domenica 11 maggio 2014

l’Unità 11.5.14
«A scuola di musica per far ripartire l’Italia»
Domani su Left, in edicola con l’Unità, il disegno di legge per introdurre l’insegnamento sin dall’asilo. E a firmare l’editoriale è Paolo Fresu
di Giovanni Maria Bellu

direttore di LEFT

Domani, su left, assieme a Nada, a Paolo Fresu e a Bebo Storti proviamo a “cambiare musica”. A cambiare musica per cambiare tutto. È un’iniziativa che abbiamo pensato di avviare a partire da un sospetto. Un sospetto molto semplice: che la nostra difficoltà a essere una comunità, a perseguire obiettivi condivisi, nasca anche dalla nostra incapacità di ascoltare e di capire la musica. Dunque di sentirla tutti assieme, conoscendone le regole.
Il sospetto è nato quando è arrivato in redazione il testo di un disegno di legge di una senatrice del Pd, Elena Ferrara (ma sottoscritto da parlamentari di tutti i partiti) «per la valorizzazione dell’espressione musicale e artistica nel sistema dell’istruzione». L’idea di base è insegnare la musica ai bambini degli asili, agli alunni delle elementari, agli studenti delle scuole medie e delle superiori.
Ecco, ci siamo domandati cosa direbbe un osservatore straniero – uno che nulla sa del nostro sistema scolastico -di questo disegno di legge? Molto probabilmente ne resterebbe sorpreso: «Ma come, nel Paese di Rossini e di Verdi, nel Paese di Claudio Abbado, non è già così? Gli italiani non studiano la musica?».
Non la studiamo. Abbiamo fatto un piccolo sondaggio che ci ha confermato quello che l’esperienza personale ci diceva: fatte salve rare eccezioni – determinate dall’iniziativa di insegnanti o di associazioni culturali – non si ha alcuna formazione musicale. E il disgregarsi delle comunità ha anche cancellato quella formazione che, in modo spontaneo, veniva dalla vita sociale.
Scrive Paolo Fresu nell’editoriale che apre questo numero: «La musica era il ritmo dei nostri giochi, la voce delle nostre madri, la giornata dei nostri padri, la gioia nelle nostre feste. Ci teneva uniti e ci faceva comunicare col mondo... Ho il sospetto che abbiamo cominciato a smetterla di essere una comunità quando la musica ha cominciato a spegnersi... Forse col timbro della nostra voce corale si sono incrinati anche i valori che ci tenevano assieme e sono diventati fragili i presupposti a partire dai quali potevamo sognare una società migliore». Conferma Nada in un’intervista nella quale racconta la sua storia e parla dei suoi progetti: «Per tornare a essere una comunità l’Italia ha bisogno di musica. Perché la musica è conoscenza, è aggregazione ».È anche voglia di cambiare e, assieme, di raccontare il mondo. Come ci dice Bebo Storti in uno struggente ricordo di Enzo Jannacci.
La campagna “cambiamo musica” apre un numero davvero speciale dove left racconta l’impegno dell’Anpi a difesa della Costituzione, le “altre Europee” in Belgio e in Ucraina. E dove – attraverso un percorso insolito e sorprendente: un noir scritto da tre dirigenti (Francesco Sinopoli, Augusto Palombini e Claudio Franchi) -arriviamo al cuore del dibattito che scuote la Cgil. A domani e buona lettura.


l’Unità 11.5.14
Comunicato Rsu e Slc-Cgil


In questi ultimi anni le condizioni economiche generali e la grave e progressiva riduzione del contributo pubblico hanno determinato una situazione di grave criticità nel settore editoriale. In questa situazione è incappato l'Unita il quotidiano fondato da Gramsci. La Nuova Iniziativa Editoriale (Nie) editrice de l’Unità sembra essere giunta al capolinea. Proprio la capacità di proposta editoriale, nonostante le buone intenzioni più volte enunciate è venuta meno, con il conseguente forte indebolimento della testata che rischia oggi di intraprendere una strada di non ritorno. Un Piano Industriale ed un Piano Editoriale sono oggi più che mai indispensabili, per sostenere e supportare la sua presenza sul mercato; spazio tutt'altro che residuale, come dimostrano il successo dei supplementi legati al 90esimode l'Unità. Per queste ragioni riteniamo che l’Assemblea straordinaria degli Azionisti convocata per il giorno 14 p.v. debba valutare gli interventi necessari per la valorizzazione storica del marchio, del suo futuro e la salvaguardia dell’occupazione. La Slc-Cgil ritiene sbagliata la chiusura di una testata storica testimone attenta di un secolo di storia e prezioso organo di informazione, e contrasterà le eventuali scelte degli Azionisti con iniziative sindacali messe in atto a difesa della pluralità dell’informazione e per la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori quotidianamente impegnati nel loro lavoro. La Slc-Cgil chiede agli Azionisti un intervento di rilancio del Quotidiano l’Unità che coinvolga, con un impegno diretto ad ottenere un tavolo di confronto, la Società NIE, i giornalisti e di poligrafici. In attesa di chiarimenti certi sul percorso è stata indetta una prima giornata di sciopero per il giorno12 maggio delle lavoratrici e dei lavoratori poligrafici.

l’Unità 11.5.14
Camusso: la Cgil non ha governi amici
Intervista alla leader del sindacato dopo il congresso nazionale
Decreto Poletti? Peggio di prima, ricorreremo in Europa
di Rinaldo Gianola


«Viviamo un momento difficile, con tanti problemi, perché il sindacato sta in mezzo alle persone che oggi in Italia soffrono, combattono, sperano in un mondo migliore. Non ci fanno paura le difficoltà finché saremo capaci di cambiare, assieme ai lavoratori che organizziamo e rappresentiamo».
Susanna Camusso ha chiuso il congresso nazionale della Cgil, mantiene la guida della più grande organizzazione sindacale italiana. Dal dibattito, a volte duro e aspro come si conviene nelle grandi strutture di rappresentanza sociale, dalle conclusioni, il segretario della Cgil trae alcune linee precise per il prossimo futuro.
Camusso, che congresso è stato?
«È stato molto impegnativo perché il sindacato è in difficoltà, perché la crisi economica e le tensioni sociali si fanno sentire, perché i rapporti con i lavoratori sono contrastati. Perché la recessione ha prodotto lacerazioni nella società, sui luoghi di lavoro, ha alimentato problemi, paure, ansie. La Cgil vorrebbe fare di più, di questo abbiamo discusso e su questo ci impegniamo».
Molti osservatori, anche nel mondo politico, hanno semplificato il congresso nello scontro tra la Cgil e il governo Renzi o nel contrasto tra Camusso e Landini...
«È stata una valutazione sbagliata, nel dibattito congressuale c’è stato molto di più. Abbiamo parlato al Paese, analizzato le condizioni dell’economia e del lavoro, abbiamo dato conto lealmente delle nostre difficoltà. La discussione è stata importante, molto forte, ed è stata molto sindacale: sulla contrattazione, sulle priorità da seguire, sulle vertenze da aprire, anche sul rapporto col governo, certo. Ma chi racconta il nostro rapporto con Renzi dovrebbe uscire dalla caricatura ».
Quali sono le scelte del congresso?
«Sono scelte impegnative. Vogliamo rilanciare la contrattazione per battere la precarietà, per fronteggiare la piaga del lavoro povero, per riformare gli appalti, per garantire ammortizzatori sociali efficienti e vogliamo lanciare una vera battaglia sulle pensioni. La convergenza di Cisl e Uil è un fatto molto positivo».
La confederalità esce rafforzata dal congresso oppure no?
«La confederalità è nel dna della Cgil. Ma abbiamo qualche problema: il congresso ha messo in evidenza la necessità di ripensare la nostra presenza organizzata sul territorio, di organizzare in modo più proficuo la partecipazione dei delegati e dei territori. Alcuni interventi hanno parlato di mescolarsi sul territorio, di trovare nuove strade di organizzazione per superare la solitudine o l’isolamento dei lavoratori. In questo ambito la battaglia contro il lavoro povero sarà determinante. La Cgil deve esser capace di proporre e praticare una contrattazione inclusiva, che raccolga soggetti finora esclusi, sfruttati e penalizzati».
Forse è la struttura organizzativa del sindacato che mostra dei limiti. Grandi non significa sempre efficaci.
«Dobbiamo aggiornarci, non ci sono dubbi. Dobbiamo ridurre tempi, rafforzare i rapporti con le assemblee di base e raccogliere le esperienze e sollecitazioni che ci vengono dai nostri delegati. Una commissione di studio si occuperà di fare delle proposte».
Il congresso era partito con una mozione unitaria superiore al 97%, si è chiuso con una maggioranza dell’80% e una minoranza ben chiara. Cosa è successo?
«È una conclusione che non mi preoccupa. La Cgil è un luogo plurale, dove ci sono e si confrontano, anche aspramente, idee diverse. Non conosco e non ricordo congressi della Cgil senza dialettica, senza posizioni distinte. Questa è la nostra ricchezza. I voti evidenziano la discussione che c’è stata, la diversità di posizioni su alcuni temi importanti come la rappresentanza».
Qual è stato il fatto che più l’ha preoccupata nelle giornate di Rimini?
«Mi hanno preoccupato certi toni, certe parole che sono fuori dalla nostra cultura e dalla nostra storia. Mi preoccupa l’eccessiva personalizzazione del confronto, ci vedo una particolare tensione, pericolosa anche».
E l’emozione più forte?
«Mi sono emozionata per l’appello di Mirko di Piombino, per la passione di una delegata sarda, per le parole di un delegato di una cooperativa: giovani che hanno parlato di che cosa vuole dire lavoro povero, l’altra faccia della precarietà, che hanno parlato dell’importanza di avere il sindacato».
Lei e Landini vi siete chiusi in una stanza, come chiedeva Mirko?
«No, perché le questioni non sono personali, sono collettive. I problemi non si risolvono tra due persone. Quello che conta è la Cgil. Vorrei che la personalizzazione, un’eccessiva dose di leaderismo, fossero ridimensionati».
Per questo ci sarà un segretario generale aggiunto o un vice?
«Vedremo. Deciderà la Cgil. Sono a favore di una maggiore collegialità, contro l’eccesso di individualismo. Troveremo la soluzione migliore».
Renzi non è venuto, è un caso politico?
«Ognuno fa le scelte che crede. Molti hanno pensato che l’assenza di Renzi significasse una rottura col sindacato. Noi lo vedremo dalle azioni del governo. Per la Cgil non ci sono governi amici, siamo abituati ormai da anni a valutare il merito dei provvedimenti. L’intervento Irpef, ad esempio, è positivo. Bene. C’è stata una lunga stagione di trasformazione politica, nelle fabbriche non ci sono più sezioni di partito, cellule, non ci sono travasi, il sindacato difende la sua autonomia, la politica fa le sue scelte».
E la concertazione, il confronto?
«La Cgil non cerca posti a tavola, noi rappresentiamo tante persone, siamo un pezzo del Paese. Ci interessa che la rappresentanza sia riconosciuta, anche se in passato alcuni governi volevano scegliersi gli interlocutori preferiti. La Cgil non ha mai preteso un potere di veto, ha sempre rispettato le decisioni del Parlamento. Naturalmente siamo in campo e non faremo sconti a nessuno. E poi, scusi, se avessimo avuto il potere di veto le pare che sarebbero passate la riforma delle pensioni e il decreto lavoro?».
La Cgil aveva criticato il decreto lavoro già nella prima versione ,ora dopo il trattamento Ichino-Sacconi al Senato, qual è il vostro giudizio?
«Molto negativo. Il provvedimento è peggiorato, è un brutto inizio. Ora vedremo come si configurerà la delega sul lavoro. Discuteremo un eventuale ricorso in Europa ».
Sorpresa delle tangenti a Milano?
«Sì e no. Speravo che un evento internazionale come Expo fosse al riparo da questo pericolo. Ma la Cgil lanciò l’allarme su certi appalti già nel 2005: facemmo un esposto alla Corte dei Conti su Infrastrutture Lombarde. Nessuno ci ha dato ascolto».

l’Unità 11.5.14
l congresso Cgil, la sinistra di lotta e quella di governo
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Non si va al congresso della Cgil perché «la musica è cambiata!» Cosa vuol dire? Tante persone, come me, non hanno votato Renzi alle primarie dopo il Congresso sono diventate convinte e sincere sostenitrici del suo governo ma sono anche profondamente unite da un legame politico e culturale alle organizzazioni che in tempi difficili, hanno difeso la civiltà e la dignità del lavoro. MASSIMO DELLA FORNACE
Dice D’Alema che non abbiamo bisogno di due sinistre in contrapposizione fra di loro. Non si può non tenere conto, tuttavia, del dato per cui chi governa deve mediare fra posizioni e interessi contrapposti. La voce dei lavoratori dipendenti e delle fasce deboli deve essere fatta sentire da chi, come la Cgil e il mondo dell’assistenza e del no–profit, ne ha la rappresentanza, dunque, mentre liberamente continuano le associazioni degli industriali o delle banche, ad insistere nella ricerca di provvedimenti che aumentino o comunque non tocchino i loro beni, le loro attività e i loro privilegi. Il conflitto sociale esiste e la democrazia è forte solo finché lo spazio di parola, di proposta e di critica è garantito a tutti. Riuscirà Renzi a far capire che il suo governo, costretto com’è a tenere conto di tutto questo, terrà comunque la barra dritta sul tentativo di diminuire le disuguaglianze e di rendere più reale in quanto estesa a tutti quella libertà dal bisogno e dall’ingiustizia che è il bene irrinunciabile di tutti? A dirlo saranno i fatti come essi si determineranno nel corso dei prossimi mesi e dei prossimi anni. Con l’aiuto fondamentale di quelli che utilizzano oggi «contro» di lui le parole d’ordine della sinistra più tradizionale.

l’Unità 11.5.14
Legge elettorale europea alla Consulta, ora trema l’Italicum
di Michele Prospero


ANCHE LA LEGGE ELETTORALE PREVISTA PER IL RINNOVO DEL PARLAMENTO EUROPEO FINISCE SOTTO LA LENTE DI OSSERVAZIONE DELLA CORTE COSTITUZIONALE. Dopo la sostanziale innovazione procedurale, con la quale la cassazione e la Consulta hanno ammesso il ricorso diretto di un cittadino per ottenere un pronunciamento in merito alla legittimità della assai controversa legge Calderoli, è cambiata alla radice la funzione garantista degli organi e la possibilità di adire le vie del giudice delle leggi. Un altro ordinamento è stato scritto, e senza il concorso del legislatore.
A parte questa considerazione, nient’affatto marginale sul rapporto di forza oggi esistente tra la decisione politica e l’ambito del diritto quale via alternativa per l’innovazione, esiste poi il merito della questione. Sulla scia della recente giurisprudenza costituzionale tedesca, il ricorrente sollecita anche per l’ordinamento italiano l’invalidazione delle parti della normativa elettorale relative alla introduzione di una assai elevata soglia di sbarramento (pari al 4 per cento dei voti nazionali) per ottenere almeno un seggio. E, su questo aspetto specifico del contendere, ben scarsi sono i dubbi possibili. Uno sbarramento così spropositato è irragionevole, disfunzionale, punitivo. Il motivo della irragionevolezza pare persino lampante. In una consultazione che non ha per sua finalità la assicurazione della governabilità del sistema, perdono ogni giustificazione le misure di filtro preventivo per chiudere l’accesso a potenziali fattori di disturbo. Irragionevole pare dunque l’asticella fissata al 4 per cento perché essa è in contrasto con la natura di elezioni non convocate per esprimere una maggioranza chiamata a occupare la stanza dei bottoni. La disfunzionalità del congegno è anch’essa connessa alla adozione di una logica selettiva (la governabilità) imposta per una votazione che però è ispirata a una ben diversa logica (la rappresentanza). Le limature che sul piano della legislazione elettorale statale legittimano in astratto delle modiche forzature al principio di eguaglianza delle espressioni di voto perdono qualsiasi fondamento in una contesa nella quale proprio la logica fotografica è da ritenersi quella essenziale e prevalente. Essendo peraltro ridotto il numero dei deputati che ciascun Paese deve selezionare con il voto, il problema di una esasperata dispersione dei seggi è risolto in partenza. Nella sua applicazione concreta, alla luce cioè delle preventivabili dislocazioni delle preferenze così come anticipate dai sondaggi, la soglia del 4 per cento tiene lontano dal parlamento europeo, o per lo meno lo tallona con un elevato rischio di non farcela, un arco di forze vicino al 30 per cento del corpo elettorale. Se a questa chiusura ermetica dovuta al meccanismo elettorale si aggiunge anche una impennata dell’astensione stimata attorno al 40 per cento degli aventi diritto, si ricava la sensazione di una allarmante caduta della attitudine rappresentativa del sistema. È inutile nascondere che, alla luce del nuovo principio della possibilità di attivare direttamente la Consulta nella materia elettorale, trema anche l’Italicum. Tre diverse soglie di sbarramento sono una bizzarria difficilmente compatibile con una sobria democrazia costituzionale. Un dispositivo che con il ritrovato del ballottaggio ha comunque un sicuro vincitore, e quindi con un premio certo risolve senza ombra di dubbio il nodo della governabilità, non può contemplare elevate soglie in accesso.
Logica premiale e chiusura d’accesso alla rappresentanza per le forze minori sono incompatibili.
Su un piano più storico politico una riflessione approfondita meriterebbe la tendenza alla depolarizzazione visibile nelle grandi democrazie europee. In Gran Bretagna l’indice di bipartitismo nell’ultima tornata elettorale si è arrestato al 65 per cento, cioè ai valori del primo Novecento. In Germania il bipartitismo è un lontano ricordo (la somma dei due partiti maggiori è al 66 per cento) così come la quadriglia bipolare in Francia è sfumata.
A parte la Grecia, dove il tradizionale sistema politico è stato di fatto ucciso dalla crisi, in tante democrazie, al di là anche del consueto quadro dei sistemi consensuali, il bipolarismo arranca. L’Italia (che nel 2013 ha anch’essa travolto un traballante sistema politico) ha raggiunto un indice di bipartitismo pari al 46 per cento. Come in altre democrazie europee, l’asse destra-sinistra è insidiato da formazioni populiste, etnoregionaliste, neofasciste. Pensare che a questa convulsa redistribuzione degli orientamenti elettorali si risponda con degli interventi chirurgici per prosciugare i dispositivi della rappresentanza è del tutto velleitario. Questioni aperte di identità, cultura politica, radicamento sociale non possono ritenersi chiuse con dei semplici accorgimenti tecnici. Come dimostra proprio l’Italia, neanche una legge aberrante come il Porcellum permette al sistema di arroccarsi e di resistere alle lancinanti convulsioni della società in tempi di crisi.

il Fatto 11.5.14
Rimozioni
“Greganti chi?”. Perché il Pd non può scaricare il compagno G
di Giorgio Meletti


Il compagno G è vivo e lotta insieme al Pd. La memoria pigra ha fissato l’immagine di Primo Greganti arrestato durante l’inchiesta Mani Pulite e muto durante la lunga carcerazione preventiva. Ma in questi vent’anni il misterioso uomo del Pci torinese è tornato a vivere e, come dice lui, “a lavorare”. E anche a rivisitare la sua storia. “Non è vero che non ho mai parlato come hanno scritto i giornali - ha raccontato un paio d’anni fa - Io ai giudici ho raccontato tutto e ho detto chiaro che i soldi al Pci sono transitati da me ma che non si trattava di tangenti bensì di denaro per la pubblicità”. Lo disse in occasione della presentazione di un libro su Tangentopoli.
A GREGANTI piace apparire e pontificare, forse perché gli serve a far sapere che ancora esiste e opera. Quando l’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani dice “chissà quanti anni sono che non lo incrocio” fa riferimento a una presenza abituale nel presepio progressista. E infatti ecco Greganti al decennale della Fondazione Italianieuropei, noto pensatoio di Massimo D’Alema e Giuliano Amato, e infatti il compagno G è lì perché “è un luogo importante per approfondire i contenuti di quello che dovrebbe essere l'agire politico”.
Ed eccolo in quelli stessi giorni riproporsi come star televisiva, nella parte dell’esperto di tangenti. Partecipa al pensatoio televisivo del comico Gene Gnocchi insieme a politologi del calibro di Flavia Vento, Maurizio Mosca e Luciano Lutring, noto ex rapinatore. Va a farsi intervistare da Piero Chiambretti, dibatte a Porta a Porta con Stefania Craxi. Intanto “lavora”, e tutti sanno che è l’uomo degli affari delle grandi coop.
Nel frattempo, dopo aver proclamato per anni che la condanna gli impediva per decenza di tornare all’attività politica, cambia idea e chiede la tessera del Pd che gli viene consegnata senza tentennamenti.
E COME DIRGLI DI NO? Anche in questo caso la memoria è doverosamente pigra. Quando a Greganti furono contestate le prime tangenti aveva come coimputato un noto esponente del Pci torinese, Giancarlo Quagliotti. L’allora segretario del Pci torinese, Giorgio Ardito, disse ai magistrati: “Escludo che Greganti e Quagliotti si siano arricchiti: non so però dove sia finito quel denaro”. Alla fine furono condannati entrambi e i giudici della Corte di Cassazione scrissero nella sentenza definitiva che i due “hanno in piena coscienza concorso nell’acquisizione, da parte del Pci, di un finanziamento illecito”. Oggi che Quagliotti è il braccio destro del sindaco di Torino Piero Fassino, militante antico con un presente nuovo fiammante da neo-renziano, chi potrebbe negare al compagno G una bella tessera del Pd?

il Fatto 11.5.14
Pd, dove la Madia versa i contributi a rate
Gli eletti non pagano le quote, e i partiti regionali vanno in rosso

Cassa integrazione e tagli per i dipendenti
di Mario Marcis


I giovani turchi e i democristiani hanno pagato tutto, mancano le quote dei renziani e dei vecchi comunisti”. Parola del tesoriere del Pd del Lazio, Antonio Olivieri. Anche al partito laziale, come in Puglia e in Sicilia, tardano ad arrivare i contributi che i parlamentari si impegnano a versare nelle casse della tesoreria regionale, una volta eletti. Ad esempio, il ministro per la Pubblica amministrazione Marianna Madia, secondo i dati della Tesoreria della Camera, ha versato solo 9.000 dei 25.000 euro concordati. Il resto lo ha rateizzato. “Normale - spiega Olivieri – con ogni singolo parlamentare ho concordato personalmente le modalità di pagamento e lei mi ha chiesto di versarli poco a poco. Il problema principale è che molti degli eletti sono alla prima legislatura e non avrebbero potuto corrispondere subito tutto”. I deputati e i senatori eletti per il Pd nel Lazio sono in tutto 46. Stando ai dati della tesoreria della Camera, solo in 11 hanno versato i 25.000 euro concordati prima delle elezioni. Tra questi, l’ex presidente Gianni Cuperlo, il capogruppo in Senato Luigi Zanda, Matteo Orfini e i “democristiani” Enrico Gasbarra (popolare) e Francesco Scalia (franceschiniano). Il renziano Roberto Giachetti e il popolare Beppe Fioroni risultano non avere versato nulla.
DISCORSO DIVERSO per le candidature “di peso” come quella del presidente del Senato Pietro Grasso. “Personaggi come lui o Pierluigi Bersani – precisa Olivieri – candidati nazionali, versano la loro quota direttamente nelle casse del Nazareno”. A farne le spese sono soprattutto i dipendenti del partito. L’ammanco di 500 milioni di euro in contributi elettorali dai parlamentari siciliani ha causato il licenziamento di 13 dipendenti del Pd locale, mentre in Puglia il buco è di 720.000 euro, come già riportato da Repubblica . “Ho messo in cassa integrazione anche mia moglie e stiamo valutando di cambiare la nostra sede”, racconta Olivieri, facendo intendere che anche nel Lazio gli ammanchi sono importanti.
Le difficoltà sono aumentate dopo la nuova legge sul finanziamento pubblico ai partiti, che ne prevede l’abolizione entro il 2017. Mentre il meccanismo del due per mille, che consentirà ai cittadini di finanziare il proprio partito, entrerà a pieno regime non prima di due anni. Il mancato versamento da parte dei parlamentari è un fenomeno che riguarda soprattutto le regioni del centro-sud, evidenzia lo stesso Olivieri. “So che ci sono problemi anche nelle Marche, in Umbria, in Campania”, rivela. Ma non è una novità. Già nel 2012 Luigi Berlinguer, Antonio Misiani e Davide Zoggia, allora rispettivamente presidente di commissione garanzia, tesoriere e responsabile dell’organizzazione nazionale, inviarono lettere ai tesorieri e segretari regionali, lamentando “diverse segnalazioni pervenute dal territorio in merito al mancato o irregolare versamento dei contributi” e chiedendo di sollecitare il pagamento dagli eletti. A occuparsene ora sarà il collegio dei garanti, presieduto dallo stesso Berlinguer.

Corriere 9.5.14
Si riapre il caso Shalabayeva
Verbali incompleti, contraddizioni e ricatti . Indagine dei Pm di Perugia riapre il caso e i documenti che sembravano dimenticati stanno per essere rimessi in fila.
di Paolo Mondani

qui

il Fatto 11.5.14
L’assenza dello Stato e il sentimento di vendetta
di Furio Colombo


Ricordate la frase così spesso usata “non ti puoi fare giustizia da solo”? Sono poche parole che spiegano, anche se non c’è un costituzionalista in sala, che cosa è lo Stato. C’è una parola opposta e simmetrica: vendetta. Significa che qualunque gesto tu compia in proprio per far valere da solo un diritto negato o punire un’offesa, una ferita, un dolore deliberatamente inflitto, o presunta ingiustizia o la morte, stai violando il più sacro dei patti. Ti stai appropriando di un compito dello Stato. O meglio, neghi che lo Stato esista. E se non esiste, accetti il peso e il rischio di fare da solo. Per tanto tempo abbiamo detto che soltanto la malavita o un furore malato inducevano ad accamparsi fuori dello Stato e contro lo Stato.
Dunque la vasta città del crimine organizzato da un lato e i villaggi dei crimini folli dall’altro. Per tutti gli altri il patto è la Costituzione. Ti dice fino ai dettagli in che Stato vivi, che cosa lo Stato, in ogni istante, è pronto a fare per te. E dove sono stati tracciati i limiti della pur vasta libertà che questo patto prevede per ognuno, individuo o gruppo. Ecco perché, a partire dagli anni Novanta, c’è stato un movimento di cittadini deciso a difendere la Costituzione, contro “bicamerali” di ogni tipo, formali e informali, legali e di fatto. Le cosiddette “riforme”, proposte sempre più spesso a parti fondamentali della carta, hanno rivelato che lo Stato era in pericolo.
TRE PAROLE hanno cominciato ad animare il paesaggio e a mettere in movimento parti staccate dall’idea unitaria di Stato che in qualche modo la gran parte di noi condivideva. Le tre parole sono secessione, federalismo, lotta contro la giustizia. La secessione ha rappresentato subito una dichiarazione aperta di disprezzo per lo Stato, un reclamo di separatismo fondato su una presunta convenienza. Lo Stato si è assegnato un compito tollerante e noncurante. In realtà ha diviso e contrapposto gruppi di interessi (ricordate la grande truffa delle quote latte?) e ha aperto un lungo percorso di malgoverno locale e nazionale (fino ad avere un ministro dell’Interno secessionista).
Il federalismo, privo di una cultura giuridica e pratica e di una legge fondamentale sui diritti civili dei cittadini, che vengono abbandonati ai poteri locali di un improvvisato “Stato federale” ha disarticolato le strutture dello Stato, arricchito ceti e clan politici che hanno fatto in tempo a prendere possesso di questi nuovi poteri e a diventare controparti che spostano quote di ricchezza del Paese senza che sia stato mai definito il come e il quando, e sotto quale controllo.
Intanto, fin dall’inizio di questa potente rivoluzione strisciante di negazione dello Stato, si è formata una contrapposizione durissima al potere giudiziario. Una tale contrapposizione nega giudici, codici, autonomie e sentenze. Nega soprattutto l’indipendenza – inviolabile, nello Stato democratico – del sistema giudiziario e lavora alla sottomissione anche personale dei giudici. Ma una battaglia così estrema e così aperta non tanto al potere quanto al lavoro dei giudici e quindi alla loro esistenza, ha una sua causa che fa da perno a tutte le vicende e avventure dello Stato italiano: la corruzione.
DA MALE antico, come la tubercolosi, che costringeva a continue verifiche, la corruzione italiana si è trasformata in routine che sale dal basso degli infiniti “piccoli” abusi, considerati “necessari”. E piove dall’alto di immense vicende che diventano persino oggetto di ammirazione tanto sono grandi gli impossessamenti privati di parti della ricchezza comune. Come ci dimostrano eventi anche recentissimi in cui infatti da un lato ti meravigliano le dimensioni del furto, dall’altra ti annoia la ripetizione infinita, a un certo punto ti accorgi che la corruzione in Italia svuota lo Stato come una anemia profonda che toglie ogni difesa immunitaria.
Il Parlamento, che avrebbe potuto essere l’ultimo presidio di difesa dello Stato, ha ceduto su tutto alla volontà e ai capricci dei più svariati esecutivi, con leggi indecenti, con voti di fiducia ridicoli e con silenzi paurosi. E allora si è levato un vento furioso, detto “antipolitica” che vuole punire tutto, risalendo ai conti e alle responsabilità di questa e di ogni altra generazione politica. Entra in campo con furore e tensione la parola “vendetta”. Ma la vendetta, sia negli stadi sia in politica, non vuole tener conto dello Stato, non lo conosce e non lo riconosce. Nessuna obiezione a lasciarlo morire, da parte degli invasori di campo delle partite controllate in nome di interessi loschi, o in Parlamento, in nome di nuovi gruppi politici portatori, ci dicono, di un mondo nuovo e febbrile disposto ad amputare tutto pur di fare pulizia del prima, che è tutto corrotto.
INTANTO RENZI, titolare del nuovo esecutivo senza nostalgie e senza scrupoli, disprezza il Parlamento, immagina solo dipendenti obbedienti, e promette “entrerò nella burocrazia (che è il corpo fisico dello Stato, ndr) con la ruspa”. Uno dei corpi burocratici più esposti e più in vista del nostro vivere in comune, la polizia, viene spinto alla cieca contro gravi pericoli fisici che nessun politico ha voluto affrontare e trasformare in confronto politico. Questo corpo, lasciato solo, ha mostrato, alcune volte, la tendenza a vendicarsi su individui isolati che sono stati identificati (di nuovo, alla cieca) come il pericolo, e che vengono sacrificati a un dio della sicurezza, al fondo di un burrone di solitudine. Lo Stato, come una navicella spaziale frantumata, parla con voci incoerenti da punti diversi e scollegati dello spazio. Non è in grado di assicurare giustizia, di garantire equità, di provvedere ordinata continuità, di fabbricare lavoro. Ecco, noi siamo fermi qui, alla voce “corruzione”, alla voce “solitudine”, alla voce “vendetta”.

