martedì 13 maggio 2014

l’Unità 12.5.14
Vertenza l'Unità. I poligrafici in sciopero
Martedì il giornale non esce
I poligrafici si uniscono alle preoccupazioni dei giornalisti e chiedono garanzie sul futuro della testata.

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l’Unità 12.5.14
Il comunicato dell'azienda

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La Stampa 13.5.14
Inferno in mare, strage di migranti
Affonda un barcone a 50 miglia dalla Libia: 14 morti, 200 dispersi e 200 naufraghi salvati dalle navi italiane
di L. An.


«L’inferno, qui c’è l’inferno». La voce arriva dallo specchio di mare a cento miglia a sud di Lampedusa, insieme alle grida, ai pianti, ai lamenti. Quattordici i morti recuperati nell’ennesima tragedia dell’immigrazione, 200 i sopravvissuti, ma all’appello ieri sera ne mancavano altrettanti, perché sul barcone naufragato – raccontano i superstiti inzuppati d’acqua – erano in quattrocento. Laggiù un brulicare di corpi: uomini, donne, bambini portati a forza di braccia sulle quattro motovedette accorse da Lampedusa, insieme con la nave San Giusto della Marina militare e con i mercantili dirottati nella zona. Un allarme partito da un rimorchiatore al servizio di alcune piattaforme petrolifere che si trovano a 50 miglia dalle coste della Libia e al doppio di distanza da Lampedusa.
Ed è una scena che si ripete, dopo che sabato era affondata un’altra carretta al largo della costa africana, trascinando con sé quaranta corpi, mentre a Trapani e a Porto Empedocle arrivavano 890 profughi soccorsi a più riprese nel Canale di Sicilia. I mezzi dell’operazione «Mare Nostrum», varata per soccorrere già in mare le imbarcazioni di migranti in difficoltà, sono impegnati senza pause. Non c’è il tempo di recuperare un gommone mezzo affondato che subito arriva un altro allarme.
Ieri sera, mentre ancora si faceva la conta dei morti e dei vivi del naufragio, è scattato un nuovo Sos da un barcone con altri centinaia di migranti a bordo, forse 250. Così le quattro motovedette della guardia costiera di Lampedusa si sono precipitate a tirarli su, mentre la nave San Giusto restava lì, a decidere se rientrare sulle coste siciliane o se aspettare che si compissero nuovi avvistamenti e nuovi destini. Fino a tarda sera, infatti, incerta perfino la destinazione e i tempi di sbarco dei sopravvissuti e dei cadaveri, tanto è trincea in queste ore il Mediterraneo. Probabilmente Augusta, probabilmente domattina. Ma non si esclude la scelta di Porto Empedocle, che già domenica ha accolto 467 migranti tra cui 53 donne e 19 bambini. «I viaggi della speranza vanno prevenuti, il diritto di asilo va chiesto a terra e non rischiando la vita. L’unica cosa da fare è l’apertura di canali umanitari controllati: se non è possibile dalla Libia, allora lo si faccia dall’Egitto», dice il sindaco dell’isola Giusi Nicolini, mentre Save the Children sottolinea che la situazione di accoglienza in Sicilia «versa in condizioni inaccettabili» e invita il Governo ad attuare urgentemente «un piano di accoglienza nazionale in grado di rispondere ai bisogni essenziali di tutti i migranti in arrivo e, in particolare, dei più vulnerabili, tra i quali i minori non accompagnati e i nuclei familiari con bambini».
Già, Lampedusa. Il centro è chiuso ma non per questo l’isola smette di essere investita dalle tragedie del Mediterraneo. E non soltanto perché ne è diventata icona, rappresentazione simbolica dopo che il 3 ottobre dell’anno scorso il suo splendido mare diventò la tomba di 366 migranti. Ma anche perché sta in mezzo ai due mondi. L’altro giorno i profughi raccolti nel Canale di Sicilia e diretti a Porto Empedocle sono stati fatti scendere per pochi minuti nel porto e fatti risalire sulla nave di linea. «Un trasbordo che ha provocato un forte ritardo nell’orario di partenza e un’enorme perdita per i pescatori dell’isola che continuamente vedono svalutato il pregiato pescato», denuncia Askavusa, il collettivo di giovani in prima fila a denunciare «l’affare immigrazione che scarica su una piccola comunità problematiche internazionali e la disperazione di migliaia di persone».
Anche loro chiedono corridoi umanitari. Mentre, cento miglia più a sud, si continua a morire.

Repubblica 13.5.14
“Decine di ragazzi annegati in mare” L’orrore negli occhi dei soccorritori
di Alessandra Ziniti


PARTENZE a raffica, un gommone dietro l’altro, dalla spiaggia di Al Zwara. Una rapida corsa verso grossi pescherecci sempre più fatiscenti che li aspettano al largo, nella notte. Poi, sotto le mazzate dei trafficanti di uomini, il trasbordo sulle imbarcazioni, verso il destino. Il mare si stava già alzando l’altra notte quando dalla costa libica sono partite almeno quattro imbarcazioni: alle prime due è andato tutto liscio, dopo mezza giornata di navigazione è scattato il salvataggio da parte dei marinai dell’operazione Mare nostrum; la terza è stata soccorsa dalla marina libica mentre cominciava ad imbarcare acqua.
Migranti fermati ieri sulle coste libiche prima di un tentativo di imbarco verso l’Italia
QUALCHE ora prima che la quarta si capovolgesse su un fianco poco dopo essere stata avvistata da un Atr in giro di perlustrazione che le aveva affiancato un rimorchiatore di una piattaforma petrolifera.
A Pozzallo erano in tanti a sperare che i loro amici e familiari, partiti con loro sui gommoni e finiti su un’altra imbarcazione, arrivassero nel centro di prima accoglienza. E invece sono arrivate le terribili notizie di questa nuova tragedia del mare che avrebbe fatto tra le sue vittime decine di bambini e ragazzini tra i 14 e i 17 anni, eritrei e somali per lo più, che viaggiano da soli «perché si sa che ora ci sono meno rischi, dopo uno o due giorni di navigazione le navi ci vengono a salvare e poi è facile raggiungere i parenti in Europa », dice uno dei giovani somali salvati dalle navi della Marina militare.
Che cosa, intorno alle 13, abbia provocato il ribaltamento del barcone a 50 miglia dalle coste libiche non è ancora chiaro. Lo scafo non è affondato, tanto che nel pomeriggio di ieri alcuni dei soccorritori sono riusciti a salire a bordo e a salvare decine di persone che si trovavano ancora terrorizzate sotto coperta o aggrappate ai corrimano o, ancora, in mare ma in grado di rimanere a galla. I tanti (e sono la maggioranza di chi parte) che non sapevano nuotare sarebbero invece andati subito a fondo. Da qui l’altissimo numero di dispersi, circa duecento, se è vero (come sembra dalle prime testimonianze dei migranti sotto shock) che a bordo erano in più di 400.
«Quando siamo arrivati sul luogo del naufragio – racconta il co- mandante della nave Grecale della Marina militare Stefano Frumento – 14 salme erano già state recuperate dai marinai del rimorchiatore e dei due mercantili che sono stati chiamati a dare una mano e i nostri uomini ne hanno avvistate altre 3 che siamo riusciti a prendere a bordo». Cinque ore prima dell’incidente, intorno alle 6 del mattino, 15 miglia più vicino alla costa libica, l’ultima delle quattro imbarcazioni partite una dietro l’altra aveva cominciato ad imbarcare acqua. Dato l’allarme, è intervenuta una nave della Marina libica che è riuscita ad evitare un’altra strage. A bordo erano in 340. Ora sono tutti in una prigione libica.
Nel centro di prima accoglienza di Pozzallo, molti dei profughi che avevano condiviso con quelli che probabilmente sono morti giorni e giorni di attesa in un capannone prima di ottenere finalmente il via libera per il viaggio, non si danno pace. Uno di loro, un giovane siriano che con il video girato a bordo ha consentito agli uomini della squadra mobile di Ragusa di individuare ed arrestare gli scafisti, racconta: «Abbiamo pagato 6000 dollari a testa per questo viaggio. Ci hanno preso a bastonate in Libia mentre salivamo a bordo, non ci hanno dato mai cibo, solo qualche sorso d’acqua. Eravamo troppi, tutti ammassati gli uni sugli altri. E appena ti muovevi ti picchiavano. Ma almeno noi ce l’abbiamo fatta».

il Fatto 13.5.14
Vite randage nei Cie siciliani
Lo scrittore Alagie, il miliziano Lamenç storie incrociate dei perseguitati d’Africa
di Veronica Tomassini


