sabato 10 maggio 2014

la Repubblica 10.5.14
“Abbiamo vinto il cancro siamo diventate mamme e ora aiutiamo la ricerca”
Domani nelle piazze italiane le azalee dell’Airc in nome della solidarietà


ROMA. «Si può. Vincere il cancro, diventare madri dopo la chemio, ricominciare a vivere grazie alla ricerca». Lo dicono sorridendo, con l’aria un po’ stropicciata di chi non si risparmia tra lavoro e famiglia dopo aver attraversato la paura. Valentina, Barbara, Sara, Patrizia, sono solo alcune delle tante donne che hanno deciso di fare da testimonial all’Airc. L’associazione italiana che da 30 anni lavora nella ricerca sul cancro e che domani in 3600 piazze metterà in vendita 600 mila azalee per sovvenzionare gli studi (tel 840001001 per sapere dove). «Le nostre storie testimoniano che grazie alla ricerca tanto è cambiato per chi si ammala. Noi siamo qui per dare speranza a chi è ancora in mezzo alla battaglia contro il tumore. A chiedere aiuto perché siano sempre meno quelle che non ce la fanno. Sul cancro c’è ancora tanto da scoprire e la ricerca costa». Valentina Robino, avvocato e Sara Caldarola, biologa molecolare, hanno storie simili. Trentenni, si sono scoperte un cancro al seno e la vita si è capovolta. Esami, lo spettro della chemio, operazioni, ma soprattutto l’incubo di non potere avere più bambini. «Nonostante l’asportazione di mezzo seno, la nausea e le notti insonni, durante la cura avevo un chiodo fisso: potrò avere un figlio? Cercavo in rete informazioni ma era sette anni fa, e c’era poco. Ecco, sarei stata felice di sapere che c’era qualcuna che aveva attraversato il mio inferno e che stringeva una bambina bella come la mia Agnese», dice Sara. Non importa che siano casalinghe o ricercatrici, attraversare la malattia cambia, racconta Maria Vittoria Bertolani, guarita da un tumore al colon: «Io ero una perfezionista che non si concedeva cedimenti, mai lamentarsi era la regola. I medici mi hanno insegnato che si aumentano le difese immunitarie pensando a se stessi, con la risata e nuovi interessi: con mio marito ci siamo messi a ballare il liscio».

il Fatto 10.5.14
Le vittime dei preti “Papa, pensaci tu”
Video-appello di decine di abusati. No comment della Santa Sede. I reati ormai caduti in prescrizione
884 religiosi allontanati
Il repulisti papale Negli ultimi 10 anni espulsi per casi del passato
di S. Ci.


Uno-due mediatico contro gli abusi del Vaticano. La settimana iniziata con l’audizione del team della Santa Sede davanti alla commissione sulla tortura dell’Onu a Ginevra, si chiude con l’appello video delle vittime dei preti pedofili direttamente al Papa.
Ci hanno messo la faccia, il nome e l’accusa nei confronti di chi li ha abusati: sono giovani, anziani, disabili, italiani e non, protagonisti del video di circa 8 minuti che l’associazione Rete l’Abuso ha annunciato di aver inviato a Papa Francesco: un video con un appello diretto delle vittime di abusi del clero italiano per chiedere “giustizia” direttamente a Bergoglio.
L’iniziativa è stata accolta con un no comment da parte del Vaticano, che interpellato in merito, non ha rilasciato dichiarazioni ufficiali. Secondo l’associazione il video è stato inviato ieri mattina tramite posta certificata Pec al Sostituto della segreteria di Stato, monsignor Angelo Becciu e c’è la conferma dell’avvenuta ricezione.
NEL VIDEO PARLANO decine di uomini e donne che quando erano minori hanno subito gli abusi sessuali, poi emersi negli ultimi anni: “Noi voliamo solo giustizia, Papa Francesco non è giusto”, dice a esempio Enzo, 38 anni, da Napoli, l’unico che si è fatto riprendere solo in parte. Fra loro anche il portavoce dell’associazione, Francesco Zanardi, che da anni porta avanti la sua battaglia personale contro la pedofilia nella Chiesa.
In particolare, sono presenti le testimonianze di 8 sordomuti del Provolo di Verona, che proprio nei giorni scorsi hanno fatto una conferenza stampa a Roma per denunciare di aver subito violenza per anni, reati ormai caduti in prescrizione per la legge italiana e che per questo non sono mai stati risarciti.
La Rete l’Abuso non è nuova a denunce di pedofilia del clero: già a marzo 2013 aveva lanciato una petizione on-line dal titolo “Chiediamo al nuovo Papa misure concrete, subito”, inserendo tra le priorità “la sicurezza dei bambini”. E a febbraio di quest’anno ha chiesto al Vaticano di aprire gli archivi diocesani e vaticani dei preti responsabili di abusi sessuali e di consegnare gli elenchi alla magistratura.
Sul proprio sito, la Rete ha pubblicato una sezione dove è possibile trovare l’elenco dei preti giudicati colpevoli in via definitiva regione per regione. “La lista - spiegano i promotori - contiene i nomi di 148 sacerdoti condannati dal 2000 a oggi. Riteniamo che sia utile per tutti i genitori che vogliono proteggere i loro figli da questi sacerdoti. Ma riteniamo che non sia sufficiente”.

la Repubblica 10.5.14
Tra euroscettici e populisti la missione della sinistra che può vincere
di Bernardo Valli


PARIGI. ALLE origini fu un nome della mitologia, quello della principessa fenicia rapita e deposta sulla spiaggia di Creta da un toro bianco che era Zeus. Adesso per molti suoi cittadini sulla parola Europa c’è una fredda, indecifrabile impronta. Evoca valori concreti ma inafferrabili. Zattere sull’oceano economico e finanziario. In particolare una moneta non sempre amica, dietro la quale si annidano i tanti demoni del mercato: le banche, le società finanziarie, gli speculatori. Una moneta sganciata dai governi nazionali succubi del Grande fratello di Bruxelles di cui si diffida, anche perché lo si pensa tedesco. È un peccato, alla nostra Europa manca un po’ di quel “mito” moderno che è la politica.
Le elezioni europee sono di solito noiose, non esercitano il richiamo di quelle nazionali, né sembrano riguardare problemi vicini come quelle locali.
IL VOTO del 25 maggio si differenzia tuttavia dai precedenti perché è destinato a rafforzare le prerogative del Parlamento, e quindi a infondere più politica nell’Unione. E la politica è la linfa indispensabile per darle l’energia di cui manca. Sull’Europa pesa l’errata immagine di un’impresa dedita esclusivamente all’economia, come se quella economica fosse un’attività del tutto indipendente dalla politica. In una situazione di crisi questa visione strabica induce a concentrare sull’Europa gran parte dell’insoddisfazione, della collera risentite dalle società, in particolare quelle sottoposte a cure austere, volute da un’autorità sovranazionale vista come una matrigna crudele e senza volto. Sto tratteggiando un panorama mentale da psicanalisi. Meglio ancorarlo alla storia.
Il voto coincide questa volta con il centesimo anniversario della Grande guerra iniziata nel 1914. La ricorrenza obbliga a evocare la fine della vecchia Europa, sepolta da quel conflitto sotto una montagna di cadaveri. Fu per certi aspetti il funerale di un glorioso e rissoso continente, perché le nazioni che lo componevano furono via via declassate. La decadenza della sua potenza politica e militare è continuata per tutto il secolo, con le rivoluzioni, le dittature, i conflitti, i genocidi derivati dal 1914. Le nazioni europee sono state ridimensionate, hanno ceduto il passo agli Stati Uniti d’America, la sola nazione uscita vittoriosa dal ‘900. Tuttavia l’Europa degradata ha avuto una sua rivincita con la comunità in cui regna pace dalla sua fondazione e dove, nonostante le crisi e i costosi ampliamenti, si è affermato un progresso sociale ed economico mai raggiunto dagli Stati-nazione. Dei quali ci sono ancora tanti nostalgici. Il loro progetto è di erigere di nuovo i confini nazionali, per farne delle barricate contro i mostri della mondializzazione.
Uno dei più autorevoli e rispettabili nostalgici è Jean-Pierre Chevènement, ex ministro socialista e patriota di sinistra. Chevènement considera un errore gravissimo della Francia l’avere accettato «la dissoluzione della sua sovranità in un magma di impotenze coniugate». Per lui l’Unione europea non è la sola in grado di colmare la debolezza delle singole nazioni ma un vasto protettorato americano. Gli argomenti da contrapporgli, benché validi, possono risultare fastidiosi. Un’insistente retorica ha infatti logorato il discorso europeista. Il passaggio dalla memoria alla storia disperde inoltre i ricordi, senza i quali si smarrisce la capacità di mettere a confronto vecchie e nuove realtà.
Gli umori non sono gli stessi nella comunità dei ventotto Stati. Un paese emerso un quarto di secolo fa dal comunismo reale come la Polonia ha appena festeggiato il decimo anniversario dell’adesione all’Ue. La celebrazione è stata trionfale: il reddito procapite è passato negli ultimi nove anni da 5.900 a 8.600 euro. Le istituzioni europee hanno consentito alla società polacca di crescere più delle altre. A Varsavia si dice che «l’Europa ha fatto uscire il paese dall’ombra». L’Ucraina, secondo paese del continente per la grandezza del territorio, è sull’orlo della guerra civile per la contesa tra chi vuole entrare nell’Ue e chi preferisce la Russia. Invece a Londra, capitale di una antica e nobile nazione, il primo ministro conservatore promette per il futuro un referendum sulla permanenza nell’Ue del Regno Unito. Ed è significativo che i laburisti non abbiano neppure invitato a partecipare alla campagna elettorale il candidato della sinistra europea, Martin Schulz. In un’altra antica e nobile nazione, la Francia, il Front National, campione di antieuropeismo, potrebbe uscire dalle urne come il partito più forte. Un primato provvisorio, che non dovrebbe estendersi alle consultazioni nazionali.
L’Europa d’oggi è anemica. I suoi globuli rossi sono i consensi dei cittadini. E tra di loro cresce lo scetticismo. Non è un rifiuto netto, piuttosto un sentimento in cui si alternano indifferenza, sfiducia, rancore. L’Europa è un capro espiatorio. Una volta si preferiva dire «governo ladro». Stando a uno studio recente, più approfondito dei numerosi, inflazionati sondaggi che sembrano avere il compito di deprimerci, il sostegno di fondo all’integrazione europea è restato abbastanza alto e stabile durante tutta la crisi. Secondo le conclusioni di Sara B. Hobolt, della London School of Economics and Political Science, l’Ue non suscita entusiasmo, tutt’altro, ma le soluzioni alternative non ispirano fiducia. Di riflesso maggioranze sia pure non traboccanti preferiscono quindi un’integrazione rafforzata all’avvenire incerto dei governi messi individualmente davanti alle difficoltà economiche e politiche.
Questo non significa che le spinte verso un’uscita dall’euro, o addirittura dall’Unione, non si siano intensificate e non favoriscano l’elezione di un Parlamento con all’interno una forte opposizione (il 30 per cento stando ai sondaggi) alla sua stessa sopravvivenza. Se lo scetticismo è in aumento non lo è al punto da mettere in serio pericolo le istituzioni. Un consistente numero di deputati eurofobi costituisce una minaccia relativa trattandosi di una forza frantumata in tanti movimenti non sempre alleati.
L’appuntamento del 25 maggio dovrebbe essere un momento intenso della democrazia europea ma è dominato dai problemi nazionali e quindi non accende un adeguato interesse. L’astensione si annuncia alta. I media lo trattano come un test cui sono sottoposte le società politiche dei diversi paesi. Un test senza una conseguenza immediata sul piano nazionale e poco convincente perché il voto con la proporzionale favorisce i piccoli partiti, in particolare quelli protestatari, che sono i più ascoltati. Singolare, indicativo è l’atteggiamento del Front National di Marine Le Pen e del Movimento Cinque stelle di Beppe Grillo. Entrambi si propongono di chiedere lo scioglimento dei rispettivi parlamenti nazionali nel caso di un loro netto successo alle europee, come se quest’ultime riguardassero direttamente i governi di Parigi e di Roma, e il Parlamento di Strasburgo fosse soltanto un fastidioso e secondario obiettivo del voto.
Durante la crisi si è visto quanto abbia contato il colore politico della Commissione e del Parlamento. Le prossime elezioni accentueranno questo aspetto al quale non si è prestata finora la dovuta attenzione, avendo prevalso la generica accusa di «tecnocrazia» rivolta all’Ue, quasi fosse politicamente asessuata. O come se le decisioni di Bruxelles fossero in realtà dettate da Berlino. Il 25 maggio gli europei potranno scegliere il futuro presidente dell’esecutivo comunitario, poiché egli sarà eletto poi dal Parlamento come in una vera democrazia. Il successore del portoghese José Manuel Barroso, un conservatore, potrebbe essere il tedesco Martin Schulz, un socialdemocratico. In tal caso, da non escludere, il clima politico cambierebbe a Bruxelles. Anche perché il nuovo presidente di sinistra avrebbe alle spalle il Parlamento che lo ha eletto, e del cui voto i ventotto capi di Stato o di governo dovranno «tener conto».
La politica, quindi la democrazia, compie un passo avanti nelle istituzioni europee. L’offerta è ampia. Se Martin Schulz è il campione della sinistra riformista, quello dei conservatori è il lussemburghese Jean-Claude Juncker; quello dei liberali è il belga Guy Verhofstadt; quello di una sinistra più radicale il greco Alexis Tsipras; mentre i verdi mettono in campo il francese José Bové e la tedesca Ska Keller. Gli eurofobi e l’estrema destra non hanno designato candidati alla presidenza. Loro hanno come obiettivo di boicottare l’Unione europea.
Conservatori e liberali prevalgono dal 1999 nella Commissione e in Parlamento. Sui ventotto membri dell’esecutivo soltanto quattro sono socialisti, perché questo era il rapporto di forza nel Consiglio europeo del 2009 quando i capi di Stato e di governo designavano in gran segreto il presidente della Commissione. Il tedesco Martin Schulz non è il candidato di Angela Merkel. La cancelliera cristiano-democratica non lo sostiene. E lui, socialdemocratico ottimista, vede un movimento di fondo in favore della sinistra, e una tendenza al ribasso dei partiti popolari (centrodestra) che hanno dominato nell’ultimo decennio. Se il pronostico di Schulz si rivelerà esatto, e lui conquisterà la presidenza della Commissione, il patto di stabilità e di crescita continuerà ad essere applicato, ma si punterà con maggior decisione sulla crescita.

Corsera 10.5.14
Commissari Ue, D’Alema in bilico. Ci sono altri nomi

Restano le distanze con Letta che nel recente incontro con il premier avrebbe negato la sua disponibilità
di Marco Galluzzo


FIRENZE — «Vi presento il prossimo presidente della Commissione europea». Quando Martin Schultz fa il suo ingresso al ristorante Latini, all’ora di pranzo, Renzi ha appeno finito di posare per dei selfie ed accoglie ad alta voce il candidato dei socialisti europei alla carica più alta dell’Unione. È una battuta, ovviamente, ma anche un pronostico. Non per nulla, poco dopo, nella cantina del ristorante, sei posti in tutto lontani da occhi indiscreti, il capo del governo non fa mistero di puntare ad essere il leader europeo con il numero più alto di rappresentanti nel futuro gruppo parlamentare socialista.
Fra un pronostico e un’ambizione ci sono ovviamente, e non è un dettaglio, le elezioni del prossimo 25 maggio: equilibri e contrappesi fra socialisti, popolari e liberali potrebbero essere in qualche modo imprevedibili. Nessuno sa di preciso quanti euroscettici siederanno nel prossimo Parlamento europeo, quanto saranno necessarie logiche di grande coalizione nella formazione della futura Commissione. Eppure di queste cose si deve discutere subito e Renzi lo fa prima con Barroso e poi con lo stesso Schultz: ovvio che si parli anche del candidato italiano alla Commissione e qui affiora qualche novità.
L’occasione degli incontri è la tradizionale giornata dedicata allo Stato dell’Unione, a Palazzo Vecchio, evento ai massimi livelli di dibattito (c’è anche Napolitano) sul futuro della costruzione europea. Quale sarà il nome che Renzi avanzerà per un posto nella Commissione, dopo le elezioni, potrebbe essere un dettaglio marginale, ma non è così. È una curiosità che serpeggia fra gli addetti ai lavori, i diplomatici, gli staff che sono arrivati da Bruxelles. Proprio per questo, quanto una fonte che partecipa agli incontri riassume il clima dicendo che alla fine potrebbe esserci una sorpresa, una persona «out of the box», fuori dagli schemi, al clima di incertezza si aggiunge in qualche modo una notizia.
L’ex premier Massimo D’Alema, o l’altro ex Enrico Letta, sono entrambi nomi di cui finora si è scritto e dibattuto, in modi diversi. Lo schema attuale, invece, sembra non li preveda più. Sembra, perché chiedere allo staff di Renzi è al momento prematuro quanto inutile. Nel Pd, fonti vicine al presidente del Consiglio, confermano l’indiscrezione che arriva da Firenze: nessuno dei due ex premier sarebbe in cima alla lista del presidente del Consiglio. Per la verità, nel caso di Letta, anche se in modo ufficioso, c’è stato sempre un netto rifiuto ad essere considerato un candidato: in ballo potrebbero esserci la delega all’Agricoltura, o alla Concorrenza, persino la poltrona della signora Ashton, dunque la (debole) politica estera della Ue, ma in tutti i casi l’ultimo presidente del Consiglio si è sempre tirato fuori, con più di un disagio personale.
Anche in modo diretto con Renzi, nell’ultimo incontro dei due a Palazzo Chigi, qualche settimana fa. Sembra che uno che dei motivi del faccia a faccia, tenuto riservato per alcuni giorni, sia stato proprio la candidatura italiana alla Commissione della Ue: il premier avrebbe avanzato una disponibilità a proporre il suo predecessore, Letta avrebbe rifiutato in modo netto. «Non si è ricostruito alcun tipo di fiducia, è emersa la sensazione che Renzi volesse acquisire una disponibilità per poi rottamare entrambi, sia Letta sia D’Alema», dicono sempre nel partito democratico.
«Per le nomine delle istituzioni comunitarie dobbiamo avere una visione non burocratica», ha detto ieri Renzi, nel suo discorso a Palazzo Vecchio, aggiungendo che nel semestre di presidenza italiana della Ue Roma punterà ad introdurre dei meccanismi di premialità per gli Stati che fanno più riforme strutturali. Nel frattempo nel Pd qualcuno fa il nome di Gianni Pittella, oggi vicepresidente vicario del parlamento euroepo, altri quello di Paolo De Castro, più volte ministro e parlamentare italiano, oggi parlamentare europeo, consulente speciale di Romano Prodi quando il professore guidava la Commissione, grande esperto di questioni agricole. Ma a Palazzo Chigi invece dicono semplicemente che nulla è ancora deciso. Renzi ha discusso con Schultz e Barroso di una candidatura rimasta finora coperta? «Semplicemente no comment», è la risposta.