Repubblica 11.5.14
Il danno del denaro creato dalle banche

di Luciano Gallino

L’ARTICOLO di Martin Wolf uscito pochi giorni fa sul “Financial Times” (il 24 aprile) è a dir poco sensazionale. Gli si desse retta, il solo titolo - “Spogliare le banche private del potere di creare denaro” - basterebbe per mandare in soffitta le teorie, le istituzioni e le politiche economiche che prima hanno causato la crisi, poi l’hanno aggravata con le politiche di austerità. Non si vuol dire che di per sé l’articolo di Wolf arrivi a svelare delle novità fino ad oggi inimmaginabili. Da anni vari gruppi di studiosi e associazioni in Usa come in Europa sostengono che se non si limita il potere delle banche private di creare denaro dal nulla la prossima crisi potrebbe essere anche più devastante della precedente. Il fatto nuovo è che a dirlo è il maggior quotidiano economico del mondo, da sempre pilastro (bisogna ammetterlo: con dosi di pensiero critico che di rado si ritrovano nei suoi confratelli) della cultura economica neoliberale. I chiodi su cui batte Martin Wolf sono tre. Il primo è che la stragrande maggioranza del denaro in circolo viene creato dal nulla - perché lo stato glielo consente - dalle banche private nel momento in cui concedono prestiti, accreditando l’ammontare sul deposito del richiedente. Quando Mr. Jones o la Sig. ra Bianchi si vedono accreditare 100.000 sterline o euro sul proprio conto di deposito, grazie ai quali stipuleranno un mutuo, non un solo euro è stato tolto da altri depositi o dal capitale della banca. La somma è stata creata da un contabile con pochi tocchi sulla tastiera. Specifica Wolf: “Le banche creano depositi come sottoprodotto dei prestiti che concedono.”
Sarà un caso, ma forse non lo è affatto, che l’articolo di Wolf sia stato preceduto a marzo da una pubblicazione della Banca d’Inghilterra la quale ripete una decina di volte in poche pagine che sì, sono proprio le banche private la fonte maggiore della creazione di denaro. Tanto per cominciare: “In pratica la creazione di denaro differisce da vari malintesi popolari: le banche non agiscono semplicemente da intermediari, dando in prestito i depositi effettuati presso di loro… Ogni qualvolta una banca fa un prestito, crea simultaneamente un corrispondente deposito sul conto del mutuatario, creando in tal modo nuovo denaro.” (Bank of England, “Quarterly Bulletin”, n. 1, 2014). C’è da sperare che gli economisti ortodossi i quali insegnano ancora ai loro studenti che le banche possono prestare soltanto il denaro che tengono in cassa, mostrando così di ignorare nel loro insegnamento il ruolo fondamentale che svolge nel sistema economico la creazione privata di denaro, trovino modo di dare una scorsa, oltre che all’articolo in parola, pure al bollettino della BoE.
Il secondo chiodo su cui batte Wolf è il pesante ruolo negativo che la suddetta creazione di denaro svolge a danno dell’intera economia. “Il nostro sistema finanziario è palesemente instabile perché lo stato prima gli ha concesso di creare quasi tutto il denaro che circola nell’economia, poi si è visto costretto a sostenerlo nello svolgimento di tale funzione. Questo è un buco gigantesco nel cuore delle nostre economie di mercato.” L’autore avrebbe potuto aggiungere che oltre ai trilioni di dollari, sterline ed euro creati dal nulla dalle banche sotto forma di depositi, circolano nel mondo, al di fuori delle piattaforme regolamentate, centinaia di trilioni di derivati dalle innumeri denominazioni (ABCP, ABS, CDO, CLO, CDS, MBS…), pure essi creati dalle banche private. Poiché questi titoli hanno un valore di mercato, ciascuno può venire istantaneamente commutato in denaro contante, oppure versato come collaterale per garantire un prestito, o altro. Grosso modo, si tratta di una massa di denaro potenziale - potenziale, va notato, come la nitroglicerina - che gira per il mondo in quantità decine di volte superiori alle transazioni aventi per oggetto beni o servizi reali.
Infine c’è la fondamentale proposta dell’autore, che va ben al di là di quanto sintetizzato nel titolo. Il potere di creare denaro dovrebbe essere riservato esclusivamente allo stato. La funzione delle banche dovrebbe venire circoscritta alla intermediazione tra risparmiatori e investitori o mutuatari, alla effettuazione dei flussi di pagamento, e alla custodia dei depositi. Per appoggiare la sua proposta, che rientra nel quadro delle riforme le quali postulano un’attività delle banche “ristretta” o “limitata”, Wolf si richiama brevemente a studi degli anni 30 quale l’illustre Piano di Chicago. Esso prevedeva che una banca dovrebbe sempre disporre del 100 per cento di riserve per ogni soldo che ha in deposito e che presta a qualcuno, il che porrebbe definitivamente fine al suo potere di creare denaro dal nulla. Un piano rivisitato di recente da ricercatori del Fmi, i quali arrivano a concludere che esso potrebbe funzionare bene anche oggi. Agli oppositori i quali temono che in questo modo rischierebbe di sparire il credito alle imprese, l’autore ricorda che le banche finanziano l’investimento produttivo in misura pari appena al 10 per cento dei loro prestiti.
Questo articolo proveniente da una fonte quale il “Financial Times” vale a ricordare ai governi Ue, compreso il nostro, che una riforma finanziaria la quale in qualche modo riduca drasticamente il potere delle banche private di creare denaro è la maggiore riforma politica di cui essi dovrebbero occuparsi per salvare l’Unione e i propri stessi paesi. Non importa se oggi questi appaiano far parte del gruppo dei più forti, oppure di quello dei più deboli. Al confronto le riforme bancarie di cui si parla nella Commissione (il rapporto Liikanen), nell’Ecofin (l’Unione Bancaria), in alcuni parlamenti (Regno Unito, Francia, Germania), sono acqua fresca. Soltanto una forte riduzione del potere “creativo” delle banche può fare uscire i governi Ue dal ruolo di burattini del potere finanziario che attualmente svolgono. Salvo che, naturalmente, in tale ruolo ci si trovino bene, per scelta o per incompetenza. Al riguardo, è ancora Martin Wolf che avverte: “Quando arriva la prossima crisi - e di sicuro arriverà - abbiamo bisogno di essere pronti.”

Repubblica 11.5.14
Se vogliono rottamare il Senato ci vuole la Costituente

di Eugenio Scalfari

DA TRE giorni le notizie sulla “cupola” del malaffare che domina gli appalti dell’Expo, gli arresti ordinati dal tribunale di Milano e l’arresto di Scajola accusato di associazione per delinquere, sono state ampiamente diffuse e commentate. Ha sorpreso soprattutto il riemergere delle stesse persone che già furono giudicate e punite ai tempi di Tangentopoli e che tuttora sono al centro del sistema del malaffare pubblico e privato. Gli stessi imprenditori, gli stessi affaristi, gli stessi metodi e le stesse protezioni.
Com’è possibile a distanza di 22 anni una così nefasta e ricorrente potenza della corruzione sulla legalità? E quali saranno le ripercussioni politiche d’uno “tsunami” morale di questa gravità? E infine: il paese è stato ferito e sente di esserlo?
Quest’ultima, a mio avviso, è la domanda più importante e mi suggerisce una risposta: il paese è indifferente e questo è il suo modo di protestare. Gli ultimi sondaggi ci dicono che il partito degli indifferenti, quelli che non andranno a votare alle prossime elezioni europee o sono indecisi e tendenzialmente orientati all’astensione, rappresenta oltre il 40 per cento del corpo elettorale.
L’alternativa all’astensione è il voto a Grillo, che non è né di destra né di sinistra o d’alcun altro colore politico. È antipolitica pura che si concentra su un programma distruttivo. Non ha proposte da fare di nessun genere, né per l’Italia né per l’Europa, tranne una: distruggere tutto ciò che esiste, tutti i partiti, tutte le istituzioni e tutte le persone che le rappresentano. Non ce n’è una sola che sia risparmiata, da Napolitano a Santanché, da Renzi a Berlusconi, dalla Merkel alla Le Pen, da Putin a Vendola.
TUTTO va azzerato. I Parlamenti debbono essere ridotti a uffici che diano forma di legge alle decisioni indicate dai referendum. Democrazia diretta. Il governo composto da funzionari che restano in carica per un periodo breve e poi se ne tornano a casa. Per quel pochissimo che conteranno, i parlamentari dovranno rispettare il vincolo di mandato, cioè le decisioni che i partiti hanno scelto nei loro programmi e che il popolo ha in diversa misura approvato.
Ha un senso votare per un programma del genere che, nella fattispecie del Movimento 5 Stelle dà a Grillo tutto il potere trasformando la democrazia, con tutti i suoi vizi e difetti, nella tirannide d’un comico? Infatti, non ha alcun senso e la gente lo vota come protesta. Il voto a Grillo equivale al non voto, ma è molto più pericoloso e il perché è evidente. Per fortuna i sondaggi danno al Pd di Renzi 10 o 11 punti di maggioranza rispetto a Grillo, il quale a sua volta supera Forza Italia di molte lunghezze.
Gli indifferenti, sommando chi non vota e chi voterà grillo, viaggiano verso il 65 per cento, ma due terzi di questi antipolitici si asterranno e quindi non incideranno sulla composizione politica degli eletti al Parlamento europeo. Il danno avverrà a Strasburgo, non a Roma. Ma può preannunciare ciò che avverrà in Italia quando ci saranno le elezioni politiche. E quindi è di questo che ora dobbiamo parlare.
* * *
Domenica scorsa ho scritto che forse Matteo Renzi stava diventando l’alternativa di se stesso per quanto riguardava la riforma del Senato che rappresenta il tema centrale del suo programma insieme alla politica del lavoro. Sembrava infatti che si stesse convincendo che la sola, vera e necessaria riforma del Senato fosse quella di riservare soltanto alla Camera dei deputati il compito di dare o negare la fiducia al governo, modificando in questo modo quel bicameralismo perfetto che da sessant’anni è una palla al piede della nostra democrazia parlamentare. Per il resto il Senato sarebbe rimasto quello che era, non ridotto ad una scatola vuota, ma direttamente eletto dai cittadini e dotato di nuove e altrettanto penetranti funzioni.
Ebbene mi sbagliavo. Renzi non ha alcuna intenzione di cambiare il bicameralismo eliminando utilmente la sua “perfezione”. Di fatto vuole eliminare totalmente il bicameralismo assegnando al Senato - eletto in secondo grado dalle Regioni e dai Comuni - il compito di rappresentare gli interessi degli Enti locali e al tempo stesso di controllare i poteri che essi detengono e di dirimere i loro eventuali confitti con lo Stato centrale. Altri eventuali poteri di questo Senato delle autonomie (come vorrebbero chiamarlo) sarebbero quelli di partecipare al “plenum” del Parlamento quando esso si riunisce per eleggere il capo dello Stato o i giudici costituzionali e per ratificare i trattati dell’Unione europea; poteri sostanzialmente irrilevanti e che il Senato in gran parte già possiede. Questa posizione ha un solo evidente significato: abolire il Senato. È questo che volete? Ditelo e presentate al Parlamento un disegno di legge di riforma costituzionale. Se sarà approvato avremo in Italia un sistema monocamerale e la rappresentanza degli Enti locali nei loro rapporti con lo Stato sarà gestita, come già avviene, dalle Conferenze che le Regioni e i Comuni hanno con lo Stato centrale.
Certo un regime monocamerale accresce i rischi d’un potere esecutivo non più soltanto autorevole ma tendenzialmente autoritario, tanto più se si trasformasse il governo in una sorta di cancellierato.
Per evitare che il rischio divenga realtà bisognerebbe a questo punto riscrivere la Costituzione e trovare nuovi equilibri, sapendo che non si può certo farlo utilizzando l’articolo 138 della Costituzione, ma convocando una nuova Assemblea costituente. È questo che avete in mente? Non credo. Voi avete in mente di far mangiare la minestra o far saltare dalla finestra chi non la mangia. Ma questo può concepirlo un Berlusconi o un Grillo, ma non il Partito democratico.
Perciò pensate bene a quel che farete; la fretta è sempre cattiva consigliera.
C’è ancora una considerazione da aggiungere sulla riforma del Senato che sarà discussa il 10 giugno, cioè dopo le elezioni europee. Nel disegno di legge che il governo ha in mente ma le cui linee sono già state ufficialmente anticipate, è previsto che i membri del Senato siano eletti dai consigli regionali e comunali. Tuttavia il risultante Senato delle autonomie dovrebbe anche avere il ruolo di “vigilante” sulla gestione degli Enti locali e sulla legislazione di loro spettanza. Cioè: i senatori eletti dagli Enti locali debbono vigilare su quelli che li hanno eletti. Ma chi li scrive questi testi? Del Rio? La Boschi?
Il potere giudiziario che ha il ruolo di giudicare i reati e tutelare la legalità, è reclutato con concorsi e non è eletto da chi dovrebbe poi vigilare. Un Senato delle autonomie non può dunque essere eletto dalle medesime autonomie se deve non solo coordinarle ma vigilare sul loro operato legislativo e finanziario. Per la contraddizione che non lo consente. A me sembra elementare, e a lei, onorevole Renzi?
 * * *
I sondaggi elettorali prevedono per il Pd il 34 per cento, per Grillo il 23, a Berlusconi il 18, ad Alfano il 7, alla Lega il 6.
Se i risultati rispecchieranno a grandi linee questi dati, quando si voterà per le politiche al ballottaggio tra i primi due Berlusconi non ci sarà e questo lo impensierisce molto. Ma fino a quando il Parlamento rimarrà quello di adesso, la cui scadenza naturale è nel febbraio del 2018, Forza Italia ed i suoi alleati sono ancora nel gruppo di testa insieme a Grillo e al Pd. Alla Camera il Pd ha la maggioranza assoluta ma al Senato ha una maggioranza risicata con Alfano. Ne consegue che Alfano ha l’ultima parola.
Ma qualora su qualche punto importante Alfano dissentisse da Renzi l’ultima parola l’avrebbe Berlusconi. Questa situazione non è molto tranquillizzante e potrebbe durare fino al 2018: una maggioranza di governo risicata dove i pochi seggi di Alfano hanno un peso marginale determinante e dove l’intero programma di riforme è in mano a Berlusconi. Durare fino al 2018 oppure far saltare dalla finestra Renzi appena possibile: per esempio nell’autunno di quest’anno, proprio mentre è ancora in corso il semestre europeo con presidenza italiana; oppure nella primavera del 2015.
E se la nuova legge elettorale non fosse stata ancora approvata? Se Berlusconi riuscisse a provocare nuove elezioni con la legge elettorale vigente, residuale della sentenza della Corte costituzionale che ha abolito il “Porcellum” e che ha lasciato in piedi una legge elettorale proporzionale?
Il rischio c’è. Se Berlusconi scavalcato da Grillo non potesse neppure partecipare al ballottaggio con Renzi, forse gli converrebbe puntare su elezioni nel tempo più breve possibile, con il sistema proporzionale. Avremmo in tal caso un’unica maggioranza: le larghe intese tra il Pd e Forza Italia. L’ex Cavaliere di Arcore resterebbe sicuramente un padre della Patria e resterebbe al governo per questa e per la futura legislatura.
Debbo dire che non è un bel vedere restare alleati per i prossimi nove anni con un partito fondato e guidato da due pregiudicati. Per lottare contro la corruzione non è certo questa alleanza lo strumento più idoneo.
* * *
C’è ancora un tema che l’attualità ci impone e questo è - finalmente - positivo: l’impegno assunto da Mario Draghi di intervenire a giugno sui mercati europei con una decisa azione anticiclica che avrà lo scopo di combattere i sintomi di deflazione che si stanno manifestando in Europa e allo stesso tempo tentare una riduzione del tasso di cambio dell’euro nei confronti del dollaro. Attualmente quel tasso di cambio oscilla tra l’1,35 e l’1,40 dollari per un euro. Questo mortifica fortemente le esportazioni europee (e quelle italiane in particolare) verso l’area del dollaro, mentre un ribasso verso l’1,20 sarebbe salutare per rilanciare la domanda e quindi investimenti e occupazione.
Draghi è uno dei pochi personaggi che sta lavorando con una coerenza senza alcuna crepa per un rilancio europeo che passa attraverso l’unificazione bancaria da lui voluta e verso la nascita degli Stati Uniti d’Europa che dovrebbe essere per le persone responsabili e consapevoli l’obiettivo numero uno di questi anni.
Poiché di Draghi sono amico da molto tempo qualche giorno fa gli ho chiesto se esistesse una sua aspirazione a sostituire Giorgio Napolitano al Quirinale quando il nostro attuale presidente della Repubblica deciderà di lasciare il suo posto (spero il più tardi possibile). Draghi sembra a molti adattissimo a succedergli e gliel’ho detto, ma mi ha risposto con un diniego totale. Non certo perché consideri irrilevante quella carica prestigiosa e faticosa, ma perché il suo obiettivo e quello che considera il suo compito è l’Europa.
Penso che abbia ragione e penso che questo sia un bene anche per noi perché tutti i paesi dell’Eurozona e di tutta l’Unione europea, senza gli Stati Uniti del nostro continente, diventerebbero irrilevanti, senza storia, dopo esserne stati i protagonisti per secoli e addirittura per millenni.
Questo è il bivio di fondo con il quale dobbiamo tutti misurarci. Draghi ne è pienamente consapevole e si comporterà con la sua abituale coerenza.

l’Unità 11.5.14
Ricordo di Moro e di Berlinguer
di Claudio Sardo


Rileggere Aldo Moro dà quasi un senso di vertigine, tanto diversi erano il suo linguaggio, il contesto, i sentimenti stessi della politica. Sembrano preistoria quei lunghi discorsi, nei quali affidava alla parola il compito non solo di spiegare, ma di capire, di scavare, di distinguere.
Di cercare sintesi più comprensive e avanzate. Sembrano preistoria, invece sono parte delle nostre radici democratiche. Rileggere Aldo Moro nell’anno delle celebrazioni di Enrico Berlinguer apre poi a domande radicali sul senso della politica, sul ruolo dei partiti, sul tempo che produce fratture e opportunità, e così incide sulla carne viva della società e sulle libertà delle persone.
Qualcuno, con arroganza, irride la nostalgia associando ad essa una «certa sinistra ». Moro fu ucciso dai brigatisti il 9 maggio 1978. C’è un modo di guardare il passato da conservatori impauriti, pensando che tutto il meglio è alle nostre spalle. Ma c’è un modo di guardare alla storia come a una risorsa, a una riserva critica del presente. Questa nostalgia è proiettata nel futuro. In un futuro che non sia solo la modernità dei nuovi potenti, ma sia una costruzione a cui partecipino passioni, intelligenze, valori, cioè persone. Conservatori e rivoluzionari, diceva Berlinguer. Perché chi vuole rendere il mondo più giusto, non si fa rubare la storia.
Del resto, il modo di guardare il passato è influenzato dal presente, è parte della battaglia politica. In un bell’articolo su l’Unità Alfredo Reichlin si è chiesto perché tanta attenzione a Berlinguer nel trentesimo della morte. E perché un approccio così diverso rispetto alle polemiche sull’alterità comunista, sulla questione morale, sul compromesso storico. È proprio la profondità della crisi di oggi - economica, sociale ma anche antropologica - a porre nuove domande. Reichlin concludeva che si guarda a Berlinguer chiedendosi quale idea bisogna avere della politica nel tempo della sua svalutazione, quale passione è necessaria per restituire alla democrazia il significato che rischia di perdere, quali battaglie vanno ingaggiate per reagire alla torsione elitaria che sta espropriando i cittadini, a cominciare dai più deboli. Serve un pensiero critico per uscire dalla cittadella assediata. E serve la materia prima per costruire. Con il nuovismo si fa marketing elettorale, ma non si tira su un edificio sulle sabbie mobili.
Aldo Moro è stato l’uomo del centrosinistra, della solidarietà nazionale, della terza fase incompiuta. Se la Dc - pur con tutte le sue contraddizioni e le sue cadute - è rimasta dopo De Gasperi una realtà originale, ancorata alla Costituzione, con un confine marcato a destra e un confronto aperto a sinistra sulle riforme sociali, questo lo deve in gran parte alla guida di Moro. E non è un caso che il suo assassinio deviò in modo così netto il corso della politica italiana.
Ma, al di là delle linee strategiche, anche per Moro valgono quelle domande sulle radici etiche della democrazia, che sono così vitali per interpretare l’oggi. Moro era attentissimo alle novità sociali: l’aderenza alla realtà che cambia era per lui condizione di legittimità stessa della politica. Emblematico il suo giudizio sulla contestazione studentesca, espresso nel novembre ’68: «Tempi nuovi si annunciano e avanzano in fretta come non mai. Il fatto che i giovani, sentendosi a un punto nodale della storia, non si riconoscano nella società in cui sono e la mettano in crisi, sono tutti segni di grandi cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità». Alla spinta del cambiamento non si deve opporre una reazione difensiva, ma un confronto sui valori, sulle libertà, sui doveri, sulla solidarietà.
Il limite della politica sta nel fatto che non è mai sufficiente a se stessa. Ma neppure il nuovo è un assoluto. La pretesa di assoluto è un’insidia per la democrazia. «Se noi - sostenne Moro - sapessimo solo opporre la nostra sofferta ricerca del modo di affrontare il nuovo, ma non avessimo una fisionomia distinta, una autonomia, una ferma volontà politica, noi avremmo fatto venire meno un termine essenziale della dialettica democratica. Il nuovo dunque sì, ma il nuovo capito, dominato, voluto da noi stessi per quello che siamo stati e che siamo». Il nuovo per Moro diventa bene comune quando il fine riesce a ordinare e condizionare i mezzi. Per questo contrapponeva la violenza e il politicismo di certe espressioni del ’68 con il desiderio autentico di «nuova umanità», con quell’emergere «di una legge di solidarietà, di eguaglianza, di rispetto di gran lunga più seria e cogente che non sia mai apparsa nel corso della storia».
Senza un’idea dell’uomo non si rifonda la politica democratica. Moro, studioso di Maritain, era convinto che la persona fosse il perno di una società equilibrata, contro i rischi dell’individualismo egoista e del collettivismo autoritario. Le libertà della persona sono vitalmente connesse a quelle dei corpi intermedi, dal più piccolo che è la famiglia, al più grande e complicato che è il partito. Nella relazione al congresso di Napoli del ’62, quello che aprì al centrosinistra, Moro disse: «La polemica sulla partitocrazia è essenzialmente una polemica di destra. Pretendendo di porsi come correzione di abusi compiuti nell’azione dei partiti, essa ha di mira in realtà l’emergere di opinioni, l’affermarsi di interessi, l’elevarsi fino a posizione di potere di ceti che si era abituati a considerare fuori gioco».
Parole che mantengono tuttora la loro forza. Si dirà che i partiti sono stati vettori di corruzione e che la corruzione continua a dilagare, ben oltre Tangentopoli. Ma forse questo accade perché i partiti non sono stati ricostruiti su basi di trasparenza, attuando finalmente l’art. 49 della Costituzione. Forse la colpa è anche di chi ha teorizzato la democrazia senza partiti, così funzionale alla concentrazione di poteri nelle mani di pochi. Rileggere Moro e Berlinguer può aiutarci, non a trovare soluzioni concrete, ma a rianimare una passione civile e a radicare la politica negli interessi reali e nelle speranze.

l’Unità 11.5.14
Scuola, è tempo di ri-creazione
di Pietro Greco


IL MONDO È CAMBIATO, DICEVA GIANNI RODARI ALL’INIZIO DEGLI ANNI’60 DEL SECOLO SCORSO. IO SCRIVO per i ragazzi di oggi, astronauti di domani. Ragazzi che vivono e apprendono in un mondo molto diverso da quello conosciuto dai loro padri e dai padri dei loro padri. Occorre una nuova scuola. Occorre un nuovo metodo d’insegnamento. Occorre una «nuova grammatica della fantasia».
Non è un caso se cita anche Gianni Rodari, che con Collodi è stato il più grande scrittore per ragazzi nella storia della letteratura italiana, e chiede una nuova grammatica della fantasia, Luigi Berlinguer, cultore di storia del diritto, già Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, parlamentare europeo uscente del Partito Democratico e soprattutto analista tra i più attenti del rapporto tra scuola e società, nel libro che ha appena pubblicato con l’editore Liguori dal titolo, niente affatto casuale, di Ri-creazione. Una scuola di qualità per tutti e per ciascuno.
Un libro con cui il cultore di storia del diritto esce dal contingente per collocare la scuola nel mondo che cambia, sia proponendo una rivoluzione nel modo di insegnare dopo quasi due millenni di consolidata trasmissione del sapere da chi sa a chi non sa (o top-down, come dicono gli inglesi), sia ridefinendo il rapporto tra scuola e democrazia, quattro secoli dopo che Jan Amos Komensk ha indicato nella scuola di massa e nell’educazione per tutti la nuova frontiera della modernità e lo strumento con cui tutte le persone possono migliorare la propria condizione sociale e spirituale.
Luigi Berlinguer entra nel dettaglio dei singoli aspetti in cui si declina il nuovo rapporto tra scienze e società. Ma conviene seguirlo nel discorso più generale. Questo rapporto è diventato così forte, così intimamente interpenetrato che chiede sia alla scuola sia alla società di ripensare se stesse. Di ri-crearsi appunto. Ri-fondando la democrazia sulla conoscenza. E conferendo alla conoscenza una dimensione democratica, di potente (del più potente) fattore di inclusione sociale.
L’analisi, in estrema sintesi, è questa. Il mondo sta cambiando. Viviamo in una nuova era, che molti hanno definito della conoscenza. A partire da quel Jacques Delors che oltre venti anni fa indicò all’Europa la necessità di ridefinire le sue politiche per diventarne leader assoluta. In questa nuova era, la conoscenza non solo continua ad avere quel valore intrinseco che, come diceva Comenio, consente all’individuo che la possiede di progredire sul piano spirituale e sociale. Ma ha anche un valore economico – nel senso originario, di gestione la migliore possibile della casa comune – che consente il progresso delle nazioni. Oggi sempre più la società e la stessa economia chiedono conoscenza. Chiedono che una parte considerevole, addirittura maggioritaria, delle persone in età da lavoro abbia almeno 15/20 anni di studi alle spalle e continuino ad apprendere per tutta la vita (long life learning).
Nel medesimo tempo nuovi strumenti tecnologi – il computer, la rete di computer, la rete delle telefonia mobile, le reti radiotelevisive, la rete delle reti – consentono l’accesso a e l’uso creativo di una quantità di informazione e di conoscenza (ebbene sì, anche di conoscenza) che non ha precedenti nella storia. Parafrasando Rodari, noi comunichiamo con i ragazzi di oggi, cybernauti di oggi. È chiaro che noi, immigrati digitali, dobbiamo riscrivere daccapo – ri-creare, appunto – la nostra grammatica della fantasia, se vogliamo comunicare e se vogliamo contribuire all’apprendimento dei ragazzi di oggi, che sono nativi digitali. Ecco, dunque, la doppia sfida che la scuola deve affrontare e vincere. Una è la sfida della quantità. Molti, tendenzialmente tutti devono poter compiere 15/20 anni di studi e continuare, poi, con il long life learning. È un diritto di ciascuno. Ma anche un bene comune, cui una nazione moderna non può rinunciare, pena la sua stessa marginalizzazione culturale ma anche economica.
L’altra, è la sfida della qualità. Occorre superare l’idea che si possa trasmettere, con l’approccio top-down, un sapere uguale per tutti. Ma occorre sempre più acquisire l’idea – la nuova grammatica della fantasia – che consente a ogni singolo studente - a ogni «soggetto individuale», per dirla con il sociologo francese Alain Touraine - di partecipare in maniera critica alla sua stessa formazione, secondo un percorso personalizzato che si modella sulle esigenze, la curiosità, le inclinazioni, la storia di ciascuno. La scuola deve diventare ri-creare se stessa e diventare «scuola del soggetto», in grado di perseguire l’uguaglianza nella diversità.
In altri termini, nell’era dei nativi digitali la scuola non deve trasferire il sapere, di cui non ha più il monopolio, perché il sapere è diffuso, ma deve insegnare a ciascuno ad apprendere. Non è facile. Non è scontato. Perché richiede agli studenti di diventare attori del proprio destino culturale. Di apprendere ri-creandosi, in una dimensione che è prima di tutto piacere. Di conseguenza, chiede al docente di trasformarsi da «agente che trasmette» a «guida che connette».
Berlinguer è un illuminista, che indica le opportunità cui spalancano le nuove tecnologie. Ma è un illuminista realista. Sa che, così come è struttura, la scuola, di ogni ordine è grado, ancorché in maniera molto diversificata, è in piena emergenza. Quantitativa - mancano le risorse, la scuola è sottoposta a tagli pesanti, ai tagli più pesanti riservati alla pubblica amministrazione - ma, anche, qualitativa. Sa che la vecchia scuola è, appunto, vecchia. Che il mondo intorno all’aula scolastica è il mondo del XXI secolo, mentre l’aula - metaforicamente, ma non solo - è ancora quella del XIX secolo.
Tuttavia non partiamo da zero. Certo, ci siamo dimenticati di loro, ma il nostro Paese che ha dato i natali a Maria Montessori e a don Lorenzo Milani, pionieri della scuola partecipata e personalizzata; che ha dato i natali a Gianni Rodari, teorico della ri-creazione (nel suo duplice senso) continua dell’apprendimento, ha al suo interno le capacità per accettare e cercare di vincere le sfide dei tempi, perseguendo non un apprendimento fine a se stesso. Non la semplice acquisizione di conoscenze e di nozioni. Ma un apprendimento per competenze.
Per spiegare la differenza tra i due concetti, Berlinguer ricorre a uno degli aforismi che hanno contribuito a rendere famoso, già nel Seicento, Michel de Montaigne: «Noi teniamo in serbo le opinioni e la scienza altrui, e questo è tutto. Bisogna farle nostre. A cosa ci serve la pancia piena di cibo, se non lo digeriamo? Se esso non si trasforma in noi? Se non ci fa crescere e non ci rende più forti?».
Ecco, dunque, un programma fuori dalla contingenza e dalle politiche di bilancio. Costruiamo, non solo metaforicamente, nuove aule. Frequentate da tutti e in cui tutti, ciascuno secondo il proprio metabolismo, hanno l’opportunità di digerire il cibo della mente e di trasformare, come sostiene Luigi Berlinguer, i contenuti di sapere e conoscenza in esperienze di formazione d’identità, di progetto individuale o di adattamento a situazioni sempre nuove.
Si tratta di una sfida epocale. Di un grande programma politico. Che riguarda il modo in cui faremo cultura, svilupperemo un’economia sana e sostenibile. In una parola, il modo in cui ri-creeremo la democrazia con quella «risorsa infinita» che è la conoscenza.

