venerdì 9 maggio 2014

Anpinews n 119 8-15 maggio 2014
“Non siamo conservatori, ma il cambiamento si realizza solo nel solco della Costituzione e nel quadro di una democrazia che si rafforza anziché ridurre gli spazi della rappresentanza”
L’intervento del Presidente Nazionale ANPI, Carlo Smuraglia, alla manifestazione del 29 aprile al Teatro Eliseo di Roma: Una questione democratica

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Anpinews n 119 8-15 maggio 2014
Notazioni del Presidente Nazionale ANPI, Carlo Smuraglia, sul Congresso di Rimini della CGIL

A Rimini, ho partecipato al Congresso Nazionale della CGIL, con quasi mille delegati, molti invitati e parecchi ospiti, nella bella sala del Centro Congressi, come sempre, in Emilia, organizzatissimo. Ho ascoltato la relazione di Susanna Camusso e vi ho trovato una prova di maturità e di consapevolezza straordinaria. Sono stati affrontati molti temi, formulate diverse proposte di particolare interesse (...)
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l’Unità 8.5.214
Bruno Trentin e la bella utopia
L’eredità del pensiero del sindacalista che Ariemma riprende nel suo libro
La sua visione, concreta e sperimentale, resta una risposta al caos, al dramma e all’impotenza della politica
di Iginio Ariemma

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L’Huffington Post 9.5.14
L'Unità in crisi d'identità sciopera e chiede lumi e aiuto al Pd
di Carlo Patrignani

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L’Huffington Post 9.5.14
Silvio Berlusconi: "Forza Italia sotto ricatto di Renzi?
Semmai il contrario, potremmo non dargli i voto per le riforme"

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l’Espresso n.19.2014, nelle edicole
Caro Pd, sbagli a demonizzare Grillo
Partiti e osservatori sottovalutano e vedono con fastidio il Movimento 5Stelle. Come già accaduto con la Lega e Forza Italia
Invece il fenomeno è destinato a crescere, finché non si prosciugano le fonti del nostro malessere
di Piero Ignazi


Il Movimento 5 stelle viene comunemente trattato da politici e mass media con un misto di sufficienza e fastidio, come fosse un impiccio transitorio. Non è la prima volta che fenomeni nuovi della politica italiana vengono guardati dall'alto in basso dalla classe politica tradizionale: basti ricordare l'ostilità con cui i partiti storici (socialisti esclusi) accolsero i radicali negli anni Settanta, o le irrisioni al sorgere della Lega e della prima Forza Italia. Nel caso del M5S si ripetono gli stessi errori di valutazione, o meglio, di sottovalutazione. Con una aggravante in più: la dimensione del fenomeno. Si dimentica che sul territorio nazionale i grillini sono stati i più votati di tutti (il Pd ha riguadagnato il primo posto solo grazie al voto degli italiani all'estero). Un quarto degli italiani residenti gli ha dato fiducia; e, ad eccezione delle province lombarde e di alcune in Campania, il M5S è sempre il primo o il secondo partito. Non solo: il movimento di Grillo si è rivelato l'unico partito "nazionale" in quanto i suoi consensi sono distribuiti uniformemente su tutto il territorio con variazioni limitate da regione a regione.
DOPO UN ANNO il M5S ha mantenuto, grosso modo, il suo bacino di consensi. E questo nonostante una serie di handicap, dalla qualità mediamente scarsa della sua classe parlamentare (disastrosa la scelta dei primi due capigruppo Vito Crimi e Roberta Lombardi), al vortice delle espulsioni per lesa maestà, dalla girandola delle dichiarazioni improvvide del leader, al rapporto conflittuale con tutte le altre forze politiche e con i media.
La sua resistenza e forse anche la sua espansione è frutto di una precisa scelta strategica, quella dell'autoemarginazione. A seguito del clamoroso successo delle politiche il Movimento 5 Stelle ha alzato ponti levatoi e sbarrato porte per paura di contaminarsi con la politica tradizionale. Un comportamento, questo, comprensibile in una nuova formazione che teme lo snaturamento e il lavorìo per file interne degli avversari; solo che i grillini sono arrivati a sfiorare la paranoia. E adesso non è facile cambiare strada perché se il M5S uscisse da questo suo arroccamento e accettasse di confrontarsi con il mondo esterno, accogliendo l'idea che discutere, trattare e cercare accordi è la normalità della democrazia e non una pratica delittuosa, perderebbe buona parte della sua ragion d'essere. Che è quella di essere "altro". Di contrapporsi frontalmente a tutti: o noi o loro ripete sempre Beppe Grillo.
È DA QUESTA RADICALITÀ che trae il sostegno elettorale. Finché il Movimento si caratterizzava soprattutto per le sue cinque stelle (trasporti, rete, sviluppo e riciclo, acqua pubblica, ambiente) e rappresentava una nuova versione di un partito ecologista e postmaterialista, difficilmente avrebbe sfondato. Solo inondando tutto questo con una critica feroce al sistema dei partiti e alla classe politica ha fatto il salto di qualità. E le sue potenzialità di sviluppo non sono esaurite: perché esiste nel nostro paese un serbatoio di insoddisfazione e di scontento nell'opinione pubblica ben più ampio di quel 25 per cento raccolto l'anno scorso; perché in questo grande serbatoio sono presenti soprattutto i giovani tra i 18-40 anni, quelli che costituiscono l'ossatura dell'elettorato grillino (secondo alcuni sondaggi in quella fascia di età il M5S raggiunge il 40 per cento ); perché è in atto uno scongelamento delle fedeltà partitiche, soprattutto a destra, che consente di attrarre ulteriori consensi.
Per tutte queste ragioni il fenomeno grillino non è destinato ad esaurirsi subito, ed è meglio "prenderlo sul serio", cercare di capirlo per quello che è e fa, e per le risorse sulle quali può contare. Grillo oggi da voce al "malessere dell'Italia", così come, anni or sono, la Lega veicolava quello del Nord. È un malessere generalizzato, ampio e trasversale. Che interroga in primis il Pd, l'unico in grado di rispondere a questa crisi. La sfida lanciata da Grillo - "o noi o loro" - investe il Pd, mentre la destra e Berlusconi sono fuorigioco e non a caso il leader dei M5S non se ne cura più). Per vincere questa sfida non bastano due o tre formulette demonizzanti. Vanno prosciugate le fonti del malessere dell'Italia.

l’Espresso n.19.2014, nelle edicole
Anche noi arabi vittime della Shoah
Non tutto l'Islam fu filonazista. E l'Olocausto ha giustificato gli eccessi in Palestina. Dopo le parole di Abu Mazen, parla lo storico libanese
Colloquio Con Gilbert Achcar
di Davide Lerner


Che cosa c'entra Hitler con il conflitto in Medio Oriente? È vero che tra il mondo arabo e il terzo Reich fu luna di miele in virtù del nemico comune ebraico-sionista? Perché ancora oggi Israele e i suoi nemici si accusano a vicenda di essere "come i nazisti"? All'indomani della storica dichiarazione di Abu Mazen, il primo leader palestinese a riconoscere la Shoah come "il più atroce dei crimini", "l'Espresso" ha incontrato Gilbert Achcar, autore di "Gli Arabi e la Shoah, la Guerra Arabo-israeliana delle Narrazioni". Il sessantatreenne intellettuale libanese è nel suo ufficio della "School of Oriental and African Studies" di Londra, dove è approdato dopo aver insegnato a Parigi e Berlino, con le pareti tappezzate da foto della primavera araba.

Professore, la dichiarazione di Abu Mazen è rivoluzionaria per il mondo arabo?
«Rivoluzionaria mi sembra eccessivo, nel mondo arabo esiste una frazione di popolazione istruita che non metterebbe in dubbio una virgola di ciò che ha detto Abu Mazen. Tuttavia è molto importante perché arriva da un leader palestinese, che fra l'altro in passato aveva negato o perlomeno sminuito l'Olocausto (la sua tesi di dottorato, ottenuto a Mosca nel 1982, dal titolo "Le connessioni tra nazismo e sionismo" è stata oggetto di polemiche per questa ragione, ndr). E poi è molto significativo l'uso del superlativo. La Shoah viene definita il crimine "più" atroce che sia stato commesso nell'era moderna, il che implica un riconoscimento della sua maggiore efferatezza rispetto alla Nakba (la "Nakba" è la "tragedia" palestinese del 1948, quando in 700.000 furono ridotti a rifugiati in seguito alla guerra d'indipendenza israeliana, ndr). La "guerra delle narrazioni" è anche una competizione per chi è più vittima, per stabilire quale parte rappresenti Davide e quale Golia. Non è facile per un Rais palestinese ammettere che la Shoah appartiene, come tragedia storica, a un ordine di grandezza superiore rispetto alla Nakba».
Quale fu il rapporto fra mondo arabo e Germania nazista?
«La narrativa che descrive gli anni Trenta e i primi anni Quaranta come anni di luna di miele tra Hitler e i principali movimenti politici nel mondo arabo compie l'errore di generalizzare quello che fu effettivamente un rapporto di collaborazione tra Amin al Husseini (Gran Muftì di Gerusalemme tra il 1921 e il 1937, ndr) e il Führer estendendolo a tutto il mondo arabo. Furono in molti a rapportarsi con la Germania nazista, ma bisogna distinguere fra i soggetti politici che lo fecero per opportunismo, cioè semplicemente seguendo il principio secondo cui "il nemico del mio nemico è mio amico", e quelli che invece ne condividevano in una qualche misura l'ideologia come Amin al-Husseini. Lui era proprio antisemita, visitò Berlino e Roma. Ebbe un rapporto profondo col nazismo, ne sposò l'ideologia e si impegnò a diffondere la propaganda antisemita in lingua araba. Lungi dal limitarsi a lottare contro l'immigrazione ebraica in Palestina, era a conoscenza della "soluzione finale" e si dava da fare per promuoverla. In alcune lettere a un ministro ungherese lo invitava a spedire gli ebrei in Polonia, dove sarebbero stati "sotto controllo"».
L'altra questione affrontata dal libro è quella della strumentalizzazione politica della Shoah.
«Lo scopo della "nazificazione degli arabi", cioè l'esaltazione dei rapporti che ebbero con Hitler, è quello di giustificare la Nakba. Se i Palestinesi hanno avuto un ruolo di complici nella Shoah, allora non è più vero che con la Nakba hanno colpe che erano solo degli Europei. Un esempio di questa tendenza è lo storico israeliano Benny Morris. Dopo aver portato a termine preziose ricerche storiche che hanno provato inoppugnabilmente i fatti della Nakba, all'inizio del terzo millennio Morris è scivolato su posizioni di estrema destra e, seppur non rinnegando le sue ricerche sulla pulizia etnica, dai primi anni Duemila ha cominciato a sostenere che l'espulsione di massa fosse giustificata perché i palestinesi erano come i nazisti e perché l'alternativa per gli israeliani era un secondo genocidio. Accusare l'avversario di essere "come i nazisti" è comune nella retorica politica israeliana: più Israele si trova a dover fare i conti con il crescente deterioramento della sua immagine nell'opinione pubblica occidentale, più ricorre alla Shoah come anacronistico mezzo di difesa».
Anche la dichiarazione di Abu Mazen arriva in una fase in cui l'accordo con Hamas rende la sua posizione difficile.
«Netanyahu in questo ha ragione, il fatto che le parole di Abu Mazen arrivino in questo momento ne diminuisce il valore perché sembra una mossa politica. Però lui è campione nell'utilizzare l'Olocausto per difendersi dalle critiche che gli vengono avanzate, ed è ben lungi dall'incarnare le lezioni che vanno tratte dall'esperienza della Shoah. Netanyahu presiede un processo di espropriazione coloniale, occupazione, discriminazione etnica. Pretendere di parlare nel nome delle vittime dell'Olocausto mentre si compie questo tipo di crimini equivale ad insultarle. La Shoah è nata proprio dalla caratterizzazione su base etnico-razziale di uno Stato che si definiva "ariano", e il suo governo insiste per definire Israele come "Stato ebraico", escludendo buona parte dei suoi stessi cittadini. La memoria dell'Olocausto non è appannaggio o proprietà di un singolo popolo, e gli insegnamenti universali che bisogna trarne invocano democrazia, umanesimo, vera uguaglianza. Se comprendi l'essenza dell'Olocausto, con le sue lezioni contro discriminazione e oppressione, capisci che chi deve invocarle sono le vittime, cioè i palestinesi».
Perché allora il negazionismo va per la maggiore nel mondo arabo?
«C'è un impressionante livello d'ignoranza riguardo l'Olocausto perché i governi impediscono ogni tipo di insegnamento della Shoah nelle scuole. Questa scelta è figlia dell'idea infondata che se tu riconosci che l'Olocausto è avvenuto, allora riconosci la legittimità dell'esistenza dello Stato d'Israele. Esiste inoltre una forma di "negazionismo di reazione" nel mondo arabo. Persone piene di risentimento per Israele e per quello che Israele fa ai palestinesi sfogano la loro rabbia negando l'Olocausto come se questo in qualche modo possa danneggiare il nemico. È un atteggiamento che chiamo "l'antisionismo degli scemi"».
In apertura del libro lei cita il Vangelo di Matteo: "perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?".
«Penso che sia un precetto fondamentale, prima di criticare gli altri devi essere consapevole delle tue colpe. Chi accusa gli arabi per i loro rapporti con la Germania nazista, e ancora oggi li paragona ad essa, dovrebbe prima farsi un esame di coscienza. Non va dimenticato che mentre Israele ha avuto un ruolo diretto nella Nakba, insieme agli inglesi, e si ostina a negarla, i palestinesi come popolo non hanno avuto alcun ruolo nella Shoah. La dichiarazione di Abu Mazen è positiva nonostante le riserve legate alle circostanze politiche: riconoscendo le reciproche tragedie è possibile avviare un dialogo. Solo dopo aver fatto i conti con la trave del proprio occhio si può discutere della pagliuzza nell'occhio del vicino».

l’Espresso n.19.2014, nelle edicole
Anoressia
Sorpresa, si cura
di Michele Tansella
Centro Oms Di Ricerca Sulla Salute Mentale, Università Di Verona
 

Uno studio clinico controllato, condotto su 242 casi di anoressia mentale, finanziato dal ministero della Ricerca tedesco e pubblicato  su "Lancet",  ha confrontato tre interventi: psicoterapia psicodinamica, psicoterapia cognitiva e trattamento ambulatoriale standard (coordinato dal medico di base e basato sulla psicoterapia fornita gratuitamente dalle assicurazioni, in Germania). La terapia è durata 10 mesi e i pazienti sono stati poi seguiti per un anno. L'efficacia, giudicata misurando l'aumento di peso e la necessità
di ricoveri ospedalieri, è risultata simile, con risultati appena migliori  nel gruppo trattato con la terapia psicodinamica e un po' più rapidi in quello che ha avuto la psicoterapia cognitiva.
L'anoressia, disturbo tendenzialmente cronico se non trattato, tra i disturbi mentali è quello con il più alto tasso  di mortalità: riguarda in media tre ragazze ogni 1000 (è meno frequente negli maschi), con otto nuovi casi all'anno ogni cento mila abitanti. Ragazze che hanno paura di ingrassare o di diventare grasse, anche quando sono sottopeso; che hanno una percezione distorta del proprio corpo, poca autostima, e hanno perso i cicli mestruali. Spesso questi sintomi si accompagnano a abbuffate, vomito autoindotto, uso inappropriato  di lassativi e diuretici.
La psicoterapia è considerata  il trattamento di scelta, ma le linee guida più accreditate sottolineavano finora la mancanza di dati solidi  e attendibili che ne dimostrassero l'efficacia. Questa ricerca ha invece confermato che l'anoressia si può realisticamente curare.

l’Espresso n.19.2014, nelle edicole
Psichiatria
Ma tu sei  Riemann o no?
L'uomo che credeva  di essere Riemann
Edizioni e/o, 2014 pagg. 138, euro 15,00
Bruno Arpaia


Chiamiamolo Ernest Love, come fa per discrezione il dottor Benedetti, lo psichiatra che dovrà curarlo e che ne racconta la storia. È un matematico di fama, nemmeno quarantenne, al culmine della carriera. Un giorno, però, gli arriva una mail da un collega con la notizia che è stata dimostrata l'ipotesi di Riemann, un'ipotesi connessa ai numeri primi e formulata nel 1859, che resta il problema più misterioso e affascinante della matematica: nessuno, infatti, è ancora riuscito a dimostrarla, nonostante da quasi due secoli ci si siano applicate alcune delle menti più geniali del settore. Letta la mail, "Love" prima scoppia a ridere, poi inizia a farfugliare e a disperarsi; quindi, dopo aver pronunciato le ultime parole da sano, comincia a sostenere di essere Bernhard Riemann in persona.
La mail, ovviamente, è un falso, uno scherzo di un collega burlone. Ma all'ipotesi di Riemann sono collegati tutti i sistemi di criptazione esistenti (tanto che di recente un miliardario americano ha messo in palio un milione di dollari per chi risolverà il mistero), sicché, quando Benedetti entra in pista, si accorge subito che ci sono forti pressioni, anche politiche, per sfruttare la situazione e cercare di fare in modo che Love, quasi reincarnato in Riemann, finalmente la dimostri. Il caso, tuttavia, è anche psichiatricamente complicato, perché Love ha memoria di tutto, della persona che era e di quella che sostiene di essere. Dunque, non è schizofrenico, e per il resto sta bene e non presenta segni di disagio. Doppia sfida, dunque, matematica e psichiatrica, in questo romanzo di Stefania Piazzino , in cui i misteri della mente umana e quelli della scienza apparentemente più astratta intrecciano con grazia una danza piena di suspense sui labili confini tra realtà e immaginario (il territorio, non a caso, dei numeri complessi), tra scienze e arti, tra normalità e follia.

La Stampa 9.5.14
Sul lavoro e in amore,  psicopatico è meglio
Fa discutere il libro dello psicologo di Oxford Kevin Dutton “The Good Psychopath’s Guide to Success”: “Gli psicopatici sono favoriti dalla loro capacità di concentrarsi, dall’assenza di paura e di empatia umana”.
di Paolo Mastrolilli
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MicroMega 3.2014
Più democrazia vuol dire più welfare
di Luciano Gallino

in libreria e nelle edicole


L’Unità oggi non è uscita per lo sciopero indetto dal Cdr

la Repubblica 9.5.14
La rilevazione Demos rivoluziona la gerarchia delle Politiche 2013. Berlusconi giù al 17,5%
Oltre il quorum Ncd, Tsipras, Lega e Fdi
Europee, sfida a distanza Renzi porta il Pd al 33% Grillo sotto i dieci punti e Forza Italia tracolla
di Ilvo Diamanti


LE STIME di voto, elaborate in base al sondaggio condotto da Demos negli ultimi giorni, forniscono indicazioni piuttosto chiare. Particolarmente positive per il Pd. Che oggi si colloca largamente al di sopra delle altre liste.
MA ANCHE del risultato ottenuto alle elezioni politiche del 2013, quando si era fermato poco sopra il 25%. Oggi, invece, raggiunge quasi il 33%. Oltre 7 punti più dell’anno scorso. Un dato tanto più significativo in quanto tutti gli altri partiti appaiono molto staccati. Per primo il M5s, peraltro l’unico che superi il 20%. Ma, comunque, 10 punti meno del PD. Forza Italia, invece, appare in calo sensibile. Scivola, infatti, al 17,5%. Viene così meno il gioco fra tre grandi minoranze, emerso alle precedenti elezioni politiche. Oggi, se i risultati riproducessero questo quadro, vi sarebbe un solo partito con una base elettorale davvero ampia. Con un solo sfidante, a grande distanza: il M5s. Peraltro, un non-partito. Mentre il peso elettorale degli altri partiti è molto più ridotto. A causa, della - sostanziale - scomparsa del Centro e dell’implosione del Centro- Destra. Dove Forza Italia appare in sensibile declino. Incapace di attrarre e coalizzare l’area. D’altronde, il NCD, dopo la scissione,
si è attestato su un livello piuttosto solido, intorno al 7%. Ma anche i Fratelli d’Italia (anche grazie al richiamo ad AN) si collocano oltre la soglia di sbarramento del 4%. Queste formazioni beneficiano, in buona misura, della debolezza di Forza Italia e, quindi, di Berlusconi. Il che potrebbe, in futuro, lasciare tracce profonde nei rapporti politici tra questi soggetti. Complicando, dopo le Europee, la possibilità di ricomporre alleanze nel Centro-destra. La Lista di Sinistra, Altra Europa con Tsipras, sembra invece in ripresa, rispetto ad altre rilevazioni recenti. In grado, comunque, di superare lo sbarramento del 4%, che permette di eleggere rappresentanti al Parlamento europeo. Un’impresa che appare possibile anche alla Lega. Ma a nessun altra lista. Occorre, però, grande prudenza nel tradurre queste stime in previsioni di voto. Lo si dice sempre, ma stavolta va ribadito con particolare chiarezza. Non solo perché mancano ancora oltre due settimane. Ma perché le Europee sono elezioni particolari, meno sentite dai cittadini. Tanto che una quota significativa di essi non sa neppure che - né perché - si voti, fra un paio di settimane. Anche 5 anni fa l’affluenza alle urne fu molto bassa: il 66% circa. Difficile che quest’anno si vada oltre. Più facile, semmai, il contrario. Per questo è probabile che molto possa ancora cambiare, prima del 25 maggio. Perché l’incertezza è molto alta. E la posta in palio non è chiara a tutti.
Molto, dunque, dipenderà dalle prossime settimane di campagna elettorale. Di certo, le stime del PD - molto elevate - dipendono in larga misura dal consenso personale nei confronti di Renzi. Il 63% degli elettori, infatti, esprime fiducia nei suoi riguardi. Il doppio, perfino il triplo, di ogni altro leader. Renzi, oggi dispone di un consenso personale larghissimo. E trasversale.
È stimato dal 90% degli elettori del PD. E dal 60% tra quelli della maggioranza. Ma raccoglie il consenso di circa 6 elettori su 10 anche in alcuni partiti di opposizione. In particolare di FI e della Lega. Lo stesso si osserva tra gli elettori incerti e reticenti (un aspetto che può diventare importante, in prospettiva del voto). Solo nella Sinistra e nel M5s il premier è meno apprezzato. D’altronde, Renzi ha scavalcato i tradizionali confini della sinistra anche sul piano socio-economico. Secondo un sondaggio della Confartigianato regionale, condotto in questi giorni, infatti, il premier è apprezzato da quasi il 60% degli artigiani veneti. Molto più di ogni altro leader nazionale.
La figura di Renzi, dunque, trascina il PD ma anche il governo. Che oggi dispone di un sostegno superiore al 60%: 5 punti in più dello scorso febbraio. Parallelamente, si è rafforzata la convinzione che “il governo ci porterà fuori dalla crisi”. Oggi è condivisa dal 58%: 4 punti in più di tre mesi fa, quando il premier si è insediato (allontanando, bruscamente, Enrico Letta). Ciò suggerisce che le tensioni nella maggioranza e nello stesso PD, emerse più in questa fase, nel percorso delle riforme in Parlamento, non abbiano danneggiato la credibilità del governo né del suo premier. Ma l’abbiano, al contrario, perfino rafforzata. In quanto hanno “personalizzato” il partito e il governo. Marcando l’autonomia e la determinazione del Capo. Così, se, da un lato, si ripropone il vizio antico del voto di fiducia, oggi, per altro verso, il partito e il governo appaiono più renziani che mai.
Il risultato delle europee, in fondo, dipende da questo. Dalla capacità di Renzi di trasformarle in un referendum. Non tanto pro o contro l’Europa. Ma pro o contro di lui. Per trainare “personalmente” il PD. Da ciò, peraltro, dipende anche il risultato del M5s. Che l’anno scorso andò molto al di là delle stime dei sondaggi. In parte, perché le stime dei sondaggi non sono “previsioni” (semmai: profezie). In parte, perché Grillo e il M5s recuperarono molti consensi nelle ultime settimane. Negli ultimi giorni. Quando riuscì a canalizzare e, anzi, ad amplificare il ri-sentimento, profondo e largo, che agitava la società. Quel ri-sentimento non si è placato. Ma rischia, anzi, di ri-esplodere in modo fragoroso. In seguito alle gravi vicende che hanno investito, di nuovo, la politica e i politici. Scandite dagli eventi clamorosi di ieri. L’arresto dell’ex ministro Scajola, accusato di aver favorito la latitanza di Matacena, ex deputato, condannato per collusione con la mafia. L’arresto di 7 figure di rilievo, dell’amministrazione pubblica, della politica, dell’impresa, per affari illeciti, sviluppati intorno all’Expo. Echeggiano storie note, come i nomi di alcuni arrestati. Come Primo Greganti, Gianstefano Frigerio, protagonisti di Tangentopoli. Una stagione che pare non volersi chiudere. E getta un’ombra pesante sul sistema partitico, ma anche sulla campagna elettorale.
Così, le prossime Europee rischiano di tradursi in un duplice referendum. Oltre a quello pro o contro Renzi, infatti, potrebbe riproporsene un altro. Pro o contro il sistema partitico, i politici e le istituzioni. Alimentando di nuovo quel clima di distacco e rifiuto della politica, intercettato e interpretato, fino ad oggi, dal M5s. Così, le Europee rischiano di avere profonde conseguenze politiche. Per l’Italia, prima che per l’Europa.