Siracusa. Apro la lettera, è per me. Leggo: “Il mio nome è Alagie Jinkang. Sono di nazionalità Gambiana, della tribù Mandinka”. Penso a Lamen, l’africano di Rosarno, lo stagionale bastonato dai capò. Fuggiva dal Gambia, miliziano renitente, il governo di Yahya Jammeh ci va giù pesante con i dissidenti. Ma Alagie? È un giornalista, scrive, è un professore. Lamen pensava di aver visto tutto dell’Italia, una cremagliera in mezzo a un fondo, un pendio aspro e maleodorante, un misero braciere che ardeva inutilmente nel buio, un furgone in un’alba calabrese. Alagie non è mai stato a Rosarno, il giro delle campagne non lo conosce nemmeno. Di Lamen si sono perse le tracce piuttosto, si spostava con un grosso sacco sulle spalle, sembrava un piccolo orso. Alagie invece fa ancora il giornalista, scrive nella lettera, utilizzando uno strano carattere. Vive in un cps siciliano, non ha smesso di fare il giornalista. Ha raccontato una storia. C’è una miniera, spiega, lungo il fiume africano vicino un villaggio rurale chiamato Badari, dove estraggono oro e diamanti per il dittatore Jammeh. Continua a scrivere, anche adesso da profugo delle carrette, la criticità del sistema governativo gambiano, la corruzione del sistema governativo gambiano. Pende una taglia sulla sua testa, ovvio. Dunque: Alagie fa il suo lavoro, insegna in un college e nel frattempo scrive i suoi pezzi. Finché si caccia in un brutto guaio, è il 2007. Scopre l’affaire della miniera e altre cose.
Lamen e Alagie non si sono mai conosciuti. Mentre Lamen stringeva la mascella, rifiutando gli ordini dei suoi superiori, il miliziano Lamen; Alagiè durante un esame nella “Bansang Senior Secondary School” enuncia – cito letteralmente - tre potenti passaggi, che diventeranno la sua condanna a morte. “Ho vividamente spiegato quanto fosse alto lo sfruttamento e la corruzione del governo sotto la dittatura di Jammeh, - leggo ancora nella lettera - ma così facendo mi etichettarono come un pessimo insegnante per la loro scuola. I diplomatici mi hanno chiesto di smettere di esprimermi contro il governo, però nessuno poteva fermarmi”.
LAMEN FUGGE IN ITALIA, il Niger, le camionette, il deserto, le dune, il cimitero di ossa sotto la sabbia, i campi in Libia, il viaggio in barcone. Diventa uno stagionale, l’africano con un piccolo orso sulle spalle. Alagie, professore, laurea in scienze politiche, specialistica in studi islamici, giornalismo e lingua inglese, finisce in una delle tante sigle della costrizione, Cpt, cpo, cps, eccetera. Ma è vivo, ringrazia il governo italiano perché è salvo. Nella lettera leggo la storia di un professore, finito in carcere, ai lavori forzati, fuggito tre volte, ripescato tre volte, torturato tre volte. Il Senegal, la Nigeria, la Libia, i capo-villaggi , strani faccendieri, mediatori e così via. Forse il professore Alagie e il miliziano Lamen sono partiti con il medesimo barcone, non si sono mai incontrati.
Alagie mi ha scritto una lettera ed è una specie di autocertificazione sulla questione identità. “Sarei un professore, mia cara”; le sue idee sono ideologie vorrei replicare, incantata. A nome di molti, non ultimo Celestine Emmanuel, nigeriano, scrittore di novelle e racconti morali, come il fortunato “The trials of Adanna”. Libero pensatore. Dissidente. Sbarco del 2006, Portopalo. Aveva una piccola sacca: dentro teneva un romanzo di Baricco, “Oceanomare, edizione italiana. Celestine ora fa il panettiere, l’ultima cosa che ha scritto ha il titolo: “Benvenuti all’inferno”. Troppo generico, inferno è qualsiasi cosa. Celestine, senza presunzione, afferma che non teme alcuna priorità, dal Niger alla Libia e anche dopo, e ripete: Welcome to hell.

il Fatto 13.5.14
La Fortezza Europa fa acqua I morti, i soldi, le statistiche
L’Italia ha già speso oltre 1,6 miliardi in poliiche anti-clandestini, l’Europa punta sulla difesa tecnologica (radar, droni). Intanto i morti da “barcone” sono 20 mila
di Giulia Merlo e Marco Palombi


Immigrazione vuol dire tutto e niente: dentro ci sono le vite delle persone, la politica, gli affari e quasi tutto quello che s’agita nel pianeta. I migranti d’altronde, secondo la Caritas, nel mondo sono oltre 220 milioni, un miliardo se si calcola gli spostamenti dentro lo stesso paese. Nel dibattito pubblico in Italia e in Europa l’immigrazione significa soprattutto le politiche di contrasto all’immigrazione: i numeri che seguono dovrebbero rendere chiaro che non funzionano nemmeno per gli scopi per cui sono state create.
I MORTI. Il sito “Fortress Europe” da anni censisce il numero di persone morte nel Mediterraneo tentando di arrivare in Europa: dal 1988 a domenica scorsa erano “almeno 19.603 persone” (quelle registrate in qualche modo sui media, di molti però non si ha alcuna notizia). Di queste 7.111 sono morte nel Canale di Sicilia, altre 229 navigando dall’Algeria alla Sardegna.
GLI SBARCHI. Dopo un paio d’anni con pochissimi arrivi, il picco di sbarchi sulle coste italiane è stato registrato nel 2011, quando furono 62mila. Il dato è di nuovo calato nel 2012 (13mila) per poi tornare a salire l’anno scorso: sono state 42.925 le persone che hanno affrontato il Mediterraneo trovando rifugio in Italia. Va sottolineato che la stragrande maggioranza dell’immigrazione irregolare sul nostro territorio arriva però, meno avventurosamente, col visto turistico e finisce per rimanere quando scade.
IN CERCA DI ASILO. L’andamento dei richiedenti asilo segue con una certa regolarità quello degli sbarchi. Dopo un 2010 con sole 10 mila domande, nel 2011 s’è registrato un picco di richieste, 40mila. Il numero è sceso nel 2012 (17mila). Il dato però è tornato a salire nel 2013, con circa 28 mila domande di protezione internazionale.
GLI STRANIERI IN ITALIA. Continua a crescere il numero di stranieri regolari residenti in Italia. Secondo l’Istat, nel 2012 erano 4milioni 370mila gli immigrati in Italia, l’anno dopo 4 milioni 900 mila. Ovviamente più alte sono le stime se si considerano anche gli stranieri irregolari: nel 2013 si ritiene che in Italia vivano circa 5,7 milioni di stranieri, il 9,4% della popolazione.
I “CLANDESTINI” SCO P E RTI . Stranamente, nonostante i governi facciano a gara per presentarsi come strenui nemici della “clandestinità”, il numero di immigrati irregolari rintracciati sul territorio italiano è andato diminuendo negli anni: secondo i dati Idos, nel 2010 erano stati quasi 47mila i clandestini intercettati dalle forze dell’ordine, numero diminuito fino a 29 mila unità l’anno nel biennio successivo per arrivare nel 2013 a 23.945 irregolari scoperti.
LE ESPULSIONI. Tra il 1998 e il 2012 su 169.071 persone transitate nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie), quelle effettivamente rimpatriate sono state soltanto 78.045, vale a dire il 46,2%. Basti dire che le varie sanatorie nello stesso periodo hanno regolarizzato oltre un milione di immigrati irregolari.
UN FIUME DI SOLDI. Un miliardo e 668 milioni di euro tra il 2005 e il 2012. Questo il costo per l’Italia delle politiche anti-immigrazione calcolato da uno studio dell’associazione Lunaria: 1,38 miliardi sono soldi nostri, 281 milioni della Ue. Alla cifra - che comprende anche il sistema dei Cie - vanno aggiunti i soldi per Frontex e Eurosur, programmi Ue che hanno bilanci autonomi.
FRONTEX. È l’Agenzia europea che deve “proteggere” le frontiere Ue e ha sede a Varsavia. Ha a disposizione 26 elicotteri, 22 aerei leggeri, 113 navi e 476 sofisticate apparecchiature tecniche: il suo bilancio 2013 ammontava a circa 86 milioni di euro, dal 2005 - anno in cui fu creata - è costata oltre 600 milioni. Frontex tenta di chiudere il Mediterraneo con radar, droni e sistemi di controllo satellitari: le grandi industrie del settore difesa sono i suoi maggiori fornitori.
EUROSUR. Il “Sistema europeo di sorveglianza” è stato creato lo scorso ottobre dopo la morte di oltre trecento migranti nel mare di Lampedusa: operativo dal 2 dicembre, consiste soprattutto nel coordinamento tra le autorità nazionali per condividere le informazioni. Lo stanziamento è di 340 milioni da qui al 2020.
MARE NOSTRUM. È la missione “umanitaria” avviata dal governo Letta dopo la tragedia di ottobre. Un’intera squadra della Marina - con aerei ed elicotteri da combattimento in appoggio - pattuglia il mare e cerca di bloccare i barconi dei clandestini. Finora, dice il ministero della Difesa, ha salvato circa ventimila migranti, portandoli in salvo sulle coste italiane: costa all’ingrosso 12 milioni di euro al mese. Nel 2014 l’Italia ha stanziato pure oltre 8 milioni per due programmi di addestramento/pattugliamento anti-immigrazione direttamente in Libia.

il Fatto 13.5.14
Dal deserto al Nord Europa
Gli “sbarcati”, chi sono e dove vanno
di g.me. e m.pa.


