mercoledì 7 maggio 2014

Corriere 7.5.14
Abusi, la replica del Vaticano: in 10 anni spretati oltre 800 sacerdoti
di M. Antonietta Calabrò


GINEVRA — La pedofilia e gli abusi sessuali del clero hanno continuato a tenere banco, per ben tre ore, ieri davanti al Comitato Onu contro la tortura. Il clima era più disteso, ma resta il fatto che non si è parlato d’altro (a parte una esauriente risposta fornita dalla delegazione vaticana in relazione alle condizioni della breve detenzione — rispettosa degli standard internazionali — dell’ex maggiordomo di Benedetto XVI, Paolo Gabriele). Per il resto, il nunzio presso le Nazioni Unite a Ginevra, l’arcivescovo Silvano Tomasi, pur avendo ribadito che la Convenzione sulla tortura si applica solo al territorio della Città del Vaticano, ha per la prima volta rese pubbliche le statistiche complete su come la Santa Sede ha giudicato i casi di pedofilia del clero in tutto il mondo e significativamente non ha contestato il punto di vista del Comitato Onu secondo cui la violenza sessuale contro i bambini deve essere considerata «tortura». Anche perché su questo punto la vicepresidente Felice Gaer ha elencato decine di decisioni sia del Comitato sia di altri organismi internazionali che fanno giurisprudenza in questo senso. Le statistiche, dunque. Per la prima volta complete (non erano state fornite a gennaio neppure al Comitato Onu per la protezione dei bambini). E divise anno per anno, per gli ultimi dieci anni. Tomasi ha detto che a partire dal 2004 sono stati riferiti al Vaticano più di 3,400 casi credibili di abusi, e ben 401 casi nel solo 2013, l’anno di elezione di papa Francesco (e per questo Gaer ha chiesto due volte di capire a cosa è stato dovuto questo incremento). Inoltre, Tomasi ha detto che sempre nell’ arco dell’ultimo decennio, 848 preti sono stati spretati, cioè ridotti allo stato laicale dal Papa. Altri 2.572 sono stati condannati a una vita di penitenza e preghiera, o ad altre sanzioni più lievi (spesso perché ormai in età avanzata o malati): in questi casi i preti però vivono «in luoghi in cui non possono avere nessun contatto con bambini». Le conclusioni del Comitato sull’esame del rapporto della Santa Sede sono attese il 23 maggio. Si tratta del primo rapporto sulla Santa Sede da parte del Comitato Onu (costituito da dieci esperti indipendenti che valutano l’adeguatezza della legislazione rispetto alla Convenzione contro la tortura ) e sarà inviato all’Assemblea generale. Un commento pubblicato dal Wall Street Journal ieri ha sostenuto che se il Vaticano venisse sanzionato a causa degli abusi sessuali sui minori dal Comitato per la tortura questo rappresenterebbe «un’interpretazione giuridicamente insostenibile e perversa del trattato» .

il Fatto 7.5.14
La pedofilia e il Vaticano
884 preti sospesi in 10 anni
Sotto inchiesta da parte dell’Onu, la santa sede dà i numeri del “repulisti”
di S. Ci.


Sotto la pressione dell’Onu il Vaticano aggiorna i dati del suo repulisti interno contro la piaga della pedofilia. Tra il 2004 e il 2013, un totale di 884 membri del clero sono stati ridotti allo stato laicale nell’ambito dello scandalo della pedofilia. Lo ha detto a Ginevra il nunzio apostolico presso la sede delle Nazioni Unite a Ginevra, Silvano Tomasi, nel corso della seconda e conclusiva giornata di esame del rapporto della Santa Sede davanti ai 10 esperti del Comitato Onu contro la tortura.
Tra il 2004 e il 2013 è stato registrato un totale di 3.420 casi giunti alla Congregazione per la Dottrina della fede, fondati su accuse credibili di abusi sessuali commessi da membri del clero contro minorenni, ha affermato monsignor Tomasi, rispondendo alle domande formulate ieri dal Comitato. La maggioranza dei casi - ha precisato - si riferisce agli anni 50, 60, 70 e 80.
NELLO STESSO PERIODO, il numero di membri del clero dismessi direttamente dalla Santa Sede è stato di 884. Altre misure disciplinari sono state prese nei confronti di 2.572. Poco prima, monsignor Tomasi, aveva ribadito che la “Santa Sede non ha la competenza o i mezzi per avviare procedure per crimini fuori dalla Città del Vaticano”. Tuttavia “compie ogni sforzo per condurre procedure ecclesiastiche nei confronti di membri del clero contro i quali sono state mosse accuse credibili di abusi sessuali contro minori, ma senza pregiudizio per le procedure giudiziarie nel Paese di residenza”. “I membri del clero” sono soggetti alla legge “del paese dove risiedono”.
Le conclusioni del Comitato sull'esame del rapporto della Santa Sede sono attese il 23 maggio.
SI TRATTA DEL PRIMO rapporto della Santa Sede davanti al Comitato Onu contro la tortura. A febbraio una delegazione pontificia si era presentata davanti alla Commissione sui diritti del fanciullo e aveva fornito cifre inferiori sui casi di allontanamento di membri del clero.
Il Comitato esamina i rapporti di tutti i 155 Paesi aderenti alla Convenzione del 1984 contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti. La Santa Sede ha aderito al Trattato nel 2002.
Intanto, comunque, un commento del Wall Street Journal afferma che se il Comitato Onu preposto al rispetto della Convenzione contro la Tortura “dovesse accogliere la richiesta” di alcune associazioni e gruppi e “concludere che il Vaticano ha violato la Convenzione” per i casi di abusi sui minori, “questo rappresenterebbe un’interpretazione giuridicamente insostenibile e perversa del trattato” che potrebbe indebolire la sua efficacia e soprattutto “rappresenterebbe un attacco palese alla libertà religiosa”.
Nell’analisi firmata da David
B. Rivkin Jr. e Lee A. Casey - ex funzionari del Dipartimento di Giustizia a Washington durante le presidenze Reagan e George W. Bush - si ricorda che nel passato la Chiesa non si è mossa in maniera adeguata nella lotta alla pedofilia ma “più recentemente la Chiesa ha invece ammesso i propri errori e ha messo in campo riforme fondamentali per risolvere il problema”. Per gli editorialisti del quotidiano finanziario statunitense Wsj nessuno ha dubbi nel condannare la pedofilia “ma inserire la questione nella Convenzione contro la tortura è legalmente scorretto”.

l’Unità 7.5.14
Riconosciuto un miracolo
Paolo VI sarà beatificato il 19 ottobre

ROMA Paolo VI sarà beato. I cardinali e i vescovi del dicastero per le Cause dei Santi ieri hanno riconosciuto il miracolo compiuto su sua intercessione nel 2001 negli Stati Uniti: aver fatto guarire, dopo le preghiere della madre rivolte a lui su suggerimento di una suora, un bambino non ancora nato ma che al quinto mese di gravidanza si trovava in condizioni critiche.
Talmente critiche che la sua guarigione è stata reputata inspiegabile. L’approvazione dei religiosi era l’ultimo tassello per avviare la beatificazione, prevista per il prossimo 19 ottobre in concomitanza con la cerimonia di chiusura del Sinodo, un organo istituito proprio da papa Giovanni Battista Montini.

La Stampa 7.5.14
Riconosciuto il miracolo
Paolo VI sarà proclamato beato da papa Francesco
I porporati e i vescovi della Congregazione delle cause dei santi
danno il via libera sulla guarigione di un bimbo non ancora nato
di Andrea Tornielli

qui

LA SCHEDA

Corriere 7.5.14
La biblioteca di Papa Francesco
Ethel, le inquietudini e l’anima
La Mannin: femminista e bisessuale, ferita e sempre ribelle
di Enrico Terrinoni


Una scrittrice innamorata dei grandi e in cerca di una fede Nella Ballata del carcere di Reading , Oscar Wilde scrisse: «chi vive più di una vita, più di una morte deve morire».
Per l’irlandese, il primo castigo terreno per un’esistenza vissuta a pieno è la dannazione di una morte plurima. Ma se molte vite equivalgono a tante morti, la loro narrazione dovrà riempire altrettante biografie, o autobiografie; ed Ethel Mannin ne scrisse addirittura sette, per dirci la sua storia e raccontarci il suo percorso. È da queste che dobbiamo ripartire per ricostruirne la figura complessa, e soprattutto dal bellissimo Confessioni e impressioni del 1930, un libro scioccante per l’epoca, per via di allusioni per nulla velate alla sua bisessualità, e descrizioni di flirt extraconiugali.
Di origini irlandesi e genitori socialisti, la Mannin nasce nel 1900 nella periferia di Londra. A sei anni va in una scuola privata locale, gestita da un’anziana e dalle sue due figlie «indubbiamente zitelle». Sono anni che lasciano il segno su di lei: «era una scuola incredibile. Si rifiutava ai bambini il permesso di “uscire dalla stanza”, finché le loro piccole vesciche duramente provate, non si liberavano da sé, lasciando i poveri piccoli a subirne la vergogna». Da episodi del genere la Mannin acquista quella consapevolezza del dolore altrui che più tardi la porterà ad abbracciare le cause dei deboli. Ma era già tutto scritto nel suo primo amore di bambina: «non avevo amici a scuola, ma mi innamorai di un ragazzo di circa due anni più grande di me: se l’era fatta sotto mentre stava sullo “sgabello degli asini” […] Sentii terribilmente la sua sofferenza, e lo amai da quel giorno in poi. Volevo dirgli di non piangere, che non era colpa sua, che io lo capivo».
Gli anni dell’adolescenza, fortunatamente, non sono così traumatici. A quindici anni vince una borsa di studio per una scuola commerciale. Lì avrà un’infatuazione per la sua professoressa: «La amavo, dio mio, quanto la amavo! Un giorno mi baciò alla fine di uno dei quei nostri bellissimi sabato pomeriggio, e tornai a casa in uno stato di trance estatica».
Svilupperà presto il gene del radicalismo, militando in formazioni socialiste come l’Independent Labour Party. Dopo un viaggio in Unione Sovietica a metà degli anni Trenta, maturerà una certa disillusione per il socialismo reale, e abbraccerà l’anarchismo. Durante la guerra di Spagna, si schiererà con forza a favore degli anarcosindacalisti, unendosi, insieme ad Emma Goldman, alla SIA (Solidaridad Internacional Antifascista). Quest’esperienza è narrata in Red Rose, del 1941, dedicato all’anarchica e femminista russa.
Il femminismo sarà una delle cause care alla Mannin, come dimostra Women and Revolution del 1938, che include i ritratti di due grandi donne irlandesi: la suffragetta Hanna-Sheehy Skeffington, e la rivoluzionaria femminista Maud Gonne-McBride, entrambe coinvolte nella battaglia per l’indipendenza irlandese. La seconda, moglie di un rivoluzionario giustiziato dagli inglesi durante la Rivolta di Pasqua del 1916, la lega indirettamente ad un altro complesso uomo della sua vita, il poeta e premio Nobel irlandese W.B. Yeats. Di lui sarà perdutamente innamorata, per un paio d’anni. Altro grande amore, benché fugace, fu il filosofo Bertrand Russell.
Non è un caso che questi due uomini avessero entrambi un rapporto dialettico nei confronti della religiosità. Se il primo fu vicino a forme di spiritualità alternativa, finendo per appartenere a più d’una associazione occultista, il secondo aveva dato voce al proprio radicale agnosticismo in una famosa conferenza del 1927 tenuta a Londra, dal titolo «Perché non sono cristiano». Al pari di loro, Ethel Mannin critica ogni tipo di ortodossia: «La tirannia della chiesa e della scuola, con i loro vangeli del terrore, la stampa con la sua produzione di massa di idee e ideali, tutte queste cose insieme formano un triumvirato oscuro e implacabile che non permette alla povera umanità frastornata di scorgere l’unica vera divinità, la cui luce è in loro stessi, nella loro forza vitale».
Il pensiero critico della Mannin si profonde anche in una sterminata produzione romanzesca.
Una delle opere più fortunate è il romanzo Tardi ti ho amato , del 1948, anno in cui, dopo la nascita dello stato di Israele, abbraccerà in molti articoli la causa palestinese. Per quanto opera di finzione, è ispirato alla vita del gesuita irlandese John Sullivan. I personaggi sono una coppia di ricchi fratelli inglesi, Francis e Cathryn Sable, trasferitisi a Parigi, lui per sperimentare la mondanità, e lei per dedicarsi alla pittura. Durante una vacanza nelle Alpi, incontrano gli Almanhauser, Lotte e Johan, due austriaci convintamente cattolici, che vivono all’insegna della semplicità e della fede. Prima della fine della vacanza, e grazie all’aiuto delle Confessioni agostiniane, Johann convince Cathryn sia a convertirsi che a sposarlo. Ma la donna vuole ancora vivere un’ultima avventura: scalare le Alpi col fratello. Durante la scalata, mette un piede in fallo e muore. Il fratello tenterà di annegare il senso di colpa prima nel brandy, e poi nella fede, entrando infine nella Compagnia di Gesù. Una storia semplice, scritta con garbo.
Gli ultimi anni di vita, la Mannin li trascorre in giro per il mondo, componendo resoconti di viaggio, e riavvicinandosi alle proprie radici e all’amato Connemara.
Divenuta Buddista, perde il fuoco della sua passione per l’attivismo, pur continuando a sostenere un ampio rango di cause. Si espresse, ad esempio, più volte a favore della riunificazione dell’Irlanda.
L’ultima sua opera è l’ennesimo libro di memorie, Sunset over Dartmoor , del 1977, in cui descrive, assieme al tramonto dei propri anni, le atmosfere ovattate del Devon. Qui trovò la morte, di polmonite, nel 1984, dopo un ricovero per un’incidente domestico.
Pur avendo vissuto molte vite, quindi, di morte ne ebbe una sola, e le capitò sulla foce del fiume Teign, lontano dal Connemara, ma in una zona dell’Inghilterra molto simile al dolce alternarsi di colline e corsi d’acqua tipici dell’ovest d’Irlanda.

l’Unità 7.5.14
Domande e risposte su Gesù e omosessuali
di Delia Vaccarello


UN LIBRO CHE SEMBRA UNA LUNGA LETTERAA PAPA FRANCESCO SULLA QUESTIONE OMOSESSUALE DOPO LA FAMOSA FRASE «CHI SONO IO PER GIUDICARE UN GAY?». La domanda da cui si parte: che cos’è la violenza per Gesù? «Violenza, per Gesù, è imputare ai diversi, ai reietti e agli oppressi di essere costituzionalmente negativi, ponendo nel cuore della loro autoconsapevolezza la colpa e il disprezzo per essere quello che sono, pur non avendo arrecato male a nessuno».
Se la violenza è indurre i «diversi» a punirsi con le proprie mani assimilando i dettami di una dottrina secondo la quale la condizione omosessuale è una tendenza di «disordine oggettivo», diventa palese la contraddizione tra l’annuncio di salvezza di Gesù e la condanna dell’amore gay e lesbico da parte della dottrina ufficiale cattolica. È’ questa la tesi alla base del libro di Paolo Rigliano dal 12 maggio in libreria Gesù e le persone omosessuali (ed. La meridiana) che apre alla speranza.
Con la lettera-libro Rigliano (Amori senza scandalo, Feltrinelli; Curare i gay? Cortina) riunisce interviste condotte nell’arco di quattro anni a personalità di spicco tra le quali compaiono Alberto Maggi, Vito Mancuso, Franco Barbero, Elizabeth Green. Il quesito rivolto a tutti è «come seguire Gesù?». E viene formulato a partire da questo principio: «Per Simone Weil violenza è imporre agli altri – gli oppressi – di sognare e realizzare il sogno del dominatore, egocentrico ed esclusivo. Il messaggio di Gesù nega alla radice questa violenza, ogni violenza: impegna a creare le condizioni interiori ed esteriori perché fiorisca il desiderio e il sogno di ognuno – dei diversi e dei reietti per primi». La domanda allora diventa una bacchetta da rabdomante che cerca una soluzione capace di promuovere una «relazionalità nuova» riconosciuta dalla dottrina: «ho chiesto ai miei interlocutori come seguire Gesù e, dunque, ho dialogato con loro sul perché e come realizzare un accoglimento integrale della vita e dell’amore delle persone lesbiche e gay: come fondarlo e annunciarlo, come anticiparlo e suscitarlo». Dalle risposte di Elizabeth Green emerge che Gesù non parla di omosessualità perché non gli interessa, perché il Vangelo «ci libera dalla necessità di creare categorie come “omosessuali”, “donne”, “immigrati”, dalle quali mi devo separare e che devo escludere per riuscire a essere me stesso o me stessa ».. Per Green la «grandezza di Gesù sta nel fatto che egli si fa prossimo a tutti e tutte, va verso tutti e tutte», laddove l’opposizione eterosessualità/ omosessualità irrigidisce, moltiplica le esclusioni, ingessa la sessualità.
Alberto Maggi, ancora, invita a cercare nuove risposte: «la grande forza che ha dato Gesù al Vangelo è quando dice: “lo Spirito vi accompagnerà nelle cose future”. Cioè la comunità ha la capacità, grazie allo Spirito Santo, di dare nuove risposte ai nuovi bisogni. Non si possono dare risposte vecchie ai nuovi bisogni, quindi non si può cercare nella Scrittura risposte a quella problematica ». Maggi si mostra fiducioso sulle capacità della Chiesa di trovare strade per evitare l’esclusione proprio perché le chiusure sulla sessualità sono e sono state molto forti fino ad essere paradossali e la riflessione è in corso: «Ora il peccato di divorzio è peggiore di quello di omicidio – dice il prete marchigiano - , perché se tu ammazzi tua moglie e poi ti penti, tu ritorni di nuovo nella comunione della Chiesa, ma se tu divorzi per te non c’è più perdono. Possibile che sia più grave divorziare da un coniuge che ammazzarlo? E quindi ci sono commissioni allo studio, anche per il divorzio e per la condizione omosessuale ».
A proposito di «legge naturale» in base alla quale l’omosessualità viene definita «contro natura» Vito Mancuso ne fornisce una lettura alta in linea con i Vangeli: «La legge che innerva la natura è la legge della relazione. Tutto ciò che favorisce la relazione è conforme alla legge naturale, tutto ciò che impedisce la relazione è contrario alla legge naturale». E il Vangelo è «relazione che cerca di nutrire a tal punto gli altri facendosi nutrimento, relazione che si svuota per sfamare gli altri». Allora, sostiene Mancuso, il Vangelo dice «che questi affetti che sviluppi a livello fisico devono essere tali da essere vissuti all’insegna della relazione totale armoniosa ». Con una prosa discorsiva il libro, attraverso i dialoghi, mostra quanto sia presente all’interno della Chiesa il libero pensiero. Offre ai credenti omosessuali un nuovo modo leggere la propria esperienza mettendo al primo posto non la legge che esclude ma la relazione e l’amore di Dio. Si inscrive nel solco dell’interrogativo tracciato da Papa Francesco.

Repubblica 7.5.14
Il dovere dell’onore
di Stefano Rodotà


NON possiamo distogliere lo sguardo dai mali profondi dell’Italia, quelli che continuano a corrodere la società. Abbiamo appena assistito all’accettazione strutturale della corruzione, visto che condannati e inquisiti non sono stati non dico almeno biasimati, ma dotati di un paracadute politico con candidature alle elezioni europee e locali. Vi è una morale da trarre da questa vicenda? Ve ne sono almeno tre. La prima riguarda il significato assunto dalle leggi in queste materie; la seconda evoca l’onore perduto della politica; la terza richiama l’impossibile ricostruzione di un’etica civile.
In tutti questi anni sono stati citati infiniti casi di politici in vista, spesso con grandi responsabilità pubbliche, che si sono prontamente dimessi per comportamenti ritenuti riprovevoli, senza che vi fosse alcuna legge che lo prevedesse. Fuori d’Italia, però. Ultima tra le tante, la notizia delle dimissioni del premier sudcoreano in relazione a un drammatico naufragio, dunque a qualcosa di estraneo alle sue dirette responsabilità, ma di fronte al quale la politica non poteva rimanere silenziosa. Dalle nostre parti, perduta da gran tempo la speranza di sane reazioni dettate dalla responsabilità politica e dalla moralità pubblica, si è stati obbligati, tra mille resistenze, a scrivere qualche norma per combattere almeno i casi più scandalosi. Ma questa scelta ha prodotto un effetto paradossale. Invece di considerare le nuove leggi come il segno di un cambiamento del giudizio collettivo sui doveri di chi esercita responsabilità pubbliche, si è cercato in ogni modo di limitarne l’applicazione; e, soprattutto, si è concluso che ormai solo i comportamenti lì previsti possano legittimare reazioni di biasimo. Vengono così derubricate, e collocate nell’area della irrilevanza, le “disattenzioni” nell’esercizio delle proprie funzioni, le ambigue reti di relazioni personali, le convenienze dirette e indirette procurate dal ruolo ricoperto, le dichiarazioni violente e razziste, e via dicendo.
È tornata così, in forme nuove, la consolidata e interessata confusione tra responsabilità penale e responsabilità politica. Quest’ultima è stata praticamente azzerata. Ogni invito a correttezza e senso di responsabilità, ogni richiesta di dimissioni occasionata da azioni socialmente censurabili e sicuramente fonte di discredito per la politica, vengono respinti con protervia: “non è questione penalmente rilevante”. Una formula frutto di miserabile astuzia, che irresistibilmente richiama l’amara ironia di Ennio Flaiano, all’indomani di uno degli scandali del passato, riguardante i terreni sui quali venne poi costruito l’aeroporto di Fiumicino: «scaltritosi nel furto legale e burocratico, a tutto riuscirete fuorché ad offenderlo. Lo chiamate ladro, finge di non sentirvi. Gridate che è un ladro, vi prega di mostrargli le prove. E quando gliele mostrate: “Ah” dice “ma non sono in triplice copia!”».
In tempi di dilaganti spinte verso revisioni costituzionali, si deve malinconicamente concludere che una riforma è già stata realizzata con la pratica cancellazione dell’articolo 54 della Costituzione. Nella prima parte di questo articolo si dice qualcosa che può sembrare scontato: “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Costituzione e di osservarne la Costituzione e le leggi”. Ma leggiamo le parole successive. “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”. Il bel linguaggio della Costituzione non dovrebbe lasciare dubbi. Chi svolge funzioni pubbliche, dunque i politici in primo luogo, non possono trincerarsi dietro l’affermazione di aver rispettato la legge penale, dunque
di non aver commesso alcun reato. A tutti loro è imposto un “dovere” costituzionale ulteriore, indicato con parole forti, non equivoche - disciplina e onore. Nel momento in cui questo dovere non viene rispettato, i politici perdono l’onore, e con essi perde l’onore la politica. Di questo nessuno si preoccupa più, anzi ogni oligarchia, corporazione, grumo d’interesse fa quadrato intorno ai suoi “disonorati”, alza la voce e così certifica la concreta cancellazione di quella norma della Costituzione. Se così fan tutti, perché meravigliarsi se in una riunione sindacale della polizia si applaudono i condannati e se rimangono senza eco i richiami all’onore provenenti dalla moglie del commissario Raciti assassinato da un ultra calcistico? Ma il riferimento all’onore sembra che abbia diritto di cittadinanza solo in questo ambito. L’Italia, infatti, continua a essere percorsa da condannati illustrissimi continuamente applauditi, che stipulano patti sul futuro del paese.
In tempi di proclamata volontà di “innovazione” proprio di questo si dovrebbe tenere grandissimo conto. Il vuoto della politica, e la sfiducia che così si alimenta, trovano le loro radici profonde proprio nella scomparsa di un’etica pubblica. E invece cadono nell’indifferenza politica quei veri bollettini di guerra che, da anni ormai, sono divenute le cronache di giornali e televisioni, che registrano impietosamente, ma purtroppo anche inutilmente, vicende corruttive grandi, medie e piccole, testimonianza eloquente della devastazione sociale. Il ceto politico distoglie lo sguardo da questa realtà scomoda. E nessun richiamo sembra in grado di scuoterlo. Quando un bel pezzo dell’attuale classe dirigente è convenuta in pompa magna ad una udienza papale, ha dovuto ascoltare una dura reprimenda del Papa proprio sul tema della moralità pubblica. Ma pare che l’unica sua reazione sia stata quella dello sconcerto di fronte alla mancanza di ogni cordialità da parte del Pontefice alla fine di quell’incontro. Così, anche questa vicenda è stata rapidamente archiviata, e tutti sono tornati alle usate abitudini, senza dare il pur minimo segno di qualche intenzione di voler dare un’occhiata al dimenticato articolo 54. Ma una politica che ha dimenticato l’ onore, ritenuto forse un inaccettabile segno del moralismo dei costituenti, quale prospettiva può offrire per una azione concreta di ricostruzione dell’etica civile?

