domenica 4 maggio 2014

l’Unità 4.5.14
Left, il cittadino Nori e «l’Italia alla parmigiana»
di Govanni Maria Bellu
direttore di LEFT


Left nel numero in edicola domani, lunedì 5 maggio, racconta attraverso la penna dello scrittore Paolo Nori l’«Italia alla parmigiana». Che poi è l’Italia a 5 Stelle immaginata da un cittadino di Parma a partire da quanto il sindaco Federico Pizzarotti ha fatto (e detto) nella città che governa.
Il cittadino Paolo Nori è uno che non sa molto di politica e rivendica orgogliosamente questa ignoranza. Ma è uno che si guarda attorno, che dà valore alle cose, specialmente alle piccole cose. Non è un caso che apra il suo racconto con queste parole, un manifesto programmatico: «Non il sole dell’avvenire, non la repubblica, non la costituzione, il fienile che c’è lì, dietro casa, e la mani e gli occhi e le orecchie che ho io, adesso...».
Dunque col suo sguardo limpido e spietato, il cittadino Nori osserva la sua città e nota che c’è qualcosa che non dovrebbe esserci: un inceneritore. Fin qui nessuna sorpresa: è noto che Pizzarotti in campagna elettorale promise che se avesse vinto l’inceneritore non sarebbe mai stato avviato e che invece, dopo aver vinto, ha dovuto arrendersi alla dura realtà.
Meno noto è quanto il sindaco di Parma – dopo aver compiuto il salto dal blog di Beppe Grillo al pianeta Terra – sia diventato un politico accorto e prudente. Non solo spiega con argomenti di buon senso l’ineluttabilità dell’inceneritore ma, a chi gli fa notare che nemmeno la raccolta differenziata dei rifiuti ha prodotto i giganteschi risultati promessi, risponde che si è passati dal 50 al 53,3 per cento. Nientedimeno.
Tutto sommato, viene da pensare, l’«Italia alla parmigiana» – quella governata dal Movimento 5 Stelle se la rivoluzione grillina andasse in porto – non sarebbe molto diversa da quella furbetta e ambigua della politica politicante che abbiamo sempre conosciuto. E forse è proprio per questo che i capi supremi hanno deciso di prendere le distanze dal prototipo. Non tanto per nascondere «un fallimento” (perché è troppo definire così un’ordinaria gestione amministrativa), ma per impedire agli elettori di vedere l’enorme distanza che separa le loro promesse dalla realtà. Come per Silvio Berlusconi, il peggior nemico di Beppe Grillo è la memoria. Anche quella breve.
Il numero di left si apre con un editoriale di Alberto Spampinato, presidente dell’associazione «Ossigeno per l’informazione» sulla Giornata internazionale per la libertà di stampa celebrata proprio ieri, sabato 3 maggio.
Alcuni dati: oltre mille giornalisti sono stati uccisi dal 1992 a oggi mentre svolgevano il loro lavoro. Un terzo (tra cui quindici giornalisti italiani), erano inviati in zone di guerra. Ma gli altri due terzi (tra cui undici italiani) erano «cronisti di pace», cioè giornalisti locali che si occupavano di scandali, corruzione, criminalità. «La censura violenta e camuffata – scrive Spampinato – è esercitata anche in Italia, e non solo verso i cronisti di mafia».
L’Osservatorio di «Ossigeno per l’informazione» ha compilato una lista di 1800 giornalisti colpiti da intimidazioni tra il 2006 e il 2013 e ha segnalato che, nei primi mesi del 2014, le minacce sono aumentate del 50 per cento.

Da lunedì il Vaticano sarà ascoltato a Ginevra dalla Commissione Onu contro la tortura.
Corriere 4.5.14
L’audizione del Vaticano all’Onu «Non equiparate tortura e abusi»
Da domani a Ginevra. Collins: «Quella di Stato è un’altra cosa»
di M.Antonietta Calabrò


Le associazioni dei «sopravvissuti» alle violenze sessuali del clero chiedono di equiparare gli abusi ai comportamenti sanzionati dalla Commissione Onu
Marie Collins ha replicato che se «per molte vittime l’abuso è una tortura, l’Onu si occupa delle torture di Stato»

ROMA — Alla vigilia di una nuova valutazione internazionale cui il Vaticano sarà sottoposto domani e dopodomani a Ginevra davanti alla Commissione Onu contro la tortura, che le associazioni «dei sopravvissuti» agli abusi sessuali del clero intendono trasformare nel secondo round contro la Santa Sede(dopo quello di febbraio davanti alla Commissione Onu per i diritti dei bambini), la Commissione pontificia per la tutela dei minori, voluta da Papa Francesco e dal C8 dei cardinali nel dicembre 2013, ha esposto pubblicamente il suo programma dopo tre giorni di riunioni nella casa Santa Marta.
È così sintetizzabile: rendere la Chiesa cattolica un luogo sicuro e «protetto» per i bambini attraverso l’obbligo alla «responsabilità» (accountability ) dei vescovi e di chiunque nella Chiesa sia in contatto con minori o adulti vulnerabili, quali ad esempio i disabili, a prescindere dal loro livello gerarchico. Superare «ignoranza e resistenze». Applicare le linee-guida chieste negli anni scorsi alla conferenze episcopali di tutto il mondo dalla Congregazione per la Dottrina della fede evitando che rimangano lettera morta. E soprattutto promuovere «protocolli e procedure» efficaci: se verranno violati comporteranno la responsabilità di chi non li segue.
La Commissione pontificia è presieduta dal cardinale di Boston Sean O’Malley (campione della lotta alla pedofilia nel clero nella sua città). Per ora è costituita da otto persone, quattro uomini e quattro donne — tra cui l’irlandese Marie Collins, una vittima abusata da un prete a 13 anni —, scelte per la loro competenza e la profonda comprensione del problema. Per questo non è apparso formale il contenuto della dichiarazione letta durante una conferenza stampa in Vaticano dal cardinale O’ Malley. «Mentre iniziamo insieme il nostro servizio — ha detto — desideriamo esprimere la nostra profonda solidarietà a tutte le vittime che hanno subito abusi sessuali come bambini o come adulti vulnerabili, e desideriamo rendere noto che, dall’inizio del nostro lavoro, abbiamo adottato il principio che il bene di un bambino o di un adulto vulnerabile è prioritario nel momento in cui viene presa qualsiasi decisione».
A chi le domandava se la prossima audizione della Santa Sede di fronte alla Commissione contro le torture delle Nazioni Unite la preoccupi, Collins non si è nascosta dietro un dito e ha detto che «per molte vittime l’abuso è una tortura», ma la commissione Onu si occupa del distinto tema delle «torture di Stato». Cioè che l’abuso sessuale è una tortura fisica e psicologica per la vittima, ma non una tortura di Stato, come quella praticata dai regimi autoritari.
Lo stesso portavoce vaticano padre Federico Lombardi, il 2 maggio, ha esortato il Comitato Onu contro la tortura, i trattamenti inumani e degradanti a resistere alle pressioni delle Ong che «con un forte carattere ideologico» cercano di porre un’equivalenza tra abusi sessuali e comportamenti sanzionati dalla Convenzione Onu contro la tortura, ratificata dal Vaticano nel 2002 . Porre così la questione vuol dire impostarla in modo chiaramente «forzato», «per qualsiasi osservatore obiettivo» ha aggiunto Lombardi. Tanto più che il reato di tortura è stato introdotto in Vaticano con il nuovo codice penale del luglio 2013, che ha anche abolito l’ergastolo.
La Santa Sede ha predisposto in vista dell’audizione di Ginevra uno schema di risposte. Vi si legge tra l’altro che «attualmente, una persona impiegata dalla Chiesa, credibilmente sospettata di abusi su minori, è immediatamente sospesa dal suo ufficio e dal contatto con questi».
Da parte loro, 53 Ong cattoliche di tutto il mondo hanno presentato a Ginevra un rapporto dal titolo «Le Nazioni Unite sono una Chiesa, e i diritti umani il suo catechismo?»: puntano l’attenzione contro la presunta discriminazione — imputata dal Rapporto preliminare della Commissione Onu — delle donne in Vaticano in quanto escluse dal sacerdozio, la teoria del gender e la impossibilità dei matrimoni gay. In pratica, sostengono, l’Onu fa proprio un’agenda liberal sulla morale sessuale, violando la libertà religiosa dei cattolici.

Il Sole 24 Ore 4.5.14
Il mistero e l’inconscio
L'uomo tra teologia e psicologia
di Bruno Forte

Arcivescovo di Chieti-Vasto

Bruno Forte anticipa per i nostri lettori alcune delle riflessioni contenute nel suo libro Fede e psicologia in uscita con l'Editrice Morcelliana di Brescia, arricchito da una Postfazione di Luigi Janiri, docente di psichiatria nella Facoltà di Medicina dell'Università
Cattolica del Sacro Cuore a Roma

«Non è la conoscenza che illumina il mistero, è il mistero che illumina la conoscenza. Noi possiamo conoscere solo grazie alle cose che non conosceremo mai». Quest'affermazione del teologo russo Pavel Evdokimov, a prima vista paradossale, aiuta a capire quanto profondo possa essere il rapporto fra l'indagine sul mistero dell'inconscio umano, cara alla psicologia, e quella sulle profondità abissali del mistero divino, così come esso si è rivelato agli uomini in Gesù Cristo, cara alla fede e alla teologia cristiana.
La provocazione del mistero intriga entrambe, fede pensante e conoscenza della psiche; il primato dell'ignoto sul già visto e il già posseduto, fonda per entrambe una singolare condizione di povertà, che si traduce nell'esercizio dell'interrogazione, dell'ascolto e dell'umiltà, e apre a sorprese e fecondità irraggiungibili a un pensiero presuntuosamente solare, che voglia comprendere e spiegare tutto. Se la ragione moderna è stata governata dal programma-manifesto compendiato da Hegel nella formula "il razionale è il reale", la conoscenza a cui apre la parabola di trionfo e di declino di quella ragione e delle sue espressioni ideologiche è più che mai sedotta dal mistero, intrigata dall'ignoto, desiderosa e pronta per una nuova navigazione sui mari infiniti verso cui conduce lo stupore della ragione e l'umiltà dell'ascolto.
Fede pensosa e analisi psicologica, cammini spirituali aperti alle profondità divine e percorsi psicoterapeutici verso le profondità dell'umano, scoprono così potenzialità di vicinanza, per il passato per lo più ignorate e più spesso trascurate. Se è vero l'asserto di San Tommaso d'Aquino che "in fine nostrae cognitionis Deum tamquam ignotum cognoscimus" (Summa contra Gentiles, I, 49, 5), e se dunque il pensatore della fede ammette che quando avremo fatto di tutto per conoscere Dio, Egli resterà sempre al di là di tutte le possibili mete da noi raggiunte, c'è da chiedersi se non sia parimenti vero che l'uomo resterà mistero anche al termine di tutte le indagini che avremo potuto produrre per portare a parola compiuta e contemplazione luminosa l'abisso del suo cuore, che sempre invoca all'abisso. Quale reciproco apporto potranno dunque offrirsi una teologia e una psicologia, che non siano chiuse in se stesse, e che perciò sappiano farsi aperte e interrogative del Mistero, l'una in ascolto dell'altra, insieme in ascolto dell'Altro? La teologia può offrire ad una tale psicologia l'orizzonte ultimo di senso che attinge a Dio, mistero del mondo, quale è stato rivelato in Gesù Cristo: in tal modo, nell'immagine del Dio Trinità Amore essa riconosce la vocazione ultima dell'uomo e del mondo, in rapporto alla quale l'uomo può realizzarsi in una vita buona, sana e felice, anche quando dovesse essere chiamato a testimoniare nel dolore l'amore più grande, che lo sostiene e dà senso alla vita.
Per adempiere a questo compito la teologia dovrà porsi totalmente in ascolto della Trascendenza, pensiero dell'obbedienza della fede che accoglie la sorpresa e la novità dell'avvento di Dio nel cuore dell'esodo umano: solo una teologia, che sia rigorosamente e propriamente "teologica", che cioè abbia a cuore l'Eterno e parli di Dio come del suo Oggetto puro, al tempo stesso in cui riconosce in Lui il vivente Soggetto, che la raggiunge nella Parola e nel Silenzio cui si sforza di corrispondere, potrà entrare in dialogo autentico e significativo con una psicologia, che sia sorretta da una visione dell'uomo aperta al Mistero. Da parte sua, una simile psicologia offrirà alla teologia quel senso di realismo e di concretezza nei confronti della situazione umana nel mondo, che la libera da ogni possibile tentazione ideologica e la spinge a farsi coscienza critica della prassi personale ed ecclesiale, perché siano sempre animate dal primato della carità. Lungi dall'escludersi o dal confondersi le due discipline vengono così a integrarsi, ciascuna consapevole di quanto può dare e interrogativa di quanto può ricevere. L'antropologia aperta e accogliente nei confronti della Trascendenza, che costituisce il comune orizzonte nel quale è resa possibile una tale integrazione, corrisponde alla visione dell'uomo e del mondo che ispira la "svolta antropologica" della teologia, fatta propria dal Vaticano II, e che una psicologia, incamminata in direzione di una possibile apertura teologica, è chiamata incessantemente ad approfondire come elemento architettonico del suo servizio all'umanità della persona umana.
Di questo dialogo vorrei evocare le forme strutturali in un'icona, che traggo dalla tradizione ebraica. Una gustosa narrazione rabbinica narra della protesta della lettera "aleph" - la più eterea e volatile di tutte le lettere - per non essere stata scelta a iniziare il racconto della creazione pur essendo la prima lettera dell'alfabeto: la prima parola della Torah è infatti "berešit", "in principio", e l'iniziale è "beth", quadrato aperto verso sinistra, nella direzione secondo cui in ebraico prosegue la scrittura, quasi a dire che all'inizio c'è l'apertura del domandare, l'attesa di un compimento iniziato. Ed ecco la risposta data dall'Eterno alla "aleph": "Quando andrò a donare la legge sul Sinai, comincerò proprio con te". "Io sono il Signore Dio tuo" comincia appunto con "anochì", "io", la cui iniziale è "aleph". Se la conoscenza dell'uomo e del mondo inizia con la "beth" ed è perciò sempre aperta in direzione del suo sviluppo, la verità di Dio viene offerta pienamente solo a partire da quell'"aleph", iniziale dell'"Io" della Sua autocomunicazione. Il racconto ci dice così che, se la conoscenza inizia dal mistero abissale dell'essere umano, aperto e interrogativo, si compie veramente soltanto quando è raggiunta dall'offerta della verità ultima dell'uomo e del mondo, custodita nel Dio vivente. L'"aleph" viene dopo, ma illumina la "beth" che la precede: la teologia nasce solo con la rivelazione, ma corrisponde, illuminandone il più profondo dinamismo, a quanto la psicologia comprende del mistero originario dell'uomo. L'una viene prima, come la "beth" di "berešit", ma non dimentica che l'inizio di tutte le vie dell'uomo e di Dio è in quell'"anochì", carico di mistero, di grazia e di promessa: "Io sono il Signore Dio tuo..." - "In principio..." - "Aleph" rinvia a "Beth", "Beth" rinvia ad "Aleph". L'una con l'altra. Mai l'una senza l'altra. Inseparabili, mai identiche, in un dialogo che dovrà sempre restare fra la "beth" dell'inizio del mondo e l'"aleph" dell'avvento di Dio, indeducibile e sorprendente datore di senso e di vita...

l’Unità 4.5.14
80 euro in busta paga: nuova polemica sulle coperture
Il servizio bilancio del Senato esprime dubbi su molte voci del provvedimento
L’opposizione attacca: servirà una manovra
di Bianca Di Giovanni


Il decreto sugli 80 euro in busta paga arriva in Senato polemiche delle opposizioni e i rilievi dei tecnici di Palazzo Madama. Le polemiche e i dubbi si concentrano su una lunga lista di voci. La rivalutazione delle quote di Bankitalia, le rendite finanziarie, il minor gettito dovuto al taglio dell'Irap. Ma anche la lotta all'evasione e la stima delle entrate Iva con il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione. Su tutti questi capitoli i tecnici chiedono chiarimenti all’esecutivo.
E non solo loro. Le opposizioni promettono battaglia in Parlamento, mentre il Pd difende a spada tratta il decreto. A guidare l’attacco è il solito Renato Brunetta, che torna a evocare una manovra correttiva. «Le coperture millantate da Renzi non ci sono - dichiara - e la manovra correttiva è sempre più vicina. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e il ministro dell'Economia e delle finanze, Pier Carlo Padoan, dicano agli italiani qual è il rischio reale connesso alla manovra elettorale degli 80 euro. Serve chiarezza. Non si può pensare di distribuire mance oggi e di chiederle indietro con gli interessi dopo le elezioni. Non si può destabilizzare così un Paese». «I tecnici del Senato si mettano l'anima in pace: le coperture per il decreto Irpef ci sono e tutte le stime sono state fatte in maniera prudenziale, con attenzione al singolo euro - ribatte Edoardo Fanucci dalle file del Pd - Se fossimo malpensanti sottolineeremmo che queste critiche provengono da un'istituzione che è interessata da una riforma radicale messa in campo dal governo». Evidente il riferimento alla riforma della Pa e al taglio degli stipendi dei dirigenti. A dire la verità, il servizio studi di ambedue le Camere ha sempre sollevato interrogativi e dubbi sulle manovre dei diversi governi.
Tornando al merito del documento, per quanto riguarda la rivalutazione delle quote di Bankitalia, i tecnici del servizio bilancio sollevano dubbi di costituzionalità. «Repentini mutamenti del quadro normativo potrebbero finire per definire la tassazione postuma di una ricchezza non più attuale - scrivono - ovvero non garantire quell'esigenza di anticipata conoscenza da parte del contribuente del carico fiscale posto sulle proprie attività economiche, con conseguente possibile violazione di precetti costituzionali. Andrebbero pertanto valutati con attenzione i profili di compatibilità della norma in esame con il predetto dettato costituzionale, anche in considerazione delle ricadute sul gettito di eventuali contenziosi”. Sullo stesso punto si erano accesi i riflettori degli uffici legislativi del Quirinale al momento del varo del decreto. Per quanto riguarda il minor gettito derivante dal taglio dell'Irap, i tecnici si dicono convinti che il minor gettito atteso potrebbe valere di più di quanto indicato nella relazione tecnica. In altre parole, si produrrebbe un «buco» che per ora è nascosto.
MANCANO I DETTAGLI
Nel mirino anche i ricavi da lotta all’evasione. I tecnici osservano che nel 2015 si indica un incremento di almeno 2miliardi di euro rispetto a quanto ottenuto nell'anno 2013. Ma su questa indicazione «non è stata fornita alcuna informazione in ordine ad eventuali strumenti o a metodologie che si ipotizza di utilizzare - si legge nel documento - per il raggiungimento dell'obiettivo, in aggiunta a quanto già posto in essere dall'Amministrazione finanziaria o è già possibile attuare sulla base della legislazione vigente, né si prefigurano specifici interventi nel caso in cui il risultato indicato non fosse raggiunto». Senza questi aspetti il Parlamento potrebbe non disporre di strumenti sufficienti per valutare l'efficacia dello strumento indicato dalla norma, argomentano gli esperti. In altre parole, non basta scrivere che il governo si impegna a predisporre un programma «volto al raggiungimento dell'obiettivo auspicato di rafforzamento dell'azione di contrasto all'evasione fiscale». Nel documento si rileva inoltre che appare «utile esplicitare se l'obiettivo di recupero del gettito nella misura indicata si intenda riferito alle entrate accertate ovvero a quelle incassate». Quanto alla composizione della manovra si nota che le risorse necessarie ad attuare le disposizioni del decreto (date dalla somma delle maggiori entrate e delle minori spese) vengono reperite in misura lievemente maggiore dal lato delle entrate (4,5 miliardi di euro nel 2014, 3,3 miliardi nel 2015 e 4,3 miliardi nel 2016) rispetto alle minori spese (3,1 miliardi nel 2014, 3,4 nel 2015 e 3,2 nel 2016).

Corriere 4.5.14
Lo scivolone di Pina Picierno del Pd che cerca visibilità a ogni costo, anche sfiorando il ridicolo
Se nel carrello della spesa  non c’è il senso del ridicolo
di Aldo Grasso

qui

l’Unità 4.5.14
Contratti a termine, i sindacati contro il regalo alle imprese
Gli emendamenti al decreto fanno saltare l’obbligo dell’assunzione per chi utilizza più
del 20% di precari
Camusso: il decreto non andava bene ed è stato peggiorato, uso illegittimo dei contratti a termine
Bonanni: modifiche gravi e incomprensibili, c’è un palese menefreghismo verso il mondo del lavoro
di Andrea Bonzi


Sui contratti a termine è sempre scontro tra sindacati e governo. Le modifiche al decreto Lavoro firmate dal ministro Giuliano Poletti, infatti, mettono d’accordo Pd e Ncd all’interno della maggioranza, blindando di fatto la riforma, ma ampliano la spaccatura con Cgil e Cisl, che hanno intimato ieri l’altolà all’esecutivo, usando parole durissime; più morbida la Uil.
«COSÌ È ANCORA PEGGIO»
«Ci riserviamo di analizzare il testo definitivo - premette Susanna Camusso, leader della Cgil, ieri a Rimini per le “Giornate del lavoro” che fanno da antipasto al congresso nazionale, al via martedì -. Se però gli annunci corrispondono alla realtà, mi pare che si sia ulteriormente peggiorato un decreto che già non andava bene. Si continua a sancire la precarizzazione come modalità che si vuole utilizzare».
Il principale motivo della sollevazione dei sindacati va infatti ricercato nell’emendamento - in tutto sono 8 quelli che verranno discussi a palazzo Madama la prossima settimana - che cancella l’obbligo a carico dell’azienda di assumere stabilmente i lavoratori che superino la quota consentita del 20%dei contratti a termine rispetto all’organico complessivo. Al posto di questo vincolo, viene ipotizzata una multa pari a un quinto dello stipendio del ventunesimo contratto a termine per tutta la durata. Sanzione che cresce fino al 50% per i precari successivi, ma che vale solo per le ditte sopra i cinque dipendenti. Poco più strette le maglie per l’apprendistato: le grandi aziende, oltre le 50 unità (limite già alzato rispetto al testo approvato alla Camera, che era inizialmente di 30 dipendenti), dovranno stabilizzare il 20% degli apprendisti, prima di ricorrere a nuovi contratti. Sarà possibile stipulare contratti di apprendistato stagionali. Insomma, una liberalizzazione quasi totale (cinque proroghe possibili, anziché otto, in 36 mesi), per «togliere ogni alibi alle aziende» ha ripetuto fino allo sfinimento Poletti. Ma anche un bel regalo per i datori di lavoro, che non poteva passare inosservato.
«Se si cancella il vincolo dell’assunzione a tempo indeterminato e si passa alle sanzioni pecuniarie - incalza Camusso - è come dire che non c'è più una limitazione, e ci sarà un uso anche illegittimo di forme di lavoro a termine». Inoltre, «desta perplessità il voler legare questo decreto al contratto unico a tutele crescenti. Così il contratto unico resta un mistero della fede. La sensazione è che la distanza tra dichiarata volontà e i provvedimenti sia sempre più ampia. Il tema è sempre lo stesso: bisogna decidere - prosegue la leader sindacale - se il lavoro è lo strumento col quale si esce dalla crisi o se si pensa a svalorizzarlo». Rispetto poi a Forza Italia che parla sarcasticamente di Cgil act, Camusso taglia corto: «Io penso che prima o poi bisogna che si mettano d'accordo. O dicono che il ruolo del sindacato è inesistente o che condiziona. Noi continueremo a fare il nostro lavoro».
«MODIFICHE INCOMPRENSIBILI»
Sulla stessa linea Raffaele Bonanni, numero uno della Cisl, che twitta: «Alt! Chi non rispetta le regole del tempo determinato deve assumere a tempo indieterminato, altre soluzioni sono ingiuste”. Secondo il sindacalista, che si dice pronto a mobilitarsi, le modifiche introdotto ai contratti a termine «sono più a favore delle aziende che dei lavoratori». Di più: «La trasformazione dell’obbligo di assunzione in una multa è una cosa incomprensibile - aggiunge poi Bonanni -. È palese il menefreghismo che c’è nei confronti del mondo del lavoro, e in particolare dei lavoratori. Si scavalcano le parti sociali per fare ciò che si vuole a danno dei lavoratori».
Ci va giù meno pesante Luigi Angeletti, segretario generale della Uil, secondo cui l’emendamento che introduce la sanzione pecuniaria al posto dell’obbligo di assumere «non sarà un grande problema”. Come mai? «Perchè tanto le aziende non sono disposte a pagare, hanno già cominciato a dire che la multa è troppo elevata e vogliono fare come pare loro. La multa, dunque, è già un sufficiente deterrente - osserva il sindacalista -. Il problema, semmai, è sempre lo stesso: chi controlla centinaia di migliaia di aziende».
Dall’arena sindacale il duello si sposta in quella politica. A difendere il decreto, ovviamente, il capogruppo Ncd alla Camera, Maurizio Sacconi, che ammette candidamente: «Le correzioni presentate dal governo corrispondono alle sollecitazioni espresse nel nome delle ragioni delle imprese e quindi del lavoro che possono produrre». Sulla stessa linea il sottosegretario Luigi Bobba, che bolla le critiche di Camusso come «una valutazione personale». Immediata la replica della sindacalista: «Sono abituata a prendermi la responsabilità di ciò che dico».
Nichi Vendola, presidente di Sel, non usa mezzi termini: «Si vede chiaramente che Alfano non è una comparsa, ma un azionista di maggioranza del governo Renzi: questa schifezza che è il decreto Poletti porta a compimento il disegno di Sacconi sulla privatizzazione del mercato del lavoro». «Cancellati gli emendamenti della sinistra Pd introdotti alla Camera, si torna allo splendore originale di un testo che è un piccolo capolavoro della cultura di destra», chiude davanti alle telecamere di Rai- News.

il Fatto 4.5.14
Lavoro. Si svehlia il sindacato
Camusso: “In Senato hanno peggiorato un testo nato già male”
Bonanni: “Il governo se ne frega dei lavoratori”
di Marco Palombi


La capacità di reazione non è quella dei tempi migliori. Il sindacato italiano – in ordine sparso – ci mette 24 ore giuste a rendersi conto che il decreto Lavoro è stato abbastanza peggiorato, se si guarda agli interessi che loro dovrebbero tutelare, dagli interventi concordati in Senato tra il ministro Giuliano Poletti e la maggioranza. Ha iniziato la Cgil: “Abbiamo visto delle indiscrezioni, non abbiamo testi finali e ci riserviamo di vederli – sostiene il segretario Susanna Camusso –. Se però gli annunci corrispondono alla realtà, mi pare che si sia ulteriormente peggiorato un decreto che già non andava bene e soprattutto si continuano a costruire modalità per cui l’unica strada è la precarizzazione”.
LA COSA che più ha attratto la fantasia del sindacato di Corso d’Italia c’è l’emendamento per cui le aziende che sforano il tetto del 20 per cento di contratti a termine non saranno più obbligate ad assumere a tempo indeterminato: se la caveranno con una multa. “Se si toglie l’obbligo di assunzione – spiega Camusso – ci sarà un uso illimitato e anche illegittimo di forme di lavoro a termine: è il via libera all’illegittimità dei rapporti di lavoro”. Sulla stessa linea ci sono l’Ugl e, soprattutto, la Cisl: “Non ci sono dubbi. Le modifiche introdotte ai contratti a termine sono una cosa incomprensibile – dice il segretario Raffaele Bonanni – oltre a essere più a favore delle aziende che dei lavoratori. È proprio palese il menefreghismo che c’è nei confronti del mondo del lavoro e in particolare dei lavoratori”. Poi, su Twitter, la versione breve: “Chi non rispetta le regole del tempo determinato deve assumere a tempo indeterminato. Altro è ingiusto”.
Di diverso parere, invece, il leader della Uil Luigi Angeletti, che si schiera decisamente col governo: “Sono perché approvino subito il decreto. La multa al posto dell’assunzione se si sfora il tetto del 20 per cento non è un problema, perché tanto le aziende non sono disposte a pagare. Hanno già cominciato a dire che la multa è troppo elevata. La multa elevata è un sufficiente deterrente”. Esattamente la posizione dell’esecutivo: “Quella della Camusso è una valutazione personale, che non trova giustificazione negli atti del governo che vanno in una direzione del tutto contraria”, dice il sottosegretario al Lavoro, Luigi Bobba. L’obiettivo del governo, sostiene il politico Pd, già membro del gruppo dei Teodem, è stabilizzare la posizione dei lavoratori e “non viene assolutamente sminuito. L’entità della sanzione pecuniaria (dal 20 fino al 50% dello stipendio annuale per ogni lavoratore eccedente, ndr) è tale da scoraggiare chiunque a superare un vincolo che, tra l’altro, non era previsto nella normativa precedente”.
IL TESTO, a questo punto, pare chiuso e non ci sarà spazio per ulteriori modifiche, magari nel terzo passaggio alla Camera: gli emendamenti, infatti, sono stati chiesti a gran voce dal Nuovo Centrodestra, che ne ha fatto una sua bandierina elettorale contro Forza Italia (la quale, contro ogni evidenza, continua a sostenere che gli emendamenti sono stati dettati al governo dalla Cgil). Non a caso ieri Angelino Alfano si vantava con zoppicante ricostruzione storico-culturale: “Abbiamo dovuto vincere alcune resistenze della sinistra post comunista, e devo dire che la collaborazione con la sinistra che non è comunista guidata da Matteo Renzi sta dando davvero ottimi frutti”. A poco serve la resipiscenza tardiva di pezzi della sinistra del Pd: “Rimettere in discussione l’equilibrio del testo sancito con il voto di fiducia alla Camera implica riaprire di nuovo la discussione a Montecitorio prima del varo definitivo del decreto”, ha sostenuto ad esempio Stefano Fassina. L’uomo che - anche per conto dell’ex viceministro - ha gestito la trattativa sul decreto, vale a dire il presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, la pensa però assai diversamente: “Le correzioni fondamentali al decreto Lavoro votate da Montecitorio restano tutte confermate. Per noi e per il nostro lavoro è un motivo di grande soddisfazione. I cambiamenti introdotti dal Senato, anche se presentano alcune criticità, non stravolgono i miglioramenti voluti dal Pd e in alcune parti migliorano il testo, come nel caso della formazione per gli apprendisti”. Al di là delle scaramucce - ormai destinate a spegnersi - su un decreto che non serve quasi a niente (di sicuro non a creare nuova occupazione, forse a precarizzare ulteriormente quella che sarebbe esistita lo stesso), resta lo stato comatoso se non peggio dei rapporti tra il presidente del Consiglio e le organizzazioni sindacali.
La cosa, peraltro, non mancherà di avere ripercussioni su provvedimenti più seri di questo, dalla legge delega sul lavoro (il cosiddetto Jobs Act col suo contratto unico a tutele crescenti) e, soprattutto, sulla riforma della Pubblica amministrazione, di gran lunga il dossier più scottante su cui dovra lavorare a breve il governo.

l’Unità 4.5.14
La precarietà voluta dal potere finanziario
di Moni Ovadia


IL PRIMO MAGGIO DOVREBBE ESSERE UNA FESTA DI GIUBILO, ANNUNCIO DI UN FUTURO DI GIUSTIZIA NELL’UGUAGLIANZA, LE PIAZZE DI OGNI CITTÀ del mondo dovrebbero essere pavesate dalle bandiere rosse simbolo delle conquiste dei lavoratori, rosse sì! Perché al di là delle ideologie politiche, piaccia o non piaccia, il colore del riscatto dell’umanità lavoratrice è il rosso. Incrociandosi nelle strade, i cortei del popolo lavoratore e quello di tutti i cittadini democratici, si dovrebbero stringere in un abbraccio di solidarietà ideale e progettuale.
Dal punto di vista del cammino compiuto dagli esseri umani verso l’orizzonte della piena emancipazione, la festa del Primo Maggio dovrebbe essere la più significativa, la più sacrale. È con la conquista della dignità nel lavoro, con il costituirsi della sua cultura che irradia un senso profondo nell’intera società, che gli uomini si scrollano di dosso le catene di una supposta predestinazione - in realtà una Weltanschauung di potere nei suoi molteplici travestimenti - per accedere alla piena libertà.
Ormai noi invece festeggiamo un 1° Maggio amaro, di lutto, segnato da un’aggressione senza precedenti alle conquiste del lavoro, all’idea stessa del lavoro come diritto. Una delle ideologie più degenerate della storia, sopravvissuta come un micidiale morto vivente all’eclisse delle ideologie stesse, il cosiddetto liberismo - in realtà una metastasi devastatrice e impersonale - si vuole impossessare del mondo intero per espropriarlo della sua eredità a fini di profitto e per perpetuare il mondo delle disuguaglianze e dei privilegi.
Un potere finanziario ipertrofico, incontrollato, insofferente ad ogni regola, ha sostituito con il totem economicista, il senso dell’integrità della vita e pretende per la propria ideologia, lo statuto indiscutibile di necessità naturale. Da oltre sei lustri conduce una vera e propria lotta di classe senza quartiere contro i diritti sociali perché vuole avere a disposizione del lavoro servile, non tutelato, mal pagato e sottoposto al ricatto di una costante precarietà.
Questo potere finanziario dispone di smisurati mezzi e apparati di propaganda. Il suo credo ideologico ha colonizzato i centri del sapere economico e può contare su articolate reti di complicità politica, volonterosa o cinica, che ripaga con privilegi piccoli e grandi. Questi centri economico- finanziari, sono riusciti efficacemente a promuovere un’alleanza conservatrice de facto, convergente al centro, fra le forze del centro destra e quelle del centro sinistra. I governi nazionali di oggi sbrigano gli affari correnti di piccolo cabotaggio e legiferano la precarietà per lasciare ai veri signori le decisioni strategiche che ormai si svolgono a livello globale. Il 1° Maggio deve essere riconquistato e il cammino non sarà breve.

l’Unità 4.5.14
Renzi diserta la Cgil Camusso: ci rispetti
Il premier fa sapere che non andrà al congresso del sindacato
L’irritazione di Corso d’Italia
Il ministro Boschi: «Sulla riforma del Senato siamo a un passo dal risultato»
di Maria Zegarelli


È scontro tra il sindacato e il governo sul dl Lavoro, una polemica che parte dagli emendamenti presentati dal governo dopo un delicato gioco di equilibrismo all’interno delle forze di maggioranza e che trova di traverso Cgil e Cisl, ma che è anche il frutto di un rapporto mai sereno tra il presidente del Consiglio, Matteo Renzi e le organizzazioni sindacali. L’ultimo fronte è il congresso del sindacato di Corso D’Italia a cui è stato invitato il premier. Ancora ieri nessun segnale sulla presenza o meno del segretario Pd a Rimini. Se dovesse decidere di non andare, ha spiegato ieri Camusso, «sarebbe un segnale di assenza di rispetto per una grande organizzazione. Come sempre non è la sua presenza quella che legittima il valore del congresso». Da Palazzo Chigi nessuna risposta ufficiale, ma, stando alle indiscrezioni che filtrano, il premier non sarà presente a Rimini. La sua assenza verrà vissuta come una mancanza di considerazione? «Ce ne faremo una ragione”, risponde uno stretto collaboratore di Renzi.
Una linea, questa, che non sembra condivisa dal ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina, secondo il quale il congresso della Cgil «non è banale, per me è una notizia, dovrebbe far notizia». Martina rivendica il confronto con le parti sociali, «ho parlato con le categorie unitariamente e ho trovato un terreno molto fertile» e se il premier ha una posizione diversa, lui, dice, ha la sua «sensibilità. Se capissi a un certo punto che il confronto rischia di essere un limite nella gestione dei tempi mi porrei il problema, ma il confronto è stato virtuoso e ha arricchito le nostre posizioni. Io non rinuncio alla mia sensibilità».
LE RIFORME
Ieri Renzi è rimasto tutto il giorno incollato ai dossier più urgenti, dalla riforma del Senato a quella sulla Pubblica amministrazione, alla scuola, seguendo personalmente anche la grave situazione nelle Marche dove una bomba d’acqua ha causato due morti.
Costante la triangolazione con la ministra Maria Elena Boschi e Lorenzo Guerini, in vista della ripresa del dibattito parlamentare sulla riforma del Senato. Renzi ha voluto sapere da Guerini come procede il confronto con Fi per trovare la quadra sulle modifiche da presentare sotto forma di emendamenti. «Lorenzo, dobbiamo procedere con pazienza ma con determinazione», è stata la raccomandazione del premier.
«Siamo ad un passo dal risultato», dice la responsabile Riforme, ribadendo che il governo sul Senato non ha mai «immaginato un testo chiuso, non è mai stata questa l’intenzione e pensiamo che possa essere arricchito nel dibattito parlamentare, l'importante è che non si perda l'impalcatura di questa riforma». Guerini, che è in contatto con il quartier generale di Fi, è ottimista e lo stesso Silvio Berlusconi ieri ha mandato segnali rassicuranti parlando al Tg2: «L’accordo con Renzi reggerà sicuramente, noi le riforme le abbiamo sempre volute e le abbiamo anche fatte”. Il punto di caduta dovrebbe prevedere una rappresentanza dei consiglieri regionali non più uguale per ogni Regione ma proporzionale al peso demografico, elezione indiretta (in seno ai consiglieri regionali) di coloro che dovranno far parte del nuovo Senato; riduzione dei senatori di nomina del Presidente della Repubblica che dovrebbero scendere sensibilmente rispetto ai 21 previsti nel testo del governo. Fi non ne vuole più di quattro, il Pd spinge per un numero più consistente, «ma siamo certi che si arriverà ad un accordo», dicono dal Nazareno.
Quanto alla riforma della Pa ieri è stata la stessa ministra Marianna Madia, in un’intervista al Sole 24ore, a spiegare le linee direttrici: «Il cambiamento per essere concreto deve partire dalle persone. E noi vogliamo valorizzare al massimo le persone che lavorano nelle amministrazioni, rendere il settore pubblico all'altezza del suo ruolo che è quello di essere l'azienda leader del nostro Paese». L’idea, aggiunge, «è quella di una dirigenza dinamica ed esposta alla misurazione della performance dal primo giorno d'incarico. Il ruolo unico senza fasce ci serve per fare vere carriere basate sulle valutazioni incassate, valutazioni che non devono essere sulla persona ma sulla performance dell'ufficio”. Una sorta di «osmosi tra pubblico e privato che può arricchire la dirigenza”. Per il presidente della Toscana, Enrico Rossi, «la riforma Madia è stata persino troppo tenera: basta una prefettura per ogni Regione».
Renzi, che ieri sera è andato allo stadio Olimpico con la famiglia per assistere alla finale di Coppa Italia Fiorentina- Napoli, a chi ieri gli faceva notare gli attacchi del sindacato sia sul Dl Lavoro sia sulla riforma della P.A., ha ribadito la sua posizione. «Noi non stiamo facendo un unico intervento, stiamo mettendo in campo una serie di misure che puntano a ridisegnare l’intero quadro». Ed è sicuro, che se i tasselli andranno ognuno al loro posto, «quelli che oggi ci criticano così duramente saranno smentiti dai fatti, come è accaduto per gli 80 euro in busta paga».