Arrivano. Sbarcano. Finiscono in qualche centro di prima accoglienza. Questo si sa dai giornali, si vede nei telegiornali. Poi più niente. Chi sono “quelli dei barconi”? Che fanno dopo? Intanto, fa sempre bene ricordarlo, “solo una modesta frazione degli immigrati arriva dal mare” (Maurizio Ambrosini, “lavoce. info”). Negli ultimi tre anni sono stati meno di 120mila, quest’anno - a tutto aprile - erano 20.500. La maggior parte di questi ha diritto a chiedere asilo, non è un migrante per motivi economici: “La maggior parte non sono irregolari, ma profughi con diritto d’asilo che scappano da territori di guerra, come la Siria e il Sudan”, spiega Antonio Ricci del Centro Studi Idos, che elabora ogni anno il Dossier statistico immigrazione.
Lo “sbarcato”, peraltro, non ha intenzione di fermarsi. Ancora Ricci: “La maggior parte sono solo in transito: curdi e siriani, per dire, sono una minoranza consistente in Germania e in Svezia, arrivano qui ma poi cercano di spostarsi a nord”. Lo testimoniano i numeri delle richieste di asilo: nel 2013 in Italia se ne sono registrate 27.800, in Germania 109mila, in Francia 60mila, in Svezia 54mila e 14mila persino in Polonia.
LA RISPOSTA delle autorità italiane, di fronte a questo scenario, è fermare e rinchiudere il maggior numero di migranti: per questo - quando allo straniero non sia riconosciuto lo status di rifugiato - vengono usati i 13 Cie (1.900 posti in tutto) e nel resto dei casi i Centri d’accoglienza e quelli per richiedenti asilo (spesso nelle stesse strutture), che vantano circa quattromila posti disponibili. Lì dentro si può restare per mesi, fino a sei secondo la legge.
QUANDO POI, alla fine del calvario, arriva la preziosa “protezione internazionale”, ne inizia un altro. La Convenzione di Dublino, infatti, obbliga lo straniero a presentare domanda di asilo nel primo paese sicuro, l’Italia nel nostro caso: peccato che i paesi del Nord Europa - come detto, la meta finale - non accettino il permesso italiano come un titolo a muoversi liberamente nell’Ue. È il fenomeno dei cosiddetti “dublinati”, intercettati e respinti all’interno dell’area Schengen.
Il fenomeno non è destinato a finire: “In estate - ci dice Ricci - è prevedibile che il flusso di migranti aumenti ancora con numeri anche superiori a quelli del 2013”. La maggior parte dei migranti verrà dalla Siria, causa guerra civile, ma non risponderanno certo allo stereotipo del disperato da barcone: “Scordiamoci l’immagine del profugo bisognoso di tutto. I siriani che arrivano appartengono al ceto medio, hanno denaro e conti bancari e sono in contatto con connazionali e parenti che, nella maggior parte dei casi, risiedono in Svezia. Nessuno di questi migranti vuole fermarsi, tutti cercano di spostarsi nel Nord Europa, dove hanno una rete di aiuti, sperano di sbloccare i loro risparmi e di rifarsi una vita”.

il Fatto 13.5.14
Le ONG
“Subito un corridoio umanitario”


A salire sui barconi dei migranti sono soprattutto persone in fuga da guerre e carestie. Per questo sono in tanti a chiedere che l’Unione europea crei un corridoio umanitario, cioè uno spazio di “cessate il fuoco” (in questo caso navale), che garantisca ai convogli internazionali di portare gli aiuti necessari alle popolazioni colpite dai conflitti. “Le lacrime di coccodrillo – commenta Paolo Ferrero segretario di Rifondazione comunista – non servono. Bisogna cancellare la Bossi-Fini e aprire subito un corridoio umanitario”. “Serve un corridoio umanitario che garantisca un accesso sicuro dal sud del Mediterraneo in Europa per tutte le persone che scappano dalla guerra e dalla fame e che possa combattere nello stesso tempo i mercanti di uomini”, ha commentato il numero uno di Croce rossa italiana Francesco Rocca. Per Sandra Zampa, vice presidente del Pd “L’operazione Mare Nostrum che ha salvato la vita a tanti profughi, senza l’intervento diretto dell’Unione europea non è sufficiente”.

La Stampa 13.5.14
Il sindaco di Lampedusa
«Per fermare i viaggi diritto d’asilo a terra»


Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, ieri ha rilanciato la sua proposta per fermare le stragi del mare: «I viaggi della speranza vanno prevenuti, il diritto di asilo va chiesto a terra e non rischiando la vita. I dati sulla tragedia di oggi sono ancora frammentari, non possiamo continuare così. L’unica cosa da fare sono i canali umanitari, come fa l’operazione Mare Nostrum che se fosse nelle acque della Libia sarebbe chiamata una operazione umanitaria».

Repubblica 13.5.14
Strage di migranti, Renzi contro l’Europa
di A. Z.


Duecento dispersi nel naufragio a 50 chilometri dalla Libia. A bordo del barcone 400 immigrati, recuparati i primi 17 corpi: la Ue salva le banche e lascia morire i bambini. Alfano non possiamo diventare la prigione dei rifugiati

IL BARCONE si è piegato su un fianco mentre un rimorchiatore che lavorava con una delle piattaforme petrolifere del Canale di Sicilia lo seguiva per segnalarne la posizione al radar. Erano riusciti a “bucare” la barriera dei mezzi dell’operazione Mare nostrum i circa 400 migranti che, stipati fino all’inverosimile, viaggiavano sull’imbarcazione che si è rovesciata a 50 miglia dalla costa libica, 100 a sud di Lampedusa: 17 corpi recuperati, 215 superstiti e 200 dispersi per quello che, dai naufragi del 3 e del 27 ottobre ottobre scorso a Lampedusa, è la più grande tragedia da quando è iniziata l’operazione Mare nostrum. Probabilmente con vittime giovanissime se, come è stato nelle ultime barche soccorse nel weekend, i minorenni a bordo erano più della metà.
«Ci sono tanti morti vicino alla Libia. Le nostre navi sono lì a recuperare i morti e a soccorrere i vivi. E mentre salviamo le vite siamo soli. L’Europa si faccia almeno carico dei vivi. O ci aiuta a presidiare la frontiera o faremo valere il principio che il diritto d’asilo riconosciuto dall’Italia si possa esercitare in tutta Europa. L’Italia non può diventare la prigione dei rifugiati». È un duro atto d’accusa quello del ministro dell’Interno Angelino Alfano davanti al quale il commissario Ue Cecilia Malstrom si dice scioccata e chiede «a tutti gli Stati membri di discutere nel prossimo Consiglio Interni come si può contribuire». Non risparmia accuse la Malstrom: «È chiaro che la responsabilità è di tutti gli Stati membri dell’Ue, serve solidarietà concreta per ridurre il rischio che tali tragedie si ripetano». E il presidente del Parlamento europeo Martin Schultz ammette: «Non possiamo continuare a girarci dall’altra parte, gli altri paesi non possono lasciare sola l’Italia».
Non usa mezzi termini il premier Matteo Renzi: «Dobbiamo dire all’Europa che non può salvare le banche e non salvare donne e bambini, devono venire a darci una mano. Tutte le istituzioni europee non possono girarsi dall’altra parte». «Inaccettabile strage di innocenti», dice il ministro degli Esteri Federica Mogherini, «sicuramente ci sono state mancanze dell’Ue, noi sappiamo che dobbiamo continuare a salvare vite, Mare Nostrum serve a questo ma è come svuotare il mare con un cucchiaino».
Mentre Ignazio La Russa (Fratelli d’Italia) invoca respingimenti in mare «anche con la forza» e il leghista Borghezio spara la proposta-choc di giustiziare gli scafisti.
Invoca infine aiuto il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini: «Il diritto di asilo va chiesto a terra e non rischiando la vita. Non possiamo continuare cosi».