La Stampa 7.5.14
Camusso: Renzi distorce la democrazia
Ma il premier: “Pensi ai disoccupati”
E il presidente del Consiglio invita i sindacati a una maggiore trasparenza: «Mettano on line le loro spese»
La segretaria Cgil: «Giudizi ingenerosi ».
di Roberto Giovannini

qui

La Stampa 7.5.14
Il contropiede sindacale verso il corpaccione del Pd
di Marcello Sorgi

Riproposto sotto forma di saluto al congresso della Cgil, l’appello del Presidente Napolitano al sindacato, perché cominci a fare i conti in termini diversi con l’evoluzione della crisi, non ha purtroppo sortito grandi effetti. La relazione di Susanna Camusso in apertura delle assise è stata molto dura verso Renzi e verso il decreto Poletti, anche nell’ultima versione.
È vero che Camusso aveva da reagire all’attacco che il presidente del Consiglio le aveva rivolto qualche giorno fa e alla sua plateale assenza dalla sala del congresso. Ma la reazione è stata troppo ultimativa: la segretaria Cgil ha in sostanza difeso la concertazione e ha parlato del metodo di Renzi di decidere senza una consultazione preventiva come un l’attacco alla democrazia. Inoltre, valutando le stime del documento economico del governo, le ha spregiativamente definite «zero virgola», quasi a dire che il governo stesso è il primo ad essere consapevole dei suoi limiti.
Per quanto orientati a non rincarare le polemiche, gli esponenti della minoranza interna del Pd presenti al congresso sono rimasti molto colpiti da queste parole. D’Alema è stato il solo a prendere esplicitamente le distanze, mentre il ministro Orlando s’è un po’ barcamenato. Al fondo, era questa la questione che passava a tutti per la testa, ma che nessuno ha avuto voglia di porre apertamente: rompere con i sindacati, e in particolare con il maggior sindacato di sinistra, alla vigilia delle elezioni, conviene o è un rischio? Renzi - che non andrà neppure all’assemblea di Confindustria - è chiaramente della prima opinione. Il premier è convinto che agli occhi dei milioni di giovani disoccupati o precari italiani, un sindacato impegnato soprattutto nella difesa di quelli che il lavoro ce l’hanno è vissuto più come un ostacolo, che non come un aiuto. Guardata invece con gli occhi più tradizionali della sinistra post-Pci, la rottura può comportare una dispersione di voti, o un aumento di astensioni, che con l’aria che tira nei confronti delle europee è quasi lo stesso. All’interno del Pd c’è anche chi dice che Renzi si è risolto a prendere questa strada dopo aver visto come si sono schierati Camusso e la Cgil, e soprattutto che risultato hanno raggiunto, alle primarie che lo hanno visto vincitore a dicembre. Ma ammesso che la sua scelta funzioni il 25 maggio, la questione, dopo le elezioni, dovrà necessariamente essere riesaminata. Dal sindacato si può prescindere in materia di concertazione. Ma se Renzi vuole evitare di ritrovarsi sotto Palazzo Chigi le delegazioni di tutte le aziende in difficoltà in questo momento in Italia, dovrà trovare il modo di cercare un disgelo.

Corriere 7.5.14
«Renzi distorce la democrazia»
La ribellione della Camusso
di Dario Di Vico

qui

Repubblica 7.5.14
Camusso: “Il governo distorce la democrazia” Renzi:“Musica cambiata”
Leader Cgil contro il premier: “Parla come Berlusconi”
“Il decreto sul Lavoro aumenta il precariato”
di V. Co.



ROMA . Si alza il livello dello scontro tra sindacati e governo. Susanna Camusso accusa Renzi, senza mai citarlo nella relazione che ieri ha aperto il 17esimo congresso della Cgil a Rimini, di «insofferenza verso la concertazione» e di «torsione democratica» a favore della governabilità, ma «a scapito della partecipazione». Promette che la Cgil «contrasta e contrasterà l’idea di autosufficienza» dell’esecutivo, «sperando che non produca nuove vittime, come gli esodati». Ribadisce che il sindacato non si sente «orfano» della concertazione né della «vocazione alla sala verde» di Palazzo Chigi, dove si aprono le trattative con il governo. Piuttosto, «protagonista» e pronto a far «valere le proprie ragioni». Altrettanto pronto e irritato il premier che in serata al Tg5 va giù duro: «I sindacati devono capire che la musica è cambiata. Noi stiamo cercando di cambiare l’Italia, se vogliono dare una mano lo facciano, ma non stiamo ad aspettarli. Perché non possono pensare di decidere o bloccare tutto». Anzi, aggiunge il premier, diano il buon esempio, «riducendo i permessi e mettendo online tutte le spese». Reagisce come Berlusconi e Grillo, controreplica la Camusso nel salotto di Ballarò: «È la logica di cercarsi un nemico, è la logica di attaccare chi è più debole, cioè il mondo del lavoro con tutte le sue difficoltà». Distorcere la democrazia, dunque. La denuncia della Camusso non cade nel vuoto, anzi trova sponda nelle parole dei leader di Cisl e Uil, proprio dal palco di Rimini. «Chi va di fretta fa fuori la democrazia, ma noi siamo la democrazia», esplode Bonanni. «Non spariremo e non declineremo, anche perché senza sindacati Renzi rischia di non andare da nessuna parte», tuona Angeletti. Il ministro del Lavoro Poletti (oggi ospite a Rimini) mette però una pietra tombale sulla concertazione: «È stata molto utile, ma è finita da tempo. Il governo sente tutti, com’è normale, e poi decide». Assente Renzi, ieri a Rimini c’era il ministro della Giustizia Orlando (Pd). Positivo il suo giudizio sulla relazione della Camusso, ricca di «stimoli importanti e utili», ma anche «di diffidenza e pregiudizio». Difficoltà che però «si possono superare». Quattro le sfide della Cgil al governo su pensioni, ammortizzatori sociali, lavoro povero e fisco. In particolare, la Camusso chiede a Cisl e Uil di «aprire una vertenza sulle pensioni» per arrivare «a un sistema equo». Propone di ripristinare il falso in bilancio, portare la soglia del contante a 300 euro, impedire e perseguire l’autoriciclaggio, unificare le banche dati. Boccia il decreto e la delega sul lavoro («il primo precarizza e la seconda non è chiara»). Rilanciando sul contratto unico, accanto al contratto a termine causale, la somministrazione e l’apprendistato.

il Fatto 7.5.14
Tra Renzi e Sindacati è guerra
La Cgil cerca sponde nel Pd
Apre a Rimini il congresso del Sindacato
di Salvatore Cannavò


Rimini - In questo XVII° congresso della Cgil, da ieri in corso a Rimini, Susanna Camusso ci era entrata con il trauma dell’avvento di Matteo Renzi alla guida del Pd e del governo, e poi con la dura opposizione di Maurizio Landini. Per uscire da questa morsa ha scelto di dare battaglia. Nei confronti di Renzi accusato di mettere in pericolo la democrazia. Ma anche di Landini, a cui viene imputato di voler trasformare la Cgil in un “condominio” rissoso. E che, addirittura, potrebbe decidere di non candidarsi al prossimo direttivo. Renzi, d’altra parte, ieri ha risposto a male parole alla leader Cgil e al mondo sindacale che gli si oppone. Risultato: ormai la guerra tra Renzi e sindacati è dichiarata. “E la cosa non gli porterà bene”, prevede il leader Cisl Raffaele Bonanni.
TUTTO INIZIA con Camusso imbaldanzita dal giocare in casa, forte di un congresso che l’accredita del 97% dei consensi da cui detrarre la quota che fa riferimento a Landini (tra il 12 e il 15%) e l’opposizione di Cremaschi al 2,4. Eppure ha sentito il bisogno di dare una scossa. Lo spartito suonato è stato duplice: uno, in grado di riaprire la partita a sinistra, con la predisposizione di un’agenda “laburista” contrapposta a quella di Renzi e l’altro, di natura strettamente sindacale, fondato sulla centralità della contrattazione, e quindi dell’Accordo del 10 gennaio, con il consolidamento dell’alleanza con Cisl e Uil.
Sul piano politico lo scontro col governo è netto. A Renzi viene rimproverato innanzitutto di aver abbandonato il confronto: “Non ci sentiamo orfani della concertazione” e non abbiamo nostalgia della “sala Verde”, ha sottolineato Camusso, ma “l’autosufficienza della politica sta determinando una torsione democratica verso la governabilità a scapito della partecipazione”. Senza poi fare alcuna parola degli 80 euro di Renzi, ha attaccato “l’idea che cambiare verso sia lo ‘zero qualcosa’ di contratti a termine”, ha definito “fantasiose” le idee del ministro Giuliano Po-letti sulla previdenza, al quale sono fischiate le orecchie anche per il durissimo affondo al sistema delle coop e ai suoi “appalti alla qualunque”. Ma al di là delle accuse ieri si è misurata la distanza tra due anime della sinistra ormai alla resa dei conti. La Cgil, con la sua idea di “partecipazione forte” basata sulla solidarietà del collettivo da contrapporre alla “partecipazione debole” di Renzi.
IL PREMIER, come detto, non l’ha presa bene. “Non è possibile che ci siano sempre polemiche”, ha replicato parlando al Tg5: “I sindacati vogliono dare una mano ? Lo facciano, ma devono capire che la musica è cambiata”. In un’intervista a “Ballarò”, Renzi è andato giù ancora più duro, colpendo Camusso dove fa più male: “Il fatto che il massimo dell’elaborazione concettuale del leader Cgil sia l’attacco al governo, e non la preoccupazione per i disoccupati, è triste per i militanti della Cgil. Se Ca-musso ha un problema interno perché Landini chiede cose diverse è problema suo, noi vogliamo discutere ma basta col potere di veto”. In studio, nella trasmissione di Raitre, sedeva Raffaele Bonanni: “È più facile che finisca rottamato Renzi che noi - è stata la replica, decisamente a tono - Quando uno punta tutto sull’attacco ai sindacati in genere finisce male”.
IN PRIMA FILA a Rimini, però, ad ascoltare Susanna Camusso, c’era pure gran parte della minoranza Pd con Guglielmo Epifani, Roberto Speranza, Stefano Fassina, Cesare Damiano e anche Pippo Civati. E con un Massimo D’Alema, salutato in coda a tutti gli altri - cosa non gradita - che a sorpresa ha strizzato l’occhio a Renzi: “Ho detto a Susanna che sarebbe stato meglio apprezzare un po’ di più il governo”. Paradossi dalemiani che non nascondono la sostanza dell’operazione: la Cgil ha offerto una piattaforma all’attuale minoranza Pd in cerca di sponde . Da qui le “4 sfide” al governo su lavoro, fisco, ammortizzatori e pensioni. Su questo punto la Cgil ha proposto una vertenza, col via libera di Bonanni, per abolire la Gestione separata (quella dei co.co.co) e rivedere il sistema di rivalutazione.
SEDUTI un po’ più in là, tra Nichi Vendola di Sel e Paolo Ferrero di Rifondazione, i due esponenti renziani in rappresentanza del vero Pd: Filippo Taddei e Davide Faraone. “L’unico renziano in Cgil che conosco è mio padre - scherza quest'ultimo - ma lo è solo per solidarietà con me”. La battuta sintetizza l’isolamento, anche fisico, dei due. Taddei, responsabile economico del Pd, minimizza: “Ho trovato più punti di convergenza che di divergenza”. Più efficace Paolo Ferrero di Rifondazione: Camusso ha fatto “una buona relazione per una candidata alla segreteria del Pd. Meno per la Cgil”. Al di là della politica c’è poi il merito sindacale. Camusso ha difeso l’accordo del 10 gennaio incassando un convinto appoggio di Raffaele Bonanni, accolto con grandi applausi. Anche a Rimini il segretario Cisl si è associato agli attacchi a Renzi definito un “maestrino”: “C’è chi fa della fretta un programma politico, ma chi va piano va sano e va lontano”.
LO SCONTRO però è anche interno e in serata se n’è avuto il primo assaggio. La maggioranza ha chiesto di presentare le liste per il prossimo direttivo entro stamattina alle 9,30. Un modo per “stringere” Landini che, inutilmente, ha chiesto più tempo. Il segretario Fiom ha parlato di “gestione autoritaria” e sta pensando a un gesto eclatante: non candidarsi per il direttivo inviando, come Fiom, solo una delegazione di lavoratori.

Repubblica 7.5.14
Matteo: “Faccio campagna sul sindacato conservatore”
di Goffredo de Marchis



ROMA . Il no alla concertazione è definitivo. Non si torna indietro. Vale per la Confindustria e lo si è visto sul taglio ridotto dell’Irap. Vale tanto più per il sindacato che Matteo Renzi considera protagonista del Paese bloccato. Perciò il premier gira le accuse di Susanna Camusso a suo favore, le considera «un regalo pazzesco. Sull’opposizione della Cgil io ci costruisco la campagna elettorale per le Europee, lo scontro fa più bene a me che a loro», dice ai suoi fedelissimi mentre dal congresso di Rimini arrivano i lanci di agenzia sul discorso del segretario.
Tante volte Renzi si crea dei nemici, gli servono per dimostrare la bontà delle sue proposte, la loro natura di profondo cambiamento. E per contrastare la furia di Beppe Grillo. Altre volte li incontra sulla sua strada, sono sfide inevitabili per la cultura politica del premier.
Il sindacato è da sempre la controparte della battaglia renziana. Il nuovo contro il vecchio. La rottamazione contro le incrostazioni. Il futuro contro il passato. Loro erano nelle stanze dei bottoni quando la crisi ha preso il sopravvento, lui no. «Mi chiedo dov’era la Camusso in questi anni? Non mi pare che abbia avuto pochi ruoli di responsabilità, anzi», sottolinea parlando con i collaboratori. Renzi è convinto che la Cgil si faccia male da sola, con questo atteggiamento. «Ormai i sindacati rischiano di avere il marchio della conservazione italiana, di conquistarsi il triste monopolio della difesa dell’esistente. Conviene? Non credo».
In queste condizioni si allontana ancora di più un confronto diretto tra Camusso e Renzi. Il dialogo tra il governo e Corso d’Italia continua a essere difficilissimo, sfiorando l’assoluta incomunicabilità. Del resto, è questa la principale preoccupazione della Camusso. Un ascolto negato, una marginalità, più che il desiderio di condizionamento. Per questo ha alzato i toni, insistendo molto sul concetto, piuttosto di moda, che il decisionismo sia sinonimo di autoritarismo. E di pulsioni antidemocratiche da parte del presidente del Consiglio. È un’accusa che Renzi ha dovuto incassare da vari interlocutori. Dal Pd, «che però è stato riunito nella direzione e nei gruppi parlamentari decine di volte, ha votato e ha deciso». Dagli imprenditori e da Giorgio Squinzi che ha alzato la voce ma poi l’ha abbassata. Dai “professoroni” che hanno contestato le riforme elettorali e istituzionali praticamente con le stesse parole della Camusso: «Distorsione democra- tica», ha detto il segretario della Cgil. Sono critiche che Renzi ha sempre rispedito al mittente. Lo fa anche stavolta. «Io nego la democrazia? Io sono allergico al dialogo? Ma di che parla Camusso». La verità è un’altra, spiega il premier nei suoi colloqui riservati a Palazzo Chigi. È in corso, dentro il sindacato maggiore, uno scontro di vedute e di leadership. Un braccio di ferro che va avanti da mesi. «La Camusso è molto stressata - dice Renzi - e non per colpa mia. Landini la sta mandando ai matti con la storia delle primarie interne ».
Non è un mistero che il dialogo tra Renzi e il segretario della Fiom Maurizio Landini sia più avanzato di quello con la Camusso. Divisi sui provvedimenti del governo e in particolare sul decreto lavoro, il premier e il capo delle tute blu hanno trovato un terreno comune sul tema della rappresentanza sindacale. Solo su quello, perché la legge Poletti non spaccherà il sindacato anzi lo sta compattando in un’opposizione trasversale alle diverse sigle. A maggior ragione, Renzi deve annunciare al Tg5 che la “musica è cambiata”, che si va avanti anche senza i sindacati, che la concertazione è un retaggio del passato. La cifra che si è dato è quella delle scelte rapide. Non si torna indietro, soprattutto durante una campagna elettorale che preoccupa il premier, che si gioca nella sfida a viso aperto con Beppe Grillo.

il Fatto 7.5.14
La strategia del rottamatore

Si va allo scontro finale. Per un pugno di voti
di Antonello Caporale


Nella sceneggiatura renziana il potere di interdizione o solo di mediazione del sindacato non è tollerato. Non c’era bisogno di un mago per intuire che il massimo profitto politico Matteo Renzi lo avrebbe colto in uno scontro senza pari con il sindacato, meglio se di sinistra. E infatti ciò è avvenuto. Se lo fa, anzi, se gli è permesso di farlo è grazie alla caduta della reputazione del sindacato, alla sfiducia circa la sua capacità di rappresentare gli interessi di tutti i lavoratori, alla sua inadeguatezza a immaginare strumenti innovativi per far fronte a una crisi economica così straordinaria. All’idea soprattutto che nella casta, nell’imperdonabile élite conservatrice e immobile, Cgil Cisl e Uil figurino come protagonisti di rilievo. È vera l’accusa della Camusso: Renzi torce la democrazia, riduce la complessità dei problemi e anche il diritto di parola, di critica, di semplice riflessione. Renzi conduce al suo cerchietto magico il titolo per ogni giudizio definitivo e finale. Ma questo allargamento dei confini del potere renziano anche oltre il lecito è appunto conseguenza, prova di un errore storico, sintesi di una degenerazione avvenuta. Perché oggi il sindacato appare più che come realtà sensibile e aperta, costruita per favorire il lavoro, come un grande facitore di singole carriere? È colpa della Cgil soprattutto se la trasparenza nella selezione del gruppo dirigente e nel finanziamento delle sue attività siano costantemente risucchiati in una nebbia che appare fitta, impenetrabile. Magari non è così, ma così appare. Si vota in Cgil? Certo che sì. Ma come viene formata la volontà degli iscritti, quanto è ampio il loro coinvolgimento nella scelta dei dirigenti e quanto è invece imposto, deciso, concluso prima che ogni congresso inizi?
SUI RITARDI del sindacato ha giocato e gioca Renzi. Che non vedeva l’ora di dire: la musica è cambiata. Oggi ancor di più di ieri perché lo scontro gli porterà voti, non gliene toglierà, e la rottura sarà illustrata come una prova di forza, un coraggio che i suoi predecessori non hanno avuto. Poco conta che alla base di questo proposito belligerante ci sia la carica sinceramente populista del premier e l’idea che egli ha di un esercizio accentrato e solitario del potere. Renzi ha scritto la legge elettorale convocando il leader dell’opposizione (appena rimosso dal suo scranno di senatore per indegnità) non il Parlamento , ha definito una grande riforma costituzionale con il volto più inquietante del berlusconismo (lo statista Denis Verdini). Figurarsi se sulla riforma del lavoro avrebbe permesso ai sindacati di partecipare non alla stesura, ma alla minima discussione preparatoria. Questo è il piatto, prendere o lasciare. È chiaro che Renzi forza oltre misura il campo delle sue prerogative. Ed è evidente che in questo modo “torce” la democrazia. Ma è anche evidente, solare, limpida la responsabilità storica del sindacato che ha sempre chiesto senza mai dare. Il sindacato è divenuto un palazzo di marmo con i portoni sbarrati a qualunque energia nuova. Pesa sulla Camusso la colpa di non aver divelto al suo interno le porte serrate. È colpa grave. E se oggi qualcuno ne approfitta, chi pagherà il conto?

l’Unità 7.5.14
Camusso attacca Renzi «Distorce la democrazia»
Cgil, scontro Camusso-Renzi
La leader della Cgil critica duramente l’azione del governo e si trova accanto anche Cisl e Uil
Al congresso la leader accusa: «Dal governo distorsione della democrazia, torni la concertazione»
di Massimo Franchi


Un “quadrato rosso” di proposte per dare “aggettivi al cambiamento”. I cui quattro lati sono composti da “una vertenza per cambiare la riforma delle pensioni Fornero”, “ammortizzatori universali”, “rappresentanza e diritti al lavoro povero” e “un fisco che redistribuisca realmente”. Susanna Camusso e la Cgil sfidano il governo di Matteo Renzi che a Rimini – pur invitato – non è voluto venire, spiegando che “il cambiamento in sé non è sufficiente” e accusandolo di “una logica di autosufficienza che sta determinando una torsione democratica verso la governabilità a scapito della partecipazione”. Non lo nomina mai, ma un buona parte dell'ora e venti di relazione è dedicata al rapporto con il governo. Rottama il rottamatore, così come la parola “compagno” - che usa il solo Angeletti – e non cita mai quella Fiat dei cui stabilimenti in contemporanea si sta decidendo il futuro a Detroit. Un discorso di alto profilo, forte, dunque. Dettato dalla crisi economica, dalle elezioni europee alle porte, dal clima antisindacale sul fronte esterno, e dalle tensioni sull'accordo interconfederale sulla rappresentanza, su quello interno.
RIVINCITA SULLE PENSIONI
Vestita di blu e fiori bianchi, Susanna Camusso parte dal “piano del lavoro” e affronta la non facile prova con un discorso tutto incentrato sulle proposte, sui giovani e i precari, diretto, senza fronzoli, senza cercare facili applausi. Non privo di autocritiche sul “poco coinvolgimento nella fase di definizione del Testo unico sulla rappresentanza” e “sulla sconfitta subita sulle pensioni”. Ma si riparte. “Proponiamo a Cisl e Uil una vera e propria vertenza sulle pensioni che abbia al centro una prospettiva dignitosa per i giovani e i precari aumentando i loro coefficienti di calcolo” e proponendo – per la prima volta – “l' abolizione della gestione separata Inps, ghetto per i precari”.
Il secondo lato del quadrato è composto da “ammortizzatori sociali universali”. “Il superamento della cassa in deroga” potrà venire solo dopo che verrà rispettato questo caposaldo con “un intervento pubblico che deve indirizzarsi ai contributi figurativi e ad una nuova indennità di disoccupazione usufruibile dai lavoratori standard e non”. Camusso conia poi una nuova espressione per descrivere il momento dell'occupazione in Italia: “lavoro povero”. La categoria annovera gli sfruttati del lavoro agricolo, i lavoratori degli appalti, i finti soci delle finte cooperative. Per tutti loro propone “un contratto nazionale”, “contratti che includano le figure oggi precarie e senza patria”, “un contratto che riconosca diritti universali, riconoscimento della professionalità, del tempo- lavoro, che magari non è orario come lo conoscevamo, ma è tempo sottratto ad altro”.
In risposta al decreto sui contratti a termine e alla legge delega del jobs act la Cgil chiede che le 46 forme contrattuali esistenti scendano a quattro. “Oltre al contratto unico, il contratto a termine ma sempre con causale per stagionalità e sostituzioni, il lavoro in somministrazione e l'apprendistato”. Per ottenere il risultato serve rilanciare “la solidarietà: la grande forza del lavoro oggi è acciaccata, ma possiamo curarla”. A chiudere il quadrato c'è il tema del fisco, con il rilancio del cavallo di battaglia “della patrimoniale” e la lotta l'evasione fiscale. Sugli 80 euro di bonus la stoccata è più per Maurizio Landini che per il governo: “Dire che mai un contratto ne ha dati tanti ad un lavoratore significa farci del male”. Per l'opposizione interna sull Testo unico sulla rappresentanza, Camusso ha ribadito che con la Consultazione degli iscritti – approvata con oltre il 90 per cento – il discorso è chiuso. L'obiettivo della certificazione della rappresentanza – e qua il fioretto è per Confindustria - “farebbe bene al sistema alle imprese che si frantumano solo per avere un nuovo contratto o un ente bilaterale”.
La chiusura è per disegnare la Cgil di domani. L'orgoglio per le 41mila assemblee, i 200mila interventi preparativi del congresso è mitigato “dalla stanchezza per i sei mesi di percorso”. Il prossimo “dovrà essere più breve e partecipato”, puntando “più sul territorio e meno sulle categorie” ed “evitando la verticalizzazione delle scelte” con l'obiettivo di “mescolare davvero” il grande mondo della Cgil “dove ora spesso non si conosce l'un l'altro”.
CONFEDERAZIONI UNITE
Dalla prima giornata di lavori, esce rafforzata l'unità sindacale. Ieri la platea Cgil ha riservato applausi convinti a Raffaele Bonanni (“Accogliamo con grande disponibilità le proposte di Susanna, la fretta del governo fa fuori la democrazia, noi invece ne siamo l'essenza e per questo siamo scomodi”) e al “renziano” Luigi Angeletti (“Ora siamo sulla stessa barca e vi dico: non spariremo, c'eravamo prima e ci saremo dopo”).
La prova del “nove” dello scontro col governo sarà oggi: ritorna, dopo le Giornate del Lavoro, Giuliano Poletti. Il suo decreto è stato duramente criticato da Camusso,mail vero oggetto del contendere sarà la “vertenza” per modificare la riforma delle pensioni Fornero lanciato dal leader Cgil: Poletti è d'accordo?

l’Unità 7.5.14
Il premier: «La musica è cambiata»
Renzi: «Camusso mi attacca per nascondere le sue divisioni»
D’Alema: «Ingenerose le critiche al governo»
di Vladimiro Frulletti


«In questo momento la prima preoccupazione di tutti dovrebbe essere come creare nuovi posti di lavoro. Il fatto che il livello di più alta elaborazione del sindacato più importante del Paese sia l’attacco al governo perché realizza le cose è triste. Ma è triste in primo luogo per la Cgil, per i suoi militanti, per i tanti che credono ancora nel sindacato ». Che dal congresso Cgil potessero arrivare critiche Renzi lo aveva messo in conto. La stessa decisione di non partecipare all’assise di Rimini (che fa il paio con l’assenza già decisa anche dall’assemblea annuale di Confindustria) è spiegabile con la voglia di evitare nuovi duri scontri a un paio di settimane dal voto. Certo le distanze sono note, e neppure da Palazzo Chigi le frecciate non sono mai mancate. Anche ieri il premier ha rilanciato sia sull’idea di tagliare il monte ore dei permessi sindacali nella pubblica amministrazione che sulla richiesta ai sindacati di mettere online tutte le loro spese. Tuttavia le parole usate da Camusso prima dal palco e poi a Ballarò probabilmente Renzi non se le aspettava. Almeno in quei toni. E gli hanno fatto inevitabilmente tornare alla memoria l’attacco che il segretario Cgil gli fece in diretta televisiva dall’Annunziata proprio la domenica della sfida alle primarie poi persa contro Bersani.
«Oggi però la musica è cambiata» fa notare il premier. E quindi il diritto di veto non lo può detenere nessuno. «I sindacati vogliono dare una mano? Lo facciano, ma devono capire che la musica è cambiata. Non possono decidere tutto loro o bloccare tutto. Se vogliono affrontare le cose insieme noi ci siamo - spiega Renzi al TG5 -. Nel momento in cui i politici riducono i posti, i dirigenti gli stipendi, anche i sindacati devono fare la loro parte. Io non rispondo ad insulti, vogliono darci una mano? Lo facciano, ma non pensino che noi stiamo ad aspettare loro».
Il messaggio insomma è chiaro. Il governo non ha nessuna intenzione di riconoscere un potere di interdizione ai copri intermedi. Il confronto c’è e ci sarà, ma la concertazione intesa come co-decisione no. Casomai Renzi cerca il rapporto diretto coi cittadini e quindi ad esempio nel caso della riforma della pubblica amministrazione con gli utenti e coi dipendenti pubblici chiamati a inviare le proprio idee all’indirizzo di posta elettronica: rivoluzione@governo. it.
Ecco che così al microfono di Alessandro Poggi di Ballarò Renzi può mostrarsi col volto un po’ deluso di chi dal congresso di un sindaco importante come la Cgil si aspettava qualcosa di più, ad esempio se non di assumersi un pezzo della responsabilità del declino italiano di questi anni, almeno di provare a fare un po’ di quella che un tempo a sinistra veniva chiamata autocritica. «Fa amarezza per il sindacato e per chi paga la tessera - spiega il premier - ogni anni vedere che il massimo di idea del sindacato sia attaccare il governo, mentre in questi anni la disoccupazione è passata dal 7 al 13 % senza che il sindacato se ne sia neanche accorto». Una riflessione che per il premier nella relazione Camusso non s’è sentita. Il ragionamento del premier è che a Rimini la leader della Cgil ha volutamente evitato questi argomenti e ha scelto l’attacco frontale a lui e al governo per nascondere le proprie difficoltà. «Se poi hanno un problema interno perché Landini, secondo me giustamente, chiede ad esempio che ci siano primarie nel sindacato, che si ridiscuta l’organizzazione, è un problema della Camusso » dice a Ballarò. Non è e non può essere un problema del governo. «Noi vogliamo discutere con le lavoratrici e coi lavoratori» sottolinea. Dalle valutazioni del premier ovviamente si trovano parecchio distanti i democratici più vicini alla Cgil come Cesare Damiano e Stefano Fassina. L’ex viceministro trova «pienamente condivisibile» la relazione di Camusso. Più in sintonia con Palazzo Chigi che Corso Italia appare invece Massimo D’Alema che confida di aver detto «a Susanna» che sarebbe stato meglio «qualche apprezzamento in più per il Governo». Mentre il ministro Orlando prova a fare da pontiere: «c'è una distinzione dei ruoli che è un punto di partenza su cui riflettere- dice. ma l'unico modo è il confronto purché alcuni elementi di pregiudizio possono essere superati».