Corsera 9.5.14
Pd al 33,8% Grillo al 23 Berlusconi sotto il 20
Europee, aumentano indecisi e astenuti
Un terzo degli elettori non voterà e uno su dieci è ancora incerto Pd in lieve calo (33,8%), sale Grillo (23%). Forza Italia sotto il 20%
di Nando Pagnoncelli


A poco più di due settimane dal voto l’interesse per le Europee si mantiene piuttosto modesto: solo un elettore su due si dichiara molto (19%) o abbastanza (34%) interessato. La nostra presenza in Europa continua a essere considerata positivamente da due terzi degli italiani mentre gli atteggiamenti nei confronti della moneta unica sono molto più variegati e critici: il 35% ritiene positivo l’utilizzo dell’euro da parte dell’Italia, il 32% pur senza mostrare entusiasmo lo considera una scelta necessaria, il 31% al contrario lo giudica negativamente.
Il voto del 25 maggio rappresenta una sorta di inedito doppio referendum, solo in parte sovrapposto: il primo pro o contro l’Europa, il secondo pro o contro il governo. Durante la campagna elettorale si è parlato sì di Europa, ma perlopiù in termini negativi, sia pure con gradazioni diverse: le proposte più radicali riguardavano l’uscita dall’euro o un referendum sulla nostra permanenza nell’Ue; quelle più blande proponevano di rivedere i parametri ed evocavano l’intenzione di far contare di più l’Italia in sede europea, trasmettendo implicitamente l’immagine di una Ue che penalizza il nostro Paese e ne limita la crescita. Si è parlato poco dei valori positivi dell’Europa e del senso della nostra appartenenza. Mancano gli argomenti. Anche tra i sostenitori che, peraltro, spesso fanno dichiarazioni apodittiche («dobbiamo rimanere in Europa»). Di certo in queste settimane la capacità di mobilitazione degli elettori da parte dei partiti antieuropeisti è apparsa nettamente superiore. Il secondo referendum (pro o contro il governo) finora non è stato certamente caratterizzato da temi e toni più pacati rispetto a primo. E sullo sfondo permane la crisi.
Nell’ultimo sondaggio prima del divieto di pubblicazione previsto nelle due settimane antecedenti il voto, emerge il fenomeno classico (e apparentemente paradossale) che si riscontra all’avvicinarsi del momento del voto: la crescita dell’incertezza. Una quota non irrilevante di elettori infatti, se fino a ieri indicava un partito, oggi tende a prendersi un momento di riflessione per verificare più a fondo le proprie scelte.
Troviamo infatti circa un terzo di elettori che sicuramente si asterrà e più del 10% che si dichiara incerto. Di questi ultimi è probabile che la gran parte alla fine scelga di non votare, ma almeno una parte (circa un terzo) si recherà alle urne. Questo, pur senza terremoti, potrebbe in parte cambiare i risultati attualmente stimati. Il voto vede saldamente in testa il Pd, che si attesta al 33,8%, in lieve calo rispetto al dato della scorsa settimana. Il Movimento 5 Stelle, al 23%, si colloca al secondo posto e conferma la tendenza ad incrementare il proprio risultato. Forza Italia continua a mantenersi al di sotto del 20%. La massiccia presenza di Berlusconi in televisione sembra non avere ancora prodotto risultati visibili. L’alleanza Ncd-Udc-Ppe si colloca a più del 6% e la Lega a poco più del 5%. Fin qui i partiti che ragionevolmente entreranno nel Parlamento europeo. Più difficile affermare con sicurezza che entrerà Fratelli d’Italia, che nel nostro sondaggio viene stimato ad un 4% tondo. Ma i margini di errore non consentono certezze. Più distanti Scelta europea e la lista Tsipras, entrambe al 3%, anche se teoricamente per queste formazioni non è detta l’ultima parola. In sostanza si conferma il tripolarismo emerso nelle elezioni del 2013: i tre partiti principali ottengono più dei tre quarti dei consensi potenziali nonostante i rapporti di forza siano cambiati come pure la composizione interna dei rispettivi elettorati (anche a seguito della scissione del Pdl). Ma le notizie odierne di cronaca giudiziaria, gli arresti effettuati e gli strascichi che presumibilmente ci saranno nei prossimi giorni potrebbero modificare sia il tasso di partecipazione al voto sia le scelte elettorali contribuendo, insieme all’incertezza, a smentire le stime odierne.

il Sole24ore 9.5.14
Effetto Renzi: il Pd primo nel Nord-Est
Grillo bene ma non sfonda - Sì alle riforme istituzionali, convince l'elezione diretta del capo dello Stato
di Roberto D'Alimonte


I sondaggi vanno sempre presi con molta cautela. Questo è tanto più vero in tempi di crisi e di cambiamento. Se a questo si aggiunge il fatto che le prossime elezioni riguardano il parlamento europeo e non il governo nazionale la prudenza deve essere ancora maggiore. Questo vale soprattutto per le percentuali di voto. Vale meno però per le tendenze. Da settimane la tendenza di fondo rilevata da tutti i sondaggi è che il 25 maggio il Pd di Renzi otterrà la maggioranza relativa dei voti degli italiani che si recheranno alle urne. Il nostro sondaggio conferma questa tendenza. La stima è il 33,8%. Se così sarà, il premier potrà vantare un bel successo, l'unica volta nel corso della Seconda Repubblica che una lista di sinistra è arrivata prima alle europee è stato nelle elezioni del 2004, ma si trattava per l'appunto di una lista, quella dell'Ulivo, e non di un partito. Per di più a quell'epoca Forza Italia non aveva ancora assorbito An. Altri tempi.
Renzi piace. Questo dicono i dati. Il Pd non sarebbe oggi il primo partito senza Renzi. A febbraio dello scorso anno, alle politiche che hanno segnato il tramonto della "vecchia sinistra", il primo partito era stato il M5S che alla Camera aveva ottenuto il 25,6% dei voti. Oggi il partito di Grillo è stimato al 22,2%, più di dieci punti percentuali sotto il Pd. Non solo il partito di Renzi risulta essere primo a livello nazionale ma lo è anche nel Nord Est, una zona in cui la sinistra ha sempre avuto grandi difficoltà. In Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia il risultato del Pd è analogo a quello nazionale, come risulta da un sondaggio parallelo fatto specificatamente in queste tre regioni. In questa zona il M5S alle politiche del 2013 era stato il partito più votato. Una volta il Nord Est era la vera roccaforte di Forza Italia e Lega, come lo era stato per la Dc ai tempi della Prima Repubblica. Già alle politiche dello scorso anno si era visto il netto declino di Forza Italia e Lega. Oggi la somma dei loro voti non fa la percentuale del Pd. Pare che il Nord Est sia diventato più simile al resto del Paese. Forse è l'effetto della crisi economica.
È anche l'effetto della smobilitazione dell'elettorato moderato. Tanti intervistati dicono che non andranno a votare e tanti non sanno per chi votare. Tra questi ultimi molti non andranno effettivamente a votare. In questa area grigia tra astensionismo e indecisione si nascondono molti elettori moderati delusi. E anche molti potenziali elettori di Renzi che qui raccoglie giudizi assai positivi. Così si spiega il risultato modesto di Forza Italia sotto il 20%. Molti non credono più in Berlusconi ma non credono nemmeno in altri. Per questo occorre prudenza nei giudizi. Le percentuali di questo e degli altri sondaggi sono calcolate su una base di votanti inferiore non solo a quella delle politiche del 2013 (75,2%) ma anche a quella delle europee del 2009 (65,1%). Una base più bassa alza le percentuali di voto senza che aumentino i voti. Questo vuole dire che lo smottamento del centro-destra non si è tradotto automaticamente in flussi di voto a favore di Renzi e di Grillo. Questi ci sono. Ma ci sono anche, e sono significativi, i flussi verso l'astensione. Il risultato di Forza Italia si spiega anche così e non solo con la scissione del Ncd di Alfano che viene stimato qui al 6,5%.
Pur tenendo conto di tutto ciò resta il fatto che molti dati indicano che il successo di Renzi non è legato solo alla sua capacità di portare a votare i suoi sostenitori in un contesto in cui molti elettori non votano i loro vecchi partiti. Renzi è indubbiamente un leader popolare, capace di attrarre consensi anche tra elettori non di sinistra. E lo è nonostante le modalità, sgradite alla maggioranza degli italiani, con cui ha sostituito Enrico Letta. Lo dicono i giudizi positivi sul suo governo e la fiducia nella sua persona. Così come è elevato il consenso alle riforme istituzionali che ha messo in cantiere, tra cui non figura l'elezione diretta del presidente della Repubblica che riscuote il consenso dell'80% degli intervistati. Berlusconi sarà contento.
Eppure dal complesso dei dati emerge che Renzi vince ma non convince ancora del tutto. Molti italiani gli fanno credito ma con prudenza. E questo spiega molto probabilmente la persistenza del fenomeno Grillo. Molti si aspettavano un forte ridimensionamento del M5S a un anno dal suo exploit di febbraio 2013. E invece pare che non sarà così. C'è un dato in questo sondaggio che colpisce più di altri. La maggioranza relativa degli intervistati attribuisce la maggiore responsabilità per la crisi economica alla classe politica. Non al debito, all'Europa o altro. È una conferma netta di come le opinioni degli italiani siano ancora profondamente influenzate dall'anti-politica. È questo sentimento che continua ad alimentare il successo di Grillo e che frena quello di Renzi.
In conclusione, molto è cambiato rispetto alle politiche di un anno fa, ma molto è rimasto immutato. La competizione politica è ancora a tre e non a due. Questo è il dato di fondo. Ma tra i tre il Pd ha conquistato un vantaggio considerevole. Gli altri partiti sono destinati a giocare il ruolo dei comprimari. Nonostante il sistema di voto proporzionale e il fatto che queste siano elezioni in cui tradizionalmente gli elettori si sentono più liberi di votare in maniera diversa alla fine saranno pochi i partiti che supereranno la soglia del 4%. Ma disincanto, scetticismo, rabbia creano un mix che rende il quadro ancora molto instabile. Da oggi al 25 maggio in questo scenario tutto può ancora accadere. O potrebbe anche non accadere nulla. E scoprire il 25 sera che la fotografia di oggi è quella vera.

la Repubblica 9.5.14
Ora e sempre Tangentopoli
di Alberto Statera


“SCUSATE il ritardo, il compagno G. è tornato”. Forse non ci crederete, ma è proprio questo il titolo che ha voluto dare alla sua autobiografia Primo Greganti, il roccioso funzionario del Pci-Pds che, detenuto a San Vittore per sei mesi all’epoca di Tangentopoli, mai crollò durante gli interrogatori, meritando “da eroe” il titolo di “Uomo di marmo”, tardo epigono italico dell’”Uomo d’acciaio” di Mao Tse Tung.
SCUSATE il ritardo, ma è tornato davvero in galera solo ieri il compagno G., ironia della storia che è prodiga di vendette, proprio nel giorno dell’arresto di Claudio Scajola, l’ex ministro dell’Interno berlusconiano, frequentatore delle patrie galere fin da giovanetto, quando sindaco di Imperia finì in cella accusato di tangenti sull’appalto del Casinò di San Remo, e di Gianstefano Frigerio, antico pregiudicato, ex segretario della Dc lombarda ed ex deputato di Forza Italia. Arrestati insieme a piccola parte dell’ormai tradizionale e immenso sistema affaristico del berlusconismo, che da qualche lustro rimpingua le cronache giudiziarie dell’Italia degli affari sporchi.
Da una parte, ventidue anni dopo, il compagno G., l’uomo che sfatò comunque il mito della “diversità” del Pci-Pds. Dall’altra, la struttura criminale che ha governato il paese durante un intero ventennio, capeggiata da un pregiudicato che oggi gode di privilegi mai visti in un paese di democrazia avanzata e composta di personaggi da Chicago anni Venti che periodicamente ricompaiono nello sfondo. Come il noto Cesare Previti, ex ministro della Repubblica che, pur non indagato, rispunta nelle vicende legate agli appalti dell’Expo di Milano del 2015. Chi era l’anima bella che poteva pensare il grande evento milanese, gonfio di miliardi, fosse immune dalle strategie rapinose di una classe dirigente tuttora purtroppo coinvolta nel governo del paese? Tutto già visto, tutto purtroppo già previsto.
“Oggi è già ieri” si chiamava il remake del film americano “Ricomincio da capo”, con Andie MacDowell, nel quale lo stesso giorno si ripeteva tutto con le stesse persone. Gli stessi incontri, le stesse frasi ripetute giorno dopo giorno ossessivamente, fino allo sfinimento. Torna dopo vent’anni il Compagno G., che se stavolta riafferma l’estraneità del suo partito forse dice la verità (ma le cooperative?). E torna, come in un destino persecutorio e ossessivo, il suo contrario, che fu Gianstefano Frigerio, segretario regionale lombardo ai tempi di Tangentopoli. Mai Frigerio fu di marmo, come il suo omologo diciamo “di sinistra”. Fu sempre di pastafrolla Gianstefano. Fu lui a raccontare tutto - la Cupola che si spartiva gli appalti, le tangenti, i miliardi ai partiti - al giovane e allora super- ormonico Antonio Di Pietro. Si vedevano al ristorante in via Morigi a Milano il Frigerio, con Maurizio Prada, cassiere della Dc, e Sergio Radaelli, tesoriere occulto del Psi di Craxi. Di Pietro li ascoltò per mesi a raccontare nefandezze intorno al desco, poi una sera disse loro: «Ora mettiamo a verbale». Furono tutti un fiume in piena e raccontarono il grande teorema della Cupola, come si dividevano da sempre le tangenti tra i partiti, con i tavoli tra le grandi imprese e le algebriche divisioni secondo i pesi elettorali e di potere. Fu allora che Frigerio, che oggi si direbbe “’a carogna”, fu soprannominato “l’infame”, per distinguerlo da Greganti, detto “la tomba”. Ma si trattava di difendere un sistema che nel ventennio precedente, come in quello successivo, sugli affari personali, le nuove ricchezze di rapina, ha fondato la sua esistenza.
Ora Greganti, l’ex “uomo di marmo”, intermedia per sé, come sostenne senza esitazioni, ma forse mentendo, un ventennio fa. Gli altri sono i soliti campioni del verbo berlusconiano: ”Andate e arricchitevi”. Come? Come potete.
Chi pretendeva “contanti” di sfioro sugli appalti, come Frigerio, già espertissimo da tanti anni su quelli della Metro milanese, chi lo 0,8 per cento sul business, come Greganti, con la sua società. Politici di riferimento? Certo, ma non servono più come una volta, quando contavano di più. Ormai il sistema è personale, con i politici sullo sfondo.
Non dite perciò, per favore, che è la nuova Tangentopoli. E’ peggio, molto peggio. E’ un sistema diverso, sul quale non incide il Manuale Cencelli dei pesi elettorali, che serviva a dividere esattamente le percentuali tangentizie, ma la capacità affaristica dei singoli. Certo, la politica poi potrà agevolare avanzamenti di carriera, nomine pubbliche, come da decenni fanno per mestiere Gianni Letta e il suo braccio operativo Luigi Bisignani: generali dei carabinieri, della Finanza, prefetti comprensivi e vogliosi di carriera, supermanager in servizio permanente e effettivo, la cui riconferma è legata ai circoli che contano. O imprenditori “di sistema.”
Prendete Enrico Maltauro, capo del- la più grande impresa veneta di costruzioni, che ha dilagato ovunque e che riempie le cronache giudiziarie senza che nessuno si sia chiesto se è magari opportuno escluderlo dai più grandi appalti. Arrestato nel ‘92, quando imperava la Cupola dei lavori pubblici governata dagli uomini della Dc e del Psi, Maltauro è rientrato alla grande nel giro, come Frigerio e Greganti. Peggio, come uno dei padroni degli uomini dell’Expo 2015. Non doveva essere, l’evento epocale milanese l’epitome della trasparenza, cristallino e basta? Niente ‘ndrangheta, niente appalti truccati, niente Comunione e Liberazione e Compagnia delle Opere, niente Lupi, niente Formigoni, che forse si appresta ormai a conoscere non più gli agi delle case dei Memores Domini, ma i disagi di case meno accoglienti.
Si sono sbracciati tutti per l’Expo, futuro emblema dell’Italia che rinasce. Così dicevano i mille sponsor del grande evento epocale, compresi il povero Roberto Maroni, vittima sacrificale di una nuova Tangentopoli che probabilmente gli passa un miglio sopra la testa, e persino Matteo Renzi, che ha dovuto gratificare l’immensa retorica per l’evento, diciamo “per contratto”. I politici furbi hanno fatto come Luigi Grillo, ex parlamentare di Forza Italia e del Pdl, che ha capito tutto. Macché Parlamento, è fatto per quei poveretti disoccupati e sfigati dell’omonimo Grillo (Beppe) e per le badanti di Berlusconi. Meglio farsi una società. Così, dopo aver difeso a suo tempo, naturalmente per interesse, l’ex governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio nell’indifendibile vicenda dell’Antonveneta, si è improvvisato presidente della Termomeccanica, società comprata da un’altra vecchia gloria: Enzo Papi, ex Fiat arrestato ai tempi di Tangentopoli. Quello che quando uscì da San Vittore si portò via in sacchi della spazzatura neri viveri, caffè, fornelli, bombole del gas e pentole, lasciando un ricordo indelebile di disgusto tra i suoi compagni di pena, che su quei pochi resti di detenzione di un ricco e potente contavano.
Macchè “a volte”. Ritornano “sempre”. Perché mai se ne sono andati. Esattamente come l’ex onorevole Scajola, forse tornato in galera “a sua insaputa”.

Corsera 9.5.14
Come Prima, più di Prima
di Gian Antonio Stella


Per piacere: evitateci lo stupore scandalizzato, «chi se lo immaginava?», «non l’avrei mai detto…». Tutto sono, gli arresti di ieri per l’Expo 2015, tranne che una clamorosa sorpresa. Perché, ferma restando l’innocenza di tutti fino alle sentenze, le cose stavano procedendo esattamente come era andata troppe altre volte.
Il solito copione. Recitato per i Mondiali di nuoto, le Universiadi, la World Cup di calcio, l’Anno Santo... Anni perduti nei preliminari, discussioni infinite sui progetti, liti e ripicche sulla gestione e poi, di colpo, l’allarme: oddio, non ce la faremo mai! Ed ecco l’affannosa accelerazione, le deroghe, il commissariamento, le scorciatoie per aggirare lacci e lacciuoli, le commesse strapagate, i costosissimi cantieri notturni non stop.
Sono sei anni, dal 31 marzo 2008, che sappiamo di dovere organizzare l’Expo 2015. E anni che sappiamo, dopo i trionfi di Shanghai 2010 dove il nostro padiglione fece un figurone, che l’impresa è difficile se non temeraria. Eppure solo Napolitano, all’ultimo istante, si precipitò alla grandiosa esposizione cinese per ricevere il passaggio del testimone e mettere una toppa sulle vistose assenze del nostro governo. Dopo di allora, tanti proclami, annunci, rassicurazioni… Mentre cresceva, nonostante l’impegno generoso di tanti, la paura di non farcela.
È una maledizione, la fretta. E ci caschiamo sempre. O forse è peggio ancora: c’è anche chi scommette sui ritardi e sulla accelerazione febbrile col cuore in gola. Quando il rischio che salti tutto fa saltare le regole che erano state fissate e i prezzi schizzano sempre più su, più su, più su. Proprio come previde nel 2010 la presidente degli architetti milanesi denunciando «perplessità in merito al rispetto delle scadenze per il completamento dei lavori, alla trasparenza delle procedure e alle modalità che saranno utilizzate per affidare gli appalti». Già la prima di quelle gare, del resto, fu un’avvisaglia: vinse un’impresa con un ribasso enorme da 90 a 58 milioni ma l’anno dopo già batteva cassa per averne 88. Per non dire delle infiltrazioni nei subappalti di imprese in odore di mafia: il capo della polizia Pansa, mesi fa, comunicò che 23 aziende erano state escluse. Lo stesso sindaco Pisapia, però, spiegò d’essere sulle spine: troppi, sei mesi di analisi burocratiche, per verificare la serietà di una ditta. Tanto più se la fretta si fa angosciosa.
L’unica sorpresa, nella retata di ieri che segue il fermo un mese fa del direttore generale di Infrastrutture Lombarde Giulio Rognoni, sono i nomi di alcuni degli arrestati. Già tirati in ballo vent’anni fa, nella stagione di Mani pulite, come se non fosse cambiato niente. Dal costruttore Enrico Maltauro all’ex pci Primo Greganti fino all’ex dicì Gianstefano Frigerio, poi candidato da Forza Italia (lifting anagrafico…) col nome d’arte di Carlo. Ma come, direte: ancora? Ancora, accusano i magistrati. E parlano d’«una cupola» che «condizionava gli appalti» in favore di «imprese riconducibili a tutti i partiti». Cosa significa «tutti»? Mancano solo un paio di settimane alle elezioni europee. E un anno all’apertura dell’Expo: i dubbi su quello che è oggi il più grande investimento nazionale e rischia di trasformarsi da vetrina della speranza e del rilancio in una vetrina infangata devono essere spazzati via in fretta.

la Repubblica 9.5.14
Ex dc, falangisti ed estrema destra la rete che protegge i latitanti in Libano
Da Dell’Utri a Matacena, stesse accuse: legami con i clan
E identica meta. Ecco perché tutte le fughe portano a Beirut
di Carlo Bonini