il Fatto 10.5.14
Europee, la soglia del 4% finisce davanti alla Consulta
di Alessio Schiesari


Il Tribunale civile di Venezia ha rinviato la legge elettorale per le Europee alla Corte costituzionale. I giudici dovranno esprimersi sulla soglia di sbarramento, oggi fissata al 4 per cento. Se gli ermellini dovessero accogliere l’eccezione di incostituzionalità, i partiti esclusi potranno fare ricorso al Tar e chiedere il ricalcolo dei seggi. Secondo Angelo Bonelli dei Verdi con questa decisione “si apre un varco alla democrazia”. Per Nichi Vendola “la soglia di sbarramento decisa da Pd e Pdl è una volgarità nei confronti della rappresentanza democratica”, mentre Gianluca Susta, di Scelta Civica, chiede al governo un “provvedimento d’urgenza per mettere in sicurezza una legge che rischia di essere dichiarata incostituzionale”.
IN PASSATO ALTRI TRIBUNALI avevano ricevuto ricorsi contro la legge elettorale europea, ma questa è la prima volta che un giudice riconosce che la questione di costituzionalità “non sia manifestamente infondata”. Il ricorso è stato presentato dall’avvocato Felice Besostri, lo stesso che ha già rimandato alla Consulta il Porcellum, dove poi è stato bocciato. Secondo Besostri, “a Bruxelles si rappresentano i popoli, non si elegge il capo di un governo. Ecco perché lo spirito del proporzionale non può essere smentito da uno sbarramento tanto alto”. In realtà anche nel caso del Porcellum si dovrebbe effettuare il ricalcolo dei voti assegnati con il premio di maggioranza, “ma – spiega il costituzionalista Gianluigi Pellegrino – la giunta per le Elezioni sta bloccando tutto”. Il giurista sottolinea poi la disparità di trattamento tra parlamentari di Bruxelles e di Roma: “Per i pochi deputati europei che avrebbero diritto a essere eletti a seguito della possibile pronuncia della Consulta, ci sarà un giudice che lo disporrà immediatamente. Mentre per i 140 parlamentari nazionali che hanno già oggi diritto, sulla base dei ricorsi, a vedere applicata la sentenza della Consulta che c’è già stata tutto tace”.

la Repubblica 10.5.14
La legge elettorale per le europee finisce alla Consulta
di Liana Milella


ROMA. Nuova avventura, alla Consulta, per una legge elettorale italiana, questa volta quella del 24 gennaio 1979, con cui da allora sono stati scelti i parlamentari europei. Dal tribunale civile di Venezia approda sui tavoli della Corte un ricorso che punta tutto su una presunta illegittimità costituzionale: quella soglia del 4% che impedisce ai partiti “piccoli” che non la superano di entrare a far parte del Parlamento europeo. Felice Besostri, uno degli avvocati che ha sconfitto il Porcellum, bocciato dalla Corte il 4 dicembre dell’anno scorso, presenta ricorsi in sei città (Roma, Napoli, Milano, Cagliari, Trieste, Venezia) e per ora la spunta in laguna perché il tribunale ritiene la sua istanza ammissibile e quindi la inoltra alla Consulta. Come scrive il giudice relatore Maurizio Gionfrida, la soglia del 4% «non appare sostenuta da alcuna motivazione razionale ». Una soglia inutile, «soprattutto per un Parlamento che non vota la fiducia a un governo ». Ovviamente, la semplice notizia che la legge con cui si andrà a votare tra due settimane per rinnovare il Parlamento di Strasburgo può cadere sotto le forbici della Corte proprio com’è accaduto al Porcellum, allarme subito la politica e divide la dottrina giuridica e gli esperti. Soprattutto riapre la querelle che ha già infiammato il dibattito sulla stangata al Porcellum, e cioè se i parlamentari eletti con una legge, che poi viene bocciata in una sua parte abbia, abbiano in diritto di restare in carica o si debbano considerare sub judice, se non addirittura immediatamente decaduti, o peggio mai esistiti. Ma, esattamente com’è avvenuto per il Porcellum e per la sua bocciatura, la questione di fatto non esiste, come fa notare lo stesso presidente del tribunale di Venezia Arturo Toppan. Il ricorso non può influire sul voto del 25 maggio, giorno in cui si voterà ancora con la legge del ‘79, né mette in discussione gli eletti. Ma va da sé che, chi resterà fuori dal prossimo Parlamento Ue per via dello sbarramento al 4%, avrà un ottimo motivo per ricorrere subito al Tar e per contestare la sua esclusione sperando di averla poi vinta. Ma proprio com'è avvenuto per il Porcellum, e qualora la Corte costituzionale dovesse accogliere il ricorso di Venezia, la compagine dei deputati europei già eletti resterà la stessa.
Tempi della Corte, possibili scenari, conseguenze politiche del ricorso di Besostri, ma soprattutto effetti sull’Italicum, la nuova legge elettorale approvata alla Camera e in standby al Senato. Sono i quattro corni della questione. Com’è prassi, alla Corte il ricorso non verrà trattato ad horas, anche se questo chiede per esempio il pd Luciano Violante. Ma, com’è avvenuto per il Porcellum, che è rimasto otto mesi in lista di attesa, anche il ricorso di Venezia non subirà anomale anticipazioni, ma attenderà il suo turno. La Corte si avvia a cambiare il presidente, perché Gaetano Silvestri lascia dopo i rituali 9 anni, da qui a ottobre scadono ben 4 giudici, 2 di nomina parlamentare e 2 presidenziale. Un pronostico attendibile può collocare la decisione a fine anno. E nel frattempo? I piccoli partiti scalpitano, da Scelta civica a Sel, da Di Pietro a Ferrero, tutti sono per il lodo Besostri. Addirittura Susta (Sc) chiede al governo di «intervenire subito». Ma la conseguenza più probabile, al momento, sarà veder riaprire la discussione sulle quote e soprattutto sulla loro ampiezza in rapporto all’Italicum, laddove c’è proprio la ferita aperta delle soglie di sbarramento per partiti e coalizioni. Come raccomanda Gianluigi Pellegrino il nuovo ricorso alla Corte è soprattutto «un warning a non esagerare con le soglie» anche nell'Italicum.

la Stampa 10.5.14
Europee, legge elettorale rinviata alla Consulta
Contestata la soglia del 4%, ma comunque si voterà con questo sistema
di Amedeo La Mattina


Un’altra tegola si abbatte sul sistema elettorale italiano. Questa volta ad essere messa in discussione è la legge che regola l’elezione del Parlamento europeo e che prevede una soglia di sbarramento del 4%. Il Tribunale di Venezia l’ha rinviato alla Corte Costituzionale, accogliendo un ricorso presentato dall’avvocato Felice Besostri che aveva già impugnato (con altri) il cosiddetto Porcellum, poi bocciato dalla Consulta.
Ancora una volta in Italia viene messo in discussione la legittimità di un sistema di voto. Ancora una volta gli elettori vanno alle urne con la spada di Damocle di una sentenza che potrebbe stabilire che le regole con le quali hanno votato non sono costituzionali. Proprio come è accaduto il Porcellum. Con la conseguenza che una eventuale bocciatura da parte della Corte metterebbe in moto una valanga di ricorsi di tutti quei partiti che non riusciranno a superare lo sbarramento. E infatti già affilano i coltelli quelle forze politiche che sentono di essere lontane o comunque ancora sotto la soglia del 4%.
I loro eventuali ricorsi al giudice amministrativo tuttavia riguardano il futuro. Intanto le elezioni Europee si svolgeranno regolarmente perché la legge per il momento è pienamente valida. Lo ha assicurato il presidente del Tribunale di Venezia, Arturo Toppan. Rimane però un’ombra sulle regole con le quali il 25 maggio andremo a votare. I giudici di Venezia, accogliendo il ricorso, sostengono che l’introduzione di una soglia «non appare sostenuta da alcuna motivazione razionale che giustifichi la limitazione della rappresentanza. Il Parlamento europeo, infatti, non ha il compito di eleggere o dare la fiducia ad alcun governo dell’Unione, al quale possa fornire stabilità di indirizzo politico e continuità di azione».
Ora la parola passa alla Consulta e i piccoli partiti già affilano i coltelli. Il portavoce dei Verdi Angelo Bonelli, che considera la decisione del tribunale «una notizia che apre un varco alla democrazia nel nostro Paese», definisce lo sbarramento «incostituzionale perché viola i trattati europei». Ricorda che in Germania la Corte Costituzionale è stato cancellato (lì era del 3%), mentre in Italia è stato inserito cinque anni fa da un blitz del Pd e di Forza Italia: un modo, secondo Bonelli, per garantirsi più europarlamentari. «Adesso ci auguriamo che la Consulta prenda una decisione prima del 25 maggio. Ad ogni modo, lo annunciamo sin d’ora, i Verdi impugneranno i verbali di proclamazioni degli eletti presso i tribunali italiani e alla Corte di giustizia europea».
Anche Pino Pisicchio del Centro Democratico e Gianluca Susta di Scelta Civica («il governo valuti un provvedimento d’urgenza») accusano il Pd e Forza Italia di avere voluto un sistema che ora porta gli italiani alle urne in una situazione di incertezza. Hanno voluto, aggiunge il leader di Sel Nichi Vendola, «una volgarità nei confronti della rappresentanza democratica».
Cosa potrebbe succedere se la Consulta dovesse accogliere il ricorso una volta eletti e proclamati i nuovi eurodeputati? Il voto del 25 maggio non verrà travolto perché le sentenze della Corte non sono retroattive, ma i ricorsi al Tar di quanti rimarranno sotto la soglia del 4% potrebbero complicare tutto, riaprendo il conteggio e l’assegnazione dei seggi. In ogni caso emergerebbe un problema politico simile a quello scaturito con la sentenza che ha dichiarato incostituzionale il Porcellum: la delegittimazione degli eletti. È la tesi che oggi agita il Movimento 5 Stelle contro gli attuali i parlamentari italiani.
Ma sono molti gli esperti che ritengono infondato il ricorso alla Consulta. Tra questi Francesco Clementi e Stefano Ceccanti che sostengono che lo sbarramento sia perfettamente costituzionale.

la Repubblica 10.5.14
L’intervista/Felice Besostri
“Se vinco, dopo il voto sarà pioggia di ricorsi”
di Matteo Pucciarelli


MILANO. Felice Besostri, avvocato, ex deputato ds, socialista («ma di sinistra, oggi voto Tsipras »), è ufficialmente la bestia nera delle legge elettorali. Quando parte con i suoi ricorsi lo snobbano, poi alla fine si scopre che (più o meno) aveva ragione. Prima il Porcellum, e si sa com’è andata a finire. Poi la legge elettorale lombarda (ribattezzata “Lombardellum”, anche quella arrivata alla Consulta) e infine all’Europorcellum.
Ormai non se ne lascia scappare una. La prossima preda qual è?
«Avevo puntato quella per le elezioni provinciali. Poi hanno abolito le Province, peccato. Ma ora attenti alla Lombardia: Maroni rischia ».
Prima dei vostri ricorsi fate anche dei passaggi politici?
«Certo, tre mesi fa ero stato in commissione Affari Costituzionali, scrissi ai presidenti delle Camere. Silenzio. Ne discussi con la Boschi, non ancora ministro. Risposta: “Non se ne parla nemmeno”. Non è colpa mia se si fanno leggi elettorali anti-democratiche».
Dopo le Europee ci saranno una pioggia di ricorsi?
«Se il Parlamento non toglie gli sbarramenti è scontato. Chi lo farà sarà quasi sicuro di vincerle e di ottenere dei seggi».
E lei è molto soddisfatto.
«Sì perché gli italiani non avranno più paura di sprecare il voto. Non esistono voti sprecati».

Corsera 10.5.14
Il verdetto arriverà dopo le urne Ma i risultati non cambieranno
di Monica Guerzoni


ROMA — Nessun terremoto in arrivo, le elezioni Europee non sono a rischio. I costituzionalisti si interrogano sulla decisione del Tribunale di Venezia e si dividono sulla legittimità dello sbarramento, ma su una cosa sembrano tutti d’accordo: l’aver chiesto alla Consulta di dissipare i dubbi sulla costituzionalità del sistema di voto non avrà ripercussioni sul «verdetto» che uscirà dalle urne il 25 maggio. Le elezioni saranno valide, anche se la Corte dovesse accogliere il ricorso. E i partiti che resteranno al di sotto dell’asticella non potranno impugnare il responso elettorale.
«Sotto il profilo giuridico non vedo alcun riflesso — conferma il giurista Augusto Barbera, ordinario di Diritto costituzionale a Bologna —. La Corte se ne occuperà solo tra qualche mese, a elezioni ormai avvenute». Su questo aspetto è d’accordo Roberto D’Alimonte: «Così come la bocciatura del Porcellum non ha avuto effetti sugli eletti al Parlamento italiano nel 2013, qualunque scelta venga fatta dalla Corte costituzionale non avrà effetti sulle Europee». Ma il professore della Luiss è molto critico con i giudici di Venezia. Intervistato dall’Huffington Post , D’Alimonte giudica «una autentica follia» l’aver accettato il ricorso a poco più di due settimane dal voto, perché «crea una situazione ambigua». Anche il giurista Gianluigi Pellegrino non vede pericoli sulle Europee, mentre prevede ripercussioni sulla legge elettorale per le elezioni politiche italiane: «La decisione del Tribunale di Venezia non si ribalta sull’Italicum, ma ha comunque delle conseguenze politiche perché rappresenta un forte richiamo al legislatore a moderare le soglie di sbarramento». Alzarle troppo, insomma, esporrebbe il sistema al rischio di incostituzionalità.
Per Barbera, invece, fissare l’asticella per entrare a Strasburgo è del tutto legittimo, tanto che nel 2002 la Consulta emanò una direttiva in cui «diceva espressamente che gli Stati debbono adottare un sistema elettorale proporzionale, ma possono prevedere una clausola di sbarramento fino al 5 per cento». E nel 2010, con la sentenza 271, i supremi giudici «sia pure tra le righe, fecero intendere di essere favorevoli allo sbarramento». Al di là del merito giuridico, il professor Barbera è rimasto sorpreso per la decisione di Venezia: «La considero una regressione culturale, che riporta i sistemi elettorali molto indietro. Spero che la Consulta respinga il ricorso, perché la governabilità è un valore. Se non fosse preoccupante, farebbe un po’ sorridere...». E la tempistica? «Sotto il profilo politico, non è bellissimo che sia avvenuto a pochi giorni dal voto».
Paolo Armaroli, professore di Diritto pubblico comparato a Genova, la vede da destra e non concorda con i colleghi che difendono lo sbarramento: «Il mio vecchio amico liberale Aldo Bozzi diceva così, “è bene che le minoranze, anche le più estreme, si agitino in Parlamento piuttosto che nel Paese”. Nel 1985 guidò la prima bicamerale ed era uomo di grande saggezza». E se tra i giuristi prevale la convinzione che un eventuale pronunciamento della Consulta contro lo sbarramento non avrà riflessi sulle Europee, Armaroli prevede il caos: «Il fatto che la Corte deciderà a babbo morto creerà un problema, ci saranno le geremiadi di tutti i partiti che non avranno raggiunto la soglia». Le elezioni potrebbero essere invalidate? «No, il risultato non si potrà rimettere in discussione».
A favore della costituzionalità della legge si spende Luciano Violante, che auspica un giudizio a tempo di record: «La frammentazione della rappresentanza sarebbe un serio ostacolo. Sarebbe opportuno che la Corte decidesse il prima possibile». Dello stesso avviso Stefano Ceccanti: «Le ragioni politiche per le quali il Parlamento italiano decise cinque anni fa di introdurre lo sbarramento alle Europee, sono ragionevoli. E quindi perfettamente compatibili con una Costituzione che non canonizza nessuna formula elettorale».

