sabato 3 maggio 2014

il Fatto 3.5.14
Il 2 maggio di Renzi
80 euro, mancano le coperture Precari, un favore alle imprese
di Marco Palombi


Brutta giornata in Parlamento quella di ieri per il governo Renzi. Da un lato, le modifiche al decreto Lavoro presentate ieri in Senato dal ministro Giuliano Poletti sono una resa al potere di ricatto di Nuovo Centro Destra (silente la cosiddetta sinistra Pd); dall’altro, i tecnici del Servizio Bilancio certificano che un bel pezzo delle coperture del decreto Irpef
- quello degli 80 euro per capirci - sono scritte più o meno sulla sabbia.
PARTIAMO dal successo di Maurizio Sacconi, alfaniano ed ex ministro del Lavoro con Silvio Berlusconi. Il testo del governo, infatti, si modifica secondo i suoi diktat: meno vincoli alle imprese, maggiore flessibilità per i lavoratori. Sparisce, ad esempio, l’obbligo di assumere per gli imprenditori che abusino dei contratti a termine (cioè li utilizzino per oltre il 20 per cento della forza-lavoro a tempo indeterminato): gli basterà pagare una multa per cavarsela. L’obbligo di stabilizzare il 20 per cento degli apprendisti dopo 36 mesi di contratti a termine prima di assumerne altri, per dire, varrà per le imprese sopra i 50 dipendenti (prima era trenta). Pure la formazione degli apprendisti potrà essere pubblica, ma la regione potrà anche devolvere l’intera questione a imprese o associazioni datoriali.
All’ingrosso, insomma, tutte le richieste di Nuovo Centrodestra che alla Camera non erano passate per il no del Pd, che aveva chiesto in cambio di una ulteriore apertura alla precarietà la possibilità di rinnovare al massimo i contratti a termine non per cinque volte (come prevede ora il decreto), ma per quattro. Decisamente la festa del lavoro era finita ieri in Senato: questo decreto, infatti, non ha alcuna speranza di creare nuova occupazione, ma moltissime di peggiorare la situazione di chi lavora (o lavoricchia) già.
Anche la preziosa operazione sull’Irpef del premier non ha vissuto una bella giornata ieri a palazzo Madama: il Servizio Bilancio ha fatto letteralmente a pezzi il decreto, dando finalmente sostanza a quelle preoccupazioni che avevano spinto Giorgio Napolitano a convocare il ministro Pier Carlo Padoan al Colle per “ulteriori chiarimenti”.
Intanto gli 1,8 miliardi garantiti - secondo il governo - dall’aumento della tassazione sulla rivalutazione delle quote di Bankitalia potrebbero cadere sotto il peso del contenzioso: per i tecnici del Senato, infatti, è incostituzionale. In sostanza, decidere ex post che le banche dovranno sottoporsi a un’aliquota sulle plusvalenze del 26% (anziché del 12) e pagarla entro dicembre (anziché in tre anni) viola “quell’esigenza di anticipata conoscenza da parte del contribuente del carico fiscale posto sulle proprie attività economiche con conseguente possibile violazione di precetti costituzionali”.
IL SERVIZIO BILANCIO è orripilato pure dalle coperture da “evasione fiscale”: 300 milioni quest’anno e addirittura due miliardi nel 2015 nonostante non esista “alcuna informazione in ordine a eventuali strumenti o metodologie che si ipotizza di utilizzare per il raggiungimento dell’obiettivo”, né si prevedono “specifici interventi o azioni nel caso in cui il risultato non fosse raggiunto”.
Pure sull’extragettito Iva dovuto al pagamento dei debiti della P.A. (650 milioni) i tecnici del Senato hanno qualche dubbio e sulla riduzione dell’Irap assai di più: il governo, infatti, ritiene che il costo dell’operazione sia di circa due miliardi nel 2014, mentre il mancato gettito sarà “più significativo” e, peraltro, destinato a peggiorare negli anni (al contrario di quanto scrive l’esecutivo nella Relazione tecnica). Peraltro, è l’altra contestazione, la fonte di copertura - cioè la maggiore tassazione sulle rendite finanziarie, conti correnti compresi - è calcolata senza tener conto della possibilità che molti investitori scelgano forme di risparmio tassate di meno. Tradotto: i ricavi forse sono sovrastimati. Quello che non possono scrivere i tecnici di palazzo Madama, lo formalizza Renato Brunetta: “La manovra correttiva è sempre più vicina”. Meno delle elezioni, però.

Repubblica 3.5.14
Lavoro così cambia il decreto
Gli otto emendamenti del governo
No obbligo di assumere se l’azienda sfora il 20% di contratti a termine
Scontro sulla copertura
di Roberto Mania



ROMA. Otto emendamenti blindano il decreto lavoro. Governo e maggioranza hanno raggiunto l’accordo ieri al Senato. Rientra la polemica tra il Nuovo centro destra e il Partito democratico. Il provvedimento, che liberalizza il ricorso ai contratti a termine e semplifica l’uso dell’apprendistato, dovrebbe essere votato dall’aula di Palazzo madama tra giovedì e venerdì (potrebbe non essere necessaria la fiducia anche se il M5S ha presentato circa 600 emendamenti con un chiaro intento ostruzionistico), poi il decreto dovrà tornare alla Camera per essere convertito entro il 19 maggio. Non viene intaccato l’impianto del provvedimento, ma inserite alcune modifiche. In particolare salta l’obbligo a carico dell’azienda di assumere stabilmente i lavoratori che superino la quota consentita del 20 per cento di contratti a termine rispetto all’organico complessivo. Ci sarà una sanzione pecuniaria. Era una richiesta dell’Ncd alla quale il Pd non si è opposto. «Sono tutti emendamenti che vanno nella direzione da noi auspicata», ha detto il presidente della Commissione Lavoro del Senato, Maurizio Sacconi. «Questo è il testo definitivo », ha detto la senatrice Annamaria Parente, capogruppo del Pd nella Commissione Lavoro.
La strada sembra dunque in discesa. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha definito le modifiche «un buon punto di mediazione» e ha auspicato una rapida approvazione del decreto. Un sostanziale e significativo via libera è arrivato anche dal presidente della Commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, esponente dell’area laburista del Pd e capofila del gruppo di parlamentari del Pd che a Montecitorio aveva imposto una serie di cambiamenti al testo originario presentato dal governo e non condivise dalle forze di centro destra della coalizione. Restano comunque alcuni dissenzienti nella sinistra del Pd: Stefano Fassina, già vice ministro dell’Economia nel governo Letta ha parlato di «passi indietro » e ha chiesto di riaprire la discussione. Restano, pure, le critiche dei sindacati. E anche, per evidenti ragioni elettorali, lo scontro a destra tra Forza Italia e gli scissionisti di Alfano. Silvio Berlusconi ha detto che il Jobs Act di Renzi «è diventato il Cgil Act». Ma in realtà il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, ha confermato le sue critiche all’impostazione dell’esecutivo: «Non serve l’ennesima riforma del mercato del lavoro, bensì decidere come si investe, verso quali settori si guarda, con quali politiche si immagina quello che deve essere il modello di sviluppo dell’Italia».
CONTRATTI A TERMINE
Quello concordato ieri non è un ritorno al decreto originale del governo ma effettivamente una mediazione tra il testo approvato alla Camera e le richieste dei partiti di centro destra. Rimane fissata fino a 36 mesi la durata massima di un contratto a termine senza la specificazione della causale, e viene confermata la possibilità di cinque proroghe (erano otto nella versione originaria).
La maggiore novità rispetto al testo, passato a Montecitorio con il voto di fiducia nonostante la contrarietà degli alfaniani e di Scelta civica, riguarda la sanzione a carico dell’imprenditore che supera la quota del 20 per cento dei contratti a tempo determinato. Dunque non più l’obbligo di assumere i lavoratori eccedenti il tetto bensì una multa pari al 20 per cento dello stipendio del ventunesimo contratto a tempo determinato per tutta la sua durata. Sanzione che cresce fino al 50 per cento per i contratti successivi al ventunesimo. Esclusi dal vincolo del 20 per cento le micro-imprese con meno di cinque dipendenti e pure gli enti di ricerca. Secondo il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, si tratta «di un emendamento bizzarro». In questo modo - ha spiegato il sindacalista - sarà difficile aprire la strada alla stabilizzazione dei rapporti di lavoro. «Quando un’azienda sbaglia - ha aggiunto - la vera sanzione è obbligarla ad assumere a tempo indeterminato proprio perché il suo obiettivo è evadere da questa situazione». Positivo invece il commento della Confcommercio che però ha chiesto una riduzione della sanzione pecuniaria.
CONTRATTO DI APPRENDISTATO
Per i contratti di apprendistato, l’innovazione più significativa riguarda l’obbligo dalla stabilizzazione del 20 per cento degli apprendisti per poter ricorrere a nuovi contratti. Saranno vincolate le aziende con 50 dipendenti e oltre, con un innalzamento della soglia rispetto ai 30 dipendenti previsti dal testo varato dalla Camera.
Si potranno pure stipulare contratti di apprendistato stagionali. E sempre per i contratti di apprendistato (mix tra lavoro e formazione) si stabilisce che la responsabilità della formazione è esclusivamente regionale con la possibilità che si possa svolgere in azienda purché seguendo le linee di indirizzo stabilite dall’ente regionale. Entro 45 giorni dalla stipula del contratto la Regione dovrà comunicare al datore di lavoro «sedi e calendario delle attività previste, avvalendosi anche delle imprese e delle loro associazioni».

Repubblica 3.5.14
Bonus, copertura dubbia tecnici del Senato scettici su Iva e lotta all’evasione
“Buco Irap maggiore del previsto, gettito rendite sopravvalutato e rischio di incostituzionalità per la tassa sulle quote Bankitalia”
di Luisa Grion


ROMA. Dubbi e critiche dai tecnici del Senato sul decreto Irpef, quello che a fine mese porterà nelle tasche di dieci milioni di italiani 80 euro in più. La copertura del bonus non è scontata, annuncia il Servizio Bilancio di Palazzo Madama.
Tre i punti controversi, sui quali gli esperti hanno chiesto al governo spiegazioni più precise di quelle contenute nella relazione tecnica al decreto: il minor gettito derivato dal taglio dell’Irap, le stime sulle risorse ottenibili grazie alla lotta all’evasione e la maggiore tassa che le banche dovranno versare sulle quote di Bankitalia. Ma i rilievi mossi riguardano anche la tassa sulle rendite finanziarie e le maggiori entrate Iva attese dai pagamenti dei debiti pregressi della pubblica amministrazione.
Per quanto riguarda l’Irap, i tecnici del Senato temono che il calo di gettito derivato dal taglio della tassa sia stato sottostimato. Il governo lo ha quantificato in 2.059 milioni l’anno, quota che, sottolinea il dossier, «corrispondeall'8,3 per cento rispetto alle entrate del 2014». Ma tale percentuale, si precisa, «è sensibilmente inferiore a quanto previsto dalla normativa, dato che le variazioni in riduzione vanno dal 9,52 al 10,53 per cento ». Salterebbe quindi una parte della copertura legata a tale voce, ma non solo. Dubbi anche sui 2 miliardi previsti per il 2015 grazie alla lotta all’evasione, visto che «non è stata fornita alcuna informazione su strumenti e metodologie» utilizzabili per ottenerne il recupero. Le entrate preventivate dal Tesoro sarebbero messe a rischio anche da un possibile «profilo d’incostituzionalità » riscontrabile nell’aumento dal 12 al 26 per cento della tassa applicata sulle plusvalenze derivate a banche e assicurazioni dalla rivalutazione delle quote Bankitalia. Una misura che dovrebbe garantire coperture per oltre 2 miliardi sulla quale, secondo il Servizio Bilancio, le banche potrebbero fare ricorso visto che «repentini mutamenti del quadro normativo potrebbero finire per definire la tassazione postuma di una ricchezza non più attuale». Ovvero potrebbero «non garantire quell'esigenza di anticipata conoscenza da parte del contribuente del carico fiscale posto sulle proprie attività economiche, con conseguente possibile violazione di precetti costituzionali ». Ma i tecnici del Senato restano perplessi anche davanti all’automatismo fra sblocco dei debiti della P.a e relativo aumento delle entrate da Iva (600 milioni in più previsti per quest’anno e un miliardo a regime). E fanno notare come, l’aver aumentato dal 20 al 26 per cento le tasse sulle rendite finanziare, potrebbe spingere alcuni investitori a spostarsi su titoli esteri, riducendo quindi le risorse ottenibili da tale capitolo.
Dubbi che il Pd fuga e che l’opposizione cavalca. Palazzo Madama «si metta l’anima in pace: le coperture ci sono e le stime sono state fatte in maniera prudenziale » assicura Edoardo Fanucci del Pd. «Se fossimo malpensanti sottolineeremmo che queste critiche provengono da un’istituzione che è interessata da una riforma radicale messa in campo dal governo» rincara. Opposta analisi da parte di Forza Italia: «Le coperture millantate da Renzi non ci sono e la manovra correttiva è sempre più vicina » ha commentato

Corriere 3.5.14
Falsa partenza del Piano giovani Ancora fermo quasi un miliardo
Tredici Regioni non hanno firmato l’intesa con il governo
di Rita Querzé


MILANO – Con 680 mila disoccupati tra i 15 e i 24 anni, l’Italia non può permettersi di sprecare il miliardo e mezzo della Garanzia giovani. Eppure il rischio c’è. E il buongiorno non rassicura.
L’operazione Youth Guarantee è ufficialmente partita l’altro ieri, Primo maggio. Ma le Regioni in grado di rispondere ai ragazzi con una proposta di lavoro, uno stage, un corso di formazione o con qualunque proposta possa aiutarli a uscire dal giro dei disoccupati (compreso il servizio civile o un aiuto per mettersi in proprio), a oggi sono soltanto sette. Per l’esattezza: Calabria, Emilia Romagna, Lazio, Sardegna, Toscana, Valle D’Aosta, Veneto.
Le altre? Ce ne sono cinque con una convenzione già pronta che ragionevolmente dovrebbe avere la ratifica a breve dal ministero del Lavoro. Si tratta di Abruzzo, Marche, Piemonte, Trentino Alto Adige, Umbria. Nel resto d’Italia le regole della Garanzia giovani sono ancora materia di discussione all’interno delle giunte regionali. Accade in Lombardia come in Molise. Ma più in ritardo di tutti è la Sicilia. Qui siamo ancora allo stadio del confronto con le parti sociali, previsto settimana prossima. L’obiettivo – dicono all’assessorato alla Formazione professionale – sarebbe recuperare il tempo perduto e portare la convenzione sulla Garanzia giovani in giunta entro metà maggio. Poi bisognerà attendere la firma del ministero.
Visto che il miliardo e mezzo della Youth Guarantee è già stato ripartito tra le Regioni, si può calcolare a quanto ammontano i fondi ancora congelati dalla mancanza della firma sotto le convenzioni regionali. Bene: il 65,8% delle risorse al momento è bloccato. In pratica i due terzi, quasi un miliardo.
Certo, si può recuperare. Se si tiene conto, però, che il programma Garanzia giovani sarebbe già dovuto partire a marzo 2014, a questo punto l’Italia è costretta a lottare per il modesto obiettivo di ridurre il ritardo. Ma quello che colpisce di più è che nemmeno i giovani sembrano crederci fino in fondo. Con i 680 mila disoccupati under 24 di cui si parlava all’inizio e oltre 2 milioni di «né-né» – giovani sotto i 29 anni né lavoratori né studenti – il Primo maggio il portale www.garanziagiovani.gov.it avrebbe dovuto subire un vero assalto. Invece si sono registrati in poco meno di 4.914. A cui bisogna aggiungere 2.700 iscrizioni sui portali delle (poche) Regioni già partite.
Qualcosa non va? Adapt, associazione per gli studi sul diritto del lavoro e le relazioni industriali, critica duramente la partenza della Garanzia giovani. «Poteva essere un Primo maggio diverso, un Primo maggio europeo. Invece il sito web nazionale della Garanzia giovani non è ancora pienamente attivo», recita un bollettino diffuso ieri dall’associazione che ha il giuslavorista Michele Tiraboschi come responsabile scientifico. «Primo punto: non abbiamo ancora capito quanto è stato speso per il portale appena attivato – lamenta la ricercatrice Giulia Rosolen –. Di certo il risultato è modesto. Il sito contiene poche informazioni. L’unico lato positivo è che registrarsi è semplicissimo. Bastano nome, cognome e data di nascita, non serve nemmeno il titolo di studio. Ma questo presuppone che poi qualcuno chiami davvero i ragazzi per un colloquio entro 60 giorni».
Di certo ogni Regione sta andando per conto proprio. Il ministero del Lavoro ha stabilito, da una parte, a quanto ammonteranno gli incentivi per chi offre contratti di apprendistato, stage o assunzioni vere e proprie. Dall’altra, come saranno remunerate le agenzie per il lavoro private. Ma poi ogni Regione decide da sola su cosa puntare. Si scopre allora che l’Emilia Romagna investirà poco sul lavoro del collocamento e delle agenzie private per il lavoro. Mentre nel Lazio il cosiddetto «accompagnamento al lavoro» conquista 34 milioni di euro.
Chi ha tutto l’interesse a raddrizzare le cose è Italia Lavoro, l’agenzia che sarà chiamata a intervenire in corsa in caso le Regioni risultino inadempienti. «Ecco perché stiamo già aiutando molti territori a realizzare il loro progetto di Garanzia giovani. Marche e Umbria, per esempio», spiega il presidente, Paolo Reboani. Convinto che ora tocchi alle Regioni fare i compiti a casa. Tra sei mesi si tireranno le somme. E si darà loro il voto.

Repubblica 3.5.14
Italia sempre più divisa dagli stipendi
Il 10% più ricco riceve il 70% in più della media, mentre la povertà relativa aumenta di otto punti in trent’anni
Al contrario, i francesi hanno fortemente ridotto la disuguaglianza e dato ossigeno alle fasce più deboli
di Rosaria Amato


ROMA . Forse non porterà entrate gigantesche allo Stato, però il tetto dei 240.000 euro sugli stipendi dei dirigenti pubblici posto dal governo Renzi con il dl Irpef può essere davvero un primo passo per superare una situazione di grave squilibrio tra i redditi degli italiani, che negli ultimi 30 anni si è aggravata pesantemente. «Il rapporto fra i salari relativamente più ricchi ed il salario mediano è aumentato da circa il 140 per cento nei primi anni 80 a circa il 170 per cento nel 2006. Ciò significa che il 10 per cento dei lavoratori con salario più alto riceve circa il 70 per cento di salario in più rispetto al lavoratore mediano», spiega Salvatore Morelli, dottorato in Economia a Oxford, ricercatore presso il CSEF, Dipartimento di Economia e Statistica presso l’Università di Napoli Federico II. Morelli ha appena pubblicato, con Anthony B. Atkinson, professore di Economia all’Università di Oxford e alla London School of Economics, il “Chartbook of economic inequality”, una dettagliatissima banca dati che mette a confronto cinque dimensioni diverse di disuguaglianza economica per 25 Paesi diversi a partire dall’inizio del ventesimo secolo. I risultati per l’Italia sono solo apparentemente incoerenti: «Se guardassimo unicamente alla classica misura di disuguaglianza di reddito, il cosiddetto coefficiente di Gini, dovremmo concludere che la disuguaglianza economica in Italia sia rimasta sostanzialmente stabile negli ultimi anni, nonostante un lieve aumento dal 2008 al 2010, durante l’acuirsi della crisi economica. - dice Morelli - Il problema è che però il coefficiente di Gini si basa su dati che vengono da indagini campionarie, che hanno una forte difficoltà rispetto alla rappresentatività dei ricchi. Infatti, al di là dei fenomeni dell’evasione e dell’elusione fiscale, è difficile che una persona veramente ricca dichiari tutte le proprie entrate. Risultano dunque più indicativi i dati che vengono da tabulazione statistica». E così, si scopre che l’1 per cento più ricco della popolazione, circa 600.000 persone, nei primi anni ‘80 concentrava nelle proprie mani circa il 6 per cento del reddito nazionale; negli ultimi anni la stessa quota è arrivata al 10 per cento. Non solo: «La ricchezza è notoriamente più concentrata del reddito - rileva Morelli - e anche in questo caso la disuguaglianza è aumentata negli anni, tanto che l’1 per cento più ricco detiene oggi il 16 per cento della ricchezza nazionale, quota che nei primi anni 90 era del 10 per cento». Di contro, il tasso di povertà relativa in Italia è aumentato di 8 punti percentuali, dal 15 per cento dei primi anni 80 al 23 per cento del 2012. Ecco perché ridurre gli stipendi dei manager pubblici non basta, come non bastano gli 80 euro in più sullo stipendio garantiti dal dl Irpef a tutti i lavoratori con salari da 8.000 a 24.000 euro. Servirebbero le misure per i quattro milioni di incapienti, e non solo: a guardare i dati dei 25 Paesi a confronto, osserva Morelli, la misura che probabilmente funziona di più è quella del salario minimo: «Però c’è un’avversione di principio per questo tipo di trasferimenti che sono considerati improduttivi - ammette l’economista - perché non legati al fatto che uno lavori». Eppure, i risultati si vedono per esempio in Gran Bretagna, decisamente un Paese precursore su questo tipo di interventi: «A fronte di un andamento decisamente peggiore della disuguaglianza nel Regno Unito - rileva Morelli - però dal 1990 al 2012 la povertà relativa è scesa dal 22 al 16 per cento, un andamento speculare rispetto all’Italia. Nei Paesi anglosassoni il disinteresse verso la disuguaglianza è affiancato da politiche di compensazione a favore delle fasce più povere della popolazione». Certo, la crisi ha messo a dura prova anche modelli storici di grande validità come quelli scandinavi. Ma ci sono Paesi che tengono duro, nonostante la crisi, e che, a giudicare perlomeno dai dati, hanno politiche a prova di bomba per ridurre disuguaglianza e povertà: nella scheda che l’indagine Atkinson-Morelli dedica alla Francia per esempio si legge che il coefficiente di Gini è stabile dagli anni ‘90, la disuguaglianza si è ridotta dagli anni ‘60 ai ‘90 e poi si è mantenuta allo stesso livello, la povertà è caduta ininterrottamente dal 1970 al 2000, per poi salire leggermente solo negli anni della crisi, la quota dell’1 per cento di redditi e ricchezza è una linea piattissima.