ROMA. Tutte le strade della latitanza portano dunque in Libano. A Beirut è riparato Marcello Dell’Utri. Beirut doveva essere il porto franco di Amedeo Matacena junior.
Perché?
Latitanti l’uno e l’altro per lo stesso reato (concorso in associazione di stampo mafioso) e figli della stessa famiglia politica (Forza Italia), i due appaiono certamente orientati nelle loro mosse da una considerazione elementare per chi decide di sottrarsi all’esecuzione di una condanna già inflitta (Matacena) o lì dall’esserlo (Dell’Utri). Il Libano, dove il reato associativo di mafia è ignoto, la battaglia per l’estradizione non è una scommessa a perdere. Soprattutto se, nell’estenuante procedura imposta dai trattati (a cominciare dalla traduzione in lingua araba degli atti processuali) e nella possibilità che il processo di estradizione si trasformi nei fatti in un nuovo giudizio di merito, si ha buon gioco nell’agitare il fantasma di un giustizia orientata politicamente. È tornato a farlo ieri con significativo timing Akram Azouri, l’avvocato libanese di Dell’Utri («Sul dossier del mio cliente c’è un malsano chiasso mediatico. Ma se in Italia il dossier è politico, non lo è in Libano»). Avrebbe avuto agio di farlo Matacena. E tuttavia la spiegazione non basta.
Sulla scena della fuga di Dell’Utri, così come in quella di Matacena documentata dagli atti della Procura di Reggio, si rintraccia infatti una cruciale ricorrenza che nulla ha a che fare con le Pandette o il diritto internazionale. Che evoca piuttosto quel network “nero” che, dagli anni ‘70, annoda gli ambienti falangisti cristiano-maroniti con quelle che, un tempo, furono le nostre correnti democristiane inclini a dialogare con l’area neofascista. Accade infatti che, come per Dell’Utri, nell’affaire Matacena venga evocato quale nume protettore della latitanza un signore di 72 anni, Amin Gemayel, candidato alle elezioni presidenziali libanesi del prossimo 25 maggio.
Amin Gemayel, dunque. Figlio di Pierre, fondatore del partito cristiano-maronita delle kata’eb (le “Falangi libanesi” di ispirazione fascista che negli anni del conflitto civile si macchieranno del massacro di Sabra e Shatila), ha molto a che fare con il nostro Paese e, quale vicepresidente dell’Internazionale democrisitana, i suoi legami con la rete degli ex dc transitati armi e bagagli con il centro-destra sono saldi come l’acciaio. È a lui che si fa riferimento nell’intercettazione ambientale di “Assunta Madre”, il ristorante romano ai cui tavoli Alberto Dell’Utri ragiona della latitanza del fratello Marcello. Ed è ancora lui ad essere improvvidamente evocato un mese fa da Berlusconi in un colloquio con i deputati di Forza Italia per giustificare la presenza di Dell’Utri in Libano («L’ho mandato io a Beirut per dire che Putin lo avrebbe appoggiato alle presidenziali»). Un canovaccio che si ripete nell’affaire Matacena. Nel maggio del 2013, Amin Gemayel è infatti in Italia per deporre una corona di fiori al cimitero del Verano sulla tomba di Andreotti, accompagnato da un signore cui la Procura di Reggio attribuisce un ruolo operativo chiave nell’organizzare l’arrivo di Matacena in Libano: Vincenzo Speziali, nipote dell’omonimo ex parlamentare forzista reggino e uomo dalla vita divisa tra la Calabria e Beirut, dove per altro ha incontrato la donna che è diventata sua moglie. E ancora: in quello stesso mese incontra per un pranzo a Milano proprio Silvio Berlusconi.
C’è di più. Nelle indagini della Procura di Reggio e della Dia, il mondo che si agita insieme a Claudio Scajola per aiutare a raggiungere il Libano “l’amico Amedeo” (figlio per altro di quell’Amedeo senior animatore dei moti fascisti di Reggio nel ‘71) ha invariabilmente le stimmate di quell’area di ex democristiani “grigio fumo” che flirtano con la destra. E per i quali, evidentemente, la scommessa su un Libano “falangista” di Amin è qualcosa di più che un credito a futura memoria da riscuotere con due latitanti. Nelle indagini della Dia, fa ca- polino un vecchio arnese come Emo Danesi, oggi ultrasettantenne ed ex segretario di Toni Bisaglia, espulso dalla Dc di De Mita perché appartenente alla P2. Di più: Chiara Rizzo, la moglie dell’armatore, trova aiuto e sponda nei figli di Amintore Fanfani, Giorgio e Cecilia. Incontra anche Luigi Bisignani. Che tuttavia, raggiunto al telefono, cade dalle nuvole prima di sciogliersi in una risata: «Non vedo Matacena da sei anni. Ho incontrato la moglie a una festa a Montecarlo organizzata da mia cognata in cui gli invitati saranno stati almeno 150. E quanto al Libano, sono stato di recente a Beirut. Ma per andare a trovare mia figlia, che si è trasferita lì con il marito, e il mio nuovo nipotino di 6 mesi».
Ex democristiani transitati in Forza Italia, dunque, falangisti libanesi e - ecco il terzo anello della catena - ex neofascisti italiani. Nell’affaire Dell’Utri, l’evocazione del suo nome nell’intercettazione ambientale da “Assunta madre”, ha convinto qualche settimana fa Gennaro Mokbel, a battere un colpo in una lunga intervista al direttore del Tempo Gian Marco Chiocci. Per negare, va da sé qualunque ruolo nella fuga dell’ex senatore, ma anche per ricordare ai “naviganti” l’amicizia con il fratello Alberto, e l’aiuto chiesto e non raccolto da Marcello Dell’Utri per il movimento di destra “Alleanza federalista”.
Già, Mokbel. Un cognome, che con altrettanto curiosa coincidenza, porta l’attuale vicepremier e ministro della Difesa libanese, Samir. Uno degli uomini più ricchi e influenti del Paese, amministratore delegato della “Samir Mokbel&co”, colosso del real estate in Libano e negli emirati arabi. Naturalmente, il nostro, di Mokbel, smentisce. Lui, dice al Tempo, ha genitori egiziani.

il Fatto 9.5.14
Beirut
Vige il Cencelli etnico-religioso


Il Libano viene definito la svizzera del Medioriente. Pur non facendo parte dei Paesi canaglia, è di fatto un paradiso fiscale. La criminalità organizzata lo considera una base per il riciclaggio di denaro. Crocevia di interessi di tutte le forze politiche del mondo arabo. Conta 17 etnie: 4 musulmane, 12 cristiane ed ebraica. Il sistema politico, presidenziale-parlamentare, è fondato sul confessionalismo: 3 gruppi religiosi principali si suddividono le più alte cariche dello Stato: il presidente della repubblica ai maroniti, il premier ai sunniti, il presidente del parlamento agli sciiti. I seggi parlamentari vengono attribuiti a metà tra musulmani e cristiani. La politica è nelle mani di poche famiglie. Sunnite: Salam, Karame e Soloh; cristiane: Elmor, Harb e quella dell'ex presidente, candidato presidenziale falangista, Gemayel; drusi: Jumblat ed Ersalan . L'ultima a fare il suo ingresso negli Anni 90 grazie alla forza del suo impero economico e al sostegno saudita, la famiglia Hariri. La maggioranza cristiano maronita con due rami, uno prevalente cattolico e uno minoritario ortodosso, fa sì che Roma, col Vaticano, venga vista come la Mecca per i musulmani.

il Fatto 9.5.14
Risponde Furio Colombo
La trattativa Stato Berlusconi


NON CI SONO solo trattative tra Stato e ultras. Mi sembra proprio una trattativa quella tra lo Stato e il condannato Silvio Berlusconi, al quale si permette di andare in televisione, invitato da una rete pubblica, per dire che il governo durerà al massimo un anno, un anno e mezzo. Quando si consente a un condannato di mandare certi messaggi a un presidente del Consiglio, vuol dire che le trattative continuano. Marco Ragazzoni
LA COMMEDIA a cui stiamo assistendo, da spettatori perplessi, è una commedia di sdoppiamenti. Si sdoppia Berlusconi. Appena ieri dichiara più volte, con il consueto piglio deciso, che mai e poi mai voterà la riforma (abolizione) del Senato concepita dal ministro delle Riforme, Elena Boschi. Ma oggi, quando mancano i voti e arriva una telefonata di Renzi, un altro Berlusconi decide che Forza Italia provvederà a sostenere la legge che altrimenti sarebbe stata bocciata. E Forza Italia la vota. Renzi, il giovane primo ministro, attraversa la folla che lo aspetta e lo applaude davanti a Palazzo Chigi (è uscito a prendere un caffè, e in tal modo ottiene una apparizione in più, nei Tg, oltre a quella che lo mostra al lavoro, e l’incontro con il Segretario generale dell’Onu) e quando una signora gli grida: “Vada avanti ma niente accordi con Berlusconi!”, risponde “Ricevuto!”. Subito dopo, un altro Renzi telefona a Berlusconi per concordare la votazione a sorpresa in Senato. Ci sono due Pd. Uno è ostile alla riforma del lavoro secondo Poletti e Renzi. Ma un altro Pd, prima di sera, vota e approva la legge del precariato infinito. Ci sono due Cgil sulla scena del grande congresso sindacale. Uno, impersonato dalla segretaria generale Susanna Camusso, attacca Renzi e la sua politica in un lungo, appassionato discorso. L’altro ruolo tocca a Landini, in veste Fiom che, più o meno apertamente, si schiera con Renzi e sembra puntare a portarsi via voti, delegati e organizzazione, tutti su una nuova strada “liberal”. Subito due diversi Renzi rispondono alle voci separate della Cgil. Una volta il presidente del Consiglio fa sapere, con giovanile rudezza alla Camusso che “è cambiata la musica”. Un’altra volta precisa che il suo è il governo del lavoro, anche se non è chiaro se sarà la ripresa a portare il lavoro, o il lavoro a creare la ripresa. Per il momento non c’è lavoro e non c’è ripresa. Di certo c’è la trattativa fra Stato e condannato. Il frutto più clamoroso è la libera circolazione televisiva sia di Berlusconi sia di Renzi. Ci sono sempre, ci sono quando vogliono, ci sono dovunque. Le tv hanno capito bene: questi due (tutti e due) hanno la precedenza su qualunque par condicio.

il Fatto 9.5.14
Trova le differenze
Il coraggio di Blair che Renzi non ha
di Caterina Soffici


Matteo Renzi, aspirante Blair italiano, vuole stroncare le reni ai sindacati e strappare a Camusso l’ultima lacrima di sinistra. Come fece Blair, che con i sindacati è stato duro quanto la Thatcher e anzi, fu proprio lui, il leader del Partito laburista a completare il lavoro di smantellamento del sindacalismo trinariciuto anni Settanta, iniziato dalla Lady di ferro. “I sindacati devono capire che non possono decidere tutto loro o bloccare tutto loro” dice Matteo. Il messaggio è chiaro: la concertazione è finita, decido io. Lo diceva anche Blair: “I sindacati non governano”, il quale poteva aggiungere: “Siamo noi che governiamo il paese perché siamo eletti dalla gente per farlo”.
PURTROPPO per lui, Renzi può dire solo la prima parte della frase, ma non la seconda e questa, come sappiamo,. è la causa della sua debolezza. Ma ripercorrere la battaglia tra Blair e le Unions è piuttosto istruttivo, tenendo presente che in Uk i sindacati sono in pratica gli azionisti di maggioranza del Labour Party, perché la maggior parte dei finanziamenti al partito vengono dal sindacato.
L’11 settembre 2001 doveva essere la resa dei conti definitiva. Il giorno prima Tony Blair aveva preannunciato il discorso che avrebbe tenuto davanti all’assemblea del Trade Union Congress: fine del legame tra il Labour e le Unions. Ovvero, i sindacati non sarebbero più stati i maggiori azionisti del partito e quindi il partito avrebbe avuto mano libera. Ma la mattina dopo arrivò la telefonata di George Bush e le Torri Gemelle impedirono al cerbiatto laburista di mettere la ciliegina sulla torta di una battaglia durata quasi un ventennio.
Da quando divenne capo del partito nel 1994, fino all’elezione nel 1997 e poi durante ogni suo mandato, Blair ha fatto di tutto per annullare il potere dei sindacati britannici. Modernità, flessibilità, competitività erano le parole chiave. I diritti del lavoro erano per Blair una “eredità arcaica”. “Siete vecchi” disse in un famoso discorso, “dovete modernizzarvi”. “Serve un lavoro flessibile” tuonava Blair. Al che il capo del GMB, la terza sigla sindacale britannica, ribatteva: “Quando sento la parola flessibilità, che è una parola da conservatori, in bocca a un leader laburista, tremo”. E Blair: “Introdurremo la flessibilità nel mercato del lavoro attuale. Ci sarà qualche brivido, ma credetemi, alla fine nel mondo reale si sta più al caldo”.
ANCHE RENZI ci prova e a modo suo ci mette la faccia. Però in televisione. Blair ce la metteva nelle assemblee, ai congressi del TUC (Trade Union Congress) dove si prendeva fischi e lo strappavano a forza dai randelli dei lavoratori delle Unions. Altri tempi, si dirà. Blair aveva in mente un sindacato che era partner di governo e imprese e ha imposto il suo modello. E curiosamente lo ha fatto con il favore popolare, perché la gente era arcistufa degli scioperi selvaggi e dei privilegi e rigidità sindacali, quindi gli inglesi stavano con lui. La lotta al sindacato fu una delle parole chiavi del New Labour. “Modernizzare anche il sindacato, come abbiamo fatto nel partito”, diceva Blair. “I vostri metodi, le vostre risoluzioni, le commissioni, i gruppi di potere non hanno un futuro” minacciava. “Il nuovo sindacalismo sarà il nostro partner verso il progresso”. Blair andava alle assemblee delle sigle sindacali e parlava di “progresso, cambiamento, adattabilità a un mondo competitivo e in rapida evoluzione”.
Alla fine Blair la spuntò, e quella vittoria fu l’atto fondativo del New Labour.
Ma incredibilmente è stato invece il meno blairiano dei laburisti a completare l’opera . Nel 2010 Ed Miliband (tra l’altro eletto con un pugno di voti in più del fratello David proprio grazie alle Unions) ha annunciato che l’adesione al Partito laburista non sarà più obbligatoria per gli iscritti al sindacato. Rompendo un legame centenario e anche la principale fonte di finanziamento. Tant’è che Tony Blair ha commentato annunciando una lauta donazione: “Avrei voluto farlo io”.

la Repubblica 9.5.14
Cgil, Camusso rieletta
“Vogliamo democrazia non posti a tavola”
Per il segretario voti in calo dopo lo scontro con Landini
Gelo con Renzi: ”Niente governo ombra ma ci ascolti”
di Roberto Mania


RIMINI. Susanna Camusso è stata rieletta segretario generale della Cgil, con il 73% dei voti (meno di quanto ci si aspettasse); ma il suo sindacato – l’ammette lei dal palco concludendo il congresso confederale - non se la passa bene. «Non possiamo stare bene – dice - se il nostro obiettivo resta la piena occupazione mentre aumentano i disoccupati ». È anche questa la crisi del sindacato, forse l’aspetto più drammatico del declino sindacale. Per la risalita il sindacato avrebbe bisogno del governo, di politiche (condivise?) per la crescita del lavoro. E invece con il governo Renzi è in atto uno scontro inedito. Che ieri si è arricchito. Perché il leader Cgil non ha fatto alcun passo indietro. Anzi. Ha detto che mentre il candidato socialista alla guida della Commissione europea, Martin Schulz, pensa che si debba far leva sul “dialogo sociale”, che è poi una versione soft della concertazione, per uscire dalla stagnazione «la proposta dell’Italia è diversa». Appunto: è quella di Renzi che, per quanto abbia appena condotto il Pd dentro il Pse, non ha alcuna intenzione di invitare il sindacato a Palazzo Chigi. Camusso risponde che non cerca «un posto a tavola», ma certo non è questo uno scenario ideale per la risalita: «Non siamo governo ombra ma andiamo ascoltati».
E ancora: «Il ritornello sulla riduzione dei permessi sindacali nel pubblico impiego perché costituiscono un costo – dice - appartiene alla teoria generale secondo la quale se la democrazia costa si può tagliare. Si comincia così e non si sa dove si va a finire ». La Camusso non sarà «ossessionata », come spiega ai giornalisti, da Renzi ma il congresso della Cgil è stato celebrato all’insegna della sfida esterna al premier e della sfida interna a Maurizio Landini, segretario Fiom. Che nelle votazioni finali per il Direttivo ha rosicchiato quasi un 6% in più rispetto alle previsioni arrivando a circa il 17% contro l’80% della maggioranza camussiana (entrata al congresso con il 97,5% dei voti tra i quali però anche quelli della Fiom), un altro 3% è andato all’area di Giorgio Cremaschi. La spaccatura si è acuita nelle votazioni per il parlamentino. E la tensione è esplosa in serata al Palacongressi durante la composizione delle Commissioni di garanzia. La maggioranza non voleva tener conto dei nuovi equilibri confederali oltre a porre un veto su un candidato della minoranza. Landini è così salito sul palco: ha riparlato di «gestione autoritaria» e minacciato addirittura di «abbandonare il congresso». I lavori si sono inceppati. Poi un faticoso accordo. Passo indietro della maggioranza. Una tregua. Quella che non c’è stata durante il congresso. Perché dal palco, prima degli ultimi nervosismi serali, Camusso ha replicato a muso duro al leader della Fiom, innanzitutto alla sua richiesta di un codice etico per trasformare la Cgil in una casa di vetro. Il codice etico c’è già, ha detto: «È lo statuto della Cgil». E la prima regola è quella di rispettare le indicazioni che arrivano dal voto degli iscritti. La maggior parte dei quali ha detto sì all’intesa sulla rappresentanza sindacale che la Fiom contesta. Applausi dai delegati, perché la Fiom, il protagonismo di Landini, la sua visibilità piacciono sempre meno a tutto il resto della Cgil. Le primarie? Camusso dice no a un modello leaderistico. Piuttosto – ragiona – bisognerebbe «ridurre il ruolo del segretario generale». Poi difende la scelta (criticata da Landini) di riaprire insieme a Cisl e Uil la vertenza sulle pensioni: «Senza di loro andremmo incontro nuovamente a una straordinaria sconfitta».

Corsera 9.5.14
«Mai le primarie nella Cgil» E Camusso si rafforza
di Dario Di Vico


Massimo Cestaro è il segretario nazionale dei lavoratori della comunicazione, Slc-Cgil, e dal palco di Rimini ha detto, fuori dai denti, quello che pensa la maggioranza che ha stravinto il congresso: «Le primarie? Proprio no, altrimenti finisce che il segretario della Cgil lo scelgono Santoro e Travaglio nei talk show». Il riferimento è a Maurizio Landini e al suo protagonismo televisivo. Un tasto che anche Susanna Camusso nelle sue conclusioni ha voluto toccare ribadendo che la sua Cgil è un antidoto verso «la politica liquida» e piuttosto che introdurre le primarie per scegliere il leader è disponibile «a ridimensionare il ruolo del segretario generale» nominando magari un aggiunto o un vice. I temi dell’organizzazione sono stati un fil rouge della tre giorni di Rimini e non è un caso che il congresso, durato sei mesi, si concluda con la convocazione per il 2015 di un’apposita Conferenza d’organizzazione. Un’overdose di discussione interna che ammazzerebbe un cavallo ma che invece Camusso vede come un percorso per rivitalizzare il sindacato e metterlo in grado di realizzare nel concreto quella «contrattazione inclusiva» che dovrebbe riunificare i vari segmenti del mercato del lavoro oggi rappresentati in ordine sparso.
A Landini che aveva chiesto di pubblicare bilanci/spese e di dotare la confederazione di un codice etico, Camusso ha replicato che la carta fondamentale dell’organizzazione è lo Statuto e non c’è bisogno di duplicati. Quanto al bilancio non esiste il consolidato della Cgil perché la legge vede i sindacati come tanti centri di costo diversi e li obbliga quindi a pubblicare rendiconti separati. Il segretario generale proprio in virtù di una visione quasi sacrale della confederazione e della sua unità ha richiamato Landini piuttosto a rispettare il voto degli iscritti, a non buttare all’aria le urne quando i risultati non lo premiano e quindi a considerare la Cgil a tutti gli effetti «una casa comune non un appartamento in condominio». Quanto all’agenda da mettere in campo subito dopo il congresso Camusso è tornata sulla proposta dell’apertura di una vertenza per rimettere mano ad alcuni effetti della riforma Fornero, a cominciare dagli esodati. E anche in questo caso ha voluto bacchettare Landini, che aveva attaccato ad alzo zero Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti rei di aver firmato accordi separati: «Le ferite bruciano ancora ma come possiamo pensare di poter sostenere una battaglia sulle pensioni senza Cisl e Uil? Andremmo sicuramente incontro a una sconfitta bruciante».
Alla prova dell’elezione del nuovo direttivo la lista Camusso ha preso 747 voti pari all’80,5% lasciandone a Landini, che capeggiava una lista alternativa 155 e il 16,7% mentre l’area Cremaschi ha incamerato 26 voti pari al 2,8%. Nonostante la spaccatura plateale il segretario generale esce quindi rafforzato dal congresso, ha costruito attorno a sé una rete di alleanze che comprende Cisl-Uil più la sinistra del Pd e la sua Cgil si colloca decisamente all’opposizione del governo Renzi. Che, ad ascoltare gli interventi di delegati e dirigenti che si sono avvicendati sul palco, è considerato né più meno alla stregua di un governo di centrodestra. Ma l’impressione è che siamo solo al primo atto: è difficile che la grande trasformazione che ha ridisegnato la politica italiana non finisca per riguardare anche le confederazioni sindacali.

il Fatto 9.5.14
Dopo il congresso la Cgil è sempre più sola
di Salvatore Cannavò


Rimini. Susanna Camusso è stata rieletta segretario generale della Cgil ma nelle sue conclusioni ha chiuso tutte le porte in faccia a Maurizio Landini: nel sindacato “prima viene la Cgil” cioè le sue decisioni, “e poi le categorie”, cioè la Fiom. Per Camusso, l'Accordo del 10 gennaio “dovrà essere semplicemente applicato", Landini se ne faccia una ragione. Ma il congresso ha rivelato anche una vittoria sul campo del segretario Fiom che ha visto la propria lista per il direttivo nazionale guadagnare circa il 30% dei voti: “Siamo entrati con 110 delegati e ora ne abbiamo 155”. Nel segreto dell'urna una cinquantina di delegati sono passati con la minoranza di Landini e Nicolosi risaliti dall'11,5 al 17%. Qualche voto in più anche a Cremaschi che sfiora il 3%. Si forma così un'opposizione del 20% emblema di una Cgil spaccata tra due ipotesi di sindacato.
LA REPLICA DEL SEGRETARIO generale è stata piuttosto dimessa. Nelle conclusioni, Camusso ha concesso più spazio al dibattito interno: dal “piano del lavoro”, al “salario minimo europeo”, fino alla “vertenza sulle pensioni”. Nel documento finale non si parla più di “torsione della democrazia” ma di “un tentativo volto a ridimensionare i soggetti della rappresentanza sociale”. Gli 80 euro di Renzi, mai citati nell'introduzione, vengono qui definiti “una prima misura utile” e sul Decreto Poletti non si annuncia nessuna mobilitazione rinviando tutto alla discussione sul Jobs Act. Alla proposta del “codice etico” avanzata da Landini si risponde che “la Cgil ha già lo statuto”; le accuse a Bonanni e Angeletti vengono respinte al mittente perché senza di loro "sulle pensioni siamo condannati alla sconfitta".
La Cgil esce da questo congresso arroccata in difesa, Camusso definisce questo attacco come prodotto della “politica liquida”. Non riesce, però, a intraprendere con nettezza la strada dell'innovazione. Parlando con i giornalisti, il segretario Cgil si limita a segnalare la giovane età di alcuni dirigenti locali, puntando il dito contro un apparato “mono-generazionale” che sostanzialmente è quello della generazione anni 70. Ma nel nuovo direttivo nazionale non ci sono grandi novità. Tra le “innovazioni” si indica la “limitazione del ruolo del segretario generale” per ostacolare la personalizzazione (e a Landini fischiano le orecchie) riproponendo i “vice-segretari” di qualche decennio fa.
RESTA UNA STRUTTURA associativa importante che ha mobilitato nel suo congresso circa un milione di persone. Un serbatoio di impegno sociale con cui Renzi dovrà fare i conti, ultima struttura organizzata della sinistra. Ma Camusso ammette: “Abbiamo scommesso sul cambiamento di governo per rompere la stagione dei tecnici, ma non abbiamo visto quello che il voto del 2013 ci ha rivelato, la forza di Grillo e un Berlusconi che non era scomparso”. Per la prima volta viene esplicitato che la sconfitta di Bersani di un anno fa (che ieri insieme a Gianni Cuperlo ha visitato il congresso) è stata anche la sconfitta della Cgil. Che non si è ancora ripresa.

