giovedì 8 maggio 2014

l’Unità 8.5.14
Ai lettori
Domani e sabato l’Unità non sarà in edicola per uno sciopero. Torneremo domenica. Left sarà in edicola lunedì


COMUNICATO DEL CDR
Il 14maggio è convocata un’assemblea straordinaria dei soci della Nuova Iniziativa Editoriale (Nie) editrice de l’Unità. Una società che sembra essere arrivata al suo capolinea, ultima tappa di un processo, che al di là delle buone intenzioni più volte predicate ma mai praticate, ha indebolito fortemente il giornale, facendo mancare un serio piano industriale che ne sostenesse lo spazio di mercato; spazio tutt’altro che residuale come dimostra il successo dei supplementi legati al 90esimo de l’Unità. La fine di una società non dev’essere la fine de l’Unità, della sua storia, del suo futuro, della comunità dei suoi lettori, delle lavoratrici e dei lavoratori che ne sono parte che oggi vedono negato anche il diritto alla retribuzione. Ai soci della Nie diciamo chiaramente che contrasteremo con tutte le nostre forze questa opera di dismissione che il 14maggio potrebbe avere un passaggio decisivo. Devastante. Il nostro nonè un appello. È l’annuncio di un’iniziativa di lotta che si articolerà su vari piani, politici, sindacali, legali. A chi proclama la sua vicinanza al giornale diciamo che non bastano, non ci bastano più generici attestati di solidarietà: le manifestazioni di impegno dalle parole devono trasformarsi in fatti. Oggi, non in un indefinito domani. Per queste ragioni i giornalisti de l’Unità proclamano due giornate di sciopero, per giovedì e venerdì 8 e 9 maggio.
Il Cdr

COMUNICATO DELL’AZIENDA
La situazione economico-finanziaria dell’Azienda è di oggettiva difficoltà ed è necessario che tutte le parti coinvolte agiscano con il massimo senso di responsabilità. L’assemblea straordinaria dei soci è stata convocata proprio con l’obiettivo di ottenere indicazioni chiare e definitive sul percorso da seguire.
L’Azienda

il Fatto 8.5.14
L’unità sciopera 2 giorni
Matteo ha un problema


Due giorni di sciopero già fissati per domani e dopodomani, e una assemblea straordinaria dei soci, il 14 del mese, che preoccupa i sessantacinque lavoratori del giornale fondato da Antonio Gramsci. All’ordine del giorno, tra le ipotesi al vaglio, c’è anche la liquidazione della Nie, la società editrice che ha contribuito a far tornare il quotidiano in edicola nel marzo del 2001. Tanto che il cdr del giornale scrive nel proprio comunicato di ieri: “La fine di una società non dev’essere la fine de l’Unità, della sua storia, del suo futuro, della comunità dei suoi lettori, delle lavoratrici e dei lavoratori che ne sono parte che oggi vedono negato anche il diritto alla retribuzione. Ai soci della Nie diciamo chiaramente che contrasteremo con tutte le nostre forze questa opera di dismissione che il 14 maggio potrebbe avere un passaggio decisivo. Devastante” . Che farà il segretario del Pd Matteo Renzi con lo storico giornale del partito? Per adesso in agenda sono fissati incontri con il reggente del Nazareno Lorenzo Guerini e con il tesoriere Francesco Bonifazi. “A chi proclama la sua vicinanza al giornale - chiedono i rappresentanti sindacali de l’Unità - diciamo che non bastano, non ci bastano più generici attestati di solidarietà: le manifestazioni di impegno dalle parole devono trasformarsi in fatti”.

La Stampa 8.5.14
Simulazione di schifo
di Massimo Gramellini


L’immagine immortala Riccardo Fraccaro dei Cinquestelle in uno studio televisivo mentre si spazzola il gomito della giacca dopo che il suo vicino di posto Pippo Civati gliel’ha sfiorata. Il Pippo del Pd non risulta portatore di malattie infettive (non è neanche comunista) e tra i tutti i membri dell’esecrabile nomenclatura è senz’altro il meno impuro, essendosi sempre schierato all’opposizione di chiunque. Eppure il cittadino Fraccaro ritiene inconcepibile ogni contatto fisico con lui. Non subito però. Impiega tre secondi per accorgersi dell’oltraggio, come quei giocatori diplomati in simulazione che ci mettono del tempo prima di cadere moribondi al suolo. Nella spazzolata ritardata di Fraccaro latitano l’ironia e la spontaneità che avrebbero saputo profondervi degli istrioni matricolati come Grillo o il Berlusconi ilare spolveratore della sedia di Travaglio. La sua sembra piuttosto l’esecuzione gelida di uno schema mandato a memoria per esprimere con un gesto plastico, a beneficio del pubblico votante, lo schifo suscitato dai politici di professione. Ma se persino i grillini cominciano a recitare i loro malumori, ai cercatori di certezze alternative al sistema non resterà che aggrapparsi ai tatuaggi del signor Carogna. Sempre che non facesse finta anche lui.

l’Unità 8.5.14
Quel comunista di San Francesco Testimone o testimonial?
L’influenza dell’Assisiate nella cultura della sinistra
di Grado Giovanni Merlo
Storico del Medioevo


NEI «QUADERNI DAL CARCERE» DI ANTONIO GRAMSCI LA MENZIONE DI SAN FRANCESCO COMPARE ALCUNE RARE VOLTE.
Accostato, nel 1934, a «un Passavanti» e a «un (Tommaso) da Kempis» per la sua «ingenua effusione di fede», in precedenza san Francesco era entrato in compagnia dei «movimenti religiosi popolari del medioevo». (...) Dai frammenti gramsciani non risulta alcuna enfatizzazione o mitizzazione di san Francesco, la cui vicenda viene considerata nei propri limiti, per dir così, politici, ma anche nei suoi effetti istituzionali.
ALESSANDRO NATTA: SEMPLICE FRATE
Nel 1989 compare il testo di una lunga intervista fatta da Alceste Santini, «vaticanista» de L’Unità, ad Alessandro Natta, fino all’anno precedente segretario del Partito Comunista Italiano (…). Verso la fine dell’intervista, Santini chiede a Natta: «Quale figura spirituale o religiosa senti più consona?» La risposta dell’ex-segretario comunista è la seguente: San Francesco, «uomo di una notevole modernità» e «fondatore di un movimento tra i più moderni, vicino, vicino, anche storicamente, ai problemi del mondo attuale», tale da spingere il dirigente comunista a visitare «i luoghi dove predicò, fondò e animò il suo Ordine religioso»: Sono stato ad Assisi nell’ottobre 1987 (…). In quell’occasione feci visita ai frati francescani, nel loro convento, rinnovandola visita fatta in precedenza anche da Berlinguer. Il priore (sic!) era assente, ed io tornai il giorno dopo a ringraziarlo per l’accoglienza ricevuta (…). Interessato e incuriosito, anche perché il priore (sic!) mi pare fosse al termine del suo secondo mandato, gli ho chiesto: «E quando non si è più priori?». Mi rispose: «Il priore torna ad essere semplice frate».
Non è caso che nella lettera di dimissioni da segretario del Partito Comunista Italiano del 10 giugno 1988 Natta dichiarasse che per lui valeva «la norma dei francescani tra i quali il priore (sic!) che ha compiuto il suo mandato torna ad essere un semplice frate».
IL «MILITANTE COMUNISTA» FRANCESCANO
Proseguendo nel nostro sentiero, «di sinistra», incontriamo Empire, ovvero Impero. Autori ne sono Michael Hardt e Antonio Negri, più noto come Toni Negri. Il libro intende illustrare «il nuovo ordine della globalizzazione», nella convinzione che «l’Impero sia il nuovo soggetto politico che regola gli scambi mondiali, il potere sovrano che governa il mondo» e nella prospettiva di individuare e illustrare «le forze che contestano l’Impero e prefigurano effettivamente una società globale alternativa». Al termine di una faticosa lettura, si trova un medaglione che descrive «il militante », ossia «l’agente della produzione biopolitica e della resistenza contro l’Impero», colui che, ribellandosi, si proietta «in un progetto d’amore». Qui assistiamo all’entrata in scena di san Francesco d’Assisi: «C’è un’antica leggenda che potrebbe illuminare la vita futura della militanza comunista: la leggenda di san Francesco di Assisi. Vediamo quale fu la sua impresa. Per denunciare la povertà della moltitudine, ne adottò la condizione comune e vi scoprì la potenza ontologica di una nuova società. Il militante comunista fa lo stesso (…). In opposizione al capitalismo nascente, Francesco rifiutava qualsiasi disciplina strumentale, e alla mortificazione della carne (nella povertà e nell’ordine costituito) egli contrapponeva una vita gioiosa (alla) volontà di potere e (alla) corruzione. Nella postmodernità, ci troviamo ancora nella situazione di Francesco, a contrapporre la gioia di essere alla miseria del potere».
Si direbbe che siamo di fronte a un san Francesco situazionista-estetizzante in una concezione rivoluzionaria situazionista-estetizzante. L’Impero è brutto emisero, l’essere militante comunista è bello e gioioso, così come la «sua» rivoluzione. A questo punto scaturisce un’associazione di idee che imporrebbe di mettere a confronto l’elaborazione di Hardt e Negri con taluni aspetti connotanti il MoVimento5Stelle. L’elemento speculare che mette di fronte gli uni all’altro è, guarda caso, san Francesco.
IL M5S E IL FRANCESCANESIMO
Nel Blog di Beppe Grillo si legge: «Il M5S è nat o , per scelta, il giorno di San Francesco, il 4 ottobre 2009. Era il santo adatto per un Movimento senza contributi pubblici, senza sedi, senza tesorieri, senza dirigenti. Un santo ambientalista e animalista. I ragazzi del M5S (…) nel 2010 si autodefinirono i «pazzi della democrazia», così come i francescani erano detti i “pazzi di Dio”. Ci sono molte affinità tra il francescanesimo e il M5S». Poco importa se le presunte «affinità» siano assai difficili da intravedere o, forse meglio, non esistano affatto. E quando esse vengono palesate, non ci vuol molto a capire come si fondino su dati inattendibili o falsi. Lo si intravede appena si cerchi di capire quale san Francesco i leader del MoVimento si immaginino. In proposito chiarificatore è quanto si rinviene nel volumetto Il grillo canta sempre al tramonto, un dialogo “a tre” fra Fo, Casaleggio e Beppe Grillo. È Fo che si assume il compito di tracciare, rispetto alle “falsità” «che ci raccontano da secoli», alcuni aspetti della «vera storia» di san Francesco.
IL «GRANDE RIVOLUZIONARIO» AMBIENTALISTA E ANIMALISTA
Il san Francesco ambientalista e animalista è immagine diffusa. Per esempio, essa occupa un posto di rilievo nel «dialogo nell’inverno 1994» tra i «comunisti» Paolo Volponi e Francesco Leonetti. A un certo punto il filosofo chiede al noto scrittore a «quale classico italiano» si riferirebbe. La risposta di Volponi è immediata: «La lezione di san Francesco è sempre attuale, e oggi più attuale che mai (…). Amo (…) la sua lezione. Che è quella di un grande rivoluzionario, in nome della bellezza della Terra e della onestà degli esseri (…). San Francesco è l’idea della felicità e della verità, nel nuovo, della rivoluzione, del presente possibile…
La risposta di Volponi contiene non solo l’immagine di un san Francesco «ambientalista e animalista »,ma un san Francesco addirittura «grande rivoluzionario» capace di indicare agli uomini di fine Novecento le strade per un cambiamento radicale del loro modo di agire e di rapportarsi con la vita. Un’aria di famiglia sembra avvolgere e far respirare la posizione espressa sintesi da Volponi e Leonetti e quella di Hardt e Negri. Curioso è constatare che Leonetti e Negri - questi dopo una iniziale militanza cattolica - affondano in origine la loro visione comunista nell’operaismo degli anni sessanta del Novecento.
LA NECESSITÀ DI UN «MONDO NUOVO»
Non è mia intenzione seguire «a ritroso» questo sentiero, poiché sarei arrivato là dove si intravede la straordinaria «apertura» costituita dall’elezione a vescovo di Roma di Jorge Mario Bergoglio. Concetti non nuovi sono stati ripresi da molti per connotare la sua scelta di assumere il nome di papa Francesco. Pensiamo a un non più giovane ex militante e dirigente del Pci, Alfredo Reichlin, che agli inizi dell’aprile 2103 così si esprime: «Siamo entrati in pieno nella mondializzazione e la viviamo senza renderci conto dell’enormità e della pericolosità del fatto che essa è diretta dalle logiche dei movimenti finanziari (…). Chi se ne fa carico? (…) Mi ha molto colpito l’elezione di questo papa (Francesco). È un grande evento che allude a un mondo nuovo; allude al fatto che è fallita l’illusione di dirigere la mondializzazione attraverso i mercati finanziari e si è aperta a livello planetario una grande questione sociale. Il nome di Francesco d’Assisi ha questo significato.
Ecco ancora, per l’ennesima volta, profilarsi un «mondo nuovo», ovvero la necessità di un «mondo nuovo» verso il quale i «Franceschi» di ieri e di oggi sono in grado di condurre l’umanità poiché testimoni attivi di valori «altri», anche se il francescanesimo non è un umanesimo né è riducibile a un umanesimo «rivoluzionario» che trova giustificazione e legittimazione in se stesso, ma è una delle massime espressioni della fede nel Dio trinitario.
POSTSCRIPTUM
Si legge su La Stampa del 13 aprile 2014, nel resoconto della manifestazione di apertura della campagna elettorale in vista delle elezioni europee del maggio 2014 con la partecipazione eminente di Matteo Renzi, nelle vesti di segretario del Partito Democratico, di alcune novità significative nello svolgimento della manifestazione: «Niente vip (…). Anormali anche i conduttori della kermesse (…). I video di Fantozzi, Maradona e Frankenstein Junior. Le citazioni ruffiane di san Francesco d’Assisi». Insomma, nella cultura di sinistra, anzi di centro-sinistra, l’Assisiate rischia di trasformarsi da testimone di Gesù Cristo in testimonial.

la Stampa 8.5.14
Pressing del Pd su Renzi
“Non farti infinocchiare”
Crescono i malumori a sinistra per l’accordo con Berlusconi Il premier: messaggio ricevuto. Congelata la riforma del Senato
di Amedeo La Mattina


L’occasione di un caffè a piazza Colonna serve a Renzi per capire le preoccupazioni del «popolo amico». «Attento Matteo, non farti infinocchiare da Berlusconi», gli gridano. Il premier replica: «Messaggio ricevuto, state tranquilli». Ma è difficile a Palazzo Chigi dormire sonni sereni con una maggioranza in fibrillazione perenne sulla riforma costituzionale. È questo il terreno del confronto con l’ex Cavaliere. Che nelle ultime ore ha persino ventilato l’ipotesi di una nuova maggioranza congiunta. Parole che hanno fatto tremare i polsi a molti esponenti del Pd. «Non siamo né pronti né disponibili al matrimonio», ha chiarito per tutti D’Alema. Ma resta evidente che equilibri e collaborazioni future saranno condizionate dall’esito del voto del 25 maggio. È lo stesso sottosegretario Delrio, vero alter ego di Renzi, ad ammettere che il governo avrà grossi problemi se il Pd resterà inchiodato al 25% e Alfano non riuscirà a superare il 4. Ipotesi improbabile. Non impossibile. In attesa del voto la riforma del Senato viene congelata. Solo se l’esito delle europee sarà confortante il patto con Berlusconi reggerà.
Ieri Palazzo Madama sembrava un campo di battaglia dopo la prima tregua. Feriti ovunque. La pressione di Verdini sull’ex Cavaliere e le telefonate di quest’ultimo con il premier hanno portato all’approvazione in commissione Affari costituzionali del testo del governo con i voti di Forza Italia. «Se ci fossimo tirati indietro - ha spiegato Berlusconi - ci avrebbero accusato di essere dei sabotatori e di essere venuti meno ai patti».
Il soccorso azzurro ha dunque salvato Renzi al quale sono mancati i voti di alcuni senatori della sua maggioranza (i più oltranzisti Corradino Mineo e Mario Mauro), ma non ha risolto l’ambiguità dello strano rapporto con l’ex Cavaliere, che non ha mai fatto della coerenza il suo segno distintivo. L’intesa con l’ex Cavaliere giova al Pd o lo soffoca? «Non abbiamo salvato il governo», dice Paolo Romani. Che aggiunge. «Adesso c’è spazio per gli emendamenti fino al 23 maggio. Dopo le elezioni il tema uscirà dal teatrino della campagna elettorale».
Perciò le riforme entrano nel congelatore. Questo renderà impossibile l’approvazione in prima lettura entro il 10 giugno, la data indicata in maniera perentoria dal premier. Berlusconi, con questo balletto di concessioni e ritirate improvvise, non ha dato a Renzi la possibilità di utilizzare come bandiera per la campagna elettorale la nuova configurazione del Senato. Renzi però si è preso la soddisfazione di incardinare il percorso delle riforme stesse partendo dal testo del governo.
Il risultato è arrivato dopo una serie di telefonate tra il premier, Verdini e Berlusconi, il quale alla fine ha chiamato in commissione il ministro Maria Elena Boschi per il via libera che ha evitato la crisi di governo. A quel punto il ministro si è avvicinata al capogruppo di Fi Romani passandogli il cellulare: «Ti vuole parlare il presidente Berlusconi». Così il primo tempo della partita si è chiuso con un pareggio. Ma che cosa succederà quando riprenderanno le danze? «Voglio vedere cosa resterà del patto Renzi -Berlusconi, quando si voterà emendamento per emendamento. Cosa faranno i senatori di Fi, staranno sempre al telefono con Berlusconi e Verdini? Vedrete che alla fine il Pd l’accordo dovrà farlo con noi della Lega», dice caustico Calderoli. Corradino Mineo, del Pd, ha una visione meno divertita: «La verità è che è stato celebrato il funerale della riforma Renzi con il serpente di Berlusconi dentro la bara». Giova fare accordi con l’ex Cavaliere?

l’Unità 8.5.14
Per le riforme nuovo rinvio. A rischio il sì a inizio giugno
di A. C.