Repubblica 7.5.14
D’Alema: Susanna riconosca i meriti dell’esecutivo
D’Alema: “Un’idiozia l’idea delle due sinistre”
intervista di Roberto Mania



«Diciamo che qualche apprezzamento in più su quello che ha fatto il governo avresti potuto esprimerlo». Massimo D’Alema a Susanna Camusso. Il leader della Cgil ha appena concluso la sua relazione al congresso, D’Alema l’ha seguita dalla prima fila accanto a Roberto Speranza, capogruppo del Pd alla Camera, e a Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro, oggi esponente dell’area laburista del partito. Una terna non proprio renziana. D’Alema si è alzato per applaudire il segretario del sindacato. Poco più in là c’è Sergio Cofferati. Era il ‘96 quando l’uno al partito, l’altro al sindacato si sfidarono a sinistra. D’Alema era il riformista, Cofferati “il signor no” conservatore. E con lui la Cgil: no alla flessibilità del lavoro, no alla riforma delle pensioni, no all’idea che si dovesse cominciare - come teorizzò l’economista Nicola Rossi, all’epoca consigliere di D’Alema - a dare più ai figli e meno ai padri. Alla fine l’uno bloccò l’altro e viceversa. Forse anche per come andò a finire quella vicenda oggi c’è Renzi che sfida (ancora) la Cgil. E che si discute (ancora) di cose non molto diverse. Ma è davvero un’altra epoca. D’Alema qui è di casa ma non è mai stato amato. La corrente dei dalemiani è sempre stata minoritaria. Qui c’erano i cofferatiani. Ora la stragrande maggioranza vota Pd ma i renziani dichiarati latitano.
D’Alema saluta e abbraccia la Camusso. Riprende: «Certo il non sono un avvocato particolare. Però…». Vuol dire che lui non può certo essere il difensore di Matteo Renzi presidente del Consiglio e che però bisognerebbe dare atto delle scelte che il governo ha fatto. D’Alema non lo dice ma è chiaro che pensa all’appuntamento del 25 maggio, quello del voto per il Parlamento europeo. L’attacco della Camusso a Renzi forse fa perdere voti a sinistra. Forse. Certo la prima fila dove siedono tutti i piddini, dal renziano Davide Faraone a Stefano Fassina, già viceministro dell’Economia nel governo Letta, che nel Pd fa parte della minoranza cuperliana.
Camusso sorride a D’Alema, replica che l’ha detto chiaro che gli ottanta euro nette nelle buste paga di chi guadagna meno vanno bene ma che deve essere solo l’inizio di un percorso. D’Alema se ne va. Si ferma a parlare con Carla Cantone, segretario generale della federazione dei pensionati. Lei, alle ultime primarie del Pd, si era schierata con Gianni Cuperlo. Prima di uscire dal Palacongressi, D’Alema risponde svogliatamente alle domande dei giornalisti.
Cosa pensa della relazione della Camusso?
«Mi sembra una relazione piena di proposte. C’è qualche spunto polemico ma mi pare comprensibile. Ripeto quel che ho già detto alla Camusso: qualche apprezzamento in più sull’azione del governo avrebbe potuto dirlo».
Su cosa?
«Beh, sul fatto che il governo ha aumentato la tassazione sulle rendite finanziarie e ridotto quella sul lavoro».
Per il resto è d’accordo?
«Ho trovato la relazione molto coerente, piena di temi veri sui quali si deve riflettere. Ha parlato di persone, di precari. Penso al tema delle pensioni. È una questione delicatissima. Con il sistema contributivo e le carriere lavorative discontinue c’è il rischio concreto di avere in futuro un’intera generazione di pensionati poveri».
Non crede che la relazione del segretario della Cgil prospetti una proposta di sinistra alternativa a quella di Matteo Renzi, segretario del Pd?
«No. Questa è una vera idiozia. Lo scriva, lo scriva».
Lo scrivo. La Camusso ha detto che c’è una “logica di autosufficienza della politica” che sta provocando “una torsione democratica verso la governabilità a scapito della partecipazione”. È un’analisi molto severa. Lei che ne pensa?
«Vi state perdendo il congresso…».
D’Alema accelera il passo. Esce dal Palacongressi. C’è tempo ancora per una domanda.
D’Alema, il segretario della Cgil ha anche detto che bisogna ricontrattare il fiscal compact… «Non mi sembra che il presidente del Consiglio abbia detto cose molto diverse», risponde. L’aspetta la macchina con la scorta. «Buon lavoro…».

Repubblica 7.5.14
Il gigante Cgil ha i piedi d’argilla “Ma ora la sinistra esiste solo qui”
Viaggio nella crisi del maggiore sindacato italiano, tra malumori e speranze
Susanna Camusso: “Renzi teorizza che non c’è più differenza con la destra Non è vero: dimentica la giustizia sociale”
di Roberto Mania



RIMINI. «Lui teorizza che non c’è differenza tra sinistra e destra. Noi no. Noi pensiamo che non sia vero. Noi pensiamo che la giustizia sociale sia ancora lo spartiacque tra sinistra e destra». Lui è Matteo Renzi, presidente del Consiglio e segretario del Pd. E chi parla è Susanna Camusso, leader della Cgil. Dal Palacongressi di Rimini ha lanciato la sua sfida al partito e al governo. Ha definito un’agenda diversa da quella dell’esecutivo. «Ha fatto un discorso di sinistra», come sintetizza Giorgio Airaudo, deputato di Sel, ma soprattutto ex segretario nazionale della Fiom.
Ed è sinistra la parola chiave. Quella che richiama l’orgoglio cigiellino. Qui sono tutti di sinistra. Questa è l’unica casa comune della sinistra («una casa, non un condominio rissoso », ha detto Camusso riferendosi allo scontro con Maurizio Landini della Fiom). Il quadrato rosso è il simbolo della Cgil. Rosso è il palco. L’”Inno dei lavoratori” suonato a ritmo di jazz dalla “P-funking band” di Perugia ha aperto i lavori. Com’è – a parte il jazz - nella tradizione della sinistra. Qui quasi mille delegati votano tutti a sinistra. La stragrande maggioranza (l’80%?) vota per il Pd, cioè per il partito guidato da Renzi. Ma nessuno qui è renziano. Almeno dichiaratamente renziano. Eppure qualcuno (è una questione statistica) l’avrà pure scelto alle ultime primarie. Renzi resta un corpo estraneo in questo “gigante rosso” (5,7 milioni di iscritti) con i piedi che stanno rischiando di diventare d’argilla per via della trasformazione nel mercato del lavoro, con la precarietà che dilaga e il capitalismo finanziario che ha cambiato i connotati del “padrone”. Forse non è nemmeno un caso, una strana coincidenza del destino, che nel giorno in cui si apre il 17° congresso della Cgil, Sergio Marchionne illustri da Detroit, dall’altra parte dell’Oceano non da Torino, il piano industriale di una Fiat ormai diventata apolide e che si chiama Fca. È un sindacato stretto dentro una tenaglia. Perché non è nemmeno un caso che Renzi non sia venuto qui al congresso. “Lui” ha scelto di parlare direttamente con i cittadini, anche con quelli iscritti ai sindacati, o di scrivere ai dipendenti pubblici. «Questa non è l’idea di democrazia che abbiamo noi», spiega Carla Cantone, segretario generale dei pensionati (quasi la metà degli iscritti alla Cgil). «Il sindacato – insiste – rappresenta una parte del Paese non siamo un’organizzazione corporativa». Ma questa Cgil è compatibile con il nuovo Pd? «Dipende da Renzi, non da noi. Gli abbiamo lanciato una sfida, sta a luiraccoglierla: confrontarsi con noi non è una perdita di tempo ma un fatto di democrazia». Pure Raffaele Bonanni, segretario della Cisl, riesce a prendere gli applausi della platea congressuale quando dice che il sindacato è «l’essenza della democrazia». Applausi che fanno imbufalire Bruno Papignani, segretario della Fiom di Bologna: «Non mi riconosco più io in un’organizzazione che applaude così Bonanni. Quello che fa gli accordi separati e chiede ai padroni di non trattare con noi. Un conto è la cortesia, un conto è l’ipocrisia». Ma Camusso ha scommesso tutto sulla ritrovata azione comune con le altre due confederazioni: «Noi c’eravamo quando tu sei venuto, noi ci saremo quanto tu te ne sarai andato», conclude il suo intervento il segretario della Uil, Luigi Angeletti.
Sinistra allora. «Renzi si muove in continuità con i precedenti governi, mentre noi abbiamo bisogno di rotture vere non di continuità », sostiene ancora Camusso. Vuol dire continuità anche con il governo di Silvio Berlusconi. Ma per la Cgil la posizione di Renzi, tanto più nella doppia veste di capo dell’esecutivo e leader del maggior partito della sinistra, è peggiore. Michele Gentile, responsabile dei Settori pubblici della Cgil: «Berlusconi voleva il sindacato dalla sua parte, spaccandolo cercava una sorta di acquiescenza. Renzi nega l’esistenza del sindacato. Ha un’idea che nega la rappresentanza del pluralismo della società. Non è un fatto secondario ». Quasi una battaglia per la sopravvivenza, allora. Susanna Camusso ha ricompattato la sua Cgil con Cisl e Uil. Una novità perché nel passato Corso d’Italia ha spesso privilegiato l’unità interna rispetto a quella con gli altri sindacati. Ha quasi compiuto quelle che Vittorio Foa definiva la «la mossa del cavallo». Ha provato a sparigliare lanciando la sua sfida a Renzi con la vertenza sulle pensioni e sul fisco. Già, ma con chi? Proprio con il governo Renzi? Se lo domanda pure Maurizio Landini, il leader della Fiom all’opposizione della Camusso. «Con chi apre la vertenza? Con Bonanni e Angeletti? Tra di loro? Ma perché non l’hanno fatto prima? Perché hanno favorito o addirittura accompagnato quel processo? Perché non ha parlato della Fiat, la Camusso? ». Contraddizioni e parole sferzanti di chi considera il sindacato (questo sindacato) in una fase di crisi profonda di rappresentatività, incapace di cogliere i cambiamenti nel mercato del lavoro, nei processi produttivi (per quanto su questo, sulla trasformazione delle filiere produttive, l’analisi della Camusso sia apparsa adeguata e moderna), nelle forme della rappresentanza e della partecipazione alla vita pubblica. Anche ieri Landini ha parlato di «gestione autoritaria dell’organizzazione». Perché la Cgil è spaccata. Landini presenterà una lista diversa da quella della maggioranza, di cui faceva parte, per l’elezione dei membri del Comitato direttivo. E non ha ancora deciso se si metterà nella lista oppure lascerà posto ai delegati delle fabbriche, un segno chiaro e provocatorio per marcare la scarsa rappresentatività degli attuali organismi dirigenti, scelti per cooptazione e mai con un voto dal basso. Landini non esclude che si possano introdurre le primarie anche nel sindacato. Camusso dice no. Dice no anche Cantone: «Il sindacato non è un partito». La Cgil ha deciso che il prossimo anno ridiscuterà le regole congressuali in una Conferenza d’organizzazione. Questo congresso è durato sei mesi. «Troppo», dice Susanna Camusso. Ma tra un congresso e una conferenza d’organizzazione la Cgil dovrà fare i conti con la velocità di Renzi. O l’autosufficienza ha già colpito anche la Cgil?

l’Unità 7.5.14
Il primo scontro è sul direttivo
I tempi di presentazione delle liste e la riduzione del numero degli eletti nell’organismo suscitano tensioni tra maggioranza e minoranze
di M. F.


Il primo scontro interno alla Cgil arriva sui tempi di presentazione delle liste. A metà pomeriggio il segretario confederale Vincenzo Scudiere prende la parola e propone un cambiamento non da poco per la storia della Cgil. Invece delle lunghe trattative notturne dell'ultimo giorno per presentare le liste, il termine viene anticipata alle 9,30 di questa mattina. “Proponiamo di ridurre il numero dei componenti del Direttivo (il parlamentino della Cgil che domani pomeriggio rieleggerà Susanna Camusso, ndr) da 179 a 151”, dichiara dal palco Scudiere.
L'altra svolta riguarda la norma che prevede che “i funzionari che non siano stati eletti, non possano più fare parte del Direttivo”. Insomma, niente più sindacalisti a vita lontani dai luoghi di lavoro e dal territorio.
Ma a far discutere animatamente la platea è la dead line imposta per la presentazione delle liste. Interviene subito il segretario confederale Nicola Nicolosi - leader della piccola componente “Lavoro e società” che ha una cinquantina di delegati sui 953 totali - e critica la modifica. È proprio lui che stava trattando con la Fiom e Landini per fare una lista comune – che romperebbe la finta unità del congresso - con un bacino del 10 per cento che parte dagli emendamenti su pensioni e rappresentanza – bocciati perché non maggioritari – presentati insieme.
Poi tocca a Maurizio Landini dirsi contrario. E ancor di più all'ex segretario della Fiom Gianni Rinaldini che parla apertamente di “presa in giro”, di “congresso già finito” visto che “le liste si presentano sempre alla fine”.
Dalla platea Giorgio Cremaschi - il primo firmatario dell’unica mozione alternativa a Camusso – urla. Lui è quello più in difficoltà: la nuova norma gli toglie ore preziose per trovare le firme necessarie per raggiungere il 3 per cento necessario a presentare una lista. Dopo aver detto “No” alla proposta di Scudiere di fare una lista unica con una rappresentanza uguale alle percentuali del congresso – il suo documento ha preso il 2,4 per cento – Cremaschi ha chiesto a Landini e Rinaldini le firme mancanti, ma la trattativa non è facile. A tarda sera, però, anche Cremaschi parer aver ottenuto le sue firme.
La querelle si è chiusa con un voto. Alzando le deleghe in un clima teso, la maggioranza ha approvato la proposta Scudiere con 675 Sì, 27 No e 17 astenuti.

La Stampa 7.5.14
Landini allo scontro con Camusso: gestione autoritaria della Cgil
Il capo della Fiom prepara una lista e un documento alternativo
di Roberto Giovannini


Non sarà unitaria la conclusione del XVII Congresso della Cgil: la «strana maggioranza» che aveva raccolto quasi il 98 per cento dei voti nelle assemblee di base in calce al documento programmatico firmato dai due grandi rivali, il segretario generale Susanna Camusso e il leader della Fiom Maurizio Landini, si è spaccata alla prima occasione. Dopo una battaglia procedurale, molte polemiche dalla tribuna e lunghe discussioni nella notte, alla fine con ogni probabilità l’ex maggioranza «bulgara» darà vita a due liste di candidati per il Direttivo, il parlamentino Cgil, e due separati e alternativi documenti finali. Uno, che conquisterà una ampia e massiccia maggioranza, intorno a Susanna Camusso; l’altro, che dovrebbe raggiungere un consenso tra il 10 e il 15 per cento, intorno al numero uno della Fiom. Ci sarà infine il terzo documento, quello presentato da Giorgio Cremaschi, che ha preso nella fase precongressuale il 2,4%; se raggiungerà, come pare, le firme necessarie avrà suoi rappresentanti nel Direttivo.
Da un certo punto di vista si tratta di un esito inevitabile; sarebbe stato davvero paradossale che Camusso e Landini, che duellano senza esclusione di colpi da gennaio, dopo la firma Cgil del Testo Unico sulla rappresentanza, facessero parte della stessa mozione di maggioranza. Un’idea, quella del “documentone globale”, che era stata proposta molti mesi fa da Camusso come segnale di disgelo nei confronti della Fiom. E accettata dal numero uno dei metalmeccanici, che pur sostenendo durante la fase congressuale il testo unitario, aveva presentato nelle assemblee di base degli emendamenti (sulle pensioni, il modello contrattuale, il reddito di cittadinanza) che avevano raccolto in alcuni casi anche il 30-40% di consensi. 
Da allora però c’è stato lo strappo sull’intesa sulla rappresentanza con Confindustria, voluto da Camusso e osteggiato in modo assoluto dalla Fiom. C’è stata la consultazione degli iscritti, che ha visto prevalere il segretario generale. E soprattutto l’area di sinistra che simpatizza con Landini qui a Rimini si è ritrovata con solo un centinaio di delegati congressuali su 953. Il segretario Fiom, che parlerà oggi al Congresso, come noto ha incontrato più volte il premier Renzi facendo infuriare Camusso. Landini e Renzi, pur in dissenso su molte questioni, condividono lo stesso approccio da “rottamatori”. E in una recente intervista Landini, oltre ad elogiare il bonus degli 80 euro voluto dal governo, ha aperto alla possibilità che la Cgil elegga i suoi leader con il meccanismo delle primarie.
Il capo della Fiom dalla mattinata stava così lavorando alla presentazione di una lista e di un documento alternativo, cercando consensi tra gli scontenti dell’area Camusso e il gruppo di sinistra. Ma al termine degli interventi degli ospiti il segretario organizzativo Vincenzo Scudiere ha tirato fuori a sorpresa la proposta di presentare le liste dei nomi per il nuovo Direttivo entro le 9.30 di stamani. Un astuto blitz procedurale che sostanzialmente compatta la “maggioranza della maggioranza” intorno a Susanna Camusso, e soprattutto ridurrà ai minimi termini la rappresentanza della sinistra di Landini nel parlamentino Cgil. Letteralmente furioso il numero uno dei metalmeccanici: «Nemmeno nelle peggiori assemblee condominiali - ha detto Landini - si chiude una discussione ancor prima di aprirla, non appena chiusa la relazione del segretario generale. Così la discussione non è democratica e si conferma l’idea autoritaria di come si gestisce il sindacato». 

Repubblica 7.5.14
Senato, primo sì ma Renzi deve minacciare la crisi
Il governo viene prima battuto poi passa il testo di maggioranza Renzi
Via libera al documento dell’esecutivo anche con i voti di Forza Italia
Ma c’è il sì pure all’odg Calderoli col voto del popolare Mauro
di Silvio Buzzanca


ROMA. Mezza battuta d’arresto del governo sulla riforma del Senato. È passato infatti in commissione a Palazzo Madama, con 17 voti favorevoli, 4 sono di Forza Italia, contro 10 no, il testo base voluto da Matteo Renzi. Ma è accompagnato da un ordine del giorno, presentato da Roberto Calderoli, che prevede in maniera esplicita l’elezione diretta dei futuri senatori eletti dai cittadini. Proprio quello che il premier non voleva. Hanno votato con Calderoli 15 senatori su 29: cinque forzisti, quattro grillini, quelli di Sel e Gal. E soprattutto il centrista Mauro Mauro. Corradino Mineo, democratico, invece non ha partecipato al voto. I favorevoli invece 13. Renzi comunque parla di vittoria sul testo base e subito twitta: «Non era facile, la palude non ci blocca».
Tuttavia non è stato messo in votazione l’odg presentato dalla relatrice Anna Finocchiaro che non prevedeva l’elezione diretta dei senatori. Si parlava, su insistenza del Ncd, solo di un possibile ruolo degli elettori nella scelta dei senatori. Nel testo Finocchiaro c’era invece l’indicazione che il Senato dovrà essere una Camere delle Autonomie, un ruolo maggiore dei consiglieri regionali rispetto ai sindaci e un legame fra popolazione regionale e numero dei senatori eletti. e il ritorno a 5 dei senatori nominati dal capo dello Stato. Bocciato invece l’odg forzista sul presidenzialismo.
Il risultato è arrivato dopo una giornata convulsa. La prima riunione della commissione, infatti, si è risolta in un nulla di fatto. E al quel punto si è sparsa la voce che la Boschi avesse minacciato le dimissioni di fronte alle divisioni nella maggioranza e nel Pd. Alla fine, in serata era stata la stessa ministra ad annunciare l’intesa nella maggioranza. Ma poco dopo la commissione l’ha in parte smentita.

il Fatto 7.5.14
Riforme, via libera al testo base di Renzi
Ma al governo servono i voti determinanti di Berlusconi
Cortocircuito in commissione: passa l'odg di Calderoli che prevede il Senato elettivo

qui

il Fatto 7.5.14
Riforma del Senato
Sfiorata la rottura poi ci pensa B.
Il ministro Boschi minaccia le dimissioni (poi smentite)
Passa l’ordine del giorno Calderoli, in extremis
Il governo ottiene il voto favorevole in commissione sul testo base
di Wanda Marra


In una nottata concitata e caotica in Commissione Affari costituzionali passa l’ordine del giorno a firma Calderoli, che prevede l’elezione a suffragio universale dei senatori, grazie al voto a favore di Mario Mauro (teoricamente maggioranza). Anna Finocchiaro è costretta a ritirare il suo, frutto di giorni e giorni di mediazioni con la minoranza, che andava in una direzione opposta. Alla fine, il governo incassa il sì sul testo base, con qualche voto di FI: 17 sì, 10 no. Corradino Mineo, minoranza dem esce dall’Aula. A salvare Renzi è lo stesso Berlusconi che nel pomeriggio aveva avvertito (“non votiamo le riforme”). Non a caso tra Renzi e il leader di Fi in serata ci sono una serie di telefonate: Matteo richiama l’alleato al patto del Nazareno. “Approvato il testo base del Governo. Molto bene, non era facile. La palude non ci blocca! È proprio #lavoltabuona”, twitta Renzi a voto avvenuto. Ma dalla prova di forza esce ammaccato, indebolito. E con l’evidenza dei numeri: che non ci sono. In serata si sfoga con i suoi: “Pensavano di farcela con un’imboscata. Siamo andati a diritto. Risultato: l’accozzaglia porta a casa un odg che vale zero, la maggioranza tiene”. “Non la diamo vinta a Calderoli”. Maria Elena Boschi torna in Senato poco prima delle 20 e 30 dopo un vertice durato mezzo pomeriggio a Palazzo Chigi e sfoggia un sorriso da pugno di ferro. Sceglie la prova di forza e il governo con lei, andando in Commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, a chiedere i voti su un testo del governo e affrontando l’incognita non più di un ordine del giorno condiviso, steso dai due relatori (lo stesso Calderoli e Finocchiaro), ma di più odg.
IL BRACCIO di ferro andava avanti da giorni, tra il ministro delle Riforme che voleva si partisse dal testo dell’esecutivo e molti che spingevano per un odg dei relatori: la faccia sulle riforme dev’ essere la sua e quella di Matteo Renzi. Al momento della stretta finale, le cose si complicano. Calderoli annuncia: “Io il mio ordine del giorno lo presento”. Proprio mentre Mauro (Popolari per l’Italia), che di essere stato escluso dal governo non se n’è fatto ancora una ragione (come commentano anche nell’entourage del premier), annunciava il suo voto contrario al testo Boschi e Mi-neo, in rappresentanza della minoranza Dem si accodava. Governo potenzialmente sotto, con soli 13 voti a favore. Timore accentuato dall’annuncio di Berlusconi di voto contrario. Luca Lotti, Sottosegretario a Palazzo Chigi lo richiamava all’ordine: “Gli italiani vogliono le riforme, non le porcate alla Calderoli. Io ero alla cena vediamo se Berlusconi mantiene la parola”. A un certo punto si diffonde la voce che la Boschi avrebbe minacciato le dimissioni. Ma lei smentisce. Fatto sta che a Palazzo Chigi si tiene una riunione che va avanti per ore. Con il Ministro per le riforme, ci sono Renzi, Delrio e anche la Finocchiaro . Twitta Giachetti, tra i renziani l’addetto ufficiale minacciare il voto: “Caro @matteorenzi purtroppo sono stato facile profeta su riforme. Fidati di me andiamo a votare. #machitelofafare”. Il governo mette sul piatto per l’ennesima volta la crisi.
Poco prima delle 20 da Palazzo Chigi arriva la notizia che la situazione si è sbloccata. Ma con la presentazione oltre al testo del governo dei due odg dei relatori (e uno di Bruno sul presidenzialismo, che verrà bocciato). Mauro, nonostante le pressioni dell’esecutivo, lo sgambetto lo fa. Sintetizza il lettiano Francesco Russo su Twitter: “Un po' di scena ma alla fine il governo porta a casa testo base con maggioranza ampia. Odg #calderoli peserà poco”. Visto il “caos” del Senato (per dirla con Delrio) più che altro un auspicio.

l’Unità 7.5.14
Dall’articolo di Bianca Di Giovanni:

Di segno opposto un comunicato di altri senatori Pd: Lucrezia Ricchiuti, Donatella Albano, Felice Casson, Corradino Mineo, Sergio Lo Giudice e Walter Tocci. Nel decreto lavoro «si ripete così, ancora una volta, lo stesso errore che hanno compiuto per anni i governi di centro-destra scrivono i «dissidenti » nell’idea che abolire le tutele giuridiche previste a difesa dei lavoratori accresca la competitività delle imprese sul mercato. In questo modo si snatura la proposta originaria del Jobs act. Con la disoccupazione che supera il 12% e quella giovanile che è addirittura doppia, non si può aver paura della flessibilità, ma, se non bastasse l'esperienza degli ultimi anni nel nostro Paese, ci sono Spagna e Grecia a dimostrarci che l’apertura generalizzata al lavoro precario e senza vincoli conduce a percentuali insopportabili di disoccupazione che non accennano a diminuire. Noi vogliamo stare in Europa e non farci confinare in un Europa di serie B».

