lunedì 5 maggio 2014

Corriere 5.5.14
«Sono stati promossi prelati che coprirono atti di pedofilia»
di Maria Antonietta Calabrò


GINEVRA — Inizia questa mattina a Ginevra al Palazzo Wilson l’esame pubblico della relazione iniziale preparata dal Vaticano per il Comitato dell’Onu sulla tortura. Ed è proprio sulla tortura e sui comportamenti «disumani e degradanti», sanzionati dalla Convenzione, che fanno leva le associazioni delle vittime dei preti pedofili per cercare di mettere sulla graticola il Vaticano davanti ad una platea mondiale, per la seconda volta nel 2014, dopo la dura valutazione espressa nel febbraio scorso dal Comitato Onu per la protezione dei minori.
Poi per il resto della giornata sarà compiuta, a porte chiuse, la procedura di ricerca relativa alla verifica degli adempimenti da parte del Vaticano anche in base alla documentazione depositata presso il Comitato da organizzazioni non governative. Domani pomeriggio sono previste invece le repliche della Santa Sede.
Il rapporto finale del Comitato Onu verrà pubblicato tra due settimane, venerdì 23 maggio.
Alla fine di aprile il Center of constitutional rights e lo Snap (associazione che rappresenta 18 mila vittime degli abusi) hanno depositato una memoria aggiuntiva di dieci pagine per mettere in evidenza alcuni fatti recenti in cui le gerarchie cattoliche avrebbero coperto, non collaborando con le autorità civili, casi di pedofilia del clero in Sud America ed in Africa. Il primo è il caso di padre Fernando Karadim, in Cile. Nel rapporto vengono chiamati in causa l’allora arcivescovo di Santiago Francisco Javier ErráZuriz e il suo successore Ricardo Ezzati. «Entrambi — si legge nel documento — hanno ricevuto onori e promozioni. Papa Francesco ha posto Ezzati alla guida della Congregazione dell’Educazione cattolica e lo ha fatto cardinale nel febbraio 2014». Francisco Javier ErráZuriz invece, prosegue il documento, è stato nominato da Papa Francesco nel selezionato «Consiglio degli otto Cardinali», chiamato a riformare la curia, coordinato dal Cardinal Rodriguez Maradiaga. A Maradiaga il rapporto aggiuntivo, contesta il caso di un altro sacerdote pedofilo, Enrique Vasquez, che sarebbe stato spostato da una parrocchia all’ altra.
Ieri al termine del Regina Coeli in Piazza San Pietro, il Papa ha ribadito pubblicamente il suo impegno sul tema della pedofilia — il giorno dopo le prese di posizione della nuova Commissione presieduta dal cardinale O’ Malley — ringraziando l’associazione «Meter» di don Di Noto che da vent’anni contrasta il fenomeno.

Corriere 5.5.14
Se la Chiesa chiama Severino e Capanna per parlare di scienza
di Armando Torno


La Scuola della Cattedrale del Duomo di Milano, ideata e organizzata dall’arciprete Gianantonio Borgonovo, ebraista ed esegeta, sta compiendo un anno di vita. E si fa sentire. Oggi, per esempio, alle 18 si incontreranno nella Sala delle Colonne (è il luogo preposto alle iniziative, con ingresso da piazza Duomo, accanto al Museo) il gesuita Bartolomeo Sorge, il filosofo Emanuele Severino e il leader del Movimento studentesco del ‘68 (ora presidente della Fondazione Diritti Genetici) Mario Capanna. Il motivo? Semplice: Borgonovo li ha riuniti per parlare di scienza come «bene comune». Che è poi anche il titolo del libro curato dallo stesso Capanna, pubblicato da Jaca Book.
Quest’opera, nata da commenti a considerazioni di un testo di Capanna ispirato dall’urgenza di «democratizzare la scienza», raccoglie, oltre i suoi interventi, contributi che vanno da Valerio Onida a Salvatore Natoli, da Giuseppe Sarcina a Marcello Veneziani, da Franco Cardini a Gustavo Zagrebelsky agli stessi Severino e Sorge. Le pagine ruotano intorno alla domanda «Chi decide della scienza quando la scienza riguarda tutti?». Capanna ricorda che «il rapporto scienza- società si traduce nel rapporto scienza-democrazia » e che ora «le forze economico-finanziarie, che stanno dietro — e, sempre più spesso, dentro — la ricerca, sono in grado di condizionarne processi ed esiti». Severino sottolinea la contraddizione di chi determina la ricerca: «O il capitalismo non rinuncia a se stesso, e quindi alla propria distruttività, e distruggendo la Terra distrugge se stesso, oppure si convince del proprio carattere distruttivo e assume come scopo la salvaguardia della Terra (mediante l’adozione di tecniche alternative) e, anche in questo caso, rinunciando al proprio scopo primario, distrugge se stesso». Sorge osserva: «Scienza, società e democrazia sono finalizzate all’uomo non meno di quanto lo è la tutela dell’ecosistema. Perciò, occorre dar vita a un umanesimo nuovo, nel quale l’orizzonte della scienza non solo non sia in conflitto con quello della vita umana, ma al suo servizio».
Senonché, l’incontro della Scuola della Cattedrale cade nell’ambito dell’annunciata enciclica di papa Francesco, dedicata alla custodia del Creato. Gli argomenti e le considerazioni non sono distanti dalle preoccupazioni del Pontefice; del resto, la salvaguardia della Terra non si può sempre e comunque declinare con il profitto e lo sfruttamento. Di più: Borgonovo riporta in Duomo due personaggi che per motivi diversi furono costretti a lasciare l’Università Cattolica di Milano: Capanna nel ‘68, Severino nel ‘70. È un fatto casuale? Gli abbiamo rivolto il quesito. Ci ha risposto: «Dialogare non significa confondere le posizioni degli interlocutori che si parlano, significa ascoltare l’altro per meglio comprendere le proprie posizioni. Perché tutti siamo servi di quella Verità che ci possiede».
Morale della vicenda: la Scuola della Cattedrale, oltre un notevole evento di respiro internazionale (ricordiamo la presenza il 24 marzo del professore della Sorbona Pierre Laurens), è diventata un punto d’incontro culturale per le tematiche di interesse non solo accademico ma anche di attualità. Non ha sovvenzioni pubbliche. E questo è motivo di vanto per il Duomo. E per la lungimiranza della Chiesa.


l’Unità 5.5.14
Berlinguer-Bettazzi la lettera dello scandalo
Il diktat della Chiesa contro il leader del Pci che voleva aprire ai cattolici
1976, ecco come andò il carteggio tra l’allora vescovo di Ivrea e il leader comunista
Il racconto è uno dei contributi di «Quando c’era Berlinguer», il libro curato da Walter Veltroni in libreria da mercoledì
di Luigi Bettazzi
, Monsignore

BERLINGUER CONOSCEVA IL MONDO CATTOLICO, COSI COME LA SUA FAMIGLIA. Accompagnava i figli alla messa, e anche se lui stava fuori e comunque segno che coglieva il valore umano e sociale di questa fede. Credo che questo lo abbia in qualche modo aiutato e incoraggiato a rispondere a un vescovo come me, che aveva avuto la ventura di scrivergli una lettera aperta, nel luglio 1976.
Ecco l’antefatto: tre mesi prima avevo scritto una lettera aperta a Benigno Zaccagnini, diventato segretario della Democrazia cristiana dopo una crisi legata alle tangenti. Il presidente del Consiglio Forlani aveva detto: «Be’, vi meravigliate di noi? Fan tutti così in politica». La mia riflessione fu semplice: «Perché ti dici cristiano se poi fai come gli altri?» Invece di scrivere un articolo, mi venne da scrivere una lettera aperta, ma lui lì per lì non rispose neanche, considerandola un genere letterario. Avevo cominciato dal partito più grosso, il democristiano, poi il Partito comunista, poi anche il Partito socialista. Allora ero vescovo già da qualche anno, avevo fatto il Concilio ed ero presidente di Pax Christi. Ecco, avevo qualche titolo per prendere queste iniziative.
L’occasione fu un invito di Berlinguer che si era rivolto anche al mondo cattolico prima delle elezioni dicendo: «Noi siamo disponibili a lavorare per il bene del Paese, per il bene dei lavoratori, per la parte più povera della nazione». Poi conquistò più del 34 per cento dei voti, credo siano state le elezioni in cui ha avuto il maggior numero di aderenti. L’arcivescovo Anastasio Ballestrero mi disse: «Quando fai queste cose devi prima consultarti ». E io mi ero consultato con un vescovo di cui mi fidavo, appena ordinato. Allora scrissi la lettera. Berlinguer rispose subito dicendo: «Guardi, La ringrazio, adesso facciamo il governo, poi dopo risponderò». Invece, poiché Giovanni Franzoni - che per aver dichiarato di aver votato comunista era stato ridotto allo stato laicale - mi scrisse una lettera aperta, alla quale risposi con la stessa modalità, pare che Berlinguer abbia detto: «La cosa ormai è finita nel mondo cattolico» e non rispose.
L’anno seguente si stava per fare un governo di solidarietà nazionale con l’apporto esterno dei comunisti, e Berlinguer ricordava che, quando c’era stata l’apertura a sinistra con il Partito socialista, la Cei aveva detto: «Non si può collaborare con i socialisti perché sono materialisti e atei». Lui doveva lavorare con il mondo cattolico, pare dovessero uscire su una rivista torinese un articolo di padre Sorge e uno di Berlinguer. Poi padre Sorge si ritirò, non si sa perché... forse gli fu impedito. Allora qualcuno ha ricordato a Berlinguer che non mi aveva ancora risposto. Così, nell’ottobre 1977, mi scrisse una lettera aperta per dire che non erano materialisti e atei, ma solo laici che volevano collaborare con chi ci stava. Fu così gentile da farmela avere tramite il sindaco di Torino, Diego Novelli, prima che venisse pubblicata su Rinascita. Novelli mi telefonò per consegnarmela e disse: «Berlinguer voleva che la vedesse prima lei». Quando tornai a Ivrea c’erano i giornalisti della televisione ad aspettarmi. Questa è un po’ la storia della lettera aperta e della sua risposta.
Mi ha scritto: «L’avere una fede può essere una condizione che può stimolare il credente a perseguire anch’egli il rinnovamento in senso socialista della società». Era un’affermazione importante per una persona dentro a quel sistema ideologico, era il riconoscimento del valore della fede stessa.
Si vedeva in quel Pci una forza di rinnovamento. C’era bisogno dopo trent’anni dalla fine della guerra di questo. La gente al di fuori della Chiesa guardava con fiducia al Concilio perché diceva: «Se cambia la Chiesa cattolica possiamo cambiare tutti». C’era stato anche un freno nell’attuazione del Concilio, quindi sembrava che il Partito comunista fosse in quel tempo quello che più spingeva per un rinnovamento. Chi aveva questa speranza o questo desiderio guardava al partito anche rendendosi conto che la serietà di Berlinguer garantiva in qualche modo che non sarebbe stato tanto un cammino ideologico quanto un cammino concreto, sociale, di aiuto alle classi più bisognose. Cosi si spiega il salto dal 25 al 34 per cento alle elezioni.
C’era anche una componente morale in quel consenso, perché si capiva che Berlinguer non era soltanto alla ricerca del partito per avere più voti per comandare. Era evidente che sentiva nell’azione del Pci un’esigenza che rispondeva a un bisogno di serietà anche morale, non solo alla ricerca del potere, ma alla ricerca del meglio per la nazione dal punto di vista etico e morale. Credo ci fosse questa speranza anche in chi non aderiva ovviamente alle ideologie che c’erano nel Partito comunista.
Io fui molto contento di questa risposta, anche se arrivata con ritardo. Per me era non solo l’attenzione alle domande e ai problemi che gli proponevo, ma anche un cammino di chiarificazione della via del Partito comunista che sembrava più un partito dei lavoratori che un partito marxista e leninista. Mi pareva, nonostante quanto sia ricaduto poi su di me per alcune reazioni che ci sono state, una cosa molto positiva.
Il clima dei rapporti tra Chiesa e Partito comunista in quegli anni era ancora molto teso. Il referendum sul divorzio, per esempio, aveva lasciato una grossa cicatrice perché aveva dimostrato che i cattolici, quando si tratta di partecipare alla vita sociale, ascoltano le indicazioni della gerarchia ma poi valutano in maniera autonoma. Quindi forse c’era stata una presa di coscienza da parte della gerarchia di come non sempre un diktat viene accolto. C’e anche chi, come il cattolico, valuta le cose su un piano umano e sociale.
Ci fu una forte reazione, non tanto per la mia lettera quanto per la sua risposta. Il patriarca di Venezia, Albino Luciani, scrisse un articolo molto duro dicendo che Berlinguer poteva parlare a nome del suo partito, mentre Bettazzi non aveva alcun mandato a parlare a nome della Chiesa e della Cei. Credo che il Vaticano gli impose una reazione di questo tipo, infatti, quando Papa Luciani morì, il suo segretario mi cercò per dirmi: «Guardi che quell’articolo gli era stato comandato dall’alto». Questa era la situazione eme la sono sempre portata dietro. Quando diventò Papa Wojtyla, il segretario della conferenza episcopale polacca aveva detto: «Fate presto voi a scrivere al segretario del Partito comunista, venite a vedere come si vive sotto i comunisti». Io, che ero presidente internazionale di Pax Christi, incontrai il Papa a un’udienza pubblica e notai la sua faccia seria. A parte questo, in Vaticano sapevano che io avrei chiesto pubblicamente le ragioni di tali reazioni e perciò preferirono arrivare attraverso Luciani. Sono stato felice poi di essere rimasto trentadue anni vescovo di Ivrea. Può anche darsi che tale vicenda abbia inciso e che abbiano preferito fermarsi «al primo danno».
Ebbi l’impressione che il Vaticano fosse ostile alla solidarietà nazionale, al compromesso storico. Anche oggi i principi sono questi e ne deriviamo le conseguenze. È stato proprio Papa Giovanni a dire: «Non deve essere tanto un Concilio dogmatico ma un Concilio pastorale che parta dalla gente, che veda e cammini con la gente».
I lavoratori si sentivano più difesi dal Partito comunista e anche altre persone avevano l’impressione che, per un rinnovamento della società molto chiusa, soprattutto il ceto medio e il mondo borghese, ci voleva un cambiamento. Anche tanti cristiani votavano per il Pci in quel momento. Occorreva distinguere, e io lo feci nella lettera, tra l’ideologia comunista e «la concreta determinante efficacia della vostra lotta per tutte le conquiste sociali di questi decenni». Del resto quella distinzione era stata fatta da Papa Giovanni nella Pacem in Terris. C’è qualcuno che gli contesta di avere incoraggiato questa distinzione che invece era, credo, un richiamo alla concretezza delle situazioni. Si guardava al mondo comunista come a un mondo statalista, dogmatico. Invece la risposta di Berlinguer fece vedere anche lì un cammino pastorale: partiamo dalle esigenze delle popolazioni, chi ha queste idee può servirsene, ma il primo problema è quello di rispondere alle necessità e alle esigenze della gente.
Certamente il Pci con la morte di Berlinguer si apre a un allargamento che non corrisponde più alla sua immagine di prima, quindi in un certo senso è iniziato non dico la morte, la morte del partito ma un cambiamento, un aprirsi, un lasciare gli aspetti più condizionanti per sentire la sua vera vocazione di essere accanto alla gente che è in difficoltà e ai lavoratori che facilmente sono strumentalizzati. In qualche modo e diventato un partito del popolo. (...)
Don Renzo Rossi, un prete fiorentino mio amico che lavorava in Brasile come cappellano dei prigionieri politici, ormai scomparso, aveva incontrato Berlinguer per chiedere che il Partito comunista si interessasse di loro. Berlinguer aveva sul tavolo un mio libro, Farsi uomo, uscito a quell’epoca, e gli disse: «Io avrei piacere di continuare gli incontri con Bettazzi». Purtroppo, con la lettera di Luciani credo che avremmo continuato un’ambiguità, perché lui parlando con me non avrebbe parlato tanto con la Chiesa ma con uno che la Chiesa guardava con un po’ di sospetto. Quindi non ho mai avuto l’occasione di vederlo. Forse avrei potuto vederlo per amicizia, ma l’ho soltanto ricordato con stima e con affetto.
È stato per me un grande uomo che pensava agli altri, soprattutto ai più poveri, ai più deboli e c

l’Unità 5.5.14
Riforme
Rodotà: «Si corre ma dove si va a finire?»


«Si sta correndo e non si sa dove si va a finire». Stefano Rodotà critica ancora le riforme della legge elettorale e del Senato: «Il taglio dei tempi non sempre sta dando risultati positivi» e «quando si mettono le mani sulla Costituzione bisogna avere molta pazienza», ha osservato il giurista. Per lui l’Italicum presenta problemi di costituzionalità e uno sbarramento troppo alto per i piccoli partiti; il Senato delle autonomie sarebbe solo un «Senato di facciata», perché l’impegno di un parlamentare è «a tempo pieno» e quello di un sindaco «non consente il doppio lavoro».

dall’articolo di Bianca Di Giovanni sull’Unità di oggi:
Poletti in casa Cgil. Il ministro criticato dal sindacato a Rimini
Serena Sorrentino , segretario confederale della Cgil: «c’è un messaggio devastante, si cancellano i diritti di chi lavora»
Tito Boeri: «perché fate un decreto in conflitto con la delega?». «Si parlava di contratto a tempi indeterminato a tutele crescenti invece si fanno i contratti a termine senza causale, rendendo vanificando le ipotesi di stabilizzazione. Il contratto a tempo indeterminato oggi non è più conveniente». Quanto all’apprendistato, «le penalizzazioni pecuniarie sono un’ipocrisia».

dall’articolo di Maria Zegarelli sull’Unità di oggi:

Renzi al sindacato: «Le resistenze non ci fermeranno» Messaggio del premier «Noi siamo qui per cambiare l’Italia» e «i sindacati protestano perché gli stiamo togliendo potere» «non sono in trincea, sono nella palude» il sindacato che sogna è quello che «dia una mano e non metta i bastoni tra le ruote»
A Berlusconi sul presidenzialismo: «In via di principio possiamo anche essere d’accordo, ma ora le priorità sono altre. Si approvino intanto Senato e Titolo V e dopo, solo dopo, si può anche ragionare di presidenzialismo, non adesso».