Corriere 11.5.14
Caserta

La Reggia dei soldi buttati via
di Gian Antonio Stella


Non ha portato bene, alla Reggia di Caserta, l’orrendo «cuorno» alto 13 metri eretto prima di Natale davanti all’ingresso: sui tetti del magnifico e ammaccato Palazzo borbonico si è spalancata una voragine. Non bastasse, sono crollati i visitatori e anche il gigantesco corno «russo, tuosto, stuorto» (rosso, tosto e storto), costato 70 mila euro e rimosso dopo le proteste, giace ora abbandonato a ridosso di un capannone. In pezzi. Colpa del malocchio? No, della cattiva manutenzione di quel tesoro che non ci meritiamo.

Silvio Berlusconi ci portò i grandi del mondo, alla Reggia casertana, durante il G7 di Napoli del 1994, per la serata di gala. Il giorno dopo, ai giornalisti di tutto il mondo, ammiccò: «Ieri sera mi sono sentito orgoglioso di essere italiano. Le fontane illuminate erano bellissime. Le signore stringevano gli occhi con anche un’aria romantica. A qualcuno ho detto: “Attenzione che sennò questa notte aumentiamo la prole”».
Dicono di essere tutti orgogliosi, a parole, quelli che in questi anni hanno tenuto i cordoni della borsa. A parole, però. Perché quella straordinaria Reggia edificata a metà del Settecento da Luigi e Carlo Vanvitelli, con il suo parco, le sue fontane, la sua sala del trono, i suoi saloni, le 1.200 stanze e le 34 scale e le 1.742 finestre è da troppo tempo trascurata. E vede l’intervento dei governi e dei ministri e delle autorità regionali, generalmente, solo «dopo» qualche crollo, qualche scandalo, qualche denuncia tivù. Come il servizio, mesi fa, della trasmissione Kilimangiaro , dove Stefania Battistini fece vedere alberi secolari del parco crollati e mai rimossi, le piantine che crescevano sui cornicioni, i calcinacci ancora a terra di uno squarcio apertosi nel soffitto molte settimane prima per il crollo d’una trave sul fianco della Cappella Palatina o le erbacce che invadevano i pavimenti delle Reali Cavallerizze da non molto restaurate per una mostra. Denuncia seguita da una sistemazione delle realtà di incuria più inaccettabili.
Certo è che da tempo i giornali battono e ribattono sul degrado della residenza, spesso abbinato all’abbandono della vicina Reggia di Carditello alla quale Nadia Verdile ha appena dedicato un libro. Basti ricordare il reportage di Alessandra Arachi che un anno fa raccontava di tuffi di ragazzini nella fontana di Diana e Atteone, di ponteggi montati con enorme ritardo dopo troppi crolli, di auto e moto su e giù per i viali e venditori abusivi che si infilavano «persino dentro le stanze degli appartamenti» per spacciare «guide taroccate e tarocchi della felicità, ombrelli, palloncini, biglietti per i ristoranti, persino numeri da giocare al lotto».
Poi, appena l’attenzione dei giornalisti calava, tutto tornava come prima. Con Italia nostra che si sgolava per denunciare la mancanza di manutenzione, l’eterno ritorno degli ambulanti, la mancanza di custodi perché i dipendenti sono in larga parte «amministrativi», i tentativi del sindaco Pio Del Gaudio di strappare il via libera della sovrintendenza a costruire dei baracchini in piazza: «Il problema degli abusivi va risolto, che male ci sarebbe a mettere delle strutture fatte bene in fondo all’emiciclo? Siamo gli unici al mondo a non avere delle bancarelle!».
Finché, motivando la sua contestatissima scelta con la tesi che voleva dare una scossa al disinteresse generale, il sindaco fece tirar su, in poche ore, nel dicembre scorso, un enorme corno portafortuna rosso battezzato «Good Luck, Caserta» proprio in faccia all’ingresso della Reggia.
Reazioni scandalizzate. Foto sui giornali. Critiche pesanti. E lui: «Se davanti alla Reggia avessi messo un grande albero di Natale o un bel presepe non se ne sarebbe accorto nessuno. Un giorno o l’altro, presto, lo togliamo, ma mica mi chiamava il Corriere , se non mettevo “’o cuorno ”! E invece, così, al ministero è scoppiato un putiferio e li ho costretti a precipitarsi tutti qui». E insistette: «Quando a Roma l’hanno saputo mi ha telefonato il direttore generale Antonia Pasqua Recchia: “Tolga subito quel coso prima che al Unesco se ne accorgano! La piazza è nostra”. E che è: extraterritoriale come il Vaticano? “Finalmente ve ne siete accorti”, ho risposto, “Ci abbiamo messo due giorni a tirarlo su. Senza che qualcuno se ne accorgesse. Evidentemente la Reggia è incustodita e abbandonata a se stessa».
Certo è che il 1° maggio quelli della Soprintendenza hanno notato un foro nei tetti della parte della Reggia occupata dall’Areonautica militare. Risposta: «La competenza sui tetti non è nostra, ma del ministero». Durante la stessa giornata, ha raccontato alla Repubblica di Napoli la funzionaria Flavia Belardelli, «il foro si è esteso diventando una voragine». Colpa della pioggia? Anche. Ma «crediamo sia un problema di scarsa manutenzione». E di rimpallo delle competenze. Al punto che per una settimana lo squarcio è rimasto così. Senza che alcuno intervenisse.
Più o meno contemporaneamente, scoppiavano nuove polemiche dopo la pubblicazione su Facebook, da parte dell’associazione «Ciò che vedo in città», delle foto che mostravano che fine avesse fatto «’o Cuorno ». L’«opera d’arte», dopo essere stata rimossa per essere spostata da un’altra parte, è stata in realtà abbandonata all’esterno di un capannone dalle parti dell’autostrada. Dove rappresenta oggi un monumento allo spreco: 70 mila euro buttati per una bravata propagandistica di un mese.
Soldi che avrebbero potuto essere spesi meglio. Magari per un minimo di decoro intorno e dentro la Reggia. Lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua e il filosofo veneziano Massimo Cacciari, salendo ieri mattina la scalinata centrale del palazzo per il Forum Universale delle Culture, potevano notare insieme con la magnificenza dell’architettura, il volo dei piccioni che svolazzavano schizzando qua e là il loro guano, i mozziconi schiacciati sui gradoni, un pacchetto di sigarette vuoto abbandonato da una parte...
Come meravigliarci del crollo dei visitatori? Dicono i numeri ufficiali del ministero che nel 1996, l’anno prima di diventare sito Unesco, la Reggia era al terzo posto tra i siti più visitati d’Italia: adesso è al decimo. Da allora ad oggi i visitatori paganti sono precipitati da 458.942 a 204.390: meno 55 per cento. I visitatori complessivi, compresi quelli coi biglietti gratuiti, da oltre un milione a 439 mila: meno 57 per cento. E meno male che dovrebbe, quella Reggia, renderci «orgogliosi di essere italiani».

Repubblica 11.5.14
La sfiducia verso l'Europa, aspettando le elezioni

di Marc Lazar

LE ELEZIONI europee del 25 maggio fanno paura alle élite dell’Unione, ma lasciano indifferenti i popoli. Temendo un alto tasso di astensione e il successo dei movimenti e partiti definiti populisti, i leader europei fanno un ultimo sforzo per mobilitare gli elettori, stigmatizzando gli euroscettici e decantando l’Europa in tutti i toni. Ma per ora senza molto successo, a giudicare dal perdurante, massiccio disinteresse degli europei: secondo un recente sondaggio, il 60% degli intervistati riconosce di non sapere bene cosa rappresenti e quale sia il senso di questo voto. Come siamo arrivati a una situazione del genere?
Innanzitutto pesa, com’è evidente, la crisi economica, con le politiche di austerità e rigore e la sofferenza sociale che ne deriva. Per molti europei (tranne qualche eccezione, tra cui la Germania) da decenni l’Europa è sinonimo di bassi livelli di crescita, aumento della disoccupazione, delle disuguaglianze sociali e della povertà, sacrifici dolorosi e la sensazione di non avere un futuro. Tutto ciò toglie vigore al progetto europeo. A sessantaquattro anni dal discorso con cui Robert Schuman, il 9 maggio 1954, lanciava il piano che porta il suo nome - una delle basi essenziali dell’Ue - per la messa in comune delle risorse di carbone e acciaio, l’idea europea appare logora e appannata. Quest’idea poggiava su tre P: pace, prosperità, protezione. La prima è più o meno garantita, ma sembra ormai talmente scontata da far sottovalutare la sua portata storica, soprattutto alle giovani generazioni. Quanto alla prosperità e alla protezione, oggi sono incrinate - anche se siamo tuttora in forte vantaggio rispetto ad altre potenze (ad esempio l’America e la Cina). Malgrado ciò potremmo dire, parafrasando una celebre frase riferita da Enrico Berlinguer alla rivoluzione bolscevica, che la spinta propulsiva dell’Europa si è ormai esaurita.
Il motivo principale è politico. Innanzitutto, come si è detto e ripetuto a iosa, per ragioni inerenti all’architettura europea: l’assenza di una vera politica comune, dovuta tra l’altro alle divergenze tra gli stati membri sulle istituzioni e sul funzionamento dell’Unione; le modalità del suo allargamento (il passaggio da quindici a ventotto membri in nove anni); l’impressione di una certa opacità nei processi decisionali ecc. Il risultato è che l’Europa, come ha scritto il politologo Yves Mény in un eccellente articolo uscito sull’ultimo numero del Mulino, è «un po’ come una mosca chiusa in un barattolo». Ma è intervenuto anche un altro fattore non meno destabilizzante, originato non dall’Ue ma dalle mutazioni più generali che investono le democrazie europee e si ripercuotono direttamente sull’Unione.
In quasi tutti i nostri Paesi si fa strada una crescente diffidenza nei confronti delle élite di ogni natura, e soprattutto dei responsabili politici. Ma i leader europei danno prova di una preoccupante sordità. È stato un grave errore, ad esempio, presentare molte candidature col principale intento di ricollocare o riciclare personaggi di cui ci si vorrebbe sbarazzare a livello nazionale. Peraltro, al tempo delle tecnologie moderne le istituzioni della democrazia deliberativa soffrono quasi ovunque di un deficit di legittimità e di attrattività. I parlamenti, in particolare, non catturano più l’attenzione; e ancor meno la cattura il parlamento europeo. Il rafforzamento dei suoi poteri non è stato spiegato agli elettori con sufficiente chiarezza. Per riaccendere l’interesse e il gusto per i lavori parlamentari non bastano le telecamere installate nell’emiciclo. Occorrerebbe immaginare altri mezzi; anche perché in parallelo si afferma sempre più un’esigenza di trasparenza e partecipazione. I cittadini vogliono essere ascoltati in permanenza, e non solo al momento delle elezioni. In questo senso, a livello dell’Unione tutto è ancora da inventare. Infine, la vita politica è sempre più mediatizzata e personalizzata, e ciò spiega il successo di eccellenti comunicatori e leader carismatici quali Tony Blair, Silvio Berlusconi, Nicolas Sarkozy o Matteo Renzi. La scelta di candidare alla presidenza della Commissione i capi delle famiglie politiche - Martin Schulz per la sinistra riformista, Jean-Claude Juncker per la destra, Guy Verhofstadt per i liberali, José Bové e Ska Keller per gli ecologisti, Alexis Tsipras per la sinistra radicale - costituisce una novità, che però al momento non sembra avere un grande impatto popolare.
C’è dunque da sperare che il 25 maggio il messaggio degli elettori - che rischia di essere traumatico, per l’astensionismo e per gli orientamenti del voto - venga ascoltato dai leader europei, e serva come un elettroshock, per ridare nuovo respiro all’Unione. Traduzione di Elisabetta Horvat

Repubblica 11.5.14
Israele
Lo scrittore Oz: “Estremisti ebrei come i neonazisti”


GERUSALEMME . Il celebre scrittore israeliano Amos Oz (sotto) ha definito «neonazisti» gli estremisti religiosi israeliani che nelle ultime settimane hanno moltiplicato i vandalismi e le profanazioni di luoghi sacri cristiani e islamici. Esistono dei «dolci nomi per un mostro che deve essere chiamato per quello che è: gruppi neonazisti ebrei», ha detto Oz agli invitati di un evento per i suoi 75 anni, citato dal quotidiano Haaretz.
«I nostri gruppi neonazisti», ha precisato, «godono dell’appoggio di certi nazionalisti, di deputati razzisti e di rabbini che, dal mio punto di vista, forniscono loro una giustificazione pseudo-religiosa ». Nuove scritte contro cristiani e arabi sono state trovate venerdì a Gerusalemme e la polizia ha aumentato la sorveglianza ai siti religiosi in vista della visita del Papa in Terra Santa a fine mese.

La Stampa 11.5.14
Anche la Cairo dei miserabili volta le spalle ai Fratelli musulmani
A un anno dalla caduta di Morsi la roccaforte islamista di Giza cambia padrone
“Se gli islamisti fanno attentati li andremo a scovare casa per casa, li conosciamo tutti”
di Domenico Quirico


Ma che fine hanno fatto quelli che si trovavano qui? Torno al Cairo dopo più di un anno: la piazza dei rivoluzionari è ampia linda lucente. E vuota. Spariti i manifesti dei martiri le foto di speculatori e generali felloni le bandiere la meravigliosa canaglia barbarica delle rivoluzioni, ladruncoli mischiati ai ribelli, provocatori, arruffa-popolo, matti, eroi: popolo pittoresco vivace tumultuoso esuberante fanatico sudicio affascinante.
Passava continuamente davanti agli occhi come una rapida e instabile luminosa veduta di cinematografo. Non rimane di quella rivoluzione forse che un inutile desiderio di bis. E i Fratelli Musulmani, i raduni per invocare il melmoso Mohamed Morsi, presidente deposto e ora ingobbito di mille reati; e le bandiere con le quattro dita in ricordo di piazza Rabaa e dei suoi 400 martiri?
Eppure la città non sembra cambiata, sdraiata accanto al nastro turchino del Nilo, le lunghe vie involute fra il marasma delle case, le piazze formicolanti di folla e di traffico, le cataste brune dei rioni incrostati l’uno sull’altro sulla terra come frutti di mare su uno scoglio.
Nella piazza, immobili, a coppie come buoi di metallo, vigilano ogni innesto di strada i blindati color sabbia del pio e ambizioso generale Sisi che il 26 maggio diventerà plebiscitario presidente. L’apoteosi dell’islamismo mondiale si è già spenta. Vertiginosa come l’ascesa la caduta dei Fratelli: in Egitto ma anche in Tunisia, in Marocco, in Algeria, in Yemen, in Giordania. Le vele di questi paranoici, autoritari, dissimulatori apostoli del califfato universale sono sgonfie, improvvisamente. Ancora una volta tutto è partito di qui, dall’Egitto: l’antico burattinaio, l’esercito, ha ripreso il suo posto, il potere. Come se nulla in questi tre anni, esaltanti e esaltati, fosse accaduto. Le folle che ho visto qui un anno fa scandire «l’Islam è la soluzione» ora si preparano a invocare il Maresciallo, versione ringiovanita e ritoccata dell’eterno Faraone.
Un ragazzo del 30 giugno mi ha dato appuntamento a Tahrir: il volto serio, circondato da una sottile barba nera, una certa grazia altera che guida e rende rarefatto il gestire. La sua forza non si è consumata. Accarezza con lo sguardo le aiuole verdi e le panchine nuove dove un anno fa c’erano le tende e i bivacchi. E i blindati. «Non rinneghiamo niente: la rivoluzione, il voto per Morsi e poi quello per la costituzione dei militari. Voterò Sisi. Ci resta la speranza e la capacità di parlare, siamo diventati migliori. La gente è stanca, certo, ma ha capito qualcosa, che si può partecipare indirizzare la storia, cambiare. Abbiamo pagato un prezzo alto? Sì ma era forse il solo modo per capire…». Si era aperto il nuovo mondo, la verità palpitante era là, per questo sono felici e infelici. Si vede che volevano uccidere il Passato. Quando si è vecchi lo si lascia morire, quando si è giovani e forti lo si uccide. Quando si può.
«Oh! come sono grandi le cose che incominciano. Non c’è mai piccolezza nel principio...». E va via, in un istante, in fretta come era venuto.
Sono tornato al Cairo a cercare un deputato dei Fratelli, Khaled Hanaf, un leader, uno dei fondatori di «Libertà e Giustizia» la sigla con cui hanno vinto le elezioni. Lo avevo intervistato due anni fa. Il suo telefono è disconnesso, a vuoto suonano quelli dei collaboratori, segretari, amici, del suo studio di medico a Nasser City. Cerco di risalire il filo del mistero a Elsayeda Zeinab, uno dei quartieri più popolari del Cairo, dove ricordo che è nato, vicino alla moschea Ibn Tolon la più antica della città ancora con la scala esterna che si aggrappa al tortiglione di pietra del minareto. Nel percorso mi sono perduto a Giza, in una immensa periferia di poveri, dove tutto, tuguri case palazzi di dieci piani, è abusivo. Una volta c’erano i campi il grano e il cotone. Dietro i palazzi miserabili e sudici la fuga prospettica delle piramidi che nel deserto assumono l’aspetto di tende. E poi i piani vanno incontro al cielo, e tutto finisce. Per un’ora non riesco a divincolarmi dalle viuzze, buie come la notte perché i palazzi sono così vicini che quasi si toccano, là in alto biancheggia appena una striscia di cielo, dalla folla che si sbriciola sulla polvere delle piste che tengono il posto delle strade, dai cumuli di immondizia che si mescolano a banchetti e botteghe dove la gente i cani i bambini fruga alla ricerca ancora dell’utile, e le mosche che si avventano con furore. Eccola questa montagna di uomini, ammassati per terra come pietre della via, rovinati dalla miseria. Avviliti dalla mendicità, presi tutti in un solo ingranaggio, nello spaventoso ricominciare di ogni giorno. Inutile chiedere indicazioni, le strade non hanno nomi ufficiali, le battezzano con il nome di chi per primo vi ha costruito la casa. Fino al 2005 non vi era luce e acqua, le ha regalate Mubarak, dono delle sue ultime elezioni truffaldine e vittoriose. Giro in tondo, all’infinito, mi sento soffocare. La folla, improvvisamente accelera, si spalanca. Un uomo la fende, correndo, a piedi nudi, negli occhi una selvaggia paura. Una muta di inseguitori lo bracca, lo afferra, lo getta a terra. Cominciano a colpirlo con calci pugni. Chiedo che succede. Mi rispondono senza voltarsi, continuando, selvaggiamente a spiare il linciaggio, con occhi come grinfie, ridendo: «un ladro... forse». La folla quietamente si richiude sulle urla dell’uomo, lo inghiotte con il frastuono del traffico, i cavalli i carretti, gli asinelli, gli appelli dei venditori.
È un amico che, alla fine, arriva a estrarmi dal labirinto, mi guida verso il minareto di Ibn Tolon.
Anche Gamal è nato qui: «Una volta era un bel quartiere, piccola borghesia, funzionari, anche di alto livello. Ma se abitavano qui, nella vecchia Cairo, voleva dire che non rubavano, che non si lasciavano corrompere: «Mio padre era uno di loro, immerso tutto il giorno nelle cifre, ne emergeva a sera come un naufrago, stordito...». Ora le case sono muri screpolati, inclinati e polverosi, scacchieri brumosi su cui posano rettangoli di chiarore, scogliere che assorbono il formicolio delle persone che si seppelliscono nelle porte, si affondano nei vicoli, poi vagamente si cambiano in luce. Splendidi mausolei di santi antichi giacciono abbandonati, guasti come denti cariati.
Le botteghe hanno appena aperto, i negozianti arenati sulla spiaggia di una stuoia come grossi cetacei, attendono. Solo davanti al carretto che vende le fave calde annegate nell’olio di sesamo, già si affollano i compratori con le gamelle. «È quello di El Gash, lo conoscono in tutta la città, perfino i cantanti famosi mandano a prendere le sue fave succulente...».
C’è coda anche davanti al forno. I bambini si stringono le pagnottelle al cuore, come una bambola. È uno dei pochi che vende il pane a 5 piastre, il prezzo calmierato. L’altro, il pane dei «francesi» degli stranieri come lo chiamano, dei ricchi, è fuori portata per la povera gente. Ecco: il vicolo dove è nato Hanaf. I vicoli del Cairo: prolungamento del corpo e dell’anima di chi ci vive. Una delle caratteristiche del vicolo è che non conosce mormorii e sussurri, le voci sono sempre molto forti, a volte rudi a volte piene di saggezza. Non è un semplice spazio limitato sepolto da una massa di dettagli, ma è tutto un mondo di significati e motivazioni. Chi vi entra, anche un estraneo come me, vi è inghiottito, si liquefa.
L’anima di un popolo deve prendere dimora in un luogo, raccogliervisi, armonizzarsi alla sua natura. La vita al Cairo ha individuato nel vicolo il luogo per sé, nello spazio e nel tempo, si è radicata in una sede che è sua all’interno dell’indifferente e dissolvente natura che vorrebbe continuamente confondere tutto.
Andiamo a chiedere notizie al caffè che ingombra mezza via con i suoi sofà e i suoi sgabelli. Ronza, tintinna e si affumica già, offre un sudicio ma comodo rifugio a una gruppo di uomini che sembrano statue. Immobili, assisi nobilmente tra i loro stracci smaglianti, dignitosi, sorvegliano il tumulto che cresce nella via.
«Hanaf? È in prigione, con gli altri trentamila. Forse condanneranno anche lui a morte... Chissà! Credevamo di conoscerlo bene, uno cresciuto qui, tra noi. Mentivano bene, la religione qua la religione là. Chi parla di dio pensavamo è una persona buona onesta. Li abbiamo votati in questo quartiere, in massa, pareva che stessimo aspettando la discesa dal cielo di angeli di gioia e misericordia. E invece volevano solo il potere. Sai che quando Morsi è diventato presidente i proprietari dei night e dei locali sulla Via delle piramidi si son messi le mani nei capelli… siamo rovinati, quello ci cancellerà tutte le licenze per vender alcol. Invece le hanno prorogate non per un anno come prima ma per tre! Ipocriti, solo ipocriti».
Un altro, Omm, incalza: «Io sono stato a lungo con loro. Mi ha salvato mio padre, mi ha insegnato che le decisioni dovevo assumerle io, non gli altri prenderle per me. Nei Fratelli a poco a poco si diventa un automa, ripeti le formule che ti ficcano in testa, non hai più volontà. Esigono di controllare tutta la tua vita, persino sapere chi è la ragazza che vuoi portare a letto. Anche io mi ero iscritto tra i volontari per l’Afghanistan. Quando mi sono tirato indietro, per loro è come se non fossi esistito più, come fossi morto».
Nella conversazione i temi si incontrano si attirano e si fondono come scorrevoli gocce di inchiostro. Nuovi interlocutori ai aggiungono, altri si alzano per le loro faccende.
Khaled, il meccanico, sorveglia da lontano i due bimbi sporchi di grasso che gli fanno da aiutanti, e narra il suo guaio: «Il mio affitto è bloccato a meno di un euro al mese, sia grazie a dio misericordioso e a Nasser che emanò questa legge santa! Tutto quello di buono che c’è in Egitto è merito suo, la riforma agraria le industrie la diga… Adesso il proprietario vuole buttarmi fuori, mi tenta con 300 mila piastre. È furbo, sapete come fanno… demoliscono la casa, si fanno dare i soldi dalla banca, di appartamenti ne costruiscono trenta e guadagnano milioni. Ma io non mollo. L’esercito? Ma la gente vuole tranquillità, guadagnare qualcosa, vivere decentemente. Votiamo per chi ce la garantisce. Sarà Sisi? Benissimo viva Sisi allora! Da quando son tornati i militari non ci sono più interruzioni di acqua e luce come ai tempi di quel pasticcione incapace di Morsi».
Arriva il colonnello, un ufficiale in borghese, tutti gli fanno posto rispettosi, cala un ossequioso silenzio mentre racconta di aver accompagnato la figlia a ripetizione: «La scuola fa schifo, perfino alle elementari bisogna portare i bambini a lezioni private perché imparino davvero a leggere e scrivere. E i maestri e i professori arrotondano lo stipendio che non consentirebbe loro di sopravvivere. Tutto l’Egitto sopravvive così, arrangiandosi. E voi stranieri dite che noi militari abbiamo fatto un colpo di stato, e storcete il naso... meno male, con quei dannati, rischiavamo di diventare un altro Paese, ci cambiavano ogni giorno con piccole dosi di veleno».
Come per caso da una delle case parte una canzone di gran moda, «Ringraziamo le mani», un ballabile allegro che esalta l’esercito che ha liberato l’Egitto. Il colonnello ridacchia soddisfatto. «Bella eh? Ti vien voglia di ballare. I Fratelli odiano questa canzone, raccontano che uno di loro quando ha saputo che i parenti della sposa l’aveva scelta per la festa ha rinunciato a sposarsi...».
Tutti fanno cenni di assenso. Passa un giovane, la barba da islamista, la galabia corta come impongono i salafiti, saluta, lo salutano. «È un bravo ragazzo, non un terrorista. I Fratelli ammazzano i poliziotti, quasi ogni giorno un attentato, laggiù - Othman l’impiegato fa un cenno vago verso i quartieri della periferia -. Ma è un segno di impotenza. Non oseranno utilizzare le autobomba, passare al terrore cieco, sanno che se dichiareranno guerra al popolo li andremo a prendere casa per casa, nei quartieri. Li conosciamo uno per uno».
È l’ora della preghiera: tutti si alzano, si mettono in movimento: «La religione è il nostro sangue, ma quella praticata viva, non quella ostentata, fatta di segni esteriori, e finta...». Una religione per gli infelici perché essi non soccombano. Mi avvio. Non ho più nulla da cercare. Le moschee sono l’una accanto all’altra, le voci dei predicatori si sovrappongono, si intrecciano, formano una straordinaria rombante cacofonia che riempie e fa vibrare la città intera. La presenza di Dio sovrasta come il cielo i conflitti angoscianti degli uomini e l’immensità che affanna delle tragedie che qui si vivono. La presenza! Nulla ho mai sentito di più forte di questo grido al Cairo dell’uomo verso la divinità, nulla che possa dare un’idea così perfetta del silenzio.

Corriere La Lettura 11.5.14
L’altra guerra dei trent’anni
Il primo conflitto mondiale segnò la caduta di quattro imperi, rinnovò la tecnologia, moltiplicò i fronti. E finì nel ’45, non nel ’18
di Sergio Romano


Per molti anni, dopo la fine della Grande guerra, il tema centrale dell’immensa letteratura storica apparsa sul conflitto fu quello delle responsabilità. In una prima fase quasi tutti gli storici furono patriottici e giustificarono il proprio Paese, cercando altrove il capro espiatorio. Qualcuno dette la colpa all’impero asburgico, ossessionato dall’incubo del proprio declino. Altri dettero la colpa a Guglielmo II, imperatore di Germania; altri al revanscismo francese; altri ancora all’opacità e alle titubanze della diplomazia britannica. In una seconda fase gli storici divennero revisionisti e non esitarono a sottolineare le responsabilità del proprio Paese, come lo storico tedesco Fritz Fischer in un libro intitolato Assalto al potere mondiale, pubblicato da Einaudi nel 1965, sulle ambizioni egemoniche del Secondo Reich. Più recentemente la tesi prevalente mi è parsa essere quella di un diffuso sonno della ragione che, come nei Sonnambuli di Christopher Clark, pubblicato recentemente da Laterza, avrebbe reso tutti i Paesi corresponsabili di un’«inutile strage» .

Per quasi un secolo, quindi, la storia della Grande guerra è una «storia della colpa». Molti studiosi, con maggiore o minore distacco, hanno continuato a descrivere le diverse politiche nazionali prima del conflitto; e il libro di Luigi Albertini sulle Origini della guerra del 1914 , nuovamente pubblicato dalla Libreria Editrice Goriziana nel 2010, resta una delle opere migliori. Ma al centro di ogni studio vi era il problema della responsabilità. La Schuldfrage , come fu chiamata in Germania, fu la guerra fredda fra opposte verità che venne combattuta in Europa nel lungo intervallo fra due conflitti mondiali.
Il tema della colpa era collegato alla durata del conflitto e alle sue disastrose conseguenze politiche. Una guerra più breve, nello stile di quelle che erano state combattute dagli Stati europei dopo la guerra dei Trent’anni (1618-1648), non avrebbe provocato il crollo di quattro imperi — austro-ungarico, tedesco, russo e ottomano —, una dozzina di rivoluzioni e la catastrofe demografica che colpì la generazione dei combattenti. Vi sarebbero stati mutamenti territoriali e altre guerre, ma dopo più o meno lunghi intervalli di pace. È il problema della durata quindi che occorre oggi approfondire. Perché la guerra del 1914 fu così diversa da quelle che l’avevano preceduta?
La prima ragione concerne gli effetti dei conflitti sulla stabilità degli Stati. Nel 1859 e nel 1866 l’Austria-Ungheria aveva perduto due guerre: la prima contro la Francia e il regno di Sardegna nel 1859, la seconda contro la Prussia e i suoi alleati tedeschi nel 1866. Ma la sconfitta non aveva impedito a Francesco Giuseppe di conservare il trono. La guerra franco-prussiana del 1870, invece, aveva provocato l’abdicazione di Napoleone III, la Comune e l’avvento della Terza Repubblica. Luigi Napoleone era un sovrano plebiscitario, creato dal colpo di Stato del 2 dicembre 1851 e dal voto popolare del 21 dicembre. La corona gli era stata data dai francesi e dagli stessi francesi poteva essergli tolta. Ma neppure le grandi dinastie potevano dormire sonni tranquilli. La Comune aveva rivelato l’esistenza in Europa di una sinistra rivoluzionaria, pronta ad approfittare della sconfitta per tentare la conquista del potere. Nel 1914 tutti i sovrani europei sapevano quindi che i loro troni potevano essere perduti. Fra i motivi della guerra vi era stata anche la speranza che il conflitto avrebbe compattato le loro società nazionali contro il pericolo anarchico e socialista. Ma una guerra perduta, o conclusa mediocremente con un compromesso insoddisfacente, li avrebbe esposti al rischio di una rivoluzione .