Repubblica 4.5.14
La sfida del premier
“Ho i sindacati contro perché gli tolgo potere”
di Roberto Mania


ROMA . «Sapete perché ci criticano? Perché gli stiamo levando il potere. Sono critiche pretestuose. La verità è un’altra: stiamo rivoluzionando il Paese e c’è chi resiste. E stiamo obbligando anche il sindacato a cambiare». Matteo Renzi riflette così con i suoi più stretti collaboratori. La settimana si è chiusa con il patto di maggioranza sui contratti a termine e con l’avvio della riforma della pubblica amministrazione. In entrambi i casi i sindacati non hanno toccato palla. Sconfitti, o al massimo spettatori. Vanno all’attacco del governo - con l’eccezione della Uil - ma non osano nemmeno pronunciare le vecchie parole d’ordine, mobilitazione o addirittura sciopero di cui in altri tempi avrebbero già abusato. La tattica va aggiornata, questa volta.
Perché si sta aprendo una fase nuova nei rapporti tra il governo e le parti sociali. E ci sono scelte che spiegano con plasticità quel che sta accadendo. La prossima settimana il presidente del Consiglio, che è anche il segretario del Pd, non andrà a Rimini al congresso della Cgil («mancanza di rispetto», ha avvertito la leader sindacale Susanna Camusso che ancora attende una risposta formale all’invito), ma non ci sarà nemmeno il 29 maggio all’assemblea generale degli industriali ad ascoltare in platea la relazione del presidente Giorgio Squinzi che in molti descrivono irritato con il premier più per ragioni di metodo, evidentemente, che di merito, dati i provvedimenti che finora sono stati presi. Par condicio, in ogni caso. Ma certo è facile ricordare che Romano Prodi andò a Rimini nel 2006 da candidato presidente del Consiglio a ricercare il consenso (e alla fine arrivò pure la standing ovation) dei delegati sindacali, e Silvio Berlusconi non ha mai perso l’occasione per ricevere l’applauso nelle assemblee confindustriali. Matteo Renzi sceglie, simbolicamente, di restare a Palazzo Chigi. E fa di più. Dà 80 euro al mese ai lavoratori dipendenti fino a 26 mila euro di reddito annuo, cioè la fascia in cui si addensa la maggior parte degli iscritti ai sindacati. Scrive direttamente ai dipendenti pubblici, cioè alla roccaforte dei tesserati alle tre centrali sindacali, per consultarli sulla riforma della macchina burocratica. Liberalizza i contratti a termine che riguardano soprattutto i giovani lavoratori precari, mondo nel quale la presenza dei sindacati, per ovvie ragioni, è pressoché irrilevante. Propone di tagliare del 50 per cento i distacchi sindacali nel pubblico impiego che oggi, insieme ai permessi, rappresentano una spesa di oltre 114 mila euro l’anno. Avvia, infine, senza alcun confronto preventivo con Confindustria e soci, l’Irap, proprio la tassa più odiata dagli imprenditori, simbolo delle aziende tartassate dal Fisco. Una rottamazione, allora, di sindacati e Confindustria? Del loro ruolo nella politica economica e sociale?
Questa, di certo, è una lotta di potere del tutto inedita. Al pari della sfida che Renzi ha lanciato ai superburocrati dell’amministrazione, compresi i funzionari del Servizio Bilancio del Senato. Quelli che due giorni fa hanno avanzato dubbi sulla copertura del provvedimento sul bonus fiscale e pure perplessità sulla sua costituzionalità. Si sfoga Renzi con i suoi fedelissimi: «Non esiste l’accusa di incostituzionalità. E anche sulle coperture sostengono cose incredibili. Ma, guarda caso, queste critiche arrivano dai tecnici del Senato. Hanno capito che è cambiato il vento, che anche loro rischiano tagli alle retribuzioni...”. Lo schema è sempre lo stesso: cambiamento versus conservazione. Ancora Renzi: «Mi dicono che sul decreto lavoro non abbiamo fatto cose di sinistra. Forse è di sinistra conservare tutto e bloccare tutto?». Ha scritto molti anni fa il sociologo Frank Tanlanenbaum che «il sindacalismo è il movimento conservatore del nostro tempo. È una controrivoluzione”. Le cose non sembrano essere cambiate. Renzi è convinto che questa sia oggi la percezione dell’opinione pubblica. È convinto che senza un cambiamento il sindacato si condanni al declino. Cita spesso il caso del Cnel (destinato ad essere soppresso con la riforma costituzionale) che nei decenni è stato soprattutto un luogo dove piazzare sindacalisti al termine della propria carriera. Citava, ieri, le resistenze in particolare della Cisl di mantenere in vita la Covip (la Commissione di controllo sui fondi pensione) anziché trasferire le sue competenze - (come prevedono le linee di riforma della pubblica amministrazione) alla Banca d’Italia che ha già assorbito le funzioni di controllo e vigilanza sulle assicurazioni. E ricordava che il presidente della Covip è l’ex sindacalista cislino Rino Tarelli potentissimo leader per quasi quindici anni della federazione degli statali. Intrecci di potere. Che la fine della concertazione non ha affatto districato.
Eppure, dietro le quinte, si tentano nuove strade, quasi una “terza via” dopo la concertazione triangolare degli anni Novanta e i successivi patti separati con i governi di centrodestra. Senza alcuna istituzionalizzazione i tecnici, ma non solo, dei sindacati provano a realizzare un confronto su temi specifici: è andata così sul decreto Irpef che, infatti, i sindacati non hanno contestato, ma anche sul Jobs Act la cui impostazione Cgil, Cisl e Uil sembrano condividere. Ma su una cosa Renzi non ha alcuna intenzione di cedere: quella di incassare il dividendo delle scelte che fa, cosa che nel passato la sinistra non ha saputo fare. Non lo fece con l’ingresso nell’euro, grazie anche alla concertazione; non lo fece con il taglio dell’Irap di circa 7 miliardi del governo Prodi. Renzi non vuole ripetere quegli errori.

Corriere 4.5.14
Il capo del governo spiega la sua strategia
«I sindacati non mi fermano»
Renzi: c’è chi resiste nella classe dirigente ma il sistema non fermerà la rivoluzione «Siamo qui per cambiare il Palazzo. E non sarà un sindacato a bloccarci»
di Aldo Cazzullo

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Corriere 4.5.14
Il sindacato italiano nella tenaglia
Orfano della politica, lontano dal lavoro
di Dario Di Vico


Alla vigilia dell’apertura del congresso nazionale della Cgil l’intero sindacato italiano sembra come stretto da una tenaglia. Da una parte c’è l’offensiva della politica che non solo non riconosce più il ruolo della concertazione e dell’annesso potere di veto ma sta illustrando un’altra idea della società di mezzo. Un’idea solo abbozzata nella quale tra il cielo delle istituzioni e il cittadino ci sono i sindaci, i social network e la comunicazione tambureggiante.
La forza di quest’offensiva non consiste tanto nella compiutezza del disegno quanto nell’incrociare una sensibilità assai diffusa che chiede semplificazioni e riduzione delle procedure a tutti i livelli, compresa la rappresentanza degli interessi. E chiunque bazzichi le organizzazioni dei lavoratori (e delle imprese) sa che quelli esistenti sono tutt’altro che organismi «piatti». Per dirla più brutalmente e per limitarsi a un solo esempio, se si sottoponesse a un referendum popolare la proposta Renzi-Madia di tagliare drasticamente i permessi sindacali nella pubblica amministrazione il sì trionferebbe.
L’altro braccio della tenaglia sta in una progressiva perdita di aderenza ai mutamenti del lavoro e dell’economia reale. Al centro logistico Amazon di Piacenza non esiste il sindacato perché nessun dipendente under 35 ha chiesto di costituirlo, nei lavori più pesanti della logistica (facchinaggio) chi mena la danza sono i Cobas, non parliamo poi del rapporto del sindacato con l’universo delle partite Iva e dell’occupazione intermittente. Aggiungo che il lavoro autonomo è considerato ancora una variante negativa di quello dipendente e che nessun monitoraggio è partito sulla realtà dell’auto-impiego dei giovani (uno su quattro).
Anche nel corpaccione sindacale molti sono gli slittamenti in corso: aumenta il peso, oltre che dei pensionati, delle categorie del terziario e diminuiscono, per via della crisi, gli iscritti dei settori industriali. Va da sé che queste novità comportano anche una diminuzione della forza sindacale tradizionale quella che piaceva tanto agli operaisti («la rude razza pagana») e ciò porta con sé che le occasioni di maggiore visibilità sono gli scioperi dei supermercati contro le aperture festive, il divieto di accesso ai musei nei giorni di maggior appeal turistico (come accaduto al Colosseo il 1° maggio) e il blocco del trasporto pubblico locale. Qui siamo arrivati addirittura alla commedia: i leader dei tre sindacati non sanno come concludere il rinnovo del contratto e continuano però ad autorizzare astensioni dal lavoro quasi sempre collocate di venerdì e che si susseguono speranze visto che le controparti (le varie Atac o Atm) nella stragrande maggioranza dei casi non hanno i soldi per chiudere il negoziato. Segni di declassamento li si notano anche nella produzione intellettuale del sindacato, in passato accanto ad analisi cervellotiche dei mutamenti del capitalismo i centri studi sfornavano anche inchieste di notevole interesse sulle trasformazioni dell’organizzazione del lavoro. Oggi anche quando le confederazioni pubblicano un dossier lo fanno adottando il «Cgia Mestre style»: puntano a strappare qualche titolo sui giornali o nei tg.
Sarebbe però sbagliato dall’insieme di queste considerazioni trarre la conseguenze che il sindacato è inevitabilmente condannato a sparire e non solo perché — tanto per ricordarlo — la sola Cgil raggiunge 5,7 milioni di tesserati. Ma soprattutto perché l’evoluzione delle economie del capitalismo vecchio e nuovo è tutta da scrivere, basta pensare al ruolo che ha avuto lo United Auto Workers nel risanamento della Chrysler oppure alla possibilità che nuove forme di organizzazione e tutela maturino persino in Cina dove le aspettative dei lavoratori stanno già producendo un costante aumento dei salari e prime politiche di welfare. La società da quando Margaret Thatcher ne aveva decretato a tavolino la non-esistenza ci ha sorpreso cento volte e continuerà a farlo.
Detto questo è evidente che il sindacato italiano ha bisogno per tornare in partita di un profondo rinnovamento. I gruppi dirigenti paiono stanchi e in qualche caso palesemente demotivati. Le confederazioni sono macchine estremamente complesse alle quali una spending review farebbe solo del bene. Se però dalle questioni organizzative passiamo ai contenuti l’unica considerazione sensata che si possa avanzare è che una nuova stagione del sindacato non si può inventare a tavolino. Bisogna partire dalle esperienze e come tali quelle che recano con sé un margine interessante di innovazione provengono dalla contrattazione aziendale. Nei luoghi di lavoro il dialogo con le controparti non si è affatto interrotto e ha prodotto persino negli anni della Grande Crisi risultati interessanti. Basta esaminare una raccolta di accordi raggiunti in fabbrica per trovare intese sul welfare aziendale, sulla produttività, sulla polivalenza e anti-assenteismo, che parlano un linguaggio del tutto nuovo. Costruiscono dal basso inediti parametri di scambio con un ampio consenso dei lavoratori, laddove invece nella retorica sindacale romana sembra sempre che ogni discontinuità contrattuale debba per forza fare a pugni con il consenso degli operai. Forse è da queste esperienze che bisogna ripartire.

Corriere 4.5.14
Il leader di Forza Italia
«Queste Riforme solo un Contorno Ripartiamo dal presidenzialismo»
«Al Nazareno con Renzi fu un incontro politico, non tecnico»
Lettera al «Corriere della Sera» di Silvio Berlusconi

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Il Sole 24 Ore 4.5.14
Berlusconi: l'accordo sulle riforme reggerà
di Barbara Fiammeri


ROMA Silvio Berlusconi continua ad attaccare. Il leader di Fi si dice «deluso» da Renzi, che non fa che riproporre quanto la sinistra «ha sempre fatto cioè aumentare le tasse e la spesa pubblica». Un esempio sono anche gli 80 euro messi dal governo nelle buste paga: «una mancia elettorale», sentenzia il Cavaliere, che graverà sulle spalle di «pensionati e famiglie». Berlusconi rinfodera il fioretto mettendo per la prima volta sullo stesso piano Renzi e Grillo, due «pericoli» per gli italiani e per la «democrazia», attribuendo al secondo anche aspirazioni da «dittatore». Una scelta obbligata quella dell'ex premier, che tuttavia continua a ripetere di voler «rispettare il patto sulle riforme», a partire da quella del Senato.
Non è una contraddizione. Almeno non nella strategia del Cavaliere che va oltre la scadenza del 25 maggio. Berlusconi per tentare di recuperare consensi è obbligato ad attaccare. Oggi sarà da Lucia Annunziata su Rai3, la prossima settimana a Matrix, oltre ai vari interventi telefonici alle manifestazioni di Fi. Ma allo stesso tempo il leader di Fi non può sfilarsi dall'impegno assunto con il premier sulla riforma elettorale e quella istituzionale. Per questo ha detto e ripetuto anche ieri che «l'accordo per noi reggerà sicuramente», a partire dalla fine del bicameralismo perfetto.
Del resto Renzi qualche concessione l'ha fatta. Prima fra tutte la disponibilità a far slittare dopo il voto la riforma e anche la modifica della rappresentanza regionale, che per Berlusconi era un punto decisivo, visto che, per come era scritto il testo originario del ddl dell'esecutivo, si sarebbe ritrovato un Senato a maggioranza di sinistra. I futuri senatori, se verrà confermata l'intesa tra i capigruppo del Pd e di Fi, Zanda e Romani, e del Ncd dovrebbero invece essere espressione non solo del diverso peso demografico delle singole regioni ma anche, in senso proporzionale, dei partiti.
Basterà? Per ora sì. Sul resto però Berlusconi non è intenzionato a fare sconti a un governo – come ha ripetuto anche ieri – che è «il terzo consecutivo non eletto dagli italiani» e che si regge su una maggioranza ottenuta grazie a un 0,37% in più, «per un premio di maggioranza che è stato dichiarato incostituzionale» e con «33 senatori» eletti dai cittadini del centrodestra con il simbolo del Pdl e il mio nome» e che invece «sono diventati la stampella del governo di sinistra».
«Ingrati», è l'epiteto che il Cavaliere rivolge ad Alfano e agli altri parlamentari del Ncd già bollati in passato come «traditori». «Né ingratitudine, né tradimento, ma scelte politiche divergenti: chi usa la parola ingratitudine e tradimento è illiberale» è la replica che arriva dagli alfaniani attraverso Fabrizio Cicchitto. Berlusconi però punta a erodere il più possibile il consenso elettorale del Ncd per rendere ininfluente Alfano. Non tanto in Europa, ma soprattutto in Italia.
Il timore del leader di Fi è per quanto accadrà dopo il 25 maggio. I sondaggi che stanno circolando continuano a dare Fi largamente sotto il M5S di Beppe Grillo e a oltre 12 punti percentuali dal Pd di Renzi. Se oltre ad essere superato dai suoi principali concorrenti dovesse ritrovarsi con l'Ncd in salute, le ripercussioni dentro il partito non tarderebbero. Le forti tensioni emerse fino a qualche settimana fa non sono scomparse ma solo offuscate dalla necessità di portare a termine la campagna elettorale. I conti si faranno dopo. E si tratterà di numeri veri e propri: dalle percentuali nelle varie circoscrizioni alle preferenze raccolte dai singoli candidati. Ecco perché aver ottenuto lo slittamento a dopo il voto della riforma costituzionale rappresenta una vittoria non da poco per il leader di Fi. A prescindere dal risultato elettorale, il premier dovrà comunque continuare a fare i conti con il Cavaliere.

Corriere 4.5.14
Un testo corretto per disinnestare il fronte di Chiti
Il testo Chiti, che prevede l’elezione diretta dei senatori, ha raccolto 37 firme
E Renzi prepara la strategia estrema
Il premier prepara una campagna in piazza e in tv
di Francesco Verderami

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Corriere 4.5.14
Zagrebelsky e Rodotà: il no all’invito
di D. Mart.


ROMA — Senato e Titolo V: si apre domani la settimana dei costituzionalisti che diranno la loro sulla riforma del governo. Un caso è nato intorno all’invito al seminario pd sulle riforme inviato dal ministro Maria Elena Boschi ai professori Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky che hanno (gentilmente) declinato: il primo a causa di impegni già assunti, il secondo perché ha preferito il festival della Filosofia di Pistoia per far conoscere il suo pensiero in materia. È noto che Rodotà e Zagrebelsky siano decisamente lontani dalla linea del governo, tanto da avere firmato un appello contro la presunta svolta autoritaria impressa dall’effetto combinato Italicum-riforma del Senato. Nel ringraziare il ministro Boschi (che pure li aveva definiti «i professoroni che bloccano tutto da 30 anni»), il presidente emerito della Corte costituzionale aveva usato l’ironia: «La ringrazio per avermi invitato al seminario — ha detto all’Huffington Post — ma i vecchi devono stare con i vecchi». Chi vorrà ascoltare Zagrebelsky dovrà quindi attendere il 24 maggio e recarsi al festival della Filosofia di Pistoia: «Lì poterò alcuni appunti in cui affronto il tema tra vecchi e giovani». Più breve invece l’attesa per ascoltare un giudizio di Stefano Rodotà: il 13 maggio l’ex Garante per la privacy sarà ascoltato dalla I commissione del Senato. Sarà dunque la settimana dei professori. I costituzionalisti sono stati convocati dal Pd di Renzi (domani) ma verranno anche radunati dal Ncd di Alfano (mercoledì) in un altro seminario. E per concludere ci sono gli elenchi delle audizioni alla I commissione di Palazzo Madama (giovedì prossimo e il 13 maggio). In totale, esprimeranno il loro parere sulla riforma del Senato e del Titolo V più di 50 professori che, però, ancora attendono di leggere il vero testo base sul quale lavorerà la commissione Affari costituzionali presieduta da Anna Finocchiaro (Pd). Il nodo sarà sciolto solo martedì. «Riforma del Senato e del Titolo V: semplificare le istituzioni per decidere senza conflitti». È questo il titolo del seminario organizzato dal Pd che domani sarà aperto dal ministro Boschi e chiuso dal segretario Renzi. La lista degli invitati comprende, tra gli altri, Augusto Barbera, Franco Bassanini, Elisabetta Catelani, Stefano Ceccanti, Vincenzo Carelli Irulli, Francesco Clementi, Marialisa D’Amico, Ugo De Siervo, Massimo Luciani, Michela Manetti, Andrea Morrone, Valerio Onida, Francesco Pizzetti, Luciano Violante. Mercoledì tocca agli esperti del Ncd: ci saranno (ma la lista è ancora incompleta) Giovanni Pitruzzella, Giuseppe De Vergottini, Beniamino Caravita. Poi giovedì inizieranno le audizioni in I commissione: sono più di venti.

Corriere 4.5.14
Lista Tsipras: così vogliamo un’altra Europa
di M. Cre.


MILANO — «Per una volta vorrei che scrivesse il nostro nome per esteso: “L’altra Europa per Tsipras”. Perché noi siamo l’altra Europa, siamo europeisti. Nulla a che vedere con i tanti no euro che si scoprono in giro. Ma noi siamo per un’Europa diversa». Guido Viale è cofondatore e garante della lista italiana che sostiene la candidatura di Alexis Tsipras a presidente della commissione Ue. Syriza, il suo partito, è accreditato dai sondaggi come prima forza politica in Grecia.
Il significato di un voto a Tsipras, spiega Viale, è anche quello di «rendere più difficile l’altrimenti probabile intesa tra socialisti e popolari. Certo: la commissione potranno continuare a farsela tra loro. Ma non tutti nel Pse sono favorevoli a questa prospettiva. Per questo noi siamo importanti». Animatore instancabile dell’«ufficio esteri» della lista è Argyrios Panagopoulos, ateniese assai legato all’Italia (ha studiato a Milano) osserva che se la lista Tsipras è forte soprattutto fuori dall’Italia (Grecia, Spagna, Portogallo, Paesi scandinavi), l’Italia è «tra i Paesi più interessati a una ridefinizione degli euro accordi. perché il suo debito è superiore a quello della somma di tutti gli altri paesi del Sud Europa messi insieme. Dopo le elezioni, per l’Italia arriveranno tagli assai duri. Per noi, una cosa senza senso. E poi arriveranno le frustate del fiscal compact. O si chiude questa follia del debito, come è accaduto nel 1953 per la Germania, o non ci sarà ripresa. Ci sarà solo il soffocamento dell’economia». La scrittrice Daniela Padoan, candidata per la prima circoscrizione, sottolinea che la lista Tsipras è «importante anche per non lasciare il monopolio dell’opposizione a Beppe Grillo e ai 5 stelle. Così come Syriza in Grecia è stato un argine per Alba dorata, che altrimenti avrebbe dilagato». E, anche lei, ricorda che il primo nome che si era pensato era «lista Spinelli», in onore del padre del manifesto di Ventotene.

l’Unità 4.5.14
Il reddito di 10 ricconi vale mezzo milione di operai
Il Censis certifica: «disuguaglianze vero male che corrode l’Italia»
Per le tute blu redditi calati in 12 anni del 18%
La crisi fa esplodere il divario: il patrimonio di un dirigente è 5,6 volte quello di un operaio
di Laura Matteucci


Il Censis le definisce «il vero male che corrode l’Italia»: le diseguaglianze crescono, 500 mila famiglie operaie raggiungono tutte assieme il reddito di 10 ricchi. Sul decreto Poletti è scontro.
Un mondo sempre più squilibrato, la cui compattezza sociale si sfarina e lascia il posto al rischio di conflitti e alla certezza di intollerabili disuguaglianze. Che il Censis non esita a definire «il vero male che corrode l’Italia». I 10 uomini più ricchi d’Italia possono disporre di un patrimonio di circa 75 miliardi di euro, più o meno quello di quasi 500mila famiglie operaie messe insieme. Poco meno di 2mila italiani ricchissimi, che lo sono anche fuori dai confini nazionali, dispongono di un patrimonio complessivo superiore a 169 miliardi (senza contare gli immobili): cioè lo 0,003% della popolazione italiana possiede una ricchezza pari a quella del 4,5% della popolazione totale. Le sperequazioni di oggi le descrive l’ultimo rapporto del Censis, per come sono cresciute nel tempo. In piena crisi, il patrimonio di un dirigente è pari a 5,6 volte quello di un operaio, mentre vent’anni fa era pari a circa 3 volte. Per il libero professionista il patrimonio è pari a 4,5 volte quello di un operaio (4 volte vent’anni fa).E quello di un imprenditore è pari a oltre 3 volte quello di un operaio (era 2,9 volte).
Chi più aveva, più ha avuto. La crisi fa esplodere le disuguaglianze. Rispetto a dodici anni fa, i redditi familiari annui degli operai sono diminuiti, in termini reali, del 17,9%, quelli degli impiegati del 12%, quelli degli imprenditori del 3,7%, mentre i redditi dei dirigenti sono aumentati dell’1,5%. L’1% dei «top earner” (chi guadagna di più, circa 414mila contribuenti italiani) si è diviso nel 2012 un reddito netto annuo di oltre 42 miliardi, con redditi individuali che volano mediamente sopra i 102mila, mentre il valore medio dei redditi netti dichiarati dai contribuenti non raggiunge i 15mila. Ela quota di reddito finita a costoro è rimasta stabile anche durante la crisi.
DISTANZE PIÙ AMPIE
In questa fase, tra il 2006 e il 2012, i consumi familiari annui degli operai si sono ridotti, in termini reali, del 10,5%, quelli degli imprenditori del 5,9%, quelli degli impiegati del 4,5%, mentre i consumi dei dirigenti hanno registrato solo un -2,4%. Distanze già ampie che si allargano, dunque, e alla corsa verso il ceto medio tipica degli anni ‘80 e ‘90 si è sostituita una fuga in direzioni opposte, con tanti che scendono e solo pochi che riescono a salire.
Le iniquità sociali non riguardano solo il dato nudo e crudo di patrimoni e redditi. Ci sono eventi della vita che generano distanze sociali. Avere o non avere figli, per esempio. La nascita del primo figlio viene ammortizzata, fa aumentare di poco, rispetto alle coppie senza figli, il rischio di finire in povertà. Nel primo caso il rischio riguarda l’11,6%, nel secondo il 13,1%. Ma la nascita del secondo figlio fa quasi raddoppiare il rischio di finire in povertà (20,6%) e la nascita del terzo figlio lo triplica (32,3%). Avere figli raddoppia anche il rischio di finire indebitati per mutuo, affitti, bollette o altro: il rischio riguarda il 15,7% nel primo caso, il 6,2% nel secondo. Anche ritrovarsi nella condizione di monogenitore aumenta di un terzo, rispetto alle coppie con figli, il rischio di finire in povertà o perlomeno indebitati: 26,2% nel primo caso, 19,3% nel secondo.
Le disuguaglianze sono anche, come sempre, amplificate dalla posizione geografica. Per chi risiede al Sud il rischio di finire in povertà è triplo (33,3%) rispetto agli italiani del Nord (10,7%) e doppio rispetto a quelli del Centro (15,5%). Nel Sud (18%) i residenti hanno anche un rischio quasi doppio di finire indebitati rispetto al Nord (10,4%) e di 5 punti più alto rispetto a quelli del Centro (13%).
Il rapporto Censis rileva anche i possibili scenari derivanti dal bonus di 80 euro al mese: se sarà permanente, 3,1 miliardi saranno destinati ai consumi nei prossimi otto mesi. I comportamenti dei 10 milioni di italiani che beneficeranno dell’agevolazione Irpef da maggio a dicembre «saranno molto diversi se l’introduzione del bonus sarà strutturale o se invece non avrà continuità nel tempo». Nel caso in cui gli 80 euro costituiranno una una tantum, il Censis ritiene che 2,7 miliardi (dei 6,7 miliardi totali previsti dal decreto del governo) andranno ad alimentare la domanda interna. «La nostra indagine ci dice che i famosi 80 euro, seppure non ribaltano la situazione, favoriscono una ripresa di fiducia in un Paese in cui poveri si sentono non capiti e semmai più colpiti dalla pressione fiscale», commenta il direttore generale del Censis, Giuseppe Roma. «Si sta creando l’effetto fiducia - specifica Roma - le statistiche nostre e dell’Istat ce lo dicono». «Quasi la metà di quei 6,7 milioni - spiega Roma - andrà ad incrementare i consumi che in parte andranno nelle rate dei mutui non pagate e in parte nei risparmi: gli italiani hanno paura». Roma chiude con una stilettata ai dirigenti pubblici, definiti «casta nella casta». «Ormai compaiono infatti - dice - nelle graduatorie delle persone più ricche. A volte sono più attenti alla retribuzione che ai servizi dei cittadini»

l’Unità 4.5.14
Vincenzo Visco
«Negli ultimi anni la battaglia contro gli evasori non c’è stata, solo blitz con effetti momentanei. Fare emergere il sommerso con incroci e banche dati»
Lotta all’evasione subito e riforma di tutta l’Irpef
intervista di Bianca Di Giovanni


«Mi preoccupo sempre quando si comincia a parlare di lotta all’evasione in relazione a difficoltà di bilancio, perché il gettito recuperato deve essere destinato al calo della pressione fiscale». Vincenzo Visco commenta così l’ultima querelle sulle coperture del decreto sugli 80 euro in busta paga. Lui da ministro delle Finanze non ha mai utilizzato i proventi dell’evasione ex ante, ma solo a consuntivo. «Tant’è che c’erano i famosi tesoretti», spiega. Secondo l’ex ministro sarebbe il caso di finirla con interventi spot sul sistema fiscale. Quello che serve è un intervento complessivo, per rendere più equo il sistema, un processo di cui la lotta all’evasione è parte integrante. «Al Nens stiamo studiando una serie di proposte, che porterebbero al recupero di una buona fetta di evasione - continua Visco - Se avessi potuto completare il mio lavoro, a quest’ora l’evasione sarebbe la metà. Invece si è scelta un’altra strada, quella della repressione che non funziona. Il problema non è tecnico, è politico. Mi chiedo se il governo nella sua attuale composizione sia in grado di imboccare una nuova strada».
Cosa intende quando dice che serve una messa a punto del sistema?
«Elenco qualche misura che ritengo necessaria. Bisognerebbe riorganizzare l’Irpef eliminando il sistema di detrazioni decrescenti. Le detrazioni per carichi familiari andrebbero integrate con gli assegni familiari, per creare un meccanismo di sostegno ai redditi più bassi con il conseguente alleggerimento delle condizioni di povertà assoluta e relativa. Solo questa operazione avrebbe un costo di circa 15 miliardi».
E poi?
«Poi bisognerebbe completare la fiscalizzazione dei contributi, per abbassare il cuneo fiscale a tutti i redditi. Anche questo costa circa 15 miliardi. Bisognerebbe poi eliminare l’imposta di registro (4-6 miliardi) e rivedere tutta la tassazione sugli immobili, superando l’obbrobrio fatto in questi ultimi anni. Infine c’è bisogno di rinforzare l’Ace per le imprese. Questo è l’orizzonte che abbiamo davanti se vogliamo fare una revisione che abbia un senso: un’operazione che vale una quarantina di miliardi. Non sono tantissimi: solo con l’ultimo governo prodi ne abbiamo recuperati una trentina. Naturalmente ci vuole qualche anno, non è un’operazione che si fa in pochi mesi».
Vuol dire che non basta andare avanti per step come sembra fare Renzi?
«Voglio dire che le tasse sono importanti per l’economia, e che se vogliamo che abbiano effetti positivi bisogna avere un’ottica di sistema. Ed è in questa ottica che si deve riprendere la lotta all’evasione».
Perché «riprendere»?
«Perché negli ultimi anni non si è fatta. Si è scelta la strada della sola repressione, con blitz e interventi a gamba tesa della Guardia di finanza, che possono avere effetti immediati ma alla lunga non funzionano. Non si fa lotta all’evasione concentrandosi sul recupero degli accertamenti, come hanno fatto gli ultimi governi, da Tremonti e Berlusconi fino a Letta passando per Monti. Quei 12 o 13 miliardi l’anno che vengono sbandierati non sono altro che il risultato ordinario dei controlli dell’amministrazione: in altre parole giustificano l’esistenza dell’amministrazione».
Lei dice no alla repressione, eppure è indicato come il simbolo della repressione fiscale.
«Io? Mai stato per la repressione. Il mio fronte è sempre stato quello della trasparenza e delle norme. Befera e Tremonti sono i fautori della repressione, e Monti e Letta non hanno cambiato le cose. Ma quella è una linea perdente, perché è quella del cane che abbaia e non morde».
Invece cosa bisognerebbe fare?
«Occorre far emergere il sommerso, attraverso l’utilizzo delle banche dati (cioè la trasparenza) e il rapporto costante tra amministrazione e contribuenti nella fasi precedenti la dichiarazione dei redditi. In questo modo si crea una moral suasion in favore della fedeltà fiscale. L’accertamento è un momento successivo, che va utilizzato quando è necessario. Servono poi modifiche tecnologiche e normative. Se si fa questo, le risorse si trovano. Renzi sembra andare nella direzione giusta, con l’uso delle banche dati e l’invio delle dichiarazioni precompilate, che, come ho detto proprio a l’Unità, erano pronte già nel 2008. Alcuni segnali ci sono».
Però....
«Però continuo a vedere una forte tolleranza nel Paese nei confronti dell’evasione. La lotta all’evasione è un problema politico delicato, non tecnico: bisogna decidere se si vuole o meno affrontare in maniera non repressiva. Se si vuole, si può fare. Mi chiedo se il governo sia in grado di decidere».
Sa che Berlusconi ha rilanciato la campagna contro Equitalia?
«Equitalia l’ha fatta lui, e ora la combatte? E poi perché se oggi Equitalia non può più far nulla, non ha più strumenti di intervento. L’hanno smontata tutta, non può più fare riscossione coattiva. Con il risultato che oggi se non si paga il mutuo, la banca ti pignora la casa, mentre lo Stato non può fare niente. Paradossalmente tutti quelli che gridano contro le banche, di fatto difendono le banche rispetto al fisco».
Ci sono stati richiami sul prelievo fiscale relativo alle quote Bankitalia delle banche.
«Nel merito non mi pronuncio perché non ho letto i provvedimenti. Mi preoccupa invece la reazione sdegnata di molti anche del pd contro i tecnici del Senato, quando abbiamo appena nominato la commissione sui conti pubblici che servirà a fare le pulci alle misure del governo. Servirebbe semmai un organismo che monitori le misure».