Corsera 10.5.14
L’ira del premier rivela il timore di altri attacchi
di Massimo Franco


Lo scontro di ieri tra il presidente del Senato e quello del Consiglio era in incubazione da tempo. Pietro Grasso assisteva con crescente irritazione agli attacchi di Matteo Renzi e dei suoi seguaci al ruolo dell’assemblea di Palazzo Madama e alle proposte di riforma. E quando il premier ieri è sbottato contro le valutazioni dei tecnici del Senato sulla copertura finanziaria di una serie di provvedimenti del governo, a cominciare dagli 80 euro da distribuire grazie alla riduzione dell’Irpef, il conflitto ha preso forma senza più diplomatismi. Palazzo Chigi è nervoso per i ritardi e le resistenze nella maggioranza soprattutto a livello parlamentare; e preoccupato per le elezioni europee del 25 maggio.
Per questo, tende a vedere nei rilievi del Senato un pezzo di quella «strategia dello scetticismo» che considera una sorta di sabotaggio strisciante della sua politica. In modo simmetrico e opposto, Grasso dà voce alla filiera istituzionale irritata dalle parole d’ordine renziane che, è la tesi, contribuisce a una delegittimazione costante di alcuni organi dello Stato per ragioni esclusivamente elettorali. L’esito sono le scintille emerse ieri tra due esponenti di vertice del Pd e delle istituzioni: una polemica scivolosa e velenosa, piombata nel bel mezzo di una campagna elettorale nella quale il fantasma di Beppe Grillo si dilata ogni giorno di più.
Non si confrontano solo due verità ma due atteggiamenti agli antipodi. «Non mi si dica che non ci sono coperture finanziarie», ribadisce Renzi. «Chi dice che non ci sono deve spiegare perché, altrimenti è semplicemente un tentativo di comunicare cose inesatte...». Per il premier, d’altronde, onorare quella promessa è fondamentale. Già adesso, sia Forza Italia che soprattutto il movimento 5 stelle lo accusano di avere realizzato poco. Il grillino Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera, lo punge sostenendo che ha fatto meno, nei primi settanta giorni di governo, del suo predecessore Enrico Letta.
La reazione di Renzi va inquadrata su questo sfondo di tensioni; e sulla determinazione a rilanciare un’immagine di decisionismo e di concretezza. «Io faccio questa battaglia con la consapevolezza di non dover chiedere il permesso a tutti, ai burocrati, a tutti i partiti della coalizione», replica a Grasso. «Preferisco chiedere scusa domani che il permesso oggi». La preoccupazione nasce anche dal timore che la «Nota di lettura» stilata dal Servizio Bilancio del Senato possa diventare un’arma elettorale brandita da quanti diffidano delle proposte del governo; e usata contro l’Italia quando a giugno l’Unione europea valuterà la richiesta di rinvio del pareggio di bilancio.
Per lui, gli 80 euro di bonus sono diventati una sorta di talismano della propria credibilità: tanto da chiamare a testimone lo stesso ministro dell’Economia. «Pier Carlo Padoan mi ha portato a vedere i primi cedolini degli 80 euro. Le coperture dunque ci sono. Gli 80 euro pure», annuncia. Deve smentire la narrativa catastrofista di un Grillo che raffigura la situazione economica come un disastro al quale Renzi non ha ancora dato rimedio; e quella di un Berlusconi che dice di poter ricattare il premier, e non di esserne ricattato, sulle riforme istituzionali. Insomma, da qui al 25 maggio per lui non sarà una passeggiata. E forse neanche dopo.

il Fatto 10.5.14
Napolitano stoppa Grillo. Renzi teme il Movimento
A Firenze il premier e il Presidente della Repubblica nella giornata UE
di Wanda Marra


Firenze. “Non tirerei in ballo adesso le Europee su vicende che sono strettamente italiane”. A chi prova a chiedergli se gli arresti relativi all’Expo peseranno sul prossimo voto, Giorgio Napolitano, arrivando a Palazzo Vecchio a Firenze, dove va ad assistere al dibattito dei quattro candidati europei all’interno della Conferenza internazionale “State of union”, in quella che apparentemente è una non risposta, dice la sua in maniera forte e chiara. Chiedendo agli italiani di non tenere conto nell’urna delle vicende giudiziarie degli ultimi giorni. “Sono preoccupato dai populismi”, chiarisce e motiva. E dunque, “il superamento di fenomeni di corruzione che in questi giorni si sono manifestati in Italia, ma che non sono esclusivi del nostro Paese, è legato molto alla creazione di qualcosa che sia impegno, solidarietà e anche regole comuni dell’Ue”. L’astensionismo? “Non farei previsioni catastrofiche, ma è la risposta più sbagliata”.
NON DOVEVA parlare Giorgio Napolitano, doveva fare da spettatore. Poi, nella tarda mattinata ha cambiato idea: il momento – ancora una volta – è delicato. Beppe Grillo fa paura, il crollo di Forza Italia e la botta che potrebbero dare le vicende giudiziarie al Pd di Matteo Renzi rischiano di far franare ancora una volta il progetto finale di Re Giorgio: le riforme. Ma contemporaneamente anche di far deflagrare completamente il quadro politico italiano, che il Colle ha cercato di blindare in ogni modo. E dunque, eccolo ancora una volta entrare in campo con tutta la sua forza. Per invitare – tra le righe – a non votare il Movimento Cinque Stelle.
Matteo Renzi è allineato. “Populista”, “sciacallo”, “distruttore”, “pregiudicato”: il nemico numero uno è Grillo. E nel suo intervento in mattinata, il primo a Firenze per un’occasione istituzionale da quando è presidente del Consiglio, tira in ballo lo “spread dei populismi”. Dove spread in inglese sta anche per lo spargimento, la diffusione degli stessi populismi. L’intervento fiorentino è molto istituzionale. In serata a Virus ci va giù più pesante: “È da sciacalli buttarsi addosso a delle indagini per prendere mezzo punto in più”. Poi però esce fuori dal basso profilo sul “rispetto della magistratura” tenuto finora: “Ho sempre avuto una posizione molto garantista, ma dico che bisogna essere severi con tutti. Non si possono vedere immagini con quello che tira fuori una busta: ti fanno schizzare il sangue alla testa”.
PAROLE FORTI. Saranno consequenziali i fatti? Intanto, le inchieste della magistratura da una parte toccano il corno privilegiato dell’alleanza di Renzi, con Berlusconi, dall’altra pezzi del governo, dal ministro Lupi, al mondo delle Coop, che trova espressione in Poletti, il ministro del Lavoro. E attraversano parti del “vecchio” Pd che resistono in quello nuovo. E ora, come giustificare davanti all’elettorato un asse privilegiato con Fi, un partito dove per metà sono pregiudicati, carcerati o in custodia cautelare? “Deve essere chiaro che Fi è minoranza, questo è evidente”, ragiona un renziano. “Residuale”, dice qualcun altro. Ma martedì sera in Senato è stato evidente che la maggioranza senza B. non tiene. Il tagliando al governo, il punto sulla possibile tenuta della legislatura, si farà dopo le europee. Sarà un tagliando molto diverso a seconda del risultato.
Mancano due settimane alle europee , il desiderio della volata è tanto. Come la voglia di battere tutti i record elettorali: non solo quello di Veltroni nel 2008 (33,4%), ma anche quello del vecchio Pci di Berlinguer nel 76 (34,4%). E l’inchiesta sull’Expo potrebbe essere l’elemento che fa la differenza negativa. Renzi ostenta ottimismo e buonumore. Ma alza i toni. E ad alcuni dei suoi vecchi amici fiorentini dice: “Se sapeste come sono fatti i sondaggi, non li guardereste neanche”. La paura che Grillo sia sotto stimato e il Pd sovrastimato è tanta, tra i renziani. Perché poi, le europee sono un voto dove tradizionalmente si sceglie la protesta. Tra le righe, non a caso, c’è anche chi evoca la “giustizia a orologeria”, per frenare il presidente del Consiglio. Perché per dirla con un renziano, “se arrivava prima delle primarie erano tutti voti per Matteo, adesso rischiano di essere voti per Grillo”.
ED ECCOLA che arriva la difesa del “vecchio” Pd con Massimo D’Alema: “Ho calcolato che il 40, anche il 45% delle persone inizialmente accusate poi vengono prosciolte, e ho preso una certa prudenza”. Renzi non difende, né attacca. Ma tra i suoi vecchi collaboratori c’è chi gli sta consigliando di fare un colpo a effetto prima delle elezioni.

Corsera 10.5.14
Verbali incompleti, contraddizioni e ricatti

Le carte su Shalabayeva
Indagine dei pm di Perugia riapre il caso
di Paolo Mondani


A meno di un mese dalla concessione dello status di rifugiato politico ad Alma Shalabayeva e alla figlia Alua il caso giudiziario si riapre. La notizia può preoccupare e non poco il Viminale dove atterrisce l’idea che i documenti che sembravano dimenticati stanno per essere rimessi in fila, uno ad uno, a ricordare quel che accadde in quelle 67 ore, dalla sera del 28 al pomeriggio del 31 maggio 2013.
La Procura della Repubblica di Perugia ha aperto un fascicolo sul caso Shalabayeva e chiama in causa la responsabilità di un magistrato in ordine all’espulsione della moglie del banchiere e dissidente kazako Mukhtar Ablyazov e della loro figlia Alua avvenuta a Roma un anno fa. Sulla base di un passaporto diplomatico emesso della Repubblica Centrafricana dichiarato falso e poco dopo rivelatosi autentico, in nemmeno tre giorni il Viminale aveva consegnato Alma nelle mani del Presidente kazako Nursultan Nazarbayev. Dittatore a tutto tondo. Il 19 luglio il ministro Alfano aveva incassato una fiducia a denti stretti quando M5S e Sel ne avevano chiesto le dimissioni al Senato, e il Pd, pur smontando pezzo a pezzo la sua ricostruzione dei fatti, con un triplo carpiato l’aveva salvato. Ora i fatti appaiono più chiari, almeno secondo gli avvocati di Alma Shalabayeva che due mesi fa hanno depositato un esposto alla Procura di Roma finito successivamente a Perugia.
Centrale è la descrizione di cosa avvenne all’udienza presso il Cie di Ponte Galeria il 31 maggio, alla presenza del Giudice di Pace Stefania Lavore. In aula sono presenti gli avvocati di Alma, Federico e Riccardo Olivo e il legale svizzero della famiglia Ablyazov Charles de Bavier, che parla perfettamente italiano. Con enfasi segnalano che Alma è moglie di un dissidente kazako, che rischia la persecuzione se rimandata nel suo Paese e che per questo intende chiedere asilo all’Italia. Ma di tutto questo, scrivono i legali nell’esposto, non vi è traccia nel verbale di udienza.
I poliziotti dell’Immigrazione presenti in aula hanno una strana fretta e tutto si chiude in poche decine di minuti, perché Alma deve essere rapidamente trasferita all’aeroporto di Ciampino dove un aereo la aspetta per il ritorno in Kazakistan. «Omissione nella verbalizzazione e nella decisione — scrivono gli avvocati — che implicano valutazione di carattere penale con riferimento ai reati di falso e di abuso». Eppure nella relazione del capo della Polizia Pansa, ribadita dallo stesso ministro Alfano chiamato a rispondere dei fatti in Parlamento, si ripeteva che Alma Shalabayeva non aveva mai fatto cenno alla richiesta di asilo così come alla condizione di dissidente del marito.
Ma anche su questo un nuovo documento mette in luce le contraddizioni del Viminale: si tratta del rapporto alla Procura di Roma del 3 giugno 2013 firmato da Luca Armeni e Renato Cortese, dirigenti della Questura, dove si dà conto che i poliziotti che erano intervenuti nella notte del 29 maggio nella villa romana di Alma Shalabayeva avevano ritrovato uno scambio di e-mail tra l’avvocato De Bavier e l’avvocato Riccardo Olivo dove lo svizzero descriveva precisamente chi è Alma e chi è il marito. Il Viminale era quindi perfettamente a conoscenza dello status di dissidente del marito e dei pericoli che correva sua moglie in caso di espulsione.
Ma un altro documento è stato acquisito dalla procura di Perugia. Si tratta di una dettagliata cronologia dei fatti che l’ex ministro degli Affari esteri Bonino aveva a suo tempo inviato al presidente Napolitano. Avvenimenti seguiti al 31 maggio, perché Emma Bonino e il suo dicastero erano stati tenuti fino ad allora all’oscuro di tutto. E qui emergono le schizofrenie della politica: i silenzi di Alfano e le forzature della Bonino che conquista prima la revoca del decreto di espulsione (12 luglio) e infine riporta a Roma la Shalabayeva (27 dicembre).
Il 13 giugno, in vista dell’incontro di Napolitano con il presidente della Commissione Ue Barroso previsto per il giorno dopo, Bonino informa del caso kazako il Consigliere diplomatico del presidente perché è lei a infilare il «fuori sacco Shalabayeva» nel fascicolo del colloquio e a fare in modo che Barroso rivolga una precisa domanda a Napolitano sull’argomento. Ed è sempre lei a respingere il ricatto del governo di Nazarbayev che aveva deciso di negare il sorvolo del territorio kazako alle nostre truppe di ritorno dall’Afghanistan visto l’eccesso di esposizione del governo di Astana in virtù del superattivismo del ministro italiano.
E c’è la strana storia di due milioni di dollari che alcune autorità kazake avevano chiesto personalmente alla Shalabayeva in cambio dell’autorizzazione a tornare in Italia e di fronte al suo no la nuova la richiesta «scontata» di un solo milione avanzata agli avvocati di Alma che rifiutano di pagare quel che appariva a tutti gli effetti un riscatto verso chi l’aveva rapita. Ma i kazaki non mollano l’osso neppure oggi.
Da ultimo emerge la lettera dell’ambasciatore della Repubblica Centrafricana a Parigi Emmanuel Bongopassi al ministro degli Esteri Leonie Banga-Bothy datata 12 febbraio 2014, nella quale comunica che il suo omologo kazako nella capitale francese chiede che i passaporti diplomatici rilasciati a Mukhtar Ablyazov e alla moglie Alma vengano annullati. I kazaki offrono importanti aiuti economici e Bongopassi sembra sponsorizzare lo scambio. Proprio la presunta nullità del passaporto di Alma fu causa dell’espulsione dall’Italia, un documento che le autorità africane dichiararono immediatamente autentico e sulla bontà del quale nessuno ha più dubbi. Il 18 febbraio è il ministro degli Esteri centrafricano a replicare al collega kazako che Bongopassi è stato rimosso e che quei passaporti sono autentici.

la Stampa 10.5.14
Stragi, appello agli uomini in silenzio
di Manlio Milani


Questo è il testo dell’intervento di Manlio Milani, presidente dell’Associazione dei Caduti in piazza della Loggia, ha pronunciato ieri alla Camera nel Giorno della memoria delle vittime del terrorismo.
Il 28 maggio 1974 in Piazza Della Loggia a Brescia, fu organizzata una manifestazione unitaria antifascista con sciopero generale. Alle 10,12 esplose una bomba che uccise 8 persone e ne ferì 102. Le istituzioni Repubblicane e il patto Costituzionale ereditato dalla Resistenza furono l’obiettivo di quella violenza. Quella bomba collocata nel cuore della Polis riconfermò così l’irriducibilità del conflitto tra violenza e democrazia.
La risposta dei bresciani fu di sfida democratica. Gestione della Piazza e del servizio d’ordine vennero affidate esclusivamente ai cittadini.
Furono scelte consapevoli, non dettate dalla volontà di espropriare i rappresentanti delle forze dell’ordine, ma per erigersi, in quanto cittadini, a difensori delle istituzioni Repubblicane. Quel fatto si trasformò in comune esperienza storica, e quei morti ne sono ancora oggi la rappresentazione. La responsabilità dell’estrema destra neofascista per quella strage, ha trovato corrispondenza nella recente sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Brescia e nella ulteriore decisione della Corte di Cassazione di rinviare due imputati, finora prosciolti, ad un nuovo giudizio d’appello. Non solo. Da queste pronunce emerge che le stragi di Piazza Fontana e di Piazza Della Loggia sono riferibili ad un’unica area neofascista che ha portato avanti un progetto eversivo usufruendo di coperture di uomini delle istituzioni.
E’ stato possibile acquisire questa verità, nonostante la costante presenza di depistaggi, grazie al lavoro della magistratura e rispettando, da parte nostra, le regole processuali, senza pronunciare aprioristiche condanne. E’ con questa consapevolezza che ora bisogna ripartire per riflettere su quei fatti e sulla storia del Paese, abbandonando facili ricostruzioni basate su un senso di rivalsa o logiche di pura contrapposizione. La storia di Piazza Della Loggia è anche la storia di persone a cui violentemente è stato tolto il diritto alla vita. Quel giorno la piazza sognava che un’altra vita era possibile. I volti degli insegnanti Alberto, Clem, Giulietta, Livia, Luigi, quello dell’operaio Bartolomeo e quelli dei resistenti Euplo e Vittorio s’intrecciavano con i volti dei cittadini bresciani: ognuno colpito nei suoi sogni.
Anche per questo non si può dimenticare quanto si è sofferto, non tanto per un richiamo ai propri ricordi, quanto per rappresentare le conseguenze private e sociali, che la violenza ha prodotto. Se la sappiamo cogliere nel suo valore umano, la sofferenza si fa testimonianza, crea umanità e si trasforma in modalità per ricostruire nuove forme di civile convivenza e, nello stesso tempo, per ricondurci al vivere. E’ giusto, quindi, raccontare la vita dopo, ma senza dimenticare il MALE subito e la dimensione pubblica del fatto. In questi lunghi 40 anni, non abbiamo coltivato odio o vendetta. Partendo dall’accettazione e rispetto delle sentenze, abbiamo affrontato la ricerca della verità per contribuire a comprendere le ragioni dei fatti e vorremmo continuare a rivolgere lo sguardo limpido non solo sulle verità che conosciamo, ma anche sui silenzi delle verità mancanti.
Oggi sappiamo che vi sono persone che continuano a convivere con questi silenzi. Alcuni per un assurdo senso del dovere, altri che preferiscono rimuovere i sensi di colpa. Così atteggiandosi, negano, a noi e a se stessi, processi ulteriori di conoscenza e ogni possibilità di dialogo. Come sappiamo, la violenza politica è una storia che pesa sul Paese come una sorta di ipoteca sulla vita democratica che genera, ad ogni dissenso, reazioni esasperate. Ecco perché mi sento di rivolgermi a voi «uomini in silenzio». Se non c’è odio possiamo trovare uno spazio di parola dove poter dire, ascoltare, interrogarci sul perché di quella violenza. Vi chiedo una scelta difficile: ma non è proprio in queste scelte che riusciamo a ritrovare lo spazio e la responsabilità del vivere nella storia? Sta qui il senso della ricerca della verità che è il cammino verso ciò che non sappiamo ma che vogliamo sapere per consegnare al Paese una storia comune, anche se non condivisa. Credo che questo cammino sia possibile percorrerlo insieme con la consapevolezza che la ricerca della verità vada a beneficio di tutti e di una riumanizzazione del vivere.
Chiese il bambino al partigiano Berto: «Nonno, mi dici sempre che dobbiamo imparare dai morti. Ma che cosa dobbiamo imparare da Loro?». E il vecchio partigiano rispose: «Le ragioni per cui sono morti». Ecco, così diventa possibile, in loro nome, fare memoria viva. E senza dimenticare.