La Stampa 3.5.14
I disoccupati calano in Europa
Ma non in Italia
di Luca Fornovo


La disoccupazione resta il nemico numero uno dell’Italia. A marzo il ritmo di crescita dei senza lavoro è stato tra i più veloci (dal +12 di marzo 2013 a +12,7%) in Europa, dopo Cipro e Olanda. Mentre i giovani (under 25) sono schizzati al 42,7%, contro la media del 23,7% nell’Eurozona.
I dati Eurostat di ieri certificano in pieno quello che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha definito «l’allarme lavoro», una priorità nazionale su cui il governo dovrà accelerare per fare riforme e favorire nuovi posti di lavoro. Esaminando in profondità i dati Eurostat, con le elaborazioni della Fondazione Hume, emerge chiaramente quanto sia difficile per l’Italia stare al passo con gli altri Stati sul mercato del lavoro. Nell’ultimo anno, come mostra il grafico in alto, risultano 194 mila i disoccupati in più nel nostro Paese, mentre l’Eurozona ha invertito la marcia e il numero dei senza lavoro è stato drasticamente ridotto: 312 mila in meno (tasso di disoccupazione al 12%. Per non parlare dell’Europa a 27: quasi un milione in meno (945 mila per la precisione) di disoccupati. I problemi del nostro mercato del lavoro, secondo gli economisti sono tanti: è più rigido che in altri Paesi, siamo in ritardo con le riforme strutturali e molte aziende dovranno ridurre la cassa integrazione prima ancora di assumere. Insomma ci vorrà tempo prima di vedere scendere la disoccupazione. «Guardando al passato con la recessione del ’92-93 ci sono voluti quasi dieci anni per tornare ai livelli di occupazione prima di quella crisi» ragiona Stefania Tomasini, responsabile per Prometeia di analisi e previsioni sull’economia italiana.
Ma il problema principale, che fa la differenza con il resto del Vecchio Continente, a detta degli esperti, è la crescita. Negli altri Paesi europei è più robusta e permette di creare più posti, mentre in Italia il Pil viaggia da troppo tempo sotto lo zero e ora poco sopra. «Se il Pil dell’Italia crescerà dell’1-1,5% potremmo recuperare - stima l’economista di Prometeia - lo 0,6-0,7% dell’occupazione all’anno. Per vedere un’inversione di tendenza, un punto di svolta con una riduzione, seppure lieve della disoccupazione, bisognerà attendere l’inizio del 2015».
Punta il dito sulla crescita, come panacea di molti mali dell’economia italiana anche la Banca d’Italia. Nel suo ultimo rapporto Bankitalia ritiene che il quadro della stabilità finanziaria del nostro Paese è migliore rispetto a sei mesi fa, mentre rimane un «sostanziale equilibrio nel lungo periodo dei conti pubblici» anche se la una ripresa economica è ancora fragile. Il rapporto segnala anche una frenata, nel 2013, della caduta del reddito disponibile delle famiglie, uno degli elementi di maggior rischio a fronte di una condizione finanziaria che resta comunque solida grazie anche al basso indebitamento mentre ripartono i mutui casa nel primo trimestre di quest’anno.
Ma a trovarsi in acque poco tranquille sono ancora le imprese per le quali i segnali positivi si scorgono solo, a fronte di condizioni finanziarie deboli anche perché le nostre banche sono alle prese con aumenti di capitale per un totale di 10 miliardi. Se il Pil dovesse continuare con il segno positivo, secondo gli esperti di Bankitalia, il credito potrebbe riprendere a fluire a inizio 2015 a tutti i settori e non solo quelli più dinamici e orientati all’export. Mentre i prestiti in sofferenza (difficili da recuperare) delle banche potrebbero riportarsi su livelli fisiologici dopo la fine del 2014.
Il quadro però, avvisa Palazzo Koch, resta fragile. Fra i fattori di rischio: il periodo di bassa inflazione prolungata che peserebbe su Paesi con un alto debito pubblico come il nostro, le tensioni geopolitiche in Ucraina e l’innalzamento dei tassi per via dell’orientamento meno accomodante negli Stati Uniti. Dai Paesi Emergenti, conclude Bankitalia, sta tornando comunque un flusso di denaro che raffredda lo spread e dà ossigeno alle banche.

La Stampa 3.5.14
Resta il gelo Renzi - Camusso
Il premier non andrà al Congresso di Rimini
«Ci dispiace, ma non è il primo inquilino di Palazzo Chigi che non viene ai nostri congressi»
di Amedeo La Mattina


Intanto la notizia che conferma i cattivi rapporti con il sindacato guidato da Susanna Camusso: la prossima settimana Renzi non andrà al congresso della Cgil. Il sindacato lo ha formalmente invitato e attende una risposta. Tre giorni fa Camusso si è trincerata dietro un «lasciamo un po’ di suspense». E invece il premier ha deciso di non esserci. «Ci dispiace, ma ce ne faremo una ragione: non ci strapperemo le vesti, non è il primo inquilino di Palazzo Chigi che non viene ai nostri congressi», commentano a Corso d’Italia con un’alzata di spalle, facendo riferimento a Berlusconi.
Forfait al più grande sindacato italiano con il quale Renzi ha i maggiori contrasti, preferendo dialogare con Landini. Un altro schiaffo dell’ex sindaco di Firenze che non invita la Cgil (ma neanche Cisl e la Uil) al tavolo delle trattative. Contrasti sul Jobs Act, sulla riforma della Pubblica Amministrazione, sulla politica economica in generale. Il capo dello Stato Napolitano, nel giorno della Festa dei lavoratori, ha chiesto alle organizzazioni dei lavoratori di avere più coraggio ed essere più innovatori. «Noi siamo sempre stati coraggiosi. È stucchevole sentirsi mettere addosso i peccati di altri», risponde piccato Raffaele Bonanni, che invita anche Napolitano a guardare verso la Cgil. Ma dai piani alti della Cgil si invita il presidente della Repubblica a girare lo sguardo invece verso le mancanze delle imprese. Vedi l’Elettrolux che vuole lasciare l’Italia non perché è in crisi ma perché non fa profitti adeguati.
I sindacati sono in una trincea difensiva sempre più profonda da cui stentano a uscire per andare all’attacco. Renzi li snobba, se ne infischia della Camusso. Sembra non temere i contraccolpi elettorali dei pubblici dipendenti e di tutto il mondo cigiellino. Ma in questa trincea i sindacati sono in attesa delle urne europee. Se per il Pd di Renzi il risultato elettorale dovesse essere deludente, presenteranno il conto al «populista fiorentino». Con sfumature diverse, questo è il discorso che si sente in casa Cgil, Cisl e Uil. La Cisl è più prudente, meno interessata al rapporto elettorale con il Pd. Ma Bonanni vanta buoni rapporti con molti renziani (Delrio, Serracchiani, Lotti, Guerini). «Renzi non ci fa bazzicare a Palazzo Chigi - dicono a via Po - ma sotto traccia le cose sono diverse». Cgil e Uil hanno sempre fatto giochi diversi ed espresso opinioni diverse. Anche ieri sulla polemica sollevata da Pelù: Camusso ha condiviso le sue critiche, Bonanni è stato molto freddo con il cantante che, a suo parere, avrebbe approfittato del palco del Primo maggio.
Il vero braccio di ferro è tra Renzi e Camusso. Il premier non fa distinzioni tra Cgil da un parte e Cisl e Uil dall’altra per non avere troppi problemi con la sinistra Pd. Ma il suo obiettivo è tagliare le unghie alla Camusso. Tuttavia lei in Parlamento graffia con una pattuglia di parlamentari Pd. «La Cgil non conta niente? Renzi - avvertono a Corso d’Italia - si ricordi che la Cgil ha 1 iscritto ogni 10 abitanti, bambini e anziani compresi. La riforma della P.A.? Se il premier è convinto di farla passare senza coinvolgere i lavoratori ci provi. Non ci è mai riuscito nessuno. Poi gli osservatori si mettano d’accordo: un giorno dicono che la Cgil non conta niente, un altro che il Jobs Act ha subito il diktat della Camusso»

il Fatto 3.5.14
Pubblica amministrazione, Quale riforma?
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, ho letto per giorni fantasiose anticipazioni. Prestigiosi giornali e autorevoli conduttori tv mi preannunciavano “la rivoluzione” nella Pubblica amministrazione. Visto niente?
Fabrizio

L’AVERE VISTO niente non è il punto debole di tutta questa sconcertante storia. Può sempre capitare. Dopotutto il ministro competente aspettava un bambino e abbiamo visto ritratti madre-bambino da Raffaello. Più disorientante è che, subito prima, i tamburi abbiano rullato la notizia della rivoluzione che era sul punto di sconvolgere tutto ciò che chiamiamo pubblico impiego. E subito dopo, i migliori giornali e i migliori conduttori tv ci hanno parlato del ciclone Renzi come se si fosse scatenato, e intanto dovevano per forza constatare che non si è mossa, non si muove e non si muoverà una foglia, perché le poche cose annunciate non sono niente. Francamente non era necessario che “La Stampa” intitolasse: “La sforbiciata di Renzi”, visto che non solo non c’è stata alcuna sforbiciata (forse qualche prefettura in meno) ma non è neanche stata descritta o data per imminente. E non era il caso di intitolare “Statali si cambia” (Repubblica) perché non si cambia. E il “Corriere della Sera”, che il giorno prima aveva predetto “Ora la riforma degli uffici pubblici”, il giorno dopo intitola “Staffetta negli uffici e spese online” perché al momento non c’è altro da dire. D’accordo, il problema non è dei giornali. E non è di Marianna Madia che, invece della riforma, ha fatto un bel bambino (come nelle canzoni del folclore popolare). Starei per dire che non è neanche di Renzi , che avrebbe potuto, con tutta quella smania della corsa, creare seri danni all’unica macchina amministrativa che abbiamo, e invece ha preso tempo, ha persino interrotto la sua interpretazione dell’ostinato maratoneta. Direi che, come nel lavoro a maglia, gli si è disfatto il gomitolo, si è aggrovigliata la matassa e, momentaneamente, ha perso il filo. Siamo arrivati a un punto in cui la barriera che ha fermato il gioco non è stata una rivolta politica o una resistenza sindacale, ma la pura e semplice impossibilità, che forse i due giovani governanti hanno visto (capito) insieme all’ultimo momento, dell’idea di smontare e rimontare in quattro e quattro otto una macchina complessa e scassata, che ha tanti difetti ma è l'unica struttura dello Stato che abbiamo. E qui si pone il problema: che cosa è la burocrazia. È politica. Tutti i mali del pubblico impiego riflettono interferenze profonde e variamente (non sempre nobilmente) motivate di varie generazioni di partiti e di governanti. È da quella parte che bisogna cominciare, non dall’idea che una luce dall’alto farà finalmente chiarezza sulla presunta incapacità degli impiegati con il semplice annuncio che “i dirigenti saranno licenziabili”, che “Aci, Pra e Motorizzazione civile saranno un unico ufficio”, e “ci saranno 40 prefetti”. Io comincerei con conoscere il corretto e buon lavoro di tanti (nella confusione, contraddizione, sovrapposizione, divieti e interventi di vari poteri) per consigliarmi con loro prima di fare disastri.

Repubblica 3.5.14
Madia: già 3000 mail sulla pubblica amministrazione
Sindacati contro il governo: se la prende con i lavoratori
La protesta dei prefetti “Smantellare le sedi coltellata alla schiena”
di Alberto Custodero


ROMA. Contro il taglio delle Prefetture insorgono i prefetti. E contro la riforma della pubblica amministrazione, i sindacati attaccano Renzi.
Protestano il Primo Maggio le tre organizzazioni sindacali confederali. «Ai governi che cambiano le regole del lavoro non per creare posti, ma per difendere le rendite, dico che sono dei bugiardi», attacca Raffaele Bonanni, leader della Cisl. Per Susanna Camusso, Cgil, «bisogna salvaguardare l’autonomia della pubblica amministrazione, tornare a competenze e concorsi, ad essere trasparenti. E basta tagli». Mentre il leader della Uil, Luigi Angeletti, bolla come «una stupidaggine » l’idea del governo di un confronto via e-mail sulla riforma della Pubblica amministrazione. Ma a questo proposito la pensa diversamente il ministro della Pubblica amministrazione. «Oltre 3000 mail sono giunte all’indirizzo rivoluzione@governo.it in due giorni, con il Primo Maggio di mezzo - ha twittato Marianna Madia - tante proposte, presto cominceremo a raccontare le proposte per #riformapa dei cittadini»».
E protestano anche i prefetti. «Lascia stupefatti la disinvoltura con la quale è stato annunciato lo smantellamento della presenza dello Stato sul territorio con la chiusura di oltre il 60% delle attuali Prefetture», è la protesta in un comunicato congiunto delle tre associazioni prefettizie (Claudio Palomba, Sinpref; Rocco Galati, Snadip Cisal; Antonio Corona, Ap). «Certo - commentano con sarcasmo i prefetti - somiglia molto a una pugnalata alla schiena l’annuncio dello smantellamento delle prefetture nel medesimo momento in cui dai nostri uffici proprio in questi giorni, in queste ore, si pretende di trovare improbabili soluzioni di accoglienza sull’intero territorio nazionale a fronte di crescenti e inarrestabili arrivi via mare dalle coste dell’Africa, soluzioni cui, senza sosta, turni e orari, sta collaborando l’intero personale».
Sulla riforma delle Prefetture, anzi sulla drastica riduzione annunciata da Renzi da 105 a 40, è intervenuto anche il ministro dell’Interno. «Nessuno mi chieda - ha detto Angelino Alfano - di essere puramente conservatore dell’esistente. La sfida del cambiamento incombe su tutti e nessuno può sottrarsi. Invito i sindacati a farci conoscere la loro proposta per l’ammodernamento dell’amministrazione dell’Interno». Gli risponde il suo consulente giuridico, Bruno Frattasi (presidente Anfaci). «Non siamo e non vogliamo essere identificati come categoria che fa resistenza al cambiamento - replica l’ex prefetto di Latina che chiese, invano, lo scioglimento del comune di Fondi - desideriamo però un cambiamento secondo un progetto funzionale per le esigenze vere del Paese. Dopo si arriva ai numeri». «La riduzione da 105 a 40 prefetture - aggiunge - non è un progetto di riordino, ma una decimazione che getta nello smarrimento la categoria». I prefetti, pur nello «smarrimento» generale, hanno accolto l’invito del presidente del Consiglio di discutere il 13 giugno la ristrutturazione dell’amministrazione dello Stato sul territorio. «Accettiamo l’invito che viene dal premier - ha concluso Frattasi - abbiamo davanti un mese e mezzo per costruire il nostro progetto. Dedicheremo a questo lavoro tutte le nostre forze».

il Fatto 3.5.14
Concertone di fuoco
“Un boy scout di Gelli”: Piero Pelù contro il premier
La Cgil: nessun caso
di Wanda Marra


L’attacco dal palco del 1° Maggio. I renziani: “Una vendetta perché Matteo lo ha tagliato dall’Estate fiorentina”. Camusso non difende il leader Pd.
“Non mi pare ci sia nessun caso”. Susanna Camusso, leader della Cgil, ci mette quasi 24 ore a intervenire sulla querelle-Pelù. E lo fa a Rimini, prima di aprire le Giornate del Lavoro, solo a domanda specifica e minimizzando il più possibile. Una reazione indicativa dei rapporti quanto meno tesi che intercorrono tra Matteo Renzi e i sindacati.
DAL PALCO del “Concertone” del Primo maggio, appuntamento tradizionale del popolo di sinistra, organizzato da Cgil, Cisl e Uil, e visto in diretta tv da 4 milioni di telespettatori, Piero Pelù, voce dei Liftiba, aveva sferrato un attacco a tutto tondo al presidente del Consiglio, nonché segretario del Pd. Marcando una distanza tra la piazza tradizionalmente vicina ai dem e il loro leader, che il sindacato non ha sentito l’esigenza di provare a colmare. Anzi. Prima di cantare “Il pescatore” di Fabrizio De André legge da un foglietto una vera e propria invettiva , contro il “non eletto, ovverosia il boy scout di Licio Gelli”: “Deve capire che in Italia c'è un grande nemico ed è un nemico interno, è la corruzione, la disoccupazione, il voto di scambio, la mafia, la ’ndrangheta, la camorra. La nostra è una guerra interna, il nemico è dentro di noi”. E poi: “Non vogliamo elemosine da 80 euro, vogliamo lavoro”. Non risparmia neanche “le spese militari per gli F-35” che “rubano i soldi alla scuola e agli ospedali”. Beppe Grillo si schiera e mette l’intervento di Pelù in apertura del suo blog.
IL PD - renziani e non - si attiva in massa per respingere le accuse al mittente. Il “la” lo danno le capoliste alle europee. “Quando la buona politica va veloce succede che pure il rock diventa lento”, se è per Pina Picierno. Alessandra Moretti: “Comici e cantanti facciano il loro mestiere”. Il deputato David Ermini twitta: “Ma quel Pelù del concerto del primo maggio è lo stesso a cui @matteorenzi non rinnovò l’incarico da 60 mila euro per l’estate fiorentina?”. E poi, rincara la dose: “Se fosse stato Ligabue mi sarei preoccupato. Ma Pelù... C’era lui solo perché non avevano trovato altri”. Dice la sua anche il Giovane Turco, Matteo Orfini: “Si può discutere di quanta spesa ci fai. Ma chi definisce elemosina gli 80 euro il problema di fare la spesa evidentemente non l’ha mai avuto”. Mentre Michele Anzaldi, membro della Commissione di vigilanza Rai, tira in ballo la par condicio, chiamando in causa Roberto Fico, presidente della Vigilanza e Angelo Cardoni, presidente Agcom: “I telespettatori hanno assistito a un intervento dai chiari contorni politici, oltreché offensivi, contro il presidente del Consiglio in pieno periodo elettorale regolato dalla par condicio.
La stessa per cui al premier è stato impedito di andare ad Amici e giocare la Partita del Cuore”.
CERTO, Pelù non è un politico e a posteriori l’intervento sembra una testimonianza. O forse un allarme preventivo. Infatti, dal 7 maggio, e per 5 puntate, Pelù farà parte della giuria di The Voice, il talent in diretta su Rai due. In piena campagna elettorale, potrebbe tornare sull’argomento. Ieri peraltro, pur scusandosi con gli italiani per aver definito “elemosina” gli 80 euro, rincara la dose: “Renzi mente sapendo di mentire, sono stato io a lasciare l’Estate fiorentina”. Renzi non risponde direttamente. È impegnato a lavorare, dicono i suoi. E poi, non è il caso. “Si commenta da sé”, dice ai fedelissimi. E la mancata difesa della Cgil? “Bè, è evidente che non vanno proprio d’accordo”, afferma un renziano. La Camusso nella manifestazione del Primo maggio a Pordenone ha attaccato all’arma bassa: “Il governo non pensi che si possa continuare con una politica che impoverisce il paese”. E, “basta con “sorrisi” e “annunci” , servono “riforme che cambino a fondo il Paese”. “Cambiare marcia, Serve un governo che le cose le faccia” dice Luigi Angeletti. E Raffaele Bonanni: basta “teatrini”, servono “progetti chiari e trasparenti”. L’ultimo colpo il premier ai sindacati lo manda nella conferenza stampa dopo il Cdm sulla Pa di mercoledì scorso: “C’è forse l’idea che il datore di lavoro non possa parlare con i lavoratori e che per discutere con i lavoratori il tramite del sindacato sia vincolante e imprescindibile?”, dice, annunciando che sulla “rivoluzione” in arrivo consulterà direttamente i lavoratori, scavalcando le sigle confederali. Questo mentre loro lo richiamano continuamente alla concertazione, che lui sistematicamente eluderebbe. “Camusso chiede riforme, il problema è che quando il governo le fa, il sindacato è contrario”, reagiscono i renziani.
IL PREMIER, che ha trascorso il ponte festivo a casa sua a Pontassieve, preferisce sorvolare. Ma intanto al congresso della Cgil, la prossima settimana a Rimini, al quale era stato invitato, non ci andrà. Né ha mai pensato di andarci. Spiegano a Palazzo Chigi che l’appuntamento non è mai stato in agenda.

il Fatto 3.5.14
Da Verdini a Ledeen sospetti e smentite
di FD’E


LE VOCI su Renzi e la massoneria toscana di Licio Gelli si rincorrono da mesi. Addirittura, il papà del premier, l’imprenditore Tiziano Renzi, è stato costretto a smentire una sua presunta affiliazione a una loggia massonica. Tutta colpa della frequentazione e delle affinità con il corregionale berlusconiano Denis Verdini, il regista del patto del Nazareno nonché altro politico sospettato di un essere un grembiulino di rango. Il tormentone di Renzi e Gelli, ripreso da Pelù, è da settimane rilanciato con insistenza dal blog di Beppe Grillo. Un vero cavallo di battaglia.
L’ultimo anello della presunta catena occulta del premier ha il nome di Michael Ledeen, una delle figure più inquietanti dell’intelligence americana, che ha lavorato con le amministrazioni di Reagan e Bush figlio. Ledeen è stato grande amico di Gelli e le sue impronte digitali compaiono in tutti i misteri della Repubblica italiana, dalla P2 ai servizi deviati, dall’uccisione di Moro alla strage di Bologna. Ad avvicinare Renzi a Ledeen è stato Marco Carrai, che è il custode finanziario delle trattative più riservate del premier. Ovviamente a reggere tutti i sospetti è il rapporto di simpatia e di collaborazione tra Renzi e Berlusconi, già iscritto alla loggia del Venerabile Gelli. La prossima settimana, per Kaos Edizioni, uscirà l’ultimo lavoro di Michele De Lucia, ex tesoriere di Radicali italiani, dedicato proprio a Renzi: Il Berluschino. Il fine e i mezzi di Matteo Renzi. I riferimenti alla massoneria compaiono in tre distinti capitoli, di cui uno intitolato malignamente L’apprendista politicante.

il Fatto 3.5.14
Rino Formica L’ex ministro socialista
“Il programma della P2 è già qui”
intervista di Fabrizio d’Esposito


Rino Formica, per tantissimi motivi, non è come Piero Pelù o Beppe Grillo. Ma l’ex ministro socialista, peraltro amico di Giorgio Napolitano, è stato il primo, lo ha ricordato ieri Dagospia, a scoprire il virus del gellismo nel programma pseudoriformista del premier, basato sul patto scellerato BR, cioè B. più Renzi.
Gelli è vecchio e malato, ma la continuità piduista appare come una maledizione eterna. Adesso tocca alla sinistra. È la prima volta che accade.
Non soffermiamoci sull’evocazione nominalistica, non mi interessa e non è questo il punto, se Renzi sia massone oppure no. Piuttosto bisogna capire un fatto profondo.
Quale?
Che cos’era il Piano di rinascita democratica di Gelli?
Lei ha scritto che, dopo 35 anni, vede il suo compimento. L’abolizione del Senato, il monocameralismo, l’indebolimento dei sindacati. Troppe analogie inquietanti.
Dall’Unità a oggi, in centocinquanta anni, il bisogno di avere più concentrazione di potere e meno controllo democratico è stato costante. Il piano di Rinascita rappresenta questa spinta e il punto di applicazione è lo snervamento della democrazia politica e sociale organizzata.
Cioè i partiti e sindacati.
In questo ventennio il processo di depauperazione della democrazia organizzata è arrivato al punto finale con Renzi.
Perché proprio con lui?
La sua Opa sul Pd non è casuale. E parlo di Opa perché Renzi non ha conquistato il partito dall’interno, ma dall’esterno, utilizzando quello strumento di ipocrisia democratica che sono le primarie. Adesso il secondo attacco è alla rappresentanza istituzionale. Mussolini, nel 1926, fece una leggina per mettere i podestà nei comuni sotto i 5 mila abitanti, eliminando i consigli comunali. Poi, poco alla volta, li mise in tutti. La rappresentanza fu completamente abolita.
Mussolini e Gelli sono richiami infamanti per un premier di centrosinistra.
La distruzione di partiti e sindacati, cioè dei corpi intermedi, è stata fatta per via autoritaria dal fascismo e poi cercata con vari tentativi di golpe. Il piano di Gelli è invece per via democratica.
Così Renzi sembra davvero il boy scout del Venerabile Licio. Lei parla di catto-massonismo.
Vede, quando io cito la massoneria, per quanto riguarda la maggioranza in sonno tra Berlusconi e Renzi, mi riferisco al metodo. Un metodo che porta a decisioni prese in modo occulto, in ambienti massonici o paramassonici. E poi non dimentichiamo la grande suggestione offerta dalla potente rete della massoneria toscana.
I sospetti sul plurinquisito Verdini, lo sherpa toscano di B. per le riforme.
Piuttosto ricorderei quello che è successo nel 1996 con Lamberto Dini.
Altro presunto fratello.
Nel 1994 dopo Berlusconi ci fu Dini al governo. Strada facendo si organizzò per conto suo e alle Politiche del 1996 si presentò con una propria lista nel centrosinistra. C’era lo sbarramento del 4 per cento e in Toscana il Pds fece una trasfusione di sangue “rosso” per consentirgli di raggiungere il quorum. Così subito dopo le elezioni Dini fece un manifesto politico per riproporre le riforme del piano di Gelli. Questa spinta alla riduzione democratica ha una sola madre ma tanti padri, come si può notare.
E chi è la madre?
È una filosofia della rappresentanza che omaggia la forma, non la sostanza. Sulla decretazione d’urgenza sono previste riforme che non riuscirono nemmeno al fascismo. Per non parlare del Senato, che si vuole trasformare in un organo ridicolo e mefitico.
Perché mefitico?
Sarà composto dai consiglieri degli organi più infetti e più sputtanati dagli scandali.
Le Regioni.
Ecco, saranno anche loro a decidere come cambiare la Costituzione e chi eleggere al Quirinale.
La continuità piduista è viva e lotta a sinistra, stavolta.
I programmi di Gelli e Renzi sono uguali e oggi non c’è alcuna forza maggioritaria, compresa quella di Grillo, che si pone il problema della democrazia organizzata. Voi del Fatto fate battaglie giuste e di verità, ma date una mano alla demolizione quando non distinguete le istituzioni da chi le occupa provvisoriamente. Fate attenzione.