Corriere 5.5.14
Presidenzialismo Apertura del premier
«Il presidenzialismo? Dopo il Senato possiamo parlarne»
L’apertura di Renzi a Berlusconi
di Dino Martirano


Il premier Matteo Renzi apre al presidenzialismo dopo le sollecitazioni innescate dalla lettera inviata da Silvio Berlusconi al Corriere della Sera . «Non ora, le priorità sono altre, ma dopo l’approvazione della riforma del Senato e del Titolo V si può anche ragionare...». È questa la linea dettata da Renzi al suo staff. L’orizzonte temporale per affrontare il nodo della forma di governo si sposterebbe comunque
a settembre del 2015.
E se adesso la sinistra rompesse lo storico tabù che le ha fatto sempre dire di no al presidenzialismo? «Non ora, le priorità sono altre, ma dopo l’approvazione della riforma del Senato e del Titolo V si può anche ragionare...» sull’elezione diretta del capo dello Stato: è questa la linea dettata da Matteo Renzi al suo staff dopo le forti sollecitazioni innescate dalla lettera inviata da Silvio Berlusconi al Corriere della Se ra . Il ping pong tra l’ex Cavaliere e il premier continua: il primo (ieri anche in tv) sostiene che l’unica riforma seria sarebbe quella di mettere in condizione gli italiani di votare direttamente per il presidente della Repubblica e il secondo ora fa sapere ai suoi fedelissimi collaboratori che l’apertura è possibile: sì, si può «ragionare», ma solo dopo avere intascato la riforma del Senato e del Titolo V. E visto che ci sono ancora quattro passaggi parlamentari da superare, l’orizzonte temporale per affrontare il nodo della forma di governo si sposterebbe (nella migliore delle ipotesi) a settembre del 2015.
Comunque ieri — sollecitato per tutta la giornata dalle dichiarazioni dei colonnelli di Forza Italia — Renzi ha dato la sua risposta sul presidenzialismo invocato dal leader di Forza Italia: «Tirare fuori ora questo argomento sa molto di trovata elettorale». Tuttavia, e qui prende corpo l’apertura del presidente del Consiglio sull’elezione diretta del capo dello Stato, «in via di principio possiamo essere anche d’accordo ma ora le priorità sono altre». Dunque, chiude il suo ragionamento Renzi, «si approvi intanto la riforma del Senato e del Titolo V e dopo, solo dopo, si può anche ragionare di presidenzialismo. Non adesso, però».
Ecco, ora resta da vedere se davanti a questo scambio di opinioni tra leader, formalmente contrapposti in materia di governo ma alleati sulle riforme, i senatori di Forza Italia si comporteranno di conseguenza sulla legge costituzionale (Senato e Titolo V, appunto) che domani arriva al primo giro di boa in Parlamento. Oggi Renzi è impegnato con il fronte interno (riunisce la direzione del Pd e chiude il seminario del partito sul Senato con i costituzionalisti) ma già domani a Palazzo Madama i suoi ambasciatori (Luigi Zanda e Lorenzo Guerini) dovranno trattare seriamente con i capigruppo di FI, Paolo Romani e Donato Bruno. Forza Italia — come la minoranza del Pd, Sel e il Ncd — vuole adottare in commissione come testo base un articolato diverso da quello confezionato a Palazzo Chigi. Renzi invece resiste.
Fa molte aperture sul fatto che «dopo» si potrà modificare il testo e spera di fare passare, almeno in prima battuta, l’articolato del ministro Boschi, per piantare una bandierina elettorale prima del 25 maggio. Ecco allora che, a Palazzo Madama, si fanno avanti i mediatori che dispongono di sole 24 ore per trovare una soluzione. Domani si vota in commissione.
Il lodo che ha in mente lo sintetizza bene Roberto Calderoli (Lega) tirato in ballo da Berlusconi («Sono in contatto con lui»). Spiega, con il suo stile, Calderoli: «Prima vedere moneta, poi dare cammello...». Insomma, sulla scia di quanto ipotizzato da Gaetano Quagliariello (Ncd), che però non è più alleato di Berlusconi, la commissione si appresterebbe a un doppio voto: prima un ordine del giorno (la moneta) in cui vengono perimetrati gli emendamenti concordati tra commissione e governo e in particolare l’elezioni dei senatori alle Regionali ma in un listino a parte. E dopo, solo dopo, si vota il testo base del governo (il cammello) cui tanto tiene Renzi. Resta da vedere come i relatori, Anna Finocchiaro (Pd) e lo stesso Calderoli, riusciranno a coniugare la doppia capriola con la prassi parlamentare .

Corriere 5.5.14
Il contrattacco dei sindacati al premier
Il fronte di Camusso e Bonanni dopo le parole di Renzi: non mi fermeranno. Angeletti: sia sereno
di Alessandro Trocino


ROMA — Matteo Renzi insiste, spiega che vuole «cambiare il Palazzo» e abbattere le resistenze corporative. Al Corriere della Sera spiega che «non sarà un sindacato a bloccarci» e aggiunge: «Non vorrei che la polemica derivasse dal fatto che si dimezza il monte ore dei permessi sindacali e che i sindacati saranno obbligati a mettere online ogni centesimo di spesa». Proprio dalle confederazioni sindacali arrivano le critiche più forti alle sue parole e al decreto sul lavoro.
Il segretario della Cgil Susanna Camusso, a chi le chiede di replicare all’affermazione «i sindacati non mi fermeranno», risponde ironica: «Com’era l’hashtag, #amicigufi?». Riferimento a un tweet di qualche giorno fa con il quale Renzi si rivolgeva, con acre ironia, a chi da sinistra nutre dubbi sulla sua azione riformatrice. Altro non dice, la Camusso, a parte: «Per noi parlano le cose che facciamo». Raffaele Bonanni, leader della Cisl, è più loquace: «Il governo vuole fare tutto a scavalco delle parti sociali, perché pensa solo a trovare una mediazione tra i soggetti politici. Ma questo è un comportamento lesivo dei criteri democratici che anche questo governo deve rispettare». E ancora: «Non abbiamo nessun interesse a fermare Renzi su una strada che lui vuole condurre e che è quella di non fare assolutamente nulla. Sono tre mesi che Renzi ci parla del Jobs act, ma ci pare che siamo di fronte a un Jobs ghost». Rassicura il premier, invece, il segretario della Uil Luigi Angeletti: «A Renzi dico di essere sereno che i sindacati non frenano, non ne abbiamo nessunissimo interesse».
A difesa del premier scende il ministro della Pubblica amministrazione Marianna Madia, che spiega: «In Renzi vedo una capacità di rompere la ritualità che va oltre Berlusconi. Non cerca il politically correct , ma va al punto senza seguire metodi e rituali che erano pieni di falsità». Poi, riferendosi alle giornate del lavoro organizzate a Rimini dalla Cgil, dice: «Renzi ascolta con metodi diversi dal passato. Noi ascolteremo tutte le parole che verranno dette a Rimini e le proposte che da lì arriveranno. Mi aspetto suggerimenti, ma non per forza bisogna andare lì fisicamente». A sostegno di Renzi interviene anche la vicepresidente della Camera Marina Sereni: «Da troppi anni aspettiamo che la classe dirigente trovi il coraggio e la forza di rompere i tanti conservatorismi che frenano l’Italia. E ora abbiamo un presidente del Consiglio che non si ferma di fronte alle prime resistenze».
Resistenze che arrivano da più fronti e coinvolgono diversi aspetti. Come quello dei prefetti, che Renzi ritiene necessario diminuire nel numero, perché «appartengono a un modello di Stato diverso da quello di oggi». Gianfranco Rotondi, Forza Italia, si occupa proprio di questo: «Dai banchi del governo ombra vorrei ricordare al presidente del governo che i prefetti sono stati nella storia repubblicana l’immagine e la presenza del governo nel Paese». Quelli di Renzi sono «solo slogan», dice Anna Maria Bernini, mentre per Daniela Santanché il premier corre un rischio: «A Renzi sta venendo il complesso di piacere a tutti e così il rischio è quello di non piacere a nessuno. Questo decreto legge sul lavoro ne è la dimostrazione: un pasticcio che non accontenta né i lavoratori né le imprese». E se per il leghista Matteo Salvini Renzi non è «né carne né pesce» e anzi il suo governo è «l’anticamera della dittatura», il Mattinale (la nota politica del gruppo di Forza Italia) sottolinea «l’ipocrisia della sinistra che preferisce un presidenzialismo strisciante a un presidenzialismo vero o a un premierato a suffragio universale. Berlusconi rovescia il secchio delle finte riforme annunciate e mai fatte».

La Stampa 5.5.14
Camusso ironizza sugli “amici gufi”

Il segretario generale della Cgil Susanna Camusso, ha risposto solo con una battuta ironica ai giornalisti che le chiedevano di replicare all’affermazione del presidente del Consiglio Matteo Renzi «i sindacati non mi fermeranno», riferita alle riforme del governo e contenuta in una intervista al Corriere della Sera. «Com’è l’hashtag, amici gufi?» ha risposto la leader della Cgil a margine di un incontro nell’ambito delle «Giornate del lavoro», riprendendo la frase che Matteo Renzi usa su Twitter per additare quelli che considera gli avversari della sua azione di governo.

l’Unità 5.5.14
Disoccupazione record: colpa anche dei salari bassi
Come sostiene Stiglitz il minor reddito danneggia i consumi e la stessa occupazione
di Carlo Buttaroni
presidente Tecné


Nei quarant’anni che hanno preceduto la crisi, il Pil in Italia è più che raddoppiato ma il numero degli occupati è rimasto sostanzialmente stabile. Un risultato che dipende, prevalentemente, dalle innovazioni che hanno reso più efficienti i processi e hanno permesso alle aziende di produrre quantità sempre maggiori di merci con un numero sempre minore di lavoratori. Ma le trasformazioni che hanno riguardato il mondo della produzione e del lavoro sono state molteplici. L’innovazione più significativa è venuta da un nuovo paradigma che ha capovolto la tipica logica del flusso produttivo: la produzione, anziché essere spinta dall’alto, è tirata dal basso. Trasformazione, questa, che ha determinato profonde ripercussioni nell’organizzazione del mondo del lavoro, ribaltando la logica delle economie di scala e dell’integrazione verticale. Progressivamente, è quindi diminuita la dimensione media dell’impresa per numero di addetti, è aumentata la quota degli occupati nelle imprese minori sul totale e il sistema delle imprese si è andato disponendo e articolando in orizzontale.
LA LISTA DELLE PROFESSIONI
La conseguenza sul mercato del lavoro è che, a livello macro, la lista delle professioni si è allungata e frazionata, senza che si rendesse necessaria una netta ascesa della professionalità media, quanto piuttosto una gamma più estesa di «capacità», in grado di rispondere all’intreccio fra domande vecchie e nuove. Nel complesso, i contenuti sono diventati meno manipolativi e più cognitivi e si è imposto un modo di lavorare scandito da un ritmo serrato e da una tensione continua. Altrettanto profondi sono i movimenti che hanno trasformato i rapporti di lavoro: innanzitutto, meno subordinati e più autonomi, perfino nel lavoro dipendente; meno durevoli, data la crescita dei contratti a tempo determinato e il calo di quelli a tempo indeterminato; meno uniformi, giacché l’ambito dei contratti di lavoro è diventato, allo stesso tempo, più circoscritto e più articolato, essendo disposto su orari più corti, durate d’impiego più brevi, o entrambe le cose. Basti citare il lavoro autonomo di seconda e terza generazione, che genera gruppi di lavoratori eterogenei, disciplinati soltanto in modo generico e al cui interno, a parità di mansioni, posso esserci forti differenze retributive.
Questo nuovo modo di produrre e lavorare ha, inevitabilmente, indebolito i profili di tutela dei lavoratori, e in tutte le economie occidentali (compresa l’Italia) le quote di lavoro flessibile è cresciuta, mentre quella di lavoro stabile è diminuita e i salari reali sono cresciuti assai meno della produttività.
Secondo il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, la crisi attuale trova origine anche nei salari troppo bassi che non hanno potuto far crescere, insieme alla produttività, la domanda aggregata nella sua componente principale che sono i consumi. In sostanza, i lavoratori hanno avuto progressivamente meno reddito per acquistare ciò che, invece, erano in grado di produrre in quantità sempre maggiore. Un processo ben noto agli economisti. Se i salari reali diminuiscono e i prezzi rimangono stabili (o addirittura crescono), infatti, si verifica una caduta del potere d’acquisto dei lavoratori che genera, a sua volta, una contrazione dei consumi. E se si riduce la domanda, le imprese sono costrette a ridurre la produzione e, quindi, a utilizzare meno lavoratori nei cicli produttivi. Col risultato che l’occupazione cala in virtù dell’efficienza della produzione ma anche dei salari troppo bassi.
Dagli anni 70, la leva per rispondere allo squilibrio determinato dal fatto che le famiglie non hanno redditi sufficienti per acquistare ciò che viene prodotto, è stato il crescente ricorso al credito che ha fatto crescere, però, il debito privato. A un certo punto, la massa di debiti è stata tale che una parte di essi non potevano essere più ripagati e nel tentativo di rientrare dell’indebitamento, le famiglie hanno ridotto i consumi e svenduto gli asset acquisiti (ad esempio le abitazioni) che così si sono svalutati. Nel frattempo, le sofferenze bancarie sono aumentate e ciò ha causato la crisi di molte banche con conseguente razionamento del credito. È questo avvitamento che ha dato avvio alla crisi finanziaria, la cui causa scatenante, infatti, non è nell’indebitamento pubblico come molti credono, bensì in quello privato.
La diminuzione di salari e prezzi rappresenta il nuovo spettro di questa difficile fase di uscita dal tunnel della crisi. Infatti, se da un lato i costi possono rimanere fermi tagliando sulla produzione o sul lavoro, dall’altro, le imprese, prevedendo prezzi futuri troppo bassi, non hanno alcun interesse a investire e assumere.
In sintesi, poiché la produzione è tirata dal lato della domanda, i salari dovrebbero crescere insieme alla produttività, perché solo questo assicura la capacità di acquisto da parte delle famiglie dei lavoratori di ciò che viene prodotto e immesso sul mercato. La crescita dei salari evita, inoltre, l’eccessivo indebitamento, mantiene la distribuzione del reddito e i prezzi costanti, proteggendo il sistema da crisi debitorie da deflazione.
LA DOMANDA
Su quale lato si ponga la crisi dell’Italia lo si deduce dal grado di utilizzo degli impianti delle imprese manifatturiere italiane, che sono al 71,8% del loro potenziale. Se la domanda stimolasse un utilizzo del 100% degli impianti, l’effetto si tradurrebbe in oltre un milione di nuovi occupati che, stimolando a loro volta la domanda, alimenterebbero nuova occupazione. Oggi, se anche il costo di un lavoratore fosse pari a zero, le imprese non avrebbero comunque alcun interesse ad assumerlo, perché le merci che quel lavoratore sarebbe in grado di produrre non sarebbero comunque acquistate. L’interesse dell’impresa sarebbe, invece, di sostituire un lavoratore che costa di più con uno che, invece, costa meno, ricevendo un vantaggio immediato in termini di costi di produzione, ma un danno sul lungo termine come capacità di crescita della domanda aggregata. E, soprattutto, non ci sarebbe alcun vantaggio in termini di occupazione, in quello, cioè, che rappresenta il vero ostacolo e, nel contempo, l’unica ricetta per una reale ripresa.

l’Unità 5.5.14
La sfida della sinistra deve essere alternativa all’austerity
di Laura Pennacchi


LE ELEZIONI EUROPEE DEL 25 MAGGIO SARANNO CRUCIALI PER IL FUTURO DELL’EUROPA E IL DESTINO DELL’EURO. Due libri recenti di Colin Crouch (Making Capitalism fit for Society in traduzione da Laterza) e di Wolfgang Streeck (Tempo guadagnato La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli) sono esemplari di questa crucialità, sostenendo due tesi diametralmente opposte sulle ragioni per cui bisogna preoccuparsi dei populismi antieuropei. Per Crouch è fondamentale evitare il ritorno ai nazionalismi e al protezionismo economico. Nella costruzione di network globali alternativi a quelli basati sul signoraggio del dollaro e sul potere delle grandi corporation, l’Europa è il «miglior candidato» per muovere verso una globalizzazione «equa» e la moneta unica - pur mal concepita e ancora peggio congegnata - è stato, e rimane, un passaggio importante per andare in questa direzione. L’Europa, infatti, se negli ultimi anni ha visto prevalere le componenti politiche di centro-destra che la vogliono configurare come aggressiva «forza di mercatizzazione», ha però sempre coltivato nel suo seno una pluralità di ispirazioni e anche componenti animate dall’identificare un «distinto ruolo» per politiche sociali di profonda correzione delle tendenze distruttive intrinseche ai mercati. Il che ha portato a realizzazioni «impressionanti » per esempio all’epoca delle presidenze Delors e Prodi e con la Carta dei diritti. L’Europa unita, dunque, per Crouch rimane un orizzonte fondamentale e il neoliberismo - fin qui sconfitto, con la crisi scoppiata nel 2007/2008, sul piano culturale, ma tutt’altro che vinto sul piano pratico - sia profondamente combattuto e piegato. L’alternativa a questo percorso non sarebbe un’impossibile ritorno all’autonomia degli stati nazionali, ma la subordinazione al potere delle corporation globali, degli stock markets, delle agenzie di rating. La sinistra - specie quella socialdemocratica, in congiunzione con il sindacato che ha bisogno di cambiamenti nelle strategie e nei modelli organizzativi ma rimane un’istituzione estremamente vitale - ha un compito decisivo da svolgere, a patto di uscire dall’assetto odierno, prevalentemente «difensivo», assumendo un orientamento nettamente «assertivo» e di allearsi con le istanze ambientaliste, con i movimenti femministi, con altri movimenti che animano il variegato scenario della società civile. Al contrario, secondo Streeck, di fronte agli esiti recessivi e stagnazionistici generati in tutti i paesi europei dai tentativi di salvare l’Euro e dalle politiche di «deflazionistica disciplina fiscale» imposte dalla Germania della Merkel, è arrivato il momento di riconoscere che il processo dell’Europa unita, basato sulla cessione di sovranità da parte degli stati nazionali, è stato segnato fin dall’inizio dalla volontà di trasformare l’Unione in un «catalizzatore della liberalizzazione del capitalismo», volontà a cui hanno finito con l’aderire anche personaggi come Delors e Prodi i quali, anzi, hanno il demerito di essersi eretti a paladini della necessità che l’Europa riconquistasse primariamente competitività nei confronti degli Usa. Così si è dato vita a una struttura istituzionale malata, «progettata per garantire che gli stati nazionali un tempo sovrani si conformino alle richieste del mercato». L’Euro è stato un tassello decisivo di questo processo, componente centrale dell’applicazione all’Europa del progetto neoliberista. È tutto ciò che torna a dare grande valore alla questione della sovranità nazionale: sarebbe esiziale procedere con «fughe in avanti» verso l’Europa unificata anche sul piano politico e invece bisogna ripristinare le sovranità nazionali, consentendo a ogni paese di coltivare la propria diversità, senza inseguire feroci convergenze. Per Streeck un Piano Marshall per l’Europa - che è proprio la richiesta della DGB tedesca e di altri sindacati europei, tra cui la Cgil che avanza anche la proposta di un Piano del lavoro interno - oggi «sarebbe impensabile».
È interessante notare che una componente fondamentale delle opposte argomentazioni di Crouch e di Streeck è la questione della «riformabilità» o «irriformabilità » del capitalismo. Streeck pensa che sia in atto un processo inarrestabile di «convergenza» delle economie sviluppate verso un modello unico, quello neoliberistico anglosassone, il che toglie validità all’approccio della variety of capitalism e, soprattutto, rende difficile al limite dell’impossibile ogni opzione di riformabilità del capitalismo. Crouch, invece, crede nella riformabilità del capitalismo e nella persistente pluralità dei «tipi di capitalismo». Su questa base rilancia alla grande l’obiettivo ambizioso della «riforma del capitalismo», con accenti che richiamano Keynes che negli anni ’30 individua al centro del nuovo liberalismo le azioni umane non determinate dal profitto e dunque il lavoro fonte di un nuovo umanesimo. Per questo è sbagliato non vedere le differenze che ci sono state e ci sono tra destra e sinistra. Le timidezze, le reticenze le vere e proprie subalternità che le sinistre hanno avuto nei confronti del neoliberismo sono indubbie, soprattutto nella Terza Via di Tony Blair. Ma è la sinistra la «maggiore sorgente di alternative all’interno della società capitalistica», alternative che rischiano di essere marginalizzate se l’«austerità » e la «precarietà» falsamente «espansive» procedono stritolando ogni cosa lungo il suo cammino.
Oggi l’alternativa di sinistra per un’eguaglianza non derubricata a semplice equità richiede per l’Europa l’abbandono delle politiche di austerità e il lancio di strategie di investimenti e di generazione diretta di occupazione: non basta il semplice incremento della occupabilità presupposto dalla «youth guarantee» e dal Jobs Act di Renzi. Non si può non vedere che, dopo la profonda depressione di questi anni l’apparente ripresa in Irlanda e in Spagna è dovuta a un recupero di produttività generato da una fortissima espulsione di forza, il che spinge la disoccupazione a livelli stratosferici, i quali, a loro volta comprimono i salari verso il basso. Va invertita la rotta. Si tratta di procedere a un aggiustamento di reddito e spesa, prendendo atto che in assenza di domanda è semplicemente folle insistere nel rendere i paesi debitori maggiormente competitivi; a una ristrutturazione e mutualizzazione del debito; e a un aggiustamento finanziario, cambiando i Trattati e spingendo la Bce a un maggior sostegno dell’economia reale, dandole anche la possibilità di finanziare i governi direttamente.