Corsera 10.5.14
Einaudi, un’eredità attuale e scomoda
di Paolo Silvestri


In questi ultimi anni, alcune delle più alte cariche dello Stato hanno avvertito il bisogno di un richiamo all’eredità di Luigi Einaudi. Un’eredità complessa, e forse più scomoda di quanto sembri, che sintetizzerei nel compito che Einaudi affidava ai liberali di ogni generazione: custodire quel «bene supremo che è la libertà dell’uomo», in vista di un «ideale» buon governo, nella consapevolezza di una tensione incolmabile con il reale e di una ricerca che, dunque, è sempre aperta. Ma se «buon governo» è ormai uno slogan abusato, qual è il senso più autentico del buon governo einaudiano?
Oggi come allora, è sempre dopo una «crisi»che la ricerca ricomincia. Per Einaudi essa emergeva dall’urgenza di ricostruire le istituzioni liberali distrutte dalla prima guerra mondiale, dal fascismo e dalla crisi economica del 1929. Ma oggi più che mai è vera la sua tesi secondo cui il problema economico non può risolversi solo con mezzi economici, essendo parte di un più ampio assetto «spirituale e morale». Il liberismo sostenuto da Luigi Einaudi si regge innanzitutto su regole morali: quanto più lo Stato aumenta la sua ingerenza nell’economia, tanto più aumentano le occasioni di connivenze e corruzione, di sovraccarico del bilancio statale, di ricerca di rendite e di svilimento della libera iniziativa individuale, e di sfiducia generalizzata verso lo Stato e la classe politica. Pochi pensatori furono, più di Einaudi, cantori dell’uomo libero, responsabile e artefice del suo destino, che lotta, cade e si rialza, «imparando a proprie spese a vincere ed a perfezionarsi» (La bellezza della lotta , 1923). L’idea di fecondità della lotta veniva da lui estesa alla società civile e alle istituzioni, nei termini di concorrenza e discussione critica.
Muovendo da questo principio, Einaudi ha combattuto con coraggio innumerevoli battaglie riformiste: contro il paternalismo politico, i monopoli, il privilegio, la burocrazia, le corporazioni, l’«assalto alle risorse pubbliche», e contro le ingiustizie perpetrate dai pochi e dai «furbi» a danno dei molti. Preconizzando la fine del principio di sovranità, Einaudi si è spinto a immaginare un mercato unico europeo e una Europa politica, con una moneta unica e istituzioni e bilancio federali. Ha combattuto per il valore delle associazioni intermedie come peculiare tessuto connettivo della società civile, e per le autonomie locali più vicine al cittadino. Ha poi insistito sull’importanza di un ampio ceto medio, per la sua funzione di «mediazione» nei termini di equilibrio e coesione sociale, in vista di una società non eccessivamente sperequata e in grado di garantire una maggiore eguaglianza nei punti di partenza.
Un’eguaglianza che avrebbe però dovuto riconoscere le ragioni del merito: una società che nega la fecondità della lotta, della varietà e del dissenso, non solo impedisce l’emersione dei migliori ma si preclude, in senso più ampio, qualunque prospettiva di miglioramento. Ecco perché la società liberale da lui auspicata è ancora davanti a noi, non dietro di noi.
Tale società può dirsi «aperta» se non ha paura di rischiare. Essa deve lasciare spazio agli «intraprendenti», affinché «possano continuamente rompere la frontiera del noto, del già sperimentato, e muovere verso l’ignoto ancora aperto all’avanzamento materiale e morale dell’umanità» (In lode del profitto , 1957). La parola «aperta»traduce l’istanza che tale società rimanga, per così dire, «ideale», e dunque sempre pronta al cambiamento, non perfetta ma perfettibile, lungo un cammino di tentativi ed errori. Per questo il buon governo non può che configurarsi come problema e come ricerca. Niente di più lontano da uno slogan.
La lotta di Einaudi contro i mali del suo tempo dev’essere testimonianza che il futuro è sempre aperto, e che un altro mondo è ancora e sempre possibile. Anche per noi è arrivato il momento di ricostruire. Avremo il coraggio di rischiare? Sapremo essere all’altezza di quel sogno?

la Stampa 10.5.14
AAA esperienza cercasi
Daimler richiama cento pensionati al lavoro
“Più competenti in informatica e nelle missioni all’estero”
di Tonia Mastrobuoni


Forse qualche azienda ha rottamato un po’ troppo frettolosamente, anche per colpa della crisi. Così, dopo Bosch e il gruppo Otto, anche Daimler ha sentito la mancanza dell’esperienza e delle conoscenze specifiche di chi è andato in pensione in questi anni e ha richiamato già 100 persone al lavoro. Anche in Italia è successo, con Bottega Veneta che ha richiamato qualcuno in azienda perché era rimasta orfana di alcune mani d’oro. Ma sulla bacheca della Daimler dove il capo del personale, Wilfried Porth, consente ai pensionati che ne hanno voglia di iscriversi per ricordare all’azienda le loro specificità, si sono già iscritte circa 390 persone. E i 100 già re-impiegati, che vengono pagati giornalmente, hanno già accumulato 7.000 giornate lavorative.
Il progetto si chiama «Space Cowboys» e richiama il famoso film di Clint Eastwood con Tommy Lee Jones e Donald Sutherland in cui un gruppo di ex piloti militari viene spedito in orbita a recuperare un vecchio satellite sovietico. E a distanza di un anno dall’appello, Porth sostiene che «il progetto è un pieno successo. Il gruppo approfitta dell’esperienza e del know-how degli Space cowboys, che applicano la loro esperienza ai progetti e li trasmettono ai colleghi più giovani».
Una domanda maliziosa potrebbe essere: chi paga? Perché è ovvio che la fonte di reddito maggiore di queste persone è l’assegno previdenziale, dunque sembrerebbe che per questo revival professionale paghi soprattutto la collettività. Ma Porth ha spiegato ad esempio che nel passaggio dai vecchi programmi per i computer ai nuovi, la conoscenza specifica che alcuni pensionati avevano dei sistemi è stata cruciale: «Non avevamo più nessuno che conoscesse quel linguaggio. C’era bisogno di una grande esperienza nella Mercedes». Alcuni di loro sono stati persino spediti a fare missioni all’estero, in Cina ad esempio.
Una delle prime aziende ad aver sperimentato questo re-impiego è stata Bosch: già nel 1999 creò una società a parte per «esperti». Nel frattempo sono 1.600 i pensionati che fanno parte di questo settore «senior». Lavorano a tempo e il loro stipendio è regolato in base all’ultima busta paga. Il sindacato dei metalmeccanici, la IgMetall, non è proprio entusiasta: «Forse sarebbe meglio se questo sapere venisse trasmesso prima che le persone vengano espulse», è stato il commento di una portavoce, che ha aggiunto che «sarebbe anche nell’interesse del datore di lavoro, fare una programmazione strategica». Ma forse quella c’è, eccome.

Corsera 10.5.14
Vita da maniaco insospettabile «Le donne non mi volevano Così le legavo e poi le seviziavo»
di Giusi Fasano


FIRENZE — «Non mi volevano. Le donne non mi hanno voluto nemmeno quand’ero ragazzo. Con loro non ho mai avuto fortuna». Riccardo Viti parla di un passato lontano. «Quand’ero ragazzo», dice. Cioè quando aveva vent’anni. E adesso ne ha cinquantacinque. Torna indietro a un giorno preciso: «Ricordo che mentre facevo il militare ho sfogliato un fumetto e ho visto l’immagine di una donna seviziata con un bastone. È nata da lì la mia passione per i giochi erotici sadici e siccome nessuna mi considerava ho cominciato a frequentare le prostitute e a soddisfare i miei istinti con loro perché a loro potevo chiedere di fare tutto quello che mi piaceva...».
L’interrogatorio è in questura. Lo stupratore di prostitute, l’uomo che ha violentato e lasciato a morire Andreea Cristina sotto un cavalcavia, il maniaco al quale decine di uomini hanno dato la caccia per cinque giorni adesso è lì, davanti il pubblico ministero Paolo Canessa, al capo della squadra mobile Lorenzo Bucossi e al maggiore del nucleo investigativo dei carabinieri Carmine Rosciano. Ha l’aria dimessa ed è lucido abbastanza per capire che sarà vecchio, molto vecchio, quando uscirà dalla prigione.
«Ho fatto una bischerata» aveva detto a sua madre e suo padre quando all’alba avevano bussato alla sua porta, una casa popolare alla periferia nord-ovest della città. Vive lì (in un appartamento comunicante con quello dei suoi genitori) da quando si è sposato, nel 2005, con una ucraina, madre di un ragazzo nato da un matrimonio precedente. Lei e suo figlio non sono in Italia da molti giorni e non c’erano nemmeno domenica sera quando, per l’ennesima volta lui è uscito alla ricerca della ragazza di turno.
Viti spiega che «come sempre non l’ho scelta con criteri precisi, semplicemente andavo con la prima che accettava la mia offerta». Andreea Cristina Zamfir, 26 anni, gli ha detto sì per 30 euro. «Siamo andati sotto il cavalcavia e le ho proposto quello che proponevo a tutte: di legarla e lasciarmi fare il mio gioco erotico». Il copione dei suoi incontri («di solito una o due volte alla settimana») è sempre lo stesso: si accorda per un prezzo base, le porta in luoghi isolati (spesso gli stessi), chiede che si spoglino mentre sono ancora in macchina e poi propone il suo «gioco sadico», a volte alzando il prezzo. La sua versione: «Loro scendevano dall’auto, io le legavo e cominciavamo. Se tutto andava bene poi le slegavo e le riportavo indietro, se cominciavano a urlare o scalciare o si rifiutavano, io scappavo via e poi buttavo i vestiti e le borsette strada facendo». Che scappasse via è vero ma alcune delle sue vittime raccontano che «continuava anche se io lo imploravo di smettere». Le sevizie, le urla, facevano parte di quello che lui chiama «gioco».
Anche se l’arresto è per l’episodio più tragico, l’unico finito con la morte della ragazza, gli investigatori sono certi di potergli attribuire almeno una decina di casi, e siamo soltanto all’inizio delle indagini. Perché di ragazze che «cominciavano a urlare o scalciavano o si rifiutavano» ce ne sono diverse, tutte riuscite in qualche modo a liberarsi dopo la fuga di lui, e tutte testimoni della brutalità di quell’uomo che fino a ieri mattina non aveva un nome.
Riccardo Viti di mestiere fa l’idraulico e nel suo quartiere è conosciuto perché fa il giudice di karatè per i ragazzini, disciplina di cui lui è cintura nera. Un’arte marziale richiede un certo grado di autocontrollo, di equilibrio. Lui sembrava averne più del necessario, era «un uomo mite» nel racconto di chi l’ha conosciuto fino a ieri mattina. La sua attività negli ultimi anni non rendeva quasi nulla e lui si e era ritrovato a vivere con i soldi di sua moglie, che lavora in una ditta di pulizie. Nessun guadagno, quindi pochi, pochissimi soldi anche per le prostitute. «Una volta pagavo anche 150 euro, negli ultimi tempi sono sceso a 30» racconta lui. Si spiega così la ricerca delle ragazze più disperate, spesso quelle costrette a prostituirsi per procurarsi la droga. Con il passare degli anni la «passione per il sadismo» si è spinta sempre un po’ più in là. «Mi sono accorto subito l’altra sera che sono andato oltre... ho avuto paura e sono stato egoista, ho pensato soltanto a me e sono scappato via. Credevo che si sarebbe liberata, come le altre. E invece il giorno dopo ho saputo dalla televisione che era morta. Ci ho pensato in continuazione... non volevo che finisse così».
Nel fascicolo dell’inchiesta ci sono i fotogrammi del Fiat Doblò (di suo padre) che lui ha usato per caricare le ragazze. Sono immagini recuperate dalle telecamere nella zona della città più battuta dalle prostitute. La sera del 4 si vede quell’auto passare alle 23.49. Chi guida — cioè lui — indossa qualcosa di rosso. Accanto si intuisce la sagoma di una seconda persona che porta una camicia o una giacca bianca. Adesso sappiamo che era lei, Andreea Cristina. E che stava andando incontro alla morte.

la Repubblica 10.5.14
Firenze e l’orrore della porta accanto
di Gabriele Romagnoli


ASOLI quattro giorni dal primo omicidio e a otto anni dalla prima violenza, ossia con grande prontezza e straordinaria lentezza, il maniaco di Firenze è stato arrestato. Nelle frasi successive alla cattura si nascondono molte verità sconfortanti. La più atroce la dice lui stesso, l’idraulico di 55 anni, in due tempi: «Speravo che non morisse, come le altre» e «L’avrei fatto ancora». Se l’ultima prostituta che aveva stuprato con un manico di scopa non avesse perso la vita, probabilmente lui non avrebbe perso la libertà di torturare, perché l’allarme non avrebbe suonato così forte da indurre a un’indagine che è sembrata tanto spedita ed efficace quanto facile.
Esisteva, apprendiamo ora, una descrizione precisa dell’uomo e della vettura su cui caricava le vittime, era stato addirittura identificato mentre discuteva con una di loro sulle inusuali modalità di accoppiamento che pretendeva e che gli venivano concesse, più che per trenta euro, per una grande disperazione. Dicono gli inquirenti, da applausi nel rettilineo finale, che questo era «una bestia» e «un uomo della porta accanto». Sembrano definizioni in contrasto, ma non lo sono. Si sintetizzano in una: “la bestia della porta accanto”. È una creatura strana e pericolosa, che vive e non lascia vivere in un ambiente dove tutti volgono lo sguardo e aspettano.
La “bestia della porta accanto” non cresce mai veramente. È un cinquantenne bambino la cui fantasia è ancora legata ai fumetti violenti che dall’adolescenza non ha smesso di leggere e probabilmente stanno impilati in bella vista nel garage di casa. Da quella casa non è mai uscito: abita di fianco ai genitori in un appartamento comunicante, fa l’idraulico come papà, ma meno bene di lui. Ha sposato una donna dell’Est, che deve aver visto in lui più che una passione una legittimazione. Questo microcosmo lo accoglieva distratto e incurante, a voler essere generosi. “La bestia della porta accanto” aveva una sessualità particolare, godeva soltanto per il dolore altrui, usciva di sera per infliggerlo, portava con sé il nastro adesivo con il marchio dell’ospedale dove sua moglie lavorava, ma il suo arresto è stato sorprendente per i familiari: “Ma che sei te il mostro?”. Si sono girati tutti, davanti a indizi che non potevano non esistere.
La sua donna avrà preferito tacere, tenersi la documentazione regolarizzata e andare a lavorare, i genitori sperare che guarisse “crescendo”. Ai vicini pareva “strano” e “bamboccione”, ma che vuoi che sia? Tra le prostitute non era scattata alcuna rete di solidarietà perché pure lì il sindacato è morto: sono straniere, occasionali, sbandate, arraffano quel che possono, delle disgrazie altrui se ne infischiano tanto sono di passaggio. La polizia aveva arrestato, qualche anno fa, un rom.
Ora che ha colpito nel segno ci si sente come quando ti fanno un bel regalo, ma una settimana dopo la ricorrenza. Bisogna dire grazie di cuore, ma qualcosa è mancato. Ed è il fatto che a dirlo non possa essere Andrea Cristina, che si è fatta massacrare per 30 euro e per otto anni sprecati.

la Stampa 10.5.14
“Non so neppure io quante volte l’ho fatto”
La doppia vita dell’idraulico, tra karate e riviste porno
di Fabio Poletti


Se non lo avessero preso avrebbe continuato. Perché alla fine da trentacinque anni quella era la sua vita vera.
Di giorno Riccardo Viti, 55 anni, occhi chiari, pelata di capelli grigi e pancetta, era l’idraulico con il negozio chiuso un paio d’anni fa in via Locchi, a un passo dall’appartamento che divideva con la moglie ucraina sposata dieci anni fa e il figlio di lei. «L’uomo della porta accanto», lo definisce il procuratore capo Gian Bartolomei. Ma era la notte che Riccardo l’idraulico viveva la sua vita vera. Due volte la settimana alle Cascine o a Novoli vicino a Firenze, in via Roma o alla stazione di Prato a raccattare prostitute. Italiane, straniere, giovani, vecchie, tossiche e disperate, da caricare sul Doblò bianco ghiaccio. «Allora diventava una bestia, ma lo abbiamo preso», è tranchant il questore Raffaele Micillo.
Ma si capisce che la storia di quest’uomo che da almeno dieci anni seviziava prostitute - «Signor giudice non so nemmeno io quante volte l’ho fatto», fa mettere a verbale dopo sette ore di interrogatorio - è molto più complicata. Quando alle sei meno un quarto polizia e carabinieri vanno a prenderlo a casa, Riccardo l’idraulico quasi non si scompone: «Non volevo che finisse così. Speravo che si salvasse anche lei. Io non volevo farle male, volevo solo giocare...».
Non piange l’ultimo mostro di Firenze. Non si dispera. Non si pente. La sua è solo la fredda contabilità di notti troppo uguali. Sua madre che abita nell’appartamento a fianco non ci crede: «Ma tu che hai fatto?». Quello che ha fatto lo ammette ancora prima di arrivare in questura. E’ lui che consegna agli agenti il nastro da pacchi usato dall’azienda ospedaliera di Careggi dove sua moglie andava a fare le pulizie, quello che le ultime volte usava per mettere in croce le sue vittime. E’ lui che porta gli investigatori in cantina dove teneva i due manici si scopa tagliati. E’ sempre lui che consegna le chiavi del Doblò finito nelle immagini delle telecamere di sicurezza delle Cascine, ore 23 e 49 di domenica 4 maggio, lui alla guida con la maglia arancione, Andrea Cristina Zamfir con il giubbotto bianco già al suo fianco, per quello che sarebbe stato il suo ultimo viaggio, fino alla sbarra di ferro sotto la tangenziale di Ugnano dove l’avrebbe lasciata a morire.
«Ho capito subito che avevo fatto una cazzata. Ho capito che avevo calcato troppo la mano. Io non volevo che loro provassero dolore. Era un gioco. Se si lamentavano scappavo. Se resistevano finiva lì», spiega la banalità del male, addirittura inconsapevole più che colpevole. «Non immaginavo che finisse così... Sono un uomo finito, chi mi salva più...», dice pensando soprattutto a difendersi, ma mica solo da quelle accuse che per adesso gli valgono una imputazione di omicidio volontario. Perché alla fine Riccardo Viti ci prova a cercare di passare per una vittima. Una vittima delle donne che non lo avevano mai voluto, lui idraulico figlio di idraulico, occhi chiari di zero fascino, buoni a scrutare nella notte alla ricerca delle sue vittime da portare in via Cimitero di Ugnano alle porte di Firenze, alle Bartoline vicino a Prato, nella vigna dove si sentiva davvero se stesso. Quante volte lo abbia fatto non lo sa nemmeno lui. Tante, tantissime sono convinti gli investigatori. Sadico dice di esserlo diventato una decina di anni fa, attratto dai giornalini pornografici che leggeva da ragazzino, quando ha iniziato a sentirsi rifiutato e a vivere le sue notti.
Chi lo conosce bene dice che non poteva immaginare. E’ sempre così quando si scopre che il dottor Jekyll della porta accanto è pure mister Hyde. «Un uomo tranquillo, niente di strano...», racconta il fruttivendolo all’angolo, il salumiere e poi l’elettricista a neanche cento metri dall’appartamento dignitoso dove Riccardo Viti passava le sue giornate.
Daniela Galli della palestra dove lui andava a fare da arbitro negli incontri di karate, giura di non avere mai sospettato. Tra le ragazzine che si sfidano sul tatami non ce n’è una che possa dire di essere stata molestata. Ma l’idraulico con la cintura nera terzo Dan e che oggi non si direbbe a guardargli il fisico appesantito, di giorno era un altro.
Pure un casalingo premuroso. Quando la moglie ucraina che non si è mai accorta di niente, e che ora è al suo Paese insieme al figlio, usciva di casa per andare a fare le pulizie all’ospedale di Careggi, era lui che faceva i mestieri. Qualche lavoretto da idraulico lo trovava ancora soprattutto in nero. Ma era soprattutto con i soldi di lei che tiravano avanti. Dicono che il loro fosse solo un matrimonio di convenienza. Lei aveva trovato il modo di prendere la cittadinanza italiana. Lui aveva tentato di costruire almeno una facciata di rispettabilità.
Ma dietro quella facciata, c’era l’altro Riccardo Viti: «Mia moglie tornava dal lavoro sempre stanca. Aspettavo che andasse a letto e poi io uscivo. Avevo bisogno di uscire».

il Fatto 10.5.14
Risponde Furio Colombo
Chi sono gli scafisti?