La seconda ragione della guerra lunga fu la pluralità dei conflitti. Non vi fu un solo conflitto tra coalizioni che avevano obiettivi comuni. Vi furono almeno cinque guerre: quella franco-tedesca per la supremazia nel continente europeo, quella anglo-tedesca per il governo degli oceani, quella austro-russa per la supremazia nei Balcani, quella italo-austriaca per la supremazia nell’Adriatico e quella russo-turca per il controllo degli Stretti; per non parlare di quella che fu contemporaneamente combattuta dal Giappone per la creazione di un impero nipponico dell’Asia orientale. Nelle guerre tradizionali le regole del gioco volevano che si combattesse finché i danni subiti erano tollerabili e la speranza di un vantaggio compensava il timore di nuove perdite. Non appena la speranza della vittoria impallidiva, lo Stato che avrebbe corso rischi maggiori usciva dal gioco e cominciava a negoziare la pace. Avrebbe perso qualche provincia, ma il suo sovrano avrebbe conservato il trono. Durante la Grande guerra la manovra fu tentata dalla Romania e sarebbe stata forse tentata dall’Italia dopo Caporetto, ma la posta, con il passare del tempo, era diventata sempre più alta e la prospettiva di una pace separata sempre più difficilmente praticabile. Anziché essere combattuta soltanto sui campi di battaglia da militari di mestiere, la guerra era diventata «totale».
I fattori che contribuirono a renderla tale furono sociali ed economici. I mutamenti democratici del secolo precedente avevano creato società di massa in cui tutti, grazie alla coscrizione obbligatoria, potevano essere chiamati alle armi. I combattenti furono circa 65 milioni, i morti 9, i feriti 21. Gli effettivi dell’esercito russo, in particolare, ammontarono complessivamente a 12 milioni di uomini. Il costo diretto del conflitto superò i 180 miliardi di dollari, quello indiretto oltrepassò i 165 miliardi.
La rivoluzione industriale moltiplicò la potenza degli eserciti combattenti. La fanteria e la cavalleria francese andarono al fronte nella tarda estate del 1914 in giacca blu, calzoni rossi e senza elmetto. Il primo Natale di guerra fu festeggiato con una tregua e scambi di doni da una trincea all’altra . Ma nei mesi successivi tutto cambiò: le uniformi, i copricapi (i soldati ebbero in dotazione l’elmetto) e, soprattutto, le armi.

Le industrie di ogni nazione adattarono al campo di battaglia gli straordinari progressi compiuti dalla tecnologia nel secolo precedente. Furono costruiti cannoni sempre più grossi e potenti. Fu accelerato lo sviluppo dell’industria automobilistica. Furono progettati aeroplani che potevano combattere nei cieli e scaricare le loro bombe sul territorio nemico. La competizione tra la corazza e il cannone creò navi sempre più corazzate e, naturalmente, i carri armati. I sottomarini rivoluzionarono la guerra marittima, i camion rivoluzionarono la logistica della guerra e la telefonia cambiò radicalmente il sistema delle comunicazioni. L’industria chimica si mise al lavoro per creare un’arma nuova: i gas asfissianti. La celebrazione in comune di una festa religiosa divenne impossibile.
Quanto più cresceva il numero dei morti e dei feriti tanto più si allontanava paradossalmente la prospettiva di una pace negoziata. Vi furono tentativi di mettere fine al conflitto fra cui la lettera ai capi dei popoli belligeranti inviata dal Pontefice romano Benedetto XV il 1° agosto 1917, in cui la guerra fu definita una «inutile strage». Ma l’invito, nel quale vi erano generiche proposte per la soluzione di alcuni conflitti, fu considerato una molesta ingerenza della Chiesa negli affari degli Stati e non venne preso in alcuna considerazione. I 14 punti del presidente americano Woodrow Wilson, annunciati al mondo l’8 gennaio dell’anno seguente, erano molto più articolati della lettera papale, ma presupponevano la vittoria degli Alleati e non potevano essere graditi agli Imperi centrali. Fu quello il momento in cui cominciarono ad apparire nel linguaggio politico militare espressioni che avrebbero dominato il secolo: guerra a oltranza, resa senza condizioni, vittoria totale .

È particolarmente paradossale, in questo clima di duello all’ultimo sangue, che la Germania abbia firmato l’armistizio di Compiègne quando era pur sempre vincitrice all’Est, occupava ancora territori delle potenze alleate sul fronte occidentale e nessun soldato straniero aveva attraversato la sua frontiera. Non perdette la guerra sul campo di battaglia, combattendo contro gli eserciti alleati. La perdette a Kiel, dove la sua flotta si era ammutinata, ad Amburgo, Brema e Lubecca, dove la protesta aveva contagiato altri corpi militari, a Monaco, dove il re di Baviera fu costretto ad abdicare, e infine a Berlino, dove il leader socialista Philipp Scheidemann annunciò l’abdicazione di Guglielmo II e proclamò la Repubblica tedesca. Perdette la guerra sul fronte interno perché il Paese era affamato dal blocco continentale. Ma la teoria della colpa, elaborata dai vincitori per meglio giustificare una guerra che aveva richiesto enormi sacrifici, produsse una pace troppo duramente punitiva.
Il diktat della Galleria degli specchi nel palazzo di Versailles, dove si firmò il trattato di pace, non serviva soltanto a stroncare le ambizioni egemoniche della Germania guglielmina. Serviva anche a impedire che i francesi, i britannici e gli italiani trattassero i loro governi nelle stesso modo in cui i tedeschi avevano trattato il loro imperatore. Ma una guerra perduta senza una reale sconfitta militare e le insensate clausole economiche del trattato di pace crearono nei tedeschi il sentimento di una ingiustizia che altri uomini politici, negli anni seguenti, avrebbero usato per riaprire la partita. La guerra non terminò nel novembre del 1918. In quella data, che viene ancora immeritatamente commemorata, calò il sipario sul primo atto di una tragedia che si sarebbe conclusa soltanto nel maggio del 1945 .

Corriere La Lettura 11.5.14
La prova generale dell’orrore genocida
Deportazioni, stragi, stupri: le atrocità sui civili preannunciano un cupo futuro
E rimangono tutte impunite
di Marcello Flores


La memoria più vicina e più forte della Seconda guerra mondiale, in cui la metà delle vittime sono state civili, ha fatto spesso dimenticare che i crimini di guerra e contro l’umanità hanno fatto la loro comparsa nel primo conflitto mondiale. Le convenzioni dell’Aia del 1899 e 1907 avevano stabilito quali fossero, nel corso di una guerra, i comportamenti ritenuti lesivi della dignità, dell’onore, di un sentimento di umanità che dovevano sopravvivere anche in epoca bellica. Ma già nel corso del 1915 e del 1916 erano apparsi diversi «rapporti» sulle atrocità commesse dall’esercito tedesco in Belgio e Francia, su quelle delle truppe austriache in Serbia, su quelle dell’esercito turco ai danni delle minoranze dell’Impero ottomano. Ma sarà soprattutto nel corso della conferenza di pace di Parigi che, nel marzo 1919, una commissione «sulle responsabilità degli autori della guerra e sull’applicazione delle punizioni» presenterà un ampio e dettagliato rapporto che elencava 32 crimini di guerra e allegava 30 pagine di esempi che enumeravano i luoghi e i tempi in cui essi erano stati commessi.

Un’anticipazione drammatica di quanto sarebbe accaduto si era già avuta durante le due guerre balcaniche che, nel 1912-13, costituirono la premessa al conflitto mondiale. Anche in questo caso, nel 1914, era stato pubblicato un rapporto, voluto dalla Carnegie Foundation e stilato da giuristi di sei Paesi, in cui erano elencati gli orrori commessi da tutte le parti coinvolte (nella prima guerra la Lega balcanica contro l’Impero ottomano; nella seconda il conflitto era scoppiato tra i membri della Lega, la Bulgaria contro i suoi ex alleati Serbia, Grecia e Montenegro).
Un ampio affresco in due tomi dello storico inglese Mark Levene sugli orrori dei genocidi novecenteschi, The Crisis of Genocide , dedica la prima parte proprio ai crimini commessi tra il 1912 e il 1918, mostrando come nell’area prevalente dei massacri (i Balcani, il Caucaso, l’Anatolia) in realtà le violenze continuarono fino almeno al trattato di Losanna del 1922, proseguendo sulla linea di quelle commesse negli anni precedenti. Levene inquadra l’intero sviluppo mondiale moderno dell’Ottocento e Novecento come un contesto che favorisce il genocidio e vede le crisi delle semiperiferie — dove più gravi sono le violenze — come conseguenza del generale conflitto tra le grandi potenze in quelle zone che devono reggere l’impatto del collasso degli imperi tradizionali.
Cercando di superare il contrasto tra coloro che vedono l’orizzonte della guerra come il contesto più propizio per le peggiori violenze o, al contrario, come il risultato di dinamiche che localmente hanno già il segno della barbarie, Levene cerca di comprendere la violenza intrecciando le «circostanze» da cui nasce il conflitto con la «esperienza» in cui esso si concretizza. Per i serbi, ad esempio, gli islamici macedoni potevano essere assimilati, mentre i musulmani albanesi dovevano essere deportati o sterminati, in quanto gruppo che sembrava costituire una minaccia particolarmente pericolosa.
È proprio la percezione della minaccia rappresentata da un gruppo avverso (nazionale, etnico, religioso) a costituire in genere la molla delle atrocità, oltre alla spirale di vendetta e controvendetta. Se nel corso della prima guerra balcanica migliaia di musulmani ottomani vengono uccisi dalle truppe serbe e bulgare nel corso della deportazione di oltre 200 mila di loro, nella seconda saranno i greci a distruggere 160 villaggi e a giustificare nell’estate del 1913 le loro atrocità, sostenendo che i bulgari non erano uomini e che con i barbari occorre comportarsi da barbari. I massacri dei serbi nei confronti degli albanesi — per ridurre il loro peso demografico in Kosovo — toccano l’apice nel settembre 1914, quando la repressione di un tentativo di rivolta conduce all’annientamento del distretto di Luma e alla fuga dei 25 mila sopravvissuti.
È quindi senza soluzione di continuità che si succedono gli eccidi, le deportazioni, le violenze che accompagnano le prime terribili battaglie del conflitto mondiale (Charleroi, Marna, Tannenberg, Laghi Masuri, Langemarck, Cer). La novità, in questo caso, è data dal luogo in cui avvengono le atrocità e da chi le commette. Nell’agosto-settembre del 1914, infatti, sono i soldati tedeschi a creare il terrore tra le popolazioni del Belgio e della Francia del nord. Con la scusa del timore di spie e della presenza di francs-tireurs (civili armati), come nella guerra franco-prussiana di quarant’anni prima, il generale von Bülow autorizza il 9 agosto la presa e uccisione di ostaggi e l’incendio dei villaggi dove i tedeschi hanno trovato resistenza. A Dinant quasi 700 persone (donne e bambini compresi) vengono allineate e uccise il 23 agosto, mentre due giorni dopo l’incendio di Lovanio distruggerà la preziosa biblioteca medievale, uccidendo circa 250 persone.
Certo, in termini numerici, le 6.500 vittime civili del Belgio sono poca cosa di fronte a oltre un milione di morti che conterà, di lì a un anno, il genocidio degli armeni da parte ottomana, o ai massacri degli assiri e alla deportazione dei greci; o alle altre deportazioni di cui sono vittime in Russia oltre 300 mila tedeschi del Volga inviati in Siberia, o 100 mila ebrei rimossi dalle aree vicino al fronte e mandati in Polonia, mentre i cosacchi nel settembre 1914 entrano nella capitale della Galizia, Leopoli, uccidendo coloro che sono rimasti e distruggendo la città.
La deportazione è l’arma privilegiata, perché permette di uccidere o di far morire indirettamente una gran quantità di nemici presunti, impossessandosi di beni e villaggi e lasciando spesso alla popolazione locale il compito di intervenire contro le minoranze (ma queste minoranze, in Russia, sono oltre sette milioni di persone che saranno rimosse dalle loro case nel corso della guerra e saranno vittime della violenza militare dell’esercito zarista e a volte anche di quello nemico).

Lo stupro di massa nei confronti delle donne — e spesso delle bambine — dei villaggi occupati fu una costante che anticipò e accompagnò le distruzioni e le deportazioni. Ciò avvenne in particolare, e con decine di migliaia di casi, nel corso della deportazione degli armeni, dell’espulsione degli ebrei dalle regioni occidentali della Russia, dell’invasione della Galizia, dell’occupazione austro-ungarica e bulgara della Serbia. Autorizzati e incoraggiati dalle gerarchie militari, gli stupri di massa si rivelarono strumenti del genocidio e della snazionalizzazione. Quelli commessi sul fronte orientale e balcanico — di gran lunga la maggioranza — passarono però quasi inosservati, mentre fu alle centinaia compiuti da parte tedesca in Belgio e Francia che si diede particolare attenzione, anche se prevalentemente da parte di organizzazioni femminili.
La commissione che nel marzo 1919 consegna il suo rapporto sulle violazioni delle «leggi di guerra» e sui crimini «contro l’umanità e la civiltà» (come le grandi potenze avevano dichiarato nel maggio 1915, avvertendo la Turchia che tutto il suo governo sarebbe stato ritenuto colpevole dei massacri degli armeni da poco iniziati) indica come responsabilità principali delle armate tedesche, austriache e ottomane, i massacri e il terrorismo sistematico, la messa a morte degli ostaggi, la tortura di civili, la deliberata riduzione alla fame, lo stupro, il sequestro di ragazze e donne per la prostituzione forzata, la deportazione, le condizioni inumane dell’internamento, il lavoro forzato dei civili nel corso di operazioni militari.
Di alcuni di questi delitti si erano resi responsabili anche le potenze vincitrici. Ma il disaccordo politico (e soprattutto l’opposizione americana alla definizione stessa di crimini contro l’umanità e all’instaurazione di un tribunale internazionale) impedì che perfino per le nazioni sconfitte scattasse la risposta di una giustizia internazionale che pure sembrava avere individuato ciò che era accaduto.

Corriere La Lettura 11.5.14
Diclorodietilsolfuro (iprite)
Il gas letale soffoca le trincee
di Luigi Offeddu


Uno chiffon de papier , un brandello di carta. Alla sera del 4 agosto 1914, andava considerata così la promessa di neutralità garantita al Belgio dalle cinque potenze europee, fra cui la Germania. Lo disse chiaro e tondo il cancelliere tedesco Theobald von Bethmann-Hollweg, nella lingua dei diplomatici, all’ambasciatore britannico a Berlino, sconvolto da quelle parole. Perché la promessa fatta a Bruxelles era un patto solenne che risaliva al 1830, anno di nascita del Belgio indipendente. Era la parola d’onore di un continente intero. Ma fu stracciata lo stesso. Una manciata di ore dopo, il piccolo Belgio fu invaso dalla grande Germania, che da anni con il suo «piano Schlieffen» puntava alle Fiandre e al mare per poi accerchiare la Francia e subito dopo affrontare la Russia zarista. Poi si mossero gli eserciti degli altri giganti, da Parigi a San Pietroburgo e a Londra.
Era l’inizio della Grande guerra, un secolo fa, lo scontro atteso fra il mondo germanico, quello anglosassone, quello franco, quello slavo, quello italico-mediterraneo. E fra grandi strateghi, o eroi nascosti: come si vide quando, travolti dall’impeto degli invasori, i belgi risposero a colpi di alta marea, aprendo le chiuse di Nieuwpoort sulla costa e allagando le campagne dell’Yser, che per i tedeschi si trasformarono in paludi invalicabili: un episodio quasi sconosciuto, raccontato da Ian F.W. Beckett nel suo libro La prima guerra mondiale. Dodici punti di svolta (Einaudi).
La Grande guerra fu anche uno scontro di dominatori idealisti, secondo (pochissimi) storici, o di colossi industriali in fase di sovrapproduzione, secondo altri. Ma lo chiffon de papier stracciato dalle mani del Belgio non sarebbe rimasto il solo, nella storia d’Europa. Venticinque anni dopo, si rivelarono un «brandello di carta» anche le promesse fornite da un altro cancelliere tedesco, Adolf Hitler, a un altro Paese fragile, la Polonia. Il 1° settembre 1939, una sbarra di confine in un bosco fu sollevata da un manipolo di soldati tedeschi, che una foto catturò per sempre nel loro gesto: il sigillo della pace stuprata, dell’Europa dimentica di se stessa; e di qualcos’altro ancora, un Male mai prima concepito, la strage del popolo ebraico. La Polonia come il Belgio, micce di un incendio che divorò poi tutto: poche ore dopo il levarsi della sbarra, ricominciò l’Apocalisse.
E in Belgio, come in Polonia, tutto questo non è mai stato dimenticato. La sensazione del colpo alle spalle non è mai sbiadita nella memoria nazionale, seppure divisa nelle due comunità di lingua e storia diversa, i fiamminghi e i valloni francofoni. Anzi, ha continuato ad acuire vecchie ferite: perché se per l’ultima guerra mondiale è storicamente accertata l’esistenza di un forte collaborazionismo vallone (Léon Degrelle) o fiammingo (Staf De Clercq) al fianco dei nazisti, anche sulle origini del primo conflitto sono sempre circolate voci su frange fiamminghe che avrebbero agevolato l’invasione tedesca, per la tradizionale avversione ai valloni francofoni e alla loro madre, la Francia.
Altre memorie sono sempre lì, da un secolo: il diclorodietilsolfuro, il gas usato per la prima volta — pare — dai tedeschi nel 1915 ha un nome ben più noto, iprite, poiché deriva dalla città belga di Ypres, le cui trincee furono trasformate in atroci luoghi di esperimenti chimici. All’inizio di tutto, fra Belgio e Germania, l’orgoglio del primo e la determinazione bellica della seconda formarono in 48 ore una miscela devastante. E basata, ancora una volta, su due chiffon de papier . Primo documento: «Ore 19 del 2 agosto 1914, Legazione imperiale tedesca a Bruxelles. Estremamente riservato… Le misure prese dai nemici della Germania (i francesi, ndr ) l’obbligano a violare il territorio belga…». Poi: se il Belgio non sarà ostile, verrà indennizzato. Se no, sarà considerato un nemico di Berlino.
C’era anche qualcosa di non detto: il piccolo Belgio aveva ricche colonie in Africa, come il forziere del Congo, e la Germania — «padrona» del Tanganika o della Namibia — ambiva a divenirne l’erede. L’ultimatum di Berlino celava pure questo, fra le righe. Ma i belgi non potevano accettare. E così, ecco la risposta del 3 agosto: «Se il Belgio accettasse, sacrificherebbe l’onore della nazione e nello stesso tempo tradirebbe i suoi doveri verso l’Europa…».
Bruxelles non poteva sostenere a lungo l’assalto di un esercito così potente. In poche settimane, i tedeschi piallarono villaggi e battaglioni nella loro corsa verso nord. Poi però ci fu la parentesi eroico-geniale di Nieuwpoort, sul Mare del Nord. Come raccontato nel libro di Beckett, un ingegnere e un vecchio battelliere, cui sono dedicati due monumenti sul posto, furono i probabili ideatori dell’operazione. Il generale francese Ferdinand Foch e i capi dell’esercito belga si contesero poi il merito di aver autorizzato l’inondazione. E Gerald Dingens, il guardiano della chiusa di Nieuwpoort, coordinò tutto. Raccontarono più tardi i diari di guerra tedeschi: «La mattina del 30 (ottobre 1914, ndr ) le truppe in avanzata si trovarono immerse nell’acqua fino alle caviglie, poi il livello era salito gradualmente e ora si trovava all’altezza delle ginocchia, e a malapena riuscivamo a trascinare i piedi fuori dal terreno argilloso…». L’«auto-inondazione» fermò, almeno in quella zona, le truppe del Reich. Il Davide belga aveva trasformato in un bagno di fango la marcia trionfale del Golia Kaiser.

Corriere La Lettura 11.5.14
Mussolini e Nenni, ribelli interventisti
Nel giugno 1914 i due giovani romagnoli furono all’avanguardia nei moti sovversivi della Settimana rossa
Ma subito dopo entrambi si schierarono per l’ingresso in guerra
di Claudio Venza


«La monarchia è condannata. Cadrà oggi o cadrà domani, ma cadrà sicuramente e presto». Così scrive il leader anarchico Errico Malatesta indicando l’obiettivo della rivolta iniziata l’8 giugno 1914 e passata alla storia come «Settimana rossa». In effetti la notizia della caduta dei Savoia circola tra gli insorti e ne anima la lotta. L’enorme, e pare irrefrenabile, movimento parte da un fatto di sangue: l’uccisione di tre manifestanti, due repubblicani e un anarchico, colpiti dagli spari dei carabinieri ad Ancona dopo il comizio antimilitarista del 7 giugno. L’agitazione vuole ottenere lo scioglimento delle compagnie di disciplina, reparti punitivi per soldati sovversivi, e l’inizio del processo ad Augusto Masetti, l’anarchico che nel 1911 aveva sparato a un ufficiale che incitava a partecipare alla guerra di Libia.

La dimensione e la radicalità dell’insurrezione sorprendono gli stessi rivoluzionari. Come ricorda Luigi Lotti nel suo studio ormai classico, il sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris confessa: «Non credevamo ci fosse in Italia tanta materia infiammabile». Fra i protagonisti si fanno notare, oltre a Malatesta e a Luigi Fabbri, il dirigente repubblicano Pietro Nenni e il socialista estremista Benito Mussolini. Non a caso gli ultimi tre sono romagnoli o marchigiani. Una regione ampia, e dalle tradizioni ribelli, è l’epicentro della sollevazione. Si va da Ancona, la città più importante, alle intere Marche e si coinvolge in pieno la «Romagna rossa». La forza pubblica, polizia ed esercito, sembra restare paralizzata di fronte all’occupazione di municipi, all’assalto di chiese, all’invasione di edifici statali. In effetti molti reparti restano senza ordini, in quanto il telegrafo viene sabotato in più punti e le comunicazioni ferroviarie sono quasi totalmente sospese. In queste condizioni esplode una rabbia popolare che porta perfino alla ripresa di vecchie simbologie e pratiche. In diverse piazze di centri romagnoli, e non solo, si innalza l’«Albero della libertà», si assaltano i circoli dei notabili e si proclama la Repubblica a livello comunale.
In grandi città, da Roma a Milano, da Torino a Firenze, dilaga lo sciopero generale. La Cgl, il sindacato socialista diretto dai moderati, deve seguire la mobilitazione spontanea e avallare le sospensioni del lavoro che si stanno moltiplicando. Sarà poi la stessa confederazione sindacale maggioritaria a spegnere l’incendio insurrezionale, con l’accordo della maggioranza riformista del Psi: il 10 giugno dichiara la fine delle agitazioni e il ritorno in fabbrica o nei campi. Malgrado parte dei rivoltosi intenda continuare la lotta, che prosegue in diversi centri fino al 13, la rottura dell’unità fra le organizzazioni e le stesse indecisioni dei protagonisti portano al termine della massiccia agitazione, la più importante dall’Unità d’Italia. L’arrabbiato Mussolini accusa di «fellonia» i dirigenti sindacali.
Anche il movimento più sovversivo, quello anarchico, deve fare i conti con l’impossibilità di realizzare una vera rivoluzione che, come più volte proclamato da Malatesta, dovrebbe far sì «che nessuno manchi di pane, che nessun bambino manchi di latte, che gli ospedali siano forniti di tutto l’occorrente».
Dal punto di vista dello Stato, la Settimana Rossa mostra i limiti del controllo istituzionale sulla popolazione. Ciò risponde, secondo il capo del governo, Antonio Salandra, a una linea politica di «massima prudenza». Si tratterebbe di mantenere la difesa militare dei punti nevralgici e di aspettare l’inevitabile riflusso del movimento.

Il ripristino dell’ordine viene facilitato da un avvenimento che cambia la storia mondiale. Nel giro di alcune settimane, in seguito all’attentato di Sarajevo, scoppia la Prima guerra mondiale e tutto il continente è investito da un terremoto. Niente sarà più come prima del 1914. La guerra provoca in Italia un acerrimo scontro interno fra interventisti e neutralisti, spostando il piano del confronto dall’ambito sociale a quello politico e militare. L’evento traumatico ha effetti sui singoli esponenti delle agitazioni della Settimana rossa. A ciò si aggiunga l’avvio di una nuova fase repressiva e diversi esponenti di primo piano, tra cui Malatesta e Fabbri, scelgono la via dell’esilio.
In poco tempo si ridimensiona il contenuto antimilitarista che era stato la miccia della tentata insurrezione del 7-13 giugno. In realtà i repubblicani restano antisabaudi, ma tra loro emerge con prepotenza la componente patriottica. Inoltre si sviluppa in modo quasi irresistibile un altro elemento: il bisogno dell’azione e il rifiuto della passività di fronte a un fatto così enorme come la guerra mondiale. Il «patriottismo d’azione» si impone progressivamente quale viatico dell’impegno dei repubblicani. Lo stesso Nenni dichiara pubblicamente, dal carcere, di auspicare l’intervento italiano e la partecipazione volontaria dei militanti.
Altri attivisti di primo piano nella Settimana rossa scelgono invece la continuità con l’antiautoritarismo. Così Armando Borghi, nel convegno del sindacato rivoluzionario Usi del settembre 1914, rompe con una personalità di grande prestigio come Alceste De Ambris, segretario della potente Camera del lavoro di Parma. Questi si schiera per l’intervento ed è quindi espulso dal sindacato insieme a non pochi seguaci.
Da parte sua Benito Mussolini, direttore dell’«Avanti!» e quindi ai vertici del Psi, ha valorizzato la Settimana rossa come momento di rottura del sistema vigente. La sua ricerca ossessiva delle circostanze eccezionali che possano favorire lo scoppio insurrezionale trova poi soddisfazione nella deflagrazione bellica. Polemizzando con gli antibellicisti, vede nel conflitto in corso in Europa un rimescolamento di carte talmente profondo da creare, anche al di là delle intenzioni di governi e alleanze, nuovi spazi per la «guerra rivoluzionaria». Dopo alcuni mesi di conferme e riconferme della linea ufficiale socialista della «neutralità assoluta», in un articolo del 18 ottobre 1914 enuncia una «neutralità attiva e operante», formula personale e sintomo di un radicale cambiamento di prospettiva.
In ultima analisi, la Settimana rossa ha rappresentato per i suoi protagonisti una duplice esperienza valutata in modo in apparenza coincidente: è stata una lotta aperta e foriera di una trasformazione senza ritorno della società. Pro e contro la guerra sono le due posizioni opposte di chi riflette, da angolature politiche e ideali divergenti, sul medesimo cruciale momento storico. È appena terminato, ma appare già lontano e sfumato.

Corriere La Lettura 11.5.14
Distanze impossibili e disciplina atroce: leoni in battaglia agli ordini di asini
Molti milioni di caduti fra truppe guidate da generali spesso crudeli, incapaci e ignari della modernità
di Paolo Rastelli


L’esercito britannico nella Prima guerra mondiale? «Leoni guidati da asini», secondo lo storico Alan Kenneth Clark. E Lloyd George, primo ministro di Sua maestà nella seconda parte del conflitto e fino alla vittoria finale, disprezzava i generali e i loro «cervelli pieni di inutili cianfrusaglie». Più o meno le stesse cose sono state scritte anche in Francia e in Germania. Per non parlare dell’Italia, che, anche per reazione alla santificazione delle trincee operata in epoca fascista, in un secondo tempo ha potuto aggiungere senza sforzo alle critiche e alla sfiducia nei confronti dei comandanti della Grande guerra i disastri avvenuti nel Secondo conflitto mondiale coinvolgendo nel disprezzo tutte le gerarchie militari.
A favore di questo modo di pensare milita prima di tutto la lugubre contabilità dei caduti: le cifre più accreditate danno 5,14 milioni di morti per le potenze dell’Intesa (su un totale di 22,2 milioni di perdite conteggiando anche feriti, prigionieri e dispersi), 3,38 milioni per gli Imperi centrali (su 15,4 milioni). In Italia il dato più certo è quello dell’Albo d’oro dei caduti realizzato negli anni Venti, ora digitalizzato e riorganizzato nell’ambito dei grandi progetti di recupero della memoria storica del conflitto ad opera del Centro studi storico militari sulla Grande guerra «Piero Pieri» (presieduto dal colonnello Lorenzo Cadeddu) e dell’Associazione WW1 – Dentro la Grande guerra. Furono 529.025 i soldati, marinai e aviatori caduti su un totale di 4.872.213 combattenti che presero parte al conflitto. Ma lo stesso Centro studi «Piero Pieri» stima che un 15-20% di caduti non sia stato riportato nell’Albo d’oro . Una carneficina che impoverì a tal punto le Forze armate da costringere al richiamo di quasi un milione di riformati.