La Stampa 4.5.14
La disuguaglianza che cresce e il rischio di scontro sociale
di Stefano Lepri


Le disuguaglianze sociali fanno discutere, oggi nel mondo. Ma siamo sicuri che in Italia sia la stessa cosa che negli Stati Uniti, dove in questo momento c’è un dibattito intellettuale vivacissimo?
Ieri il Censis, in un sabato di «ponte», ha deciso di informarci che i patrimoni dei 10 italiani più ricchi – sommati, 75 miliardi di euro – equivalgono a quelli di 500.000 famiglie operaie.
Lo shock è garantito; specie se lo stesso documentato osservatorio aggiunge che negli ultimi dodici anni, tra ristagno prima e crisi poi, i redditi modesti sono calati più degli altri (famiglie di operai -17,9%) mentre i redditi alti sono un poco cresciuti (famiglie di dirigenti +1,5%).
Più che naturale che in tempi di crisi risaltino le disuguaglianze. Se chi ha i soldi fa pochi investimenti produttivi, e manca il lavoro, chi non li ha si pone qualche domanda. Il ripensamento parte addirittura dal Fondo monetario internazionale, fino a poco tempo fa considerato il tempio degli adoratori del mercato.
In successione, due studi del Fmi hanno ipotizzato: 1) che l’accresciuto squilibrio nella ripartizione delle ricchezze contribuisca all’instabilità finanziaria mondiale; 2) che la crescita economica sia più veloce nei Paesi dove le disuguaglianze sociali sono meno gravi.
La globalizzazione ha fatto emergere dalla povertà masse enormi in Paesi lontani, e lì lo sviluppo continua. Ma nel centro del sistema, gli Stati Uniti, ad arricchirsi sono stati in pochi: circa il 7% della popolazione. E’ più dell’1% contro cui gridava «Occupy Wall Street», resta una minoranza.
Non sorprende che oltreoceano si litighi tanto sul libro dell’economista francese Thomas Piketty (recensito da La Stampa il 15 gennaio). Piketty motiva con dati la sua idea che il funzionamento normale del capitalismo accresce le disuguaglianze di ricchezza, e forse lo farà ancor più in futuro: gli Stati Uniti gli servono da principale conferma. Ma si tratta appunto delle conseguenze di un indisturbato sviluppo capitalistico. Negli Usa, i soldi si accumulano nelle casseforti delle imprese, nei patrimoni dei manager industriali, dei banchieri, dei finanzieri, nei monopoli creati dalle tecnologie (tipo Windows, Facebook, Google, Twitter). Non è così in Italia, dove l’economia langue.
Secondo i dati raccolti dalla Banca d’Italia, da noi le disuguaglianze di patrimonio tra le famiglie hanno raggiunto un record nel 2012. Eppure l’andamento nell’ultimo ventennio appare oscillante, legato soprattutto ai prezzi immobiliari; il 10% più ricco detiene ben il 47% dei patrimoni, cifra raggiunta anche nel 2000.
I profitti delle nostre aziende industriali nell’insieme non sono alti; né vediamo casi di ricchezze nate da innovazioni. Com’è allora che la disuguaglianza è tanto sentita? Forse perché ne abbiamo visto una scimmiottatura parassitaria. Un clima sociale e culturale in cui pareva lecito allargare le distanze è stato sfruttato da chi aveva potere di farlo, nella nostra economia malsana di rendite e di evasioni intrecciate alla politica; ne sono simbolo gli «stipendi d’oro» di alti burocrati o di manager poco avvezzi a misurarsi con il mercato.
Visto dal basso, il risultato pare simile: l’ascesa sociale è più che ardua, il futuro dei giovani dipende dalle risorse della famiglia. In realtà il nostro sistema è più inefficiente anche nella selezione. Negli Stati Uniti, per frequentare una buona università occorrono da 35 a 50.000 dollari l’anno, però poi quel titolo serve, e tra i ricchi vanno avanti i più capaci; tra la gente l’abilità nel far soldi ancora attira rispetto. Qui, se non si riaprono speranze per chi merita, si rischia una rabbia distruttiva contro chiunque appaia stare «in alto».

L’altra partita aperta riguarda il salvataggio dell’ Unità che il tesoriere e i vice segretari si sono impegnati ad affrontare entro giugno
Repubblica 4.5.14
Bilancio in rosso di 9 milioni, spending review per abbattere del 40% i costi
Vuote le casse dem “Ora pasti a 25 euro e hotel a 3 stelle”
di Giovanna Casadio



ROMA. Il tetto massimo di rimborso per il vitto ai membri della segreteria dem in trasferta è di 25 euro. Se uno ama mangiare raffinato, se lo paga. Nel nuovo regolamento che il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi ha voluto, non si spreca più una briciola. Alla vigila della consegna della “due diligence” e, in vista dell’approvazione del bilancio 2013 e di quello di previsione per il 2014, il partito di Renzi stringe la cinghia quasi dimezzando le spese: meno 40%. Contrattate tutte le forniture, dalle pulizie alle spese per il sito.
Il rosso del bilancio dei Democratici è profondo. Ammonta a oltre 9 milioni di euro a consuntivo. Antonio Misiani, fedelissimo di Bersani e nominato tesoriere dall’allora segretario, consegnando le chiavi del partito a Renzi l’aveva detto: «Le casse sono vuote». Vuotissime. C’è stata un po’ di maretta polemica sugli extra, sulle consulenze della segreteria Bersani, poi semplicemente il nuovo tesoriere ha cominciato a sforbiciare. E ora arrivano i primi numeri, illustrati l’altro giorno nell’assemblea con i 190 dipendenti anche dai vice segretari Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini. Ecco quindi il costo della struttura - segreteria - che nel 2012 era di quasi 700 mila euro ed era già drasticamente sceso nel 2013 a quasi 200 mila - si ridurrà a meno di 100 mila. Bonifazi ha fatto sapere che vorrebbe si aggirasse sugli 80 mila. I parlamentari che siedono nella stanza dei bottoni del partito non hanno diritto a rimborsi, quelli che parlamentari non sono e che vengono da fuori, ad esempio Stefano Bonaccini, responsabile degli enti locali, emiliano, va in hotel 3 stelle, massimo 80 euro a notte. Prima il partito metteva a disposizione la casa.
I rimborsi pubblici ancora ci sono (circa 16 milioni per il 2014, mentre nel 2013, già ridotti, erano stati 24 milioni), prima che entri a pieno regime la nuova normativa delle donazioni. Però Bonifazi ha annunciato che punta a un bilancio di massima del Pd di 21 milioni e che vuole andare in pareggio. Senza toccare, almeno per il 2014, i posti di lavoro. Poi si vedrà. Ci potrebbero essere i contratti di solidarietà. Spreconi i predecessori e virtuosi i renziani? «È anche cambiato il modo di fare politica - ha detto il tesoriere, che vuole mantenere la pax dentro il Pd in vista del voto per l’europarlamento - Nel 2009 per la campagna elettorale di quelle europee furono spesi 13 milioni, in questo 2014 ne stanzieremo 3 milioni è mezzo». Tagliati anche i costi per le sedi: il Pd resta solo al Nazareno, mentre gli altri due affitti sono in fase di disdetta, quindi i 2 milioni e 900 mila del 2012 saranno sforbiciati.
Ma sono i costi per il web a scendere da 500 mila a 100 mila euro. E poi c’è la dolentissima nota dei trasferimenti regionali. I circoli già in sofferenza devono sapere che si autofinanziano con il tesseramento che resta nelle loro casse. Alle federazioni regionali vanno ancora 1 milione e 400 mila euro di rimborsi. Poi? Sarà tutto da rivedere, non è escluso che si debba mettere mano allo stesso Statuto del partito: ha buttato lì Bonifazi. Di certo c’è l’azzeramento delle auto blu, o meglio a noleggio con autista che sono costate qualche centinaio di migliaia di euro in passato. Basta. Il vice segretario Guerini, in ritardo per un comizio, ne ha chiesta una per andare all’aeroporto. Bonifazi lo ha invitato a pagarsela da sé. Alla fine ha ceduto: «Passi, ma la prossima volta ti arrangi». L’altra partita aperta riguarda il salvataggio dell’ Unità che il tesoriere e i vice segretari si sono impegnati ad affrontare entro giugno.

l’Unità 4.5.14
Dopo 30 anni l’Italia a un passo dal reato di tortura
Martedì la Commissione giustizia della Camera inizia l’esame del testo approvato due mesi fa dal Senato. Previsti due nuovi reati, 613 bis e ter
di Claudia Fusani


Adesso, perché le vittime di abusi e di eccessi da parte di chi indossa la divisa, smettano di morire ogni volta di più sull’onda delle inutili polemiche, è il momento di passare ai fatti. A quei «provvedimenti» che Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi ha chiesto di nuovo l’altro giorno dopo gli applausi dell’assemblea Sap (sindacato autonomo di polizia) ai quattro poliziotti ancora in divisa nonostante i 3 anni e sei mesi di condanna per la morte del figlio. «Io ora voglio sparire, adesso non è più il mio problema ma di un paese intero» ha detto chiamata in fretta e furia, in una sorte di cerimonia delle scuse collettive, dalle massime autorità dello Stato, del governo e della polizia. Se tutti coloro che hanno aperto bocca in questi giorni - e parliamo della politica incapace da anni di prendere decisioni invocate e attese - volessero dare subito seguito alle loro parole, il caso offre un’occasione speciale. Da martedì, infatti, la Camera ha l’opportunità di dare in pochi giorni al paese la legge che introduce il reato di tortura. Non è la migliore ma è pur sempre qualcosa.
Il testo, atteso da 30 anni, licenziato due mesi fa dal Senato, approda martedì in Commissione Giustizia della Camera presieduta da Donatella Ferranti (Pd). Introduce due nuovi reati. Il 613-bis disciplina il delitto di tortura. Il 613-ter incrimina la condotta del pubblico ufficiale che istiga altri alla commissione del fatto. La scelta è stata quella di optare per un reato comune anziché per un reato specifico riguardante esclusivamente i funzionari pubblici (uomini in divisa, quindi custodi della legalità in nome dello Stato). Costituisce circostanza aggravante il fatto che il reato sia stato commesso da un pubblico ufficiale.
Il disegno di legge che potrebbe diventare legge in un paio di settimane, conta cinque articoli attesi dal 1984 quando le Nazioni Unite (10 dicembre) adottarono la Convenzione contro la tortura. In quella Convenzione tutti i paesi membri concordarono di comprendere nel proprio ordinamento il reato di tortura «da punire con pene adeguate e con indagini rapide ed imparziali su ogni singolo caso, senza alcuna eccezione accettata».
Hanno fatto molto prima e meglio di noi paesi come Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Islanda, Lettonia, Lussemburgo, Macedonia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Slovenia, Slovacchia, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Ungheria, Città del Vaticano.
Se finora abbiamo latitato è stato perché, secondo il legislatore, le condotte richiamate nella Convenzione del 1984 sono riconducibili a fattispecie penali già previste nel nostro codice come omicidio, lesioni, percosse, violenza privata, minacce. Il disastro del G8 di Genova ho spazzato via ogni alibi : l’assenza del reato di tortura, come hanno riconosciuto i magistrati in sentenza, ha favorito molte prescrizioni e impedito punizioni serie.
Stavolta, forse, ci siamo. E la coincidenza vuole che questo avvenga mentre le cronache sono piene dell’eco del caso Aldrovandi e Magherini. Il senatore Luigi Manconi, da anni in prima linea su questo fronte, è il papà della legge. Anche lui l’avrebbe voluta diversa. «Bene l'introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento, ma si poteva fare di più» ha ripetuto in questi giorni. Secondo Manconi, infatti, l'impianto complessivo del disegno di legge risulta «depotenziato” dalla formulazione che prevede la reiterazione degli atti di violenza perché ci sia la fattispecie della tortura. Depotenziato anche dal fatto che nel provvedimento la tortura non è qualificata come reato proprio ma comune, «quindi imputabile a qualunque cittadino e non solo ai titolari di funzione pubblica come avviene invece in molti altri paesi occidentali».
Gli stessi sindacati di polizia sono cauti. E perplessi. «Il reato di tortura è un obbligo di civiltà a cui non possiamo più sottrarci» avverte Daniele Tissone della Silp-Cgil «ma a cui si deve dare attuazione con attenzione ed evitando ogni tipo di strumentalizzazione». Il timore è che sull’onda dell’emozione di questi giorni possano passare elementi di ambiguità. Che non risolvono i problemi veri e ogni giorno sotto gli occhi di tutti: forze dell’ordine costrette a lavorare, in ordine pubblico ma anche solo in servizio, senza le dovute tutele e la necessaria professionalità. Il Siulp non ci sta a barattare le difficoltà degli operatori della sicurezza che vivono due volte la crisi, sulla loro pelle per i tagli e in strada a fronteggiare la rabbia sociale, con quelle che sono richieste precise (più formazione e telecamere sui caschi degli agenti per avere una rappresentazione totale di quello che avviene). Il Silp, da parte sua, denuncia come da «15 anni l’arruolamento in polizia avvenga non più tramite concorso diretto ma attraverso il reclutamento dei volontari delle ferma breve nell’esercito». Una non-selezione che condiziona la formazione degli agenti. E ha retrocesso al 12 per cento la presenza delle donne in polizia. Il Coisp, sigla sindacale legata alla destra, ha addirittura messo in guardia il capo della polizia Alessandro Pansa da «pericolose interpretazioni estensive».

l’Unità 4.5.14
Il caso Aldrovandi
La presidente Boldrini: «Pansa tolga il segreto dalle sanzioni interne»


«In linea con il mio impegno per la trasparenza e con quanto si sta facendo in questo senso alla Camera dei deputati, ho accolto l’appello del presidente della commissione Diritti umani del Senato, Luigi Manconi, a sollecitare il capo della Polizia affinché valuti la possibilità di togliere il segreto ai procedimenti disciplinari interni». Lo ha annunciato la presidente della Camera, Laura Boldrini a proposito dell'incontro con Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovandi. La presidente Boldrini esprime «indignazione per gli applausi riservati ai poliziotti condannati per la morte del ragazzo durante il congresso del sindacato autonomo Sap» e considera che «il gesto provocatorio non solo fa male a chi crede nella giustizia, ma danneggia soprattutto i tanti agenti che fanno il proprio dovere rispettando le regole».
«Io quei quattro non li perdonerò mai - ha detto Patrizia Moretti alla Nuova Ferrara a proposito dei quattro poliziotti condannati – Non ci può essere perdono senza pentimento. Gli eventi recenti vanno nella direzione opposta. Con quell'applauso sono stati elevati a simboli, a modelli. Questo allontana moltissimo qualsiasi possibilità». «L'unico modo per me per passare oltre è che raccontino tutta la verità, ogni dettaglio, ogni minuto. Con quel comportamento quei poliziotti è come se si fossero nuovamente sporcati le mani di sangue». «Lo Stato - ha aggiunto - si è reso finalmente conto di quale è il problema che ha ucciso Federico in modo corale e ai massimi vertici».

l’Unità 4.5.14
La battaglia del bipolarismo
di Michele Ciliberto


DELLE ELEZIONI EUROPEE E INGENERE DELL'EUROPA SI PARLA POCO, PURTROPPO. È UN ERRORE GRAVE, PERCHÉ SI TRATTA di uno snodo decisivo. Se prevarranno le forze anti europee inizierà un periodo durissimo; rischieremo di andare all’indietro - in forme nuove, perché la storia può avere delle costanti, ma non si ripete mai allo stesso modo. Queste elezioni sono invece decisive anche per il nostro Paese, come dimostra di aver capito il presidente del Consiglio che si è immerso nella campagna elettorale con iniziative che, per quanto importanti, hanno anche un chiaro taglio propagandistico. Lo confermano le ultime iniziative sulla pubblica amministrazione, che sono anche un indice della morsa in cui si trova: vuole un vasto consenso elettorale; ma ha bisogno di cavalcare il vento dell'antipolitica per battere Grillo sul suo terreno.
Perciò, da un lato, prende iniziative per colpire la pubblica amministrazione; dall’altro decide di mandare una lettera ai dipendenti pubblici per coinvolgerli nelle decisioni che li colpiscono. Come prendere il chiaro di luna al margine di un bosco, direbbe un umanista. Eppure il passaggio è veramente decisivo per il futuro del Paese e anche per la riorganizzazione del nostro sistema politico, dopo la crisi e la fine traumatica del ventennio berlusconiano - rappresentata con grande forza simbolica dalla assegnazione del capo di Fi ai servizi sociali. Neppure al Grande Inquisitore sarebbe venuto in mente, penso, un contrappasso di tale portata. Tornando alla politica, oggi uno dei punti principali in gioco è il destino del bipolarismo. Come è noto molti, negli ultimi tempi, hanno scritto che in Italia la dinamica bipolare non aveva più futuro perché i poli erano diventati tre, con vantaggio - a loro giudizio - della nazione. Ma anche qui la storia sta riservando delle sorprese.
Quella che infatti abbiamo sotto gli occhi è una situazione certo dinamica, nella quale però le potenzialità del bipolarismo appaiono tutt'altro che morte. Anzi. Si configurano però in termini assai diverse dal ventennio passato perché i poli attualmente in via di formazione sono, da un lato il Pd, dall'altro, il M5stelle, con una riduzione delle altre forze a un ruolo secondario. A cominciare dalle forze della destra, precipitate, dopo la rottura del Pdl, in una crisi dalla quale non riescono a riprendersi: la nuova Forza Italia considera un miracolo poter arrivare al 20%; il Ncd appare attestato, nelle migliori proiezioni, al 5%, nonostante la confluenza dell'Udc. Se si pensa che Alfano e i suoi pretendevano di costruire in Italia una nuova destra repubblicana, viene da sorridere, anche se erano i soli - con l’eccezione di qualche editorialista un po’ strabico - a farsi illusioni di questo genere. Nonostante tante chiacchiere, da noi non c'è mai stata una «rivoluzione liberale», né è mai esistita una destra moderata: da Mussolini a Berlusconi, su questo c’è continuità: la destra italiana è morfologicamente estremista.
Varrebbe perciò la pena di interrogarsi su questo carattere della nostra storia, e sull’attuale processo di tendenziale dissoluzione della vecchia destra politica italiana, dopo il collasso dell'estremismo berlusconiano. Cosa vuol dire, che non esiste più in Italia una destra? Oppure che il M5S, ormai, è destinato ad occupare questo spazio politico, lasciando agli altri solo qualche zona residuale? Sostenere questo significherebbe però non aver capito molto delle profonde trasformazioni del nostro paese negli ultimi decenni. E vorrebbe dire non aver inteso, tra l’altro, perché le forze che si rifacevano alla tradizione socialista e marxista sono entrate in una crisi radicale e non riescono più a svolgere una funzione nazionale e per quali ragioni profonde, obiettive, oggi bisogna lavorare a una nuova idea di sinistra.
La destra continua ad esistere, ovviamente. Quello che è venuto meno è il rapporto, quale abbiamo storicamente conosciuto, tra dimensione sociale ed economica e sfera politica; tra «classi» e «partiti», i quali non sono più «nomenclature” delle classi (almeno) per due ordini di motivi: non esistono più blocchi sociali compatti e duraturi; si sono intrecciate questione sociale e questione demografica, la quale si è sovrapposta alla prima, togliendole centralità e certezza. Oggi è tutto in movimento; e tutto è infinitamente più complicato e più ambiguo. I partiti della sinistra storica non sono finiti per impulso all’auto-dissolvimento o solamente per inettitudine delle classi dirigenti: sono cambiati tutti i riferimenti storici e politici. Siamo entrati in un’epoca diversa. Si tratta di processi sconvolgenti, che generano effetti a prima vista incomprensibili: un partito che si schiera contro l’esistente e dice di voler essere una forza di cambiamento e di progresso - come il M5S- può al tempo stesso esprimere e sostenere posizioni che si possono definire, sommariamente, di «destra», e trovare consenso a «destra», senza che si creino tensioni o contrasti effettivi con il suo elettorato di «sinistra», anzi come fosse un fatto ordinario. Se non si afferra questo mutamento radicale - che attiene alla dimensione dei comportamenti, delle ideologie, dei sensi comuni- è difficile comprendere il successo impetuoso di Grillo e perché sotto le sue insegne stiano convergendo individui e ceti che una volta si sarebbero contrapposti, schierandosi gli uni a «destra», gli altri a «sinistra». Tutti fenomeni poi ulteriormente accentuati dalla crisi che devasta l'Italia e il mondo, spezzando vecchie barriere e tradizionali nomenclature, acuendo un risentimento generale che sovrasta le rivendicazioni specifiche, «di parte». Con una battuta si potrebbe dire che dalla dimensione della «classe» stiamo passando a quella di un «interclassismo» di tipo nuovo entro cui, per quanto possa apparire paradossale, stanno le radici di un nuovo possibile riassesto bipolare del sistema politico imperniato sul Pd e sul M5S.
Se questa analisi ha un fondamento, saranno le prossime elezioni a chiarire in che modo potrà riassestarsi il nostro sistema politico; quale tipo di bipolarismo si affermerà in Italia; quali ne saranno i pilastri. In breve: quali saranno le linee di fondo del nostro futuro. Potremo cominciare a capirlo perché, essendo il voto europeo proporzionale, ogni forza potrà misurare chi e cosa rappresenta: a iniziare dal Pd e dal M5S, i principali protagonisti di questa battaglia campale.

Repubblica 4.5.14
Forse Renzi sta creando l’alternativa a se stesso
di Eugenio Scalfari



IL TEMA di questo mio “domenicale” prende spunto dall’articolo da noi pubblicato in cultura il Primo maggio scorso di Michael Walzer con il titolo L’Occidente salvato dalla lotta di classe .
Walzer è un filosofo americano molto apprezzato, si occupa di filosofia politica e morale, insegna a Princeton e solleva problemi di notevole importanza tra i quali la distinzione tra diritti dell’uomo e diritti del cittadino.
Detta così può anche sembrare una tautologia, invece contiene questioni la cui origine e natura sono profondamente diverse e spesso opposte tra loro; descrivono un aspetto della crisi di fine d’epoca che il mondo intero sta attraversando e della quale Walzer coglie i nessi e ipotizza le possibili soluzioni.
Vedremo in seguito il loro svolgimento. Ma intanto mi sembrano necessarie due premesse.
La prima riguarda la decisione di Marina Berlusconi (cioè di suo padre Silvio) di entrare in politica alla guida di Forza Italia. Non siamo più alla monarchia ma addirittura alla discendenza dinastica. Così Berlusconi avrà il suo cognome in testa alla lista in tutte le circoscrizioni elettorali il 25 maggio e poi alle elezioni politiche quando ci saranno. La sua decadenza da senatore non avrà dunque alcun effetto pratico così come non l’ha avuto la sentenza che l’aveva condannato a quattro anni di reclusione.
La seconda premessa è più complessa e riguarda Matteo Renzi e le sue più recenti decisioni. Una soprattutto: la riforma del Senato e della legge elettorale e l’altra, annunciata mercoledì scorso, sulla pubblica amministrazione .
QUESTE due mosse mi inducono a pensare che il nostro presidente del Consiglio, messo alla prova con la realtà ed energicamente consigliato dalla “moral suasion” di Giorgio Napolitano, sia profondamente cambiato. Detto da me che non sono un renziano e che finora sono stato severamente critico del suo modo di concepire la politica, è un attestato del quale mi sembra opportuno spiegare le ragioni.
Ricordo la telefonata di auguri che mi fece la mattina del 6 aprile. Era il giorno del mio novantesimo compleanno e ne ricevetti molte, di telefonate e messaggi. È normale che avvenga, ma la sua fu cronologicamente la prima e la meno prevista. Mi disse che era stato molto in dubbio se farla, visto che io “lo bastonavo, sia pure civilmente, in ogni mio intervento”, ma poi aveva deciso che l’augurio non si lesina a nessuno. Aggiunse che io incitavo le persone politicamente impegnate nel Pd a preparare un’alternativa senza la quale avremmo dovuto avercelo chissà per quanto tempo. Lo ringraziai confermandogli la mia posizione e lui aggiunse: «Ma se io decidessi d’essere l’alternativa del me stesso che lei critica?». Risposi che quell’ipotesi mi pareva assai difficile, ma se si fosse verificata anche la mia posizione sarebbe cambiata. Su questo ci salutammo.
Ebbene, ho la sensazione che quell’ipotesi alquanto paradossale abbia un inizio di realizzazione. Ancora è presto per un giudizio definitivo, ma qualche spiraglio s’è aperto e va preso in considerazione.
Per quanto riguarda la riforma del Senato segnalo tre fatti nuovi: l’elezione diretta di senatori scelti insieme ai consiglieri regionali e comunali. Se così avverrà, il tema dell’elezione di secondo grado sarebbe superato e penso che anche Chiti sarebbe d’accordo. Si parla inoltre di mansioni aggiuntive ai poteri del Senato oltre quelli riguardanti gli Enti locali e si parla anche dell’abolizione delle Conferenze Stato-Enti locali per evitare un inutile doppione.
Il compromesso è dunque avviato e la data di soluzione è stata rinviata dal 23 maggio al 10 giugno; gli ultimatum dunque sono stati sostituiti da costruttivi confronti ed anche questa è una novità positiva.
Quanto alla legge elettorale la discussione è in corso per ridurre le soglie troppo alte consentendo una maggiore rappresentanza senza indebolire la governabilità.
Questo per quanto attiene al Senato e alla legge elettorale. Poi c’è la riforma della pubblica amministrazione, annunciata con concrete statuizioni e sottoposta al confronto con le parti sociali ed interessati per un periodo di 40 giorni, trascorsi i quali il governo deciderà.
Il vero tema è di rendere “neutrale” una burocrazia che col passare del tempo si è trasformata in una casta autoconservatrice che in quanto tale merita di essere rottamata.
Una pubblica amministrazione capace di custodire la legalità di fronte all’alternanza dei governi fu il vero merito della destra storica, da Quintino Sella a Minghetti, a Silvio Spaventa e a Benedetto Croce e - se vogliamo avvicinarci di più all’attualità - da Guido Calogero, Ugo La Malfa, Antonio Giolitti e Riccardo Lombardi.
Il passare del tempo logorò questo disegno trasformando la neutralità in autoconservazione. Questa è la gramigna da estirpare. Se gli annunci saranno realizzati un’opera di notevole importanza sarà stata compita.
Certo Renzi resta un seduttore con tutti i difetti che questo tipo di carattere comporta. Ma queste riforme - se attuate - mitigano la seduzione a vantaggio di programmi selettivi. Aspettiamo dunque con qualche speranza in più, soprattutto se gli errori fin qui commessi saranno riconosciuti ed emendati. Io me lo auguro.
* * * Vengo al tema introdotto da Michael Walzer: i diritti dell’uomo e quelli del cittadino. Quelli dell’uomo dovrebbero essere estesi e attribuiti a tutti, specie in un’epoca di migranti che vagano in cerca di fortuna per sfuggire a una morte civile e spesso fisica nei loro miseri paesi d’origine.
Questi diritti furono riconosciuti agli inizi della Rivoluzione francese dell’Ottantanove, ma affiancati dai diritti di cittadinanza che spettano appunto ai cittadini di quella nazione. Così nacque la democrazia e le nazioni cessarono di essere proprietà dei sovrani assoluti. Così nacquero l’eguaglianza di fronte alla legge, il popolo sovrano, il patto costituzionale e la divisione dei poteri. Questo fu il lascito dell’Illuminismo, deturpato ma anche arricchito nel corso del XIX e del XX secolo.
Così nacquero il liberalismo, il socialismo, il liberal-socialismo; ma anche e purtroppo il fascismo, il nazismo, il comunismo leninista e stalinista.
Walzer vede una discrasia tra i diritti dell’uomo e quelli del cittadino in un fine d’epoca che mette i nazionalismi in discussione trasformandoli in una regressione populista che nega ogni ipotesi di costruire una patria europea. Il rischio di questo regresso è molto grave ed è la causa del contrasto tra i diritti dell’uomo e quelli del cittadino; il populismo usa infatti i secondi come barriera contro i primi, combatte la società globale anziché correggerne gli errori e il predominio che oggi hanno le grandi banche d’affari e le multinazionali.
Questa è la tesi che sostiene Walzer ed io penso che abbia piena ragione. In un certo senso il filosofo americano mi ricorda il Giuseppe Mazzini dei diritti e dei doveri, che sosteneva al tempo stesso la nascita delle nazioni democratiche e la fratellanza europea al di là e al di sopra dei confini. Mazzini era nazionalista e internazionalista al tempo stesso e lottò per quegli ideali che oggi in Europa sono in serio pericolo.
Questo è il tema delle imminenti elezioni europee, questo è il tema del semestre europeo di presidenza italiana e questo infine è il tema che Napolitano ha infinite volte sollecitato nella speranza che la classe dirigente del nostro paese sia all’altezza di affrontarlo.
Il passato storico che abbiamo qui ricordato ha un senso per orientarci nel presente e per risvegliare la speranza del futuro. La nostra patria italiana dev’essere intensamente vissuta e la nostra patria europea dev’essere decisamente costruita. Sottrarsi a questi compiti non è tradimento ma stupidità, che è un malanno ancora peggiore.

il Fatto 4.5.14
Nuovi sbarchi
Immigrazione, una sfida che sappiamo solo perdere
di Furio Colombo


Che dite, li prendiamo o li lasciamo in mezzo al mare, secondo la dottrina Maroni (ex ministro dell'Interno di fede leghista, qualcuno ricorda?) che non voleva neanche avvicinarsi per sapere se qualcuno di quelli che stavano annegando aveva diritto di asilo?
Prenderli sono troppi, dice con giudizio la maggioranza degli italiani che, come tutti sanno, sono buoni ma non stupidi. Non c’è lavoro per noi, figuriamoci per loro.
Ma ricominciamo dal principio. Ci sono più sbarchi e arriva più gente. Secondo Matteo Salvini (sarebbe il segretario attuale della Lega Nord, se la Lega Nord esistesse ancora), secondo La Russa e Gasparri, politici che hanno fine sensibilità e vista lunga (durante il conflitto in Libia avevano predetto “un esodo biblico”) la causa maligna di questi sbarchi è l’operazione “Mare Nostrum”. Significa che, per la prima volta da quando l’Italia si è in parte liberata dalla infezione leghista (espressa bene da Bossi, che oggi non è nessuno ma allora era il capo, con le vivide parole “calci in culo e giù nel mare”) la Marina militare invece di respingere (lo facevano, a nome nostro, navi italiane donate a Gheddafi) adesso aiuta a salvarsi.
E SUBITO arrivano messaggi di panico. Primo messaggio: “Hanno saputo che l’Italia accoglie e si imbarcano tutti”. Persino quando è in buona fede, questa frase è un messaggio insensato. Infatti, la gente salvata non sta arrivando in crociera. Non attraversa per settimane un deserto da cui molti non arrivano vivi, solo per un cambio di residenza. Dire che salvare chi è in pericolo in mare incentiva gli sbarchi è come dire che un ospedale incentiva la malattia.
Il secondo messaggio, che si ripete anche presso rispettabili fonti, è: “Vedete? Gli sbarchi quest’anno sono il doppio dell'anno scorso”. Come non ricordare l’impressionante sequenza di barche rovesciate e di morti in mare, l’anno scorso, fra l'indifferenza di Malta (che fingeva di non essere coinvolta), il caos libico e una inerzia italiana così evidente che barche private e pescatori uscivano spontaneamente in mare e, in un caso, sono state salvate (da italiani, non dallo Stato) oltre duemila persone? Qualunque statistico, sulla base del confronto e dell’esperienza, sarebbe in grado di dire che, se adesso il numero di salvati è più grande, la ragione è che adesso è molto più piccolo il numero dei morti annegati. Molta gente, prima, veniva lasciata morire. È bene ricordare che, ai tempi del governo Berlusconi-Bossi, salvare naufraghi in mare era reato. Poteva essere punito con l’imputazione di “mercanti di carne umana”. Ma la propaganda in favore dei morti in mare aggiunge un quarto messaggio: “I nostri centri di accoglienza sono allo stremo”. Qui si sommano un delitto e una grave negazione di verità. Il delitto è stato puntigliosamente compiuto dal governo Berlusconi-Maroni: hanno tolto ai centri tutto ciò che si poteva togliere per renderli invivibili. A Lampedusa, ad esempio, unico punto di salvezza per gli scampati alla polizia italo-libica, il solo centro di “accoglienza” nell’isola è stato del tutto smantellato. Ma la bugia è che si tratti di “centri di accoglienza”. Sono invece i famigerati centri di detenzione detti di “identificazione e di espulsione”, dove l'identificazione è impossibile (c’è solo lo sfortunato personale di guardia) e la detenzione non ha né termini né regole né garanzie precise. Dunque, alla politica leghista di negare il problema segue ora un’incredibile incapacità o non volontà di affrontarlo. In questa confusione colpevole, non si sa sulla base di quale “intelligence” un direttore generale del Viminale annuncia improvvisamente, nei giorni scorsi (se la sua dichiarazione è stata riportata correttamente) che sono in arrivo 800 mila profughi.
LA CIFRA ENORME non è nuova. È stata varie volte annunciata negli anni per consolidare la volontà italo-leghista di respingere. L’affermazione ricorda conversazioni occasionali (“magari ne arrivano 800 mila, magari ne arriva un milione”) ovviamente prive di fondamento, certo gravemente improprie, se dette da funzionari con alta responsabilità. Ma servono a ricordare il vuoto della nostra politica. “Ma non posiamo prenderli tutti”, è la frase più umana. È noto, e gli sbarcati lo ripetono continuamente, che la stragrande maggioranza di essi non vuole restare in Italia, sa e dice dove e presso chi vuole andare in Europa. Ma tutte queste indicazioni e notizie cadono nel vuoto.
Inutile dire “l’Italia viene lasciata sola”. Finora l’Italia non si è mai fatta sentire sulla linea dei diritti-doveri che legano i Paesi dell'Unione. Un Paese serio e rispettabile, oltreché adempiere ai doveri degli impegni sottoscritti con i partner europei, ha il diritto di esigere che il movimento dei migranti sia libero nella Ue, e che solo una autorità europea possa decidere l’espulsione, considerando la sacralità del diritto di asilo. L'Italia continua a non farlo, a fare la vittima e a produrre vittime. Tutto ciò è l’esito di una pessima politica mai cancellata. Fa apparire l’Italia un Paese stupido e crudele.