CARO COLOMBO, so benissimo che i deboli sono la preda ideale dei criminali. E senza dubbio i migranti sono i più deboli dei deboli. Tuttavia vorrei che non si dimenticasse che lo stereotipo “scafista” come delinquente e mercante di carne umana è proprio della cultura della Lega e della destra, che festeggiava le barche affondate. Vorrei non fidarmi di quella cultura. Forse in questa tragedia manca un pezzo della storia.
Rinaldo
PRIMA ANCORA manca una visibile coerenza di situazioni umane tra “predoni” e “mercanti”. Dei predoni, che infestano tutti i luoghi di terra che i migranti africani sono costretti ad attraversare (comprese molte polizie locali), sappiamo che esiste un solo ritratto, che è il comportamento delinquenziale: ricatto, violenza, furto, minaccia di morte. Degli scafisti abbiamo racconti molto diversi, e non sempre (anzi raramente) da parte degli scampati. Alcuni vengono descritti come dei manovali abbastanza organizzati di un lavoro rischiosissimo (che condividono) e che tentano di portare le barche il più vicino possibile a un luogo di sbarco. Di altri sappiamo che costringono i migranti trasportati a buttarsi in acqua prima e lontano per non essere catturati, ma nessuno ci ha spiegato se era la stessa marina e la polizia italiana (prima che finisse il regime disumano leghista-berlusconiano) la vera causa di questo arrivo pericoloso e terribile, date le pene pesanti che nella improvvisata legge italiana sull'immigrazione (fondata sul pensiero giuridico di Castelli e Calderoli) erano e sono previste. A proposito di altri ancora vi sono storie di sevizie e maltrattamenti anche violenti sulle persone trasportate, ma è quasi sempre mancata un’informazione diretta. In altre parole, il mondo del trasporto clandestino in mare è certamente pauroso, ma di esso abbiamo soltanto informazioni di propaganda (la propaganda anti-immigrazione) sempre prese per buone dal nostro giornalismo. Mi impressiona per esempio una notizia come questa: “Gli scafisti sono stati individuati dalle tracce di carburante sulle mani”, un fatto che durante questo tipo di traversate può capitare a passeggeri che, in un momento difficile, sono in grado di dare un aiuto. Qualcuno avrà per forza notato che nella memoria collettiva dei nuovi venuti sembra più forte, e più ripetuta, la delusione (e anche la disperazione) per il modo in cui sono stati accolti (si fa per dire) in Italia e lasciati a lungo senza spiegazioni e senza alcuna mediazione culturale in luoghi disumani, che i racconti della traversata. Quando ci sono, sono quasi sempre memorie di abbandono (nel senso di omesso soccorso) più che denuncia di trattamento crudele degli scafisti. Lo sforzo assolutamente ammirevole di molto volontariato non ha colmato la lacuna delle storie mancanti. Adesso è in atto l'operazione “Mare Nostrum”. Ovvio che improvvisamente il numero degli sbarcati aumenta. La differenza è in gran parte l’arrivo di coloro che, negli anni e nei mesi passati, finivano in fondo al mare. Ma avrete notato che si sta già chiedendo a gran voce l’abolizione di questa operazione umanitaria e obbligatoria che, fino a poco fa, vergognosamente non c’era.

il Fatto 10.5.14
Ca’ Foscari premia l’uomo della propaganda
di Tomaso Montanari


LUNEDÌ L'UNIVERSITÀ di Venezia assegnerà uno dei suoi più prestigiosi riconoscimenti (il Ca’ Foscari Honorary Fellowship ) a Vladimir Medinskij, il ministro della Cultura del governo Putin.  La decisione (voluta dal rettore Carlo Carraro e ratificata dal Senato accademico) ha sconcertato molti professori, che stanno sottoscrivendo un duro documento di dissociazione e protesta. E il punto non è solo l'inopportunità di offrire sponde occidentali a un esponente di un governo sempre più avviato verso la dittatura e la guerra.
No, il problema è più specifico, e riguarda la personalità del brillante e giovane (1970) ministro. Il quale è un tipo sanguigno: ha sostenuto in pubblico che la Russia sarebbe l'ultimo baluardo della vera cultura europea e dei veri valori cristiani contro la degenerazione dell'Occidente, e che il patto Molotov-Ribbentrop meriterebbe un monumento, visto che l'accordo con Hitler permise all'Unione Sovietica di “incorporare” la Polonia e gli Stati Baltici. O, ancora, che non esisterebbe prova che Caikovskij fosse davvero omosessuale: contro ogni evidenza storica, e in nome di un tipico miscuglio di nazionalismo e omofobia. La New York Review of Books ha definito Medinskij un “uomo della propaganda di Putin”, mettendo in luce altre perle: come il suo tentativo di negare l'antisemitismo russo. E dimostrando l'oggettiva vicinanza delle posizioni di Medinskij con quelle usate nella propaganda dell'ex Kgb, casa madre dello stesso Putin. Infine, per tornare a Venezia, pochi giorni fa Medinskij ha licenziato il curatore del Padiglione russo alla Biennale, lo storico dell'arte Grigory Revzin, perché si era permesso di esprimere dubbi circa la politica in Ucraina.
Ma cosa muove il rettore Carraro? Sotto la sua direzione Ca’ Foscari ha battuto strade molto spregiudicate, per usare un eufemismo: e si possono ricordare l'invito a Marco Goldin (il signore delle mostre ipercommerciali) a inaugurare un anno accademico, o la singolare permuta di palazzi storici dell'Ateneo in cambio di cubature moderne. Sul caso russo, a Venezia si nota che il rettore è anche direttore del programma Climate Change and Sustainable Development della Fondazione Enrico Mattei, dell’Eni. L’Eni: forse le connessioni con la Russia corrono più nei gasdotti che non nei rapporti culturali. Ora, si potrebbe accettare che, in nome della realpolitik, un nostro ministro dei Beni culturali stringesse accordi con questo singolare omologo. Ma francamente è incomprensibile che un'università pubblica italiana tradisca tanto radicalmente la propria missione di conoscenza e sapere critico nel premiare un simile personaggio.

Corsera 10.5.14
Tutte le piste della Jihad dalle scuole nigeriane alle spiagge di Zanzibar
Gli alleati di Boko Haram nell’Africa sub-sahariana
Di Michele Farina


Anche Abubakar Shekau tiene famiglia. In un video del 2012 il leader di Boko Haram annunciava vendetta contro le forze di sicurezza nigeriane che avevano cominciato ad arrestare decine di parenti (anche suoi) come strumento di pressione: «Avete preso le nostre donne? Aspettate di vedere cosa succederà alle vostre».
Dal 2013 Shekau ha dato il via ai sequestri, in un’escalation culminata nel rapimento di massa delle duecento studentesse di Chibok il 14 aprile. C’è chi sostiene che questo crimine danneggerà anche l’immagine di Boko Haram, erodendo il sostegno silenzioso di cui ha in parte goduto fuori e dentro la Nigeria. Di certo ne aumenterà il prestigio all’interno di quella «fascia jihadista» che cinge e minaccia «la pancia» dell’Africa dall’Atlantico all’Oceano Indiano. E’ vero che si tratta di una minaccia largamente minoritaria, in un panorama di convivenza inter-religiosa radicata e diffusa a sud del Sahara. Su un miliardo di africani, i musulmani sono circa un terzo: il loro modello non è certo Shekau, semmai il re del cemento nigeriano Aliko Dangote, l’uomo più ricco del continente. Ed è vero che l’estremità orientale della «fascia» integralista, Al Shebaab, non la fa più da padrone come un tempo nella disastrata Somalia. Però il raggio di azione dei «Giovani» miliziani somali si è ampliato: cellule di Al Shebaab sono state segnalate a Tanga, una delle principali città costiere della Tanzania, Paese dove i cattolici sono il 20% della popolazione e i musulmani il 35%: lì il verbo della jihad arriva dal mare, dall’isola di Zanzibar (a grande maggioranza islamica) dove sta guadagnando terreno il gruppo estremista Uamsho («risveglio» in swahili) che predica la violenza contro i cristiani. Sempre sul fronte orientale, nel vicino Kenya, le frange autoctone che sostengono gli estremisti somali vengono braccate dalle forze di sicurezza, specie dopo la strage al Westgate shopping center di Nairobi che l’anno scorso ha fatto 67 vittime. Un mese fa a Mombasa, dove la moschea Musa è considerata un fortino dei violenti, è stato ucciso Abubakar Ahmed alias Makaburi (Tomba), campione della retorica integralista che aveva giustificato la strage di donne e bambini al Westgate in base al principio della ritorsione caro a Boko Haram. Lo sceicco Tomba, così chiamato per la sua fiera opposizione ai riti della sepoltura giudicati non conformi al «vero Islam», usciva dal palazzo di giustizia dove (per l’ennesima volta) i magistrati non erano riusciti a incriminarlo. A ucciderlo, secondo i suoi sostenitori, gli uomini uno squadrone della morte legato alla polizia.
Se potessero, è quello che farebbero in Nigeria con Shekau. Si ritiene che il leader di Boko Haram si nasconda in un rifugio sicuro oltre il confine: nel nord del Camerun (dove aveva già trascorso un periodo di convalescenza in seguito a una ferita) o in Niger. Secondo un recente rapporto dell’Onu il gruppo che ha rapito le studentesse di Chibok sta sondando il terreno in cerca di approdi e proseliti anche nella Repubblica Centrafricana, approfittando del vuoto di potere e della carneficina in corso a Bangui e dintorni. In quell’area anche la leadership di Al Qaeda nel Maghreb Islamico ha «fiutato» buone possibilità per espandersi verso Sud, bypassando Mali e Chad dove ultimamente non ha vita facile. Gli scontri inter-confessionali che da alcuni mesi devastano il Centrafrica (la pallida presenza di una task-force francese non basta a dare sicurezza alla popolazione civile) portano anche questo effetto collaterale. La «pulizia religiosa» perpetrata dalle milizie cristiane anti-balaka (dopo le violenze commesse dai musulmani Seleka) costituiscono un terreno fertile per i gruppi radicali esterni. E non solo: la nascita di una milizia di auto-difesa denominata «Resistenza musulmana», forte di cinquemila armati, rappresenta un ulteriore passo verso l’abisso, in attesa che la (lenta) missione dell’Onu si palesi all’orizzonte non prima del 15 settembre.
Bambini fatti a pezzi con i machete, donne trascinate dai pullman e violentate mentre fuggono dal loro Paese, dalle loro case: le migliaia di vittime (ora soprattutto musulmane) del Centrafrica non hanno un hashtag che certifichi il loro dramma. Ma sono molto più «vicine» alle ragazze straziate di Chibok di quanto possiamo essere noi su Twitter.

Corsera 10.5.14
Pechino-New York in treno. La Cina progetta il futuro


PECHINO — Il futuro secondo il Celeste Impero. Due giorni di treno per arrivare negli Stati Uniti partendo da Pechino. È questo l’ambizioso progetto sui cui starebbero lavorando tecnici cinesi, secondo quanto scrivono il China Daily e il Beijing Times . Una linea di oltre 13.000 chilometri, più lunga della leggendaria transiberiana.
Secondo i tecnici, con una velocità media di 350 chilometri orari, si riuscirà, partendo dalla capitale cinese, risalendo per la Siberia, attraversando lo stretto di Bering in un tunnel (che se realizzato diventerebbe il più lungo al mondo sotto il mare) per poi percorrere Alaska e Canada, a raggiungere in due giorni le maggiori città americane.
Un sogno? I cinesi hanno già dimostrato in passato di poter stupire per quanto riguarda l’alta velocità. Fino ad ora, hanno costruito la ferrovia più alta del mondo (quella che da Pechino arriva alla capitale del Tibet, Lhasa) e la più lunga linea ad alta velocità al mondo (da Pechino a Canton, 2.300 chilometri in otto ore). La Cina ha realizzato in tutto 13.000 chilometri di linee superveloci, con l’obiettivo di raggiungere i 25.000 chilometri nel 2020, e un investimento totale di 300 miliardi di dollari.
Ora Pechino vuole concretizzare il collegamento tra Cina, Russia, Canada e Usa: un progetto all’apparenza avveniristico. Il tunnel nello stretto di Bering prevede la stessa tecnologia ipotizzata per quello tra la Cina e Taiwan, di cui si parla dal 1996, ma che è stato approvato solo dalla Cina nel 2013, e non dalla «provincia ribelle». Altre idee sono sul piatto: come una linea che da Londra via Parigi, Berlino, Varsavia, Kiev e Mosca dovrebbe arrivare in Cina, attraverso Kazakistan o Siberia. Si vedrà se tutto questo sarà fantascienza o realtà.

la Stampa 10.5.14
Amos Oz: coloni ultrà sono come i neonazisti


Gli ultras ebrei che nelle ultime settimane hanno moltiplicato gli attacchi e i vandalismi contro arabi, musulmani e cristiani, sono «la versione locale dei neonazisti». Il romanziere Amos Oz, uno dei più autorevoli esponenti della sinistra israeliana, ha attaccato ieri gruppi come «Tag Mehir» (il prezzo da pagare) e «I giovani delle colline» (frange radicali del movimento dei coloni). «Sono termini edulcorati di un mostro - ha detto lo scrittore - che dobbiamo ora chiamare con il suo nome: sono gruppi neonazisti ebraici».

la Repubblica 10.5.14
Sarajevo Dopo venti anni rinasce la biblioteca simbolo della città


SARAJEVO. Dopo più di vent’anni dalla sua distruzione è rinata la “Biblioteca di Sarajevo”: è stato inaugurato ieri l’edificio ristrutturato della Vijecnica, uno dei simboli della città. Il municipio austro-ungarico che ospitava la Biblioteca nazionale bosniaca fu incendiato e distrutto dai serbi nell’agosto del 1992, all’inizio della guerra in Bosnia. Pochi giorni dopo, una foto del violoncellista Vedran Smajlovic che suonava il violoncello tra i ruderi fece il giro del mondo. L’edificio è stato ricostruito fedelmente con materiali originali: ospiterà l’amministrazione cittadina, parte del patrimonio librario della Biblioteca Nazionale e il Museo di Sarajevo.

la Repubblica 10.5.14
Un’estetista vale più di una poesia
di Guia Soncini


GLI altri andavano a giocare a calcetto, lui mandava a memoria i poeti del romanticismo inglese; chiaro che poi, quando da grande un certo tipo d’essere umano maschio decide che quel che ha imparato a scuola è la chiave per spiegare l’universo, l’assennatezza dell’essere umano femmina le impedisce di contraddirlo: svegliereste un sonnambulo?
Un po’ di tempo fa, quindi, Fabio Fazio — esponente più in vista della categoria «da giovane ha studiato e da adulto intende farcelo pesare» — ha preso questa malattia della bellezza. Dicono che non sia curabile. Dicono che si debba solo aspettare che passi. Ha iniziato a spiegarcela un po’ ovunque. Prima di Sanremo.
Durante Sanremo. Dopo Sanremo (dal quale non sembra essersi ancora ripreso, sebbene siano passati tre mesi). L’estetica e l’etica. Quel che è bello che è anche buono.
Con l’aiuto di Crozza che elencava artisti e poeti morti da almeno trecent’anni, e mai che citasse una Miuccia Prada facendoci sperare fosse stato avvistato del bello pure tra i vivi.
È che, come al solito, hanno avuto i testi di formazione sbagliati: che il bello non fosse necessariamente buono (anzi), l’essere umano femmina l’ha appreso alla prima visione di Biancaneve, che sarà pure stata la protagonista con diritto al lieto fine ma aveva un evidente problema di couperose; la matrigna, quel concentrato di perfidia, lei sì che era bella.
Eburnea: non solo quel che è bello non è necessariamente buono, ma la cattiveria fa evidentemente bene alla pelle.
Manteniamo il segreto. Credano alle poesie che hanno portato alla maturità, pensino pure che «Bellezza è verità, verità è bellezza». Continuino a ignorare che, nella vita delle femmine adulte, «bellezza» non sta alla voce dei sinonimi di «verità», ma a quella «estetista» della rubrica del telefono: sarà bella la scenografia diroccata del Festival, ma trovare un posto per la ceretta il sabato pomeriggio è bello ancor di più.

la Repubblica 10.5.14
Tre mostre celebrano la bellezza. Che sia moderna o antica, piace che guardi al classico, anche nel trucco A scuola di seduzione dal passato
di Elisabetta Muritti


ALLA Kunsthalle di Amburgo si snoda fino al 15 giugno Feuerbach’s Muses - Lagerfeld’s Models, una mostra ammaliante. Karl Lagerfeld, maestro di raffinatezze e stilista di Chanel, rilegge il mito di Dafni e Cloe con foto dei suoi modelli-feticcio (Bianca Balti, Baptiste Giabiconi...); e poi affronta i quadri di un altro esteta tedesco perso nella contemplazione di una perfezione senza tempo, il pittore ottocentesco Anselm Feuerbach. Ed è subito cortocircuito. La grazia, quella vera che ci placa, non ci è mai sembrata così remota e contemporanea. Stesso brivido in L’utopia della bellezza. Davanti alle opere dei pittori preraffaelliti della Tate di Londra, fino al 13 luglio a Palazzo Chiablese di Torino: Dante Gabriel Rossetti e John Everett Millais hanno regalato a volti, mani, capelli e sentimenti un’“antichità” modernissima, quasi adolescente. «Già», riflette Tommaso Ariemma, filosofo e docente di estetica (autore di Il corpo preso con filosofia. Body building, chirurgia estetica e clonazione, Il Prato). «Nell’arte sta tornando un’attenzione alla bellezza canonica. Persino la creatività contemporanea non vede più nella bellezza un problema strategico, semmai la sente come un “affare” normale». E qui capiamo un’altra ragione del nostro (piacevole) stordimento. Anche i trend delle case di cosmesi, anche i personaggi che adesso ci piacciono, i comportamenti che ci interessano inneggiano alla freschezza e alla normalità. Normalità intesa come rivoluzionaria classicità-banalità, vessillo dei teenager intelligenti (più o meno integralisti nel perseguirla).
Le modelle del momento sono Amanda Murphy ed Elisabeth Erm, una bruna e una bionda sospese tra mitologia e quel post-romanticismo di questi nostri anni disastrati, pieno di storie “normali” da sognare. Le case di cosmetica inneggiano al glow, al bagliore sprigionato da un viso pulito e curato, di qualunque età o vissuto; è tutto un nude look, un effetto traslucido, illusorio o reale, un rossetto color pelle, una pelle baciata dal sole, un contouring, l’arte di scolpire i lineamenti con la luce e con l’ombra. Persino Rihanna cade nella dolce trappola del monochromatic, della glodenglow face . «Se oggi la bellezza non è più un problema per l’arte, figuriamoci se lo è per gli individui », spiega Ariemma. «Pensiamo all’esplosione dei selfies, con la faccia comune che fa concorrenza a quella famosa e artefatta. La bellezza oggi non è più un’ossessione per nessuno, è semmai la ricerca, senza stress, di una classicità “media”, di un’intelligenza elegante ». Forse. Intanto, ai visitatori di un’altra mostra bella e strana al Palazzo Reale di Milano, Il ritratto che Antoon Van Dyck fece a Venetia Stanley, nota come Lady Digby, capita un altro black out. La signora conduceva vita sregolata e dissoluta e ciò nonostante vantava un incarnato che ricordava le rose damascene. Van Dyck non lo sapeva, ma nel ritrarla abbondò di glowing e contouring.