il Fatto 13.5.14
La UE: “Roma non ci ha ancora chiesto nulla”
di Mario Marcis


L’Europa, sull’immigrazione, non ha fatto abbastanza. Il governo ha commentato così l’affondamento del barcone e la morte di decine di migranti al largo della Libia. “L’Europa - ha detto subito il ministro dell’Interno Angelino Alfano - non ci sta aiutando. Accetti il fatto che il Mediterraneo è una frontiera europea e non italiana”. “Sicuramente sì”, ha risposto il ministro degli Esteri Federica Mogherini a chi le ha chiesto se da parte dell’Ue ci siano state delle mancanze. “Da parte italiana - ha dichiarato - sappiamo che dobbiamo continuare a salvare vite umane e contrastare il traffico di esseri umani, ma è come svuotare il mare con un cucchiaino”. Più blando il ministro della Giustizia Andrea Orlando che ha parlato di “deficit di cooperazione a livello europeo e internazionale”. Tutti d’accordo: se muoiono i migranti nel Mediterraneo sono tante le colpe di Bruxelles.
IL COMMISSARIO per gli Affari interni dell’Unione europea, Cecilia Malmström, si è detta “scioccata” e ha chiesto ai 28 Stati membri maggiore impegno per sostenere gli sforzi dei paesi dell’Europa meridionale. A sorpresa, però, parlando col suo portavoce si scopre che il governo italiano - di cui Alfano, per dire, fa parte già dall’aprile scorso (per non parlare del pregresso) non ha ancora fatto alcuna richiesta specifica all’Ue : “L’Italia deve decidere quali sono le sue priorità. Le nostre porte sono aperte, ma per ora da parte loro non sono state avanzate proposte concrete”. Insomma, a 7 mesi di distanza dalla morte di 366 migranti a largo di Lampedusa, l’Europa non ha fatto passi da gigante, anche perché l’Italia non ha una “posizione chiara e definitiva”. Intanto Forza Italia e Lega ne approfittano per attaccare Alfano: “C’è voluto l’ennesimo dramma per svegliare il ministro - ha detto Anna Maria Bernini, vicecapogruppo azzurra in Senato - gli basterebbe un piccolo sforzo di memoria per ricordarsi dei risultati ottenuti dal governo Berlusconi”. Per Matteo Salvini, segretario del Carroccio, meglio sospendere “Mare Nostrum” e destinare i fondi a progetti in Libia, come fece Maroni da ministro.

La Stampa 13.5.14
Bruxelles respinge le critiche
“Da Roma propaganda elettorale”
I funzionari accusano: “Mano tesa, ma il vostro governo non rispose”
di Marco Zatterin


Le parole di Angelino Alfano rimbalzano rapide a Bruxelles, le accuse all’Ue e la minaccia di non chiudere la strada ai migranti che sognano la Germania o la Francia. «Nessun commento», è la reazione dei portavoce della Commissione, che pochi minuti dopo la notizia dell’ennesima tragedia d’alto mare s’è detta «scioccata», ha lodato «i grandi sforzi» dell’Italia e invitato le capitali Ue a «una solidarietà concreta». L’attacco del ministro genera però qualche irritazione, viene giudicato «elettorale». Così alle tante domande, le fonti al corrente del dossier rispondono con altre domande. «Che cosa vuole veramente l’Italia?», chiede un alto funzionario. Ed «è chiaro che la “politica dell’emergenza continua” non risolve il caso?».
Già, cosa vuole l’Italia? Dopo i drammatici eventi di ottobre a Lampedusa la responsabile Ue per l’Immigrazione, Cecilia Malmström, ha messo in piedi un Piano di Azione che punta sul coordinamento dei controlli (i satelliti di Eurosur), rafforza la missione Frontex, stanzia 30 milioni extra per vigilare sulla frontiera Sud dell’Europa. Essi si aggiungono ai 310 milioni assegnati all’Italia per l’asilo e ai 215 del Fondo per la sicurezza interna per il 2014-2020.
Le istituzioni Ue hanno in buona sostanza fatto molto di ciò che potevano («Sarebbe magari stato utile attivare la direttiva sulla protezione temporanea per la protezione di chi arriva», suggerisce una fonte), tenendo presente che l’Immigrazione non è una competenza che i Trattati affidano loro. Vero è anche che il Consiglio, cioè il conclave dei governi nazionali, non ha agevolato il cammino verso una vera politica comune in materia. I nordici hanno fatto gli struzzi e il dossier è scivolato di consiglio in consiglio: se ne riparlerà in giugno a livello ministeriale e poi a fine mese toccherà ai leader. Non a caso, la Malmström ieri è tornata a dire che «è chiara responsabilità degli stati mostrare concreta solidarietà per ridurre il rischio che disastri come questi si ripetano».
In sintesi, Bruxelles è pronta ad aiutare l’Italia, ma non sempre l’Italia ha dimostrato di volersi far aiutare. «Non abbiamo avuto alcuna nuova richiesta di sostegno», ha detto la svedese a «La Stampa» il 3 maggio. Così nei palazzi a dodici stelle ci si chiede a cosa si punti davvero a Roma e se si possa andare oltre la foga elettorale. «Vogliono un regime di quote coordinate? - si chiede una fonte - Sono certi che sia conveniente?». Interrogativo retorico. Nel 2013 i rifugiati accolti in Europa sono stati 435 mila: Berlino ne ha presi 125 mila, Parigi 65 mila, noi 28.500. «Se ci fossero le soglie - si fa notare - dovreste prenderne parecchi».
Quello che l’Italia deve fare, si sottolinea a Bruxelles, è usare il semestre di presidenza Ue per mettere con forza la questione all’ordine del giorno per un programma efficace che affronti il problema e coinvolga gli altri. Risulta che la Malmström abbia anche scritto di recente ad Alfano per chiedergli come fosse possibile aiutarlo meglio, con scarsi risultati. L’Europa degli stati vive le migrazioni nella contraddizione. A domanda sulle disattenzioni europee, il ministro degli Esteri svedese Bildt risponde «non facciamone un caso Nord contro Sud». Non era il problema sollevato. Nello scusarsi, però, ha confermato che c’è.

Corriere 13.5.14
Immigrazione e diritto d’asilo, problemi da risolvere insieme
risponde Sergio Romano


Non si contano più i migranti che arrivano quasi tutti i giorni soprattutto sulle coste della Sicilia.
E chissà quanti ancora ne arriveranno durante l’estate.
Da tempo i centri di accoglienza non sono più sufficienti e diventa arduo per il personale poter trattare con umanità questi poveretti. Adesso è necessario che  tutti gli altri Paesi dell’Unione europea inizino ad aprire anch’essi dei centri affinché questa gente possa essere trattata dovunque con un certo rispetto e non più ammassata nelle strutture di un solo Paese europeo.
Finora l’Italia il suo compito in qualche modo l’ha svolto; ora è giunto il momento che si impegnino a svolgerlo (e non più a parole) anche gli altri Stati membri dell’Ue.
Perché così non si può continuare.
Giovanni Papandrea
Reggio Calabria

Caro Papandrea,
La soluzione può essere soltanto europea. Non è giusto che tre Paesi mediterranei — Grecia, Italia e Spagna — debbano fare fronte da soli a un problema che concerne l’intera Unione europea. Ma è utile che gli italiani conoscano le ragioni per cui una soluzione europea è così complicata. In una lunga intervista a un giornalista del settimanale tedesco Spiegel , pubblicata dalla New York Review of Books del 7 maggio, George Soros ha riassunto i risultati di un’indagine sul fenomeno migratorio compiuta da Open Society, l’associazione umanitaria fondata dal finanziere anglo-ungherese dopo la fine della Guerra fredda. L’indagine ha dimostrato che il nodo da sciogliere è quello della differenza fra l’asilo concesso dai Paesi del Nord e quello concesso dai Paesi dell’Europa meridionale. In Germania e nei Paesi scandinavi l’asilo è particolarmente generoso, in quelli del Sud è molto più modesto e garantito spesso dopo una lunga attesa. Oggi la situazione è alquanto complicata dal maggior numero di persone che fuggono da zone di guerra e conflitti civili in Africa e in Asia. Ma già negli scorsi anni questa disparità aveva reso il Nord molto più desiderabile del Sud e suscitato i risentimenti dei Paesi «generosi». Fu questa la ragione per cui è stato deciso che la richiesta d’asilo debba venire indirizzata soltanto al governo del primo Paese in cui il migrante mette piede entrando nell’Unione europea.
La decisione di Dublino, come è stata definita, ha ridotto il numero di coloro che arrivano nei Paesi del Nord, ma ha svantaggiato considerevolmente i Paesi del Sud, oggi alle prese con due gravi inconvenienti. In primo luogo la prossimità dell’Africa e del Levante li rende pur sempre una desiderabile «prima tappa».
In secondo luogo il migrante non rinuncia alla sua meta preferita ed evita in molti casi d’iscriversi nel registro degli stranieri giunti irregolarmente in Italia. Abbiamo così un doppio problema: centri d’accoglienza sovraccarichi e stranieri che preferiscono la clandestinità nella speranza di raggiungere i Paesi dove le condizioni dell’asilo sono molto migliori. Con i centri pieni d’immigrati e molti clandestini nelle strade, l’onda xenofoba, malauguratamente, può soltanto crescere. Non vi sarà soluzione quindi se non adottando due misure. Occorre anzitutto colmare almeno in parte il divario fra i diversi trattamenti riservati dai membri dell’Ue a coloro che chiedono il diritto d’asilo. E occorre consentire che ogni migrante abbia il diritto di scegliere il Paese a cui intende appellarsi per ottenerlo. Ciascuna di queste misure richiede una politica europea dell’immigrazione e fondi europei.
In altre parole occorre più Europa, non meno Europa, come vorrebbero coloro per cui l’Ue è la causa di tutti nostri mali.