il Fatto 3.5.14
Evoluzioni
Se il cantautore di sinistra non vuole votare più Pd
di Emiliano Liuzzi


L’amore tra la sinistra e il cantautorato italiano è finito da un pezzo. L’ultimo a salutare è stato Francesco Guccini, il maestrone, passato, assai remoto, da anarchico e presente da astenuto: “Non mi riconosco in questa sinistra”, ha detto. “Il massacro di Romano Prodi è stata la svolta. Da qualche parte dovrò pur stare, ma questo Pd non mi piace, non mi piace per niente. Dicono che Matteo Renzi sia democristiano. Io non lo so, non lo conosco”. Non lo conosce e non smania per conoscerlo. Una svolta maturata da tempo da Fiorella Man-noia, un voto a Rivoluzione civile alla Camera, uno al Movimento 5 stelle al Senato. Non al Pd. E se Lucio Dalla aveva chiuso le porte alla sinistra già ai tempi di Cofferati sindaco di Bologna, è sulla via dell’abbandono anche Francesco De Gregori, assolutamente critico nei confronti di Matteo Renzi, e in lite, a mesi alterni, con il resto delle macerie che restano del centrosinistra. Dalla lo raccontava (“a votare non vado più”), De Gregori resta coperto da quel velo di riservatezza, nascosto dietro barba, cappello e occhiali da sole.
Sembra di parlare della preistoria. Ai tempi del Partito comunista, cantanti, ma anche molti attori e registi, stavano da quella parte lì. Chi non si schierava rischiava di finire sul registro delle mosche bianche. O, peggio, nere. Come accadde a Lucio Battisti. All’inizio degli anni Settanta lo accusarono di finanziare gruppetti dell’estrema destra e dovette chiuderla lì anche con i concerti dal vivo, causa minacce. Vuoi per quella direzione ostinata e contraria, vuoi che il loro pubblico era giovane, giovane e comunista. Vuoi che le feste dell’Unità pagavano fior di quattrini per averli a casa. Oggi non c’è più niente di tutto questo. Pochi cantautori giovani, poco pubblico, neppure l’ombra di quelli che erano i valori della sinistra.
Renziano è Roberto Vecchioni che ha dedicato un suo vecchio pezzo al fu giovane rottamatore. Sogna ragazzo sogna. Tenacemente vicino al Movimento 5 stelle Dario Fo. Gino Paoli era comunista e non trova una casa. La stessa dalla quale era uscito Enzo Jannacci, negli ultimi anni disincantato quanto strampalato era stato tutta la vita. A favore di Grillo sono invece sia Cristiano De André che Ivano Fossati: “L’unica rottura in un panorama politico piatto”. The times they’re a’changin, per dirla alla Bob Dylan. E qualche domanda, anche questa classe politica leva anni Settanta, forse dovrebbe porsela.

Repubblica 3.5.14
Lo show anti-Renzi nella Sanremo dei sindacati
di Francesco Merlo



IL BUON vecchio Pelù, travestito da Mefistofele di parrocchia, ha ufficialmente desacralizzato la festa del lavoro di piazza San Giovanni: non più Woodstock italiana ma “Cantagiro del sindacato”, “Sanremo del primo maggio”. Ha infatti letto un messaggio politico elettorale, che era anti Renzi ma poteva essere anti chiunque, da Grillo alla Südtiroler Volkspartei, vendendolo al pubblico del concertone come il pugno chiuso delle Pantere Nere alle Olimpiadi del 1968. Quelle contro il razzismo e lui contro il renzismo.
SO che ne pagherò le conseguenze ma non mi importa niente; ero posseduto dal ribelle che è dentro di me». E va bene che Beppe Grillo è per Pelù quel che la droga pesante e il fuoco furono per Lou Reed e Jimi Hendrix, ma solo uno strapaesano di 52 anni, “tinto” come Berlusconi e non da cummenda ma - peggio - da teenager, può immaginare David Bowie o Mick Jagger o anche il nostro Vasco Rossi che presentano ai fans, maledetti come loro, il certificato di avvenuta rivolta controfirmato da mammà: «La cartina di tornasole è mia madre: mi ha chiamato e mi ha confermato “hai detto tutto bene”».
La signora Pelù ha ragione e a lei va la simpatia delle mamme del mondo che sono ancora tutte belle, persino ai tempi del “punk tuca tuca” di Raidue. Sicuramente la mamma di Jim Morrison avrebbe preferito un figlio come Pelù, santo ricco e in salute, anche se costretto a estenuarsi nella new age sull’Arno («gli inglesi erano troppo borghesi per me»). E persino la signora Rimbaud avrebbe volentieri rinunciato a diventare la generatrice di un grande poeta scellerato e infelice perdutosi nell’inferno in cambio di un cuore di mamma senza rischi come Pelù.
Del resto, l’innocenza di Pelù non ha neppure bisogno dell’attestato materno. E poco importa la polemica sull’Estate Fiorentina dalla quale Renzi lo avrebbe cacciato. Il sapore strapaesano non è questo, il nodo non è l’origine toscanaccia del rancore politico, quale che essa sia. Pelù ha tutto il diritto di essere grillino e antirenziano e le sue idee politiche non sono censurabili da nessuna Vigilanza come ora chiedono i giannizzeri personali di Renzi. Sono invece da capire e persino da studiare la scorciatoia del concertone, la pessima qualità dell’intervento politico, la presunzione di credersi un Norberto Bobbio che canta, la parodia della ribellione, l’abuso pirotecnico del nome Gelli che è un petardo come un altro perché rimanda a un mistero che non necessita di argomenti e che infatti gli ritorna indietro: “bomba boomerang” è la sua canzone più musicarella. «È Pelù che è andato a trovare Gelli» scrivono sull’Unità.it evocando un incongruo incontro del 1995 tra il gran maestro in ritiro e l’ iggy pop di Fiesole tutto famiglia, bicicletta e vino buono. Nulla da dire invece sulla consulenza o la direzione artistica delle manifestazioni canore né tanto meno sul ruolo di coach di canto in una trasmissione reality con un divo sperimentato come la Carrà.
Il punto è che il nostro “toro matto” fa, nel suo piccolo, quello che in Italia fanno tutti gli artisti in crisi creativa: l’intervista logico- filosofica con un grande editore, il comizio politico, la predica ambientalista, un fuori misura sottoculturale che disorienta e a volte rattrista perché ci coinvolge tutti, anche i migliori di noi nello spacciare vacuità per scienza gramsciana. In questo senso il rocker arruffato è l’epigono di Celentano e l’epilogo dell’intellettuale organico ridotto a cantante organico: da Paolo Spriano a Piero Pelù.
È perciò giusto che anche Grillo abbia la sua pop star ufficiale. A giudicare dalle reazioni della rete, Pelù è da oggi il cantante “organico” del Movimento 5 stelle come De Gregori e Venditti lo furono per il Pci, Iva Zanicchi per Berlusconi, Davide Van de Sfroos per la Lega Nord, Vattani per Casa Pound e come Jovanotti lo è per Renzi. D’altra parte di Grillo Piero Pelù ha l’affanno, l’aria di chi ha sempre bisogno d’acqua, i pensieri arruffati, il dito medio esibito su Facebook, un rapporto difficile con i capelli che è il marchio della casa: dalle larghe ondulazioni del Beppe la cui testa è un bosco che canta, al disordine di Casaleggio che non riesce a pettinare i propri pensieri ricci. Pelù è invece il Gengis Khan evocato nel “Grillo canta sempre al tramonto”, quello che davanti alla muraglia cinese si toglie l’elmo e libera la chioma guerriera.
E ovviamente non c’era cattedra più prestigiosa del concertone del primo maggio dove i Gang se la presero con Andreotti, Meg malmenò Tony Blair, il comico Rivera si esibì nell’anticlericalismo contro il Papa, un altro iconoclasta, Luca Romagnoli, distribuì preservativi, l’attore Sergio Castellitto, nella tradizione “è primo maggio, ma tengo famiglia”, lesse un brano del libro della moglie, e ai tempi dei girotondi il talk show in diretta veniva interrotto da voci concitate, «c’è Nanni, c’è Nanni», perché sul palco comiziava Moretti… Povero Pelù, cosa doveva fare, lui che è convinto, fosse pure per rancori personali, che Grillo è di sinistra, il più a sinistra di tutti? Gli hanno insegnato che un artista deve straparlare di politica per riacchiappare il successo con l’idea che davvero sia facile dire cose di sinistra, intelligenti e fuori dal coro.
Ecco, se guardate con attenzione l’esibizione a San Giovanni vi accorgerete che gli applausi non arrivavano mentre Pelù leggeva male il suo temino. Sono invece esplosi abbondanti quando, senza più sbirciare dal foglietto, si è rifugiato nel canovaccio sicuro, «contro la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta», che è il generico repertorio delle buone intenzioni, il rito che desantifica e annulla i valori. Su repubblica.it c’è un video dove il benemerito arcivescovo di Agrigento Francesco Montenegro balla in piazza a San Giovanni Gemini invitando tutti con un coro da stadio: “chi non salta, mafioso è”. E a me che di Sicilia sono “saputo” è sembrato di vedere ballare pure le coppole.

La Stampa 5.4.14
Quel fair play elettorale tra Renzi e Berlusconi
di Marcello Sorgi


La campagna elettorale che da lunedì entra nella fase più dura sarà ricordata come quella delle buone maniere tra Renzi e Berlusconi. Per quanto il leader del centrodestra al momento del ritorno in campo abbia esordito rimettendo in discussione «l’abbraccio mortale» (citazione di Gelmini e Toti) con il Presidente del consiglio, le repliche che ha ricevuto dall’inquilino di Palazzo Chigi sono state improntate a un inaspettato fair play. Quando vuole, Renzi sa essere duro e anche sprezzante verso gli avversari: lo ha dimostrato nella corsa per le primarie e continua a farlo nel confronto quotidiano con Grillo, che considera il vero competitor di questo giro. Ma con il Cavaliere, anche quando esagera, tiene i nervi a posto: non ne teme la rimonta, ma in fondo in fondo non ha rinunciato alla politica dei due forni, o della doppia maggioranza, con Alfano al governo e con Berlusconi sulle riforme, e ritiene che farla saltare proprio adesso comprometterebbe il risultato finale. Dunque, per il premier, buoni rapporti con Ncd (con cui ieri ha concluso al Senato l’accordo che dovrebbe portare all’approvazione del decreto sul lavoro), ma mano tesa anche verso Forza Italia, malgrado i duri attacchi che Brunetta continua a rivolgere al governo.
Speculare la strategia di Berlusconi, al quale la sondaggista di fiducia Alessandra Ghisleri ha sconsigliato di prendersela con Renzi. Il Cavaliere non a caso ne parla, se non proprio come di un amico, come di uno che prova a rubargli il mestiere, ma alla fine non ci riuscirà per colpa dei comunisti. Non potendo adoperare contro di lui l’argomento principe di tutte le sue campagne - il pericolo rosso -, Berlusconi arriva a dargli atto di buone intenzioni, ma mettendolo in guardia dal rischio che alla fine prevalga l’anima del vecchio Pci. Per il resto, il Cavaliere sta provando a definire i contorni di un mutato se stesso: anziano ma per questo carico d’esperienza, amico-nemico della Merkel per via della difficile convivenza nel Ppe, destinato a resistere, malgrado i magistrati ce la mettano tutta per farlo fuori. E poi familiare, familista, tentato dal desiderio di ritirarsi dal mondo «detestabile» della politica, ma preoccupato che la figlia Marina, che pure avrebbe tutte le carte in regola per provarci, a suo giudizio, possa alla fine decidere di affiancarlo, per difenderlo, in vista di sostituirlo alla guida del partito.
Difficile dire se questa strategia reggerà fino alla vigilia del 25 maggio, e se alla fine funzionerà. Per ora la sensazione è che l’asse tra Renzi e il Cavaliere, minacciato da tanti imprevisti, alla fine reggerà.

Corriere 3.5.14
I conflitti elettorali mettono a rischio il piano di riforme
di Massimo Franco


Invece di parlare dell’approvazione delle riforme, i partiti si scambiano accuse su chi tra loro le vuole affossare. Brutto segno. Significa due cose. La prima è che difficilmente si farà qualcosa prima della fine di maggio, cioè dopo le elezioni europee. La seconda, forse più preoccupante, è che proprio l’esito di quel voto potrebbe accentuare i contrasti non solo dentro la coalizione di governo, ma tra Pd e Forza Italia; e dunque spezzare l’asse istituzionale tra Matteo Renzi e il duo Silvio Berlusconi-Denis Verdini, che finora ha permesso di scavalcare tutti gli ostacoli del Parlamento. Giovanni Toti, consigliere ed esegeta berlusconiano, sostiene che FI vuole le riforme, al contrario di un Pd diviso e oscillante.
L’insistenza con la quale Palazzo Chigi rimarca la necessità che sia adottato come base di discussione il testo del ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, conferma le difficoltà. Il premier non è ancora riuscito a convincere il suo partito al Senato. E teme che rinunciando a partire dalla proposta del ministro nella Commissione affari costituzionali, la Boschi possa subire una delegittimazione destinata a creare polemiche nel Pd e in campagna elettorale. Se a questo si aggiungono i veleni verbali tra Pd e Nuovo centrodestra sulle candidature, e quelli tra Ndc e FI sui provvedimenti sul lavoro, lo sfondo diventa ancora più precario.
La spiegazione di tanto tensione è il timore che alle Europee le forze tradizionali escano ridimensionate dall’astensionismo e da una nuova affermazione del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Significherebbe che il tentativo di arginare il populismo antisistema dei grillini non riesce neppure mandando a Palazzo Chigi una faccia nuova come Renzi. E aumenterebbe il pericolo di spinte centrifughe incontrollabili. Alcuni esponenti del Pd già vedono Berlusconi pronto a «far saltare il tavolo» di fronte a un risultato mediocre di Forza Italia.
I suoi seguaci giurano che il partito supererà facilmente la soglia di sopravvivenza del 20 per cento. È un fatto, tuttavia, che lo stesso Berlusconi si dice pronto a votare anche a ottobre prossimo. Aggiunge di ritenerlo poco probabile, è vero, prevedendo semmai elezioni anticipate l’anno prossimo. E spiega di avere «sconsigliato» alla figlia Marina di candidarsi a Palazzo Chigi. Ma queste parole confermano che l’orizzonte di legislatura delineato da Renzi appare sfuggente. Bollando come «vera» solo la riforma del Senato, il leader di FI si prepara ad accusare Renzi di avere violato i patti e di essersi fatto «risucchiare a sinistra» dalla Cgil.
È un tentativo di impedire che il premier calamiti una parte dei consensi in uscita dal suo partito, privo di leadership per l’incandidabilità del Cavaliere. Per questo Berlusconi sminuisce anche il significato degli 80 euro promessi da Renzi a fine maggio a quanti percepiscono redditi bassi. Ma il vero fantasma è Grillo, bollato come «un uomo cattivo», e paragonato addirittura al nazista Adolf Hitler. Se andasse al governo provocherebbe «laghi di sangue», dice. C’è da chiedersi se siano gli argomenti giusti per fermare un’ondata antisistema che andrebbe combattuta sottolineando l’inconsistenza e la pericolosità delle proposte grilline. Il problema è che in una competizione tra demagoghi, tende a prevalere il più radicale.

il Fatto 3.5.14
Ricetta Renzi
Uffizi, macchina da soldi privati
di Tomaso Montanari


Gli Uffizi sono una macchina da soldi, se li facciamo gestire nel modo giusto”, ha dichiarato Matteo Renzi il 29 novembre 2012. A giudicare da quel che si è visto giovedì sera a Servizio Pubblico, almeno quest’unico punto del programma dell’ex sindaco di Firenze si è avverato: nel celebre palazzo vasariano, un invalicabile muro di corpi traspiranti preclude ogni possibilità di vedere le opere d’arte. Il limite di sicurezza prevede la compresenza di 980 persone al massimo. Nelle scorse settimane, dipendenti e giornalisti ne hanno contate invece almeno fino a punte di 3.500. Meglio non chiedersi cosa sarebbe successo nel caso di un’evacuazione d’emergenza. No, è una novità: negli ultimi anni si sono susseguiti esposti e denunce, soprattutto da parte dei sindacati dei dipendenti, ma senza sortire alcun effetto: lo sciacallaggio intensivo del Rinascimento è l’unica economia della città, e guai a chi dice che ormai la vacca non solo stramazza dalle mungiture, ma è anzi prossima alla macellazione. Ci vogliono un Leonardo distrutto o un turista morto per far capire che gli Uffizi sono sul punto di esplodere? La faccia della soprintendente Cristina Acidini, di fronte alle telecamere di Santoro, è la risposta: non sento, non vedo, non parlo. D’altra parte, un processo della Corte dei conti chiede 600.000 euro di danno erariale alla signora, che nel 2009 ha fatto comprare allo Stato un crocifisso ligneo attribuito a Michelangelo e prezzato da lei stessa. E se nessuno dei cinque ministri che si sono succeduti da allora ha pensato bene di destinarla ad altro incarico è anche perché la Acidini garantisce il rapporto di ferro che lega il Polo Museale al concessionario, che è Opera Laboratori Fiorentini, di Civita Cultura (presidente Luigi Abete), a sua volta parte di Associazione Civita (presidente Gianni Letta). Tanto che il portavoce del concedente (cioè il Polo Museale) è un ex giornalista del Giornale della Toscana di Denis Verdini, ora dipendente di Opera: un portavoce a cui la Acidini ha addirittura consentito di curare un’incredibile mostra di documenti storici a Palazzo Pitti. Il legame tra Opera e Polo è ormai cementizio: la concessione risale nientemeno che al 1996, ed è andato avanti di proroga in proroga, alla faccia della libera concorrenza. Ed è Opera a staccare i biglietti per gli Uffizi, e dunque a governarne gli accessi e a decidere la sorte delle opere, la condizioni della visita, lo stato reale della sicurezza. In verità, la legge Ronchey prevede che si possa (ma non che si debba) cedere a un privato for profit come Opera la biglietteria di un museo come gli Uffizi. E le immagini di Servizio Pubblico dimostrano che non è una buona idea dare le chiavi del nostro patrimonio culturale a chi non ha altra bussola che il proprio profitto. Perché il risultato è la socializzazione delle perdite e la privatizzazione degli utili: incassando a percentuale, il concessionario ha interesse a farcire il museo come il tacchino del Ringraziamento, senza curarsi dell'usura delle opere, del drastico abbassamento della qualità della visita, e del rischio sicurezza. E non è solo un problema di biglietti. Nello scorso dicembre, i lavoratori del Polo hanno contestato la decisione dell'Acidini di affidare le visite guidate del Corridoio Vasariano alla solita Opera. Essi fecero notare che i dipendenti pubblici erano più che capaci di gestire da soli la cosa, il che avrebbe evitato le assurde tariffe del servizio privatizzato con Civita: 34 euro a prezzo pieno, 25 il ridotto e 16 il... gratuito! Ma nonostante tutto, si continua a perseverare sulla strada della “macchina da soldi”. Nemmeno le immagini girate in galleria hanno indotto Philippe Daverio (ospite di Santoro) a cogliere il punto: il noto divulgatore ha pensato bene di ripetere che gli Uffizi dovrebbero fare i numeri del Louvre. Qualcuno dovrebbe spiegargli che il Louvre è quasi 12 volte più grande degli Uffizi per dimensioni fisiche e ha un numero di opere d'arte che è circa 76 volte quello degli Uffizi. Considerando che i visitatori del Louvre sono solo 5 volte più di quelli degli Uffizi, dovremmo piuttosto meravigliarci che non ci sia stato ancora il morto. Al contrario, nei 44 punti che strutturano la sua “rivoluzione” della Pubblica amministrazione, Renzi ha incluso l'idea di introdurre “una gestione manageriale nei poli museali”: il che vuol dire continuare a badare solo ai profitti (sperando almeno che siano pubblici), e non alla sostenibilità culturale e alla sicurezza dei lavoratori e dei visitatori dei musei. Chissà se Renzi si è mai chiesto perché da 20 anni gli Uffizi non appartengono più ai fiorentini, che ci mettono piede solo da bambini e poi si tengono alla larga da quella specie di pericoloso bagno turco sontuosamente decorato.

