficienza del governo che, a due settimane dal rapimento di oltre 200 studentesse in un liceo del Borno, non è riuscito a mettere in sicurezza le ragazze, finite nelle mani dei Boko Haram, gli estremisti islamici che prendono di mira le scuole perché le considerano eredità dei colonizzatori occidentali.
La mobilitazione delle donne nigeriane, iniziata su Twitter (#BringBackOurGirls), reclama più attenzione internazionale sulla tragedia di un intero Paese ostaggio dei terroristi islamici (1.500 vittime dall’inizio dell’anno). Il presidente Jonathan finora non è andato oltre ottimistiche previsioni di sconfitta del fenomeno e la denuncia degli appoggi di cui gli estremisti godono a livello politico e tra la gente al Nord, dove sono radicati. In effetti le atrocità compiute dai Boko Haram sono come l’espressione deviata di un sentimento condiviso dalla maggior parte dei 177 milioni di nigeriani: il senso di esclusione dal benessere di base che la prima economia del continente dovrebbe garantire ai suoi abitanti. Invece nel Paese che galleggia sul petrolio il 70% dei suoi cittadini vive con meno di 2 dollari al giorno e gode di scarsi servizi pubblici, istruzione compresa. La maggior parte delle scuole statali prevede tasse abbordabili soltanto dalle famiglie più facoltose, mentre le «madrasse» africane sono gratuite: circa 23 milioni di giovani nigeriani le frequentano.
Ma l’urgenza di un cambio di marcia nella gestione delle risorse pubbliche (fa ben sperare la presenza della ministra delle Finanze, Ngozi Okonjo-Iweala, per Time tra le 100 persone più influenti al mondo per la sua lotta alla corruzione) non può far passare in secondo piano la necessità di un’offensiva militare contro gli estremisti, come chiesto proprio ieri dal presidente del Senato nigeriano. Una piccola grande vittoria per le donne bagnate di Abuja.

l’Unità 1.5.14
Pagine d’orrore in Sud Sudan: «Rischio genocidio»
L’Onu denuncia l’impiego di 9000 bambini soldato. Ban Ki-Moon: «Non sarà un nuovo Ruanda»
Le testimonianze da Bentiu di Medici senza frontiere: «Indicibili atti di violenza»
di Umberto De Giovannangeli


Un orrore senza fine. Racconti dall’inferno, e da un genocidio annunciato, modello Ruanda. È il Sud Sudan, dove nell’inazione complice della comunità internazionale si sta consumando una escalation della brutalità, soprattutto contro i civili. Un team dell’organizzazione umanitaria Medici senza Frontiere la settimana scorsa ha visitato la città di Bentiu, dove i cadaveri erano disseminati per le strade in macabro stato di decomposizione, mangiati da cani e uccelli, un affronto all’umanità. Raccapriccianti «omicidi mirati», anche al Bentiu State Hospital, dove sarebbero state uccise 33 persone. I pazienti arrivano nelle cliniche di Msf in cerca di cure per le ferite. «Terrorizzati, descrivono come sono stati costretti a fare scelte terribili su quali bambini far fuggire e quali lasciare indietro», racconta Chris Lockyear, responsabile delle operazioni. Questa è la testimonianza dell’inviato speciale dell’Onu, Ivan Simonovic, che è appena rientrato da un sopralluogo nel Paese compiuto a capo di un gruppo di osservatori. «Entrambi gli schieramenti in lotta in Sud Sudan, l’esercito da un lato e i ribelli dell’ex vicepresidente Riek Machar dall’altro, si sono macchiati di atrocità e abusi sulla popolazione civile… Bor e Bentiu sono due città fantasma», si legge nel rapporto che si riferisce ai capoluoghi degli stati di Jonglei e Unity, teatro di violenti scontri. «La città di Bor è deserta, ma Bentiu è anche peggio - continua il rapporto -. Praticamente non esiste più. Non solo è stata saccheggiata, ma anche interamente bruciata… Anche da Malakal arrivano notizie di saccheggi e di violenze sui civili e di combattimenti, ancora molto forti, con uso di artiglieria pesante».
CAMPI ABBANDONATI
L’Alta commissaria delle Nazioni unite per i diritti umani, Navi Pillay, si dice sconcertata dall’apparente mancanza di preoccupazione delle autorità del Sud Sudan per il rischio dell’incombente carestia. La stagione delle piogge sta per iniziare nel Paese,mala guerra che ha costretto oltre un milione di persone a fuggire dalle proprie case ha fatto sì che quasi nessuno sia rimasto a coltivare i campi. «La prospettiva di fame e malnutrizione inflitta a centinaia di migliaia di persone, a causa del loro personale fallimento nel risolvere pacificamente le loro divergenze, non sembra preoccuparli molto», ha detto Pillay, riferendosi al presidente Salva Kiir e all’ex presidente Riek Machar. Ha parlato in conferenza stampa a Giuba, lanciando l’allarme sul fatto che la nazione è sull’orlo della catastrofe a causa dell’ondata di violenze iniziate a dicembre. Secondo Toby Lanzer, massimo ufficiale Onu in Sud Sudan, il conflitto ha messo a rischio fame 7 milioni di persone. «Aprile e maggio sono il periodo in cui seminare. Aprile è dietro di noi. Resta solo maggio per permettere alla gente di preparare i campi e tentare di assicurare che ci sia un raccolto alla fine del 2014», ha dichiarato. Pillay ha quindi accusato entrambe le fazioni di aver reclutato bambini soldato, «oltre 9mila», senza dimenticare i minori «uccisi durante gli attacchi indiscriminati ai civili da entrambe le parti ». «Inoltre - ha proseguito - 32 scuole sono nelle mani delle truppe di entrambi i lati, una ventina di centri di salute sono stati attaccati emolte donne e ragazze sono state violentate o rapite». Ieri mattina dal consigliere speciale dell’Onu per la prevenzione dei genocidi, il senegalese Adama Dieng, è arrivata la promessa che il Sud Sudan non diventerà un nuovo Ruanda. Dopo aver visitato le zone dei massacri etnici dei giorni scorsi nel più giovane Stato del mondo, Dieng ha spiegato che il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-Moon è «fortemente preoccupato e assicurerà che quanto accaduto in Ruanda», con il massacro di centinaia di migliaia di persone, non si ripeta in un’altra zona di questo continente». Le Nazioni Unite hanno più volte lanciato l’allarme per le sorti del Sud Sudan, scosso da una gravissima crisi umanitaria che finora ha provocato più di 1,2 milioni di sfollati, tra i quali quasi 300mila civili fuggiti nei Paesi circostanti.

l’Unità 1.5.14
2014, la Cina sorpassa l’economia a stelle e strisce
Il primato cinese era atteso per il 2019, gli Stati Uniti perderanno il titolo che detenevano dal 1872
Ma Washington punta sull’Asia per contrastarlo
di Gabriel Bertinetto