Salone del libro

Corsera 10.5.14
«Arrenderci? Mai». La riscossa dei librai tradizionali
Psicologo e un po’ stakanovista L’alchimia del successo dell’indipendente fra gli scaffali
Di Annachiara Sacchi


Come in un porto sicuro, «devo fare un regalo, cosa mi suggerisce?». Come in salotto di amici, «l’ho letto, stupendo, il secondo è ancora meglio del primo». Come dallo psicologo, «quel romanzo non ti piace, scartalo. L’altro, invece, è perfetto per te».
Ci sono ancora posti come questo. Librerie in cui fermarsi e perdersi, dove raccontare e raccontarsi, confrontare autori e impressioni. Dove le persone contano più degli scaffali, la fiducia tra cliente e acquirente più di una promozione. Alla Centofiori di Milano questa magica formula dell’accoglienza si ripete ogni giorno. E non tanto per i ventisettemila titoli presenti, le belle vetrine, la disposizione eccellente dei volumi. Gli alchimisti, come sempre, sono i proprietari.
«Che cento fiori sboccino, che cento scuole di pensiero gareggino». Dal celebre slogan di Mao Zedong prese nome nel 1975 la mitica libreria di piazzale Dateo. Altra epoca, il negozio era specializzato in testi di psicologia, gli studenti milanesi iscritti all’Università di Padova si rifornivano qui. Poi un trasloco ventennale per colpa di un cantiere infinito, la Centofiori trasferita in un prefabbricato poco lontano dove non era difficile incontrare Giuseppe Pontiggia e, dal 2005, due nuovi soci: Andrea Spazzali e Roberto Tartaglia.
Dieci anni in crescita, da allora. Nonostante la concorrenza delle grandi catene e degli ebook, nonostante Amazon e il progressivo calo di lettori. Una libreria indipendente che ce la fa. Andrea, che ha quarantasette anni e a diciotto lavorava in una libreria scolastica, spiega: «La ricetta è semplice, molto lavoro e sapersi rinnovare». Passa un cliente in bicicletta: «Bello Andrea, l’ho appena finito, grazie, avevi ragione». Ecco il segreto.
Buoni consigli, tanti autori che almeno una volta alla settimana chiedono di presentare le loro opere tra gli scaffali di piazzale Dateo (oggi pomeriggio alle 18.30 c’è Marcelo Figueras con Kamchatka, lunedì Lauren Groff con Arcadia ). La lista di attesa è lunga, anche perché il pubblico della Centofiori — altro ingrediente di questo successo — è appassionato, attento, avido di novità. E sa scegliere: da anni Andrea e Roberto si affidano ai pareri dei clienti. Come Luciano, che ogni due giorni passa e prende un libro. Lo paga solo se gli è piaciuto, altrimenti lo restituisce. Ma questa indulgenza è ammessa «solo perché il suo fiuto è infallibile», scrive Matteo Eremo nel libro La voce dei libri. Undici strade per fare libreria oggi (Marcos Y Marcos), storia di undici librerie indipendenti che hanno sconfitto la crisi.
L’anima di un negozio. I suoi proprietari (aiutati dalle preparatissime Veronica, Irene, Sarah), i clienti, gli happening, le presentazioni della domenica mattina in cui la strada si riempie e a volte servono i megafoni per consentire a tutti di ascoltare. Il tavolo in cui compaiono i titoli selezionati dai proprietari, «proponiamo cose gradevoli, interessanti e senza refusi». Studio e passione. «Mai fermarsi, la concorrenza è spietata e noi non possiamo permetterci di fare sconti», ammette Andrea. Ma si lascia scappare un sorriso: «Svegliarmi la mattina ed essere felice di andare in libreria credo sia il più grande lusso che mi potesse capitare».

la Stampa 10.5.14
Nell’anno del sacro la coda più lunga è per l’ateo Odifreddi
Tra gli stand convivono diavolo e acqua santa Gli alleati tedeschi a caccia di eventi turistici
di Emanuela Minucci


Le file si allungano di fronte al Lingotto. Si parla di un più 5 per cento di biglietti staccati, fuori, e di un dieci per cento in più di libri venduti dentro. Il Salone spirituale tira e riesce a far convivere nell’acquario del Lingotto l’acqua santa e il diavolo, il cardinale Gianfranco Ravasi e Piero Pelù, Massimo D’Alema e Peppa Pig, l’ex segretario di Stato del Vaticano Tarcisio Bertone e il dj Ringo. È la dialettica della cultura. E non ci si può fare niente. Così capita che nell’edizione dedicata al Bene con il Vaticano Paese ospite la fila più lunga per entrare a sentire il laicissimo Odifreddi. La visione del matematico impertinente di un tema da niente come la Natura.
L’investitura
D’altronde, la mattina era cominciata bene, con il presidente Rolando Picchioni che porta a casa l’accordo con la Buchmesse di Francoforte per avere la Germania come Paese ospite nel 2015. Con il suo «ja» la delegazione tedesca capitanata da Barbel Becker, ha fatto la felicità dell’assessore alla Cultura Coppola (il primo a incontrare i vertici della Buchmesse nell’ottobre scorso) dato un bell’assist agli attuali vertici del Lingotto a guadagnarsi un altro anno alla guida della kermesse. Di questo hanno parlato di sicuro Picchioni e Chiamparino che si sono chiusi nell’ufficio del patron per una buona mezz’ora prima di fare un giro (elettorale) al Lingotto, scandito da tante strette di mano da lussare le falangi e libri in regalo come «Torinesi nella Pampa». Finito il tour, l’aspirante presidente della Regione Chiamparino dirà che il Salone è molto bello «e non c’è urgenza di cambiare».
Vendite anti-cicliche
E se i librai piangono, ecco che il Salone va in controtendenza: Mondadori, Einaudi, Ibs, Sperling & Kupfer, Adelphi, Feltrinelli parlano di vendite molto buone, migliori dell’anno scorso che erano già dati buoni rispetto a quel che si aspettava con la crisi.
Il traino del Salone
C’è un effetto traino, come spiegava ieri Maurizio Montagnese, presidente di Turismo Torino, fra i visitatori dello stand e il tour fra le bellezze della città. Non per niente ieri la delegazione tedesca di Francoforte è andata a vedersi qualche mostra in centro e ha visitato il Circolo dei Lettori: «Bellissima l’idea del Salone Off - ha detto Barbel Becker - lo faremmo volentieri anche noi se solo avessimo le vostre location». E poi, da bravi tedeschi, hanno già chiesto tutto il materiale turistico possibile su Torino, per farsi trovare preparati il prossimo anno e offrire al proprio pubblico un pacchetto che valga la pena.
Il Papa e il Gattopardo
Mentre oggi si attende il solito botto di pubblico di affluenza del sabato (ieri la folla era ad alto tasso di scolaresche, oggi sarà la giornata delle famiglie) il programma del Salone continua a puntare su un fritto misto molto appetitoso, che sposa appuntamenti solenni come «Le parole del Papa», l’incontro con il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, alle undici nella maxi sala 500 e la lectio magistralis di Enzo Bianchi sul «Dono e perdono», insieme con la presentazione di «Ammazziamo il Gattopardo» con il caustico Alan Friedman che nel cuore del pomeriggio prevedibilmente riempirà la Sala dei 500 e andrà pure oltre. Per sorridere c’è Claudio Bisio, per ricordare con nostalgia che non è mai troppo tardi, con l’incontro con Giulia Manzi, la figlia del maestro catodico e gentile.

il Fatto 10.5.14
Altro che Freud e Lacan, ora c’è Recalcati
di Elisabetta Ambrosi


SONO IL TRADIMENTO protagonista assoluto del libro di Massimo Recalcati, Niente è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa (Cortina editore). Sono soddisfatto, perché il libro è in classifica da un bel po' di settimane, il che significa che tutto sommato sono stato sdoganato. Però nel libro lo psicoanalista che legge Lacan un po’ a modo suo (come tutti i lacaniani, d’altronde, essendo Lacan incomprensibile) mi bastona parecchio. Lo so, lo so, l’“amore senza vincoli è un’illusione che ha generato solo fuochi fatui” così come il “cinismo iperedonistico del discorso capitalista”. Lo so, lo so, Freud si sbagliava, perché ciabatta e passione, amore e desiderio, possono anche andare d’accordo. Però vorrei spezzare una lancia a mio favore: sicuri che i tempi siano così cambiati da aver reso il libertinaggio addirittura un “inedito dovere superegoico”? E che io non svolga alcuna nobile funzione, specie visti gli scarsi quattrini in giro? Ma soprattutto mi piacerebbe che quando si parla di me non si dicesse che “i maschi tendono a sorvolare sul valore effettivo della fedeltà” e le donne no (mentre poi quando tocca a loro le cose si rovesciano, perché “gli uomini soffrono per la ferita da castrazione” e le donne meno, visto che “la castrazione appartiene alla struttura stessa del loro essere”). Né che si dicesse che “la libertà sessuale guadagnata faticosamente dalle donne rischia di ricalcare i passi falsi della nevrosi maschile”. Perché così si finisce per ricadere in vecchi cliché, e sempre a carico delle donne. Mentre forse la vera differenza, quando si tratta di me, passa tra le persone, non tra i generi.

la Stampa 10.5.14
Salone-Buchmesse, se son libri fioriranno
Avviata una partnership fra Torino e Francoforte E nel 2015 sarà la Germania il Paese ospite al Lingotto
di Emanuela Minucci


Si sono fatti desiderare, forse anche riverire, per più di un anno. E alla fine hanno detto sì. La Buchmesse di Francoforte sarà ospite, l’anno prossimo, al Salone del libro, che dovrà imparare a parlare tedesco e proporre una letteratura finora scarsamente tradotta. Una partnership che non ha nulla di improvvisato. Perché dietro ogni scelta culturale della Germania c’è l’avallo del ministero. E ora il ministero ha approvato il nuovo accordo tra la fiera del Lingotto e la Frankfurter Buchmesse: 300 mila visitatori, dieci padiglioni, 7.100 espositori in arrivo da 120 Paesi, 10 mila giornalisti accreditati. Una corazzata culturale che, cifre alla mano, vale dieci volte quella del Lingotto. E che ha accettato di «gemellarsi» con Torino diventando il Paese ospite della prossima edizione, quella del 2015, l’anno dell’Expo, che mette l’Italia al centro del mondo.
La Germania sarà dunque protagonista del prossimo Salone, che a sua volta è stato invitato a ottobre alla Buchmesse: «Vogliamo scoprire tutte le formule segrete di questa fiera», dicono gli inviati di Francoforte: «alchimie in grado di mischiare i libri con i bambini e piazzare i diritti editoriali di un bestseller a un mondo nuovo come la Cina e nello stesso tempo trasformare un romanzo in fiction».
Il sodalizio tra la nostra cultura e quella tedesca è in crescita. All’ultima Buchmesse erano 324 gli editori italiani presenti. Ma soprattutto, a legare la Buchmesse al Salone di Torino sono temi di stretta attualità come le case editrici «start up», il self-publishing e la digitalizzazione dell’offerta. Insomma, come modernizzare (e, perché no, monetizzare) al massimo l’offerta letteraria. A suscitare interesse, formule come l’Incubatore (l’area del Salone dedicata alle case editrici neonate) e soprattutto l’International Book Forum, dove da tre giorni la delegazione tedesca capitanata da Bärbel Becker, direttrice dei progetti internazionali, analizza il format torinese che trasforma il libro in business.
«Sono anni che osserviamo questa realtà di scambio dei diritti editoriali», racconta, «e quest’anno ci siamo trasformati in inviati speciali. Durante le mattinate passate fra i vostri padiglioni ci siamo fatti un’idea precisa di quello che sarà lo stand della Germania: senz’altro più raccolto e favorevole alla lettura rispetto alla media dei corner del Lingotto: perché l’unico neo di questo salone è il frastuono, così antitetico alla lettura».
A fianco di Bärbel Becker c’è Jessica Kraatz Magri, del Goethe Institut di Torino. Sarà lei a fare da ponte tra la Buchmesse di Francoforte e quella di Torino: il ministero della Cultura tedesco ha affidato ai Goethe Institut italiani i fondi per tradurre gli autori. E anche di autori si è parlato ieri mattina nel lungo vertice tra il presidente del Salone Rolando Picchioni e la delegazione tedesca. Per ora si sa soltanto che saranno una ventina di grandi nomi. Tra i format che invece la Germania vuole importare da Torino c’è l’area dedicata ai piccoli lettori, il castello del Bookvillage, quel Salone per i ragazzi che fa pianeta a sé: «Anche noi poniamo attenzione ai giovani, ma non avevamo mai pensato a un’area dedicata», spiega la direttrice Becker. «Educare alla lettura è la cosa più importante».
Il gigante teutonico, insomma, ha qualcosa da imparare. E commenta così il monito espresso dal ministro per i Beni culturali Dario Franceschini («Le tv hanno il dovere morale di risarcire i danni fatti alla lettura»): «In Germania non abbiamo lo stesso problema perché si tratta di due mondi non assimilabili. Mentre l’era digitale rappresenta solo un’opportunità per la cultura scritta. Il libro cartaceo esisterà sempre, magari sarà meno diffuso dell’ebook, ma la lettura resterà una e non potrà che trarre benefici da questi nuovi media».
Francoforte sta infine studiando anche la formula della «Fiera aperta», quel Salone «Off» che a Torino organizza cinquecento eventi in giro per la città. «Il meta-evento che va oltre i padiglioni della fiera è intrigante, noi abbiamo proporzioni gigantesche, ma non è detto che non ci proveremo».

Corsera 10.5.14
I distributori: «Stiamo discutendo se fonderci». E i piccoli tremano
di Cr. T.


TORINO — La distribuzione è uno dei temi caldi del Salone. Si parla con preoccupazione di una possibile operazione che coinvolge due dei maggiori distributori, Messaggerie e Pde (la società dal 2008 fa parte del gruppo Feltrinelli) che con Mondadori e Rcs si dividono il mercato della distribuzione. La possibile concentrazione fa paura soprattutto ai piccoli, preoccupati di rimanere schiacciati dai grandi gruppi che controllano tutta la filiera. Secondo le voci la fusione si farebbe entro l’anno con il 70% a Messaggerie e il 30 a Feltrinelli. Claudio Fanzini, amministratore delegato di Messaggerie, nega che ci siano accordi ma ammette «un’ipotesi di collaborazione distributiva che in futuro potrebbe coordinare l’attività per renderla più semplice ed efficace. Dobbiamo capire se ci sono i presupposti anche perché la realizzazione pratica coinvolge molti aspetti. Ne stiamo parlando, ma al momento nulla di fatto né scadenze». Una ipotesi di fusione comporterebbe anche la valutazione dell’Antitrust: «Certo, c’è anche questo aspetto, però secondario. Il mercato offre possibilità di scelta, ci sono Mondadori, Rizzoli, De Agostini».

la Repubblica 10.5.14
Se il potere corrompe la democrazia
Il dominio delle oligarchie nel confronto tra Ezio Mauro Zagrebelsky, Canfora e Stella
di Simonetta Fiori


TORINO NEI giorni della vergogna dell’Expo, il tema dell’intreccio tra danaro e potere richiama il pubblico del Salone. In una gremita sala gialla si discute delle “oligarchie” e della minaccia che rappresentano per la democrazia. L’occasione è la pubblicazione di un dialogo tra Luciano Canfora e Gustavo Zagrebelsky, curato dallo studioso di filosofia Geminello Preterossi (La maschera democratica della democrazia, Laterza). Ma cosa s’intende per “oligarchia”? Ezio Mauro propone una sintesi delle definizioni suggerite dai due studiosi. Il governo dei pochi a danno dei molti, «un esercizio del potere che toglie la potestà ad alcuni a vantaggio di altri». Un meccanismo che produce «esclusione» e «diseguaglianza». Qual è la materia della politica oligarchica del nostro tempo? Essa è costituita dal danaro e dal potere, e dal loro reciproco collegamento. «Ma con una differenza fondamentale rispetto al passato. Un tempo potere e denaro erano mezzi, non fini. Oggi potere e denaro sono diventati i fini, da qui lo sconfinamento nell’epoca del nichilismo». Ma per potere esistere — questa la tesi di Zagrebelsky e Canfora — l’oligarchia si deve fingere democratica, finendo per intaccare il cuore stesso della democrazia. «L’organismo democratico viene dato per morto», dice il direttore di Repubblica , «ma io non sono d’accordo. È sbagliato liquidare l’intero sistema politico come un blocco unico. Lo scandalo dell’Expo e la decapitazione della destra berlusconiana per motivi penali — Previti, Dell’Utri, Scajola — ci impongono di dare giudizi motivati, non di prendere a calci l’intero sistema».
La democrazia appare ormai come «un guscio vuoto», replica Zagrebelsky, «ma non è detto che non si possa nuovamente riempire». Il guscio comunque resta. «Oggi vedo proliferare un meccanismo oligarchico che crea consenso chiedendo fedeltà. Ma questo sistema è condannato presto a incepparsi. Con esiti che possono essere di segno opposto: una soluzione autoritaria oppure una ripresa democratica, grazie alla reazione degli “esclusi”». È meno ottimista Canfora, che si definisce un “iperdemocratico” che non può stare sereno «in un mondo segnato dall’omogeneità finanziaria ed economica tra Stati Uniti ed Europa». Secondo lo storico la società italiana è segnata da una rete di “oligarchie concentriche” che dai “clan di paese” salgono alle élite più colte. Quello che lo colpisce «non è tanto il loro potere perverso ma la reticenza con cui vengono coperte anche dai giornali». Sorprende l’intreccio tra danaro e potere? Gian Antonio Stella, inventore giornalistico della “casta”, evoca addirittura una caso di “Expo postunitario” avvenuto nel 1862. Come a dire nihil sub sole novi.