Tutto congelato fino a dopo le europee del 25 maggio. La serata convulsa di martedì, con la maggioranza a rischio sulla riforma del Senato, ha suggerito di sospendere le ostilità per tutta la campagna elettorale. Certo, la proposta di allungare la data limite per gli emendamenti al 23 maggio è arrivata dalle opposizioni. Ma nessuno del Pd si è davvero opposto.
Il premier e il Pd guardano il bicchiere mezzo pieno, e cioè l’adozione del testo base del ministro Boschi da parte della commissione, avvenuta alle 23 di martedì in un Senato deserto, con i voti anche di Forza Italia. Ma poco prima, sull’ordine del giorno del relatore leghista Calderoli (che prevede l’elezione diretta dei senatori) la maggioranza ha preso una scoppola: 15 a 13 per il testo leghista, che tra l’altro riconsegna alle Regioni moltissimi poteri che gli erano stati sottratti dalla bozza del governo. Con il “tradimento” di Mario Mauro, senatore ex montiano vicinissimo a Cl che ha votato con le opposizioni, nonostante il pressing del suo gruppo dei Popolari (di cui fa parte anche Casini) e nonostante un lungo faccia a faccia con il potente sottosegretario Graziano Delrio.
Ieri, tutte e due le fazioni in lotta si sono attribuite una vittoria. Il governo e il Pd per il sì all’adozione del testo Boschi, concentrati a derubricare l’odg Calderoli a un semplice parere non vincolante. «Vale zero», ha detto il premier con i suoi collaboratori. Mentre i forzisti gongolavano per essere stati determinanti. «Senza di noi Renzi non va da nessuna parte», ha detto l’ex Cavaliere. Mentre Calderoli ha ricordato che nel prosieguo delle votazioni la strana maggioranza sull’elezione diretta «terrà, visto che Forza Italia ha legato il suo sì al testo Boschi alle modifiche proposte da me».
Situazione assai ingarbugliata, destinata ad arroventarsi se le prime votazioni sugli emendamenti fossero avvenute negli ultimi giorni della campagna elettorale. E non era neppure immaginabile rincorrere i mal di pancia di Mario Mauro ad ogni votazione, anche perché l’ex ministro della Difesa sembra sempre più tentato dal ritorno in Forza Italia. Per questo il premier ha accettato la nuova frenata, che rende assai difficile un sì dell’aula di palazzo Madama entro il 10 giugno.Manessuno ormai sembra avere fretta: «Eviterei di mettere date perché porta male », dice il coordinatore di Ncd Gaetano Quagliariello, che dell’elezione diretta dei senatori insieme ai consiglieri regionali è sempre stato fautore.
Per il Pd poi c’è il fronte interno. «Spazzeremo via l’odg Calderoli con gli emendamenti», spiega un senatore dem. Ma anche i ribelli riprendono forza. Corradino Mineo, uno dei senatori vicini a Civati, sembra tutt’altro che pentito di non aver votato il testo Boschi. «Sono stato coerente: ho messo a verbale che il governo sulle questioni costituzionali non dovrebbe intervenire o, comunque, dovrebbe farlo con garbo. Il contrario di quanto è avvenuto. Renzi ha sbagliato tutto, e il risultato è sotto gli occhi di tutti», dice l’ex direttore di Rainews. «C’è una maggioranza che vuole l’elettività dei senatori. Noi presenteremo emendamenti in questo senso». Mineo però rischia il posto in commissione. Nei prossimi giorni sarà chiamato a rapporto dai vertici del gruppo, con l’accusa di non aver avvertito Zanda delle due decisioni. In mancanza di una giustificazione convincente, potrebbe essere trasferito in un’altra commissione. Anche Vannino Chiti, primo firmatario di un progetto alternativo, rialza la testa: «La nostra proposta sull’elezione diretta dei senatori è maggioritaria. Sulla Costituzione il governo non può pretendere di imporre un proprio sigillo».
Dopo il 25 maggio si aprirà la delicatissima partita degli emendamenti. «Chiediamo che si blindi un accordo prima nella maggioranza su un pacchetto di emendamenti», dice Quagliariello, consapevole che non sarà una passeggiata. Minzolini, falco di Forza Italia, ricorda di non aver votato insieme a un altro di Gal il testo del governo. «E in aula andrà ancora peggio per Renzi, perché i numeri sono più sfavorevoli per lui». In casa Pd si respira un’aria molto più ottimista: «Al di là di sterili giochi politici sugli ordini del giorno, abbiamo piantato un altro paletto importante per rendere più efficiente il nostro sistema istituzionale», dice la presidente della commissione Anna Finocchiaro.

l’Unità 8.5.14
«Sul Senato l’intesa si farà dopo il voto»
Intervista di Andrea Carugati a Luigi Zanda, capogruppo Pd


«La giornata di ieri non mi ha sorpreso più di tanto. Sono 40 anni che il Parlamento tribola sul tema delle riforme costituzionali. Come si poteva pensare che proprio stavolta, che siamo vicini a chiudere su temi fondamentali come la fine del bicameralismo perfetto e il completamento del disegno autonomista, tutto potesse filare liscio?». Luigi Zanda, capogruppo Pd al Senato, sparge ottimismo a piene mani, poche ore dopo la lunghissima serata che ha visto il governo traballare in commissione Affari Costituzionali, proprio sulla riforma del Senato. «Martedì sera in commissione è stato fatto un passo avanti concreto e utile, adottando il disegno di legge del governo come testo base».
Eppure l’ordine del giorno Calderoli, approvato martedì sera, è molto lontano dal testo del governo: prevede l’elezione diretta dei nuovi senatori...
«Per noi era invotabile, e non rispondeva al principio ispiratore che lo motivava: e cioè contenere solo punti condivisi largamente nella discussione generale in commissione. È un testo di ispirazione leghista».
E tuttavia è passato con 15 voti contro 13...
«L’hanno votato forze eterogenee: Forza Italia, M5s e Lega, partiti molto distanti tra loro, che non formano certo una nuova maggioranza e non sarebbero comunque in grado di cambiare la Costituzione insieme. Basta pensare agli insulti che si rivolgono costantemente in Aula M5S e Fi. Hanno posizioni molto diverse proprio sulle riforme istituzionali».
C’è stato anche il voto di Mario Mauro, che fa parte della maggioranza...
«Sinceramente non ho capito la sua scelta. Ha votato l’odg Calderoli e pochi minuti dopoil testo del governo, che hanno logiche opposte. Faccio fatica a interpretarlo. Ha fatto una scelta politica e non di merito...».
E tuttavia, presidente, martedì sera è emerso che la maggioranza della commissione vuole l’elezione diretta dei senatori. L’opposto del governo.
«Né quell’ordine del giorno, e neppure quello della presidente Finocchiaro, che è stato ritirato, contenevano indicazioni precise sulle modalità di elezione. Vedremo quando si arriverà al voto, in commissione e poi in aula... di metodi per l’indicazione dei componenti del nuovo Senato ce ne sono tanti...».
Lei sostiene, come il ministro Boschi, che quell’odg possa essere derubricato?
«Gli ordini del giorno vanno tenuti in gran conto, ma le decisioni d’aula sono un’altra cosa. Io non lo derubrico, segnalo che un odg mantiene il valore che ha: è importante ma poi bisogna vedere i voti sugli emendamenti».
Nel merito, lei come pensa si debba risolvere il nodo dell’elezione dei senatori?
«È la parte più delicata e discussa del disegno di legge. Bisogna trovare una soluzione che tenga conto dell’esigenza di una elezione indiretta ma anche di una caratura democratica delle procedure di designazione. Ci sono molti modi per raggiungere questo obiettivo». Fi rivendica di essere stata determinante nel voto sul testo del governo.
«A me non sembra proprio».
L’accordo con Berlusconi sulle riforme esce stravolto da questa serata?
«Su Berlusconi non faccio previsioni. Registro che sul testo base del governo c’è stato un consistente passo avanti. C’è un interesse del Parlamento ad approvare la riforma e credo che dopo le europee molte forze politiche cesseranno di fare campagna elettorale in Parlamento. Continuo a considerare positivo che Fi partecipi al processo delle riforme, pur restando all’opposizione».
Crede che l’accordo con Fi reggerà anche in futuro?
«Credo di sì».
Il governo ha rischiato grosso. Crede che l’insistenza sul testo base del ministro Boschi sia stata un errore, visto il clima che si respirava da giorni in commissione?
«Il presidente Renzi ha legato il futuro del governo al processo riformatore e io credo che sia stata una decisione giusta. Non credo che il governo inciamperà sulle riforme costituzionali, c’è una consapevolezza diffusa sui rischi che la stessa ripresa economica correrebbe se non fossimo in grado di cambiare le istituzioni».
Ma era proprio necessario insistere su quel testo base?
«Oggi, con una maggioranza complessa e con la necessità di coinvolgere anche le opposizioni, solo il governo è in grado di tenere il bandolo della matassa di una riforma così delicata».
Molti, anche nel Pd, pensano che un testo dei relatori sarebbe stato più opportuno...
«La soluzione migliore sarebbe stata il testo base del governo e l’ordine del giorno Finocchiaro. Ma Mario Mauro ha deciso che non fosse così».
Veramente anche Corradino Mineo, del Pd, non ha votato il testo del governo. E Vannino Chiti rilancia l’elezione diretta...
«La decisione di Mineo va approfondita e capita meglio. Avevo parlato con lui e avevo capito che avrebbe votato col gruppo. È evidente che avevo capito male... ma un conto è il non voto di Mineo, un altro la tenuta del Pd su cui non ho dubbi».
Ha pensato di sostituirlo in commissione con un senatore meno ribelle?
«Non ho ancora capito perché Mineo non mi ha avvisato preventivamente della sua decisione».
Il presidente della Giunta per le elezioni Dario Stefano (Sel) sostiene che dopo il sì all’odg Calderoli non si potesse adottare il testo base del governo. Parla di testi che confliggono e «pasticcio procedurale» e chiama in causa Pietro Grasso.
«Stefano sbaglia. E comunque la commissione si è espressa in modo chiaro».

il Fatto 8.5.14
Riforme ancora rimandate in attesa del voto europeo
Il premier minaccia B. con le elezioni anticipate, ma lavora per rimanere
di Wanda Marra


Ricevuto, tranquilli. Non mi faccio infinocchiare da Berlusconi”. Così replicava ieri Matteo Renzi a una passante mentre in libera uscita andava a bere un caffè a Piazza Colonna.
LA PROVA dell’altroieri sera a Palazzo Madama, quando per far passare in Commissione Affari costuzionali il testo del governo sulla riforma del Senato, ha dovuto telefonare al leader di Forza Italia, richiamandolo al Patto del Nazareno, non è stata delle migliori. E anche se ieri la versione ufficiale degli “uomini del Presidente” era: “tutto bene”, il termine della presentazione degli emendamenti è stato spostato al 23, nessun sì neanche in Commissione prima delle europee. Il rischio di scivoloni è troppo alto. Da qui alle elezioni è tutto congelato. Poi si vedrà. I renziani ieri la mettevano così: “È stato Matteo a salvare Berlusconi l’altra sera. Perché se salta tutto, il problema è suo”.
Insomma, sondaggi alla mano e campagna elettorale a tappeto la strategia di Renzi a questo punto è scavallare il voto. Ottenendo il 32-33%. E poi richiamare il leader di FI al patto del Nazareno, contando sul fatto che uscirà ammaccato e sconfitto dalla prova delle urne. E dunque, il patto terrà. “Dopo le europee, le riforme le faremo rapidamente. Il paese le vuole. Come si fa a spiegare un’altra campagna elettorale?”, ragionava ieri il segretario della Toscana, Dario Parrini. Perché Renzi a votare non ci vuole andare: meglio governare possibilmente fino al 2018. A quel punto, Grillo e Berlusconi presumibilmente saranno finiti. E lui va avanti almeno un decennio. Ma la minaccia del voto (che l’altroieri ha fatto agitare ad arte da Giachetti) gli serve, per richiamare tutti all’ordine. Certo, sono buoni anche i sondaggi di Grillo: e se dovesse tallonare il premier da vicino c’è tutto un altro scenario. Il governo ne esce indebolito, e l’idea di sfruttare l’onda per nuove elezioni pure. Spiega il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Graziano Delrio: “Se alle europee il Pd fosse al 25% e Ncd non raggiungesse il 4% non sarebbe certamente un buon viatico per un governo che dura a lungo”. Dunque, meglio va il Pd, più il governo è blindato? “Certo”. Resta il punto: ci si può fidare dell’asse con B.? “Fidarsi è bene...”, commenta Delrio. E per questo, l’alternativa voto è sempre aperta. Anche perché il premier in questo momento di nemici ne ha parecchi: sindacati, minoranza dem, categorie varie (dai magistrati in giù) che temono di veder rimessi in discussione il loro status. Se alla fine decidesse di rovesciare il tavolo, deve far passare un messaggio forte e chiaro: è colpa degli altri, dei “frenatori” alla sua “rivoluzione”.
OGGI intanto non a caso va a Genova, nella città di Beppe Grillo: il leit motiv della campagna elettorale è il derby “tra costruttori e sfascisti”. Intitolerà una scuola ad una agente di polizia morta con Paolo Borsellino e firmerà un accordo di partnership su Ansaldo Energia. Lui vuole andare dove circolano “energie” positive e non nei “focolai di incendio”, come fa Grillo, spiegano i suoi. Una scommessa.

Corsera 8.5.14
Il ribelle Mineo: noi maggioranza, Matteo eviti forzature
di Monica Guerzoni


ROMA - «Quell’altra roba non passa, non passa...».
Il testo base del ministro Boschi, senatore Corradino Mineo?
«Il lodo Calderoli è un punto di caduta accettabile. Lo è per noi che abbiamo firmato il ddl di Chiti, per il Ncd, per i 5 Stelle dissidenti e per molti di Forza Italia, come Minzolini».
Il governo non ha i numeri per la riforma del Senato?
«I numeri ci sono, ma per il Senato elettivo».
Renzi e Boschi sono contro.
«Con Chiti presenteremo degli emendamenti, che passeranno. C’è una maggioranza straordinaria, per questo dico che l’altra roba non va da nessuna parte».
Il premier si dimette...
«Da quando lo ha detto è cambiato tutto. Ha provato a forzare e non è andata bene. Offrire le dimissioni su materia costituzionale è un errore che nessuna impuntatura della Boschi può giustificare».
Impuntatura?
«Approvare il testo base dopo 28 ore di dibattito in commissione, che avevano portato al documento politico di Calderoli, è stato un errore assoluto. Renzi dovrà imparare a non sbagliare più».
Senatore del Pd, o gufo?
«Il premier non può accusarci di bloccare le riforme, per questo usa metafore faunistiche. Io ho grande stima del segretario. L’unico modo di aiutarlo è tenergli testa quando sbaglia. Fargli capire che ci sono delle forze che non si fanno cooptare nel coro della piccola borghesia osannante è il contrario della palude».
Renzi sbaglia?
«Ha voluto la prova di forza e si è fatto salvare da Berlusconi. Un dono avvelenato, per dimostrare che lui è il padrone delle riforme. Dire sempre no è un atteggiamento assurdo. Intestardirsi con la bandierina del testo del governo è un grande errore politico. Ma Renzi saprà recuperare».
Chi si è intestardito, il premier o il ministro Boschi?
«Io non so i retroscena, ho fatto 40 anni il giornalista e non il dietrologo e sono anche un signore all’antica. Io non lavoro con le chiacchiere, non so chi si sia intestardito di più e perché, so che un grande politico come Renzi ha preso una doppia musata».
Lei ha fatto la sua parte senatore, visto che non ha votato il testo.
«In nessun Paese la riforma della Costituzione si fa su imposizione del governo. Non basta che convochi i costituzionalisti, bisogna che studi un po’... Se non lo fai sbagli, e paghi».
Previsione fosca, la sua.
«Renzi è uomo notevole, ma io lo avevo avvertito, “Matteo sbatti contro un muro”... Se un mese fa si fosse fatto consigliare da Chiti avrebbe vinto a mani basse, invece si è fidato di consiglieri che lo hanno portato a sbattere».
È vero che i renziani hanno provato a sostituirla in commissione?
«Non so, è una voce che girava».
È a caccia di protagonismi, lei?
«Attenzione, il dissenso sul testo Boschi è più forte tra i senatori del Pd che non hanno firmato il ddl Chiti... Ma io non ho fatto il pierino, non mi sono spinto fino a far saltare il banco per protagonismo».
Si è fermato a un millimetro...
«Il banco lo ha fatto saltare Mario Mauro e io ho detto che non avrei votato solo quando ho capito che il governo avrebbe retto. Si chiama correttezza e spero che non la prendano per stupidità».

Corsera 8.5.14
Senato, la Lotteria della Riforma
Il volto sfuggente del nuovo Senato E i cittadini sono soltanto spettatori
di Michele Ainis


Finalmente la politica ha deciso: il nuovo Senato verrà eletto all’Enalotto. È l’esito del voto schizofrenico con cui la commissione Affari costituzionali ha avviato la riforma.
Un voto al quadrato, dal quale sbucano fuori due Senati: uno eletto (secondo l’ordine del giorno Calderoli), l’altro no (secondo il testo del governo). Ma se è per questo, d’ora in avanti ci concederemo pure il lusso di due Stati: uno centralista (quello di Renzi, che toglie competenze alle Regioni), l’altro federalista (quello di Calderoli, che invece le incrementa). E il doppio Stato, col suo doppio Senato, timbrerà la doppia legge: una per mano dei soli deputati (così vuole il governo), l’altra con il voto d’ambedue le Camere (così vuole l’ordine del giorno).
Insomma, troppa grazia. Ma altresì troppa disgrazia, ad ascoltare gli improperi che rimbombano dai fronti contrapposti. Con Berlusconi accusato di tradimento sia da Renzi sia da Calderoli; ma il delitto è inevitabile, se hai due mogli in casa. D’altronde in questa pièce teatrale sono tutti bigami, nessuno escluso. Anzi: c’è chi è diventato trigamo, crepi l’astinenza. È il caso del Pd: una maggioranza (con Forza Italia) sulla legge elettorale, un’altra (con Alfano) sul governo, una terza (ma esiste?) sulle riforme costituzionali. Il simbolo della nuova stagione è Mario Mauro: ha votato entrambi i testi. L’uomo che vuole e disvuole. Subito infilzato dal medesimo anatema che già trafisse il dissenziente Chiti: cerca soltanto un po’ di visibilità. Da chi? Dagli elettori. Se non altro, ora abbiamo compreso il nostro ruolo: quello dei guardoni.
Ma forse è meglio distogliere lo sguardo, tanto non è proprio un belvedere. Per i miopi, giganteggia invece l’argomento con cui la presidente Finocchiaro ha archiviato l’incidente: l’ordine del giorno Calderoli sarebbe al più un consiglio, una preghiera. Dal precetto alla prece. Quanto al tormentone sull’elezione del Senato, si profila un compromesso: decideranno le singole Regioni, ciascuna a modo suo. Avremo quindi pattuglie di senatori eletti, nominati, premiati, sorteggiati. Dal federalismo fiscale al separatismo elettorale.
Ci sarebbe da allarmarsi, se l’intenzione fosse seria. Tranquilli, non lo è. Si tratta semplicemente d’una finta, un’ammuina. Fino alle europee, nessuno caverà un ragno dal buco. E dopo? Se vince Grillo, perderà l’Italicum: per Berlusconi troppo rischioso il ballottaggio. Se vince quest’ultimo, il presidenzialismo tornerà di moda. Peccato che ogni Costituzione rifiuti i vezzi del momento: se è una Carta a modo, non passa mai di moda. Non a caso quella degli Usa risale al 1787, quando nel Far West giravano gli Apache.
Ma intanto non resta che aspettare. E magari stilare un promemoria, per quando verrà il tempo delle decisioni. Primo: nel testo del governo, non è tutto oro ciò che luccica. Però non è nemmeno una patacca. L’idea dei sindaci in Senato, per esempio: magari sono troppi, ma l’idea non è affatto malvagia. O i 21 senatori nominati dal capo dello Stato: suona bislacca la nomina (un partito del presidente, suvvia), non altrettanto i nominati. Se Palazzo Madama svolgerà un ruolo di garanzia costituzionale, ben vengano esperienze e competenze. Basta trovare un altro criterio per selezionarle, non è così difficile.
Secondo: la legge sui partiti. E quella sulle lobby. E le primarie regolamentate. E il nodo della rappresentanza femminile. E la par condicio . E il conflitto d’interessi. Fino all’altro ieri tutti questi temi sembravano impellenti, adesso sono caduti nell’oblio. Sarà che la nostra attenzione è instabile e nevrotica, come quella d’un bambino. O forse sarà che i partiti, sotto sotto, non ne vogliono sapere. Ma la malattia del sistema politico italiano scava nel corpaccione dei partiti, e da lì contagia poi le istituzioni. Se curi soltanto le seconde, ti limiti alla superficie del problema. Come il malato che si rivolga al sarto, anziché al medico condotto. Però in questo caso serve uno specialista patentato. Quale? Lo psichiatra.

l’Unità 8.5.14
L’affondo di Landini «La Cgil diventi una casa di vetro»
Il leader della Fiom presenta una sua lista e chiede un «codice etico»
Un dibattito intenso, con tanti interventi ispirati alla richiesta di unità del sindacato
Oggi la replica e la rielezione di Susanna Camusso
di Massimo Franchi