Corsera 9.5.14
Il padre che dimenticò Luca nell’auto fu vittima di un buco nella memoria
La perizia: amnesia dissociativa transitoria, era incapace d’intendere
di Francesco Alberti


Tra le voci di strada, tra la gente sconvolta e in cerca di risposte in quel maledetto pomeriggio del giugno scorso, ci fu anche chi disse che «era tutta colpa del diavolo, perché solo il diavolo avrebbe potuto spegnere la mente di quel pover’uomo, facendogli dimenticare il figlioletto in auto». Quasi un anno dopo, ieri, a quell’entità diabolica evocata dalla disperazione popolare, la scienza, tramite un perito di tribunale, ha provato a dare un nome: «Transitoria amnesia dissociativa». Un reset crudele quanto fulmineo. Una lama di buio che avrebbe oscurato in quei minuti fatali la mente di Andrea Albanese, 40 anni, brillante dirigente di un’azienda di ristorazione, che quella mattina del 4 giugno, come quasi tutte le mattine, avrebbe dovuto portare il piccolo Luca, due anni compiuti il giorno prima, all’asilo aziendale, a due passi dal suo ufficio, alla periferia est di Piacenza. E invece tirò dritto. Parcheggiò. Uscì dall’auto senza che il suo sguardo incrociasse quel batuffolo che dormiva nel seggiolino posteriore. Quando se ne accorse, 9 ore dopo, per Luca non c’era più niente da fare e ci sono voluti mesi, una forza indicibile e chissà cos’altro perché quest’uomo sfuggisse alla pazzia, tornando alla vita.
Da allora, più che un colpevole (Albanese è indagato per omicidio colposo), si è cercato un perché. Corrado Cappa, lo psichiatria incaricato dal giudice delle indagini preliminari di Piacenza di ricostruire le condizioni psichiche del genitore al momento della tragica dimenticanza, ha individuato la causa prevalente in un transitorio quanto devastante black out: «In quegli istanti - ha scritto - l’uomo era completamente incapace di intendere e di volere». Un’analisi che collima con quella del perito della difesa, Giovanni Smerieri, e che individua una sindrome transitoria che determina «l’incapacità di ricordare eventi autobiografici circoscritti ad un’area o a una persona della propria vita». Una diagnosi che, seppur con parole diverse, lo stesso Albanese, alcuni mesi dopo la tragedia, aveva anticipato: «Quel giorno - disse - non avevo fatto nulla per mettere in pericolo la vita di mio figlio. Non ho avuto il controllo di ciò che stava accadendo. Questo non serve a non farmi star male, ma è andata così…».
Resta il dramma, ma dal punto di vista giudiziario la strada sembra in discesa per Albanese, ieri presente all’udienza e al cui fianco è sempre rimasta la moglie Paola. Gli atti, come disposto dal gip, saranno trasmessi al pm Antonio Colonna alla luce dei nuovi elementi. «Le perizie - ha affermato l’avvocato difensore Paolo Fiori - rappresentano un fatto positivo. Spero, da parte del pm, in una richiesta di archiviazione».
Ma la battaglia più difficile Albanese l’ha condotta lontano dai tribunali. Prima in ospedale, dove fu ricoverato per un collasso nervoso. Poi a casa con l’aiuto della moglie e di amici fidati. La molla per riaffacciarsi alla vita l’ha trovata nel segno del piccolo Luca. Un’idea semplice, ma decisiva. «Mai più morti come Luca»: la proposta, lanciata su Facebook, di rendere obbligatoria l’installazione in auto di un dispositivo acustico per segnalare la presenza di bimbi nel seggiolino posteriore. Un successo. Migliaia le adesioni (anche alcuni genitori ai quali era successa una tragedia analoga). E due progetti di legge pronti in Parlamento. Andrea e Paola hanno anche donato un defibrillatore al Comune per chi frequenta i giardini pubblici di via Ottolenghi: «Era lì che portavamo a giocare il nostro piccolo…».

la Repubblica 9.5.14
Dimenticò il figlio in macchina
“Non è colpevole fu un’amnesia”
Piacenza, la conclusione dei periti: “È stata una sindrome dissociativa”
di Luigi Nocenti


PIACENZA. Ha avuto un’amnesia dissociativa Andrea Albanese, 40 anni, quando ha lasciato in auto suo figlio Luca, 2 anni, il 4 giugno 2013. Il bambino è morto per asfissia. È quanto ha stabilito lo psichiatra Corrado Cappa, nominato dal giudice per le indagini preliminari, dichiarando che al momento del fatto il papà di Luca era completamente incapace d’intendere e di volere. Vittima di una sindrome transitoria che consiste nell’incapacità di ricordare eventi e avvenimenti autobiografici circoscritti a un’area o persona della propria vita, Albanese non sarebbe imputabile. La perizia è stata presentata il 6 maggio nel corso dell’incidente probatorio chiesto dal legale di Andrea Albanese, l’avvocato Paolo Fiori: il consulente di parte, Giovanni Smerieri, era giunto alla stessa conclusione; presupposto per una possibile archiviazione del caso, anche se l’ultima parola spetterà al pubblico ministero Antonio Colonna.
Omicidio colposo e abbandono di minore: è questo l’iter di indagine che ha visto protagonisti gli altri genitori dal destino simile a quello di Andrea Albanese. Dal 1998 in Italia altri quattro bambini sono morti perché dimenticati in auto da uno dei due genitori, tutti condannati sebbene con pena sospesa. Otto mesi di reclusione erano stati patteggiati da Lucio Petrizzi, 47 anni, chirurgo veterinario, per la morte della figlia Elena, 21 mesi, abbandonata in auto il 23 maggio 2011 a Teramo. Omicidio colposo con riconoscimento di tutte le attenuanti per il professore universitario che mai quella mattina fu colto dal dubbio di non aver lasciato sua figlia a scuola. “Mi sfianca l’anima questo dolore”, dirà il padre a un anno di distanza dalla tragedia. Un anno e quattro mesi di reclusione la pena patteggiata da Sergio Riganelli, 44 anni, che il 28 maggio dello stesso anno, lascia in auto suo figlio Jacopo, di 11 mesi, vicino al lago Trasimeno dove l’uomo lavora come skipper. Anche lui è convinto quella mattina di avere lasciato il bimbo all’asilo. E anche lui, viene accusato di omicidio colposo. “È un rimorso che mi porterò per tutta la vita”, dichiara Simona Verzelletti, 44 anni, insegnante a Merate (Lecco) che la mattina del 30 maggio 2008, anziché portare la figlia Maria dalla baby sitter, si reca al lavoro. Quello stesso giorno in cui le stava organizzando la festa di compleanno. Stessa sorte toccata al piccolo Andrea, 21 mesi, che il 3 luglio 1998, a Catania, muore abbandonato in auto dal padre, Salvatore Deodato, 52 anni, condannato a un anno di reclusione.
“Mai più morti come Luca”, ha scritto Andrea Albanese sul suo profilo Facebook creando un gruppo di allerta. “Non posso tornare indietro purtroppo, ma sono convinto di poter fare ancora qualcosa di buono ”. Ed ecco una petizione su change.org, rivolta ministero dei Trasporti, che oggi ha raggiunto 40mila firme e che chiede una modifica del codice della strada, art.172, che regolamenta il trasporto dei bambini in auto. Fino all’ultimo gesto in memoria di Luca, lo scorso 25 aprile, quando Albanese e sua moglie Paola hanno donato un defibrillatore da installare nei giardini pubblici di Via Ottolenghi, a Piacenza: “Qui portavamo spesso a giocare il nostro bambino”.

Corsera 9.5.14
Terrorismo Alessandra Galli, figlia del magistrato ucciso nel 1980
«Nelle violenze di oggi si perde la memoria di noi vittime»
di Giampiero Rossi


MILANO - «Questa giornata deve stimolare una riflessione seria sulla sottile linea di demarcazione che divide la convivenza civile dal disastro civile. E tra manifestazioni violente e pretesti sportivi colgo qualche rischio di deflagrazione. Ci sono situazioni sociali di estrema “reattività”, facilmente strumentalizzabili». Alessandra Galli è una donna che sa sorridere anche mentre soppesa parole e frasi che sembrano costarle fatica. Sorride anche quando indica alcune foto in bianco e nero appese alla parete del suo ufficio di giudice della Corte d’appello: «Questo è il mio papà», dice indicando il profilo di Guido Galli in toga. Alessandra, prima di cinque figli, era all’università il pomeriggio del 19 marzo 1980, quando un commando di Prima Linea (Sergio Segio, Maurice Bignami, Michele Viscardi) freddò a colpi di P38 il padre, giudice istruttore e docente di criminologia. Quando arrivò davanti all’aula 309 trovo il corpo coperto da un lenzuolo bianco.
Oggi si celebra il Giorno della memoria delle vittime del terrorismo. Qual è il significato di questo appuntamento?
«Il senso deve essere quello di ricordare a tutti che cosa è successo e quanto è costato sconfiggere la violenza terroristica. Ma è importante che la memoria non sia limitata a occasioni formali, ma che serva davvero a capire, per rafforzare gli anticorpi, per evitare che nulla di simile si riproduca».
E com’è la memoria collettiva sugli «anni di piombo»?
«In Italia non c’è stato uno studio serio al di sopra delle parti. Abbiamo continuato a oscillare con letture a strappi, quella delle “vittime” e una volta quella dei “carnefici”, ma non c’è mai stata una vera sintesi. Questo, secondo me, impedisce quella crescita collettiva».
Quali sono i messaggi sbagliati in circolazione?
«Molti protagonisti di allora non hanno mai fatto una vera autocritica sulle loro motivazioni ideologiche. Certe autoassoluzioni mi fanno pensare che queste persone non abbiano ancora capito. Forse sono uomini cambiati, ora sanno cosa sia il rapporto tra un padre e il figlio, ma non hanno mai offerto una riflessione sul periodo in cui uccidevano i padri degli altri».
Però ci sono state anche prese di posizione nitide…
«Certo. Ricordo una testimonianza di Gad Lerner. Lui, ex militante di Lotta continua, non aveva un compito facile in quella circostanza, ne ho ammirato il coraggio e l’onestà nel rileggere criticamente il suo passato. Ma quanti lo hanno fatto?».
Come si manifesta nel tempo il dolore per un affetto cancellato?
«Ognuno lo esprime e lo subisce a modo suo, lo osservo anche tra noi in famiglia. Il ricordo e il dolore spunta fuori all’improvviso. È un fiume carsico con il quale si convive e che ogni tanto affiora. Così capita che a distanza di 35 anni ti vengano le lacrime agli occhi per una musica, per un panorama o perché incontri una persona. Insomma quando si creano inaspettatamente situazioni che ti riportano a lui».

la Repubblica 9.5.14
Risponde Corrado Augias
La medicina e i miracoli


Gentilissimo Augias, non ho trovato alcun commento critico su alcuni aspetti della recente beatificazione dei due papi. La Chiesa cattolica fonda la santificazione sulla supposta realizzazione di miracoli che, per tradizione, riguardano aspetti medici. Però il miracolo in medicina non esiste. Nella moderna medicina non è stato mai documentato un evento che non fosse spiegabile, miglioramenti o peggioramenti. In nessuna autorevole rivista medica o congresso, è stata mai presentata una guarigione come inspiegabile, quindi miracolosa. Al contempo nessun medico si permetterebbe di impedire a un suo paziente o relativo parente di unire la preghiera alla terapia. Prendo ad esempio il miracolo attribuito a Padre Pio - decisivo per la sua canonizzazione: completa guarigione di un bambino colpito da una grave meningite. Evento fortunatamente non raro nei Paesi avanzati. Peraltro reso possibile per l’immediata diagnosi e relativo trattamento rianimatorio, così come riportato dagli atti di quel caso. Non sarebbe meglio se la Chiesa proclamasse la santità di chi ritiene opportuno lasciando da parte i temi della medicina che riguardano la sofferenza e le speranze di milioni di persone anche non credenti in alcuna superstizione?
Mario Riccio
Il dottor Riccio è il medico anestesista autore di un gesto di profonda misericordia: interruppe la ventilazione meccanica aiutando Piergiorgio Welby a morire. È stato accusato di “omicidio del consenziente”, poi prosciolto. Vengo al merito: a dei non cattolici non è lecito criticare le procedure interne con le quali quella Chiesa decide se e come elevare alcuni suoi rappresentanti agli onori degli altari. Premessa necessaria per scansare equivoci - e ingiurie. In secondo luogo la possibilità dei miracoli è da un lato molto complessa se non altro per i secoli di storia che ha alle spalle; dall’altro lato è anche stata molto discussa da un punto di vista razionale e anche teologico. In una parte della lettera che ho dovuto tagliare, Riccio scriveva: «Per intenderci, non è mai ricresciuto un arto a un amputato né scomparsa un’accertata massa neoplastica senza adeguato trattamento chirurgico, radioterapico o farmacologico». Per contro ci sono migliaia di persone che implorano di accedere a trattamenti (Di Bella, Stamina) considerati inefficaci o addirittura truffaldini. Quando si ha a che fare con la malattia e la morte si tende a perdere il controllo della ragione per ricorrere a ogni possibile aiuto, miracoli compresi. Baruch Spinoza ne metteva in dubbio la liceità teologica, c’è chi ne discute la sostanziale ingiustizia (a uno sì, all’altro no), chi come Riccio (e il sottoscritto) li nega. Detto tutto questo, se possono alimentare una speranza, perché no?

il Fatto 9.5.14
Adozioni, l’assurdo percorso italiano
di Bruno Tinti


TOMSK è una città siberiana. In inverno si arriva a -40. Ci sono 16 orfanotrofi e il mio amico Salvador ha trovato suo figlio in uno di questi. Denis è un bambino bello e gentile, guardingo; ha 4 anni. Salvador è stato fortunato. È spagnolo e quindi si è risparmiato il Tribunale dei minorenni. Tutta la procedura è stata gestita da un’associazione privata, Interadopt, riconosciuta e controllata dalla Comunitad dell’Andalusia. Hanno accertato quanto guadagnava, dove abitava, come era composta la sua abitazione, se li' vicino c'era una scuola e un centro sportivo; hanno fatto anche un corso psicologico a lui, a sua moglie e alla figliolina di 13 anni (biologica). Durata totale, un anno. Poi hanno cercato il bambino da adottare e, dopo 3 mesi Salvador è partito per Tomsk: 2 brevi soggiorni e ha potuto tornare a casa con Denis. Costo totale dell'operazione piuttosto elevato: 24.4000 euro di cui solo 6.000 per Interadopt.
Nell'orfanotrofio c’erano 125 bambini, da 0 a 4 anni. Dormivano in 5 per ogni letto. L'acqua calda non c’era e così in inverno nessuno si lavava. D’estate i bambini venivano allineati, tutti nudi, con le mani appoggiate a un muro e lavati con un tubo di gomma. Salvador lo ha scoperto al suo ritorno in Spagna, quando – per la prima volta – ha cercato di portare Denis sotto la doccia. Il bambino piangeva e tremava e, alla fine, disperato, si è appoggiato con le mani al muro singhiozzando. Invece, che in orfanotrofio c’era poco da mangiare, lo aveva scoperto in Siberia, quando era andato a prendere Denis. Lo aveva trovato magro, sciupato; eppure, due mesi prima, quando c'era andato per la prima volta, aveva un ottimo aspetto. Un impiegato gli aveva confidato che c’era poco cibo e allora, quando si sapeva che i futuri genitori sarebbero arrivati, si davano razioni extra nel mese precedente; poi, a carte firmate, non importava più e le razioni tornavano le solite.
Salvador ha fatto quello che ha potuto: una donazione per costruire l’impianto dell’acqua calda e qualche vestito per i bambini; Denis dormiva con le scarpe sotto il cuscino perché altrimenti gliele avrebbero rubate. In effetti c'erano molti bambini scalzi...
Sono rimasto con tante domande e poche risposte.
In Italia la procedura davanti al Tribunale dei minorenni dura circa 2 anni: poi si può essere dichiarati idonei per adottare un bambino. E poi si comincia a cercarlo. Passano anche 3 anni. Meglio un Tribunale o un’associazione privata? Più rapidità o più garanzie? Ma poi, garanzie di che? Quali garanzie dà una coppia che, magari senza lavoro e senza istruzione concepisce uno, due, tre bambini? Quali garanzie danno due drogati che, nel corso dell’ennesimo “percorso di recupero”, mettono su famiglia e concepiscono un bambino? Non dovrebbe essere la decisione di adottare (e di spendere un sacco di soldi) di per sé una garanzia?
E POI I BAMBINI. Davvero occorrono tanto tempo e tanti requisiti per decidere che sì, è meglio che Denis stia con Salvador piuttosto che nell’orfanotrofio di Tomsk? Certo, il traffico di organi, la prostituzione giovanile, i pedofili... Ma cosa esclude che tutto questo avvenga nell’orfanotrofio? E di genitori che sfruttano la prostituzione dei loro figlioli biologici ne abbiamo avuto esempi recenti.
Alla fine sono rimasto con una sensazione di incertezza. Domande e risposte superficiali? Oppure la constatazione che il delirio di onnipotenza contagia chiunque si assume il compito di decidere della vita degli altri? Ho ripensato ai miei anni da magistrato. Con qualche disagio.

il Fatto 9.5.14
L’intervista Aleida, figlia di Guevara
Cuba si trasforma ma la revolución non si cambia
Aleida Guevara March, 53 anni, figlia maggiore di Ernesto Guevara a Cuba è medico.
Nel suo ultimo tour italiano sostiene la lista Tsipras per l’Europa
di Alex Corlazzoli


Torre Pallavicina (Bergamo). Ha gli occhi vivaci e il sorriso sornione di suo padre: Aleida Guevara, per tutti, è la figlia del “Che”. Basta questo per riempire le sale, per ritrovare quel Paese che avevamo dimenticato. Aleida, invitata in Italia dal toscanaccio Antonio Vermigli, promotore del notiziario della rete radié resch, da una settimana è inarrestabile: da Bolzano a Prato passando per Saronno, Torre Pallavicina (Bergamo) e Udine dove ha incontrato gli operai di una fabbrica prima di andare a Casarsa sulla tomba di Pier Paolo Pasolini. In pochi giorni ha partecipato ad appuntamenti con i più giovani, ha sostenuto la lista “L’altra Europa con Tsipras”, stretto le mani a sindaci emozionati. E poi ad Avezzano, sul palco con monsignor Pietro Santoro. La pediatra cubana e il Pastore della Chiesa dei Marsi parlano della “povertà e i diritti nella dottrina sociale della Chiesa e nel pensiero di Ernesto Guevara”.
Primogenita dei 4 figli nati dal matrimonio con Aleida March, conobbe il padre solo nei primi 4 anni, prima che partisse per il Congo. Quando il comandante fu poi ucciso in Bolivia, era in seconda elementare. Da allora non ha mai abbandonato Cuba, certa che questo era ciò che desiderava suo padre.
Vive all’Avana, fa il medico, conosce bene la realtà cubana, la vita del popolo e anche i protagonisti della rivoluzione: cosa succede sotto il cielo di Cuba? Quali sono le vere riforme messe in atto?
Non le voglio chiamare così. Non stiamo riformando il socialismo, stiamo trovando soluzioni pratiche a problemi reali. Saranno quelle corrette? Forse no. Stiamo imparando. Molti cubani ora lavorano per conto proprio. Non possiamo dimenticare ciò che affermava Karl Marx: noi pensiamo in base a come viviamo. Se viviamo solo per il benessere personale, possiamo dimenticarci di vivere in una società differente. Stiamo stimolando, proprio per questo, una politica basata sulla cooperativa. Dobbiamo convincere le persone della necessità di questa formula lavorativa. È un momento speciale de la revolucion. Viviamo su un pianeta che ha una crisi mondiale di cui anche noi soffriamo. Nel 1991 il popolo cambiò la Costituzione cubana permettendo l’entrata del capitale straniero: ora, in quest’ultimo anno, si sta discutendo sull’ampliamento di questa legge. Resterà comunque rigorosa: chiunque oggi può venire ad investire capitale a Cuba ma ciò deve portare beneficio al popolo. La terra cubana non si commercia.
Com’è cambiata l’esistenza quotidiana del cubano che vive nella campagna di Camaguey o all’Habana centro con un salario medio di 25 dollari?
Intanto dal mese prossimo lo stipendio dei medici raddoppierà. Il cambio reale nella vita quotidiana si nota se c’è un miglioramento dell’economia. Ora, per esempio, è possibile vendere casa. Chi ne ha due, spesso ne vende una e migliora l’altra oppure vende la propria abitazione per comprarne una più piccola e avere qualche risparmio. Siamo al primo passo: la produzione agricola deve crescere; va fatta una politica per migliorare le case, soprattutto quelle dei contadini; serve urgentemente intervenire sul trasporto urbano.
Spesso in Italia, abbiamo notizie su Cuba, da dissidenti come Yoani Sánchez, che racconta un’altra faccia della medaglia.
In spagnolo la parola dissidente significa che non si è d’accordo con ciò che pensa una persona. Ma quando ricevi denaro per scrivere contro il proprio popolo, non si è più dissidenti ma mercenari. Ho perso stima per il premio Pulitzer quando l’hanno dato a questa signora. Un premio di letteratura a una persona che è capace di inventarsi una notizia! Raccomando sempre di leggere Mafalda: a lei non piaceva la zuppa. Mafalda diceva che se Fidel Castro dovesse affermare che la zuppa è buona, non sarebbe comunque obbligata a mangiarla. Ora, chiedetevi: perché un quotidiano italiano dà spazio a una giornalista cubana? Questa giornalista è rappresentativa del nostro popolo?.
Che succederà quando Fidel Castro non ci sarà più?
In Europa mi fanno sempre questa domanda. Un popolo decide di fare una rivoluzione socialista a 90 miglia dall’impero più forte di questo pianeta e resiste all’embargo più criminale della storia dell’umanità, non perché esiste un uomo ma perché ha coscienza sociale. Ci sia o non ci sia Fidel Castro, il popolo cubano ha un livello culturale sufficiente per non lasciarsi ingannare, utilizzare.
Un ricordo di tuo padre.
Ernesto, secondo quanto raccontavano i miei nonni, già da piccolo lesse Don Chisciotte de la Mancia, Il Piccolo principe e il Capitale di Marx. Di quest’ultimo lui stesso ammise che la prima volta che lo prese in mano non capì nulla. Il “Che” quando non comprendeva, studiava. L’ultima edizione che abbiamo del Capitale, che mio padre rilesse a Cuba, riporta un’annotazione scritta a mano: “Come si può applicare ciò a Cuba?”.