Repubblica 3.5.14
Palazzo Madama Boschi impone il suo testo base È braccio di ferro

di Giovanna Casadio


ROMA. Dalla tregua a un nuovo braccio di ferro sull’abolizione del Senato. Il governo si irrigidisce, fa sapere che terrà duro. La ministra Maria Elena Boschi a sorpresa avverte: non ci sarà un nuovo testo dei relatori, cioè di Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli da votare in commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama già martedì. Ma si torna all’origine: «Il testo che andrà in aula sarà quello del governo ». Poi si vedrà per quanto riguarda le modifiche, gli aggiustamenti, gli emendamenti. Ed è bufera politica. Nel Pd i dissensi erano stati appena placati dalle aperture annunciate da Renzi. La stessa presidente della commissione e relatrice Finocchiaro è spiazzata, un po’ sconcertata e preoccupata. Raccontano si sia sfogata: «Ma così in commissione il disegno di legge non passerà mai». Ne è convinto anche Gaetano Quagliariello, il coordinatore del Nuovo centro destra, cioè un pezzo indispensabile di maggioranza al Senato: «No, così com’è non lo prendiamo neppure in considerazione ». A meno che, aggiunge Quagliariello, non si trovi subito un accordo sugli emendamenti. La partita-riforme si ingarbuglia. Deve intervenire il vice segretario del Pd, Lorenzo Guerini che tiene i contatti con il premier Renzi, con Boschi, con Quagliariello per provare a trovare un compromesso. «Si può tornare al testo del governo però accompagnandolo con un “allegato” di intesa politica che fissi qual è il perimetro degli emendamenti»: spiega Guerini continuando a tessere medizioni. Anche Quagliariello ritiene sia un possibile un punto di accordo. Nelle file dem i malumori ribollono. Uno stop alla Boschi viene da Felice Casson, il senatore che con Vannino Chiti ha raccolto attorno a un “controtesto” un consenso ampio sia tra i Democratici che con l’adesione del M5Stelle e di alcuni forzisti. «Intanto bisogna rispettare le regole - segnala Casson - È la commissione a decidere quale sarà il testo-base. Non si procede con atti di forza». Francesco Russo il lettiano che ha raccolto un drappello di senatori del Pd critici, commenta: «È un irrigidimento non molto sensato». Un altro senatore dem, Miguel Gotor è certo che «gli emendamenti ci saranno, tuttavia senza fare fallire la riforma impiccandosi a puntigli di carattere personale o alla questione della eleggibilità dei nuovi senatori». Gotor sarà lunedì al seminario organizzato dalla ministro Boschi con i “professori” proprio sulle riforme istituzionali al Nazareno, la sede del partito. Altra fonte di polemiche. Gustavo Zagrebelsky, intervistato da Lucia Annunziata sull’Huffington Post, dice che non ci sarà: «I vecchi devono stare con i vecchi». Assenti per impegni anche Stefano Rodotà. Boschi va avanti.

il Fatto 3.5.14
I “professoroni” rifiutano l’invito della Boschi
Zagrebelsky e Rodotà non andranno al seminario sulle riforme organizzato dal Pd
di Wa. Ma.


Hanno ringraziato il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, ma hanno “cordialmente” rifiutato l’invito a partecipare al seminario organizzato dal Pd per lunedì “Riforma del Senato e Titolo V”. Stiamo parlando dei “professoroni”, Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà. Quegli stessi chiamati in causa dalla Boschi che li aveva accusati di “bloccare da 30 anni le riforme”. Intervistato da Lucia Annunziata sull’Huffington post, Zagrebelsky spiega: “Le ho detto di non preoccuparsi, perché il conflitto fra padri e figli, fra diverse generazioni, è fisiologico. Non è strano, deve anzi esserci. Su una sola cosa sono però inflessibile: sono convinto che ognuno debba fare la propria parte, e che i vecchi debbano fare i vecchi”. L’idea di offrire un ramoscello d’ulivo a due dei più autorevoli costituzionalisti italiani circolava da giorni in casa democratica. L’occasione, il seminario di lunedì, aperto a molti giuristi, renziani e non. Parteciperanno, infatti, tra gli altri, Luciano Violante, Franco Bassanini, Ugo De Siervo, Stefano Ceccanti, Francesco Clementi, Augusto Barbera e Valerio Onida. Introduce il ministro delle Riforme, partecipa lo stesso premier. Sempre nel nuovo stile, fermo ma dialogante, che Renzi ha scelto in questa fase finale della campagna elettorale per le riforme. Senza contare che martedì il testo base della riforma del Senato arriva in commissione Affari costituzionali a Palazzo Madama, tra mille incognite. Il ministro Boschi ha chiesto ai capigruppo e ai due relatori, Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli, di proporre come testo base il ddl del governo. Le modifiche potrebbero già essere annunciate in quella data ma rinviate agli emendamenti.
L’adozione del ddl Boschi come testo base eviterebbe una sua “delegittimazione” nonché polemiche in piena campagna elettorale; inoltre permetterebbe al governo e alla stessa maggioranza che sostiene il testo, di avere più ampi margini di trattativa al momento di discutere gli emendamenti.

il Fatto 3.5.14
Le vittime dei preti pedofili si appellano all’Onu per ‘torture’


L'ASSOCIAZIONE delle vittime degli abusi da parte di preti (Survivors Network of those Abused by Priests-Snap) ha presentato un rapporto sul “danno fisico e mentale grave causati dalla violenza sessuale commessa dal clero cattolico” al Comitato delle Nazioni Unite sulla Convenzione contro la tortura (Cat) che lunedì e martedì esaminerà la prima relazione della Santa Sede. Il Vaticano denuncia la tortura e la pedofilia, ma “continua a minimizzare il danno causato. Se fossero sinceri, agirebbero per proteggere i bambini, rimuovendo dagli incarichi gli autori di abusi”, ha detto Barbara Blaine, presidente dello Snap. Contrariamente al Vaticano - che ritiene “strumentale e forzato” cercare di inserire la questione degli abusi sessuali sui minori nella discussione del Comitato Onu contro la tortura - lo Snap ritiene pertinente esporre la questione. “Il diritto riconosce che lo stupro e le violenze sessuale costituiscono circostanze di tortura o di trattamento inumano, crudele e degradante”, ha detto Katherine Gallagher, giurista del Centro per i diritti costituzionali. “C'è una giurisprudenza nazionale e internazionale: lo stupro e le violenze sessuali causano gravi danni fisici e mentali”.

La Stampa Vatican Insider 3.5.14
Pedofilia e aborto
Comitato Onu contro la tortura, le risposte della Santa Sede
Il nunzio Silvano Tomasi, osservatore permanente a Ginevra, il 5-6 maggio presenta la relazione del Vaticano e si prepara a rispondere anche ai rilievi sugli abusi sui minori
di Andrea Tornielli

qui

Corriere 3.5.14
Severino e Givone al festival delle religioni
«Come l’uomo per espandersi uccide Dio»
di Paolo Conti


ROMA — «È un festival delle religioni con portata culturale. Sono invitati a partecipare non solo credenti ma anche atei, agnostici e tutti coloro che vogliono semplicemente riflettere su vari argomenti, anche di attualità». Con questo spirito aperto e certo non dogmatico Francesca Campana Comparini, fondatrice nel 2013 dell’associazione «Luogo d’incontro», ha organizzato il primo «Festival delle Religioni», inaugurato ieri a Firenze nel Cenacolo di Santa Croce e che si concluderà domani, domenica. Molti i confronti organizzati in sedi diverse (la moschea, la sinagoga, luoghi legati alla tradizione cattolica o templi della cultura laica come il Gabinetto Viesseux). Ieri gli interventi del cardinale Jean Louis Tauran, di Paolo Mieli, l’introduzione di Ettore Bernabei al film Abramo prodotto dalla sua Lux Vide, l’intervista di Aldo Cazzullo a monsignor Vincenzo Paglia. Oggi, sabato, il confronto tra Emanuele Severino e Sergio Givone moderato dalla stessa Francesca Campana Comparini, il dialogo tra il cardinale Leonardo Sandri, Giacomo Marramao e Abdellah Redouane su «Le religioni nel mondo globale» moderato da Marco Ansaldo, domani un pranzo in Sinagoga alle 13, la discussione tra il Rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni e Ugo De Siervo su «Legge e religione, scontro o incontro?» e quello successivo tra Alessandro Baricco e Roberto Vecchioni su «Alla ricerca del Dio Ignoto». Ma sono solo alcuni tra i tanti appuntamenti.
Tematiche che attirano un filosofo laico come Emanuele Severino: «Dopo la caduta del comunismo è proprio il discorso religioso quello che interessa più la gente. La religione nasce come desiderio di protezione dalle difficoltà originarie che circondavano l’uomo. E per molto tempo c’è stata una sorta di lotta all’ultimo sangue tra il sacro e l’uomo, con la vittoria del sacro. Ora assistiamo alla stagione in cui l’uomo, per espandersi, deve uccidere Dio. Deve dimenticarlo. Deve farne a meno».
Il cardinal Tauran ha sottolineato il valore del confronto: «Non è possibile pensare a una fratellanza “da laboratorio”. Certo è necessario che tutto avvenga nel rispetto delle posizioni altrui, anche di chi non crede, ma dobbiamo avere il coraggio e la pazienza di venirci incontro l’un l’altro per quello che siamo, il futuro sta nella convivenza rispettosa delle diversità e non nell’omologazione a un pensiero unico teoricamente neutrale: abbiamo visto lungo la storia la tragedia dei pensieri unici, per questa via passa l’edificazione della pace nel mondo». Infine, il rabbino Di Segni è pronto a partire per Firenze: «Mi sembra un’iniziativa di ampio respiro con una chiave interessante. Diversa dagli incontri come quelli di Assisi che, sinceramente, non mi entusiasmano. In quanto al tema proposto per domani, ricorderò che per noi ebrei la legge coincide con la religione. E quindi per noi non è possibile immaginare uno scontro tra legge e religione. Semmai potremo discutere su un possibile contrapposizione tra una legge e un’altra». Come si vede, il terreno per il confronto è ampio. Altrimenti non sarebbe un Festival .

La Stampa TuttoLibri 3.5.14
Festival di Torino Paese ospite il Vaticano
Per l’editore di Dio il Papa è bestseller
Tra il boom di Bergoglio e suore mistiche il successo delle encicliche vale 600-800 mila copie
di Mario Baudino


Le radici storiche sono antiche: risalgono al 1587 quando Sisto V volle una sua stamperia, una tipografia vaticana, e chiamò da Venezia il figlio del mitico Aldo Manuzio. Da questo punto di vista, la Libreria Editrice Vaticana potrebbe dichiarare all’anagrafe della cultura mezzo millennio di vita, il che per i tempi della Chiesa Cattolica forse non è neppure molto. In realtà, tra profonde sistemazioni storiche, quella che apre i suoi stand al Lingotto è una realtà nata nel 1927, quando Pio XI dispose l’istituzione di una casa editrice vera e propria.
«Prima - spiega il direttore, don Giuseppe Costa - la vendita avveniva direttamente presso la tipografia, un po’ come ai tempi di Manuzio il giovane». Era una piccola realtà. Ora invece, dal 1991, è riconosciuta come l’editrice ufficiale della Santa Sede. Il che significa non essere proprio un editore come gli altri, se non altro perché si dispone di un autore formidabile: il Papa. Però bisogna comportarsi come gli altri. La Lev (questa la sigla che fa anche da marchio) è diventata così una macchina complessa e dinamica, che stampa soprattutto per l’Italia facendo attenzione a non sovrapporsi all’importante editoria cattolica del nostro Paese, e cede diritti di pubblicazione per tutta quella che è la sua attività poliglotta.
«Continuiamo a pubblicare direttamente in diverse lingue, ma solo per le opere che mettiamo in circolazione sul mercato romano, per esempio nella libreria in Piazza San Pietro - spiega don Costa - per il resto è risultato molto più efficace, negli ultimi tempi, affidarci ai singoli editori internazionali». Il risultato è che a guardare i numeri si penserebbe a una casa editrice media, con 20 milioni di fatturato e 38 dipendenti (di cui però 12 nelle tre librerie aperte negli ultimi anni). «In realtà se ci compariamo con gli italiani, sia cattolici sia laici, siamo quello che esporta di più - spiega ancora don Costa - e anzi sono i diritti esteri a tenere in piedi i nostri bilanci».
A colpi di best seller, se così possiamo chiamare per esempio le Encicliche, che al momento della diffusione «valgono» dalle 6 alle 800 mila copie. In questo momento nelle librerie sono parecchi i libri di Papa Bergoglio, dalla «Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium» ai volumi dei «Messaggi del Papa su twitter», targati Lev. Ma non mancano best seller più misteriosi, quelli che non ti aspetti, come i diari di Faustina Kowalska, suora polacca canonizzata nel 2000, mistica e veggente: che macinano 50 mila copie l’anno.
Ci si attenderebbero Bibbie e Vangeli, o catechismi. «Il catechismo è nostro, va da sé; all’estero però viene stampato per conto delle Conferenze episcopali dei vari Paesi. Una Bibbia speriamo di farla entro la fine dell’anno. Ma tenga conto che molti di questi testi fondamentali vengono proposti autonomamente dagli editori cattolici». La Lev ha una filosofia leggermente diversa, un «mandato» speciale. Ed è quello di «promuovere il magistero del Papa». «Il Focus sul Papa e sulle congregazioni è il cuore della nostra produzione. Poi però ci sono altri settori dove indirizzare scelte squisitamente editoriali».
Che per Don Costa significano varie cose: per esempio i libri giuridici, relativi al diritto canonico, ma anche e forse soprattutto l’idea di «una educazione religiosa attraverso l’arte, di una saggistica che affronti temi vitali per la Chiesa di oggi, e perché no testi di devozione». Si sta ad esempio siglando un contratto con gli Usa per un rosario commentato da Papa Francesco, e l’impressione è che il direttore della Lev ci tenga molto, non solo come religioso. Sarà un magnifico colpo editoriale, di quelli da far invidia ai grandi gruppi. Insomma, il Papa. Sempre lui. «Per statuto». In passato erano gli editori laici, in Italia Mondadori e Rizzoli, a contendersi con successo i Pontefici. Ed era una concorrenza spietata.
«Io non c’ero ancora, ma va detto che l’editrice non aveva la valenza che ha oggi. Per esempio, dieci anni fa nessuno avrebbe pensato di portare la Lev al Lingotto; era ancora una sorta di appendice tipografica. Ora è ogni giorno a contatto coi più grandi editori del mondo». Un partner globale. Con vantaggi non indifferenti. «Guardi, io non sono mai stato così sicuro che l’editore laico assicuri per esempio una migliore distribuzione».
Il primo volume del «Gesù di Nazareth», di Papa Ratzinger, per Rizzoli, era andato molto bene. E il secondo... «Lo abbiamo pubblicato noi, e si è dovuto un po’ combattere, per tenercelo. Anche se il terzo tornerà a Rizzoli». Come mai? «C’era stato un calo sul secondo, rispetto al primo. Ma mi sembra naturale, per un’opera in più volumi». Magistero e concorrenza? «Siamo una casa editrice particolare». Però ragionate da editori. «Abbiamo 3500 titoli in catalogo, ne pubblichiamo 140-150 l’anno. Ma teniamo il più possibile “vivo” tutto il catalogo, direi più degli altri editori».
Qual è in un contesto del genere la discrezionalità e l’autonomia di una casa editrice e del suo direttore? «Molta, per tutto ciò che sta attorno al magistero papale». In qualche modo, siete diventati anche l’agente letterario del Papa? «In qualche modo, sì».
Le radici storiche sono antiche: risalgono al 1587 quando Sisto V volle una sua stamperia, una tipografia vaticana, e chiamò da Venezia il figlio del mitico Aldo Manuzio. Da questo punto di vista, la Libreria Editrice Vaticana potrebbe dichiarare all’anagrafe della cultura mezzo millennio di vita, il che per i tempi della Chiesa Cattolica forse non è neppure molto. In realtà, tra profonde sistemazioni storiche, quella che apre i suoi stand al Lingotto è una realtà nata nel 1927, quando Pio XI dispose l’istituzione di una casa editrice vera e propria.
«Prima - spiega il direttore, don Giuseppe Costa - la vendita avveniva direttamente presso la tipografia, un po’ come ai tempi di Manuzio il giovane». Era una piccola realtà. Ora invece, dal 1991, è riconosciuta come l’editrice ufficiale della Santa Sede. Il che significa non essere proprio un editore come gli altri, se non altro perché si dispone di un autore formidabile: il Papa. Però bisogna comportarsi come gli altri. La Lev (questa la sigla che fa anche da marchio) è diventata così una macchina complessa e dinamica, che stampa soprattutto per l’Italia facendo attenzione a non sovrapporsi all’importante editoria cattolica del nostro Paese, e cede diritti di pubblicazione per tutta quella che è la sua attività poliglotta.
«Continuiamo a pubblicare direttamente in diverse lingue, ma solo per le opere che mettiamo in circolazione sul mercato romano, per esempio nella libreria in Piazza San Pietro - spiega don Costa - per il resto è risultato molto più efficace, negli ultimi tempi, affidarci ai singoli editori internazionali». Il risultato è che a guardare i numeri si penserebbe a una casa editrice media, con 20 milioni di fatturato e 38 dipendenti (di cui però 12 nelle tre librerie aperte negli ultimi anni). «In realtà se ci compariamo con gli italiani, sia cattolici sia laici, siamo quello che esporta di più - spiega ancora don Costa - e anzi sono i diritti esteri a tenere in piedi i nostri bilanci».
A colpi di best seller, se così possiamo chiamare per esempio le Encicliche, che al momento della diffusione «valgono» dalle 6 alle 800 mila copie. In questo momento nelle librerie sono parecchi i libri di Papa Bergoglio, dalla «Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium» ai volumi dei «Messaggi del Papa su twitter», targati Lev. Ma non mancano best seller più misteriosi, quelli che non ti aspetti, come i diari di Faustina Kowalska, suora polacca canonizzata nel 2000, mistica e veggente: che macinano 50 mila copie l’anno.
Ci si attenderebbero Bibbie e Vangeli, o catechismi. «Il catechismo è nostro, va da sé; all’estero però viene stampato per conto delle Conferenze episcopali dei vari Paesi. Una Bibbia speriamo di farla entro la fine dell’anno. Ma tenga conto che molti di questi testi fondamentali vengono proposti autonomamente dagli editori cattolici». La Lev ha una filosofia leggermente diversa, un «mandato» speciale. Ed è quello di «promuovere il magistero del Papa». «Il Focus sul Papa e sulle congregazioni è il cuore della nostra produzione. Poi però ci sono altri settori dove indirizzare scelte squisitamente editoriali».
Che per Don Costa significano varie cose: per esempio i libri giuridici, relativi al diritto canonico, ma anche e forse soprattutto l’idea di «una educazione religiosa attraverso l’arte, di una saggistica che affronti temi vitali per la Chiesa di oggi, e perché no testi di devozione». Si sta ad esempio siglando un contratto con gli Usa per un rosario commentato da Papa Francesco, e l’impressione è che il direttore della Lev ci tenga molto, non solo come religioso. Sarà un magnifico colpo editoriale, di quelli da far invidia ai grandi gruppi. Insomma, il Papa. Sempre lui. «Per statuto». In passato erano gli editori laici, in Italia Mondadori e Rizzoli, a contendersi con successo i Pontefici. Ed era una concorrenza spietata.
«Io non c’ero ancora, ma va detto che l’editrice non aveva la valenza che ha oggi. Per esempio, dieci anni fa nessuno avrebbe pensato di portare la Lev al Lingotto; era ancora una sorta di appendice tipografica. Ora è ogni giorno a contatto coi più grandi editori del mondo». Un partner globale. Con vantaggi non indifferenti. «Guardi, io non sono mai stato così sicuro che l’editore laico assicuri per esempio una migliore distribuzione».
Il primo volume del «Gesù di Nazareth», di Papa Ratzinger, per Rizzoli, era andato molto bene. E il secondo... «Lo abbiamo pubblicato noi, e si è dovuto un po’ combattere, per tenercelo. Anche se il terzo tornerà a Rizzoli». Come mai? «C’era stato un calo sul secondo, rispetto al primo. Ma mi sembra naturale, per un’opera in più volumi». Magistero e concorrenza? «Siamo una casa editrice particolare». Però ragionate da editori. «Abbiamo 3500 titoli in catalogo, ne pubblichiamo 140-150 l’anno. Ma teniamo il più possibile “vivo” tutto il catalogo, direi più degli altri editori».
Qual è in un contesto del genere la discrezionalità e l’autonomia di una casa editrice e del suo direttore? «Molta, per tutto ciò che sta attorno al magistero papale». In qualche modo, siete diventati anche l’agente letterario del Papa? «In qualche modo, sì».
Le radici storiche sono antiche: risalgono al 1587 quando Sisto V volle una sua stamperia, una tipografia vaticana, e chiamò da Venezia il figlio del mitico Aldo Manuzio. Da questo punto di vista, la Libreria Editrice Vaticana potrebbe dichiarare all’anagrafe della cultura mezzo millennio di vita, il che per i tempi della Chiesa Cattolica forse non è neppure molto. In realtà, tra profonde sistemazioni storiche, quella che apre i suoi stand al Lingotto è una realtà nata nel 1927, quando Pio XI dispose l’istituzione di una casa editrice vera e propria.
«Prima - spiega il direttore, don Giuseppe Costa - la vendita avveniva direttamente presso la tipografia, un po’ come ai tempi di Manuzio il giovane». Era una piccola realtà. Ora invece, dal 1991, è riconosciuta come l’editrice ufficiale della Santa Sede. Il che significa non essere proprio un editore come gli altri, se non altro perché si dispone di un autore formidabile: il Papa. Però bisogna comportarsi come gli altri. La Lev (questa la sigla che fa anche da marchio) è diventata così una macchina complessa e dinamica, che stampa soprattutto per l’Italia facendo attenzione a non sovrapporsi all’importante editoria cattolica del nostro Paese, e cede diritti di pubblicazione per tutta quella che è la sua attività poliglotta.
«Continuiamo a pubblicare direttamente in diverse lingue, ma solo per le opere che mettiamo in circolazione sul mercato romano, per esempio nella libreria in Piazza San Pietro - spiega don Costa - per il resto è risultato molto più efficace, negli ultimi tempi, affidarci ai singoli editori internazionali». Il risultato è che a guardare i numeri si penserebbe a una casa editrice media, con 20 milioni di fatturato e 38 dipendenti (di cui però 12 nelle tre librerie aperte negli ultimi anni). «In realtà se ci compariamo con gli italiani, sia cattolici sia laici, siamo quello che esporta di più - spiega ancora don Costa - e anzi sono i diritti esteri a tenere in piedi i nostri bilanci».
A colpi di best seller, se così possiamo chiamare per esempio le Encicliche, che al momento della diffusione «valgono» dalle 6 alle 800 mila copie. In questo momento nelle librerie sono parecchi i libri di Papa Bergoglio, dalla «Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium» ai volumi dei «Messaggi del Papa su twitter», targati Lev. Ma non mancano best seller più misteriosi, quelli che non ti aspetti, come i diari di Faustina Kowalska, suora polacca canonizzata nel 2000, mistica e veggente: che macinano 50 mila copie l’anno.
Ci si attenderebbero Bibbie e Vangeli, o catechismi. «Il catechismo è nostro, va da sé; all’estero però viene stampato per conto delle Conferenze episcopali dei vari Paesi. Una Bibbia speriamo di farla entro la fine dell’anno. Ma tenga conto che molti di questi testi fondamentali vengono proposti autonomamente dagli editori cattolici». La Lev ha una filosofia leggermente diversa, un «mandato» speciale. Ed è quello di «promuovere il magistero del Papa». «Il Focus sul Papa e sulle congregazioni è il cuore della nostra produzione. Poi però ci sono altri settori dove indirizzare scelte squisitamente editoriali».
Che per Don Costa significano varie cose: per esempio i libri giuridici, relativi al diritto canonico, ma anche e forse soprattutto l’idea di «una educazione religiosa attraverso l’arte, di una saggistica che affronti temi vitali per la Chiesa di oggi, e perché no testi di devozione». Si sta ad esempio siglando un contratto con gli Usa per un rosario commentato da Papa Francesco, e l’impressione è che il direttore della Lev ci tenga molto, non solo come religioso. Sarà un magnifico colpo editoriale, di quelli da far invidia ai grandi gruppi. Insomma, il Papa. Sempre lui. «Per statuto». In passato erano gli editori laici, in Italia Mondadori e Rizzoli, a contendersi con successo i Pontefici. Ed era una concorrenza spietata.