Sino a ieri politici e imprenditori americani si illudevano di avere davanti ancora cinque anni per mantenere il primato economico mondiale ed evitare il sorpasso cinese atteso dagli esperti per il 2019. Oggi apprendono che non restano che pochi mesi. Entro l’anno la Repubblica popolare rimpiazzerà gli Usa al vertice della classifica che la Banca Mondiale periodicamente aggiorna per calcolare grandezza e potenza economica dei singoli Paesi. L’annuncio è il piatto forte di un ricco menu di dati statistici contenuti in uno studio dell’International Comparison Program (Icp, Programma di comparazione internazionale). Se nel 2005 l’Icp attribuiva all’economia cinese una dimensione pari al 43% di quella statunitense, nel 2011 il rapporto era salito all’87%. Considerando che negli ultimi trentasei mesi il prodotto interno lordo è cresciuto del 24% in Cina e solo del 7,6% negli Usa, i ricercatori concludono che il lungo inseguimento è concluso.
A Washington qualcuno contesterà l’esattezza dei conteggi, che potrebbero dare risultati parzialmente diversi se l’Icp avesse calcolato la forza delle singole economie secondo i criteri tradizionali. Gli studiosi della Banca Mondiale ritengono però che i loro metodi portino a descrizioni molto più precise della realtà concreta, perché prendono in considerazione soprattutto il costo della vita e il potere d’acquisto effettivo, correggendo gli errori di valutazione legati ai tassi di cambio fra le monete.
Rompicapo per specialisti. È un fatto comunque che il divario fra le due superpotenze si sia da tempo ridotto in ogni terreno: nella produzione, nel commercio, nel progresso tecnologico, così come nella forza militare e nella rilevanza politico-diplomatica. Obama considera la Cina il suo principale rivale ed interlocutore internazionale. All’insegna dello slogan «Pivot to Asia», da tre anni la politica estera americana ha posto i rapporti con l’altra sponda del Pacifico al centro dei propri interessi.
Il capo della Casa Bianca è appena tornato da un viaggio nelle capitali di quattro Paesi asiatici amici: Giappone, Corea del Sud, Malaysia, Filippine. Ciascuno di questi ha un rapporto variamente conflittuale con la Cina. Per vecchie irrisolte questioni legate al conflitto mondiale Per dispute relative alla sovranità su isole e tratti di mare. Per la tendenza di Pechino a manifestare sempre più frequentemente la volontà di imporsi come potenza asiatica egemone.
Obama ha assicurato il premier nipponico Shinzo Abe di sentirsi vincolato dal trattato bilaterale di sicurezza a difendere il Giappone contro la Cina qualora dovesse esplodere la contesa sulle isole Senkaku, che Pechino chiama Diaayu e rivendica come sue.A Manila il presidente Usa ha firmato un accordo che permetterà alle truppe a stelle e strisce un più facile accesso alle basi, ai porti e alle installazioni aeree nell’arcipelago. «Lavoreremo assieme per migliorare le capacità difensive delle Filippine e opereremo con altre nazioni per promuovere la stabilità regionale, ad esempio nel mare della Cina meridionale». Manila può stare tranquilla sul sostegno Usa qualora chiedesse l’arbitrato dell' Onu nella disputa su Scarborough e altri atolli che Pechino considera suoi.
Obama afferma che «il nostro scopo non è contenere la Cina ma assicurare il rispetto delle norme internazionali». Se il tema è stato continuamente sollevato durante il suo tour asiatico è perché, al di là dei distinguo e delle cautele diplomatiche con cui Washington cerca di ammorbidire gli attriti, la centralità asiatica nella politica estera americana e la rivalità con la Repubblica popolare sono fatti acquisiti. Sul piano militare come su quello economico. I Paesi di quel continente sono la destinazione principale delle esportazioni statunitensi, ed entro la fine del decennio il 60% della flotta Usa sarà dislocata nel Pacifico.
LIBERO SCAMBIO
Con i leader di Tokyo, Seul, Manila e Kuala Lumpur, Obama ha parlato intensamente di affari e di collaborazione commerciale. Il disegno americano è cementare un’immensa area di libero scambio da un versante all’altro dell’Oceano Pacifico. Assieme ad Usa, Canada e alcuni Stati latinoamericani includerebbe Australia, Nuova Zelanda, una parte delle nazioni del sud-est asiatico e il Giappone. Il progetto ha potenzialità di sviluppo enormi. I dodici partecipanti a questa Partnership TransPacifica (Tpp) nel loro insieme sfornano il 60% della ricchezza prodotta sul pianeta e coprono un quarto dell’import- export mondiale. Se il piano andasse in porto, nascerebbe la più grande area di libero scambio sinora mai creata. La Cina ne sarebbe esclusa. Le aziende americane fruirebbero di corsie preferenziali nei rapporti con Paesi nei quali, per contiguità geografica (il Giappone) o la presenza di forti comunità cinesi (ad esempio la Malaysia), Pechino ambirebbe ad accrescere ulteriormente la sua presenza. Se Pechino sta per superare Washington nella graduatoria economica della Banca Mondiale, Washington è impegnata in un gigantesco sforzo per tenerle testa.

Repubblica 1.5.14
La Cina prima economia del mondo
La superpotenza che nasconde i suoi poveri
Il Pil sale meno del previsto, ma dopo la recessione globale basta per il primato
I nuovi dati statistici sono il simbolo del cambio di un’epoca Comanda il capitalismo di Stato, sarà il secolo dello yuan
di Giampaolo Visetti


PECHINO. La Cina, entro il 2014, potrebbe superare gli Stati Uniti e diventare la prima potenza economica del mondo. Il sorpasso era previsto nel 2019, ma l’accelerazione della crescita cinese, unita al rallentamento di quella Usa, potrebbe anticipare di cinque anni un passaggio di consegne che diventa il simbolo statistico del cambio di un’epoca. Washington detiene il primato economico dal 1872, anno in cui lo ha rilevato dalla Gran Bretagna. Se il 1800 è stato il secolo del colonialismo e della corona inglese e il 1900 quello del dollaro e della democrazia americana, il 2000 si conferma quello dello yuan e dell’autoritarismo di mercato cinese. Per la prima volta, a indirizzare il destino dell’economia mondiale, sarà una potenza comunista sostenuta da un capitalismo di Stato, ma pure una nazione in via di sviluppo e con un reddito pro capite tra i più bassi del pianeta.
Ad annunciare il sorpasso, uno studio del Programma di comparazione internazionale della Banca Mondiale. Ma dai dati emerge anche che alla super- potenza più ricca del mondo corrisponde uno dei popoli più poveri. Effetto senza precedenti dei modelli matematici. Per la prima volta gli analisti hanno valutato il costo reale della vita, sostituendolo al tasso di cambio ed aggiornandolo a dopo il 2005. È emerso che nel 2012 il Pil cinese è stato pari a 8,2 miliardi di dollari, contro 16,2 miliardi di quello Usa. Il Fondo monetario internazionale stima che nel quadriennio 2011-2014 la crescita di Pechino sarà del 24%, rispetto al 7,6% di Washington. È dunque la differenza di velocità della crescita a proiettare la Cina al primo posto per volume complessivo di ricchezza.La nuova statura globale della Cina non rispecchia però la realtà interna. Quella che i mercati considerano già la prima economia del pianeta, vanta un reddito annuo pro capite di appena 2 mila euro, che la pone al 110° posto al mondo. Nei villaggi rurali si guadagnano mille euro all’anno, un terzo rispetto al reddito nelle città, 26 volte meno della media Usa. Alla quantità totale della ricchezza non corrisponde dunque la qualità reale del tenore di vita, che vede esplodere il divario tra ricchi e poveri.
Le stime della Banca mondiale potrebbero inoltre essere smentite dai fatti. Nel decennio d’oro 1998-2008, la crescita cinese si è mantenuta al di sopra del 10%. La crisi finanziaria di Stati Uniti ed Europa, con il calo dei consumi, ha travolto un sistema fondato sull’export low cost. Nel 2013 la crescita del Pil ha frenato al 7,7%, quasi la metà rispetto al 2006, la più bassa da un decennio. Per l’anno in corso Pechino ha fissato il target al più 7,5%, ma il primo trimestre si è fermato al 7,4%. La Cina potrebbe così mancare il sorpasso sugli Usa, o centrarlo nel pieno della crisi del proprio modello di sviluppo. A confortare Pechino, i due “primati impossibili” raggiunti lo scorso anno. Dopo oltre un secolo è tornata ad essere il primo mercato mondiale del commercio, con un volume di beni esportati pari a 4.160 miliardi di dollari. E in ottobre lo yuan è diventata la seconda valuta globale per transazioni finanziarie, dietro il dollaro. L’atteso sorpasso anticipato Pechino-Washington serve dunque a definire il nuovo peso di economie e mercati in crescita, i mutati equilibri all’interno delle organizzazioni internazionali, dall’Fmi alla Banca mondiale. Resta incomparabile il tenore di vita reale, con il mondo ricco che possiede il 50% del Pil globale e il 17% della popolazione. Una sfida per giustizia sociale e diritti umani che la Cina, nel prossimo decennio, senza riforme profonde difficilmente potrà vincere.

Il Sole 1.5.14
Super-Cina
Quando l'economia del mondo cambia verso
di Fabrizio Galimberti