Repubblica 7.5.14
Il premier avverte Pd e alleati:
“Basta giochi o mi dimetto”
di Francesco Bei e Giovanna Casadio



A pochi minuti dall’inizio della seduta serale sembrava fatta. Nonostante il clima incandescente, il governo aveva accettato di mediare ulteriormente su un documento da votare subito, prima del testo base, per fissare i punti di possibile modifica. Tra questi il più importante era quello relativo alla modalità di scelta dei futuri senatori, cheRenzi vorrebbe indiretta e di secondo grado. Invece caldeggiato dalla minoranza dem, da Ncd e Forza Italia, si era arrivati a un compromesso, e cioè che sarebbe stato «consentito agli elettori al momento del voto per i consigli regionali, di indirizzare le scelte tra i rispettivi componenti dei membri del Senato delle autonomie». Di fatto si tornava a quell’ipotesi di listini separati di consiglieri regionali. I dissidenti del Pd erano soddisfatti. Il partito sembrava pacificato. Francesco Verducci, portavoce dei giovani turchi, era ottimista: «Il Pd ci deve stare per forza tutto. È una partita importante come quella dell’Irpef». Bene anche per quel drappello di senatori dem critici guidati da lettiano Francesco Russo.
L’ok al preambolo politico di Calderoli è invece una doccia fredda. La Boschi è gelata. Finocchiaro interrompe la seduta: è costretta a ritirare l’ordine del giorno della maggioranza. Si passa a votare il testo del governo. Renzi non pensa che nel gruppo ci sia ancora chi punta a farlo fuori. E tuttavia, ragionando con i suoi, pensa anche alle contromosse: «Se nel Pd qualcuno pensasse di remare contro le riforme per colpire me e affondare il governo, sappia che la reazione sarà...molto forte». Quanto a Berlusconi, il presidente del consiglio non riesce più a comprenderne la strategia. Ieri alla fine l’ha convinto. «Ma un giorno ci attacca, un altro vuole entrare in maggioranza. Mi sembra piuttosto ondivago, insegue i sondaggi».
A UN passo dalla crisi di governo. Preda dei ricatti della sua stessa maggioranza, inchiodato dal dissenso di due senatori, Matteo Renzi dice «basta». A Palazzo Chigi, con al fianco il ministro Boschi, traccia una linea da non oltrepassare.
OSI vota il nostro testo sulle riforme o salta tutto». Una drammatizzazione necessaria di fronte al riaffacciarsi di quella «palude» che ha rischiato di azzerare di nuovo il lavoro fatto finora. L’ultimo colpo di scena alle dieci di sera, quando in commissione passa grazie al voto del popolare Mario Mauro, all’uscita del dem Corradino Mineo e al sì dei grillini - l’ordine del giorno del leghista Roberto Calderoli. Una trappola, con dentro l’elezione diretta dei nuovi senatori. La maggioranza sembra essersi dissolta, è battuta anche se soltanto su un preambolo politico. «Ma è accaduto solo per l’insipienza di quel Mauro che non ha digerito ancora la poltrona sfumata. Pensavano di farcela con un’imboscata, rosolandoci ma noi siamo andati dritto», sbotta il premier. Che poi si rifà con il via libera al suo testo base strappando il sì anche di Forza Italia. «Berlusconi ha cambiato idea», dice dopo una telefonata proprio con il leader forzista.
Ma per tutto il pomeriggio la tensione è salita alle stelle. «Sono giochetti che ormai stanno facendo da due giorni - è la sfuriata del leader pd con i suoi - pensano di avere a che fare con dei ragazzini inesperti. Adesso basta. L’accozzaglia ha portato a casa un ordine del giorno che vale zero». Renzi è convinto di aver già ceduto molto, venendo incontro alle richieste sostanziali dei contestatori. «Siamo sempre stati pronti a discutere. Volevano più consiglieri regionali e meno sindaci? Benissimo. Volevano spostare il voto finale dal 25 maggio al 10 giugno? Bene anche questo. Però il giochetto del “più uno” mi ha stancato. Mi sono stufato. Ora le concessioni sono finite». L’arma per mettere a tacere i dissidenti è quella evocata esplicitamente da Roberto Giachetti, che il premier sembra ancora una volta mandare avanti come staffetta. «Avete visto cosa dice? ha ragione ». «Matteo, fidati di me, andiamo a votare #machitelofafare », twittava il vicepresidente della Camera di fronte all’impasse della prima commissione.
Il risultato portato a casa alla fine è l’ok al testo base del governo: la maggioranza (tranne Mineo che non partecipa al voto) più Forza Italia. Ma la guerra dei nervi era iniziata sin dal mattino. Calderoli infatti, che avrebbe dovuto presentare insieme ad Anna Finocchiaro un ordine del giorno riassuntivo di tutte le modifiche concordate, scarta subito di lato. Ne presenta uno proprio che riscrive tutta la riforma, arrivando a prevedere anche la diminuzione a 400 dei deputati. Da lì inizia il caos, anche Mauro e Mineo dicono subito che non voteranno il testo del governo. Su 29 membri della commissione solo 13 appoggiano la riforma come l’ha disegnata Boschi. A Palazzo Chigi sono ore frenetiche, le riunioni si moltiplicano. La Finocchiaro si chiude in una stanza con il ministro delle Riforme. Nel frattempo l’ex ministro della Difesa sta cercando di convincere Mineo a non lasciarlo da solo. Ma l’ex ministro deve affrontare un “processo” nel suo gruppo (11 senatori, di cui 2 dell’Udc). La maggior parte infatti condivide l’opinione di Andrea Olivero e non ne vuole sapere di mandare tutto a carte quarantotto. E minaccia Mauro di sostituirlo in commissione affari costituzionali.

Corriere 7.4.15
Le riforme vetrina stanno mostrando un governo che sbanda
Segnali contraddittori da Palazzo Chigi sui rischi di una crisi
di Massimo Franco

qui

Corriere 7.5.14
La resistenza di Renzi e le telefonate con l’ex Cavaliere
di Francesco Verderami


ROMA — Sulle riforme istituzionali non aleggia lo spirito costituente ma il vento della campagna elettorale. Perciò era chiaro che in vista delle urne l’accordo bipartisan tra Renzi e Berlusconi sarebbe stato esposto alle intemperie, ma non fino al punto di rompersi. Il primo a saperlo era proprio il presidente del Consiglio, consapevole che avrebbe incontrato resistenze da parte del Cavaliere e anche di un pezzo del suo stesso partito: «Non mi faranno favori». E infatti ieri sera ha dovuto subire lo smacco della prima commissione di Palazzo Madama sulla modifica del bicameralismo, con un voto che dovrebbe garantire anche in futuro l’elezione dei senatori. Così salta uno dei capisaldi del progetto renziano. E viene messo in risalto il ruolo centrale di Forza Italia. Un compromesso che è stato raggiunto dopo una serie di telefonate tra Renzi e Berlusconi.
Ora il premier dovrà fare di necessità virtù, perché — subito il colpo — potrà comunque dire di aver incassato «il primo risultato utile». Si vedrà se sarà anche l’ultimo, siccome le urne del 25 maggio sono ormai l’orizzonte temporale con cui tutti si misurano. Il resto si capirà dopo: tanto sul processo costituente quanto sulla legge elettorale. L’Italicum verrà infatti sottoposto allo stress-test delle Europee, ed è evidente che se i sondaggi si trasformeranno in voti, finirà per essere archiviato: «Allo stato — come dice il forzista Rotondi — con quel modello si rischierebbe di far vincere Grillo. Tanto varrebbe allora tenerci il sistema proporzionale partorito dalla sentenza della Consulta. Mica possiamo mandare gambe all’aria l’Italia per fare un piacere a Renzi».
Non è dato sapere quale sarà in futuro il destino delle riforme, strumentalizzate oggi a fini di campagna elettorale. Di certo ieri Renzi ha tentato di sfruttare la materia a suo vantaggio. Dinnanzi al niet di Berlusconi ha incaricato il suo braccio destro Lotti di ricordare pubblicamente al Cavaliere che aveva «preso un impegno». Perché «io c’ero alla cena» tra il premier e il leader di Forza Italia — ha ricordato il sottosegretario a Palazzo Chigi — e in quella sede fu trovato un accordo sui temi e sui tempi della riforma. Il Cavaliere si è reso conto da tempo dell’«abbraccio mortale», che nei sondaggi sta soffocando il suo partito, e ha cercato di sottrarsi: «Se gli facciamo passare la riforma, alle elezioni vince Renzi». «Sì, ma se la riforma non passa vince Grillo», gli ha ribattuto Verdini.
Di qui il compromesso, che — grazie al voto di ieri sera sull’ordine del giorno di Calderoli — garantisce a Berlusconi un ruolo fondamentale nel processo riformatore. Il Cavaliere non ha infatti rotto, perché — come gli ha spiegato Verdini — «se lo facessimo saremmo fuori da tutto». E Renzi ha incassato il «primo risultato», perché «il partito del rinvio è stato sconfitto». Su questo punto non aveva accettato compromessi: «Non accetto dilazioni sui tempi», aveva detto ai suoi interlocutori, mentre da Palazzo Chigi seguiva i lavori del Senato insieme a Lotti e Delrio. E così è stato. «Riforme-Palude 1-0», è il suo slogan: «Pensavano di farci un’imboscata e invece l’accozzaglia porta a casa un odg che vale zero».
Il «passaggio di valico», come lo definisce Alfano, è stato superato. In attesa degli altri gran premi della montagna. Resta da capire perché il premier si è intestardito fino al punto di far esporre il ministro Boschi, che alla vigilia del voto in commissione aveva respinto il «ricatto» di Calderoli. Forse Renzi aveva avuto degli affidavit che non hanno retto. Tutto ha origine nell’arcipelago centrista, in quel voto determinante dell’ex ministro Mauro per far passare l’odg di Calderoli. Non è stato tanto un avvertimento all’inquilino di Palazzo Chigi: «Al presidente del Consiglio — come ha spiegato l’ex titolare della Difesa — ho sempre detto che avrebbe potuto contare sulla mia lealtà su tutto, ma sulle riforme ho le mie opinioni». Piuttosto quella di Mauro è stata una resa dei conti con Casini, a cui attribuisce la crisi del progetto centrista: «Ha svenduto un’area e si è messo a fare il consigliori individuale di Renzi». È iniziata la fase costituente.

La Stampa 6.5.14
“Matteo, attento a fare un referendum sul governo”
Bersani: no al presidenzialismo, da noi può favorire il populismo
di Carlo Bertini


Se qualcuno mi iscrive al partito dei gufi o dice che io voglio boicottare le riforme o mettermi di traverso, lo sfido a duello. Sarebbe un insulto sanguinoso». 
Si indigna Pierluigi Bersani, mentre corre in auto verso la prima di quindici tappe, una cena elettorale in quel di Fornacette, vicino a Pisa, dove lo attendono trecentoquaranta militanti, paganti e già seduti ai tavoli mentre altri sono in arrivo dal circondario. «Vado a fare il mio dovere, mi sono rimesso in forze e ricomincio a girare, predicando lealtà e responsabilità». 
Un linguaggio pastorale, quello di “Pigi”, come lo chiamano i “compagni”. Un linguaggio consono a chi si ritrova - per i paradossi tipici della politica - a dover tirare la volata elettorale al rivale d’un tempo che fu. Non lancia guanti di sfida al leader, ammette di marcare un certo territorio, di voler solo «rianimare le truppe» nei luoghi a lui più familiari, «quelli che hanno un sapore più popolare». Insomma l’ex segretario vuole «dare una mano alla ditta», senza lesinare le punture di spillo, ma senza remare contro in questo tour di tre settimane parallelo a quello di Renzi. I suoi consigli li dispensa in “bersanese” su un voto che «si, sarà anche un referendum sul governo, ma meglio non caricarlo troppo sul versante interno, altrimenti i voti scappano». Come scappano? «Fa bene Renzi a dire che bisogna lasciar perdere i sondaggi, neanche io credo che Grillo arriverà primo, sono sicuro che questi mesi in Parlamento non sono passati invano. E anche se mai fosse, tra arrivare primo e andare poi a votare c’è di mezzo il mare». Bersani non mette in conto un voto anticipato. Il Pd può raccogliere i frutti di un governo che «sta dando una scossa al Paese e spero che prevalga negli elettori la voglia di “andare a vedere”. Dunque non dico di occultare tutto questo ma meglio non diventi il centro della scommessa. Mettendo l’orecchio a terra, sento che non si è placato ancora il sentimento di disaffezione e rassegnazione rabbiosa». Tradotto, può ancora montare la voglia di un voto di protesta, «per dare un segnale», meglio parlare di Europa cercando di drammatizzare il significato di quegli slogan anti-euro.
E quindi anche di fronte ai più nostalgici, a quelli cui non è andato giù che la ruota abbia girato così in fretta, Bersani si trova a dire che «bisogna valorizzare tutto ciò dando una mano, affinché tutto questo crescere di aspettative abbia una sua concretezza. Ma quando Grillo dice “fuori dall’euro” la gente deve sapere che un minuto dopo si troverebbe in mano carta straccia, una svalutazione micidiale con esiti catastrofici».
In mezzo alla sua gente ritrova la carica Bersani. «Mi sento benissimo», dice e del resto la forma sembra smagliante, anche se l’operazione alla testa ha lasciato un segno coperto dall’abbronzatura delle sue passeggiate in collina, una lunga cicatrice sul capo che da sola racconta ciò che ha passato. E con i suoi si mostra combattivo su ciò che gli sta a cuore. «Con i rapporti di forza che abbiamo in Parlamento e nel Paese possiamo fare le riforme. Sul Senato si sta perdendo tempo in questioni di puntiglio, siamo a un passo dalla soluzione e bisogna fare presto e bene. L’italicum si corregge, sulle soglie di accesso, sui parlamentari nominati. Berlusconi? Non gli va lasciata l’ultima parola. Il presidenzialismo? Per la storia antica e moderna dell’Italia direi che ci espone a rischi di populismo». Viene da chiedergli, ma che fa, boicotta? «Se ogni volta che uno apre bocca lo si accusa di boicottare vuol dire che siamo passati in un altro sistema... Anzi, sul sindacato vorrei suggerire a Renzi di evitare guerre, certo ognuno fa il suo mestiere, nessuno deve avere il diritto di veto, al governo l’ultima parola. Ma un confronto risparmia errori come quelli fatti sugli esodati e se loro dicono una cosa meglio ascoltarli». E sul lavoro non lesina colpi, «perché su queste norme si sono accese troppe passioni e non produrranno miracoli, se daranno occupazione lo si vedrà dall’economia reale». Ricorda la legge rilanciata da Letta sulle ristrutturazioni edilizie per lanciare «un invito a esser più concreti, perché antiche cose possono dar più lavoro di tante novità verbali».
Quindi qualche colpetto a Renzi lo dispensa eccome, anche se vuol mostrarsi collaborativo e leale, anche se a tutti i candidati sindaco della provincia di Pisa radunati in questa ex fornace adibita a casa del popolo dice «forza ragazzi, impegno e fiducia, diamoci dentro»; anche se mentre stringe mani e la sua voce è sommersa da applausi assicura «sono fuori dai giochi e sono pronto a portare acqua al mulino. Io sto bene in panchina ma se c’è una squadra, nessuno pensi di far da solo, che non si va da nessuna parte».

Corriere 7.5.14
Un libro di David Allegranti
Vita di Matteo «The Boy»: popstar politica (modello Blair)
di Luca Mastrantonio


La storia politica di Matteo Renzi, raccontata e analizzata da David Allegranti in The Boy (Marsilio, da oggi in libreria) , è un ottimo sintetizzatore dei cambiamenti politici e culturali degli ultimi vent’anni. La traccia più calda, però, è ancora da incidere: la sua classe dirigente cambierà l’Italia?
Nel libro di Allegranti, che riporta varie fonti e diversi punti di vista, c’è un’intervista recente di prima mano con Peter Mandelson, architetto del New Labour; cioè consigliere di quel Tony Blair cui viene naturale accostare Renzi: per età, spinta modernizzatrice, bulimica inesperienza, istinto spietato. E la capacità strategica di Blair? Per Mandelson ancora non si è vista; e sottolinea: «È impossibile governare bene senza un team di primo livello (…) C’è bisogno di persone pronte a discutere, a pianificare con te e poi a eseguire fedelmente. Ti devono spronare o frenare, quando serve, devono essere il tuo megafono e il tuo moltiplicatore. Con una “one man band” si va poco lontano».
Mandelson racconta i consigli dati all’allora neo leader del Pd: aspettare, reclutare la squadra migliore, riformare il partito, mettere a punto un programma che possa reggere agli urti del Parlamento. Renzi rispose che la crisi italiana «era troppo grave per aspettare»; ma ora, conclude Mandelson, nel Pd è sotto «fuoco amico»: come quello che colpì il Labour tra i 70 e gli 80, schiantò Schröder in Germania e ora ha Hollande nel mirino, in Francia.
Allegranti ricostruisce la vicenda del «sindaco d’Italia» come un biopic, un film biografico che va dal liceo Dante di Firenze alla presa di Palazzo Chigi, tra momenti topici, retroscena e testimonianze raccolte seguendo Renzi da cronista per il Corriere Fiorentino . Mette a nudo i legami sottotraccia (con Denis Verdini), le mosse ricorrenti (parricidi e fratricidi), le costanti tattiche e psicologiche (la trasparente ambizione, la diffidenza verso i vice), le maschere del potere (il carisma pop, la leadership), le somiglianze e le differenze con Prodi, Veltroni, Grillo e Berlusconi; infine, il gruppo dei fedelissimi, il cerchio magico
(il Giglio Magico di Firenze).
The Boy è la biografia ragionata di una vera pop star della politica italiana. Allegranti, avvantaggiato da geografia e anagrafe (è nato a Firenze nel 1984) e da una vocazione laica, è come quei giornalisti musicali che hanno seguito dagli albori una band poi di successo. Che si tratti della disco-biografia di una boy band e del suo clamoroso e effimero successo (tipo Take That) o di un vero gruppo di avanguardia (i Radiohead) lo dirà il tempo.

Corriere 7.5.14
Grandi evasori, Renzi che farà?
Il video editoriale di Milena Gabanelli della puntata di Report di lunedì 5 maggio
di Milena Gabanelli

qui

Repubblica 7.5.14
F35, duello Pd-governo i deputati all’attacco “Va dimezzata la spesa”
Tensioni nel gruppo, poi la richiesta di moratoria
di Tommaso Ciriaco



ROMA. Un duro braccio di ferro sugli F-35. Uno scontro interno al Pd, ma soprattutto un duello tra il gruppo dem della Camera e il ministero della Difesa. Alla fine, dopo lungo combattere, l’ala “pacifista” segna un punto a proprio favore. E mette agli atti un documento molto critico stilato al termine dell’indagine conoscitiva sui contestati aerei militari - che prevede «una moratoria» sul programma degli F-35. Con un «obiettivo finale: dimezzare il budget finanziario originariamente previsto». L’effetto è potenzialmente deflagrante. Se davvero un voto parlamentare dovesse assumere questo impegno, infatti, l’esecutivo dovrebbe sospendere ogni contratto fino a ridurre della metà l’acquisto degli aerei.
Si tratta per un’intera giornata. A sera è convocata l’assemblea del gruppo del Pd di Montecitorio. E all’ordine del giorno c’è un testo molto duro elaborato dal deputato Gian Piero Scanu - che si scaglia senza tanti complimenti contro il contestato programma. Il documento è un dettagliato elenco di critiche agli F-35. «Ci sono molti dubbi», sintetizzano i dem. Nel Pd scatta l’allarme.
Il ministro della Difesa Roberta Pinotti incontra Scanu, partecipano al summit anche il capogruppo Roberto Speranza e Lorenzo Guerini, vicesegretario dem. Al deputato chiedono di smussare alcuni passaggi - a partire dal dimezzamento del budget - e pure le conclusioni del testo, che prevedono un «parere vincolante del Parlamento » sulle risorse da destinare al programma militare. Il gruppo parlamentare del Pd, dal canto suo, è attestato su una posizione molto dura. E Guerini non si mostra ostile. Scanu, allora, può tenere il punto. Il documento, se si escludono un paio di correzioni di poco conto, resta intatto.
A sera si riunisce il gruppo.
Speranza, che cerca fino all’ultimo una mediazione, anche in considerazione degli impegni internazionali e della posizione del Quirinale - propone di non votare il documento. «Abbiamo deciso - spiega - di assumere all’unanimità il testo come il punto di vista del Pd nella discussione che si svolgerà nelle prossime settimane assieme alle altre forze della maggioranza». Nulla è deciso, insomma.
Di certo, però, il documento rappresenta un colpo ben assestato al programma degli F-35. Pinotti, però, fa sapere che non esiste contrapposizione con il gruppo del Pd. E mette nero su bianco: «Il governo ha avviato un lavoro finalizzato alla definizione delle esigenze di sicurezza per i nostri cittadini individuando il ruolo della Difesa attraverso lo strumento del Libro Bianco». Poi aggiunge: «Ci sarà anche la rimodulazione del programma F-35, dopo che si è già deciso di risparmiare 153 milioni sui lotti non contrattualizzati. Sarà importante ogni contributo del Parlamento».
Il gruppo del Pd, però, esulta. Per Giuditta Pini «hanno perso tutti quelli che hanno cercato di sovrastare il Parlamento». Scanu, poi, è raggiante: «La Difesa o il Colle contrariati? Non credo. E comunque tutti i livelli istituzionali praticano il rispetto delle altrui competenze. Noi esercitiamo la nostra». A partire da oggi, visto che in commissione Difesa è previsto il voto su una relazione conclusiva dell’indagine conoscitiva. Ma il progetto dell’ala “pacifista” è utilizzare il documento targato dem come base per una risoluzione da far votare in Parlamento.
Tutti osservano la partita interna al Pd. Giulio Marcon, deputato “pacifista” di Sel, giudica il testo Scanu un «passo avanti significativo». «La Pinotti ne esce male - sottolinea - Sel, in ogni caso, è per la cancellazione del programma, anche se mi rendo conto che quella del Pd è una mediazione con il Colle e le Forze armate». La strada per dimezzare il contestato programma, in ogni caso, resta ancora molto lunga.