la Repubblica 9.5.14
Tienanmen
La memoria che fa paura a Pechino
di Giampaolo Visetti


HONG KONG. L’APPARTAMENTO che spaventa la Cina è nascosto al quinto piano di un anonimo palazzo occupato da uffici. Ottocento metri nel Foo Hoo Centre di Austin Street, quartiere Tsim Sha Tsui, dispersi tra assicurazioni, finanziarie e compagnie navali. Impossibile trovarlo, a Hong Kong, senza una guida e le indicazioni giuste. All’interno, un’esposizione di reperti che al mondo percorso dalle informazioni possono apparire scontati. Per Pechino, dove le notizie restano reato, sono al contrario pericolose schegge di una raccolta ancora esplosiva. Il nome risulta ambizioso e commovente: «Museo di piazza Tienanmen». Avrebbe dovuto aprire il 4 giugno, venticinque anni dopo la strage di studenti del 1989, che represse la domanda di giustizia e libertà in Cina. È stato invece inaugurato il 26 aprile, per evitare che la lunga mano di Pechino nell’ex colonia britannica riuscisse a chiuderlo prima del debutto. Fino ad oggi è stato visitato solo da 43 anonime persone. «Aprire questa porta dopo un quarto di secolo - dice il curatore Andrew Lam - è stata una vittoria».
Il pubblico è frenato dalle telecamere installate dalle autorità filo-cinesi all’ingresso dell’edificio. Chi entra viene filmato. Venire qui, per un cinese, significa compiere un atto di coraggio e di sfida al potere comunista. Riuscire a collezionare le rare reliquie di Tienanmen, esponendole in un luogo giuridicamente inserito nel territorio cinese, è stato un sorprendente successo e il sintomo di uno scricchiolio dentro l’apparato della sicurezza. L’appartamento, grazie ad una colletta internazionale, è stato acquistato da un fiduciario dell’Alleanza patriottica per i movimenti democratici in Cina. Scoperto che sarebbe stato trasformato in «Museo del 4 giugno», i funzionari del partito hanno battuto ogni via per smantellarlo. «Gli altri proprietari - dice l’editore Bao Pu - sono ricorsi agli avvocati per provare che il quinto piano non poteva essere aperto al pubblico. I condomini hanno sottoscritto un documento in cui si dice che lo stabile non può ospitare mostre per ragioni di sicurezza». Anche il quartiere, spaventato dalle intimidazioni politiche, è insorto. La sentenza dei giudici controllati da Pechino, potrebbe sequestrare a giorni la rassegna. Per la leadership rossa queste otto stanze sono un problema. In Cina la verità storica su Tienanmen, che minerebbe la legittimità del partito-Stato, resta negata. I giovani, grazie alla censura, ignorano il massacro che concluse la «Primavera di Pechino ». Ogni cinese però può venire oggi ad Hong Kong e l’opportunitàdi visitare il museo «sovversivo e contro-rivoluzionario » apre una falla nell’invalicato muro del silenzio. Alle pareti e dentro povere vetrine, fotografie e filmati sui due mesi e le poche ore che nel 1989 impedirono alla Cina di Deng Xiaoping di anticipare il destino dell’Unione Sovietica di Michail Gorbaciov. Sono immagini scolpite nella memoria universale, i ritratti che chiudono il Novecento.
All’interno della Grande Muraglia però nessuno le hai mai viste e dopo 25 anni la loro stessa esistenza è sconosciuta. Si vedono gli universitari che nei campus chiedevano la «fine della corruzione e del nepotismo», il popolo dei semplici che invase piazza Tienanmen per il funerale del leader riformista Hu Yaobang, gli studenti seduti per lo sciopero della fame che nel maggio ‘89 terrorizzò i successori di Mao, gli intellettuali e gli operai che proclamarono lo sciopero generale per ottenere «una patria più giusta». Un video mostra il premier Li Peng, simile a una mummia, annunciare la legge marziale. Qualcuno è riuscito a salvare il casco di un ragazzo che passava in motorino, centrato alla testa dal 38° reggimento dell’Esercito di liberazione, e la camicia insanguinata di Jiang Jielan, 17 anni, morto in un’aiola sotto il ponte di Muxidi mentre portava acqua ad un amico. Su una mensola, la copia della «Dea della Democrazia», statua-simbolo alzata dai manifestanti davanti alla Città Proibita alla vigilia della repressione. Sull’ultima parete, la foto-icona del ragazzo solo, magro, con un sacchetto in mano, davanti alla colonna dei carrarmati fermi sulla Chang An Avenue. Fu scattata il 5 giugno 1989, il giorno successivo alla strage: resta senza un nome, nessuno conosce il suo destino. «Sono i documenti - dice You Weijie, portavoce delle “Madri di Tienanmen” - necessari a provare violenze e colpe altrimenti negate. Morirono centinaia di persone disarmate, colpevoli di esprimere liberamente il loro pensiero. Non sono seguite scuse, assunzioni di responsabilità, risarcimenti».
A spaventare Pechino è anche un banco all’uscita del museo. Vende pennette Usb: testimonianze del massacro e riproduzione dei reperti in mostra. Pochi yuan e chiunque può introdurre clandestinamente nella Repubblica Popolare Ci- nese le prove delle bugie della propaganda. Cosa accadrebbe se, durante la maxi-veglia prevista a giugno nel parco Vittoria, da Hong Kong partissero verso Pechino migliaia di chiavette con la verità digitale su Tienanmen? «Questo museo - dice il leader democratico dell’ex colonia, Lee Cheuk-yan - è già il cuore della nuova opposizione cinese. Conserva il passato per denunciare il presente. Spaventa per il poco che può documentare, ma terrorizza per il molto che non può mostrare». Cinque «Madri di Tienanmen» avevano battuto i villaggi cinesi per registrare le storie di chi nell’89 perse i suoi figli. Un mese fa la polizia le ha fermate, i nastri diretti a Hong Kong sono stati intercettati. Qi Zhiyong aveva spedito qui le lastre con l’immagine dell’amputazione della sua gamba destra, spappolata la sera del 3 giugno da un AK47. Al figlio, ordine del segretario di quartiere, ha sempre raccontato di averla persa in un incidente stradale. Nella seconda sala del museo c’è uno spazio vuoto: le lastre, a fine marzo, sono state sequestrate dalla dogana. Si è salvato un breve video, girato in febbraio nel condominio 27 del viale Fuxingmenwai, a Pechino, venticinque anni fa crivellato dai proiettili dei tank. Si vedono i fori coperti e gli inquilini, invecchiati, negare «qualsiasi disordine » nel 1989. Amnesia collettiva. «Non ricordo - scandisce lo zio di uno studente colpito sul portone di casa - quella notte dormivo». Lo scrigno della memoria inquieta il regime per essere riuscito a germogliare dentro il corpo della Cina, ma anche per le sue conseguenze. Una tshirt nera, simile a quella indossata da uno dei leader della rivolta, è esposta sotto la foto di Wang Dan. Invita tutti a esibire un indumento dello stesso colore il prossimo 4 giugno, segno di «un mondo ancora in lutto, che non ha dimenticato». «Da un mese - sorride l’attivista Liu Zhi - le fabbriche del Guangdong hanno ricevuto l’ordine di non produrre capi neri fino all’autunno ». Due sopravvissuti, anime della raccolta di documenti, il 20 maggio lanceranno su internet un «Appello alla verità su Tienanmen». Washington ieri ha chiesto a Pechino il rilascio di sopravvissuti e testimoni arrestati nelle ultime settimane per evitare che rilascino interviste. La Cina ha risposto costringendo la famosa giornalista Gao Yu, già imprigionata dopo Tienanmen e ri-arrestata, a confessare in tivù di aver «diffuso segreti di Stato». Sul web gli ideogrammi sensibili sono già bloccati e un cartello in mostra spiega che nella «frontiera di Hong Kong» si è voluta mettere in scena «la prima strage di regime vanamente trasmessa in diretta tivù». Uscire dal «Museo di piazza Tienanmen» è più facile che entrarci. Un agente in borghese scatta una foto in ritardo e prende il gruppo di spalle. Non si agita: per la nuova potenza del secolo, archiviare la vita nelle immagini è un’ossessione, ma ognuno sa che la realtà è destinata a restare invisibile. Anche questo appartamento, sacrario in onore dei cinesi caduti: non sapere se e fino a quando resterà aperto, ricorda però che un quarto di secolo fa la democrazia a Pechino è stata sconfitta, rubando a tutti, anche adesso, un metro di quel passo leggero che è la libertà.

la Repubblica 9.5.14
Quell’uomo che duella coi tank un’icona di coraggio e speranza
di Marco Panara


CHANGAN IN CINESE vuol dire Pace Eterna, è il nome dato ad una strada larghissima, a dieci corsie, che da est a ovest taglia in due Pechino. Al centro della carreggiata, in direzione di Piazza Tienamen, cammina un giovane uomo, camicia bianca e pantaloni scuri, una giacca stretta nella mano destra e una borsa nella sinistra. Nella direzione opposta, provenienti dalla piazza, nove carri armati in fila. Il giovane uomo non si sposta, il primo carro armato si ferma, gli altri si avvicinano e si fermano anch’essi. È un duello silenzioso, un mezzogiorno di fuoco tra un uomo con una giacca e una borsa da una parte e un cannone montato su una torretta di acciaio dall’altra. Il carro armato cerca di aggirarlo, l’uomo glielo impedisce, si fermano di nuovo uno di fronte all’altro per alcuni secondi, l’uomo fa un gesto con la destra sventolando la giacca come a dire: «Andate via, tornate indietro». Poi sale sui cingoli, si china sulla feritoia, dice qualcosa, si arrampica sulla torretta, si accovaccia, parla ancora. Si apre il portellone, un soldato nella sua tuta mimetica affaccia il busto, l’uomo scende dal carro armato e gli si mette ancora davanti. In lontananza si sente crepitare la mitraglia. Fine delle immagini e dei suoni, ripresi da una finestra del Beijing Hotel a 600 metri di distanza. Non si è mai saputo chi fosse quell’uomo. Si dice - ma non ci sono conferme - che abbia pagato il suo gesto con la vita. Quelle immagini sono il simbolo del coraggio e della tragedia. È la mattina del 5 giugno del 1989, il giorno dopo la strage degli studentiin Piazza Tienamen.
C’erano state altre immagini, prima di quel giorno. Il 30 maggio la tendopoli di cellophane di Piazza Tienamen è stremata, dal caldo, dalla stanchezza, dallo sporco. Un’idea la rianima. Al mattino gli studenti che la occupano si siedono a formare un largo quadrato, un altro gruppo spazza accuratamente il lastricato e un altro gruppo ancora monta una impalcatura di tubi alta quasi dieci metri. Dall’Accademia delle belle arti arrivano enormi pezzi di polistirolo e cartapesta che vengono montati sull’impalcatura e diventano la Dea della Democrazia. La stanchezza scompare, l’immagine della dea, per quattro giorni, diventa il simbolo della speranza.
Passano tre giorni e arriva la notte del 3 giugno. Una notte terribile diventata bellissima. Un reggimento di soldati con gli scudi in plexiglass marcia sulla Changan per restituire al regime il controllo della città. Sfondano una barricata di carretti, biciclette, vecchi mobili. Non c’è nessuno a presidiarla e di quel passaggio sull’asfalto non resta sangue ma il bianco e il giallo di un cesto di uova sode, travolto insieme al carretto su cui era stato dimenticato. I soldati vanno avanti, marziali, sotto gli sguardi della folla che costeggia la strada. A un tratto - qualcuno avrà fatto un gesto, dato un segnale, chissà - la folla si chiude, madri, padri, bambini, giovani e vecchi diventano un muro umano stretto, impenetrabile. Gli scudi di plexiglass si fermano contro le pance, contro i seni. Nessuno da una parte o dall’altra spinge, non ci sono grida, non si sentono slogan, il rumore di quel confronto notturno è la somma di infiniti sussurri. Lentamente la folla assorbe i soldati, li separa. Comincia a togliere loro i cappelli, che volano sopra le migliaia di teste, poi le camicie, e volano anch’esse. La folla si allarga e comincia ad applaudire, non con scherno ma con affetto. Quei soldatini sono ragazzi magri, disarmati, con le scarpe da ginnastica invece degli scarponi. Figli e fratelli di quella stessa Cina che amorevolmente adesso li spoglia. È l’immagine dell’illusione. L’assalto è diventato una festa, che dura finché arriva l’alba e si accende di rosa. È l’alba dell’ultimo giorno prima che i mitra facciano fuoco.

Corsera 9.5.14
il «35 Maggio» e l’Anniversario oscurato Cina, Tienanmen cancellata anche online
di Guido Santevecchi


Gao Yu, una brava giornalista cinese dissidente che scrive per l’edizione online dell’emittente tedesca Deutsche Welle , era scomparsa il 23 aprile. Era in viaggio da Pechino a Hong Kong per partecipare a un dibattito su un fatto che in Cina non si può nominare: la repressione del 4 giugno 1989 sulla Tienanmen, con centinaia di morti. Una ferita che la coscienza del potere cinese non ha voluto curare e ancora oggi, a pochi giorni dal 25° anniversario cerca di (far) ignorare. Qualunque ricerca su Internet con le parole tabù come «4 giugno», «Tienanmen 1989», viene respinta. La censura è pronta a cancellare ogni accenno sui social network. I blogger ne inventano sempre di nuovi: il più popolare è «35 maggio», una data inesistente, come quel 4 giugno.
Gao Yu, che era stata arrestata la prima volta il 3 giugno del 1989 e detenuta per 450 giorni, era finita in carcere di nuovo nel 1994 per un articolo sgradito in materia di politica economica: altri 5 anni in prigione. Nel 1997 l’Unesco le assegnò il premio per la libertà di stampa. Pechino reagì minacciando di cacciare l’agenzia Onu dalla Cina.
Gao Yu ora ha 70 anni ed è ricomparsa ieri in tv, in tuta arancione da detenuta, mentre confessava la sua colpa: diffusione di segreti di Stato. L’anno scorso aveva mandato alla Deutsche Welle un articolo in cui descriveva il Documento n. 9 del partito comunista, con la chiusura completa sulla diffusione di valori come la democrazia occidentale, la società civile, la libertà di stampa. Il suo nuovo arresto e l’esibizione in tv dimostrano che il governo non intende lasciare alcuno spazio a chi vorrebbe commemorare i 25 anni della strage.
La settimana scorsa a Pechino la polizia ha sorpreso alcuni intellettuali e attivisti dei diritti civili riuniti in una casa: sono stati arrestati per turbamento dell’ordine pubblico. Tra di loro l’avvocato Pu Zhiqiang.
Ieri la stampa di regime ha commentato: «L’avvocato conosce la legge, dovrebbe sapere che va rispettata». Naturalmente il motivo della riunione (il 35 maggio) non è stato citato.

il Sole24ore 9.5.14
Il luogo-simbolo della rivolta contro Assad. Il regime riconquista una città cancellata dalla guerra
Siria, la resa di Homs nel silenzio dell'Occidente
di Alberto Negri


L'ultimo convoglio di ribelli ha lasciato ieri Homs dopo due anni e mezzo di assedio mentre le agenzie battevano la notizia che ad Aleppo i ribelli del Fronte islamico avevano fatto saltare l'Hotel Carlton, dove erano acquartierate le milizie del regime, uccidendo una quindicina di soldati. A Homs la città vecchia, la piazza dell'Orologio, il quartiere ribelle di Bab Amro, avvolto da colonne di fumo degli edifici incendiati dagli stessi combattenti sconfitti, sono adesso in mano ai lealisti: ma quello che era un tempo un centro industriale con un milione di abitanti appare adesso come un città fantasma adagiata sulla Valle dell'Oronte.
Chi vince in Siria? Una domanda semplice con una risposta complessa. L'ex Siria, devastata e sconvolta da tre anni di guerra civile con 150mila morti e tre milioni di profughi, non è un solo campo di battaglia ma molteplici, da Nord a Sud, da Est a Ovest, che sconfinano in Iraq e nelle retrovie della guerriglia in Libano e Turchia. Volendo essere brutali si può affermare che i ribelli, senza un consistente aiuto esterno, non vinceranno mai e le conquiste di Bashar Assad resteranno sempre amare e precarie. Nel marzo 2012 Assad si era fatto riprendere dalle telecamere mentre camminava nelle strade di Bab Amro: un colpo mediatico per celebrare una vittoria di Pirro sulle macerie di una guerra infinita.
C'è però una differenza e neppure tanto sottile. Assad adesso ha una strategia, almeno una tattica militare, i ribelli, divisi tra gruppi islamici contrapposti, sembra di no. La resa di Homs è arrivata con una mediazione dell'ambasciatore iraniano a Damasco appoggiata dall'Onu e il regime ha concluso o sta raggiungendo altre intese di questo tipo intorno alla capitale e in altre città siriane. La tattica medioevale dell'assedio, sostenuta dalle milizie libanesi sciite di Hezbollah, in apparenza sta funzionando: i comandanti ribelli arrivano ai negoziati per il cessate il fuoco con i generali di Damasco imbracciando i kalashnikov, smagriti dalle privazioni, le divise lacere, esausti, logorati. Suscitano rispetto persino nei loro nemici che per eliminarli non hanno certo risparmiato sui barili-bomba. Un'immagine penosa e struggente, decisamente contrastante con i rappresentanti dell'opposizione siriana che si accreditano nelle capitali occidentali e alle reception di scintillanti hotel sul Bosforo.
Per Bashar Assad, a meno di un mese dalle presidenziali che si prepara immancabilmente a rivincere, Homs non è soltanto una vittoria simbolica ma di importanza strategica: ora il regime può controllare un tratto importante dei collegamenti verso Nord e di quelli a Ovest, in direzione dei porti di Latakia e Tartous, roccaforti alauite sulle coste del Mediterraneo. La svolta si è avuta nel giugno dall'anno scorso con la conquista di Al Qusayr, fortemente voluta dagli Hezbollah di Nasrallah, sulla rotta dei rifornimenti dei ribelli dal Libano. Villaggio dopo villaggio, la guerriglia è rimasta tagliata fuori dai collegamenti, strangolata dalla fame, e alla fine è caduta anche Homs.
Questa non è certo la fine della guerra. Come dimostra l'attacco devastante al Carlton, ai piedi della cittadella di Aleppo, effimera conquista dei soldati di Assad, dove mille anni fa regnava il saggio emiro Saif Al Islam, la Spada dell'Islam, con una corte di poeti, filosofi, artisti. E neppure si intravede una soluzione diplomatica alla quale tutti sembrano avere rinunciato. Eppure soltanto nell'agosto scorso qui Barack Obama voleva bombardare Assad e il suo arsenale chimico. Allora era stato Putin a mediare un accordo e a farsene garante, salvando così l'antico alleato. Ma adesso nel cuore dell'Europa orientale le cancellerie occidentali hanno altro cui pensare e la Siria in fiamme appare come un bagliore lontano.

Corsera 9.5.14
Le macerie di Aleppo (e la grande spartizione)
di Davide Frattini

Le macerie dell’hotel Carlton ad Aleppo (devastato da una bomba piazzata ieri dai ribelli in un tunnel, 15 militari uccisi, qualcuno proclama 50) e i quartieri sminuzzati dai bombardamenti costanti del regime. Adesso bisogna ricostruire e asfaltare, coprire le speranze di una rivoluzione nata dalle manifestazioni pacifiche e diventata conflitto permanente. Come ad Hama oltre trent’anni fa: dopo la rivolta degli islamisti e il massacro ordinato dal capostipite Hafez Assad, i cadaveri vennero ammassati nelle fosse comuni, cancellati da nuove strade, un albergo di lusso, una moschea. Il figlio Bashar sta già pensando al dopo, anche se gli scontri dovessero andare avanti in alcune province della Siria: perché il presidente otterrà il quarto mandato a giugno in elezioni senza veri sfidanti e i Paesi che gli hanno permesso di restare al potere verranno remunerati. Ai cinesi - rivela un funzionario del governo siriano all’agenzia Adnkronos - spettano gli appalti per le infrastrutture, i palazzoni da ritirare su, i ponti da ricollegare. «Alla Russia interessano di più le risorse del sottosuolo e all’Iran i settori comunicazioni, trasporti e riarmo». La spartizione è cominciata, mentre la guerra continua.

il Sole24ore 9.5.14
Successo annunciato. L'opposizione sale al 22%, la generazione post-apartheid non sposta gli equilibri
In Sudafrica vince ancora l'Anc
Calo contenuto per il partito di Zuma, che ottiene il 63% dei voti
di Ugo Tramballi


L'arcivescovo Desmond Tutu, l'ultimo ancora in vita fra i padri della lotta all'apartheid, aveva annunciato di non votare Anc, questa volta. «Sono molto addolorato, il mio cuore è pesante». Non aveva risparmiato le sue critiche al partito e al suo leader Jacob Zuma; e loro si erano già vendicati fingendo di aver dimenticato d'invitarlo al funerale di Mandela.
Posto che all'ultimo momento non ci abbia ripensato - è possibile - il suo grande rifiuto non è stato sufficiente per impedire il quinto successo elettorale per il grande partito che, vent'anni dopo, continua ad essere percepito come la forza di liberazione della maggioranza nera del Sudafrica. I risultati ufficiali saranno resi noti solo oggi. Ma con l'oltre 80% delle schede scrutinate, i giochi sono fatti: lo erano anche prima che mercoledì s'incominciasse a votare nei 22mila seggi del Paese.
L'Anc aveva premesso che meno del 60% sarebbe stata una sconfitta. Ha conquistato il 63: tre punti meno di cinque anni fa per il partito di governo uscente, non sono molti. L'unica vera opposizione, Democratic Alliance, è al 22%: sono quasi cinque punti più delle precedenti elezioni ma non abbastanza perché Hellen Zille possa dire che la sua forza politica non è solo un partito di bianchi. Una generazione non basta ancora perché si possa impedire ai sudafricani di votare per linee razziali, nonostante il miracolo di Mandela.
Questa era la prima volta che votava una categoria di sudafricani, i ventenni, nata libera: ragazzi che conoscono l'apartheid solo per averlo studiato sui libri di storia. Non hanno mostrato un particolare entusiasmo, nessuna mobilitazione, non hanno fatto differenze. Forse è questa assoluta normalità, quasi un distacco verso ciò che vent'anni fa era apparso come un miracolo, il vero successo, l'eredità di Nelson Madiba Mandela. Una seconda prova del miracolo avvenuto è che nessuno sottolinei l'origine zulu di Zuma, diversa da quella Nkhosa di Mandela e del secondo presidente Thabo Mbeki. Più a Nord, in Africa, l'etnia continua a contare sanguinosamente.
Come era giusto, non ci sono state le stesse code chilometriche ai seggi che il 27 aprile 1994 avevano commosso il mondo. Ha votato il 72% dei 25 milioni di sudafricani che si erano iscritti alle liste elettorali, su più di 50 milioni di cittadini. La classe dirigente dell'Anc, Jacob Zuma compreso, oggi è normale, a volte mediocre, troppo spesso corrotta. Così lontana dai padri fondatori. È per questo che Desmond Tutu aveva manifestato chiaramente il suo disappunto: «Non molti tra i successori di quei leader sono stati capaci di riempire le loro scarpe». Anche lui deve tuttavia ammettere che «quelle scarpe erano enormi».
È la normalità di una nazione che ha vissuto momenti di gloria assoluta fra i neri come fra i bianchi. Si governa per altri cinque anni, per l'ultimo dei due mandati di Jacob Zuma. Il partito e il presidente dovranno inventarsi una nuova politica economica capace di avvicinarsi all'obiettivo fondamentale che fu di Mandela: rendere dinamica e competitiva un'economia di mercato globalizzata; e contemporaneamente migliorare gli standard di vita di una parte della popolazione ancora troppo povera e troppo numerosa. Gli squilibri sociali sudafricani sono fra i più alti del mondo. Nel mercato sono i bianchi e nella povertà la grande maggioranza dei neri. Anche i neri della classe media sono enormemente più ricchi del proletariato nero.
Ci sono cinque anni di tempo e non sono un'eternità. Julius Malema, l'ex capo del movimento giovanile dell'Anc, cacciato dal partito, era diventato popolare con uno slogan: «Uccidi il boero». Quest'anno si è presentato al voto con un suo partito, l'Economic Freedom Fighters, i combattenti della libertà economica. Ha preso poco meno del 5%: abbastanza perché qualcuno ne denunci il fallimento e abbastanza per diventare il terzo partito del Sudafrica. La libertà economica che intende Malema è quella del Venezuela di Hugo Chavez e del vicino Zimbabwe di Robert Mugabe che ha compiuto 90 anni il mese scorso. Chavez non è riuscito a migliorare la vita dei poveri venezuelani e Mugabe è stato capace d'impoverire tutti i suoi cittadini, a parte i dirigenti del partito e i generali.
Moeletsi Mbeki, importante economista politico e fratello dell'ex presidente Thabo del quale criticava la disciplina fiscale, sostiene che «il momento più critico per i movimenti di liberazione africani inizia dopo 15/20 anni di potere. È quando incominciano i problemi a causa della mancanza di un cambiamento nel sistema economico». Il Sudafrica nel quale «le élite nera e bianca collaborano ma il vecchio sistema economico continua», secondo Moeletsi Mbeki è arrivato a questo punto. Meglio non sottovalutare quel 5% di Malema.