Il Sole 13.5.14
Oggi la votazione alla Camera
Dl lavoro, governo mette la fiducia
di Claudio Tucci


ROMA Il governo decide di blindare il decreto lavoro e alla Camera ricorre nuovamente alla questione di fiducia. L'annuncio è arrivato ieri pomeriggio dal ministro per i Rapporti con il parlamento, Maria Elena Boschi, intervenuta in Aula a Montecitorio al termine della discussione generale sul provvedimento. Sul dl erano piovuti oltre 200 emendamenti.
La capigruppo ha stabilito che il voto sulla fiducia avrà inizio oggi nel tardo pomeriggio. Mentre il varo definitivo del decreto arriverà, probabilmente, domani. La strada dell'urgenza decisa dall'esecutivo è stata criticata dalle opposizioni (Fi, Lega Nord e M5S). Ma per il presidente della commissione Lavoro del Senato, Maurizio Sacconi (Ncd), è fondamentale una «tempestiva conclusione dell'esame parlamentare del testo per mettere a disposizione dei datori di lavoro norme più semplici e certe». Il decreto che si accinge a diventare legge (il dl va convertito entro il 19 maggio) è quello uscito dal Senato, dopo le correzioni su contratti a termine e apprendistato apportate d'intesa con i partiti di maggioranza. Per il ministro Giuliano Poletti si è arrivati «a una buona soluzione» e ora agli imprenditori «potremmo dire di assumere senza preoccupazioni perchè ci saranno meno problemi di interpretazione».
L'obiettivo, ha spiegato il relatore ed economista del lavoro, Carlo Dell'Aringa (Pd), è quello di «agganciare la futura ripresa economica sperando che possa anche trasformarsi in un allentamento delle pressioni che gravano sul mondo del lavoro». Del resto le nuove regole saranno oggetto di monitoraggio dopo 12 mesi e se non funzioneranno il governo non ha escluso un nuovo intervento per rimetterci mano.
Sul fronte dei contratti a termine la misura più rilevante è l'allungamento dell'acausalità da 12 a 36 mesi, comprensivi di un massimo di cinque proroghe (nel testo originario si saliva a otto). Restrittiva è invece l'introduzione di un "tetto" del 20% all'utilizzo dei rapporti a tempo. Il superamento di tale limite comporta una sanzione pecuniaria che oscilla dal 20% al 50% della retribuzione (non c'è più l'obbligo di stabilizzazione). Per i datori che occupano fino a cinque dipendenti è comunque sempre possibile stipulare un contratto a termine. Il limite del 20% non si applica nel settore della ricerca.
Sull'apprendistato la quota di stabilizzazione del 20% di apprendisti (per poterne assumere di nuovi) viene circoscritta alle sole aziende con oltre 50 addetti (prima il riferimento era a 30 addetti). E viene ripristanto l'apprendistato stagionale. Per il presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano (Pd), è importante anche la norma sui contratti di solidarietà (si porta al 35% la riduzione della contribuzione previdenziale e assistenziale): «Si tratta - spiega - di un miglioramento che può agevolare l'utilizzo di questo strumento». Per Confprofessioni infine sono positivi gli interventi sui contratti a termine. Ma sull'apprendistato c'è ancora «troppa burocrazia che complicherà la vita ai datori di lavoro-professionisti».

«il Cor­rup­tion Per­cep­tion Index 2013 di Trans­pa­rency Inter­na­tio­nal ci pone al 68mo posto nel mondo, pre­ce­duti da Mace­do­nia e Mon­te­ne­gro, e seguiti da Kuwait, Roma­nia, Bosnia-Erzegovina. Inu­tile dire che ai primi posti tro­viamo Dani­marca e Nuova Zelanda, Fin­lan­dia, Sve­zia e Nor­ve­gia. Non con­sola la con­sta­ta­zione che nel 2012 fos­simo al 72mo posto, alla pari appunto con la Bosnia-Erzegovina, che abbiamo valo­ro­sa­mente supe­rato. Eppure, il costo della cor­ru­zione per il sistema Ita­lia è — secondo una stima — 60 miliardi di euro (all’anno). Se si riu­scisse ad abbat­tere, altro che spen­ding review e can­cel­la­zione del senato elettivo»
il manifesto 12.5.14
I moralizzatori del giorno dopo
di Massimo Villone

Sulla vicenda Expo il pre­mier dichiara che intende fer­mare i delin­quenti, non i lavori, e aggiunge bel­li­co­sa­mente che ci mette la fac­cia. Bene. Ma la domanda è: che altro ci mette?
Oltre vent’anni dopo tan­gen­to­poli il Cor­rup­tion Per­cep­tion Index 2013 di Trans­pa­rency Inter­na­tio­nal ci pone al 68mo posto nel mondo, pre­ce­duti da Mace­do­nia e Mon­te­ne­gro, e seguiti da Kuwait, Roma­nia, Bosnia-Erzegovina. Inu­tile dire che ai primi posti tro­viamo Dani­marca e Nuova Zelanda, Fin­lan­dia, Sve­zia e Nor­ve­gia. Non con­sola la con­sta­ta­zione che nel 2012 fos­simo al 72mo posto, alla pari appunto con la Bosnia-Erzegovina, che abbiamo valo­ro­sa­mente supe­rato. Eppure, il costo della cor­ru­zione per il sistema Ita­lia è — secondo una stima — 60 miliardi di euro (all’anno). Se si riu­scisse ad abbat­tere, altro che spen­ding review e can­cel­la­zione del senato elettivo.
Nes­sun paese è, o potrà mai essere, total­mente immune dalla cor­ru­zione. La dif­fe­renza è data dalla capa­cità di con­te­nere sta­bil­mente la malat­tia entro livelli minimi e com­ples­si­va­mente tol­le­ra­bili. La cor­ru­zione è una malat­tia ende­mica che va tenuta sotto con­trollo. A que­sto fine non bastano gesti ecla­tanti quando lo scan­dalo deva­stante è già scoppiato.

Serve invece la capa­cità di man­te­nere alti gli anti­corpi nel quo­ti­diano agire di ogni strut­tura pub­blica e di ogni sede in cui si assu­mono scelte rile­vanti per la col­let­ti­vità. Che que­sto in Ita­lia non accada ce lo dice auto­re­vol­mente — e perio­di­ca­mente — la Corte dei conti, cui si aggiun­gono la stampa quo­ti­diana e le cro­na­che giudiziarie.

Per que­sto nes­suna tan­gen­to­poli è di per sé riso­lu­tiva. La repres­sione è neces­sa­ria, ma il deter­rente della san­zione non basta per la cor­ru­zione, come per qual­siasi altro reato. La pre­ven­zione è invece vin­cente. Lo diceva già nel 2008 il rap­porto GRECO — Gruppo euro­peo di Stati con­tro la cor­ru­zione, di cui l’Italia, nono­stante tutto, fa parte — sot­to­li­neando tra l’altro la neces­sità di una poli­tica gene­rale anti­cor­ru­zione, volta a favo­rire la pre­ven­zione e la sco­perta dei feno­meni cor­rut­tivi, la denun­cia da parte di pri­vati o pub­blici fun­zio­nari, la tra­spa­renza, la pub­bli­cità e l’accesso agli atti. Potremo ricor­dare che il rap­porto richia­mava anche il rischio della pre­scri­zione, e la neces­sità di pre­ve­dere incom­pa­ti­bi­lità con la carica pub­blica nel caso di con­danna per reati di cor­ru­zione.
Pro­prio a seguito della sol­le­ci­ta­zione euro­pea, l’Italia con la legge 116/2009 ha rati­fi­cato la Con­ven­zione Onu anti­cor­ru­zione (UNCAC) del 2003. È seguita la legge 190/2012 e decreti legi­sla­tivi, come il decreto 235/2012 (Severino-Monti), por­tato a giu­sta fama dalla vicenda del con­dan­nato Ber­lu­sconi. Nel tempo, abbiamo avuto un Alto Com­mis­sa­rio anti­cor­ru­zione, poi sosti­tuito da un Ser­vi­zio Anti­cor­ru­zione e Tra­spa­renza (SAeT) presso il Dipar­ti­mento della fun­zione pub­blica, e abbiamo ora una Auto­rità Nazio­nale Anti­cor­ru­zione, pre­sie­duta da Raf­faele Can­tone, per­sona degna di stima e apprez­za­mento. Dun­que, tutto risolto? Vivremo in un paese decente e civile?