La Stampa 4.5.14
Ventimiglia, boom di migranti
In stazione tornano i passeur
Gli africani in fuga dai centri del Sud Italia arrivano la sera
Pagano 100 euro ma varcato il confine la Francia li respinge
di Carlo Giordano

qui
 

Corriere 4.5.14
Una strana campagna elettorale
Piccole patrie, Europa fiacca
Non cambia l’atteggiamento dell’Italia nei confronti delle elezioni europee, tra indifferenza e talk show
di Ernesto Galli Della Loggia

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Repubblica 4.5.14
Il ministro Pd Roberta Pinotti
“Italia pronta a intervenire in Ucraina”
E sugli F-35: “Basta parlare di tagli soltanto perché forse producono consenso”
intervista di Francesco Bei



DI FRONTE a quello che sta accadendo non possiamo e non vogliamo solo stare a guardare». È questa la premessa di Roberta Pinotti, ministro della Difesa italiano, riguardo all’escalation della guerra civile in Ucraina. Per ricondurla sui binari della diplomazia l’Italia getta per prima sul tavolo una proposta per raffreddare la crisi.
«SE DOVESSE servire - dichiara il ministro Pinotti - l’Italia è disponibile anche ad inviare un contingente di peacekeeper”.
Ministro, molti italiani temono in queste ore di essere alla vigilia di un nuovo conflitto europeo. Siamo a questo punto?
«La situazione è molto preoccupante e il governo non la sottovaluta. Non penso siamo alla vigilia di una guerra europea. Detto questo - e ne ho parlato anche con il ministro degli Esteri - non possiamo stare a guardare. Certo, senza agire da soli, ma attraverso l’Onu, la Nato e l’Unione europea».
Si potrebbero inviare delle forze di interposizione?
«Anche la Russia ha ammesso che i rivoltosi sul campo sono sfuggiti a ogni controllo. Noi italiani, insieme alla Germania, abbiamo finora lavorato per evitare che le sanzioni alla Russia dessero adito a una escalation difficile da controllare. Noi siamo disponibili a fare di più».
Caschi blu italiani?
«Nessuno ha avanzato questa richiesta, ma se dovesse servire dobbiamo essere disponibili anche a questo. Non dimentichiamoci che nel 2006 l’Italia è stata protagonista, in occasione della guerra tra Israele e Libano, inviando un forte contingente di interposizione. I nostri militari sono lì, fanno il loro dovere e da allora non ci sono stati più scontri. Recentemente ho incontrato le autorità libanesi che ci hanno ringraziato e ci chiedono di rimanere».
Ci dobbiamo preparare dunque a una nuova missione?
«Ancora non siamo a questo, parlare di invio di peacekeeper è prematuro, ma dobbiamo essere pronti. Al momento il nostro sforzo politico e diplomatico è quello di tornare indietro allo spirito dell’accordo di Ginevra».
Mai un sistema d’arma aveva infiammato il dibattito politico nel paese come il nuovo caccia F-35. Bisogna risalire alle manifestazioni degli anni Ottanta contro i missili Cruise e Pershing per ricordare un’ondata simile di opposizione. Come mai?
«In Italia, purtroppo, c’è ancora poca “cultura della difesa”. Per molti non è ancora chiaro che Difesa non significa voglia di aggredire. Difendersi significa proteggersi. E per farlo a volte occorrono anche delle armi sofisticate. Armi in grado, per esempio, di distruggere in sicurezza, da lontano, una base per prevenire il lancio di un missile contro obiettivi italiani.
Vanno bene le critiche, a patto di guardare cosa succede in Libia, in Siria, in Ucraina. I conflitti intorno a noi, purtroppo, esistono».
F-35 perché? È costoso, il software è tutto americano, non funziona bene. Le critiche tra gli esperti di difesa si sprecano. E non parliamo di pacifisti...
«Ogni sistema ha bisogno di tempo per essere sviluppato. Certo oggi questo aereo sembra diventato il simbolo del male, ma mi sembra che ciò sia dovuto soprattutto alla campagna elettorale in corso. Come se lo avessimo scoperto adesso! Il programma del nuovo caccia parte nel 1998 e sarà portato a compimento soltanto nel 2030. Ma prima di parlare di F-35, di quanti ne dobbiamo acquistare, noi abbiamo deciso di partire da un approccio nuovo, il Libro Bianco: ci dirà quali minacce dovrà affrontare l’Italia e quali mezzi di difesa serviranno”.
Intanto si è parlato di un dimezzamento, da 90 a 45, del piano di acquisto degli F-35.
Conferma?
«Non confermo e non smentisco, semplicemente ribadisco che non sarebbe serio dare numeri ora. Non escludo che il JSF si possa ridurre, lo hanno già fatto altri Stati. Servono tuttavia analisi strategiche su cui basare le nostre esigenze, non possiamo parlare solo di tagli perché forse producono consenso».
Tagli alle spese militari comunque ne farete?
«Il Sipri - Stockholm International Peace Research Institute - ha fatto un’analisi della spesa militare degli ultimi dieci anni ed è venuto fuori che l’Italia ha ridotto il suo budget del 26 per cento, contro un 6,4 della Francia e il 2,5 della Gran Bretagna. Possiamo ancora ridurre. Da qui al 2024 gli effettivi passeranno da 190 a 150 mila, i civili da 30 a 20 mila, ci sarà una riduzione del 30 per cento degli ufficiali. Abbiamo individuato oltre 380 caserme da chiudere e 1500 cespiti militari da mettere a disposizione della comunità. Nessuna altra amministrazione ha fatto altrettanto”.

Repubblica 4.5.14
Napoli - Fiorentina
“Se non si gioca qui sarà un inferno”
Le pressioni della questura contro il rinvio
di Carlo Bonini



ROMA. SEQUESTRATA dai colpi di una calibro 7.65, la finale di Coppa Italia, nelle due ore che la precedono, è la messa in scena di un mondo capovolto. Si gioca con un giovane uomo in fin di vita sotto i ferri della chirurgia d’urgenza per un proiettile nella colonna vertebrale.
PERCHÉ - così convengono già intorno alle 19.30 il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro e il questore Massimo Mazza - affidare alla notte di Roma 60mila fiorentini e napoletani orfani di calcio, gonfi del passaparola delle curve che nulla sanno di
ciò che è accaduto in un vivaio di viale di Tor di Quinto, significa consegnarsi al peggio. A una notte da incubo. «La “riduzione e la prevenzione del danno” è una regola dell’ordine pubblico», osserva un funzionario della Polizia di prevenzione in servizio all’Olimpico quando, intorno alle 20, riceve conferma dalla Questura che indietro non si torna. Meglio, che «nessuno ha mai pensato di non dover giocare. Anche perché questi qui chi li tiene? Si gioca, sì. A meno che lo stadio, per qualche ragione, non diventi una bolgia».
In questa verità c’è il senso del ricatto e della paura che per centoventi minuti imprigiona tutti. E di cui non solo tutti si dimostrano consapevoli, ma che impone un rito cui tutti aderiscono per “necessità”. E perché al peggio si fa il callo, soprattutto se ha un’infinita serie di precedenti. Alle 21, il presidente del Consiglio Matteo Renzi arriva comunque in tribuna con moglie e figli, e qui confabula con i presidenti di Napoli e Fiorentina, De Laurentis e Della Valle. In tribuna è anche il presidente del Coni e sono le massime autorità sportive e della Lega per le quali «che si giochi non è in discussione». Con un caveat. Guadagnare il tempo necessario ad ammansire la rabbia della curva napoletana. La Lega conviene dunque con la Questura che la partita possa cominciare con 45 minuti di ritardo, perché alle spalle della Monte Mario si consumi un “vertice” tra i capi delle tifose- rie napoletane e fiorentine in cui la Digos le renda edotte di cosa è accaduto nel pomeriggio e le convinca che, allo stato delle indagini, il tentato triplice omicidio del pomeriggio non ha la mano “viola”.
Il rito di degradazione prevede anche e naturalmente la passeggiata in diretta tv di Hamsik sotto la curva Nord che ospita il tifo napoletano. E per lunghi minuti il suo confabulare umiliante, spalle al muro, con il capo-tifoso in t-shirt nera “Speziale libero. Libertà per gli ultras” appare il calco esatto di altre sequenze. Di altri capitifosi vocianti e gesticolanti a cavalcioni sulle balaustre con in mano le chiavi di una partita. Padroni di farle cominciare, sospenderle, rinviarle. Era successo in questo stesso stadio il 21 marzo del 2004, quando il derby Roma-Lazio diventò faccenda privata delle due curve, che ne imposero il rinvio per un bambino dato per morto, ma che morto non era. Era accaduto a Genova, nell’ottobre del 2010, con Ivan Bogdanov l’orco serbo in passamontagna durante la partita di qualificazione agli Europei dell’Italia. E ancora a Marassi, due anni dopo, con la sospensione di Genoa-Siena e l’imposizione della consegna disonorevole delle maglie dei giocatori rossoblù alla Curva che ne aveva bollato lo scarso agonismo in campo.
«Per noi si gioca», ripete ancora la Questura quando manca un minuto alle 21. «A meno che le autorità sportive non decidano altrimenti». «Per quanto ne sappiamo, si gioca», spiega una fonte qualificata del Dipartimento di pubblica sicurezza pochi istanti dopo, segnalando che il Viminale, in quanto sta accadendo in diretta tv non ha avuto, né avrà voce in capitolo. Perché non intende farlo, «perché esistono delle norme secondo cui le decisioni di ordine pubblico in una manifestazione sportiva allo stadio Olimpico, spettano all’autorità di pubblica sicurezza di Roma, questore e prefetto e, per quanto riguarda gli aspetti sportivi a quelle della Lega».
Del resto, per due lunghe ore, nessuno ha chiesto al questore, al prefetto o al Viminale qualcosa di diverso che non fischiare il calcio di inizio. Anche perché un incubo chiama l’altro. E tra le 20 e le 21, quello che si agita e fa capolino nel passaparola dello stadio, nelle informazioni frammentarie che la Questura si precipita a smentire e raffreddare, è che sulla giostra violenta di questa serata maledetta possano a un certo punto salire gruppi di ultrà della Roma pronti a una resa dei conti con gli odiati napoletani fuori dallo stadio, durante il deflusso.
«Si gioca perché questo renderà più semplice tenere separate le due tifoserie - spiega un funzionario della Questura - Alla fine della partita, chi avrà vinto resterà nello stadio per assistere allo spettacolo dei festeggiamenti. Chi avrà perso si avvierà immediatamente ai pullman e ai treni». Così è dunque.
Napoli e Fiorentina giocano con il semaforo verde di questore, prefetto, curve. La finale di coppa Italia, alla fine, è e si conferma faccenda di ordine pubblico. Vince il Napoli 3-1 e il capobastone che ha detto “si” ad Hamsik alle 21.30, alle 23.54 da il là all’invasione di campo. Lo “speaker” del Napoli implora di liberare il campo per la premiazione. Nel settore del tifo viola si canta “Vesuvio lavali, lavali con il fuoco”. Un giovane uomo con un proiettile nella colonna vertebrale non si sa ancora se ce la farà.

La Stampa 4.5.14
Ultimo stadio
di Massimo Gramellini

qui

La Stampa 4.5.14
Il sociologo De Masi
“Fermiamo il calcio per risanare l’Italia”
intervista di Giacomo Galeazzi


«Gli ultras che mettono a ferro e fuoco le città sono figli degeneri di una società senza punti fermi. Ormai le tifoserie calcistiche inscenano senza sosta una guerra civile simulata». Il sociologo Domenico De Masi analizza le «tensioni impellenti che trasformano le partite di calcio in un campo di battaglia». E lancia una proposta-choc: «Fermiamo il pallone per un po’ di anni e intanto risaniamo il tessuto dell’Italia».
Professore, da cosa nasce la follia ultras?
«L’assenza di positivi modelli di vita fa prosperare la forma scadente di identificazione dei tifosi mentre i mass media ne diventano la cassa di risonanza. I gesti più sconsiderati finiscono sotto i riflettori. I nuovi barbari diventano come i protagonisti del Grande Fratello o dei quiz televisivi. Così il tifo prende il posto dei valori elevati e la fauna dei disadattati da “curva sud” trovano nell’agonismo un fenomenale meccanismo moltiplicatore dei peggiori istinti».
Quale dinamica scatta?
«Negli stadi il calcio innesca un malessere di massa. Dilagano movimenti collettivi che non si esprimono più in chiave costruttiva nelle idealità collettive bensì nel marasma avvelenato delle opposte barricate e del tutti contro tutti. Dobbiamo assumerci le nostre responsabilità Da napoletano, poi, mi addolora un altro fattore in questa dinamica».
A cosa si riferisce?
«Purtroppo, in un momento di fortissima crisi, nella tifoseria partenopea si riversano le tensioni di una metropoli, di una nazione e del Mediterraneo. Di fronte a questa società, siamo tutti poveri. È una decadenza autodistruttiva e al declino economico si accompagna quello di una cultura».
Di chi è la colpa?
«Nessuno fa niente. Intanto sui disvalori degli ultras si fonda uno stile di vita fallimentare. Ho una proposta per il governo. Basta con i campionati di calcio. Sospendiamo il circo affaristico-sportivo per un paio d’anni e risolviamo innanzitutto il problema culturale. Anche nel passato ci sono state situazioni disastrose ma almeno c’erano punti fermi: fino all’illuminismo, quasi tutti di carattere religiosi. Poi i riferimenti divennero prevalentemente laici: si sapeva cosa si poteva fare e cosa no».
Adesso cosa accade?
«La nostra società è la prima della storia umana che è nata prima di avere un modello. Per cambiare il presente prima dobbiamo conoscerlo. Ho ricostruito 15 modelli del passato. E il risultato è sconfortante, impietoso. Quella dell’antica Roma è una civiltà terminata da millenni eppure ha lasciato dietro di sé lingua, usi, consumi. E invece per l’Italia contemporanea dei tifosi che devastano le città abbiamo una certezza: è lo zero assoluto. Le tifoserie calcistiche (in guerra permanente tra loro e col mondo esterno) producono solo macerie e vuoto totale. Non rimarrà nulla».

l’Unità 4.5.14
Zeev Sternhell
«Apartheid già presente in Israele»
A 68 anni dalla nascita dello Stato ebraico il più autorevole storico avverte: «Nella società si sta affermando il revisionismo sionista da popolo eletto»
«Se il palestinese o l’arabo israeliano vuol essere “tollerato” deve accettare la propria inferiorità»
di Umberto De Giovannangeli


Il grande storico guarda con amaro realismo il presente del suo Paese, analizza con la consueta passione civile e lucidità intellettuale le dinamiche, non solo politiche ma culturali, identitarie, che segnano oggi Israele, a pochi giorni dal68moanniversario della sua fondazione. La parola a Zeev Sternhell, 79 anni, il più autorevole storico israeliano. Tra le sue opere, ricordiamo «Nascita d’Israele. Miti, storia, contraddizioni”; «Nascita dell’ideologia fascista»; «Contro l'illuminismo. Dal XVIII secolo alla guerra fredda», editi in Italia da Baldini Castoldi Dalai. Nel 2008, è stato insignito della più prestigiosa onorificenza culturale e scientifica del suo Paese: il Premio Israele per le Scienze politiche. Più che un j’accuse contro l’attuale classe dirigente israeliana, Sternhell pone l’accento sulla «psicologia di una nazione», il suo senso comune, in rapporto all’annoso tema della pace. «Oggi – riflette lo storico – non vi è alcun segnale che indichi la volontà, oltre che la capacità, di forgiare una maggioranza a sostegno di un accordo equo con i palestinesi”. Quanto alla richiesta reiterata più volte dal premier Benjamin Netanyahu al presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen) di riconoscere Israele come Stato ebraico, Sternhell annota: «Avanzare questa richiesta significa pretendere che i palestinesi ammettano la loro sconfitta storica e riconoscano la proprietà esclusiva degli ebrei del Paese. Ciò che si chiede loro è rinnegare la loro identità nazionale, accettando una resa storico- culturale prim’ancora che politica».
Professor Sternhell, i negoziati di pace israelo-palestinesi sono di nuovo a uno stallo, in un rimpallo di responsabilità tra le due parti. Visto da un intellettuale come lei, da sempre impegnato nel dialogo, qual è il segno di questa ennesima battuta d’arresto?
«Il segno dei tempi, il segno di un arretramento culturale prim’ancora che politico che non riguarda solo l’attuale classe politica, alquanto modesta, del mio Paese. Ciò che mi preoccupa di più è l’idea di “pace” che oggi permea trasversalmente Israele, una idea diventata senso comune per la maggioranza dell’opinione pubblica. È qualcosa di più e di più grave di una idea di pace a costo zero. È la convinzione che l’unica pace accettabile è la resa incondizionata dei palestinesi. Vede, se si chiede a un cittadino medio israeliano se è per la pace o per la guerra, le risponderà pronto che lui vuole la pace. Ma la “psicologia di una nazione” emerge quando si scava nell’idea di pace. È qui che si nasconde l’arretramento”.
Qual è la «pace» giusta per lei?
«È quella che non può fare a meno di un concetto fondamentale: la giustizia. Una pace senza giustizia è un esercizio retorico destinato a un misero fallimento. Ma la giustizia, in questo caso, è tale se riconosce e rispetta i diritti di tutti e non solo di chi esercita il monopolio della forza. Vede, nel mio Paese chi si considera di sinistra evoca spesso la necessità di battersi perla giustizia sociale. Ma come è possibile realizzare la giustizia sociale senza definire la giustizia come un valore universale? Quali sonoi confini della giustizia e della sua attuazione? Questo ci riporta all’occupazione. La giustizia non è solo il diritto a un alloggio decente per gli ebrei, è anche il diritto alla libertà perun popolo che vive sotto occupazione. Prima che in politica, la sinistra ha perso la sua battaglia nel campo della cultura, del confronto di visioni. A 68 anni dalla nascita d’Israele, ad affermarsi sembra essere il revisionismo sionista di Jabotinsky, quello che affida a Israele una sorta di ruolo “messianico”, da popolo eletto; una idea per cui a essere centrate è “Eretz Israel”, la sacra Terra d’Israele piuttosto che “Medinat Israel”, lo Stato d’Israele. In questa visione lo Stato non esiste per garantire la democrazia, l’uguaglianza, i diritti umani o anche una vita dignitosa a tutti; esiste per garantire il dominio ebraico sulla Terra di Israele e per assicurarsi che nessuna entità politica supplementare è qui stabilita. Tutto è ritenuto lecito per raggiungere tale fine e nessun prezzo è considerato troppo elevato. Ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con la “modernità”. Inesorabilmente Israele si sta trasformando sempre più in una entità anacronistica». 
C’è chi paventa il rischio che proseguendo l’occupazione, Israele possa trasformarsi in uno «Stato di apartheid».
«Non si tratta di un rischio, è qualcosa che già si sta determinando nella realtà quotidiana, negli atti compiuti dalle autorità, e nella percezione di sé e dell’altro che ne è il tratto ideologico: l’idea per cui se il palestinese, o l’arabo israeliano, vuol essere “tollerato” deve accettare la propria inferiorità. Quello che così facendo si è creato è un “popolo di espropriati”. Espropriati non solo delle loro terre ma della loro identità, del loro essere più profondo. La strada per il Sudafrica è stata pavimentata e potrà essere smantellata solo se il mondo libero, l’Occidente, porrà Israele di fronte a un aut aut…». Quale? «Fermare l’annessione e smantellare la maggior parte delle colonie e lo Stato dei coloni o essere un emarginato».
A proposito dello “Stato dei coloni”. Fuori e dentro Israele è aperto da tempo un dibattito sul boicottaggio dei prodotti che provengono dagli insediamenti. Lei ha affermato in passato che questo boicottaggio non può essere considerato come una forma di antisemitismo. È ancora di questo avviso?
«Assolutamente sì. Il boicottaggio è soprattutto un modo civile, non violento ma concreto, per protestare contro il colonialismo e l’apartheid prevalente nei Territori».
Una tesi condivisa da molti intellettuali israeliani.
«È bene che sia così. Ed è un bene per Israele, per la sua immagine nel mondo. Gli intellettuali sono i migliori ambasciatori del sionismo, ma rappresentano la società israeliana, non la realtà coloniale. Pensano che calpestare i diritti dei palestinesi in nome dei nostri diritti esclusivi per la terra, e in virtù di un decreto divino, contamina la storia ebraica di una macchia indelebile». Lei afferma che gli intellettuali sono i “migliori ambasciatori” del sionismo. Ma c’è chi vede proprio nel sionismo la radice ideologica e l’esperienza politica “fatta Stato” che è alla base dell’espansionismo israeliano. «No, non è così. Questa è una caricatura del sionismo o, comunque, ne è una traduzione politica strumentale, in alcuni casi funzionale ad ammantare di idealità positiva una pratica intollerabile. Il sionismo si fonda sui diritti naturali dei popoli all’autodeterminazione e all’autogoverno. Questi diritti naturali dei popoli valgono per tutti, inclusi i palestinesi. Come le ebbi a dire in una nostra precedente conversazione, resto fermamente convinto che il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole negare ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli perse stesso soltanto. Purtroppo, la realtà dei fatti, ultimo in ordine di tempo il moltiplicarsi dei piani di colonizzazione da parte del governo in carica, confermano quanto da me sostenuto in diversi saggi ed articoli, vale a dire che gli insediamenti realizzati dopo la guerra del ’67 oltre la Linea verde rappresentano la più grande catastrofe nella storia del sionismo, e questo perché hanno creato una situazione coloniale, proprio quello che il sionismo voleva evitare. Da questo punto di vista, per come è stata interpretata e per ciò che ha innescato, la Guerra dei Sei giorni è in rottura e non in continuazione con la Guerra del ’48. Quest’ultima fondò lo Stato d’Israele, quella del ’67 si trasformò, soprattutto per la destra ma non solo per essa. Da risposta di difesa ad un segno “divino” di una missione superiore da compiere: quella di edificare la Grande Israele”.

l’Unità 4.5.14
La regina surrealista
L’arte di Dora Maar, che viaggiò nell’incoscio senza scafandro
Omaggio a Venezia alla donna che surclassò Ray e Matisse
Non solo «amante di Picasso» ma un’artista di rivelazioni sorprendenti che vedeva solo l’onirica bellezza
di Giuseppe Montesano


IL FOTOGRAFO PIÙ SURREALISTA? NON SI CHIAMA MAN RAY, SI CHIAMA DORA MAAR. E NON SONO ESAGERAZIONI FATTE PER«ÉPATERLE LECTEUR»: se qualcuno andrà a farsi una passeggiata a Palazzo Fortuny a Venezia a vedere la mostra di Dora Maar aperta fino a luglio, o se farà una passeggiata in libreria per procurarsi il catalogo che Skira dedica alla mostra, e che si intitola Dora Maar. Nonostante Picasso, curato da Victoria Combalìa, potrà giudicare da solo. Lei si chiamava in realtà Henriette Theodora Markovitch, ed era nata da Joseph Markovitch, figlio di una domestica e di un padre di origine ignota, che forse era l’uomo dove la domestica era stata a servizio: ma il padre di Dora, che aveva sposato Julie Voisin, nonostante fosse figlio di una domestica, divenne un architetto importante, costruì molto in Argentina e accumulò una discreta fortuna.
E lei? Lei studiò pittura, poi passò alla fotografia, conobbe Cartier-Bresson, Man Ray, Brassai, Eluard, Buñuel, l’ambiente di Montparnasse anni Trenta: e soprattutto scattò una serie di fotografie memorabili. Una di esse è una fotografia di moda, a dimostrazione di quanta finesse si sia perduta dagli anni Trenta a oggi: la foto raffigura una barchetta sulle onde, ma le onde, a guardarle meglio, sono capelli: l’effetto è stupefacente e volage, bellissimo, come nelle sorprese di alcuni collages di Max Ernst. E negli stessi anni Trenta compaiono il fotocollage 29, rue d’Astorg, mirabile precorrimento del miglior Contemporaneo e imparentato con MaxErnst; compare la teneramente erotica e incantata foto di una mano-conchiglia, morbidamente in attesa di una rivelazione: è Sans titre; e compaiono tre capolavori: Vieille femme et enfant detta anche Le Pisseur, Le Simulateur, e Sans titre detta anche Onirique. Vieille femme et enfant raffigura un bambino che fa pipì, di spalle, vicino alla gonna di una donna anziana, allagando il pavimento di un salone elegante con una informe e immensa materia acquosa: la fotografia sembra davvero il più superbo commento a un celebre passo di Freud sui sogni, ma in una maniera che è altamente inquietante se e estremamente poetica; Le Simulateurè invece un gioco di curve e deformazioni ottiche in cui un bambino coi calzoncini corti si piega come se piegandosi riuscisse a far piegare i muri intorno a lui: o forse sono i muri che piegandosi come in sogno piegano il bambino; e c’è poi Onirique: in una sala quasi da castello di un romanzo gotico, di quelli che piacevano ad Artaud e a Breton, c’è sul fondo una goffissima statua che in realtà è una modella di carne vestita da statua: in primo piano un adolescente dall’aria impenetrabilmente perversa tiene stretto un altro adolescente piegato sulla sua spalla, a testa in giù: la testa è un perfetto Francis Bacon in anticipo, chiusa in un grido non mostrato che la imbavaglia: un grande fotografo come Man Ray non ha mai sfiorato la potenza surreale di queste immagini. Ma la Maar era capace di portare il surreale nella moda e di praticare il surreale alla Magritte senza trascurare altre visioni: i ritratti della figlia di Breton, Aube; della moglie del poeta Eluard, Nusch; e quello di Leonor Fini, di Jean Cocteau, di Jean-Louis Barrault. E le foto di strada: di mendicanti, ciechi, poveri, foto che sembrano precorrere pose e maniere di fotografi successivi, ma con una capacità di estendere e differenziare lo sguardo-scatto che a tratti sembra dilettantesca nel suo continuo variare ma che a guardare meglio si rivela semplicemente polimorfa: attenta all’umano, con quel desiderio di verità che non diventa mai crudele e si manifesterà in Dora anche nella lotta pratica contro la povertà e nell’impegno politico comunista. E ancora le foto di studi e opere di artisti: di Giacometti, e naturalmente di Picasso, che fu amante della Maar per qualche travolgente anno e poi la lasciò in malo modo: con le foto del ritratto di Picasso intensissimo con gli occhi neri che bucano la carta o in costume da bagno con il cranio di mucca sulla testa, e le foto dei vari stadi di Guernica.
Poi la Maar fu rinchiusa in una clinica per malattie mentali, dove ebbe crisi mistiche, crisi d’amore tradito, ritornò a dipingere, ritornò a ritoccare i suoi negativi degli anni Trenta, e dove, soprattutto, nascose e tenne al riparo un’interiorità scorticata: e in clinica, o se si vuole manicomio, morì a novant’anni, nel 1997, tra necrologi che ne facevano solo l’amante di Picasso, la tradita da Picasso e la scema del villaggio artistico. Noi preferiamo dimenticare Picasso, almeno per questa volta, e lasciare che sia lei a salire sulla scena, la Dora Maar grande fotografa, la Dora Maar artista: la Dora che forse viaggiò troppo nell’inconscio senza scafandro, la Dora che troppo visse non volendo vedere se non l’onirica bellezza delle rivelazioni sorprendenti, la Dora che, nonostante Picasso e nonostante tutto, riuscì a portare a compimento, in un pugno di scatti e in pochissimi anni, quello che molti non portano a compimento in una vita intera: vedere con occhi diversi.