Rimini. Casa o condominio che sia, la Cgil rimarrà unita. Lo chiedono tutti, compreso- seppur chiedendo di “discutere, discutere e non stancarsi di discutere” – anche Maurizio Landini. Che però attacca e chiede un “cambiamento profondo” per “costruire una casa di vetro, trasparente, per dire come spendiamo le risorse, come prendiamo le decisioni e se ci diamo un codice etico”. Il cuore delle critiche alla relazione di martedì di Susanna Camusso – “di cui ho apprezzato molti passaggi” - sta in questo punto: “La Cgil non deve cambiare perché lo chiede Renzi ma deve attuare una trasformazione democratica perché lo chiedono i lavoratori, i precari, i giovani”, perché “il consenso di Renzi è anche figlio delle difficoltà e delle cose non abbiamo fatto contro i governi precedenti”. Sul supposto asse con il presidente del Consiglio Landini specifica: “Io non mi faccio strumentalizzare da nessuno e dice a Renzi di non stare sereno, perché lo incalzeremo per cambiare veramente il Paese”.
Era il giorno del dibattito in casa Cgil. Un dibattito contingentato – 15 minuti al termine dei quali il microfono veniva spento – che ha visto susseguirsi a ritmo serrato gli interventi dei segretari di categoria e regionali assieme a tanti delegati. Tutta l'attesa – specie mediatica - era per Landini. Si giocava una sorta di partita di ritorno del duello verbale fra il segretario generale della Fiom e Camusso. Se al congresso della Fiom – sempre qui a Rimini – era stato il segretario della Cgil a giocare in trasferta, ieri era Landini a presentarsi davanti ad una platea largamente avversa alle sue posizioni. E la critica più forte a quella stessa platea arriva per gli applausi riservati a Raffaele Bonanni “che mi hanno fatto venire i capelli dritti”, affonda Landini. Il motivo è presto detto: il leader Cisl per Landini è “quello che ha firmato i contratti separati” e allora “invece di inseguire l'unità con Cisl e Uil, deve venire prima l'unità in Cgil”.
LA RAPPRESENTANZA
Presentatosi sul palco con un maglione rosso, il segretario della Fiom ha fatto un discorso molto caldo, parlando come al solito a braccio. Nessun fischio, solo qualche brusio al momento del passaggio sul ”codice etico” e tanti applausi provenienti quasi esclusivamente dallo spicchio di delegati Fiom. Come scontato – Landini ha presentato una lista alternativa insieme al segretario confederale Nicola Nicolosi il cui primo candidato è l'operaio di Pomigliano Ciro D'Alessio – ha messo fine “al congresso nato unitario”. La spaccatura è risaputa: il Testo unico sulla rappresentanza, quello avversato dalla Fiom e dal voto dei metalmeccanici che “cercheranno di cambiare con la contrattazione”.
Gran parte dei delegati però non voleva e non vuole trasformare il congresso in un duello Camusso-Landini. A darle voce nell'intervento subito successivo è stato Franco Martini, il segretario della Filcams - commercio e servizi, la più grande della Cgil. “Basta con il delirio delle polemiche, invece di preoccuparci della scontro ai vertici, facciamo parlare un lavoratore metalmeccanico e una lavoratrice delle mense delle scuole e portiamo avanti assieme la vertenza per una mensa in una fabbrica, cosa che ora non riusciamo a fare perché ogni categoria è gelosa della sua autonomia”.
CANTONE: CONVINCEREMO RENZI
Chi invece dalla relazione di Camusso ha portato a casa l'impegno ad “una vertenza sulle pensioni” è Carla Cantone. L'azionista di maggioranza della Cgil - con i suoi quasi 3 milioni di iscritti – ha annunciato che “nelle prossime ore consegneremo a Renzi un milione di cartoline per chiedere giustizia sociale” e l'estensione del bonus di 80 euro anche ai pensionati: “E vedrete che quando arriveremo con le valanghe di cartoline Renzi dovrà incontrarci”, promette. Sul tema del cambiamento, Cantone chiede di “tuffarci dentro e nuotare senza che altri ce lo impongano, togliendoci l'acqua perché quando non c'è più acqua non si galleggia neppure”. Per la leader dei pensionati “fuori di qui c'è un mondo da riconquistare, se non lo facciamo la parola declino ci colpirà. Andiamo a incontrare chi ci conosce ma è deluso e chi non ci conosce e ci considera troppo lontani. Evitiamo di fare come i galli di Renzo dei Promessi Sposi perché rischiamo di diventare i polli di Renzi”, ha concluso Cantone.
Oggi il congresso si chiude con la rielezione di Camusso. La sua lista dovrebbe arrivare all'80% circa mentre, oltre a quella Landini-Nicolosi, ci sarà la terza di Giorgio Cremaschi. L'ex leader metalmeccanico ha tenuto il suo ultimo discorso. Non si ricandiderà al Direttivo. Il primo nome della sua lista è il giovane delfino Sergio Bellavita. Anche questo è segno di cambiamento.

Corsera 8.5.14
Ma quanto valgono Cgil, Cisl e Uil? 1,2 miliardi
Dai 12,3 milioni di iscritti arriva un contributo di circa l’1% su pensione o stipendio
di Enrico Marro


ROMA - Poiché Cgil, Cisl e Uil vantano insieme 12,3 milioni di iscritti, sono per definizione una potenza economica. Ogni iscritto paga infatti una tessera e una quota mensile, trattenuta sullo stipendio o sulla pensione, all’incirca l’1%. Trattenuta a vita, salvo disdetta per iscritto. Un lavoratore, insomma, si può stimare prudentemente che versi al sindacato in media circa 130 euro all’anno e un pensionato 60. Considerando che i lavoratori iscritti alle tre confederazioni sono 6,3 milioni si tratta di circa 828 milioni, ai quali si sommano altri 360 milioni che arrivano da pensionati e altri iscritti (disoccupati, per esempio). In tutto quasi un miliardo e duecento milioni l’anno che arrivano dai tesserati. Che rappresenta certamente la quota maggiore delle entrate del sindacato.
Ma ci sono anche risorse che vengono da finanziamento pubblico, «diretto e indiretto», come scrisse Giuliano Amato nella relazione consegnata al governo Monti nel 2012, che lo aveva incaricato di far luce sul tema per vedere se era possibile tagliare qualcosa. Amato si soffermò su tre voci: i distacchi sindacali nel pubblico impiego, cioè lavoratori che fanno i sindacalisti ma continuano a prendere lo stipendio dall’amministrazione pubblica; i fondi ai patronati, che assistono gratuitamente lavoratori e pensionati in particolare nelle pratiche previdenziali; i fondi ai Caf che si occupano invece di compilare e trasmettere le dichiarazioni dei redditi. L’ex premier concluse che ci sono margini solo sui distacchi nel pubblico impiego, che causano assenze retribuite dal lavoro corrispondenti a 3.655 dipendenti l’anno (uno su 550) per un costo di 113,3 milioni di euro. E guarda caso una delle 44 proposte di riforma della pubblica amministrazione lanciate dal governo Renzi prevede il dimezzamento dei distacchi. Per il resto, Amato suggeriva di non tagliare, né sui patronati né sui Caf, perché svolgono funzioni essenziali (riconosciute da sentenze della Corte costituzionale quelle dei patronati, che inoltre sono finanziati con i contributi versati dalle aziende all’Inps) sia perché entrambi hanno già subito pesanti tagli dei contributi. Ogni anno ai patronati vanno circa 430 milioni di euro. Una somma che si dividono una trentina di sigle, in base all’attività svolta. Certo la parte del leone la fanno i patronati di Cgil, Cisl e Uil, ma ci sono anche gli istituti promossi dai sindacati minori e dalle associazioni delle imprese. Ai Caf vanno invece circa 170 milioni. In questo caso le sigle sono addirittura 80. Il 45% dell’attività viene svolto dai centri di Cgil, Cisl e Uil e degli altri sindacati, il resto dai Caf delle altre associazioni (datori di lavoro, professionisti, organizzazioni cattoliche).
Distacchi, fondi pubblici ai patronati e ai Caf, sono forme indirette di finanziamento, di cui non si trova traccia nei bilanci dei sindacati. Caf e patronati hanno infatti bilanci separati. Ma anche restringendo il campo di osservazione ai sindacati non si troverà altro sui rispettivi siti che i bilanci delle confederazioni nazionali. Non esiste insomma il bilancio consolidato, che tiene insieme tutte le strutture sindacali, di categoria (metalmeccanici, chimici, pubblico impiego, ecc.) e territoriali (regioni, province, ecc.). E parliamo di Cgil, Cisl e Uil, perché se passiamo ai sindacati minori talvolta non esistono nemmeno i bilanci o meglio sono segreti. Basti pensare all’Ugl e forse non è un caso, vista l’inchiesta della magistratura che ha travolto il segretario Giovanni Centrella accusato di appropriazione indebita aggravata.
Del resto i sindacati sono associazioni di fatto e in quanto tali non hanno obblighi particolari. Ogni sigla si comporta come meglio crede. Fino a poco tempo anche la Fiom-Cgil, che adesso con il segretario Maurizio Landini chiede trasparenza, teneva nascosto il proprio bilancio. Poi, dopo l’arrivo di Renzi e il pressing su «tutte le spese online», la svolta. Sul sito Landini ha fatto pubblicare non solo il bilancio ma anche le sue buste paga e le retribuzioni medie dei dipendenti della struttura nazionale. Apprendiamo così che Landini guadagna 2.250 euro al mese. Per i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil dobbiamo attenerci invece a dichiarazioni e notizie filtrate sui media negli ultimi anni: circa 3.500 euro al mese disse di ricevere l’ex segretario della Cgil, Guglielmo Epifani, 4 mila euro quello della Uil, Luigi Angeletti, 4.500 Raffaele Bonanni. Infine, Cgil, Cisl e Uil hanno una grande ricchezza patrimoniale: circa 3 mila immobili la Cgil, 5 mila la Cisl e un numero imprecisato la Uil. Tutto grazie a una legge (la 902 del 1977) che attribuì loro gratuitamente il patrimonio dei disciolti sindacati fascisti.

l’Unità 8.5.14
Renzi archivia lo scontro con la Cgil e va a sfidare Grillo nella sua Genova
Apprezzamento a Palazzo Chigi per le parole di Landini
Battaglia finale con i Cinquestelle
di Vladimiro Frulletti


«Tutto come da programma, stiamo mantenendo gli impegni presi e anche nei tempi che ci eravamo pre-fissati». Da Palazzo Chigi Renzi si mostra ottimista. Fra un incontro con il segretario generale delle Nazioni Unite Ban ki Moon, un pranzo col ministro Padoan (era un paio di settimane che non si vedevano e il responsabile della politica economica gli ha riferito dei vari incontri internazionali), un caffè al bar di fronte a Piazza Colonna, condito da varie strette di mano e selfie con turisti e romani, e un faccia a faccia col ministro degli esteri degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Abdullah Bin Zayed Al Nahyan, il capo del governo coi suoi (tra cui il fidatissimo sottosegretario Luca Lotti) ha tirato le somme di questi primi due mesi di governo, notando che i segni “più” sono parecchi. Gli ultimi due poi sono quanto meno significativi. Il sì del Senato al decreto lavoro del ministro Poletti proprio nel momento di massimo scontro con la Cgil per Renzi dimostra che la strada imboccata è quella giusta. Che la concertazione oramai è da considerare una pratica superata e che si può andare avanti anche senza i sindacati. Che confrontarsi, come riassume lo stesso ministro Poletti, non significa che il governo per decidere debba chiedere il permesso. Sì al confronto, ma poi tocca alla politica assumersi le proprie responsabilità. Un cambio di spartito a cui sta contribuendo, ma per Renzi questa non è una novità, anche Maurizio Landini. Anche ieri, lette le parole che il segretario Fiom ha usato dal palco del congresso della Cgil, Renzi non ha potuto non notare che nonostante le profonde differenze la sintonia sia profonda su temi come la necessità del sindacato di cambiare, di diventare una casa di vetro (anche per quanto riguarda le spese) e di dare un vero potere decisionale ai lavoratori.
Ma Renzi vede il bicchiere mezzo pieno anche nel sì della commissione affari costituzionali del Senato sul disegno di legge costituzionale. L’approvazione anche dell’ordine del giorno Calderoli cioè per Palazzo Chigi non toglie valore al quel sì. «Il punto vero è che ora c’è un testo condiviso che è quello del governo. C’è un atto votato non parole. Ed è la prima volta che succede» sottolinea il premier coi suoi. Che poi ci si sia arrivati a fatica è anche questo un dato di fatto. È vero che Renzi ha messo sul piatto la stessa esistenza in vita del governo, ma è anche vero che poi l’intesa del Nazareno ha retto fanno notare da Palazzo Chigi. «Ricevuto ». risponde ad alcuni cittadini che, davanti a Palazzo Chigi, lo incoraggiano ad «andare avanti» e a «non farsi infinocchiare da Berlusconi». E per adesso può bastare. Poi ci sarà da aspettare quello che diranno le urne il 25 maggio. È lì che si capirà se l’attuale maggioranza avrà la forza per proseguire. Almeno questo è quello che fa capire Graziano Delrio quando a Panorama confessa che se quel voto va male il governo sarebbe a rischio. «Se alle europee il Pd fosse al 25% e Ncd non raggiungesse il 4%, non sarebbe certamente un buon viatico per un governo che duri a lungo». E certamente tornerebbero di moda le elezioni anticipate.
L’obiettivo di Renzi resta arrivare a fine legislatura, ma non a tutti i costi. Tra i suoi non c’è più solo Roberto Giachetti a ritenere che il pantano sia troppo profondo per consentire che la scaletta delle riforma (una la mese) che s’è ripromesso Renzi possa essere seguita senza blocchi.
Ecco perché nelle prossime due settimane Renzi non si risparmierà. È vero che i sondaggi per il Pd sono incoraggianti (tutti lo danno sopra abbondantemente al 30) ma Grillo alzando sempre più i toni dei propri attacchi frontali al premier sta incalzando. Non a caso lunedì alla direzione Renzi ha chiesto al suo partito di accettare la sfida grillina nelle piazze. Percorso che il premier seguirà in prima persona sia in quelle mediatiche che nelle piazze reali. Stasera verrà interrogato da 24 giovani su La 7 nel nuovo programma di Santoro, AnnoUno, condotto da Giulia Innocenzi. Ma soprattutto stamani sarà a Genova. A casa di Grillo. Scelta non casuale. «Lui continua a insultarmi, oramai mi dà anche del malato. Grillo continua a soffiare sulla rabbia e sulla paura. La nostra risposta - spiega Renzi ai suoi. deve essere diversa. Dobbiamo dare risposte concrete. Fatti non slogan. Perché c’è un’Italia che ce la vuole fare, che investe e crea posti di lavoro, che ha speranza nel futuro e che come nel caso dell’Ansaldo attrae importanti investitori stranieri. C’è chi costruisce e questa è la migliora risposta a chi vuole solo distruggere. Ed è lì che il governo e il Pd devono stare». E infatti la mattinata genovese del premier, assieme al presidente della Regione, Claudio Burlando, e al sindaco Marco Doria, prevede la visita all’Istituto italiano di tecnologia di Morego e all’Ansaldo Energia per l’ufficializzazione della nuova partnership (al 40%) con Shanghai Electric.
Ma soprattutto alla scuola Chiabrera per l’intitolazione della materna all’agente Emanuela Loi uccisa nella strage di Via d’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino. Il premier dovrebbe vedere anche i lavoratori della Piaggio Aereo a rischio chiusura. Domani poi Renzi sarà a Firenze per il convegno dell’Istituto Universitario europeo di Fiesole e sabato invece andrà a tagliare il nastro del nuovo Teatro del Maggio musicale fiorentino a due passi dalla sua” stazione Leopolda.

l’Unità 8.5.14
Lettera a una grillina, lottare «contro» o lottare «per»
di Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta


Gentilissimo Luigi Cancrini, ho letto la lettera di domenica 20 aprile, Pasqua, circa il «delirio di Grillo» e la sua risposta. La lettera del lettore è tristemente di basso livello e dire che la parafrasi di Se questo è un uomo fatta da Grillo offenda la Shoa, è davvero da poco intelligenti. Detto ciò le scrivo per la molto più interessante sua risposta, nonché per aver nella mia libreria Quei temerari sulle macchine volanti (che, dico subito, non ho mai letto, mi occupo di tutt'altro ma è lì, in bella vista, perché voglio farlo presto - è anche il titolo più bello della storia del 900!). La sua descrizione del Grillo paranoico mi pare calzante. Non ho alcuno strumento per non prenderla per buona. Ma non credo affatto che quello di Grillo sia un delirio pericoloso. Anzi. L'atteggiamento riscontrato nelle sue «performance» è il suo modo, strategico o no, più o meno consapevole, di lottare con efficacia. Il «non colloquio» con Renzi ad esempio, sgradevole e irritante, manda un messaggio chiaro: io non ti riconosco come interlocutore rispettabile, anche se sei il probabile presidente del Consiglio. Erano i colloqui per chiedere la prima fiducia al governo dove Renzi esordisce: «Non voglio chiederti la fiducia». E allora? Che sono qui a fare? A sentire il tuo programma di governo? Io non mi fido di quello che dici qui, voglio vedere i fatti, non ti riconosco come interlocutore, arrivederci. Perché non lo riconosce? Perché ritiene che Renzi non sia pulito. E lo credo anch'io. È un fase di «lotta dura» per svegliare i cervelli e le coscienze che possono. Io dopo lunghe discussioni, riflessioni, sofferenze (soprattutto per gli attacchi ciechi e di grande violenza da parte della sinistra), dopo aver visto le azioni e ascoltato molti dei parlamentari eletti, ho deciso di isrivermi al M5S. Per farne, impegnandomi dall'interno, una possibilità per me e il mio Paese, con la lucidità di vederne e combatterne i difetti e i possibili pericoli. In questo momento è il mio «sol dell'avvenir». Ho 39 anni, sono figlia di una maestra elementare da anni divenuta psicoterapeuta e del commercialista più onesto d'Italia, entrambi di sinistra. Non lo capiscono ancora, ma la mia decisione è frutto dei loro migliori insegnamenti. Le allego il link a una vecchia canzone di Edoardo Bennato Tutti insieme lo denunciam per esprimere, con ironia, il mio punto di vista sulle «vostre preoccupazioni di genitori»: https://www.youtube.com/watch?v=EYdC_ bQunYA
Con stima, e non so bene perché, affetto, LAURA DE STROBEL