il Fatto 10.5.14
Chi legge e chi no
È colpa della tv o dei brutti libri?
di Daniela Ranieri


Al Salone ho chiesto che tutte le televisioni risarciscano con programmi e attenzione ai libri, i danni che hanno fatto per anni alla lettura”.
Non ingannino l’uso screanzato della punteggiatura e il lessico bizzarro: l’asserzione che il ministro della Cultura Franceschini consegna a Twitter in occasione della sua visita a Torino merita la giusta attenzione. Per prestare la quale occorre indossare espressione pensosa, giacca con le toppe, occhiali di tartaruga.
Assumiamo che il ministro parli di danni alla lettura in termini di qualità letteraria, dando voce alla originalissima preoccupazione che 50 anni fa mobilitava gli intellettuali: può un incessante, indigeribile blob disseccare la vena creativa degli scrittori e di conseguenza rovinare il gusto della lettura? Problema facilmente liquidabile: si scriva un capolavoro e si spezzi il sortilegio. Se invece Franceschini si riferisce al crollo delle vendite di libri, sulla scorta dell’altrettanto fresca ipotesi che in Italia si guarda molta tv perciò non si legge, siamo nel puro nonsense storico, non foss’altro perché in anni recenti, quando l’editoria era in salute, la tv esisteva e prosperava, peraltro senza la concorrenza della Rete.
Negli anni gloriosi della tv impunturati dagli effetti grafici di Studio Uno, al bianco e nero immaginifico delle Kessler, di Mina, di Walter Chiari rispondeva con eroico furore il bianco metafisico delle copertine Einaudi, contrassegno di una egemonia culturale non ancora toccata da quell’antiberlusconismo che vorrà i decerebrati davanti a Colpo grosso e gli evoluti alla lettura della Cvetaeva alla Casa delle donne. Quando i libri si vendevano, non serviva piazzarli negli sceneggiati come le Marlboro nei film di Manfredi, o infilarli nei palinsesti per decreto ministeriale. La tv era certo meglio di adesso, ma anche la letteratura lo era, e il “consumatore” faceva la sua scelta.
POI FURONO gli anni in cui gli intellettuali à la Storace andavano in tv a dire che era colpa dell’egemonia culturale di sinistra, se la cultura di destra non aveva spazio. In mezzo, tutto un biancore lenitivo di democristiani che almeno, come ricordava Ber-selli, non volevano culturalmente convincere nessuno, ma solo celebrare la protervia del loro trentacirca%.
Oggi una sinistra che non riesce più a intercettare un elettorato culturalmente raffinato e riconoscibile fa le leggi e i governi con Berlusconi e poi imputa alle televisioni il regresso culturale del Paese.
Perché “le televisioni” sappiamo cosa vuol dire. Non quella tv decente e posata delle ospitate riflessive, che favorisce romanzetti-cacca scritti da autori e personaggi televisivi che contattati dalle case editrici per la loro popolarità sfornano prodotti di largo successo. I danni alla letteratura non è la tv a farli, ma la letteratura stessa, o ciò che si spaccia per essa.
Nell’incommensurabile mole di libri scritti coi piedi, poi, alcuni vendono, altri no, manco a farne uscire una seconda edizione peggiorata. È una legge dura, misterica. Non basta scriverli male: bisogna scriverli male, ma bene.
L’endorsement di un vip può fare un best-seller: Littizzetto ti legge in spiaggia, Carlo Conti ti nomina a Viareggio, e il giorno dopo sei in classifica nelle pagine di cultura, tra le lettere di Seneca a Lucilio e l’ultimo di Vespa.
Meno sicuro il successo di una spintarella da un ministro, foss’anche il ministro della Cultura; persino quando autore del libro e ministro sono la stessa persona.
Non diciamo che Franceschini sia inadeguato alla Cultura; anzi, quando fu nominato pensammo tutti “vedi, ha fatto bene a farsi crescere la barba”. E lui, un minuto dopo, stava già twittando i titoli dei suoi romanzi, sconosciuti tanto ai lettori forti quanto agli ipnotizzati dalla tv.
L’intemerata contro la tv garantisce per lui: ma allora è proprio laureato!
Un’idea per un capolavoro: un aspirante scrittore si riempie casa di manoscritti che non riesce a piazzare. Ma, come Kafka, deve pur mangiare. Si iscrive alla Dc. Diventa delegato provinciale. Pubblica il primo romanzo, la storia di un uomo pensoso, vince alcuni premi. La sua carriera politica decolla. Assessore, deputato, sottosegretario.
MA LA SUA PASSIONE, la scrittura, lo chiama come Moby Dick chiama Achab. Scrive un secondo romanzo, la storia di un uomo idealista, non sfonda.
Diventa segretario del partito di quasisinistra, poi ministro della Cultura, ma niente: neanche l’ennesimo romanzo, la storia di un uomo con 52 figli (no, non è il collega Delrio), conquista il grande pubblico. Dopo una notte di sogni tormentosi, l’uomo capisce: ma certo! è colpa della tv, a cui chiede di risarcire il pubblico con programmi che promuovano libri, magari i suoi. Si salvi chi può.

la Stampa 10.5.14
Laterza: meglio un longseller che un bestseller
L’erede della storica dinastia di editori crede nei conti a posto Anche se non condivide l’ossessione di molti colleghi per i numeri
Alberto Mattioli


Scherza: «Io sono la quarta dei Laterza», intesa come generazione di editori coltissimi e serissimi (sempre e solo saggistica), di base in una piazza un po’ decentrata come Bari. Il signor quarta generazione si chiama Giuseppe Laterza ed è il presidente della casa editrice. La quinta sarà rosa, con Antonia, figlia sua, e Bianca, figlia di suo cugino Alessandro, amministratore delegato.
Vede rosa anche il futuro del libro?
«La crisi ci ha fatto prendere atto che il libro non è anticiclico, quindi non si tornerà all’euforia di prima. E ci ha obbligato a ripensare il nostro mestiere dall’inizio. Partiamo da lì. La domanda è: cos’è un libro?».
Sono sicuro che si è anche dato una risposta.
«È un veicolo di idee. L’editore è una persona che pubblica delle idee e così permette loro di diventare opinioni. Ma fra i miei colleghi si parla raramente di idee. Piuttosto, si fanno i numeri».
Si fanno o si danno?
«Qualche volta si danno anche, per esempio spacciando le copie stampate per quelle vendute. Ma non è solo questo. Il punto è che trenta o quarant’anni fa gli editori guardavano forse troppo poco i numeri; oggi li guardano sicuramente troppo, in qualche caso unicamente. Sono diventati dei manager. Però Giulio Einaudi o Giangiacomo Feltrinelli o Giulio Bollati o Vito Laterza non erano manager, erano editori, gente che maneggiava in primo luogo idee».
Le idee alle volte non rendono.
«Per carità, sono attentissimo ai bilanci. La salute economica è indispensabile. Ma Il capitale o L’origine della specie, ai loro tempi, non furono campioni di vendite. Però hanno cambiato il mondo e si leggono (e si vendono) ancora. Meglio un longseller che un bestseller. Quando è morto Jacques Le Goff mi è venuta la curiosità di vedere quante copie avesse venduto il primo libro che fece con Laterza quando passò da Einaudi a noi. Beh, in vent’anni L’uomo medievale ha fatto 140 mila copie, un’enormità».
E’ più difficile fare l’editore al Sud?
«Sicuramente il mercato è più fragile. Ma io sono un editore al Sud, non un editore del Sud. E poi sto in Puglia, che per il libro è forse la regione più vivace d’Italia. Basta pensare ai Presìdi del libro, oltre sessanta gruppi di lettori sparsi per il territorio».
E sul fronte digitale si è attrezzato?
«Abbiamo Libra, gli ebook “arricchiti”, per esempio con immagini in movimento. Oppure Eutopia, la prima rivista europea bilingue. E soprattutto c’è Lea».
Un’altra cugina?
«No, sta per Libri E Altro. Libri in streaming intorno ai quali si raccolgono e discutono i lettori, fra loro e con gli autori. Per esempio abbiamo messo in rete le molte presentazioni del saggio di Canfora e Zagrebelsky, La maschera democratica dell’oligarchia, con tutti gli appassionati dibattiti che ha provocato. Oppure il libro di Marino Sinibaldi, Un millimetro in là pubblicato con tutte le note editoriali, insomma il libro insieme al suo backstage, a tutto il lavoro che c’è dietro».
Citi tre saggi su cui Laterza punta molto.
«Uno è appunto quello di Sinibaldi, una straordinaria riflessione sulla cultura. Poi La crisi dell’utopia di Canfora, un libro di 500 pagine che non fa sconti al lettore ma che è partito benissimo. E Lo Stato innovatore di Mariana Mazzucato, che dimostra come dietro le vere grandi innovazioni ci sia sempre l’intervento pubblico. Nei Paesi anglosassoni ha avuto recensioni entusiastiche».
A partire da quante copie in Italia un saggio è un successo di vendita?
«Direi 3 mila. Ma io devo avere il bilancio in attivo o in pareggio su base annua, quindi posso anche permettermi di pubblicare qualche libro che so che non le venderà ma che lo merita».
Sono numeri da Paese culturalmente depresso.
«No, quelli della Germania o del Regno Unito non sono molto diversi».
Un libro che si è fatto sfuggire?
«Il secolo breve di Hobsbawm. I suoi li avevo pubblicati tutti, ma per questo mi avevano chiesto una cifra astronomica e rinunciai. Sbagliando perché è un grande libro e perché avrebbe ampiamente ripagato il suo costo».
I romanzieri spesso fanno i capricci con gli editori. Vale anche per i saggisti?
«Non credo. Una volta facemmo una Storia universale da vendere in edicola con il Corriere della Sera. Chiesi al grande storico Domenico Musti se potevo inserirci la sua Storia greca, un libro che vendeva 3 o 400 copie all’anno. Lui mi disse di sì, “ma per favore - aggiunse - correggi quella nota perché c’è un refuso”. Dopo qualche mese gli telefonai per annunciargli che in edicola il suo libro aveva venduto 250 mila copie. Un attimo di silenzio. Poi mi chiese: “Ma quella nota l’hai poi fatta correggere?”. Non gli interessavano le 250 mila copie, gli interessava una nota a pie’ di pagina. Ecco, il privilegio del mio lavoro è anche quello di conoscere gente così».

il Fatto 10.5.14
Grazie ai baby lettori, i bambini salvano il libro
Salone di Torino, la letteratura per l’infanzia è l’unico segmento in crescita. Il resto è negativo: Nel 2013 gli italiani hanno acquistato 2,3 milioni di volumi in meno del 2012
di Silvia Truzzi


inviato a Torino A volte basta un colpo d'occhio per capire come vanno le cose. Le indagini, le statistiche, i sondaggi, servono a confermare, a essere sicuri, a capire. Passeggiando tra gli stand del Lingotto, lo spettacolo migliore lo danno i bambini, di tutte le taglie: dai piccolissimi di prima elementare o degli asili, a quelli più consapevoli delle medie. Si aggirano a sciami, capeggiati da pazienti e indaffarate maestre, in fila per due, mano nella mano. E sono tantissimi, non solo nell’Arena Bookstock, il villaggio dedicato agli under (dove c’è anche un servizio di baby sitting letterario e si tengono incontri come “Anatomia del testo, per giocare all’allegro chirurgo con un racconto di Alice Munro” o “Perché il touchscreen non soffre il solletico”). Li vedi a spasso per i padiglioni, piuttosto disinvolti e divertiti, anche quando non riescono a vedere i libri perché non arrivano ad altezza di bancarella. Allora saltellano, per arrivare dove? A guardare i libri. Che per loro sono, e si spera saranno sempre, una festa.
SI CAPISCE da quanti bambini visitano il Lingotto in questi giorni che, se c'è una speranza per l’editoria, abita in loro. Del resto è una questione di sopravvivenza, e forse di istinto: senza libri, e quindi senza idee, il mondo è condannato alle sabbie mobili del presente. Dunque non ha futuro. Fin qui sono impressioni. Ma in mattinata l'Associazione italiana editori (Aie) ha reso noti i risultati dell'indagine Nielsen che, come tutti gli anni, fa il punto sulla salute dell'editoria nel 2013. Non è una buona diagnosi, ma nemmeno infaustissima, se il segmento dei libri per bambini è l'unico che registra un segno positivo con una crescita sia a copie (+3,3%) che a valore (+3,1%). La conferma di un trend e uno slancio verso l’alto non di poco conto perché riesce a tamponare l’emorragia complessiva del mercato del libro: -6,2% a valore e -2,3% a copie nei cosiddetti canali trade (quelli rivolti al pubblico: librerie, librerie online e grande distribuzione) rispetto al 2012. Cosa vuol dire? In numeri assoluti significa che gli italiani hanno acquistato lo scorso anno 99,2 milioni di volumi (2,3 milioni in meno del 2012) e hanno speso circa 1,2 miliardi di euro (81 milioni di euro in meno del 2012). Le peggiori performance le registrano la non fiction pratica (guide, tempo libero, lifestyle), che segna un meno 13,2% e la saggistica specialistica (filosofia, scienze sociali, -8,6% a valore). Va meglio, se si può dire in questa situazione, alla narrativa (-5,4% a valore) e alla saggistica generale (-4,2%) .
E IL 2014, come è cominciato? L'andamento è leggermente migliore in termini di valore, ma peggiore se si considerano le copie. Nei primi tre mesi dell’anno sono stati venduti 1,4 milioni di libri in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, con un -6,8% a copie e un -5,3% a valore (vuol dire che il prezzo dei volumi acquistati è leggermente cresciuto). Il libro è molte cose, ma è anche un bene di consumo. E dunque risente della crisi. Perciò è importante notare lo spostamento degli acquisti dalle fasce di prezzo basso (1-5 euro) ai libri di fascia intermedia (7-20 euro). Ci si domanda se siamo di fronte al tramonto del’editoria low cost. Certamente, annota il comunicato dell’Aie, non è un problema di formato: sia il tascabile che il rilegato rilevano un andamento simile, con un -4%.
E DOVE SI COMPRA? Sempre più nelle librerie di catena e online, sempre meno nelle librerie indipendenti (che passano dal 35,6% al 34,9%). E questa è certamente una brutta notizia, senza scomodare la retorica del “libraio della porta accanto”. È una brutta notizia, come tutte quelle che denunciano una sostanziale omologazione. Cresce (poco, a sorpresa) la vendita online, che raggiunge quota 6,6% (era il 6,3% lo scorso anno).
Quanto al rapporto tra carta e digitale, l’ebook arriva a coprire circa il 3% del mercato trade, secondo le stime dell'Ufficio studi Aie, e raggiunge i 30 milioni di euro circa di giro d'affari. Nel 2013 sarebbero stati scaricati tra i 4 e i 7 milioni di titoli in digitale.

la Stampa 10.5.14
Tre scrittori inaspettati venuti dall’Iraq
di Letizia Tortello


I loro nomi non compaiono sul programma, perché fino all’ultimo minuto il direttore editoriale del Salone, Ernesto Ferrero, non contava di averli. Troppo complicato farli venire dall’Iraq, troppi permessi da chiedere, quasi impossibile superare gli ostacoli diplomatici. Anche se Ferrero ci sperava. A portarli ci è riuscito lo scrittore Younis Tawfik, anche lui iracheno, ormai torinese d’adozione. Marwan Yaseen, Haitham Behman, Yabbar Yassin Hussein saranno i protagonisti, stasera alle 21 in Sala Blu, di un appuntamento più unico che raro, un dibattito sulla libertà d’opinione e sulla situazione politica, sociale e culturale nell’Iraq del dopo Saddam. Pur sempre lacerato da interminabili lotte civili.
Tawfik ha dovuto destreggiarsi con perizia, dando garanzie perché uno dei tre scrittori iracheni non è mai uscito dal Paese: «E tutti e tre sono minacciati dai terroristi». Aiutati dal Consolato Italiano del Kurdistan, sono arrivati passando per Erbil e Istanbul. Ora nel Salone del Vaticano c’è posto per tutti. Marwan Yaseen, sunnita, fuggito in Kurdistan, poeta e giornalista, tiene un programma letterario sulla tv cristiana Ishtar Tv. Haitham Behman è cristiano, romanziere famoso. Yabbar Yassin Hussein, sciita, perseguitato, rinchiuso in prigione, è ora in esilio in Francia. Un dialogo tra le fedi di persone che hanno conosciuto torture e repressioni, «ma sono rimasti fedeli al loro dovere di testimonianza – spiega Ferrero – e alle speranze di una ricomposizione del destino di una terra, nel segno della scrittura».

il Fatto 10.5.14
Sacro&Profano
Le canne di Pelù il cielo di Magris
di Antonio Armano e Nanni Delbecchi