«Per un lungo periodo, ho partecipato alle sedute collettive del professor Fagioli. In quel mentre, Fagioli, in maniera diversa, ha collaborato a tre miei film Diavolo in Corpo, La Condanna, che vinse l’Orso d’Argento a Berlino, e Il Sogno della Farfalla. È stata un’esperienza di tipo radicale e, conclusa la terapia, si è interrotto anche il nostro rapporto personale. Rimane il sentimento di aver vissuto un’esperienza molto preziosa».
l’Unità 4.5.14
Marco Bellocchio pittore per caso
Parla il regista: oggi non dipingo più ma disegno gli storyboard dei miei film
Premiato al Festival di Lecce, i suoi disegni e dipinti sono esposti in una mostra
Intanto il Moma di New York festeggia i suoi 50 anni di carriera
intervista di Paolo Calcagno


LO SCETTRO DEL FESTIVAL DEL CINEMA EUROPEO È STATO CONSEGNATO A MARCO BELLOCCHIO. Il prestigioso riconoscimento cade a un anno dal cinquantenario del capolavoro I Pugni in Tasca (peraltro, il protagonista Lou Castel è nella giuria dei film in concorso al Festival) e premia l’opera di un regista che molti considerano, assieme a Bernardo Bertolucci, l’ultimo grande talento del Cinema italiano, dopo la generazione dei Fellini, Antonioni, Pasolini, Rosi, certo il più anticonformista e, visivamente, il più raffinato. In occasione dell’attribuzione dell’«Ulivo d’argento», il direttore del Festival Alberto La Monica ci ha sorpreso piacevolmente con la mostra, al Museo Storico, di una sessantina tra disegni e dipinti del regista piacentino, accoppiata alla presentazione del bel volume Morale e Bellezza che accompagna i 18 film di Marco Bellocchio in rassegna, fino a giugno, al Moma di New York.
«Smisi a vent’anni, quando andai a Roma, al Centro Sperimentale di Cinematografia – ha commentato Bellocchio -. Avevo dipinto carri funebri senza cavalli, angoscia senza colori, madri in carrozzina coi capelli corti (sono ancora donne?), ma anche Arlecchino al chiaro di luna, violinisti verdi e bambini nel giorno della prima comunione. Munch, Chagall, alcuni interpreti dell’espressionismo tedesco, erano le fonti d’ispirazione di questa mia disperazione un po’ compiaciuta, ma anche molto motivata. Ero influenzato anche dalle letture di Dante, Dostojewskj, Brecht, del Doctor Faustus di Thomas Mann, e da film come Il Gabinetto del Dottor Caligari, Nosferatu, Metropolis. Il passaggio al cinema, per me, fu quasi naturale. Non è che abbia rinunciato alla pittura: quei quadri non hanno valore in sé, ma vanno allacciati al mio lavoro cinematografico. Nel film L’Ora di Religione, quando Sergio Castellitto dipinge, ho ricordato quell’attività interrotta. In altri film, specie gli ultimi, da Buongiorno Notte a Vincere, ho cercato di spingere il realismo alle forme dell’espressionismo tedesco: Otto Dix, George Grosz. Non ho più avuto voglia di rimettermi davanti a un cavalletto, ma contino a disegnare gli storyboard dei miei film: i colori e le forme mi sono utili, in prospettiva, per arrivare alle immagini che ho in testa. In questo senso, la mostra non è separata dal mio percorso di regista”.
Fin da «I Pugni in Tasca», il suo «Cinema del dissenso» ha avuto, quasi sempre, per bersaglio la famiglia. «Morale e Bellezza», che riconducono ai suoi film, sono concetti riproponibili anche oggi?
«Quelli trascorsi in famiglia sono gli anni in cui si gioca la vita. Io li ho vissuti in modo burrascoso, se non traumatico. Se la mia vita familiare fosse stata più serena, se ci fosse stato più amore, forse mi sarei dedicato ad altri temi. Il concetto di moralità è molto legato alla formazione del mio tempo: allora, sia che fossimo cattolici, sia che venissimo da un’educazione laica, aveva un peso maggiore. Allora, l’utopia di cambiare il mondo aveva una sua ragione. Oggi, la politica non aspira più a cambiare la società. Però, mi colpiscono l’attenzione e le reazioni dei giovani quando rivedo con loro I Pugni in Tasca: è successo anche con gli americani alla mostra del Moma. Penso che, sebbene si viva diversamente in famiglia, un certo tipo di furore sia ancora presente. Chiaro, oggi i giovani sono attaccati ai tablet, ai loro giochini interminabili, ma riescono, comunque, a percepire i valori universali. C’è un Cinema italiano nuovo e vivo. Per esempio, Salvo, di Fabio Grassadonia ed Antonio Piazza, girato con pochi soldi, ma con maestria. E non è il solo: ci sono altri film di alto livello, firmati da registi giovani».
Quanto è stata importante la collaborazione con il famoso psicanalista Massimo Fagioli?
«Per un lungo periodo, ho partecipato alle sedute collettive del professor Fagioli. In quel mentre, Fagioli, in maniera diversa, ha collaborato a tre miei film Diavolo in Corpo, La Condanna, che vinse l’Orso d’Argento a Berlino, e Il Sogno della Farfalla. È stata un’esperienza di tipo radicale e, conclusa la terapia, si è interrotto anche il nostro rapporto personale. Rimane il sentimento di aver vissuto un’esperienza molto preziosa».
Qual è il limite del compromesso per il cinema d’autore?
«Sono particolarmente legato ad Antonioni, Bresson, la “Nouvelle Vague” francese, il “Cinema Novo” brasiliano, che hanno saputo raccontare le storie in forme affascinanti. Ma quelli erano anni di grandi novità, in cui le cose stavano cambiando molto. Io ho cercato di rispondere con la mia fantasia a ciò che mi aveva colpito, intorno a me. Si, penso che ci sia un limite al compromesso: se lo valichi, distruggi la tua opera. Antonioni in Deserto Rosso e Fellini ne La Strada hanno utilizzato i divi Richard Harris e Anthony Quinn ed è stato un successo in tutti i sensi. Anche il successo del cinema d’autore deve passare dal botteghino, ne sono convinto».
Pensa ancora che gli americani non possano capire il Cinema italiano, come sostenne due anni fa, alla Mostra di Venezia, quando «La Bella Addormentata” fu esclusa dai premi?
«Non generalizziamo, allora risposi a un’attrice americana in giuria che accusò il cinema italiano di non saper fare film universali. Replicai che era una stupidaggine. Recentemente, Martin Scorsese ha citato il mio Vincere, La Grande Bellezza di Sorrentino e Gomorradi Garrone, come esempi di film universali. C’è un problema di limitazione di distribuzione dovuto alla lingua: è vero. Ma se essere universale significa essere alla moda, o andare al passo coi tempi, si rischia di sconfinare in un attualismo stupido e superficiale».
A che punto è «La Prigione di Bobbio», storia piccante di un’aristocratica costretta alla clausura?
«Sul prossimo film non anticipo niente perché stiamo valutando più di un progetto. Occorre pazientare».

La Stampa 4.5.14
Weber, l’infanzia liberale del leader carismatico
Nasceva 150 anni fa il sociologo tedesco che definì alcuni concetti della politica ancora oggi cruciali
L’attualità della sua concezione religiosa
di Gian Enrico Rusconi


1919-1933 La Repubblica di Weimar fu il primo tentativo di stabilire una democrazia liberale in Germania all’indomani della sconfitta nella Prima Guerra Mondiale. La stagione di Weimar si concluse nel 1933 con l’ascesa al potere di Hitler

«La politica come professione», «il capo carismatico», «l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità» , «L’etica protestante e lo spirito del capitalismo», «la razionalità come essenza dell’Occidente» . A chi non capita oggi, in una dotta conversazione anche tra amici, di usare queste espressioni, sicuro di trovare approvazione? E’ l’eredità intellettuale di uno dei «classici» della scienza politica, della sociologia, della storia del secolo passato – Max Weber.
Di lui si ricorda in questi giorni il centocinquantesimo della nascita. Il rito degli anniversari si presta a due operazioni. O è un ripasso di citazioni. O offre l’occasione di rivisitare qualche punto critico per verificarne la forza analitica, ancora oggi.
Cominciamo dalla politica. Weber coltiva un realismo politico che non lascia spazio a quella enfasi sulla «società civile», sui concetti di «cittadinanza» e di «partecipazione democratica» che è caratteristica del nostro tempo. La democrazia per lui è sostanzialmente un meccanismo di governo di interessi che richiedono una guida, un leader (ovvero con il termine tedesco storico, che alle nostre orecchie suona sinistro, un Führer). Il leader naturalmente deve essere espresso da meccanismi elettivi: «Un Parlamento forte e partiti parlamentari responsabili devono fungere da luoghi di selezione e di prova dei capi delle moltitudini come reggitori dello Stato». Ma il capo è tale soltanto se possiede il «carisma», se possiede doti di attrazione, consenso e «seduzione di massa». Si deve proprio a Weber l’utilizzo definitivamente positivo di questo concetto in politica, anche se ha ambigue componenti di tipo «demagogico».
E’ facile vederne oggi il potenziale pericoloso (la Führerdemokratie, che alcuni studiosi italiani traducono con imbarazzo oscillando tra «democrazia autoritaria» o «democrazia guidata»). Non c’è dubbio alcuno però che Weber, convinto liberale, non coltivasse alcuna tendenza autoritaria. Pensava ad una sorta di democrazia presidenziale che, lui vivente, si sarebbe potuto instaurare in Germania dopo la prima guerra mondiale. La scomparsa prematura (1920) di Weber gli ha impedito di verificare se la sua ipotesi avesse contribuito a portare alla crisi la democrazia tedesca, per l’abuso delle competenze presidenziali della Costituzione weimariana, aprendo le porte al Führer per antonomasia.
A questa problematica è dedicato il saggio La politica come professione. Solidamente inquadrate in un’etica politica (distinta tra convinzione e responsabilità), ancorate ad una robusta idea di professione/vocazione (di lontana matrice religiosa) le tesi weberiane sono esenti da ogni sospetto di tendenze fascistoidi o autoritarie o populiste (come diciamo noi oggi). Si può obiettare che la lezione weberiana rimane sostanzialmente di ordine etico, senza che abbia trovato una chiara formula politico-istituzionale. Ma come negare che di fatto oggi le democrazie più efficienti sono quelle che hanno esecutivi guidati da personalità che contano su forti competenze istituzionali e posseggono capacità decisionali? Che godono di un consenso di massa che utilizza anche spregiudicatamente il sistema mediatico (ignoto a Weber)? Insomma in qualche modo sono capi carismatici?
Certo: contro ogni deriva o tentazione populista vale la raccomandazione che il vero leader sa contemperare la determinazione all’azione che gli deriva dalle sue convinzioni con l’etica della responsabilità verso la pluralità degli interessi che deve governare. Compreso un oculato calcolo delle conseguenze non previste delle sue decisioni.
Questo ci porta ad alcune considerazioni sull’altra tesi che fonda il pensiero di Weber: la razionalità o il razionalismo come tratto caratterizzante, anzi come «essenza» dell’Occidente. Alcune sue pagine sembrano l’apoteosi del razionalismo occidentale, che trova la sua realizzazione nello Stato moderno, dotato di una costituzione razionalmente promulgata, di un diritto razionalmente costituito, di un’amministrazione di funzionari specialisti, affiancato dalla scienza della politica e dalla organizzazione capitalistica dell’economia, che è definita «la potenza più fatale» dell’Occidente.
Weber naturalmente vede i lati negativi di questa costruzione. Da un lato la burocratizzazione del sistema che lo riduce ad una paralizzante «gabbia d’acciaio» e dall’altro la subordinazione della logica del capitalismo ad una visione e ad una pratica predatoria, mentre l’economia produttiva reale lascia il posto alla mera speculazione finanziaria. E’ l’esito che abbiamo sotto i nostri occhi.
Ma a questo punto dobbiamo allargare il discorso sull’idea di razionale e di razionalità che percorre il pensiero weberiano – dalla politica, all’economia, alla religione. La razionalità infatti convive sempre con il suo opposto, con l’irrazionalità. L’irrazionale è il polo di rimando del razionale e allo stesso tempo ciò che, nel suo nucleo profondo, è ad esso irriducibile. Esprime «la vita», nel cui ambito si genera l’elemento carismatico, profetico, demoniaco e l’erotico – tutte potenze attive e positive dell’esperienza vitale.
Il testo che tratta questa problematica è la Considerazione intermedia (nella Sociologia delle religioni) dove l’esistenza umana è presentata come un insieme di sfere vitali in conflitto tra di loro, perché ciascuna segue una sua propria logica specifica. Così è per la sfera dell’etica religiosa che entra in tensione con la sfera dell’economia e della politica che è la depositaria del monopolio dell’uso legittimo della forza. Ma non meno drammatica e radicale è la tensione tra la sessualità e l’etica della fratellanza, tra la sfera erotica e quella della religione. L’erotismo in particolare appare come una forza di rottura irresistibile verso l’irrazionale, «una porta verso il nucleo più irrazionale e insieme più reale della vita». Ma è nella sfera religiosa che si consuma il contrasto più radicale. «Con la crescita del razionalismo della scienza empirica la religione viene progressivamente cacciata dal regno del razionale nell’irrazionale e diventa la potenza irrazionale e antirazionale sovrapersonale tout court».
Sono frasi forti, un po’ enigmatiche nella loro perentorietà. Ma offrono uno sguardo enormemente più penetrante dei dibattiti oggi correnti sulla secolarizzazione o viceversa sul «ritorno delle religioni», sulla potenza dei nuovi carismi comunicativi delle personalità religiose. Il Weber studioso del fenomeno religioso si conferma intellettualmente stimolante come e più dello studioso del razionalismo capitalistico o della politica. Meriterebbe maggiore attenzione anche nel discorso pubblico e pubblicistico.

La Stampa 4.5.14
“Protestantesimo e capitalismo. Galeotta fu la Roma cattolica”
Il biografo tedesco: colse il nesso nel suo soggiorno italiano
intervista di Tonia Mastrobuoni


Dirk Kaesler II sociologo dell’Università di Marburg ha appena pubblicato una monumentale biografia di Weber

È uscita ora in Germania la sua monumentale biografia su Max Weber, edita da C.H. Beck: il sociologo dell’Università di Marburg, Dirk Kaesler, è considerato da decenni tra i massimi conoscitori del padre della sociologia. E una sua vecchia monografia sul genio prussiano è stata pubblicata anni fa anche in Italia, dal Mulino. Ma Kaesler, pur riconoscendone la modernità in alcune, profetiche tesi - la burocratizzazione di tutto, il predominio del capitalismo d’impresa e della razionalità occidentale - invita sempre a considerare con grande cautela la presunta «modernità» di Max Weber. Infine, sull’intuizione più nota, quella sul presunto nesso tra etica protestante e capitalismo, lo studioso ha scoperto che l’Italia c’entra moltissimo. Anzi, paradossalmente, con la più famosa teoria economica sul protestantesimo, c’entra moltissimo la capitale mondiale del cattolicesimo: Roma.
Quanto è attuale il pensiero di Max Weber, ad esempio la sua analisi sul rapporto tra razionalità e Occidente?
«Io sono fra coloro che tentano di proteggere Max Weber da un’eccessiva modernizzazione. Non credo che si possa capire il suo pensiero slegandolo dalla sua epoca. E’ inutile chiedersi, per fare un esempio, “cosa avrebbe detto Max Weber sulla crisi in Ucraina”. Tuttavia esistono tre grandi temi che lo rendono eterno. Primo, il concetto del “betriebskapitalismus”, del capitalismo d’impresa razionale che è diventato poi imperante. Il secondo è quello della progressiva burocratizzazione di tutto. Ma forse è il terzo ad impegnarci di più, al giorno d’oggi: quello della razionalità occidentale e della posizione dell’Occidente rispetto al resto del mondo. Weber era convinto che prima o poi avrebbe prevalso su tutto. Oggi, invece, ci accorgiamo più che mai che ci sono forti resistenze a questo modello - basti pensare all’Islam. Però bisogna fare attenzione nell’adottare il pensiero di Weber senza filtri: va sempre calato nella sua epoca e interpretato con spirito critico».
Uno dei saggi più famosi ma anche più criticati è quello sul rapporto tra etica protestante e capitalismo. Quanto sopravvive oggi di quella tesi?
«Nella mia biografia cerco di raccontare quanto sono state importanti Roma e l’Italia per Max Weber. E sono il primo a farlo. Weber cominciò a scrivere quell’opera proprio a Roma: non è un dettaglio. Vivendo quotidianamente il cattolicesimo, Weber ha cominciato a riflettere su se stesso e sulla sua confessione, sul protestantesimo. E’ un nesso importante: l’Italia vissuta da Weber, la leggerezza degli italiani, la loro voglia di vivere, lo indussero a riflettere sulla sua identità di prussiano, sul protestantesimo, sulla sua “pesantezza”».
Molti, però, hanno messo in discussione la causalità tra etica protestante e capitalismo.
«Certo, ma al di là della critica sui singoli punti, quello dell’etica protestante e il capitalismo è divenuto un grande filone narrativo della sociologia moderna. E’ diventato talmente un luogo comune che in molti Paesi funziona come una profezia che si autoavvera. Quindi non conta più che Max Weber abbia avuto ragione a scrivere che il calvinismo abbia predestinato determinati popoli al capitalismo (o viceversa, come sostiene qualcuno). E’ una tesi che funziona perché la gente ci crede, negli Stati Uniti la “Weber thesis” funziona perché è nota a tutti, anche tra milioni di persone che non hanno mai letto una riga di Weber».

Corriere 4.5.14
Mengele, il nazismo, le cavie Il lato oscuro della medicina
Puenzo: i corpi perfetti? Un’idea perversa anche oggi
di Giuseppina Manin


Difficile resistere al fascino di quel signore dai modi così gentili ed eleganti. Così estraneo allo sfondo aspro e inospitale di una terra ai confini del mondo, la Patagonia Anni 60. Un tedesco arrivato chissà da dove, che prima si accoda a una famigliola per attraversare il deserto e poi non li molla più. Si insedia come ospite pagante nella loro casa-locanda, si rende utile in mille modi.
Dice di essere un veterinario, bravissimo però a curare anche gli umani. Da quelle parti una sicurezza. Con i bambini poi ci sa fare. Fin troppo. Sa persino aggiustare le bambole, cucirle e ricucirle come un chirurgo. Un tempo c’erano dei piccini che lo chiamavano Uncle Pepi. Il buon zio Josef, sempre con qualche dolcetto, qualche gioco per loro. Ogni tanto ne prendeva qualcuno per mano, lo portava verso certe stanze. E il piccolo non tornava più.
Ma quella è un’altra storia. Un racconto dell’orrore che nessuno deve sapere. Men che meno quella famigliola così normale che lo ha accolto. Men che meno la loro incantevole figlia minore. La piccola Lilith dai capelli biondi e gli occhi chiari. Piccola davvero. Per statura una bimba di 8 anni, mentre ne ha ormai 12. Un difetto inaccettabile per chi insegue la perfezione genetica. Il medico le promette il miracolo: la farà crescere. Qualche iniezione di ormoni e le ossa si allungheranno. Parola di zio Josef, in arte dottor Mengele.
È lui The german doctor , dall’8 maggio nelle sale, regista l’argentina Lucia Puenzo, anche autrice del romanzo omonimo appena edito da Guanda. «Come tanti altri criminali nazisti, anche Mengele si rifugiò dopo la guerra nell’Argentina peronista — racconta Puenzo —. Per anni di casa a Bariloche, si spacciava per veterinario continuando in segreto i turpi esperimenti praticati nei campi di sterminio sulla pelle di zingari ed ebrei. Giochi di bisturi a cui affiancava quelli con le bambole. Abilissimo costruttore di pupattole iperrealistiche, tratti umani, capelli veri, occhi e arti mobili».
Come Herlitzka, la bambola «ariana» di Lilith. Così perfetta da parer vera. Così diversa da Wakolda, l’altra bambola di un’altra bambina degli indios Mapuche. La prima emblema della purezza della razza, la seconda del meticciato bastardo. «La contrapposizione tra “razza mista” e “razza pura” è il tema centrale del film e del romanzo — prosegue Puenzo —. Ho scritto questa storia per il terrore che mi ispira il lato oscuro della medicina quando è corrotta dal potere. Il nazismo ne è stato l’esempio estremo. Un ideale perverso che oggi si annida ancora nella ricerca della perfezione dei corpi e nella fecondazione assistita. Un delirio di onnipotenza sul filo di un’etica scivolosa».
Sembra un paradosso che proprio Mengele, così ossessionato dalla purezza della razza, sia finito in America Latina, dove tutti hanno sangue misto. E dove ha trovato ospitalità fin troppo generosa tanto da riuscire a farla franca. «A Bariloche esisteva una comunità tedesca ben organizzata per accogliere i connazionali in fuga e fornire loro nuove identità. La scuola che si vede nel film era una vera e dichiarata scuola nazista. A dirigerla dopo la guerra è stato per un certo periodo Erich Priebke. Quando fu scoperto ed estradato, alcuni abitanti dissero di lui che per loro era solo un “anziano signore molto simpatico”. E sempre lì il Mossad riuscì a mettere le mani anche su Eichmann, mentre Mengele fece in tempo a scappare all’ultimo momento su un idrovolante. Ci sono state tante complicità e le connivenze: c’era chi sapeva, chi sospettava e chi non voleva vedere».
In alcuni punti il film prende le distanze dalla scrittura. «Nel mio romanzo il punto di vista è quello di Mengele, che vede il mondo come uno zoo, suo laboratorio personale. Nel film invece ho preferito seguire Lilith. È attraverso i suoi occhi che scopriamo via via la terribile verità su quell’uomo così affabile».

Corriere 4.5.14
Berlinguer, non è stata solo coerenza
di Massimo Teodori


A trent’anni dalla scomparsa di Enrico Berlinguer, si moltiplicano le rievocazioni del leader comunista e del suo ruolo nella Repubblica. Si leggono per lo più interventi elogiativi del personaggio — ad esempio Eugenio Scalfari su Repubblica del 16 marzo lo paragona a papa Francesco —, di cui oggi, nella stagione della grande decadenza, non si può che avere rimpianto.
D’accordo. Berlinguer è stato un leader carismatico amato dagli italiani, un uomo integro, un comunista senza macchie personali. Ma… Qual è stato il suo vero ruolo politico nella Repubblica? Che leadership ha esercitato negli anni cruciali della sua segreteria (1972-1984)? E qual è stata l’impronta che ha lasciato nella sinistra italiana? Come ha dichiarato Emanuele Macaluso al Corriere (17 marzo), «la sua politica è tutta dentro il togliattismo: l’incontro con i cattolici, il compromesso storico, la solidarietà nazionale». La costante bussola di Berlinguer è rimasta l’incontro politico con la Dc e, al tempo stesso, l’avversione intransigente verso il mondo socialista, prima e soprattutto dopo l’avvento di Craxi, l’autonomista.
Le tappe della segreteria berlingueriana sono tutte coerenti. Ha cercato ostinatamente il dialogo con la Dc da quando, al tempo del golpe cileno nel 1973, ha lanciato il compromesso storico; ha avversato fino all’ultimo il referendum sul divorzio per non entrare in collisione con i clericali; qualche anno dopo ha rilanciato la solidarietà nazionale non già come alleanza emergenziale ma sulla base di visione organicistica della società con l’effetto di intrecciarsi con l’andreottismo di potere; ha rifiutato di appoggiare un governo alternativo alla Dc guidato da Craxi; ha emarginato la corrente migliorista dei Napolitano e Chiaromonte; ed ha sempre manifestato antipatia per quei diritti civili che, in Europa, sono stati la carta d’identità della sinistra democratica, socialista e liberale. Così la politica di Enrico Berlinguer, ispirata da Franco Rodano, ha rappresentato in pratica la quintessenza del cattocomunismo che ha tenuto il Pci lontano dalla socialdemocrazia e dal laburismo, le alternative storiche alle forze conservatrici e moderate dei Paesi europei.
Si dirà che l’Italia è la patria della Chiesa cattolica e un partito nazionalpopolare non può non tenerne conto. È vero, ma proprio negli anni Settanta è avanzata quella secolarizzazione che spingeva diversi settori cattolici a cercare una sponda politica laica. Berlinguer, invece, non ritenne mai opportuno abbandonare la prospettiva filocattolica che Togliatti aveva perseguito nel dopoguerra approvando con l’articolo 7 il Concordato nella Costituzione. Anche quando, all’inizio degli anni Ottanta, si erano allentati i legami con l’Unione sovietica, Berlinguer non volle raggiungere la sponda del socialismo riformatore, necessariamente laico ed europeo. La sua profonda radice cattolica, oltre ad essere una rispettabilissima vocazione personale, rimase sempre uno snodo fondante della sua strategia politica tanto da far propria la concezione illiberale del rapporto di potere Stato-Chiesa tipico del Vaticano.
Nel rendere omaggio al personaggio, è dunque opportuno aprire un dibattito non parrocchiale su Enrico Berlinguer per chiedersi che tipo di gloria politica fu la sua. Chi scrive risponde che sì, fu vera gloria, se si considera la sua statura morale e il degrado che è sopravvenuto in seguito. Risponde no, se si guarda al percorso della sinistra italiana che, ridotta alla sola eredità post-comunista, è arrivata fin qui priva di quelle solide radici riformatrici di cui oggi c’è più che mai bisogno.

Repubblica 4.5.14
Che cosa tiene a freno i nostri istinti animali
risponde Corrado Augias


Carissimo Augias, sono prete, missionario tra i giapponesi. Riconosco che le religioni spesso hanno ostacolato lo sviluppo della coscienza sociale anche se altrettante volte l’hanno promossa. Ma fermarsi al livello di constatazioni storiche mi sembra superficiale. Ho amici che non appartengono ad alcuna religione, eppure con loro condivido la ricerca del senso dell’esistenza. Dispieghiamo in affermazioni contrapposte un analogo senso dell’esistenza. Nella contrapposizione percepiamo un grado di verità più profondo che non in ognuna delle nostre posizioni e perfino nella loro somma. Dunque le chiedo: togliendo la religione dall’opera di Dante, di Manzoni, di Michelangelo, o dello stesso Caravaggio e di tanti altri, la loro opera artistica guadagnerebbe forse in maturità? Togliendo la religione dall’umanità di papa Francesco, avremmo una umanità più matura? E da ultimo, sarebbe più maturo il nostro cammino se fossimo tutti religiosi o tutti atei?
padre Luciano Mazzocchi

Sono contento che finalmente un sacerdote cattolico sia intervenuto a discutere, anzi a concludere, la breve discussione che qui s’è intrecciata sull’utilità sociale delle religioni. Succede di rado di poter parlare serenamente - nel consenso e nel dissenso - di questi argomenti con rappresentanti del clero. Padre Mazzocchi dice: guardate che entrambe le posizioni sono utili - quella di chi crede in un Dio come quella di chi non ci crede. Entrambe possono servire a capire meglio chi siamo e che ci stiamo a fare qui. Concordo pienamente anche se questo aspetto sposta di qualche grado il fuoco della disputa che era centrato sulla domanda: le religioni servono a tenere a freno i nostri istinti animali? Vecchia questione che risale ai greci (del resto quasi tutto risale ai greci) e per la quale sono arrivate risposte molto diverse. Rodolfo Pescador (Massa) scrive: “In Usa a fronte di un 96% che crede in Dio e un 76% che crede nel diavolo come realmente esistente, c’è un alto tasso di omicidi, mentre in Svezia, credenti in Dio 56%, credenti nel diavolo 18%, c’è un tasso di omicidi molto più basso”. Tiberio Di Filippo (tiberio.difilippo@gmail.com): “Il comportamento è dovuto al carattere, al modo di pensare quindi alla volontà. Chi è portato naturalmente (Dna?) a fare il bene e odiare il male, non sarà influenzato da precetti religiosi a comportarsi in modo contrario a ciò che gli suggerisce la sua coscienza”. Giovanni Moschini (g.moschini@yahoo. it): “È vero che ci sono religioni che producono misfatti, cristianesimo compreso, tutto sommato però credo che in assenza di religioni l’umanità stenterebbe ancora a trovare un freno ai suoi istinti animali: le leggi civili continuano ad avere vita difficile”.

Repubblica 4.5.14
L’atlante filosofico dei mondi possibili
Il volume curato da Melchiorre corregge l’eurocentrismo affiancando alla storia del pensiero occidentale quella delle altre culture
di Maurizio Ferraris


OLTRE alla naturale e imprescindibile funzione informativa sul pensiero islamico, ebraico, cinese, giapponese, russo, africano, australiano, europeo e latinoamericano (vedremo tra poco le buone ragioni di queste classificazioni che sulle prime suonano bizzarre come l’enciclopedia cinese di Borges, visto che mescolano religioni, lingue, nazioni, subcontinenti e continenti) ci sono due modi per leggere le 940 pagine di questo Filosofie nel mondo curate da Virgilio Melchiorre.
Il primo è una correzione all’eurocentrismo inevitabile in una storia della filosofia. Questa segue i destini dello “spirito europeo”, che come diceva Husserl, si estende anche agli Stati Uniti e ai Dominion inglesi, ma non riguarda gli Zingari e gli Eschimesi, i quali, geograficamente, sono situati in Europa. Affermazione a dir poco problematica, anche perché fatta da un filosofo discriminato, che aveva dovuto abbandonare l’insegnamento nella Germania di Hitler (un altro filosofo, non discriminato, Heidegger, allungherà la lista degli estranei allo spirito europeo sostenendo che Husserl non poteva capire Essere e tempo perché era ebreo). Ma a ben vedere c’è un assunto non meno imbarazzante nel discorso di Husserl, e cioè che lo “spirito europeo” (cioè, per lui, la filosofia) finisca alla frontiera tra Stati Uniti e Messico. Così, riparando all’euro-anglocentrismo husserliano, in Filosofie nel mondo è compreso un ampio capitolo di Pio Colonnello sulla filosofia in America Latina. Proprio come l’amplissimo capitolo di Lidia Procesi dedicato alla filosofia africana rimedia all’euro- eliocentrismo di Hegel, che descriveva la storia dello spirito come il corso del sole, che va da Oriente a Occidente, dall’Asia all’Europa, dimenticandosi l’Africa.
Il secondo modo d’uso, a mio parere ancora più importante, è quello di una descrizione di mondi possibili, di vie che avrebbe potuto prendere la “nostra” filosofia. (Scrivo “nostra” tra virgolette perché non è in linea di principio più mia o vostra di quanto non sia di chiunque altro: il fatto di essere nato e cresciuto in Corea non ha impedito a Jaegwon Kim di dare importanti contributi al problema mente-corpo, anzi, forse lo ha aiutato a guardare criticamente il cartesianesimo). Così, abbiamo alterità filosofiche, come la Cina, che hanno elaborato una nozione di “pensiero” molto diversa da ciò che si intende con “filosofia”. Altri mondi, come quello indiano, che invece condividono la nostra idea di filosofia, ma hanno un diverso inizio, e partono dal Nulla invece che dall’Essere. Altri, come la filosofia russa che prospettano uno sviluppo alternativo della filosofia europea. Con il risultato di farci vedere la “filosofia occidentale” a sua volta come un mondo fra i mondi. (A cura di Virgilio Melchiorre, Bompiani, pagg. 940, euro 24)

Repubblica 4.5.14
Shakespeare in chiave scientifica
di Piergiorgio Odifreddi


È appena arrivato in libreria Noi che abbiamo l’animo libero ( Longanesi). Si presenta come l’ennesimo volume di “letteratura secondaria”: cioè dello sterminato insieme dei commenti nei quali qualche critico dice la sua su qualche capolavoro della “letteratura primaria”.
Ma quando si presta attenzione ai nomi degli autori, si scopre che si tratta di due noti esponenti della cultura scientifica: il fisico e biologo Edoardo Boncinelli, e il matematico e filosofo della scienza Giulio Giorello. Il primo contribuisce con un saggio sull’ Amleto, il secondo su Antonio e Cleopatra , e insieme discutono di Shakespeare. Essi ritengono che gli occhiali scientifici possano permettere di vedere cose che forse sfuggono agli umanisti.
Prendiamo la frase che dà il titolo, e che nell’ Amleto compare quando Shakespeare mette in scena un Amleto nell’ Amleto, innescando un regresso all’infinito tipico dell’autoreferenza. Quest’ultima sta alla base di alcuni dei risultati più profondi del pensiero: dal paradosso di Epimenide, sulla frase che dice di se stessa di non essere vera, al teorema di Gödel, sulla formula che dice di se stessa di non essere dimostrabile. In questo teorema Turing ha trovato lo spunto per inventare il computer che ha cambiato la nostra vita, molto più dei versi di Shakespeare, nei quali si può cogliere un bagliore, se si sa come leggerli.