Le classifiche - siano le Hit Parade degli album che le graduatorie dei muscoli economici delle nazioni - sono sempre succose. E quella dell'Icp (International Comparison Program, un progetto statistico ospitato dalla Banca mondiale) non fa eccezione. Tanto più quando un celebrato primattore, che svettava in cima alla classifica del Pil dal 1872, sta per essere spodestato dal primo posto nel podio: gli Stati Uniti nel 2014 dovranno, con ogni probabilità, lasciare il trono alla Cina.
La notizia si presta a precisazioni tecniche e a commenti politici. Vediamo dapprima le prime, anche se rischiano di raffreddare gli ardori del confronto. Intanto, i dati dell'Icp si riferiscono al 2011, ma il sorpasso avviene solo quest'anno se si aggiornano quei dati di partenza con i tassi di crescita dei rispettivi Pil: una procedura che pone qualche problema di metodo, ma che è, in mancanza d'altro, accettabile. Il confronto non fa ricorso ai cambi di mercato (gli Usa conserverebbero di gran lunga il primo posto) ma ai cambi a parità di potere d'acquisto (ppa). Come sa chiunque vada, per esempio, in Thailandia e si stupisca di quel che si può acquistare cambiando 100 euro in valuta locale, i cambi di mercato non sono una buona guida al potere d'acquisto delle monete. Bisogna correggerli tenendo conto del livello dei prezzi in ciascun Paese. Diventa quindi più corretto, se si vuole confrontare il Pil di un Paese col Pil di un altro Paese, usare i cambi ppa.
Il Pil ppa rimane comunque un costrutto statistico (anche il Pil "normale" lo è: basta ricordare che nelle settimane scorse la Nigeria ha ricalcolato il Pil, quasi raddoppiandolo e diventando così la prima economia africana, scavalcando il Sudafrica). I problemi di metodo e di stima del Pil ppa sono immensi, a partire dalla costruzione di un paniere comune di beni e servizi da usare per correggere i cambi col livello di quei prezzi. Per questo l'ampia introduzione al rapporto Icp onestamente avverte che differenze fino al 5% fra i Pil ppa di Paesi simili (mettiamo, Francia e Italia) non sono significative ai fini della classifica; mentre, per Paesi dissimili come Stati Uniti e Cina, il caveat si allarga fino a differenze del 15 per cento!
Bisogna concludere, riduttivamente, che la differenza nel 2014 fra la stazza delle economie cinese e statunitense non è statisticamente significativa? Non sarebbe giusto dirlo, perché l'avvicinamento comunque c'è e anche se il magico sorpasso dovesse darsi nel 2015 o nel 2016, il primo posto nel podio è inevitabile per il Celeste Impero. Ma quanto è significativa, dal punto di vista geopolitico, questa premiazione dei vincitori nella gara del Pil? Quanti rimpiangono lo spodestamento degli Usa avrebbero molte cose da dire: gli Stati Uniti rimangono la prima potenza militare; negli usi e costumi è la Cina che si va americanizzando e non viceversa; soprattutto, le istituzioni americane sono solide e temprate, mentre la Cina deve affrontare una perigliosa transizione verso forme di governo più rispettose dei diritti civili (fra cui c'è anche quello di non respirare aria inquinata da un modello di sviluppo insostenibile).
Tuttavia, il passaggio del testimone è, o sarà a breve, un evento storico. Non è solo la Cina a fare la corsa. Sono i Paesi emergenti - l'Asia in primo luogo - che crescono, e non da oggi e come è normale, più rapidamente delle economie avanzate. Qualche settimana fa il Fondo monetario ha pubblicato il suo rapporto semestrale (il World Economic Outlook) e pochi si sono accorti che nell'appendice statistica vi era un numerino che avrebbe dovuto fare scalpore: per la prima volta nella storia il peso delle economie avanzate nel Pil mondiale (stime 2013) era sceso sotto il 50% (a 49,6%). Un passaggio che simboleggia, accanto alla saga statistica Usa-Cina, uno spostamento nel baricentro dell'economia del pianeta. Le tradizionali correnti di scambi stanno cambiando: il cosiddetto South/South (anche se non geograficamente corretto, si tratta degli scambi all'interno dell'area emergente) diventerà sempre più importante. I Paesi occidentali, e in primis l'Italia, sono chiamati a cavalcare questa nuova fase di una inarrestabile globalizzazione. Senza rimpianti o ripari e guardando alle opportunità - partenariato e sbocchi - più che ai pericoli.

il Fatto 1.5.14
Cina. Bomba durante la visita del Presidente
Tre Morti

Almeno tre persone sono morte e altre 179 ferite per un’esplosione avvenuta nella stazione di Urumqi, la capitale dello Xinjiang, la provincia dove sono attivi i gruppi terroristici uiguri. L’attacco è avvenuto durante la visita nella regione del presidente Xi Jinping. LaPresse

Corriere 1.5.14
Rizzolatti, il re dei neuroni specchio
«In Italia mi trattano da impiegato»
Oggi avrà l’Oscar della scienza: i professori si valutino ogni cinque anni
intervista di Cristina Gabetti


Giacomo Rizzolatti è una star della scienza. La sua scoperta dei neuroni specchio, che ha posto le basi fisiologiche dell’empatia, appassiona ricercatori e professionisti di ogni campo. Oggi a Copenaghen la principessa Mary di Danimarca gli consegna il Brain Prize, premio nato solo nel 2011 ma già autorevole. Quest’anno è stato assegnato a scienziati che si sono distinti nella ricerca sui meccanismi superiori del cervello e per l’impegno nello studio dei disturbi cognitivi e comportamentali. Insieme a Rizzolatti saranno premiati il francese Stanislas Dehaene, e l’inglese Trevor Robbins.
Professore, cosa significa per lei questo premio?
«Sono contento sia per me sia per la scienza italiana, che nonostante le difficoltà rimane di alto valore. Inoltre, mi ha fatto piacere riceverlo da un Comitato di cui presidente è Colin Blakemore, professore a Oxford per molti anni e con il quale, in passato, siamo stati un po’ competitor. Bello, no? Aver superato una piccola rivalità nel nome di valori più alti. Poi la cifra è ingente».
Un milione di euro, più ricco del Nobel che ultimamente è stato ridotto.
«Il Brain Prize è stato istituito da una ditta farmaceutica, la Lundbeck, con molti mezzi a disposizione. È specializzata in psicofarmaci per malattie del sistema nervoso; anche per questo si interessa di neuroscienze cognitive, campo che peraltro è abbastanza trascurato dal Premio Nobel, non per cattiveria o partigianeria, ma perché l’Accademia svedese è formata prevalentemente da esperti in fisiologia cellulare che capiscono meglio l’importanza di una ricerca nel loro campo».
Come pensa di destinare la somma?
«Sarebbero tutti soldi miei, però non mi sembra giusto mettermeli in tasca. Pensavo di destinarne una parte a un fondo per la ricerca per il Dipartimento di neuroscienze. La burocrazia è diventata insopportabile e l’unica soluzione per lavorare bene è di avere fondi al di fuori dell’amministrazione universitaria. Pensi che nel nostro dipartimento c’e un canadese che voleva comperare un pezzo di plastica, gli occorreva per un esperimento. Costo, trenta euro. Ci hanno detto che dovevamo seguire la trafila stabilita di una “spending review”. Attesa: un paio di settimane. O paghiamo di tasca nostra o smettiamo di lavorare. Non le dico se uno ha bisogno di una prestazione professionale! Deve chiedere il permesso al rettore, che deve fare un annuncio a tutta l’università per vedere se qualcuno si presta gratuitamente, dopodiché, ovviamente nessuno si presta, si istituisce il concorso, si aspettano 20 giorni perché il bando diventi pubblico, si fa il concorso che, concluso, va alla Corte dei conti per l’approvazione. Se voglio un’analisi statistica devo aspettare tre mesi. In Germania l’hai in un giorno. Ci trattano come il catasto o il ministero dei Trasporti, dove forse è logico contenere al massimo i prezzi, ma per un pezzettino di plastica...»
Per le spese ordinarie ci dovrebbe essere un responsabile di dipartimento che verifica che non si sperperi.
«Certo, ma l’Amministrazione Universitaria non si fida. Nei paesi anglosassoni si va sulla fiducia — chiaro che se fai qualche cosa di male poi sei finito. Da noi tra spending review e la legge Gelmini è praticamente impossibile lavorare. Il fondo che voglio creare servirà anche per queste piccole cose».
Come lo chiamerà? The Giacomo Rizzolatti Foundation?
«(Ride) Oddio, detto così suona un po’ “grand”, diciamo Foundation for Parma Neurosciences; il mio ramo, avendo meno ricadute mediche, ha più difficoltà ad accedere a fondi privati per la ricerca rispetto a quello cellulare o molecolare, più vicino all’industria».
Quali dei progetti in corso nel suo dipartimento la entusiasmano di più?
«Come possibilità futura m’interessa la ricerca che facciamo con l’ospedale Niguarda a Milano: registrare l’attività di singoli neuroni nell’uomo. È una tecnica di avanguardia che stiamo mettendo a punto. Il Centro per l’Epilessia del Niguarda è uno dei migliori e più operativi in Europa. Studiano un malato a settimana: impiantano degli elettrodi nella testa del malato, dopodiché non possono operare subito perché devono capire dov’è il focolaio epilettico. Durante questo periodo il malato è a letto, cosciente, si annoia pure, quindi è disposto a collaborare con uno sperimentatore per altri test, e siccome gli elettrodi sono già collocati, noi possiamo capire quali aree si attivano meglio che con la risonanza magnetica. Poi ci sono le ricerche presso il nostro istituto sull’autismo».
M i sembra di capire che il premio la impegnerà un po’...
«Si. In questi giorni ci sarà un convegno scientifico a Copenaghen, la cerimonia con la principessa e un evento all’ambasciata italiana. Poi la Fondazione sta creando un’accademia dei premiati affiancati ad alcuni scienziati danesi, e mi hanno chiesto di partecipare alla formazione del nucleo dell’Academy».
Dal nord Europa che cosa importerebbe per la sua Facoltà di Parma?
«Sarebbe bello, si potesse, importare la fiducia. Ce n’è molto bisogno in Italia».
Si dovrebbe inocularla nel cervello...
«Giusto! Inoculare che non siamo delinquenti nati, siamo brave persone se ci lasciano lavorare in pace.»
A proposito di migliorie al sistema, nel 2008, durante la riforma Gelmini, lei avanzò una proposta importante sul sistema universitario e sulla ricerca.
«Suggerivo di abolire le cattedre universitarie a vita, instaurando un sistema per cui ogni cinque anni una commissione ti esamina. Puoi restare fino a 90 anni se sei capace, altrimenti vai a casa anche a 50. Tengo molto a rilanciare questa proposta. Sei anni fa ricevetti molte lettere da giovani che dicevano: lei è un bell’egoista, ha avuto il posto a vita e adesso ci vuole controllare. Io pensavo che sarebbero stati contenti — se mandi via tutta una serie di 50-60enni che non fanno niente, hai più posto per i giovani. Il merito è un concetto basilare per l’università, forse per il catasto no; non credo ci sia una grande differenza tra un impiegato e l’altro, ma tra un professore universitario e un altro, sì». È il sistema adottato al Riken, un centro di ricerca giapponese di altissimo livello parallelo all’università. Lì non fanno complimenti, ti convocano e ti dicono: la sua produzione scientifica non è considerata buona, le diamo due anni per trovarsi un altro posto».
Dei veri samurai! Tornando al premio, non vorrei essere indiscreta, ma la parte che terrà per sé come la spenderà?
«Destinerò qualcosa ai miei figli, non gli dispiacerà avere dei fondi, magari per realizzare un sogno. E il resto starà lì, per ogni evenienza».
Un regalo a se stesso non lo fa?
«Pensavo di invitare a cena i miei collaboratori, ma a me non serve niente. Mi hanno detto: perché non compri una nuova macchina? Ce l’ho già. Sono contento di quello che ho».
Che macchina ha?
«Una Bmw, quindi non proprio piccolina».
I suoi nipoti come hanno reagito all’assegnazione di questo premio?
«Di solito non si emozionano troppo, ma stavolta sono contenti. Di regola i premiati possono portare una persona, invece stavolta la Fondazione ha invitato anche i parenti, e io ho portato i miei nipotini».