Vor­remmo che bastasse, ma non sarà così. Per l’Expo, essendo ormai pie­na­mente in campo la magi­stra­tura, biso­gna essere cauti, ed evi­tare soprat­tutto com­pli­ca­zioni e ritardi per l’inchiesta. Piut­to­sto, e per il futuro, per­ché non si pensa a rad­driz­zare la nor­ma­tiva anti­cor­ru­zione, che vide un forte con­tra­sto tra quelli che sono oggi com­pa­gni di strada del governo?
La let­tura degli atti par­la­men­tari e della stampa sulla legge 190 e sulla legge Seve­rino può offrire ampi spunti. Per­ché non si affronta il pro­blema del whi­stle­blo­wer, che dall’interno di una ammi­ni­stra­zione sol­leva l’allarme sul malaf­fare e la cor­ru­zione? Secondo la let­te­ra­tura inter­na­zio­nale è fon­da­men­tale nella lotta con­tro la cor­ru­zione, ma nella nostra cul­tura buro­cra­tica viene con­si­de­rato poco più che un dela­tore. Per­ché non si riflette sul come giun­gere a stra­te­gie anti­cor­ru­zione cogenti per le ammi­ni­stra­zioni regio­nali, oggi coperte da una auto­no­mia orga­niz­za­tiva costi­tu­zio­nal­mente pro­tetta? Qui una rifor­metta ad hoc non farebbe male. E per­ché infine non si pensa a vita­mi­niz­zare la stessa Auto­rità anti­cor­ru­zione, che in un recente rap­porto (9 aprile 2014) al Mini­stro per la sem­pli­fi­ca­zione e la pub­blica ammi­ni­stra­zione mostra tutta la sua debo­lezza, nel rap­porto con il Dipar­ti­mento della fun­zione pub­blica? Uni­cui­que suum è il van­gelo di ogni ammi­ni­stra­zione pub­blica italiana.

Ha ragione Ghe­rardo Colombo quando dice su que­ste pagine che com­bat­tere la cor­ru­zione è anzi­tutto una que­stione di cul­tura. Aggiun­giamo, poli­tica, civile, ammi­ni­stra­tiva. Auto­con­trollo severo della poli­tica, con­trollo della pub­blica opi­nione, con­tra­sto a clien­te­li­smo e favori, best prac­ti­ces ammi­ni­stra­tive, e solo alla fine occhiuta vigi­lanza giu­di­zia­ria. Le norme aiu­tano, non risol­vono. Vedremo cosa potrà fare un governo che trova tra gli aspi­ranti co-padri della patria alcuni tra i più forti fre­na­tori nella lotta con­tro i feno­meni corruttivi.

La cor­ru­zione si com­batte giorno per giorno, in ogni luogo in cui si gesti­sce la cosa pub­blica. Una buona occa­sione per Renzi. Se ci mette la fac­cia, potremo vederlo sem­pre, e dovunque.

il Fatto 13.5.14
Pippo Civati. Spettacolo terribile
“Quei ministri di destra, ecco il guaio”
di Wanda Marra


Abbiamo presidiato l'Expogate, lo spazio che a Milano è dedicato a introdurre il pubblico all'Esposizione universale. Un nome che in effetti fa tanto Watergate”. Pippo Civati, ex consigliere regionale lombardo, ora deputato, di fronte all'inchiesta Expo, insieme a Bertolé, Bocci, Giungi, Monguzzi, Sinigaglia e Viotti presidia simbolicamente i cancelli dell’Esposizione.
Onorevole Civati, quale richiesta fa al vostro governo?
Noi chiederemo nei prossimi giorni che venga prima la legalità, e poi le opere. A chi dice “ora bisogna accelerare”, consigliamo la massima cautela. Anche se non ho motivo per pensate che Renzi sia contro questa posizione.
Renzi ha annunciato una task force, guidata da Cantone. Un'iniziativa utile?
Vediamo come si fa. Ha senso se davvero chi ne farà parte avrà pieni poteri.
Si aspettava quest'ennesimo scandalo giudiziario?
Insomma... noi abbiamo denunciato fortemente un sistema di cose che non funzionava neanche prima, quando io ero in Consiglio regionale.
Alcuni hanno paragonato questa vicenda a Tangentopoli.
È una storia dissimile, ci penserei bene prima di dire che è Tangentopoli. Si parla di un milieu che ha portato alla fine della stagione formigoniana tra inchieste, ndrangheta, cultura del potere.
Ma lei cosa pensa del compagno G?
Mi sembra di essere tornato al liceo. È un po' inquietante. Vuol dire che c'è una sorta di know how della corruzione.
Ma quanto c'entra col nuovo Pd?
Non credo c’entri col nuovo e col recente Pd.
Però aveva una tessera.
Questo di per sé non vuol dure niente. Il Pd non può rifiutare la tessera a chi ha già scontato la sua pena. Il problema è capire cosa fa.
Qual è l'impatto dell'inchiesta sull'Expo, ma anche dell'arresto di Scajola, sull'opinione pubblica?
I cittadini sono nauseati.
Michele Emiliano ha detto al Fatto che Renzi dovrebbe rompere il patto del Nazareno con Berlusconi, provare a fare le riforme con i Cinque Stelle, e se non ci riesce andare al voto. È d'accordo?
Però, Emiliano ha sbagliato candidato alle primarie.
Ma insomma, va bene che Renzi governi con Lupi e mantenga un asse privilegiato con FI?
Per come è fatta la nostra destra, questa doveva essere una stagione molto breve e su punti molto chiari. La profezia di Grillo del Pd meno L si è verificata. Io non volevo che Renzi non facesse il premier, ma avrei voluto che ci arrivasse con le elezioni. Non portando dentro gli stessi ministri.
Ora che bisogna fare?
La cosa più utile è fare la legge elettorale, e andare a votare dopo le europee e prima dell'Expo.
Ma non si rischia di perdere le elezioni così?
Non lo so. Spero il Pd le vinca bene. Sono critico, ma non matto. Certo, lo spettacolo è terribile. Qualsiasi luogo comune sulla politica corrotta trova soddisfazione. Se la politica non costruisce posizioni chiare questo è inevitabile. Ora chi sta con Renzi sta con Berlusconi e con Alfano. Dev'essere tutto più leggibile. In Lombardia il ministro più importante è Maurizio Lupi. Punto.
Ma ora, che dovrebbe fare Renzi?
Vorrei che il governo intervenisse in maniera decisa con molta umiltà e molto rigore. Credo che aprire al protagonismo dei cittadini, con un po' di trasparenza complessiva sul Pd sia utile. Quello che c'è dietro va tirato fuori.

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Civati: "Grillo non fa paura, che errore lo strappo di Renzi a sinistra"
di Giuseppe Alberto Falci

qui

il Fatto 13.5.14
Chiamparino, le elezioni e il sostegno del Compagno G.
Greganti e l’imbarazzo del Pd: “È vero aveva la tessera, ma ora è sospeso”
di Andrea Giambartolomei