Repubblica 4.5.14
Straparlando
Arnaldo Pomodoro
“Amavo mio padre ma l’avrei ucciso perché spariva cercando avventure”
Dalle storie di famiglia ai sogni e agli incontri con Lucio Fontana e i maestri americani degli anni Cinquanta e Sessanta Ecco il racconto del grande scultore delle “Sfere”
intervista di Antonio Gnoli



La forma è tutto. Le mani sono tutto. Guardo quelle di Arnaldo Pomodoro. Grandi.
Solide. In un certo senso misteriose. Le incrocia come ali di un angelo caduto. Penso che tutta la vita di questo artista sia stata all’insegna di un doppio movimento: la felicità esibita e l’infelicità nascosta. Il pubblico e il privato. L’esterno e l’interno.
Polarità che in uno scultore come lui hanno agito, scavato, combattuto. Guerra di confine, verrebbe da dire. Lo ascolto mentre parla tra le sonorità museali della sua Fondazione. Voce suadente. Innocentemente perduta dietro ricordi che non ricordano e che sono qui a dire di lui e a non dire. Ambiguità umana? Forse. Pomodoro trascina la memoria come Madre Coraggio la sua carretta.
C’è fatica, attrito, sofferenza trattenuta dietro i modi gentili con cui porge al visitatore la sua versione di vita: «Ho quasi 88 anni e la sensazione di averli vissuti in una perenne oscillazione tra la ricerca di un mondo impossibile, quello artistico, e il mondo reale consegnato alla durezza e alla delusione. Qualche volta i due mondi hanno combaciato. Creando l’effetto ottico di un’armonia voluta, sperata, ma al tempo stesso insidiata».
Da cosa?
«Dall’idea che niente può durare a lungo. Sorvolo sugli effetti fisici di un’affermazione del genere. Ma quelli psicologici pongono di fronte a un’idea che insieme mi affascina e mi fa orrore: il limite. Un artista non può fare a meno del limite e della possibilità interiore di trasgredirlo. È sempre stato così per me. Fin dai primi sogni da ragazzo».
Come si ricorda?
«Ero timido, introverso, spaventato all’idea che quanto segretamente desideravo potesse essere ostacolato dalla famiglia».
Oppressiva?
«Non in quel senso. Votata alle scelte concrete. Il nonno paterno era un medico veterinario e farmacista. Inventò una medicina per la cura di una malattia che faceva morire le mucche. Possedevamo della terra che dava da mangiare a tutti e permise a mio padre di non fare mai nulla».
Nel senso?
«Era un uomo ozioso. Detestava ogni forma di lavoro. Lo zio, presidente di corte di cassazione a Roma, parlava di lui con disgusto. Si chiedeva come era stato possibile che un soggetto del genere fosse scaturito dalla famiglia Pomodoro».
La pecora nera.
«Più che nera, folle. L’amavo, ma l’avrei ucciso. C’era da vergognarsi ad essere suoi figli. Un fannullone che quando poteva spariva per settimane. Mollava la famiglia. Gli piaceva la vita facile e avventurosa. Quando conquistammo la Somalia si lasciò inghiottire da quelle terre. Non lo vedemmo più per due anni».
Non ne parla con risentimento.
«Era un sognatore. Il suo lato migliore. Nonostante non avemmo mai un buon rapporto, quando capì i miei tormenti, legati a cosa avrei dovuto fare della mia vita, mi disse con grande semplicità: non fare in modo che distruggano i tuoi sogni».
E cosa sognava?
«Sognavo in continuazione i castelli di sabbia. Quella bellezza effimera e infantile che talvolta costruivo sulla spiaggia adriatica. Qualche tempo dopo quella pulsione si sarebbe trasferita nell’argilla».
Accennava alla concretezza familiare.
«Finite le medie avrei voluto iscrivermi al liceo artistico. Mia madre e mio nonno pretesero una scuola che desse reali sbocchi professionali. Fu così che alla fine mi ritrovai con il diploma di geometra. Studiai a Rimini, durante la guerra».
Dove era nato?
«A Morciano di Romagna, di lì veniva mia madre. L’ultimo anno di guerra, l’inverno del 1944, fu durissimo. C’eravamo trasferiti a Pesaro. Il solo passatempo erano le lunghe passeggiate lungo il mare alla ricerca degli ossi di seppia, che in seguito sarebbero diventati importanti nel mio lavoro di scultore».
Quando decise di diventare scultore?
«In pratica dopo il mio incontro con Lucio Fontana. Nel frattempo, era l’autunno del 1953, c’eravamo trasferiti a Milano. Lavoravo per il genio civile. Ma già nel tempo libero creavo monili, decorazioni. Fontana ci vide del talento. Mi sentii gratificato da quest’uomo gentile, dalla sua dedizione ai giovani e da un’arte che non aveva eguali. Compresi pienamente l’importanza del suo lavoro quando andai in America, nel 1959».
Cosa la portò lì?
«Una borsa di studio. Restai tre mesi. Si aprì un mondo che non immaginavo. Poi, nel 1962, firmai il mio contratto con la Marlborough Gallery che determinò la mia ascesa negli Stati Uniti».
Che ambiente trovò?
«Straordinario. Feci subito amicizia con Louise Nevelson. Grazie a lei conobbi i grandi che allora si affermavano: non Jackson Pollock che era già morto; ma Robert Rauschenberg, un uomo molto alla mano, Jasper Jones, un essere chiuso e solitario; Franz Kline, il più anticonformista. Per tutti loro la fine della guerra fu un’esplosione di creatività».
Come guardavano agli artisti italiani?
«Passavamo dall’essere degli sconosciuti a un momento di interesse. Grazie ad Afro, che era stato in America fin dagli inizi degli anni Cinquanta, l’arte italiana cominciò a suscitare curiosità. E poi ci fu il fenomeno Burri: prigioniero di guerra in Texas, cominciò a realizzare i suoi celebri “sacchi”. Nel 1953, con le mostre a Chicago e a New York, Alberto rivelò al mondo americano tutto il suo talento».
Quando lo ha conosciuto?
«La prima volta che lo incontrai fu a San Francisco. Dola ve insegnavo. Vidi, a un piccolo ricevimento, quest’uomo severo e dolce al tempo stesso. Era il 1966. C’era la contestazione di Berkeley. Non si parlava d’altro. Girava una quantità di marijuana pazzesca. A un certo punto la conversazione si soffermò su un protagonista di quel momento».
Chi?
«Timothy Leary, che stava avendo un’influenza incredibile su tutto il movimento giovanile. La sua predicazione dionisiaca girava tutta intorno a una sostanza allucinogena, allora sconosciuta: Lsd. Fu il primo, in assoluto, a unire spettacolo, politica e rivoluzione. Viaggiava
nel suo autobus psichedelico e si atteggiava a Cristo tra i discepoli».
Aveva molta presa.
«Sì, era abilissimo, dotato di un gusto snob e istrionico. Tratti che in un certo senso ho ritrovato in Andy Warhol, la cui rivoluzione artistica fu ben più profonda e duratura».
Si riferisce alla Pop Art?
«E a quello che generò. È stato un fenomeno che non sarebbe mai nato senza Duchamp. Per tutto il movimento figura più importante di Picasso».
Le piace Picasso come scultore?
«Grande. Ma preferisco Brancusi. Per il tipo di lavoro che svolgo senza Brancusi non sarei mai nato. Con lui la forma viene progressivamente distrutta, ma si legge ancora. È un miracolo di equilibrio tra il vedere e la cecità. La stessa emozione “distruttiva” me la provocò Pollock».
Cosa vuol dire «distruggere la forma»?
«Sottoporla al movimento, all’attrito del tempo. Sono convinto che nella relazione segreta tra la forma e chi la compie si riveli il perché sia stata realizzata in quel modo”.
Si chiama necessità?
«Il grande artista è colui che segretamente conosce tutto questo. Penso a Paul Klee».
Perché Klee?
«Gli devo la scoperta dell’interiorità, del profondo che c’è in ciascuno di noi. Era un genio assoluto. Con quattro semplici segni esplorava il mondo».
Vengono in mente le sue Sfere.
«Ho sempre pensato che la sfera ha una sua energia misteriosa. La sua presenza crea un altro spazio. O meglio trasforma quello esistente”.
Un’energia che arriva da dove?
«Dal suo interno. La perfezione di una sfera non sta nella sua chiusura inviolabile, ma nell’immag inarla aperta. Dovevo realizzarla come un tutto tormentato e corroso. Dunque aperta, sino al punto che il suo interno dialogasse o ferisse la superficie esterna».
Sembra Fontana.
«Anche a lui devo molto».
L’oggetto d’arte non riposa sulla quiete?
«No, sarebbe la sua morte. La forma è movimento. Lo capì perfettamente Boccioni, il primo grande artista della scultura novecentesca».
È curioso che un artista come lei, così dedito al movimento, abbia poi dato vita a una Fondazione.
«Che c’è di strano?». Le fondazioni di solito celebrano l’artista scomparso. In vita rischiano di imbalsamare il suo lavoro. Come si fa a fondare l’infondabile, cioè l’arte?
«È un bel problema, capisco. Ma non ho figli e ho sempre nutrito l’ambizione di creare qualcosa di stabile attorno al mio lavoro. Mi rappresenta e ciò mi basta».
La ritiene una forma di potere?
«Ho i miei dubbi che un artista sia un uomo di potere. Anche se con esso deve scendere a patti: gli ordini, un tempo si chiamavano committenze, arrivano dalle istituzioni pubbliche, dalle grandi aziende, raramente da singoli individui».
Come giudica l’attuale arte contemporanea?
«È fatta per lo più di pura apparenza. Interessa persone che amano l’originalità, ma non la profondità della forma. Sono vecchio. Mi interessa toccare la materia».
Cosa intende per profondità della forma?
«Che il messaggio spesso cambia, ma la forma resta».
Le piace l’arte di suo fratello, Giò Pomodoro, anche lui scultore?
«Venivamo da sensibilità differenti. Esperienze, in parte almeno, diverse».
Come sono stati i vostri rapporti?
«Non sempre facili. Però alla fine il legame con lui si è chiuso benissimo. Prima di morire mi disse: ho ritrovato un fratello».
Vi eravate persi?
«La vita a volte divide e genera fraintendimenti e dolori. Ma occorre rispetto verso chi non c’è più».
Cos’è che vi ha più allontanati?
«Forse la politica. Ed è strano provenendo dalle stesse idee. Solo che le sue erano il frutto di una fedeltà al comunismo. Un’ortodossia che non ho mai condiviso».
Si sente libero?
«Libero di amare e di ferirmi».
È strano, ma tutto il suo lavoro, da un certo punto di vista, sembra una richiesta di aiuto: capire meglio cosa si agita nel suo mondo interiore.
«Forse è vero. Nel mio lavoro metto anche le mie contraddizioni”.
Un modo di risolverle?
«Di renderle pubbliche. Faccio un po’ fatica a parlare di questo argomento. Ogni tanto mi capita di avere un rigetto dell’opera che realizzo. Ci sono dei giorni storti in cui vedo solo i difetti di un lavoro compiuto».
La crisi di un artista è anche crescita.
«Sono spesso in crisi. La sento montare da dentro. Me ne accorgo perché mentre realizzo una cosa, percepisco che potrei farla in mille altri modi diversi. Questa è insieme la forza e la fragilità di un artista».
Forza e fragilità non sono quasi mai in equilibrio.
«Per questo alcuni ricorrono alla psicoanalisi».
Lei ha mai fatto analisi?
«La prima volta che mi ci hanno mandato capii che ero io a psicoanalizzare lui e non viceversa».
Quando è accaduto?
«Tantissimo tempo fa. Ero un ragazzo che non capiva più bene cosa stesse facendo. Ero il frutto di una fantasia”.
Un’energia che non trovava forma?
«Le idee che non si realizzano sono quelle che alla lunga uccidono».
E cosa sono queste sue idee?
«Qualcosa che cresce in me, che vedo solo io e che non posso spiegare. È un processo faticosissimo. A volte mi dicono: beato te che fai questo mestiere. Ma davvero si può pensare che le idee nascano spontaneamente? Il mio lavoro è il frutto di mille complicazioni. È il vero e il sogno».
Qual è la distinzione?
«Un artista rinuncia a tracciare un confine».
Lei sogna?
«Dormo in un’agitazione permanente. E questo secondo me significa che sogno molto. Ma alla fine non ricordo nulla. Tranne un sogno che ricorre».
Quale?
«Io bambino che gioco nello slargo di una piazzetta medievale con altri della mia età. Rincorriamo una sfera. Soccombo. E poi vedo la sfera precipitare giù per le scale e vengo preso dall’angoscia terribile che si rompa. So che è la mia prima sfera che realizzai per il tetto del padiglione di Montreal nell’Expo del 1967. E quella sfera invece di rompersi finisce nell’acqua e galleggia».
Che lettura ne dà?
«Ci vedo una specie di nascita. Quella sfera è una cosa mia, ma come se non l’avessi partorita io. Penso che somigli al destino dell’artista: quello che fa gli può appartenere solo attraverso gli altri».

Repubblica 4.5.14
L’autunno di Baudelaire è la stagione dell’inferno
di Walter Siti


Canto d’autunno, 1 da Les fleurs du mal (1861), n. LVI
Presto ci immergeremo nelle fredde tenebre;
addio, viva luce delle estati troppo brevi!
Sento già cadere, con funerei tonfi
la legna che rimbomba sul lastrico dei cortili.
Tutto l’inverno mi tornerà dentro: insofferenza,
odio, spasmi, orrore, impegno duro e forzato,
e, come il sole nel suo inferno polare,
il cuore non sarà che un masso rosso e gelato.
Ascolto con un brivido ogni ceppo che cade;
la forca che innalzano non ha un’eco più sorda.
Il mio animo somiglia alla torre che cede
sotto i colpi dell’ariete instancabile e greve.
Mi sembra, cullato dal picchiare monotono,
che inchiodino in fretta una bara, qua o là.
Per chi ? Ieri era estate, ecco l’autunno!
Quel tòc misterioso suona come una partenza.
1859

Chant d’automne, 1
Bientôt nous plongerons dans les froides ténèbres;
adieu, vive clarté de nos étés trop courts !
J’entends déjà tomber avec des chocs funèbres
le bois retentissant sur le pavé des cours.
Tout l’hiver va rentrer dans mon être: colère,
haine, frissons, horreur, labeur dur et forcé,
et, comme le soleil dans son enfer polaire,
mon coeur ne sera plus qu’un bloc rouge et glacé.
J’écoute en frémissant chaque bûche qui tombe;
l’échafaud qu’on bâtit n’a pas d’écho plus sourd.
Mon esprit est pareil à la tour qui succombe
sous les coups du bélier infatigable et lourd.
Il me semble, bercé par ce choc monotone,
qu’on cloue en grande hâte un cercueil quelque part.
Pour qui ? C’était hier l’été; voici l’automne!
Ce bruit mystérieux sonne comme un départ.

MAI come in questo caso c’è da lamentare l’intraducibilità della poesia: nessuna versione può rendere il rimescolio perturbante della musica baudelairiana. Gli alessandrini (doppi esasillabi) sono quelli romantici di Lamartine e di Hugo, e la malinconia dell’autunno è un tema assai frequentato dal romanticismo; ancora a metà Ottocento mettersi sulla strada dell’alessandrino rimato (qui, perfette rime alternate femminili e maschili, cioè piane e tronche) significava accettare l’istituzione e innovare nel suo solco. Credere che la bellezza è armonia regolata, e che un bel verso ripaga di tante storiche dissonanze.
In una prosa intitolata All’una di notte, Baudelaire scrive: «Voi, Signore mio Dio, concedetemi la grazia di creare qualche splendido verso; per provarmi che non sono l’ultimo tra gli uomini, che non sono inferiore a coloro che disprezzo!». Qui il romanticismo si crepa, frana nella nevrosi del cortocircuito logico: è come la battuta di Groucho Marx, «non mi iscriverei mai a un club che contasse me tra i suoi soci». La bellezza armoniosa dei versi comincia a sapere di beffa, stride nel contenere un intellettualismo infelice; le rotonde, istintive metafore di Hugo diventano una galleria isterica di immagini troppo tese, parzialmente incoerenti.
In questo canto dedicato all’autunno, dell’autunno quasi non si parla: se l’estate era troppo corta, anche l’autunno non è che unaprecipitosa discesa verso l’inverno. “Tomber”, cadere, è il verbo privilegiato; e nella seconda sezione (quella qui non riportata) del canto, “tombe” non sarà più un indicativo presente - sarà proprio “la tombe”, la tomba. Il tonfo cadenzato dei ciocchi (spaccati nel cortile in vista del futuro riscaldamento) si trasforma nelle martellate di chi erige un patibolo, poi nei colpi d’ariete che abbattono la torre della volontà personale, e poi nel sinistro concerto di chi inchioda una bara. L’autunno è l’annuncio dell’inverno- inferno, la fredda tenebra in cui anche il cuore sarà ridotto a un blocco di ghiaccio. Siamo ai limiti dell’allucinazione e dell’alterazione psicofisica, percepire nei propri organi l’ossimoro caldo-freddo dell’ardore polare. Negli scritti sull’hashish, Baudelaire sottolinea che il «beato veleno» enfatizza i pensieri rendendone il corso più accelerato e rapsodico.
Il tonfo cadenzato è il rumore del Tempo, e il Tempo è il grande nemico perché «mangia la vita». Se gli si cede il comando, anche il semplice bussare di un usciere (come accade nella prosa La camera doppia) può essere «un colpo di zappa nello stomaco» e porta con sé il suo corteggio di angosce, incubi, spasmi, collere - il Tempo che cancella la gioia e ci intima «suda, schiavo!». Le estati troppo brevi sono, per Baudelaire, quelle della prima infanzia; poi c’è stata un’incrinatura irrimediabile, quando il patrigno e il tutore hanno preteso di controllare il suo denaro. Da quel momento la sua vita si è divisa in due: da una parte il rifugio nel sogno di perfezione e voluttà, dall’altra la necessità di lavorare. Con l’io costretto a oscillare, perché dell’Assoluto comprende la fragilità e del lavoro non sopporta il filisteismo borghese. Come ha visto Sartre, la soluzione esistenziale escogitata da Baudelaire si fonda sull’irresolutezza e sull’impotenza, sull’ambiguità della malafede. Una parte di lui desidera «la fatica dura e forzata», come desidera stare chiuso in casa al buio e in fondo desidera che il cuore venga sterilizzato dalle emozioni (il cuore del vero dandy dev’essere gelido). L’inverno-inferno gli piace: centinaia di volte ha invocato Satana, il vero modello per lui della bellezza virile. Nella seconda sezione del canto si aprirà un poco alla consolante durata dell’autunno, pregando un’amante matura di essere per lui «la dolcezza effimera/ d’un glorioso autunno o di un sole al tramonto». Più del Baudelaire che bestemmia apertamente, o che vanta le proprie notti di orgia, mi commuove il Baudelaire costretto a torcere un’innata tenerezza per piegarla ai tormenti della nevrosi. La “partenza” annunciata nell’ultimo verso è quella verso la morte, ma è anche il viaggio che ha sempre sognato: verso l’isola di Citera sacra a Venere (dove però, fatale, vedrà ergersi una “forca simbolica” con lui appeso), o «anywhere, out of the world». L’altra parola-chiave è “choc”, ripetuta ai vv. 3 e 13; qui è solo un rumore secco e monotono ma Benjamin ha mostrato come lo choc sia il marchio della nuova metropoli ottocentesca - come la legna (“bois” è anche il bosco) è spaesata sui selciati, così l’individuo metropolitano è sottoposto a continui urti della percezione e della memoria. Non riesce a tenere unita la propria esperienza, non ne padroneggia la continuità; la città cresce estranea e punitiva (gli “échafaudages”, le impalcature, hanno la stessa radice dell’”échafaud”, il palco della forca o della ghigliottina). L’esibizionismo disperato di Baudelaire interiorizza il fallimento rivoluzionario del 1848, l’inverno in cui si sente precipitato è anche politico. La sua poesia inaugura un io lirico alienato, perforabile dall’esterno - anzi, dipendente dall’esterno (dalle occasioni, dalle epifanie, dai crolli) per autorizzare la propria ispirazione.

Corriere 4.5.14
Il quadro di Pontormo nella chiesa di Santa Felicita di Firenze
Una grata imprigiona la «Deposizione»
di Andrea Garibaldi


FIRENZE — Può un quadro finire in galera? Succede. Mentre è in corso la grande mostra su Pontormo e Rosso Fiorentino, il dipinto più celebre e celebrato di Pontormo è rimasto nel luogo dove nacque, la chiesa di Santa Felicita, e qui si deve guardare dietro a una pesante cancellata di metallo. Antica, ma pur sempre cancellata.
La Deposizione di Pontormo (1525-1527) «è uno dei quadri più belli al mondo», dice il professor Carlo Falciani, curatore della mostra di Palazzo Strozzi. «Un senso di sorpresa — scrisse nel 1943 la critica Elena Toesca — pervade chi per la prima volta lo veda. Sembra che i personaggi, presi da un profondo senso di sbigottimento, composti di una sostanza lunare, siano trasportati, trasportando il Cristo, in una nuvola, campati in aria». Il professor Falciani non ha chiesto di spostare il quadro da Santa Felicita, per non «decontestualizzarlo»: nella Cappella Capponi, dove si trova, ci sono altre opere di Pontormo e del suo allievo Bronzino. I visitatori della mostra sono però naturalmente spinti verso Santa Felicita.
La chiesa è a due passi dalla bolgia di Ponte Vecchio. La piazzetta Santa Felicita è deturpata da piattaforme per ristoranti e bancarelle con le magliette di Cuadrado. Sulla facciata, un pannello definisce la Deposizione uno dei «testi pittorici più importanti del primo Manierismo». Ma alcuni avvisi sembrano minacciosi: «Orario visite turistiche 9.30-12 e 15.30-17.30. Domenica chiuso ai turisti. Attenzione: gli orari possono subire variazioni senza preavviso». La cappella Capponi è subito a destra. Ecco il cancello, serrato con fil di ferro. Un cartoncino appiccicato dice: Please no flash . Illuminare il quadro costa un euro. Appaiono i volti atterriti e disperati della Madonna e dei giovani che sorreggono Cristo, il movimento di tutti i corpi e i colori, rosa, celeste, rosso, verde, le nuvole in cielo. Tutto da osservare a strisce, dietro la cancellata, come se il quadro fosse in galera.
Al parroco, don Gregorio Sierzputowski, ricordiamo che i Caravaggio a Roma (San Luigi dei Francesi, Sant’Agostino, Santa Maria del Popolo) sono protetti solo da basse balaustre. Risponde: «Siamo più che disponibili anche a fare lavori a nostre spese, ma ci deve autorizzare la Sovrintendenza». In Sovrintendenza l’architetto Fulvia Zeuli dice che mancano fondi per qualsiasi intervento. Sarebbe bello far uscire di galera la Deposizione, prima che finisca la mostra di Palazzo Strozzi (20 luglio). Altrimenti è vero che non meritiamo tutto ciò che abbiamo.

Corriere 4.5.14
Il Palazzo dei Musei di Reggio Emilia
Spallanzani, «ficcanaso» della scienza che inventò la fecondazione artificiale
di Paolo Mazzarello


Paolo Mazzarello è professore ordinario di Storia della medicina e direttore del Museo per la Storia dell’Università di Pavia. Ha scritto «Costantinopoli 1786. La congiura e la beffa L’intrigo Spallanzani» (Bollati Boringhieri 2004)
«Spallanzani, il miglior osservatore d’Europa». In questo giudizio lapidario di Voltaire si trova l’immagine emblematica di Lazzaro Spallanzani così com’era percepita nella settecentesca «Repubblica delle lettere». Nato a Scandiano nel 1729, professore dapprima a Reggio Emilia, poi a Modena e, per più di trent’anni a Pavia (dove si spense nel 1799), Spallanzani ebbe una vita ricca di avventure lungo un arco temporale che vide imporsi la filosofia dei Lumi della quale fu esponente riconosciuto.
Non vi è stato settore della storia naturale in cui il suo genio multiforme non abbia lasciato tracce indelebili. La potenza indagatrice della sua mente si soffermò sugli argomenti più disparati, si interessò di fisiologia, zoologia, chimica, mineralogia e vulcanologia, ogni singolo aspetto della natura lo affascinava. Viaggiatore instancabile, lasciò resoconti affascinanti dove le notazioni naturalistiche si legano alle osservazioni antropologiche, alla descrizione dei costumi singolari del mosaico di popolazioni con le quali entrò in contatto. Nel suo viaggio a Costantinopoli per mare venne considerato un pericoloso stregone e rischiò di essere gettato in acqua da una ciurma spaventata dalle esplosioni prodotte dai suoi esperimenti con idrogeno e ossigeno, poi la sua vita fu messa a repentaglio da una terribile bufera.
Nella capitale d’Oriente visse nei salotti delle ambasciate occidentali, spiando a beneficio del governo austriaco la complicata situazione politica e incontrò il sultano Abdul Hamid I nel corso di una visita singolare. Durante il viaggio alcuni suoi colleghi universitari lo denunciarono alle autorità austriache, accusandolo di aver rubato alcuni importanti pezzi dal Museo di Storia Naturale di Pavia per arricchire la sua raccolta privata di Scandiano. La congiura, motivata da invidie accademiche, provocò nel 1787 una vertenza giudiziaria che si trascinò per mesi, ma alla fine Spallanzani fu scagionato e i suoi accusatori puniti.
Viaggiò nel sud d’Italia esplorando i principali vulcani (Etna, Stromboli, Vesuvio, l’isola di Vulcano) e rischiando la vita nel tentativo di avvicinarsi il più possibile alle bocche eruttive. Nonostante l’abito talare da lui indossato, non ebbe remore a esplorare i confini della natura in ambiti che potevano anche metterlo in frizione con le autorità religiose. Tali furono gli audaci esperimenti di fecondazione artificiale. Come modello sperimentale il naturalista scelse gli anfibi, perché il processo di fecondazione, avvenendo all’esterno del corpo materno, era facilmente osservabile. Spallanzani concepì l’impiego di culottes di vescica d’animali da far indossare al rospo maschio per impedire che lo sperma, emesso durante l’accoppiamento, venisse a contatto con le uova sgravate dalla femmina. Il seme ottenuto rimuovendo i pantaloncini dopo la copula fu sufficiente per condurre alcuni esperimenti di inseminazione degli anfibi, aspergendo le uova con il fluido. Spallanzani dimostrò che la fecondazione richiedeva il contatto fisico tra liquido seminale e uovo, smentendo le vecchie teorie che vedevano in una misteriosa aura spermatica il fattore determinante del processo.
Dimostrata la fecondazione artificiale negli anfibi, decise di provare l’esperimento su una cagnetta barboncino di «mediocre grandezza», tenuta accuratamente segregata fino al momento dell’estro. Con una siringa iniettò nell’utero dell’animale il seme ottenuto da un cane e 62 giorni dopo la femmina partorì tre cagnolini. La contentezza del naturalista per il successo dell’impresa fu, nelle sue stesse parole, «una delle maggiori che provato abbia in vita mia».
Spallanzani era dominato da una sorta di ossessione per la scienza, soggiogato da una voluttà di conoscere che non è eccessivo definire lussuria della conoscenza.

Corriere Salute 4.5.14
Gli ingredienti fondamentali del benessere psicologico
Espressione dell’armonia tra se stessi, gli altri e l’ambiente
di Danilo Di Diodoro


Come sia più giusto spendere la propria vita è una domanda che pensatori e filosofi si pongono da millenni. E continuano a farlo oggi, affiancati dagli psicologi che studiano il misterioso concetto di benessere psicologico attraverso l’impiego di metodologie scientifiche.
Una delle maggiori esperte internazionali del settore è la professoressa Carol Ryff, dell’University of Wisconsin-Madison americana, che ha pubblicato una revisione sul benessere psicologico, sulla rivista Psychotherapy and Psychosomatics .
La prima distinzione da fare è tra un approccio alla vita finalizzato alla ricerca del piacere, edonistico, e uno finalizzato invece alla ricerca dell’espressione completa del meglio che c’è in ciascuno, approccio definito eudemonico . Quest’ultimo, proposto già da Aristotele nell’Etica Nicomachea, impone innanzitutto di diventare capaci di conoscere se stessi, poi di spendere la propria vita tentando di diventare pienamente ciò che si è, di dare piena voce al proprio talento.
In qualche modo le teorie scientifiche attuali danno credito all’approccio eudemonico alla vita, dal momento che riconoscono al benessere psicologico una natura molto articolata, fatta da tanti diversi aspetti.
«Sono almeno sei i componenti del benessere psicologico, così come sono stati individuati dalla ricerca psicologica contemporanea — spiega Giovanni Fava, professore ordinario di Psicologia clinica dell’Università di Bologna e direttore della rivista Psychotherapy and Psychosomatics —. Questi sei componenti sono: autonomia, padronanza ambientale, crescita personale, relazioni positive con gli altri, scopo nella vita, auto-accettazione».
«Essere autonomi — spiega il professor Fava — vuol dire regolare il proprio comportamento dall’interno e sentirsi in grado di essere indipendenti, resistendo alle pressioni sociali che spingono a pensare e ad agire in maniera conforme».
«Un buon controllo sul proprio ambiente — prosegue — comporta l’abilità nel gestire le opportunità che si presentano e nell’affrontare le avversità, creando un contesto nel quale possano trovare espressione i propri valori».
«Avere un buon senso di crescita personale — aggiunge Fava — significa, invece, sentirsi all’interno di un processo di continuo miglioramento di se stessi, essere aperti a nuove esperienze, avere la sensazione di realizzare il proprio potenziale»
«Le buone relazioni con gli altri — continua l’esperto — si manifestano attraverso la capacità di sviluppare empatia, affetti e vicinanza con le persone che ci circondano».
«E ancora, avere un chiaro scopo nella vita — dice lo psicologo — vuol dire sentire di muoversi all’interno di una qualche direzione identificabile, con una continuità tra il passato e il presente, alla luce di obiettivi che diano significato alla vita. Infine, per il benessere personale è comunque molto importante avere un buon livello di auto-accettazione: accogliere tutti gli aspetti di sé, anche quelli meno positivi, senza voler a tutti i costi essere diversi dalla propria natura».
Sulla base di questi elementi, da diversi anni sono state costruite scale di valutazione del benessere personale, che hanno consentito agli psicologi di studiare sul campo l’elusivo concetto di benessere psicologico, soprattutto quello relativo all’approccio eudemonico, più complesso e sfaccettato.
Un aspetto che ha attratto l’attenzione dei ricercatori è come cambia il benessere psicologico con il trascorrere dell’età. Se i giovani hanno l’impressione di migliorare con il tempo e di vedere definirsi il proprio scopo nella vita, gli adulti e ancor più gli anziani fanno fatica a mantenere alto il livello di questi elementi, vedendo prospettarsi piuttosto l’inevitabile declino.
«I risultati degli studi indicano che un più alto livello di benessere può essere predetto dal sentirsi più giovani, ma non dal voler essere più giovani — dice Carol Ryf —. Secondo uno studio, gli adulti che si percepiscono più giovani di quanto realmente sono, tendono ad avere un benessere maggiore. L’età soggettivamente percepita è stata comparata con l’età reale, il che ha consentito di effettuare una valutazione del realismo e dell’illusione nell’autovalutazione. Questo studio ha mostrato che a tutte le età un maggior realismo e minori illusioni predicono un funzionamento migliore, compreso un più alto livello di benessere».
Molto importanti per il benessere psicologico sono comunque le caratteristiche psicologiche di base di ciascuno. Le ricerche hanno dimostrato che le persone più aperte alle nuove esperienze danno impulso alla propria crescita personale, e l’essere ben disposti verso gli altri facilita le relazioni.
L’ottimismo ha effetti positivi attraverso la sensazione di controllo sull’ambiente circostante, mentre uno stabile livello di autostima favorisce l’autonomia personale e l’individuazione di una direzione per la propria vita. Essere capaci di regolare le proprie emozioni, e di rimetterle in discussione, è un predittore positivo del benessere personale, mentre sopprimerle è un predittore negativo, così come lo è un intenso desiderio di avere una vita diversa da quella che si ha. In quest’ultimo caso la situazione si inverte quando si è effettivamente in grado di capovolgere la vita secondo le proprie aspirazioni.
Poi c’è la vita familiare, con i suoi molteplici ruoli di genitori, figli, marito o moglie, fratello o sorella, spesso vissuti in contemporanea. La ricerca indica che più questi ruoli sono vissuti con investimento personale, più tendono a generare benessere psicologico. Ad esempio, donne istruite che vivono ruoli familiari molteplici mostrano maggiori livelli di autonomia personale. Chi sente di essere utile alla propria famiglia delinea più chiaramente uno scopo nella vita, elemento particolarmente significativo per gli uomini.
Importanti anche i rituali familiari, come il ritrovarsi durante le feste, la cui funzione positiva è stata rilevata da ricerche effettuate sia tra gli adolescenti sia tra gli adulti.
Sull’altro versante ci sono gli aspetti negativi del divorzio oppure della morte del coniuge, specie per le donne, anche se dopo il divorzio elemento cruciale per l’equilibrio psicologico è trovare rapidamente un nuovo senso alla vita.

Corriere Salute 4.5.14
Nel diario dei «momenti più belli» le leve per superare il malessere


Si chiama Well-Being Therapy, psicoterapia che punta al benessere: 8-10 sedute per individuare ciò che impedisce lo sviluppo del benessere psicologico e a rimuoverlo. «L’abbiamo sviluppata sulla base del modello multidimensionale di benessere psicologico di Carol Ryff» dice il professor Giovanni Fava, coautore, insieme a Nicoletta Sonino e Thomas N. Wise, del libro “Il metodo psicosomatico” (Giovanni Fioriti Editore).
«Ci occupavamo delle ricadute e della cronicità della depressione — spiega il professor Fava —. Spesso medici e ricercatori confondevano la risposta positiva a un trattamento, ad esempio con farmaci antidepressivi, con la guarigione. In realtà, diversi studi indicavano la persistenza di sintomatologia residua: ansia, irritabilità, problemi interpersonali, presenti anche quando i criteri diagnostici indicavano una guarigione. Il nostro sforzo è stato incorporare il benessere psicologico nella definizione di guarigione».
L’ipotesi era che la mancanza di benessere psicologico potesse creare una vulnerabilità verso eventi stressanti, aprendo le porte alle ricadute. Attraverso studi su piccoli gruppi di persone in remissione da disturbi ansiosi o depressivi, i ricercatori guidati da Giovanni Fava hanno scoperto che il loro livello di benessere psicologico era inferiore rispetto a quello dei soggetti sani del gruppo di controllo, e da lì si è partiti per sviluppare la Well-Being Therapy.
«Si tratta di una strategia psicoterapica a breve termine che si articola in 8-12 sedute, talvolta 16 sedute, della durata di 30-35 minuti ciascuna, una volta ogni 15 giorni — dice Fava —. All’inizio del trattamento viene chiesto di riportare in un diario strutturato le circostanze nelle quali si sono verificati episodi di benessere, che vengono valutati con un punteggio. Cerchiamo quindi di individuare i punti di forza di ognuno, e di rimuovere gli ostacoli che ne impediscono l’espressione, come pensieri che portano a interruzione prematura del benessere. Usiamo in tal senso le sei dimensioni proposte da Carol Ryff (vedi articolo sopra, ndr ), e a partire da lì costruiamo il cambiamento nel comportamento e nello stile di vita».
La Well-Being Therapy riduce la vulnerabilità agli stress quotidiani, interrompendo il circolo vizioso tra malessere, disagio e sviluppo di ulteriore malessere, condizione frequente quando restano sintomi residui dopo una fase depressiva.
«Diversi studi clinici controllati indicano che la Well-Being Therapy è efficace in più campi di applicazione — dice ancora il professor Fava —. Abbiamo dimostrato che pazienti con episodi ripetuti di depressione potevano liberarsene».
«Sono arrivate conferme da studi indipendenti effettuati in Germania e negli Stati Uniti — prosegue lo psicologo — e il nostro approccio è alla base di una riforma nel trattamento della depressione in Gran Bretagna, che prevede la disponibilità della psicoterapia nel servizio sanitario nazionale. Altri studi hanno riguardato l’ansia generalizzata e la ciclotimia (sbalzi di umore frequenti) e hanno dimostrato come il nostro approccio possa condurre a una maggiore stabilità dell’umore».
«Inoltre, — continua l’esperto — la dottoressa Elena Tomba, ricercatore di psicologia clinica dell’Università di Bologna, ha dimostrato in uno studio appena pubblicato sulla rivista International Journal of Eating Disorders , che le pazienti affette da disturbi alimentari hanno carenze di benessere psicologico. Lo studio è stato realizzato su 245 soggetti con diversi disturbi alimentari, bulimia, anoressia e binge eating disorder , che sono stati confrontati con 60 soggetti sani coinvolti come gruppo di controllo. Questa scoperta può portare a studiare l’applicazione della Well-Being Therapy anche in questo campo».
Di grande interesse anche la possibile applicazione della Well-Being Therapy nell’ambito preventivo per bambini e adolescenti. L’idea è che aumentando il livello di benessere si potrebbe influenzare lo sviluppo della personalità, contrastando l’insorgenza di comportamenti a rischio frequenti durante l’età evolutiva, come l’abuso di alcol, droghe e fumo. Studi esplorativi indicano che lavorando sulla ricerca del benessere, piuttosto che sui sintomi, è possibile aiutare i ragazzi a individuare i migliori percorsi evolutivi della vita.