Repubblica 3.5.14
I bestseller della fede fanno miracoli in libreria
Da quando Bergoglio è papa si sono moltiplicati i titoli sul cattolicesimo e i lettori di editoria religiosa Così il Vaticano si prepara a conquistare il Salone di Torino
di Simonetta Fiori



In tempi di carestia editoriale, è il più prodigioso dei miracoli. La moltiplicazione dei libri. Se l’accostamento biblico non appare irriguardoso, papa Francesco è riuscito anche in questo. Da quando è salito sul soglio di Pietro sono usciti duecentoquarantatré titoli die su Bergoglio , un ciclone di carta che non ha precedenti nella storia dei papi. Nell’ultimo mese si conta in Italia un libro al giorno, destinato a fare il giro del mondo. Ma il carisma del pontefice argentino va oltre gli scaffali a lui dedicati, producendo anche uno straordinario “indotto”.
Non solo sono aumentate le tirature religiose in un paese che nell’ultimo anno ha perduto altri due milioni di lettori. Ma questi titoli finiscono per attrarre un numero crescente di publisher stranieri, mentre la nostra editoria vacilla anche per lo scarso interesse di cui gode nella scena internazionale: è calata ulteriormente la vendita dei diritti e la lingua italiana appare sempre più marginale.
I libri funzionano da sismografi di una stagione storica. E gli eventi che hanno segnato nell’ultimo anno la Chiesa cattolica non hanno rivali per la portata dirompente. La rinuncia di Benedetto, l’elezione di Francesco e il segno rivoluzionario del nuovo corso: l’effetto è stato anche quello di avvicinare ancora di più ai temi della cristianità e della spiritualità un pubblico nuovo, diverso da quello tradizionale, più giovane e laico, come da tempo registra l’Osservatorio dell’editoria cattolica. Lettori che non vanno a messa la domenica ma s’interrogano sul senso del sacro, sulle questioni teologiche e sulle emergenze sociali che il Papa ha posto al centro del dibattito ecclesiale. Oggi è anche difficile interpretare la contemporaneità senza una conoscenza della cultura religiosa. E non è certo un caso che a torreggiare al centro del Salone del Libro - in programma da giovedì prossimo a Torino - non sarà un grande schermo né un e-book né un’invenzione digitale ma un simbolo millenario e insieme nuovissimo, icona di tradizione e ora di rivoluzione: un cupolone di libri alto dieci metri che richiama San Pietro e il suo colonnato.
Lì sotto, nei 332 metri quadri di esposizione, troveremo il più internazionale degli editori italiani, un salesiano siciliano che dal 2007 dirige la Libreria Editrice Vaticana, la casa editrice della Santa Sede: un ricco catalogo di dottrina, liturgia e cultura cattolica tradotto in una ventina di lingue. «Per noi è una grandissima occasione: farci conoscere da un pubblico non specializzato », dice don Giuseppe Costa, che ha studiato editoria e marketing negli Stati Uniti, è stato direttore editoriale della Sei e domina con astuzia la macchina mediatica nazionale. La missione è sempre quella di conquistare nuovi terreni: e se la Tv dei vescovi s’affida alle mani esperte di Paolo Ruffini, inventore di format televisivi come Che tempo che fae Ballarò, la conquista dell’egemonia passa anche attraverso la più importante fiera del libro italiana, che quest’anno assegna al Vaticano il ruolo di paese ospite. «Il fenomeno del libro religioso era già esploso da tempo, ma con papa Francesco ha conosciuto un incremento intorno al dodici per cento solo in Italia», spiega il padre salesiano, forse con troppo entusiasmo rispetto alle analisi più misurate degli esperti Giovanni Peresson e Giuliano Vigini: se l’editoria non confessionale ha perso in un anno l’8,1 per cento, quella cattolica contiene l’emorragia a un meno 3,8 per cento. Comunque, un successo. Confermato da un altro dato fornito dall’Istat: nel decennio tra il 2000 e il 2010 il pubblico dei libri religiosi è cresciuto di novecentomila lettori. Secondo don Costa, l’espansione è da attribuire «alla morte delle ideologie, soprattutto di quella marxista che liquidava la religione come oppio dei popoli». Non importa ricordargli quanta importanza Gramsci desse alla produzione religiosa, nelle sue note giornalistiche Sotto la mole . «Negli ultimi decenni», continua il sacerdote, «sono crollati gli steccati che ci impedivano di stare in una libreria Feltrinelli. Per un lungo periodo le nostre edizioni sono state guardate con diffidenza e relegate nelle librerie specializzate ».
La Lev è l’editore italiano che vende di più all’estero, fatturando ogni anno intorno ai venti milioni di euro, l’equivalente di una casa editrice di medio peso. In realtà solo il 25 per cento del fatturato arriva dal mercato italiano. La fetta più grande è occupata dagli Stati Uniti (30 per cento), mentre America Latina, Spagna Germania e Francia compongono il resto della torta ciascuno con uno spicchio tra il sette e otto per cento. Un incremento di un milione e mezzo di euro - nel bilancio annuale - è stato prodotto dal copyright di papa Francesco, di cui l’editrice vaticana è proprietaria. La sua enciclica Lumen fidei ha venduto oltre due milioni di copie nel mondo. E ciascun titolo del pontefice in edizione Lev raggiunge il traguardo di mezzo milione di copie, una tiratura di trentamila/ quarantamila moltiplicata per una dozzina di paesi stranieri. «Come ci regoliamo con il suo copyright? Un mercato da suk arabo», scherza con il fuoco don Costa. «Ai piccoli marchi chiediamo percentuali minime, mentre con gruppi come Random House, Rcs o Sterling Publishers arriviamo all’8 per cento». Una curiosità: i diritti di Jorge Mario Bergoglio prima di diventare pontefice sono rimasti agli editori argentini, i ricavi da pontefice finiscono nelle casse della Lev che poi li consegna alla segreteria di Stato, mentre quelli di papa Ratzinger - anche lui detentore di ottime royalties - vengono affidati alla fondazione omonima che sovvenziona gli studi in teologia.
Ma, escluso il caso specialissimo della Lev, la crescita del libro religioso non significa automaticamente la crescita dell’editoria cattolica. «La novità è che il terreno è stato ampiamente occupato in questi anni dai marchi laici», dice Giovanni Peresson, responsabile dell’Uf- ficio Studi Aie che segue anche l’Osservatorio dei libri religiosi. «Un’agguerrita concorrenza che qualche danno comincia a procurarlo soprattutto alle librerie cattoliche, le più colpite dalla crisi: ed erano quelle che ancora negli anni Novanta contavano il maggior numero dei punti vendita». Se il gruppo Mondadori (inclusi Piemme ed Einaudi) sforna in un anno cento libri di argomento religioso, Rcs libri lo segue con 66 titoli. Si è preso la briga di contarli un’autorità in materia, Giuliano Vigini, studioso di Sant’Agostino e curatore di un’affollatissima biblioteca di papi. Il rischio per l’editoria cattolica è di perdere colpi nella saggistica in cui è più forte la competizione - ossia il Gesù storico, il passaggio dall’ebraismo al cristianesimo, la storia della Chiesa, l’esegesi dei testi sacri, biografie e testimonianze di vita - scivolando lentamente nell’angolo della produzione devozionale e liturgica. Un fenomeno poco investigato è quello dei librini low cost, che vengono ignorati dalle classifiche consuete - perfino dai “bestseller della fede” di Avvenire, sensibili ai titoli dai 5 euro in su. Volumetti di preghiere, rosari di tutte le specie, Maria che scioglie i nodi, vite di santi, apologhi di pellegrinaggi, ma anche riflessioni del cardinal Martini o dell’attuale arcivescovo di Milano Scola: milioni di opuscoli che al prezzo di un tramezzino invadono le parrocchie d’Italia.
Per smuovere invece le vetrine delle librerie occorrono i miracoli. Lo sanno bene giornalisti come Paolo Brosio e Antonio Socci, che animati da autentica fede scalano le classifiche dei bestseller con storie di prodigi e resurrezioni. Un sociologo dei comportamenti collettivi non avrebbe difficoltà a spiegarlo: lontani dal miracolo italiano, non resta che rifugiarsi in quello di Medjougorje. Con buon profitto per gli editori, confessionali e non.

Corriere 3.5.14
Rabbino e Imam con il Papa in Terra Santa
di Luigi Accattoli


Un rabbino e un imam argentini saranno con il Papa in Terra Santa, il 24-26 di questo mese, con un ruolo inedito: faranno parte del «seguito papale» e pare che Francesco conti molto sul loro aiuto per riuscire nell’ardua impresa di tessere relazioni di pace tra israeliani e palestinesi. La notizia è stata data da Vatican Insider con una corrispondenza dall’Argentina ed è stata confermata dalla Sala stampa Vaticana. Il rabbino è Abraham Skorka, rettore del seminario rabbinico latinoamericano, noto per il libro di conversazioni con il cardinale Bergoglio pubblicato a Buenos Aires nel 2010 e tradotto l’anno scorso dalla Mondadori con il titolo Il cielo e la terra . L’imam, anch’egli amico di vecchia data del cardinale Bergoglio, è Omar Abboud, già segretario generale del Centro islamico della Repubblica Argentina. Ambedue hanno dichiarato di considerare la visita papale in Terra Santa (Giordania, Territori palestinesi, Gerusalemme) una «buona opportunità» per la convivenza tra israeliani e palestinesi, come già lo furono i viaggi di Paolo VI (1964), Giovanni Paolo II (2000), Benedetto XVI (2009); e di sentirsi impegnati ad «aiutare Francesco a trasmettere messaggi e segnali rilevanti per la pace». L’imam partirà con il Papa da Roma, mentre il Rabbino si unirà alla comitiva domenica 25 a Betlemme, dal momento che un ebreo non viaggia di sabato. L’inserimento nel seguito papale di un ebreo e un musulmano è senza precedenti e potrebbe costituire un’ottima carta per affrontare eventuali incidenti tra le due parti, che non sono mai mancati nelle precedenti visite papali e che potrebbero essere stavolta ancora più vivaci stante la situazione che è tornata tesissima con l’avvicinamento tra Abu Mazen e Hamas. L’inserimento dei due nel seguito papale si presenta come un’iniziativa personale del Papa, motivata dall’amicizia con loro, e dunque di basso profilo dal punto di vista protocollare, ma che proprio per questo potrebbe risultare molto utile per trasmettere messaggi riservati evitando il coinvolgimento delle «cancellerie». L’idea dell’inserimento nello staff itinerante dei due insoliti «assistenti al soglio» è maturata a seguito di una «missione» in Medio Oriente compiuta in febbraio da un «gruppo interreligioso argentino» composto di 45 persone — 15 ebrei, 15 musulmani, 15 cattolici — «che ha in un certo senso precorso il viaggio del Santo Padre, toccando i tre Paesi dove egli si recherà» (così ne parlava il 27 febbraio un comunicato vaticano dando notizia dell’incontro di quel gruppo con Francesco). Il viaggio del Papa ha come meta principale l’incontro con il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, che avverrà a Gerusalemme il 25 maggio nel pomeriggio, in ricordo dell’incontro che ebbero nella «città santa» Paolo VI e il Patriarca Atenagora il 5 gennaio del 1964, cioè mezzo secolo fa. Papa Francesco sente molto la responsabilità di questo secondo appuntamento. In più occasioni ha enunciato propositi impegnativi per il dialogo ecumenico e interreligioso ed è per affrontare nelle migliori condizioni la delicata impresa che ha fatto ricorso ai suoi amici argentini, mandandoli — si direbbe — in avanscoperta e inserendoli nella sua comitiva.

Corriere 3.5.14
Ambasciatore arrestato per pedofilia, i bambini: «Ci ha aiutato a lavarci»
Chiuso in una cella di 30 mq con altre 80 persone, il diplomatico ha mobilitato parenti, amici, associazioni benefiche per cercare di dimostrare di «essere innocente
di Fiorenza Sarzanini

qui

Repubblica 3.5.14
Reato di tortura, poliziotti in rivolta
di C. B.


ROMA. La Polizia è in ebollizione e i giorni dell’ira scatenati dall’applauso di Rimini alimentano una nuova tempesta sul suo capo Alessandro Pansa.
L’occasione è ancora il caso Aldrovandi e le sue ricadute. A cominciare dall’annunciato impegno delle forze politiche che sostengono il governo di approvare la troppo a lungo rinviata introduzione nel nostro codice penale del reato di tortura. La norma la cui assenza, dal G8 di Genova in poi, ha impedito di chiamare con il loro nome e giudicare di conseguenza gli abusi fisici e psicologici commessi da pubblici ufficiali su cittadini privati della loro libertà.
L’affondo arriva ancora da “destra”, anche se questa volta porta la firma di Franco Maccari, segretario generale “Coisp”, sigla sindacale vicina al “Sap” cui contende parole d’ordine e iscritti.
In un comunicato e in una lettera indirizzata allo stesso Pansa, il capo della Polizia viene messo in mora. Per le parole spese con Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi («Sui poliziotti responsabili della morte di suo figlio ho le mani legate...»), per la “mancanza di in iniziativa” nel dibattito parlamentare sul reato di tortura. «Egregio signor capo della Polizia - si legge nella lettera di Maccari a Pansa - Lei e il suo Dipartimento vi siete accorti del disegno di legge sulla tortura solo adesso che è alla Camera, mentre ve ne siete incredibilmente disinteressati quando era al Senato. Ci compiaciamo che Lei abbia finalmente compreso la pericolosità di interpretazioni estensive della futura figura di reato per la funzionalità dell’apparato di sicurezza del Paese. In futuro, si ricordi prima che è il capo dei Poliziotti! Altrimenti, i poliziotti smetteranno di lavorare». Quanto alle parole usate con la Moretti, «Pansa - scrive il Coisp - deve chiarire le proprie posizioni, perché sulla carta è ancora il capo di 94mila poliziotti e portare una maschera con loro è grave oltraggio non troppo a lungo sopportabile».

Repubblica 3.5.14
Il giudice del massacro di Bolzaneto “Con l’impunità democrazia a rischio”
di Carlo Bonini



ROMA. «QUEL che ho visto, mi ha fatto tremare le gambe». Ci sono uomini sui quali le immagini della standing ovation di Rimini ai poliziotti responsabili della morte di Federico Aldrovandi hanno prodotto un senso di sgomento se possibile ancora più profondo. Roberto Settembre è uno di loro. Ha 64 anni e ha lasciato la magistratura nell’estate del 2012. È stato l’estensore della sentenza di appello sui fatti della caserma Bolzaneto, il centro di detenzione temporanea durante i giorni del G8 di Genova diventato luogo di indicibili torture, fisiche e psicologiche. Simbolo di uno Stato capace di smarrire se stesso per ripiombare in un tempo che si riteneva non dovesse mai più tornare. Quell’esperienza di uomo e di giudice è diventata un libro uscito in questi giorni (“Gridavano e Piangevano. La tortura in Italia. Ciò che ci insegna Bolzaneto”, Einaudi). E in questo libro, come nelle parole di Settembre, è il fantasma che ciclicamente torna ad accompagnare le immagini dello Stato che esercita una violenza irragionevole su un cittadino inerme. In una piazza, in una camera di sicurezza di una caserma, in una strada.
Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, ha detto: “La solidarietà non basta più. Chiedo che il Parlamento introduca il reato di tortura nel nostro codice”. È il reato che lei non ha avuto per giudicare compiutamente le responsabilità della Bolzaneto. Che ha impedito e impedisce di chiamare con il loro nome abusi, violenze come quelle subite da Aldrovandi, Cucchi, Uva.
«La questione è cruciale. In uno Stato di diritto, le sentenze della magistratura, che si parli del caso Aldrovandi piuttosto che della Bolzaneto, possono riuscire a dare ristoro al danno dei singoli vittime di reati. Ma nulla possono nella soluzione delle questioni di fondo per le quali questo Paese ha conosciuto una Diaz e una Bolzaneto, piuttosto che i casi cui lei accennava. Il magistrato è un chirurgo. Interviene a valle di una patologia. Non la previene, anche perché non è questo il suo compito. Ora, non c’è dubbio che lo Stato abbia assunto in modo del tutto insufficiente la questione dell’assenza della tortura come figura di reato nel nostro ordinamento. Solo oggi - e sono passati 13 anni dai fatti della Bolzaneto e 26 dalla Convenzione dell’Onu che imponeva di adeguare le legislazioni nazionali - è in discussione in Parlamento un disegno di legge che nel prefigurare il reato di tortura lo immagina timidamente come reato generico e non proprio. Ecco, quando le istituzioni non si curano a sufficienza degli strumenti che devono tutelare insieme l’integrità di uno Stato e le libertà incomprimibili dei suoi cittadini, la fiducia verso lo Stato viene meno».
Una parte della Polizia ritiene che la formulazione che era stata data del reato di tortura nel testo presentato al Senato fosse “punitiva” nei confronti delle forze dell’ordine. E, oggi, torna a minacciare di incrociare le braccia se il testo definitivo che verrà approvato alla Camera dovesse consentire “ interpretazioni estensive” della figura dell’abuso fisico o psicologico da parte del pubblico ufficiale.
«È la conferma che questo Paese ha estrema necessità di una straordinaria e collettiva mobilitazione di idee. E del preoccupante scollamento che una parte delle forze dell’ordine manifesta nei confronti di un’idea condivisa dello Stato di diritto. È evidente, mi pare, che in quella parte di forze dell’ordine si sia smarrito il senso del rapporto tra lo Stato e i cittadini. Non saprei dire se si debba parlare di pericolo per la democrazia. Ma qualche preoccupazione sulla sua qualità comincio ad averla».
La standing ovation di Rimini è arrivata dopo il “no” degli apparati di sicurezza alla proposta di introdurre un codice identificativo per la polizia in servizio di ordine pubblico. A meno di non immaginare uno “scambio” tra l’identificabilità dei poliziotti e una più stringente regolamentazione del diritto di manifestare.
«Il codice identificativo è decisivo per restituire l’immagine di uno Stato che è “persona”, non astrazione. Lo Stato non può e non deve essere travisato. Quanto allo scambio, lo trovo inaccettabile. Il diritto a manifestare è già regolamentato. La nostra legge suprema, la Costituzione, non riconosce alcuna legittimità alla libera e violenta manifestazione del pensiero. Non sta scritto da nessuna parte che è un diritto devastare le vie di una città o esercitare violenza sui poliziotti in ordine pubblico. Dunque, non capisco cosa dovremmo regolamentare. C’è poi un problema di qualità di una democrazia. Accettare lo scambio significa infatti riproporre quello schema “speculare” per il quale si finisce con il convenire che, di fronte alla violenza di un cittadino, lo Stato può, o peggio deve, rinunciare al suo sistema di garanzie. Deve insomma modificare la sua natura. È un argomento che ricorda gli anni di piombo e quella stessa cultura che oggi ha paura del reato di tortura».

Repubblica 3.5.14
Bus dei migranti per la gita scolastica i genitori dicono no
“Non c’è il tempo di pulire i sedili Pensiamo ai nostri figli, nessuno ci scambi per razzisti”
di Alessanda Ziniti



MODICA. Niente gita a Siracusa. Non su quei bus che di notte fanno la spola tra il porto di Pozzallo e i centri di accoglienza carichi di migranti appena sbarcati e la mattina portano in giro i bambini delle scuole senza che ci sia materialmente il tempo di pulirli. Pidocchi, scabbia, tubercolosi fanno paura in questo pezzo di Sicilia dove è ogni giorno sotto gli occhi di tutti che l’emergenza immigrazione rischia di diventare anche emergenza sanitaria. E così una sessantina di genitori di piccoli alunni della scuola elementare Giacomo Albo hanno deciso che lunedì i loro figli non andranno alla gita d’istruzione a Siracusa. «Nessuno ci scambi per razzisti - dice Clara, una delle mamme che preferisce tenere il suo bambino a casa - ma non ci sentiamo tutelati. Sappiamo che i bus sono gli stessi, già nei giorni scorsi altri genitori che avevano mandato i figli in gita ci hanno detto che i pullman non erano stati puliti e sappiamo dai medici che molti di loro hanno la scabbia o sono portatori di brutti virus. Se è così preferiamo che i nostri figli rinuncino al viaggio di istruzione».
Da settimane ormai tra Pozzallo, Modica e Comiso è un via vai continuo di bus carichi di immigrati. I numeri sono impressionanti; duemila solo nelle ultime 48 ore. Qui non ci sono strutture per accogliere tutta questa gente, i due centri della zona, quello di Pozzallo e la “dependance” di Comiso ne possono contenere meno di 300. E allora non c’è altra soluzione che spostare immediatamente i migranti. Neanche il tempo di chiedere loro la nazionalità e le generalità, una prima visita medica sommaria, acqua, cibo e poi via con i “charter” disposti dalla prefettura e organizzati a tempo record dalla questura con bus privati che viaggiano a ritmo continuo. Che i bus fossero proprio gli stessi i genitori Sherlock Holmes lo hanno verificato ieri pomeriggio quando uno dei mezzi è stato a lungo ripreso dalle telecamere della trasmissione “La vita in diretta” di Rai Uno nel corso di un collegamento dal porto di Pozzallo. E c’è stato chi, avuta la certezza che la ditta - la Helios - fosse la stessa di quella utilizzata dalla scuola, ha persino confrontato il numero di targa. Per far sentire la loro voce i genitori si sono rivolti al consigliere comunale de “Il Megafono” Michele Colombo che ha immediatamente presentato un’interrogazione urgente al sindaco Ignazio Abbate quale massima autorità sanitaria cittadina. «Bisogna comprendere la preoccupazione dei genitori - dice Colombo - visto che ad alcuni immigrati nei giorni scorsi sono stati riscontrati tubercolosi, scabbia e una donna sarebbe affetta Aids. E dalle informazioni assunte non ci sarebbe alcuna azione di disinfezione operata dalle compagnie degli autobus».