Cara Laura, una lettera come la sua, intelligente e pacata, è di quelle che riconciliano con il lavoro che faccio ormai da anni per questo giornale. Me ne fa sentire, soprattutto, l’utilità nel momento in cui permette un confronto corretto su posizioni troppo spesso urlate, pro o contro Grillo che non è certamente il Male, a mio avviso, ma neppure il Bene dell’Italia. Un Paese di cui i grillini colgono efficacemente e con passione meritoria, le arretratezze paludate e la stanchezza di quelli su cui il peso e le conseguenze di queste arretratezze continuano ad abbattersi giorno dopo giorno. Ed un Paese, però, cui essi offriranno una speranza di cambiamento quando passeranno dalle offese alle proposte e quando comprenderanno che non tutto è uguale e non tutto fa schifo all’interno di quello che loro chiamano «casta» o «sistema». L'atteggiamento riscontrato nelle performance di Grillo, dice lei, è il suo modo, strategico o no, di lottare con efficacia. Contro Renzi, però, in quel caso, di cui è difficile dire che non abbia a suo modo lottato per il superamento di una «casta» e di un «sistema» consolidato di potere e di cui dice lui però (e conferma lei) che non va bene perché «non è pulito». Senza nulla spiegare, in realtà, delle ragioni di questo giudizio arbitrario e legandolo strettamente, invece, al ruolo di Presidente incaricato che lui rivestiva in quella situazione: un ruolo rispetto a cui l’unica persona che potrebbe mantenersi pulita sarebbe, a sentire lui, proprio Beppe Grillo che ancora oggi così insistentemente lo richiede. Mentre nulla ci fa sapere, però, nella confusione arrabbiata dei suoi monologhi, di quello che conc-retamente farebbe il giorno in cui avesse il potere di governare l'Italia. Perché non lo sa nemmeno lui? Perché non ha avuto il tempo di pensarci mentre continuava a gridare contro le cose che non vanno?
Lei, cara Laura, ha 39 anni. Io, come i suoi genitori ne ho un po' di più. E vorrei dirle qui, con grande affetto, che la cosa più importante che ho imparato quando avevo la sua età e «quando c'era Berlinguer» a guidare il partito di cui facevo parte è la distinzione fra il «lottare contro» ed il «lottare per». Negli anni, voglio dire, in cui il «lottare contro» era quello della ribellione giovanile prima e dei gruppi extraparlamentari poi: quando le discussioni interminabili e interminate, cioè, erano quelle che si facevano con chi, dalle fila di Lotta Continua o di Potere Operaio lottava «contro» ritenendo impossibili le mediazioni e i progetti politici intorno a cui le forze politiche di sinistra stavano cambiando il Paese. Sostituendo il sistema clientelare delle mutue, in mano alla Dc, con il Servizio sanitario nazionale uguale per tutti. Affermando il rispetto del diritto alla cura dei pazienti psichiatrici e dei tossicodipendenti (quelli che erano allora, per me, «i temerari sulle macchine volanti») e il diritto alla scuola normale dei bambini emarginati (come bene dimostrato da don Milani a Barbiana) soprattutto per ragioni sociali ed economiche e imponendo al padronato più retrivo, che dietro il fascismo prima e dietro la Dc poi si era nascosto, le leggi sullo Statuto dei lavoratori. Fu proprio lottando «per» che mi trovai impegnato nell'azione politica della giunta di sinistra alla Regione Lazio e fu proprio da chi lottava «contro» che mi arrivarono allora le minacce di morte che per andarono a segno per tanti altri di quelli che con me lottavano «per». All'interno di un contrasto molto più drammatico di quello in cui viviamo oggi e la storia si ripete, tuttavia, anche se per fortuna, i 5 Stelle sono molto meno pericolosi, con i loro tweet, di quanto non lo fossero allora i movimenti dei pazzi che si nascondevano dietro una stella a cinque punte. Perché c'è un legame stretto, cara Laura, fra il lottare «contro» e la convinzione, sempre delirante, di avere ragioni talmente superiori a quelle dell'altro da non volerlo neppure ascoltare arrivando a pensare «naturalmente» che chi non la pensa come te e non riconosce la tua verità è disonesto e cattivo e perché è da convinzioni di questo tipo che con facilità si arriva fino all’odio. Da questa convinzione il passo verso l’odio, purtroppo, è molto breve. Con armi o senza armi.
L'augurio che io mi sento di farle a questo punto, cara Laura, è estremamente semplice. Decisa com’è a entrare fra i 5Stelle e ad impegnarsi al loro interno, porti con sé dell'insegnamento che le viene, lei me lo dice, dai suoi genitori, il principio per cui si lotta «per» e non «contro». Aiutando i suoi nuovi amici a chiarire che cosa vogliono fare e a dirlo anche a noi. Gridare contro il sistema davanti alle acciaierie di Piombino è facile, un po' più difficile è, mi creda, formulare un piano per una crisi, come quella dell'acciaio, da cui si esce solo con progetti giganteschi di ristrutturazione e di riconversione. A livello nazionale ed europeo. Attribuire la crisi ad una Europa «da rivoltare come un calzino» è semplice in una fase in cui l'Italia fa fatica a ripianare un debito, accumulato da Craxi e da Berlusconi, che pesa come un macigno sul nostro tentativo di risanare la nostra economia e molto più difficile è capire che cosa farebbero di questo debito Grillo ed i suoi governando «da soli»: l’economia italiana e i rapporti con l’Europa. Da lei, che ha una formazione e, mi pare, una saggezza da persona cresciuta in una cultura di sinistra riformista, quello che ci si può attendere, io almeno lo spero, è un contributo di discussione al problema, sempre fondamentale in politica e in democrazia della chiarezza e della fattibilità delle proposte. Un problema su cui, ne sono sicuro, troverà attenti ascoltatori in molti dei seguaci attuali di Grillo. Anche se mi sembra assai difficile che trovi ascolto in lui: una persona di cui anche lei riconosce, mi pare, l'attitudine a «delirare» convinto com’è di essere il portatore di una «verità» cui molti di noi, uomini e donne «normali» non abbiamo avuto accesso. È davvero così antiquata l’idea per cui l'uomo che ragiona dovrebbe sempre affidare al dialogo più che al monologo la ricerca delle soluzioni per problemi che non sono solo suoi?

il Fatto 8.5.14
Elisabetta Gualmini Politologa del Cattaneo
“Grillo guadagna da fermo”
di Alessio Schiesari


Antieuropeismo, sistema proporzionale e un elettorato facile da mobilitare”. Sono queste, secondo Elisabetta Gualmini politologa e presidente della Fondazione di ricerca dell’Istituto Carlo Cattaneo, i tre alleati di Grillo alle prossime elezioni europee.
Gli ultimi sondaggi danno il Movimento 5 stelle al 25 per cento. Dove può arrivare?
C’è una differenza tra le elezioni politiche e le europee. Per le prime conta molto la campagna elettorale, come testimonia la rimonta di Berlusconi nel 2006 grazie alla promessa di abolizione dell’Ici. Il voto per le europee è invece un voto di identità dove conta il radicamento. Confermare il 25% delle politiche sarebbe un grande risultato, perché significherebbe che il partito si è già radicato. D’altra parte, in questo momento, è l’unico partito di opposizione: ha rubato a lo spazio politico a Berlusconi. Ma ci sono altri fattori che giocano a favore di Grillo.
Quali?
L’antieuropeismo crescente che il M5s sa intercettare, il sistema proporzionale che non premia le alleanze e l’elettorato del M5s: è facile portarlo a votare. Invece alle amministrative sarà molto più complesso.
A quali partiti il M5s sta “rubando” voti?
Per capirlo bene bisogna aspettare l’analisi dei flussi. Credo però che il Pd stia recuperando alcuni elettori che alle politiche avevano scelto Grillo. Questi vengono compensati da chi si sta allontanando da Forza Italia, un partito oggi debole come il suo leader. È una questione di contesto politico, non si può quindi dire che Grillo si stia muovendo verso destra: lui sta fermo, continua a dire cose di destra, come gli attacchi ai sindacati, e cose di sinistra, come quelle sulla precarietà. In questo è abilissimo.
Qual è l’identikit dell’elettore grillino?
Tanti giovani, soprattutto. Ma c’è anche una parte di cinquantenni e sessantenni con figli colpiti dalla crisi. Non sto parlando di “periferici”, cioè disoccupati o poveri, ma pezzi di vecchia classe media che ha paura per sé e per il futuro dei propri figli.
Le altre forze euroscettiche, Forza Italia e Lega, come stanno?
Secondo i recenti sondaggi solo il 30 per cento degli italiani si definisce euroscettico. Stiamo quindi parlando di un bacino sì grande, ma non enorme. La Lega di Salvini si muove bene: vuole replicare Marine Le Pen ed è sempre più spostata a destra. La loro posizione è chiara, per questo cresce. Forza Italia invece sconta una crisi di identità: non può affermare “usciamo dall’Euro”, perché tanti suoi elettori lo vivrebbero come una sciagura, ma cerca di dire qualcosa di diverso da Renzi.
Come legge queste elezioni?
È una sfida a tre: Grillo, partiti tradizionali e astensione. In questo momento astenuti e indecisi stanno al 40 per cento. Tra i partiti tradizionali Renzi guadagna, Berlusconi sembra perdere. Grillo cercherà di prendere voti tra i delusi che non vorrebbero andare a votare, ma non li può intercettare tutti.

il Fatto 8.5.14
La Camera vota: bisogna dimezzare il numero degli F-35


LA COMMISSIONE DIFESA della Camera ha dato l’ok al testo proposto del Partito democratico per una drastica revisione delle spese militari. Tra i tagli previsti il dimezzamento degli F-35 che passerebbero da 90 a 45. “Una moratoria finalizzata a rinegoziare l’i n te ro programma F-35 per chiarirne criticità e costi con l’obiettivo finale di dimezzare il budget finanziario originariamente prev i s to”, si legge nel documento conclusivo approvato ieri (che, comunque, non è vincolante per il governo). La “par tita” tra oppositori e sostenitori del programma si è giocata tutta all’interno del Partito democratico e, alla fine, ha prevalso la proposta del deputato Gian Piero Scanu, cha ha guidato la delegazione Pd in commissione. Plaudono con moderazione Sel e Movimento 5 Stelle. “Bene, ma serve più coraggio”, hanno commentato i deputati di Sel; “non sia solo uno spot elettorale”, invece la reazione dei cinque stelle.

la Repubblica 8.5.14
Abbiamo chiuso il sogno in un bunker
di Saskia Sassen


IL NOSTRO mondo, preda di ingiustizie e conflitti, ha bisogno dell’Europa. Ma dell’Europa come era stata pensata, e cioè basata su un forte contratto sociale che ambisce alla giustizia collettiva e a proteggere gli svantaggiati; dell’Europa che per gestire i conflitti internazionali ricorre alla diplomazia e alla legalità, e non alla forza degli eserciti; dell’Europa che lavora con l’ambiente, e non contro l’ambiente, dimostrando così di essere più avanzata di buona parte del pianeta.
QUESTA Europa ideale, però, è venuta meno e nel corso degli ultimi anni ha preso alcune decisioni che l’hanno allontanata da ciò che doveva essere. Il regresso è evidente in molti ambiti, perfino in quei settori economici che quasi per definizione sono un po’ “predatori” e che dunque negli anni potrebbero aver tratto vantaggio, come le grandi banche europee.
Oggi, invece, ci stiamo richiudendo nei bunker. Due dei bunker più grandi che abbiamo appena ultimato sono il regime di asilo dettato dal regolamento di Dublino III e il nuovo progetto di unione bancaria.
Invece della molto discussa unione bancaria che darebbe vita a meccanismi di ridistribuzione, siamo ricaduti nelle usanze del passato, con le classi politiche e bancarie di ciascun paese fin troppo amichevoli tra loro. Con tutti i suoi limiti e il suo obiettivo comune - un settore bancario forte - l’unione bancaria avrebbe imposto a paesi con tanto credito come la Germania di prendere provvedimenti per aiutare i paesi più poveri e fortemente indebitati. Nel migliore dei casi questo avrebbe richiesto un’Europa che in parte riprendesse la proposta di Keynes per la quale i paesi più ricchi hanno l’obbligo di mettere i paesi più poveri e indebitati nella condizione di poter reagire, così da garantire un sistema globale più sano. Keynes fallì nel suo tentativo, soprattutto perché gli Stati Uniti all’indomani della Seconda guerra mondiale non vollero fermare il tentativo delle banche e delle corporation di prendere il potere. Ma anche l’unione bancaria europea ha deluso, soprattutto perché la Germania non ha voluto rischiare di trovarsi bloccata con le obbligazioni che i paesi dell’Ue più ricchi avrebbero dovuto accollarsi nel nome di un’Unione europea sana.
Il secondo segnale del decadimento europeo riguarda l’asilo. Come nel caso dell’unione bancaria, un regime comune per l’asilo non è una faccenda semplice. L’Europa riuscirà a escogitare qualcosa di più ragionevole e giusto delle regole oggi vigenti? Dublino III crea un conflitto tra i paesi europei meridionali e quelli settentrionali. Rende vittime sia coloro che cercano asilo sia i paesi meridionali europei più poveri, che al momento sono tra quanti accolgono in maggior numero i richiedenti asilo - Spagna, Italia, Grecia. Questo, naturalmente, è il peggiore patto possibile. I paesi dell’Europa del Nord offrono condizioni più vantaggiose rispetto a quelli meridionali e così si è sparsa la voce: i richiedenti asilo vogliono raggiungere la Germania. Tuttavia, la legge prevede che essi si registrino nel primo paese nel quale mettono piede in Europa. Ciò ha significato che molti richiedenti asilo finiscano per essere doppiamente illegali nei paesi settentrionali, vedi in Germania: evitano di registrarsi nei paesi meridionali - come la legge impone loro di fare - per non restare bloccati lì, ma allo stesso tempo non possono registrarsi nei paesi settentrionali perché sono entrati in Europa da quelli meridionali.
Né l’unione bancaria né l’unificazione del diritto di asilo sono progetti facili. A dire il vero, per molti sembrano entrambi irrealizzabili. Eppure, l’Europa ha dimostrato con la sua stessa storia che ciò che sembrava impossibile era fattibile.
Ecco un esempio che mi piace utilizzare per illustrare in che modo ciò che sembra irrealizzabile è in realtà possibile e può diventare uno strumento per trarne ulteriori benefici. Riguarda una delle caratteristiche del Vecchio Continente più ammirate in tutto il mondo, e cioè la “città aperta” tipica dell’Europa. Si tratta di un elemento cruciale della storia d’Europa, spesso trascurato, che dimostra come la sfida per incorporare lo “straniero” diventino strumenti per sviluppare la comunità civile nel senso migliore della parola. Ed è uno strumento che oggi potrebbe assumere forme e contenuti nuovi.
L’ostilità per gli immigrati e gli attacchi contro di loro si sono verificati in ciascuna delle più importanti fasi migratorie dei principali paesi europei. Nessuno Stato che accoglie manodopera ne è immune: né la Svizzera, con la sua lunga e apprezzabile storia di neutralità internazionale, né la Francia, il paese più aperto all’immigrazione, ai profughi e agli esuli. Nel 1800 i lavoratori francesi uccisero quelli italiani, accusandoli di essere cattivi cattolici.
Sono sempre esistiti, tuttavia - come del resto esistono ancora oggi - , singoli individui, gruppi, associazioni e politici che credono nell’idea di rendere le nostre società maggiormente inclusive nei confronti degli immigrati. La storia ci insegna che coloro che combattono per l’integrazione alla fine ottengono ciò che vogliono, anche solo in parte. Se vogliamo concentrarci sul recente passato, un quarto dei francesi ha un antenato nato all’estero, tre generazioni indietro, e il 32 per cento dei viennesi è nato all’estero o ha genitori stranieri.
Potrebbe essere utile a questo proposito, e tenendo conto della sconfortante situazione sull’immigrazione di oggi, ricordare che l’Europa soffre di una mancanza di prospettiva storica, e questo è assurdo. L’Europa ha una storia secolare, a stento riconosciuta, di migrazione interna dei lavoratori. Un fenomeno rimasto nell’ombra rispetto alla “storia ufficiale”, nella quale predomina l’immagine di Europa come continente di emigrazione, mai di immigrazione. Eppure, quando Amsterdam nel Settecento costruì i suoi polder e drenò i territori paludosi importò lavoratori della Germania del nord; per le loro vigne i francesi sfruttarono gli spagnoli; quando Milano e Torino si svilupparono importarono operai dalle Alpi; quando Londra costruì le sue infrastrutture per l’acqua e per le fogne si servì di irlandesi; quando nell’Ottocento Haussmann rifece Parigi, fece arrivare operai tedeschi e belgi; quando la Svezia decise di aver bisogno di palazzi eleganti, importò gli italiani; quando la Svizzera costruì il tunnel del San Gottardo, utilizzò immigrati italiani; e quando la Germania ricostruì le sue ferrovie e le sue acciaierie si servì di immigrati italiani e polacchi.
Anche se molti di questi lavoratori migranti tornarono nei rispettivi paesi di origine, molti altri sono rimasti, soprattutto nelle grandi città. L’integrazione degli immigrati in Europa nel corso dei secoli ha imposto la fatica di redigere norme nuove, soprattutto perché l’Europa prende molto sul serio le sue città e il senso civico. Lo fa molto più seriamente, per esempio, degli Stati Uniti, per i quali in passato è sempre valso il principio “vieni pure, ma ti arrangi”. Questo atteggiamento scoraggiante negli Usa è cambiato, però non ha seguito l’esempio europeo di una maggiore attenzione nei confronti della comunità: ha promosso la nascita di uno “stato di polizia” all’interno dello stato.
Dal mio punto di vista, questa premura nei confronti della comunità e delle proprie città è una dinamica cruciale nella storia d’Europa, spesso fin troppo ignorata e trascurata, che dobbiamo invece riscoprire. Sarebbe infatti di enorme utilità oggi, anche nel caso in cui assumesse forme e contenuti nuovi.
Questa è la chiave della loro utilità: vista la premura dell’Europa nei confronti della comunità, le sfide per incorporare lo “straniero” sono diventate strumenti per far evolvere il senso civico nell’accezione migliore della parola, aspetto che sviluppo ed esamino in maniera approfondita nel mio libro Territory, Authority, Rights ( che uscirà in Italia per Bruno Mondadori). Un singolo esempio illustra la validità di questo progetto pratico: se una città deve avere un sistema di trasporti pubblici efficiente, deve permetterne l’accesso a tutti, a prescindere dal loro status. Non può controllare i cittadini o lo status di immigrati di coloro che “sembrano stranieri”. Un sistema di trasporti pubblici efficiente deve avere una regola minima condivisa: procurati il biglietto o l’abbonamento e potrai accedervi. Questo è tutto. Se oggi potessimo pensare in termini altrettanto pratici e affrontare questi aspetti critici in maniera semplice e concreta (non nelle aule della politica o dei tribunali), potremmo compiere un notevole passo avanti verso un’integrazione degli stranieri. E ne beneficerebbero anche ai nativi.
(Traduzione di Anna Bissanti)
Saskia Sassen, sociologa, insegna alla Columbia University. Il suo nuovo libro si intitola Expulsions: Brutality and Complexity in the Global Economy. Cambridge, Massachusetts: Harvard University Press (sarà pubblicato in italiano da Il Mulino)

l’Unità 8.5.14
Ikea convoca la polizia cariche contro i facchini
A Piacenza un nuovo episodio di sfruttamento e di violenza contro i lavoratori che presidiavano gli ingressi del deposito centrale
di Giuseppe Vespo