Corriere Salute 4.5.14
L’impatto delle emozioni positive sulla salute fisica
Ma la felicità personale non si può misurare in tutte le culture allo stesso modo


Esiste una relazione tra benessere psicologico e indicatori biologici associati al buon funzionamento dell’organismo. «Si tratta di ricerche ancora in corso, tuttavia oggi si sa che persone che presentano punteggi alti nella dimensione delle relazioni positive con gli altri tendono ad avere un peso corporeo più basso, a sua volta associato a migliori condizioni di salute — dicono Chiara Rafanelli, professore straordinario di Psicologia clinica dell’Università di Bologna e Chiara Ruini, ricercatore di Psicologia clinica dell’Università di Bologna —. La relazione esiste anche per un basso rapporto circonferenza vita-fianchi, che significa minor rischio cardiovascolare: oltre alle relazioni positive con gli altri risulta correlato a buona padronanza ambientale e a un preciso scopo nella vita. Sappiamo inoltre che le persone con alti punteggi nelle dimensioni dell’accettazione di se stessi e nella padronanza ambientale hanno più bassi livelli di emoglobina glicosilata, che vuol dire minor rischio di diabete e quindi anche di disturbi cardiovascolari. Anche più bassi livelli di cortisolo salivare, indice di buona regolazione neuroendocrina, sono correlati a buona crescita personale e a un chiaro scopo nella vita, mentre una riduzione del biomarker infiammatorio Interleukina-6 è presente nelle persone che hanno un buon senso di padronanza ambientale, uno scopo nella vita e anche un coinvolgimento in pratiche religiose. Un recente studio italiano ha poi confermato un’associazione tra la presenza di alti livelli di stress, sintomi di ansia e depressione ed elevata concentrazione di piastrine nel sangue; concentrazione che invece si correla negativamente con la dimensione della padronanza ambientale, a conferma degli effetti potenzialmente protettivi del benessere psicologico».
Le emozioni positive hanno un ruolo anche nell’affrontare condizioni patologiche già instaurate: ad esempio, in chi ha una diagnosi di positività al virus dell’Hiv, ottimismo e speranza sono associati a una più lunga aspettativa di vita.
Oltre a poter essere rilevato attraverso indici biologici, il benessere può essere valutato anche nel suo differente manifestarsi attraverso le culture di vari Paesi. Di recente l’Organization for Economic Cooperation and Development ha pubblicato un report, intitolato How’s Life, basato sulla ricerca di undici diversi aspetti della vita che maggiormente contribuirebbero al benessere in maniera trasversale rispetto alle varie nazioni e culture. Ne parlano due ricercatori giapponesi, Yukiko Uchida e Yuji Ogihara, dell’Università di Kyoto, in un recente articolo pubblicato sull’International Journal of Wellbeing . Ma il concetto di benessere psicologico solo con difficoltà può essere semplicemente spalmato su culture diverse. In particolare va tenuto presente che esistono differenze sostanziali tra Occidente e Oriente. «Sono emersi approcci che tengono maggiormente conto di fattori locali — spiegano i due ricercatori —. Il GNH, Gross National Happines Index del Bhutan (una sorta di indice del prodotto interno lordo di felicità) ha attratto l’attenzione dei Paesi sviluppati e di quelli in via di sviluppo, dal momento che la felicità degli abitanti del Bhutan è alquanto elevata rispetto alla loro situazione economica. Il GNH Index comprende misurazioni multidimensionali che riflettono anche idee e orientamenti spirituali e culturali del Bhutan. Tali misurazioni sono correlate a un concetto ampio di benessere e felicità, comprendente fattori sociali collettivi, come vitalità della comunità, capacità di recupero ecologico e buon governo».
Dunque ogni cultura ha una sua specifica costruzione del benessere, e non avrebbe senso chiedersi quale sia in assoluto la nazione più felice del mondo. Secondo Uchida e Ogihara, bisognerebbe sempre prendere in considerazione gli aspetti culturali del benessere, per evitare semplificazioni. Ad esempio, il Giappone sembra avere livelli di soddisfazione e felicità inferiori a quelli degli altri Paesi, ma si tratterebbe di una artefatto dovuto all’uso di scale di valutazione costruite per l’Occidente. Infatti, in Giappone il benessere personale tiene conto del confronto sociale e una persona sproporzionatamente felice si sentirebbe in disarmonia all’interno delle sue relazioni. E poi, nelle culture asiatiche in generale, il livello di felicità personale viene valutato tenendo conto non solo del benessere attuale, ma anche del livello di benessere che potrebbe essere raggiunto in futuro. «Di conseguenza, se le persone riconoscono che il loro stato corrente può non essere sufficientemente apprezzabile, ma hanno l’aspettativa che possa migliorare, la loro ‘infelicità’ non è poi da considerarsi così negativa» dicono i ricercatori giapponesi. Dunque, per valutare adeguatamente questi parametri nelle società asiatiche bisognerebbe introdurre nelle scale di rilevazione aspetti trascurati in Occidente, come il livello previsto di benessere e anche una sorta di benessere sociale trasversale che supera i limiti dello stato emotivo del singolo individuo.

Corriere La Lettura 4.5.14
Siamo schiavi del tempo della produzione
Ma la ragione senza sonno genera mostri
di Federico Campagna


La pubblicazione della top ten delle canzoni usate durante gli interrogatori a Guantanamo Bay è di pochi giorni fa. Per settimane i prigionieri sottoposti all’enhanced interrogation program vengono bombardati con loop di We Are The Champions dei Queen, The Real Slim Shady di Eminem, ma anche I Love You , la sigla del programma per bambini Barney and Friends . Il tutto sotto la luce perenne dei fari, per privarli del sonno il più a lungo possibile. Bastano a volte un paio di giorni di questo regime, osserva il sergente Mark Hadsell, per distruggere la volontà dell’interrogato.
Nel suo ultimo libro 24/7 , Jonathan Crary entra in queste stanzette di tortura dopo un breve viaggio immaginario tra uccelli migratori insonni, soldati rifocillati a anfetamine e piani spaziali di illuminazione eterna del pianeta. Crary, professore di Modern Art and Theory alla Columbia University, è alla ricerca del sonno perduto, in un sistema globale sempre più 24/7 — attivo 24 ore al giorno, sette giorni su sette. Il confine tra giorno e notte si è andato erodendo sin dai tempi della rivoluzione industriale. Le luci notturne delle fabbriche dipinte da Joseph Wright nel 1782 annunciavano già lo sfaldamento della separazione tra sonno e veglia, a favore dell’espansione delle ore di produzione e consumo. Sempre più l’attività si fa continua, poiché solo nel suo stato di veglia l’uomo è capace di aggiungere valore al sistema di produzione in cui è immerso. Non appena si addormenta, osserva Crary, l’uomo diventa di colpo fragile e inutile, sordo a qualunque richiesta. È così che le ore di sonno si sono ridotte in poche generazioni da una media di dieci alle sei e mezzo attuali. Un riposo, del resto, sempre più frammentato e inquieto. L’obbligo di connessione perenne, il flusso di email, messaggi e telefonate a ogni ora, agiscono sul sonno come i loop di Guantanamo e i fari accesi delle sue celle. Con la differenza, nota Crary, che la coercizione in questo caso non proviene tanto dal di fuori, quanto da noi stessi.
La servitù volontaria si esprime oggi come accettazione della fine del tempo biologico, a favore del tempo infinito e inorganico della produzione 24/7. Via via che il lavoro si fa più flessibile, il moto perpetuo dei macchinari e degli indici di borsa si introduce nella vita dei singoli. Come possiamo dormire, mentre la concorrenza a Tokyo e Los Angeles è in piena attività? La dissoluzione del limite tra notte e giorno non agisce però solo a favore dello stato di veglia. Dopo poche ore di sonno inquieto, spesso sotto l’effetto di sonniferi, ci si sveglia storditi. Sui treni del mattino diretti verso gli uffici, legioni di sonnambuli entrano alla luce del giorno in uno stato di semi-coscienza. Il tempo si dipana come un flusso omogeneo, che ci avvolge e ci consegna docili ai nostri precisi compiti di produzione e consumo. Del resto, conclude Crary, proprio a questo serve la dissoluzione del sonno: a rendere ogni attimo di vita disponibile al lavoro, per quanto mal fatto. Fino a che, si intende, ogni energia si esaurisce, ogni informazione disponibile viene estratta, e il soggetto così svuotato diventa un’entità di nessun valore, pronta per il macero sociale.
Dopo decenni di neoliberismo sfrenato, l’analisi di questo nuovo sistema di sfruttamento sta assumendo un ruolo di primo piano soprattutto nel mondo anglosassone. È qui che la salute mentale sta emergendo come il campo di una battaglia decisiva tra la possibilità di una felicità individuale e collettiva e la rassegnazione a un destino da uomo-macchina. Nonostante i ritmi e le aspettative della produzione ininterrotta devastino l’equilibrio della nostra psiche, scrive il teorico Mark Fisher su «The Occupied Times», la responsabilità per il «management della sofferenza» viene oggi sempre più addossata ai singoli individui. Secondo lo yuppismo melanconico dei nostri giorni la malattia mentale è colpa del singolo «perdente», che se ne deve assumere il carico e la terapia con l’aiuto di droghe più o meno legali. Panico, ansia e depressione diventano problemi sociali solo quando intaccano le capacità produttive del singolo, mentre le terapie mirano a ripristinare la funzionalità produttiva del paziente piuttosto che affrontare le cause della sua sofferenza. Non è del resto possibile, nota Fisher, risolvere il problema solo da un punto di vista medico. Gli antidepressivi e i sonniferi non possono che simulare uno stato di salute, mentre gli imperativi della competizione e della connessione 24/7 continuano a minare alle fondamenta ogni possibilità di autentica guarigione.
In controtendenza rispetto all’idea che la salute mentale sia un problema da sbrigarsi pudicamente in casa propria, autori come Jonathan Crary e Mark Fisher vedono la politica come il vero terreno su cui sia possibile produrre dei cambiamenti sostanziali. Una precisa politica sociale ed economica ha trasformato il tempo biologico in un flusso produttivo ininterrotto. E solo una diversa politica potrà invertire questa tendenza, privilegiando le necessità dell’uomo inteso come organismo biologico e psichico prima che come unità economica. La ragione, senza sonno, genera mostri.

Corriere La Lettura 4.5.14
Ribolla, 1954 una Marcinelle in Maremma
di Dino Messina


Alle 8.45 del 4 maggio 1954 un’esplosione di grisou nella sezione Camorra della miniera di lignite di Ribolla (poco a nord di Grosseto) uccise 43 minatori. Una delle più grandi tragedie di quel territorio maremmano che viene definito delle «colline metallifere», per la presenza e lo sfruttamento di minerali risalente al tempo degli Etruschi. Sul luogo del disastro accorsero gli inviati dei maggiori giornali italiani, già presenti nella zona per assistere alle manovre militari della Nato Italian Sky . E subito furono chiare le responsabilità della Montecatini, proprietaria di una miniera in cui, come venne accertato da una commissione d’inchiesta governativa, il sistema di ventilazione era ampiamente inadeguato ed era stato chiuso proprio nei giorni immediatamente precedenti.
Sui particolari della tragedia di Ribolla, che segnò la fine di un’epoca di sfruttamento pesante, vale la pena ancora oggi di leggere I minatori della Maremma (1956), l’inchiesta scritta a quattro mani da due docenti di un liceo grossetano, che si chiamavano Luciano Bianciardi, il tormentato autore della Vita agra (1962), e Carlo Cassola, che nel 1960 con La ragazza di Bube avrebbe vinto il premio Strega. Il libro è un fortunato esempio di indagine, che racconta lo sviluppo delle miniere maremmane a partire dall’Ottocento, compresi episodi come l’eccidio di Niccioleta, un villaggio la cui popolazione venne decimata dalla furia nazista nel giugno 1944. L’inchiesta dei due scrittori, che uscì su una rivista, è oggi disponibile tra l’altro in un volume dell’editore ExCogita, di cui si è parlato a Roccatederighi, uno dei paesi delle colline metallifere, in una serata assieme alla figlia di Bianciardi, Luciana, e al giornalista del «Corriere» e scrittore Paolo Di Stefano, autore de La catastròfa. Marcinelle, 8 agosto 1956 (Sellerio) di cui il ministero degli Esteri, per iniziativa di Cristina Ravaglia, ha approntato con Sellerio una edizione speciale. Molte le coincidenze fra la tragedia di Ribolla e quella di Marcinelle, in Belgio, dove il numero dei morti fu molto alto (262, di cui 136 italiani): dalle insufficienti misure di sicurezza al sistema di lavoro basato sul cottimo, alla precaria edilizia approntata per i lavoratori, lasciati vivere in baracche.

Corriere La Lettura 4.5.14
Salinger e compagnia bella,  la fabbrica dell’eternità
di Marco Missiroli


L’uomo che escogitò l’immortalità nacque a Park Avenue, era mezzo ebreo e aveva un’attitudine al romanticismo. Sfidò Dio con una manciata di libri e con un pugno di ossessioni che si placarono due anni prima dall’ultimo respiro, quando vendette l’anima all’eternità e seppellì l’oblio. Si chiamava J. D. Salinger, faceva lo scrittore.
Preparò la sua uscita di scena ribaltando le leggi terrene: escogitò un Trust, una fondazione a suo nome, che dichiarò unica erede dei suoi diritti d’autore e a cui consegnò il segreto: i manoscritti che aveva concepito al riparo dall’umanità. Li aveva pensati e creati in quel fortino sulla collina di Cornish che lo difese dalla malizia dei suoi pari e dalla curiosità del mondo. È l’inchiostro più prezioso della storia della letteratura, esiste. Riposa nella cassaforte del Salinger-Trust e uscirà tra il 2015 e il 2020 con cadenza non regolare. Il lascito del padre di Holden è questo e permetterà di dare seguito al cosmo di Caufield e di tutto l’alfabeto narrativo dell’autore dei Nove racconti . Così l’uomo che si faceva chiamare Jerry è andato oltre la gloria e il ricordo. Ripartorendo la propria nascita. È il nucleo di Salinger. La guerra privata di uno scrittore , di David Shields e Shane Salerno (Isbn edizioni), l’opera definitiva sulla vita e sui misteri dell’eremita che con un assaggio di pubblicazioni ridefinì i confini di fama e invisibilità. La biografia di Shields e Salerno (che ne ha tratto un documentario) approfondisce la figura di Jerry e scoperchia il mito che Salinger aveva custodito grazie alla discrezione della comunità di Cornish.
Ora ci siamo, ora potrebbe completarsi il codice di Holden, dei pescibanana, della famiglia Glass e di tutti quei figli che Jerry considerava più che figli. La fondazione Salinger nega la futura pubblicazione, testimonianze e documenti raccolti nella biografia sottoscrivono il contrario: sono le voci delle ex conviventi che hanno battuto a macchina i manoscritti occulti, degli amici più intimi, delle lettere ritrovate, delle persone un tempo vicine all’uomo che sfidò il divino.
Lacrime, libertà, e vattelapesca
Nel gennaio del 1951 J. D. Salinger riceve una lettera proveniente dal «New Yorker»: è il rifiuto alla pubblicazione de Il giovane Holden . Jerry ha una venerazione per il «New Yorker» e una visceralità con Holden. Sceglie il suo protagonista e non accetta la motivazione del giornale che ha bollato il romanzo come troppo artificiale e dai toni eccessivi (rimasero indigeste espressioni come «vattelapesca» e «compagnia bella»). Decide attraverso la sua agente di inviarlo alla Harcourt che legge subito il manoscritto. Dopo una serie di discussioni interne, Salinger viene convocato in casa editrice, viene fatto accomodare in un grande ufficio e gli viene chiesto se Holden fosse pazzo. Jerry rimane immobile, fissa una delle finestre, non dice una parola mentre il direttore editoriale gli domanda se fosse disponibile a riscrivere l’opera. Finisce a malapena la frase, di colpo si accorge che Salinger sta piangendo.
Ferire Holden è ferire Salinger e molto di più: significa violare l’innocenza del mondo. La Harcourt profanò una libertà, una generazione e il futuro dei figli che sarebbero venuti. Commettendo, tra le altre cose, l’errore editoriale più grave della sua storia. Sarà la Little, Brown & Co. a pubblicarlo e a intascarsi i milioni di copie che ne verranno.
Lo scrittore newyorkese non vacillò mai quando gli editori provarono a cambiare i connotati al suo personaggio, nemmeno alle reazioni sconcertate di qualche lettore a pubblicazione avvenuta. Sapeva che Holden Caufield era, come nel libro, la mosca bianca che avrebbe guidato le mosche nere. Sapeva che si sarebbe fatto largo con timidezza, acciuffando gli altri bambini che rischiavano la corruzione adulta. In quell’ufficio della Harcourt, il karma del personaggio si completò nel suo genitore. J. D. dovette solo difenderlo, allora e nel tempo che sarebbe venuto. La prima forma di immortalità di Salinger fu la sua autoconsapevolezza. La pazzia divenne liberazione, e compagnia bella.
Tradimento di Charlot, eternità della mancanza
C’è una ferita primordiale in Jerry Salinger che lacera ogni suo libro. Si chiama Oona O’Neil. È la figlia di Eugene O’Neil, commediografo e Nobel per la letteratura. Salinger la conosce nell’estate del 1941 e perde la testa. Lui ha modi gentili, un savoir faire d’altri tempi e un istinto narrativo prestato alla galanteria. È uno spaccone di spirito. In più ha già pubblicato su riviste che contano. Lei è un bocconcino con cervello, in procinto di sbocciare: «Sapevo che sarebbe diventato uno scrittore. Me lo sentivo», dirà qualche anno dopo Oona e confessò che il loro secondo appuntamento fu a Central Park, davanti allo stesso laghetto con le anatre che segneranno la ribellione di Holden.
Daranno vita alla coppia che mette insieme due preludi, Oona si presta a diventare un’attrice alla ribalta, Jerry ha le scintille delle storie che scriverà di lì a poco. Si frequentano per circa un anno in una sostanza sentimentale che lievita diversamente. La passione brucia per entrambi, in Salinger si trasforma in un sodalizio interrotto dalla chiamata alle armi. Parte e non sa che le pallottole da schivare sarebbero venute da Hollywood dove Oona si trasferisce in cerca di successo. È qui che viene assediata da attori, registi, produttori che la pretendono privatamente, lei resiste e risponde alle lettere «seducenti, squisite, incantevoli» di Salinger. Poi arriva un uomo diverso dagli altri, la corteggia con una delicatezza infantile e allo stesso tempo adulta che la riporta a un padre sfuggente. Oona ha già visto quest’uomo al cinema, tutti l’hanno visto al cinema, recita con la pelle incipriata di bianco, una lacrima dipinta sulla guancia, la bombetta e le scarpe più grandi di tre taglie. Charlot.
Oona interrompe di colpo la corrispondenza con Salinger che non si dà pace, è all’oscuro di tutto, rimane intrappolato sul fronte finché un suo commilitone gli porta un giornale: in prima pagina c’è la sua fidanzata con un uomo che le porge un anello da matrimonio. Charlie Chaplin. È il momento che ridefinisce il codice narrativo di Salinger. Da quel momento Jerry pretenderà l’identità di Oona O’Neil in ogni donna che avrà accanto. Accadrà con Sylvia la sua prima moglie e con Joyce Maynard, la scrittrice di cui si innamorò dopo averla vista sulla copertina del «New York Times». Saranno tutte giovanissime, i capelli scuri, un’aria innocente e sensuale, custodiranno tutte un desiderio di protezione. Ognuna sarà sedotta attraverso le lettere, la stessa corrispondenza che Oona abortì. Con loro Salinger ritrova il tempo perduto, sovverte la caducità, attraverso di loro comincia a inseguire l’eterno. E a far suo il silenzio catartico di Holden. «Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti».
Là sulla collina, a caccia di pescibanana
Il fucile è l’altra penna di Salinger. La guerra, lo sbarco in Normandia, l’uniforme che mette ordine all’esistenza. Jerry decide di violare la purezza nel modo più estremo, tra le budella del mondo e ai confini dell’umano. Lo spirito bellico di Salinger sta nella sua autoconsapevolezza: sa che nessuno è esente dalla perdita del candore, nemmeno i suoi personaggi che manderà incontro alle doglie di una formazione. È il sacrificio che santifica.
Jerry è nell’esercito dal ’42 al ’46, quarta divisione. Viene notato per meriti sul campo, per la disciplina, per l’efficacia. Per una strana forza che lo rende audace e allo stesso tempo brillante, «Ho una tale voglia di ammazzare che non riesco a star fermo. Buffo, no? Proprio io che ho sempre avuto questa fama di pavido. È tutta la vita che evito le scazzottate, che ne esco grazie alla mia sciolta parlantina. Adesso voglio regolare tutti i conti a suon di fucilate». Lo fa dire al protagonista de Last Day of the Last Furlough , comparso sul «Saturday Evening Post», nel 1944. È qui che si consolidano le ombre dei futuri racconti, della famiglia Glass e la disperazione gentile dei pescibanana. È questo il territorio del diavolo di J. D. Salinger. Attraverso l’esercito conosce Paul Fitzgerald, suo compagno nell’unità dei Corpi di controspionaggio.
Fitzgerald sarà una delle poche persone a seguirlo per tutto il corso della sua vita, diventerà una delle testimonianze indirette del mistero-Salinger. Passerà a trovare Jerry di tanto in tanto, tra loro resisterà una fitta corrispondenza. È anche in queste lettere, raccontate nella biografia di Shields e Salerno, che emerse quanto Salinger avesse scritto senza pubblicare. I due amici avevano in comune l’amore per i rituali e l’uso della nostalgia, eredità militari e fondamenta della solitudine salingeriana. La guerra fu questa assenza, un rumore bianco che lo attraversò anche dopo il congedo, là, sulla collina di Cornish dove si rinchiuse per scrivere con una tuta di tela che portava come un’uniforme.
La mano di Dio nel campo di segale
L’ultima fotografia rubata di Salinger risale al 2008, due anni prima della morte. È appoggiato a un bastone, in mezzo alla strada, i capelli d’argento e l’ossatura di un uomo che è stato forte. Sembra distratto, è una distrazione felice, quasi infantile.
Sessanta anni prima, alla ragazza che gli ispirò il suo racconto perfetto, Per Esmé : con amore e squallore, scrisse: «Dici di sentirti ancora una quattordicenne. So come ci si sente. Io ho trentaquattro anni e passo troppo tempo a sentirmi ancora come un Holden Caulfield sedicenne». È questa fame di infanzia che lo portò a isolarsi dal mondo, e a votarsi alla spiritualità. Salinger era un adepto della religione Vedanta. La studiò dagli anni Quaranta quando si addentrò nelle filosofie orientali e inseguì alcuni propositi della dottrina indiana: diventare un capofamiglia, sposarsi, procreare e sostenere una famiglia. Fece tutto più e più volte, intensificò la pratica del suo vangelo nelle meditazioni quotidiane e nell’igiene della coscienza. Costruì un bunker separato nel suo terreno a Cornish e ci andò a scrivere per settimane senza vedere moglie e figli. Vietò a se stesso qualsiasi contatto, l’unica eccezione erano i suoi personaggi che diventarono l’affetto. Con loro fu il padre di famiglia e li difese dal mondo, adottando uno dei principi fondamentali Vedanta: l’addio a qualsiasi forma di gloria. La ricompensa era la giusta reincarnazione.
Così J. D. Salinger legittimò la psicosi dell’assenza, concependo il mistero più efferato della storia della letteratura. Divinizzò se stesso, i pochi libri pubblicati e gli ipotetici futuri. Creò la devozione dell’attesa che potrebbe terminare il prossimo anno, con l’uscita del suo primo manoscritto incentrato sui Glass o sui Caufield. Si parla anche di un manuale di Vedanta, e di un lungo romanzo di guerra. L’immortalità programmata è matura, è adesso, ma nasce molto prima: si insinua nel campo di segale in cui Holden sogna di salvare i bambini che stanno per cadere nel burrone degli adulti. Li afferra uno a uno con la sua mano divina, ci libera, e dà al mondo la possibilità di un’altra innocenza.

Corriere La Lettura 4.5.14
Il secolo di Berto
Anche il mondo soffre il male oscuro
di Cinzia Fiori


Il 27 dicembre sarà trascorso un secolo dalla nascita di Giuseppe Berto. Che il titolo dell’incontro torinese dedicato all’autore del Male oscuro sia Cent’anni di solitudine è quanto mai significativo. Già di per sé racconta di un’opera incompresa e per ciò meritevole di riletture e nuovi studi, lontani dalle animosità che avevano contraddistinto i giudizi coevi sul suo valore. Di fatto è stato un autore molto stroncato, il suo anti-ideologismo fu preso per fascismo in anni, quelli del Dopoguerra, in cui era fondamentale collocare politicamente chi scriveva. Nato a Mogliano Veneto, viveva a Roma, dove, anche nel periodo di maggior successo, era relegato ai margini dall’ambiente letterario e mondano, che lui peraltro disprezzava per la convenzionalità, le consorterie, i reciproci scambi di favori. Tanto da arrivare a un processo con Moravia. La sua dirittura morale fu equivocata fin dentro la sua opera: «Quando mi dicevano che sono un neorealista io dicevo che sono un neoromantico», affermò in un’intervista del 1971. Il riferimento è al suo esordio con Il cielo è rosso (1947), grande successo portato anche al cinema, che ai canoni del Neorealismo risponde soltanto dal punto di vista estetico.
«Narrava il bombardamento anglo-americano su Treviso, che non aveva vissuto perché era in carcere in America. Con una straordinaria forza visionaria, aveva lavorato attorno al tema della guerra come Male». A raccontare la vicenda di Giuseppe Berto è Cesare De Michelis, presidente di Marsilio, dell’associazione Giuseppe Berto e animatore del comitato per le celebrazioni del centenario. Da 25 anni si occupa dello scrittore, cui ha dedicato anche saggi, organizzando convegni. E continuerà a promuoverne la conoscenza con l’obbiettivo di trovare una casa e acquisire l’archivio di Berto per favorire gli studi.
«Il dramma di Berto e quindi anche il cuore della sua poetica — dice — è esistenziale: la vita è un disperato tentativo di combattere il “male universale”, come lui lo definiva, ed è disperato perché condannato al fallimento certo, ma nel contempo necessario. L’uomo non è mai vincente, è compromesso per la sua stessa natura, eppure deve continuare a opporsi, è quanto di meglio possa fare. Lo stesso vale per la scrittura. Secondo lui era un tradimento inevitabile della verità del reale cui, nonostante l’impotenza, la letteratura non può che tendere».
Attorno a questo nucleo, secondo De Michelis, Giuseppe Berto concepisce anche la sua opera più nota, Il male oscuro , una lunga confessione che travolge la punteggiatura e procede per libere associazioni, come avviene durante le sedute psicoanalitiche. Nel romanzo, che nel 1964 vinse il Campiello e il Viareggio, Berto ripercorre la sua vita, segnata dal rapporto col padre e dal senso di colpa. Narra anche, non senza ironia, i suoi attacchi di panico, le crisi d’angoscia, i disturbi psicosomatici che l’avevano portato in analisi. La dissoluzione delle strutture narrative fece parlare di flusso di coscienza di ispirazione joyciana, di certo al centro dell’opera c’era Freud ma la psicoanalisi, secondo De Michelis, ne esce perdente rispetto alla sfida esistenziale di Berto: «Non è risolutiva e non può esserlo per lui. È piuttosto un aiuto nel bisogno».
Di quel romanzo dal titolo efficace (una frase tratta dalla Cognizione del dolore di Gadda) Giorgio Barberi-Squarotti scrisse a inizio anni Ottanta: «Non è nulla più che un abile lavoro di intrattenimento», mentre, a un convegno del ’98, Luca Doninelli lo definì: «Bibbia dei perturbati, degli insonni, consumatori di ansiolitici, convincente definizione dell’uomo moderno». Due posizioni che, in primo luogo, parlano di un testo, persino il più celebrato, ancora controverso.
Il tema di Berto, attento al destino degli umili, resta il rapporto ambiguo dell’uomo con il male e la sua coesistenza col bene: da Il brigante (1951) a La g loria , ossia l’ultimo romanzo con il quale vinse il premio Campiello 1978, l’anno della sua morte. Si tratta di una rilettura della storia di Cristo dal punto di vista di Giuda Iscariota, uomo consapevole della necessità del suo ruolo di traditore. Ed è anche un confronto tra la condizione umana e quella divina.
Il peccato originario di Giuseppe Berto, secondo De Michelis, fu «il fatto di essere partito volontario per l’Africa e di aver partecipato alle guerre del fascismo dai 26 ai 36 anni. Quando quell’esperienza finì, anziché dichiarare come molti italiani che nessuno era stato fascista, lui disse: siamo stati quasi tutti compromessi. Ne fece anche un libro, Guerra in camicia nera, dove raccontava i suoi giorni da combattente in Africa. Ed è la consapevolezza del dissidio contenuto in questa posizione, appunto compromessa per via della natura umana, la fonte della disperazione e della determinazione a lottare che attraversa la sua opera». De Michelis, all’incontro torinese parlerà anche della sofferenza personale dell’autore per «la supponenza dei critici» e di come Berto abbia più volte sentito la necessità di chiarire il suo fare letterario, a partire da L’inconsapevole approccio (1965), «fin dentro tutti i romanzi, compreso La gloria , dove negli apostoli si possono riconoscere gli scrittori».
Ora che cento anni sono passati, Bur sta ristampando tutta la sua opera: nel 2012 sono usciti Il male oscuro con la storica prefazione di Carlo Emilio Gadda, Anonimo veneziano con una presentazione inedita dell’autore, oltre a Il cielo è rosso, La gloria e Guerra in camicia nera. Nel2013 la casa editrice ha ripubblicato Il brigante e, entro la fine del 2014, saranno in libreria Serafina, La cosa buffa, Fantarca e il primo romanzo (che però era uscito un anno dopo Il cielo è rosso), Le opere di Dio. Un’opportunità che accoglie il bisogno di un lavoro più sereno e approfondito sullo scrittore, capace di collocarlo nella storia della letteratura fondandosi sulla sua opera.

L’appuntamento al Salone Cent’anni di solitudine: Cesare De Michelis e Antonio D’Orrico ricordano Giuseppe Berto con letture dell’attore Giorgio Sangati, giovedì 8 maggio in Sala Blu alle 16

Il Sole 24 Ore Domenica 4.5.14
Scienza delle Costituzioni
Filosofia naturale e filosofia politica si sono prestate a vicenda le metafore che hanno contribuito a disegnare gli Stati moderni: da Newton ai «checks and balances»
di Gilberto Corbellini


Ai tempi in cui si progettava l'Unità d'Italia, e nei primi tempi del Regno, erano alte le speranze che la scienza e la tecnologia avrebbero aiutato a creare quasi dal nulla una nuova nazione. Lo Statuto albertino del 1838 prevedeva la nomina tra i senatori, come categoria a sé, di scienziati membri da almeno sette anni dell'Accademia della Scienze. Nove anni prima si era tenuta "in Pisa" la "Prima Riunione degli scienziati italiani", che nel congresso del 1862 (primo dopo l'Unità) accoglieva la proposta di Stanislao Cannizzaro di creare anche in Italia, dopo Gran Bretagna (1831) e Usa (1848), una Società per il Progresso delle Scienze (più o meno formalmente costituita solo nel 1875). Ben quattro furono gli scienziati che ricevettero, poco dopo l'Unità, l'incarico dal Re di presiedere il Consiglio dei Ministri del Regno d'Italia: Bettino Ricasoli, fisico e chimico che fu il secondo presidente italiano dopo Cavour nel 1861; Luigi Carlo Farini, medico e al potere per pochi giorni nel 1862; Luigi Federico Menabrea, ingegnere e teorico della meccanica dei sistemi elastici che ebbe l'incarico nel 1867, e Giovanni Lanza, medico e agronomo, che guidò il governo dal 1869 al 1873. Ministro delle Finanze nel governo Lanza era peraltro l'ingegnere, matematico e mineralogista Quintino Sella, che rifondò l'Accademia dei Lincei nel 1874.
L'eccitazione, anche politica, per la scienza presso le élite intellettuali occidentali dei primi dell'Ottocento, persino in Italia, era la conseguenza di quel che era accaduto nei circa duecento anni precedenti, nei quali la presa sulla realtà e la diffusione dell'atteggiamento scientifico avevano generato i valori e i metodi del pensiero liberale e della democrazia. Il minimalismo teoretico prevalso dopo gli anni Sessanta ed espresso oggi nelle forme più decadenti dai vari construttivismi e relativismi in ambito filosofico, e quindi anche sociologico e politico, ha fatto dimenticare alcuni elementi storico-empirici a chi oggi discetta professionalmente di filosofia della politica. Per esempio che, come ha mostrato Yaron Ezrahi (The Descent of Icarus: Science and the Transformation of Contemporary Democracy, Harvard University Press, 1990), la scienza è stata «strumentale» per riconciliare le istanze individuali di libertà, e la necessità sociale di ordine. E per spersonalizzare l'esercizio del potere politico. Allo stesso tempo, sempre la scienza, metteva a disposizione gli strumenti per ricondurre agli attori politici la responsabilità delle scelte. La diffusione della cultura scientifica nell'età dell'Illuminismo consentì di stabilire, per il filosofo della politica israeliano, quando le azioni degli agenti politici erano state intraprese «nell'interesse» dei cittadini, garantendo le condizioni per cui tali agenti potevano essere pubblicamente valutati per la loro affidabilità.
C'è ben di più. In Science and the Founding Fathers (Norton, 1997), Bernard Cohen dimostra che l'apertura della Dichiarazione d'Indipendenza degli Stati Uniti fu scritta da Jefferson e Franklin usando i termini «leggi di natura» e «autoevidenti» in un'accezione strettamente «newtoniana», e che la Costituzione degli Stati Uniti è intessuta di metafore riprese dalle scienze meccaniche (statica). Il rimpallo di metafore tra filosofia naturale e filosofia politica era ripreso dalle discussioni che avevano avuto luogo in Inghilterra sulla natura del potere politico. Nel senso che i Padri Fondatori non avevano letto solo Montesquieu (che peraltro si era formato intellettualmente anche come scienziato sperimentale!) sull'equilibrio fra i poteri. Un'ispirazione importante furono le idee espresse da James Harrington in La repubblica di Oceana (1656), in cui dominava la metafora fisiologica della circolazione sanguigna, da poco (1628) dimostrata da William Harvey. Lo stesso Harvey aveva cambiato il modo di presentare la dinamica della circolazione nell'edizione del 1649 del suo classico libro, spostando l'enfasi dal cuore al sangue, circa quale dovesse essere ritenuto l'elemento primario nella fisiologia della circolazione: di fronte ai cambiamenti degli equilibri politici egli pensò bene di abbandonare un'interpretazione assolutistica del sistema circolatorio, optando per una… contrattualistica.
A sua volta, lo storico Otto Mayr sostiene, in La bilancia e l'orologio. Libertà e autorità nel pensiero politico dell'Europa moderna (Il Mulino, 1988), che la metafora dell'orologio meccanico come esempio di ordine e regolarità del mondo venne abbandonata in Inghilterra alla fine del XVII secolo, in quanto espressione di una concezione assolutistica. Dopo la Gloriosa Rivoluzione, il modello meccanico della politica diventavano, in Inghilterra, i controlli e contrappesi (checks and balances) «ovvero dei dispositivi di autoregolazione che gli orologiai inglesi utilizzavano in diversi tipi di macchine», che apparivano più in sintonia con un modello democratico della società. Per lo storico tedesco questa associazione spiegherebbe anche il ritardo con cui i dispositivi a feedback si diffusero sul continente europeo, dove ancora prevaleva l'assolutismo.
Agli inizi del Novecento, nel mondo anglosassone tornava a essere dibattuta la questione delle basi naturalistiche dell'organizzazione democratica. Il raffinato costituzionalista Woodrow Wilson, eletto per due mandati dal 1913 alla presidenza degli Stati Uniti, pubblicò nel 1908 un saggio sul governo costituzionale americano, in cui sosteneva che la «Costituzione» era un documento newtoniano (sbagliando in questo caso!), ma riteneva anche che in quel momento fosse più adeguata un'interpretazione darwiniana. Al di là della strumentalità del suo ragionamento, egli voleva dire «il governo non è una macchina ma una cosa vivente». Influenzato dalle idee socialdarwiniste di Spencer e dai numerosi saggi, anche di filosofia politica, che concepivano la società come un organismo, Wilson ne derivava che un governo «non ricade sotto la teoria dell'universo, ma sotto quella della vita organica», e che «le costituzioni politiche viventi devono essere darwiniane nella struttura e nella pratica».
Anche se Wilson non aveva le idee molto chiare sul darwinismo, era consapevole che il pensiero politico non poteva fare a meno dell'apporto delle scienze empiriche. Oggi, purtroppo, i politici credono di bastare a sé stessi. Mentre ignorano molto, troppo di quello che accade soprattutto in ambito scientifico. La scienza non sarà tutto. Ma non è nemmeno mai stata niente, da quando c'è. Però non ci si può improvvisare scienziati. E se davvero si vuole il bene per il futuro di figli e nipoti che vivranno in questo paese, sarebbe tempo di cambiare l'atteggiamento politico verso l'accesso e l'uso efficace di conoscenze scientifiche e competenze tecniche nei processi legislativi.