l’Unità 5.5.14
Battaglia per il lavoro, a cosa serve il sindacato
di Claudio Sardo


È vero, il sindacato è stretto in una tenaglia. Da un lato si riducono i suoi spazi di «attore politico generale», non solo per la fine della concertazione ma soprattutto per la contrazione del lavoro dipendente.
Dall’altro lato si riducono pure i margini della contrattazione, a causa di questa drammatica crisi. Una cosa però va detta con nettezza: senza il sindacato, o con un sindacato in ritirata, la società sarà più debole. Saranno più deboli i diritti dei lavoratori e la possibilità stessa di rinnovare il welfare preservando il modello sociale europeo. Sarà più debole anche la sinistra: come può «vincere» in un sistema che delegittima i corpi intermedi, lasciando soltanto i leader e le loro tecniche di comunicazione davanti a cittadini sempre più soli e spaventati?
La retorica anti-sindacale è fastidiosa benché incroci non pochi consensi. Mantiene la sua matrice di destra benché sia fatta propria da qualche dirigente della sinistra. Ma il problema vero non sono le battute. La questione cruciale riguarda la capacità del sindacato di uscire dalla strettoia e di riproporsi come forza di cambiamento. Non sarà facile. Perché di una rendita il sindacato italiano ha goduto nell’ultimo decennio: l’essere percepito, tutto sommato, come una riserva critica, come una difesa estrema in quei territori sociali dove la politica smobilitava, il mercato si faceva più aggressivo, il potere era sempre più lontano dalle istituzioni e dai partiti. Con Renzi quella rendita sembra esaurita. Nel bene o nel male, la sua impresa è tentare di rilanciare un primato della decisione politica sulle tecnocrazie e sui poteri consolidati. Non ci rende felici che Renzi usi un linguaggio così ammiccante al populismo. Tuttavia, è indubbio che in questo modo riesca a parlare con pezzi di società divenuti ormai estranei alla sinistra.
In ogni caso il sindacato si è invecchiato per la «rottamazione» di Renzi. È diventato più vecchio quando, con sacrificio e senso di responsabilità nazionale, ha consentito l’azione emergenziale del governo Monti senza riuscire a contrastare alcune storture. Anzi, subendo fin da allora un’esclusione. Ciò che è accaduto dopo, ha aggravato le difficoltà e dato l’impressione che il sindacato fosse costretto alla difensiva. Questa catena va spezzata. Il sindacato non può consentire che la propria immagine venga schiacciata sui corporativismi, accentuati dalla crisi. Il sindacato può diventare invece un alleato prezioso contro le corporazioni, le zone grigie di privilegio, le resistenze all’innovazione. Il congresso della Cgil che si apre domani è una grande occasione per avviare questo percorso. È definitivamente conclusa la concertazione degli anni 90? Non c’è da mettersi a piangere. Il sindacato può ridefinire il suo ruolo cruciale per lo sviluppo del Paese ripartendo da ciò che più gli è proprio: la contrattazione. Nazionale, aziendale, territoriale. Non è affatto un ruolo marginale. È uno straordinario punto di ripartenza, anche politico. Perché la contrattazione oggi richiede pensiero, visione e ovviamente un nuovo sistema di regole democratiche nei posti di lavoro.
In una bella intervista su Rassegna sindacale, Fabrizio Barca parla di una nuova frontiera della contrattazione, non più legata a un lavoro di costrizione ma aperta a una partecipazione attiva, creativa del lavoratore. Da contrattare non ci sono soltanto salari, standard, diritti. Se il tema diventa la qualità del lavoro e della sua organizzazione, la contrattazione può diventare «costruzione» economica e sociale. E una nuova collaborazione è possibile - ci sono già esperimenti riusciti -con l’impresa che aumenta la produttività perché innova: sono le basi potenziali di un nuovo patto sociale.
La società senza mediazione, senza corpi intermedi sarà meno creativa, meno competitiva, più individualista. Un Paese democratico ha bisogno di diversi motori sociali. In tanti dicono che il sindacato italiano dovrebbe fare come quello tedesco al tempo di Schroeder. Dimenticano che in Germania i corpi intermedi, sindacati compresi, sono strutture solidissime e che, grazie al ruolo che viene loro riconosciuto, sono stati raggiunti i risultati di cui si parla. Ci vuole coerenza. Ad esempio, applicando al più presto le nuove regole della rappresentanza nei luoghi di lavoro: la fonte della legittimazione è lì, tra i lavoratori. Senza regole democratiche il sindacato si atrofizza perché non circola la linfa nuova. Le «soluzioni solidaristiche e innovative, coraggiose e determinate» che Giorgio Napolitano ha giustamente chiesto ai sindacati il 1° maggio scorso sono ciò di cui ha bisogno l’intero Paese. Ma la priorità, per tutti, deve essere il lavoro e la qualità del lavoro. Il cambiamento deve valere per tutti, non solo per i sindacati. Non si può ripartire ogni volta dalle soluzioni giuslavoristiche: hanno prodotto tanta precarietà e non hanno frenato la disoccupazione. È necessario cambiare l’agenda, dando la priorità a investimenti, progetti, ricerca. Occorre finalmente definire il contratto unico a tutele crescenti e il sistema di ammortizzatori sociali «universali». E, se si vuole davvero mettere alla prova il sindacato nella pubblica amministrazione, bisogna far ripartire la contrattazione bloccata da anni. Così la sfida sarà più vera e impegnativa. Ma c’è chi vuole un’Italia con un lavoro sempre più povero, svalutato, deprofessionalizzato. E questo è invece il cambiamento da combattere.

Repubblica 5.5.14
Landini: “La Cgil cambierà leader scelti con le primarie e legge di rappresentanza”
Il segretario Fiom sfida Renzi sulla riforma del sindacato “No ai contratti a termine ma il bonus è più di un aumento”
intervista di Roberto Mania


ROMA. «Renzi vuole fare la rivoluzione? Io più di lui. Francamente non vedo cosa ci sia da difendere in un paese che ha l’età pensionabile più alta d’Europa, i salari più bassi e i giovani precari», dice Maurizio Landini, segretario generale della Fiom.
Forse ci sono delle responsabilità anche dei sindacati se sul piano sociale le cose sono così peggiorate.
«Se c’è una responsabilità dei sindacati è stata certamente quella di aver ragionato in questi anni con la logica di ridurre il danno. Prima si è sostanzialmente accettata la modifica dell’articolo 18, ora ci si ritrova con la liberalizzazione totale dei contratti a termine».
Eppure il presidente del Consiglio Renzi più che remissivi vi considera conservatori. Dice che non si farà fermare dai veti sindacali e vi invita a cambiare.
«Che ci sia la necessità di un cambiamento democratico del sindacato è fuori discussione. C’è un mercato del lavoro che è totalmente cambiato e ci sono milioni di lavoratori che non hanno rappresentanza».
Dunque ha ragione Renzi quando sostiene che il sindacato italiano si occupa solo di chi ha già il lavoro e dei pensionati?
«Il problema c’è. Ma Renzi può fare una cosa per far sì che il sindacato si riformi: presentare una legge sulla rappresentanza e la democrazia sindacali. Perché bisogna mettere le lavoratrici e i lavoratori nelle condizioni di cambiare il sindacato. Solo i lavoratori possono riformare il sindacato, non il governo né i vertici delle organizzazioni. Dopodiché non ridurrei la disputa tra innovazione e conservazione ad una questione nominalistica perché dipende da cosa si vuole cambiare e cosa si vuole conservare. Renzi sta facendo cose importanti e innovative, ma ha anche imboccato strade vecchie e proposto ricette che di nuovo non hanno nulla».
Le cose innovative quali sono?
«Aver deciso di dare 80 euro a chi guadagna meno di 25 mila euro. Mi pare una novità, una innovazione assoluta. Io da sindacalista non sono mai riuscito ad ottenere un aumento di 80 euro in una volta sola. Rappresentano una novità anche la tassazione sulle rendite finanziarie e quella a carico delle banche».
Renzi lo ha fatto “scavalcando” il sindacato. È un metodo condivide, lei che è sempre stato contrario alla concertazione?
«Sicuramente è un metodo che mette a nudo i nostri ritardi e le nostre difficoltà. Ma c’è una critica che va fatta a Renzi: con 80 euro non si può poi mercificare tutto e trasformare in denaro qualsiasi diritto».
A cosa si riferisce?
«Penso alla liberalizzazione dei contratti a termine, senza più causale, che li fa diventare la forma di assunzione normale. E addirittura al fatto che le eventuali violazioni dei limiti ai contratti a termine si traducano in una multa. Mi pare una vecchia idea. Erano anni che la Confindustria lo chiedeva senza riuscirlo ad ottenere. Eppure ci sono studi, citati dalla Banca d’Italia, che dimostrano come più precarietà si trasformi in meno produttività, meno investimenti, meno lavoro e dunque meno competitività. Renzi farebbe bene a leggerli».
Pare di capire che il feeling iniziale tra lei e Renzi si sia molto affievolito.
«Come Fiom abbiamo scritto una lettera aperta al presidente del Consiglio per una nuova politica industriale e una nuova politica sociale. Da questa prospettiva elementi di novità non ne vedo».
Lei è favorevole all’introduzione delle primarie anche nel sindacato?
«Dopo che al congresso della Cgil ha partecipato circa il 20% degli iscritti credo che l’attuale discussione congressuale, con cadenza quadriennale, vada superata. Le primarie? Non escludo nulla per rendere più democratico e trasparente il sindacato. È una discussione che va affrontata, sapendo che il sindacato non è un partito, che ha migliaia di delegati nei posti di lavoro, che, almeno per quanto riguarda la Fiom, utilizza le risorse che gli derivano esclusivamente dal pagamento delle tessere. In ogni caso bisogna trovare un modo per far partecipare i lavoratori fino alla possibilità che siano loro a scegliere i gruppi dirigenti».
Renzi non verrà al congresso della Cgil che comincia martedì a Rimini. Che ne pensa?
«Ce ne faremo una ragione».
E lei troverà un accordo con la Camusso?
«Ho parlato di un esito congressuale truffaldino. Lo confermo. Non vedo, ad oggi, le condizioni perché il congresso si concluda unitariamente».

Corriere 5.5.14
Le conseguenze della crisi economica, anche in Italia nascono meno figli
di Margherita De Bac


Il drammatico calo delle nascite in Grecia è stato descritto come un effetto della crisi economica. Il fenomeno è stato rilevato in altri Paesi europei. E ai primi posti c’è l’Italia dove il peggioramento delle condizioni sociali e la disoccupazione hanno inibito il desiderio di fare figli. La conseguenza è che le coppie ritardano i progetti di allargamento della famiglia e aumenta l’età della donna alla prima gravidanza.
Nel 2012 secondo l’Istat sono nati 12 mila bambini in meno rispetto all’anno precedente e 42 mila in meno rispetto al 2008. Quindi una diminuzione del 7,4% in quattro anni. I dati provvisori del 2013 evidenziano un ulteriore flessione del 4,3%. L’allarme viene lanciato sull’autorevole rivista Lancet da Mario De Curtis, neonatologo dell’università La Sapienza, che ritiene urgentissimo prendere le contromisure se non vorremo ritrovarci in un Paese senza giovani. E la prospettiva è molto vicina a giudicare dal rapido declino della curva della natalità.
L’analisi di questa sorta di catastrofe non finisce qui. Le mamme italiane sono le più anziane d’Europa. Quasi 4 su 10 oggi provano la gioia del primo bebè dopo i 35 anni, probabilmente solo dopo aver raggiunto una maggiore serenità economica. Basterebbero questi dati per convincere il governo che le iniziative per contrastare il fenomeno delle culle vuote devono essere incisive, finalizzate a imprimere finalmente una svolta. De Curtis nota che «anche durante la crisi economica non bisognerebbe tagliare la sanità e sostegni sociali. Il rischio è un ulteriore deterioramento della condizioni materno infantili». I bambini nati da donne povere o che hanno difficoltà a utilizzare i servizi di medicina prenatale durante la gravidanza si ammalano infatti più facilmente.

La Stampa 5.5.14
Riforme, per il governo una settimana di fuoco
Dl al lavoro in Aula. Nuovo Senato in Commissione per la nuova Pa
di Francesca Schianchi

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Corriere 5.5.14
Lavoro, percorso a ostacoli I ritardi sui tagli alle spese
Bilancio di 70 giorni di governo Bilancio di 70 giorni, gli 80 euro sicuri solo per il 2014 Approvati finora 10 decreti e 4 disegni di legge


Ieri il governo Renzi ha compiuto 70 giorni. Insediatosi il 22 febbraio, in 10 settimane ha riunito per 15 volte il consiglio dei ministri. Ha approvato finora 10 decreti legge e 4 disegni di legge, a riprova della difficoltà anche per questo esecutivo di limitare il ricorso alla decretazione. Che spesso si giustifica non, come dovrebbe essere, con l’urgenza del provvedimento, ma con la necessità di assicurare una maggiore efficacia allo stesso, dato che il decreto va convertito in legge entro 60 giorni e con ridotti margini di modifica in Parlamento. Necessità forte anche per l’esecutivo Renzi, tanto più che il presidente del Consiglio si ritrova con gruppi parlamentari del suo stesso partito, il Pd, spesso critici se non ostili, come si è visto al Senato sul disegno di legge costituzionale che abolisce il bicameralismo perfetto e alla Camera sul decreto legge Poletti che liberalizza i contratti a termine. Tanto è vero che, in questo secondo caso, anche per superare l’ostruzionismo dei grillini, Renzi è dovuto ricorrere al voto di fiducia. Sono già 5 le fiducie che il governo ha chiesto (oltre le 2 d’obbligo sulle dichiarazioni programmatiche): sul decreto legge per prolungare le missioni militari all’estero, sul disegno di legge Delrio che elimina le province elettive, sul decreto enti locali (il cosiddetto Salva Roma), sul decreto Poletti appunto, e sul decreto sulle tossicodipendenze .
Fin dall’inizio Renzi ha utilizzato il metodo dell’annunciare provvedimenti che solo dopo alcune settimane vengono approvati dal Consiglio dei ministri. Un modo per costringere la squadra a correre, secondo i suoi collaboratori. Un modo per far propaganda, tenendo a lungo sulle prime pagine dei giornali le sue decisioni, secondo le opposizioni. Vediamo, più semplicemente, a che punto è l’azione di governo, osservando le principali cose fatte, quelle in itinere e quelle solo annunciate .