Alba di manganelli quella di ieri a Piacenza. Davanti al deposito centrale dell’Ikea, la protesta dei lavoratori di una coop che opera per la multinazionale svedese finisce con due manifestanti feriti (non in modo grave). Gli scontri sono scoppiati dopo che i facchini della cooperativa San Martino, insieme ad altri lavoratori e ai militanti dei centri sociali con loro solidali, hanno tentato di impedire l’accesso al centro logistico di altri lavoratori e dei camion. Obiettivo almeno in parte ottenuto, visto che Ikea ha deciso di chiudere per tutta la giornata uno dei due depositi di località Le Mose.
Quella di ieri è la seconda di due giornate di sciopero indette dai facchini della San Martino contro la decisione della cooperativa di sospendere trentatré dipendenti. Sono accusati di aver di aver bloccato il lavoro all’interno della struttura in occasione di una manifestazione avvenuta il 14 aprile. Loro sostengono invece che le sospensioni sono state «ordinate da Ikea per attaccare frontalmente il S.I. Cobas e l’attività sindacale nel magazzino».
Sul sito del sindacato il resoconto degli scontri è riportato così: «Quando, dopo aver finito il turno della notte, sono arrivati a portare solidarietà ai loro compagni i facchini di Tnt e Gls, i reparti mobili si sono schierati in tenuta antisommossa di fronte ai solidali impedendo che si avvicinassero al presidio. Quando i solidali hanno aggirato il blocco imposto da Polizia e Carabinieri è iniziata la caccia all'uomo e il lancio di lacrimogeni, nel tentativo di disperdere il presidio».
Per S.I. Cobas queste sono «scene di ordinaria amministrazione nel mondo della logistica e dell’occidente civilizzato. I facchini che vengono privati dei diritti e dei soldi spettanti, subiscono cariche come fossero criminali, i padroni e le cooperative che violano la legge vengono difesi dallo Stato». Di altro avviso la cooperativa San Martino, che in una nota assicura «il pieno rispetto dei diritti sindacali e la libertà sindacale di tutti i propri soci lavoratori». La coop aggiunge che «i fatti contestati si riferiscono al blocco di un intero reparto, operato senza preavviso dalle persone che hanno ricevuto le lettere di contestazione ». «La ragione che ha innescato tale iniziativa è ugualmente incomprensibile: la decisione del medico del lavoro di non adibire un lavoratore all’utilizzo del carrello elevatore per motivi di sicurezza». La cooperativa San Martino si dice «in attesa delle giustificazione dei lavoratori soci».
RIVENDICAZIONI
Nel frattempo però le frizioni potrebbero avere conseguenze sull’organizzazione del lavoro nel deposito Ikea. Lo lascia intendere la stessa multinazionale nel suo comunicato. Il gruppo fa sapere che la sospensione delle proprie attività continuerà «con il permanere del blocco agli accessi» e che sta valutando «misure organizzative alternative » per garantire l’arrivo delle merci dal deposito piacentino ai punti vendita serviti, che sono i ventuno negozi italiani, due e ad altri venticinque dell’area Mediterraneo orientale. A questo proposito è stato fissato un incontro col prefetto Anna Palombi per «discutere degli impatti della situazione per i propri lavoratori e per le proprie attività». Il polo logistico occupa circa settecento persone, tra cui i circa trecento soci lavoratori della cooperativa San Martino che ha in appalto i servizi di movimentazione delle merci.
Loro però dicono che qualcosa non va. Da qualche mese, lamentano, sono aumentate «le azioni disciplinari» verso «i soci più poveri» e sono stati contrattualizzati «decine di nuovi lavoratori a tempo determinato, molti con contratto part-time nonostante lavorino otto e più ore al giorno, addestrandoli alle varie mansione in previsione di rimpiazzare i potenziali scioperanti». Per questo chiedono il ritiro dei provvedimenti disciplinari, il riconoscimento di rappresentanze dello S.I. Cobas e l’applicazione delle tariffe del contratto 2013, di 13esima e 14esima e ancora Tfr, ferie, permessi e altro. E promettono: «La lotta continua».
  
l’Unità 8.5.14
Cemento a Gezi park, vince la protesta
Il Consiglio di Stato turco boccia il progetto sostenuto da Erdogan ma i lavori sono già a buon punto
La rivolta in piazza Taksim è costata la vita a 7 persone, a processo 255 manifestanti: rischiano fino a 12 anni
di Gabriel Bertinetto


Per quasi un anno Gezi, il nome di un parco nel centro di Istanbul, è stato sinonimo di una protesta popolare che il potere aveva soffocato scatenando la polizia (7 morti) e trascinando centinaia di persone sul banco degli imputati con accuse spesso pretestuose.
Da ieri finalmente il movimento nato il 28 maggio scorso per preservare il verde di Gezi dalla speculazione edilizia, può vantare un’importante vittoria. Il Consiglio di Stato ha dichiarato «illegale » il progetto per la costruzione di un centro commerciale là dove prima erano alberi e prati. Milioni di persone che nell’arco di tanti mesi sono sfilate nelle strade di Istanbul come di Ankara e altre città, scoprono di non essersi mobilitate invano.Unsuccesso per l’opposizione, uno smacco cocente per il premier Tayyip Erdogan, che per la violenza indiscriminata della repressione si è attirato le esplicite condanne di governi e organizzazioni per la tutela dei diritti umani. Dagli Usa alla Ue, da Human Rights Watch ad Amnesty International.
La sentenza del Consiglio di Stato conferma il verdetto già emesso qualche mese fa da un tribunale. Respinge il ricorso del governo e del sindaco. Accoglie il parere dell’Ordine degli Architetti, contrario a un piano che le autorità avevano eufemisticamente chiamato «pedonalizzazione di piazza Taksim». In realtà la chiusura dell’area al traffico automobilistico, convogliato lungo un tunnel sotterraneo, era funzionale alla distruzione del parco per edificarvi un enorme centro commerciale. Uno dei tanti mastodontici mostri di cemento voluti dal premier Erdogan, e contestati dagli avversari ora perché anti-ecologici ora perché finanziati con denaro pubblico in cambio di mazzette versate al suo partito (Giustizia e sviluppo) o a singoli individui (compreso il figlio Bilal).
CASERMA OTTOMANA
Il complesso ideato per Gezi avrebbe dovuto avere l’aspetto di una caserma ottomana. Moderno omaggio kitsch del nazionalista religioso Erdogan alla grandezza degli antichi sultani, prima che sulle macerie dell’impero turco nascesse la Repubblica laica di Kemal Ataturk. Non è chiaro quali effetti concreti avrà la sentenza del Consiglio di Stato, visto che i lavori sono già in avanzata fase di esecuzione. Erdogan poi non è nuovo a colpi di testa e a decisioni autoritarie e potrebbe tentare di procedere lo stesso. In dicembre, quando scoppiò lo scandalo della tangentopoli in cui erano coinvolti alcuni suoi ministri, reagì trasferendo le inchieste a inquirenti più docili. Galvanizzato dal successo elettorale ottenuto nelle amministrative di fine marzo, ha dichiarato guerra a quelli che considera gli autori di un complotto per cacciarlo dal potere. Intende chiedere l’estradizione di Fetullah Gulen, esule negli Usa, leader del movimento islamico moderato Hizmet, che da alleato si è trasformato nel suo più acerrimo rivale.
Grande scalpore ha suscitato anche il sì (poi rientrato) di un procuratore alla richiesta avanzata da Erdogan, di promuovere un’azione legale contro il leader dell’opposizione laica in parlamento, Kemal Kilicdaroglu, per presunti «insulti » al premier. Kilicdaroglu nei suoi discorsi aveva citato le vicende di corruzione in cui secondo molti media sarebbero coinvolti Erdogan e i suoi familiari. Il caso aveva contorni giuridici tali per cui l’iniziativa del magistrato è apparsa come una violazione dell'immunità parlamentare. La mossa di Erdogan è stata vista quindi come l'ennesima sfida alle leggi da parte di un dirigente politico liberamente eletto ma sempre più prigioniero di tentazioni autocratiche.
Nel giorno in cui la magistratura bocciava la cementificazione di Gezi, ha preso il via il processo a 255 persone ree di avere protestato contro quella stessa iniziativa ora definita illegale. I reati contestati variano dalle lesioni al furto, dal danneggiamento di proprietà privata alla manifestazione illegale. La difesa sottolinea l’inconsistenza dell’apparato incriminatorio. Surreale la vicenda della «profanazione» nella moschea di Domabahce Bexm-i Alem Valide Sultan nel quartiere di Besiktas. Ne aveva parlato Erdogan in un comizio lo scorso giugno, sostenendo che i dimostranti avevano bevuto bottiglie di birra nel tempio in cui si erano rifugiati per farsi curare le ferite. Per avere smentito che nella moschea affidata alle sue cure religiose, qualcuno avesse mai consumato alcohol, l’imam Fuat Yildirim è stato trasferito ad altro incarico.

l’Unità 8.5.14
S’arrende la roccaforte ribelle Milizie anti-Assad via da Homs
Evacuate in base a un accordo Onu
Da due anni sotto assedio, combattenti presi per fame di Virginia Lori


Capitolano dopo due anni di assedio e perdite sanguinose. La capitale della rivolta contro Assad torna nelle mani del regime, i ribelli lasciano Homs. I primi cinque autobus stipati di miliziani sono partiti dalla stazione di polizia nel centro della città, ormai controllato dall’esercito regolare. Secondo un attivista locale, Abu Yassin al-Homsi, ieri era prevista la partenza di 1.200 combattenti, in base all’accordo sul cessate il fuoco raggiunto la scorsa settimana grazie alla mediazione Onu, in tutto le persone evacuate saranno 2000 tra civili e non. Come contropartita per potersi allontanare indenni - dopo mesi di privazioni indicibili e fame - i ribelli hanno acconsentito alla consegna di aiuti in due villaggi pro governativi nel nord del Paese, assediati dalle forze dell’opposizione. La notizia è stata confermata dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, che ha anche confermato che la strada che porta ai due villaggi di Nubul e Zahra, è stata aperta nel momento in cui è iniziata l’evacuazione dei miliziani come concordato.
Destinazione prevista per i ribelli in fuga le città di Talbiseh e al-Dar al-Kabira, nella parte settentrionale della provincia di Homs. Al-Homsi ha confermato successivamente che il primo gruppo di combattenti è «arrivato sano e salvo» nelle zone controllate dall’opposizione nel nord della provincia.
Ognuno ha potuto portare con sé il proprio fucile e una borsa. L’esercito ha permesso inoltre di caricare un lanciagranate e un mitra su ogni autobus in partenza. «Siamo molto tristi per quello che sta succedendo - ha detto al-Homsi -. Continuavamo a chiedere alla comunità internazionale di aiutare a mettere fine all’assedio, ma non c’è stata alcuna risposta. Nei quasi due anni di assedio abbiamo perso più di duemila martiri». In base all’accordo, i ribelli dovrebbero rilasciare anche una settantina di combattenti pro governativi e un donna iraniana tenuta in ostaggio ad Aleppo. Per il momento non è chiaro se queste persone siano già state liberate. Tra i ribelli evacuati da Homs ci sono anche membri del Fronte al Nusra, legato a al-Qaeda, e di altri gruppi islamici.
L’evacuazione di Homs non è stata una scelta facile, molte le divisioni tra le diverse anime della rivolta. L’opposizione armata aveva giurato di non abbandonare la città, definita per molto tempo «la capitale della rivoluzione». Isolati, bombardati per diversi mesi e ridotti alla fame, i ribelli hanno però ceduto, accettando l’accordo che prevede l’evacuazione di 13 quartieri della Città vecchia. Quando il ritiro sarà completato, il governo avrà il controllo di tutta Homs tranne il distretto di Waer. Secondo alcuni attivisti, sarebbero in corso colloqui per permettere l’uscita dei combattenti anche da quell’ultima roccaforte di resistenti.
Migliaia di persone sono state uccise nel corso dei combattimenti a Homs e quasi tutti i residenti della città sono fuggiti. Nei mesi scorsi 1.400 persone, tra le quali combattenti che si erano arresi, hanno lasciato Homs sui convogli organizzati dalle Nazioni unite.

l’Unità 8.5.14
Nigeria
Ricompensa per ritrovare le ragazze rapite


La polizia nigeriana ha offerto50milioni di naira (215.000 euro circa) a chi fornirà informazioni per ritrovare le circa223 studentesse rapite a metà aprile dai fondamentalisti islamici Boko Haramnel nord-ovest del Paese. Il Pentagono sta preparando un piano per aiutare le autorità nigeriane nella ricerca. Sarà una missione di intelligence, attraverso la quale cercare di pianificare un intervento, secondo quanto riferito da diversi funzionari del dipartimento della Difesa sentiti dalla Cnn. «Abbiamo già mandato un team in Nigeria, hanno accettato il nostro aiuto che consiste nell’invio di militari, poliziotti e altre agenzie, nel tentativo di capire dove si trovano queste ragazze e soccorrerle», ha detto il presidente Obama. Anche Parigi, Londra e Pechino hanno offerto assistenza alla Nigeria. Si è intanto appreso di una nuova strage firmata da Boko Haram: è di almeno300morti il bilancio dell’attacco nel villaggio di confine di Gamboru Ngala, nel nordest del Paese.

l’Unità 8.5.14
Italia razzismo
Aiuti ai Paesi in via di sviluppo L’Italia ha fatto poco
di Luigi Manocni Valenia Brinis Valentina Calderone


Qualche giorno fa la Fondazione Leone Moressa ha reso noto che nel 2013 è stato registrato un calo del 20% delle rimesse degli immigrati. Ciò significa che in quei dodici mesi sono stati spediti nei paesi di origine 5,5 miliardi di euro, ovvero 1,3 miliardi di euro in meno rispetto agli anni precedenti. Nel 2007, ad esempio, erano stati versati da ogni migrante quasi 800 euro in più, l’equivalente di circa duemila euro. Nel dettaglio, il Paese che più ha risentito di questa diminuzione è stata la Cina che ha perso oltre 1,5 miliardi di euro (-59%) ma rimane comunque tra i principali destinatari insieme a Filippine, Messico e Bangladesh.
A livello regionale è il Lazio ad aver subito il calo più forte (-48%), seguito dalla Campania (-0,20%), dalla Sicilia (-0,33%) e dalla Lombardia (- 19%).
Secondo la Banca Mondiale i tassi di cambio giocano un ruolo cruciale nella determinazione dei flussi delle rimesse. Un costo basso della valuta locale fa aumentare i trasferimenti di denaro e, viceversa, una forte moneta nazionale può far posticipare l'invio, in attesa di tassi favorevoli.
Le rimesse hanno in parte sostituito, o comunque sono andate ad affiancare, i contributi inviati da organismi internazionali e da altri stati verso i paesi più poveri. Contribuiscono, dunque, alla crescita economica di paesi più arretrati e il loro impatto è più immediato rispetto a quello degli aiuti umanitari. Esse, infatti, arrivano direttamente alle famiglie dei migranti che possono decidere autonomamente come investire quei capitali.
I paesi in via di sviluppo sono poi quelli in cui le rimesse giocano un ruolo cruciale dal momento che, almeno per quanto riguarda l'Italia, nell'arco di tempo 2008-2012 il fondo per la cooperazione internazionale era stato letteralmente svuotato. Enon solo. Ad aggravare la situazione nel 2011 era stata introdotta una tassa del 2% su ogni rimessa inviata al paese d'origine. Al tempo del governo Pdl-Lega, dunque, non solo si è investito poco nella cooperazione ma si è cercato anche di ostacolare l'invio di capitali in patria da parte dei risparmiatori migranti. Viene quasi da pensare che quelle espressioni come «fora da i ball» e «aiutiamoli a casa loro», perdano di senso in assenza di gesti concreti, come appunto l'incremento del fondo per la cooperazione internazionale. Con la nuova legge di stabilità quel contributo è stato aumentato ma bisognerà aspettare un po’ di tempo prima di vedere come saranno impiegati quei fondi. A questo proposito l'Italia si è posizionata al 60° posto del rapporto annuale «Aid Transparency Index 2013» per quanto riguarda la trasparenza nella comunicazione e rendicontazione degli interventi.
Insomma, pare che finora si sia fatto poco e male su questo fronte. Una sottovalutazione ai cui effetti nei prossimi anni bisognerà trovare rimedio, ad esempio rispettando l'incremento del 10% delle risorse complessivamente stanziate per il 2013, corrispondente a 250 milioni di euro.

il Fatto 8.5.14
Lega: video contro gli sbarchi, attori sono i migranti


CINQUE MIGRANTI regolari in uno spot della Lega Nord. Da loro arriva il messaggio rivolto a chi, proprio come loro prima di emigrare, sogna l’Italia: “Non venite, qui è peggio del Burundi”. L’idea è venuta ad Angelo Ciocca, candidato del Carroccio alle Europee nella circoscrizione Nord-Est. Dai cinque testimoni arriva l’appello ai propri connazionali nei rispettivi paesi: India, Pakistan , Sri Lanka, Angola e paesi arabi. Due le versioni dello spot: il primo raccoglie le testimonianze in italiano degli extracomunitari “sulla grave situazione economica e sulla totale assenza di un futuro” per gli immigrati in Italia, l’altro è stato invece registrato nelle rispettive lingue e viene rivolto alle popolazioni dei paesi natii. Questo il testo dell’appello recitato da Matthew Marattukalam , Roshan Peiris, José Antonio Pereira, Ahmed Iftikhar e Niemel Kumaran: “Miei amici conterranei, ve lo dico col cuore: non venite in Italia a fare la fame! Questo è un paese che sta attraversando una gravissima crisi economica, le cose vanno male da anni anche per noi immigrati. Non credete agli scafisti perché sono assassini, e non pagateli: vi prego”.

l’Unità 8.5.14
Il caso Stamina: la scienza spiegata ai magistrati
di Carlo Flamigni