Repubblica 3.5.14
Guerra a Predappio Il sindaco del Pd “Perché serve il museo del Duce”
di Jenner Meletti


PREDAPPIO (FORLÌ) . Inutile insistere. Sulle rotonde prima del paese mettono mucchi di barili di vino e scrivono che «Predappio è il paese del sangiovese». Ma in Italia - e anche in mezza Europa - tutti sanno che questo è il santuario del turismo in camicia nera. Chi arriva qui prima va a fare il saluto romano davanti alla tomba di Benito Mussolini poi entra in un negozio di “souvenir” e compra un manganello con le scritte «Nel dubbio mena » o «Me ne frego».
«E io, sindaco Pd - dice subito Giorgio Frassineti, renziano - vado anche a proporre un museo sul fascismo nell’immensa Casa del Fascio che sorge proprio in piazza. Forse voglio farmi del male, ma credo di avere ragione. Fino ad oggi abbiamo delegato il racconto della storia di Mussolini e di Predappio ai commercianti che vendono gagliardetti e camicie nere. Contro questo ciarpame l’unica nostra arma è la cultura. Voglio un luogo dove si possa raccontare come Benito, un ragazzo nato qui nel 1883, sia diventato Mussolini. Voglio un posto dove sia narrato il secolo terribile, il ‘900, con una luce puntata sul Ventennio. Spero di essere capito».
Non è facile fare il sindaco. A Predappio è un’impresa. «In questi cinque anni da primo cittadino sono arrivate televisioni e cronisti da mezzo mondo. Sono stato insultato da Le Monde e dal New York Times, dal Guardian...
El Pais ha scritto che io sono un sindaco che “no tiene los huevos”, e le uova non sono certo quelle delle galline. Tutti scandalizzati per i negozi con i calendari del Duce, per i saluti fascisti nelle strade e nella cripta. Dalla Liberazione ad oggi in Comune c’è sempre stata la sinistra. E un’amministrazione di sinistra - sbagliando - nel 1994 ha concesso a quattro commercianti di aprire i loro negozi di ciarpame nero. Con le leggi di allora poteva impedirlo e non l’ha fatto. Ma a Predappio ci sono i Carabinieri, la Polizia, la Finanza. La Digos è sempre qui… Io, come sindaco, non posso fare leggi ma solo regolamenti. I miei vigili vanno a controllare le vetrine, perché non siano esposti oggetti inneggianti al razzismo o che insultino la Shoah. Di più non possiamo fare».
La Casa del Fascio, adesso, è un’enorme “piccionaia” di tre piani, ottocento metri quadri a piano, opera dell’architetto Arnaldo Fuzzi. Ci vivono i colombi, fra mobili rotti e marmi spezzati. «Lo Stato è pronto a cederla al Comune se c’è un progetto valido. Ma intanto, solo per restaurarla, servono cinque o sei milioni, cifra impossibile per un Comune con 6.507 abitanti. Abbattere non si può, visto che se tirassimo giù i palazzi fascisti sparirebbe Predappio. L’idea del museo mi è venuta nel 2011 a Braunau am Inn, in Austria. Lì è nato Hitler. Il sindaco mi chiamò e mi disse che voleva organizzare un incontro con le città che hanno “una memoria non voluta”. Assieme a noi, era chiamato il sindaco di Gori, vicino a Tiblisi in Georgia, dove nacque Stalin. Non volevo andarci, già ero stato accusato di voler “riabilitare” Mussolini. Ma poi seppi che il convegno era progettato da una persona insospettabile: il produttore di film americano Branko Lustig, che entrò ad Auschwitz a 12 anni e fu l’unico sopravvissuto della sua famiglia. È l’uomo che ha finanziato anche Schindler’s list. Io dissi che se non si affronta l’analisi storica di un fenomeno come il fascismo, questo rischia di riemergere. Fui applaudito anche da Lustig».
Come sarà il museo? «Non sono uno storico ma un geologo. Penso però che dovrà essere raccontato tutto il fascismo, con la ricostruzione e la rappresentazione dell’intera dittatura. Noi abbiamo già iniziato il lavoro. Nella casa natale è ancora aperta una mostra su “Il giovane Mussolini”, che racconta gli anni fra il 1883 e il 1914. È curata da storici e ricercatori di sinistra ed è molto visitata, e non dalle persone che vanno al cimitero con la camicia nera. C’è davvero chi vuole capire come un bambino battezzato con i nomi di Benito (come Juarez, primo indio diventato presidente del Messico), Amilcare (come Cipriani, rivoluzionario e garibaldino) e Andrea (come Costa, fra i fondatori del socialismo) sia poi diventato il dittatore fucilato a Dongo».
Manganelli e tomba del Duce restano invece le mete dei nostalgici. Anche in questi giorni sono numerosi, perché il 28 aprile c’è stato il 69esimo anniversario della morte. Nella cripta - proprietà della famiglia Mussolini - sembra di essere al bar. C’è chi si fa il “selfie” accanto al busto sulla tomba, chi si fa fotografare («Aspetta un attimo, mi tolgo il giaccone così si vede la camicia nera») e poi dice: «Mandala subito ai camerati di Bergamo ». «Peccato, non si può andare a vedere la Madonna del Fascio». C’è anche questa, una povera Maria Vergine con angeli e fascio littorio, ma è nell’asilo comunale Santa Rosa, ancora pieno di bambini e gestito dalle suore Orsoline di Gandino. Forse potrà traslocare al museo, per raccontare i tempi in cui i preti reclutavano Madonne fasciste e Lui era l’uomo della Provvidenza. Tris di cappelletti, lasagne e tagliatelle, salsicce e braciole alla griglia. Bottiglie di sangiovese. Un ultimo saluto romano dal finestrino dell’auto. «Fermati, che compro un bavaglino per mio nipote ». Sopra c’è ricamato: «Boia chi molla».

il Fatto 3.5.14
La buonuscita: 6 mesi di stipendio in più assicurati per chi c’è stato un anno solo
Europarlamentari, il regalino d’addio vale 100 mila euro a testa


Indennità transitorie, benefit e doppie pensioni: il bengodi della poltrona anche per chi non viene confermato Intanto parte il rush finale per la prossima tornata elettorale: ecco quanto spendono i nostri candidati tra cene, manifesti e santini.
C’è chi tappezza la città con il suo volto, chi si affida a messaggi e a jingle improbabili su radio e tv locali, chi punta sul passaparola martellando i social network. Sono le elezioni europee, bellezza. Tra i candidati ci sono politici di lungo corso (e diverse legislature) e volti mai visti prima. Per ognuno di loro, la corsa alla poltrona ha il suo costo. Perché per ottenere un seggio a Strasburgo e Bruxelles, stavolta, non basta qualche santo nella segreteria del partito, ma servono i voti: le famose preferenze dimenticate dal Porcellum (e dall’Italicum). E allora bisogna metterci la faccia e far girare il proprio nome: c’è tempo fino al 25 maggio, giorno delle urne.
I budget per le campagne elettorali, come le strategie, sono molto diversi: qualcuno si arrangia con un pugno di euro, altri ne spendono ben oltre il centinaio. Un conto salato che può trasformarsi in un ottimo investimento: la retribuzione di un europarlamentare - al netto dei recenti tagli e al lordo delle tasse - sfiora gli 8 mila euro al mese. Poi ci sono indennità, rimborsi e benefit molto copiosi: si può arrivare senza difficoltà a uno stipendio di 17 mila euro. E poi c’è una buonuscita generosissima. Spetta ai parlamentari che a fine legislatura non vengono rieletti o non si ricandidano (ne scriviamo nella pagina a fianco). Un tesoro per cui vale la pena fare qualche sacrificio in campagna elettorale.

il Fatto 3.5.14
Goffredo Bettini
Dal “modello Roma” a Strasburgo: 170 mila euro per il veterano Pd
di Tommaso Rodano


Goffredo Bettini è considerato, a torto o a ragione, il dominus del “modello Roma”, il garante di un sistema di governo e di potere che ha mantenuto il centrosinistra al comando della Capitale per 15 anni, prima con Rutelli e poi con Veltroni. Ora riparte dalla caccia alle preferenze per un seggio a Strasburgo, battendo in lungo e in largo un territorio con orizzonti ben più lunghi del Grande raccordo anulare: Lazio, Marche, Umbria e Toscana; dalle “comunità di recupero di Monte Grimano Terme”, vicino a Urbino, “ai mezzadri di Amelia”, in provincia di Perugia.
Non solo Roma, insomma. Anche se la campagna non poteva che partire da lì, dove la rete di rapporti di Bettini non mette in dubbio il reperimento di contributi e risorse. Primo atto, una grande cena elettorale al Gran Teatro, lo scorso 15 aprile. Hanno partecipato circa 2500 persone, tra artisti e uomini di spettacolo (Ettore Scola, Massimo Ghini, Carolina Crescentini), politici del Pd romano (Marino e Zingaretti) e rappresentanti di quel “tessuto produttivo” capitolino di cui Bettini è stato a lungo interlocutore. La cifra raccolta, al netto delle spese, è vicina ai 50 mila euro. Una bella iniezione di fiducia e di denaro. “I costi - spiega lo staff di Bettini - rispetteranno il tetto massimo di spesa stabilito per legge: 167 mila euro. Se avanzerà qualcosa, sarà donato a qualche onlus senza scopo di lucro”. I soldi, cena a parte, arrivano ancora dalle donazioni volontarie di privati e aziende. Criterio inderogabile: nessuna società pubblica (“Non andremo certo a batter cassa alle municipalizzate”). E ogni centesimo raccolto - garantisce il comitato elettorale - sarà debitamente rendicontato dopo le elezioni. La parte del leone la fa la propaganda: il 50/60 per cento è per la stampa e l’affissione di manifesti e volantini (tra i 30 e i 50 mila, più 100 mila depliant), l’acquisto degli spazi pubblicitari e un paio di spot per i cinema e le tv locali. Il resto andrà diviso tra lo staff (25 persone), l’affitto del locale del comitato (un locale in via Salaria: 10 mila euro per due mesi d’affitto) e un contributo per i volontari “scesi in campo” per portare Bettini al Parlamento europeo

La Stampa 3.5.14
Fra gli irriducibili di Slaviansk “Questa terra è la nuova Russia”
di Michela Iaccarino


Scatta l’offensiva di Kiev a Est. Incendiata la sede del sindacato: 38 morti a Odessa
Forse è guerra. Ogni certezza oggi nel Donbass comincia con un’avversativa. Almeno 12 morti accertati tra ribelli e civili e due soldati di Kiev, numerosi feriti, check point filorussi sgomberati, edifici occupati nella provincia di Donetsk insieme alla stazione di Yasinuvata, 30 soldati rapiti secondo Kiev. Sarebbero già in viaggio dopo il lancio di quest’operazione i «patrioti russi» che dalla Crimea arriveranno a supportare la Repubblica del Donbass. Due piloti morti e due elicotteri Mi-24 abbattuti da lanciarazzi a Slaviansk: «Sono tre» dice Vladimir della scorta armata del sindaco, il filorusso Ponomaryev. «Ma qui ridiamo quando leggiamo le notizie dei media ucraini, la città è ancora sotto il nostro controllo: poka ticho, fino ad ora calma piatta. Il resto della popolazione ha l’obbligo di rimanere a casa».
Ricominciano le battaglie nelle ore dell’alba, «offensiva folle di Kiev contro i suoi cittadini» secondo Mosca. Sono le 4,30 locali quando scatta l’operazione anti-terrorismo, così la chiama Kiev contro i separatisti a Slaviansk, poi a Kramatorsk con mezzi blindati ed elicotteri. Per la popolazione che decide di prendere parte alla rivoluzione e gli uomini in passamontagna questa però «è già la nuova Russia». Sono le ultime parole prima della deflagrazione di questa lotta tra est e ovest, di quella guerra fredda che è stata scongelata qui, per la rivoluzione dei due martelli, simbolo di Donetsk e dei minatori della regione, ma che ha più di una falce mentre si aggiunge qualche svastica all’orizzonte. Due giorni fa il Pravij Sektor è finito con la testa insanguinata a Charkov. Si muore a Donetsk come sul mar Nero, Odessa. Già, Odessa, quasi immacolata fino a ieri quando un centinaio di filorussi hanno sfidato la manifestazioni degli ucraini che chiedono uno Stato uniti, senza divisioni. Scontri, tensioni, lanci di pietre, colpi di pistola. E morti, 38, in un incendio - doloso dicono le autorità - scoppiato dopo la fine dei disordini (ma c’è chi sostiene semplicemente a margine degli scontri) nella Casa del sindacato. 
Il lungo letargo dell’orso russo sta per finire, gli accordi di Ginevra bruciati: buttati dalla finestra come i dossier dalla Procura durante quella che chiamano il vittorioso assalto del primo maggio, quando dopo un lancio di lacrimogeni, i filorussi hanno assaltato la sede e spogliato la polizia di armi, scudi, divise. Per Denis Pushilin, autoproclamato governatore del Donbass, la causa del mancato rilascio degli osservatori Osce - di cui Obama e Merkel anche ieri invano hanno chiesto la liberazione - è l’attacco di Slaviansk. Persi i contatti con l’emissario di Putin, Vladimir Lukin, inviato per trattare la loro liberazione in Ucraina. Le navi americane nel Baltico sono un’ennesima provocazione: per questi atti criminali, fa sapere Mosca tramite Aleksandr Grushko, la Nato sarà al pari responsabile di Kiev. Intanto il Consiglio di sicurezza si riunisce d’emergenza. 
«Non ci siamo venduti agli americani per mezzo secolo, milioni di noi sono morti contro i fascisti nella grande guerra patriottica, e adesso voi, fratelli, vi siete inginocchiati a loro?», Serghei si è portato dietro il volto di legno della Madonna nel caso non riuscisse solo con la sua faccia a convincere, icona contro fucile, i soldati a disertare. A Jasnogorka, confine sud di Slaviansk, dove si decidono i confini tra la matrigna russa e la madre adottiva americano-europea, non si distilla il sangue slavo: «Non vogliamo né l’Europa, né la Russia perché siamo tutti ucraini e non vogliamo la guerra: parlate la nostra stessa lingua, io stesso ho servito nell’esercito ucraino, guarda il mio passaporto, non sono un russo infiltrato, sono nato nel Donbass, ma voi perché siete qui?». «Abbiamo l’ordine di difendervi» risponde un soldato. Difenderci da chi, chiede Serghei, difenderci da noi stessi? 
Si sono radunati al ponte, operai e contadini, perché «non si fa la guerra a gente che lavora 15 ore al giorno per 2500 grivne al mese», a cantare Katiusha, melodia della ragazza che piange il suo amato partito in divisa. I soldati alla prima barba sorridono, neofiti della neonata Guardia Nazionale arruolati di fretta dopo le sassaiole di febbraio a Kiev, vecchi quanto il loro Stato, nati come l’Ucraina prima e dopo il ’91: ogni volta che alzano lo sguardo gli sventola di fronte la vecchia bandiera imperiale russa riesumata per la nuova battaglia del Donbass. 
Se chiedi a Vitalij qual’è la sua città ti risponde «Rimini»: ha lasciato la Folgore ma non la carta d’identità italiana e il suo accento romano per tornare il 6 dicembre all’inizio della rivoluzione di Maidan nella sua Kiev. Abbraccia il kalashnikov, unico addestrato alla calma mentre gli altri stanchi, sussultano. Nelle mappe geopolitiche stampate dai giornali negli ultimi mesi che dividono l’Ucraina in quattro è stata dimenticata la quinta di cui fa parte Vitalij, l’Ucraina della diaspora che sta tornando indietro, migliaia che si uniscono alla lotta da un lato o dall’altro, divisi da una faglia ideologica profonda che si è aperta in questa terra che entrambi continuano a chiamare propria. Vitalij è appena sceso da uno degli elicotteri che attraversano le nubi sopra Slaviansk:«Stamattina quando hanno attaccato questo check point hanno trovato bombe a mano e Rpg, qui non ci sono solo civili, da militare mi accorgo che ci sono molti militari». Dietro di lui le divise mimetiche verdi sono sparse, appostate nella taiga, puntini che osservano e vengono osservati con i binocoli da una parte e dall’altra, in cerca di sabotatori.
Su certe pallottole c’è già scritto il nome di Julia: chiamarle come la Timoshenko le rende amuleto tra i filorussi. Senza distinguere fisionomie, accento e divisa un filorusso al checkpoint di Slaviansk osserva al binocolo e chiede «sono i nostri o i loro?». È già no man’s land, terra che reclamano tutti in questi giorni e non è più di nessuno. Anche se per ragioni diverse, per motivi opposti a quelli che proclama, la verità è scritta sulla pagina facebook di Medvedev: «Si avvicina un futuro triste per questo paese». 
Questo reportage fa parte del progetto +380 (il prefisso telefonico dell’Ucraina) dedicato ai volti nascosti di un Paese con diverse anime, lacerato tra Est e Ovest. +380 è un progetto di Fabrica, centro di ricerca sulla comunicazione di Benetton Group. 

Repubblica 3.5.14
Roger Waters “Caro Jagger no a Israele”

ROGER Waters dei Pink Floyd, filo-palestinese, ha attaccato più volte Israele. Ora fa un appello ai Rolling Stones.
«Suonare in Israele equivale, moralmente, a suonare a Sun City all’apice dell’apartheid in Sudafrica. Non suonate a Tel Aviv finché non regneranno libertà e uguali diritti». Il concerto degli Stones è il 4 giugno.

Corriere 3.5.14
Cina e Stati Uniti, conseguenze molto reali del sorpasso che non c’è
di Sergio Romano

qui

il Fatto 3.5.14
“Amo la battaglia anche contro le Sette sorelle”
L’incontro con Enrico Mattei alla fine degli anni Cinquanta. Allora era fondatore e capo dell’ENI, uno dei personaggi più importanti e influenti del paese
“Io sono un nazionalista”. Impegnato durante la guerra come partigiano, rivendicava le sue scelte. “Il patrimonio della Resistenza dovrebbe essere alla base della coscienza civile”. Con il gruppo italiano spezzò il monopolio internazionale sull’energia
intervista di Enzo Biagi


Mattei perché ha voluto fare il nostro incontro dall’alto del grattacielo di Metanopoli?
Biagi così comprenderà meglio le mie parole. Questa è la pianura lombarda: 300 ettari sono nostri. Ho cominciato pagando il terreno 460 lire al metro, senza dire nulla a nessuno, non volevo correre rischi. Adesso ne vale 50 mila. E tutto quello che vi è stato costruito sopra non ci costa niente.
Ho letto che lo Stato a lei avrebbe concesso quello che mai avrebbe dato a nessun altro, né tantomeno ai privati, è vero?
No, non è vero. All’inizio lo Stato ci ha dato una società in perdita e non ci ha concesso grandi privilegi. L’Eni è stata costituita con 30 miliardi, 15 li ha messi lo Stato e 15 sono arrivati dalle società che allora erano già attive. Quello che ha creato malumore è che la concessione della Pianura Padana è stata data in esclusiva, ma era piccola rispetto a quelle che erano state divise tra altre compagnie. Da allora non abbiamo più avuti finanziamenti e ci siamo dovuti rivolgere agli istituti di credito. La differenza con le imprese private è che se a loro un anno va male possono non pagare i profitti, noi, invece, dobbiamo pagare gli interessi e rimborsare le quote di credito. Tutti gli interventi che abbiamo fatto li abbiamo pagati noi.
Come inizia la sua storia di imprenditore?
Sono nato in una terra poverissima delle Marche, Acqualagna, primo di cinque figli; poi mio padre, che era maresciallo dei carabinieri, fu trasferito a Matelica, un paese vicino a Macerata, andammo lì a vivere. Non avevo voglia di studiare, mi piaceva solo la matematica. Da ragazzo scappai a Roma con un amico: volevamo tentare l’avventura del cinema, ma tornammo subito a casa. Ho cominciato a lavorare che avevo 15 anni come fattorino, ho fatto l’operaio in una fabbrica di letti poi passai alla Conceria Fiore, dove a 19 anni divenni direttore: avevo alle mie dipendenze 150 operai. Decisi di andare a Milano, trovai lavoro come rappresentante presso una ditta di vernici, poi mi misi in proprio ed ebbi un certo successo.
Come arrivò all’Agip?
Entrai all’Agip nel 1945. Alla fine della guerra fui nominato Commissario delle concessioni di ricerca petrolifera in Lombardia perché conoscevo bene l’area, avevo tutte le informazioni, datemi dai tecnici, sulla zona di Lodi, esattamente a Caviaga dove era stato scoperto nel ’44 un giacimento di gas metano, ma poi era stato chiuso perché non cadesse in mani tedesche. A nominarmi fu il Comitato economico del Cnl presieduto da Cesare Merzagora che aveva il compito di risolvere i problemi di un’economia che passava dalla guerra alla pace, con tutte le limitazioni che derivavano dagli alleati. L’incarico che ricevetti era quello di liquidare tutte le concessioni che erano considerate parassitarie, come era scritto nel protocollo del 15 maggio 1945 con il quale il ministro del Tesoro, Solieri, ordinò di liquidare l’Agip, ma io non ero d’accordo.
Cosa accadde?
Ero stato nominato a maggio e il 21 giugno Ferruccio Parri diventò presidente del Consiglio, così decisi di andarlo a trovare a Roma. C’eravamo conosciuti quando era a capo del Comitato nazionale di liberazione e io rappresentavo nel Cnl le formazioni partigiane cattoliche. L’ultima volta che lo avevo incontrato era stato nei giorni della Liberazione. Mi ricordo che era rimasto colpito dal fatto che io ero stato arrestato dal famigerato commissario Saletta, peggio dei nazisti, e rinchiuso nel carcere di Como e, grazie all’aiuto di una guardia, ero riuscito a evadere. Entrammo insieme a Milano il 25 aprile con Luigi Longo e Raffaele Cadorna. Avevo bisogno di avere appoggi al di fuori della Lombardia. Convinsi Parri che il giacimento di Caviaga, secondo le mie informazioni, era enorme e questi ritrovamenti sarebbero stati fondamentali per il nostro futuro. Se avessimo chiuso tutto o svenduto, ci saremmo assunti una grande responsabilità nei confronti del paese. L’Italia poteva risollevarsi dalle tragedie della guerra solo attraverso una forte politica che portasse all’indipendenza energetica. Il presidente si fidò delle mie parole, mi fece incontrare Dalmatti che era sia il commissario generale dell’Agip sia il controllore di tutte le piattaforme degli alleati in Italia.
Co m ’era allora il rapporto con gli alleati?
Io ero a conoscenza dei loro interessi, avevo con loro contatti, ma nonostante l’armistizio ci trattavano come un paese sconfitto. Anche per questo non potevamo lasciare in mano loro il nostro bene comune.
L’hanno accusata di aprire strade di notte per inserire tubazioni, senza averne i permessi, è vero?
Sì, qualche volte l’abbiamo fatto, ma nel racconto c’è molta fantasia. Quando è accaduto lo scopo era di superare la burocrazia che ci impediva il progresso e ci strangolava. Immagino che lei si riferisca a quando, a Cremona, presi 300 terrazzieri e di notte andammo a scavare il tracciato. Se io fossi stato ubbidiente e supino alle autorità non sarei riuscito a fare quello che ho fatto, soprattutto all’inizio.
Conseguenze?
Nessuna. Ero deputato e non potevano mettermi in prigione.
C’erano leggi da rispettare e lei non lo avrebbe fatto, anche questo c’è stato chi gliel’ha contestato.
Biagi, io ho sempre rispettato le leggi. Ho approfittato che tutto stava cambiando, stiamo parlando del dopoguerra, ha presente com’era l’Italia allora?
Certamente.
Tutto era vecchio e il progresso imponeva nuove disposizioni. Ho semplicemente anticipato i tempi. L’Italia non doveva essere condannata all’eterna miseria. Ho sempre creduto che il patrimonio della Resistenza dovesse essere alla base della coscienza civile.
Mattei, lei non solo ha costruito l’Eni, ma anche un’intera città.
La forza del nostro paese è data dalla gente: questa è la nostra ricchezza e noi dobbiamo valorizzarla, non farla andare all’estero. Dobbiamo costruire lavoro e poi esportare quello che i nostri operai sono capaci di costruire con grande professionalità. Ciò serve a preparare le nuove generazioni nella speranza che non debbano mai vivere la dolorosa esperienza della guerra come abbiamo vissuto noi. Qui a San Donato Milanese gli operai hanno a disposizione case con tre camere e il bagno, come gli impiegati, e campi da tennis, piscine, stadio, chiesa, e c'è anche un piccolo zoo per i bambini. Qui siamo tutti uguali e quando il lavoro è finito tutti debbono potersi mettere una camicia bianca, esattamente come faccio io. Per me la camicia bianca è stata una conquista, non ho mai dimenticato la mia giovinezza, che è stata dura, nel paese delle Marche dove vivevo, la differenza sociale la si vedeva anche alla messa della domenica tra chi portava la camicia bianca e chi no. Sono convito che bisogna dare un posto di lavoro a tutti, questo è il mio obiettivo.
Lei è molto cattolico.
È stata mia madre, molto religiosa, a darmi un’educazione cattolica. A lei devo il mio carattere. Da mio padre, che aveva arrestato il brigante Musolino, ho imparato che nella vita bisogna avere pazienza, molta pazienza, perché le cose riescano. Ho sempre con me nel portafogli il santino della Beata Mattia che si venera nel monastero delle suore clarisse di Matelica dove ho vissuto da ragazzo.
Hanno detto di lei che è un socialista cristiano. Lei come si definisce?
Sono un nazionalista, un imprenditore al servizio dello Stato.
Chi ammira di più?
Tra i privati stimo molto il presidente della Fiat Vittorio Valletta. È l’unico che ha capito che questo è il mondo della velocità.
Quando capì che avrebbe avuto ragione a insistere quel giorno con il presidente Parri?
Nel 1946 quando a Caviaga si sprigionò la prima nube, avevamo trovato un gas metano con una spinta di 150 atmosfere. Capii che possedevamo uno strumento potente e che avevo avuto ragione a non cedere alla Edison, per 60 milioni, gli impianti e gli studi di ricerca.
Con quale strategia si è avvicinato al mercato governato dalle grandi compagnie?
Una volta ero un bravo cacciatore poi, invecchiando, si diventa meno crudeli: non posso pensare di sparare a un animale. Allora andavamo a caccia di pernici. Partivamo all’alba per tornare alla sera, avevo due cani: un bracco tedesco e un setter. Una sera, sfiniti e affamati, ritornammo al casolare, che era il nostro punto di riferimento. Per prima cosa preparai un grande mastello di zuppa per i cani che sarebbe bastata per dodici, e mentre mi stavo togliendo gli stivali guardavo i due animali con la testa infilata nel mastello che mangiavano con grande voracità. Sentii miagolare un gattino piccolo , striminzito, dei contadini che vivevano nel casolare. Uno di quei gattini che mangiano quando possono: si vedeva che aveva una grande paura dei cani, ma anche una grande fame. Piano piano si avvicinò al mastello e appoggiò una zampina sull’orlo, il bracco, con una zampata lo allontanò facendolo sbattere contro la parete e spaccandogli la spina dorsale. Il gattino dopo pochi minuti morì. Quella scena mi fece una grande impressione e non l’ho mai dimenticata. Biagi, per i primi anni noi siamo stati quel gattino, abbiamo avuto a che fare con interessi mostruosi. Il nostro obiettivo è stato quello di cercare di rafforzarci e di evitare di farci colpire dal bracco tedesco.
Co m ’è il rapporto tra l’Eni e le grandi compagnie, quelle che lei ha chiamato le “Sette sorelle”, che dominano la produzione petrolifera mondiale?
Le “Sette sorelle” erano abituate a considerare i mercati di consumo come riserva di caccia, imponendo una politica monopolista, creando un cartello. Cercai inutilmente di entrare nel Consorzio petrolifero dell’Iran. Gli americani avevano il 42 per cento, gli inglesi il 40, il resto era diviso tra olandesi e francesi. Sarei stato contento di ottenere il tre o il quattro per cento. Mi sbatterono la porta in faccia. Prendemmo la decisione di rompere tutto questo e di non passare più attraverso le grandi compagnie, che avevano un bilancio pari a quello italiano, e dal loro cartello. Mi incontrai con uno dei grandi che mi chiamò per parlare di una collaborazione che mantenesse alto il prezzo, così avremmo guadagnato di più. Esattamente il contrario di quello che io voglio fare: ho il dovere di proteggere il consumatore. Gli dissi che in Italia avremmo deciso noi come andare avanti e non più loro. Gli dissi che per quanto riguardava il mercato estero non potevamo più essere trattati come dei poveri emigranti, cercai di fargli capire che eravamo gli imprenditori di un paese moderno e come tale volevamo essere trattati.
Cosa è accaduto?
Si è scatenata una grande lotta nei nostri confronti. Stiamo cominciando a vincere, perché noi proponiamo ai paesi che hanno petrolio condizioni più umane e molto vantaggiose, prima di tutto la compartecipazione al 50 per cento. Non siamo più estranei, ma compartecipiamo. Questo porterà vantaggi anche nei rapporti politici tra i due paesi.
Quanto vale oggi l’Eni?
Siamo vicino ai mille miliardi. Quello di cui vado più fiero, oltre ad aver fatto fruttare quei 15 miliardi dello Stato, sono i circa 200 che in questi pochi anni, da quando è sorto l’Ente nazionale idrocarburi, sono stati pagati in stipendi e salari. Sono miliardi rimasti in Italia, spesi nel nostro paese e non fuori per acquistare l’energia.
Co s ’è per lei è il successo?
Poter guardare, come stiamo facendo noi in questo momento, la città dei lavoratori. Sapere che ci sono chilometri di tubazioni che portano energia italiana nelle case degli italiani, questo è il mio successo. Guardi Biagi, a casa siamo solo io e mia moglie, il mio stipendio deve essere pari a quello del funzionario più pagato, tutto ciò che va oltre al milione non serve.
Lei è considerato un uomo determinato, che ha un giusto rapporto personale con i soldi, ma che non lesina quando si tratta di fare l’interesse delle sue imprese. C’è chi la giudica come un prepotente.
No, Biagi. Non sono un prepotente, sono uno a cui piace la battaglia, sempre disposto a combattere.