Corriere 5.5.14
Eataly, blitz di protesta dei collettivi
Flash mob contro la precarietà
I ragazzi hanno simulato simbolico il blocco delle casse, pagando la merce con monete da 1 centesimo, e inscenato un ballo in ricordo del teatro Smeraldo

qui

Repubblica 5.5.14
E oggi Bruxelles mette sotto la lente le misure del governo Renzi


BRUXELLES. Giornata di valutazioni oggi a Bruxelles sullo stato dell’economia italiana e le misure messe a punto dal governo Renzi per agganciare la crescita nel rispetto dei vincoli Ue. In mattina è attesa la pubblicazione delle previsioni di primavera della Commissione europea, che metterà nero su bianco le nuove stime sui conti pubblici di tutti i paesi membri. C’è attesa per le nuove cifre. Nel precedente outlook pubblicato a novembre, Bruxelles ha previsto che il Pil italiano crescerà dello 0,7% nel 2014 e dell’1,2% nel 2015. Il governo nel Def ha stimato rispettivamente +0,8% e +1,3%. Sul versante del deficit, l’Ue lo scorso novembre ha stimato che quest’anno si chiuderà con un disavanzo al 2,7% del Pil e il prossimo sarà al 2,5%. Il governo nel Def ha previsto un disavanzo al 2,6% nel 2014, al 2% nel 2015, e all’1,5% nel 2016, con lo slittamento di un anno la data del pareggio di bilancio, inizialmente fissata per il 2015.

l’Unità 5.5.14
Tsipras, l’altra Europa riparte da Ventotene
Barbara Spinelli e i candidati nell’isola dove il padre al confino scrisse il Manifesto
per l’unità europea
di Rachele Gonnelli


Barbara Spinelli ha portato ieri le bandiere della Lista L’Altra Europa per Tsipras sull’isola di Ventotene, a sventolare sotto il sole a fianco del cippo che ricorda il Manifesto scritto da suo padre Altiero e da Ernesto Rossi ai tempi del loro confino, splendido scritto che è l’atto ideativo e fondativo dell’Europa unita. Un pellegrinaggio dall’alto valore simbolico in cui è stata accompagnata da un drappello di candidati e sostenitori della lista di cui la giornalista è il principale testimonial, da Raffaella Bolini all’economista Felice Roberto Pizzuti.
Barbara Spinelli ha letto un brano del Manifesto di Ventotene, quello che parla delle forze innovatrici e progressiste contrapposte alle forze della conservazione, e ha potuto abbracciare oltre al sindaco un signore isolano dai capelli bianchi che, come lui stesso le ha ricordato, da bambino era incaricato di portare il cibo ai detenuti politici tra cui suo padre. «La situazione di allora era radicalmente perversa - ha detto Spinelli presentando l’iniziativa con un parallelo attuale -ma anche oggi l’Europa esce frantumata e stremata da una guerra di parole e di tremende terapie di austerità che vengono inflitte ai popoli come punizioni morali». L’Europa che ci si presenta davanti dopo sette anni di crisi non può che apparire come «un aborto » - parole sue - rispetto all’idea federalista degli Stati Uniti d’Europa che immaginarono Altiero Spinelli e i suo compagni esattamente settant’anni fa.
«Bisogna vedere dove sono finite quelle speranze, perché con la morte della generazione dei nostri padri partigiani c’è stata questa degenerazione della classe politica», ha aggiunto l’attore Ivano Marescotti, anche lui figlio di uno dei confinati insieme al padre di Barbara e che l’ha seguita in questo pellegrinaggio politico sull’isola. Mentre Raffaella Bolini dell’Arci, candidata nel collegio del Centro per le europee del 25 maggio, ha ricordato che il Mediterraneo non è la periferia dell’Europa ma uno dei suoi centri e che «con un grande piano di investimenti pubblici può diventare una grande ricchezza per uno sviluppo sostenibile». Bolini insiste sul fatto che per recuperare risorse da investire è necessario diluire il pagamento dei debiti sovrani di Paesi come l’Italia e la Grecia. Il progetto della Lista Tsipras, e del suo candidato alla presidenza della Commissione di Bruxelles, il greco Alexis Tsipras, è quello di convocare una conferenza europea sul debito come quella che nel secondo dopoguerra permise alla Germania di sollevarsi dalla devastazione e dilazionare i debiti di guerra. «Le ricette utilizzate fin qui – ha sottolineato ancora l’economista Pizzuti, anche lui candidato al Centro - si sono dimostrate inefficienti oltre che profondamente inique, tocca metterne in campo altre, eque e centrate su uno sviluppo rispettoso dell’ecologia».
Oggi i rappresentanti della Lista Tsipras si ritroveranno in viale Mazzini a Roma, sotto la sede della Rai, per protestare contro l’oscuramento della lista nei tg e nei programmi di informazione politica. Due ricorsi in tal senso sono stati presentati all’Agcom.

Repubblica 5.5.14
In bikini sul web “Qualunque mezzo per far votare la Lista Tsipras”
di Alessandra Longo



ROMA. «Ciao. E’ iniziata la campagna elettorale e io uso qualunque mezzo. Votate l’Altra Europa con Tsipras». Paola Bacchiddu, responsabile comunicazione della Lista Tsipras, opzione elettorale per le Europee parecchio oscurata, ha accompagnato questo messaggio con una sua foto in bikini, lato b in primo piano. «Qualunque mezzo», dice lei, con ironia, utilizzando il suo profilo personale su Facebook. L’immagine del due pezzi è del 2 maggio.
Ma solo ieri, in casuale, e certo infelice, concomitanza con il pellegrinaggio a Ventotene di alcuni candidati della Lista, tra cui Barbara Spinelli, è scoppiato, come si dice, il caso. Guelfi e ghibellini, pro-Paola e anti-Paola. Facebook e Twitter intasati dai commenti. Il fine giustifica i mezzi? Si può mescolare il sacro con il profano? Ancora una volta il corpo di una donna per guadagnare un titolo di giornale... Alcuni compagni, ma soprattutto compagne, storcono il naso: «L’avesse fatto una berlusconiana cosa avremmo detto?». E poi ironia: «Sei meglio della Minetti. Primi effetti positivi. Mi sa che arriviamo al 10 percento!».
Lei, la diretta interessata, deve aver avuto i suoi bei temporali in famiglia. Viene al telefono ma per dire lo stretto indispensabile: «La mia voleva essere una cosa giocosa, spiritosa. I media non si interessano a noi, alla nostra agenda, al nostro programma. Dopo Ventotene, tra due giorni saremo all’Aquila ma nessuno ne parla». Però, Bacchiddu, una giornalista freelance, esperta di comunicazione, deve pur immaginare la possibile ricaduta di un lato b targato Tsipras sotto elezioni... «Le giuro che mai avrei pensato ad una deriva di queste proporzioni. Ho toccato un nervo scoperto, le reazioni della pancia delle donne possono essere molto violente». Niente nomi ma si intuisce che lo scherzo «giocoso» è stato accolto con sentimenti contrastanti e i commenti negativi sono sta- ti molto negativi. L’Huffington Post ieri registrava ondivaghi umori. Valerio: «Foto pudica, sincera e bella. I media ci snobbano bisognava far qualcosa: Paola brava e coraggiosa». Pino fa la madre di tutte le domande: «Che ne pensa la candidata Lorella Zanardo?».
Ecco, lo chiediamo direttamente alla Zanardo, autrice del documentario «Il corpo delle donne», un successo da otto milioni di persone. Conversazione brevissima: «Ho 56 anni, due master, ho un programma per i diritti delle donne di grande impatto. Nessuno parla di noi. La nostra presenza sui media è pari allo 0,02 per cento e lei mi telefona per il culo della Bacchiddu. No, scusi, ma non ho nulla da commentare».
Ormai, come la rotativa già in movimento di Humphrey Bogart in «L’ultima minaccia », la comunità online si è impossessata del tema. Addirittura ecco una «campagna di solidarietà» innescata sul suo blog da Femminista Eretica. All’insegna di «Spogliarsi è libertà anche a sinistra», i «selfie» dei sostenitori di Paola. Autoritratti esteticamente borderline, primi piani di mammelle, di bikini dorati, anche un maschio in costume sul prato. Ma chi glielo dice a Tsipras?

Corriere 5.5.14
Bonelli e la linea dei Verdi: no a larghe intese Pse-Ppe che portano solo austerità
di Daria Gorodisky


ROMA — «Hanno provato ad escluderci dalle Europee, ma la legge ci ha dato ragione e siamo stati riammessi. Adesso abbiamo avviato una nuova azione legale, presso la Corte di giustizia a Lussemburgo, contro lo sbarramento del 4%: lo riteniamo incostituzionale e in violazione del Trattato di Lisbona del 2009». Angelo Bonelli, co-portavoce dei Verdi, annuncia una nuova battaglia e il ritorno sulla scena elettorale dell’Unione: «Dopo anni di travagliate vicende del mondo ecologista italiano, ci presentiamo con una riaggregazione cui partecipano ex pd come Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, e la presidente dei Verdi europei Monica Frassoni». E poi, racconta ancora Bonelli, «c’è il nostro José Bové, Vincenzo Fornaro: l’inchiesta sull’Ilva è partita da lui, da una sua denuncia dopo che ha dovuto subire l’abbattimento di circa mille capi di bestiame contaminati proprio dalla diossina dello stabilimento». Per quanto riguarda il programma, Bonelli fa sapere che coincide con quello dei Verdi europei, mentre gli altri partiti sono interessati «solo a determinare equilibri interni e non ad affrontare le grandi sfide». Per spiegare meglio, fa un esempio: «La Corte dei conti europea ha censurato l’Italia per non aver utilizzato neppure un centesimo dei 3,5 miliardi di euro messi a disposizione nel quinquennio 2008/2013 per la bonifica e riqualificazione delle aree di declino industriale. Con quel denaro avremmo potuto trasformare Taranto in un polo di cultura e di innovazione tecnologica, come è successo a Bilbao, che prima era un grande centro siderurgico». La parola d’ordine dei Verdi infatti è centrata sul trinomio economia-ecologia-lavoro, oltre che sull’attenzione ai cambiamenti climatici: «La lotta alla povertà sociale si fa con il lavoro, non con l’assistenza: la Germania prevede di arrivare al 75% di energia rinnovabile entro il 2050, con posti di lavoro in più. Serve un nuovo modo di produrre: Pittsburgh, Usa, ha triplicato l’occupazione grazie a un capitalismo illuminato di questo tipo». Stesso discorso per l’industria automobilistica italiana: «Siamo preoccupati per il suo futuro perché altri sono più avanti di noi: Francia e Germania hanno iniziato da 10 anni a produrre l’auto ibrida, l’auto pulita». Infine, le alleanze: «Ovviamente, se eletti, faremo parte del gruppo Verdi europeo — conclude Bonelli —. E con loro ci impegneremo contro le larghe intese, contro una convergenza Pse-Ppe che porterebbe soltanto politiche di austerità».

l’Unità 5.5.14
Cambiare la Costituzione ma con saggezza
di Mimmo Lucà


LA RIFORMA DEL SENATO E QUELLA DEL TITOLO V SONO UNA COSA SERIA. Non si cambiano 45 articoli della Costituzione con un diktat o sulla base di un accordo extraparlamentare. Cambiare il Paese dopo anni di immobilismo va bene, ma quando è in gioco la Costituzione, la «velocità» non può diventare un valore irrinunciabile. Bisogna procedere con decisione ma anche con responsabilità e saggezza. E poiché si parla di grande riforma, nuova legge elettorale, revisione del Titolo V e modifica del Senato non possono essere affrontare separatamente, ma con un approccio coerente e sostenibile. Proprio perchè le riforme sono necessarie e urgenti, occorre impostare bene il confronto, in Parlamento, tra le forze politiche e nello stesso Pd. Le primarie, qui, non c’entrano niente. L’ipotesi, oggi fortemente sostenuta dal premier, di un Senato delle Autonomie è, a mio giudizio, preferibile. Ma il Senato delle Autonomie non può diventare il «secondo lavoro» di sindaci e governatori, oppure una sorta di Cnel delle Regioni. Esso ha senso se anzitutto governa il federalismo cooperativo italiano e se diventa il luogo privilegiato del confronto istituzionale tra Stato e Regioni. Il Senato delle Autonomie perde invece ogni ragione se i poteri delle Regioni vengono svuotati, oppure se ci si continua ad affidare alla Conferenza Stato-Regioni per compensazioni politiche poco trasparenti.
In ogni caso, lo ripeto, questa riforma, quella del federalismo e la nuova legge elettorale sono strettamente collegate. La questione delle garanzie e degli equilibri costituzionali, posta da Vannino Chiti, è molto seria e non può essere brutalmente rimossa. Se il Senato diventa davvero delle Autonomie, sul modello del Bundesrat tedesco, è logico reimpostare il tema del federalismo e prevedere un’elezione di secondo grado. Ma un’elezione di secondo grado dei senatori renderebbe ancora più inaccettabile l’attuale impianto dell’Italicum, che al pari del Porcellum, sottrae ai cittadini il diritto di scegliere i propri deputati e affida il potere di nomina a ristrettissime oligarchie di partito. Non sarebbe più democratico né compatibile con i principi della Costituzione, un sistema in cui i senatori fossero scelti dai consigli regionali e dai sindaci, mentre i deputati vengono tutti nominati dai capi- partito. Ancor più se il nuovo Senato avesse anche le funzioni di revisione costituzionale.
Se il governo non fosse disposto ad un confronto serio volto alla ricerca di una sintesi largamente condivisa, se non fosse disposto a riconoscere che i testi attuali creano vuoti pericolosi sul terreno delle garanzie costituzionali e dei contrappesi democratici, se non fosse disposto a cambiare in modo profondo l’impianto dell’Italicum, allora il testo della proposta Chiti diventerebbe l’ancoraggio indispensabile ad una cultura giuridica seriamente ispirata alla tradizione europea.

Il Sole 5.5.14
Il disegno di legge alla Camera
Il «divorzio breve» cerca di accelerare


Mentre il ministro della Giustizia Andrea Orlando si prepara a far debuttare la negoziazione assistita dagli avvocati per le crisi familiari, il Parlamento prova ad accelerare sul divorzio breve. Il Ddl che modifica l'articolo 3 della legge sul divorzio (la 898 del 1970), e abbatte il tempo che i coniugi devono attendere dopo la separazione per chiedere lo scioglimento del matrimonio, è ora all'esame della commissione Giustizia della Camera. «Puntiamo a portarlo in Aula entro la fine di maggio o l'inizio di giugno», afferma Alessandra Moretti (Pd), relatrice del provvedimento insieme con Luca D'Alessandro (Forza Italia).
In commissione, lo scorso 8 aprile, i deputati hanno approvato all'unanimità un testo base, che unifica cinque disegni di legge presentati da parti politiche differenti: Forza Italia, Sel, Movimento 5 stelle, Psi e Pd. E domani scade il termine per presentare gli emendamenti.
Nel dettaglio, il provvedimento ora in discussione riduce gli attuali tre anni di separazione (consensuale, giudiziale o di fatto) a uno, che scendono ancora a nove mesi nel caso di separazioni consensuali in cui non siano coinvolti figli minori. Lo schema di Ddl introduce anche un'altra modifica: i nuovi termini decorrono dal deposito della domanda di separazione e non, come accade ora, dalla comparizione dei coniugi di fronte al presidente del tribunale nella procedura di separazione. Si tratta di una correzione della procedura pensata per velocizzare il percorso e mettere tutti i coniugi nelle stesse condizioni. Oggi infatti ai tre anni di separazione previsti dalla legge occorre aggiungere anche l'attesa per l'udienza presidenziale: che dovrebbe essere fissata entro 90 giorni dal deposito della domanda di separazione, ma che in molti tribunali può richiedere anche alcuni mesi.
Inoltre, lo schema di Ddl interviene sull'articolo 191 del Codice civile precisando che la comunione dei beni si scioglie già nel momento in cui, in sede di udienza presidenziale, il giudice autorizza i coniugi a vivere separati.
Di divorzio breve in Parlamento si discute da anni. Ma a far sperare che la riforma questa volta possa andare in porto, spiega Moretti, è anche l'intervento, annunciato da Orlando, sulla fase stragiudiziale nelle separazioni consensuali: «L'azione del Governo – afferma – va nella direzione segnata dal Parlamento e dimostra che è arrivato il momento di semplificare le procedure accorciando i tempi del divorzio».

Corriere 5.5.14
Daniel Howard Yergin
«La Russia ha già scelto: venderà il gas alla Cina. E sarà una rivoluzione»
di Massimo Gaggi


Daniel Howard Yergin, nato a Los Angeles nel 1947, è docente e grande esperto d’energia
Nel 1992 ha vinto il Premio Pulitzer con un libro sulla storia dell’era del petrolio: «The Prize». Nel 2011 è stato pubblicato  il seguito,  «The Quest»

NEW YORK — «L’Europa, ancora per alcuni anni, non avrà alternative vere all’approvvigionamento di gas dalla Russia, ma anche per le multinazionali petrolifere Usa e per l’intero mercato mondiale dell’energia un inasprimento delle sanzioni nei confronti di Mosca avrebbe conseguenze immense: ha ragione chi dice che le decisioni di oggi incideranno per decenni sul commercio mondiale».
Daniel Yergin, uno dei più rispettati e ascoltati esperti internazionali del mercato dell’energia, è in grande allarme per l’escalation del conflitto nell’Ucraina orientale. L’analista, considerato il maggiore storico dell’industria petrolifera grazie a libri acclamati come The Quest e, soprattutto, The Prize (Il premio , Sperling & Kupfer) col quale ha vinto il Pulitzer, racconta che nei suoi contatti coi capi dei grandi gruppi dell’energia percepisce smarrimento, più ancora che ostilità nei confronti delle possibili misure restrittive dei traffici.
Gli operatori che si sono impegnati fortemente in Russia, dalla Shell all’Eni, sapevano di certo che lì avrebbero corso anche rischi politici. Del resto petrolio e gas vanno presi dove ci sono.
«E’ vero, ma nel caso della Russia è successo qualcosa di più. Sono stati gli stessi governi, a cominciare da quello americano, a invitare le multinazionali a investire massicciamente in questo Paese. E ciò, nonostante i rischi politici. Anzi, proprio per questo: si pensava che, allargando la cooperazione economica di Mosca con l’Occidente, creando interessi reciproci pressoché indissolubili, il Cremlino avrebbe pian piano rinunciato alla sua aggressività, alla tentazione della contrapposizione politico-strategica con gli Stati Uniti e l’Europa. Ma Putin ha mandato all’aria questi calcoli. Il presidente russo rischia grosso, ma ora l’Occidente non sa come reagire. Deve mostrare fermezza ma non può ignorare che le conseguenze di un embargo allargato a interi settori dell’economia, come l’energia, saranno pesantissime».
Quali sono i trend che individua, nell’ipotesi di un aggravamento del conflitto?
«Sostanzialmente tre: uno spostamento delle forniture di gas russo dall’Europa alla Cina, il crollo degli investimenti esteri in Russia e un’intensificazione degli sforzi per sostituire il gas che l’Europa oggi compra da Mosca con Lng, il gas naturale americano che verrà esportato in forma liquida attraverso l’Atlantico. Ma ci vogliono anni per preparare gli impianti. Tutti, oggi, cercano di concludere contratti con gli Usa che hanno, ormai, vaste riserve di shale gas. Ma le prime forniture arriveranno solo nel 2015-16 e solo dal 2018 diventeranno un fattore importante per l’Europa. Nel 2021 l’America sarà il maggior esportatore mondiale di gas».
Un modello di business completamente diverso per «big oil», le multinazionali degli idrocarburi.
«Beh, non è che si possa passare da un modello all’altro in modo indolore. Come le dicevo, queste società investono massicciamente in Russia da almeno vent’anni, spinte dagli stessi governi. Progetti che spesso hanno un orizzonte, per il recupero degli investimenti, di 30 o 40 anni. Non possono certo andar via da un giorno all’altro. Per questo parlo di smarrimento. Lo “choc” è forte. Credo che, anche se la crisi si risolverà, d’ora in poi i grandi gruppi ci penseranno molto prima di fare investimenti di lungo periodo in Russia».
Chi rischia di più? Dove verranno prese le decisioni più importanti e difficili?
«Gli Usa sono sempre determinanti, sul piano strategico e anche come potenza energetica. Ma stavolta le decisioni più importanti verranno prese a Berlino. La Germania è centrale non solo per il forte impegno in Russia dei suoi grandi gruppi industriali e per le massicce importazioni di gas russo, ma anche perché il Paese sta perdendo competitività proprio sul fronte energetico: ha investito molto in energie alternative, più pulite ma anche molto costose. Senza gas russo, a parte i problemi di approvvigionamento, la competitività del sistema economico sarebbe ulteriormente compromessa».
Il gas russo alla Cina è una minaccia o sta già diventando realtà?
«La scelta di fondo Mosca l’aveva già fatta, e per ragioni economiche: la domanda europea è stagnante. Recessione e demografia non incoraggiano. La Russia ha bisogno di vendere più gas e la crescita può venire solo dall’Asia. La crisi ucraina accentua questa spinta. Ma Pechino è decisa a negoziare con durezza sui prezzi con Mosca. E i russi non vogliono rinunciare a quelli che spuntano nella Ue» .