La cattiva fama dei capi militari nacque anche dalla pubblicistica pacifista negli anni tra le due guerre, dai poeti della «generazione perduta» come Siegfried Sassoon ai romanzieri come Erich Maria Remarque, che raccontano di comandanti ciechi a ogni pietà e di soldati spinti come pecore al macello e sottoposti a una disciplina inumana. Infine c’è stata un’intera generazione di storici, militari e non (il caposcuola fu Basil Liddell Hart), che ha descritto i generali come bruti selvaggi che con tenaglie sempre più grosse cercano di estrarre da una tavola di legno una vite, senza capire che basterebbe girarla.
Negli ultimi anni, però, si assiste a un certo revisionismo, almeno in campo militare (di cui è un buon esempio il libro Mud, Blood and Poppycock , «Fango, sangue e scemenze», di Gordon Corrigan). È vero, tentare di sfondare le trincee tedesche e austriache scatenando loro addosso bombardamenti sempre più pesanti e soldati sempre più numerosi (le famose tenaglie) sembra tuttora un esercizio futile e sanguinoso. Ma che alternative avevano i comandanti dell’epoca? La possibilità di superare i difensori senza perdere slancio e quindi ottenere uno sfondamento definitivo che rimettesse in movimento i fronti congelati alla fine del 1914 era al di là delle capacità dell’epoca: niente carri armati (i primi, rudimentali, apparvero nel 1916) per sfondare, niente paracadutisti ed elicotteri per un aggiramento verticale. E soprattutto nessuna capacità di controllo del campo di battaglia. Banalmente i progressi della tecnologia militare, la capacità di uccidere delle armi, la quantità di uomini che si potevano trasportare, nutrire e rifornire sul campo di battaglia avevano di gran lunga superato la capacità dei comandanti di incanalare e guidare le forze che avevano a disposizione.
Nel 1815 a Waterloo il duca di Wellington aveva mantenuto una salda presa sulla battaglia cavalcando lungo i 4-5 chilometri dello schieramento alleato e mandando i suoi ordini con gli aiutanti di campo che in pochi minuti raggiungevano ogni punto dello scontro. Il 1° luglio 1916, sulla Somme, gli anglo-francesi attaccarono su un fronte di 40 chilometri, ma le loro possibilità di comunicare, una volta cominciata l’avanzata, con i cavi telefonici spezzati dall’artiglieria e in assenza di radio portatili o almeno montate sugli aerei, in mezzo al fumo e alle esplosioni, erano più o meno quelle di Wellington, staffette e piccioni viaggiatori, ma in un ambiente infinitamente più ostile e mortale. Così qualunque successo non poteva essere sfruttato e qualunque ostacolo non poteva essere superato dall’azione di comando. Sempre sulla Somme, racconta lo storico inglese John Keegan, si calcolò che ci volevano in media otto ore perché un messaggio raggiungesse il fronte dal quartier generale di divisione e lo stesso tempo era necessario per il percorso inverso. Il che voleva dire 16 ore tra la segnalazione di una forte resistenza sul fronte e le disposizioni di un comandante per superarla. E in 16 ore i difensori avevano il tempo di rinsaldare le linee.
Così i generali non potevano fare altro che lanciare offensive su offensive, cercando di logorare le forze del nemico più di quanto logorassero le proprie. Un onere che ricadeva sugli alleati, visto che i tedeschi a ovest combattevano in suolo francese e non avevano nessun interesse ad attaccare finché non avessero regolato i conti con i russi.

Ma, si dirà, e gli austro-tedeschi contro gli italiani nel 1917, a Caporetto? Sfondarono e quasi sconfissero l’esercito italiano. Per loro queste limitazioni non valevano? Il problema fu prima di tutto che le truppe italiane erano schierate male e non per la difesa: il generalissimo Luigi Cadorna voleva al più presto riprendere gli attacchi e non ritenne di dover rettificare lo schieramento. Poi i tedeschi, rinforzati dopo la rivoluzione russa, utilizzarono per la prima volta una tecnica di infiltrazione lungo le valli che sconcertò i comandi e prese sul rovescio il fronte italiano. E soprattutto il nostro esercito, dopo 11 battaglie offensive sull’Isonzo, era tremendamente logorato, con centinaia di migliaia di vite consumate nelle offensive del 1915-17 su un terreno che era il più difficile tra tutti i fronti di combattimento e in un regime di disciplina che era in assoluto il più duro tra le forze belligeranti.
Ogni esercito ha il suo punto di rottura, come scoprirono anche i francesi, con gli ammutinamenti del 1917. Noi l’avevamo raggiunto. Comunque alla fine gli austro-tedeschi, anche in Italia, non vinsero. E anche l’Italia partecipò così a quel ridisegno dell’Europa per il quale aveva scelto di combattere, portando a casa Trento, Trieste e Istria. Un’Europa dalla quale erano spariti i grandi imperi, il tedesco, l’austro-ungarico, il russo, l’ottomano. Dove erano sorti nuovi stati fondati sul principio di nazionalità (Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Austria, Ungheria, Finlandia, Repubbliche baltiche), all’interno dei quali però erano ospitate minoranze oppresse e riottose. Fonte di altre guerre, come si sarebbe visto nel 1939. Tanto che anche la nuova Europa, come il poeta che ricordava gli anni prebellici, nel 1919 avrebbe potuto ripensare «con affetto a ciò che ero».

Corriere La Lettura 11.5.14
Prima l’enfasi e l’eroismo, poi l’abisso
Gli artisti a tu per tu con i conflitti
di Vincenzo Trione


Dal canto all’apocalisse. Dall’enfasi alla catastrofe. Dallo slancio all’abisso. In queste oscillazioni potrebbe essere racchiuso il dialogo tra gli artisti e la guerra, al centro della grande mostra che si terrà nei prossimi mesi al Mart di Rovereto (dal 4 ottobre), La Grande guerra che verrà non è la prima. Grande guerra: 1914-2014 , promossa con il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei ministri - Commemorazione del centenario della Prima guerra mondiale: un’esposizione che conferma il Mart come uno tra i pochi musei italiani oggi impegnati in progetti di ricerca ambiziosi e sempre stimolanti.
Un itinerario complesso, ispirato da due versi di Brecht («La guerra che verrà/ non è la prima…»), che radunerà materiali eterogenei (quadri, disegni, incisioni, fotografie, manifesti, cartoline, corrispondenze, diari, film, musiche) e li suddividerà in una serie di piani-sequenza dedicati ad alcune figure: soldati, donne, bambini, medici, religiosi, intellettuali, artisti. Non si seguirà un criterio cronologico, ma ci si affiderà a un gioco di corrispondenze non sempre evidenti tra momenti non contigui. Servendosi di un inatteso montaggio tra «documenti» e «monumenti» — tra reperti e opere d’arte — verrà disegnato un racconto all’interno del quale si incontreranno testimonianze ed evocazioni. Narrazioni visive in diretta (Balla, Boccioni, Carrà, Severini, Depero, Beckmann, Sironi), trasfigurazioni (Baj, Boetti, Kentridge) e apologhi visivi a distanza (Mauri, Lucchi e Gianikian, Jarr, Paci, Sala, Farocki, Abdul).
La filosofia sottesa a questo film involontario è chiara: considerare la guerra non come un episodio lontano e definitivamente archiviato, ma come un evento sempre vivo, che attende ancora un ininterrotto dispiegarsi di riscritture. Un evento che non appartiene a un’epoca particolare, ma dice il modo in cui l’Occidente guarda le cose: la loro natura, il loro disfarsi. Misurarsi con la guerra, perciò, significa misurarsi con il tema della cultura contemporanea.

In principio c’è l’epica moderna. Enfasi, slancio, passione. Sentimenti che ritroviamo innanzitutto nelle pronunce poetiche dei futuristi, per i quali la guerra è una sorta di potente medium . È strumento per radere al suolo edifici antichi e per favorire la rigenerazione del nostro pianeta dalle sue fondamenta: per spazzare via perbenismi, conservatorismi, prudenze, convenzioni, rituali. È mezzo liberatorio e purificatorio, quasi una «verifica sanguinosa» delle loro audaci teorie. Ed è «sola igiene del mondo», perché rivela una totalità che comprende e trascende l’individuo: dona la vita come unità dentro cui strappi e lacerazioni si compongono, «come i naufragi e le tempeste nella totalità del mare» (Magris). Ma la guerra è soprattutto il luogo dove si compie il trionfo dell’immaginazione. Lo spazio all’interno del quale vita e arte entrano in collisione, si confondono e si sovrappongono. Il conflitto viene attraversato in prima persona (molti futuristi vanno al fronte) ed è estetizzato, sublimato. Alimenta i ritmi interni della poesia visiva, che sovente simula le onomatopee belliche; e suggerisce i vortici quasi astratti di Balla, gli impasti di Boccioni, le danze di Severini e le feste di Depero.
In filigrana, la ripresa di alcune problematiche classiche. Nei poemi omerici, la guerra è «cosa bella», sede dell’eroismo, ambito dove si ha la traslucida manifestazione del talento dell’uomo, regno nel quale si altera l’ordine naturale dei fenomeni, impero dove atti e sacrifici vengono avvolti dentro la luce abbacinante della gloria: «La guerra — come ha ricordato Antonio Scurati (Guerra , Donzelli) — consentiva di vedere il valore lucente dell’eroe guerriero che s’illustrava nel duello, e in ciò risiedeva la sua bellezza».
Poi questa tensione positiva si spezza. È una rottura di cui si fa interprete Apollinaire, il quale, dopo aver elogiato le meraviglie dei campi di battaglia e l’incanto degli spari di fucile, si convince che la guerra è altro: macchina infernale, dramma orrendo, distruzione impietosa. Non è solo tripudio dell’intelligenza tattica, e non è esclusivamente inesauribile fonte fantastica. Ma è disordine, accidentalità, casualità. Non si fa mai dominare nella sua completezza. Si consegna a noi come dissonanza, come polvere. Determina disorientamento e smarrimento. Se ne possono catturare solo alcune schegge lancinanti: sfuggite a un insieme oramai deflagrato. L’artista agisce come un inviato speciale e come un archeologo: sceglie di svelare i conflitti del suo tempo; e ne trae frantumi, che poi ripone dentro arsenali di memorie del presente.
Si pensi all’epicedio dipinto da Picasso in Guernica , ma anche alle immagini allucinanti di un film come Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. E, poi, si pensi all’umanità post-umana, deforme e disperata dipinta da Fautrier, il quale, nella serie delle Teste d’ostaggio , ritrae i «vinti» dei campi di concentramento: profili tremolanti, talvolta sovrastati da piccole macchie di capelli; la carne è malata per il freddo e la denutrizione; illuminata da colori lividi, sembra prossima alla consunzione; ecco scabri teschi, detriti poveri e polverosi, grumi di carne, manipolati con gesti violenti. E ancora (per menzionare alcuni artisti che saranno al Mart): le ferite incise da Burri nei suoi sacchi e nei suoi legni; l’attraversamento dell’olocausto proposto da Mauri; le reliquie di Lida Abdul; le ricognizioni videoanimate sull’apartheid di Kentridge; i ricordi dolorosi filmati da Sala e da Paci; le fragili archiviazioni di rovine private di Lucchi e Gianikian. E lo struggente affresco fotografico di Adi Nes, immigrato in Israele nel 1950, autore di un’imprevista Ultima cena , nella quale, invece degli apostoli, ci sono dodici soldati i cui gesti replicano quelli del capolavoro leonardesco: un fermo-immagine che riesce a risultare agghiacciante. Sono voci, queste, di quell’«età dell’estremismo» di cui ha parlato Marco Belpoliti. Artisti che pensano le loro opere come autentiche scritture della catastrofe attuale.
Dunque, il canto. L’apocalisse. Infine, la metafora. Perché affrontare la guerra, soprattutto per i protagonisti dell’arte degli inizi del XX secolo, significa ancora altro. Allude all’essenza stessa dell’avanguardia. Ove, con questa categoria, ci si riferisce a una pratica profondamente scandalosa. Infilarsi nelle pieghe della storia, rendendole visibili, folgoranti, per lambire il «nuovo», l’ignoto. Affidarsi alla strategia dell’«oltranza», per portarsi al di là di modalità linguistiche consolidate, e per sondare territori inesplorati. Essere in trincea, pronti a sfidare i fronti nemici.
Del resto, si sa: la stessa parola avanguardia è presa in prestito proprio dal lessico militare. In un trattato settecentesco nel quale è schedata tutta la cultura latina, leggiamo (Totius Latinitatis Lexicon del sacerdote friulano Forcellini): «Nel linguaggio militare vengono chiamati antecursores coloro che precedono l’esercito, esplorano i luoghi, aprono le strade, individuano i siti per gli accampamenti e per primi attaccano battaglia con i nemici, se per caso si imbattono in loro».

Corriere La Lettura 11.5.14
Tina , la donna che sapeva troppo
Modotti nacque in Friuli, a Los Angeles si unì al fotografo Weston, scelse il Messico
Una vita di passioni non solo rivoluzionarie. Poi rinunciò a scattare (ma non era vero)
di Sebastiano Grasso


Come Frida Kahlo, la biografia di Tina Modotti (1896-1942) aiuta a creare la leggenda che accresce — forse in maniera eccessiva — il ruolo che questa donna ha avuto come fotografa e come affiancatrice di movimenti rivoluzionari. Una vita avventurosa — per certi versi, ancora con molti misteri, almeno a leggere gli interventi di Pino Cacucci e Gianni Pignat sul catalogo (Silvana) della retrospettiva torinese, curata da Dario Cimorelli e Riccardo Costantini — esauritasi abbastanza presto (la Modotti è morta a 46 anni) e intensissima che, spesso, ha lasciato molto spazio all’immaginazione. Un’eroina che certamente avrebbe fatto la felicità di Flaubert o Dumas figlio.

Esposte un centinaio di foto della Modotti (metà della sua produzione conosciuta), che vanno dalle prime prove, nel Messico post-rivoluzionario, alle ultime di Berlino, poco note. Ecco i campesinos in marcia, visti dall’alto, coi cappelli a falde larghe che paiono enormi fiori in un campo grande; chitarra, falce e cartuccera; architetture geometriche; pieghe di tessuti; donne e bambini di Tehuantepec; mani di burattinai o appoggiate a badili; calli. Foto-documenti, foto-simboli talvolta. Cui fa eco la serie dei suoi nudi immortalati da Edward Weston. Delicati, appassionati. Le immagini «ufficiali» di Tina coprono sette anni: dal 1923 al 1930. Dopo, pare che abbia abbandonato la macchina fotografica («L’ha gettata nella Moscova», aveva detto Pablo Neruda) per dedicarsi ai suoi ideali rivoluzionari. Ma alcune testimonianze parlano di ulteriori scatti, anche se sporadici e occasionali.
Di umili origini, Assunta (Assuntina, da cui Tina) Modotti nasce nel 1896 a Udine, in una famiglia poverissima. Il padre va a lavorare prima in Austria e poi a San Francisco, dove Tina lo raggiunge nel 1913. Dopo aver fatto la camiciaia e la modista, nel 1918 sposa il pittore e poeta Roubaix de l’Abrie Richey; recita in teatro a Little Italy e nel cinema muto a Hollywood (The Tiger’s Coat , 1920).
A Los Angeles incontra Edward Weston, di cui diventa modella, allieva e compagna. Il fotografo cambia la sua vita. Nel 1923, espongono i loro scatti a Città del Messico. Tina conosce Rivera, Siqueiros e Orozco dei quali fotograferà i murales . Nel 1926, con Weston, gira, per alcune settimane, le regioni di Puebla e Oxaca: scatta circa 400 immagini.
L’anno dopo, si iscrive al Partito comunista messicano (Pcm), fa attivismo politico (con la Kahlo e Rivera partecipa al Fronte Unico per Sacco e Vanzetti), collabora a giornali e riviste.
Ha una relazione con Xavier Guerrero, funzionario del Pcm; si separa da Weston; nel 1928 si innamora di Julio Antonio Mella, un giovane rivoluzionario di Cuba. Un legame intenso, ma di breve durata: il 10 gennaio del 1929, Julio viene ucciso per strada, mentre sta passeggiando con lei.
Tina visita la regione di Tehuantepec: dopo una rassegna presentata da Siqueiros (La prima mostra della fotografia rivoluzionaria in Messico ), accusata di avere complottato contro il presidente della Repubblica Ortiz Rubio, nel febbraio del 1930, viene espulsa dal Paese. Ripara a Berlino e a Mosca. Qui rivede Vittorio Vidali, conosciuto in Messico, e ne diventa la compagna. Lavorano per Soccorso Rosso in tutt’Europa. In Spagna, entrambi fanno parte delle Brigate internazionali.
Vidali comanda il Quinto Reggimento con lo pseudonimo di Carlos J. Contreras e Tina prende il nome di María. Caduta Barcellona, la coppia va in Francia e da lì — non sono graditi in Unione Sovietica e negli Stati Uniti — si stabilisce a Città del Messico. La notte del 5 gennaio 1942, rientrando a casa in taxi, la donna ha un arresto cardiaco. Sulla sua tomba, i versi a lei dedicati dall’amico Neruda («Non dormi, no, non dormi/ forse il tuo cuore/ sente crescere la rosa/ di ieri l’ultima rosa/ di ieri la nuova rosa/ riposa dolcemente hermana »).

Le mostre delle fotografie di Tina, che si sono succedute nei decenni — sempre affiancate da nuovi documenti — hanno permesso un continuo riesame della sua figura, spesso vista (da Octavio Paz compreso) come una sorta di donna fatale, mangiatrice di uomini, su uno sfondo misterioso: complotti politici, attentati, spionaggio, polizie segrete, tradimenti e delitti; ed è uno sfondo di cui, alla fine, essa stessa rimane vittima.
Supposizioni? Il suo coinvolgimento nell’assassinio del suo amante Julio Antonio Mella (1929), al quale — ricorda Gianni Pignat — era stata affiancata nelle vesti di controllore e, invece, se ne era innamorata. Ed anche l’implicazione nell’uccisione di Lev Trotzkij (1940). Episodi romanzati? Forse. Così come la sua stessa morte — perché «sapeva troppo» — addirittura ad opera del suo compagno Vittorio Vidali, accusato di essere un sicario di Stalin.
Congetture. Dovute ad una biografia «sempre più movimentata, piena di pagine misteriose», scrive Pignat. Che, osservando una matrioska, ha come un’illuminazione: «Il quel momento ho capito l’essenza di Tina Modotti: lei come una matrioska, tante vite una dentro l’altra».

l’Unità 11.5.14
Mehta e l’opera nuova
Il direttore del Maggio parla dell’auditorium per la lirica appena inaugurato a Firenze
intervista di Stefano Miliani


«ABBIAMO UN NUOVO TEATRO DOVE RAPPRESENTARE, FINALMENTE,ANCHE PIÙ OPERE NELLA STESSA SETTIMANA. Come accade in città come Vienna». Lo proclama con orgoglio Zubin Mehta, direttore principale dell’Orchestra del Maggio fiorentino parlando del nuovo teatro d’opera della città appena inaugurato anche dal premier-ex sindaco Renzi. Il 78enne maestro indiano, una delle più rinomate bacchette al mondo, fiorentino d’adozione e amato moltissimo dal pubblico, per anni ha insistito affinché la città avesse un auditorium per lirica e concerti adeguato.
Adesso là dove il parco delle Cascine costeggia un’arteria molto trafficata, a fianco della ex Stazione Leopolda, fronteggiato da una nuova piazza, sorge un parallelepipedo dalla superficie grigia traforata preceduto da un blocco in marmo chiaro; all’interno la sala ha pareti rivestite di una lamina in metallo brunita per consentire al suono di propagarsi, ha una forma che evoca la prua delle navi, una fossa per l’orchestra, un ampio palcoscenico che, a regime, dovrà permettere di allestire scenografie diverse anche in contemporanea.
È in realtà una seconda apertura, dopo quella molto provvisoria e parziale del 2011 per i 150 anni dell’unità d’Italia, ma stavolta è vera pur se restano lavori da completare. Il teatro non dovrà servire, sarà solo per lirica e classica: già l’estate vedrà nella cavea alcuni concerti rock e il modello culturale sembra quello, ottimo, del Parco della musica di Roma.
Maestro, perché voleva tanto un nuovo teatro?
«Nel Comunale non eravamo mai soddisfatti: volevamo un teatro come lo hanno città come Perugia, Bologna, Palermo, Ferrara…».
L’acustica nella sala che lasciate non è la migliore.
«È secca, non è omogenea, il suono non ha colore. Abbiamo sempre detto che per apprezzare la nostra orchestra bisogna sentirla in tournée, non qui. Ora potrà apprezzarla chiunque verrà a sentirla a Firenze. Stavolta è un’apertura definitiva. Anche se a oggi mancano ancora soldi per finire i lavori. Intanto noi come musicisti dovremo abituarci a un’acustica diversa, non dovremo più “spingere” il suono ».
Come si è realizzato questo progetto?
«È iniziato dieci anni fa ed è andato avanti con governi diversi: era nato per i 150 anni dell’Italia. Da sindaco, Renzi lo ha sempre appoggiato. Ogni due mesi lui e io venivamo a vedere i lavori. E a Roma ci ha sempre aiutato, indipendentemente dai governi, l’attuale direttore dello spettacolo dei beni culturali Salvo Nastasi ».
E al ministro Franceschini cosa chiede?
«Ha detto che aiuterà il teatro. Bene, aspettiamo. Abbiamo dato il nostro piano industriale al ministero a gennaio, aspettiamo una risposta. Ma non voglio né devo parlare io di questi aspetti, c’è la sovrintendenza».
Il teatro si chiama Opera e non Maggio perché la parola “opera” è la più diffusa su internet a livello internazionale. L’ha deciso lei?
«Non è una mia decisione».
Di recente lei ha diretto un «Otello» di Verdi a Valencia molto elogiato non solo per l’esito artistico ma anche perché è costato poco. Dunque si possono allestire spettacoli di lirica senza spendere tanto?
«Sì, è vero, l’ho fatto con il regista italiano David Livermore. Anche il Tristano e Isotta con il quale abbiamo aperto il Maggio costa poco. È tutto un set, una scenografia unica. A Valencia farò anche una Forza del destino con un solo set. Il futuro però è fare coproduzioni con altri teatri, questo è molto importante. Spero infatti che il nostro Tristano vada in altri teatri. Certo, ha una piccola montagna di riso in scena e dovranno comprare tanto riso, ma immagino che nella Padania sia l’ideale».
Cronache recenti hanno riferito che lei stia per lasciare l’incarico di direttore principale a Firenze. Il commissario della Fondazione, Bianchi, ha smentito. Lei cosa dice?
«Non dipende solo da me. Qui so di avere l’appoggio dell’orchestra, del coro, della direzione. E l’anno prossimo fanno trenta anni per me in città. Non so quanti altri direttori siano rimasti così a lungo. Voglio aggiungere che oggi nell’orchestra non c’è un singolo elemento debole: è, come il coro, meravigliosa».
Il nuovo teatro e lo spazio all’aperto ospiteranno anche altri generi musicali oltre alla classica e alla lirica?
«Sì. E penso che dovrà essere aperto ogni sera. Si dovranno fare più concerti, si dovranno fare più opere anche in contemporanea come accade a Vienna: ora abbiamo tre palcoscenici intorno a quello principale. La macchina va completata ma nel futuro dovranno esserci anche tre opere diverse, di repertorio, in scena nella stessa settimana. Sono convinto che il pubblico ci sia. Quanto a me, vorrei fare la tetralogia del Ring di Wagner che abbiamo già fatto al Maggio con la Fura dels Baus, ma non in tempi diversi: vorrei fare le quattro opere in una stessa settimana. A Bayreuth lo fanno».

l’Unità 11.5.14
L’arte «degenerata» in mostra a New York
In corso alla Neue Gallery richiama quella del 1937 alla Haus der Kunst di Monaco
di Marco Di Capua


UNA MATTINA DEL 1907 ILPITTOREALOISDELUG, DI BOLZANO ma con cattedra all’Accademia di Belle Arti di Vienna, combinò un gran bel guaio. Bocciò all’esame d’ammissione un giovane fervente che gli aveva sottoposto accuratissimi, delicati acquerelli. «Non siete minimamente portato per la pittura », ribadì poi il rettore. L’uno-due apparve al giovane come un fatto inaudito, imprevedibile, e infatti lo mandò al tappeto, e gli cambiò la vita. A dire il vero cambiò la vita anche a milioni di persone, perché quel giovane si chiamava Adolf Hitler. Ferrei materialisti storici direbbero a questo punto che non sono certo questi i gesti che segnano il mondo. Però fa effetto quella specie di intoppo che fece prendere altre strade a un mezzo psicopatico, caricandolo di un risentimento ulteriore. Così, se per senso delle proporzioni non possiamo mettere in diretta relazione tutto ciò che poi tragicamente avvenne con quell’umiliante dietrofront davanti ai portoni dell’accademia, la vendetta di Hitler si abbatté sulla scena dell’arte, con tutti gli interessi maturati, trent’anni dopo.
La mostra in corso adesso alla Neue Gallery di New York, Degenerate Art: The Attack on Modern Art in Nazi Germany (fino al 30 giugno) ricostruisce il regolamento di conti che avvenne il 9 dicembre del 1937 alla Haus der Kunst di Monaco con l’esposizione e la gogna di quella che fu bollata come «arte degenerata». Allora fu un successone, un grand tour in varie città tedesche. Delle 600 opere esposte nel ’37 oggi a NewYork sono riusciti a raccoglierne un’ottantina, tra dipinti, sculture e disegni, ma gli autori sono quelli lì, i messi al bando: Kirchner, Beckmann, Klee, Nolde, Barlach, Grosz, Kokoschka…
Un po’ per il titolo, che sembra buono per un film su Pearl Harbor (Attack!?), un po’ perché siamo a New York (dove, per dire, il direttore del MoMA Glenn D. Lowry fa abbattere l’edificio dell’American Folk Art Museum per ingrandire ed espandere la «propria» idea di arte come intrattenimento pop e divertimento glam, per un business politicamente correttissimo) l’aria che tira è quella che va per la maggiore oggi: l’arte non è una concreta azione di singoli in un determinato svolgersi storico, ma un’entità morale astratta, simbolo di ogni bene e libertà, fede sopravvissuta alla pressione violenta delle ideologie, e, ovviamente, alla scomparsa di ogni fede.
Che so, ci fosse stato uno, anche nella stampa italiana, che forzando le solite «idee ricevute» avesse ricordato come a quella mostra del ’37 si fosse arrivati lentamente, e solo dopo che la linea ufficiale di Alfred Rosenberg, custode di un’arte tedesca tradizionale, aveva prevalso su quella del tremendissimo Joseph Goebbels, inquietante aedo dell’Espressionismo. In letteratura un caso tipico fu quello del poeta Gottfried Benn, vicino al nazismo e difensore delle avanguardie. Fino alla metà degli anni Trenta le acque erano infatti piuttosto torbide. Con cosucce tipo queste: Emil Nolde iscritto al circolo lavoratori nazisti; Ernst Barlach che firma con l’architetto Mies van der Rohe e il direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler l’appello per sostenere la candidatura di Hitler alla presidenza della repubblica; Edvard  Munch considerato, con «viva e vibrante soddisfazione» dello stesso norvegese, il patriarca nella nuova pittura nazi. Culto del Nord, libere rappresentazioni del corpo, della natura, nella riconversione a una forma di paganesimo moderno, erano tra le componenti di quell’intreccio.
Qualcosa di simile avvenne anche in musica e in architettura. Esempio limite: Fritz Ertl, ex docente alla Bauhaus, che nel 1941 progetta le baracche per i prigionieri sovietici ad Auschwitz. Niente di strano, sono fatti che, tra autentiche aspirazioni al nuovo purchessia nonché a posti e prebende, ha reso molto complesse le dinamiche tra la cultura, l’arte (anche d’avanguardia) e le dittature. Sappiamo come finì la storia, naturalmente. Hitler credeva di saperla lunga in fatto di arti visive, di teatro, di musica. Il suo gusto, quello dei suoi acquerelli di un tempo, era convenzionale, quindi per lui fu naturale dare una lezione a quella pletora di artisti pervertiti. Aveva pazientato abbastanza. Appoggiò Rosenberg, stroncò Goebbels. Contemporaneamente alla mostra sull’arte degenerata ne ordinò una, sempre in quei giorni e sempre a Monaco, sulla vera arte germanica. Alfred Ziegler - il cui quadro più celebre, I quattro elementi, volle sempre sotto i suoi occhi, mentre ora sono sotto i nostri, qui alla Neue Galerie - ne era il campione. E così un mondo «sano», tutto Muscoli & Boccoli, spigolatrici, mucche e arcolai fu contrapposto a uno schifoso, malandato mondo tutto scoliosi e deformità: il sorriso di bionde spilungone definitivamente sottomise il ghigno demente e il broncio esistenziale di gente davvero strana, che a occhio e croce doveva essere ebrea, che sicuramente doveva essere comunista. Kirchner nel ’38 si suicidò, a Nolde fu requisito tutto, molti (Beckmann, Grosz) fuggirono negli StatiUniti, e perfino il vecchio Munch fu dichiarato persona non gradita alla Germania. E qui e oggi? Le probabilità che un artista di successo getti avidamente l’occhio non tanto a quelle operemaledettema al numero di spettatori che la mostra del ’37 realizzò (2.600.000!) sono altissime. Negli Usa, poi! Farsi chiamare «degenerato » da un qualsiasi senatore repubblicano su di giri - come quell’Alfonse D’Amato che nel 1989, a Washington, strappò in pieno Senato l’immagine del Piss Christ di Adrés Serrano, o come l’ex sindaco di New York che in visita alla mostra Sensation a momenti vomitava, tanto da attirarsi subito, per riflesso condizionato, un «vade retro Hitler!» - può risultare cosa ottima per la promozione e per gli affari.
E questo benché far saltare la mosca al naso a qualcuno sia diventato sempre più difficile, se non impossibile. Tutto è concesso sulla scena dell’arte, quello spazio è sacro, libero, e lì si può perfino assistere alla morte di esseri viventi senza che nessuno muova un dito o batta ciglio. Senza che nessuno abbia quel po’ di fegato di farsi anche dare del nazista da qualche scemo, e di parlare chiaro: senti, lo so che stai cercando con ogni mezzo il tuo posto al sole, ma mettere animali in una stanza, filmarli mentre si sbranano e vedere l’effetto che fa, è da degenerati. Come minimo.