Torino. Primo Greganti stava seduto in quarta fila, dietro ai vertici del Pd torinese. Davanti a lui il consigliere regionale Gianna Pentenero, l’ex ministro del lavoro Cesare Damiano e l’ex segretario provinciale Alessandro Altamura. In seconda fila il presidente della provincia Antonio Saitta, il sindaco di Alessandria Rita Rossa, Giancarlo Quagliotti, braccio destro di Piero Fassino, componente della segreteria regionale e “eminenza grigia”. In altre foto si vede pure Gianfranco Morgando. In prima fila, a qualche metro di distanza il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, il segretario cittadino Davide Gariglio. Il 29 marzo scorso al teatro Carignano di Torino Primo Greganti era lì, in abiti casual, alle loro spalle mentre il Pd lanciava la candidatura di Chiamparino alla Regione Piemonte. Un semplice sostenitore con un posto d’eccezione o un’eminenza nelle retrovie? In questi giorni il “Compagno G”, arrestato per l’inchiesta sulle tangenti e sugli appalti truccati all’Expo di Milano, per alcuni era solo un tesserato come tanti. Il ritornello è sempre lo stesso: “Non sapevamo neanche fosse un iscritto, lo vedevamo agli eventi, ma non aveva nessun ruolo nel partito. Non bisogna collegare il suo coinvolgimento nell’inchiesta sulle mazzette, al Pd”. Qualcuno si ricorda vagamente della sua presenza agli incontri pubblici.
A TORINO si è visto alla presentazione del libro di Gianni Pittella il 18 ottobre scorso e prima ancora alla Festa democratica di settembre: “Per quelli della nostra generazione è difficile lasciare la politica - racconta nei corridoi del Palazzo di Città Quagliotti, anche lui proveniente dal Pci e anche lui, in passato, coinvolto in un giro di tangenti -. L’ho visto in alcuni eventi pubblici e posso dire che ci sono dei compagni che vanno ancora a salutarlo”. Un gesto di riconoscenza verso il “Compagno G” per il suo comportamento durante e dopo gli anni di Tangentopoli, quella sua capacità di negare le accuse di fronte ai magistrati che ha mantenuto anche ieri nell’interrogatorio di garanzia davanti al gip di Milano Fabio Antenna. “Non ha mai avuto o fatto richieste di denaro o di altre utilità - afferma il suo difensore Roberto Macchia -. Nell’ordinanza non ci sono chiare accuse nei suoi confronti, ma solo le dichiarazioni di altri indagati. Lui afferma che se le persone parlano di lui non vuol dire che lui sia implicato nei loro malaffari . Greganti li ha incontrati nell’ambito della sua attività, la promozione della filiera del legno, e non si è mai sognato di fare illeciti. Anzi, lui è contro ogni qualsiasi attività di corruzione e se avesse mai avuto la sensazione di attività di questo genere l’avrebbe denunciato”. Nonostante per tutti fosse un semplice tesserato senza ruoli il Pd torinese ha sospeso Greganti. Il segretario provinciale Fabrizio Morri giovedì, alla notizia del nuovo arresto per lo scandalo dell’Expo, ha chiesto ai suoi di verificare che il “Compagno G.” fosse iscritto. Esito positivo: tessera ricevuta dal circolo Pd di Borgo Parella/Campidoglio/San Donato, nel quartiere torinese in cui ha la residenza e in cui ha abitato fino a qualche mese fa.
“IL CODICE ETICO del partito prevede la sospensione automatica da parte della commissione dei garanti nei casi di arresto per reati gravi - spiega Morri -. Greganti non aveva un ruolo attivo e nessuno ricorda la sua partecipazione a riunioni e organi del partito. Noi non potevamo neanche negargli l’iscrizione”. Lo ribadisce la giovane segretaria del circolo, Valentina Caputo, eletta il 26 ottobre scorso: “Greganti ha rinnovato la tessera nel 2012 e nel 2013, quindi vuol dire che l’ha fatta prima. Da quando sono stata eletta però non l’ho mai conosciuto né visto. Abbiamo circa trecento iscritti, ma quelli attivi sono non più di cinquanta. Comunque non rinnoveremo la tessera per il 2014, questo finché non avrà terminato il percorso giudiziario. Me ne occuperò personalmente per tutelare l’immagine del Pd”. Che effetto fa a lei, coetanea di Renzi, avere tra i suoi iscritti il “compagno G”? “Guardi, nel 1993 facevo la prima superiore e non seguivo la politica. Ho cominciato nel 2000 con la Margherita, altra storia. Poi Greganti aveva scontato tutto e noi non potevamo certo impedirgli l’iscrizione”. Resta chiuso il piccolo circolo, sul cui citofono compare ancora la targhetta con l’acronimo Pds, legata ancora agli anni 90. Resta in cella pure Greganti: nei prossimi giorni l’avvocato Macchia potrebbe chiederne la scarcerazione: “Un conto è finire in carcere a 50 anni, un altro a 70”.

Corriere 13.5.14
Il satellitare di Greganti, ipotesi anti-intercettazione
Trovato un telefono da zone di guerra
Le visite al Senato ogni mercoledì
di Luigi Ferrarella


MILANO — Che ci faceva Primo Greganti quando il mercoledì, giorno di rigore delle sue visite a Roma, entrava in Senato? Chi andava a incontrare non si sa, perché gli investigatori della Procura di Milano che lo pedinavano hanno sempre dovuto abbandonarlo una volta varcato il portone di Palazzo Madama, ovviamente per evitare che il «compagno G» si potesse accorgere di essere seguito. Del resto, se si pensa che tutta questa inchiesta è stata fatta sul campo da soli sette finanzieri — argomento che forse potrebbe meritare qualche riflessione tra i tanti esponenti delle istituzioni accalcatisi ora a congratularsi in buona o cattiva fede con l’autorità giudiziaria —, si intuisce come gli inquirenti temessero di poter prima o poi essere riconosciuti dagli indagati che erano pedinati quasi sempre dalle stesse persone: al punto che una donna del team investigativo, per non dare nell’occhio di fronte ai medesimi pedinati, si è procurata un gran numero di parrucche, con le quali cambiare almeno sommariamente il proprio look da un giorno all’altro.
Anche intercettare non è sempre stato agevole. Frigerio faceva spesso «bonificare» dalle microspie il centro culturale in cui operava. E ora c’è curiosità per quello che potrà essere verificato in un telefono satellitare sequestrato a Greganti nella perquisizione a casa sua. Utilizzato di solito dagli inviati di guerra in zone senza copertura ordinaria, è ingombrante, peraltro con una grossa antenna-parabola, costa migliaia di euro e anche la telefonata ha un alto costo al minuto, insomma è incongruo per un utente ordinario. In teoria, però, può avere un altro appeal: se un telefono satellitare chiama un altro satellitare, la conversazione viaggia appunto solo via satellite e non «aggancia» mai alcun ponte radio delle compagnie telefoniche nazionali, quindi non ricade nella modalità tecnica ordinaria delle intercettazioni disponibili dall’autorità giudiziaria. Soltanto una perizia sull’apparecchio potrà ora verificare se il satellitare corrispondesse a una utenza diversa da quelle note di Greganti e già indirettamente intercettate, e se ne siano recuperabili almeno gli ultimi numeri chiamati.
Ieri di questo tema, come pure dei suoi rapporti con le cooperative rosse, non si è parlato nel breve interrogatorio in cui Greganti, difeso dagli avvocati Roberto Macchia e Nicola Durazzo, ha negato di aver mai ricevuto o chiesto soldi a qualunque titolo, ha affermato di non aver mai avuto dagli indagati alcun beneficio economico o vantaggio di lavoro, ha detto di non sapersi spiegare perché gli altri indagati parlino talvolta di lui come di una persona alla quale dare soldi in funzione di suoi interventi. Greganti sostiene invece di aver solo promosso da anni la cosiddetta filiera del legno per i suoi benefici ambientali e occupazionali nella realizzazione di edifici, e in questo ambito di aver cercato contatti con chi realizza opere pubbliche, compresi alcuni padiglioni di Expo.

La Stampa 13.5.14
Le inchieste giocano a favore di Grillo
di Marcello Sorgi


Lo scandalo Expo rischia di allungare la sua ombra sulle ultime due settimane di campagna elettorale. Il flusso di informazioni che vengono dai verbali cresce e continuerà nei prossimi giorni, dopo l’inizio degli interrogatori degli arrestati. Il dubbio che i principali coinvolti - Greganti, Frigerio e Grillo - millantassero, quando promettevano contatti ai più alti livelli nel governo e nei partiti di riferimento, rimane. Ma la macchina della propaganda non distingue molto tra accuse e smentite (ieri, tra le altre, quelle del ministro Lupi, citato 33 volte nelle intercettazioni, e del coordinatore della segreteria Pd Guerini, con cui Greganti prometteva appuntamenti). E un’opinione pubblica frastornata deve cercare di farsi strada tra il polverone che rievoca la Tangentopoli di vent’anni fa e il tentativo di salvataggio dell’Expo, la vetrina internazionale che in un anno dovrebbe essere inaugurata, ma al momento, a causa degli sviluppi dell’inchiesta della magistratura, rischia di portare un danno d’immagine all’Italia agli occhi del mondo. Anche su questo terreno lo scontro più duro è tra Renzi e Grillo (che ha annunciato una mozione di sfiducia individuale contro Lupi), con Berlusconi defilato, che cerca di parare le conseguenze dell’altro scandalo legato all’arresto dell’ex ministro Scajola per il presunto aiuto dato all’ex-parlamentare di Forza Italia Matacena, condannato in via definitiva per i suoi rapporti con la ’ndrangheta. Il presidente del consiglio arriva oggi a Milano con la parola d’ordine «fermare i delinquenti, non i lavori dell’Expo». L’incarico conferito al magistrato Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione, di vigilare sugli appalti in corso, servirà a dare pratica attuazione a questa linea. E anche Cantone, ieri, in un’intervista al Tg3, ha detto che fermare appalti e cantieri significherebbe darla vinta ai corrotti. Non lo ha chiesto neppure la Procura, ha aggiunto l’amministratore delegato di Expo Sala. Ma a Milano, sempre oggi, arriva anche Grillo, che da due giorni martella sugli scandali, e punta decisamente contro Renzi e la sua decisione di far proseguire i lavori dell’Expo. Nei giorni in cui per legge i risultati dei sondaggi non possono essere resi pubblici è difficile capire se la tendenza ravvisata nei giorni scorsi, con quasi una metà dell’elettorato che si dichiarava sconcertata per quanto sta accadendo e pronta a mutare il proprio voto, risulti confermata, o rafforzata e a favore o a danno di chi. Ma è evidente che l’affare Expo e la vicenda Scajola-Matacena sono destinati a imporsi in questi ultimi giorni che precedono il voto, mettendo in difficoltà sia il premier che puntava a mobilitare gli elettori a partire dai risultati dell’azione di governo, sia il tentativo di Berlusconi di ripetere la rimonta dell’anno scorso.