Corsera 9.5.14
«L’India di Modi non mi piace, porterebbe gli affaristi al potere»
Amartya Sen: i Gandhi e il Congresso hanno fallito
di Danilo Taino


ROMA - Amartya Sen alza l’indice della mano sinistra e mostra felice l’unghia, sporcata da una striscia di inchiostro indelebile antifrode: è il segno che ha votato. A 80 anni, è volato da New York a Delhi, da Delhi a Calcutta e da lì ha preso un taxi - «tre ore di viaggio» dice - per raggiungere la sua città d’origine, Bolpur, uno dei centri della cultura e dell’istruzione del Bengala Occidentale, e premere il tasto del voto elettronico. Perché è convinto che le elezioni in corso in India - si concluderanno il 12 maggio e i risultati si sapranno il 16 - siano davvero rilevanti per la democrazia più popolosa del pianeta. «Per la prima volta - sostiene - si sta realizzando l’alleanza tra business e nazionalismo indù nella persona di Narendra Modi. E possono anche prendere il potere». Sul versante opposto, «il partito del Congresso e i Gandhi, Sonia e Rahul, hanno molto sbagliato» e alla fine, dopo dieci anni di governo, sono arrivati «al collasso morale».
Sen, filosofo ed economista, premio Nobel, in questi giorni è in Italia per partecipare a una serie di dibattiti: oggi, a Milano, terrà una lezione su Alimentazione e popolazione in occasione del lancio del Laboratorio Expo organizzato dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli ed Expo Milano 2015. È uno degli intellettuali più influenti in tema di sviluppo ma anche su questioni filosofiche, sulla democrazie, sulla povertà. In questa intervista, dice di essere «triste» per la situazione in cui è finito il Congresso: «Per me è ancora il partito della lotta per l’indipendenza dalla Gran Bretagna, il partito laico che si è opposto alle divisioni etniche e religiose». Negli ultimi anni è però precipitato: «Prima ha perso il talento del buon governo, poi la capacità di governare, poi la volontà di governare e infine è arrivato al collasso morale».
La dinastia Nehru-Gandhi (storicamente la spina dorsale del partito) «ha avuto un ruolo rilevante nel declino del Congresso»: dice che «è una famiglia ingiustificatamente potente». Nel senso che al momento dell’indipendenza, nel 1947, Jawaharlal Nehru era un padre della patria ed era giusto che fosse primo ministro. Anche sua figlia Indira Gandhi aveva un grande senso del potere. Ma poi le ragioni per affidare alla dinastia il comando sono via via venute meno e oggi Sonia che incorona Rahul, quasi 44 anni, a candidato primo ministro è poco credibile. «Conosco Rahul - dice il professore - da quando studiava al Trinity College di Cambridge. È una persona piacevole, ma non è mai stato interessato alla politica. Nel tempo è migliorato ma prima di candidarsi a guidare il Paese avrebbe dovuto fare un’esperienza da ministro o da governatore di uno Stato. Ora, invece, dà l’idea di essere un peso leggero più di quanto non lo sia in realtà». Sen pensa che i Gandhi siano più attenti di altri agli aspetti umani della politica. Ma, fondamentalmente, alimentano il declino del Congresso. «Attenzione, però: anche dopo l’Emergenza (autoritaria, ndr ) imposta da Indira nel 1975-77, il Congresso sembrava finito, poi riuscì a ricostruirsi. Io non ne scriverei ancora il necrologio».
Sen sa che le elezioni saranno vinte da Modi, il candidato a primo ministro del Bjp, il partito nazionalista indù. Non può sapere però se riuscirà ad avere i seggi sufficienti per governare da solo. Spera di no: «Mi auguro che sia costretto a una coalizione, ammesso che riesca a trovare alleati: serve qualcuno che lo controlli». Il suo timore non sono solo il nazionalismo e le divisioni religiose che Modi potrebbe suscitare. La preoccupazione maggiore è che l’ideologia del Bjp e i numeri (l’80% degli indiani è di religione induista) si mettano al servizio del mondo degli affari, senza più bilanciamenti. «Tutti siamo a favore del business – afferma –. Ma nessuno vuole essere dominato dal business». La crescita economica - spiega - è importante. Ma le arretratezze sociali dell’India, soprattutto nell’istruzione e nella salute, sono un problema chiave. «Non sono solo questioni di standard di vita. Già oggi sono un elemento centrale di freno alla crescita stessa». E a suo avviso vanno messi al centro della discussione: per questo dall’anno prossimo programma di passare del tempo in India, tra un corso di filosofia un anno, uno di economia l’anno dopo, un progetto di matematica e uno di medicina, tutti alla sua università, Harvard. Si annunciano dibattiti di fuoco.
Sulla questione crescita attraverso liberalizzazioni opposta a interventi a favore di istruzione e salute, infatti Sen è già stato criticato, con clamore, dall’altro grande economista indiano che insegna in America, Jagdish Bhagwati, della Columbia, sostenitore della prima impostazione, più aperta al business. «È un bravo economista - dice Sen -. Ma vorrebbe diventare consigliere di Modi. E forse ci riuscirà». La vera differenza - aggiunge guardandosi l’unghia - «è che lui è diventato americano mentre io sono rimasto indiano e faccio la coda per votare».

Corsera 9.5.14
L’economista francese che conquista gli Usa
di Massimo Gaggi


Da ricercatore relativamente oscuro, che per quindici an- ni ha studiato il modo in cui le diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza hanno cambiato le società nella storia, a rockstar del pensiero economico che negli Usa provoca discussioni infinite a destra come a sinistra.
Dopo un avvio lento, la versione inglese del suo ultimo libro, Capital in the 21st Century, un tomo di quasi 700 pagine che nessuno si azzarda più a giudicare un’opera difficile da digerire, anticipato in Italia da un articolo di Michele Salvati su La Lettura del Corriere della Sera, è andato improvvisamente a ruba. Esaurite le prime tirature, la Harvard University Press sta ora ristampando in fretta e furia l’opera di Thomas Piketty, ormai rientrato da settimane in Europa dopo il suo trionfale tour americano che qualcuno, con una punta di esagerazione, arriva a paragonare a quello dei Beatles di mezzo secolo fa. Ma è vero che negli Stati Uniti Piketty è ormai popolarissimo: tutte le principali testate giornalistiche hanno analizzato, e più volte, il suo libro. Le discussioni sulle sue idee non accennano a placarsi, mentre i media continuano a inseguirlo in giro per il mondo chiedendogli di replicare alla polemica del giorno. L’ultima intervista, tre giorni fa a New Republic, per smentire di essere marxista. Giorno dopo giorno la spasmodica attenzione degli intellettuali trasforma il dibattito economico in discussione di costume: il Washington Post pubblica perfino un’ironica guida per chi vuole commentare il libro senza averlo letto. Mentre il Financial Ti- mes - tra i primi ad apprezzare il libro con una recensione di Martin Wolf - adesso parla di «bolla Piketty» pronosticando che chi fin qui ha giudicato imperdibile il suo Capital, ben presto comincerà a dire che non ci ha trovato dentro nulla che non sapesse già. Concludendo che alla fine diventerà chic dire di non averlo letto. Per adesso, però, i riflettori restano puntati sull’economista francese che, pronostica il New York Times, può diventare un’icona culturale come accadde a Susan Sontag cinquant’anni fa quando pubblicò il saggio Notes on Camp o a Francis Fukuyama nel 1992, con l’uscita del suo La fine della storia. Perché? Per la forza della sua analisi certo, ma anche perché questo economista 42enne di bell’aspetto, che parla con un accento accattivante, è diventato molto trendy. Con Twitter, che non esisteva ai tempi della Sontag e di Fukuyama, che alimenta per la prima volta una proliferazione «virale» delle sue analisi storico economiche.
Il libro è assai ricco nell’analisi: un’indagine estesa su quasi due secoli, per concludere che stiamo tornando alle sperequazioni estreme degli inizi del Novecento, dopo un periodo di distribuzione più equilibrata nel reddito dovuta soprattutto alla enorme distruzione di ricchezza che ha colpito i ceti più abbienti durante i due conflitti mondiali. Ma la terapia proposta, una sorta di patrimoniale planetaria, è irrealistica, come finisce per ammettere lo stesso autore. E allora? Rimane il valore di un’opera che, pur non originalissima (da Stiglitz a Krugman a Robert Reich, sono molti gli studi pubblicati sulla questione), mette i numeri a posto. E arriva in libreria quando la sinistra americana si prepara a dare battaglia proprio sulle diseguaglianze.

il Fatto 9.5.14
New York Salta la Tassa sui ricchi

Salta uno degli impegni principali presi da De Blasio: l’aumento delle tasse ai cittadini più ricchi per finanziare le politiche sociali. La misura, presente nella bozza iniziale della legge e che avrebbe dovuto portare nelle casse centinaia di milioni di dollari, è stata cancellata, eliminata. LaPresse

la Repubblica 9.5.14
La Nsa spiava anche a Trieste
nel mirino i fisici nucleari


PARIGI. La National Security Agency (Nsa) spiava un centro di ricerca fisica a Trieste. Lo rivelano nuovi documenti in possesso di Edward Snowden e diffusi dal quotidiano Le Monde . Nella lista degli obiettivi da intercettare dell’agenzia di intelligence americana figura infatti il Centro internazionale di fisica teorica, fondato nel 1964 da Abdus Salam, scienziato pachistano premio Nobel.
L’Ictp è finanziato per l’80% dal governo italiano e organizza anche dei corsi di management sulla gestione dei dati e della conoscenza del nucleare, spesso aperti a paesi non occidentali.
Il centro triestino, a cui ha collaborato in passato anche l’astrofisca Margherita Hack, lavora sotto l’egida dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) e collabora con paesi come la Giordania e il Pakistan. In particolare, è l’Ictp che ha aiutato Islamabad a sviluppare il suo centro di ricerca sulla fisica teorica. Sono forse questi gli elementi che hanno spinto gli americani a interessarsi alle attività dell’Ictp. Abdus Salam è stato spesso indicato come lo scienziato che ha venduto la tecnologia nucleare a molti paesi come il Sudafrica, aiutando il Pakistan a dotarsi della bomba atomica.

la Repubblica 9.5.14
La scuola perfetta è un gioco di squadra ma l’Italia resta in coda
È il primo indice globale che misura i migliori sistemi d’istruzione
Su 40 paesi in testa Corea del Sud e Giappone, noi a 25esimo posto
di Cristiana Salvagni


ROMA. Nella migliore delle scuole possibili l’insegnante è una figura prestigiosa, genitori e studenti collaborano per mandare avanti il programma e i soldi investiti contano sì, ma non sono tutto. Importa di più che ci sia una formazione continua per alunni e docenti e un giusto equilibrio tra le materie. Quelle del futuro, come la capacità di risolvere i problemi e il lavoro di squadra, pesano ma non devono sostituire la lettura, la matematica o le scienze. Questa scuola quasi perfetta è stata fo- tografata in una super classifica mondiale dei 40 migliori sistemi d’istruzione, messa a punto dall’istituto di ricerca inglese The Economist Intelligence Unit e pubblicata ieri dal colosso dell’editoria formativa Pearson.
Ai primi banchi sgomitano i Paesi dell’Est asiatico: la Corea del Sud davanti a tutti, seguita da Giappone, Singapore e Hong Kong, poi in quinta fila c’è la Finlandia, tradizionalmente culla dell’eccellenza scolastica. Sesta la Gran Bretagna, settimo il Canada, quindi al 12° posto la Germania, al 14° gli Stati Uniti e giù fino al 25° gradino per trovare l’Italia. Orecchie da somaro per il Brasile, il Messico e l’Indonesia.
La forza della graduatoria, già pubblicata nel 2012 e oggi aggiornata, sta nel suo indice: si chiama “la curva dell’apprendimento” e raggruppa per la prima volta in modo ponderato una moltitudine di fattori. I risultati dei test internazionali, come l’Ocse-Pisa sulle competenze matematiche ma anche i TIMSS sugli studi scientifici e i Pirls sulla lettura. Poi il tasso di dip lo- mati e laureati e la spesa pro-capite per l’educazione, quindi elementi socioeconomici quali il Pil, la disoccupazione e l’aspettativa di vita. Il “cervellone” stila così una graduatoria delle super potenze dell’istruzione e restituisce una banca dati pubblicata on line: dice cosa migliora e cosa peggiora l’educazione e vuole essere uno strumento utile ai governi, agli insegnati e alle scuole per migliorare.
Irrinunciabili, per esempio, la trasparenza e la partecipazione. Dove i programmi e i risultati sono chiari a tutti, dice il rapporto, l’attività scolastica è più efficace. Un tratto peculiare dei paesi orientali: là società e famiglia sanno esattamente cosa aspettarsi dagli insegnanti, gli insegnanti dagli alunni e gli alunni hanno ben presenti gli obiettivi da soddisfare. Da qui il valore di una scuola “partecipata”, dove i genitori collaborano e i docenti sono ritenuti preziosi. Proprio questo è il tallone d’Achille che lascia in fondo l’Italia, con l’insegnamento visto come un ripiego, un modo per avere lo stipendio sicuro ma lavorando mezza giornata. «Quando il ruolo dei professori è riconosciuto, la scuola funziona meglio» spiega Roberto Gulli, presidente di Pearson Italia. «Non si tratta solo della retribuzione: per avere buoni insegnanti bisogna offrire una formazione continua. Fare il professore deve essere un privilegio per chi si laurea, non meno prestigioso di altre professioni come l’avvocato o l’ingegnere».
Anche perché la qualità della scuola ha un rapporto diretto con lo sviluppo. «Investire sull’istruzione vuol dire aumentare il Pil: l’educazione non è solo un diritto acquisito ma un bene da far crescere» continua Gulli. Per questo l’aggiornamento continuo deve essere offerto a tutti: anche agli adulti per restare in pari con il mutevole mondo del lavoro. Un aspetto su cui sono particolarmente deboli Messico e Brasile dove alla rapida crescita economica non è seguito finora un aumento nella preparazione.
E guai, nella corsa alla scuola del futuro, a dimenticarsi la tradizione. Se è vero che la capacità di usare la tecnologia o lavorare in gruppo diventano essenziali, non possono però rimpiazzare la letteratura, la matematica, le scienze. «Le nuove competenze devono restare ancorate ai saperi di base - conclude Gulli - altrimenti galleggiano nel vuoto, restano senza fondamenta».

il Sole24ore 9.5.14
Intervista a Giovanni Nistri Direttore del Grande progetto
A Pompei corsa contro il tempo
Mancano ancora le strutture amministrative e i cantieri aperti sono pochi
di Antonello Cherchi


ROMA. La realizzazione del Grande progetto Pompei è una corsa contro il tempo. Se si riuscirà a portarlo a termine sarà sul filo di lana. Non dispera comunque di farcela Giovanni Nistri, generale dei Carabinieri ora a capo della struttura che dovrebbe far arrivare al traguardo il rilancio del sito grazie a una dote di 105 milioni, buona parte di provenienza Ue. La sfida è spenderli entro fine 2015.
Il calendario e quanto finora fatto non giocano a favore. Intanto la nomina di Nistri. «Una nomina – sottolinea il generale – che non ho cercato. Mi sono limitato a rispondere a una richiesta perché ritengo che così debba fare un funzionario dello Stato, soprattutto se Carabiniere». La designazione sarebbe dovuta arrivare entro l'8 dicembre, «mi sono, però, insediato – spiega Nistri – il 20 gennaio». Che le cose vadano a rilento lo dimostra anche la questione retribuzione. «So che l'importo della mia indennità sarà di circa 30mila euro lordi l'anno – aggiunge il generale – ma il provvedimento non è ancora stato registrato alla Corte dei conti».
Al momento Nistri è praticamente solo, dopo che anche il vice – individuato in Fabrizio Magani, soprintendente regionale dell'Abruzzo – è dovuto restare a L'Aquila perché così ha voluto il nuovo ministro dei Beni culturali Dario Franeschini. In attesa di un nuovo vice, Magani è a mezzo servizio a Pompei.
Ma soprattutto Nistri ancora non dispone della struttura di supporto, uno staff di massimo 25 persone. Sarebbe dovuta arrivare entro l'8 dicembre. «Confido – commenta Nistri - che diventi pienamente operativa entro un mese. All'avviso pubblico hanno risposto 68 persone, solo 52 avevano però i requisiti. Sono stati selezionati in 27 (18 per la struttura e 9 per l'Unità Grande Pompei), ma 5 hanno poi rinunciato». Se la struttura di supporto deve dedicarsi a investire i 105 milioni, l'Unità Grande Pompei deve preparare e coordinare un piano di rilancio dei nove comuni che ricadono nel sito Unesco "Aree archeologiche di Pompei, Ercolano e Torre Annunziata". «Il piano dovrebbe essere pronto entro ottobre – afferma Nistri – ma ritengo che quello sia un termine ordinatorio e si debba tener conto dello slittamento dei passaggi preliminari».
Nonostante l'andamento lento della macchina amministrativa, il Grande progetto – articolato in cinque linee d'azione: conoscenza, sicurezza, opere, valorizzazione e fruizione, capacity building – va avanti. «Il piano della conoscenza – spiega il generale – è stato portato interamente a gara per l'importo previsto di 8,2 milioni. Per quanto riguarda la sicurezza andrà a gara la revisione totale del sistema di videosorveglianza perimetrale e sarà implementata quella interna, per un valore di 3,6 milioni, che però insisteranno sul piano nazionale di sicurezza. È prevista la copertura wi-fi dell'intera area (importo 2 milioni) ed è prossimo il bando per la recinzione e l'illuminazione perimetrale: 9 milioni di euro da appostare sul piano delle opere».
Proprio il piano delle opere è quello più consistente. Da solo vale 85 milioni. «Un cantiere è già chiuso – prosegue Nistri – e 6 sono attivi, per un importo iniziale di 10 milioni, diventati 6 per effetto dei ribassi. Altri interventi per 20 milioni, che i ribassi hanno portato a 13, sono stati aggiudicati e altri ancora per una spesa di 30-33 milioni sono in avanzato stato di progettazione». Così come sono allo stadio di progettazione gli interventi di valorizzazione (importo 7 milioni), mentre per la capacity building è in corso la gara del sistema informativo (importo di 600mila euro) e si sta procedendo all'acquisto di materiale tecnico.
Ci si muove, insomma. Ma su tutto aleggia la scadenza di dicembre 2015, momento in cui la Ue ci chiederà conto se e come sono stati spesi i soldi. E considerando che alcuni cantieri che ancora devono partire richiederanno 17 mesidi lavori, la domanda è d'obbligo: "generale, ce la si può fare?". «Ci metteremo il massimo impegno – risponde Nistri –. Come ha detto il ministro Franceschini, i conti si faranno alla fine».

Corsera 9.5.14
Nasce «Piano», la piattaforma che collega i musei
di Paolo Conti


Studiando lo schema grafico dei musei e della galleria d’arte coinvolti nel progetto, si capisce subito quanto «Piano», piattaforma curatoriale franco-italiana creata su iniziativa di D.c.a. (l’associazione francese per lo sviluppo dei centri di arte contemporanea), sia figlia della cultura della Rete e come sia in fondo destinata a un pubblico nativo digitale, come si conviene all’arte contemporanea. La piantina (tutto visibile su www.pianoproject.org, dove la piattaforma sarà proiettata in tempo reale) collega Museion di Bolzano a Cac Brétigny a Brétigny-sur-Orge. Oppure il Macro di Roma al CNEAI di Chatou. Oppure si può approdare a realtà milanesi come il Careof o il Docva passando per la casa delle arti dedicata a Pompidou a Cajarc, per il centro d’arte contemporaneo di Tolosa e arrivata alle Dolomiti Contemporanee di Belluno. E poi c’è Genova (Villa Croce), la Fondazione Giuliani di Roma, il Kunst Meran di Merano, Villa Arson a Nizza.
Di fatto, come è stato spiegato ieri nella splendida cornice della Sala d’Ercole a palazzo Farnese a Roma, sede dell’ambasciata di Francia in Italia, «Piano» permetterà a un insieme di attori dell’arte contemporanea, francesi e italiani, di mettersi in Rete e di collaborare: 17 strutture e circa venti proposte di artisti, di cui alcune (per esempio il museo De Vleeshal a Middelburg, nei Paesi Bassi) oltre i confini franco-italiani. Ed esattamente come può accadere sulla Rete, con rapidità e quasi in tempo reale, «Piano» si propone (si legge nella presentazione) «come uno spazio di lavoro condiviso e uno strumento polifonico».
Perciò ci saranno progetti curati e firmati insieme dai direttori delle gallerie e dei musei coinvolti (ci sono anche fondazioni molto note accanto a spazi alternativi). In quanto agli artisti, come si conviene a uno spazio sperimentale, artisti affermati lavoreranno accanto a quelli emergenti.
Per Michel Orier, direttore generale della Creazione artistica al ministero della Cultura e della comunicazione francese (ebbene sì, in Francia la burocrazia genera simili direzioni generali per un ministero culturale), «anche attraverso operazioni di questo tipo, volte a portare la creazione più contemporanea sui territori, vicino ai cittadini, si incarna l’Europa». C’è bisogno anche di arte, di fantasia, di visioni del futuro, per una vera Unione europea. Non solo dell’euro.