Corriere 1.5.4
Il pane dell’umanità
Kant nominò Adamo primo curioso alimentare
Perché il mangiare rivela la personalità morale
Un filosofo e la mela biblica per spiegare l’evoluzione
di Carlo Sini


Che l’uomo è ciò che mangia è il detto famoso di Feuerbach: sembra fatto apposta per l’Expo 2015. Esso compare in uno scritto del 1862 e non va inteso in senso grettamente materialistico. L’uomo è innanzi tutto bisogno naturale e se questo tratto non viene soddisfatto, l’accesso ai valori dello spirito ne risulta inibito, come accade per un’umanità, abbrutita per generazioni, dalla fame e dalla miseria. Invece di tante prediche sulla virtù, sarebbe più efficace procurare loro di che sfamarsi. Come si vede, l’intento di Feuerbach è politico e sociale. Invece, il fisiologo positivista Jacob Moleschott (che pure a Feuerbach intendeva ispirarsi) propose una Teoria dell’alimentazione (1850) che si muoveva in parallelo con la sua affermazione: «senza fosforo non esiste il pensiero». Moleschott insegnò anche a Torino e a Roma e il suo brutale materialismo suscitò la reazione indignata di Mazzini.
Il dibattito storico sul cibo ha in effetti una lunga storia, nella quale spicca il contributo di Kant. Nello scritto del 1786 (Congetture sull’origine della storia) Kant osò rileggere i capitoli 2-4 del primo libro della Genesi in una chiave razionalistica. L’uscita dell’uomo dal paradiso dell’istinto animale venne promossa dalla famosa scelta della mela, cioè dal desiderio di estendere la conoscenza degli alimenti. Non è la mela in sé che è importante, ma quel primo emergere della coscienza di una vita retta, essenzialmente, non dall’istinto ma dalla ragione e dalla sua ansia di ricerca. Gli umani scoprirono così la capacità di andare oltre i limiti naturali, per inaugurare inediti sistemi di vita, sino a diventare «scopo a se stessi». Cominciò allora propriamente la storia, sintetizzata in una frase straordinaria: «La ragione — scrive Kant —, spinse l’uomo a sopportare pazientemente la fatica, che egli odia, a perseguire ardentemente le piccole cose che egli disprezza e a obliare la morte stessa, davanti alla quale egli trema, per amore di queste inezie, la cui perdita lo atterrisce ancor più». Questa faccenda di Adamo ridotto a un bestione tutto stupore e ferocia, e curiosità alimentare, non piacque alle autorità religiose prussiane e Kant passò i suoi guai, senza peraltro ritrattare ciò che aveva scritto. Egli aveva capovolto il senso del racconto biblico: non la caduta dell’uomo da una condizione di perfezione, ma l’inizio di un processo di incivilimento e di progresso morale e intellettuale: in quel processo anche il cibo aveva la sua parte.
I filosofi sono intuitivi e spesso anticipano gli scienziati, i quali oggi non hanno dubbi nell’indicare nel cibo uno dei parametri fondamentali per comprendere la nostra storia naturale e sociale: una storia assai più antica e complessa di come potessero immaginare Feuerbach o Kant, contrassegnata da una lunghissima incubazione nel cuore dell’Africa e poi da una diaspora di forse diecimila anni, che condusse l’homo sapiens a prendere progressivamente dimora in tutti i luoghi della terra e in quasi tutti i climi del pianeta. Così gli archeologi e gli antropologi cercano negli scavi residui carbonizzati di cibo e studiano la condizione dei denti negli scheletri per farsi un’idea dell’alimentazione dell’umanità primitiva, traendone nel contempo informazioni essenziali per le strutture familiari e sociali e per l’evoluzione dell’intelligenza, quasi a ripetere, in modi documentati e argomentati, il motto di Feuerbach. Il passaggio da un’economia della raccolta e della caccia all’allevamento e alla coltivazione, mostra da sé come il cammino delle abitudini alimentari e dei progressi tecnici e psicologici vadano di pari passo. L’uomo è ciò che mangia, o meglio, è ciò che fa per procurarsi il cibo del corpo e la salute dell’anima. Come risolve questi problemi determina e rispecchia la sua personalità morale, sicché la differenza tra il cibo crudo e il cibo cotto è, per esempio, un parametro importante per comprendere il cammino stesso della civiltà.
Il cibo è in una relazione essenziale col lavoro sociale e questo è oggi un grande problema. Come risolveremo i bisogni alimentari senza devastare il clima, senza distruggere le biodiversità, senza sottrarre alle popolazioni locali il diritto di scegliersi uno sviluppo autonomo, senza arrendersi all’avidità economica di pochi e all’egoismo dei più forti, senza continuare un cammino la cui follia potrebbe generare la rovina di tutti, queste sono le sfide che il tema del cibo riassume e concentra in sé. Insomma: dimmi come mangi e ti dirò chi sei.

Corriere 1.5.14
Piketty e la tassazione patrimoniale
Il falso mito delle nuove tasse
di Andrea Tavecchio


L’uscita, anche in italiano, del saggio dell’economista francese Thomas Piketty «Capital in the Twenty-First Century», che indaga sulla distribuzione del reddito e della concentrazione del capitale in mano a un numero ristretto di individui, non potrà che fare da combustibile nei prossimi mesi all’eterno dibattito sulle varie ipotesi di modulazione delle tasse patrimoniali, di successione e sui redditi di capitale.
Il premio Nobel per l’Economia Robert Solow sintetizza, infatti, la proposta fiscale preferita da Piketty come una tassa progressiva sulla ricchezza, ovunque posseduta, che colpisca ogni anno la quota eccedente un milione di euro con un’aliquota dell’uno per cento e la quota eccedente i cinque milioni di euro con un’aliquota del due per cento. Il dibattito in Italia si preannuncia surreale per almeno due motivi. Il primo è che, a fronte di una dichiarazione dei redditi di grande complessità, specie nella sezione dei redditi finanziari, in Italia non c’è ancora un modello di dichiarazione che dia una dimensione patrimoniale oltre che reddituale del contribuente, come avviene ormai in tutti i Paesi evoluti. Ipotizzare patrimoniali eque, in questo contesto, è quindi tecnicamente impossibile. Il secondo è che l’imposta patrimoniale in Italia c’è già ed è abbastanza pesante. Tra Imu sugli immobili (o Ivie su immobili esteri) calcolata senza dedurre le passività relative ai cespiti stessi, ed imposta di bollo su attività mobiliari (o Ivafe se attività estere), la tassazione patrimoniale per tantissime famiglie è già ben oltre la soglia immaginata da Piketty.
Un patrimonio sotto i cinque milioni di euro di immobili acquistati a fronte di mutui bancari ha un carico fiscale complessivo già oggi ben oltre l’1% sulla componente patrimoniale. A ciò bisogna poi aggiungere quanto si paga sul reddito. E nel caso dei dividendi, se distribuiti da società italiane, siamo ad una tassazione complessiva di circa il 75%, se si tiene conto anche di quanto versato dalle società stesse. La tassazione «alla Piketty» in Italia c’è già ed è mal strutturata e distorsiva. Sarebbe l’ora di mettere ordine e non pensare a nuove tasse.

l’Unità 1.5.14
Stalin contro Gramsci
Antonio jr nipote del fondatore del Pci: «Il no dell’Urss all’espatrio di mio nonno»
«Otto anni fa in un baule ho trovato le lettere di Tatiana scritte negli ultimi anni della vita del prigioniero. Missive che chiariscono molto sulla mia famiglia e sui rapporti con Togliatti
Il Quaderno rubato? Un’idea infondata»
intervista di Bruno Gravagnuolo