Corriere 5.5.14
«Cia e Fbi aiutano gli ucraini»


BERLINO — Cia e Fbi in aiuto del governo di Kiev. Decine di specialisti dei servizi di intelligence e della polizia federale americana contribuiscono ad aiutare il governo ucraino. Lo riferisce la Bild am Sonntag , l’edizione domenicale del quotidiano tedesco Bild . Citando fonti tedesche anonime, la Bild precisa che agenti della Cia e dell’Fbi aiutano Kiev a mettere fine alla ribellione nell’est dell’Ucraina e a creare un dispositivo di sicurezza efficace. La Bild aggiunge che gli agenti non sono rimasti direttamente coinvolti negli scontri con i separatisti filorussi. «La loro attività è circoscritta alla capitale Kiev», scrive il giornale nell’edizione in edicola ieri. Inoltre, gli agenti dell’Fbi aiutano Kiev nella lotta contro il crimine organizzato e un team specializzato in questioni finanziarie è invece impegnato a identificare l’origine della fortuna accumulata dall’ex presidente ucraino, Viktor Yanukovich. Il mese scorso, la Casa Bianca ha confermato che il direttore della Cia John Brennan ha effettuato una visita a Kiev nell’ambito di un viaggio in Europa, una tappa «condannata» come un’ingerenza da Mosca.

Corriere 5.5.14
Addio miopi speranze sulla Libia
La Libia sprofonda (e pagheremo anche noi)
Ora l’Italia ha paura (per gas e petrolio)
di Franco Venturini


All’indomani del 20 ottobre 2011, sebbene turbato dall’orribile linciaggio di Gheddafi, l’Occidente che aveva contribuito ad abbatterlo a colpi di missili e di bombe era marcatamente ottimista sul futuro della Libia. Dopotutto una dittatura crudele era caduta, si erano create le condizioni per una marcia verso la democrazia, e non sembrava troppo difficile mettere d’accordo sei milioni di libici quasi tutti sunniti e con poche minoranze non arabe.

Due anni e mezzo dopo, quell’incauto e miope ottimismo si è trasformato in un sentimento di frustrazione e di paura. Per tutti gli occidentali, ma soprattutto per chi, come l’Italia, ha una dipendenza importante dalle forniture energetiche libiche ed è l’approdo naturale delle correnti migratorie che partono dalle coste libiche. Eppure, per motivi che è difficile comprendere salvo che si voglia evitare di riaccendere polemiche e dubbi sulla guerra del 2011, in Italia si parla poco di Libia. Non si ha la consapevolezza della posta in gioco, si fatica a individuare nelle vicende libiche un interesse nazionale primario dell’Italia. Invece la Libia merita di più, perché la Libia è oggi una minaccia che pesa in primo luogo su di noi.
Non era certo incoraggiante l’evoluzione dell’era post-Gheddafi prima dell’uccisione dell’ambasciatore americano Chris Stevens. Ma dopo quel tragico 11 settembre 2012 è stato come se una potente scarica elettrica avesse attraversato tutto il Paese distruggendo sul suo cammino ogni speranza di riconciliazione interna. Da allora attentati, uccisioni, intimidazioni armate l’ultima delle quali nei giorni scorsi in pieno Parlamento per impedirne il voto, si susseguono a ritmo crescente. Il Paese è controllato da una miriade di milizie armate fino ai denti che non sempre coincidono con la mappa tribale e che possono contare su cinquantamila uomini (per avere un riferimento, contro Gheddafi combatterono in diecimila). Le milizie, quando non si scontrano tra di loro, esercitano una pesante influenza su governi che nulla possono e su forze regolari ridotte all’impotenza. All’interno di una cornice tanto poco rassicurante si scontrano «liberali» (il termine si applica soprattutto all’economia) e islamisti di molteplici tendenze, una volta alleati tra loro, quella successiva pronti a spararsi addosso. E poi ci sono i «federalisti» della Cirenaica, che spaziano dai veri autonomisti agli ultrà scissionisti con vari livelli di estremismo fino alla presenza di un nucleo di al Qaeda, del tutto inesistente nell’ Ancien Régime gheddafiano.
Questa premessa sul caos libico è schematica e parziale, ma è anche indispensabile per capire quali macigni pesino sul capo di noi italiani. Perché — e questo è soltanto il primo aspetto — nel gran calderone della nostra ex colonia si è ormai affermato, da parte delle milizie che controllano il territorio, un riflesso automatico: il mezzo migliore per farsi valere è bloccare la produzione o l’esportazione di gas e di petrolio. Tattica senza dubbio efficace. Ma il risultato è che
il milione e mezzo di barili di greggio al giorno prodotti malgrado tutto nel 2012 è passato negli ultimi mesi a una quantità variabile (dipende dalle scorribande delle milizie) tra i 170.000 e i 250.000 barili al giorno. E qualcosa di simile è successo
con la produzione di gas. Non ne risultano danneggiati soltanto i Paesi importatori come il nostro (l’Italia riceveva dalla Libia
il ventitré per cento del suo fabbisogno di petrolio sceso ora al dodici, e sulle importazioni di gas c’è stato un taglio del quaranta per cento), ma inevitabilmente vanno in crisi anche le finanze dello Stato abituate a ricavare dalle esportazioni di greggio e di gas la quasi totalità dei suoi introiti. In altre parole si creano le premesse per nuove proteste armate e nuove destabilizzazioni, che davanti all’emergenza finanziaria potrebbero sfociare in un crollo totale e definitivo delle istituzioni ancora esistenti (teniamolo presente, questo spauracchio, per quando parleremo di immigrazione).
L’Eni, tra tulle le compagnie internazionali che erano e che in minor numero sono ancora presenti in Libia, pur avendo subìto aggressioni e blocchi operativi, nel complesso è stata l’unica a proseguire nella sua attività. Ma le incognite valgono che per lei, quando non si riesce a varare un meccanismo di salvaguardia per il futuro della Libia. E quando la crisi ucraina, ancora aperta a tutti gli sviluppi, potrebbe comportare già da fine maggio (la data indicata da Mosca per ricevere i pagamenti dovuti dal governo di Kiev) un rallentamento se non un blocco delle forniture energetiche russe. E ancora, possiamo davvero considerare stabile l’Algeria, la nostra più grande fornitrice di gas dopo la Russia, ora che l’infermo Bouteflika è stato rieletto alla presidenza tra molte polemiche? La risposta alle sfide energetico-geopolitiche, beninteso, è nella diversificazione delle fonti. Stiamo già compiendo questa operazione in attesa di vedere se importeremo lo shale gas statunitense, ma i costi aumentano e le difficoltà tecniche pure.
E poi, se la Libia sprofondasse fino in fondo nel suo caos, cosa dovremmo aspettarci di veder arrivare sulle nostre coste o a bordo delle navi dell’operazione Mare Nostrum? Nel 2014 sono arrivati in Italia 25 mila disperati, con un ritmo simile soltanto a quello, giudicato abnorme, del 2011. Il sistema di accoglienza è al collasso malgrado i piani di emergenza. Il 93 per cento di questi immigrati viene dalla Libia. Dovremmo stupircene? No di certo. La Libia è diventata una sorta di corridoio aperto verso il Mediterraneo, e molte migliaia di migranti che fuggono dalle miserie e dalle guerre dell’Africa nera, di eritrei, di etiopici, di somali, persino di siriani che credono questa via preferibile a quella terrestre, tentano di arrivare vivi sulla costa libica sognando l’Italia porta dell’Europa. Quanti sono quelli già in attesa? È verosimile che siano alcune decine di migliaia. Ma se la Libia portasse a compimento il suo suicidio, se lo Stato sparisse del tutto e le condizioni di vita si facessero insopportabili, dovremmo aspettarci cifre molto superiori. E questo mentre l’Europa non modifica le sue regole (a cominciare da quella decisa a Dublino, secondo cui il primo Paese di accoglienza è responsabile in toto verso l’immigrato) e contribuisce poco e male a un fenomeno che dovrebbe riguardare tutta la UE.
In verità ai tempi di Gheddafi l’Italia qualcosa aveva escogitato, sapendo che l’unico modo civile di frenare le ondate migratorie è quello di bloccarle vicino alle coste di partenza. Con Tripoli avevamo concordato, malgrado le bizze del colonnello, un sistema di pattugliamento congiunto delle acque libiche con motovedette fornite dall’Italia che avrebbero avuto a bordo anche personale italiano. L’esperimento ebbe appena il tempo di partire. Prima i pescatori di Mazara del Vallo denunciarono di essere stati mitragliati “dagli italiani” per aver violato le acque libiche. Poi arrivò una sentenza europea che vietava quel metodo di respingimento perché non distingueva tra emigranti economici e richiedenti di asilo. Oggi non sarebbe nemmeno pensabile tornare a formule simili: il nazionalismo di qualche milizia costiera affonderebbe all’istante le motovedette «vendute allo straniero», anche se proprio questo straniero le avesse regalate. Ma le conseguenze di quel fallimento restano, e sono tremende: a fronte dei pochi campi di accoglienza organizzati dallo Stato libico e malamente controllati dall’Onu, ve ne sono tantissimi gestiti dalle milizie, dove si stupra sistematicamente, dove si tortura sistematicamente, dove vengono stabilite le tariffe per essere imbarcati verso l’ignoto, dove nessun controllo può essere effettuato da alcuno. Sarebbero purtroppo questi campi a gestire il crollo generale se si verificasse, non certo quelli «ufficiali». E se volessimo dire la nostra, se immaginassimo qualche proposta, se anche volessimo offrire aiuto, a chi potrebbe rivolgersi l’Italia? A un governo inesistente o privo di poteri effettivi? Oppure dovremmo andare a caccia dei capi di ogni milizia, rischiando di essere attaccati da quella vicina?
Siamo giunti al nocciolo della questione, la mancanza di interlocutori. E anche alla più fondamentale delle domande: la Libia può ancora essere salvata, gli interessi dell’Italia (e di altri, si pensi alle basi nel sud dei qaedisti del Sahel) possono ancora essere tutelati?
Nessuno dispone di risposte certe. Ma faticosamente, e senza poterne prevedere l’esito, un piano si è fatto strada nelle capitali occidentali a cominciare da Roma. Bisogna ricreare un esercito nazionale libico capace di contenere le milizie. L’Italia sta addestrando a Cassino (ma qualcuno lo sa?) i primi quattrocento militari libici che saranno poi sostituiti da altri. L’Onu è in una posizione favorevole perché non possono esserle rivolte accuse di partigianeria nazionale: dovrà nominare un rappresentante di alto livello incaricato di andare a lavorare sul campo in Libia e di coordinare l’azione della comunità internazionale. Si dovrà convincere il governo centrale che alla Cirenaica una vera autonomia va concessa. Si dovrà trovare un metodo per dividere tra le varie regioni, tribù e milizie i proventi dalla vendita di idrocarburi in cambio della riconsegna delle armi. Si dovrà, a quel punto perché prima non si potrebbe, affrontare la questione migratoria.
Ottimismo? Purtroppo mi torna in mente quello del 20 ottobre 2011.

il Fatto 5.5.14
Mai dimenticare Hitler, ma il vostro Mussolini?Le vostre stragi nelle colonie sono state dimenticate
L’Italia è senza memoria
di Udo Gümpel


Seduto sulla scomoda poltrona di Agorà faccio il tedesco. Ecco, il mio nuovo ruolo. Da Udo Gümpel sono passato ad essere “il tedesco”. Quello che difende la Germania, la Merkel, l’Euro. Il pacchetto completo, insomma. Sta mattina il tema è: la Tschermania non ha fatto i conti con il passato nazista. Campeggia sul dibattito mattutino la frase di Silvio Berlusconi, i tedeschi non sanno che cosa siano i Konzentrationslager (KZ). Come Auschwitz. Da giornalista, per tanti anni impegnato nelle inchieste, dalla Banca del Vaticano, ai finanziatori di Berlusconi, a Ustica, ma soprattutto alle stragi SS/Wehrmacht in Italia, ora ho acquisito il mio ruolo ultimo: quello di tedesco. Non è che non sia tedesco. Sono nato ad Amburgo, ho il passaporto tedesco, pur essendo di discendenza danese. Ma non importa, ora sono “il tedesco”.
É davvero buffo. Ho passato anni della mia vita giornalistica a fare le pulci alla Germania. Sulle stragi. Ma scoperti i fascicoli nell’armadio della vergogna, pochi casi sono stati poi risolti dalle procure competenti. Era il 1999 che noi, un collega della ARD di Berlino, Magazin investigativo Kontraste, Rene Althammer, e io, cominciamo a cercarli. Abbiamo passato una vita a mostrare ai tedeschi il volto brutto degli assassini, degli stragisti, e ora mi devo giustificare – “da tedesco” – per un’invenzione.
Mentre sto seduto nella poltrona e sento le frasi di Berlusconi, penso a Gerhard Sommer, sottotenente delle SS, piu alto grado SS delle compagnie di Sant’Anna sopravvissuto. E alla sua faccia incredula, quando Rene Althammer e io lo intervistiamo. Sulla strage, commesso da lui e dai suoi uomini. Oggi verità non solo storica, ma anche giudiziaria. All’epoca, 12 anni fa, era un pensionato che viveva ad Amburgo. In una strada, nella quale aveva vissuto mia madre da ragazza. E con lei faccio il pedinamento dell’assassino. All’epoca correvamo un altissimo rischio: non c’erano inchieste in corso. Era un libero cittadino che noi accusavamo di essere autore di un eccidio incredibile. Ma era tutto vero.
Gerardo Greco apre la trasmissione con me. Ma è vero che la Germania ha rimosso i Lager? Tiro fuori l’iPad e mostro una foto del 1970 scattata a Varsavia quando l’allora Cancelliere socialdemocratico Willy Brandt – in esilio durante il regime di Hitler – si inchinò davanti al monumento per la strage nel Ghetto. Tutti sapevano, nessuno aveva dimenticato. Invece qui in Italia non sanno. Tristissimo. Oggi c’è solo la Culona. Un intero paese senza memoria. Campi di concentramento in Italia? Stragi in Etopia? Il Gas? La morte di centinaia di migliaia di serbi, di africani? Mai avvenuto, rimosso. Grazie al sacrificio di alcuni migliaia di morti partigiani che hanno lavato la coscienza di un popolo di fascisti e balilla, come i tedeschi. Peccato, è mancato il purgatorio. Sarebbe stato salutare. Quando i tedeschi vedono delle maschere della Merkel truccata da Hitler, non si scandalizzano. Sanno del proprio passato. Ma esiste forse un nipote di Hitler in Parlamento? Fiero di essere il nipote del Führer?
Il dibattito politico italiano è gaga. Un esempio? Il Fiscal Compact. Sono certo, nessuno lo ha letto. Parlano di 50 miliardi/anno per 20 anni. Cavolate. Il fronte anti-Euro in questo è unito. Dall’ignoranza. Da Grillo a Le Pen a Bossi fino agli sprazzi anti-Euro di Berlusconi. In realtà l’Italia forse non deve tagliare niente, nel 2016, quando scatta, al massimo 5-7 miliardi. Su una spesa statale di 810. Impossibile? Ridicolo. Poi ci si chiede perché non li prendono sul serio. In Europa. Se ci vanno solo i clown?
Non manca mai l’Euro, cavallo di battaglia numero due. Sul banco degli accusati la Germania. Sempre. Bisognerebbe ricordare che la Germania è paese in surplus d’export dal 1871 quando c’era il Reichsmark. Che l’industria tedesca chiede un cambio forte. Strano, vero? Anziché spiegare le ricette di crescita: la ricerca totale della qualità del prodotto. Ma i propagandisti del nulla vanno in tv e nelle piazze straparlando della svalutazione, senza spiegare chiaro e tondo: se vuoi fare concorrenza al Vietnam, devi pagare anche stipendi vietnamiti. Poi abbiamo i Mini-Jobber. Mai fu creato un posto con i Mini-Jobber, serviva a togliere il lavoro nero, mentre i posti ben pagati furono creati dalle PMI tedeschi, quelli della qualità totale, quasi 5 milioni, ma chi lo sa? Strano mondo, quello dei politici italiani, da Grillo a Berlusconi. Non toccato dai fatti. Meglio vivere di pregiudizi. Il cerchio della stupidità si chiude poi con Auschwitz. Berlusconi accusa i tedeschi di non conoscerlo, mentre lui, evidentemente, da ragazzo, ci è andato diverse volte. Il tema Auschwitz lo aveva inaugurato, ammettiamolo, Grillo con il fotomontaggio del cartello d’ingresso di Auschwitz, “Die Arbeit macht frei”, modificandolo in “P2 macht frei”. L’uno pesca nel torbido dell’anti-tedeschismo puro, l’altro, sfoggiando la cultura dell’avanspettacolo, pensa magari di fare una battuta dissacrando la morte di 6 milioni di ebrei. Comico! Ora capite se ogni tanto perdo le staffe in tv.