Salone del libro Torino
la Stampa 9.5.14
Gli editori indipendenti hanno trovato casa
Padiglione 1 tutto per loro: uno spazio che ha cambiato faccia
di Silvia Francia


Le premesse ci sono tutte: un allestimento nuovo di zecca, con logo dedicato e l’azzurro come colore-emblema.
Più un marchio, «Officina. Editoria di progetto», che raggruppa un programma di incontri, presentazioni, approfondimenti. Tutto dedicato a loro: agli editori indipendenti, accorpati nel padiglione 1 di nuova concezione. Proprio quelli da cui lo scorso anno si era levato un grido di dolore, in merito alla collocazione, in certo modo periferica («un po’ ghettizzante» si disse) rispetto al cuore pulsante del Salone. Lagnanza che gli organizzatori non hanno trascurato, ripensando, appunto, location e «spirito» di questa sezione e affidando a Giuseppe Culicchia la fitta programmazione di incontri e eventi.
La svolta
Lo scrittore torinese, ieri, era soddisfattissimo della nuova creatura: «Abbiamo cambiato faccia a questo spazio, trasformandolo proprio per dare maggior visibilità e rilevanza a una fetta dell’editoria che, pur essendo fucina di creatività, sovente fa fatica».
Di qui l’idea di stilare un programma di appuntamenti dedicato proprio agli editori indipendenti, con un centinaio di incontri, ma pure di inventarsi novità tipo l’«independent’s corner» dedicato agli autori che vogliano creare un contatto diretto e ravvicinato con i loro lettori.
Una rivisitazione che trova estimatori convinti. Come Stefano Delmastro di Scrittura Pura: «E’ stato fatto un ottimo lavoro e noi, che siamo sempre venuti al Lingotto dal 2003, anno di nascita della nostra editrice, ci accorgiamo della differenza. Inoltre, simo contenti che la scrittrice svedese Gudrun Eva Minervudottr, di cui abbiamo appena pubblicato il romanzo «Tutto si risveglia con un bacio» sia stata invitata qui come relatrice direttamente dall’organizzazione della fiera».
I piccoli
Luca Turolla del torinese Bradipo: «Felicissimi di essere qui. Tanto che, se ci proponessero di trasferirci nel padiglione 2, quello dei grandi marchi, non accetteremmo: chi ama questa zona del Salone è, in genere, un lettore più consapevole». «Belle innovazioni: si sta meglio dell’anno scorso» rincara il team, tutto al femminile, del marchigiano Hacca.
I critici
Come sempre davanti alle novità, però, c’è chi si lagna. «Se si vuole mettere l’accento sulla qualità del nostro mestiere - dice Gabriele Dadati della milanese Melampo/Laurana - perché piazzare in bella evidenza, proprio all’ingresso del padiglione, qualcuno che pubblica libri a pagamento?».
A pagamento
L’allusione, neppure troppo velata, è allo staff di Prospettiva, che s’affaccia sorridente dalla sua postazione, effettivamente in bella mostra. «Noi chiediamo solo agli autori che pubblichiamo di acquistare una cinquantina di copie - commentano -e, comunque, sì, il nostro stand è posizionato benissimo e ne siamo ben felici». Come in ogni villaggio che si rispetti, anche al Salone, a volte concordia e buon vicinato sono un’utopia.

la Stampa 9.5.14
Foglia: l’autore non è un brand deve restare una persona
Il direttore editoriale della Feltrinelli: l’Italia non può fare a meno della libreria all’angolo della strada
di Alberto Mattioli


Sulla crisi del libro è forse solo questione d’intendersi. «La crisi è finita», informa a sorpresa Gianluca Foglia, direttore editoriale della Feltrinelli.
Quindi è festa?
«No. Semplicemente, sappiamo che il mercato non tornerà più ai livelli di prima. Tutto sta nel rendersene conto e nel riorganizzarsi di conseguenza. In ogni caso, per Feltrinelli il 2013 è stato un ottimo anno».
Addirittura ottimo?
«Eh, sì. Con un mercato che ha perso un 6-7% di valore (e il 20 negli ultimi tre anni), noi aumentiamo del 20%».
Miracolo a Milano?
«No, merito di qualche libro molto forte come ZeroZeroZero di Saviano, Gli sdraiati di Serra, Per dieci minuti della Gamberale, Il complesso di Telemaco di Recalcati e Il gioco di Ripper della Allende. Abbiamo anche rifatto tutta l’economica. E in questi momenti aiuta avere un editore vero, cioè una persona fisica con un nome, un cognome e una faccia».
Però Carlo Feltrinelli con i giornalisti non parla. Perché?
«Non so. Bisognerebbe chiederlo a lui».
Un po’ difficile, dato che non concede interviste.
«In effetti...».
(Neanche a farlo apposta, preceduta da un’energica bussata si materializza Inge Feltrinelli con un foglio in mano che depone sulla scrivania dicendo qualcosa in italo-tedesco).
«Vede?».
Vedo. Parliamo di politica. Una casa editrice da sempre di sinistra pura e dura non è spiazzata dall’Italia post-ideologica di Renzi?
«Il mondo Feltrinelli si rifà a una cultura moderna, illuminista e progressista nella quale c’è anche, e non solo, il fatto di essere di sinistra. Noi abbiamo un’anima, che è anche un’anima politica. Ma non siamo schierati. I nostri libri raccontano la realtà, e la realtà non sta né con Renzi né contro».
Non negherà che siete l’editore di quelle che Edmondo Berselli classificava alla voce «professoresse democratiche».
«Certo che no, sarebbe assurdo. Intanto perché se sono professoresse sono donne, e la maggior parte dei libri li comprano appunto le donne. E poi perché se sono democratiche riconoscono alla Feltrinelli di essere coerente con la sua storia. Il che non significa affatto non rinnovarsi».
Appunto. Sull’ebook come vi siete mossi?
«Siamo l’unico editore che ha una linea di produzione solo per il digitale, la Feltrinelli Zoom, anche con testi originali che non “nascono” sulla carta».
Resta il fatto che negli Usa l’ebook rappresenta il 25% del mercato e in Italia il 3.
«In Italia crescerà ancora, ma dubito che possa arrivare a quelle percentuali. Le abitudini di acquisto sono troppo diverse. E poi come l’Italia è il Paese della panetteria sotto casa, così è anche quello della libreria all’angolo della strada».
Giusto: le Feltrinelli come vanno?
«Soffrono la contrazione del mercato, ma restano un’eccellenza culturale del nostro Paese. Se in certe città non ci fossero, lì non ci sarebbe nemmeno una libreria».
Ha letto le interviste che stiamo pubblicando con i suoi colleghi? Mi dica qualcosa su cui non è d’accordo.
«Non sono d’accordo con Laura Donnini di Rcs quando dice che l’autore è un brand. La forza della Feltrinelli sono i suoi autori, e gli autori sono delle persone, protagoniste di un percorso creativo complesso, talvolta difficile, sempre emozionante. L’altro giorno, dopo una presentazione, una ragazza si è avvicinata a Benni e gli ha detto: “Stefano, i personaggi dei tuoi libri sono i miei migliori amici”. Questo non è un brand».

Corsera 9.5.14
Attacco alla televisione
Franceschini: i libri danneggiati dalle tv
«Ignora i libri, deve risarcire con spot gratis». È polemica
di Cristina Taglietti


TORINO.  Televisione cattiva maestra. L’accusa viene, al Salone del libro di Torino, dal ministro della Cultura Dario Franceschini. Promesso l’impegno per la revisione della legge Levi e l’abbassamento dell’Iva sull’ebook al 10%, Franceschini dice: «Avete fatto tanto danno alla lettura, ora dovete risarcire». E pensa a spot gratuiti, sorta di pubblicità progresso, per incentivare la lettura e a trasmissioni sui libri.
Inaugurazione con polemica, ieri al Lingotto con il ministro per i Beni e le attività culturali Dario Franceschini. Prima ha fatto un richiamo all’orgoglio nazionale, invitando tutti a vedere i modelli positivi che nell’Italia culturale pure esistono, ha promesso l’impegno a occuparsi di due cose che stanno molto a cuore agli editori: la revisione della legge Levi e l’abbassamento dell’Iva sull’ebook al 10% (ora è al 22, mentre sul libro di carta al 4%). Poi ha annunciato di voler proporre un festival di tre giorni nelle scuole. Infine, però, ha attaccato la cattiva maestra. La televisione. «Lancio una sfida - ha scandito - a tutte le tv, pubbliche e private. Avete fatto tanto danno alla lettura, ora dovete risarcire». In che modo? Il ministro pensa a «spot gratuiti», una sorta di pubblicità progresso per incentivare la lettura, oltre a trasmissioni sui libri. «Avete notato che nelle fiction italiane non c’è mai l’inquadratura di una libreria o un personaggio con un volume in mano? In tv i libri non ci sono, se non a orari improbabili».
E non sembra un caso che, tra un incontro e l’altro del Salone, vengano proposte pillole di 20 secondi sui peggiori strafalcioni culturali della tv spazzatura, notizia che spinge il ministro a chiedere alle reti italiane di «mandarli in onda gratuitamente anche se non li ho ancora visti».
Se Giancarlo Leone, direttore di Raiuno, risponde diplomaticamente che «Raiuno fa già molto ma si può sempre fare di più», Andrea Vianello, direttore di Raitre, non si sente chiamato in causa: «Parlare della lettura è la nostra mission . Due volte alla settimana in prima serata c’è Che tempo che fa di Fabio Fazio, il programma che muove di più le classifiche editoriali; c’è Pane quotidiano , in questi giorni in diretta dal Salone del Libro; poi lo storico gioco Per un pugno di libri . E quest’anno abbiamo lanciato Masterpiece : i primi due romanzi vincitori saranno presentati proprio a Torino. Mi dispiace, perché inizio a temere che forse il ministro Franceschini non veda Raitre».
Al ministro hanno quindi risposto le «note» di Rai e Sky. La prima ricorda che «la Rai oltre a essere editore di successo attraverso Rai Eri, da sempre promuove la lettura e l’acquisto dei libri nelle sue trasmissioni e in orari di grande ascolto» e cita, oltre ai programmi di Raitre, le rubriche del Tg1 Billy e del Tg2 Achab , oltre al fatto che «più del 25 per cento delle serate della fiction sono ispirate ai libri». Mentre Sky Italia ha definito quelle del ministro «critiche avventate. Parole che sviliscono il grande impegno di Sky nel dare visibilità alla cultura e alla creatività del nostro Paese, che hanno tra l’altro in Sky Arte HD una vetrina privilegiata». Il comunicato dell’azienda ricorda che sta per partire la seconda stagione di Bookshow , la trasmissione su Sky Arte prodotta da minimum fax media, «un programma itinerante che nasce proprio come invito alla lettura e coinvolge grandi nomi della cultura e dello spettacolo».
Alle dichiarazioni del ministro risponde anche Elisabetta Sgarbi, direttore editoriale di Bompiani che di Franceschini è l’editore, ma è anche partner di Masterpiece. «Il programma voleva essere una occasione di avvicinamento al “libro”. Non a un libro “fatto” e quindi presentato, ma a un libro in costruzione. Naturalmente era una gara, un gioco, ma al fondo c’era l’ingresso del pubblico in un meccanismo molto “privato”, quale è quello della scrittura, appunto. È stata dunque una trasmissione dalle intenzioni audaci, e ha acceso i riflettori sul mondo dei libri, degli editori, che sono una componente essenziale del mondo culturale. Ha ragione Franceschini a dire che la televisione può fare molto per i libri. Ricordo una puntata con un’accesa discussione su Ezra Pound. Non capita spesso su una televisione nazionale. Insomma, il rapporto tra tv e mondo dei libri non è detto debba essere solo nella forma della tv che ospita il libro, ma potrebbe avere forme di evoluzione più ardite».
È sostanzialmente d’accordo con il ministro Corrado Augias, pioniere dei libri sul piccolo schermo con Babele : «La tv ha fatto danni in due modi. Oggettivamente perché è un’alternativa alla lettura: più la si guarda meno si ha tempo per leggere; soggettivamente perché non c’è mai nessuno con un libro in mano: nei momenti di attesa, quando si aspetta che si apra una porta per esempio, il protagonista fuma, guarda dalla finestra, accarezza una ragazza. Nelle fiction non c’è mai una libreria o una biblioteca perché non c’è nella testa di chi le scrive». Peppi Nocera, autore di tv popolare (Amici , L’isola dei famosi , Bake off ) e ora anche di un romanzo intitolato La presentatrice morta (Longanesi) dibattuto oggi al Salone, trova quella del ministro «una considerazione ingenua. Mi fa sorridere l’idea di scene in cui i protagonisti debbano avere in mano un libro. Che cos’è? Un product placement , pubblicità occulta? La tv è fatta di riferimenti. Prima di arrivare alle responsabilità del piccolo schermo bisognerebbe partire dalla scuola, dalla famiglia».
Carlo Freccero, che oggi avrebbe dovuto presentare proprio il libro di Nocera («ma non ci sarò perché ho avuto una polmonite a mia insaputa»), è ancora più critico con le esternazioni del ministro: «Franceschini è stato molto televisivo nel dire che la televisione ha fatto molti danni. È un intervento superficiale, demagogico, che dimostra come ormai i codici della comunicazione politica abbiano preso il sopravvento in ogni campo. Forse dovrebbe dire che i politici, anche quelli di sinistra, hanno fatto nomine sbagliate. Invece è come una campagna elettorale: si va al Salone del libro e si dice “votate il libro”. Il ministro dovrebbe fare, invece, un discorso più complesso. La verità è che è finita l’epoca della cultura borghese: la cultura di massa ha vinto. Detto questo, si legge più adesso che nell’Ottocento. Del libro in tv poi si parla fin troppo, basti pensare a tutte le marchette dei talk , dove il 50 per cento degli ospiti ha scritto un libro ed è lì per presentarlo».
Molto meglio, allora, secondo Freccero, «una serie come Gomorra che è appena cominciata e sicuramente può indurre a leggere il libro di Saviano. O certe serie americane, molto più potenti dal punto di vista narrativo della maggior parte dei libri pubblicati in Italia».

il Sole24ore 9.5.14
Un patto tra economia e cultura
Il salone apre sul tema di una spinta particolare alla ripresa (con qualche polemica sulla tv)
di Stefano Salis


La metafora della cultura come petrolio, (finalmente), non piace più. E anche il ministro dei Beni Culturali, Enrico Franceschini, che ieri ha aperto il Salone del Libro di Torino (successo di folla già al primo giorno) e poi è intervenuto ad uno degli appuntamenti più attesi dell'intera manifestazione, l'incontro sul patrimonio culturale italiano, ha deciso di cambiare immagine. «Vogliamo dire che la cultura deve essere il nostro ossigeno e cercare di essere propositivi, non solo disfattisti?». Del resto, che Franceschini consideri il suo ministero un ministero economico e non solo culturale lo aveva dichiarato fin dal suo insediamento, e ieri, nella tavola rotonda moderata dal direttore del Sole 24 Ore, Roberto Napoletano, e animata (anche con qualche punta polemica) dallo storico dell'arte Tomaso Montanari e dall'ex direttore della Scuola Normale di Pisa Salvatore Settis (entrambi, seppur polemici, ascoltati consultenti del ministero), l'intreccio tra economia e cultura è stato il principale filo del discorso.
L'incontro è stato aperto dal direttore editoriale del Salone, Ernesto Ferrero, che ha ricordato come proprio Il Sole 24 Ore sia «un giornale doverosamente attento» alle vicende della cultura e del patrimonio, per poi vedere una rapida successione di interventi, molto vivaci, nei quali Settis e Montanari hanno esposto visioni abbastanza distanti da quelle del ministro, che, dal canto suo, ha cercato di ribattere prima ammonendo di «non accomunare tutti i politici» in un generico discredito (anche se, ha ammesso «non c'è dubbio che c'è una responsabilità collettiva della politica italiana di non aver mai creduto non soltanto nel dovere di tutela ma neanche nelle potenzialità del settore cultura»), e quindi iniziando a disegnare alcune delle strategie che dovrebbero informare il suo mandato alla testa del prestigioso ministero.
Intanto con una rassicurazione sulla sorte delle Sovrintendenze che non saranno soppresse, come qualcuno aveva detto, ma che verranno probabilmente razionalizzate, in omaggio anche alla politica di spending review, e poi con misure più tecniche ma anche più importanti.
Per quanto riguarda i cosiddetti servizi aggiuntivi (oggetto di aspre critiche da parte di Montanari, per essere in mano agli «oligopolisti della cultura che ne traggono profitti per se stessi»), Franceschini ha annunciato che il ministero «si affiderà alla Consip, che è una società pubblica, dello Stato, che varerà un regolamento quadro entro il quale muoversi». «Se mi si dice che queste cose (gestione del bookshop o delle mostre) le debba fare solo stato», ha aggiunto Franceschini, «io non mi rassegno. Penso si debba tornare almeno in un'opzione di scelta, alla gestione dei servizi pubblici aggiuntivi da parte dello Stato, ma farlo ora solo noi non saremmo pronti. Ho bisogno di un tempo, in cui mi affiderò alla Consip, per costruire delle professionalità pubbliche per i servizi aggiuntivi».
Ma è un'altra la novità di sostanza che Franceschini ha previsto, «pur non volendo fare annunci, perché preferisco parlare con i fatti». Siamo alla fase di studio di una norma «che prenda come riferimento il modello francese e che aiuti, con incentivi fiscali seri, coloro che fanno un atto di donazione a tutela del patrimonio». Si tratta di una strada che, a suo tempo, con il «Manifesto della Cultura», questo giornale aveva già additato come percorribile, insieme ad altre misure di collaborazione pubblico-privato che verranno riproposte anche dai prossimi Stati Generali della Cultura. Molto si è discusso della leva fiscale da agevolare per favorire l'intervento dei privati. Lo stesso Salvatore Settis ha sottolineato come in America questo «sistema di detrazione delle donazioni a musei e istituzioni culturali funziona perché crea legame con il museo e rappresenta un oggettivo vantaggio per il contribuente».
Su un altro fronte, il ministro ha invece scatenato qualche polemica. Al taglio del nastro del Salone, infatti, Franceschini si era avventurato a dire che il mondo del libro e della lettura dovrebbe pretendere un «risarcimento da parte della televisione che in questi anni ha fatto un grande danno alla lettura». Un monito che va a tutte le tv, da Rai a Mediaset e Sky, che ora potrebbero rimediare facendo più trasmissioni che presentino libri, facendo pubblicità alla lettura. «I personaggi della fiction italiana – ha detto il ministro – fanno di tutto, ma non ce n'è mai uno che abbia un libro in mano e non c'è mai una libreria inquadrata». Ovviamente non sono mancate da subito le repliche: Raitre «non si sente chiamata in causa – ha dichiarato il direttore di rete Andrea Vianello –: è uno dei nostri scopi precipui parlare della lettura». E Sky definisce le critiche «quanto meno avventate proprio alla vigilia della seconda stagione di Bookshow, trasmissione che Sky Arte HD dedica al mondo dei libri». Il ministro va dritto per la sua strada: «Non ho niente di cui scusarmi, il libro in tv non c'è. C'è qualche trasmissione in orari improbabili». Spesso fatta pure male, tanto per mettere d'accordo tutti.

la Repubblica 9.5.14
Quell’antica polemica tra Tolstoj e Don Matteo
di Curzio Maltese


CAPITA di rado d’essere in accordo con un ministro e dunque leviamo il calice: bravo Franceschini. In un colpo solo ha fatto due scoperte. La prima è che con la cultura si mangia. L’altra è che la televisione italiana «danneggia la
lettura». Anzi, diciamola tutta, la televisione è ormai uno dei più efficaci ed entusiastici fattori di analfabetizzazione degli italiani. Dalla mattina presto a notte fonda, su tutte le reti, pubbliche e private, con una lena degna di migliori cause. Insieme però alla politica, che della televisione in Italia è serva e padrona.
È in atto da anni un complotto ordito da televisione e politica, forse l’unico vero complotto fra le migliaia d’inventati, per abbassare le difese culturali dei cittadini e renderli sempre più carne da spot e slogan. Il ministro dei Beni culturali l’ha finalmente capito.
Ecco, magari i «risarcimenti» proposti da Franceschini non sono tutti augurabili.
Non è detto, per esempio, che aumentare le trasmissione sui libri serva a farli amare. È una polemica dai tempi di Angelo Guglielmi. Fabio Fazio non conduce un programma di libri ma trasforma in bestseller quasi tutto ciò che tocca. Un secolo fa, in termini televisivi, Beniamino Placido, che oltre a criticare la tv la sapeva fare, era capace di riaccendere in una sola serata l’interesse dei giovani per Garibaldi o Carlo Marx.
Non esiste un Pivot italiano e qui funzionerebbe assai di più un programma sui libri di Roberto Benigni, peraltro davvero coltissimo. Non è neppure sicuro che sia utile infilare la lettura in qualche fiction di preti, poliziotti e camorristi. Don Matteo che compulsa Tolstoj, fra un caso e l’altro?
Mah. I tg piuttosto potrebbero parlare anche dell’uscita di libri veri e non solo di quelli di Bruno Vespa.
Comunque, bravo Franceschini, l’idea è quella. Con la cultura fra l’altro, ha ammesso, si mangia. Gli italiani lo sanno da sempre. Per secoli e secoli hanno preservato il più grande patrimonio culturale della terra da guerre, invasioni, terremoti, alluvioni, pestilenze. Tutto per consegnarlo a posteri assai più benestanti che lasciano crollare le mura di Pompei.
Salvatore Settis ha citato al Salone la stupenda costituzione della Repubblica di Siena del 1309, che al primo punto metteva la cura della bellezza cittadina «per l’allegrezza dei forestieri e per il benessere dei senesi». Eravamo più moderni e «globali» sette secoli fa?
Negli ultimi anni i governi hanno tagliato due miliardi di fondi alla cultura. Siamo all’0,1 per cento del Pil, un terzo della Spagna. I posti di lavoro del settore sono scesi a metà della Francia e a un terzo della Germania. La guerra telepolitica contro la cultura (o l’intelligenza?) è stata condotta con armi retoriche suadenti. La riforma Gelmini fu pubblicizzata dalle televisioni come un biscotto del Mulino Bianco: la maestra unica, i grembiulini, i voti d’una volta.
Bene, è servita a licenziare decine di migliaia d’insegnanti, i nuovi capri espiatori di professione, insieme a pensionati e lavoratori a tempo indeterminato. Tutta gente che notoriamente sguazza nell’oro. Con la cultura si mangia, gli italiani l’hanno sempre saputo. Con la televisione invece ormai viene il mal di stomaco, si sa anche questo.