È POSSIBILE, ED È SOPRATTUTTO SPERABILE, CHE DI STAMINA E DELLE SUE MENZOGNE NON SI PARLI PIÙ; È ANCHE POSSIBILE PERÒ CHE DI CASI COME QUESTO SE NE POSSANO VERIFICARE ALTRI IN AVVENIRE, almeno se non troviamo un accordo su alcune cose apparentemente semplici, come il significato della scienza e la definizione di verità scientifica.
Beppe Severgnini ha scritto (Corriere della Sera, 26 aprile) che la vicenda Stamina è la prova di quanto siamo fragili e distratti oltre ad essere il riassunto di cosa può accadere quando la scienza è lenta, la giustizia troppo rapida, i media superficiali. Non mi occuperò dei media (ho già troppi nemici), ma vorrei parlare di scienza a chi amministra la Giustizia, ai magistrati. Con una sola premessa: che sono, per quanto può contare, un loro vecchio partigiano, e che non mi fanno cambiare idea nemmeno le sentenze con le quali sono in disaccordo.
Le definizioni di scienza sono molto numerose e non tutte facilmente comprensibili. In questa occasione scelgo la seguente: «La scienza è il maggiore degli investimenti sociali, un investimento in cui la società si impegna per migliorare la propria qualità di vita (e in particolare quella delle persone più fragili e sfortunate)». Ne deriva che gli scienziati sono stati caricati di una grande responsabilità e hanno precisi doveri nei confronti della società. Robert Merton, nel 1942, precisava questi doveri scrivendo che la scienza deve essere comunitarista, universale, trasparente, disinteressata, capace di scetticismo organizzato. Di una scienza attenta a questi doveri nessuno può avere paura perché è chiaramente una scienza al servizio dell’uomo.
Le norme di Merton dovrebbero rappresentare insieme i limiti e gli attributi della scienza. Le riassumo. La prima è il comunitarismo: la scienza produce frutti che debbono essere considerati proprietà comune. Questa regola vieta la segretezza. La seconda norma è l’universalismo: i risultati delle ricerche vengono inclusi in un archivio comune, vietando i preconcetti e i privilegi. Il terzo criterio è il disinteresse, dal quale nasce la credibilità della scienza. È un criterio che vale solo per la scienza accademica e che non può essere considerato né assoluto né dirimente. Gli scienziati sono uomini e chiedere a loro di operare lasciando da parte ogni tipo di interesse personale sembra eccessivo anche a chi appartiene alla schiera dei paladini della scienza virtuosa. Il successivo criterio è quello dello scetticismo organizzato, che deve imporre ai ricercatori di essere dubitosi: essere scettici non significa essere nichilisti, né lasciarsi sopraffare da profondi dubbi filosofici, ma solo saper mettere un freno alla propria ricerca e considerarne con prudenza le conclusioni. Le altre norme, (originalità, creatività, cooperazione, trasparenza) non hanno bisogno di commenti.
Lo scetticismo organizzato è, tra tutte le regole di Merton, la più importante perché stabilisce le regole che debbono essere seguite prima che una acquisizione scientifica possa essere considerata una verità (naturalmente, temporanea e parziale) e sia resa disponibile all’applicazione pratica: non può in alcun caso essere priva di conferme; deve passare al vaglio dell’approvazione di esperti; non deve avere parti sulle quali qualcuno ha posto l’impegno della segretezza. Nessuno spazio, proprio nessuno, per la pseudoscienza di Stamina.
Un problema che la scienza deve risolvere oggi riguarda la prevalenza, sempre più evidente, della ricerca scientifica post-accademica, quella finanziata dall’industria e dalle multinazionali, dalla quale dipende una conoscenza non sempre basata sull’oggettività, non sempre fondata sul disinteresse personale, sul comunitarismo, sull’universalismo e sullo scetticismo organizzato, cioè sugli imperativi istituzionali della ricerca scientifica. Ne può derivare una pseudoscienza alla continua ricerca di scappatoie e di scorciatoie che le consentano di acquistare potere e di guadagnare molto denaro.
Ultima precisazione: quando si ragiona su questi temi è bene rispettare tutte le regole, inclusa quella di accettare le definizioni ufficiali e di non proporne delle proprie, magari affidandosi all’inganno delle intuizioni. Esempio: si definiscono sperimentali una serie di studi regolamentati a livello di autorità sanitarie, relativi a possibili prodotti farmacologici e sostanze con una presunta azione farmacologica sull’uomo. Una ricerca non è sperimentale se non è inserita in un percorso autorizzato e previsto, il protocollo sperimentale. Si definiscono compassionevoli le cure o i farmaci in fase di sperimentazione non ancora approvati dalle autorità sanitarie quando vengono impiegati al di fuori degli studi clinici per pazienti che potrebbero trarne beneficio ma che non hanno i requisiti necessari per accedere a uno studio sperimentale. Tutto questo dovrebbe significare qualcosa per i magistrati che si sono lasciati commuovere dal termine «compassionevole».
Queste le regole, le uniche possibili. Se siamo d’accordo nell’accettarle, allora bisogna anche capire che ignorarle - quali che siano le buone e generose intenzioni che possono sollecitarci a farlo - significa commettere un grave errore e creare le basi per molti danni: si diviene collaboratori involontari di soggetti immorali che speculano sulla sofferenza; si apre il cuore di molta povera gente a false speranze, li si espone al grande dolore delle illusioni deluse, si fa scempio della loro fiducia.
Approfitto di questa occasione, a proposito delle invasioni di campo, per rispondere a un articolo di Nicoletta Tiliacos (Il Foglio) che insulta me e Corrado Melega per aver scritto, proprio su questo giornale, in difesa della Ru486, la pillola per abortire. La signora Tiliacos ripete le stesse dette e ridette, alle quali abbiamo risposto più volte e alle quali non risponderemo. Se la signora Tiliacos non le vuole leggere, libera di farlo, dovrà accettare che le sue opinioni vengano definite parziali (o di parte) oltreché sbagliate. Voglio solo ricordarle le regole: quello che scrive lei sul suo giornale, quello che hanno scritto Michael Greene e Marc Fisher nel 2005 (gli esperti mondiali di microbiologia si sono riuniti ad Atlanta nel 2006 per discutere questi dati: spero si sia accorta che di quelle particolari infezioni non si parla più) non significa, sul piano scientifico, assolutamente nulla. Quello che conta è l’opinione dell’Oms, delle grandi Associazioni scientifiche, delle ricerche epidemiologiche, e tutte queste opinioni convergono sulla stessa conclusione: i danni da aborto chirurgico e quelli da aborto farmacologico sono in pratica gli stessi. Dunque un po’ più di prudenza, anche perché per quanto so ne uccide più il ridicolo della Ru486. No? Ci pensi: la signora Roccella ha scritto che la mortalità da Ru 486 è 10 volte più elevata di quella da raschiamento. Facciamo i conti: quest’anno ci sono state due donne morte dopo un aborto chirurgico e una dopo un aborto farmacologico, se i conti della signora Roccella fossero esatti mancherebbero 19 decessi da Ru486. Pensa veramente che esista in Italia una organizzazione clandestina che riesce a celare 19 drammi come questi? Con tutti i finti cattolici e i veri bigotti che infestano i reparti di ginecologia? Siamo seri. un vecchio detto latino dice che ognuno di noi dovrebbe limitarsi a fare quello che gli hanno insegnato: così il marinaio dovrebbe alzare le vele, il maniscalco ferrare i cavalli, il medico fare i clisteri: ma tutti possiamo scrivere poesie. È solo un consiglio, ma ci provi, scriva poesie.

il Fatto 8.5.14
L’alfabeto della vita ha due lettere in più
di Chiara Daina

  
C’è una novità dal fronte della vita artificiale: un team di scienziati dell’Istituto di ricerca Scripps ha ottenuto il primo organismo semi-sintetico con un “super Dna”, che oltre alle tradizionali lettere che compongono il codice genetico ne aggiunge altre due, denominate X e Y, capaci di essere tollerate e perfino replicate nelle generazioni successive. Le due coppie sono state inserite all’interno del Dna di un batterio di Escerichia coli senza compromettere il meccanismo di copia. Il traguardo dei ricercatori è stato descritto sulla rivista Nature, punto di riferimento della comunità scientifica internazionale. Per capire la novità della scoperta, facciamo un passo indietro. In natura il Dna è formato da due filamenti intrecciati costituiti da basi (corrispondenti a quattro lettere: A, C, G e T) che si accoppiano sempre allo stesso modo, secondo quattro diverse combinazioni (AT, TA, CG, GC), per miliardi di volte. Il gruppo di scienziati ha modificato la normale sequenza di Dna dell’organismo, in cui è contenuto tutto l’alfabeto della sua vita, in modo che creasse una proteina trasportatrice che permettesse alle nuove basi di essere inserite in un preciso tratto di genoma, detto plasmide.
A questo punto, le nuove basi sono state sottoposte alla verifica di alcune molecole speciali, finalizzate all’eliminazione di eventuali errori nelle catene di Dna. Il passo successivo sarà quello di inserire le nuove lettere nelle sequenze di Dna indispensabili alla sopravvivenza, cioè quelle in cui si trovano le istruzioni per produrre le proteine: “Sicuramente questa ricerca rappresenta una conquista dal punto di vista concettuale – commenta il genetista Edoardo Boncinelli, professore all’Università Vita e Salute di Milano – Anche se è ormai assodato il fatto che l’uomo riesca a creare la vita sintetica in laboratorio, come i batteri che puliscono gli oceani o quelli che eliminano gli inquinanti dall’aria. A livello pratico, invece, è difficile immaginare a cosa possa servire il risultato ottenuto. Magari ad avere al guinzaglio fra dieci anni un cane a sei zampe o vedere volare in cielo un uccello a quattro ali”.
INTANTO, negli ultimi sessant’anni di strada la biologia artificiale ne ha fatta parecchia. L’esordio è stato nel 1956 quando Arthur Kornberg ottenne in laboratorio la prima sintesi di Dna e per questo si portò a casa il Nobel tre anni più tardi. Nel 2007 si avvera la costruzione del primo cromosoma artificiale ad opera del gruppo di Craig Venter che riproduce il Dna di un batterio chiamato Mycoplasma mycoides. Due anni dopo lo stesso team trapianta il Dna naturale del batterio in suo simile, il Mycoplasma capricolum. Nel 2010 la prima cellula naturale costituita da un codice genetico partorito in laboratorio, copia del Dna del primo batterio. Nel 2012 il gruppo britannico del Medical Research Council riesce a imitare le prima cellule comparse sulla Terra. Infine, a marzo scorso le università americane di New York e Johns Hopkins hanno dato vita al primo cromosoma sintetico di un organismo complesso.

la Repubblica 8.5.14
Clamoroso risultato degli scienziati Usa: passano da quattro a sei le basi dell’ “elica”
Dai farmaci ai carburanti puliti tutti i possibili impieghi
Due nuove lettere nel Dna la vita artificiale è più vicina
di Silvia Bencivelli


L’ALFABETO della vita si arricchisce di due nuove lettere. E da quattro basi, quelle con cui da sempre la natura scrive le istruzioni per la vita nella doppia elica del Dna, passa a sei. Lo annuncia oggi la rivista Nature, che ai risultati della ricerca di un gruppo di biologi americani dedica copertina e numerose pagine interne. Gli scienziati sono infatti riusciti a costruire in laboratorio due basi del Dna del tutto artificiali, ma capaci di entrare in una cellula e di comportarsi come le quattro naturali. Qui non si tratta di Dna artificiali scritti con le lettere di sempre, ma di nuove lettere con cui scrivere parole tutte da inventare, che finora in natura non erano mai esistite.
Il Dna di tutti gli esseri viventi
del nostro pianeta, dai batteri alle balene, è una lunga stringa di istruzioni scritta con quattro lettere soltanto, tecnicamente chiamate basi, che per semplicità si abbreviano con A, T, C e G. Queste istruzioni, cioè queste lunghe sfilze di ATC e G variamente alternate, servono a costruire le proteine: proteine che fanno comunicare le cellule, che danno loro una certa struttura o una funzione piuttosto che un’altra e così via. Sin dagli anni Sessanta si cerca di capire se sia possibile riprodurre in laboratorio un sistema simile con l’obiettivo di aumentare la complessità dell’informazione genetica, quindi di scrivere istruzioni per proteine nuove con cui costruire farmaci, materiali, tessuti e carburanti puliti che adesso non possiamo nemmeno immaginare. Ma solo oggi ci siamo arrivati. O meglio: siamo arrivati a dimostrare che la strada è buona e un altro alfabeto è possibile.
La vera novità di questa ricerca non è tanto l’aver costruito oggetti chimici simili a quelli naturali presenti nel Dna, ma essere riusciti a ingannare una cellula fino a farle ospitare l’alfabeto espanso della vita. Le due nuove lettere sono state infatti prima di tutto infilate in una struttura di Dna circolare e vagabonda chiamata plasmide. Questa, un cavallo di Troia della genetica, è stata fatto entrare in una cellula batterica: un semplicissimo Escherichia coli di quelli che a milioni di miliardi abitano nel nostro intestino. Qui il plasmide ha trovato enzimi e strutture cellulari abituate a maneggiare il solito Dna, che da miliardi di anni operano sempre, più o meno, nella stessa maniera. Ma non è successo niente di particolare. Anzi: il pezzettino di Dna scritto coi caratteri nuovi è rimasto al suo posto ed è stato correttamente replicato, come quello naturale.
Prima di porsi grandi obiettivi - e grandi, e ovvi, problemi di etica o di brevettabilità dei nuovi prodotti biologici ma artificiali - spiegano cauti gli scienziati, ci vorrà tempo. «Siamo ancora alla ricerca delle leggi universali della biologia – spiega Diego di Bernardo, dell'Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) – che sono ancora più complesse di quelle della fisica».
Ma più nel concreto si tratterà di diventare davvero capaci di costruire nuovi ingranaggi della macchina cellulare. La strada dell’alfabeto espanso appare una delle più promettenti. «I batteri artificiali costruiti finora hanno un Dna in quattro lettere che viene manipolato e ricostruito, per esempio, per far loro produrre biocarburante. Ma in questo modo si rendono più deboli, perché parte della cellula viene impegnata nel nuovo compito e non può più assolvere ai suoi compiti normali », spiega di Bernardo. Con l’alfabeto espanso, invece, potremo costruire batteri sani, che in più fanno quello che vogliamo: «come se parlassero due lingue, invece che una sola». Non solo, questi pongono meno problemi di sicurezza: «Il fatto che si inseriscano due basi diverse da ATC e G serve a garantire che i batteri che costruiremo in questa maniera non possano mescolarsi con quelli naturali». E in più, essendo fatti da lettere artificiali, «la loro replicazione dipenderà da noi: dalla nostra fornitura esterna di mattoncini della vita costruiti su misura». In questo modo, conclude di Bernardo, «potremo mantenerne il pieno controllo».

Corsera 8.5.14
La soperta Ha funzionato dentro una cellula
Creato un Dna artificiale
L’uomo fa il primo passo per costruire la vita
Si allunga l’alfabeto delle cellule Aggiunte due lettere al Dna
Le basi «X» e «Y» affiancate alle 4 che esistono in natura
di Luigi Ripamonti


La corsa verso la vita artificiale procede a ritmo serrato: un gruppo di scienziati dello Scripps Institute di La Jolla (California) ha ottenuto il primo organismo vivente con un Dna semisintetico in grado di replicarsi. Accanto alle tradizionali quattro lettere che costituiscono l’«alfabeto della vita», nel Dna di un batterio ne sono state aggiunte altre due, chiamate X e Y.
Scienziati dello Scripps Institute di La Jolla (California) hanno ottenuto il primo organismo vivente con un Dna semisintetico in grado di replicarsi.
Il Dna di ogni essere vivente è formato da un susseguirsi di coppie di basi azotate (adenina, timina, citosina e guanina) identificate dalla lettere A, T, C, G: la A si accoppia con la T e la C con la G. Gli scienziati californiani hanno messo a punto una nuova coppia di basi, chiamate, per comodità espositiva «X» e «Y», e le hanno introdotte nel Dna di un Escherichia coli, un batterio molto comune e spesso utilizzato nei laboratori.
La creazione di un Dna semisintetico «in vitro» non è una novità. In questo caso però è stato ottenuto un risultato ben più difficile, cioè l’incorporazione del Dna modificato in un microorganismo vivente, capace poi di replicarsi e di trasmettere il suo nuovo codice genetico alla propria progenie.
Perché ciò fosse possibile era necessario che si realizzassero molte condizioni, fra le quali, per ricordare le principali, che il Dna fosse stabile, che fosse riconoscibile dall’Rna-polimerasi (l’enzima che lo deve «leggere» correttamente per rendere possibile la sua replicazione in nuove copie) e che non venisse eliminato dai meccanismi preposti alla sicurezza delle cellula, programmati per riparare il Dna che presenti anomalie. Una serie di ostacoli non facili da superare.
Scendendo nel dettaglio dell’esperimento: i biologi americani hanno sintetizzato un tratto di Dna che conteneva una «coppia artificiale» formata da due molecole denominate tecnicamente «d5SICS» e «DNAM».
Per riuscire a introdurre queste basi nell’Escherichia coli è stata usata una specie di microalga, che le ha trasferite dal terreno di coltura all’interno della cellula batterica, dove si sono integrate con il Dna presente.
La comunicazione della scoperta è stata data dalla rivista Nature (che vi ha anche dedicato la copertina) e apre un nuovo capitolo nella biologia sintetica.
«Per ora abbiamo riportato la replicazione di una sola coppia di basi non naturali» ha precisato Denis Malyshev, primo firmatario della «lettera» a Nature , «ma stiamo lavorando su replicazione, trascrizione e translazione di diverse altre». «Quello che abbiamo fatto», ha spiegato Floyd E. Romesberg, che ha guidato il team di ricerca, «ci avvicina a una biologia a “Dna espanso ”, che avrà molte applicazioni: da nuovi farmaci a nuovi tipi di nanotecnologie».
È dalla fine degli anni Novanta che Romesberg e i suoi collaboratori cercano di individuare molecole da utilizzare come basi di nuovo Dna e, quindi, capace di «creare» proteine e persino organismi mai esistiti prima.

Corsera 8.5.14
Cosa può cambiare (senza Tentazioni)
mai Vista un’Elica così È la Prova che l’Uomo può Costruire la Vita
di Edoardo Bonicelli


Tutti sanno ormai che il patrimonio genetico è portato dal Dna, e che questa molecola è costituita da una successione lineare di quattro nucleotidi, o basi: A, G, C e T.
In tutti questi quattro miliardi di anni la vita è andata avanti utilizzando queste quattro basi. Ma dal punto di vista chimico se ne possono concepire e sintetizzare molte altre, che la natura ha almeno apparentemente scelto di non utilizzare. Che cosa succederebbe se in una cellula, più o meno elementare, introducessimo alcune di queste altre possibili basi? La cellula le tollererebbe e magari le utilizzerebbe, o no? Ce lo siamo chiesto da decenni, e ora abbiamo la risposta, affermativa. Se operiamo in maniera accorta, la cellula è capace di ospitare e utilizzare un Dna con sei o più basi invece delle solite quattro.
Questo è il senso, concettualmente molto profondo, degli esperimenti realizzati a La Jolla in California e oggi pubblicati su Nature. Possiamo costruire organismi che utilizzino un alfabeto biologico espanso, più ricco di quello naturale. E apparentemente senza nemmeno grande sforzo.
Che cosa significa tutto questo? Distinguiamo, come al solito, l’aspetto teorico della scoperta da quello pratico. Dal punto di vista delle potenzialità teoriche e concettuali, questa notizia è quasi una bomba, non fosse altro perché mette per sempre la parola «fine» alle sterili dispute a proposito della domanda se possa esistere vita completamente nuova costruita dall’uomo. Le cellule, per ora batteriche, che hanno ricevuto questo nuovo Dna sono una novità biologica assoluta: nulla di simile è mai esistito fino ad oggi, né in natura né in laboratorio. E al momento non si vede perché tutto questo non potrebbe essere esteso ad altri tipi di cellule. Gli esperimenti di Venter, che si è più volte vantato di aver costruito organismi completamente nuovi, adoperavano comunque sequenze di Dna «convenzionali». Queste nuove cellule di cui parla Nature possiedono in più un Dna «mai visto». In realtà già Venter aveva costruito nuove forme di vita non naturali, ma molti avevano fatto finta di non capire e parlavano di successo parziale. A questo punto non ci dovrebbero essere più dubbi: l’uomo può costruire la vita, anche se sono convinto che molti continueranno cocciutamente a rifiutare tale concetto.
Diverso, molto diverso, è il discorso delle applicazioni pratiche. Ai fini pratici fare cellule nuove con il vecchio tipo di Dna o con il nuovo non fa molta differenza, anche se, ovviamente, aumenta così il numero delle nuove opportunità. Immagino che nell’uno come nell’altro caso si vorranno fare nuovi batteri, capaci di compiere sempre nuove funzioni che potrebbero ritornarci utili: disinquinare l’acqua o l’aria, produrre biocombustibili, produrre a poco prezzo sostanze utili, ma rare e costose. La sostenibilità del mondo di domani dipenderà anche da questo. Non vedo invece l’utilità di costruire nuovi organismi superiori, e mi auguro che non si faccia. Ma può darsi che i nostri nipoti giocheranno con cuccioli di animali mai esistiti prima.

il Fatto 8.5.14
Malati di Sla a caccia di fondi “Ogni 6 mesi si parte daccapo”
Il comitato 16 Novembre ieri era davanti al Ministero dell’Economia
di Giulia Merlo