il Fatto 5.5.14
Lafontaine, il politico
Abbiamo pensato a noi e poco all’Europa
intervista di Mattia Eccheli


Berlino. Oskar Lafontaine, l'ultimo comunista, è troppo a sinistra. Lo era per l'ex cancelliere Gerhard Schröder e per la socialdemocrazia tedesca che ha poi abbandonato. E lo è anche per la Linke, la sinistra radicale della Germania unita che pure rappresenta. Il 70enne politico predica da tempo contro i dogmi del mercato e la filosofia neoliberale: “Socialismo e socialdemocrazia hanno finito con lo sposare questi principi”.
Quindi il neoliberalismo e non la Germania è la causa della crisi?
“Non confondiamo: la Germania non è la Merkel”.
Significa che...
Angela Merkel ha continuato a perseguire politiche che non fanno l'interesse della maggioranza dei cittadini. Politiche cominciate anche prima di Schröder e che vengono tutt'ora portate avanti.
Le colpe della Germania?
Ha avviato un 'dumping salariale' creando un vantaggio competitivo che le ha consentito di aumentare le esportazioni a svantaggio dei paesi europei. E con la deregolamentazione del sistema bancario ha costretto altri stati ad indebitarsi per salvare i propri istituti”.
Accuse gravi.
Che gli altri potrebbero sostenere se non avessero attuato analoghe politiche neoliberiste.
Sulle quali Merkel ha insistito.
I cerotti che ha messo sulle ferite sono stati tardivi. Ha atteso troppo e ha costretto diversi stati ad accumulare altri debiti.
Cosa hanno fatto i governi tedeschi?
Prima il contenimento degli stipendi poi il progressivo smantellamento dello stato sociale e la riduzione delle pensioni. In altre nazioni sono state portate avanti azioni analoghe.
Serve un'inversione di rotta?
Pericle diceva che è democrazia quella società in cui vengono perseguiti gli interessi di molti. Oggi non è così. La ricchezza del 10% è aumentata mentre è scesa quella di tutti gli altri. La Germania ha sbagliato, ma in Spagna, dove c'è stata la bolla immobiliare innescata dai bassi interessi legati all'introduzione dell'euro, o in Italia, dove non solo Berlusconi ha perseguito politiche neoliberali, sono stati compiuti gli stessi errori.
Dove occorre intervenire?
Il nodo sono i salari e le banche. Abbiamo bisogno di più equità e giustizia e di più casse risparmio. Non di istituti che giocano d'azzardo.
Pochi giorni fa è stato annunciato l'aumento delle pensioni. Interventi sul sistema bancario sono stati ipotizzati in campagna elettorale.
Si tratta dell'aumento ordinario: è ben poco rispetto alla perdita del potere di acquisto degli ultimi anni provocato dall'inflazione. Per quanto riguarda le banche, al momento non vedo segnali che mi facciano cambiare idea. Perché anche negli Stati Uniti, non comanda il presidente Obama, ma Wall Street. In Europa la situazione è analoga: contano di più gli interessi di pochi.
Non si riferisce solo all'economia.
Prenda il Giappone. Abbiamo visto cos'è successo a Fukushima, ma il governo va avanti con il nucleare. In diverse zone di crisi ci sono stati interventi militari, l'ultimo dei quali in Libia, ma la situazione non è mutata eppure si suggeriscono ancora più azioni del genere.
La storia non è più maestra di vita.
O gli studenti non studiano. O non vogliono imparare.
Nell'Europa germanocentrica è un problema.
Il tentativo di Mitterand di togliere potere alla Bundesbank con l'introduzione dell'Euro è fallito. Perché adesso il potere è stato di fatto trasferito al governo tedesco. La maggioranza degli europei non si riconosce più in queste politiche neoliberali. E una parte guarda a destra, perché la socialdemocrazia non ha saputo rispondere alle richieste dei suoi elettori. Pensiamo alla Francia.
E le consultazioni europee?
Ci sarà una bassa partecipazione: quando la gente non si sente rappresentata, non vota. Credo che la destra raccoglierà più consensi, ma ritengo che in alcuni paesi guadagnerà voti anche la sinistra.
I cittadini possono imporre il cambiamento?
Devono far capire che non sono più disposti a sopportare il peso dell'ingiustizia che consente a pochi di arricchirsi a spese di molti.
Ma quando si muove la cancelliera ci sono manifestazioni importanti.
La prima volta che Adenauer visitò la Grecia bastarono tre poliziotti. Per l'ultima visita di Angela Merkel ce ne sono voluti migliaia.
Non è questa la Germania né l'Europa che vuole?
Sono europeista da sempre. Sotto la spinta dei cittadini, la politica deve ritrovare la forza di unire. E non dividere.
I rapporti tra Italia e Germania?
Sono fuori dai giochi e non posso dire quello che succede nei vertici, ma di sicuro con le sue uscite Berlusconi non si è fatto molti amici. Però, per quello che vedo, nessuno ha smesso di andare in Toscana o di apprezzare il vostro paese ed il vostro stile di vita per colpa sua.

l’Unità 5.5.14
Idee. L’immaginazione al potere
Solo rispondendo alla dignità delle persone la politica potrà ritrovare la sua dignità
di Salvatore Veca


GLI ESERCIZI DI IMMAGINAZIONE POLITICA MIRANO A ESTENDERE L’OMBRA DEL FUTURO SUL PRESENTE. Dovrebbero essere coerenti con la virtù della lungimiranza. Dovrebbero prendere sul serio diritti e aspettative e qualità di vita di donne e uomini su un orizzonte temporale esteso. Nel tempo e nello spazio. Perché, allo stesso modo, dovrebbero adottare gli «occhi d’umanità» o le massime del pensiero largo, come usava dire Kant, il filosofo dell’Illuminismo e di Per la pace perpetua. Noi abbiamo un disperato bisogno di idee nuove, di prospettive inedite e audaci che forzino i vincoli della falsa necessità e ci orientino nell’esplorazione dello spazio delle possibilità.
Molti sono convinti che, per incentivare l’innovazione e mettere in moto l’immaginazione, siano un must inevitabile l’azzeramento e l’elisione del senso del passato. Il disegno di modi inediti di convivenza richiede l’azzeramento del retaggio. Al macero, i vocabolari di politica e moralità ereditati. Credo che questa sia una credenza profondamente sbagliata. Come nel celebre quadro di Paul Klee, Angelus Novus, su cui ha scritto pagine luminose Walter Benjamin nelle sue tesi sulla filosofia della storia, dobbiamo essere consapevoli del fatto che noi procediamo verso il futuro, nella bufera, con il volto che guarda all’indietro, rivolto al passato. Proprio come l’angelo di Klee che ha le ali impigliate nella bufera, che tuttavia lo sospinge in avanti. (L’immagine ci suggerisce di preservare lealtà all’idea di progresso, inteso come progresso da, come scostamento dai mali sociali, e non come progresso a, sulla base di una misteriosa teoria delle leggi di movimento della storia.)
L’immaginazione politica e sociale si avvale dell’ascolto delle voci d’umanità alle nostre spalle. Si avvale della memoria degli esperimenti sociali e istituzionali degni di lode. Delle catastrofi e del massacro, delle rovine e delle vittime, che sono disseminate e si ergono o giacciono nei detriti e nelle impronte, lasciate e affidate al retaggio. Il senso del passato, il senso dei conflitti e delle conquiste, dei profitti e delle perdite in termini di civiltà e di umanità, di umiliazione e degradazione di vite umane, il senso del passato e della costruzione, dell’insorgenza e del collasso, dell’ascesa e caduta di istituzioni e pratiche sociali: questo senso del passato è, almeno in parte - una parte molto significativa - ciò di cui si alimentano il senso delle possibilità e gli esercizi di immaginazione politica. Pensate all’Europa nella prima metà e nella seconda metà del secolo scorso.
L’immaginazione deve prendere sul serio l’attrito con la tradizione, con la storia, con i fatti e le idee che si annodano e s’intrecciano alle nostre spalle. Ma, attenzione, la tradizione, qualsiasi tradizione, non è un blocco monolitico. È un campo di tensioni, di contraddizioni. Un guazzabuglio di pratiche e di ragioni, di lotte e di resistenze, di esiti degni di lode e di biasimo. Pensate di nuovo all’Europa, dalle nostre parti. Pensate all’Europa che inventa la tolleranza, l’Illuminismo e i diritti o all’Europa che inventa e pratica guerra e massacro. Ed elabora, nella sua storia tortuosa e contingente, i criteri per il giudizio sulla propria responsabilità anfibia e ambivalente: responsabilità per la fioritura dei beni umani e responsabilità per il male assoluto e per le pratiche del disumano. Ma pensate ad altre storie, ad altre tradizioni, in un mondo sempre più piccolo e interdipendente, sullo sfondo ambivalente e bifronte dei processi di globalizzazione. Disponetevi all’ascolto di altre voci d’umanità. Come ci ha suggerito a più riprese Amartya Sen, pensate alla tolleranza religiosa del Mogul Akbhar o al discorso di Benares dell’illuminato, nel Parco delle tre gazzelle. Pensate alla satyagraha del Mahatma Gandhi o alle prime immagini della democrazia nel villaggio in Sud Africa di cui ci racconta Nelson Mandela. Pensate alle massime della saggezza e dell’etica del maestro Kong Fu, di Confucio: siate leali a voi stessi e perciò attenti agli altri. O riflettete sul potenziale semantico delle religioni mondiali, come ci ha suggerito Juergen Habermas. Pensate al dio di Spinoza di cui parlava Albert Einstein, e ai molti modi di evocare un’idea vaga e preziosa di eguaglianza umana. Pensate ai frammenti dell’interminabile discorso di cittadinanza, per la cittadinanza, a proposito di cittadinanza, di chi non ha voce e prende con altri la parola. Per un elementare riconoscimento di pari dignità. Pensate alla tortuosa storia dei conflitti democratici per l’inclusione e per i diritti, alla vicenda dei movimenti operai, dalle nostre parti europee.
Facendo perno sul senso del passato, l’immaginazione politica è indotta ad avvalersi di una molteplicità di voci e di domande e di aspettative che affollano oggi, just in time, le piazze e le strade della gran città, fisica, simbolica e informatica, del genere umano. Sono i sintomi, i signa prognostica di una domanda radicale di equità e di eguale considerazione e rispetto per chiunque, sintomi e segni da decifrare, da interpretare, da prendere sul serio. Perché è in questa Babele di voci, è in questa Sarabanda d’umanità che, grazie al senso del passato, possiamo riconoscere la forza della domanda di semplice emancipazione umana. Che è domanda di liberazione da variegate e mutevoli catene. Catene per il corpo, e catene per la mente. Come dire: habeas corpus e habeas mentem.
Ora, è possibile -mi chiedo e vi chiedo - che la politica non abbia nulla da imparare da tutto ciò, né abbia nulla da dire e da fare, nulla da proporre e progettare, nessun disegno collettivo da tratteggiare e sostenere e promuovere, per rispondere alla Babele e alla Sarabanda d’umanità?
Non è possibile, questa è la mia risposta. E a questo si connette il mio invito agli esercizi di immaginazione. Solo rispondendo alla dignità delle persone, la politica potrà ritrovare nella società una dignità, la sua, messa a repentaglio, esposta al discredito quando non dissipata e perduta. Nella trappola di una crisi che scippa il futuro, sullo sfondo di poteri opachi e senza frontiere che frantumano e recidono i mille fili delle memorie e, perciò, dei progetti dello sviluppo umano come eguale libertà.

La Stampa 5.5.14
Povera e nuda vai filosofia: all’inferno
Dagli antichi sofisti ai giorni nostri, una disciplina che più di altre è votata all’impostura. Ma chi oggi potrebbe salvarla preferisce ignorare il problema
di Franca D’Agostini


In The Wolf of Wall Street, il «maestro» di Leonardo DiCaprio, impersonato da Matthew McConaughey, spiega la scienza dei broker dicendo che «la materia non c’è», e dunque questa è l’occasione migliore per farci i soldi, ingannando e turlupinando mezzo mondo. Lo stesso potrebbe valere per la filosofia, e per ogni altra materia che «non c’è», o c’è in modo fragile e incerto. Ma per la filosofia la circostanza è più grave. È più grave la (presunta) inesistenza, ed è più grave la simulazione di esistenza.
La circostanza bizzarra è che tutti sembrano d’accordo con l’idea che la filosofia è scienza fragile e volatile, se non inesistente come scienza - l’ha ricordato di recente Federico Vercellone su queste pagine, discutendo Il mestiere di pensare di Diego Marconi (Einaudi) - ma pochi si preoccupano del problema segnalato da McConaughey (e a cui Vercellone accenna nella chiusa del suo articolo): se si presume che una materia sia inesistente o quasi, e tuttavia si pretende di praticarla come se esistesse, quel che ne segue è (o almeno rischia di essere) formidabile impostura.
Che la filosofia più di altre scienze sia votata all’impostura è circostanza ben nota: la segnalava Aristofane nelle Nuvole, e se ne sono occupati problematicamente, nel tempo, tutti i «filosofi» degni di questo nome. Ma l’aspetto interessante della situazione attuale è che il problema oggi potrebbe essere risolto. E quel che dovrebbe fare chi oggi si occupa di «meta-filosofia» è anzitutto spiegare il nostro vantaggio rispetto ad altre epoche per togliere l’impostura dalla filosofia. Un «metafilosofo» che non faccia questo sta partecipando all’impostura, anzi le sta rendendo un servizio.
Qual è il vantaggio di cui godiamo? E perché la (presunta) inesistenza della filosofia, rispetto alle altre materie che «non ci sono» è, come ho detto, più grave? A me sembra che le risposte siano semplici, quasi ovvie. Anzitutto la filosofia è diventata, che lo voglia o no, una scienza, e ciò vuol dire – idealmente – che si possono controllare i suoi risultati, scartando l’impostura più facilmente di quanto avvenisse all’epoca di Aristofane. Con tutti i suoi limiti, l’assetto scientifico delle conoscenze potrebbe essere l’unica garanzia di cui disponiamo per togliere l’impostura, in filosofia e altrove.
Certo c’è la difficoltà dell’iper-produzione. La crescita di complessità fa sì che la falsificazione scientifica sia oggi più difficile da controllare. Il vacillante sistema della «valutazione scientifica della ricerca» non scongiura i pericoli della «falsa scienza», i quali non riguardano soltanto gli pseudo-scienziati, quelli che inventano improbabili cure per il cancro, ma anche i frequentatori professionali del sistema McConaughey, nei vari settori.
Ma proprio a partire da ciò si vede perché la mancanza di onestà intellettuale e il pullulare dei turlupinatori siano in filosofia più gravi che altrove. Aristotele, che ha gettato i fondamenti della cultura scientifica occidentale, sottolineava che il sistema delle scienze può sopravvivere solo se possiede una «scienza prima», ovvero quella parte del sapere che dovrebbe chiarire i fondamenti comuni, per aiutare l’autoregolamentazione e l’autochiarimento della scienza. Una simile scienza, diceva Aristotele (Metafisica, IV, 2), sarebbe l’unica risorsa per evitare i falsificatori sofisti, che «vendono una sapienza che non possiedono» (e sanno benissimo di non possedere).
È dunque la scienza prima, la «filosofia» (in un significato plausibile del termine), che potrebbe-dovrebbe salvare sé stessa, e il sistema delle scienze specializzate, dal rischio della ridondanza e dello sparpagliamento settoriale, in cui le falsità sleali prolificano e trionfano. Ma non abbiamo una simile scienza, oggi non sappiamo neppure più darle un nome. E se anche i filosofi, invece di costruire insieme la scienza prima, giocano la carta della materia inesistente che finge di esserci, siamo daccapo.
Fanno bene allora Achille Varzi e Claudio Calosi, in Le tribolazioni del filosofare (Laterza) a mettere i filosofi all’inferno. Il libro è un poema in terzine di endecasillabi, modellato sull’Inferno dantesco, con ampio apparato di note che presentano le tesi metafisiche degli autori. Nell’insieme, è un vero e proprio trattato obliquo di metafisica, che si dipana attraverso i gironi dei «pusillanimi» (i filosofi che non prendono posizione), degli «sprovveduti fedeli ai sensi», dei «realisti», dei «nichilisti», degli «esistenzialisti», e così via.
Qui e là i due autori (che fingono di essere curatori dell’opera, misterioso autografo anonimo a loro pervenuto) non risparmiano stoccate gentili (anonime) ad autori contemporanei. Ma anche loro evitano di affrontare il problema McConaughey: i frodatori della filosofia, che approfittano della sua fragilità di inesistente scienza prima, non hanno collocazione infernale.
Io credo che allo stato moltissimi, quasi tutti i filosofi, dovrebbero finire all’inferno: quelli che praticano la simulazione, e quelli che li lasciano agire indisturbati. I due autori annunciano che vi sarà una cantica minore, il Paradiso. Non so però che cosa potranno dire al riguardo. Fino a quando il problema non viene affrontato e risolto, la mia opinione è: nessun filosofo in paradiso.