Repubblica 11.5.14
Domandatemi di Auschwitz
di Giovanni Di Lorenzo


Renate Lasker-Harpprecht ha novant’anni. Era una ragazzina quando fu deportata. In questa intervista al settimanale tedesco “Die Zeit” racconta con grande lucidità la sua esperienza. È la prima volta che ne parla in modo così dettagliato.
Spesso mi chiedono perché non l’ho fatto prima. La risposta li sorprende: perché nessuno me lo ha chiesto”

FINO AD ORA, di Renate Lasker-Harpprecht avevo sentito parlare soltanto da suo marito, il grande scrittore Klaus Harpprecht, che scrive ancora oggi per Die Zeit. È stato lui a segnalarci che sua moglie aveva bisogno di parlare finalmente in modo approfondito della sua lotta per la sopravvivenza durante il nazionalsocialismo. Dagli anni Ottanta Renate Lasker-Harpprecht vive con suo marito in Costa Azzurra, dove si è svolta questa intervista. Sediamo nel suo salotto, il cielo sull’insenatura si è coperto di nuvole, e ben presto piove a scrosci. Durante le ore successive Renate Lasker-Harpprecht non si lascia mai sopraffare dai suoi sentimenti. Beve caffè, fuma e a tratti trova l’espressione giusta solo in francese, inglese o italiano.

Suo marito mi ha detto che non ha quasi mai parlato, nemmeno con lui, del periodo da lei trascorso nel lager.
«Non ne parliamo particolarmente spesso».
A novant’anni, le capita mai di raccontare un po’ più facilmente di prima quello che le è successo ad Auschwitz e a Bergen-Belsen?
«Sì, ma solo con certe persone. E non necessariamente con Klaus: con lui ho l’impressione che sappia comunque tutto. Ho anche paura di annoiare».
Non aveva paura che il raccontare le avrebbe fatto troppo male? Che la gente avrebbe reagito con insensibilità o superficialità?
«Non parlerei mai con gente che potrebbe reagire in modo superficiale. Ma spesso mi chiedono perché non ho parlato con i miei conoscenti o amici. E moltissime persone si stupiscono della mia risposta: non me l’hanno chiesto».
La gente non voleva saperne molto?
«I tedeschi non volevano saperne».
Come se lo spiega?
«Da un lato, tutti in qualche modo si vergognano, perché si tratta della Germania. Ma fanno anche qualcosa che mi irrita profondamente: cominciano immediatamente a parlare del loro terribile destino in guerra. Dei bombardamenti subìti. Allora interrompo il discorso. Il defunto scrittore Hans Sahl ha coniato una frase che uso sempre quando serve: “Siamo gli ultimi, facci delle domande!”».
Lei è cresciuta a Breslavia. Quando ha notato per la prima volta l’ostilità nei confronti degli ebrei?
«A differenza di mia sorella Anita io non ho sperimentato alcuna inimicizia personale. E, cosa che a quei tempi era molto importante, io, per dirla in modo il più possibile garbato, non ho un aspetto particolarmente ebraico. Non ho il naso adunco, non ho i capelli corvini ( ride ). Invece, mia sorella in fondo è un tipo sefardita, ha capelli nerissimi e il naso aquilino. Brutta storia».
E i suoi compagni di scuola, erano maldisposti?
«No, non direi. Ma c’erano quei favolosi genitori che volevano infilarli immediatamente nella Gioventù Hitleriana. Avevo un’amica che portava un grande nome: Hella Menzel, una discendente di Adolph von Menzel».
Il celebre pittore?
«Sì, e con lei avevo legato. Si era fermata spesso a dormire da noi, e non di rado io andavo da lei. Poi è arrivato lo sconquasso nazista. Io desideravo continuare a frequentarla, ma quando un giorno andai a trovarla, venne alla porta la cameriera e disse: “La signora non desidera che lei entri in questa casa”. Ci rimasi un po’ male, ma…».
Non ha più rivisto Hella Menzel?
«Sì, l’ho incontrata di nascosto qualche volta. Ma poi le ho detto: “È meglio smetterla, finirai per litigare con i tuoi genitori!”. Credo che si sia un po’ vergognata, perché era davvero una brava ragazza».
So che è accaduto di ben peggio. Però essere respinta sulla porta di casa dev’essere stato molto mortificante per lei, che era una ragazzina.
«Naturalmente. Ma poi tutto passa abbastanza in fretta, e ci si fa il callo. Altrimenti non si andrebbe avanti».
Come ha reagito suo padre quando è iniziata la discriminazione degli ebrei?
«È successo all’improvviso. Chi, prima del 1933, avrebbe chiamato qualcuno “porco ebreo”? Mio padre si era identificato con la Germania. Diceva: “Prima o poi convinceranno quel pazzo che non abbiamo voluto tutto questo!”. Per questo non si è dato molto da fare per emigrare. Si era recato con la nave in Israele, che allora si chiamava Palestina, per visitarla. Ma poi era tornato indietro».
Non voleva andarci a vivere?
«No. Immagini: un noto ed eccellente avvocato si trasferisce in un Paese del tutto diverso. Cosa ci va a fare?».
Nemmeno il pogrom della Notte dei cristalli del 1938 ha convinto i suoi genitori che non c’era tempo da perdere?
«Certo. Si vedevano sempre meno ebrei per le strade. Ma non era affatto semplice lasciare il Paese. Gli altri Paesi non erano disposti ad accogliere tanto facilmente emigrati ebrei. Mio padre ha tentato di portarci in Italia. Era un grande amico della cultura italiana. E c’era quasi riuscito! Avevamo anche già spedito i nostri mobili con un enorme container. Non sono più saltati fuori. Non avevamo più mobili, dovevamo lasciare casa nostra, abbiamo vissuto stretti stretti da parenti con i quali non eravamo in grande familiarità. Anita e io fummo destinate al lavoro coatto ».
I suoi spazi diventavano, letteralmente, sempre più stretti. Aveva molta paura? Oppure l’ha rimossa?
«Sicuramente ci ha aiutato a sopravvivere il fatto che, in fondo, eravamo incoscienti. Abbiamo sempre vissuto alla giornata».
Perché era così giovane?
«Eravamo così giovani. E dovevamo vedercela con i problemi quotidiani. Quando scoppiò la guerra, dovemmo sfacchinare terribilmente. Anita e io abbiamo lavorato in una cartiera dove si produceva carta igienica. Prima mi avevano mandato alla raccolta rifiuti, che era ancora peggio. Dovevamo cercare le parti in metallo tra i rifiuti, fra topi e gatti morti».
Il 9 aprile 1942 i suoi genitori furono deportati. Sapevano già che sarebbero stati arrestati?
«No, non furono arrestati, e nessuno bussò alla porta. I miei genitori ricevettero una comunicazione: “Domani alle ore tot dovrete recarvi al campo di raccolta …”. E ci sono andati. Hanno ubbidito. Invece, molta più gente sarebbe dovuta scappare».
Sono andati loro stessi al macello?
«Sì, sono andati al macello. La sera prima, i miei genitori hanno fatto i bagagli, si poteva portare con sé dieci chili di vestiti, più o meno. Poi ci siamo salutati. Mio padre ha dettato a mia sorella una sorta di testamento. A un certo momento io sono andata a dormire. Me ne vergognerò sempre, ma non ce la facevo più. Mia madre era seduta nella stanza accanto e piangeva. La sentivo. Sapeva che non avrebbe più rivisto le sue bambine».
I suoi genitori immaginavano come sarebbe stato terribile il lager?
«Immagino che durante il trasporto i miei genitori abbiano sentito abbastanza. Abbiamo saputo poi che erano stati portati in un lager vicino a Lublino. Un giorno un gruppo di persone fu portato davanti a una fossa. Furono costretti a denudarsi, dopodiché spararono loro alla nuca e caddero nella fossa. È probabile che i miei genitori siano stati uccisi così. Non so se i loro resti siano poi stati esumati e sepolti in una tomba comune».
Nel libro di sua sorella, al quale ha contribuito con qualche ricordo, ho letto che già prima della sua deportazione ad Auschwitz lei aveva saputo che giravano terribili voci sul lager.
«Sì, in carcere. Mia sorella e io avevamo subìto un processo…».
Avevate falsificato dei documenti di viaggio per alcuni prigionieri di guerra francesi e voi stesse avevate cercato di fuggire. Lei fu condannata, separata da Anita e portata in prigione…
«E, grazie a Dio, mi ritrovai in una cella singola. Nel carcere ero l’unica ebrea e non dovevo “infettare” gli altri. Fu una benedizione. Prima del processo avevamo dormito addossati gli uni agli altri in una cella. Ancora oggi non riesco a sopportare le masse di persone. Una notte ebbi un mal di denti terribile e fui portata dal medico del carcere. Nella sala d’attesa sedeva accanto a me una ragazzina. Le chiesi sottovoce da dove veniva. Rispose: “Da Auschwitz”. Non potevo crederle».
Aveva un’idea di cosa fosse Auschwitz?
«Sì, sì. Auschwitz era il capolinea. Pensai: come ne è venuta fuori? Che sia una spia? E le chiesi se era vero quello che la gente raccontava di Auschwitz, se era davvero così spaventoso. E la ragazza mi rispose: “È molto peggio”. Allora ho saputo quello che mi attendeva».
Lei giunse ad Auschwitz nel 1943.
«In carcere sentii all’altoparlante: “RENATE SARAH LASKER CON TUTTE LE SUE COSE!”. Ciò significava che bisognava presentarsi con la gavetta e gli zoccoli di legno. Mi trovai di fronte a un uomo della Gestapo che mi disse, letteralmente: “Bene, adesso vieni ad Auschwitz. Per favore, firma qui che vieni volontariamente”. E firmai. Quella notte ebbi paura».
In tanta angoscia aveva almeno un rifugio mentale?
«Avevo una certa fede che mi ha aiutato. Non ne ho mai parlato, nemmeno con mia sorella. Dunque, ho pregato: “Buon Dio…”. La mattina dopo, fummo portati alla stazione centrale su un treno per prigionieri. Sedevo di nuovo da sola, probabilmente perché non volevano che una ragazza ebrea sedesse accanto agli altri. Poi siamo arrivati ad Auschwitz».
Qual è stata la sua prima immagine di Auschwitz?
«L’intero lager era illuminato a giorno, perché all’epoca i tedeschi sapevano che gli Alleati non lo avrebbero bombardato, e avevano ragione. Vidi delle SS, dei kapò e dei cani. Poi fummo portati in una grande sala dove mi spaventai molto, perché agli angoli erano sistemate delle docce. Avevo sentito che tutti i lager per la gassazione erano fatti così, che la gente vi veniva ammassata, e che da queste docce il gas…».
Se ne parlava già?
«Sì. Ormai era notte, tutto era buio, e venne dentro un mucchio di donne completamente nude. Allora mi spaventai di nuovo terribilmente, perché pensavo che se entravano qui nude… Non era solo per via delle docce… Era anche per via delle prigioniere che entravano. Avevano un’aria così spaventosa che mi chiesi: avrò mai un aspetto così?»
Che aspetto avevano le prigioniere?
«Non avevano più capelli, ed erano pelle e ossa. Fecero la doccia e furono mandate di nuovo fuori. E la mattina dopo cominciò il giorno di lavoro. Dovetti spogliarmi e sedere su una sedia. Allora mi furono rasati i capelli».
Da un’altra detenuta?
«Lo facevano tutte le detenute. Mi tatuarono anche un numero sul braccio: 70195. Anita era arrivata una settimana prima. Lei ha il 69388. Curiosamente, il suo numero è ancora chiarissimo, mentre il mio è sbiadito. Mentre sedevo su quella sedia e mi venivano rasati i capelli vidi che sulla terra accanto a me c’era un paio di scarpe nere. Avevano la tomaia di pelle e stringhe rosse. Pensai tra me che conoscevo quelle scarpe! Perciò chiesi alla ragazza che mi rasava: “Sai con quale convoglio è arrivata quella?”. “Sì, lo so bene, adesso quella ragazza è nell’orchestra”».
Intendeva l’orchestra di ragazze di Auschwitz, dove sua sorella suonava il violoncello.
«In preda all’eccitazione, quella ragazza corse nella baracca messa un po’ meglio delle altre, dove abitava l’orchestra. Cercò Anita e le disse: “Credo che ci sia tua sorella!”. Poi uscirono e ci abbracciammo. Così ho ritrovato mia sorella, tra centinaia di migliaia di persone».
Che impressione le fece?
«La vedevo per la prima volta con la testa rasata. Aveva un aspetto abbagliante, perché aveva quell’ombra scura della radice dei capelli sulla sua testa calva, con quegli angoli da intellettuale, a destra e a sinistra, come mio padre. Poi mia sorella rientrò, perché l’orchestrina doveva suonare marcette due volte al giorno. Quell’orchestra era formata solo da dilettanti. Perciò Anita venne accolta con entusiasmo. Non era ancora una musicista professionista, ma era molto brava».
L’orchestrina doveva accompagnare musicalmente ogni giorno l’uscita e il rientro dei detenuti che lavoravano fuori dal lager, ma doveva anche suonare regolarmente per il personale delle SS. Mi pare che sua sorella abbia addirittura eseguito un assolo per il terribile medico del lager, Josef Mengele.
«Sì, la Träumerei di Schumann. Sono certa che l’ha eseguita magnificamente. Mengele non mi ha fatto niente personalmente, ma era un tipo orribile. Se c’è una cosa inconcepibile nei nazisti tedeschi, se si vuole parlare per cliché, è questa mescolanza di fanatismo assoluto, indottrinato da un folle, e questa estrema sensibilità romantica».
Dopo che ebbe ritrovato Anita, cosa le successe?
«Ricevetti degli orrendi vestiti, degli zoccoli. Era dicembre, un freddo gelido. E mi mandarono nella cosiddetta quarantena, che toccava a tutti i nuovi detenuti».
Perché dovette andarci?
«Forse quelli delle SS speravano che i prigionieri morissero prima di essere gassati, oppure avevano paura che essi portassero qualche infezione. Dormivamo in quelle cuccette di legno a tre piani. Le più deboli giacevano sempre al piano più basso, perché era più facile uscirne. Io, però, avevo ancora un po’ di muscoli nelle gambe e finii nel piano più alto. C’era soltanto una coperta stracciata e un po’ di paglia Non ero sola, eravamo in quattro, più o meno. Nella baracca c’era un enorme trogolo. Tutte avevano la diarrea, e c’era una puzza immonda, non la si può chiamare diversamente. Mi accorsi ben presto che le detenute si derubavano a vicenda».
Ma cosa c’era da rubare?
«Gli indumenti, oppure un pezzo di pane. Di notte non mi sono mai tolta le scarpe, perché temevo che altrimenti, quando mi fossi svegliata, non le avrei più trovate. Molti che ne avevano la possibilità scambiavano il cibo con le sigarette. Perché nel lager c’era tutto».
Tutto?
«C’era tutto. Sì, poi venne Natale e i tedeschi delle SS, sentimentali come quasi tutti i tedeschi, naturalmente hanno celebrato il Natale anche ad Auschwitz. Al centro del lager c’era un grande albero di Natale ».
In quel piazzale dell’appello?
«Sì. Un enorme albero di Natale. Io, che ero una ragazzina, avevo una voce molto aggraziata ed ero stata scelta, anche grazie alle relazioni di mia sorella, per cantare la canzone di Natale sotto quell’albero ».
Quale?
« Leise rieselt der Schnee. Ma non se ne fece nulla, perché un giorno caddi a terra durante l’appello. E quando riaprii gli occhi ero nell’infermeria del lager. Pensai che era la fine. Nel mio letto c’era un’altra donna. Ma ormai era morta, giaceva senza vita accanto a me».
(Tace) .
Lei dice: pensai che era la fine…
«Sì, ero davvero molto malata, avevo la febbre, la diarrea e deliravo. Avevo il tifo esantematico. Molti di quelli che non sono stati uccisi sono morti di questa malattia. Un giorno entrarono le donne e gli uomini delle SS a ordinarci di lasciare i letti. Tra tutta quella gente smagrita selezionarono quelli che dovevano andare a destra e quelli che dovevano andare a sinistra. A sinistra significava gassazione. Io venni smistata immediatamente a sinistra. Allora reagii bene e, chinatami verso un SS che non sembrava particolarmente feroce, sussurrai: “Sono la sorella della violoncellista”. Allora mi diede un calcio nel sedere e mi spedì dall’altra parte. Perciò devo la vita a mia sorella».
Che però, per quanto la cosa possa suonare assurda, quei giorni desiderò la morte: così ha scritto nelle sue memorie.
«È vero. Eravamo delle larve. Non avevamo niente da mangiare e avevamo diarrea sanguinosa. Quando mia sorella mi vide in quelle condizioni miserabili voleva davvero che io mi addormentassi… e fine».
Ma sua sorella è andata poi da Maria Mandl, la sovrintendente del lager femminile. Ha raccolto tutto il suo coraggio e le ha chiesto di impiegarla come staffetta.
«E lo sono diventata: ho poi trasmesso messaggi tra gli SS. La Mandl preferiva mia sorella, perché era una delle poche che parlavano ancora correttamente tedesco. Ed era molto importante non mostrare paura. Non ne ho mai mostrata».
Era una donna rozza?
«No, affatto. Era una persona di bell’aspetto. La si vedeva poco, ma era là, quando quella ragazza ebrea a cui subentrai come interprete e il suo amico polacco furono impiccati».
Intende la belga Mala Zimerbaum? Potrebbe raccontare la sua storia?
«Dovevamo allinearci due volte al giorno davanti alla baracca, in file da cinque, dopodiché venivamo contati da un kapò e da una donna delle SS a cui era stato assegnato il comando di un blocco. Questo controllo durava molto a lungo, perché occorreva conteggiare chi era morto e chi era ancora vivo. Una sera rimanemmo in piedi per ore e non successe nulla. Poi risultò che nel campo degli uomini e in quello delle donne mancavano due persone».
Una per ogni campo?
« Sì, da noi mancava Mala. E nel campo degli uomini questo Edeck ».
Edek Galinski, il fidanzato di Mala. Questo caso è documentato.
«A quel punto suonarono le sirene. Erano scappati. Nelle nostre baracche improvvisammo danze di gioia, perché volevamo tutte bene a Mala. E pregammo soltanto che ce la facessero. Ma qualche giorno dopo, quando presi servizio, vidi Mala davanti al portone del lager. Credo che fosse incatenata».
La fuga era fallita.
«Quell’estate ad Auschwitz faceva un caldo terribile. Quando le passai davanti mi sussurrò qualcosa; non capii perfettamente, ma compresi che mi chiedeva di procurarle una lametta. Cercai di fargliela avere, ma senza successo. È chiaro, però, che qualcuno gliene procurò un’altra. Qualche giorno dopo ci fu un appello generale, di nuovo con le sirene. Nella piazza centrale del lager avevano innalzato una forca. Dovevamo assistere tutte a quella punizione esemplare e convincerci che nessuno aveva la possibilità di fuggire dal lager. Un uomo delle SS portò Mala sulla forca. Allora lei fece un balzo in avanti, si tagliò i polsi e schiaffeggiò quell’SS, che fu tutto macchiato di sangue, da capo a piedi. Però, Germany being Germany o, come diciamo noi, K-Z being K-Z, non le vollero concedere la morte di mano propria. Le bendarono le ferite, la portarono nel cortile del crematorio e le spararono. Poi sostituirono tutti i detenuti che avevano svolto funzioni maggiori e minori nel lager. Questi furono mandati a spaccare pietre. Ebbi di nuovo fortuna, poiché i sorveglianti sapevano che mia sorella suonava nell’orchestra. Pensarono: se una sta qui, l’altra non scapperà. Quindi ho ottenuto il lavoro di Mala».
Il gesto di ribellione di Mala vi ha impressionato?
«Sì, tremendamente. Ma era anche del tutto irrealistico immaginare che a qualcuno la fuga potesse riuscire».
Tra i detenuti c’era una qualche forma di solidarietà? Oppure ad Auschwitz ognuno pensava solo a se stesso?
«Ognuno pensava solo a se stesso, senza dubbio. Ma nella baracca di mia sorella c’era qualche ragazza che aveva fatto causa comune. Questo mi ha sempre impressionato molto. A parte mia sorella, erano tutte francesi. Una, che non dimenticherò mai, si chiamava Elaine, e anche nell’inverno più freddo si lavava con la neve. Noi non ci siamo più lavate, perché avevamo troppo prurito. Lei, però, si sfregava da cima a fondo con la neve, ogni giorno. Questo l’ha tenuta in vita. Inoltre era una buona violinista, anche questo l’ha aiutata».
E le ebree nelle loro baracche erano un po’ solidali tra loro?
«Solo quando tra due nasceva un’amicizia. E poi quello che conta di più non è chi è solidale, ma chi odia al minimo e chi odia al massimo. Fa una grande differenza. Naturalmente, non si può dire: “tutti i polacchi, o tutti i russi ci hanno odiato”. Ma dopo la guerra, durante una discussione, ho fatto un’osservazione che ha suscitato molta rabbia. Ho citato un esempio da Auschwitz, da me vissuto personalmente: uno o due giorni dopo il mio arrivo, c’erano vicino a me due ragazze polacche. E chiesi: “Da dove viene questa puzza terribile?”. Era il camino del crematorio. Ne usciva un fumo untuoso, nero. E quelle risposero: “Sono i tuoi genitori, che passano per il camino”. Se si è avuta un’esperienza del genere, si fa presto a generalizzare. Klaus, mio marito, diceva sempre, con un po’ di ironia, che io sono razzista perché ce l’ho con i polacchi. Però adesso mi è passata».
I detenuti polacchi erano particolarmente astiosi?
«No. Le peggiori erano le russe. Erano le più forti».
Intende le detenute russe?
«Sì. Con i maschi non avevamo nulla a che fare. Le russe non hanno fatto che picchiarci e portarci via il pane. Cose del genere non si dimenticano. E non voglio nemmeno dimenticarle».
Ha mai colto un moto umano nei suoi guardiani?
«Sì, in un uomo delle SS, che rispondeva al bel nome di Kasernitzky. Accadde più tardi, a Belsen. Faceva la guardia quando provai ad andare a prendere di nascosto dell’acqua. Si girò dall’altra parte. L’acqua era tremendamente cara. E poi, quando lavoravo in ufficio a Belsen, c’era un poliziotto che mi metteva un gran pezzo di pane nel cassetto. Ogni giorno».
Sa perché lo faceva?
«Non lo so. Comunque, dopo la guerra mi ha chiesto una dichiarazione a suo favore. E sono stata contentissima di scrivergliela. Si era davvero comportato da brava persona. Quando tra il personale del lager di Belsen si diffusero le voci che la guerra per i tedeschi non stava andando molto bene, anche loro naturalmente diventarono più gentili. Non ci minacciavano più con i cani ed erano un po’ meno brutali. Non ci fece una grande impressione, ma era così».
Come si spiega che quasi tutti i sorveglianti e le sorveglianti abbiano completamente ignorato quella sofferenza?
«Anche a me piacerebbe saperlo. Faccio una piccola digressione, Un giorno giunse ad Auschwitz un grande convoglio italiano. Per qualche motivo una bambina era sgattaiolata via: una bambina molto dolce, biondissima. Sicuramente non era arrivata da sola, ma improvvisamente me la sono vista vicina. E mi sono presa cura di quella bambina, lo posso ben dire. La trovavo incantevole. Aveva così fiducia in me. Le ho dato da mangiare, riuscivo a occuparmi di lei, perché avevo qualche libertà nel lager. Un giorno però ho perso di vista la piccola, mi ero ammalata di nuovo. Quando fui di nuovo in piedi avevano già ucciso la bambina. Per tornare alla sua domanda: come si può? Questo dipende un po’ anche dalla mentalità delle diverse nazionalità. Non credo che in Italia - e anche lì tirava una brutta aria - avrebbero fatto cose così spaventose con i bambini».
Dei circa sei milioni di ebrei uccisi nell’Olocausto una vittima su quattro era un bambino. Crede che un simile orrore affondi le radici anche nella mentalità di un popolo?
«Anche, sì. In certe generazioni e in certi strati sociali».
Sa come si chiamava quella bambina italiana?
«Il nome cominciava con la emme. Marta, o qualcosa del genere. Era una bambina ebrea».
Nel lager, diceva, ci si poteva procurare tutto. Com’era possibile?
«Nel lager tutti i luoghi dove si lavorava avevano un nome. La baracca dove ci si poteva procurare tutto si chiamava “Canada”. Alle persone che erano giunte nel lager avevano tolto tutte le loro cose. E molti detenuti, soprattutto polacchi e greci, si erano cuciti negli orli dei vestiti monete d’oro e cose simili. Tutto questo era immagazzinato in Canada. E i kapò, che tra i detenuti erano senz’altro quelli che se la passavano meglio, si prendevano tutte le cose che gli portavano i gruppi di prigionieri assegnati al Canada, alla cava di pietra o al campo. Questo era uno dei motivi per cui li detestavamo».
I kapò imboscavano tutto?
«Certo, certo».
E cosa se ne facevano di quella ricchezza?
«Corrompevano».
Cioè ottenevano una fetta di pane in più?
«Sì, sì. Avveniva attraverso cento canali. Purtroppo non sono mai riuscita a farlo. Ho rubato regolarmente una sola cosa: verdura fresca. Le detenute che lavoravano nel campo si nascondevano un mucchio di cipolle e di aglio. Era molto importante nel lager, poiché soffrivamo di una assoluta carenza di vitamine. All’improvviso mi erano comparsi dei buchi nelle gambe».
Piaghe da mancanza di vitamine?
«Sì, ho ancora le cicatrici. Ogni volta che questi gruppi di prigionieri tornavano dal campo venivano perquisiti e le cose fresche finivano in un mucchio. E quando i detenuti andavano nella baracca, noi messaggeri e staffette ci servivamo. Ne valeva la pena. Ma non ho mai visto un granello d’oro».
Mi rendo conto che questa domanda può suonare addirittura odiosa: ai tempi del lager ha mai fatto qualcosa di cui si vergogna?
«Sì. Lei la considererà una quisquilia, ma io me ne vergogno ancora oggi. Un giorno qualcuno - non so più chi - mi regalò una mezza tavoletta di cioccolata. Ero incredibilmente felice. Erano anni che non vedevo qualcosa del genere. E mi dissi: ora vado da Anita e ci dividiamo questa cioccolata. Invece, durante il cammino me la mangiai tutta quanta. È l’unica cosa di cui mi vergogno».
Una simile piccolezza!
« Ma dimostra mancanza di carattere e disciplina. Non va».
Era possibile corrompere gli SS?
«Sì, perché non gridassero e non picchiassero le persone che non spalavano abbastanza velocemente. Dominava una brutalità inimmaginabile. Anita e io lo abbiamo visto in piccolo nel trasporto da Auschwitz a Belsen. Siamo state trasportate su un carro bestiame, ma abbiamo dovuto fare e piedi l’ultimo tratto».
Chilometri e chilometri…
«Fino a quando abbiamo raggiunto il campo di concentramento. E chi cadeva per strada e non riusciva più a rialzarsi semplicemente lo finivano… ( si interrompe). A volte mi frena il timore di poter dire delle cose che in qualche modo potrebbero ferire».
Cosa intende?
«Non lo so. Perché abbiamo la tendenza a generalizzare - come prima, quando parlavo del fatto che i tedeschi amano tanto la musica. Ma tant’è: o si parla o non si parla».
Credo che lei non debba avere alcuna remora. La marcia verso Belsen è avvenuta nel 1944, da un inferno all’altro.
«A Belsen la gente non veniva più gasata, ma…».
Moriva di malattia e debilitazione…
«Sì, e per il disgusto di se stessa. Eravamo così sudici. Eravamo pieni di pidocchi, avevamo sempre la diarrea. Le ragazze e le donne con il ciclo mestruale non avevano niente per… Però, c’era qualcosa nella minestra che bloccava le mestruazioni. La davano anche ai soldati al fronte. Non era acido cloridrico, ma una roba terribilmente salata. Non avevamo più nessuna volontà, non eravamo più in grado di fare niente, perché eravamo così disgustate di noi stesse. Anche questo non lo dimenticherò mai: questo disgusto di se stessi, l’orribile humiliation … come si dice?».
Umiliazione.
«…e l’umiliazione che ci hanno fatto subire. Non l’ho mai dimenticato e non lo voglio nemmeno dimenticare. Dopo la liberazione di Belsen, gli inglesi hanno fatto qualcosa di molto buono: hanno portato nel lager la gente del posto più vicino. Un ufficiale scozzese mi ha chiesto: “Vuoi che te ne tiri fuori qualcuno? Potete farne quello che volete”. Gli ho risposto: “Grazie, ma non mi interessa affatto”. Ho guardato quella gente come al cinema».
Come si comportarono quei tedeschi entrando nel lager?
«Hanno voltato lo sguardo, le donne senz’altro, e anche gli uomini, quando li hanno portati davanti alle fosse comuni. Per i cadaveri putrefatti, Belsen puzzava come non ho più sentito. Avevamo dovuto trascinare i cadaveri in quelle fosse. Ci avevano dato delle corde molto grosse con le quali dovevamo legare i polsi dei morti. Poi con quelle corde abbiamo trascinato i cadaveri attraverso il lager. Ma non ne potevamo più. Siamo riusciti a smaltire cinquanta cadaveri al giorno. Alla fine i morti furono spinti tutti assieme nelle fosse con i bulldozer. Bisognava tenere in ordine».
E quando i tedeschi di quel posto lì vicino hanno visto quei mucchi di cadaveri e le fosse: come hanno reagito?
«Non riuscivano a capire. Abitavano a pochi chilometri…».
…e non sapevano?
«Ovviamente lo sapevano! Ma la gente aveva paura di dire qualcosa. È la miseria di tutte le dittature. Da un certo punto in poi non potevano mettere più piede nella Landa di Lüneburg. Romanticismo della brughiera del cavolo! Odio la Landa di Lüneburg e non voglio mai più rivederla. Abbiamo marciato per chilometri fino al lager. Anche attraverso i villaggi. Non mi dirà che i tedeschi non sapevano che c’era un campo di concentramento».
È vero che dopo la liberazione da parte degli inglesi è dovuta rimanere ancora un anno a Belsen?
«Sì, ma non è stato così brutto, perché non abbiamo più vissuto in una di quelle baracche. Grazie agli inglesi, abitavamo in una casa vera e propria. L’avevano sequestrata. Per i criteri di oggi era molto modesta, ma pur sempre una vera casa, con la cucina. Anita e io avevamo di nuovo un aspetto abbastanza curato. Avevamo di nuovo i capelli e indossavamo qualcosa di decente. Ed eravamo continuamente in viaggio. Mia sorella ha anche testimoniato nel primo tribunale per i crimini di guerra di Lüneburg».
Dopo la guerra ha vissuto dapprima in Gran Bretagna, dove ha trovato lavoro presso il servizio tedesco della Bbc, in un primo momento come segretaria, poi come moderatrice. Successivamente, ha faticato molto per riavere il passaporto tedesco.
«Non avevamo più documenti, niente di niente. Poco prima della liberazione di Belsen le SS cercarono di bruciare tutto. Allora i pennacchi di fumo non uscivano dal crematorio, ma dall’ufficio. Ovunque svolazzavano qua e là pezzetti di carta bruciacchiati. Quando percorsi il viale del lager mi volò davanti ai piedi un documento un po’ più integro. Lo raccolsi: era la mia carta d’identità tedesca».
Se lo si vedesse in un film, si direbbe…
«…che non può essere vero. Io, però, non ho conservato quel documento. A quel tempo non ero così sentimentale come forse lo sarei oggi. Quando poi Klaus e io ci siamo trasferiti a Colonia e io volevo riavere il mio passaporto tedesco, per principio, perché ne avevo diritto, dovetti riempire tanti di quei formulari che non si può immaginare. Ero stata incarcerata con l’accusa di falsificazione di passaporti. Un tribunale doveva emettere una sentenza. Sembrava uno scherzo. È andata avanti per molto».
Non ha tremato di rabbia?
«No. Probabilmente questo è uno dei motivi per cui riesco a mantenere in una certa misura il controllo di me stessa. Non riuscivo più a irritarmi per cose del genere».
Le è stato difficile tornare in Germania?
«No. Ben presto dopo la liberazione mi sono imposta di non far decidere da Hitler il resto della mia vita. Per questo non ho avuto problemi con i giovani tedeschi che ho conosciuto nel servizio estero della Bbc di Londra. E mi trovavo bene anche con la maggior parte delle persone che lavoravano con me alla televisione tedesca, a Colonia. Avevo qualche problema con Höfer».
Il giornalista televisivo Werner Höfer? A quell’epoca certamente non si sapeva che nel 1943 aveva approvato la condanna a morte di un giovane pianista.
«No, allora non lo sapevo. Era stato invitato alla nostra festa di matrimonio a Colonia. Aveva bevuto uno sproposito, e mi stava addosso. Mi guardò fissa negli occhi e mi disse: “Bella ebrea”. Roba da vomitare. Per il resto, però, non ho avuto difficoltà, come ho detto. Uno dei pochi vantaggi dell’età è il fatto che non ho più tollerato niente. Ultimamente sono andata in un caffè qui del posto, cosa che al contrario di Klaus faccio spesso, per incontrare degli amici».
Alla Croix-Velmer la conoscono molto bene…
«Ah sì, lì mi conoscono tutti. A un tavolo accanto al mio sedevano due brave persone che conoscevo e un terzo uomo, un vecchio bacucco. Parlavano della crisi economica. Allora ho sentito chiaramente qualcosa. Ho ancora un ottimo udito. E questo terzo si è messo a dire: “È tutta colpa degli ebrei!”. Allora ho respirato profondamente, mi sono alzata e ho detto a quel tipo: “Le dispiace ripeterlo?”. Ha borbottato qualcosa e se n’è andato. Con questa gente sbotto: “Non ho il naso adunco, non puzzo d’aglio. Che altro vuoi?”»
Riescono le parole a descrivere l’orrore che lei e tanti altri avete sofferto ad Auschwitz? Alcuni, anche fra i sopravvissuti, dicono che la lingua non ne è capace.
«È vero».
Ma con i suoi racconti lei riesce a far rivivere quello che è successo ad Auschwitz e a Belsen.
«Trova? Dipende anche da chi ascolta. Tempo fa mi hanno chiesto di parlare in una scuola francese. Ho chiesto alla direttrice: “Come posso spiegare a bambini di dieci anni cos’è l’Olocausto?”».
Ci ha comunque provato?
«L’ho fatto, sì. La maestra mi ha tranquillizzato: “Questi bambini vedono cose terribili, alla televisione o su internet, e non si metteranno a gridare”».
E come hanno reagito?
«Ieri ho incontrato al mercato due bambine di quella classe, graziosissime, con i capelli lunghi. La più grandicella ha detto: “Quello che ci ha raccontato è stato molto impressionante”. Io volevo soprattutto che quei bambini non si annoiassero. È importante raccontare ai bambini di dieci anni storie dove c’è a little action (ride).
Perciò dapprima ho raccontato a questa classe come ho ritrovato mia sorella, la storia delle scarpe. Ed è piaciuta molto. Poi ho raccontato come sono morti i miei genitori: “Non voglio spaventarvi; a voi non succederà niente di simile. Ma immagina che tua mamma e tuo papà…”. Silenzio di tomba. Questo silenzio mi ha colpito molto, perché sapevo che i bambini ascoltano davvero».
Nelle poche interviste che ha rilasciato lei ha più volte preso in giro gli ex detenuti dei campi di concentramento che si scompigliano i capelli e piangono quando parlano di Auschwitz.
«Sì, questo mi fa impazzire».
Non ne hanno diritto?
«No».
Perché no?
«Non lo so, mi vergogno per loro quando lo vedo. Auschwitz non consente la commozione di vecchi e di vecchie. Io la penso così, ma forse sono ingiusta».
Deve fare i conti con un sentimento che ribolle anche in lei?
«Noo! Io ribollo quando vedo alla televisione le storie commoventi che non mi riguardano personalmente. Di recente hanno dedicato una settimana al tema del cancro e hanno trasmesso un film su un ospedale per bambini. Quando l’ho visto non ho potuto fare a meno di piangere amaramente. Forse ho pensato anche alla piccola italiana, è senz’altro possibile. Ma quando persone che hanno vissuto tutto questo e hanno raggiunto un’età avanzata si mettono al centro di un’ex baracca di Auschwitz e si scompigliano i capelli, non lo sopporto. In francese si dice pudeur ».
Pudore.
«Proprio, grazie. Bisogna tenere il becco chiuso. O lo si fa, o si sta fuori. Quando tornai per la prima volta ad Auschwitz dopo la mia “vacanza” in quel posto, fummo invitati dall’ambasciata israeliana a Berlino. Anita e io abbiamo viaggiato attraverso quella campagna. Accompagnavo un ufficiale gravemente ferito nella guerra del Kippur che camminava a fatica. Con lui mi sono trattenuta ancora di più, perché sapevo che mia sorella gli avrebbe sicuramente parlato di quei tempi in modo diverso da me: più rigorosa, più intransigente, più emotiva».
Voleva evitare i sentimenti di sua sorella?
«Sì, in qualche modo volevo fare a modo mio. Quell’ufficiale aveva davvero vissuto in guerra cose terribili, ma non avrebbe potuto sopportare di attraversare quelle stanze: la stanza delle scarpe, quella dei capelli, la stanza con le valigie. Quella che mi interessava di più era la stanza dei tatuaggi dove ho trovato le scarpe di Anita».
Crede ancora alle persone, in generale?
«No, per la verità no. Ho imparato a osservare attentamente. Ora vedo attraverso le persone. Sembrerà semplicistico, ma so già come si sarebbero comportati se fossero state sedute con me in una cella».
Lo sente?
«Sì. Se la gente in qualche modo mi è antipatica. Allora mi chiedo: cosa farebbero? Mi farebbero qualcosa? Oppure: mi denuncerebbero perché ho mangiato tutta la cioccolata? Forse sono reazioni troppo elementari e troppo spontanee, ma perlopiù ci azzeccano».
(Giovanni di Lorenzo è direttore di “ Die Zeit”. Traduzione di Carlo Sandrelli)