Torino Come dice il proverbio cinese: se regali un pesce a una persona, quel giorno mangia pesce. Se le regali una canna...”. Di fronte a un centinaio di ragazzi Piero Pelù si lascia scappare una battuta cannaiola ma si corregge subito: “Non c’è doppio senso. Se le regali una canna, impara a pescare e avrà pesce per tutta la vita”. Alla consegna di un premio da parte della Zanichelli, in occasione dell’uscita del Dizionario del pop-rock, Pelù – che il correttore ortografico si ostina a cambiare in Peluche – fa una tirata sulla necessità di rivalutare cultura e conoscenza. Con Renzi, non c’è però speranza, secondo il rocker fiorentino, che rinnova gli attacchi al “boy scout di Licio Gelli”: “Lo conosco da quando era ragazzino, non gliene frega niente della cultura. Dovrebbe andare in giro con la maglietta di Creuza de ma o dei Beatles” dice rendendo omaggio a Mauro Pagani che collaborato con Fabrizio De André alla realizzazione di quell’album ed è presente sul palco per la premiazione. “Usciamo da vent’anni di berlusconismo” si lamenta. Anche Pagani batte il chiodo della necessità di puntare sulla scuola (“Assumere nelle scuole i tanti disoccupati che escono dai conservatori italiani, per permettere agli studenti poter scegliere che strumento imparare e non essere limitati alle tristissime lezioni di flauto”). La platea di giovani si scalda: è il pubblico che resiste paziente ai repêchage letterari suggeriti da Asor Rosa, come Voli, di Elena Gianini Belotti, Eutanasia della critica di Mario Lavagetto nell’incontro dedicato ai libri dimenticati.
DAL PROFANO al sacro: il Lingotto quest’anno fa miracoli. A volte sembra che il paese ospite sia Torino e il Salone del libro abbia sede nella Città del Vaticano. Gli stand si affollano all’improvviso di tonache, veli, clergyman, mai tante come in occasione del dialogo tra Claudio Magris e il cardinale Gianfranco Ravasi sul tema “Comunicare la fede nella società”.
Una stretta di mano tra Mario Calabresi e l'arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia anticipa la celebrazione di intese mai tanto larghe. Sala 500 gremita e altrettanti visitatori costretti a rinunciare. Calabresi nega ogni contrapposizione tra credenti e laici, sottolineando quanta fratellanza ci sia oggi “tra le menti che non hanno perso il vizio di pensare”. Claudio Magris gli dà ragione, lamentando da laico che la Chiesa non sempre riesce a comunicare il suo messaggio, e anche per questo l'avvento di Papa Francesco è stato vissuto come un terremoto. È il primo passo di un cavalleresco scambio di citazioni. Magris cita a più riprese il meno integralista degli scrittori cattolici, Chesterton: “Se non si crede in Dio, il guaio non è che si finisce per non credere in nulla, ma che si finisce per credere a tutto”. Ravasi sottolinea come il nocciolo più profondo di ogni religione stia nell’inquietudine e porta a testimoni due illustri non credenti. Prima Cormac McCarthy (“Chi fa domande vuole la verità; chi dubita o è indifferente vuole sentirsi dire che la verità non esiste”), poi addirittura il diabolico Oscar Wilde: “Le risposte sono capaci di darle tutte. Per fare le vere domande ci vuole un genio”. Poteva finire così? Naturalmente no, l’ultima parola è di Julien Green, e questa vale proprio per tutti: “Finché si è inquieti, si può stare tranquilli”.

la Stampa 10.5.14
Le anime della destra e la cultura dei rifiuti
di Mario Baudino


Presentabili
Era cominciato con lettere piuttosto dure, quando sul Giornale Luigi Mascheroni aveva accusato il Salone dell’anno scorso di essere stato una sorta di congresso-ombra del Pd. Ernesto Ferrero non aveva gradito, e aveva lanciato la sfida al giornalista, coinvolgendo il presidente del Circolo dei lettori, Luca Beatrice, oltre che l’assessore (allora forzista, ora Ncd) alla Cultura Michele Coppola: fate qualcosa voi, sulla destra. Sfida accettata. Quest’anno, nel programma, ci sono anche gli incontri sulle «Anime della destra», oltre a quello già celebrato con Giuliano Ferrara, il pugnace direttore del Foglio. Tutti contenti? Ferrero, studioso e traduttore di Céline, ammette che in fondo conosceva poco questo mondo, e dunque è contentissimo. Mascheroni e Beatrice idem, perché, come dice il giornalista, «almeno la grande e rissosa famiglia della destra ha fatto qualcosa. Dicono che siamo impresentabili, e può darsi che qualcuno lo sia davvero. Intanto però ci siamo presentati».
Non pervenuto
L’unico forfait è però venuto proprio dal seno della grande e rissosa famiglia. È quello di Vittorio Feltri. Il suo incontro con i lettori era stato impostato in questo ambito, ma è saltato perché Feltri ha ritenuto di non partecipare in segno di solidarietà contro quella che giudica una censura a Il direttore, romanzo di Luigi Bisignani cancellato dal programma. Al suo posto, presentazione di I fiumi sotto la città, romanzo d’esordio della catanese Michela Gecele. Sicuramente una promessa.
Uno e bino
In compenso, un grande critico e organizzatore d’arte come Jean Clair è stato invitato due volte. Prima da Mascheroni e Beatrice, poi dal premio Bonura, organizzato da Avvenire. Splendida lectio magistralis. E vibrante anatema sull’arte contemporanea: «Il rifiuto del culto ha prodotto la cultura del rifiuto».
Feltrinelli non ci sta
Intanto, qualche eco ancora risuona della polemica innescata dal ministro Franceschini contro la tv che fa terra bruciata dei libri. Alla Feltrinelli non hanno gradito. Domenica festeggiano il primo anno di «Laeffe», la loro tv. «Noi che abbiamo il libro al centro della nostra storia e del nostro business», fanno sapere in un secco comunicato di Carlo Feltrinelli, «crediamo che qualità, innovazione e condivisione siano le componenti chiave per rinnovare offerta e linguaggi della cultura. Per questo vorremmo che oltre alle polemiche si alzassero qualche volta anche delle frasi incoraggianti e magari anche un sostegno concreto per chi in Italia dedica ogni giorno lavoro e denaro per far crescere anche in tv la cultura del nostro Paese». Tiè.

la Stampa 10.5.14
Dire la fede nell’era del web
Il Vangelo contro le chiacchiere
Il cardinale Ravasi: dobbiamo saper consolare, ma anche ferire
di Domenico Agasso Jr


Comunicare la fede nella società del terzo millennio è tutta questione di quid e diquomodo, che detta così sembra complicata e invece vuol dire semplicemente «contenuto» e “«modo di esprimerlo». Parola del presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, Gianfranco Ravasi. Ieri il cardinale è giunto al Salone - per il quale ha organizzato la presenza del Vaticano come paese ospite - e ha parlato dei linguaggi con cui la Chiesa dovrebbe esercitare il suo magistero: lo ha fatto dialogando con Claudio Magris in un incontro moderato da Mario Calabresi.
«Saranno in particolare due», ci ha spiegato Ravasi a margine del convegno, «i percorsi che come Chiesa dovremo intraprendere a breve. Innanzitutto quello che nell’antica retorica si chiamava il quid, ossia “che cosa comunicare”. Perché tante volte avviene una comunicazione che è affidata a parole in sequenza vuote e inutili: basti pensare all’immensità della chiacchiera informatica. Dunque, è imprescindibile il contenuto: dobbiamo ribadire il rilievo fondamentale che ha la Parola evangelica».
E poi c’è il quomodo: «Altrettanto importante è il modo con cui si comunica. Occorre ricercare alcune caratteristiche: per esempio l’incisività, la capacità di provocare; d’altronde il Vangelo è per molti versi “scandalo”. E poi bisogna che la comunicazione della Chiesa sia bella, abbia fascino, e anche sappia consolare, e ferire». Ma non è tutto, aggiunge Ravasi: da sacri palazzi, curie, parrocchie deve uscire «una comunicazione appassionata di Dio che costituisca un annuncio autentico, puro, non affidato all’equivoco. Ecco che risulta decisivo l’uso del simbolo: Cristo usa 35 parabole».
Anche padre Antonio Spadaro, direttore dellaCiviltà cattolica, è entrato nel dibattito: «In un momento della storia in cui la rete del web occupa un grande spazio nella comunicazione, vediamo che si esprimono con efficacia contenuti non tanto trasmettendoli quanto vivendoli e condividendoli. La Chiesa oggi più che mai è chiamata a vivere la fede e quindi, allo stesso tempo, a condividerla, a comunicarla: vita e comunicazione sono la stessa cosa».

Corsera 10.5.14
Il Medioevo di Aldo Nove: il tempo della fede dove tutto aveva senso
di Ida Bozzi


TORINO — Nell’anno della Santa Sede al Salone, negli stand sono molti i libri ispirati a figure della cristianità, il Gesù de Il vangelo dei bugiardi (Nottetempo) di Naomi Alderman o la Chiara di Assisi (Rizzoli) di Dacia Maraini (entrambe le autrici saranno al Salone domani) e molti altri. In particolare un libro presentato ieri, Tutta la luce del mondo di Aldo Nove, edito da Bompiani, non è solo un libro su san Francesco d’Assisi, ma un romanzo sull’uomo e sul suo rapporto con il mondo; e mostra come raccontando una storia medioevale, imbevuta di una spiritualità profonda quale è quella del Poverello, si possa parlare in realtà di oggi. «Il Medioevo — inizia Aldo Nove — era un mondo dove tutto ha senso, il che per me è stimolante perché ora viviamo in un mondo che ci sommerge di informazioni, codici, parole che però non vanno da nessuna parte. Stiamo andando verso una specie di rumore bianco».
Questo in ogni ambito, spiega Nove: «La stessa editoria è un segno di questa tendenza, mettiamo in scena di continuo grandi eventi che poco dopo non sono nulla. Sui social network vale il continuo cazzeggio su tutto, calcio, metafisica. Il tweet di un cantante ha più valore del più serio articolo del più grande critico. E noi perdiamo la scommessa della cultura, il tramandare. Non si salva alcuna memoria o memorabilità».
Una trasformazione sembra però in atto nella Chiesa, con un Papa come Bergoglio che prende il nome proprio da Francesco. «In Bergoglio ci sono molte cose che mi incuriosiscono — afferma Nove —, così come nel suo predecessore con quel gesto clamoroso. Non seguo ciò che accade nella Chiesa, ma è chiaro che qualcosa accade, c’è l’intenzione di rivivificare la vita spirituale».
Quella spiritualità che in Francesco era amore. E che secondo Nove è anche una strada possibile per il mondo di oggi: «L’amore per questa cosa bellissima di cui facciamo parte, noi come le stelle e il cielo. L’uomo del ’900 si è staccato dal mondo in un’autoreferenzialità perversa, ma san Francesco, che scrive la prima poesia in volgare, che altro fa se non rendere l’uomo partecipe di tutto l’universo, e viceversa?».

Corsera 10.5.14
Tutte le parole per dire il Bene

Magris e Ravasi contro il nulla
Tre I come modello : interrogazione, inquietudine, incontro
di Gian Guido Vecchi


TORINO — Il Nero: «Non sono uno che dubita. Però sono uno che fa domande». Il Bianco: «E che differenza c’è?». Il Nero: «Be’, secondo me chi fa domande vuole la verità. Mentre chi dubita vuole sentirsi dire che la verità non esiste». Claudio Magris ha appena finito di deplorare la vecchia storia del confronto tra cattolici e laici, «è ora di farla finita perché è una scorrettezza linguistica e logica, laico è un modo di pensare», il direttore de «La Stampa» Mario Calabresi modera il dialogo e difatti lo definisce semplicemente «un incontro tra due persone che pensano», e così il cardinale Gianfranco Ravasi comincia da Sunset Limited e Cormac McCarthy: il dialogo drammatico e serrato, in forma teatrale, tra un professore bianco ateo e un nero che cerca di persuaderlo a non ammazzarsi. Le domande. «Ecco, io credo che il grande dramma del nostro tempo, e non solo nella comunicazione della Chiesa, sia che ormai non si voglia interrogare, che si rimanga indifferenti, incolori», riflette il cardinale. «Quel vuoto di cui parla Bernanos e che non è assenza, perché l’assenza è nobile, ma il nulla. Mentre invece, come diceva Oscar Wilde, le risposte sono capaci di darle tutti, ma per fare le domande vere ci vuole un genio...».
La sala del Lingotto è colma di lettori, si parla di «Comunicare la fede nella società», quest’anno il tema del Salone è il bene. «Cosa difficilissima, parlare del bene», nota Magris, mentre invece «sembra molto facile parlare del male, che ha una sua fascinazione». Ma è un’illusione: «È facile atteggiarsi a trasgressivo, ma chi lo fa dovrebbe avere il coraggio di fare davvero i conti, con il male: faccia l’apologia del traffico d’organi di bambini. Le grandi religioni, invece, non hanno mai indorato la pillola: sanno cosa è il male».
Il cardinale Ravasi tornerà sul tema anche fuori dalla sala, rispondendo alle domande di chi gli chiede delle trecento ragazze rapite in Nigeria dagli islamisti fanatici di Boko Haram: «Il grande male del mondo è anche una grande occasione perché l’uomo venga provocato e cominci a interrogarsi. Che ci siano queste ragazze sottoposte a una situazione di ignominia assoluta, quasi bestiale, paradossalmente questo fatto riesce a scuotere anche quelli che rimarrebbero indifferenti, superficiali, banali, davanti alle violenze minime, quotidiane».
Il problema è come parlarne. Magris racconta di suo padre che stava morendo, «non era praticante e ci interrogammo se fosse o meno il caso di ricevere i conforti religiosi. Mi disse: sappi che queste sono le cose importanti, su cui non si scherza». Il problema è che «esiste una falsificazione oggettiva del messaggio della Chiesa e questo dipende in parte dal fatto che sovente la Chiesa stessa non riesce a proporre in modo chiaro il suo messaggio a livello per così dire intermedio, un piano altrettanto necessario di quello alto perché è sulla divulgazione media che ciascuno di noi basa la propria conoscenza del mondo». Come il peccato originale, esemplifica lo scrittore triestino, e la percezione «che sia una specie di superstizione, una stupidaggine, quando invece mi viene in mente una bellissima pagina di Karl Rahner che spiega che non si tratta di una tendenza a delinquere ereditata dai nostri progenitori, ma del fatto che nasciamo in un mondo che è in qualche modo condeterminato dalle colpe altrui, che dobbiamo sentirci corresponsabili anche se innocenti: altrimenti perché dovremmo scandalizzarci del traffico di bambini, se non lo abbiamo fatto noi?».
Ed è qui che il cardinale Ravasi interviene a spiegare che «le religioni consolano, anche, ma il loro primo compito è quello di inquietare. Presentare il tema del male e della colpa ha un grande valore, anche se purtroppo è stato fatto spesso in maniera semplificata». L’interrogazione, l’inquietudine. «E poi aggiungerei una terza “i” : l’incontro. Che per un cristiano è quello con Gesù, anzitutto, ma anche con l’altro. Il cristianesimo non è per sua natura integralista o chiuso in se stesso, anche se purtroppo a volte è stato così». Il che significa che la chiesa dovrebbe anche «porre l’accento sulla potenzialità razionale del suo insegnamento», osserva ancora Magris: «Ricordare che il mistero non è un incubo terrorizzante ma ciò che si cerca di conoscere. Come diceva Chesterton: da quando gli uomini non credono più in Dio, non è che non credano a nulla. Credono a tutto».
Alla fine, è inevitabile, si parla di Francesco: «Il fatto che il Papa dica che il discernimento si dà nella narrazione, che non basta solo proclamare ma per capire veramente bisogna calarsi nella vita delle persone, di ogni uomo e donna concreti, questo credo sia un linguaggio che abbia molte più possibilità di arrivare al cuore e alla mente di ciascuno», dice Magris. I gesti, ma anche la parola come simbolo, conclude Ravasi tra gli applausi: «Chi di voi non ricorda espressioni come la Chiesa ospedale da campo, i pastori con l’odore delle pecore, il sudario che non ha tasche?». Certo non è facile. Le ultime parole nel Nero di Sunset Limited suonano come una preghiera: «Se volevi che lo aiutassi, perché non mi hai dato le parole giuste?».

il Fatto 10.5.14
Tutta colpa dei figli della Repubblica
Avevano sogni e ideali: sono diventati “casta”
Maggiani li mette (finalmente) a nudo
di Ferruccio Sansa


Finalmente. Finalmente un atto d’accusa, un esame di coscienza, “un’invettiva” (come è scritto in copertina) contro la generazione che ci ha consegnato nella braccia del berlusconismo imperante - con o senza Berlusconi - e ha tradito gli sforzi e le speranze del Dopoguerra. Contro gli anni Settanta e quell’intellighenzia che è diventata arroganza, che si è autonominata custode degli ideali di sinistra e coscienza del Paese. Che ha prosperato fino a farsi Casta, a comandare politica, imprese e cultura.
Finalmente un libro che non punta il dito solo contro chi ha occupato il potere, ma verso quelli che l’hanno blandito, votato. Quelli che “pagarono con il pane dei loro padri, saccheggiarono la loro eredità, diedero in pegno l’onore altrui... strapparono i coglioni e le ovaie agli amatissimi figli”.
FINALMENTE soprattutto perché a scriverlo è Maurizio Maggiani che con quegli ideali e speranze è cresciuto, che ha saputo conservarli (a costo della solitudine e del dolore personali) anche per noi fino a oggi. Che non li rinnega, ma anzi li rinfaccia a chi li ha trasformati in strumento di affermazione personale. Di tradimento, ecco la parola chiave de “I figli della Repubblica” (Feltrinelli). Invettiva, è il sottotitolo, perché il libro nei prossimi mesi sarà messo in scena. Il ritmo si presta a un colloquio dell’autore con il pubblico, dei lettori con se stessi.
Ma “I figli della Repubblica” è molto di più: è un piccolo (per le dimensioni) libro di storia dove vediamo i piccoli eventi della vita individuale - raccontati con l’ironia e le doti letterarie dell’autore - comporsi in vicende collettive e infine in Storia. Ecco un’Italia di padri operai “che con la tigna degli ex analfabeti si rintanavano sotto la lampadina della cucina a sillabare un paio d’ore su un giornale”. Quei padri che poi si “mettevano a palpare le Fiat 500 Giardiniera con lo stesso identico gesto non voluto con cui i padri dei nostri padri avevano palpato le loro vacche e la moglie che si accingevano a ingravidare”. Ecco i giovani che amavano “nelle sedi momentaneamente sguarnite della sinistra di classe, come in quelle, definitivamente deserte, dei movimenti giovanili dei partiti”. Maggiani non sfugge i temi chiave di quegli anni: divorzio, aborto, droga, terrorismo; raccontati, però, attraverso vicende individuali.
Un’invettiva, soprattutto nelle pagine che raccontano la metamorfosi della contestazione in complicità. Dell’invettiva ci sono la rabbia e l’indignazione. Nel libro di Maggiani, però, c’è di più: la malinconia per l’occasione persa come individui e come Paese. E il senso del tempo che ci è sfuggito tra le mani. Mentre non c’è, per fortuna, sentenziosità. Non c’è una condanna indistinta, qualunquista: “Ci sono gli innocenti”.
Difficile dire se si salvi una speranza. Senz’altro c’è un senso del dovere, della testimonianza che per forza guarda al futuro: “Io che non ho avuto figli - spiega Maggiani - devo conservare i miei princìpi”.