il Fatto 7.5.14
F-35, i Dem spaccati si contano sui tagli
Oggi la commissione difesa della Camera si esprime sul testo del deputato Pd Scanu che prevede il dimezzamento
Contrari il Quirinale e gli Stati Uniti
di Daniele Martini


La partita degli F 35 è come un derby, si gioca tutta all’interno del Pd. È quasi un anno che lo scontro diretto sul campo è rinviato, ora, però, ci siamo e ogni fumisteria dilatoria lascia il posto ad un voto, anzi, a un doppio voto: ieri notte tra i piddini del gruppo alla Camera e oggi con gli altri partiti in commissione Difesa, dove però il Pd ha quasi la maggioranza assoluta, 20 deputati su 42. I due schieramenti contrapposti cominciarono a emergere nell’estate del 2013. Il Pd in commissione Difesa guidato dal deputato sardo Gian Piero Scanu approvò un documento che sottometteva la decisione finale sugli F 35 all’elaborazione di una sorta di libro bianco che indicasse le necessità delle 3 armi. Strada facendo quel testo è diventato la linea di confine dello scontro.
DA UNA PARTE ci sono i favorevoli all'acquisto di tutti i 90 cacciabombardieri rimasti dopo un primo taglio di 41. Da questi piddini un ripensamento sugli F 35 è considerato una sorta di tradimento degli Usa che del resto non fanno neanche finta di non voler interferire sulle scelte italiane e anche tramite il loro ambasciatore a Roma, John Phillips, sono tornati due giorni fa a “consigliare” al nostro governo di non indulgere in quelli che giudicherebbero voltafaccia (“L’Italia vada avanti”). Questa parte del Pd non attribuisce un grande valore politico al “documento Scanu”, anzi. Ritiene che prima di tutto ci siano gli impegni internazionali assunti dal nostro paese e i contratti vincolanti che sarebbero stati già stipulati con il governo americano e l'azienda produttrice, la Lockheed Martin. Il condizionale è necessario in quanto quegli atti nessun comune mortale li ha mai potuti vedere e, se esistono, finora sono stati coperti da un segreto impenetrabile. Lo schieramento pro F 35 è composito, ma molto forte. Il suo rappresentante più alto in rango è il capo dello Stato, contrario al “documento Scanu” fin dalla sua approvazione sulla base del convincimento che le scelte per l'acquisto di armi spettano non al Parlamento, come è previsto da una legge di riforma approvata un anno e mezzo fa, ma al Consiglio supremo di Difesa composto da ministri e capi di stato maggiore e di cui lo stesso Giorgio Napolitano è il capo. Altro esponente di peso di questa fazione è la ministra della Difesa, Roberta Pinotti, torinese, indicata per quell’incarico a Renzi dallo stesso presidente della Repubblica. Fa poi parte dello squadrone pro F 35 Massimo D’Alema che dette il suo placet politico all'operazione dei cacciabombardieri nei momenti in cui stava prendendo forma e cioè alla fine degli anni Novanta, periodo in cui lo stesso D’Alema fu capo del governo.
DALL’ALTRA PARTEdella barricata ci sono i piddini che considerano i cacciabombardieri americani come il fumo negli occhi, una spesa sostanzialmente inutile, forse addirittura dannosa in quanto in contrasto con l’altro ordine di acquisto di 96 cacciabombardieri Eurofighter di produzione europea. Non avendo però né il coraggio né la forza di opporsi fino in fondo, propongono non la cancellazione dell’ordine degli F 35, ma una significativa riduzione di esso, un dimezzamento da 90 a 45, illudendosi di poter trovare su questa base un terreno di mediazione con l'altra fazione, o almeno con deputati come Roberto Giachetti che si pongono l’obiettivo della riduzione della spese militari. E di strappare anche l’appoggio di Sel e forse addirittura quello del Movimento 5 Stelle. Nonostante i grillini anche a proposito degli F 35 non siano per le mezze misure, ma per la rinuncia ad ogni acquisto. In serata, la ministra Pinotti: “Ci sarà una rimodulazione degli F35, attraverso il Libro bianco”.

il Fatto 7.5.14
La Camera s’appresta a votare  le conclusioni di un’indagine conoscitiva sul Ssn
“Sulla Sanità non si può tagliare”
di Marco Palombi


Per ora il fondo di finanziamento del Servizio sanitario nazionale (Ssn) s’è salvato: il Tesoro voleva tagliarlo per coprire il bonus da 80 euro, ma Matteo Renzi non ne ha voluto sapere a poche settimane dalle sue prime elezioni da premier. Solo per ora, però, visto che nella legge di Stabilità la mannaia arriverà eccome: il ministro Beatrice Lorenzin ha già detto che nel triennio l’obiettivo è risparmiare quasi 11 miliardi, vale a dire un terzo dell’obiettivo assegnato a Carlo Cottarelli con la spending review (32 miliardi entro il 2016).
C’è un problema, però: come certificano le conclusioni di un’indagine conoscitiva del Parlamento sulla sostenibilità finanziaria del Ssn, il settore della sanità non può reggere ulteriori tagli, specialmente se lineari. Il testo - che Il Fatto Quotidiano ha potuto leggere in bozza (è in via d’approvazione da parte delle commissioni Bilancio e Affari sociali della Camera) - è pieno di numeri che certificano lo stato di prostrazione del Servizio sanitario: sarà divertente vedere come, dopo aver votato un testo che chiede semmai ulteriori fondi per la salute, il Parlamento si troverà a dover approvare una manovra di tagli da 10 miliardi in tre anni. Lo stesso ex ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, in audizione parlamentare, ha chiarito che “il risanamento avviato finora è avvenuto con tagli lineari, per i quali però ora non vi sono più margini”. Notevole che l’obiettivo di Lorenzin sarebbe enorme anche recuperando l’intero stock di spesa considerato inquinato dalla corruzione: 5-6 miliardi di euro.
I SOLDI. Secondo Istat, la spesa sanitaria pubblica si situa nel 2013 su un valore di circa 110 miliardi di euro, pari al 7,1% del Pil. La percentuale sale al 9,2% se si aggiunge anche la spesa sanitaria privata, che l’anno scorso ammontava all’ingrosso a 30 miliardi. Come si può vedere anche dalla tabella qui accanto (e i dati sono del 2011, prima dei tagli più consistenti), l’Italia spende meno della media Ue a 15 (10%), meno di quella Ocse (9,5%), meno di paesi paragonabili. Non solo: l’incidenza sul Pil è già prevista in calo nei prossimi anni - e senza i tagli di Cottarelli - fino al 6,7% del 2017. In queste condizioni, si legge in un passaggio della relazione, “l’obiettivo costituzionalmente garantito (quello alla salute sancito dall’articolo 32, ndr) è ora rimesso in discussione”, visto che “il nostro sistema ha meno risorse effettive e non riconosce alcun aumento dei bisogni” (che pure c’è per il semplice motivo che l’età media continua ad aumentare).
I TAGLI. Le regioni, che gestiscono la spesa sanitaria, hanno lamentato che la riduzione dei trasferimenti per il periodo 2011-2015 ammonta a circa 31 miliardi e 553 milioni di euro, la ministro Lorenzin ha provato a replicare parlando di “tagli veri” per 23 miliardi. La Corte dei Conti, però, ha dato ragione ai governatori: “Oltre 31 miliardi”. Di più: aver scelto i tagli lineare ha finito per “penalizzare le realtà più virtuose”, cioè quelle che già spendevano poco e si sono ritrovati a non poter tagliare “il grasso”, ma i servizi ai cittadini. Già ora, per dire, l’obiettivo è ridurre ulteriormente i posti letto di 20 mila unità, settemila delle quali nel Ssn: alla fine saremo “uno dei paesi europei col più basso numero di posti letto per abitante”. “Certo vanno rimossi i vecchi sprechi, ma la sfida è più complessa - scrivono i deputati nelle loro conclusioni -. La riorganizzazione richiede tempo se non vogliamo i letti non nei corridoi, ma per strada”. Anche i ticket non hanno funzionato per ri-orientare la spesa: l’hanno solo fatta confluire sul privato.
IL PERSONALE. Anche chi lavora nel Servizio sanitario ha subìto l’andazzo dei tagli: il blocco del turnover ha causato un progressivo invecchiamento degli addetti, soprattutto i medici, in una professione che - specie negli ospedali - è davvero usurante. Se si guarda ai numeri totali, invece, bisogna fare una distinzione: l’Italia ha 3,7 medici ogni mille abitanti, in linea con la media Ue, mentre il rapporto medici-infermieri è solo di 1,4 contro il 3,2 del resto d’Europa. Pure dal lato del monte stipendi si notano le politiche di austerity (il blocco dei contratti della P.A. influisce pure sul comparto): nel 2008 la spesa era di 38,3 miliardi complessivi, oggi siamo vicini ai 36.
GLI ACQUISTI. Particolarmente divertente è la vicenda della spesa in beni e servizi. Al netto dei farmaci ospedalieri, questa categoria per l’intero comparto pesa per circa 21 miliardi l’anno: le manovre da Monti a Letta hanno previsto tagli lineari per 3,8 miliardi entro quest’anno, circa il 18% del totale, compresi i contratti in essere (col relativo contenzioso quasi sempre favorevole alle imprese). Raggiungere l’obiettivo però - si legge nella bozza di conclusioni dell’indagine parlamentare, “non è stato possibile e non era possibile” e “il taglio si è tradotto in riduzione del finanziamento al sistema e quindi in riduzione dei servizi sanitari”. Curioso che proprio a un taglio lineare degli acquisti di beni e servizi sia ricorso Matteo Renzi per coprire parte del suo sconto Irpef: risparmiare 700 milioni, ad esempio, tocca pure alle regioni, i cui bilanci per l’80% sono costituiti proprio dalla spesa sanitaria. È lì che dovranno fare la maggior parte dei tagli e anche stavolta, come sempre, intervenendo sui contratti in essere: il buco, però, potremo scoprirlo solo a consuntivo e verrà coperto con nuovi tagli ai servizi. Al solito.
L’INNOVAZIONE. Parola alle conclusioni dei deputati: “Senza innovazione, un moderno sistema sanitario non solo non è in grado di garantire i nuovi diritti di salute della popolazione, ma perde quotidianamente qualità nel garantire i diritti che appaiono già consolidati”. Insomma servono soldi: “Un servizio sanitario che rinunci all'innovazione è destinato a diventare un servizio sanitario residuale, in quanto l'universalismo deve contenere al suo interno la parte più debole e la parte più forte della popolazione, laddove, se un sistema sanitario non sa introiettare l’innovazione , la parte più forte è la prima a uscire dal sistema, e a quel punto l’impoverimento della qualità vale per tutti.

il Fatto 7.5.14
Le slide di Marchionne è il renzismo di Fiat
13 maxi annunci. Il Lingotto ne ha presentati ben 8 in 9 anni
Ma di nuove vetture e investimenti se ne sono visti pochi
di Salvatore Cannavò


Che tra Sergio Marchionne e Matteo Renzi ci sia un feeling lo si capisce dal modo in cui lanciano programmi e progetti. Ieri, a Detroit, l'amministratore della nuova Fiat, la Fca, che da oggi vedrà il nuovo marchio apposto sugli stabilimenti del gruppo, ha presentato la propria “road map”. Giorno delle grandi occasioni, tutti i manager schierati, i capi “brand” chiamati a definire le strategie di ogni singolo marchio per una kermesse iniziata alle 15 ora italiana e ancora in corso mentre scriviamo. Tante slide, investimenti miliardari, modelli che si sovrappongono ad altri, stime di vendita eccezionali da qui al 2018. La strategia ruota attorno a una operazione di immagine che rilancia il glorioso marchio Alfa per cui si spenderanno 5 miliardi di euro in quattro anni con nuovi otto modelli e un obiettivo di vendita di 400 mila vetture nel 2018, il quintuplo di oggi. Ma, a sfornare utili per l'azienda e a trainare le previsioni di vendita, sarà il marchio Jeep la cui produzione dovrà più che raddoppiare e che rappresenterà la metà delle maggiori auto prodotte. Il marchio Fiat, invece, sarà su piazza con una serie di modelli la maggior parte dei quali ancora non precisati. L'Europa, poi, resta la ruota di scorta con una previsione di vendite importante in paesi come Asia e America latina. In serata è stato Richard Palmer, il direttore finanziario del gruppo, ha fare i conti sugli investimenti: 55 miliardi dal 2014 al 2018. E prevede ben 132 miliardi di utili. Cifre da capogiro anche per le vendite: 7 milioni di auto, a livello globale, nel 2018.
“OGGI è il primo giorno di una nuova vita per Fiat Chrysler Automobiles - ha detto Marchionne - Non apriamo un nuovo capitolo, cominciamo a scrivere un nuovo libro”. Nel “libro” sono contabilizzate sei milioni di vetture prodotte nel 2018, una quota che permetterebbe alla Fca di essere tra le prime 6 o 7 case mondiali. Lo stesso obiettivo, però, era stato annunciato già nel 2010 e doveva essere raggiunto nel 2014. Quel progetto si chiamava “Fabbrica Italia” e si è concluso con meno di 4 milioni di auto prodotte, compresi i veicoli industriali, e con un terzo della forza lavoro italiana in cassa integrazione. Ora si ricomincia e non c'è che da sperare in una riuscita positiva.
Nella quantità di diapositive e immagini presentate a stampa, analisti e sindacati – presente una delegazione italiana ma soprattutto il “capo” del sindacato Usa, Bob King – spicca, per storia e immaginario, il rilancio dell'Alfa Romeo. Il marchio del biscione lancerà 8 nuovi modelli fra il quarto trimestre 2015 e il 2018. Gli investimenti sono stimati in 5 miliardi di euro. Il responsabile del marchio, Harald Wester, ha stimato in 400 mila le vetture vendute nel 2018 a fronte delle 74 mila delle del 2013. L'unica cosa chiara, però, è che nel quarto trimestre 2015 ci sarà il lancio di una vettura del segmento medio mentre tra il 2016 e il 2018 seguiranno: due compatte, un'altra media, un'ammiraglia, due Suv e una “specialty”. Obiettivo: “Tornare alle nostre radici”.
PER QUANTO riguarda la Fiat, l'obiettivo di vendita nel 2018 è di 1,9 milioni nel mondo dal-l'1,5 attuale. Come? Raddoppiando le vendite nell'area nordamericana (Nafta) dalle 50 mila odierne, incrementando quelle asiatiche da 70 a 300 mila stimando come stabili quelle in Europa, Medio Oriente e Africa (area Emea) a 700 mila. Aumento previsto, invece, in America latina da 700 a 800 mila: “L'obiettivo è uno, rimanere al top in Brasile”, ha detto l’ad. Il balzo della Fiat dovrebbe essere garantito da otto nuovi modelli, sempre fra il 2014 e il 2018: una 500X (una sorta di grande Suv), una berlina compatta e un'altra “Specialty” non precisata. Poi, dal 2016, una compatta due volumi, una station wagon compatta e una vettura di segmento B. Nel 2017 uscirà una Cuv (Cross utility vehicle) mentre nel 2018 ci sarà una nuova Panda. Sei nuovi modelli, invece, per Maserati: la coupé Alfieri, il suv Levante, le berline Ghibli e Quattroporte, l'Alfieri Cabrio e una nuova Granturismo. Vendite moltiplicate per cinque, da 15 a 75 mila e ricavi a oltre 6 miliardi di euro contro gli 1,7 miliardi del 2013. Nel marchio di pregio Marchionne ha ribadito che “la Ferrari non si vende” anche se vale circa 4,5 miliardi. Ci sarà un tetto ai volumi delle auto prodotte a 7 mila vetture l'anno per mantenere l'esclusività del marchio. Infine, la strategia Jeep, quella cruciale. L'obiettivo è 1,9 milioni di vetture rispetto alle 730 mila del 2013. In totale gli stabilimenti passeranno da 4 a 10 e saranno collocati in sei paesi tra cui l'Italia con Melfi che ne produrrà 200 mila l'anno. La Jeep è pensata per l'America latina (+50%) e l'Asia-Pacifico (+45%) ma anche Europa (+35%) e Nafta (+10%). Il marchio Chrysler, invece, passerà dalle 350 mila vetture del 2013 a 800 mila nel 2018.
Soddisfatta la Fim-Cisl che vede consolidate le prospettive degli stabilimenti italiani: Mirafiori e Grugliasco, con la Maserati, Cassino con l'Alfa e Melfi con la Jeep: “Grazie agli accordi – dice il segretario Beppe Farina – oggi si parla di futuro”. Lo fece anche Fabbrica Italia.

l’Unità 7.5.14
Europee
Tsipras: «Il plauso di Merkel agli 80 euro di Renzi»


Secondo Alexis Tsipras, intervistato dall’Huffinghton Post, anche misure come quella degli80euro che Renzi rimette nelle buste paga dei dipendenti hanno «la firma di Angela Merkel». Il leader del partito della sinistra greca, a capo anche in Italia della lista «L’altra Europa per Tsipras» ne è convinto: «Non esistono singole misure di sinistra. Sono una goccia nel mare, nell’oceano dell’ austerità di trentaquattro miliardi di euro, annunciata dal governo Renzi per i prossimi tre anni. Una politica che, tra l’altro, ha ricevuto il plauso di Angela Merkel», ha detto al giornale online. E prevede che «il vostro presidente del Consiglio constaterà presto che l’aumento impressionante del rapporto tra il debito pubblico e il Pil greco - a causa dell’ austerità- non è un fenomeno isolato. L’accumularsi dei prestiti non si risolve con l’austerità, ma con una vera ristrutturazione del debito». E rilancia un nuovo «Vertice Europeo per il Debito» come quello che si tenne a Londra nel 1953, a favore della Germania.
La lista Tsipras in Italia lamenta di essere snobbata dai media. Lunedì hanno fatto un sit in a Viale Mazzini (ieri comunque il leader greco era a Ballarò), la responsabile comunicazione ha messo a segno la provocazione, mettendo una foto in bikini su Facebook e facendo così scoppiare il caso e parlare della Lista.
In Grecia Tsipras è quasi sicuro che il suo partito di sinistra, Syriza, sarà il primo (nei sondaggi è dato al 21,5%), in Italia L’Altra Europa faticherà a superare la soglia del 4 per cento. Tsipras non si riconosce negli «euroscettici» ma combatte la politica della sola austerità. «È ovvio che la Merkel è contenta di avere come avversario Beppe Grillo e nonla Sinistra Europea», dice nell’intervista, «perché Grillo è un avversario politico molto più semplice da affrontare». Il concetto è: «L’austerità non si deve identificare con l’Euro» e l’Euro «della signora Merkel non è una strada a senso unico». Il leader della sinistra greca, comunque, chiuderà in Italia la campagna elettorale.

l’Unità 7.5.14
Eutanasia, subito un’indagine conoscitiva
di Maria Antonietta Farina Coscioni


ALLA COMMISSIONE PARLAMENTARE STRAORDINARIA PER LA TUTELA E LA PROMOZIONE DEI DIRITTI UMANI NON MANCHERÀ CERTO IL LAVORO, la materia è ampia e vi può legittimamente rientrare di tutto. Il suo presidente, il senatore Luigi Manconi è poi particolarmente sensibile e attivo, e dunque ci si può e deve attendere positive sorprese e risultati nelle prossime settimane. Il lavoro della commissione, spazia dalle questioni relative agli immigrati ai portatori di handicap, gli anziani, i detenuti, i bambini costretti a vivere e crescere in carcere, le vittime di quelle torture che ancora non possono essere punite perché la legge non le considera reato... insomma, un terreno di lavoro enorme, oltre che impegnativo.
Al presidente Manconi, già così pesantemente impegnato, vorrei suggerire un ulteriore fronte di lavoro. Una delle questioni urgenti che attendono soluzione e non possono più essere eluse come finora si è fatto, è quella dell’eutanasia; questione senza dubbio delicata: le ragioni di chi è favorevole, al pari di quelle di chi è contrario, meritano entrambe rispetto, ma vanno conosciute, dibattute, messe a confronto. I sondaggi e le ricerche demoscopiche al riguardo sono unanimi: la maggioranza degli italiani ritiene che a un certo punto della vita ognuno di noi abbia il diritto di poter disporre di sé, di stabilire se la soglia del dolore e della sofferenza sia un prezzo troppo alto da pagare e se non sia più misericordioso andarsene con dignità. E del resto la cronaca non manca di portare alla nostra attenzione casi che dovrebbero far riflettere: Mario Monicelli, Lucio Magri, Carlo Lizzani.
In una passata legislatura noi radicali abbiamo chiesto alla politica di occuparsi di questo fondamentale tema chiedendo di procedere con una indagine parlamentare conoscitiva. Una richiesta che non implicava altro che raccogliere dati e informazioni per sapere lo stato delle cose, per esempio le dimensioni dell'eutanasia clandestina che viene praticata in un po' tutti gli ospedali, come ammettono medici ed infermieri se si garantisce loro l'anonimato. Richiesta negata, e si capisce: si ha paura di conoscere la realtà dei fatti. Così come si sono lasciati cadere nel nulla gli autorevoli appelli del presidente della Repubblica Napolitano che in più occasioni ha chiesto si avviasse una riflessione su questo tema.
Noi radicali chiediamo solo che il tema venga discusso, che le dimensioni del fenomeno indagate e conosciute. Di qui l'appello che rivolgo al presidente Manconi. Lui e la sua commissione possono almeno avviare un'indagine conoscitiva sul fenomeno: raccogliere elementi e informazioni, pareri di esperti e di studiosi, le soluzioni che altri paesi si sono dati sul fine vita, perché da tutto ciò possa poi nascere un dibattito che non sia una sterile contrapposizione tra le parti, ma un confronto positivo che consenta al. cittadino di potersi formare un'opinione. Non c’è motivo per ostacolare ulteriormente anche in Parlamento un dibattito e un confronto che si affermano sempre più nel Paese. L’invito, esplicito, che rivolgo al presidente Manconi è di farsi, attraverso la commissione che presiede, protagonista e interprete di questa istanza che volenti o nolenti riguarda tutti noi. Luigi, ci stai, ci provi?

La Stampa 7.5.14
Università, assunzioni sospette
Inchiesta sui “baroni” , da Bari lo scandalo si allarga a tutt’Italia
Chiuso il filone pugliese, sono 38 i docenti indagati
di Flavia Amabile

qui

Corriere 7.5.14
Copia all’esame per diventare professore universitario
Protagonista Dario Tomasello, figlio di un ex rettore: «Accusa infamante»
Avrebbe assemblato i brani tratti da tre libri di un critico letterario
di Andrea Galli

qui

Corriere 7.5.14
La nuova emigrazione? Sparita una città come Palermo
di Sergio Rizzo


ROMA — Che si possa dare la colpa al peggioramento della qualità della vita nelle metropoli, è scontato. Ma lo spopolamento delle più grandi città del Sud che ha denunciato qualche giorno fa la Svimez è sintomo di un malessere più radicato e profondo del degrado urbano. Fra il 2001 e il 2011 l’emigrazione dalle Regioni meridionali ha ripreso a marciare a un ritmo di oltre 50 mila persone l’anno. Se ne sono andati in 523.726 (poco meno di una città come Palermo che ne conta 650 mila), ed è come se si fossero trasferiti tutto al Centro Nord, dove infatti ne sono arrivati 522.549. Nella sola provincia di Napoli si è avuto un saldo migratorio, come differenza fra le partenze e gli arrivi, negativo per ben 96.687 unità. A differenza però di quanto avveniva negli anni Cinquanta e Sessanta, con gli emigranti che partivano dalle campagne e dai paesi per cercare lavoro nelle industrie settentrionali,, adesso vanno via soprattutto dalle città. Il comune di Napoli ha perduto 42.497 abitanti, scendendo sotto il milione; Palermo, invece, 29.161. Per entrambe le più grandi città del Mezzogiorno il calo è stato del 4,2%. Ancora niente, al confronto di quelle che è successo in tutto il Sud. Dice la Svimez che i comuni meridionali con più di 150 mila abitanti hanno subito nel decennio una flessione di 421.096 residenti. Il 12,9%del totale. Al contrario, i centri di classe dimensionale analoga del Centro Nord hanno registrato un aumento del 6,8%: se la città di Milano ha mostrato un calo di 14.088 persone, a tutto vantaggio dell’hinterland, la popolazione di Roma è aumentata invece di 70.371 unità.
L’associazione presieduta da Adriano Giannola avverte che di questo passo nel 2050 gli abitanti del Mezzogiorno scenderanno a poco più di 18 milioni contro i 20,9 di oggi. Ed è indiscutibile il nesso fra la massiccia ondata migratoria e l’assenza di lavoro. Fra il 2001 e il 2013 il tasso di occupazione è sceso al Sud dal 43,1 al 42% ed è salito al Centro Nord dal 61 al 62,9%. A Napoli siamo al 36,7 per cento, contro il 38 di dodici anni prima. E sta appena meglio Palermo, con il 37,4%. Parliamo di un livello inferiore a tutte le più povere ripartizioni dell’Unione Europea: dalla Guyana francese a Melilla, enclave spagnola in Marocco. Per i giovani di età compresa fra i 15 e i 34 anni, poi, la situazione è ancora più spaventosa. Il tasso di occupazione a Napoli è sceso dal 30,2% del 2001 al 22,5%del 2013. Ormai nel capoluogo campano lavora (ufficialmente, s’intende) appena un giovane su 4,4. A Palermo, uno ogni 4,2. A Bari, uno ogni 3. In tutto il Sud il tasso di occupazione giovanile è precipitato dal 2001 27,6%, a fronte di un già miserrimo 40,2% dell’intera Italia.
Di conseguenza non può essere un caso se nel periodo compreso fra il 2000 e il 2012 il tasso di emigrazione dei meridionali laureati è cresciuto dal 10,7 al 25%. All’inizio degli anni Duemila faceva le valigie uno su dieci: oggi uno su quattro. Dal 1990 al 2012 hanno lasciato le Regioni meridionali 172 mila giovani con la laurea in tasca. Tutti diretti al Centro Nord o all’estero. Fuggono, per non voltarsi indietro. E quelli che poi ritornano si contano sulle dita di una mano.