Vogliamo che i fondi siano sbloccati, senza soldi si muore”. Questo hanno chiesto i malati di Sla del Comitato 16 novembre, durante il presidio di ieri davanti alle porte del ministero dell’Economia. Ieri, 43 malati sono arrivati in via XX Settembre – chi in ambulanza chi accompagnato in carrozzina – e hanno minacciato di lasciarsi morire di fame e di sete per rivendicare il loro diritto alle cure, a fronte al mancato stanziamento dei fondi già previsti dal governo. Altri 50 non hanno potuto raggiungere Roma perchè tracheotomizzati, ma hanno aderito allo sciopero della fame. In Italia sono stimati almeno 3500 malati e 1000 nuovi casi all’anno, e a oggi sono previsti 3,5 milioni per l’assistenza. “Chiediamo che almeno quei 350 milioni già disponibili per il Fondo per la non autosufficienza vengano subito ripartiti alle Regioni, non a fine anno – ha detto la presidente del Comitato 16 settembre Laura Flamini –. Una pensione di invalidità totale è di 270 euro, con l'accompagnamento si arriva a 700, e spesso in famiglia non ci sono altre entrate: è con questo che lo Stato assolve il suo dovere?”.
LE PROTESTE SONO state ascoltate, e dal ministero è arrivata la promessa di convocare un tavolo interministeriale entro 45 giorni, con l’obiettivo di realizzare un piano nazionale per l’assistenza domiciliare dei malati gravi e non autosufficienti.
Ma, soprattutto, è stato assicurato che ai malati gravissimi verranno destinati 82 milioni dal Fondo nazionale per la non autosufficienza, oltre ai 75 già vincolati. “Siamo soddisfatti – ha detto Mariangela Lamanna, vicepresidente del Comitato –, ma non è possibile fare un presidio ogni 6 mesi, e ogni volta i vertici del Governo cadono dalle nuvole”. Per ogni manifestazione, infatti, si muovono malati da tutt’Italia, affrontando viaggi che peggiorano le loro condizioni di salute. Proprio durante l’ultima manifestazione del 23 ottobre scorso, nella quale erano state strappate le promesse non mantenute, uno dei membri del comitato è morto d’infarto, dopo aver passato 36 ore in carrozzina sotto al ministero.
Quello dei malati è un braccio di ferro che dura da più di 10 anni, contro i governi di ogni colore politico. Sembra lontanissimo il 2008, quando il fondo stanziato era di 2 miliardi e 500 milioni di euro, e in quel caso ad azzerarlo fu il governo Berlusconi. Nel 2010 il Fondo era stato rifinanziato con 400 milioni di euro, ridotti a 100 milioni nel 2011. Nel 2012, in pieno governo Monti, le proteste dei malati erano riuscite a salvare dalla spending review 675 milioni di euro da destinare ai malati gravi, che poi però vennero inglobati nel calderone del cosiddetto “fondo Catricalà”: 900 milioni che però dovevano bastare anche per altre voci (non meglio identificati sussidi alla famiglia e alla ricerca).
Non solo fondi cancellati e poi riconquistati con la minaccia di lasciarsi morire davanti al Ministero dell’Economia: in questi anni i malati del Comitato 16 novembre hanno fatto sentire la loro voce anche contro la farraginosa gestione dei fondi, mal distribuiti tra le Regioni e spesi in modo antieconomico. “Il peso della cura dei malati è quasi tutto a carico dei parenti - hanno detto i manifestanti - bisogna che una parte delle risorse che lo Stato devolve alle Rsa vadano come contributo diretto alle famiglie”.
QUELLA DELL’INCREMENTO
dei fondi per la domiciliarità indiretta è una delle battaglie che i malati di Sla combattono da anni, sostenendo che l’assistenza in casa sia molto meno costosa rispetto al ricovero in Rsa (residenza sanitaria assistenziale), in cui il costo per paziente non autosufficiente è di circa 80 mila euro. La protesta dei malati Sla: “Senza fondi si muore”

Salone del libro
La Stampa Torino 8.4.14
Il premier Renzi non c’è perché ha scelto gli alpini
Annullata la visita di domenica: “Vado all’adunata a Pordenone”
di E. Min


Il premier Renzi c’è. Ma solo sull’agenda degli appuntamenti (prestampata un mese fa) del Salone del Libro e che stamattina sarà ritirata da migliaia di visitatori. Il forfait dato martedì dal primo ministro - «per altri impegni istituzionali in agenda» non ha permesso alla kermesse di cancellare, se non solo sul sito, la notizia di un arrivo che non ci sarà. E così per tutti coloro che leggeranno sul libriccino (quest’anno corposo come non mai: gli eventi sono circa 2 mila) quali dibattiti seguire domenica 11 maggio, potranno cadere in errore. Perché alle 11,30, all’Auditorium c’è ancora la seguente segnalazione: «Aldo Cazzullo intervista Matteo Renzi in occasione della pubblicazione di “Magari” edito da Mondadori».
Il libro dopo l’estate
Come ha spiegato ieri l’autore dell’atteso libro-intervista Aldo Cazzullo, il volume non è ancora terminato e presumibilmente uscirà dopo l’estate. «Non abbiamo fatto in tempo a concludere il lavoro - ha aggiunto l’autore - d’altronde un premier ha un’agenda da premier». La casa editrice Mondadori, dalla sua, ha confermato «che sarebbero stati molto contenti di lanciare il libro al Salone, purtroppo però non è stato possibile e tutto slitterà a settembre». E di questo «ritardo» sono stati subito informati i vertici del Salone, che però, dopo aver corretto l’edizione on line degli appuntamenti, hanno sempre continuato a sperare - visto che Matteo Renzi si era detto disponibile comunque a visitare domenica il Salone - in una passeggiata fra gli stand del premier, che come si può ben immaginare, ha un ritorno mediatico di calibro renziano. Pensiamo solo a come ha saputo riempire l’anno scorso Matteo Renzi - ancora nelle «limitate» vesti di sindaco di Firenze - l’Auditorium, quando venne intervistato dal direttore della «Stampa» Mario Calabresi per presentare il suo libro «Oltre la rottamazione».
Passeggiata annullata
La speranza di vedere il premier stringere le mani dei visitatori del Salone, però, si è spenta per sempre martedì sera attraverso un comunicato molto scarno («visita annullata a causa di impegni istituzionali»). Troppo presto per far crescere attorno a una kermesse che già si preannuncia con il botto (eventi mai così fitti) anche l’attesa per un premier come Renzi, troppo tardi per non finire nella cartella stampa - anche quella già pronta - che verrà distribuita a buona parte dei 3 mila giornalisti accreditati: «La comunicazione ai tempi del web si può correggere sul medesimo, ma anche la passeggiata del premier è stata annullata troppo tardi per poter intervenire anche sulle cartelle stampa» hanno spiegato al Salone.
Adunata degli alpini
Ma dove andrà domenica, il premier, anziché a Torino? «Andrà a Pordenone - spiega il suo portavoce - all’adunata raduno degli alpini, sempre che non ci siano altri impegni più urgenti dell’ultima ora». Là, ad aspettarlo ci saranno 400 mila penne nere e soprattutto Debora Serracchiani (presidente della Regione Friuli Venezia Giulia) che qualche giorno fa aveva detto: «Farò di tutto perché il capo del governo possa intervenire». Detto, fatto.

la Repubblica 8.5.14 R2 Cultura
Il libro di Augias parte dalla sfida riformatrice di Francesco per ripercorrere la storia di un’istituzione segnata da secoli di potere temporale e scandali
Nel nome del Papa che non vuole essere Re
di Paolo Mauri


Tra Cesare e Dio si intitola il nuovo libro di Corrado Augias che nel sottotitolo annuncia la rivoluzione di papa Francesco e quello che comporterà per gli italiani. Da diverso tempo Augias indaga questioni di natura religiosa e interroga, da laico, esperti della materia per mettere a fuoco figure, per esempio quella di Gesù o più di recente quella di Maria, madre di Gesù. Mettere a fuoco significa sottrarre alla vulgata acritica, alla leggenda priva di radici storiche.
L’operazione non è indolore, perché la Chiesa non gradisce simili incursioni e giudica secondo il suo secolare costume. Ma ora con papa Francesco qualcosa sta cambiando e lo dicono un po’ tutti, in primis i laici subito conquistati dalla riscoperta della Chiesa dei poveri, sulla scia della lezione francescana per la prima volta accolta da un papa in modo totale. Augias in questo suo rapido ed efficace memorandum ripercorre la lunga storia del papato nei momenti chiave della sua esistenza, aprendo subito con il Concordato tra il Vaticano e il governo fascista che, sessant’anni dopo la breccia di Porta Pia, mette le basi per una convivenza che comporta da parte dello Stato la concessione di diversi privilegi poi avallati dalla Costituzione repubblicana e mai cancellati.
Papa Francesco ha già più volte dichiarato che non vuole preti ricchi, che girino con automobili ultimo modello e ha egli stesso modificato visibilmente il tenore di vita del pontefice, abbandonando gli appartamenti papali per una ben più modesta sistemazione a Santa Marta. Risalendo per li rami Augias rievoca i versi di Dante in cui il poeta lamenta i gravi danni derivati dalla donazione di Costantino che, secondo una leggenda poi smentita, avrebbero reso ricco il Pontefice di allora, inaugurando il potere temporale dei papi. Dante non mandò giù le dimissioni di Celestino V che avevano aperto la strada ad un papa affarista e simoniaco come Bonifacio VIII, preoccupato soprattutto di ingrandire la potenza della sua famiglia (era un Caetani) a scapito dei suoi grandi nemici, i Colonna. Bonifacio VIII non esitò a far radere al suolo la città di Palestrina (feudo dei Colonna) e a farvi spargere sopra del sale, evocando in modo esplicito la distruzione di Cartagine.
Fu anche il promotore del primo Giubileo (1300), che equivale a dire l’inventore dell’Anno Santo e finanziò la costruzione di chiese di grande importanza come Santa Maria sopra Minerva a Roma. La lotta con i francesi gli valse l’umiliazione subita ad Anagni (il celebre schiaffo, forse solo metaforico). Fu il massimo sostenitore del potere della Chiesa sopra tutti gli altri poteri. La scomunica nelle sue mani diventava un’arma politica, anche se non sempre ottenne l’effetto che voleva. Dopo la sua morte di fatto il papato fu sottomesso alla corte di Francia e trasferito ad Avignone. Dante, che aveva bollato Celestino di viltade per «il gran rifiuto» e condannato Bonifacio tra i simoniaci mentre era ancora vivo, scrisse qualche anno dopo (1314) una celebre epistola ai cardinali nella quale tra l’altro si ribadiva la necessità che il papato tornasse a Roma, sua sede naturale e che la Chiesa rinunciasse alla cupidigia dei beni terreni. Nella Bolla Unam sanctam, ricorda Augias, Bonifacio aveva scritto: «Noi dichiariamo, stabiliamo ed affermiamo che è assolutamente necessario per la salvezza di ogni creatura umana che essa sia sottomessa al Pontefice di Roma».
La Chiesa avrebbe presto do- vuto fare i conti con la Riforma luterana e con la ribellione degli inglesi alla Chiesa di Roma. Ma il cammino per arrivare ad una forma di Stato moderno, tollerante verso le diverse religioni, sarà lungo. Alla Riforma la Chiesa reagirà con il Concilio di Trento, tentando con ogni mezzo (anche con la Santa Inquisizione) di perseguitare gli eretici. L’ordine dei Gesuiti, cui appartiene papa Francesco, nacque proprio per difendere l’identità del cattolicesimo e si può aggiungere: con ogni mezzo. Sarà interessante vedere, scrive Augias, come Francesco agirà rispetto a questa eredità non certo leggera. Se negli altri Stati la Riforma porta un nuovo modo di vivere la religione e la politica, così non è per l’Italia che da sempre ha avuto un rapporto di fatto privilegiato con il papato, traendone benefici, ma anche un enorme ritardo sulla strada della modernità.
I papi che faranno grande Roma nel Seicento, arricchendola di palazzi e opere d’arte, sono anche sovrani assoluti con cui il popolino romano si abitua a convivere. I sonetti del Belli, nell’Ottocento, saranno la spia di un disagio misto ad ammirazione, mescolando invettiva e mugugno, oltre allo sfogo ingenuo di chi si sorprende a pensare: ma perché non posso anch’io diventare papa? Così un artigiano immagina che un Eminentissimo entri nella sua bottega e gli dica paro paro: «Sor Titta, è Papa lei: venghi a San Pietro». Papa Francesco vuole riportare la Chiesa per la strada e lo ha detto esplicitamente: «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze».
L’ Evangelii gaudium, ricorda Augias concludendo il suo libro, è un testo rivoluzionario se applicato ad una Chiesa afflitta da scandali e, appunto, da chiusure ermetiche. La partita è aperta.
Corrado Augias interverrà al Salone del libro di Torino dopodomani alle 1-2, in Sala Gialla

Corsera 8.5.14
Controtendenza Vendere e comprare opere su carta: le storie di chi resiste all’ebook
Il libraio indipendente smentisce i gufi
di Annachiara Sacchi


Luoghi, come quell’angolo di via Manzoni, a Torino, dove sembra che il tempo si sia fermato. Una passione sfrenata per la lettura, come quella di tre ragazzi versiliani o delle undici «guerriere» di Empoli. Sogni, come quello di vendere romanzi sulla strada per Sestriere. Ma soprattutto persone, perché sono loro a fare la differenza in una libreria. Alchimisti della parola, ascoltatori formidabili, raffinati psicologi. Nell’era degli ebook e di Amazon, sono questi librai indipendenti, numi tutelari della scrittura su carta, a tenere in vita una forma di commercio data quasi per spacciata. Un libro ne ha scoperti undici. E ha raccontato la loro storia. Da Pinerolo a Pisa, da Messina a Vicenza passando per Milano e Bellinzona: si chiama La voce dei libri - Undici strade per fare libreria oggi , il volume a cura di Matteo Eremo (edizioni Marcos y Marcos, e 12) che sarà presentato domani sera al Salone del libro di Torino con i protagonisti di questa fantastica avventura, uomini e donne «che hanno il mestiere nella testa e nel sangue». E ce la fanno. Nonostante la concorrenza delle grandi catene, i maxisconti, il formato digitale e le promozioni. Librai veri. Informati e coinvolgenti. Capaci di dare un’anima alla loro bottega, di narrare e trovare nuove forme di intrattenimento culturale. E allora a Palermo, nella Modusvivendi, se trovate il telefono occupato ascolterete il sax di John Coltrane e probabilmente vi dispiacerà prendere la linea. A Roma, invece, l’Altroquando si è sdoppiata in Anderquando, piccolo pub dove assistere a un concerto assaggiando birra artigianale. La Casagrande di Bellinzona si è inventata il buono svizzero del libro, la Centofiori di Milano punta sulle presentazioni «live»: sono gli autori a mettersi in lista di attesa per partecipare. Esempi di successo per un mestiere «di frontiera» che ha ancora molte carte da giocare. E tante storie da raccontare.

La Stampa 8.5.14
Papa Francesco, la solitudine del rivoluzionario
Bergoglio e i cambiamenti nella Chiesa, bestseller al Salone. Ma un libro di Marco Politi: quale sarà l’approdo?
di Gian Enrico Rusconi


Si sente una nuova sottile amarezza nelle espressioni pubbliche di papa Francesco alla fine del suo «primo anno di grazia». I temi della «tenerezza» e della «misericordia» lasciano il posto all’accorata denuncia della ricerca della vanità, del potere, del denaro. Particolarmente dure ed esplicite sono le critiche agli uomini di Chiesa che non sono all’altezza della loro missione.
Nell’enfasi pubblica che accoglie sistematicamente ogni parola o raccomandazione del Pontefice, si percepisce la delusione che alle parole non seguono gli attesi pronti mutamenti concreti nella realtà ecclesiale e sociale. Bergoglio è troppo intelligente per non capire che la continua evocazione della sua «rivoluzione» a fronte dell’immobilismo della comunità ecclesiale e civile, cui è rivolta, rischia di logorarsi come mero annuncio mediatico.
«Si sentono applausi scroscianti da tutte le parti e al contempo si avverte una grande inerzia nelle strutture ecclesiastiche», scrive Marco Politi nel suo libro Francesco tra i lupi. Il segreto di una rivoluzione (Laterza, 2014), uno studio che è tra i più informati e attenti al fenomeno Bergoglio.
L’interesse del lavoro sta anche nel modo in cui è costruita la narrazione e la documentazione. Testimonia – forse senza volerlo – l’evoluzione di giudizio degli osservatori simpatetici verso il Papa. Si trovano davanti ad una personalità che si rivela assai più complessa e difficile da capire, dotata di qualità e limiti che contrastano sia le entusiastiche valutazioni iniziali che le irritate stroncature.
Del libro di Politi vorrei qui mettere in evidenza soltanto alcuni passaggi, che portano a quesiti cruciali aperti. Dopo una acuta analisi del predecessore Ratzinger e della dinamica interna del Conclave («Il colpo di stato di Benedetto XVI», «I segreti del conclave anti-italiano») sorge il dubbio se tutti i cardinali elettori conoscessero davvero il nuovo eletto Bergoglio. A questo proposito sono preziose le pagine del libro dedicate alla sua biografia, le vicende pregresse di Superiore generale dei gesuiti, il difficilissimo periodo della dittatura argentina e l’esperienza di arcivescovo di Buenos Aires. Viene fuori una personalità di pastore tutt’altro che politicamente disarmato, ma abile nel muoversi in una società complessa, civile e clericale. «A Buenos Aires negli ambienti cattolici e no, il giudizio sulle qualità di Bergoglio come dirigente è unanime. E’ un uomo di comando, dicono». Ma non meno straordinaria è l’autocritica che Bergoglio fa retrospettivamente proprio su questo punto, ripromettendosi di avere un atteggiamento di paziente attenzione verso tutti.
Il Papa che viene dalla «fine del mondo» non è uno sprovveduto né per esperienza, né per cultura, né per dottrina. Ma probabilmente ha sottovalutato la resistenza ( dei suoi stessi grandi elettori) a innovare davvero gli atteggiamenti pastorali, riaprendo anche implicitamente una riflessione dottrinale. Ma su questo punto sembra solo. Non a caso gli si rimprovera una certa leggerezza dottrinale nella controversa problematica della «pastorale della famiglia». Su questo si arriverà presto ad un confrontoscontro sulla questione (apparentemente marginale) dell’eucarestia per i credenti divorziati e risposati.
Credo che Papa Bergoglio sia consapevole che la posta in gioco non sia soltanto pastorale ma dottrinale . Ma è un modo concreto di affrontare il tema del «peccato» , che è stato toccato soltanto genericamente in uno dei dialoghi «laici» dell’inizio del suo pontificato che tanto hanno contribuito a creare la sua immagine pubblica. Non è stata semplicemente la sua personalità umana ma i suoi strappi verbali e una implicita ermeneutica dottrinale innovativa a sdrammatizzare il contrasto tra credente e non credente, spiazzando anche molti laici nostrani. «Al Papa argentino è del tutto estranea l’idea che l’essere atei provochi sofferenza e porti alla decadenza dell’umano» – ricorda Politi. Ma mi chiedo quali conseguenze pratiche avrà questo atteggiamento sul contenzioso sempre aperto nel nostro paese sui diritti civili e personali che sinora ha dovuto fare i conti con la barriera dei «valori non negoziabili»?
Il giudizio di Politi sembra sospeso come su altre questioni. Parlando del «programma della rivoluzione» lo sintetizza così: riformare la Curia rendendola più snella ed efficiente, fare pulizia nella banca vaticana e promuovere la collegialità, instaurando consultazioni frequenti tra il Pontefice, il collegio cardinalizio (istituito, con esplicito compito di sostegno al Pontefice) e le conferenze episcopali. Notoriamente sono iniziative di cui si parla in continuazione e di cui si vedono soltanto i primi passi. Ma il bilancio del primo anno di pontificato vede crescere le difficoltà. «Benchè abbia un programma, Francesco in realtà ignora l’approdo a cui perverrà», scrive Politi.
In realtà la carta vincente non sarà la persona del Papa, per quanto straordinaria essa sia, ma l’attivazione di una effettiva collegialità dei vescovi. Ma è una prospettiva che al momento è remota.

la Repubblica 8.5.14 R2 Cultura
Il dibattito.
Eugenio Scalfari ha dedicato il suo editoriale a una riflessione di Michael Walzer
Due nuovi interventi riaprono la discussione
La “Fraternité” nata per i diritti dei cittadini Perché gli ideali rivoluzionari dietro a liberalismo e socialismo sono ripudiati dagli Stati totalitari
di Lucio Villari