PIÙ DI DIECI ANNI FA L’AMICO SCOMPARSO ADRIANO GUERRA CI CHIAMA: «VIENI A PRANZO TI PRESENTO ANTONIOGRAMSCI». Scherzo di ononimia... E invece in trattoria al Portuense, con lo storico ed ex corrispondente de l’Unità da Mosca e la moglie Maresa, c’era un vero Antonio Gramsci, nipote russo del fondatore del nostro giornale. Ne nacque un’amicizia e poi un libro de l’Unità: La Russia di mio nonno. Seguito da I miei nonni nella rivoluzione (Il riformista) e oggi da La storia di una famiglia rivoluzionaria. Antonio Gramsci e gli Schucht tra la Russia e l’Italia (Editori Riuniti, university press pr. di Raul Mordenti, pp.234, Euro 18,90). Grande album familiare, che si accresce via via di documenti, tratti da un «baule» che Antonio (figlio di Giuliano secondogenito di Gramsci) musicista e biologo a Mosca, ha aperto alla Fondazione Istituto Gramsci. Gli Schucht sono la dinastia materna di Antonio Jr, col capostipite Apollon, padre di Giulia e moglie di Gramsci, l’ufficiale zarista rivoluzionario e amico di Lenin. Una saga che Antonio Jr - 49 anni due figli (Tarquinio e Galatea) - ha «riconquistato », per conoscere quel nonno mitico. Lo incontriamo nella sede del Gramsci (è in Italia per presentare il libro e oggi alle 11 sarà in via di Val Melaina a Roma, al concerto con Giovanna Marini e la Scuola di musica popolare di Testaccio).
Quella sulla famiglia Schucht è un’Opera che cresce a strati. Quali sorprese hai inserito in questa ulteriore edizione?
«Ad esempio le lettere di Giuliano e Delio in risposta al padre, connettendole con quelle di Gramsci. Vi si parla di Checov, Gorkij, Tolstoj e di Wells, de L’uomo invisibile che piaceva a Delio, ma non troppo a Gramsci. Poi ho scoperto una lettera di Delio a Stalin del 1947: voleva pubblicare una biografia di Stalin con i soldi del premio Viareggio vinto con le Lettere dal carcere...»
Delio era un vero bolscevico, mentre tuo padre era un artista e basta. Come mai tanto diversi?
«Giuliano era apolitico, privo di passione militante. Da biologo direi che geneticamente erano diversi, ma la differenza nasce nel clima familiare. Delio, primogenito subisce l’influenza bolscevica della zia Eugenia che lo ha “adottato”, riversando su di lui l’antica passione frustrata per Antonio. Mio padre Giuliano, sul quale c’erano meno aspettative, viveva nel suo mondo interiore. Divenne musicista e subì l’influsso della madre Giulia, musicista anche lei. Delio era ufficiale di marina, si sentiva “tutto sovietico”, non approvò la scelta “piccolo borghese” di Giuliano e si dedicò anche alla balistica della controaerea siriana nella guerra contro Israele del 1967...».
Una famiglia, quella Schucht-Gramsci, che viveva protetta e al sicuro nell’’Urss. Dove però il “caso Gramsci”, restava un problema...
«Il nome di Gramsci era un grande scudo ideologico. E poi c’era Togliatti, che al contrario di tante chiacchiere, ebbe un ruolo positivo. Nel proteggere e assistere Antonio in carcere, e la famiglia a Mosca. Ma su Gramsci e l’Urss ci sono dei punti da chiarire. Ad esempio, il ritorno in Urss del prigioniero - che egli stesso ipotizzava - non era un fatto scontato. Nel 1937, alla viglia della morte, si intensificano le visite alla Quisisana di Roma di agenti sovietici in veste di funzionari dell’ambasciata. Gli chiedevano informazioni sui trotzkisti italiani. Volevano capire le sue posizioni e intimidirlo. Ricordandogli i sospetti di trotzkismo che gravavano su di lui dal 1926 e dal 1930. Volevano dissuaderlo dal trasferirsi in Urss. Meglio malato in Italia che a Mosca. Lo apprendiamo da una protesta di Tatiana scovata da Silvio Pons negli archivi sovietici...».
Togliatti pensava di proteggere Gramsci anche da sè stesso?
«Direi di sì, dal suo punto di vista. Non rese pubblica la sua lettera di dissenso del 1926 al Comintern, facendola vedere a Bucharin e informandone Stalin. Ma cercando di ammorbidire i contrasti con il Comintern. Gramsci non accetta questo metodo e reagisce con veemenza. Di qui anche i contrasti successivi e il sospetto di un complotto contro di lui: l’idea di Antonio che lo si volesse tradire, o tenere in prigione. Idea infondata, come quella di un Quaderno rubato. Perché Togliatti al massimo voleva avvolgere Gramsci in una bolla protettiva, e proteggere la sua famiglia a Mosca. Cosa che fece sempre da lontano e da vicino».
In ballo c’era il lascito teorico di Gramsci, rivendicato da Eugenia con le sorelle. Meglio se ne sia impossessato Ercoli?
«Togliatti portò i Quaderni ad Ufa in Baskiria, dopo la querelle che lo accusava di tradimento e sequestro dei materiali. E fece bene ad agire così. Se il lascito gramsciano fosse stato affidato al Comintern, come voleva la zia Eugenia, chissà che fine avrebbero fatto quelle carte...»
E ora parliamo di te. Come e quando hai riscoperto le tue radici? Già al tempo dell’Urss?
«Nell’Urss si parlava molto di Togliatti. Gramsci era solo un martire del fascismo e un filosofo italiano. Allora ero molto lontano da queste cose e avevo nozioni vaghe su mio nonno. Non capivo l’italiano ed esistevano solo antologie di Gramsci. Mi occupavo di scienze e musica. L’interesse scatta con la fine dell’Urss. Quel crollo determinò in me un trauma, che ho cercato di elaborare con la riscoperta delle mie radici familiari. Avevo 26 anni, ma quella catastrofe - tale per mee altri milioni di persone - fu la vera scossa psicologica in tal senso...».
Ne parlasti con tuo padre Giuliano?
«Sì, e ne fu lieto, anche se si mostrava lontano da certi ricordi, e tra noi culturalmente c’era un rapporto tra musicisti. Mio padre sapeva poco di Gramsci. Ne aveva notizie vaghe e indirette, forse aveva rimosso tutto. Però mi incoraggiava, con discrezione...»
Impari l’italiano e arrivi a scoprire un baule, è così?
«Il baule di legno l’ho scoperto in realtà otto anni fa: conteneva lettere e documenti. Lo aveva portato in casa Tatiana nel 1938 quando tornò a Mosca, con altre casse. Ora è in casa mia, e troneggia nella mia stanza come un cimelio. Quasi tutto è stato già letto e classificato. A parte alcuni documenti in francese, copiati e consegnati alla Fondazione Gramsci, che ha già visto l’intero fondo. Il contributo più importante è stato il pacco di lettere di Tatiana scritte negli ultimi anni della vita del prigioniero, che ormai hanno chiarito molte cose sull’intrico di rapporti tra Tatiana, Giulia, Sraffa, Togliatti, e la famiglia Schucht».
Nel tuo libro però, malgrado l’ammirazione, c’è anche una forte critica a tuo nonno: non capiva granché di musica. Celo spieghi meglio?
«Nel capitolo dedicato a Giulia sostengo che non esiste “l’universalità della musica” di cui parlava Gramsci. Da musicista penso che la musica sia un insieme di suoni e linguaggi poco legati reciprocamente, che si apprendono con molta difficoltà. È un amalgama costruito, tra varie culture. Gramsci invece ha un’idea intuitiva e sentimentale della musica. Poi c’era un abisso tra i gusti di Giulia e quelli di Antonio. Lei amava la musica barocca: Bach, Vivaldi. Gramsci l’opera lirica e l’operetta. Prediligeva il tratto popolare e di massa della musica»

La Stampa 1.5.14
Portella della Ginestra
Una trappola per Salvatore Giuliano
A 67 anni dal massacro dei sindacalisti parla per la prima volta la vedetta della banda. E rovescia la verità ufficiale
di Francesco La Licata