La Stampa 7.5.14
Galilea, in migliaia per il Nakba Day
Si sono dati appuntamento presso le rovine del villaggio di Lubya per manifestare contro le celebrazioni dell’anniversario della nascita di Israele
di Maurizio Molinari

qui

SCHEDA

l’Unità 7.5.14
Ahmad Jarba
Il leader del cartello dell’opposizione: «Una provocazione chiamare alle urne
il Paese che lui stesso ha ridotto in macerie»
«Assad candidato in Siria, è solo una tragica farsa»
intervista di Umberto De Giovannangeli


«Una farsa. Una tragica farsa, messa in scena da un dittatore che ha trasformato la Siria in un Paese di sfollati. Ora questo stesso dittatore vuole darsi una patina di legittimazione organizzando sulle macerie del Paese elezioni truffa. Quella di Bashar al-Assad è l’ennesima sfida lanciata al popolo siriano e alla comunità internazionale. Dopo oltre tre anni di guerra, in Siria non esiste oggi un corpo elettorale in grado di esercitare il suo diritto di voto. Il 3 giugno sarà un giorno di lutto nazionale per il mio Paese».
A sostenerlo è Ahmad Jarba, il leader della Coalizione nazionale siriana (Cns), il cartello più rappresentativo delle forze di opposizione al regime di Bashar al-Assad. Jarba accusa anche le forze del regime di essere colluse con i gruppi più radicali e sanguinari jihadisti, come l’Isis, che operano in Siria: «Ad Assad - dice Jarba a l’Unità - fa gioco presentarsi al mondo come l’unico argine alla barbarie jihadista. Quei gruppi sono parte attiva in questo gioco, e non è un caso che l’esercito di Assad non abbia riservato loro quell’attenzione che invece concentra sull’Esercito libero siriano (legato alla Cns, ndr). Quella di Assad è una scelta politica prima che militare».
Il 3giugno il governo siriano ha indetto le elezioni presidenziali, alle quali è candidato Bashar al-Assad. Per il governo è il segno di un ritorno alla normalità. E per l’opposizione di cui lei è leader?
«È l’ennesima provocazione di un dittatore senza scrupoli. Assad ha ridotto in macerie la Siria e su queste macerie vorrebbe ora orchestrare elezioni-farsa. Come si può parlare di libere elezioni in un Paese che conta oltre 5 milioni tra sfollati e rifugiati, segnato da una guerra che ha provocato oltre 140mila morti e decine di migliaia di desaparecidos, con le carceri piene di oppositori e altri costretti all’esilio. Questa è la “normalità” per Bashar al-Assad. Questa è la sua risposta al protocollo di Ginevra che indicava una road map per la riconciliazione nazionale che passasse per l’uscita di scena del dittatore. Ora è ancor più chiaro chi ha boicottato “Ginevra1” e “Ginevra2”: il regime non aveva alcuna intenzione di concordare tempi e modi di una transizione condivisa, che per essere tale non poteva prevedere un ruolo da protagonista di colui che si è macchiato di gravi e accertati crimini contro l’umanità. Quella lanciata da Assad e dal suo clan non è solo una sfida al popolo siriano, è anche una sfida al mondo libero, alla comunità internazionale».
C’è chi sostiene che l’opposizione ha paura delle urne.
«Nessuna paura. Siamo i primi a volere elezioni davvero libere, garantite da osservatori internazionali. Ma ciò non è possibile oggi in Siria. Non esistono le condizioni minime per un confronto democratico. Interi villaggi sono stati rasi al suolo, milioni di siriani sono stati costretti ad abbandonare le loro case, oggi in Siria non esiste un corpo elettorale in grado di esercitare il proprio diritto di voto. Quelle volute da Assad non sono elezioni truccate, sono qualcosa di peggio: sono elezioni insanguinate. Ma se Assad ha lanciato questa sfida è anche perché queste elezioni farsa sono il risultato del silenzio del mondo verso i massacri quotidiani compiuti dal regime con l’uso di armi chimiche e di “barrel bombs” (barili di petrolio imbottiti di esplosivo, granate, chiodi, lanciati dagli elicotteri, ndr) che hanno provocato la morte di centinaia di bambini e di donne. Un dittatore impunito si sente pronto a nuove provocazioni, con il sostegno attivo, finanziario e militare, dell’Iran, e politico da parte della Russia. Senza questo sostegno, il clan Assad sarebbe crollato da tempo».
Lei è impegnato in una serie di incontri internazionali nelle capitali dei Paesi più direttamente impegnati nella crisi siriana, in particolare Mosca e Washington. Recentemente è stato anche a Bruxelles, per incontri con la dirigenza dell’Unione Europea. Chiedete solo un sostegno politico?
«Non solo questo. Chiediamo anche armi, non un intervento militare diretto. Abbiamo bisogno di armi specifiche per abbattere gli aerei del regime. Quando le forze aeree di Assad saranno neutralizzate la situazione cambierà ed evolverà. Non da oggi sono convinto che la soluzione alla tragedia siriana sia politica e non militare. Ma di fronte a un regime che conosce e pratica solo il linguaggio della forza, un riequilibrio dei rapporti sul campo è condizione imprescindibile per un vero negoziato politico».
Persone crocifisse. Esecuzioni sommarie di prigionieri filmate e trasmesse su Youtube. Sono le imprese dei gruppi jihadisti presenti in Siria che hanno inorridito il mondo.
«Chi si macchia di quei crimini atroci è nemico del popolo siriano e fa il gioco del regime, con cui alcuni di questi gruppi sono collusi. Nella nuova Siria che vogliamo costruire non c’è spazio per questi barbari. Siamo i primi a combatterli. Ma la presenza di questi gruppi è il portato della scelta compiuta tre anni fa da Assad: reprimere nel sangue la rivolta di un popolo che chiedeva, in sintonia con le altre “Primavere arabe” libertà, giustizia, libere elezioni. Se allora si fosse scelta un’altra strada, se si fosse dato ascolto a quelle istanze che provenivano dal basso, dalla società civile, non saremo oggi a piangere un Paese martirizzato. Chi allora scelse il pugno di ferro è conosciuto al mondo: Badshar al-Assad».

il Fatto 7.5.14
Assalti all’arma bianca. In Cina terrorismo fa-da-te
Ennesimo attacco a una stazione ferroviaria
Il regime accusa l’etnia musulmana degli uiguri della regione orientale dello Xinjiang
di Cecilia Attanasio Ghezzi


È il terzo attacco a una grande stazione ferroviaria in poco più di due mesi. Intorno alle 11 di ieri mattina, almeno 4 uomini armati di lunghi coltelli hanno ferito 6 passanti. Questa volta la stazione è quella di Canton, megalopoli da 13 milioni di abitanti della Cina meridionale. Secondo alcuni testimoni, gli assalitori vestivano con un copricapo e una maglietta bianca. Uno di loro sarebbe stato ferito e arrestato, i complici sarebbero scappati. L'incidente avviene a meno di una settimana da quello che forse è il primo attentato suicida che la Cina ricordi. Il 30 aprile due uomini si sono fatti esplodere nella stazione di Urumqi, capitale della regione autonoma dello Xinjiang. Ci sono stati 3 morti e 79 feriti. Era l'ultimo giorno della visita del presidente Xi Jinping e, di fatto, è stata la dimostrazione che la crescita a due cifre che la regione ha registrato negli ultimi anni non è servita a mitigare le tensioni etniche.
Seppure ancora non sono chiari i moventi e non si conoscono eventuali rivendicazioni, le modalità dell'attacco hanno ricordato il cosiddetto “11 settembre cinese”. Il 1° marzo, una decina di attentatori armati di coltelli ha ucciso a sangue freddo 29 persone e ne ha ferito 143, nella stazione di Kunming, altra metropoli meridionale. Anche quell'attacco non fu rivendicato, ma la polizia e i media di stato affermarono quasi immediatamente che era stato “pianificato e organizzato dalle forze separatiste dello Xinjiang”.
NEL GIRO DI DUE GIORNI le forze dell'ordine avrebbero arrestato tutti gli attentatori e dato diffuso l’identità del capo dell'operazione: Abdurehim Kurban. Poi non se ne è saputo più nulla, ma l'attentato è stato così ricondotto alla minoranza turcofona e di religione islamica degli uiguri, la popolazione indoeuropea che abita la regione nordoccidentale dello Xinjiang. Loro lamentano che le tradizioni locali vengono osteggiate e soppresse dalla popolazione han, etnia dominante in Cina, che di fatto occupa anche i punti chiavi dell'amministrazione della regione. Pechino a sua volta denuncia che gli uiguri starebbero organizzando un movimento indipendentista, che è stato anche collegato ad al Qaeda. Pechino è convinta che gruppi organizzati di milizie uigure siano indottrinati e addestrati in Afghanistan.
Intanto gli uiguri, che fino agli anni ‘80 costituivano oltre l'80% della popolazione dello Xinjiang, sono scesi a meno del 45%. La chiamano “sommersione etnica” ed è la politica di Pechino per favorire l’“integrazione” di aree a forte velleità indipendentista. Lo Xinjiang - regione ricca di gas, petrolio e carbone - è destinato a soddisfare la sete di energia del paese. Ma nel frattempo è dilaniato da una guerra civile a bassa intensità. Solo nel 2013 – e solo per gli incidenti noti – si sono superati i cento morti. Gli scontri sono spesso scaturiti da provocazioni o abusi di funzionari locali.
Le informazioni sono rare e incomplete e la tensione sociale sale assieme all'indignazione popolare. Lo scorso 29 ottobre una famiglia uigura si è fatta esplodere con un’auto a piazza Tian'anmen, proprio sotto il ritratto di Mao. L'incidente ha fatto il giro del mondo ma il movente rimane ignoto. Sembrerebbe che la famiglia avesse investito tutti i suoi risparmi nella costruzione di una moschea per il villaggio natale, poi distrutta dalle forze dell'ordine cinesi. Xi Jinping aveva chiesto ai funzionari locali di fare in modo che “i terroristi diventino come i ratti che scappano per le le strade mentre tutti urlano: ammazzateli!”. È chiaro che ormai la strategia è quella di portare il conflitto fuori dallo Xinjiang. E pare che “i ratti” siano più imprevedibili di quanto si pensasse.

Repubblica 7.5.14
Cina, arrestati i “ragazzi di Tiananmen”
di Giampaolo Visetti


PECHINO. Venticinque anni dopo, lo spettro della strage di piazza Tiananmen continua ad agitare il sonno del potere cinese. Ufficialmente nella notte fra il 3 e il 4 giugno 1989, al termine della “Primavera di Pechino”, alcuni «facinorosi furono sgomberati per garantire l’ordine pubblico». Fuori dalla Cina, il mondo ricorda invece centinaia di studenti massacrati dall’esercito dopo che dal 22 aprile avevano invaso il centro della capitale per chiedere riforme democratiche. Il partito-Stato non ha mai ammesso le violenze, il numero delle vittime rimane ignoto, ma ogni anniversario innesca nel Paese misure di sicurezza straordinarie e repressioni, senza che le autorità possano spiegare perché.
La ricorrenza del quarto di secolo di una data ad altissima sensibilità politica manda già in fibrillazione la leadership rossa. Da giorni, dissidenti, attivisti per i diritti umani e sopravvissuti alle cariche dell’89 vengono fermati, arrestati, posti sotto controllo, o deportati in luoghi segreti. Tra questi anche uno dei simboli dell’opposizione democratica cinese, l’avvocato Pu Zhiqiang, difensore dell’archistar dissidente Ai Weiwei e di ex funzionari del partito morti in carcere dopo essere stati torturati. Pu è stato arrestato domenica a Pechino, accusato di “disturbo alla quiete pubblica” e di “attività controrivoluzionarie” dopo aver partecipato ad una riunione proprio in ricordo di Tiananmen.
L’incontro, un in appartamento privato, voleva ricordare l’anniversario dell’editoriale con cui venticinque anni fa il Quotidiano del Popolo definì il movimento prodemocrazia «una rivolta anti-partito e anti-socialismo», annunciando di fatto la repressione. La polizia, dopo l’arresto, ha perquisito la casa di Pu Zhiqiang, sequestrando computer, telefono e documenti. Oltre a lui, secondo la denuncia dell’avvocato Si Weijiang, sono stati fermati una decina di attivisti. Cinque sarebbero stati rilasciati, mentre in carcere risultano la blogger Liu Di, il dissidente Hu Shigen e gli accademici Hao Jian e Xu Youyu. La settimana scorsa è improvvisamente scomparsa anche la famosa giornalista Gao Yu, 70 anni, già arrestata il 3 giugno 1989 in piazza Tiananmen e detenuta sette anni per ragioni politiche. Anche Gao Yu avrebbe dovuto partecipare all’incontro costato l’arresto a Pu Zhiqiang, ma non c’è mai arrivata, il suo telefono squilla a vuoto e pure il figlio è risulta irreperibile. Bao Tong, ex braccio destro del leader riformista Zhao Ziyang e amico di Gao, lanciando l’allarme ha ricordato che lo stesso Xi Zhongxun, padre del presidente Xi Jinping, fu rinchiuso in carcere da Mao per aver sostenuto «il valore di opinioni diverse».
Arresti e sequestri dei testimoni di Tiananmen, in una Cina ancora privata del diritto alla verità della storia, servono al potere per intimidire i sopravvissuti, seminare il panico tra la gente e spaventare chiunque volesse ricordare il sacrificio degli studenti democratici.
Pechino e le principali città cinesi sono blindate, posti di blocco regolano l’accesso ai luoghi sensibili, a media e reduci è stato ordinato di non parlare del 1989 e la censura blocca la ricerca dei termini proibiti sul web. Un quarto di secolo dopo la Cina è irriconoscibile e si appresta a diventare la prima economia del mondo: i conti con il passato però, nonostante le annunciate riforme, non ha ancora il coraggio di farli.

La Stampa 7.5.14
Gli studenti cinesi abbandonano gli Usa
Secondo i dati del Council of Graduate Schools diminuisce il numero di iscrizioni
di Paolo Mastrolilli

qui

La Stampa 7.5.14
Adriatico Cinese
Una società di Pechino ha investito nel porto del Pireo , un’altra ha inaugurato una linea ferroviaria che porta containers nell’Europa centrale.
Ii grandi porti di Trieste, Capodistria e Fiume rischiano di venire soffocati dal gigante asiatico
di Giuseppe Zaccaria

qui

Corriere 5.7.14
Svizzera verso l’addio al segreto bancario
Via al patto sullo scambio di dati con l’Ocse. E l’Europa vara la Tobin Tax
di Ivo Caizzi


BRUXELLES — La Svizzera si è impegnata allo scambio automatico di informazioni fiscali, accelerando il suo percorso verso l’abolizione del segreto bancario usato per far evadere le tasse agli stranieri. L’annuncio è arrivato alla riunione ministeriale dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico di Parigi (Ocse), dove analogo accordo è stato siglato dai 34 Paesi aderenti anche con Singapore, un altro dei principali paradisi fiscali internazionali, e con altri Stati.
«L’impegno di così tanti Paesi ad adottare i nuovi standard globali, e farlo velocemente, è un altro passo avanti per assicurarsi che le frodi fiscali non avranno più un luogo dove nascondersi», ha dichiarato il segretario spagnolo dell’Ocse Angel Gurria. «È chiaramente la fine del segreto bancario sfruttato per ragioni fiscali», ha aggiunto il direttore del centro per la politica e l’amministrazione fiscale dell’Ocse, il francese Pascal Saint-Amans, riferendosi all’accordo con la Svizzera e Singapore. Il governo di Berna ha fatto sapere di aver contribuito alla stesura del testo. Lo scambio automatico di informazioni diventerà operativo dopo la trasposizione dell’impegno concordato in sede Ocse nella legislazione dei singoli Paesi. Le banche dovranno adeguare le loro procedure e i sistemi informatici. Non sarà quindi più necessaria una richiesta della magistratura per ottenere le informazioni sugli evasori con capitali nascosti in Svizzera, a Singapore e in tanti altri paradisi fiscali.
L’Ocse ha anche invitato la Bce di Mario Draghi ad adottare misure per far risalire l’inflazione verso il 2% e, nel caso non funzionassero, a considerare stimoli «non convenzionali». Intanto l’euro è salito ieri fino a quota 1,395 sul dollaro, ai massimi da ottobre 2011.
A Bruxelles, nell’Ecofin dei 28 ministri finanziari, Germania, Francia, Italia, Spagna, Austria, Belgio, Grecia, Portogallo, Slovacchia ed Estonia hanno confermato l’impegno a introdurre per primi la tassa sulle transazioni finanziarie «al più tardi» dal gennaio 2016. La Slovenia ha preso una pausa di riflessione per le improvvise dimissioni del suo governo.
Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, che ricava un gettito modesto dalla tassa analoga già introdotta solo in Italia, ha anticipato «l’impegno ad avere primi risultati concreti, che tasseranno azioni e alcuni derivati, per la fine di quest’anno». I 10 Paesi Ue stanno considerando un prelievo dello 0,1% sulle azioni e dello 0,01% sui derivati. La Commissione Europea stima in circa 30 miliardi di euro annui la potenzialità di questa tassa ispirata agli stessi obiettivi della Tobin Tax, che chiedeva alla speculazione finanziaria sulle valute di ridistribuire una parte dei guadagni alla collettività.
Ancora una volta il Regno Unito ha commentato criticamente questa proposta per tentare di difendere gli interessi delle banche della City di Londra, che in Europa realizzano il grosso delle attività finanziarie di tipo speculativo. Ma l’eurotribunale di Lussemburgo ha appena respinto l’opposizione inglese all’introduzione della Tobin Tax in una parte dei Paesi membri con la cosiddetta «cooperazione rafforzata».

Corriere 7.5.14
Domenica 11 maggio
Mauthausen, cerimonia per le vittime. Mancherà il Gonfalone di Roma
Aveva sempre partecipato. Denuncia dell’Associazione dei deportati (Aned)
La replica del Comune: «contenimento delle spese».Sarà invece presente la Regione
di Paolo Brogi

qui

l’Unità 7.5.14
Il dialogo tra Foa e Indro
Il rapporto di stima e rispetto tra il giornalista e l’intellettuale
Un estratto dal nuovo libro di Paolo Di Paolo che esce oggi ed è dedicato alla rilettura del personaggio Montanelli nel suo complesso
di Paolo Di Paolo


QUESTA SCENA È AMBIENTATA IN UN GIORNO DI FINE ESTATEDEL1994.Un signore ottantacinquenne fa il suo ingresso alla festa nazionale dell’Unità di Modena, nel cuore della cosiddetta Emilia rossa. Sfila verso il palco l’anticomunista, il bersaglio della contestazione sessantottina, il fascista. La platea dovrebbe essere quella più diffidente, se non ostile. E invece accade l’imprevedibile: partono gli applausi. La gente batte le mani, le tende verso il vecchio signore, chiede autografi, scatta fotografie, acclama. Il vecchio signore sorride stupito, divertito, insospettito. Gli sembra che il mondo si sia capovolto. Fino a pochi anni fa, era ancora il nemico.
Il giorno dopo, l’Unità titola: Arriva Montanelli alla festa dell’Unità, la folla lo acclama. Mentre a indignarsi è ilGiornale, che lui ha smesso di dirigere da qualche mese. Così Indro, ancora una volta, divide: scontenta i suoi vecchi amici e fa contenti i vecchi nemici. Che cosa è successo? Come ha fatto a diventare di sinistra? Lui, in realtà, dal palco di Modena l’aveva chiarito subito: non sono cambiato io, sono cambiate le cose, ma questo non vuol dire che sia diventato dei vostri. Sono e resto di destra, ma la mia destra non ha niente a che fare con la destra pataccara che ci governa. Giù applausi.
L’imprenditore milanese Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, spalleggiato da Lega Nord e Alleanza Nazionale, era al governo dal 10 maggio di quell’anno. Alla fine degli anni Settanta, Berlusconi era diventato l’editore del Giornale fondato da Montanelli nel ’74. La convivenza era andata più o meno bene fino alla decisione del Cavaliere, verso la fine del ’93, di entrare in politica. Indro sconsiglia il suo vecchio amico Silvio, che naturalmente fa di testa sua. Il rapporto si incrina: sulle prime pare avviarsi una convivenza da separati in casa, ma è destinata a funzionare per poco. Dopo una riunione di redazione in cui Berlusconi si presenta all’insaputa di Montanelli, arriva il divorzio. (…) La spiegazione che Montanelli dà ai lettori del proprio addio è molto netta: l’editore Berlusconi si è tramutato in un capopartito e ha cercato di ridurre ilGiornale a organo di questo partito, promettendo benefici ai redattori che si fossero adeguati. «A questo punto non avevo più scelta.O rassegnarmi a diventare il megafono di Berlusconi. Oandarmene». (…) Se ne andò. Per riapparire, di lì a un paio di mesi, come direttore di un nuovo quotidiano, che chiamò la Voce in omaggio al suo amato maestro Giuseppe Prezzolini. Era uno strano giornale: formato lungo, scomodo. Con una curiosa eleganza mescolata a uno spirito innovativo, audace, spiazzante: grandi fotomontaggi satirici sulla prima pagina, che fecero spesso infuriare politici e giornalisti. L’esperienza durò un anno: dopo una fiammata iniziale, la Voce cominciò a perdere copie e non fu protetta da amministratori sbagliati.
Giornalisti come Beppe Severgnini e Marco Travaglio la ricordano come una delle esperienze più esaltanti della loro carriera: «una medaglia al valore che segue una sconfitta e qualche cicatrice ». La squadra dei redattori e dei collaboratori era notevole, e a risfogliare la Voce si trovano parecchie sorprese. Sul primo numero, a centro pagina, una testa divisa, metà Berlusconi e metà Occhetto. Nelle pagine culturali, un ampio ritratto di Prezzolini. Sull’ultimo numero, una valanga di firme illustri e la malinconia al risveglio dal sogno di un quotidiano indipendente e liberale, «straniero ». Aperto al dibattito, pronto alla polemica come al confronto.
Si poteva leggere, per esempio, uno straordinario dialogo fra Montanelli e Vittorio Foa, che Indro considerava «non solo il miglior cervello, ma anche la più limpida e cristallina coscienza della sinistra italiana». Montanelli dice a Foa: non basta dire che la sinistra è libertà, bisogna aggiungere che per decenni non lo è stata. Foa risponde: è stato un problema per me tenere insieme la Resistenza, l’antifascismo, l’impegno per sottrarre il lavoro umano da una dipendenza inumana e al tempo stesso essere compagno di chi divinizzava Stalin e il suo sistema. Montanelli dice: la mia destra è un’utopia, non è un’ideologia ma un codice di comportamenti, patrimonio di una borghesia di cui non vedo più traccia. Foa risponde così: «Le vecchie distinzioni e contrapposizioni dicono poco: Stato o individuo, ragione o passione, egoismo o solidarietà. I valori non sono collocati in un posto fisso come una cassetta di sicurezza, i valori bisogna cercarli ed è una fatica.Mala destra della sua utopia, caro Montanelli, può esistere».
Mi commuove l’immagine di questi due uomini che han-no attraversato un secolo quasi per intero, camminando su sponde opposte. Arrivati alla fine del viaggio, si vedono e si riconoscono. Il tempo non ha cancellato le differenze, ma il mondo è cambiato, parecchi muri sono caduti, si può dialogare con uno spirito diverso.
La sua lettera, come ogni suo scritto, stimola a ripensare, dice Foa a Montanelli.
Lei è stato per me un rimprovero vivente, dice Montanelli a Foa, una delle più alte lezioni di vita che abbia mai ricevuto. Il suo ottimismo della volontà non si è mai arreso al pessimismo della ragione, aggiunge. Foa, alla soglia dei novant’anni, lo conferma ancora una volta: la fine delle ideologie ha aperto spazi imprevedibili. Anche se orfani, non siamo privi di bussola. Senza ipoteche marxiste o clericali, c’è un’occasione straordinaria, unica, per darsi da fare. «Ed è quello, caro Montanelli, che lei fa dal mattino alla sera, chiamando utopia quella destra moderata e responsabile che è già nelle sue mani. Per parte mia non credo utopistica una sinistra senza miti».
(da «Tutte le speranze. Montanelli raccontato da chi non c’era» - Rizzoli)

Corriere 7.5.14
La passione secondo Berlinguer
Per Napolitano fu l’uomo che offrì se stesso alla causa dell’Italia

Pubblichiamo un estratto dell’intervista di Walter Veltroni al presidente Giorgio Napolitano, intitolata «Una vocazione chiamata politica» (realizzata il 12 settembre 2013), contenuta nel libro a cura di Veltroni «Quando c’era Berlinguer», edito da Rizzoli da oggi in libreria
qui
l’Unità 7.5.14
Il walzer di Walzer e la lotta di classe
di Bruno Gravagnuolo


CONTRORDINE: MICHAEL WALZER CI RIPENSA: NON BASTA LA CITTADINANZA, ci vuole la lotta di classe. Già, ma chi è Walzer? È uno dei più famosi intellettuali liberal Usa. Teorico dei diritti e del comunitarismo democratico, aperto e multi-culturale. E questa cosa la dice in un incontro promosso da Reset - con Luiss, Feltrinelli e Centro studi americani tra Roma e Milano da oggi a domani - la rivista liberal diretta da Giancarlo Bosetti. Già con la guerra irachena Walzer aveva preso un abbaglio, in nome della guerra umanitaria. Ma poi si corresse. Ora l’autocritica è ancor più radicale. Non solo critica la cittadinanza ormai fluida e senza appartenenza ma addirittura rivaluta la lotta di classe e il ruolo dello stato-nazione: ovvero lavoro e identità nazionale. Senza i quali i cittadini non possono autoriconoscersi, né individuare obiettivi comuni. Contro un globalismo neutro che impone le sue leggi economiche. E che perciò alimenta il populismo. Bene, è un capovolgimento totale della sinistra liberale basata sull’ «inclusione» e non già sull’emancipazione dei subalterni dal dominio economico. E stupisce (anzi no) che Eugenio Scalfari abbia capito tutto il contrario di quest’ultimo Walzer, nel suo editoriale su Repubblica. Perché la critica di Walzer è rivolta esattamente contro l’ideologia della cittadinanza che con la sua impotenza genera populismo. E non all’uso nazionalista che il populismo fa della cittadinanza. Infatti per Walzer si tratta di riempire la cittadinanza di contenuti «di classe». E proprio a tal fine, dice Walzer, occorre recuperare lo stato nazionale e non darlo per morto. E perché resta un anello chiave della democrazia, tra locale e globale. «Se recupereremo la cittadinanza a casa nostra - dice Walzer - scopriremo che il mondo non è tanto distante». Più chiaro di così! Morale europea: la sovranità degli stati non si può liquidare in ambito Ue. Altrimenti l’egemonia liberal-monetarista alla tedesca distruggerà (di nuovo) l’Europa. Dopo aver scatenato i populismi.