Repubblica 5.5.14
La retorica dei carnefici, il segreto delle uccisioni, la forza della memoria “Perché l’oblio collettivo è la morte”
Intervista all’argentina Elsa Osorio
“La letteratura ha il potere di ridare vita ai desaparecidos”
di Wlodek Goldkorn


Quando parla della sorte dei bambini, «della generazione di mio figlio che è nato nel 1976» e quando confessa che ogni giorno pensa a cosa sarebbe successo se quel suo figlio fosse stato rubato e dato in adozione a una famiglia di carnefici, la voce di Elsa Osorio si incrina. Osorio è una signora di 62 anni. È argentina, fa la scrittrice. Da giovane era affascinata dalla “letteratura fantastica”, quella di Borges e Cortázar. Poi, la storia dei bambini rubati, dei figli dei desaparecidos, fatti crescere dagli assassini dei loro genitori le ha fatto cambiare genere. Ha scritto I vent’anni di Luz, un romanzo che in America Latina è considerato un classico, un po’ come da noi Se questo è un uomo di Primo Levi. Lei per fortuna non ha vissuto sulla propria pelle gli orrori dei centri di tortura.
Ma si porta addosso la stessa ossessione di molti ebrei quando si tratta della Shoah: svegliarsi ogni mattina col pensiero dell’inimmaginabile, e cercare di immaginarselo lo stesso. E provarne paura. Elsa Osorio, questa paura la supera con la scrittura. In I vent’anni di Luz ( Guanda) racconta la vicenda, inventata, di una bambina cresciuta in una famiglia di militari e che cerca la verità e l’amore. E per questo scopre in che modo è stata uccisa sua madre e rintraccia il vero padre. In un altro libro, bellissimo e sempre sul filo della memoria, La miliziana ricostruisce la vita di Mika Etchebehere, rivoluzionaria argentina che negli anni Trenta arriva in Europa. In Spagna, durante la guerra civile, è l’unica donna a comandare un battaglione di repubblicani. Sta per essere fucilata dagli stalinisti, e, ormai anziana a Parigi nel maggio ’68, è sulle barricate coi giovani. Per Osorio, che vive a Madrid, la narrazione è dolore, ma anche una ricerca della verità per poter costruire il futuro.
Cominciamo dalla letteratura fantastica.
Una fuga dalla realtà, o invece un tentativo di dare l’ordine al caos? Leggendo Borges, La biblioteca di Babele, si propende per la seconda soluzione. Forse perché l’Argentina è un Paese complicato...
«Il segreto di ogni buona letteratura sta nella tensione tra il vero e il verosimile. Ma è l’invenzione a fare sì che la letteratura diventi un esercizio di libertà. Per questo continuo ad amare la letteratura fantastica. E per quanto riguarda la complessità argentina? Pensiamo di essere europei, ma siamo latinoamericani. E prenda l’esempio di un grande scrittore, Gombrowicz. Ha vissuto a Buenos Aires. Scriveva in polacco, ma fa parte della storia della letteratura argentina».
L’Argentina è un Paese che oscilla tra memoria e oblio. È possibile la memoria senza l’oblio?
«Per poter vivere occorre dimenticare. Però, abbiamo bisogno della memoria perché mai si ripetano le cose del passato».
E lo scrittore che ruolo ha?
«Deve raccontare i suoi personaggi. Senza metterci l’ideologia. Ne I vent’anni di Luz, faccio parlare anche i boia e spiego che qualcuno di essi era perfino capace di amare. Ma è evidente che il lettore, alla fine, sa come la penso».
Tzvetan Todorov disse una volta che noi siamo ciò che dimentichiamo.
«Poiché io ho vissuto le conseguenze dell’oblio, sono a favore della memoria. L’oblio collettivo è la morte. Ma attenzione, io non faccio letteratura della memoria. Scrivo storie che invento».
Quanta invenzione c’è nella memoria?
«Senza invenzione non esiste la memoria. Prenda la storia di Mika Etchebehere. Volevo raccontare la sua vicenda. Ho dovuto far lavorare la mia immaginazione; mi sono inventata le sue crisi di gelosia, i sentimenti. La letteratura ha un potere enorme. È in grado di cambiare le persone».
Tra i poteri della letteratura, c’è anche quello di restituire i corpi dei desaparecidos?
«In I vent’anni di Luz ci sono tante voci. Ma ne manca una; quella della madre di Luz, Liliana, ammazzata subito dopo aver dato alla luce la bambina. Liliana è raccontata solo dagli altri. E sa perché? Per il pudore. La morte significa silenzio. E poi c’è una seconda ragione: se dovessi dare la voce a Liliana, avrei dovuto esprimere l’odio. Non lo volevo fare».
Sta dicendo che la letteratura dà forza alla memoria. E del resto, Primo Levi è stato un testimone prezioso, proprio perché era un grande scrittore...
«Il miracolo della letteratura sta nella capacità di dare nome a quelle persone che non sono tra di noi, però non sono ufficialmente morte. Queste persone hanno bisogno di essere contornate dalle nostre storie. La letteratura dà un nome a ciò che altrimenti sarebbe solo assenza».
Luz è un personaggio inventato, eppure sembra vera. Henry James, ha scritto che Balzac si era inventato tutto, ma che la sua invenzione era più vera della realtà sociale della Francia.
«C’è gente, perfino le nonne di plaza de Mayo, convinta che Luz sia esistita davvero. Ecco, la letteratura pur essendo una menzogna può toccare la verità in una maniera più forte della testimonianza diretta».
La vicenda dei desaparecidos è il fenomeno più vicino alla Shoah...
«L’organizzazione burocratica della morte, il segreto delle uccisioni, la sparizione dei corpi. E la retorica dei carnefici: parlavano di una guerra non convenzionale per salvare la civiltà».
Come si racconta dunque l’inenarrabile?
Come si fa a tradurre il dolore in letteratura?
«Ci ho messo 20 anni per poterne scrivere. Volevo raccontare la paura, ma mentre scrivevo avevo ancora paura, una paura che sentivo fin alle ossa, che mi chiudeva lo stomaco».
Come si fa a superarla la paura?
«Agendo. L’importante è uscire dalla situazione della vittima. Il mio modo di agire
è usare la parola. La parola cambia il mondo».
I vent’anni di Luz , è una grande storia d’amore. Cosa è l’amore?
«È la forza che permette di agire. Ma è anche una strada verso la conoscenza. I miei personaggi arrivano a capire certe cose perché sono amati e amano».
E la vergogna cosa è?
«Posso citare il caso di una ragazza che ha testimoniato in un processo contro il suo carnefice. Uscita dall’aula confessò a un amico: “ah, mi sono scordata di dire che lui mi ha violentata”».
È capace di perdonare?
«Voglio giustizia, non perdono. La verità non può essere oggetto di un negoziato».
E di papa Bergoglio che ne pensa?
«Faceva parte della gerarchia cattolica argentina. E la gerarchia era complice della dittatura. Vedo però che i preti impegnati nella lotta lo appoggiano. E vedo che riceve i teologi della liberazione, che ne parlano bene. Quindi ho speranza. Comunque sarebbe cosa ottima se aprisse gli archivi».
Esiste un male radicale? Un piacere di fare del male senza nessun altro scopo?
«Sì. Esiste pure un Male che si fa sempre più sofisticato, solo per il piacere del boia».

il Fatto 5.5.14
L’Italia che abbandona le sue città
di Tomaso Montanari


IL TERREMOTO INFINITO. Ieri in tanti siamo stati a Mirandola, nel cuore dell'Emilia, che è nel cuore dell'Italia.
Ci siamo stati perché due anni fa un terremoto ha distrutto case, industrie, chiese e palazzi antichi. Per fortuna questa volta le case e le industrie sono state ricostruite quasi tutte. Ma le chiese e i palazzi antichi, invece, sono ancora tutti rotti. Alcuni non hanno il tetto: alcuni (come la chiesa del Gesù, a Mirandola, che vedete nella fotografia) sono ancora pieni di macerie. Proprio come il terremoto li ha lasciati: in un silenzio terribile.
Non è la prima volta che un terremoto distrugge una città italiana. È successo tante volte: a Messina, in Sicilia, nel Friuli, in Irpinia Poi ci sono state le alluvioni: come a Firenze, tanti anni fa. Prima ancora c'era stata la guerra: e se vedessimo oggi le nostre città come uscirono dalla guerra, non le riconosceremmo.
Perché dopo la guerra, dopo le alluvioni, dopo ognuno di questi terremoti, gli italiani si sono rimboccati le maniche e hanno ricostruito i loro monumenti com'erano e dov'erano. E dopo la guerra abbiamo capito che era così importante ricostruire, che l'abbiamo scritto anche nella Costituzione: la Repubblica (cioè tutti noi) tutela (cioè conserva nel tempo) il paesaggio (cioè l'ambiente in cui viviamo) e il patrimonio storico e artistico (cioè tutte le cose belle che abbiamo costruito in quell'ambiente) della nazione (cioè di tutti noi). Abbiamo scritto queste cose perché in quel momento terribile abbiamo capito che per ricostruire una comunità è importante anche ricostruire i luoghi che danno forma a quella comunità. L'abbiamo scritto per non dimenticarcene.
E poi è successo, di dimenticarcene? Sì, è successo cinque anni fa, quando il terremoto è venuto all'Aquila. Allora, per la prima volta nella storia dell'Italia, abbiamo pensato che si potesse andare via, cambiare il luogo in cui vivere, e lasciare la città a morire da sola. Poi abbiamo capito che è un errore terribile, e ora stiamo provando a rimediare.
Anche in Emilia potremmo correre il rischio di dimenticarcene. Potremmo dire: in fondo quelle chiese, quei palazzi non sono importanti come quelli di Firenze, Venezia o Roma. I turisti non ci vanno. Se facessimo così, faremmo un terribile errore.
Quei monumenti sono altrettanto importanti: perché sono l'insostituibile riserva di futuro delle persone che sono cresciute tra di essi. Sono la loro arma segreta, per vincere la guerra col terremoto.
Ecco, ieri siamo andati a dire, che no: non permetteremo che il terremoto vinca.

Repubblica 5.5.14
La pazzia domina le acque della Laguna
di Mario Pirani



LA PAZZIA domina le acque della Laguna. Solo la fantasia diabolica di un gruppo onnipotente di despoti del paesaggio poteva immaginare nuove devastazioni, che sancissero la trasformazione di uno dei luoghi più splendidi del mondo in una Disneyland, a disposizione di masnade di fanciulli pazzi, senza età e senza criterio, liberi di baloccarsi con la città, considerata finora il capolavoro assoluto dell’estetica, raggiunta dall’uomo in venti
secoli di storia e di arte.
Forse non è noto in questo Paese, dove “sgoverna” distratta la noncuranza, che il dominio della Serenissima venne attuato da severe leggi emanate da Dogi e Magistrati alle Acque, sì che il fluire e il rifluire regolare di queste ultime fosse retto dall’intelligenza della natura, combinata con il raziocinio dell’uomo, dando vita ad un sistema governato da norme ferree, scolpite nella pietra. Ripeto, nella pietra e non sull’acqua in quanto questa era soggetto e non oggetto della legge. Sì che mai nessuna mente, per quanto perversa, avrebbe potuto immaginare che la navigazione venisse dominata da giganteschi scatoloni di metallo e plastica, mossi da potenti e rumorosi motori, animatori di questa, fino ad oggi ignota, forma di gigantismo navale.
Le chiamano navi ma non riescono nemmeno a riprodurre le forme e il buon gusto dei piroscafi di un tempo. Somigliano a giganteschi super-mercati, inseriti in villaggi con piscine e negozi, saloni da ballo i cui abitanti fruiscono per alcuni giorni di un finto universo ludico a disposizione. La crescita è la legge di natura di queste anomale e mostruose costruzioni. L’altra caratteristica sta nel cercare non il mare aperto ma tutti quegli spazi che danno vita, per natura, alle bellezze paesaggistiche (golfi, canali, borghi e città marittime), così da mettere i passeggeri nelle condizioni di sfiorare, quasi con mano, sponde e rocce, in cieca attesa di ogni possibile disastro, così come è avvenuto al Giglio.
Chi gode di questo nuovo padronaggio dei mari sono gli armatori che, dal Mediterraneo all’Estremo oriente, hanno issato le bandiere di una intangibile pirateria e dominano la vita, i passaggi, i porti di ogni riva. La politica è cosa loro. Non c’è più misura di contenimento. Gli attuali mega-piroscafi hanno dimensioni che superano i 300 metri di lunghezza, i 40 di larghezza, i 60 di altezza, le 130 mila tonnellate e un pescaggio di 9,50 metri. Queste navi necessitano di canali di navigazione la cui larghezza si aggira sui 200 metri. Il loro transito genera da prua a poppa onde che si infrangono sui bassi fondali contermini, sollevando e spostando sedimenti, che vengono interrati dalle correnti che questi giganti formano. Di qui la necessità di interventi sistematici di drenaggio.
Le proteste per bloccare e proibire il gigantismo navale da diporto non hanno trovato risposta e tutto è rimasto soggetto a continuo peggioramento. Occorrerebbero misure d’imperio, drastiche. Imbrigliare questo tipo di navigazione in zone rigorose di transito, da porto a porto. Salvaguardare in assoluto le città d’arte a cominciare da Venezia. Proibire ogni scempio passato, presente e futuro. Viviamo invece in una plaga senza governo. Il 30 aprile, il “Comitatone per Venezia”, (presieduto dal Sindaco della Serenissima e composto da rappresentanti di altri comuni, ministeri ed enti pubblici) è stato convocato a Roma. Renzi aveva promesso la sua presenza che, però, all’ultimo è mancata. Sono venuti, in suo luogo, Delrio, Lupi e qualche altro. Ai convenuti sono stati assegnati tre minuti a testa per dire la loro. Sono stati scelleratamente proposti nuovi canali per continuare a permettere questo vandalico passaggio. Qualcuno riporterà l’ordine nella follia in atto? Il governo Renzi coprirà le manchevolezze dei governi precedenti?

Repubblica 5.5.14
Nostra signora televisione
di Ilvo Diamanti


NOSTRA Signora Televisione. Guardata con sospetto e con distacco. Un old medium. In altri termini: vecchio.
SE NON superato, in declino. Vuoi mettere internet? I social media? Twitter e Facebook? Vuoi mettere Beppe Grillo e il suo blog? Capace, con la regia di Casaleggio, di sbancare, alle elezioni del 2013? E di continuare la corsa anche in seguito? Fino a lasciar pensare a una replica, almeno, alle Europee del prossimo 25 maggio? La televisione. Una signora. Ma irrimediabilmente vecchia. Soprattutto i canali generalisti di Rai e Mediaset, con La7 a traino. Il duopolio imperfetto degli ultimi trent’anni. A reti unificate. Eppure… Tutti scalpitano, impazienti, per irrompere nei programmi tivù di RaiSet - e della 7. Tutti i leader politici che contano. E, a maggior ragione, quelli che contano di meno. Perché per contare occorre ricorrere a Nostra Signora Televisione.
Per questo motivo Berlusconi, nell’ultima settimana, ha fatto irruzione in tutte le reti. E in molti programmi di informazione di prima serata. Dal Tg4 a Studio Aperto, al Tg2. E ancora: da “Porta a Porta” a “Piazza Pulita”, da “Virus” a “In ½ ora”… Una presenza tanto costante e intensa da sollevare l’attenzione dell’Agcom (come ha documentato, ieri, un ampio servizio su Repubblica ). D’altronde, la ripresa (per quanto relativa) di Berlusconi, alle elezioni di un anno fa, era trainata dalla partecipazione a uno spazio ostile: “Servizio Pubblico”. Il talk guidato da Santoro insieme a Travaglio. Icone, più che portabandiera, dell’anti-berlusconismo. L’irruzione di Berlusconi, il Nemico Pubblico, aveva fatto salire gli ascolti fino a livelli mai raggiunti -né prima né dopo. Dal programma e dalla rete. Ma aveva anche permesso al Cavaliere di contrastare la sconfitta annunciata. Di esibire la propria determinazione a “resistere, resistere, resistere”… Per echeggiare una frase famosa, usata dal magistrato Francesco Saverio Borrelli, nel gennaio 2002, con un fine opposto. Cioè, contro Berlusconi. All’epoca, Presidente del Consiglio.
In questi giorni, però, anche Beppe Grillo ha ripreso a frequentare la tivù. Ieri sera ha concesso una lunga intervista a SkyTg24. Ma, soprattutto, sembra stia negoziando la partecipazione al programma che, più di ogni altro, simboleggia il legame fra informazione televisiva e sistema politico. “Porta a porta”. Il talk presentato -e diretto -da Bruno Vespa. Trent’anni dopo, visto il precedente del 1983. In occasione, non a caso, della serata dedicata da Rai Uno alle elezioni (politiche, in quell’occasione). Grillo, che tratta televisioni, giornali e giornalisti come “nemici”. Come i partiti. In quanto “mediatori” della comunicazione e della democrazia. Che egli concepisce in forma “diretta” e “im-mediata”. Oltre ogni rappresentanza. Grillo che, sul proprio blog, esibisce alla pubblica riprovazione i giornalisti infedeli -al loro compito. E, dunque, a suo avviso, pre-venuti: contro il M5s. Proprio lui, Beppe Grillo: da Vespa. Dopo aver polemizzato contro lo spazio riservato a Renzi e agli uomini del Pd e del governo. Nelle reti televisive nazionali. Mentre altri soggetti politici, meno accreditati, dal punto di vista elettorale, protestano contro la propria marginalità (esclusione?) mediatica. In particolare, la sinistra dell’Altra Europa.
Dunque: la televisione, nonostante tutto. Impossibile farne a meno, se si ha l’ambizione di “vincere”, o almeno di “esistere”, alle elezioni. Perché le scelte degli elettori si definiscono proprio lì. E perché, soprattutto lì, si risolve l’incertezza. Maturano le decisioni degli indecisi. Che sono ancora molti. Oltre un terzo, secondo i sondaggi. D’altronde, alle Europee la partecipazione elettorale è, strutturalmente, più bassa. Nel 2009, in Italia, votò il 66% degli aventi diritto. Peraltro, livello fra i più alti in Europa. Ma è facile immaginare che, in questa occasione, l’affluenza alle urne scenda ulteriormente. Così diventa essenziale andare in tivù. D’altra parte, se facciamo riferimento alle elezioni politiche del 2013, quando l’attenzione appariva molto maggiore di oggi, possiamo osservare come quasi un quarto degli elettori abbia deciso se e per chi votare nel corso dell’ultima settimana (come mostrano le indagini di La Polis, presentate nel volume Un salto nel voto , pubblicato da Laterza). La maggioranza, il 13% dei votanti, nei giorni delle elezioni. Il 90% degli elettori, peraltro, afferma di aver seguito la campagna elettorale (guarda caso…) proprio in televisione. Meno della metà, il 40%, attraverso internet. Secondo Ipsos, circa il 55% utilizza la tivù per informarsi sulle elezioni anche in questa fase. Il che significa la maggioranza di tutti gli elettori e di tutti gli elettorati. Compreso il M5s. Il soggetto politico, peraltro, che, alle elezioni del 2013, ha allargato maggiormente la propria base elettorale proprio nell’ultima settimana. Nel corso della quale ha conquistato circa il 30% dei suoi elettori.
Per questo la televisione resta il vero “campo” della campagna elettorale. Il più conteso e il più combattuto. Perché il più influente. D’altronde, secondo l’Osservatorio di Demos-Coop del dicembre 2013, l’80% degli italiani si informa ogni giorno attraverso la tivù. Circa il 47% su internet. Il “mezzo” di informazione che ha registrato il maggior grado di crescita, negli ultimi anni. Dal 2007, infatti, è quasi raddoppiato. Tuttavia, resta ancora un medium molto delimitato, dal punto di vista degli utenti. Ne restano, infatti, largamente escluse le persone più anziane e meno istruite. Cioè, le più incerte. Le più difficili da contattare e, quindi da convincere. Anche perché, nel corso degli anni, hanno perduto fiducia nella politica, nei politici e nelle istituzioni. (E uno spettacolo osceno, come quello messo in scena prima della finale di Coppa Italia, a Roma, in diretta tivù, non può che aver moltiplicato questo sentimento.) Ebbene, per raggiungere e spingere gli elettori indecisi a votare -magari contro, per rabbia e delusione -ci vorrebbero contatti diretti. Personali. Con amici, conoscenti, familiari. Per sfidare la sfiducia ci vorrebbero persone di cui ci si fida. Ci vorrebbe la politica sul territorio. Come un tempo. Quando i partiti erano dentro la società, confusi nella vita quotidiana. Quando la campagna elettorale veniva condotta porta a porta . Mentre ora, per parlare con gli indecisi e gli incazzati, non resta che andare in tivù. A “Porta a porta”.