Repubblica 11.5.14
Da Raffaello a Canova un guasto minaccia i capolavori di Roma
I condizionatori della Galleria Borghese fermi da due mesi L’allarme degli esperti: “Opere a rischio senza il clima giusto”
di Sara Grattoggi


ROMA . Soffrono le tele di Tiziano e Caravaggio, le tavole di Raffaello, i marmi del Bernini e del Canova. Alla Galleria Borghese di Roma, tempio dell’arte fra i più prestigiosi in Italia, l’emergenza si chiama climatizzazione. Da due mesi, nel nono monumento statale più visitato del 2013 (quasi 500 mila visitatori e oltre 3 milioni di incassi), l’impianto è guasto. E le temperature - uno dei fattori più delicati per la conservazione delle opere, insieme all’umidità - sono fuori controllo. Soprattutto nella Pinacoteca, culla di gioielli come l’”Amor Sacro e Amor Profano” di Tiziano, che il personale stesso ormai definisce «un forno». «Si passa dal gelo al caldo asfissiante, come in questi giorni. Per questo dobbiamo aprire le finestre - si giustifica un custode - altrimenti qui dentro si muore». Di fronte al “Ratto di Proserpina” del Bernini i vetri sono spalancati, come nella sala della “Madonna dei Palafrenieri” del Caravaggio e, al piano superiore, in quella con la magnifica “Deposizione di Cristo” di Raffaello. Ma appena si cambia stanza, si resta a bocca aperta. E, purtroppo, non solo per lo splendore del “David” di Bernini o della “Paolina Borghese” del Canova.
«Da due mesi siamo alle prese con questa emergenza - spiega Anna Coliva, direttrice del museo - L’impianto di climatizzazione, costruito nel 1997, è completamente usurato e sconta anni di cronica mancanza di manutenzione ». Se l’emergenza è recente, il problema, però, non è nuovo. «La richiesta per un nuovo impianto è già in ballo da 4 o 5 anni. Due anni fa si rifece uno dei motori, ma poi non si proseguì per mancanza di risorse - racconta Coliva - Ora, con l’ufficio tecnico della Soprintendenza al Polo museale romano, stiamo cercando di risolvere l’emergenza, con interventi per riequilibrare il clima. In attesa di poter rifare l’impianto». Nel frattempo, si tampona la situazione con le finestre aperte. «È il male minore, rispetto agli sbalzi di temperatura - sostiene la direttrice - Per fortuna il microclima del parco che ci circonda, in questa stagione, è ottimale».
Ma quella che sembra una soluzione temporanea potrebbe mettere ancor più a rischio le opere se dovesse protrarsi a lungo. «Bisogna cercare di evitarla il più possibile perché quel che entra dall’esterno, e parlo di inquinanti non solo chimici ma biologici, è fuori controllo - spiega Elisabetta Giani, fisica dell’Istituto superiore per la conservazione e il restauro - Soprattutto, ci vuole un monitoraggio costante dell’umidità, sia all’interno che all’esterno». È quello, infatti, il peggior nemico delle tele e, soprattutto, delle tavole: «Il parametro per l’umidità relativa è del 50-55 per cento, sbalzi troppo elevati possono deformare o danneggiare i materiali». Ma anche le temperature, «se dovessero superare a lungo i 30 gradi», potrebbero causare danni. Non a caso nel dicembre 2012 le “Sale blu” degli Uffizi di Firenze furono chiuse per un paio di giorni proprio per la temperatura troppo alta. E da allora il museo si è dotato di due nuove «torri evaporative» per raffreddare l’acqua usata per in condizionamento, oltre a rinnovare il sistema di climatizzazione.

Repubblica 11.5.14
Böcklin e gli altri l’eros malinconico tra sirene e rovine
Rovigo. A Palazzo Roverella le inquietudini dei maestri dell’Europa settentrionale che incantarono le Biennali
Pittori del Nord
di Lea Mattarella



ROVIGO «IL visitatore che entra in alcune sale della sezione italiana di questa quarta mostra di Venezia… non può non osservare che parecchi dei nostri pittori, specie se veneti o lombardi, si appalesano profondamente influenzati dall’arte nordica, tanto da rinunciare ad alcuni tradizionali caratteri dell’arte italiana, per presentarsi camuffati da scozzesi, scandinavi e tedeschi». Così scriveva il critico Vittorio Pica sulla rivista Emporium nel 1901 in un articolo, L’ossessione nordica, che oggi dà il titolo a questa affascinante mostra curata da Giandomenico Romanelli e diretta da Alessia Vedova, aperta fino al 22 giugno a Palazzo Roverella a Rovigo (catalogo Marsilio).
Un’esposizione nata dallo studio degli archivi della Biennale di Venezia, luogo che vede, dalla fondazione nel 1895 fino alla Prima guerra mondiale, la presenza costante di questo vento del Nord che soffia su una natura abitata da enigmi e inquietudini e si presenta sconosciuta e inafferrabile. Gli artisti stranieri come Arnold Böcklin, Franz Von Stuck, Gustav Klimt ma anche quelli oggi meno noti come il tedesco Oskar Zwintscher, lo svedese Anders Zorn e il finlandese Akseli Gallen-Kallela sono rappresentati a fianco dei pittori italiani del tempo che li hanno guardati, assimilati, a volte imitati, più spesso interpretati. In totale circa 130 opere, molte delle quali esposte alle biennali. «Tutte le opere degli scandinavi, austriaci, tedeschi, scozzesi che abbiamo raccolto sono state presentate in occasione delle diverse esposizioni internazionali di Venezia», spiega Alessia Vedova. Significa che gli italiani le hanno sicuramente viste. Fin dalle prime sale, che nella divisione della mostra per settori sono intitolate a Centauri, Tritoni, Sirene dalle Alpi alla laguna , si è invitati a un viaggio tra nebbie, notturni e tempeste. Ci sono le Rovine sul mare di Böcklin, dove si danno appuntamento gli uccelli che svolazzano torvi e tetri in un cielo nuvoloso squarciato dai fulmini. Qui, nell’oscurità, si ergono i cipressi, allusivi alla fine della vita che, infatti, dominano la sua Isola dei morti, presente in questa esposizione nella versione rivisitata da Karl Diefenbach, capace di restituire un’interpretazione ancora più misteriosa e complessa, con quelle gigantesche sfingi a custodire l’ingresso dello spettrale aldilà tra le acque. Il mondo dei morti riappare dietro al cancello di Silenzio dello svedese Richard Bergh alle spalle del quale si nasconde un cimitero. E in Italia ecco il veneziano Teodoro Wolf Ferrari che, dopo aver attraversato le tenebre in compagnia di Siegmund e Sieglinde in una suggestione wagneriana, la sua isola di cipressi la trasferisce in una laguna dominata da un tramonto rosato e mediterraneo che sembra davvero fare il verso ai maestri tedeschi. Cercando però di attenuarne il buio, la notte, il turbamento.
Il pittore italiano che più ha frequentato la luna è Mario De Maria che qui ci trasporta tra mercanti di scheletri e infuocate scene di morte e di guerra, oltre che tra i tavoli di un’osteria romana dove, a quanto pare, era stato appena consumato un delitto. Tritoni, centauri, ninfe dai corpi luminosi e sensuali sono quelli che popolano il mondo di Von Stuck e il luminoso dipinto di Max Klinger. E se in quell’universo ci si rincorre per amarsi, sostenuti dalla potenza irrefrenabile di Eros, nel celebre quadro di De Chirico, eseguito durante il suo periodo monacense come un vero e proprio omaggio a Böcklin, dov’è raffigurata la Lotta di Centauri l’energia è quella distruttiva e implacabile di Thanatos.
Chi guarda Von Stuck e lo rivisita in un linguaggio personale è il veneto Leo Putz che si è formato, proprio come il Pictor Optimus, a Monaco di Baviera. La sua Vanitas dall’audace taglio verticale è una superba prova di pittura nelle carni della donna, nelle pieghe del lenzuolo e nell’apparizione degli incubi che la accompagnano. Altrettanto interessante è il suo ritratto della Signora in blu che custodisce l’idea di un doppio e di una specularità che non sempre coincidono con la realtà. Ma anche quella donna che sta versando il tè in un interno luminoso, un gesto tipico della raffigurazione della femminilità borghese, in questo caso rivelatore di una sensualità sfacciata e inaspettata, nella completa nudità della figura. Dal Nord arrivano fanciulle la cui carica erotica è esplicita, come succede alla protagonista avvolta in un serpente dal chiaro significato simbolico de Il peccato di Von Stuck e alla moglie di Zwintscher, ritratta dal pittore in Oro e madreperla in un atteggiamento così provocante da suscitare non pochi malumori tra i visitatori benpensanti della rassegna veneziana dove era allestita, nel 1912, una sua mostra personale.
Ma c’è un altro atteggiamento femminile che arriva da queste tele ed è quello della donna che vive nell’interno protetto della sua abitazione. Ne è un felice interprete Carl Larsson che ambienta le sue scene domestiche in uno spazio molto decorato e colorato. Ma il più grande esploratore di abitazioni animate da figure assorte e enigmatiche è sicuramente il danese Vilhelm Hammershøi. Il suo Interno con donna di spalle dipinto con una tavolozza monocromatica vale da solo una visita alla mostra. Guardandolo, proprio come succede davanti ai quadri di Vermeer di cui Hammershøi è un sicuro erede, si mette in moto l’immaginazione. Chi è quella donna? Cosa sta facendo? E dove conducono quelle porte aperte? E, a proposito di bianco e nero, è sorprendente La lettura di Catullo e Clodia che sembra colorarsi lentamente sotto i nostri occhi, come fosse un film . L’assenza di colore riappare nelle incisioni di Alberto Martini o di Max Klinger, inventore di una storia sognata e incantata che ha come protagonista un guanto, diventata anche una canzone di Francesco De Gregori: un guanto precipitò da una mano desiderata.

il Fatto 11.5.14
Quando Hitler mi disse: “Oggi devo uccidermi”
L’incontro con il generale Hans Baur fedelissimo del Fürer: fu con lui fino all'ultimo giorno di vita

Nel 1983 gli era ancora legato: "Il miglior capo che uno potesse desiderare"
Tra amici, nemici, complotti, confidenze da uomini, paura speranza e ricostruzioni dubbie
"Sullo sterminio degli ebrei probabilmente il vero responsabile è Himmler, che ha fatto tutto di sua iniziativa"
intervista di Enzo Biagi


Generale Hans Baur, quando ha incontrato per la prima volta Adolf Hitler?
Negli anni Venti sono andato a una sua riunione e mi ha colpito. Gli ho parlato per la prima volta nel 1932. Allora prestavo servizio sulla linea aerea per Roma. Durante un rientro sono atterrato a Monaco e mi è stato detto: “Signor Baur, il signor Hitler vorrebbe noleggiare un aereo”. È stato un incontro molto cordiale. “Tra poco avremo le elezioni. La propaganda elettorale ha senso unicamente se è immediata”, mi ha detto. Il Reich tedesco era molto esteso e percorrendolo in automobile o in ferrovia, nel caso migliore, Hitler avrebbe potuto partecipare solo a poche riunioni. Noleggiando un aereo era possibile presenziare a quattro o cinque comizi in ventiquattro ore. Siamo riusciti a essere presenti su centottantatre piazze. “Se andrò al potere, costituirò un corpo di aviatori governativi e lei sarà il capo”, mi disse alla fine del grande tour. Così è stato.
Quali altre personalità politiche ha trasportato durante la sua carriera?
Durante la guerra dovevo prelevare i feldmarescialli dal fronte per portarli dal Führer e poi tutti i capi di Stato, alcuni esempi: il vice primo ministro rumeno Antonescu; re Boris, lo zar bulgaro; Horty il reggente del Regno d’Ungheria, il finlandese Mannerheim; il Nunzio apostolico Pacelli, che poi è diventato Papa Pio XII.
Lei ha avuto a bordo Benito Mussolini?
Sì, e non soltanto una volta, molte. Mussolini era lui stesso pilota, ma gli aerei Condor che avevamo in dotazione erano troppo per lui. Il Condor gli piaceva molto, e Hitler mi ha detto: “Vorrei regalarne uno al Duce”, e io gli ho risposto: “Non lo faccia perché poi qualunque cosa accada lei ne sarà responsabile. Per portare un aereo di questo tipo uno deve essere veramente un buon pilota. Il Führer aveva una grande stima di Mussolini”.
Generale Baur, com’era il suo rapporto con Hitler?
Hitler era il miglior capo che uno potesse desiderare. Dopo le elezioni del ’33 che lo hanno nominato Cancelliere, mi ha detto: “Lei ha svolto il suo compito in modo eccellente, e la mia casa sarà aperta per lei giorno e notte, può andare e venire quando vuole. È stato così. A Berlino ero solo perché la mia famiglia viveva nel Sud, e tutte le volte che mi trovavo in città pranzavo e cenavo con Hitler.
Come era la vita nella Cancelleria del Reich durante la guerra?
La vita di Hitler, durante la guerra, era molto dura, e c’è da stupirsi che l’abbia sopportata per sei anni. Due riunioni al giorno: la prima a mezzogiorno dove si discuteva della situazione militare, l’altra era a mezzanotte e non finiva mai prima delle tre o delle quattro del mattino. Dormivo due o tre ore a notte: non era un problema.
Lei ricorda del Führer i momenti in cui è apparso particolarmente provato o quelli in cui
era contento?
Le sconfitte erano i momenti peggiori, la vittoria, invece, lo eccitava. Quando si trovava in una cerchia ristretta di persone, era un buon compagno, parlava liberamente e si curava molto di coloro che gli stavano attorno. Ricordo che allora mi ero appena sposato, e se una sera non mi presentavo a cena mi chiedeva dove ero stato e mi diceva che le berlinesi erano belle ragazze, e non voleva che tradissi mia moglie.
Cosa accadeva nel bunker durante le ultime settimane?
Si trattava di un rifugio relativamente molto piccolo, la camera del Führer misurava due metri per tre, un piccolo divano per due persone. Davanti alla sua stanza c’era un locale che fungeva da sala da pranzo dove prendevamo i pasti.
Come ha vissuto la morte della famiglia Goebbels?
È stata una vera e propria tragedia. Ricordo che il 15 aprile 1945 passeggiavo nel giardino della Cancelleria, guardavo gli allestimenti per la difesa: cannoni e mortai, ero con il Führer, improvvisamente è arrivata frau Magda, la moglie di Goebbels. Hitler le si è avvicinato: “Cara signora, mio Dio, lei è ancora a Berlino? Le metto subito a disposizione la mia casa di Berghof in Baviera, sulle Alpi, là non può accadere nulla a lei e ai suoi bambini. Andatevene, questa è ormai solo una trappola per topi”. La signora Goebbels supplicante: “Mein Führer, devo rivolgerle una richiesta, per favore, mio marito è il sindaco della capitale, se davvero i russi dovessero entrare lui cadrà assieme alla città. La vita non ha scopo alcuno per me senza di lui. Non ho messo al mondo i miei sei bambini perché vengano portati in giro per Unione Sovietica come attrazione da baraccone, come i figli del propagandista Goebbels. Vorrei pregarla di lasciarmi stare accanto al mio sposo”. Da quel momento in poi anche la signora Goebbels ha alloggiato nel bunker con i bambini. Negli ultimi giorni piangeva spesso, diceva: “Questa vita è molto difficile per una mamma”. Quello che è accaduto l’ho saputo da Voss. L’ammiraglio era solo e stava mangiando. Improvvisamente è entrata Frau Magda che gli ha chiesto: “Ha visto un medico entrare nella camera dei bambini?”. Voss ha risposto: “Sì, è appena passato qualcuno con un camice bianco”. La signora è andata anche lei nella camera, dopo mezzora è tornata dall’ammiraglio e ha detto: “Per noi sarà più facile morire, abbiamo superato il peggio”. In quel momento i bambini erano stati uccisi. Goebbels è rimasto fino alla fine, fino alla morte del Führer si è occupato di tutto. Posso dire semplicemente che non era soltanto un grande propagandista, era anche un uomo d’animo forte, degno di tutto il rispetto.
È vero che negli ultimi giorni lei ha fatto partire un aereo con il materiale d’archivio o con i diari di Hitler?
Andò così: verso il 20 aprile tutti i miei aerei, una dozzina, sono stati fatti partire, questo avveniva di notte. Il Führer aveva dato ordine di portare al Sud, a Salisburgo e a Monaco, tutto il materiale che a Berlino avrebbe potuto essere distrutto. Il 25 aprile un aereo pilotato dal mio attendente Arnd è partito con i documenti militari di Hitler, insieme a quelli personali delle sue azioni, ma l’aereo non è mai arrivato a Monaco e di Arnd non ho mai più saputo niente. Quando l’ho detto al Führer è impallidito ed è diventato furente. Se i documenti non fossero stati importanti non avrebbe avuto quella reazione.
Nella Cancelleria del Reich si è parlato qualche volta delle persecuzioni contro gli
ebrei?
Questa è stata una sorpresa anche per me: quando ero in prigione i russi mi hanno detto: “Avete ucciso milioni di israeliti”. Per me era come una fiaba, noi non sapevamo niente di queste storie. Se davvero è successo qualcosa, sono certo che il Führer non ne era al corrente. Probabilmente il responsabile è Himmler, che ha fatto tutto di sua iniziativa. Di tutto viene accusato Hitler, ma non è assolutamente vero.
Ricorda della reazione di Hitler ai tentativi di Göring e di Himmler di avviare delle trattative separate con gli Alleati?
Sì, è stato il 25 aprile. È giunto un telegramma di Göring al Führer che diceva: “In base alla seduta del Reichstag in data tal dei tali, io sono stato nominato suo naturale successore. Attualmente lei si trova accerchiato a Berlino e dispone di un potere di comando limitato, la prego di passarmi i poteri”. Noi eravamo completamente tagliati fuori dal mondo esterno, le notizie le apprendevamo via radio trasmesse dagli americani. Una fra le tante diceva che Go-ring aveva iniziato delle trattative con gli Usa. Il Führer si è molto arrabbiato. Io dormivo in camera con Bormann e ricordo che a mezzanotte è venuto da me e mi ha detto: “Signor Baur, legga questo dispaccio, devo cercare di farlo avere in qualche modo a Göring”. Il testo era pressappoco il seguente: “L’azione da lei compiuta è alto tradimento e secondo la legge tedesca viene punita con la morte. Tenendo in considerazione il servizio da lei prestato alla Germania mi astengo da tale punizione, ma esigo che lei mi presenti immediatamente le sue dimissioni”. Da quel giorno in poi Go-ring è stato escluso dalle file nazionalsocialiste.
Signor Baur, quando ha lasciato Berlino?
Proprio alla fine. Il 30 aprile tutto era concluso e il primo maggio ce ne siamo andati. La sera prima mi ero congedato da Hitler, mi ha fatto chiamare e mi ha detto: “Vorrei accomiatarmi da lei”. “Mio Dio, mein Führer, non vorrà farla finita?”, gli ho risposto. “Sì, purtroppo è giunto il momento. I miei generali e i miei ufficiali mi hanno tradito e venduto, i miei soldati non mi vogliono più e io stesso non me la sento di continuare”. “Abbiamo degli aerei che possono volare per diecimila chilometri, la posso portare dove desidera”. Mi ha risposto: “No, per me è assolutamente fuori questione lasciare la Germania. Potremmo resistere ancora qualche giorno, ma ho paura che poi cadrei nelle mani dei russi, mi rinchiuderebbero in una gabbia di ferro e mi porterebbero in giro per il mondo, quindi la faccio finita”. Durante la notte si sparò un colpo di pistola. Come sono uscito dal bunker sono rimasto gravemente ferito, colpito alle gambe, al petto e a un braccio, mi sono rifugiato in una casa in fiamme, il quadro è andato bruciato con tutto il resto che avevo in uno zaino.
Cosa è successo dopo la sua fuga dal bunker?
Ero ferito gravemente, i russi mi hanno tenuto per sei giorni insieme agli altri generali, senza farmi cure particolari. Ogni mattina si presentava un commissario che mi chiedeva dove avevo portato Hitler con il mio aereo. I russi sapevano che volava solo con me e pensavano che l’avessi aiutato a fuggire. Poi, finalmente, hanno cominciato a curarmi: mi è stata amputata una gamba perché, nel frattempo, era subentrata la setticemia. Dopo sei mesi di sanatorio sono finito in un campo di concentramento. Ero il prigioniero più felice: mentre i miei camerati si lamentavano di tutto, io ero contento perché potevo finalmente vedere degli alberi e non soltanto un filo di cielo.

il Fatto 11.5.14
Una devozione premiata con “Federico il grande”
Poco prima di morire il dittatore regalò un quadro al suo pilota

poi il veleno al pastore tedesco e a Eva Braun
Quindi lo sparo
di Loris Mazzetti


Sono passati pochi giorni dalla ricorrenza della fine dei due dittatori, Hitler e Mussolini, essi hanno determinato la storia della prima metà del Novecento e che, a distanza di sessantanove anni dalla loro morte, continuano a essere i simboli della destra violenta e xenofoba. Nelle piazze europee, gli assembramenti di giovani, che si sentono, o fascisti del terzo millennio, o nazisti che credono nel Mein Kampf (il pensiero politico di Hitler), sono in costante aumento. A Milano, il 29 aprile, in occasione del ricordo di Sergio Ramelli, studente del Fronte della gioventù, morto nel 1975 dopo un’aggressione di militanti di Avanguardia operaia, erano oltre mille i camerati che hanno sfilato urlando slogan fascisti e facendo il saluto romano. Sempre il 29 aprile ma del 1945, il corpo senza vita di Benito Mussolini, veniva appeso per i piedi in piazzale Loreto, mentre a Berlino Adolf Hitler, nel bunker costruito nel giardino della Cancelleria, firmava le tre copie del suo testamento (solo per il copyright della sua immagine sui francobolli aveva incassato cinquanta milioni di marchi del Reich), congedando per sempre frau Junge, la fedele segretaria. Nel pomeriggio aveva dato ordine di avvelenare il suo pastore tedesco Blondi, che lo seguiva ovunque. Alle 3,30 del 30 aprile, gli ultimi superstiti udirono uno sparo. Hitler si era tirato un colpo di rivoltella in bocca, lo trovarono riverso sul divano, accanto a Eva Braun, sua moglie da un giorno, che con i denti aveva rotto una capsula di cianuro. Nella piccola stanza, vicino ai due corpi, un rossetto, un mantello grigio pendeva dall’attaccapanni con sopra un berretto con l’insegna dorata del partito e un paio di guanti di pelle.
L’AMMIRAGLIO Karl Doenitz, nuovo presidente del Reich, annunciò la morte alla radio: “Il nostro Führer Adolf Hitler è caduto”. Seguì un commosso elogio del defunto. L’intervista di Enzo Biagi, che il Fatto Quotidiano pubblica oggi, è al devoto pilota Hans Baur, che ebbe tutta la fiducia e la confidenza di Hitler. Il Führer non sarebbe mai salito su un aereo se alla guida non ci fosse stato lui. Baur fu nominato generale. Il 30 aprile 1945, poco prima della morte di Hitler, vi fu l’ultimo colloquio tra i due. Il pilota lo supplicò perché si salvasse, era pronto a volare in Argentina, o in Giappone, o in qualche paese arabo, dove vi erano antisemiti amici. Hitler non credeva più in una possibile svolta della guerra, con un ultimo atto volle premiare la devozione di Baur, regalandogli il ritratto di Federico il Grande, a cui era affezionato: “Non voglio che vada perduto. Deve restare per i posteri. Ha un valore storico”. E poi salutandolo aggiunse: “Voglio che sulla mia tomba sia scritta questa epigrafe: ‘Fu vittima dei suoi generali’”. Biagi realizzò l’intervista per il programma Questo secolo: 1943 e dintorni, in onda su Rai 1 nell’ottobre 1983. All’epoca Baur aveva ottantasei anni e ne aveva trascorsi, dopo la fine della guerra, dieci nelle prigioni russe. L’intento del grande cronista fu quello di ricercare i personaggi illustri, o le figure emblematiche, visitare i luoghi entrati nella storia: da Stalingrado alle spiagge della Normandia, dal Tribunale di Verona a quello di Norimberga, con lo scopo di mantenere viva l’attenzione su quelle vicende per timore che negli anni si potesse ripetere ancora qualcosa di simile. Scrisse: “Le memorie riaffiorano, gli aneddoti affluiscono nei racconti di chi ha sofferto quella stagione crudele, e anche carica di speranze: ma è difficile rivederla con gli occhi di allora e, soprattutto, giudicarla senza manicheismi, al di sopra della polemica”. Sono passati oltre trent’anni dalla realizzazione del programma, siamo alla vigilia delle elezioni Europee, proporre l’intervista al generale Baur è un modo per ritornare a quei giorni neri, per guardarsi dentro, per misurarsi, perché il passato, soprattutto per chi non lo ha vissuto, può dare un senso di esaltazione, di superiorità anche ingiustificata, portando, inevitabilmente, alla negazione dei valori fondanti della democrazia. Questo accade nella società quando vi è una grave crisi economica sommata alla mancanza di punti di riferimento. La gente è portata, nella disperazione, a inseguire chi sa parlare alla pancia, chi promette di abbattere il nemico: la casta che si arricchisce attraverso la corruzione e contemporaneamente impone sacrifici, o lo straniero raccontato come l’incubo del posto di lavoro.