Repubblica 7.5.14
Michael Walzer “Non bisogna mai rinunciare alla verità”
intervista di Giulio Azzolini



«QUANDO fare giustizia rischia di compromettere la pace, una via resta comunque aperta: quella della verità». Il filosofo politico Michael Walzer guarda in prospettiva al delicato caso di Gerry Adams, lo storico leader del partito nord-irlandese Sinn Féin, tenuto in carcere quattro giorni con l’accusa di omicidio per un fatto che risale a 42 anni fa. Walzer, professore emerito a Princeton, è in Italia per partecipare agli incontri organizzati da Giancarlo Bosetti per il ciclo Reset-Dialogues on Civilizations ( oggi pomeriggio alla Luiss di Roma, domani alla Fondazione Feltrinelli di Milano), ma sceglie di non sottrarsi alla controversia che sta animando il dibattito pubblico anglosassone, e non solo.
Professore, anche lei ritiene inquietante l’arresto e il rapido rilascio di Gerry Adams? Teme che sia la miccia di nuove vendette e violenze nell’Irlanda del Nord? «È difficile dirlo. Nutro un forte scetticismo rispetto agli sforzi dei giudici nel dimostrare la colpevolezza di Adams. E poi di quale tipo di complicità si sarebbe macchiato? Avrebbe autorizzato l’omicidio o, pur conoscendoli, avrebbe omesso di denunciare i suoi veri autori? Ma, al di là dell’aspetto giudiziario, non si può negare la rilevanza della questione, visto che alla fine degli anni Ottanta Adams ha svolto un ruolo da protagonista nel negoziato che mise fine al conflitto civile in Irlanda».
Crede che, in questi casi, l’amnistia sia l’unico strumento per preservare la pace?
«L’amnistia è un prezzo molto difficile da pagare perché implica la rinuncia alla giustizia. Eppure sono parecchi i casi di transizione da un conflitto civile o da un regime autoritario verso uno Stato pacifico e democratico in cui si è fatto ricorso a tale strumento. Spesso sono gli esponenti del vecchio regime o coloro che hanno combattuto e perso a chiedere l’amnistia, ma non sempre è così. Pensi al caso di Pinochet in Cile, quando nel 1978 varò la legge d’amnistia per i crimini perpetrati a partire dal colpo di Stato del ‘73. Il primo governo cileno eletto democraticamente dopo la dittatura tentò di abolire l’amnistia, ma per conseguire una transizione pacifica quella legge rimase. In seguito, è stata impugnata da molti tribunali internazionali, perché per alcuni crimini contro l’umanità non può esserci oblio».
Qual è allora l’alternativa tra processo e amnistia nelle fasi di transizione?
«In questi casi è coerente investigare sui crimini commessi e assicurare alla popolazione la conoscenza della verità, senza per questo dover ricorrere a processi di massa. In qualche misura, il modello è la Commissione sudafricana per la Verità e la Conciliazione. Un giudice che ha preso parte a quella commissione mi ha rivelato che di verità non ce n’è stata abbastanza e che nemmeno la riconciliazione è riuscita del tutto. Eppure quello è stato un tentativo onesto compiuto nella direzione giusta. E infine c’è una quarta strategia».
Quale?
«Nella Cecoslovacchia post-comunista, per esempio, chi aveva ricoperto incarichi pubblici durante il regime sovietico fu bandito dall’attività politica. Nessuna incarcerazione, ma la “semplice” espulsione dalla vita politica. Ecco un altro modo di affrontare il problema della transizione».
E come risponderebbe a chi, in questi passaggi, evoca il segreto di Stato?
«Non penso che i crimini commessi da un governo possano essere protetti da leggi sul segreto di Stato. Dovrebbero essere denunciati piuttosto, tanto dalla stampa quanto dalla classe politica».
Vuole dire che la risoluzione delle transizioni esige una condanna politica prima che giudiziaria?
«Esatto. Non bisogna tirarsi indietro rispetto alla ricerca della verità. Di fronte a questa, però, ci vuole un atto di condanna politica. Sul piano giudiziario serve un compromesso, ma sul piano politico no».

il Fatto 7.5.14
Piketty riscrive l’economia: i ricchi vinceranno sempre
Con il suo libro sul “Capitale nel XXI secolo”, l’economista francese è diventato un fenomeno planetario perché rivela i segreti della disuguaglianza
di Stefano Feltri


Nel 2012, il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz ha pubblicato il voluminoso saggio Il prezzo della disuguaglianza - Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro (Einaudi). Non se n’è accorto nessuno. Due anni dopo, un libro sullo stesso tema firmato da un economista praticamente sconosciuto, con il difetto di essere francese (tutta la ricerca di frontiera è anglosassone), è stato accolto come il contributo più importante degli ultimi decenni: Il capitale nel Ventunesimo secolo di Thomas Piketty continua a essere il primo nelle classifiche di Amazon, da quando è uscita la traduzione inglese (l’originale francese era passato quasi inosservato) non si parla d’altro, il Financial Times ne discute quasi tutti i giorni, nell’ultimo numero l’Economist gli dedica un articolo dal titolo solo in parte ironico Bigger than Marx, più grande di Marx. Il barbuto studioso di Treviri, di sicuro, non si è arricchito con il suo Capitale, Piketty che si presenta come un erede più abile a maneggiare i dati e dalle convinzioni più solide, invece, è ormai una superstar del dibattito economico. È quasi con pudore che qualche giornale ha osato ricordare che di lui in passato si era parlato più per i maltrattamenti inflitti alla ex compagna, l’attuale ministro della Cultura francese Aurelie Filippetti, che per i risultati accademici.
PIKETTY È INTERESSANTE per due ragioni: le sue idee e la sua improvvisa popolarità che rivela come la sua analisi abbia risposto a una domanda di senso inespressa, ma percepibile in un momento in cui non ci sono più ideologie e neppure molte idee. Nel suo libro Piketty parte da Karl Marx e dalla sua tesi che il capitale si accumula all’infinito, ma con rendimenti decrescenti, cosa che porta a conflitti tra capitalisti sempre in cerca di nuove opportunità. Se i rendimenti del capitale però sono comunque maggiori della crescita dell’economia reale, i ricchi diventeranno sempre più ricchi e la disuguaglianza aumenterà: il rapporto tra capitale e redditi crescerà da meno di 4,5 del 2010 a 6,5 nel 2100. Il Nobel Robert Solow, su New Republic, sintetizza così il ragionamento: “Piketty suggerisce che la crescita globale dell’output rallenterà nel prossimo secolo dal 3 all’1,5 per anno. Fissa il tasso di risparmi/investimenti al 10 per cento. Quindi si aspetta che il rapporto tra capitale e reddito crescerà fin quasi a 7”.
Per tradurre i numeri: le nostre economie occidentali non si stanno evolvendo in direzione di una maggiore uguaglianza, le spinte verso la socialdemocrazia e la redistribuzione del Novecento sono state un’eccezione e un’illusione, quello che ci aspetta è il ritorno a un capitalismo ottocentesco come quello dei romanzi di Jane Austen e Balzac in cui non importa quanto lavori, qualunque carriera non potrà mai eguagliare un buon matrimonio. Perché la ricchezza non si accumula, si eredita. E questo non succede (soltanto) perché l’economia occidentale è trainata da tanti avidi Gordon Gekko che, come nel film di Oliver Stone, accumulano profitti a spese della classe media. No, è la dinamica interna dell’economia: se il capitale (Piketty usa capital come sinonimo di wealth, cioè patrimonio, ricchezza) cresce sempre più in fretta dell’economia reale, visto che i ricchi hanno molta più ricchezza della classe media le cui sorti dipendono dai redditi, i ricchi diventeranno sempre più ricchi.
GLI ATTUALI SUPER STIPENDI dei top manager americani sono l’equivalente dei latifondi ricevuti in dono dai sovrani nelle economie fondali, cioè la premessa per una futura e crescente disuguaglianza tra chi ha e chi non ha (e non potrà mai avere). Simon Kuznets ci aveva convinto che la disuguaglianza tende a ridursi nelle fasi di sviluppo, a prescindere dalla politica economica: è la marea che spinge in alto tutte le navi, gli yacht come le scialuppe. Al 10 per cento più ricco degli Stati Uniti nel 1913 faceva capo il 40-45 per cento del reddito prodotto in un anno, nel 1948 la quota era scesa al 30-35 per cento e da qui è nata la “curva di Kuznets”. Ma Piketty sostiene, forte di analisi quantitative e storiche, che non è stato il progresso a ridurre la disuguaglianza, ma la Seconda guerra mondiale. Soltanto eventi traumatici come una guerra possono bilanciare l’effetto di una tensione profonda dell’economia. Tutto il resto sono palliativi, inclusa la proposta contenuta nel libro di una patrimoniale globale sulle grandi ricchezze: 1 per cento sui patrimoni tra uno e cinque milioni di euro, 2 per cento sopra i cinque milioni. Ogni anno e con un coordinamento tra tutti i Paesi del mondo per evitare che i ricchi si rifugino nei paradisi fiscali. Nessuno ha preso sul serio questa ricetta di Piketty: non realizzabile e soprattutto inutile, servirebbe soltanto a rallentare la concentrazione delle grandi ricchezze, ma il meccanismo descritto dall’economista francese sembra invincibile. Tanto che i critici più liberisti, come Carlo Stagnaro sul Foglio, hanno concluso che nel mondo di Piketty i capitalisti non devono poi sentirsi troppo in colpa . Non dipende da loro se diventano sempre più ricchi, it's the economy, stupid.
Piketty è un economista atipico, che attinge a letteratura, filosofia e storia del pensiero economico, ma non dimentica equazioni e serie storiche che sono la premessa (necessaria ma non sufficiente) per sostenere una tesi e non limitarsi a esprimere un’opinione. Risale molto indietro nel tempo, usando i dati sull’imposizione fiscale invece che soltanto quelli sui redditi, così da riuscire, con qualche semplificazione, a confrontare la ricchezza in epoche molto distanti tra loro. Paul Krugman, premio Nobel e coscienza collettiva dei liberal del mondo e soprattutto di quelli che leggono il New York Times, si è entusiasmato: ecco una valida spiegazione teorica del perché negli ultimi decenni la disuguaglianza è aumentata tanto. Finito l’effetto livellatore della guerra, il capitale ha corso più dell’economia.
SUL FINANCIAL TIMES Martin Wolf ha notato che Piketty ci ha spiegato tutto tranne perché la disuguaglianza è così disdicevole. Il filosofo John Rawls sosteneva che un certo tasso di disuguaglianza fosse accettabile se ne traevano beneficio anche gli ultimi della scala sociale. C’è una consistente letteratura sul perché società troppo polarizzate funzionano male: due epidemiologi, Richarld Wilkinson e Kate Pinkett, qualche anno fa hanno dimostrato il legame tra disuguaglianza e varie cose sgradevoli (aborti, obesità, droghe, hanno escluso i suicidi perché la depressione nelle egualitarie società scandinave avrebbe indebolito le conclusioni). Piketty ha cambiato la scienza economica, sostiene Krugman. Di sicuro è arrivato al momento giusto: dopo sette anni di crisi, in tutto il mondo gli economisti tirano un sospiro di sollievo. Finalmente c’è una nuova narrazione che spiega cosa sta succedendo. E assolve tutti. I ricchi che si arricchiscono, i politici che non fanno abbastanza politiche re-distributive , gli imprenditori che non investono nell’economia reale, le banche che non prestano. Piketty ha aperto un dibattito. Adesso ci vuole qualcuno (di sinistra) che scopra come distruggere la Pikettynomics e il suo cuore che Robert Solow identifica nel “meccanismo del ricco che diventa più ricco”.

Repubblica 7.5.14
La sottile linea rossa tra la pace e la giustizia
In Irlanda il caso Gerry Adams riporta l’attenzione sulla difficoltà degli Stati di fare i conti con un passato di guerre civili e terrorismo
di Benedetta Tobagi



Gerry Adams, il leader del Sinn Fein arrestato perché sospettato di essere il mandante dell’omicidio di Jean Mc Conville, vedova e madre di dieci figli, uccisa nel 1972 dall’Ira, l’esercito clandestino repubblicano, perché considerata erroneamente un’informatrice della polizia, è stato rilasciato. Per ora, la pubblica accusa ha ritenuto non vi fossero prove sufficienti per trattenerlo. La vicenda ha scoperchiato un vaso di Pandora: molti temono che un’eventuale incriminazione di Adams incrini la stabilità della pacificazione avviata con gli accordi del Good Friday del 1998 e conclusa nel 2010, di cui è stato protagonista attivo.
Si ripropone un dilemma tragico che varca i confini dell’Irlanda del Nord: «Quando è applicata rigorosamente la giustizia, non c’è pace, e dove c’è la pace la giustizia non è applicata rigorosamente », dice il Talmud. Lo spirito di pace, chiosa il filosofo israeliano Avishai Margalit, coincide con quello del compromesso, che non è sempre compatibile con l’esercizio della legge. Ma dove si colloca il punto di equilibrio tra le due istanze, in presenza di conflitti etnici o politici laceranti che hanno lasciato sul terreno centinaia di morti da ambo le parti?
Una prima considerazione: la “civilizzazione del conflitto”, ossia il processo che fa subentrare la politica e il confronto civile alla violenza (si tratti di guerra, guerriglia, atti di terrorismo, assassini), per quanto efficace (quello avvenuto tra Regno Unito e Irlanda del Nord è un modello per la gestione del conflitto basco), non comporta una civilizzazione dei toni del confronto politico. Offre piuttosto nuove e più terribili armi alle polemiche. Adams ha lamentato la strumentalità dell’arresto nell’imminenza delle elezioni: brandire il passato come un maglio da abbattere sull’avversario politico è una (pessima) abitudine molto diffusa, in effetti. Nel 1996, in Spagna, lo “scandalo Gal”, ossia il sospetto che alcuni leader socialisti fossero stati collusi con i “Gruppi di liberazione antiterroristica” che conducevano la “guerra sporca” dello Stato contro l’Eta, contribuì alla loro sconfitta alle elezioni. Venendo alle piccole faccende di casa nostra, nel 2011 il sindaco di Milano uscente Letizia Moratti cercò di screditare il competitor Giuliano Pisapia rinfacciandogli il coinvolgimento in un’inchiesta penale risalente agli anni Settanta, mentre la stampa di destra bollava taluni suoi sostenitori come “amici dei terroristi”. La pacificazione materiale è il primo passo, fondamentale, ma non risana le ferite della società quando, come in Ulster, migliaia di sopravvissuti attendono ancora verità e giustizia su troppi delitti. Nel settembre 2013, un rapporto di Amnesty International ha esaminato le attività degli organismi impegnati a indagare su violenze e violazioni dei diritti umani commesse da attori statali e da gruppi armati in Irlanda del Nord durante tre decenni, concludendo che i meccanismi esistenti erano intrinsecamente carenti e troppo spesso non erano riusciti a ristabilire la verità e la giustizia per le vittime e per le loro famiglie, da ambo le parti. E pochi giorni fa l’ex segretario di Stato per l’Irlanda del Nord Shaun Woodward ha rilanciato sul Guardian: «Abbiamo un’opportunità unica di definire nei dettagli un meccanismo per affrontare le questioni ancora irrisolte», che veda il coinvolgimento delle comunità delle vittime, evocando il Sudafrica della “Commissione verità e riconciliazione”.
Bisogna dunque mettere da parte la giustizia penale? La via dell’amnistia sui delitti del franchismo con cui la Spagna uscì da quarant’anni di dittatura è difficilmente esportabile, come pure il luminoso esempio sudafricano, laddove non ci sia stata una “transizione” effettiva, cioè un vero e proprio mutamento del regime di governo. In questi casi, sospendere la giustizia ordinaria non è raccomandabile. Esemplare, in questo senso, la condotta di Adams, che si è comunque messo a disposizione degli inquirenti e non ha messo in discussione l’autorità delle forze di polizia. Anziché limitarsi a enfatizzare il meccanismo “verità in cambio di impunità”, però, dal modello sudafricano si può trarre ispirazione per impostare percorsi di “giustizia riparativa”, che coinvolgono la società intera e non escludono, ma integrano la via dell’accertamento giudiziario. Prevedono forme di ascolto e assistenza per le vittime, momenti di incontro e di confronto, pubblico riconoscimento di colpe e responsabilità politiche. Dato l’elevato tasso emotivo della materia, esempi e gesti simbolici di riconciliazione (in Israele alcune madri di vittime sui fronti opposti sono arrivate a praticare trasfusioni di sangue tra loro) hanno un potenziale straordinario nel catalizzare l’evoluzione del sentire. Nemmeno la via delle commissioni d’inchiesta va abbandonata: a seguito del rapporto Saville sul “Bloody Sunday” a Derry, il 30 gennaio 1972 (14 manifestanti disarmati uccisi dai parà britannici), il premier Cameron ha chiesto formalmente scusa a nome del governo britannico. Un gesto dirompente: in Italia nessuno ha mai pensato di scusarsi per la morte di Pinelli o i depistaggi sulle stragi.
Certo, i gesti simbolici, le commissioni e le inchieste per accertare la verità dei fatti non possono sostituire il “processo di civilizzazione” di un’intera società, lavoro di anni o più spesso decenni. Ma creare luoghi che favoriscano l’elaborazione di nuove narrazioni collettive è premessa necessaria per un rasserenamento della tensione sociale. In questo senso, la cultura può svolgere un ruolo fondamentale. La Spagna insegna: se la ben riuscita transizione dalla dittatura franchista alla democrazia si è basata su un prudente (e assai contestato) pacto del olvido, negli ultimi anni si è riacceso un dibattito molto vivace grazie alla letteratura. «Ora, a un quarto di secolo dalla Costituzione, si deve parlare», ha detto lo scrittore Javier Cercas. I suoi bellissimi romanzi non fiction Soldati di Salamina (sull’eredità della guerra civile) e Anatomia di un istante ( sul tentato golpe Tejero dell’81) hanno venduto centinaia di migliaia di copie scatenando discussioni vivacissime: segni di salute, curiosità, vitalità. Non si tratta di conciliare memorie inconciliabili: non sarebbe sano né auspicabile . Ricette precostituite per i “compromessi decenti”, come li chiama Margalit, non ce ne sono. E nemmeno equilibri permanenti. Piuttosto, le società ferite devono fabbricare un tavolo (fatto di leggi, principi di convivenza, regole, valori, condivisione di una base di fatti accertati, riconoscimento reciproco) abbastanza ampio da consentire a tutti quanti di sedersi, senza tentare né desiderare di farlo saltare. Un tavolo dove i commensali parlano magari ad alta voce, ma senza insultarsi, anche quando siedono su lati opposti.

Repubblica 7.5.14
La sedia vuota e il mondo nuovo
NON si sono sempre amati leader sindacali e dirigenti della sinistra storica. L’idillio tra Berlinguer e Lama è stato più un’eccezione che la regola. Basti pensare allo scontro furibondo tra D’Alema, allora segretario del Pds, e Cofferati, leader indiscusso della Cgil, in pieno congresso di partito nel 1997
di Piero Ignazi



NON si sono sempre amati leader sindacali e dirigenti della sinistra storica. L’idillio tra Berlinguer e Lama è stato più un’eccezione che la regola. Basti pensare allo scontro furibondo tra D’Alema, allora segretario del Pds, e Cofferati, leader indiscusso della Cgil, in pieno congresso di partito nel 1997.
LA SEDIA vuota di Matteo Renzi all’assise del maggior sindacato italiano rompe però una tradizione di incontro e ascolto reciproco. Rende evidente la divaricazione di sensibilità e orientamenti che attraversa la sinistra. Con una novità importante: questa divaricazione non ripercorre gli schemi del passato tra massimalisti e riformisti. Non esiste più quel tipo di sinistra acchiappanuvole e velleitaria. Si è dissolta dopo essersi immolata in mille e un fallimento. Ciò che ora divide la sinistra è di altra natura e riflette la rivoluzione che ha attraversato il Pd nello spazio di appena un anno. Mentre D’Alema e Cofferati, pur duellando, vivevano all’interno di uno stesso mondo, il nuovo segretario democrat viene da tutta un’altra storia ed ha tutt’altri riferimenti: magari vaghi, incerti e confusi ma si muovono tutti su un crinale diverso da quello della tradizione. La Cgil difende una storia gloriosa del movimento operaio della quale c’è molto da conservare: la solidarietà di classe e soprattutto con chi sta peggio, la dimensione collettiva dell’appartenenza, la socialità del condividere condizioni e aspirazioni, la difesa di legittimi interessi e di giuste aspirazioni. Tutti elementi forti e sani della sinistra, che pulsano vivi in uno splendido documentario di Ken Loach, “Lo spirito del ’45”, dedicato alle riforme del governo laburista di Clement Attlee, quello che introdusse il welfare state in Gran Bretagna. Ma di fronte alla trasformazione post-fordista e post-materiale dell’economia e della società, quel tipo di sinistra della solidarietà arranca. Non perché sia sbagliata ma perché non riesce a intercettare ciò che è fuori dai cancelli delle fabbriche (e fatica anche a rappresentare le tute blu che vi entrano). E soprattutto perché difetta di una capacità propositiva incalzante e innovativa che metta alle corde la controparte. La sinistra “tradizionale”, sindacale e non solo, non ha colto lo scarto dinamico nel tempo e nello spazio della politica contemporanea. Le transazioni finanziarie al milionesimo di secondo riflettono l’ipercineticità della economia e più generale del mondo contemporaneo. A questo mondo non si può rispondere solo in termini difensivi - benché possa essere necessario - pena la perdita del momentum , della possibilità di agire. Il neocapitalismo, come la Vesna di Carlo Mazzacurati, va veloce. E così sfugge.
Il segretario del Pd è più in connessione con questo “nuovo mondo”, per carature caratteriali e generazionali. Ed esprime una costellazione di posizioni che non combaciano con la “tradizione” della sinistra: sparigliano, nel bene e male. Nel male quando la velocità è applicata alle norme generali come le modifiche costituzionali e le leggi elettorali, una peggio dell’altra. Nel bene quando prende di petto nodi irrisolti da anni e li scioglie con un colpo di spada, come con l’adesione del Pd al Partito socialista europeo. Comunque si giudichino le scelte adottate dalla leadership democrat, quello che la contraddistingue è la maggiore sintonia con la multidimensionalità della politica che presenta sfaccettature, opzioni, e anche tic e stilemi, che fanno storcere il naso a chi è stato socializzato in un’altra epoca, ma che rappresentano la realtà di oggi. La sinistra che sta prendendo forma nel Pd è connessa con il mondo contemporaneo e lo accetta - pur volendo riformarlo. In questo processo di ridefinizione mancano tasselli e si prendono abbagli. Ma il partito democratico va nella direzione del cambiamento, per intercettare la domanda (esasperata) di innovazione e sottrarla alle sirene grilline. La sinistra che riprende il vessillo del cambiamento e dell’innovazione dopo l’irruzione leghista e berlusconiana ribalta i termini del conflitto politico degli ultimi vent’anni. A questa rivoluzione copernicana non può mancare, carica di tutte le sue antiche medaglie, la sinistra della tradizione. Le due sinistre, quella consolidata e quella in formazione, devono trovare un punto d’incontro.