Corriere 5.5.14
Ritrovare Epicuro per amico
di Armando Torno


Nelle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio si leggono notizie sulle opere di Epicuro: «Scrisse moltissimo e tutti superò per numero di libri: sono infatti circa trecento rotoli di papiro. Non vi sono in essi citazioni tratte da altri...». Tanto di lui è andato perduto, anche se ci sono pervenuti documenti che consentono di conoscere la sua concezione della fisica (Lettera a Erodoto ) o dell’etica (Lettera a Meneceo ). Nella collana «Pensatori» di Carocci è uscita di Francesco Verde una monografia su Epicuro (pp. 280, e 22): lavoro degno della massima considerazione, aggiornato, ben condotto e, in ultima analisi, utile (si vedano capitoli quali Forma di scrittura delle opere filosofiche di Epicuro o la parte finale riguardante la sua scuola). L’influenza di questo pensatore sull’Occidente è stata enorme: riscoperto dal Rinascimento umanistico e ben presente negli illuministi, eccolo nelle pagine di filosofi o poeti quali Leopardi, Marx, Nietzsche; o di letterati come Cioran. Una sua sentenza preziosa: «Ogni amicizia è desiderabile di per sé anche se ha avuto il suo inizio dall’utilità».

Corriere 5.5.14
«Io sono lei», sogno impossibile degli scrittori maschi
di Paolo Giordano


Vorrei parlare di un aspetto finora poco indagato: si tratta della domanda se è capace un uomo, uno scrittore, anche se della grandezza di Tolstoj, di rappresentare la vita interiore di una donna con piena autenticità. Le protagoniste del teatro, della narrativa, delle opere liriche, delle poesie, dei quadri, dei film, sono innumerevoli. I lavori in cui appaiono sono, per la maggior parte, anche se non esclusivamente, creazioni di scrittori, pittori, musicisti, registi di sesso maschile. Ci sono scrittori notevolmente profondi, come lo svedese August Strindberg per esempio, che non sono mai venuti a capo di questa questione. Altri, della stessa epoca, come Ibsen, con molto coraggio hanno affrontato i pregiudizi del pubblico, difendendo la donna: la sua Nora di Casa di bambole abbandona marito e figli perché ha subito un gravissimo torto, frutto di una sordida incomprensione. Ma direi che dall’antica Grecia fino ai giorni nostri le figure femminili spesso sono tragiche, vittime a volte eroiche di costumi sociali arretrati e ingiusti.
Pensate a Elettra, ad Antigone, alle martiri cristiane delle sacre rappresentazioni medievali, alla Giulietta di Shakespeare e a tante altre figure femminili che con un po’ di retorica chiamiamo immortali. I più grandi psicologi si sono scervellati per risolvere il problema: se esista la possibilità di una vera empatia, cioè di una identificazione tra sentimenti femminili e maschili. Anche i neuroscienziati lavorano con dedizione alla soluzione di questo enigma. Perché, tornando a Tolstoj e alla sua Anna Karenina , ci sono tante cose da dire a proposito del rapporto uomo-donna in letteratura.
Intanto questo: che la moglie del grande scrittore, pur essendosi spesso sacrificata per aiutare il marito (ha ricopiato a mano le nove versioni di Guerra e pace , circa settecento pagine) non era in buoni rapporti con lui, il quale alla fine della sua vita l’ha infatti abbandonata, fuggendo in treno e prendendosi la polmonite che l’ha ucciso. C’è anche da dire che parte del pubblico femminile si è profondamente identificata con Anna Karenina. (Karenin è il nome del marito, non di lei!). È molto probabile che questa eroina letteraria sia una fortissima proiezione di un modo maschile di pensare la donna. Un modo peraltro assolutamente onesto e pieno di sforzi di comprensione.
Ma non bisogna nemmeno dimenticare che il grande quasi contemporaneo di Tolstoj, (ha vissuto un po’ prima di lui) Gustave Flaubert, essendo accusato di immoralità per il romanzo Madame Bovary (altro caso di tradimento coniugale), davanti al tribunale ha dichiarato «Madame Bovary c’est moi » , cioè «sono io Madame Bovary». E questa dichiarazione, a parer mio, non è da prendere come battuta di spirito, ma come rivelazione di una verità che getta nuova luce su tutta la letteratura mondiale.
Cinquant’anni più tardi James Joyce ha cercato una nuova strada. Notoriamente il suo libro più noto e idolatrato, Ulisse , termina con il monologo interiore di Molly, moglie del protagonista Leopold Bloom. Molly sarebbe la versione moderna di Penelope, e Bloom il borghese centroeuropeo (ebreo ungherese) sarebbe l’equivalente di Ulisse. Come poteva Joyce rappresentare l’interiorità femminile? È noto che il suo modello era la sua compagna di vita, Nora Barnacle, conosciuta a Dublino e poi portata a Trieste, dove hanno vissuto quattordici anni, e dopo in giro per l’Europa. È stata lei che «l’ha fatto diventare uomo», secondo la dichiarazione di lui stesso. Attraverso le lettere di Joyce da Dublino, molto poco da salotto di benpensanti, si capisce che rapporto di complicato erotismo li ha legati per tutta la vita. Ebbene, Joyce pare che abbia ricopiato, in parte, il monologo di Molly-Penelope dalle lunghe conversazioni fatte con Nora. È da notare che le lettere di risposta di lei a quelle di James, eroticamente infuocate, sono state distrutte. Negli anni Settanta del Novecento quel monologo è stato recitato innumerevoli volte in teatro, anche nell’ambito del movimento femminista di quell’epoca. A dire il vero qualcuno ha avanzato perfino l’ipotesi che molti brani di quella cinquantina di pagine finali siano stati scritti proprio da Nora Barnacle. Ma ipotesi simili nascono e si moltiplicano spesso nell’ambito del pettegolezzo letterario.
Virginia Woolf dà un’altra soluzione: nel suo romanzo Orland o, il protagonista spesso si trasforma da uomo in donna e viceversa: alla fine di questa bellissima opera il lettore o la lettrice non saprà com’è veramente Orlando. Perché è tutti e due: qualche volta uomo e qualche volta donna. Mai fino in fondo. Però, a parte tutto e soprattutto, è un essere umano.

Corriere 5.5.14
Un Buddenbrook per sempre
La saga della famiglia che ha rivelato Thomas Mann
Lo stile di una borghesia senza tempo e autobiografica
di Dario Fertilio


I Buddenbrook come I miserabili , Il nome della rosa e Il signore degli anelli in confezione unica: un libro da top ten delle vendite, uno dei dieci massimi successi editoriali d’ogni tempo.
E dire che il signor Fischer, di professione editore, il 15 agosto 1900 in cui confermò a Thomas Mann di aver ricevuto il suo manoscritto per posta, restò a lungo a macerarsi nel dubbio. Troppo fluviale quel romanzo sulla borghesia anseatica di Lubecca: a suo tempo lui aveva gentilmente messo l’autore sull’avviso! Certo, dopo avergli pubblicato la prima raccolta di novelle, Il piccolo signor Friedemann , gli avrebbe anche fatto l’onore di stampargli un intero romanzo… «purché non fosse tanto lungo». E invece, eccolo sul suo tavolo: un blocco di carta da distribuire in due volumi, un intreccio così abbondante di personaggi da richiedere uno specchio illustrativo per orientare il lettore; e, quel che è peggio, visibilmente ispirato a dame e cavalieri realmente vissuti a Lubecca (il che prometteva una bufera di rimostranze, minacce e forse anche azioni legali). Esitò per un anno, l’editore, sinché nell’agosto del 1901 decise di rischiare: ma sì, diamo alla luce quest’opera irriverente, firmata da un letterato appena ventiseienne! Il libro esce, ottiene buone recensioni, ma successo scarso. Allora Fischer decide di farne un’edizione economica in volume unico: va esaurita rapidamente, la miccia provoca l’incendio, ed eccoci, tanti anni dopo, a celebrarne la vastità dei numeri e della durata.
Le ragioni del fenomeno devono esserci, naturalmente: prima fra tutte la qualità letteraria del romanzo, la perfezione e l’equilibrio delle sue parti, la singolare capacità dell’autore di trasfondervi lo spirito del tempo (Paola Capriolo lo mette in rilievo con la consueta, cristallina capacità d’analisi nella prefazione al libro in edicola da oggi con il «Corriere»).
Si tratta, in primo luogo, di un intreccio irripetibile fra il pessimismo filosofico di Schopenhauer, il travolgente «erotismo della morte», espresso in musica da Wagner, e la «psicologia della decadenza» ispirata da Nietzsche. Esposta così, la faccenda può anche intimidire il lettore digiuno di Thomas Mann, per cui è giusto rassicurarlo: qui la magia della narrazione consiste nel rendere i grandi temi intellettuali del tempo, a cavallo fra Ottocento e Novecento, perfettamente spontanei e naturali, oltre che motivazioni credibili e comprensibili nelle menti dei personaggi che animano la famiglia Buddenbrook. Della quale occorre aggiungere il ruolo per così dire dinastico all’interno dell’aristocrazia commerciale di Lubecca; officiante dei sacri riti nella città orgogliosamente libera prima dell’unificazione tedesca sotto il segno della Prussia; ma anche già turbata economicamente dall’affacciarsi sulla scena di una nuova classe industriale, parvenue e vitale, aggressiva e incurante dell’antico stile mercantile che aveva reso prospera la città.
Parallelamente al declino della vecchia Lubecca, si sgretolano nel corso della narrazione le certezze dei Buddenbrook: seguiti scena dopo scena da Thomas Mann verso il loro progressivo dissolvimento. Quattro sono le generazioni raccontate, da quella vitale e assertiva del capostipite all’ultima, ormai estenuata e artistoide, impersonata dal piccolo Hanno, destinato a tracciare una linea definitiva sotto il suo nome nell’album genealogico di famiglia. Intorno a loro — i maschi del clan — si aggirano figure significative femminili, ma anche ospiti che già lasciano profilarsi, alla soglia di casa Buddenbrook, l’ombra di un’epoca in cui superficiali, mascalzoni e avventurieri avrebbero corroso, e infine avuto la meglio, sugli antichi valori.
Da dove arrivano i personaggi centrali del romanzo? Naturalmente dalla realtà: anzi, si può dire che il ritmo quaternario sul quale è impostata l’opera stia a indicare, insieme con le generazioni presenti nella finzione, anche quelle reali della famiglia Mann che le hanno ispirate. E così possiamo immaginare il giovane Thomas al lavoro per raccogliere l’imponente mole del materiale di costruzione preliminare alla sua opera: quel che non poteva aver visto né ricordare, a causa della giovane età, glielo offrivano il fratello Heinrich, la madre e la sorella Julia. E anche possiamo immaginare il turbinio di pettegolezzi che in seguito accompagnò, negli ambienti di Lubecca, la diffusione del volume: tanto che i librai distribuivano sottobanco, insieme alle copie ufficiali, una specie di vademecum in cui si indicavano i personaggi reali che a ciascuno dei personaggi aveva fatto da modello.
Giunti fin qui, potremmo anche pensare, come tanti critici, che I Buddenbrook siano da leggere alla stregua di un romanzo sociale, naturalistico, destinato ad evolversi capitolo dopo capitolo in dramma intimo, in cui contano cioè soprattutto i sentimenti e la psicologia dei protagonisti. Dentro a questo giudizio c’è naturalmente del vero; come anche centrale è il tema della decadenza borghese di fronte all’irrompere delle nuove classi e in prospettiva delle democrazie di massa. Thomas Mann, ne I Buddenbrook , risolve orgogliosamente il suo personale dilemma ricorrendo a Freud: in ognuno esiste una pulsione all’autodistruzione, alla resa, alla morte, però anche la possibilità del suo contrario, un’orgogliosa affermazione vitale di quel che si è, della propria discendenza e della propria storia. Da qui gli sarà possibile puntellare le sue rovine, riscoprendo orgogliosamente una identità di «artista borghese».
E tuttavia un sospetto ci coglie col procedere delle pagine: questo non è, se non nelle intenzioni, un giovanile romanzo a tesi, in cui si vuol dimostrare come Schopenhauer, Nietzsche, Wagner, e magari anche Marx, a modo loro avessero ragione. La forza di queste descrizioni, oltre che nella pietas verso un mondo dignitoso, amato e colto nel suo tramonto, risiede piuttosto nell’ipotiposi, nella capacità di evocare con straordinario nitore le forme, i suoni, colori, i gusti, gli odori. Quel timbro risuona nella meticolosa descrizione della ricetta per la carpa da cuocere nel vino rosso, nel bagliore del bacile internamente in argento con cui si celebrano i battesimi in casa Buddenbrook, nell’affettuosa ironia con cui vengono ricordate le mediocri poesie d’occasione pronunciate durante i banchetti, nel suono della carambola in sala biliardo ornata da animali impagliati, nel grosso nodo alle cravatte, nelle ingenue formule latine pronunciate dai medici di famiglia in visita ai malati, nel tenue profumo di violette e biancheria pulita che riempie la stanza delle ragazze. In quello che ancor oggi si chiama «stile Buddenbrook».
Perciò l’ordito sotto l’arazzo è ben più complesso di quel che sembra; da là, la calamita dei Buddenbrook continua ad esercitare su di noi la sua irresistibile attrazione.

Corriere 5.5.14
Il declino amaro degli imprenditori di Lubecca
di I.Bo.


Dopo le uscite dedicate a Milan Kundera, José Saramago e Claudio Magris, oggi in edicola il quarto volume dell’iniziativa editoriale del «Corriere della Sera» dedicata ai «Romanzi d’Europa»: si tratta de I Buddenbrook , tra le opere più note di Thomas Mann, qui presentato con la prefazione inedita di Paola Capriolo (in vendita a € 9,90 più il costo del quotidiano), vicenda di declino economico e sociale ambientata nella Lubecca dell’Ottocento (il romanzo uscì nel 1901), che illustra con un grande affresco storico e psicologico la vita della borghesia industriale e commerciale tedesca. Storia di un’ascesa, vista però con l’occhio di una vecchiaia quanto mai riflessiva e profonda, è invece il romanzo Memorie di Adriano della scrittrice francese Marguerite Yourcenar, che sarà in edicola dal 12 maggio, quinto volume della collana con prefazione inedita di Mario Andrea Rigoni: nel capolavoro — tra l’altro, è uno dei libri divenuti di culto dell’autrice — si legge il racconto in prima persona dell’imperatore Adriano, ormai anziano e malato, che ragiona sul senso della vita e del tempo, sull’amaro e sul dolce dell’esistere. Questo e gli altri libri della collana — si continuerà con Levi, Andric, Camus e molti altri fino all'11 agosto — costituiscono parte di quella radice comune europea cui l’iniziativa è dedicata: il «luogo» culturale e umano da cui proveniamo, raccontato da autori di ogni parte del continente, tra i migliori testimoni di uno scorcio di storia.

Corriere 5.5.14
Storia della massoneria italiana dopo l’avvento del fascismo
risponde Sergio Romano


Può aiutarmi a comprendere meglio il rapporto fra Massoneria e Fascismo in Italia durante il Ventennio?
Marco Sostegni

Caro Sostegni,
Nel 1925 il governo Mussolini fece approvare dal Parlamento una legge che limitava fortemente la libertà d’associazione ed esponeva qualsiasi sodalizio al rischio d’essere bruscamente disciolto con un intervento prefettizio. La legge era illiberale e apparteneva all’arsenale delle disposizioni con cui il capo del governo, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, stava creando il regime. Ma servì anzitutto a sopprimere la massoneria di cui Mussolini era nemico sin dai suoi anni socialisti. Vi fu persino una caccia al massone, organizzata da squadre fasciste, che il capo del governo interruppe «benevolmente» soltanto quando aveva già prodotto il suo effetto.
Quando la legge venne in discussione alla Camera, il 19 maggio 1925, il solo discorso contrario al provvedimento fu quello di Antonio Gramsci. Il leader comunista era convinto che la massoneria fosse «l’ideologia e l’organizzazione reale della classe borghese capitalistica». Ma riconobbe i suoi meriti storici e accusò il governo di colpirla per meglio colpire con la stessa legge l’associazionismo operaio e contadino. Fu un discorso intelligente e coraggioso, ma conviene ricordare che i sentimenti di Mussolini erano allora condivisi da una parte importante del Paese. Molti accusavano le logge di essere società di mutuo soccorso per soddisfare le ambizioni di coloro che ne facevano parte; altri rappresentavano l’intera organizzazione come uno Stato nello Stato, con i propri fini e le proprie strategie, anche nella politica internazionale. Nel corso del loro primo congresso, i nazionalisti proclamarono l’incompatibilità dell’affiliazione massonica per chi faceva parte del loro movimento. Il Partito socialista italiano era dichiaratamente anti-massonico. I migliori intellettuali italiani, cattolici e laici, erano ormai sulle stesse posizioni. Per Gaetano Salvemini i massoni erano «una collezione di cretini che si è buttata a volere la Dalmazia senza sapere quel che facesse». Per Palmiro Togliatti la massoneria era il «partito unico della borghesia italiana». Benedetto Croce e Giovanni Gentile attribuivano alla massoneria le consorterie che regnavano nel mondo accademico e nel sistema educativo nazionale.
Soppresse ufficialmente nel 1925, le logge condussero sino alla fine del fascismo una esistenza clandestina. Nella sua Storia della Massoneria Italiana dall’Unità alla Repubblica (Bompiani 1976), Aldo Alessandro Mola ha pubblicato alcuni rapporti di polizia dai quali risulta che i massoni italiani all’estero, soprattutto in Francia, avevano frequenti contatti con i loro «fratelli» italiani. Nel libro di Mola, caro Sostegni, troverà anche notizie su quella parte del fascismo che aveva invece simpatie e legami massonici. Più tardi, dopo l’avvento della Repubblica, vi saranno anche massoni democristiani. In Italia, fra il bianco e nero, vi è sempre una larga zona di grigio.