«Hanno sempre parlato di un bambino che era una specie di beniamino di Salvatore Giuliano e della sua banda, ma nessuno mai è riuscito a sapere chi fosse e che fine avesse fatto. Si è detto di una piccola vedetta che andava e veniva su e giù per le montagne, andava in paese, a Borgetto, a procurare il pane, i viveri, il tabacco trinciato per fare le sigarette e tornava - sempre correndo - per consegnarli ai banditi che si nascondevano tra quelle rocce. Ecco, sono passati quasi settant’anni, un secolo che mi porto dentro questo segreto. Ma adesso voglio dirlo: quel bambino ero io. Ho conosciuto bene Giuliano, Turiddu, e quasi tutti i suoi uomini. Conosco la loro storia, che è diversa da quella raccontata dai giornali e dai libri. Sono stato per tanto tempo vincolato al segreto perché lo avevo promesso a mio zio e, in punto di morte, a mio padre, che mi fece giurare di non parlare prima che fossero passati cinquant’anni. Ora posso sciogliere quel giuramento e parlare di quella che per me fu anche una straordinaria avventura. Io, il piccolo Giacomino, ho vissuto a fianco di Turiddu: dal 1942 fino alla sua morte».
Giacomino oggi è un uomo vicino agli ottanta che non vive più in Sicilia da diverso tempo. La sagoma, però, e l’inflessione sono rimasti quelli impressi col fuoco della Sicilia più cupa, aspra come le montagne di Sagana, Partinico, Montelepre e Piana degli Albanesi. Ha una faccia scolpita e gli occhi ardenti e mobili, Giacomo B. quando racconta fa una gara con le parole, come se temesse di perderle nel pozzo della sua memoria che sembra prodigiosa e incredibilmente ricca.
Non rivela il cognome non perché abbia qualche timore, ma soltanto per riguardo ai parenti che abitano ancora in Sicilia. Il suo racconto è meticoloso, forse potrà non essere condiviso da chi ha codificato una storia diversa, ma tuttavia rimane una preziosa testimonianza. La «verità» di un teste oculare che non ricorre a cautele politiche o storiche, perché non sa cosa siano. Un racconto che comincia nel 1942, quando il bambino Giacomo trascorre la propria esistenza tra le campagne di Borgetto (paesone tra Partinico e San Giuseppe Jato, nel Palermitano), all’aria aperta con le pecore e le mucche, all’ombra di un vecchio cimelio nobiliare chiamato Palazzo Ramo, dal nome degli antichi proprietari, dove abitava con la famiglia .
«La fama di Giuliano – attacca Giacomo – era già esplosa con la sparatoria che aveva avuto coi carabinieri che gli volevano sequestrare il grano preso al mercato nero. Mio padre e mio zio erano molto rispettati in quella zona e Palazzo Ramo era una specie di zona franca per tutti. Lo diventò anche per Turiddu, che intanto aveva formato la sua banda. C’era l’acqua, c’era la possibilità di rinfrescarsi e riposare e quindi spesso lo vedevo arrivare e parlare con mio padre».
Si intuisce che Giacomo nutre (ancora oggi) una vera passione per Giuliano e lo ricorda come una specie di difensore dei poveri: «Gli ho sentito dire che bisognava finirla di “calare” sempre la testa, non sopportava di vedere la gente scalza e morta di fame e così cominciò a usare i soldi che gli arrivavano dai suoi “colpi” per comprare il pane e distribuirlo a chi non aveva niente. Mi ricordo che diede dei soldi a un certo Peppino Panettini perché ordinasse a mastro Paolino Migliore, artigiano calzolaio, una certa quantità di scarpe da dare a chi aveva bisogno. Giuliano andava in giro con le tasche piene di fichi secchi e li offriva a grandi e bambini che non avevano da mangiare. Io così me lo ricordo».
Il ritratto di Giuliano-Robin Hood coincide con una certa tradizione popolare, almeno per quel che riguarda l’inizio della sua storia. Bandito sì, ma amato. Persino dalle suore dell’Ospedale Gesù Bambino di Palermo, che furono ospiti, sfollate a Palazzo Ramo per quasi due anni, fra il ’42 e il ’44, lontano dai bombardamenti palermitani. «La superiora – rammenta Giacomo – stava ore a parlare con mio padre, poi mi ricordo suor Valentina e suor Carlotta. Giuliano non si nascondeva da loro e quando fu ferito in uno scontro a fuoco coi carabinieri fu salvato proprio da madre Valentina, che gli fece una puntura, senza la quale Turiddu sarebbe morto. La riconoscenza di Giuliano durò per sempre: finanziò il restauro della chiesa di Palazzo Ramo e, anche dopo il ’44, continuò a mandare il frumento alle suore». Certo, il bandito aveva i suoi metodi e così, quando qualcuno cercava di imporre l’acquisto del grano a prezzo di contrabbando, Turiddu non esitava a «convincerlo» a praticare il prezzo di mercato, molto più basso. I sequestri dei «padroni del grano», dunque, cominciarono a proliferare in tutta la zona.
E Giuliano, a sentire Giacomo, entrò in confidenza anche coi soldati americani, quando arrivarono da Licata, dopo lo sbarco. «Io andavo a prendere acqua, ogni giorno, presso una sorgente. Una volta vi trovai un soldato che mi diede una borraccia e mi fece segno di riempirla. Poi a gesti e a sillabe mi chiese se conoscevo Giuliano. Mi dava fiducia quel soldato e così gli dissi che lo conoscevo a sapevo dove trovarlo. Alla fine si incontrarono a Palazzo Ramo e Giuliano comprò pure delle armi. Da lì passarono pure altri personaggi: venne il giornalista Stern (che era una spia, ma Giacomo non lo sa, ndr) e pure una bella signora che restò a lungo ospite (si tratterebbe di Maria Lamby Karintelka, anch’essa spia, che intervistò il bandito con lo pseudonimo di Maria Cyliacus) e venne più d’una volta l’Alto commissario Ciro Verdiani.
Giacomo avrebbe altri episodi da includere nell’epopea (per esempio, quando Giuliano curò un carabiniere che aveva ferito e quello gli chiese un ricordo da conservare, Turiddu gli regalò un coltellino e iniziò un’amicizia) e non è facile frenarlo. Ci riusciamo ricorrendo ai «problemi di spazio». Ma si riaccende quando si passa agli argomenti più «seri»: la strage di Portella della Ginestra (oggi sono 67 anni) e il mistero della morte di Giuliano. Anche qui, Giacomo parla per testimonianza diretta e per aver ascoltato i racconti del padre e dello zio.
«Giuliano fu tradito dai suoi stessi uomini. Fu tradito – scandisce Giacomo – da Giuseppe Passatempo che sparò a Portella su mandato della mafia, della politica, con la complicità dei carabinieri, che addirittura fornirono armi agli assalitori». La politica? «In particolare i separatisti. Turiddu era stato agganciato nel 1944 da Finocchiaro Aprile che venne, accompagnato da un altro, a Palazzo Ramo. Giuliano non c’era e mio padre li mandò dalla madre. Ma lei non si fidò e disse loro di lasciare un biglietto che avrebbe fatto avere al figlio. Finocchiaro Aprile scrisse un indirizzo di Palermo, dove si potevano incontrare, e specificò le modalità di riconoscimento. Turiddu conosceva Finocchiaro Aprile e sapeva chi era e cosa faceva. Andò a Palermo travestito da postino, accompagnato da Gaspare Pisciotta e Giuseppe Passatempo. Parlò a lungo con il padrone di casa e da allora ebbero un rapporto continuo».
Ma torniamo a Portella. Riprende, Giacomo: «Per l’operazione di Portella furono investiti 80 milioni di allora, molti dei quali andarono alla mafia. Il capo della congiura era il boss don Calò Vizzini, che con Giuliano aveva avuto più di qualche scontro. Accanto a lui la mafia di Monreale, Nitto Minasola e gli amici di Domenico Albano, orientati dai carabinieri. Contrario a questo schieramento c’era il boss di Partinico e Borgetto don Gioacchino D’Arrigo che stimava molto mio padre e mio zio».
Ma come fu portata avanti la congiura? «Giuliano – è la risposta – aveva ordinato a Passatempo di andare a Portella solo coi fucili. Invece spararono i mitragliatori che colpirono anche dall’alto della montagna». Questa la «verità» di Giacomo, che – bisogna dirlo – confligge con tutta la storiografia prodotta sul tema: non ha mai convinto la tesi che a Portella il bandito volesse soltanto spaventare i contadini in festa. «Il fatto è – insiste il nostro – che quella mattina, nascosti in un furgoncino, arrivarono sei mitragliatori che furono assegnati ad altrettanti mafiosi. Ci fu un testimone che li vide: un ragazzo che andava in bicicletta ed era stato sorpassato dal camioncino. Io ho sentito con le mie orecchie che le mitragliatrici erano state procurate dai carabinieri e a loro erano state riconsegnate dopo la sparatoria».
E Giuliano seppe questa storia? «Certo che l’ha saputo. Arrivò anche a parlare col ragazzo della bicicletta. Seppe i nomi dei sei mafiosi, ricordo che due erano di Piana degli Albanesi, due di San Giuseppe Jato e due di un paese che non so più bene. Lui li voleva rapire per farli parlare, ma il progetto non era fattibile. Quei nomi, comunque, li scrisse nel suo libretto (sarebbe il terzo memoriale di Giuliano, mai ritrovato, ndr) insieme con tutta la verità su Portella). Lui, Turiddu, avrebbe voluto uccidere Domenico Albano, che faceva il doppio gioco con quelli di Monreale, ma fu dissuaso da don Gioacchino D’Arrigo. Il 4 maggio, verso le 18, ci fu una riunione nella masseria messa a disposizione da Vito D’Amico. Io aprii perché solo io sapevo dove stavano le chiavi. Don Gioacchino lesse il giornale con la notizia di Portella e commentò: “Questo è troppo”. Pisciotta gridava e ripeteva: “Ci hanno preso in giro” e si riferiva ai politici. Giuliano, mi ha raccontato mio padre prima di morire, propose la vendetta verso Albano, ma don Gioacchino disse che le cose potevano aggravarsi ed era meglio soprassedere».
Ma chi ha certezza del tradimento di Passatempo? «Giuliano, dopo la strage, lo convocò e lo legò ad un albero. Due giorni dopo, prese il giornale e andò ad affrontarlo dicendogli: “A chi hai fatto questo favore?” Quello rispose: “All’amico tuo”, riferendosi a don Calò Vizzini».
Ovviamente, l’inconfessabile verità sulla strage di Portella sta, secondo Giacomo, alla base della morte di Salvatore Giuliano: «Che non fu ucciso a Castelvetrano, lo sanno tutti. Fu ucciso a Monreale, a villa Carolina. A Giuliano lo cercavano tutti ma per modo di dire, perché lui aveva rapporti persino con Ciro Verdiani, il capo dei poliziotti. Grazie a lui era riuscito a far scarcerare i suoi genitori. Il 3 luglio del 1950 gli tesero la trappola: l’ho visto io, a Borgetto, parlare con Domenico Albano, poi andò dalla madre che gli consigliò di dirigersi verso Castelvetrano e non a Monreale, perché tutti quelli che c’erano andati non erano più tornati. Pisciotta era già a Monreale. Giuliano partì da Borgetto con un amico che lo accompagnò in taxi, giunse a Monreale e disse a Pisciotta: “Che stai combinando?”. Turiddu sarebbe dovuto tornare a Borgetto e invece morì lì, a villa Carolina (poi la messinscena dei carabinieri a Castelvetrano nel baglio dell’”avvocaticchio” Gregorio Di Maria e il finto scontro a fuoco, ndr). Mio padre e mio zio mi hanno raccontato che Giuliano fu addormentato con un potente sonnifero datogli da Pisciotta che lo aveva avuto dai carabinieri, durante una sosta nella caserma di corso Calatafimi, a Palermo». Il resto è più o meno noto. Ora Giacomo dice di sentirsi meglio, anche se di storie da raccontare ne ha ancora tantissime.