Forse, nell’imminenza delle elezioni europee ai politici non guasterebbe riflettere in qualche intervallo su questa grande sfida della storia e del futuro anche ideale (non sono queste le radici dell’Europa contemporanea?) del Vecchio continente e metterla tra i programmi elettorali, vista anche la rinascita di una certa destra e di certi nazionalismi «democratici». In attesa, occorre ragionare, come avrebbe detto Spinoza, «senza ridere e senza detestare», ma solo riflettendo - sulla lunghezza d’onda dell’intervento di Scalfari - sull’attualità della cosa.
L’ARTICOLO di Eugenio Scalfari uscito su Repubblica domenica scorsa, a commento delle tesi di Michael Walzer sui diritti dell’uomo e sui diritti del cittadino, mi è parso attuale e puntuale. Il tutto ci riporta alla Dichiarazione del 26 agosto 1789, alla scoperta di quei diritti del cittadino oltre che dell’uomo. La nostra democrazia, con tutti i suoi problemi, viene da lì. Sembra che non ci siano dubbi sulla paternità e sulle discendenze nobili (liberalismo, socialismo, liberal-socialismo) come su quelle meno nobili (fascismo, nazismo, comunismo) anche di quella Dichiarazione.
In verità, i dubbi ci sono. Da oltre un secolo alcuni storiografi e filosofi (cominciò Nietzsche) non trovano pace (forse non la cercano veramente...) intorno proprio alle discendenze. Lo intuì ironicamente Victor Hugo («la faute de Rousseau, la faute de Voltaire....») e finirono quelli della Scuola di Francoforte, Talmon (che vide in Rousseau lo stalinismo in nuce), Salvemini e Furet (che ha «riletto» in trasparenza negativa la rivoluzione francese, e il dérapage a partire dal 1792). E perfino la Chiesa più aperta e autocritica (da Giovanni XXIII a papa Francesco) preferisce non toccare il tasto dell’Illuminismo e della rivoluzione francese, e non rivedere la propria posizione di profonda critica dei suoi valori, dei suoi fondamenti ideali e morali che sono poi alla base del mondo moderno e anche della libertà della Chiesa stessa.
Per fortuna, altri storici e filosofi e anche teologi hanno una idea più positiva e più creativa dell’Illuminismo, della rivoluzione francese, della Dichiarazione dell’89 e della derivata triade Liberté, Egalité, Fraternité. Tra l’altro la «Fraternité » (il cui senso politico non è mai chiaramente spiegato) figura in una successiva «Dichiarazione dei diritti e dei doveri del cittadino» posta in testa alla Costituzione dell’anno III (1795), cioè nei tempi moderati del Direttorio. Era un principio civile di accoglienza e si riferiva anche alla questione degli ex schiavi (liberati dopo il 1789) delle colonie francesi d’America.
Ebbene, il fascismo, il nazismo e il comunismo hanno sempre irriso e rifiutato questi antenati e questi padri ideali. Mussolini si divertiva quando accennava agli «immortali principi dell’89». Lo faceva ridere soprattutto l’aggettivo. Lo stalinismo riconosceva un’unica rivoluzione, quella del 1917. Il nazismo fece dell’anti-Illuminismo e dintorni una ideologia assoluta e primaria. «Noi non miriamo soltanto a distruggere tutto il sistema nato con la rivoluzione francese, ma vogliamo risalire assai più in là, ben oltre i principi di tolleranza e le concezioni umanitarie del Medioevo». Così il settimanale Das Reich , diretto da Goebbels, del 28 settembre 1941, quando l’Europa era sotto il tallone tedesco. E il 26 agosto 1942 (coincidenza di date) il Reichstag approvava una legge su altri poteri a Hitler che aveva come preambolo: «Oggi in Germania non ci sono più diritti ma doveri». Pochi giorni dopo Goebbels, sempre su Das Reich scriveva: «L’era borghese, con le sue false e ingannevoli cognizioni di umanità, è finita».

L’Europa svilita da populismi e nazionalismi
Il nostro continente è spaccato a est tornano i conflitti etnici a ovest l’Unione non crede in sé
di Nadia Urbinati


NELL’EDITORIALE di domenica, Eugenio Scalfari commentava la riflessione di Michael Walzer sulla preoccupante discordia tra i diritti dell’uomo e i diritti del cittadino. L’Europa geo-politica riflette questa discordia, spaccata a metà anch’essa: ad est, città e nazioni che ridiventano teatro di battaglie etniche, fulminee annessioni imperiali di stati sovrani, e pratica ordinaria della forza e della minaccia della guerra; ad ovest, un’unione di stati democratici che appare sempre meno convinta di sé, divisa tra la difesa di una politica della cooperazione e dei diritti e la proclamazione della centralità degli interessi nazionali. La crisi economica rallenta lo spirito unitario e gonfia i protagonismi nazionalistici, armando movimenti neo-fascisti e propaganda populista. La regressione nazionalista che l’argomento della crisi sembra giustificare (purtroppo non solo a destra) è un segno esplicito di questa discordia tra diritti umani universali e diritti politici di cittadinanza.
Di questo scenario inquietante la società della finanza e delle multinazionali porta un’enorme responsabilità. Non la sola. La società politica è forse ancora più responsabile se non altro perché ad essa spetta il compito di ordire il discorso pubblico. E invece, essa ha dismesso la narrativa degli ideali e si è fatta non meno cinica della società della finanza, pronta a rimettere in moto la macchina ideologica della priorità degli interessi etnici per portare a casa qualche voto in più. La decadenza della cultura politica nel twitterismo in diretta porta con se l’oblio quando non l’ignoranza della funzione progressiva ed emancipatrice che hanno avuto i popoli europei. La storia europea moderna ha generato un cosmopolitismo democratico che ha fatto dello stato-nazione il tramite di un nuovo ordine domestico e internazionale fondato sul diritto e sugli scambi tra individui e popoli. Questa è stata la meta perseguita dagli intellettuali illuministi; un ideale che è culminato nelle rivoluzioni democratiche del 1848-49, si è rinnovato all’indomani della Grande guerra e poi, con più certezza, nel Secondo dopoguerra.
La contingenza della crisi economica e la prepotente rinascita ad est di governi autoritari e aggressivi possono avere l’effetto di screditare la matrice democratica e far sorgere anche nell’Europa dell’Unione l’opinione che la difesa della nazione passi, non per la cooperazione e la società aperta, ma per una strada che porta di nuovo al protezionismo e al nazionalismo. Questo è il messaggio che viene dalla campagna anti-europeista dei partiti di destra e populisti in queste elezioni europee.
La difesa dell’ideale europeista non è a questo punto una questione teorica; non è neppure per un malconcepito buonismo che dobbiamo esse europeisti, ma proprio per difendere i nostri interessi nazionali in un mondo economico e culturale che è integrato e globale, che impone cooperazione. Oltre a ciò, è evidente che la democrazia realizzata dentro i confini nazionali è comunque costretta a compromettere l’universalismo dei suoi principi. La consapevolezza del fatto che per essere liberi e sicuri della nostra libertà dobbiamo godere dei diritti di cittadinanza aveva indotto Hannah Arendt ad essere dubbiosa sull’efficacia dei diritti umani. E aveva ragione. Anche per rispondere alla connaturata debolezza dei diritti umani i popoli europei hanno perseguito la strada dell’unione, diventando un laboratorio giuridico e politico di cittadinanza allargata e cooperativa per altre regioni del mondo. L’Unione europea è per questo un complemento della democrazia nazionale, alla quale consente di non chiudersi nella gelosa difesa della propria libertà, di non negare se stessa.

La Stampa 8.5.14
Per la prima volta la Cina insegue i diritti sui libri italiani
I numeri uno dei grandi colossi, dopo Sciascia e Calvino, interessati a Buzzati
di Letizia Tortello


Le agenzie letterarie cinesi avevano fatto capolino al Salone del Libro l’anno scorso. Timidamente. Portafoglio vuoto e solo per prendere contatti. Perché in Europa, dopo la Buchmesse di Francoforte, Torino è l’appuntamento immancabile per fare affari e conoscere il mercato editoriale. Quest’anno, i cinesi hanno deciso di tornare in massa. Non si affidano più agli agenti letterari, ma da oggi, in fiera, ci saranno presidenti e direttori generali delle maggiori case editrici cinesi. Cioè i corrispettivi di gruppi come Mondadori e Einaudi, con fatturati quattro volte i nostri. L’agenda torinese prevede appuntamenti a tutte le ore del giorno, fino a domenica. A visitarci verranno i pezzi grossi, i numeri uno del colosso multimediale e di broadcasting China South Publishing & Media Group, casa editrice e casa di produzione quotata in borsa, annoverata tra le prime 30 imprese culturali della nazione, o di Guizhou People’s Publishing House, fondata nel 1951. E di altre quattro major del libro. Saranno al Lingotto per scambiare diritti di traduzione, proporre due dei loro autori di punta e soprattutto «fare investimenti e approfondire possibilità di business perché ci interessa la vostra cultura – spiega Sara Wang, General Manager dell’agenzia letteraria cinese NiuNiu Creative Limited –. In Cina è tradotta pochissimo la letteratura italiana, anche i classici sono poco conosciuti». Da Dante a Pavese, per fare qualche esempio. Mentre sono regolarmente tradotti «Sciascia, Luigi Malerba, Calvino e per arrivare alla letteratura contemporanea Paolo Giordano – continua –. Siamo prossimi a lanciare, tra due settimane, l’ultimo libro di Marcello Lippi, attuale allenatore del Guangzhou Evergrande Football Club».
Ibf
Il progetto di ospitalità dei cinesi rientra negli scambi dell’Ibf, l’International Book Forum, la «Wall Street» del Salone, una delle sezioni economicamente più interessanti della fiera. La trasferta dei 20 cinesi è un’iniziativa speciale organizzata in collaborazioni con l’Ali (Agenzia Letteraria Internazionale) e Niu Niu Culture Ltd, un mediatore culturale Italia-Cina. Si chiama «Un ponte di libri» e vuole diventare un progetto permanente, di Salone in Salone. «Lo scambio commerciale è per noi un metodo, quello culturale è una missione finora poco esplorata, soprattutto dall’industria del libro», continua Sara Wang. In fin dei conti, «gli scambi in ambito editoriale fra i due Paesi sono ancora troppo pochi - aggiunge Cinzia Seccamani, Executive Director dell’Ali – sia in termini di volume sia di valore economico».
I contratti
Dunque, un’opportunità da cogliere. Anche se con i cinesi non è immediato fare affari. L’obiettivo è «fare molte parole e molti fatti», prosegue Wang. I cinesi già puntano a due titoli: sono interessati alla traduzione dei libri di Dino Buzzati, «Il deserto dei Tartari» in primis, e a Giorgio Scerbanenco. Vai a capire perché proprio lui e non altri giallisti. Per quest’ultimo, la trattativa pare quasi chiusa. In questi giorni, la conferma ufficiale con l’editore italiano.
Il mercato editoriale di Pechino ha cifre incredibili. Un giro d’affari di 50 miliardi di yuan, circa 6 miliardi di euro l’anno. E se prima, le traduzioni dei nostri testi erano pirata, oggi i cinesi intravedono sempre più nella cultura nostrana possibilità di business. Il drappello in gita a Torino conta i direttori generali della China South Publishing & Media Group, della Beijing Yuanliu Classic Culture, che si occupa principalmente di libri per ragazzi, della China Fine Arts Publishing Group, l’unica casa editrice riconosciuta a livello nazionale specializzata nelle arti visive (dalle collane di fumetti, la cinese Lianhuanhua, all’arte classica e popolare, possiede periodici e promuove l’ebook). E ancora, verranno i vertici del China Publishers Magazine, primo giornale dell’industria editoriale cinese. I
I film d’animazione
Infine, i vertici della Agogo Enterainment, casa di produzione di film d’animazione che sviluppa e distribuisce serie tv di animazione e licenze per i mercati internazionali.E verranno due scrittori locali: Xiao Yun Feng, autore emergente che con l’ultimo libro ha venduto un milione di copie, e Yin Jian Ling, autrice per bambini.
I rappresentanti delle major dell’editoria hanno in programma un incontro con il sindaco Fassino, venerdì pomeriggio, con i vertici della Regione, di Unioncamere e Camera di Commercio e con Paolo Tenna di Fip, il braccio produttivo della Film Commission. Oggi, alle 14, in Sala Copenaghen, con loro si parla di business letterario Italia-Cina, con la presenza dell’Aie, l’Associazione Italiana Editori.

Corsera 8.5.14
Arte e letteratura sono utensili che ci aiutano a credere e amare
Bergoglio: la creatività serve per meditare, non è uno svago
di Antonio Spadaro


Conversavo con Papa Francesco durante l’intervista apparsa sulla rivista che dirigo, «La Civiltà Cattolica ». Stavamo parlando di ottimismo. Lui mi diceva che non ama questa parola perché troppo psicologica. Ama invece la speranza. Se lui è sorridente, insomma, non è perché sia ottimista ma perché, da credente, vive una speranza che non delude. «Pensa al primo indovinello della Turandot di Puccini» mi dice. Fino a quel momento nella nostra conversazione non era mai emersa una citazione letteraria o artistica, per cui quando il Papa dice Turandot penso di non aver capito e gli chiedo di ripetere.
Mentre Francesco scandisce il nome Tu-ran-dot mi vengono in mente i famosi versi che rivelano il desiderio di una speranza che qui però è fantasma iridescente che sparisce con l’aurora. E difatti il Papa prosegue: «La speranza cristiana non è un fantasma e non inganna. È una virtù teologale e dunque, in definitiva, un regalo di Dio che non si può ridurre all’ottimismo, che è solamente umano. Dio non defrauda la speranza, non può rinnegare se stesso. Dio è tutto promessa».
In quel preciso momento mi sono reso conto che Bergoglio è una persona che vive l’arte e l’espressione creativa come una dimensione che è parte integrante della sua spiritualità e della sua pastorale. È capitato già varie volte, sentendolo parlare da Papa, di aver registrato una citazione di passaggio, posta lì senza premesse né spiegazioni «colte». Ricordo, per esempio, la citazione del Divino impaziente di José María Pemàn durante la sua omelia ai gesuiti per la festa di Sant’Ignazio il 31 luglio 2013. Così anche il riferimento a Joseph Malègue nella mia intervista, per parlare della «classe media della santità».
Per Bergoglio l’arte è vita e discorso sulla vita. L’arte non è «per l’arte», non è un mondo a parte, colto, dotto, aulico, sostanzialmente «borghese». La sua visione radicalmente «popolare» tocca anche la produzione artistica e la sua fruizione.
Il Papa è molto sensibile al «genio» e alla «creatività», parole che gli ho sentito pronunciare spesso, almeno tanto quanto la parola «normalità» o l’aggettivo «normale». Ho l’impressione che per lui la creatività e il genio non siano eccezioni, ma dimensioni della vita ordinaria affrontata con energia e intensità. Sempre durante l’intervista ho voluto tentare di comprendere meglio quali siano i principali riferimenti artistici e letterari di Papa Francesco. Da quel momento si è andato costruendo l’elenco dei libri di quella che da subito ho chiamato nella mia mente «La biblioteca di Papa Francesco». Seguendo nell’intervista i nomi dei suoi scrittori preferiti, e così degli artisti, registi, musicisti e direttori d’orchestra, ho compreso che non si formava un elenco di puro gusto estetico, ma si andava definendo un vero e proprio territorio di esperienza umana. Le sue letture erano legate a visioni della realtà, alla sua stessa comprensione del mondo. Mi sono presto reso conto di essere assorbito dai suoi riferimenti, e di avere il desiderio di entrare nella sua vita passando anche per la porta delle sue scelte artistiche.
«Io amo gli artisti tragici», mi ha detto. E ho compreso che la sua non è pura attrazione per la tragedia intesa come genere letterario, ma è desiderio di entrare dentro la condizione umana anche per la via della rappresentazione estetica. A tal punto che egli fa sua la definizione di opera «classica» che si ricava da Cervantes: l’opera «classica» è l’opera che tutti in qualche modo possono sentire come propria, non quella di un gruppetto di raffinati intenditori.
La conferma del legame che lui avverte tra opera d’arte e visione della vita l’ho avuta proprio nel momento dell’intervista in cui Bergoglio ha sottolineato che l’uomo col tempo cambia il modo di percepire se stesso. Per esprimere il concetto ha preferito non ricorrere a riflessioni sofisticate sul cambio antropologico, ma dire, più semplicemente e direttamente, che una cosa è l’immagine ellenistica di uomo che ha prodotto la Nike di Samotracia, altra è quella che trova la sua forma nelle tele del Caravaggio, e altra ancora è quella del surrealismo di Dalí. Dunque la letteratura, la musica, l’arte sono da considerare pienamente «dentro» il discorso sull’uomo, sulla spiritualità, sulla pastorale e la missione della Chiesa.
Il mio primo obiettivo, confrontandomi con i libri da lui amati, è stato dunque quello di capire meglio la sua visione del mondo, della realtà e della persona umana: mi interessava entrare nel suo immaginario. Non per puro gusto di indagine, ma per comprenderne più a fondo il pensiero. Tuttavia non è stato questo il vero obiettivo. Ciò che mi ha mosso è legato sia al fatto che Jorge Mario Bergoglio è il Papa, sia alla constatazione che egli è anche il leader mondiale oggi più credibile e universalmente riconosciuto. Comprendere Bergoglio significa dunque, per me, come cattolico, innanzitutto indagare meglio che cosa il Signore stia chiedendo oggi alla Chiesa. Ma significa anche comprendere meglio lo spirito del tempo che riconosce nella sua figura un leader. Dunque, ricostruire «La biblioteca di Papa Francesco» significa compiere un’operazione di valore spirituale e culturale.
In un paio di occasioni ho avuto anche modo di poter approfondire il discorso con lo stesso Pontefice, dialogando su questa o quell’opera, a volte persino chiedendogli se aveva avuto davvero una certa importanza nella sua formazione. In effetti, scorrendo l’elenco delle opere della collana è possibile riconoscere i tratti fondamentali del Pontificato di Bergoglio, oltre che avvertire le vibrazioni della sua sensibilità personale.
Infine ecco una domanda: come leggere i libri della «Biblioteca di Papa Francesco»?
Innanzitutto il lettore si troverà guidato da prefatori che, per la quasi totalità, non solo conoscono l’opera ma anche direttamente Jorge Mario Bergoglio. Le loro prefazioni hanno anche il tono della testimonianza, dunque, capace di avviare il lettore a comprendere il motivo per cui quel libro ha contribuito a formare la «visione» di Papa Francesco.
Dopo le prefazioni, il lettore si troverà ad affrontare direttamente il testo. Come farlo in modo da essere fedeli anche in questo alla lezione bergogliana? Mentre dialogavamo durante l’intervista già citata, mi ha fortemente colpito il momento nel quale il Papa mi ha detto che ama il Mozart eseguito da Clara Haskil: «Mi riempie: non posso pensarlo, devo sentirlo» ha affermato con tono meditativo. In queste poche parole c’è tutta una concezione della fruizione estetica che distingue «sentire» e «pensare». Un artista si gusta se «sentito», non se è «pensato». Non che la prima cosa escluda la seconda. Però è possibile che il sentire sia talmente forte, ricco e coinvolgente da superare immensamente la sua analisi teorica. Aveva scritto Bergoglio nel 2005: «La sapienza non si ferma alla conoscenza. Sapere significa anche gustare. Si sanno le conoscenze... E si sanno anche i sapori».
Occorre comprendere che dietro questa sorta di abbozzo di estetica bergogliana c’è un passaggio degli Esercizi spirituali ignaziani, nel quale, proprio all’inizio, si dice che «non è il molto sapere che sazia e appaga l’anima, ma il sentire e gustare le cose internamente (no el mucho saber harta y satisfece al á nima, mas el sentir y gustar de las cosas internamente)». E per Bergoglio, come per Sant’Ignazio, il «sentire», in un modo o nell’altro, ha sempre a che fare con la manifestazione di Dio nell’anima e nella vita di una persona. Ecco un altro motivo per leggere i libri cari a Papa Francesco.