il Fatto 3.5.14
Il mistero della morte, De Mauro e l’inchiesta
Nel 1962 precipita l’aereo privato con a bordo l’imprenditore Nel 1970 scompare il giornalista che indagava su quell’incidente
di Loris Mazzetti


Il governo Renzi ha deciso di mettere alla presidenza dell’Eni (Ente nazionale idrocarburi) Emma Marcegaglia, l’unica donna ad aver comandato la Confindustria. Nella scelta hanno prevalso, ancora una volta, le ragioni della politica sul resto, senza considerare che la nomina avrebbe prodotto l’ennesimo conflitto d’interessi. L’interessata ha smentito. L’azienda di famiglia non avrà rapporti con l’Eni, ma le vicende legate al fratello Antonio, che nel 2008 ha patteggiato una pena di undici mesi con sei milioni di euro restituiti per aver pagato tangenti per appalti con una società del gruppo, la Eni-Power, non si cancellano.
PER LE GRANDI interviste di Enzo Biagi, il Fatto Quotidiano pubblica oggi l’incontro tra il giornalista e colui che fondò, nel 1953, l’Eni: Enrico Mattei. L'intervista fu realizzata nel dicembre 1958 a San Donato Milanese. Allora il giornalista dirigeva il settimanale Epoca. Biagi così descrisse il grande manager di Stato: “Alto, magro, con le durezze dei timidi, non concedeva molte battute all'interlocutore. Inseguiva i pensieri, spiegava le sue intenzioni quasi con accanimento”. Per Mattei, nato in una famiglia umile, essere stato partigiano contro i nazifascisti lo aiutò a credere nella giustizia sociale e come manager ebbe un solo obiettivo: quello di rendere l’Italia una nazione moderna, civile e prospera, senza mai pensare al profitto personale. Per fare ciò non badò al sottile, usò ogni mezzo per togliersi di torno gli impedimenti. “Corrompeva talvolta e umiliava quello stesso paese alla cui dignità aveva dedicato l'esistenza” scrisse Luigi Barzini. Mentre per Domenico Bartoli fu “la figura più spiccata che la democrazia ci abbia dato dopo De Gasperi”. Mattei quel giorno confidò a Biagi che aveva ordinato un aeroplano a reazione, ed era compiaciuto perché così in soli 40 minuti da Milano sarebbe arrivato a Roma. L’aereo che il 27 ottobre 1962 precipitò a Bascapè, provincia di Pavia, lo portò alla morte. Oltre al presidente dell’Eni perirono il pilota Irnerio Bertuzzi e il capo dell’ufficio romano di Life, William McHale. Bertuzzi, riminese, decorato più volte durante la guerra, nel suo libretto aveva oltre 11 mila ore di volo, a vent’anni già pilotava velivoli da bombardamento. Aveva seguito come ufficiale quelli di Salò, di lui Mattei, che non amava volare, diceva: “Andiamo sicuri, perché Dio non può avercela contemporaneamente con un fascista e con un partigiano”. Biagi poi aggiunse: “Nessuno dei due aveva considerato che, probabilmente, Dio è apolitico”. Solo nel 2005 i sospetti della prima ora, che non si trattasse di un incidente ma di un attentato, furono confermati dal ritrovamento di tracce di esplosivo (tritolo) e dai segni dell’esplosione trovati su alcune parti dell’aereo, sull’anello e sull’orologio di Mattei.
NEL 1962 sulla vicenda si disse di tutto e di più, ma una cosa era certa: le “Sette sorelle”, le grandi compagnie petrolifere, furono danneggiate dall’invadenza rivoluzionaria di Mattei, si sapeva bene che certe sue iniziative non coincisero con la visione degli Stati Uniti e che a Parigi non apprezzarono i suoi rapporti con i vari Fronti di liberazione africani. Per anni la morte di Mattei rappresentò un grande rebus che a seconda delle opinioni cambiava colore. Nel 1970 accadde un fatto che diede al caso le forme del thrilling: la scomparsa del giornalista del-l’Ora Mauro De Mauro. La figlia Julia scrisse sul Mondo che la sparizione era dovuta all’incarico che il giornalista aveva avuto dal regista Francesco Rosi, per il film Il caso Mattei, di ricostruire gli ultimi due giorni di Mattei in Sicilia. Alla data di consegna del lavoro nessuna notizia del giornalista. Da allora di De Mauro nessuna traccia; forse aveva scoperto qualcosa che avrebbe potuto contribuire a risolvere molto prima il caso Mattei, come disse Rosi a Biagi: “De Mauro ha messo il piede sulla coda di una vipera”. Biagi negli anni successivi alla morte del presidente dell’Eni realizzò, sempre per la carta stampata, alcune inchieste molto interessanti, incontrando persone che lo conoscevano bene come Giorgio La Pira: “Mattei è stato la figura più eminente, anche in senso politico. Era semplice, vedeva subito. Stabilì contatti col mondo arabo, andò a Pechino nel ’58; fece gli stabilimenti di Ravenna in funzione della Cina. Capiva l'America Latina. Lo incontrai a Firenze il 4 ottobre, cadde il 27. Mi parve triste. Aveva paura, sì, di un attentato. Si sentiva la morte vicina”. Mattei in America aveva scoperto che i vertici aziendali non si facevano portare in giro dalle macchine della società, ma si muovevano con la propria. Quando tornò a Milano chiamò il capo del personale e gli chiese il numero delle auto che accompagnavano i dirigenti: “Un centinaio” fu la risposta. Dal giorno dopo le auto blu furono abolite. Purtroppo per i politici di oggi, e non solo, la storia non insegna e la memoria è volutamente corta.

La Stampa 3.5.14
L’amore per la fotografia e la rivoluzione
A Palazzo Madama di Torino rivive l’epopea dell’emigrata friulana che con la sua vita e le sue immagini scandalizzava il Messico degli Anni 20
di Rocco Moliterni


Chi era Tina Modotti? Una rivoluzionaria pronta a combattere per i suoi ideali o una stalinista complice di efferati delitti? Più che Neruda (che alla sua morte le dedicò una poesia) forse può essere utile a interpretarne la figura il Borges di Finzioni: il confine tra eroe e «traditore», tra realtà e apparenza può essere talmente labile, soprattutto per personaggi che hanno vissuto contesti storici convulsi e tumultuosi, che è meglio sospendere il giudizio. Peraltro chi visita la mostra a lei dedicata a Palazzo Madama non è chiamato a formulare giudizi politici, semmai a capire l’opera di un’autrice che diceva: «Mi considero una fotografa, niente di più. Se le mie foto si differenziano da ciò che viene fatto di solito in questo campo è precisamente perché io cerco di produrre non arte, ma oneste fotografie, senza distorsioni o manipolazioni». Qui però di nuovo potrebbe fare capolino Borges, perché fino a che punto si può considerare «onesta» una fotografia usata, pur con le migliori intenzioni, a scopi di propaganda politica? Certo l’opera della Modotti non è solo questo e le sue affermazioni vanno contestualizzate agli Anni 20: sono soprattutto un polemizzare con quel «pittorialismo» che non accettava la fotografia come «il più diretto mezzo per fissare, per registrare l’epoca presente».
Alla fotografia Tina era arrivata dopo molteplici esperienze artistiche. All’anagrafe faceva Assunta Adelaide Luigia Saltarini Modotti: era figlia di un meccanico friulano che per sostenere una famiglia via via sempre più numerosa era emigrato prima in Austria e poi a San Francisco dove lei lo raggiunse, sedicenne, nel 1913. Qui si impiega in una fabbrica di camicie, ma la storia d’amore (una delle tante che costellerà la sua breve ma intensa vita) con il pittore Roubaix de Labrie Richey detto Robo, le fa scoprire prima il teatro, poi il cinema e il bel mondo intellettuale di Los Angeles. Calcherà le scene e diventerà anche attrice in alcuni film hollywoodiani. Tra gli amici di Robo c’è anche un certo Edward Weston, uno dei più grandi fotografi del suo tempo (e non solo), di cui diverrà assistente, modella e amante. Con lui finirà in Messico, da lui imparerà tecniche e segreti del mezzo fotografico. Grazie a lei, invece, Weston ci lascerà alcuni dei nudi più sensuali e intensi della storia della fotografia.
Nelle sue prime immagini Tina sembra più interessata agli aspetti formali. Ad affascinarla, pensiamo a scatti come Fili del telegrafo del ’24 o a Stadio del ’25 sono le geometrie. Influenzata dall’amante-maestro sperimenta fotografando fiori e bicchieri, anche se lui a volte la prende in giro perché dice che fa cose «alla Man Ray».
Il rapporto con Weston a poco a poco si allenta, ma rimarranno sempre amici, come testimoniano le lettere che lei gli spedisce, oggi forse una delle fonti più preziose per ricostruire la sua avventurosa vita. Lei adesso è innamorata di un rivoluzionario cubano e si interessa alle condizioni di vita dei campesinos. La sua fotografia diventa sempre più strumento di lotta politica. Collabora con riviste come New Masses: in copertina, nel numero del dicembre del ’28, finiscono quelle Mani appoggiate al badile, di straordinaria bellezza e modernità.
In mostra vediamo donne che portano bandiere rosse (ovviamente il colore lo immaginiamo perché le foto della Modotti sono in bianco e nero), sombreri di campesinos che si affollano come in processione, o che con una falce e un martello diventano il simbolo del partito comunista. Nel ’29 Tina si muove per il Messico e va alla scoperta della vita delle donne di cittadine sperdute, le fotografa con le ceste in testa e le figlie in braccio, ci lascia scatti che sono ormai delle icone della condizione femminile.
Ma alla fine del decennio la sua passione per la fotografia sembra cedere il passo alla ben più intensa militanza politica: fa parte di quel giro intellettuali ed artisti comunisti che hanno in Diego Rivera e Frida Kahlo i loro punti di riferimento. Viene accusata di aver partecipato al complotto contro il presidente messicano ed espulsa dal Paese nel 1930. Girerà per il mondo, dalla Russia alla Germania (sono di Berlino alcune rari scatti degli Anni 30) . Con Vittorio Vidali, un triestino al servizio del Comintern, agente segreto o sicario di Stalin (con lei non è stato generoso neppure nel ricordo, come spiega lo scrittore Pino Cacucci in catalogo) partecipa alla Guerra civile spagnola. Dopo quell’esperienza riesce a tornare in Messico dove morirà misteriosamente in un taxi nel 1942. Dopo anni di oblio a rilanciarne la figura saranno i suoi concittadini di Udine e in primis l’associazione CinemaZero che ne raccoglie l’archivio fotografico e ne tiene viva la memoria.

Corriere 3.5.14
Andare a zonzo senza una meta
L’abitudine (perduta) dei geni
di Marco Missiroli


Aveva ragione mio nonno Aurelio quando diceva che solo i piedi danno fiato al cervello, non era un gran lettore ma fosse nato un secolo prima avrebbe fatto volentieri compagnia a quell’omone barbuto di Charles Dickens accanito camminatore in cerca di ispirazione. Nonno Aurelio sosteneva che 50 passi erano sufficienti per scansare un guaio, 500 per avere un’idea decente e 10.000 per una rivoluzione. A Dickens ne bastavano un migliaio per risolvere un’empatia con un personaggio o sgominare un’ingiustizia tra le pagine scritte mentre passeggiava per la sua Londra notturna.
Chissà se avevano capito tutti e due la piccola alchimia del moto senza luogo, quella specie di incoscienza che lega una persona in movimento e la mancanza di un punto d’arrivo. In un modo o nell’altro entrambi mi inculcarono il segreto del camminare a zonzo verso qualcosa che non c’è e assomiglia a una cometa: è il processo che rigenera l’immaginazione e che invoco se la scrittura si blocca. Così, nel mezzo della disperazione, chiudo il computer e mi affido all’anarchia dei piedi che sanno trovare il bandolo della matassa. I primi cento metri sono di sconforto totale, poi qualcosa accade ed è una specie di coscienza che le gambe acquisiscono sottraendola alla testa. C’è una clausola fondamentale che vieta cellulari, MP3 e altre compagnie artificiali, nemici acerrimi e invincibili della camminata creativa.
Gambe intelligenti, cervello stolto: il miracolo passa da questa condizione stramba che mi ha tolto parecchie castagne dal fuoco, anche un vicolo cieco in cui mi ero cacciato nel mio ultimo romanzo. Il problema stava nel protagonista, avevo in mente un portinaio che usava le chiavi di riserva di un condomino per entrare segretamente nel suo appartamento, mi mancava il cuore dell’azione. Serviva un movente totale, cosmico, assoluto, ero certo che fosse già in un angolo del mio ipotalamo, corteccia cerebrale, emisfero destro o sinistro, dovevo solo scovarlo. Per farlo mi annotavo schemi, rovistavo nei ricordi, mangiucchiavo liquirizie, ammiravo rovesci di Federer, scribacchiavo incipit e facevo suonare musica folk, mi ero dimenticato che tutto questo era destinazione forzata. Le idee rifiutano le destinazioni, pretendono il vuoto. Invocai mio nonno e sgattaiolai fuori tra lo smog di Milano, passeggiai per il quartiere di porta Romana e giù verso Missori, attraversai il Duomo in direzione Scala, e verso Brera, e su per corso Garibaldi fino alla chiesa dell’Incoronata. Lì, poco prima che l’isola pedonale diventi traffico, mi sedetti su una panchina e mi accorsi di un uomo su un balcone che insegnava a un ragazzino a innaffiare i gerani. Il ragazzino lo fece con pazienza e quando finì disse «Mica sono una femmina, papà». Lo vidi rientrare in casa, mi alzai e feci una cinquantina di passi, poi l’avvertii: la cometa. Il romanzo aveva trovato il movente.
Tradii la camminata per un trotto, avevo fretta di arrivare a casa e annotarmi l’epifania come avrei fatto con le altre che sarebbero venute, figlie di gambe lente e svogliate, sempre senza bussola: nel tempo ho scoperto che i piedi amano stupirsi, più battono strade nuove più accendono neuroni, e sono abitudinari solo per l’ora. Preferiscono sgranchirsi in un momento della giornata che ricorre. Per Immanuel Kant il momento giusto era dalle due e trenta pomeridiane alle tre e cinquantaquattro, non un minuto di più. Circa il mio orario. Per mio nonno era di prima mattina, per Dickens dopo le undici della sera. Per tutti è il camminare senza testa, ormai estinto, che fa la differenza: può valere un guaio scansato, un’idea decente, una rivoluzione.

Corriere 3.5.14
Il migrante, 40 modi per dirlo da Kureishi a De Rita e Cacciari
di Severino Colombo


La frequentazione «dei nuovi vicini che vengono da lontano» permette di superare «il gap dell’etnocentrismo»; l’inserimento di migranti nei processi sociali «fa delle storiche città occidentali delle “città in movimento”». Sono fenomeni in atto (anche) nella società italiana contemporanea, cambiamenti di cui si discute da oggi (3 maggio) all’11 maggio alla Reggia di Caserta e al Belvedere di San Leucio, siti Unesco, in occasione di «Città in movimento. Geopolitica, Culture e Diritti dei Migranti».
Il simposio internazionale multidisciplinare è nell’ambito della quarta sezione del Forum Universale delle Culture (www.forumdelleculture.it). L’evento vede la partecipazione di quaranta ospiti che declinano la voce «migrante» secondo discipline diverse: Demografia, Sociologia, Economia, aspetti giuridici e culturali. Tra i nomi: gli scrittori Hanif Kureishi (che apre oggi, parlando di «Migrazioni e generazioni», nella foto ) e Abraham Yehoshua; Giuseppe De Rita (presidente Censis) e il sociologo Khaled Fouad Allam; l’attivista e Nobel per la Pace Betty Williams, Luc Ferry, l’ex ministro francese che vietò i simboli religiosi nelle scuole, e il filosofo Massimo Cacciari.
E se è la cronaca di queste ore a riportare l’attenzione su chi lascia la propria terra in cerca di un futuro, è la prospettiva storica che permette a Paolo Macry, ordinario all’Università Federico II di Napoli — ideatore del progetto con un pool di studiosi — di osservare che «le migrazioni rappresentano una costante nella storia del genere umano» e che Paesi come l’Italia stanno ora familiarizzando con una «fenomenologia della diversità» impensabile pochi decenni fa. Nuova e ancora tutta da valutare è, invece, l’interazione con i nuovi mezzi di comunicazione grazie a cui i migranti restano in contatto con i contesti di provenienza: «presenze transnazionali», le definisce Macry, che vivono «a cavallo tra più mondi, originario e di arrivo».
«Città in movimento» si articola in dibattiti, conferenze, reading (una giornata dedicata ai Caraibi) e mostre (le immagini dei fotoreporter della agenzia France Press sulle enclave etniche di dodici città nel mondo).

Corriere 3.5.14
Picasso junior ora accusa Parigi «Boicotta il museo di mio padre»
di Stefano Montefiori


PARIGI — Claude Picasso, il figlio 66enne del grande artista e di Françoise Gilot, accusa la Francia e il suo ministro della Cultura. Il museo Picasso al numero 5 di rue de Thorigny, nel Marais, è chiuso da cinque anni per ristrutturazione e la data di apertura continua a essere rinviata.
«La Francia se ne infischia di mio padre, Pablo Picasso», ha detto Claude (nella foto ) in un’intervista al «Figaro». A suo dire la Francia non ha intenzione di riaprire il museo in giugno, come era stato deciso e come sarebbe possibile. Quel che è più imbarazzante per il governo francese è che Claude Picasso critica l’atteggiamento personale di Aurélie Filippetti, ministro della Cultura. «Dice che non possiamo aprire a giugno perché non ci sono i guardiani e perché il cantiere è in ritardo ma non è vero, i lavori sono terminati alla data prevista, ossia martedì scorso».
Lo sfogo di Claude Picasso continua riferendo di un appuntamento annullato all’ultimo momento dal ministro. «Le ho proposto di venire con me a visitare il posto, prima ha detto sì poi ha cancellato l’impegno con uno sms, senza proporre un’altra data. D’altra parte chi può pensare che, da adesso a giugno, non sia possibile trovare dei guardiani? Basterebbe che Filippetti decidesse di reclutarli in tempo. La verità è che non c’è alcuna voglia di aprire il museo. Mi prendono in giro, ho l’impressione che la Francia si prenda gioco di mio padre e anche di me».
In effetti, è piuttosto bizzarro che il museo parigino dedicato a uno dei più celebri pittori del mondo sia chiuso da cinque anni. Dopo lo sfogo di Claude Picasso è arrivata la replica del ministero: «Dichiarazioni eccessive — ha detto Vincent Berjot, direttore generale al ministero —. Vogliamo come lui valorizzare il genio di Picasso, il ministero ha investito 19 milioni di euro (su un totale di 52, ndr ) e sta reclutando 40 persone». Claude Picasso vorrebbe donare al museo documenti di Dora Maar sulla creazione di Guernica e un importante carnet di disegni mai visti prima. Ma bisognerà aspettare l’inaugurazione.