Il Sole Domenica 11.5.14
L’ora di religione
Italiani, analfabeti divini
Una ricerca evidenzia come nel nostro Paese l'ignoranza della Bibbia sia totale e che sulla dottrina vi siano idee assolutamente fantasiose
di Alberto Melloni


Gli storici dell'educazione hanno spiegato da tempo perché il grande successo di alfabetizzazione che per l'Italia segna una punta nell'età giolittiana non venga più celebrato, ma anzi colto nella sua insufficienza all'indomani della liberazione. Finito il fascismo, la scuola che aveva costruito l'Italia liberale finisce sotto la lente di osservazione di chi vi vede una discriminazione di classe nella quale era prefigurata in nuce la stessa svolta autoritaria del Paese. Nella severità di quell'analisi si rafforza l'idea che la costruzione di una democrazia sostanziale abbia bisogno di rimediare quel "reato" (espressione di don Milani) perpetrato ai danni delle classi subalterne.
È lo Stato il protagonista dell'impegno fissato dalla Costituzione repubblicana: il soggetto di una scuola comunque pubblica (ad populum) aperta al concorso di una scuola privata costruita «senza oneri» per lo Stato. Quella clausola voleva impedire che le componenti ideologiche della società italiana potessero privatizzare la formazione dei propri figli, costruire una scuola come replicante dell'orientamento ideologico della famiglia con un danno che o per via politica o per via sociale avrebbe pure riverberato a discapito del cattolicesimo romano – con la sola eccezione della scuola ebraica, tutelata perché laddove una piccola minoranza ferita dalle politiche razziste e genocidarie cercava la salvaguardia di una sua specificità contribuiva e non sottraeva coesione alla società. Questa visione pubblicisitica passa anche dalla tv: nel 1960 Non è mai troppo tardi del «maestro Alberto Manzi» forma la prima classe virtuale della storia europea non serve a riscattare l'ancor vasta platea di analfabeti primari o di ritorno che hanno nei partiti di massa o a Barbiana le loro antenne, ma a formare un giudizio comune su e contro l'analfabetismo come parte delle politics fasciste, lotta che il centro-sinistra trasformerà nelle policies politica della scuola "unificata", volta a sconfiggere l'analfabetismo profondo, come piaga endemica della società italiana.
Ciò che resta invece immutata è la convinzione che l'alfabetizzazione debba avere due poli culturali precisi e pensati, che si impongono nel percorso secondario: il polo della letteratura e il polo della storia. La quantità di storia e di letteratura insegnata agli scolari segna il divide di classe e nella riforma Gentile è il filtro delle classi dirigenti. Si versa conoscenza là dove si percepisce che esiste oggetto conoscibile ed atto intellettuale al quale si può essere "educati": con una graduazione che ha in Croce e Gentile la sua spiegazione. Davvero marginale, invece, è la percezione di altri analfabetismi, e non di scarso peso, che percorrono la società italiana di allora. Ma che in larga parte corrono lungo l'intero Novecento. L'analfabetismo religioso italiano non è l'unico di cui ci si dovrebbe preoccupare, ma non è per questo di scarso peso. Se lo si intende come l'accettata mancanza di strumenti di conoscenza di una esperienza di fede, i testi sacri che la fondano, le sue pratiche culturali, le norme interne ed esterne, i dinamismi storici che la percorrono e la modificano – esso è parte integrante della storia italiana. Infatti la mancanza di strumenti per capire il vocabolario del religioso e per analizzarne i dinamismi non viene da un "dato" sociologico, ma dalla storia. Si tratta di un analfabetismo che non si identifica grazie a paradigmi storiografici in voga e non si esaurisce nel paradosso di una scuola che dedica la più celebre "ora" a un insegnamento che dipende dall'autorità apostolica del vescovo, ma che si sforza di presentarsi come strumento di cultura incardinato in una antropologia "cristiana", come se il cristianesimo avesse una antropologia atemporale. Una comprensione storica dell'analfabetismo religioso, tuttavia, non è operazione semplice come la polemica sull'ora di religione o che ha a che fare, ma non si spiega semplicemente come un capitolo dei rapporti Stato/chiesa. Nessuno vuol negare il peso della mentalità privilegiaria né negare che l'approdo di nuovi alfabeti confessionali e religiosi nell'Italia repubblicana ha reso più evidente il problema. Ma questo primo "rapporto" postula che le ragioni dell'analfabetismo religioso siano di più lungo periodo ed affondino le loro radici in una perdita di strumenti che risale nella sua stratificazione più profonda all'epoca posttridentina e più plasticamente è rappresentata dalla soppressione dei primi decenni dello Stato unitario. Il paesaggio culturale oggi è quello di un Paese dove è rilevabile statisticamente l'ignoranza totale della Bibbia, la produzione di idee fantasiose sulla struttura dottrinale o cultuale della fede nella quale si era nati, la superficialità con la quale si leggono le fedi estranee al proprio immaginario infantile.
Con buona pace del ritornello sul Paese "cattolico" e senza sminuire la portata di quei sette milioni di fedeli che entrano in una chiesa parrocchiale o in un santuario la domenica, l'analfabetismo religioso di cui soffre l'Italia è vasto e merita di essere posto sotto osservazione, come fa questo rapporto, inizio di una collaborazione fra il ministero dell'Istruzione dell'università e della ricerca, la fondazione per le scienze religiose, la vasta rete di collaborazioni che questa infrastruttura del sapere coltiva da sempre.
L'analfabetismo religioso, infatti, grava su una società che è pluralista de facto e che però non ha gli strumenti critici per trarne le conseguenze nello spazio pubblico su tre livelli: il primo è quello della scuola, dove non si esce da una contrapposizione sterile; il secondo è quello della produzione legislativa sulla libertà religiosa; il terzo è quello della ricerca: una indagine comparativa della stessa definizione epistemologica di questi saperi potrebbe già indicare con quanta difficoltà si muovono discipline scientifiche che, ogni volta che possono, si sottraggono alla collaborazione e alla possibilità di essere considerate come un insieme. L'analfabetismo (del) religioso è una piaga non meno grave di quella costituita dall'analfabetismo tout court: i dati internazionali oggi a disposizione spiegano che il problema è quanto mai vasto e diffuso sia in Europa, sia fuori. Il contesto italiano ha delle specificità che vanno conosciute e pensate, per poter fornire all'Unione di cui è parte e al Mare di cui è sponda non soluzioni passpartout che non ci sono, ma un esemplare sforzo di intelligenza.

Brano tratto dal volume L'analfabetismo religioso in Italia. Actio finium regundorum, in Rapporto sull'analfabetismo religioso in Italia, a cura di Alberto Melloni, Il Mulino, Bologna, 2014, pagg. 527, € 38,00

Il Sole Domenica 11.5.14
Prove neuroscientifiche
Un imputato o un cervello?
Le scansioni cerebrali aiutano a capire come pensiamo. Sul fronte della responsabilità personale non dicono però nulla di rilevante
di Michael Gazzaniga


Le mie ricerche nel campo delle neuroscienze e il mio interesse per le questioni bioetiche e neuroetiche (compresa la mia partecipazione al comitato presidenziale americano per la bioetica) mi hanno portato a studiare anche l'ambito di intersezione tra scienze del cervello e diritto. In particolare, nel 2006 fui invitato, insieme con altri studiosi di vaglia, al convegno organizzato a New York dalla Fondazione MacArthur in vista di un programma di ricerca sulle nuove frontiere della biologia. Il neurobiologo della Stanford University Robert Sapolsky propose un'idea che balzò immediatamente in cima alla lista delle proposte più interessanti: rinnovare il diritto sulla base delle acquisizioni neuroscientifiche. Venni scelto come capo del comitato il quale ebbe l'incarico di sviluppare quell'intuizione, culminata poi in un progetto che ha coinvolto giuristi, filosofi e neuroscienziati.
Uno dei temi più discussi e controversi in quest'ambito è quello delle prove neuroscientifiche portate in tribunale. Esse possono rivelarsi genuine fonti di prova così come elementi che introducono un pregiudizio o una distorsione nei verdetti. Ovviamente, tutte le prove scientifiche hanno una storia propria nel peso che assumono all'interno del processo. Così sta avvenendo per le neuroimmagini, sia strutturali sia funzionali. Il fatto di poter vedere cambiamenti o differenze all'interno del cervello grazie a un'immagine colorata comincia a influenzare le decisioni giudiziarie. Ma le neuroimmagini funzionali possono fornire soltanto una probabilità del legame tra un cambiamento nel cervello e un particolare stato (mentale). Inoltre, i risultati delle scansioni sono di solito tratti dalla media delle analisi di numerosi cervelli, diventa perciò difficile stabilire il significato di un certo schema di funzionamento cerebrale riferito a uno specifico imputato. È questo il motivo per cui la maggior parte dei giuristi e dei neuroscienziati concorda nel ritenere che sia forse troppo presto per portare in aula le neuroimmagini in quanto tali come prova diretta.
Ciò non significa, tuttavia, che esse non diventeranno sempre più comuni all'interno del processo. In questo senso, vanno considerati alcuni importanti elementi. Le neuroimmagini sono una specie di bersaglio mobile, si tratta di una tecnologia in continuo miglioramento, non si può quindi prevedere che ruolo assumeranno in futuro. Analizzando la letteratura recente, mi pare comunque che vi sia una fortissima pressione perché le neuroimmagini diventino un fatto di routine nei tribunali. E ciò potrà avvenire in 10-15 anni.
Un altro versante assai discusso riguarda la possibilità che le neuroimmagini sostituiscano i tradizionali test psicologici per la diagnosi di psicopatia. Ci si chiede se esse potranno individuare l'egocentrismo e la mancanza di empatia direttamente nel cervello delle persone. Certamente, gli strumenti di analisi dei dati cerebrali progrediscono rapidamente e i neuroscienziati hanno l'opportunità di comprendere i processi neurobiologici all'opera quando ci si trova in un certo stato cognitivo. Ciò può aiutare a stabilire se un individuo ha un'anormalità biologica. Tuttavia, queste tecniche sono troppo recenti per soddisfare i rigorosi standard fissati per l'ammissibilità in tribunale, come avviene per il test del Dna. Forse non riusciranno mai a soddisfarli, ma questo non esclude che un giorno le corti potrebbero decidere di utilizzarli per individuare stati cerebrali patologici. Penso che la prossima svolta nell'utilizzo delle neuroscienze in tribunale probabilmente sarà proprio nella diagnosi della psicopatia.
Quando si parla di scienze del cervello e diritto, un tema chiave è quello della responsabilità. C'è chi pensa che il concetto di responsabilità sia destinato a evaporare. Ma io penso che, per quanto le neuroscienze ci forniscano una migliore comprensione di come pensiamo e percepiamo la realtà, non possono dirci nulla di rilevante sulla responsabilità personale. Come ho argomentato nel mio recente libro Chi comanda? (Codice Edizioni), la responsabilità è un concetto legato a un contratto sociale tra le persone. Ci si muove a un livello di analisi del tutto diverso. Per cui, qualunque sarà il grado di sofisticazione raggiunto dallo studio del cervello, l'analisi delle responsabilità non ne sarà toccata. Anche il senso del sé che usiamo nelle nostre interazioni quotidiane resta al di fuori della ricerca neuroscientifica. Se parliamo con qualcuno, non pensiamo di parlare al suo cervello, ma con una persona; attribuiamo automaticamente l'idea di persona ai nostri interlocutori umani. Per così dire, in quel frangente siamo dualisti, perché percepiamo gli altri come persone.
D'altra parte, malgrado questa intuizione ingenua di qualcosa che va oltre il puro funzionamento del cervello, già si parla della possibilità di usare le neuroimmagini per prevedere il comportamento violento delle persone. Se le neuroscienze riusciranno a raggiungere un buon livello di affidabilità nel prevedere la probabilità che qualcuno commetta un delitto, tale conoscenza non potrà però essere facilmente introdotta nel sistema penale, per come esso è strutturato attualmente. Il nostro diritto non permette la carcerazione preventiva di un possibile criminale. Sapere che qualcuno ha un'alta probabilità di ripetere un reato non può costituire la base per un'azione legale. Si tratterebbe di un dilemma interessante e lacerante. In tutto questo, emerge il dubbio sulla competenza dei magistrati nel padroneggiare le nuove acquisizioni delle neuroscienze. In media, giudici e giurati non conoscono i dettagli scientifici delle analisi delle tracce di sangue o delle impronte digitali, né del test del Dna, ma hanno spesso a che fare con rapporti che contengono gli esiti di tali esami. Ugualmente, non penso che abbiano la necessità di sapere che cosa accade quando si realizza una neuroimmagine, fintanto che capiscono come si possa utilizzare per sostenere o rigettare un argomento di prova. E queste regole possono essere fissate soltanto dalla legge.
(traduzione di Mario De Caro)

Il Sole Domenica 11.5.14
Rileggere Abramo
Tragico epilogo di una fede ottusa
di Gianfranco Ravasi s j.


«Così nella chiesa bianca della mia infanzia / era ritratto l'evento. Un capro / d'improvviso usciva dallo sterpeto / e una mano alla fine dolcissima fermava / la lucida lama prossima alla carne pura. / Sulla stessa montagna / mi condusse fanciullo mio padre... / O Signore mio, amato e crudele!». Così David M. Turoldo, in una ballata dedicata a uno dei più drammatici eventi della saga patriarcale della Genesi (c.22), evocava l'esito finale di quell'oscura e sconcertante ascesa di Abramo lungo il pendio del monte Moria, stringendo la piccola mano del figlio Isacco. Sui due incombeva minaccioso l'imperativo divino sanguinario: «Abramo, prendi il tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco e offrilo in olocausto sul monte che io ti indicherò!».
Un imperativo che – oltre a essere scandaloso e legato a una truce prassi rituale pagana – contraddiceva ed elideva la stessa promessa divina che aveva donato proprio quel figlio alla vecchia coppia di Abramo e Sara ormai sterili. Attorno a questo paradosso si avvolge tutto il filo della tensione narrativa che approda all'istante tragico quando le ragioni della fede riescono a vincere quelle della paternità e Abramo alza la mannaia, dopo aver legato (l''aqedah, in ebraico la "legatura" sacrificale, che il giudaismo assumerà a simbolo della Shoah) il figlio sull'ara per un gesto immorale di fede. L'immaginazione corre alla tela di Rembrandt all'Ermitage che introduce l'estremo sussulto di amor paterno con la sinistra di Abramo che copre gli occhi di Isacco perché non veda la destra che impugna l'ascia.
Anni fa tentai di inseguire la tradizione teologica, filosofica, artistica, letteraria e musicale sbocciata da questa straordinaria pagina biblica, ma alla fine dovetti desistere a causa della massa enorme di materiale che si accumulava. Persino l'avvio della Ricerca del tempo perduto di Proust si affaccia su «un'incisione tratta da Benozzo Gozzoli e regalatami dal signor Swann nella quale Abramo dice a Sara che deve staccarsi da Isacco». Appariva già qui una sorprendente interpretazione della scena: il sacrificio di Isacco è il distacco dalla madre. Sì, perché attorno all'ordalia del Moria si sono addensate le più svariate ermeneutiche: quella psicanalitica di Linard de Guertechin vi vedeva il contrasto tra la paternità tirannica e la filiazione che non può essere considerata possesso; la lettura antropologica di Girard intuiva nel capro immolato da Abramo alla fine il sostituto della violenza sociale che intercorre tra le generazioni e le componenti di un popolo; l'interpretazione politica di Kolakowski trasformava la scena in una parabola della ragion di Stato e dei suoi crimini avallati in nome di Dio; l'analisi filosofica di Kant smitizzava quel comando riportandolo, a causa della sua realtà immorale, all'inganno satanico.
Penso, comunque, che l'analisi più acuta sia stata elaborata da Kierkegaard nel suo Timore e tremore che nel racconto scopriva il paradigma della fede autentica e suprema. Per essere tale, essa deve spogliarsi anche dell'appoggio palpabile e concreto del figlio donato da Dio. Attraverso questa nudità assoluta Abramo non solo raggiunge la vetta della fede ma riottiene il figlio veramente come frutto esclusivo della promessa divina, dato che il padre aveva lassù rinunciato al figlio carnale. Per questo, continuava il filosofo danese, Dio aveva richiesto la fede al livello genuino e totale a colui che sarebbe diventato il "padre dei credenti", comportandosi come la madre che, per svezzare e rendere autonomo il figlio, lo stacca dal seno, in un gesto d'amore altissimo che invece il bambino sente come un rigetto.
Ebbene, Kierkegaard nel suo saggio ipotizzava liberamente esiti diversi della vicenda: ad esempio, Abramo, giunto sulla cima del Moria, si sarebbe potuto ritrarre, ridiscendendo col figlio sotto le tende di Mamre. Anche un filosofo contemporaneo di rilievo come Ermanno Bencivenga – a cui dobbiamo testi di grande suggestione anche per un pubblico più vasto e che ha rivelato un interesse profondo per un'interlocuzione con le questioni di fede – ha voluto immaginare un'alternativa alla narrazione biblica sovrapponendo a essa una tragedia in tre atti con un finale orribile. Abramo esegue senza riserve l'ordine divino trasmessogli dai tre misteriosi viandanti che lo avevano visitato nel suo accampamento (Genesi 18-19). Sarà il servo che aveva accompagnato Abramo e Isacco a descrivere quell'atto terribile intravisto da lontano, ai piedi del monte, nel contorno del cielo: Isacco «volge le spalle al padrone, che a un tratto lo afferra e gli chiude il collo in una morsa e solleva il coltello... e colpisce Isacco... alla gola... e il suo corpo, che prima... era teso come un arco, ... si rilascia, si allenta... ».
La madre Sara impazzisce per il dolore, Abramo rientra torvo nella sua tenda. Ma è qui che inizia lo sbalorditivo ribaltamento della vicenda attraverso il ritorno dei tre messaggeri divini che erano venuti a recargli il comando di morte. Era in quell'assurdo imperativo la vera prova della fede del patriarca, una prova purtroppo fallita. Infatti, «la prova era avere abbastanza fede in Dio da saper rifiutare quelle parole perché la tua fede ti insegnava che non potevano venire da Lui, non potevano essere quel che Lui voleva da te, che ti chiedeva di fare». In pratica quella di Abramo è stata una fede aberrante, fondamentalista, ottusa che si opponeva alla verità dell'amore in nome di un dio idolatrico. Il vero Dio non esige mai che la sua creatura rinunci alla sua dignità, alla sua libertà, all'amore. E Abramo alla fine, dopo un travaglio di conversione, confessa: «La mia non era davvero una scelta. Ho tradito mio figlio, la mia casa e il mio Dio; l'ho fatto per niente. Sono solo un pazzo... Un folle tace anche quando parla, è muto anche quando strepita... Mi è rimasto solo il silenzio, e nel silenzio spegnerò la mia vita».
Ma a questo punto c'è nel dramma di Bencivenga una sequenza finale che lasciamo alla decifrazione del lettore, immersa com'è nell'alone onirico del prodigio. Noi, invece, ritorniamo a Kierkegaard e a una sua folgorante considerazione che colpisce il cuore profondo del dramma di Abramo: «La fede è la più alta passione di ogni uomo. Ci sono forse in ogni generazione molti uomini che non arrivano fino a essa, ma nessuno va oltre».

Ermanno Bencivenga, Abramo. Tragedia in tre atti, Nino Aragno,
Torino, pagg. 66, € 8,00

Il Sole Domenica 11.5.14
Paul Cliteur
Ateismo poco definito
di Gaetano Pecora


Capita con i libri quello che talora succede con gli atleti che non reggono la distanza: dopo uno scatto iniziale – sciolto, fulmineo – è come se si impigliassero nei loro movimenti e alla fine giungono al traguardo ondeggianti e quasi di mala voglia. Così è per questo saggio di Paul Cliteur le cui riflessioni al principio corrono via senza peso e trascinano il lettore dietro gli sviluppi di un ragionamento che è del tutto consequenziale nella sua professione di ateismo. Ateismo, badiamo bene, che deve essere inteso alla lettera, proprio così e non diversamente: "a", trattino, "teismo". L'a, è un'alfa privativo che nega quello che viene dopo. Sicché, per Cliteur l'ateo non è colui che resiste a Dio, a un Dio qualunque, purché Dio sia; no, l'ateo, in quanto non-teista, ricusa un Dio soltanto; quello che abbraccia in un medesimo giro i cristiani, i musulmani e gli ebrei i quali trovano la loro misura iniziale sempre e unicamente lì, in un Padre che essi, concordemente, vogliono: a) creatore, b) onnipotente e c) infinitamente buono.
Dunque, non è Dio, Dio in generale, ma questo Dio particolare che resta sospeso in dubbio nella sensibilità atea, recalcitrante come questa sensibilità è a lasciarsi straziare da dissidi incomponibili ove mai si accogliesse l'indole contrastata del dio teistico. Sì, proprio: «contrastata» perché due delle prerogative divine, messe insieme nelle parole, di fatto tirano per parti opposte e si contraddicono tra loro. Data la presenza del male nelle vicende umane, come si concilia l'onnipotenza con la bontà divina? O Dio è onnipotente e non impedisce il male perché non lo vuole fare (e allora è cattivo); o Dio è buono ma non cancella il male perché non può farlo (e allora è impotente). Argomento antico, si dirà. E certo si dirà bene. Antico, però, non frusto perché dal tempo dei tempi non smette di inquietare i credenti i quali, di solito, sforzano la stretta del dilemma in due modi: ora appellandosi alla saggezza di Dio che però è imperscrutabile nei suoi disegni (ed è una petizione di principio perché si dà per presupposta precisamente l'esistenza di quella divinità che gli atei contestano); e ora invece negano alla radice il problema del male, dichiarandolo bene perché viene da Dio e per il fatto stesso che è Dio a volerlo. Qui il bene diventa né più né meno che un predicato del comando divino, sicché quel che Dio comanda è bene appunto perché è comandato da Dio. Col che l'etica cade dall'alto sugli umani e sollecitandoli ab extra prende quel carattere eteronomo che è poi il vero punto d'inciampo con la morale laica, la quale – come scrive Cliteur – o è autonoma o non è. Solo che, smarrite le buone stelle degli inizi, quelle che gli hanno dato la mossa nella polemica anti-teistica, Cliteur pasticcia un po' con l'«autonomia» laica tirandovi dentro pensieri che in punto di principio starebbero meglio altrove. Nelle sue pagine, l'autonomia non è il ponte volante verso il relativismo, dove l'uomo – legislatore di se stesso – decide lui del bene e del male.
Più che legislatore, l'uomo di Cliteur è un esecutore; è l'esecutore di norme morali che, raffinate dall'esperienza dei secoli, stanno già lì, precostituite, e solo attendono di essere onorate. «Ciò che guida i nostri giudizi morali – scrive – è una grammatica morale universale, una facoltà della mente che si è evoluta in milioni di anni». E così, trasportate sull'onda lunga della storia, giungono a noi verità dove tutto, tutto è già stato detto per tutti; al più potremo precisarle meglio quelle verità e meglio adattarle alle circostanze, ma certo non dovremo inventare nulla e nulla potremo concedere agli slanci della nostra soggettività. L'autonomia morale – precisa Cliteur – «non deve essere confusa con il soggettivismo nell'etica». Quali siano, però, queste verità messe in valore dalla storia è cosa che non viene indicata; o viene indicata con parole di scoraggiante vaghezza, come quando leggiamo che la giustizia è insita «nell'esperienza umana, anziché essere il prodotto di una visione del mondo particolare». Di grazia: quale giustizia? Quella di Hitler o quella di Roosevelt? Entrambi operavano nello stesso giro di tempo e dunque con il medesimo carico di evoluzione sulle spalle: pure, non risulta che i due procedessero sincroni tra loro. E comunque, se al laico non fosse consustanziale la legislazione nella vita etica (con il relativismo che ne consegue), se veramente fosse un semplice esecutore di ciò che i padri e i padri dei suoi padri hanno stabilito per lui, chiediamoci: esecutore per esecutore, non sarebbe meglio seguire la volontà del Padre divino? Dopotutto, chissà, Dio potrebbe pure essere buono (ancorché impotente). Ma gli uomini, i progenitori... Chi mai scommetterebbe sulla bontà dei nostri progenitori?

Paul Cliteur, La visione laica del mondo, Nessun dogma editore, Roma, pagg. 388, € 20,00

l’Unità 11.5.14
Un ex missino proprietario? La rivolta degli ultras livornesi


IN UNA LIVORNO SPORTIVA SULL’ORLO DELLA SERIE B («INSEGUIAMO UN MIRACOLO SPORTIVO», INCITAVA I SUOI IERI IL TECNICO NICOLA ALLA VIGILIA DELLA PARTITA CON LA FIORENTINA) CON UNA RETROCESSIONE CHE ORMAI SEMBRA INEVITABILE, è la questione della cessione della società del presidente e patron Aldo Spinelli (al vertice degli amaranto dal 1999) a Stefano Bandecchi, amministratore delegato dell’Università Niccolò Cusano, a scuotere gli animi dei tifosi. «Bandecchi attento… a Livorno fischia ancora il vento!!!» si leggeva due giorni fa su uno striscione minaccioso comparso allo stadio Picchi e subito rimosso. Lo striscione sintetizza il pensiero di una parte della tifoseria, notoriamente di sinistra, che dopo aver contestato e invitato Spinelli ad andarsene, potrebbe ritrovarsi ora sotto la guida di Bandecchi, livornese di nascita ma trapiantato a Roma, ex parà con comprovata fede missina che in passato è stato candidato alla Regione Lazio per Forza Italia. A parte la «politica», il tam tam virtuale dei tifosi sui social’ e sui blog delinea più che altro un clima di diffidenza e scetticismo per la trattativa. La vicenda è esplosa infatti nei giorni scorsi a colpi di comunicati stampa, dopo un incontro fiume a Genova nel quale erano stati affrontati anche i dettagli dell’operazione. Tant’è che la trattativa, come comunicavano in una nota Bandecchi e soci era stata data per «chiusa al 99%». Ottimismo frenato da un comunicato arrivato a stretto giro dalla società di Spinelli in cui si affermava che si era trattato di «un primo incontro esclusivamente conoscitivo ed esplorativo con i rappresentanti del dottor Bandecchi», e che le parti si erano «impegnate a rivedersi per approfondire tutti gli aspetti relativi all’eventuale cessione della società». L’affare, insomma, non è ancora chiuso ma a Livorno per molti la trattativa non doveva neanche iniziare. Con una retrocessione dietro l’angolo, non esattamente l’ingrediente migliore per rasserenare gli animi.

l’Unità 11.5.14
SCELTO PER VOI
IL FILM DI OGGI
Due bambini a caccia di aquiloni nel tormentato Afghanistan

«IL CACCIATORE DI AQUILONI» (USA, 2007) La storia re- cente dell’Afghanistan - tra invasione russa e regi- me talebano - fa da sfondo all’amicizia tormentata tra un ragazzino afgano di etnia pashtun e un suo coetaneo di etnia hazara. Uno sguardo ad altezza bambino che media la crudezza degli eventi storici e affronta temi densi, sen- za rinunciare né alla freschezza né alla sincerità di emo- zioni e del senso di innocenze tradite. ORE 21,50 RSI LA 1