Repubblica 1.5.14
L’Occidente salvato dalla lotta di classe
Politica in declino, populismi in crescita, attivisti che “emigrano” con le Ong. Ma la sfida per la democrazia va affrontata a casa nostra
di Michael Walzer


Che cosa accade quando le nazioni diventano eterogenee? Che cosa accade quando la migrazione su vasta scala di profughi disperati e di uomini e donne alla ricerca di una vita migliore, immigrati legali e illegali — che cosa accade quando queste persone danno vita a popolazioni multi-culturali?
Una risposta alla migrazione e alla diversità è un nuovo fermento a favore dell’inclusione e dei diritti umani, diritti che non dipendono da un’appartenenza politica di lunga data e da ricordi condivisi — il trionfo, potremmo dire, dei “diritti dell’uomo” della Rivoluzione francese sui “diritti del cittadino”. Vediamo il trionfo quanto mai chiaramente nell’estensione di molti diritti del cittadino ai residenti stranieri e altri non-cittadini, inclusi gli immigrati illegali. Questa è opera della sinistra liberale (che io appoggio), ma è strana, perché quanti più diritti si estendono ai non-cittadini tanto più la parola “cittadinanza” perde significato. Stiamo vivendo il processo di svalutazione della cittadinanza per il bene dell’umanità. Questa potrebbe anche essere la cosa giusta da fare, ma lascia la sinistra priva del modello di cittadino virtuoso, attivista, che decide per sé. E diventa sempre più difficile sostenere una cultura civica comune.
I paesi rivestiranno un significato minore per i loro abitanti, perché molti di loro non vi risiederanno da lungo tempo; le tombe dei loro antenati saranno altrove; il terreno sul quale vivranno non sarà per loro suolo sacro, e i loro visti non evocheranno ricordi storici e personali. In queste condizioni di eterogeneità, pluralismo culturale e individualismo radicale, che cosa accadrà, che cosa è accaduto alla solidarietà che sta sotto e che sostiene il welfare state? Se non ci sentiamo intimamente connessi agli altri abitanti del nostro paese, se non abbiamo in comune storia, religione e così via, se pensiamo a noi stessi come a una “serie” sartriana di individui scollegati tra loro — se tutto ciò è vero, chi mai sosterrà politicamente il welfare state o sarà disposto a pagare le tasse di cui esso necessita? Chi investirà tempo ed energie in discussioni politiche o in un’azione politica?
Al contempo, intrinsecamente collegato con ciò che ho appena descritto, c’è un nuovo globalismo; non è proprio la stessa cosa dell’internazionalismo della vecchia sinistra, ma dovremmo considerarlo la versione del XXI secolo dell’internazionalismo, evidente in organizzazioni come Medici senza Frontiere, Human Rights Watch, e Amnesty International. Gli aiuti umanitari per le persone in difficoltà in tutto il piane- ta sono molto popolari oggi. Se ci sono meno cittadini impegnati nel nostro paese, abbiamo però molti più cittadini impegnati nel mondo; attivisti all’estero. Questi impegni globali non sembrano poter rendere possibile una vibrante politica liberale/di sinistra in patria, e non penso che questa sia una mera coincidenza. Di fatto, è più facile, tenuto conto delle condizioni che ho descritto, difendere i diritti umani nei paesi di altri popoli che unirsi alla lotta contro l’ineguaglianza negli Stati Uniti (o l’Italia, o la Germania, o il Regno Unito).
Anzi, la nuova battaglia per i diritti umani è stata accompagnata da una smobilitazione politica in patria. Ogni società umana produce gerarchie di ricchezze e potere e oggi questa produzione si attua non all’interno delle società, ma in modo trasversale a esse, nella società globale, dove le banche internazionali e le multinazionali operano con modalità tali da assicurare grandi ricchezze a pochi e determinare periodiche crisi per molti. Ai vecchi tempi, nello stato di cittadini attivi o potenzialmente attivi, questa tendenza persistente verso un ordinamento gerarchico era talvolta interrotta dalle ribellioni delle classi subordinate — agitazioni di cittadini precedentemente passivi che confluivano in movimenti sociali potenti e che davano vita a regimi socialdemocratici, welfare state, e disordini o perturbazioni nelle vecchie gerarchie.
L’idea dell’uno per cento e del novantanove per cento, lo slogan del movimento Occupy, non è un esempio di analisi di classe. È un appello populista, e potrebbe essere politicamente utile. Ma dovremmo usare prudenza nei confronti del populismo (proprio come dovremmo essere cauti nei confronti dell’anarchismo), perché non è una politica sostenibile, non cambia il mondo, ed è accessibile tanto alla destra quanto alla sinistra. Il lavoro di creazione di un movimento deve essere molto più concentrato. Deve essere opera di persone che sono per lo più in difficoltà, e deve derivare dal riconoscimento da parte loro delle proprie esigenze. Se deve esserci un movimento di classe di persone colpite o minacciate dal capitalismo neo-liberale, deve essere un movimento con obiettivi concreti e un programma specifico. Non so come dar vita a un movimento concentrato di questo tipo, ma è possibile prepararsi per la sua comparsa a livello intellettuale e di organizzazione.
Dobbiamo anche essere pronti a far fronte al pericolo che si nasconde lungo il nostro cammino, il pericolo che nelle nostre società diverse ed eterogenee il movimento che auspichiamo sia preceduto da una politica nazionalista e xenofoba nei confronti delle minoranze, degli immigrati, dei rifugiati. Questo è un altro motivo per il quale la gente di sinistra non dovrebbe mai prendere alla leggera il populismo. Ci occorre una democrazia sociale rinvigorita e militante, che parli la lingua di classe, i cui leader siano preparati, quando verrà il momento della ribellione, a unirsi, a organizzare, a esercitare pressioni sui ribelli verso una politica di solidarietà, di aiuto reciproco e di cooperazione transfrontaliera.
Jürgen Habermas ha scritto in modo ispirato dell’«abietto spettacolo della società capitalistica mondiale frammentata lungo le linee nazionali». Ma è nei nostri stessi frammenti, nei nostri stessi stati-nazione, che dobbiamo iniziare. Questo, a ogni modo, è ciò che credo: che se recupereremo la cittadinanza a casa nostra, scopriremo che il mondo non è tanto distante. ( Traduzione di Anna Bissanti)

Repubblica 1.5.14
“I due Francesco” L’ultima intervista di Jacques Le Goff
Poco prima di morire, un mese fa, il grande storico rifletteva su cosa accomuna il papa al santo d’Assisi
di Fabio Gambaro