Corriere 3.5.14
Mistero svelato
Ecco come gli egiziani costruirono le Piramidi
Bagnando la sabbia del deserto riducevano l’attrito anche del 50%. Una ricerca olandese lo dimostra scientificamente: applicazioni per i moderni trasporti
di Maria Strada

qui
Repubblica 3.5.14
La crisi di coppia dei Sartre
Simone de Beauvoir raccontò il ménage stanco di due coniugi di mezza età
Poi si pentì Perché André e Nicole ricordavano troppo lei e Jean-Paul. Quel romanzo esce solo ora
di Simone de Beauvoir


Nell’oscurità del cinema, André guardò di soppiatto il profilo di Nicole. A due giorni dal loro litigio le sembrava un po’ triste. O era lui a proiettare su di lei la propria tristezza? Fra loro non era più come prima. Forse a Nicole adesso dispiaceva aver acconsentito a fermarsi ancora dieci giorni a Mosca? O era lui a essere rimasto colpito dalla sua diffidenza e dalla sua collera molto più profondamente di quanto non avesse creduto? [...]
Continuava a rimasticare pensieri tetri. [...] Gli anni danno ai vini il loro aroma, ai mobili la loro patina, agli uomini l’esperienza e la saggezza. Ogni momento viene inglobato e giustificato dal momento successivo, che sembrerebbe preparare così un futuro ben più compiuto e perfetto, persino le sconfitte e gli errori potrebbero essere recuperati. «Ogni atomo di silenzio è la possibilità di un frutto maturo». Non si era mai riconosciuto in quella frase. Ma non vedeva neppure la vita alla maniera di Montaigne, come una successione di continue morti: il lattante non è la morte dell’embrione, né il bambino quella del lattante. Non aveva mai visto Nicole morire e resuscitare. Era in disaccordo anche con la frase di Fitzgerald: «La vita è un processo di demolizione». Non aveva più il corpo dei suoi vent’anni, la memoria declinava un po’, ma di sicuro non si sentiva più stupido. E Nicole certo non lo era. Fino a quegli ultimi tempi, era rimasto fermamente convinto che a ottant’anni sarebbero ancora stati simili a loro stessi. Ma adesso non ci credeva più. Quell’inguaribile ottimismo che faceva tanto sorridere Nicole era meno solido di un tempo. C’erano quei denti che in sogno continuava a sputare, quella dentiera da cui si sentiva minacciato: all’orizzonte, un crollo. Perlomeno aveva sperato che il loro amore non avrebbe mai conosciuto declino; addirittura, gli era sembrato che Nicole invecchiando gli appartenesse sempre di più. Ed ecco che adesso fra loro qualcosa era forse sul punto di disfarsi. Come distinguere nei gesti, nelle parole, ciò che era semplicemente una ripetizione abitudinaria del passato, da ciò che era invece nuovo e vitale? Per quanto lo riguardava, i suoi sentimenti per Nicole mantenevano tutta la giovinezza dei primi giorni. Ma lei? Non aveva parole per chiederglielo. [...] C’erano stati litigi nella loro vita - ma per ragioni serie. Quando l’uno o l’altra avevano avuto un’avventura; a proposito dell’educazione di Philippe. Erano veri conflitti che liquidavano con violenza, ma in fretta e in modo definitivo. Questa volta, si era trattato di una bufera fumosa, fumo senza fuoco; e a causa della sua stessa inconsistenza, non si era per nulla dissipata.
Bisogna anche dire, pensò, che un tempo a letto avevano riconciliazioni appassionate; nel desiderio, nel turbamento, nel piacere, i dolori inutili venivano calcificati: si ritroquando vavano l’uno di fronte all’altra, nuovi e gioiosi. Adesso, questo rimedio era venuto meno. Allora Nicole razionalizzava. Era stata in gran parte responsabile del loro litigio: aveva pensato che mentisse. (Anche perché poi averle mentito in precedenza, su cose così insignificanti?) Ma la colpa era stata anche di André. Sarebbe dovuto ritornare sulla questione invece di considerarla risolta in due minuti. Lei era stata troppo diffidente, ma lui troppo superficiale, e lo restava - visto che non si preoccupava più di tanto di ciò che passasse nella testa di Nicole.
Si era inaridito? Presa dalla collera, Nicole aveva pensato su di lui molte cose ingiuste. Senile, no. In stato vegetativo, no. Ma forse meno sensibile di un tempo. Certo, ci si logora: così tante guerre, massacri, catastrofi, disgrazie, morti. [...] Una coppia che va avanti per inerzia: era questo il futuro che li aspettava? Amicizia, affetto, ma non una vera ragione per vivere insieme: sarebbe stato così? Lei che un tempo si ribellava quando un ragazzo si arrogava anche la minima superiorità, André l’aveva conquistata con una specie di ingenuità che non aveva trovato in nessuno; la sua aria costernata la lasciava del tutto disarmata sospirava: «Ma lei si sbaglia completamente!» Troppo protetta da sua madre, trascurata da suo padre, c’era questa ferita in lei: essere una donna. L’idea di distendersi un giorno sotto un uomo la nauseava. Grazie alla sua delicatezza, alla sua tenerezza, André l’aveva riconciliata con il suo sesso. Aveva accettato gioiosamente il piacere. E in capo a qualche anno, aveva perfino desiderato un bambino, e la maternità l’aveva appagata. Sì, aveva sempre avuto bisogno di lui e di nessun altro. E lui, perché l’aveva amata dal momento che in generale, a causa della sua aggressività, tendeva a non piacere? Forse il rigore, la severità di sua madre, così pesanti per lui, nello stesso tempo gli erano necessari, e li aveva ritrovati in Nicole. Lei lo aveva aiutato a diventare, nel bene e nel male, un adulto. In ogni caso, aveva sempre avuto l’impressione che nessun’altra donna sarebbe andata meglio per lui. Si sbagliava? Da parte sua, sarebbe stata più felice con un altro? Domande oziose. L’unico problema era capire cosa restava fra di loro adesso. Non lo sapeva. (Traduzione di Isabella Mattazzi)

Repubblica 3.5.14
La guerra online sui diritti di Karl Marx
Un piccolo marchio rivendica il copyright sulle traduzioni inglesi e impone di cancellarle dal web
di Noam Cohen



Alcuni giorni fa il Marxist Internet Archive, un sito web dedicato a scrittori e intellettuali radicali, ha ricevuto una email da cui ha appreso di dover cancellare dalla Rete centinaia di opere di Karl Marx e Friedrich Engels per non andare incontro a conseguenze legali. L’avvertimento è stato inviato da una piccola casa editrice di sinistra, Lawrence & Wishart, che afferma di possedere il copyright di 50 volumi di scritti in inglese di Marx ed Engels. C’è chi pensa che sia un po’ contraddittorio che un gruppo di radicali ricorra allo strumento “capitalista” della legge sulla proprietà intellettuale per eliminare gli scritti di Marx ed Engels da Internet. Inoltre, i patrocinatori dell’archivio non hanno potuto fare a meno di notare che la scadenza prevista per conformarsi alla richiesta coincideva con il primo maggio, la giornata mondiale dei lavoratori.
«Marx ed Engels appartengono alla classe dei lavoratori mondiali spiritualmente, tanto sono importanti» ha detto David Walters, uno degli organizzatori dell’archivio marxista. «Mi piace pensare che Marx avrebbe voluto diffondere le sue idee nel modo più ampio e gratuito possibile». Walters ha precisato che l’archivio ha rispettato il copyright dell’editore, che copre le opere tradotte, non gli originali in tedesco del XIX secolo. Mercoledì scorso l’archivio ha dunque rimosso gli scritti contestati aggiungendo una nota che addossa la responsabilità all’editore, e ha scritto a grossi caratteri: “File non più accessibile!”. La disputa sul controllo online delle opere di Marx avviene in un periodo storico nel quale le sue idee hanno acquistato una nuova rilevanza. Il bestseller dell’economista francese Thomas Piketty, Capital in the 2-1st Century , per esempio, richiama alla mente l’opera di Marx.
Malgrado questo piccolo boom di interesse, tuttavia, Lawrence & Wishart, con sede a East London, difficilmente prevede di avere un successo online a portata di mano: lo ha detto Sally Davison, direttrice della casa editrice. L’obiettivo è creare un’edizione digitale da vendere alle biblioteche in sostituzione dell’edizione cartacea, il cui costo si aggira più o meno sui 1.500 dollari per i 50 volumi. «Creare una strategia digitale è indispensabile per la nostra sopravvivenza» ha detto Davison. «Proprio in questo momento siamo in trattative con qualcuno ed è per questo che abbiamo chiesto all’archivio di togliere l’accesso online. Sarebbe ancora più difficile riuscire a vendere una versione digitale ai bibliotecari, se fosse già disponibile sul web». Lawrence & Wishart sta perdendo terreno sulla faccenda dell’online, però. L’editore dice di aver ricevuto circa 500 messaggi arrabbiati, che suonano così: «Come potete affermare di essere radicali?». Ha ricevuto anche una petizione con le firme di 4500 persone che si oppongono alla pretesa di un copyright sugli scritti di Marx ed Engels: nella petizione si cita una incongruenza, e si fa notare che i due filosofi «per tutta la loro vita scrissero contro il monopolio del capitalismo e la sua origine, la proprietà privata».
Sally Davison ha detto di essere rimasta di sasso quando si è resa conto che la Lawrence & Wishart è stata dipinta come un oppressore: la casa editrice ha due impiegati a tempo pieno e due part time e riesce a stento a far quadrare i conti, pubblicando riviste come Anarchy Studies e una decina di libri di sinistra all’anno. «Non abbiamo utili e non siamo particolarmente ben retribuiti» ha aggiunto. L’editore ha anche cercato di prendersi la rivincita su queste critiche, mettendo in discussione se sia effettivamente da radicali credere che non ci sia proprietà di un contenuto prodotto con un duro lavoro come la monumentale traduzione e annotazione delle opere di Marx ed Engels, progetto in un primo tempo voluto dall’Unione Sovietica alla fine degli anni Sessanta e che richiese circa trent’anni di collaborazione tra gli studiosi di tutto il mondo. In una nota, la Lawrence & Wishart ha affermato che chi critica non porta avanti la tradizione socialista, ma riflette «una cultura consumistica che si aspetta che i contenuti culturali siano consegnati gratuitamente ai consumatori, lasciando senza salario gli addetti alla cultura, mentre i grandi colossi dell’editoria continuano ad arricchirsi».
Nella dichiarazione si fa anche presente che molte opere di Marx ed Engels sono disponibili gratuitamente in traduzione in archivi no profit e in altri siti. Sally Davison ha poi ribadito: «Questa edizione universitaria è in 50 volumi: non è indispensabile per l’attività rivoluzionaria». Anche non tenendo conto del materiale rimosso di Marx ed Engels, l’archivio marxista su Internet contiene circa duecentomila documenti, in oltre 40 lingue. Peter Linebaugh, professore dell’Università di Toledo in Ohio, studioso della storia del comunismo, ha manifestato delusione per la decisione dell’editore e contestato l’idea che si possa dividere l’opera di Marx in una parte importante e in un’altra ordinaria. Ciò che sembra arcana erudizione, ha spiegato, «può apparire esplosivo per i giovani militanti». E prendendo in considerazione l’intera faccenda ha concluso: «Il pesce piccolo che mangia un altro pesce piccolo: questo è il trionfo del capitalismo». (Traduzione di Anna Bissanti)

La Stampa TuttoLibri 3.5.14
Dalle trincee ’14-’18 nasce l’Europa unita
Il ricordo di 9 milioni di morti è stato il viatico per superare gli egoismi dei singoli Stati
di Giovanni De Luna


Cominciamo dalla fine, dal 1918. Alla guerra è seguita la pace ed è l’ora di contare i morti. Erano stati uccisi circa 9 milioni di uomini e 20 erano stati feriti. In questo senso, quella guerra non aveva precedenti in tutta la lunga storia dei conflitti che avevano insanguinato l’umanità. Il mondo che con la seconda rivoluzione industriale aveva già sperimentato la produzione di massa, i consumi di massa, la partecipazione politica di massa, in quei quattro anni si era confrontato anche con la guerra e la morte di massa. Nel 1914 i paesi in guerra mobilitarono più di 21 milioni di uomini, 15.220.000 da parte dell’Intesa, 5.830.000 da parte degli Imperi centrali. Masse uomini che già solo con il loro numero azzerarono i riferimenti politici, sociali e culturali dell’Ottocento.
Nella scena finale di J’accuse, un film del 1919 di Abel Gance, un poeta soldato ferito raggiunge il suo villaggio, convoca gli abitanti e racconta un sogno; i suoi compagni morti si levano dalle tombe per interrogare i vivi sulle ragioni del loro sacrificio. Ma quei morti non chiedevano vendetta e indicavano al mondo una speranza: «Del senso del mondo molti avevano già parlato, ma solo il supplizio universale dell’uomo, la guerra mondiale, ha potuto imporlo alle coscienze. Nel dolore universale, l’universo ha preso coscienza di se stesso come un essere unico… I morti ci hanno trasmesso un nuovo vangelo...». Sempre nel 1919 lo scrittore francese Jean Guéhenno evocava così la possibilità che dai carnai delle trincee nascesse un nuovo spirito del mondo.
Un secolo dopo, il ricordo di quei morti per l’Europa può effettivamente diventare il viatico per un cammino verso uno spazio pubblico svincolato dagli egoismi dei singoli Stati. E in quelle trincee è possibile scorgere i primi segni di una storia su cui fondare l’Europa di oggi. La storia più che la memoria. Gli ultimi testimoni sono scomparsi e quegli eventi appartengono a un passato che si consegna senza vincoli emotivi alla pacata riflessione degli storici. Ed è come se il regresso della memoria abbia consentito finalmente di affrontare gli aspetti di quella guerra più legati al vissuto psicologico dei singoli combattenti. E’ una prospettiva in cui ci si accorge che tutto quanto sembrava allora irriducibilmente contrapposto sul piano della geopolitica, assumeva invece caratteri di marcata uniformità quando ci si confrontava con l’esperienza esistenziale dei protagonisti.
La vita in trincea, l’insensatezza degli attacchi a mani nude contro i reticolati, le sofferenze della morte per i gas, la solidarietà di chi condivide gli stessi rischi, le tempeste allucinatorie indotte dagli scoppi e dai lampi dei bombardamenti: sono questi i temi che affiorano senza distinzione di nazionalità nella diaristica di guerra e nei milioni di lettere a casa. La ribellione agli ordini insensati degli Stati maggiori coinvolgeva i francesi sulla Somme come gli italiani a Caporetto. La meglio gioventù europea tutta insieme fu partecipe di una vicenda che - azzerando ogni differenza di grado, nazionalità, carattere -, plasmava tutti i soldati secondo dei tratti comuni che comprendevano un senso di estraneazione psicologica e sociale nei confronti delle abitudini dalla vita civile. Cosa succedeva agli uomini scaraventati sui campi di battaglia di quella guerra ce lo ha spiegato bene lo storico inglese Eric. J. Leed: la frequentazione assidua della fisicità corporea della morte e l’attestarsi con una innaturale disinvoltura su una linea di confine tra la vita e la morte ci riconduce a un’esperienza esistenziale tanto estrema quanto diffusa.
Ed è da quella esperienza che si può ripartire se vogliamo che l’Europa abbia un senso. Per intenderci, il disagio delle opinioni pubbliche dei singoli paesi nasce oggettivamente dal fatto che l’euro presuppone uno Stato europeo, ma uno Stato non si costruisce solo sulle ragioni dell’economia. E invece la costruzione simbolica dell’Europa è rimasta ferma alla scelta della bandiera, dell’inno ufficiale (l’Inno alla gioia della Nona sinfonia di Beethoven), del motto («In varietate concordia», Unità nella diversità). Per il resto, quello europeo resta un immaginario essenzialmente monetario, mentre manca al processo di costruzione dell’Europa una legittimazione che derivi direttamente da un insieme di valori sanciti da una cultura e da una storia comune. In questa direzione il ricordo della Prima guerra mondiale assume un’importanza cruciale. Il 3 agosto 2014 il presidente Hollande incontrerà in Alsazia il tedesco Joachim Gauck e insieme celebreranno l’anniversario. E’ un buon inizio.

La Stampa TuttoLibri 3.5.14
Il nostro fratello scimpanzé è capace di altruismo
La scienza dimostra che l’uomo non è più l’unico essere con l’anima anche le altre specie viventi sono in grado di pensare e sentire
di Frans De Waal


Chi è più intelligente: una persona o una scimmia? Dipende dal compito che si deve risolvere. In uno studio del 2007, Ayumu, un giovane scimpanzé maschio all’Università di Kyoto, fece sfigurare la memoria umana. Addestrato all’uso di un touch screen, riuscì a ricordare una sequenza casuale di nove numeri, da 1 a 9, toccandoli nel giusto ordine, anche se gli erano stati mostrati solo per una frazione di secondo.
Io stesso mi cimentai in questo compito, non riuscendo a tenere a mente più di cinque numeri – e sì che mi fu concesso molto più tempo che alla scimmia intelligente! Ayumu superò con un grande margine in questa prova un gruppo di studenti universitari. L’anno dopo affrontò il campione di memoria inglese Ben Pridmore, assicurandosi la vittoria.
Come si fa a sottoporre a un test sul quoziente d’intelligenza uno scimpanzé, o un elefante, un polpo o un cavallo? Nel decennio scorso i ricercatori sulla cognizione animale hanno escogitato alcune soluzioni ingegnose. Le loro scoperte hanno cominciato a ribaltare la visione del posto unico dell’uomo nell’universo che risale all’idea aristotelica della «scala della natura», nella quale gli esseri erano disposti in ordine gerarchico dal basso verso l’alto, con gli esseri umani vicinissimi agli angeli. Nel Seicento il filosofo francese René Descartes, dichiarò che gli animali erano automi senz’anima, idea che fu ripresa nel Novecento dallo psicologo americano B.F. Skinner e dai suoi seguaci, secondo i quali gli animali erano poco più che macchine stimolo-risposta. Gli animali possono imparare, sostennero, ma sicuramente non pensare e sentire. L’espressione «cognizione animale» sembrava associare due termini inconciliabili.
Un corpus di prove crescente dimostra, tuttavia, che abbiamo molto sottovalutato sia la portata sia la scala dell’intelligenza animale. Un polpo può usare utensili? Gli scimpanzé hanno un senso dell’equità? Gli uccelli possono indovinare che cosa sanno gli altri? I ratti sentono empatia per i loro amici? Solo qualche decennio fa avremmo risposto «no» a tutte queste domande. Oggi non siamo più tanto sicuri.
Gli esperimenti su animali sono stati a lungo ostacolati dal nostro atteggiamento antropocentrico: noi spesso li sottoponiamo a test che funzionano bene con gli esseri umani, ma meno bene con altre specie. Oggi stiamo finalmente considerando gli animali nei loro termini, invece di trattarli come esseri umani pelosi ( o pennuti).
Abbiamo bisogno anche di ripensare la fisiologia dell’intelligenza. Consideriamo il polpo. In cattività, questi animali riconoscono i loro custodi e imparano ad aprire flaconi di pillole protette da tappi a prova di bambino. Essi hanno in effetti il cervello più grande fra tutti gli invertebrati, ma la spiegazione delle loro straordinarie abilità può trovarsi altrove. Pare che questi animali pensino, letteralmente, anche al di fuori del cervello. I polpi hanno infatti centinaia di ventose, ognuna dotata di un proprio ganglio con migliaia di neuroni. Questi «minicervelli» sono interconnessi, formando un vasto sistema nervoso. Questo è il motivo per cui un braccio di polpo amputato può muoversi autonomamente.
Analogamente, quando un polpo cambia per autodifesa il colore della pelle, per imitare per esempio un serpente marino velenoso, la decisione può venire non dal comando centrale, ma dalla pelle stessa. Uno studio del 2010 ha trovato nella pelle della seppia sequenze geniche simili a quelle della retina dell’occhio. Ma potrebbe esistere un organismo con una pelle che vede e otto braccia che pensano?
Per confrontare le capacità cognitive di specie diverse, per esempio scimmie e bambini, dobbiamo presentare ai membri di entrambe le specie problemi uguali, ponendoli in condizioni identiche. Ma i bambini sono tenuti in braccio dai loro genitori, che parlano loro e li stimolano a osservare («Guarda qui! Dov’è il coniglio?»), e hanno a che fare con membri della loro stessa specie. Le scimmie, invece, sono sedute dietro sbarre, non hanno il beneficio della lingua o di un genitore a stretto contatto con loro che conosca le risposte, e interagiscono con membri di una specie diversa. Le probabilità sono grandemente a sfavore delle scimmie, ma se queste ottengono risultati inferiori a quelli dei bambini, la conclusione sbrigativa è che non hanno le capacità mentali che si stanno investigando.
Alla base di molte delle nostre convinzioni sbagliate sull’ intelligenza animale c’è il problema della prova negativa. Se io cammino in una foresta della Georgia e non vedo il picchio pileato né lo sento martellare sulla corteccia di un albero, posso concludere che non è presente? Ovviamente no. Tutto quel che posso dire è che non ho trovato prove della loro presenza. Ma «l’assenza di prove non è un prova di assenza».
È noto che le scimmie allo stato selvatico si aiutano spesso reciprocamente. Ma per decenni queste osservazioni sono state ignorate e si è dedicato più attenzione agli esperimenti in cui sembravano del tutto egoiste. Questo risultato poteva però derivare dalla difficoltà di capire il senso di esperimenti troppo complessi: in esperimenti più semplici le scimmie sembrano meno egoiste, preferendo risultati che premiano entrambi gli antagonisti. Una tale generosità non può essere limitata alle scimmie, ma è stata documentata anche per molti altri animali.
L’unica costante storica nel mio campo è che ogni volta che una pretesa di unicità umana viene abbattuta, altre rivendicazioni la sostituiscono. Nel frattempo, la scienza continua a distruggere il muro che ci separa dagli altri animali. Siamo passati da un visione degli animali come semplici macchine di stimolo-risposta dominate dall’istinto a esseri capaci di prendere decisioni in modo complesso.
La scala della natura di Aristotele non viene abbattuta, ma si sta trasformando in un cespuglio con molti rami. Questo non è un insulto alla superiorità umana. È il riconoscimento tanto atteso che la vita intelligente non è solo qualcosa che dobbiamo cercare nelle plaghe lontane dello di spazio, ma è qualcosa che abbonda proprio qui sulla Terra.
[traduzione di Libero Sosio]