Il Sole 24 Ore Domenica 4.5.14
Quale Principe per l'Italia alla deriva?
di Armando Massarenti


C'è nel Principe una metafora fin troppo letterale e concreta se riferita all'attuale situazione politica. Riguarda il rapporto tra virtù e fortuna. «La fortuna – sostiene Machiavelli (ben reso in italiano moderno da Carmine Donzelli) – dimostra la sua potenza dove non è stata predisposta virtù che le resista, e dirige i suoi impeti là dove sa che non sono stati fatti gli argini e i ripari per trattenerla. E se prendete in considerazione l'Italia, che è la sede di questi cambiamenti, e quella che ha dato loro origine, vedrete che è una campagna senza argini e senza alcun riparo». Tim Parks, nella bella introduzione alla nuova edizione Utet, che in un elegante e approfondito volume riproprone il testo originale a cura di Rinaldo Rinaldi, scrive che «nel corso di tutto il libro, l'uomo politico è presentato come colui che si destreggia pericolosamente in una soffocante rete di cause ed effetti». Ma se è vero, come sostiene Bacone in The Advancement of Learning, che «dobbiamo molto a Machiavelli e a chi scrive ciò che fanno gli uomini e non ciò che dovrebbero fare» è anche vero che la grandezza del segretario fiorentino sta nel saper descrivere sia la scarsa lungimiranza di molte azioni umane sia le virtù che potrebbero correggerla. Tornando ai nostri "allagamenti", se manca la normale amministrazione, o la normale manutenzione, basata su un monitoraggio e una conoscenza precisa di come stanno le cose, il Paese non potrà che essere sempre impreparato e sconquassato dai rivolgimenti della fortuna. Le virtù che servono oggi all'Italia, in fondo, si riducono a una: la capacità di investire in conoscenza, in competenza, nei saperi adeguati alla contemporaneità e soprattutto, da parte dei decisori pubblici, di sapere dare il giusto peso a tali saperi e a tali competenze nel processo politico. Nei casi come Stamina, la legge 40, la sperimentazione animale, gli ogm, e in numerose scelte (o mancate scelte) che riguardano la tutela e la valorizzazione del patrimonio artistico, i decisori pubblici hanno trascurato la necessità di instaurare un dialogo in cui gli esperti riconosciuti, i sicuri conoscitori – e non, per carità, i tecnocrati! – avessero un minimo di voce in capitolo. La conoscenza, e più in generale la cultura, devono tornare a essere alla base delle decisioni politiche. La proposta di riformare la nostra Camera alta nel «Senato anche delle competenze» in ambiti ad alto tasso di innovazione, va in questa direzione. Abbiamo bisogno di un sistema istituzionale che nel suo complesso, realisticamente, all'interno dei naturali bilanciamenti tra poteri, permetta alle decisioni politiche, qualunque essere siano, di scorrere, dinamiche e sicure, lungo argini costruiti a regola d'arte.

Il Sole 24 Ore Domenica 4.5.14
Dio «è»? Oppure «esiste»?
di Mario De Caro


Se c'è una figura atipica nel panorama filosofico internazionale, è certo quella di Anthony John Patrick Kenny. Già prete cattolico, poi divenuto agnostico; prima scomunicato per essersi sposato e poi vincitore della medaglia Aquinas della American Catholic Philosophical Association per i suo ruolo nel cosiddetto «tomismo analitico»; autore di 40 importanti volumi di teoria del l'azione, filosofia della mente, etica, storia della filosofia; esecutore testamentario di Wittgenstein e collezionista di importantissime cariche, accademiche e non (per esempio, la regina Elisabetta l'ha nominato Knight Bachelor). Per chi volesse comprendere lo spessore e l'originalità di Kenny, è ora disponibile in italiano, con l'ottima cura di Giovanni Ventimiglia, L'essere secondo Tommaso d'Aquino. Un'ontologia problematica, appena uscito per Carocci. In esso, con perizia filologica e profondità teoretica, Kenny critica il cuore del pensiero tomistico ovvero la tesi che solo in Dio essere ed essenza concidono. In breve il ragionamento di Kenny è il seguente. Non c'è dubbio che l'essenza sia la risposta alla domanda «che cos'è?». Il problema però è come si debba intendere l'essere perché la tesi tomistica abbia senso. Una prima possibilità è che «è» venga inteso come «c'è» (ovvero come risposta alla domanda «esiste?»). In questo modo però, osserva Kenny, la tesi secondo cui in Dio essere e essenza coincidono diviene insensata. Che senso potrebbe mai avere, infatti, un dialogo di questo tipo?: Credente: «Dio c'è». - Ateo: «Questo è quello che dici tu, ma che cosa è questo tuo Dio?» - Credente: «Te l'ho appena detto: Dio c'è, questo è ciò che egli è».
L'alternativa è di intendere «è» nel senso di «è vivo». Ma in questa accezione non solo in Dio, ma anche in enti finiti come gli esseri umani l'essenza sarebbe identica all'essere. Per noi, infatti, continuare a vivere significa continuare a possedere la nostra essenza di esseri umani (per poi perderla non appena cessiamo di vivere, cioè di esistere). Insomma, o l'identità di essere e esistenza è insensata oppure vale non solo per Dio, ma anche per gli esseri umani.
Questa argomentazione è stata, ed è ancora, molto discussa. Ma ora, con l'onestà intellettuale che l'ha sempre contraddistinto, così Kenny scrive nella Prefazione all'edizione italiana del testo: «Forse i miei critici hanno ragione quando dicono che avrei dovuto cercare con più determinazione di rendere ragione della distinzione fra essere ed essenza nelle creature... Io non sono più quel che ero una volta..., molte cose che avrei potuto fare non le ho fatte e mai farò tutto quello che è in mio potere di fare... Ebbene, niente del genere può esser detto di Dio». Insomma: essendo agnostico, Kenny non ha nulla da dire sull'esistenza di Dio, ma essendo un fine filosofo ha molto da dire sulla sua essenza.

Anthony Kenny sarà all'Università Cattolica, al Convegno internazionale Esistenza e identità, martedì 6 maggio alle 15.00

il Sole 24ore domenica 4.5.14
Mario Dal Pra (1914-1992)
Pensiero resistente
Partigiano (è lui il celebre Colonnello Procopio di Giustizia e Libertà), è stato uno dei più rigorosi storici della filosofia
di Riccardo Pozzo


La storia intellettuale e la storia della filosofia non si parlano. Diversi gli approcci metodologici, poca la letteratura secondaria in comune, diverso persino il modo di scrivere le note. Eppure, gli argomenti sono gli stessi: il pensiero e la sua storia. La ricerca di un modello italiano per la storia del pensiero inizia da una considerazione critica e fattuale di questo non parlarsi. È il caso di citare i corifei del settore, riviste d'indiscussa autorità: in Italia, la «Rivista critica di storia della filosofia», fondata da Mario Dal Pra nel 1946, in Germania, l'«Archiv für Geschichte der Philosophie», risalente al 1888, e in America il «Journal of the History of Philosophy», fondato nel 1952. L'idea è che la relazione tra storia storica della filosofia e storia filosofica della filosofia sia sempre esistita e valga la pena tematizzarla nella sua flessibilità decennio per decennio. Questione che fu degna dell'attenzione di Mario Dal Pra e del Centro di Studio per la Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico del Cinquecento e del Seicento in relazione ai Problemi della Scienza, centro del Consiglio Nazionale delle Ricerche da lui fondato nel 1964 presso l'Università Statale di Milano.
Nato a Montecchio Maggiore il 29 aprile 1914, esattamente cent'anni orsono, Dal Pra si laureò in filosofia a Padova con una tesi diretta da Erminio Troilo. Prima professore di filosofia e storia al Liceo Scientifico di Rovigo (1937-1939) e poi al Liceo Classico di Vicenza (1939-1943). Si trasferì a Milano durante la seconda guerra mondiale, soprattutto per l'impegno assunto nella guerra partigiana (fu lui il celebre Colonnello Procopio di Giustizia e Libertà, decorato con due croci di guerra al merito partigiano). Professore di filosofia e storia al Liceo Classico Carducci di Milano (1946-1951), nel dicembre 1951 divenne professore di Storia della Filosofia Antica e di Storia della Filosofia Medievale alla Statale di Milano, dove infine successe ad Antonio Banfi sulla cattedra di Storia della Filosofia, per lunghi anni la più prestigiosa del paese, e che non a caso continua a essere la sede della «Rivista critica di storia della filosofia» presso la quale appresero il mestiere generazioni di intellettuali milanesi. Ci lasciò il 21 gennaio 1992. Storico del pensiero di prestigio internazionale (tra i suoi argomenti, lo scetticismo greco, Abelardo e la logica medievale, Hume, Condillac, il giovane Marx, il pragmatismo, americano e italiano, la storia della storiografia filosofica), Dal Pra ha contribuito alla filosofia teoretica e con il trascendentalismo della prassi, per un chiarimento del rapporto tra teoria e prassi in una prospettiva antimetafisica. Scriveva Dal Pra di voler «evitare la ripetizione di disegni generali di storia del pensiero» e di essersi quindi «cautamente guardato», insieme con i suoi collaboratori, «dall'abbracciare disegni generali astratti», evitando di «dare alla storia del pensiero un significato rigorosamente univoco e uno svolgimento eccessivamente semplice e lineare». Una ricerca storica scientificamente rigorosa, la sua, attenta a una costante «cautela critica» e a «complessi approcci filologici», che divenivano in tal modo l'antidoto «alla rarefazione di una visione chiusa e sistematica della vicenda storica della filosofia».
Certo, restare fedeli alla centralità del testo è un'impresa degna del più squisito neoumanesimo. Non è cosa ovvia: significa trovare il comune denominatore per lo scambio di pensieri, discorsi e discussioni su testi che ci hanno raggiunto dopo secoli e secoli. Il testo è ciò che media fra contesto e idea, e chi si occupa di lessico e di testo media fra storia della filosofia e storia delle idee (o, meglio, intellectual history). La storia della filosofia non può avere più nulla a che vedere con il tentativo di sistematizzazione del sapere filosofico di un'epoca in relazione alle precedenti proposto da Hegel. Una ricerca innovativa è pensabile, oggi, solo sulla base della complementarietà che lega le ricostruzioni della storia personale dei filosofi nel contesto delle loro regioni, istituzioni e dell'opinione pubblica loro contemporanea. Ad esempio, si può pensare di ricostruire la storia della filosofia del l'età moderna addirittura a livello regionale, seguendo come unità di misura i bacini di utenza delle singole università. L'interazione tra storia della filosofia e storia delle istituzioni è in effetti il fondamento sul quale è costruita l'identità della storia della filosofia italiana secondo la lezione di Dal Pra. Il futuro sta nella creazione di un modello italiano alla storia della filosofia che tenga conto degli aspetti lessicali del testo e della considerazione del paratesto. Qui va esaltato il ruolo del CNR, che ha reso possibili innovazioni di rilievo in contesti felicemente interdisciplinari. Il 29 maggio 2014, un mese dopo il centenario della nascita di Mario Dal Pra, festeggeremo i cinquant'anni dell'Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee (ILIESI-CNR), dell'istituto che per primo mise a disposizione degli studiosi una biblioteca digitale quando ancora i calcolatori occupavano stanze intere e che oggi raccoglie l'eredità del Centro di Studio per il Lessico Intellettuale Europeo, fondato da Tullio Gregory e Tullio De Mauro nel 1964 e del Centro di Studio per la Storia del Pensiero Antico, fondato da Gabriele Giannantoni nel 1979. Dal Pra sarà ricordato nei prossimi mesi da un numero monografico della «Rivista di storia della filosofia» e da diversi convegni.

il Sole 24ore domenica 4.5.14
Rudolf Carnap (1891-1970)
Assiomi per pensare bene
Gli studi sulla logica di uno dei fondatori del Circolo di Vienna pubblicati postumi mantengono ancora un inalterato interesse
di Umberto Bottazzini


«Dalle ricerche più recenti sulle proprietà generali dei sistemi di assiomi – scrive Rudolf Carnap in apertura delle sue Ricerche sull'assiomatica generale – è diventato sempre più chiaro che la difficoltà maggiore nel trattare tali questioni sta nel fatto che la precisione dei concetti considerati è insufficiente». Da qui la necessità da un lato di «stabilire esplicitamente il fondamento logico usato di volta in volta» e, dall'altro, di «dare definizioni più precise dei concetti sulla base di tale fondamento». È il programma che Carnap delinea per le sue Ricerche, cui lavora per un paio d'anni tra il 1927 e il 1929. Quando scrive le Ricerche Carnap ha appena pubblicato due delle sue principali opere, gli Pseudo-problemi nella filosofia (1928) e, nello stesso anno, La costruzione logica del mondo, la tesi di abilitazione che conclude il suo singolare e personalissimo percorso di formazione intellettuale. Dal 1910 al 1914, infatti, il giovane Carnap studia matematica e fisica all'università di Jena, è uno dei pochi a seguire il corso di logica matematica di Gottlob Frege, e si avvicina alla filosofia studiando la Critica della ragion pura, argomento del corso del neo-kantiano Bruno Bauch. Interrotti gli studi per lo scoppio della guerra, nel 1917 Carnap riprende lo studio della fisica a Berlino, dove Einstein è appena stato nominato professore. Affascinato dalla teoria einsteiniana della relatività, Carnap presenta all'università di Jena una tesi di dottorato su una teoria assiomatica dello spazio e del tempo, che tuttavia viene giudicata troppo filosofica dai fisici e troppo fisica dai filosofi. Sotto la guida di Bauch, Carnap scrive allora una nuova tesi sullo spazio, nello spirito della filosofia kantiana. Al tempo stesso, memore delle lezioni di Frege, si rivolge per lettera a Bertrand Russell, che nella lettera di risposta gli trascrive lunghi passi dei suoi (e di Whitehead) Principia mathematica, un'opera dal costo proibitivo nella Germania del primo dopoguerra non solo per Carnap ma per l'università di Friburgo dove egli si è trasferito (e dove segue lezioni di Husserl).
La svolta decisiva nella vita intellettuale di Carnap avviene nel 1923. Grazie a Hans Reichenbach, conosciuto ad una conferenza, Carnap entra in contatto con Moritz Schlick, il professore di filosofia naturale dell'università di Vienna, che gli offre un posto di libero docente nel suo dipartimento. Carnap entra così in maniera naturale a far parte del gruppo ristretto di scienziati e filosofi che danno vita al Circolo di Vienna. Nel 1929, insieme a Hans Hahn e Otto Neurath ne scrive il "manifesto" e l'anno dopo fonda con Reichenbach la rivista «Erkenntnis», che ben presto si afferma come l'organo del positivismo logico. Se negli Pseudo-problemi nella filosofia Carnap aveva sostenuto la tesi diventata celebre che molte delle questioni poste dalla filosofia erano prive di senso, frutto di un abuso di linguaggio (il che comportava in primo luogo l'eliminazione della metafisica dal discorso razionale), ne La costruzione logica del mondo aveva presentato una versione formale rigorosa dell'empiricismo, largamente ispirata ai Principia mathematica. In quelli anni, il logicismo di Russell – la concezione secondo cui tutti concetti della teoria degli insiemi e dell'aritmetica, e più in generale della matematica, possono essere derivati da concetti logici – si stava ormai avviando al tramonto, e del resto nelle Ricerche Carnap sottolinea apertamente che «i risultati delle ricerche sul problema dell'assiomatica sono comunque indipendenti da questa concezione». Nondimeno, l'indagine sulle proprietà delle teorie assiomatiche, cui si accinge, «adopera gli strumenti della logica moderna». Con assiomatica generale, spiega infatti Carnap in apertura del suo saggio, «intendiamo la teoria della proprietà generali, logico-formali, dei sistemi di assiomi e dei rapporti tra sistemi di assiomi», contrapposta ad una "assiomatica specifica", quale ad esempio quella per la geometria euclidea presentata da Hilbert nei suoi Fondamenti di geometria (1899).
«Il discorso sviluppato nelle Ricerche – scrivono Silvio Bozzi e Marco Varasi nell'introduzione – si concentra soprattutto sui diversi modi in cui un sistema assiomatico può essere considerato completo e sui rapporti che intercorrono tra queste diverse modalità». Dopo aver introdotto i concetti e i principali teoremi della logica (della teoria delle proposizioni, delle funzioni proposizionali e delle relazioni) il discorso di Carnap si sviluppa su un piano metamatematico, e si articola intorno a due questioni fondamentali: in primo luogo la definizione rigorosa di quelle che Carnap chiama «le tre strade diverse» seguite per definire «il concetto di completezza di un sistema di assiomi»; in secondo luogo, la dimostrazione di teoremi che mettono in luce i rapporti che intercorrono tra quei tre diversi modi di intendere la completezza. Carnap sottopone il manoscritto che sta redigendo al giudizio di colleghi come Schlick e Gödel, e fa tesoro dei loro suggerimenti nella versione qui pubblicata, probabilmente ultimata nei primi mesi del 1929. In quello stesso anno presenta i risultati essenziali del suo lavoro a Praga, in un intervento alla prima conferenza sull'Epistemologia delle Scienze esatte, che poi pubblica su Erkenntnis, ne discute con Alfred Tarski a Vienna, per decidere infine di abbandonare l'impresa. Nel 1931 Carnap viene chiamato ad insegnare all'università di Praga e tre anni più tardi pubblica La sintassi logica del linguaggio, il testo che ne fa l'esponente più autorevole del positivismo logico. Con la presa del potere in Germania da parte dei nazisti nel 1935 Carnap emigra negli Stati Uniti dove insegna prima a Chicago e poi all'Università di California a Los Angeles. Carnap non mise più mano a quelle sue Ricerche, pubblicate postume nel 2000. E tuttavia le sue riflessioni affidate a quelle pagine, come mostrano Bozzi e Varasi nel loro lungo e illuminante saggio introduttivo, che occupa quasi metà del volume, a distanza di tanti anni mantengono inalterato interesse e sollevano delicate questioni che ancora impegnano la ricerca logica.

Rudolf Carnap, Ricerche sull'assiomatica generale, a cura di Silvio Bozzi e Marco Varasi, Mimesis, Milano, pagg. 104, € 16,00

Il Sole 24 Ore Domenica 4.5.14
Il Duce, che emozione!
Lo storico inglese Christopher Duggan documenta il consenso tributato al dittatore e al regime da parte degli italiani attraverso l'esame dei diari della gente comune
di Emilio Gentile


Se fosse stato pubblicato negli anni Settanta un libro sulla «storia emotiva dell'Italia fascista» sarebbe stato certamente attaccato dalla storiografia antifascista militante come uno dei peggiori prodotti del revisionismo della cosiddetta "scuola defeliciana", cioè la scuola allevata da Renzo De Felice, accusato di proporre una «storiografia anti-antifascista» , il cui subdolo scopo era riabilitare il fascismo, sostenendo che il regime ebbe un consenso popolare. Infatti, questa è la tesi sostenuta nel suo libro, pubblicato due anni fa in Inghilterra, dallo storico inglese Christopher Duggan, già autore di una notevole biografia di Francesco Crispi. Duggan stesso ricorda che negli anni Settanta, in Italia, qualunque cosa «fosse suscettibile di suggerire che il fascismo aveva goduto un sostegno genuino era inaccettabile», e cita lo scalpore allora suscitato da De Felice per aver affermato che nel 1936 esisteva un consenso generale al regime, anche se la sua asserzione, precisa Duggan, era basata «non tanto su un'analisi di ciò che gli italiani comuni pensavano, quanto sull'assenza di qualunque visibile o esplicita opposizione».
Quasi quaranta anni dopo, lo storico inglese sembra esser venuto in soccorso dello storico italiano, confermando l'esistenza di un «consenso generale al regime», attraverso la storia dei sentimenti degli «italiani comuni» verso il duce e il regime, basata su alcune decine di diari di gente comune, conservati nell'Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, su alcune lettere inviate dal duce dalla gente comune, oltre che su diari e memorie edite di fascisti e antifascisti. Sulla base di questa documentazione, in verità non molto ampia, Duggan si è convinto che il fascismo godette di un largo consenso alimentato principalmente dal mito del duce. A tale consenso emotivo, Duggan attribuisce addirittura «una dimensione religiosa», suscitata da riti e dai miti del regime, che secondo lo storico inglese non può essere ignorata se si vuol comprendere «il modo in cui la gente comune si rapportava al regime». Pur evitando con accurata cautela di avvalersi del concetto di «religione politica», Duggan ne utilizza la funzione interpretativa, fino ad affermare che insistendo sulla «superiorità morale e politica della fede e dell'obbedienza sulla razionalità e sullo spirito critico, il regime fu in grado di mobilitare il consenso di vastissimi settori della popolazione italiana fino allora rimasti estranei alla vita pubblica».
Nel complesso, con la sua «storia intima» dell'Italia mussoliniana, lo storico inglese non aggiunge nulla di nuovo a quanto è già stato ampiamente esplorato dalla storiografia sul fascismo negli ultimi decenni per quanto riguarda l'atteggiamento dell'opinione pubblica verso il regime, il ruolo del "culto del littorio" e del mito del duce nella politica di massa del partito fascista, gli ondeggiamenti dei sentimenti collettivi nei confronti della condotta del regime in politica interna e in politica estera.
Del resto, il ricorso ai diari della gente comune, con la pretesa di ricostruire una verità storica «dal basso» ritenuta più genuina di una verità storica ricostruita «dall'alto», si presta a sostanziali obiezioni, che investono l'intera questione del consenso in un regime totalitario. Basti considerare che quando il fascismo giunse al potere, gli italiani erano 38 milioni nel 1922, aumentati a 45 milioni nel 1942, e di questi, uomini e donne, oltre 23 milioni erano iscritti al partito fascista e alle organizzazioni da esso dipendenti. Quale valore rappresentativo per una «storia intima» di quaranta milioni di italiani possono avere una settantina di diari e una trentina di lettere di gente comune, quanti sono i documenti citati nel libro di Duggan? La stessa considerazione varrebbe per una «storia intima» che giungesse a dimostrare, con documentazione analoga, l'esistenza di un largo dissenso emotivo della gente comune nel regime fascista.
L'impossibilità di sondare i sentimenti intimi di milioni di italiani, uomini, donne, bambini, giovani, vecchi, qualunque sia la fonte utilizzata, è un ostacolo insormontabile per qualsiasi storico che voglia trattare il problema del consenso nel regime fascista o in qualsiasi altro regime totalitario. Qualunque fosse l'atteggiamento dei capi dei regimi totalitari rispetto al consenso della popolazione su cui dominano, è un fatto storico indubitabile che nessuno di loro ha mai fondato il suo potere sul consenso della gente comune, comunque motivato, sollecitato, fabbricato e organizzato, ma solo e sempre sul monopolio politico del partito unico, sulla forza armata, sulla prevenzione ed espressione poliziesca, e sulla irreggimentazione della popolazione, fossero o no consenzienti.
Dopo quaranta anni di polemiche, e dopo la lettura del libro di Duggan, appare confermata la perplessità da noi espressa fin dagli anni Ottanta sulla questione del consenso, che consideravamo allora, e consideriamo tuttora come Francesco De Sanctis considerava la questione di Machiavelli «una questione posta male».

Christopher Duggan, Il popolo del Duce. Storia emotiva dell'Italia fascista, Laterza, Roma-Bari, pagg. 550, € 24,00

Giuliano Bertuccioli, Federico Masini, Italia e Cina, Edizioni l'Asino d'oro, Roma, pagg. 296, € 18,00
Il Sole 24 Ore Domenica 4.5.14
Celeste impero
Il filo che lega Europa e Cina
di Valerio Castronovo


Che la Cina sia oggi una delle protagoniste della globalizzazione è un dato di fatto. Ma non si tratta di un fenomeno spuntato solo negli ultimi trent'anni. C'è già stata un'epoca, in età moderna, segnata da una pluralità di connessioni fra l'Europa e la Cina nel quadro di un'incipiente economia-mondo. In questo sistema di interdipendenze il Celeste Impero era un attore importante. Sia perché forniva all'Europa varie materie prime e prodotti di particolare pregio; sia perché vantava una civiltà millenaria all'avanguardia in diversi campi del sapere: tanto che, sin quasi alla prima metà del diciannovesimo secolo, la Cina continuò a detenere una posizione di rilievo in fatto di cognizioni scientifiche e di singolari espressioni culturali.
Se queste sue specifiche risorse e attitudini, ampiamente riconosciute in Occidente, finirono successivamente per essere ignorate o sottovalutate, fu perché prevalsero fra Otto e Novecento pregiudizi e stereotipi d'impronta eurocentrica tendenti, sulla scia dell'idea di progresso dettata dal positivismo, a calcare la mano su determinati retaggi della Cina imperiale, considerati retrogadi e misoneistici. Al punto di cancellare, in base a questo parametro, quasi ogni traccia del ruolo significativo svolto in passato dalla Cina.
In pratica, soltanto dal secondo dopoguerra è andata maturando una revisione di certi vecchi schemi e si sono inforcate delle lenti appropriate per analizzare la storia del Paese. A questo riguardo il saggio di Paolo Santangelo sulla Cina durante le dinastie Ming e Qing è un testo esemplare per ampiezza di orizzonti ed equilibrio di giudizio. Perché esamina in modo dettagliato le forme e le gerarchie di potere, l'apparato burocratico e le sue prerogative, le diverse stratificazioni sociali e le loro caratteristiche peculiari, le configurazioni del sistema agricolo e del mondo contadino, la trama delle relazioni commerciali e la cerchia dei grandi mercanti che vi sovrintendevano, le varie corporazioni dell'artigianato e dell'industria manifatturiera sia quella comune sia quella sotto l'egida dinastica, l'organizzazione militare e i suoi componenti, le tradizioni religiose e monastiche. Né manca un'analisi tanto delle istituzioni familiari, delle condizioni della donna, dei clan e delle loro funzioni, come pure delle comunità di villaggio e di quelle urbane con le loro gilde e confraternite.
Da questo profilo d'insieme si evince che la società cinese fra il Trecento e l'Otttocento non fu affatto statica, caratterizzata dalla ripetizione di situazioni e direttrici sostanzialmente sempre uguali a se stesse, come la storiografia ufficiale cinese di quell'epoca era portata d'altronde a raffigurare in base alla dottrina del cosiddetto «Mandato Celeste», secondo cui ciò corrispondeva a un ordine naturale e razionale delle cose. Se questa concezione privilegiava l'elemento della "continuità" (tanto apprezzata a suo tempo dai missionari gesuiti), antitetica perciò a quella occidentale imperniata nell'assunto di una costante evoluzione, e se la tradizione confuciana si fondava sull'ideale di una "società armoniosa", congeniale a un sistema di potere autocratico e uniformante (non a caso rispolverata nella Cina comunista), non mancarono tuttavia nel corso della storia cinese sia rilevanti trasformazioni sociali ed economiche sia vari cambiamenti nell'assetto istituzionale. Tuttavia, la Cina non conobbe mai qualcosa di paragonabile alla dialettica vigente in Europa fra lo Stato e la Chiesa, fra i rappresentanti di un ordinamento secolare e di un altro ultramondano. Lo stesso si può dire a proposito di credenze religiose e di teorie filosofiche, di principi valoriali e modi di pensare. Concetti come quelli di "ragione" e "passione", o "spirito" e "materia", erano interpretati e declinati in modo del tutto specifico alla cultura cinese. E così pure lo erano le norme riguardanti la responsabilità e la persona umana o i costumi e la vita privata. Perciò, in quanto lontani dalla mentalità e dai modelli di comportamento degli occidentali approdati via via dalle parti del Celeste Impero, queste categorie rimasero per lungo tempo inalterate senza alcun genere di ibridazione.
A dar conto in modo pregnante di quanto sia stato complesso l'intreccio di rapporti fra l'Europa e la Cina risulta pur sempre illuminante anche un'opera come quella di Giuliano Bertuccioli e di Federico Masini, uscita nel 1996 e ora ripresentata in una versione aggiornata, sulle relazioni culturali fra l'impero cinese e i due imperi, quello romano prima e quello cristiano poi, che hanno dominato lo scenario italiano dall'antichità sin quasi al principio del Novecento. Attraverso questa trattazione, divisa in due parti (una che abbraccia il periodo delle origini sino a tutto il secolo XVIII, scritta da Bertuccioli, già diplomatico in Asia orientale e poi ordinario di lingua e letteratura cinese all'Università di Roma; l'altra, che ripercorre l'800 e il primo decennio del '900, stesa da Masini), è dato comprendere i motivi salienti della scarsa comprensione e, per contro, della notevole incomprensione che caratterizzarono più in generale anche i rapporti fra l'Europa e la Cina. Tanto che si potrebbe dire che, mentre i cinesi dell'Ottocento, tronfi della loro cultura, a malapena riuscivano a immaginare l'esistenza di altre realtà culturali in grado di competere con la loro, così è avvenuto all'inverso per gli europei nei confronti della Cina sino a qualche decennio fa.

Paolo Santangelo, L'impero del Mandato Celeste. La Cina nei secoli XIV-XIX. Laterza, Bari, pagg. 351, € 24,00.
Giuliano Bertuccioli, Federico Masini, Italia e Cina, Edizioni l'Asino d'oro, Roma, pagg. 296, € 18,00

Il Sole 24 Ore Domenica 4.5.14
Torna Augias, viva gli avverbi!
di Asif


La grammatica italiana è un luogo irto di pericoli, come gli strafalcioni in prima pagina ci ricordano in continuazione: accenti disseminati qua e là come coriandoli impazziti, chiacchiere distratte che perdono le "i", apostrofi in riproduzione casuale. Tra gli elementi più insidiosi, vi sono gli avverbi: al grido di "show, don't tell", schiere di studiosi di linguistica, insegnanti di scrittura creativa e romanzieri rampanti si sono accaniti contro la particella incriminata, colpevole di allungare la solfa senza aggiungere ciccia rilevante.
Ma veramente, gli avverbi, talvolta, se utilizzati correttamente, si rivelano assai utili, persino decisivi.
Corrado Augias dopo un periodo di sereno distacco torna in televisione con un nuovo programma in seconda serata, il lunedì su Rai 3, dedicato ai Visionari, ovvero ad alcuni pensatori, scienziati, artisti che grazie al loro genio profetico hanno cambiato il corso della storia. Dopo Darwin, Santa Chiara e Freud, tocca a Beethoven che negli anni 20 dell'800 si inventa una cadenza ritmica che sembra uscita dai localini swing di un secolo dopo, tutti ancheggiamenti e strusciatine.
Il programma ha un assetto classico: si comincia con l'intervista impossibile al personaggio della serata – interpretato da un attore così trombone che ti viene voglia di lucidarlo –, si procede con gli interventi degli ospiti, i sondaggi di Ilvo Diamanti e le considerazioni di Augias, particolarmente significative, perché, se la serata funziona, malgrado le premesse non proprio eccitanti, il segreto sta tutto nel padrone di casa. Il Corrado, maestro di grazia, pacatezza e puntualità, accompagna lo spettatore all'interno delle sue proposte morbidamente maieutiche. Il Corrado dice, anzi sussurra dolcemente cose quali «la musica è una logica senza concetti, può accendere sentimenti ma non indirizzarli», sorride bonariamente al musicista in studio per strappargli un brano in più, convoca il cantante rap Frankie Hi Energy e lo chiama affettuosamente «Alta Energia, come quella di Beethoven». E questa stupefacente iniezione di appassionante sobrietà, per esprimersi al meglio, si avvale di alcuni alleati: gli avverbi, per l'appunto, che il Corrado snocciola come lembi di velluto, calmierando gli eccessi o enfatizzando i meriti. Perché il conduttore elegante e garbato vorrebbe cambiare le regole della televisione modestamente, proponendo argomenti raramente affrontati sul piccolo schermo che sappiano possibilmente insegnare qualcosa.
Eccesso di scrupolo? Mancanza di sicurezza? Forse. Ma nel regno dell'ostentazione militante, dell'esuberanza per forza, tutta lustrini e derivati del silicone, questa lezione di misura appare come un regalo inaspettato, un intruglio lenitivo, un respiro d'aria buona. Piuttosto e anzichenò.