Repubblica 7.5.14
Il grande boom dell’occulto un italiano su 5 va dall’indovino
di Natalia Aspesi



SE 13 milioni di italiani si rivolgono ai professionisti dell’occulto, bisognerà forse rivedere i dati sulla disoccupazione: perché qualsiasi persona, soprattutto se signora in età abitante in casamenti di periferia, si può sistemare, abbracciando una professione che non conosce crisi e che non richiede altro che occhi penetranti, un gatto nero, la capacità di fare domande a trabocchetto e di prevedere sempre ciò che il cliente desidera, che sono poi sempre le stesse cose: amore, denaro, salute per sé, morte della rivale e fallimento del concorrente. Può sembrare curioso che creda ancora ai fattucchieri professionali una simile folla da Festival di Sanremo, quando l’informazione politica ci propina giornalmente fortune e disastri collettivi, e i suoi protagonisti si comportano come maghi pericolosi sia nell’aspetto inquietante che nella quantità di minacce e di stupidaggini che incessantemente raccontano a un popolo sfiancato. O forse è proprio per quello, che poi lo stesso popolo raccoglie i suoi risparmi (si fa conto anche dei promessi prossimi 80 euro mensili, forse) per avere da più sempliciotti dispensatori di malocchio ed affini, dei responsi non collettivi e terrorizzanti, ma semplici rassicurazioni personali, compresa magari la sconfitta, finalmente, di questi urlatori e bugiardoni politici che dalla politica ci fanno fuggire orripilati. Si potrebbe anche non credere ai dati relativi a questo innocuo commercio e che francamente paiono esagerati, ma il fatto è che non si tratta più di un commercio clandestino, ma di una vera e propria industria, con tanto di fatture e partite iva. Insomma finalmente anche i maghi pagano le tasse (forse non tutti i 160 mila calcolati, perché ce ne saranno anche di forniti di abile commercialista che protegge il loro nero): e però l’inconveniente gravissimo è che le eventuali fatture potrebbero far risalire, per esempio, al pezzo grosso di un partito che quotidianamente chiede al suo mago di riferimento di togliergli di mezzo e con ogni mezzo, quel paio di magistrati che potrebbero mandarlo in galera. La fortuna dei maghi non è certo una cosa nuova e per esempio ai tempi dei miei primi tentativi di
giornalismo, io piacevo molto sia a cartomanti che a lettrici della mano, e anche a una certa Ebe, che afferrandomi per i polsi cadeva in deliquio e mi prospettava con voce d’oltretomba un futuro privo di malattie e ricco di giovanotti. Ce ne erano tantissime in quegli anni ‘60, e c’era lavoro per tutte: erano centinaia i questuanti, per ognuna di loro, lungo le scale che portavano ai loro abbaini che sapevano di minestra e di pipì di gatto, e ormai le conoscevo quasi tutte, anche una certa Pia che era finita in galera per aver gettato acido muriatico sulla faccia della moglie di un suo amante, tra l’altro giornalista noto. Non è che mi interessasse il mio futuro secondo i loro vaticini, ma erano i primi anni del mio lavoro di cronista, e i giornali parevano sempre molto interessati a questi personaggi, di solito anziane signore che avevano trovato il modo di sopravvivere inventandosi loro entrature con l’aldilà. Trattandosi di un lavoro noto a tutti ma allora clandestino, ogni tanto arrivava la polizia, se non altro per tentare di accertare i loro guadagni misteriosi. Si diceva che almeno le più celebri, erano ricchissime, compravano case su case, e quelli erano tempi in cui ancora non avevano rubriche televisive e non vendevano pubblicamene intrugli miracolosi a caro prezzo. C’erano clienti che chiedevano aiuto quotidiano, altri che ne frequentavano decine: allora le ragazze ancora smaniavano per un marito e tempestavano di domande l’annoiata maga per sapere quando e come. Le mogli chiedevano talvolta pozioni per impedire al marito di cornificarle, insomma pareva tutto un piccolo mondo di miserie femminili a pagamento. Mentre, quando smettevo di fingermi cliente e rivelavo la mia identità professionale, allora, senza fare nomi, elencavano il ministro, il grande industriale, la diva, talvolta anche il celebre inafferrabile gangster, che ogni mattina pendevano dalle loro labbra per sapere come sgominare un rivale, fregare una banca, ottenere una grande parte in un film, organizzare un colpo grandioso. Pare che non sia cambiato nulla e non sarebbe male sapere se tante promesse o decisioni o fregature che ogni giorno ci vengono propinate dalla politica non dipendano dai consigli pazzi di spiritisti e negromanti.

La Stampa tuttoScienze 7.5.14
Gli scienziati al potere: quando al Senato trionfò la Belle Époque
Tra Otto e Novecento un record mai più eguagliato
Il più grande trust di cervelli che guidò l’Italia alla modernità
di Paolo Mazzarello


Nel 1890 il re Umberto I firmava la nomina a senatore del Regno di Giulio Bizzozero, professore di patologia generale all’Università di Torino. All’età di soli 44 anni lo studioso coronava con l’ammissione a Palazzo Madama una carriera scientifica straordinaria.
Laureato in medicina a 20 anni nel 1866, subito volontario garibaldino, a 27 anni professore ordinario di patologia generale, Bizzozero era noto per la scoperta della funzione ematopoietica del midollo osseo e per l’identificazione delle piastrine. Con la firma del re, su proposta del presidente del Consiglio Francesco Crispi, entrava in Senato una personalità scientifica che aveva dato prestigio internazionale al nostro Paese. Il caso di Bizzozero non era però eccezionale. Nella sua tornata di nomina vennero anche designati il fisico Pietro Blaserna e il chimico Emanuele Paternò, ma entrando nell’aula parlamentare il patologo trovava colleghi senatori fra molti esponenti della migliore cultura scientifica italiana, come il chimico Stanislao Cannizzaro e il matematico Francesco Brioschi.
Se si scorrono i nomi degli scienziati che nell’Italia liberale furono membri del Senato, si rimane stupiti dal loro numero e dalla loro reputazione internazionale. Nei 25 anni dopo l’ammissione di Bizzozero furono nominati senatori i premi Nobel Camillo Golgi (medicina 1906) e Guglielmo Marconi (fisica 1909), lo zoologo Battista Grassi (medaglia Darwin della Royal Society di Londra), i matematici Eugenio Beltrami e Vito Volterra, il fisico Antonio Pacinotti, il tisiologo Carlo Forlanini, l’ostetrico Luigi Mangiagalli e l’elenco potrebbe continuare per decine di nomi. In effetti, in certi anni fra l’unità d’Italia e la nascita del regime fascista, la percentuale degli scienziati arriva a sfiorare il 20% dei senatori nominati.
Al contrario, nei quasi 70 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale - nonostante il fatto che la scienza abbia acquisito un ruolo enormemente superiore nella società contemporanea - i senatori a vita provenienti dal mondo della scienza sono stati solo quattro, i medici e biologi Rita Levi Montalcini (2001) ed Elena Cattaneo (2013), il fisico Carlo Rubbia (2013) e il matematico Guido Castelnuovo (1949). Da notare che due di loro sono stati nominati solo l’anno scorso (Elena Cattaneo e Carlo Rubbia), mentre Rita Levi Montalcini venne designata nel 2001, all’età di 82 anni e 15 anni dopo il Nobel. Questo vuol dire che per 52 anni dalla nomina di Guido Castelnuovo nessun presidente della Repubblica ha ritenuto opportuno arricchire il Senato di qualcuna delle molte personalità scientifiche eccezionali alle quali nei secoli rimarrà legato il prestigio dell’Italia, come il farmacologo Daniel Bovet e il chimico Giulio Natta - entrambi coronati da un premio Nobel - o Vittorio Erspamer, il medico scopritore della serotonina, che il Nobel lo sfiorò molte volte.
Anche tenendo conto delle diverse modalità di designazione - nel Regno d’Italia i senatori erano di nomina regia - colpisce la differenza con il peso che personalità scientifiche rilevanti hanno esercitato nel Senato italiano almeno fino alla Belle Époque. Un’epoca in cui il nostro Paese, pur emergendo da problemi secolari di povertà e sottosviluppo, rimase agganciato, grazie alla scienza, ai grandi movimenti di progresso mondiali. Non piccola parte ebbero in questo scenario i grandi scienziati italiani che svolsero anche un ruolo politico grazie al posto che andarono a occupare nel Parlamento. Nell’Italia dell’epoca si era capito che chi aveva spinto in avanti i confini della conoscenza aveva tutte le attitudini per trasferire nella vita civile la stessa razionalità che era stata alla base del successo professionale. I grandi scienziati erano un orgoglio per il Paese, l’espressione della sua modernità, la punta avanzata del meglio della società civile. Pur con tutti i suoi problemi, l’Italia guardava alla scienza con grande speranza, al vero coefficiente del suo progresso materiale e civile. E gli scienziati non la delusero. Se grazie alla loro creatività erano stati riconosciuti meritevoli di sedere nel Senato, a loro volta dai loro scranni parlamentari si impegnarono a proporre provvedimenti legislativi per il progresso del Paese.
La convinzione di molti scienziati-senatori era che i problemi sociali erano anche problemi scientifici, legati allo sfruttamento razionale delle risorse, all’igiene pubblica, alla medicina del lavoro, all’educazione, all’assistenza sanitaria. Frutto di questo straordinario processo circolare furono molte leggi che cambiarono in meglio l’Italia. Molti sono gli esempi, dalle campagne di eradicazione della malaria, vero ancestrale flagello che aveva funestato le campagne italiane, alla fondazione di nuovi enti scientifici, alle campagne per il miglioramento dell’igiene pubblica, che abbatterono l’incidenza delle malattie infettive, al miglioramento dei sistemi di coltivazione e alla lotta all’analfabetismo.
Il nuovo Senato di cui si discute in queste settimane potrebbe diventare una grande opportunità per l’Italia, un valore aggiunto se avrà il coraggio di aprirsi alla scienza. La complessità del mondo contemporaneo non può fare a meno delle competenze di chi, abituato a ragionare in termini scientifici, potrebbe avere un ruolo fondamentale nello stemperare al meglio il frutto della passione politica, di per sé fattore positivo di progresso, se però si confronta e si amalgama nella razionalità.
18 - continua

La Stampa TuttoScienze 7.5.14
“I sogni di Leonardo nella terza età”
Tra Pico della Mirandola e Francesco I: le scoperte sulle grandiose ossessioni dell’artista-scienziato
di Gabriele Beccaria


Carlo Pedretti gioca con l’interlocutore un po’ come amava fare Leonardo Da Vinci. Del suo ultimo saggio spiega il punto di partenza, una nota enigmatica dello stesso Leonardo - «El Pico ne diè le opinioni» - e il punto d’arrivo, il rapporto con Pico della Mirandola, ma del percorso tortuoso tra l’inizio e la fine non vuole dire troppo. C’è ancora da indagare, confessa. E lui, il professore 86enne, celebre per essere il massimo conoscitore del genio dei geni, metà artista e metà scienziato, spiega i rischi dell’inabissarsi nei labirinti di frasi, schizzi, disegni e dipinti dell’irrequieto maestro.
«La memoria a volte si offusca - scherza - e le cose vicine si perdono, mentre quelle lontane sono chiarissime». C’è anche un motivo autobiografico per cui lo affascina il Leonardo anziano, che probabilmente doveva avere qualche problema a ricordare tutto di sé e dei propri studi universali, e che non molti anni prima, nel 1510, aveva scritto quel «Pico ne diè le opinioni» a margine di un’osservazione sulla luce riflessa della Luna: un esempio di pensiero laterale, quando la sua mente andava al massimo e si divertiva a evocare uno che con i poteri dei neuroni - Pico, appunto - passerà alla storia. Filosofo e virtuoso delle mnemotecniche.
Quella frasetta dimenticata l’ha riesumata sabato scorso, ad Adria, vicino a Rovigo, raccontando com’è nato «La bellezza secondo Leonardo e Pico» (CB Edizioni). Un’esplorazione in progress, quella del professore emerito alla University of California at Los Angeles, che l’ha spinto a confutare le conclusioni di Ernst Gombrich, che considerò i due come geni incompatibili, poli opposti di un Rinascimento intellettualmente sfrenato: da una parte Pico, convinto di avere di fronte un «omo senza lettere», e dall’altra Leonardo, insofferente dei «vani fantasmi» dei filosofi. Se non ci sono prove definitive di un loro incontro, è certo che Pico e Leonardo si studiarono a distanza e il terreno d’incontro fu un concetto ossessivo per i contemporanei, la bellezza. Per Pico una necessità d’amore e d’armonia, per Leonardo una manifestazione universale della natura, dai paesaggi geologicamente tormentati che scoprì nella Toscana della giovinezza fino alle forme matematico-geometriche da cui prendevano forma volti d’angelo e piedi di Madonne.
Quando muore in Francia nel 1519, a 67 anni, l’idea di bellezza continua a cullarne i sogni, nonostante gli acciacchi. E oggi dalla sua villa toscana, affacciata sulle colline che incantarono Leonardo, Pedretti attinge all’anfiteatro della propria memoria per svelare i tesori nascosti del maestro che lo incanta. «Mi sto concentrando sul periodo francese e vedo che tanti studiosi mi seguono. Ho dimostrato che si possono trovare documenti interessantissimi». Per esempio quello del Grande Ammiraglio di Francesco I, che, scrivendo all’ambasciatore francese a Roma, riporta alla luce un frammento politico-diplomatico sulle macchinazioni per la successione all’impero (alla cui testa andrà, invece del monarca francese, Carlo V): alla fine della lettera - recuperata a Londra - ricorda di sollecitare «il Maestro» ad andare in visita ad Amboise, perché il re e la madre, Luisa di Savoia, lo aspettano a braccia aperte. «Leonardo - sottolinea Pedretti - non era affatto una mente isolata, ma un protagonista della scena internazionale».
Per Francesco I era assurto al rango di oggetto di culto: non solo come status symbol da esibire, ma (era avvenuto già con i precedenti datori di lavoro, lo spietato Ludovico il Moro e il feroce Cesare Borgia) super-cervello da cui attingere idee ai limiti dell’umanamente concepibile. Di scenografica grandezza e di strategia globale. Così il Leonardo della vecchiaia trascura la pittura, ma continua a pensare per immagini. Mentre medita sulla fine, disegnando sconvolgenti immagini del Diluvio, in cui la Natura fa a pezzi l’umanità come in uno tsunami, progetta quella che Pedretti definisce «una Versailles con due secoli d’anticipo rispetto a Luigi XIV».
Il luogo si chiama Romorantin e si trova, simbolicamente, nel cuore della Francia. Francesco I vuole un nuovo palazzo, al centro di una nuova città. E Leonardo - racconta Pedretti - si mette al lavoro con l’allievo Francesco Melzi. «Fece sopralluoghi e rilievi». Immaginò una delle sue metropoli ideali, in cui l’acqua era addomesticata in una serie di canali e la circolazione di uomini e merci razionalizzata. Il Maestro - che sull’acqua nella versione creatrice e distruttrice non smise mai di interrogarsi - immaginò di inserire la sua creatura urbana in una rete idrografica che avrebbe unito Loira, Saona e Rodano. Pedretti racconta con emozione il parallelo realtà-allucinazione. Se l’archeologia riporta alla luce i tracciati leonardeschi, i disegni descrivono vie e palazzi. «Ho fatto smontare il Codice Arundel per recuperare il fascicolo del progetto». E Pedretti aggiunge un ulteriore indizio: il versetto del poeta Clément des Marets, noto come Marot, che, piangendo la morte di Luisa di Savoia, commemorerà la fine del Grande Sogno di Romorantin, quando Francesco I perde la gara per l’impero e Leonardo scompare, trascinando l’Atlantide rinascimentale nel gorgo del nulla.
Ma è un nulla apparente. Pedretti, che si dice orgoglioso di essere «cittadino onorario di Romorantin», conclude così: «Quella su Leonardo non è un’arida ricerca. È un’esperienza unica. C’è ancora moltissimo da trovare».

La Stampa 7.5.14
Sos bimbi tecnologici: ritardi nel linguaggio

Una ricerca del Cohen Children’s medical center di New York lancia l’allarme: i bimbi ’tecnologici’ mostrano ritardi nello sviluppo del linguaggio.Secondo la ricerca presentata al congresso pediatrico di Vancouver, i bambini venuti a contatto con touchscreen e app prima degli 11 mesi non solo non hanno alcuna attitudine particolare, come invece sostengono i loro genitori. Ma anzi evidenziavano dei ritardi nello sviluppo del linguaggio. Un dato preoccupante rafforzato dalle segnalazioni delle associazioni di insegnanti del Regno Unito, secondo le quali i bimbi che alla materna sanno far scorrere uno schermo, non sanno però usare le costruzioni e hanno difficoltà nelle relazioni con i compagni e gli insegnanti.Le linee guida dell’associazione dei pediatri statunitensi consigliano di non far usare i dispositivi elettronici fino ai due anni, e poi di concederli al massimo per un’ora al giorno.
UN VIDEO QUI

Corriere 6.5.14
Il risultato delle più recenti scoperte
I Neandertal, né più stupidi né più primitivi di noi
La prova dell’inferiorità cognitiva dei Neandertal non c’è. L’incrocio con i nostri antenati probabilmente produsse discendenti maschi poco fertili
di Massimo Spampani

qui

il Fatto 7.5.14
Lo scansaeventi: guida semiseria per sopravvivere al Salone del Libro
di Elisabetta Ambrosi


Cinquecento appuntamenti, duecento location, centinaia di autori: Il Salone del libro si approssima e voi non sapete come orientarvi nel labirinto del programma, mentre l’ansia da prestazioni visitatoria cresce? Ecco una breve guida-scansa eventi, con percorsi accuratamente studiati apposta per voi. Per evitare perdite di tempo e, soprattutto, cattivi incontri.
Percorso uno: soporifero
La concentrazione è un problema e la gastrite vi impedisce il caffè? Ecco gli appuntamenti da dribblare onde evitare sonnellini pre e post prandiali. Ad esempio, l’ennesima lezione di Massimo Cacciari, giovedì 8 maggio, sugli imprevedibili esiti del paradossale labirinto dei sentieri filosofici, così come quella, domenica 11, di Luciano Canfora, su Crisi dell’utopia. Aristotele contro Platone. Consigliato solo a digiuno l’altissimo dialogo La verità o il bene che cerchiamo tra Maria Pia Veladiano e Remo Bodei, sabato alle 14:30 e pure, soprattutto per scansare un fastidioso effetto deja vu, Piergiorgio Odifreddi che racconta Lucrezio e Newton, venerdì 9 alle 12.
Percorso due: Ancora loro?
Per essere sicuri che la terza repubblica non sia solo un abbaglio, giovedì 8 maggio alle 16.30 alla larga dalla sala Gialla: potreste incappare nella presentazione del nuovo libro di Massimo d’Alema, Non solo euro, ma anche a quella del nuovo libro di Walter Veltroni, Quando c’era Berlinguer, sabato 10 alle 19.30. Per (non) sapere “dove sta andando e dove dovrebbe andare l’Europa” eludete anche la presentazione di Europa Perduta?, il libro di Giuliano Amato e Galli della Loggia.
Percorso tre: ideologia de’ noantri
È la guida da tenere sott’occhio se volete evitare gli incontri che, sotto la veste della provocazione intellettuale, ripropongono sempre la stessa muffa concettuale. Ad esempio, giovedì alle 18.30, l’incontro di Giuliano Ferrara con gli autori del libro Questo papa piace troppo, ma anche quello con Costanza Miriano, sabato sera, su Maschio e femmina: contro l’ideologia del genere. Alla larga dalla Sala Blu, o meglio presenti con fiammifero, sabato alle 11.30, per la presentazione di #ilibri sono pericolosi, di Pierluigi Battista (con Aldo Cazzullo). Sempre per la serie ideologia de’ noantri, ma in versione “il dibattito no”, la doppia sessione Le anime della destra e Le anime della destra. La cultura, con vari partecipanti, tra cui Piero Ostellino e Angelo Mellone.
Percorso quattro: meglio la crisi
Se siete esausti di ricette anti crisi e soluzioni al declino, questo è il percorso (da schivare) che fa per voi. Non volete sapere “tutto quello che vorreste sapere sul mercato del lavoro e non avete mai chiesto”? Basta rifuggire l’incontro sabato 10 alle 14.30 con Walter Passerini e Ignazio Marino, così come ignorare, domenica 11, le ricette per la piena occupazione di Renato Brunetta. Sempre domenica , sottraetevi a Luca Ricolfi che presenta il suo La fine della crescita, “un’analisi puntuale sul destino dei paesi ricchi che propone nuove soluzioni per la crisi italiana”. Andate invece, e piangete, all’incontro di sabato 10, dove Massimo Popolizio leggerà il libro di Aldo Cazzullo Basta Piangere.
Percorso cinque : me la canto e me la suono
Ovvero quando gli autori, amici e colleghi, si autoincensano o incensano reciprocamente, per piacere o per dovere. Qualche esempio? L’Italia tra il comico e il tragico, con Francesco Piccolo e Michele Serra, sabato 10 alle 15.30, oppure Manfellotto che presenta il libro di Scalfari, domenica 11 alle 18.00. E poi, sabato alle 18.30, Marino Sinibaldi incontra Marino Sinibaldi in occasione del libro intervista a Marino Sinibaldi. Stesso tema, in versione eroi del nostro tempo, domenica 11 alle 19.30, per l’uscita di Storie di Coraggio: “Farinetti incontra una altro navigatore coraggioso, Giovanni Soldini”.
Percorso sei: nostalgia del digiuno
Perdibile, infine, l’imperdibile incontro con i masterchef Barbieri e Cracco, sabato 10 maggio. Ma soprattutto saltabile a piè pari l’intero percorso Casa Cook Book, con dozzine di showcooking dei cuochi più sconosciuti e incontri con titoli del tipo Antiaging con gusto con cucina evolution, oppure Alice e lo champagne delle meraviglie, ma anche Las Vegans, Pasta madre. Le magie della vita in una ciotola e, sublime, Come fare il pane, un’esperienza emotiva.

Repubblica 7.5.14
Il 4 luglio “Il principe di Homburg” inaugura il festival teatrale più famoso d’Oltralpe
Barberio Corsetti apre Avignone con un grande Kleist
di Anna Bandettini


ROMA - DA TONI Servillo a ricci/forte, da Castellucci a Delbono, Emma Dante, Lina Prosa, Scimone-Sframeli... la Francia ama gli artisti italiani. E ora ad aprire il 4 luglio il più grande festival francese di teatro, quello di Avignone, sarà proprio un regista italiano: Giorgio Barberio Corsetti. Ad Avignone metterà in scena, nella Corte d’onore del Palazzo dei Papi, l’opera più famosa di Kleist Il principe di Homburg , il testo con cui Jean Vilar, leggenda del teatro d’oltralpe, aprì il festival nella sua prima edizione del ’47. Insomma, un evento, proiettato su maxi schermo a Parigi e in diretta tv sulla rete nazionale. «Una bella responsabilità, lo so, che mi fa tremare le gambe - confessa Barberio Corsetti, freneticamente impegnato perché ha da poco debuttato a Marsiglia con un altro testo di Kleist, La famiglia Schroffenstein ( arriverà a metà luglio anche ad Avignone), alla Friche la Belle de mai, «una suggestiva ex fabbrica - racconta il regista - da cui sono state ricavate due sale teatrali. Quando vedo queste cose mi viene il magone a pensare che a Roma invece i teatri chiudono, il Palladium, l’Angelo Mai... Da noi, è tutto difficile, complicato... Varchi i confini e scopri una vivacità creativa che noi non abbiamo più». Il principe di Homburg è un dramma profondo e ambiguo, “un enigma”, dice il regista che si apre con il sonnambulismo di un principe e si chiude con un suo svenimento e il dubbio che tutto ciò che è accaduto sia solo un sogno; in mezzo un’avventura militare, bellica, in realtà umana, sulla sfida alla legge, all’autorità e probabilmente anche all’inconscio. «Il dramma è un racconto di atti mancati, di fraintendimenti - spiega Barberio Corsetti - È come se Kleist svelasse la parte nascosta di un mondo, quella che ci spinge al di là del pensiero razionale. E per farlo non può che essere elusivo, perché ad alcune cose profonde dell’uomo puoi accedere solo alludendo». Lo spettacolo è stato dunque pensato con un raddoppiamento narrativo: soluzioni spaziali non convenzionali, piani in movimento con le scene spostate dai personaggi, costumi filtrati da immagini della fine della prima Guerra mondiale riscritti e ridisegnati, e dall’altra le immagini proiettate «che amplificano l’universo interiore dei personaggi - spiega Barberio Corsetti - Lance incendiate, fuoco, visioni del giudizio finale, corpi nudi... Immagini più pittoriche che realistiche». Peccato non vederlo in Italia. «Qui si vedrà, con RomaEuropa in autunno e con Claudio Santamaria, accanto a Marcello Prayer e Valentina Apicello, Gospodin del trentenne tedesco Philipp Loehle, che proprio con questo testo è diventato un caso in Europa: è la storia di un uomo che rifiuta il denaro e vive facendone a meno. Ovviamente viene abbandonato da tutti e alla fine scopre che l’unica possibilità è andare in galera».