il Fatto 9.5.14
Salone, la banalità del bene
Luoghi comuni triti e ritriti nei discorsi dei politici. Franceschini scopre improvvisamente che la tv ha fatto danni alla cultura e ai libri.
Susanna Tamaro invoca bontà a suon di “essere buoni è difficile”
di Silvia Truzzi


Torino. Vieni, c’è uno famoso”, strilla una ragazzina alla sua amica. Invece no, è solo il giro inaugurale del ministro Dario Franceschini. C’è di bello che, con la frequenza con cui cambiano i governi, è difficile rivedere la stessa persona per due anni di seguito. Invece restano sempre uguali i cordoni di polizia, Carabinieri, security: la solita messa in scena del potere che si autolegittima. Ricorrono i luoghi comuni sul libro “centrale” nella formazione culturale (ma va?), l'importanza della lettura per “costruire il futuro” e altre simili amenità. All’incontro d’apertura, oltre al ministro, c’è anche il sindaco con il dito medio facile e il fisico da Corazziere (copyright Carlo De Benedetti): “La città è orgogliosa perché il Salone è diventato via via uno dei pilastri della cultura internazionale, che diventa al tempo stesso sempre più elemento identitario della città”. Lì accanto il governatore rimasto metaforicamente in mutande improvvisa una riflessione sul libro digitale. Ecco i pensieri di Roberto Cota, o quel che politicamente resta di lui dopo il poco glorioso naufragio della sua giunta: “Vorrei fare un parallelo con le fotografie: adesso sono quasi tutte digitali. Ma che succede se cambiamo computer? O se cambiano i programmi? Perdiamo le foto! Bisogna pensare a un modo per conservare i libri”.
Dopo due ore di saluti, ringraziamenti, reciproci complimenti (col fatto della Santa Sede paese ospite poi, è tutto un ossequio a eminenze reverendissime, monsignori, vescovi e cardinali) finalmente tocca al neo ministro. “La vera sfida è ricreare un elevato numero di lettori. Per questo penso a un festival, magari all’inizio dell’anno scolastico, che invada tutte le scuole, dalle elementari alle superiori”. C’è ancora il tempo, si domanda Franceschini, in quest’epoca multitasking e sempre più veloce (tipo “una riforma al mese”) per una cosa così lenta come la lettura? Alla fine – colpo di scena – punta il dito contro il nemico mortale. “Le televisioni, tutte, devono risarcire il danno fatto alla lettura. Come? Facendo più trasmissioni che presentino libri e facendo pubblicità alla lettura. Nelle fiction Rai i protagonisti fanno di tutto, tranne che leggere”. Applausi e gridolini d’approvazione in sala. Giurano gli organizzatori del Salone che non si erano messi d’accordo con il ministro, ma proprio quest’anno hanno pensato di lanciare una campagna virale che denuncia la scomparsa del libro. Prova ne siano gli strafalcioni in cui incappano le star dei cosiddetti reality sul tema libri. E così tre brevi filmati (si possono vedere anche sul sito www.salonelibro.it  ), proiettati prima degli incontri, illustrano perle tipo “Nel mezzo del mattin di nostra vita” e rocambolesche congetture sul famoso traghettatore infernale, “Oronzio” . La tv ha ucciso i libri: incroyable. Strano tempismo quello di Franceschini, ministro di un governo (il fu Letta) nato dalle larghe intese con il padre della televisione commerciale italiana. Per non dire che la Rai è in mano ai partiti (unico caso al mondo dove una commissione parlamentare vigila sull’informazione e sulla televisione di Stato). Meglio tardi che mai? Il direttore di Rai1, Giancarlo Leone raccoglie l’invito: “Ci sono molte trasmissioni in Rai che promuovono il libro. Ma si può e si deve sempre fare di meglio. Ben venga lo stimolo”. Che la classe dirigente di questo Paese non brilli particolarmente per originalità di pensiero e profondità non lo scopriamo ora (anche se, tra le parole in libertà di questa mattinata, qualcuno si è spinto fino a definire Matteo Renzi “un uomo di libri”). Alla riflessione pensano gli scrittori, gli intellettuali, i professori. O meglio: dovrebbero pensare. Mercoledì sera il Salone si è inaugurato con l'ennesimo forfait: il Papa ha declinato, il premier ha disdetto, il cardinal Ra-vasi si è ammalato. Un'indisposizione problematica, perché a lui era affidata la lectio magistralis inaugurale. Lo ha sostituito la madrina dell'edizione 2014, Susanna Tamaro, con un intervento che avrebbe potuto intitolarsi “La banalità del bene”. O “la banalità fa male”. “Tutto ciò che porta verso la vita è bene, tutto ciò che porta alla morte è male. Il male esiste per spingerci verso il bene. È ora di finirla con la ridicolizzazione del bene. Bisogna parlare con coraggio ai ragazzi del bene, del bello e della verità. Essere buoni non è debolezza, ma per essere buoni occorre essere forti”. E poi via, invettive contro il cinismo, l’individualismo, il narcisismo, l’homo homini lupus (povero Hobbes), l’ambizione. Il guaio non è nemmeno l’inno buonista in sè. Il male è lo spaventoso impoverimento intellettuale, di cui si deve prendere atto persino durante la cerimonia inaugurale di un Salone come quello di Torino. Di questo passo la madrina dell’anno prossimo potrebbe Benedetta Parodi. Il “cibo è un atto d’amore”, no?

Corsera 9.5.14
Nel labirinto, per cercare una via d’uscita verso Dio
di Gian Guido Vecchi


TORINO - «Vede, parlando del Papa c’è sempre il pericolo dell’acculturazione. Vengono così enfatizzati i tratti morali, culturali eccetera, che si rischia di perdere la dimensione essenziale, mistico-religiosa...». A pochi passi dal Cupolone vaticano colmo di libri su e di Bergoglio, Massimo Cacciari è arrivato al Salone per presentare Labirinto filosofico (Adelphi), quasi una summa del suo pensiero.
Il tema è affine. Il labirinto filosofico non è un intrico confuso, scrive, né ha un centro come punto di arrivo. «Centro» è piuttosto l’inizio di ogni interrogazione e il labirinto è una rete «polidimensionale» nella quale ogni punto è il centro, «come nel multiverso di Giordano Bruno». Le vie che lo costituiscono sono «palintrope», spesso per avanzare tornano sui propri passi. Tutte, da Eraclito a Wittgenstein, sono contemporanee. E ciascun cammino, nel labirinto comune, «soffocherebbe» se non trovasse la propria uscita - non ne esiste una sola - verso «l’Aperto». È una riflessione vertiginosa che ritorna all’essenziale del fare filosofia, il senso dell’essente, la cosa in sé, lo thauma aristotelico di fronte al mondo che è insieme meraviglia e sgomento e insomma il mégiston máthema di Platone nel sesto libro della Repubblica , «l’oggetto della conoscenza più alta» senza la quale ogni altra è inutile: l’Agathon , quel Bene che si può tradurre anche come Eccedente, suggerisce Cacciari. La proposizione 7 del Tractatus di Wittgenstein, «Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere», viene rovesciata: «Di ciò di cui non si può tacere, si deve dire», scandisce. Perché «la filosofia non si esaurisce con il logos apofantico», la parola assertiva. «Non può farlo. Oltre il discorso, il percorso, vi è il fine e il senso del cammino, l’Agathon , che non è dicibile. Ma nel discorso lo puoi mostrare, indicare, ne devi far segno».
L’Agathon è anche Dio? «Si può assumere benissimo una dimensione teologica, trascendente, ma non necessariamente. Questo è il punto. Io non dico: oltre il discorso c’è il mistico che è dominio del religioso. No! Io dico: la filosofia deve indicarlo». Francesco dice che «l’aura mistica non definisce mai i suoi bordi» ed elogia il «pensiero incompleto, aperto». La verità ci precede. Però c’è una differenza fondamentale, spiega il filosofo: «Lì parti da una Rivelazione che non è solo la domanda ma è già insieme la risposta, a meno di cessare di dirsi cristiano. Certo c’è la via, ciò che dice Francesco, il mistico come ultima dimensione della testimonianza cristiana, l’inafferrabilità dell’essenza divina. La verità devi sempre cercarla. Però sei assolutamente guidato da Chi afferma di sé, e tu lo credi, di essere la via, ma anche la verità e la vita».
Si può comporre, questa differenza? «È bello e importante che si dialoghi. Ma no, non si può. O meglio, si potrà comporre solo escatologicamente, se e quando tutti vedremo faccia a faccia il Signore. Chi sente in sé quella voce, con certezza e speranza insieme, non ce l’ha per suo merito o perché l’abbia cercata discorsivamente, ma per Grazia».

Corsera 9.5.14
Esce da Cantagalli l’intervista di Alver Meetalli al pensatore uruguayano Alberto Metho Ferré
La rivoluzione permanente non è quella del marxismo ma il messaggio del Vangelo
Bergoglio segna l’avanzata di Cristo in Sudamerica
di Giovanni Reale


Si è spesso fatto riferimento alla preparazione teologica e filosofica di papa Francesco, ma ben poche volte si è parlato dei filosofi a lui più vicini. Finalmente abbiamo ora a disposizione una intervista assai significativa fatta dal giornalista Alver Metalli al filosofo uruguayano Alberto Methol Ferré (1929-2009) con il titolo Il papa e il filosofo (Edizioni Cantagalli), che rivela significative tangenze dottrinali fra i due personaggi, e la verità della sua affermazione che questo filosofo «ci ha aiutati a pensare».
Methol Ferré è profondamente convinto della necessità che si realizzi l’integrazione dei vari Stati dell’America del Sud, in modo analogo a quanto è avvenuto nell’America del Nord. Però ritiene che il progetto di unificazione possa realizzarsi solo mediante la collaborazione costruttiva di due partner di peso equivalente, ossia dell’Argentina e del Brasile. Tuttavia, occorrerà parecchio tempo perché questo progetto si realizzi (basta pensare alle difficoltà che incontra l’Europa per unificarsi, malgrado i presupposti assai più saldi che stanno alla base). Comunque, il filosofo afferma che, se l’America Latina non diventerà uno Stato-continente, «finirà, in un mondo globale ai margini della storia, dove ci si può esprimere solo in termini di lamento, furia o silenzio».
Invece si è verificato, addirittura prima del tempo, quello che Methol Ferré prevedeva, ossia il peso determinante che le Chiese periferiche, e in particolare la Chiesa dell’America Latina, avrebbero assunto sulla Chiesa centrale di Roma. Da «Chiesa riflesso», la Chiesa dell’America Latina è diventata, infatti, «Chiesa fonte», con l’argentino Jorge Mario Bergoglio sul soglio pontificio.
Qual è l’idea di fondo della Chiesa dell’America Latina che papa Francesco ha fatto propria? Credo che sia proprio quella proclamata dalla teologia della liberazione, sciolta dalle sue «dipendenze dalla logica marxistica». Methol Ferré scrive: «Questa teologia ha prestato un inestimabile servizio ripensando la politica in funzione del bene comune, e quindi in relazione stretta con l’opzione preferenziale per i poveri e la giustizia», e quindi la necessità di «assumere la posizione dei poveri con coraggio». E precisa: «Il totalitarismo è la documentazione della menzogna del marxismo nella storia, mentre la sete di giustizia è l’elemento veritativo del marxismo nelle condizioni della società industriale». Alle obiezioni che qualcuno gli ha fatto per tale scelta, papa Francesco ha già risposto, e molto bene: questa idea non è marxista, perché è stata presentata per la prima volta due millenni fa, da Cristo.
Methol Ferré interpreta in modo esemplare l’esortazione evangelica di amare il nemico. Bisogna cercare di conoscere a fondo il nemico, per farlo amico e salvarlo: «Abbiamo bisogno di renderlo amico, trovando l’amico dove c’è il nemico, sapendo che il nemico ce l’abbiamo in noi stessi». Bisogna «riconoscere il volto di Gesù Cristo nei propri nemici, anche là dove essi non ne vogliono sapere».
La Chiesa, proprio per evangelizzare il mondo, deve sempre cercare di conoscere il nemico che ha di fronte in tutte le sue caratteristiche, altrimenti non lo può evangelizzare, perché le risulterebbe amorfo.
Quali sono i nemici della Chiesa?
Nel secolo scorso è stato il marxismo, che si è presentato come «Chiesa dell’ateismo messianico», che, incarnatosi in uno Stato-continente con un potere di ampiezza mondiale, ha commesso i crimini che ben conosciamo, e si è autodistrutto e autoseppellito. Questa è stata, dice il nostro filosofo, «la verifica, per la Chiesa, dell’incapacità dell’ateismo messianico di sostituirla. La Chiesa dimostrava a se stessa che, “vecchia” com’era, continuava a essere più giovane e longeva di un pretendente che si credeva giovane e immortale e che invece è morto».
Il marxismo, però, si poteva facilmente conoscere, in quanto presentava espressamente se stesso come «ateismo messianico», invece il nemico di oggi della Chiesa è molto più complesso: «Infatti l’ateismo ha cambiato radicalmente di figura. Non è messianico ma libertino, non è rivoluzionario in senso sociale, ma complice dello status quo , non ha interesse per la giustizia, ma per tutto ciò che permette di coltivare un edonismo radicale». E questo è «un nichilismo di consumatori».
Inoltre, Methol Ferré fa comprendere molto bene la fatica che implica l’evangelizzazione di molti dei giovani di oggi. Non sopportano più il sacrificio che amicizia e amore comportano, detestano la fatica del lavoro, e non accettano la dura prova che implica, ossia la necessità di uscire da se stessi, dedicandosi a ciò che si sta facendo, gradito o sgradito che sia: «Si ha orrore della fatica, del sacrificio, del peso della realtà, dei rischi inerenti al futuro. Infatti nell’ateismo libertino “l’altro” è eminentemente strumentale. Per questo è distruttivo di una società, e attenta contro lo sviluppo di un popolo: smantella le basi di un rapporto e di un lavoro umano». Ricorda ancora i danni che producono gli «imperialismi» del denaro e del mercato, dai quali è assi difficile potersi difendere. Per evitare le conseguenze devastanti che ne derivano, è una impresa assai ardua far comprendere a tutti che al disopra del denaro e del mercato c’è «il bene comune» e che, pur non ripudiando il denaro e il mercato, ci si deve impegnare a difenderlo nella giusta misura.
Il nostro filosofo, però, è ben lontano dall’essere pessimista. Tutte le rivoluzioni che fino ad ora l’uomo ha tentato di fare sono fallite. Per lo più sono diventate forme di utopismi autodistruttivi, che hanno annullato i valori che difendevano. Dopo aver constatato il non-senso dell’ateismo messianico marxista, attestato dalla sua stessa autodistruzione, Methol Ferré precisa quanto segue: «L’unica rivoluzione reale possibile mi appariva più che mai quella di Gesù Cristo nella storia; la Chiesa, anzi, poteva finalmente riappropriarsi della parola rivoluzione riferendola a Gesù Cristo». E in un’altra sua opera scriveva: «Cristo è l’unica rivoluzione permanente della storia; il Vangelo la rivoluzione insuperabile, la misura di tutte le rivoluzioni possibili». Il rivoluzionario messaggio di Cristo ha avuto e avrà nella storia gran quantità di nemici, che hanno potuto e potranno causargli mali di ogni genere, ma non potranno mai vincerlo. Cristo stesso ha detto: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

Corsera 9.5.14
Anche la fede è racconto epico La lezione chiave di Jacomuzzi
In un romanzo da riscoprire un tema molto caro a Francesco
di Claudio Magris


Nell’intervista alla «Civiltà Cattolica» raccolta da padre Spadaro e commentata da un affilato saggio di Alessandro Zaccuri, papa Francesco celebra la «forma narrativa», affermando che «solamente nella narrazione si può fare discernimento, non nella esplicazione filosofica o teologica, nelle quali invece si può discutere». Se il Cristianesimo è incarnazione, esso è vita, verità che si cala nella vita, e per capire quest’ultima non basta discuterne, teorizzare o definire, ma occorre raccontarla. Per questo Gesù o Buddha narrano parabole, storie di persone, di animali, di cose, di eventi e accidenti quotidiani in cui può rivelarsi il significato di un’esistenza. Anche un Papa, probabilmente, deve cercare la verità della sua vita nella storia della sua vita, delle persone con cui essa si è incrociata, delle cose che ha saputo o non ha saputo capire, accogliere, amare.
Così accade in uno splendido, essenziale romanzo di Stefano Jacomuzzi uscito ventun anni fa, che certo piacerebbe a papa Francesco e che meriterebbe - per la sua tematica oltre che per il suo valore - di essere un centro focale del Salone del Libro di Torino di quest’ anno, Le storie dell’ultimo giorno (Garzanti). Il libro racconta l’agonia e la morte di papa Marcello, che nel Cinquecento fu Pontefice per venti giorni; racconta la sua esistenza, storica e personale, che si affolla a brandelli e a grumi di tempo, appassionata ma nitida, nella sua coscienza che si spegne, conservando tuttavia sino all’ultimo un’attenzione intensa, concreta, sensuale ai volti, ai sentimenti, agli errori, ai colori, al senso del vivere.
In quei venti giorni di pontificato e nell’agonia in cui sfociano si riassumono, narrate genialmente, un’esistenza individuale e un’epoca grandiosa e selvaggia di rivolgimenti - la Riforma luterana, la vitalità creativa e violenta del Rinascimento, le contraddizioni della Chiesa fra santità, basse libidini di potere, miseri intrighi e quella difficilissima, pericolosa e potenzialmente corruttrice ma anche necessaria arte di destreggiarsi nella grande politica e nelle sabbie mobili mondane. Necessaria perché, se la Storia è o deve essere Storia della salvezza, ciò esige, come sta scritto, sia la semplicità della colomba sia l’astuzia del serpente. Ciò forse pure esige, nonostante l’opposta esortazione di Cristo, che la Chiesa sia non solo nel mondo, ma anche, seppure solo in parte, del mondo.
Nel romanzo ci sono pagine straordinarie - il rogo per eresia di un amico di papa Marcello, il diario di un conclave (la più forte rappresentazione letteraria in senso assoluto di questo tema), devastanti scenari di guerre religiose e mondane, accennate vicende d’amore, un’indimenticabile scoperta del mare. È un romanzo che fa capire come «cattolico» possa davvero significare «universale» e come la fede sia l’epica accettazione della totalità. Il sacro non riguarda soltanto le cose ultime, le verità eterne o considerate tali, bensì pure il caduco e l’effimero delle vite umane in cui esse si incarnano e diventano vive. Storie terrene, umili come la terra, humus - un concetto che Jacomuzzi ripeteva spesso - luogo e sostanza dell’uomo.
Le certezze della fede sono assolute, ma non bastano a sciogliere sino in fondo il mistero di quell’esistenza quotidiana e fugace che papa Marcello sta perdendo. Forse, come pensa egli stesso, siamo impazienti di capire, ma l’impazienza è pure frutto della giornata troppo breve che il Signore ha assegnato all’uomo. Il Papa, nelle sue ultime ore, non pensa tanto alle cose eterne in cui pure crede fermamente, quanto alle esistenze terrene che gli sono passate accanto e che egli forse non ha compreso nel loro più autentico significato; il suo viatico, la sua preghiera sono queste storie altrui che egli ripercorre e rivive, con una memoria e una fantasia che si identificano con la carità.
Nelle Storie dell’ultimo giorno vi è quasi un’analogia alla rovescia: non sono le immagini della terra a rimandare a una più alta realtà divina, ma è questa che rinvia alle sue incarnazioni nell’aldiquà. La preghiera estrema di papa Marcello è anche «ascoltare storie quasi del tutto sconosciute della vita che ci è passata accanto… è il modo più lieto di salutarla», ritrovando e lasciando scorrere la sua musica nascosta, come accadeva nel romanzo precedente di Jacomuzzi, Un velo sottile , autentico piccolo capolavoro. Pochi libri dimostrano altrettanto che, come ha detto papa Francesco, «soltanto nella narrazione si può fare discernimento».

il Fatto 9.5.14
La rivista anni 80
Pezzana, Sodoma è tornata al Lingotto
di Antonio Armano


Proprio quando il Vaticano è Paese ospite al Salone del Libro, Angelo Pezzana, ideatore della Buchmesse torinese, va in controtendenza con la rievocazione della rivista Sodoma (oggi alle 18 allo Spazio incontri). Filo israeliano, pioniere della militanza omosessuale in Italia – è tra i fondatori del Fuori – si può pensare a qualcuno più fuori binario col train de vie del Salone? “Gesù era ebreo” dice Pezzana. La nota barzelletta insinua anche gay. “Sì: trent’anni, vive con la madre, ha solo amici maschi. Ma io non la direi mai, rappresenta una mancanza di rispetto per chi crede. Poi sono cose che non possiamo sapere e non ci interessano”.
L’evento su Sodoma è in polemica col Salone? “No. Il Salone è sempre stato un luogo libero, ha dato spazio a tutti, anche a voci rivoltanti, mi auguro continui così. L’anno prossimo scade il mandato di Picchioni e Ferrero, spero vengano riconfermati”. Non è necessario un cambiamento, un ricambio generazionale? “Uno può essere giovane a 80 anni e vecchio a 20”. Come le è venuta l’idea del Salone? “Da libraio frequentavo le fiere del libro che c'erano in tutt’Europa tranne che in Italia. Ho trovato appoggio in Guido Accornero, che aveva appena comprato il 33 per cento dell’Einaudi, e così è nato il Salone. Tutti dicevano: in Italia non si legge, sarà un fiasco”. È ancora nella proprietà della libreria Luxemburg (in piazza Carignano a Torino, ndr)? “No, ci vado ogni mattina, abito tre piani sopra, ma faccio un altro lavoro. Lavoro per il sito informazionecor  retta.com  , che tratta temi come Israele, il medio riente...”.
ORA IL VATICANO cambia rotta e papa Francesco dice sui gay: chi sono io per giudicare? “La rievocazione della rivista Sodoma, uscita negli Anni 80, con testi di scrittori come Tondelli, Busi, Edmund White, la prima a fare cultura in un campo dove la militanza era solo politica, non avviene casualmente nell’anno del Vaticano Paese ospite. L’Italia è il fanalino di coda in Europa sui diritti degli omosessuali per l’influenza della Chiesa. Bergoglio è più furbo di Ratzinger ma la sostanza non cambia”. Colpa del Vaticano se siamo in questa situazione? “Dettano le leggi, mettono paletti robusti. Anche la Spagna era cattolicissima ma si sono evoluti. Qui non ci ammazzano come in Uganda ma non abbiamo nessun diritto”. La sinistra non ha responsabilità? “È meno volgare e ignorante della destra ma anche più ipocrita. Prodi ha governato quanto Berlusconi”.
Gli omosessuali possono essere anche esclusi dal letto di morte del partner... “E basta con questa storia! L’amore gay è gioia. Vogliamo il viaggio di nozze, la festa di fidanzamento, le pubblicità con le coppie gay”. Quanto ha contribuito la cultura alla causa gay? “Gli scrittori americani dicono: I am a gay writer. Quelli italiani rifuggono l’etichetta. Scrivono d’altro, come Palazzeschi, o in prospettiva postuma, come Saba, vedi Ernesto. Coccioli se n’è dovuto andare in Messico”. E Pasolini? “Era contro qualunque movimento di liberazione e il progresso, nostalgico della società rurale, amava i giovani contadini. Si è suicidato. Non si va a battere con la Giulietta, se frequenti l’ambiente criminale. Io non credo al complotto. Ha scritto apertamente di omosessualità, ma non è espressione del movimento di liberazione”.