Ho visto per l’ultima volta Jacques Le Goff qualche giorno prima che morisse. Ero andato a trovarlo a casa sua, al quinto piano di un palazzo nella zona nord di Parigi. Nel suo studio tappezzato di libri, davanti alla scrivania sepolta da una montagna di carte — «uno dei miei difetti è il disordine», ripeteva spesso — abbiamo iniziato a parlare di San Francesco e di Papa Bergoglio, confrontando la figura del santo medievale con quella del papa contemporaneo.
Affaticato, ma come sempre lucido e rigoroso, Le Goff mi ha raccontato come era nato il suo interesse per l’autore del Cantico delle creature , a cui ha poi dedicato il saggio San Francesco d’Assisi ( Laterza). E mi ha spiegato la sua curiosità nei confronti del nuovo Papa, nella cui azione vedeva diversi elementi di continuità con il santo. Mentre ascoltavo i suoi ricordi e le sue riflessioni, non immaginavo che una settimana dopo lo storico francese si sarebbe spento in un ospedale parigino. Quella che segue è una parte della nostra ultima conversazione.
Come mai si è occupato di San Francesco?
«È un interesse che coltivo da anni, dalla prima volta che vidi Assisi nel dopoguerra. Ero un giovane storico attratto dall’Italia, un paese in cui ero già stato diverse volte, anche perché la famiglia di mia madre veniva dalla zona d’Imperia».
Cosa la colpì di Assisi?
«Innanzitutto la topografia dei luoghi. Per me il legame tra la storia e la geografia è sempre stato essenziale, e ad Assisi la vicenda sociale e spirituale di Francesco si esprimeva geograficamente. Da un lato, la collina con la città che rappresentava la vita commerciale e politica del tempo. In seguito, la solitudine e la lontananza dell’eremo delle Carceri, simbolo della nuova forma di solitudine monastica proposta dal francescanesimo. Infine, la natura che circonda la chiesa di San Damiano, il luogo della nuova ecologia spirituale di San Francesco. Insomma, di fronte a quei luoghi, mi sembrò di vedere un’incarnazione particolarmente evidente di un movimento storico ».
Qual era il suo rap- porto con la religione?
«Ho iniziato a interessarmi al francescanesimo nel momento in mi allontanavo definitivamente dalla religione cattolica. Da giovane avevo ricevuto un’educazione religiosa. Mia madre, secondo la tradizione italiana, era molto cattolica e devota. Mio padre invece era un figlio dell’“affaire Dreyfus”, quindi laico e anticlericale. Nonostante tale differenza, i miei genitori furono molto uniti e la religione non fu mai un soggetto di disputa».
La sua formazione è il risultato di queste due tradizioni?
«Sì, anche se durante la giovinezza prevalse l’influenza di mia madre. In seguito però mi sono progressivamente allontanato dalla fede. Quando arrivai ad Assisi, guardai a San Francesco con gli occhi dello storico e non del credente. M’interessavano soprattutto le sue azioni e le sue scelte più che quello che poteva rappresentare sul piano religioso».
Per lei qual è l’aspetto centrale della figura di San Francesco?
«La modernità. Di fronte alla nuova società in mutazione egli individua chiaramente il problema della ricchezza e delle disuguaglianze. Tale consapevolezza lo spinge a prendersi cura della povertà. D’altra parte, se l’attuale papa ha scelto il suo nome per la prima volta nella storia della chiesa, è proprio per via di tale modernità, nel cui solco egli s’inscrive. E se c’è un elemento comune a San Francesco e a Papa Bergoglio, è proprio la lotta contro il denaro e la difesa dei poveri»
Due epoche diverse, ma una stessa preoccupazione?
«Nel XIII secolo, per soddisfare i bisogni dell’economia e in particolare del commercio, l’uso del denaro diventa sempre più importante. Questa evoluzione produce però alcuni eccessi contro cui si batte San Francesco. Anche oggi assistiamo a una revisione degli atteggiamenti nei confronti del denaro, solo che non si tratta più di una reazione a una novità, come nel XIII secolo, ma di una reazione a una crisi, quella che ha travolto l’economia all’inizio del XXI secolo. Papa Francesco è il papa della crisi. Probabilmente una parte dei cardinali che l’hanno eletto hanno visto in lui l’uomo capace di aiutare la Chiesa e la società a superare questa fase del mondo capitalista».
La critica della ricchezza è accompagnata dal bisogno di nuove forme di spiritualità da contrapporre al materialismo figlio del denaro?
«Certamente. Nel XIII secolo ciò è particolarmente evidente. San Francesco predica la necessità del ritorno al Vangelo, al cui interno si trovano le basi per combattere gli eccessi della ricchezza. Basti pensare alla celebre frase: “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli”. La spiritualità contemporanea è meno facile da decifrare. Oggi, accanto al fascino del denaro sempre molto forte, si manifesta un sospetto crescente nei confronti della ricchezza e delle sue manifestazioni. Da qui una domanda di spiritualità che però forse non ha più molto a che vedere con la spiritualità cristiana. In ogni caso, la modernità di Papa Francesco, come quella del santo d’Assisi, nasce dalla volontà di lottare contro la materializzazione della società, dello spirito e delle religioni, riprendendo contemporaneamente la tradizione dei Vangeli per rimetterla al centro della riflessione e della pratica del mondo cattolico».
Il Vangelo delle origini in opposizione ai padri della Chiesa?
«In parte è così. Ma va anche segnalato che, contrariamente a tutte le eresie emerse tra il XII e XIII secolo, Francesco è rimasto all’interno della Chiesa perché provava il bisogno dei sacramenti. Proprio perché si tratta di una modernizzazione che è anche un ritorno alle origini, in lui c’è una volontà di rinnovamento senza però rompere con le istituzioni. Come mi sembra stia facendo il nuovo Pontefice».
Quale altro aspetto della modernità di San Francesco le sembra particolarmente importante?
«La tematica dell’ecologia mi sembra che possa parlare in maniera significativa al nostro tempo. L’ecologia implica un bisogno di spiritualità non necessariamente legata a una religione. Può quindi essere condivisa da tutti».
Quali sono le caratteristiche della preoccupazione ecologista di San Francesco?
«Se guardiamo come si esprime il santo d’Assisi e come costruisce il francescanesimo, notiamo che egli prende le distanze dal più grande movimento sociale del suo tempo, vale a dire lo sviluppo delle città. Ad essa San Francesco contrappone la natura e la strada, visto che promuove la predicazione “in via”. Inoltre, se c’è un’opera letteraria che possiamo considerare ecologista è proprio Il cantico delle creature . La preoccupazione nei confronti della natura è un tratto importante della sua predicazione, anche se per ora mi sembra che Papa Francesco non lo abbia particolarmente sottolineato. Forse perché è una tematica meno sentita in quel mondo dell’America latina da cui proviene».

Sentieri Selvaggi 30.4.14
15° Festival del Cinema Europeo di Lecce
Incontro con Marco Bellocchio, il pittore

qui segnalazione di Nuccio Russo

l’Unità 1.5.14
Il film di oggi
Ken Loach e gli immigrati sfruttati nel sud della California

«BREAD AND ROSES» (GRAN BRETAGNA, 2000) Lo sguardo di Ken Loach puntato a sud, sempre con una messa a fuoco lucida e impegnata. Siamo in California, dunque, e si parla di immigrati, invisibili lavoratori per una ditta di pulizie che li sfrutta indegnamente. Comincia a crescere una coscienza di classe e si forma il primo grumo di sindacato, fra molte difficoltà. Adrien Brody è l’attivista che lo sostiene. ORE 21,10 LAEFFE

l’Unità 1.5.14
Il documentario
Il Novecento in Sicilia raccontato dal bracciante Vincenzo Rabito

«TERRAMATTA» (ITALIA, 2012) La storia d’Italia del Novecento raccontata attraverso le pagine di Vincenzo Rabito, ex bracciante semianalfabeta nato in provincia di Ragusa nel 1899, raccolte nel libro «Terra matta». Nel bel doc di Costanza Quatriglio, la lettura dei testi, affidata all'attore Roberto Nobile, si affianca a filmati dall’Archivio Luce a immagini della Sicilia di oggi. ORE 21,10 RAI 5

La Stampa 1.5.14
La storia umana in foto, le immagini ora sono di tutti

Il Museo Americano di Storia Naturale (The American Museum of Natural History, AMNH ) di Manhattan, ha appena rilasciato le sue collezioni speciali in formato digitale, un database di immagini on-line di circa 7.000 fotografie e 145 anni di storia del museo.
Dalle carovana di cammelli in Mongolia negli anni ’20 alle immagini antropologiche degli immigrati italiani a Ellis Island, queste foto rivelano un’epoca di spedizioni e di esplorazione, di scoperta antropologica e di documentazione della specie. L’archivio comprende anche incisioni, mappe e disegni della rara collezione di libri del museo.

il Fatto 1.5.14
Unità in sciopero: “L’azienda ignora i nostri diritti”

IL PRIMO MAGGIO è la festa del lavoro dell’anno in cui l’Unità festeggia i suoi 90 anni. In questa occasione i giornalisti vogliono rivolgersi in primo luogo ai lettori parlando stavolta come lavoratori, nella convinzione che esiste oggi un caso Unità da rendere pubblico e di valenza politica”. Inizia così la nota del Cdr del quotidiano fondato da Antonio Gramsci pubblicata oggi. “Siamo dipendenti di un’azienda - scrivono i giornalisti - che continua a inanellare assenze, comportamenti irrispettosi della rappresentanza sindacale, decisioni addirittura dannose per la testata. Per questo annunciamo una giornata di sciopero per venerdì 2 maggio”. Per la rappresentanza sindacale “il tempo delle promesse virtuali e dei tagli reali è finito. Questa azienda mette a rischio una testata storica della sinistra e dell’informazione italiana. Questa redazione non si è mai sottratta a pesanti piani di ristrutturazione. Le responsabilità di una gestione avventata delle risorse vanno individuate altrove”.