La Stampa 13.5.14
La paura di Grillo incrina il patto sulle riforme
di Ugo Magri


Da venerdì scorso è proibito pubblicare i sondaggi. Ma la legge permette di farli. E i primi a passarseli sottobanco non sono i personaggi politici, come verrebbe da immaginare, bensì gli istituti finanziari più importanti. Guarda caso, sulla piazza milanese ieri c’era grande fibrillazione: importanti operatori di Borsa davano per certa una vittoria grillina alle Europee. Da Milano le voci sono rimbalzate immediatamente a Roma, nei palazzi che contano. Dove in molti già si chiedono quale potrebbe essere (a parte tutti gli altri eventuali contraccolpi) l’impatto di un trionfo a Cinque stelle sulle riforme. La risposta che nelle sedi altolocate si raccoglie è netta: se Grillo andrà forte, a maggior ragione le riforme dovranno essere portate a compimento. Perché rinunziarvi sarebbe come alzare bandiera bianca. Né il Pd, né il vecchio e nuovo centrodestra sembrano ancora pronti alla resa. Anzi, Renzi se la combatte all’ultimo voto. Ieri sera ha promesso di estendere gli 80 euro ai pensionati (dall’anno prossimo, ha precisato, perché «prima proprio non ce la si fa»).
Le riforme andranno fatte, dunque; ma il premier non dovrà contare sull’ormai ex-Cavaliere. Il loro patto sembra incrinato. Per due ragioni. La prima è che Berlusconi si sta vistosamente sfilando. Tra le sue ultime esternazioni ne spicca una molto simile a un «de profundis»: «Stiamo ritenendo di non poter seguire la strada proposta da Renzi», contro il quale Berlusconi aggrava il tono della sua critica. Indigesta per Forza Italia è la bozza di Senato delle autonomie presentata dalla ministra Boschi. Ancor meno accettabile è la legge elettorale in gestazione, che prevede un ballottaggio tra i due schieramenti più grossi. A Berlusconi l’«Italicum» non conviene più, perché ha rotto con gli alleati. Salvini, segretario della Lega, fa finta di non conoscerlo. E con Alfano si è creato un solco incolmabile sul piano umano, oltre che politico. Da sola, Forza Italia avrebbe zero chance di arrivare e vincere al ballottaggio. Insomma, il leader forzista pare deciso a stracciare le intese del Nazareno.
Casini invita a non prenderlo troppo alla lettera, «in campagna elettorale Berlusconi dice cose che non pensa nemmeno...». Ed effettivamente può essere che dopo il 25 maggio l’uomo torni sui suoi passi, specie se verrà bastonato dagli elettori. Ma perfino in quel caso non è detto che un ripensamento berlusconiano sia sufficiente a tenere in vita il patto del 10 gennaio. Ed ecco il secondo motivo di scetticismo: a fronte di una travolgente avanzata grillina, l’intesa col Condannato rappresenterebbe per il premier un motivo di debolezza e di grave imbarazzo. Sarebbe numericamente vantaggiosa ma politicamente molto difficile da gestire: anche questa è una valutazione molto diffusa specie in Senato, dove di riforme si sta discutendo. Figurarsi la reazione grillina davanti a un patto costituzionale che tagliasse fuori un terzo del Paese...
Guarda caso, con molta tempestività Alfano si è fatto avanti: «Se Forza Italia partecipa alle riforme, bene. Altrimenti le approviamo a maggioranza, andiamo al referendum e lo vinciamo», ha twittato. Quagliariello, che del Ncd è coordinatore nazionale, conferma precisando: l’«Italicum» andrà cambiato, ma sulle altre riforme noi ci saremo... Se l’onda grillina diventerà tsunami, gli alfaniani si propongono come salvagente del governo e delle riforme.

Corriere 13.5.14
Lo spauracchio M5S sta già logorando l’asse tra il governo e FI
di Massimo Franco


Lo spauracchio di Beppe Grillo si sta gonfiando un po’ troppo. E non si capisce se questa paura di un successo del Movimento 5 stelle alle Europee del 25 maggio sia figlio delle insicurezze della maggioranza di governo; oppure serva a far capire il rischio di una vittoria populista, per calamitare i voti sul Pd di Matteo Renzi e sui suoi alleati. Il presidente del Consiglio sta cercando di arginare gli effetti della bufera giudiziaria dell’Expò di Milano e il nervosismo del suo partito, che in gran parte lo sostiene ma aspetta di capire come andrà a finire. È logico che i comitati d’affari sopravvissuti alla fine della Prima Repubblica e alla crisi della Seconda possono portare acqua e voti a chi dà per spacciato il sistema.
Non a caso Grillo si prepara a marciare sul capoluogo lombardo per dire «basta» all’Expò. Renzi ha imboccato una strada inevitabilmente opposta. E si prepara a spiegare perché la strategia del M5S punta soltanto alla destabilizzazione e allo sfascio. Sa che interrompere l’organizzazione di questo avvenimento sarebbe un suicidio economico e d’immagine per l’Italia. E dunque vuole andare avanti, scansando le macerie che le inchieste della Procura di Milano stanno provocando e potranno causare; e contrapponendo una narrativa di governo a quella antisistema di Grillo.
Ma certo, lo scontro tra i due rischia di polarizzare i voti non solo su Renzi. I sondaggi continuano ad apparire positivi, per il premier: rispetto alle politiche del 2013, ci potrebbe essere un aumento sostanzioso del Pd. A sentire i sondaggisti, forse sarà l’unico esecutivo europeo a non essere punito dall’elettorato, grazie alla «luna di miele» che gli deriva dal fatto di essere a palazzo Chigi da poco tempo. I suoi fedelissimi alimentano la narrativa di un governo che sta ottenendo risultati rapidamente; che combatte contro l’immobilismo e che può offrire un bilancio incoraggiante. Il dubbio riguarda semmai la consistenza delle sacche di protesta che gonfieranno le liste grilline e i numeri dell’astensionismo; e il panorama politico che emergerà.
È probabile che Forza Italia sarà ridimensionata, e il Nuovo centrodestra magari vivo ma non forte. I segnali che arrivano da Silvio Berlusconi, per quanto soggetti a oscillazioni quotidiane, indicano la volontà di allineare fin d’ora una serie di motivi per contestare il patto sulle riforme stipulato con il premier: in particolare sul Senato e sulla riforma elettorale. Il capo di Fi non smette di dichiarare che su Renzi è «molto pessimista»; e che sta pensando «di non poter seguire le riforme» fatte dal premier, ad esempio dando 80 euro in busta paga da maggio ai redditi più bassi «ma nulla ai pensionati». Ancora, per un Berlusconi che vive nell’incubo di diventare solo il terzo partito, un sistema elettorale col ballottaggio, voluto dal Pd, andrebbe contro i suoi interessi.
«Hanno cambiato l’accordo», accusa l’ex premier. È inquieto perché indovina la possibilità che una parte di chi votava centrodestra sia attirata da Renzi. «È stato messo dalla sinistra come facciata per ingannare i moderati che vedendolo pensano di dare il voto a lui», lancia l’allarme. Ma si tratta di un’ammissione significativa, che spiega il nervosismo di Fi e lo scontro ormai quotidiano col Nuovo centrodestra di Angelino Alfano. Ed è la conferma di un asse istituzionale in bilico. Sembra reggere nei passaggi più delicati, grazie anche al rapporto tra Renzi e il coordinatore di Fi, Denis Verdini. Poi viene rimesso in mora. E di nuovo sopravvive alle tensioni. Rimane da vedere se il risultato delle Europee lo consoliderà, sottolineando un rapporto ancora più sbilanciato a favore del Pd, o se lo farà saltare. Da quello si capirà il futuro della legislatura.

Il Sole 13.5.14
Giorni cruciali per scegliere come votare fra l'Expo e lo scontro sull'euro
La controffensiva di Renzi sulla corruzione ma non è facile tagliare la strada ai Cinque Stelle
di Stefano Folli


A dodici giorni dal fatidico voto e con i sondaggi ufficialmente costretti al silenzio dalla bizzarra normativa italiana, ecco che emergono i temi conclusivi della campagna, quelli su cui l'opinione pubblica si forma il giudizio e decide se scomodarsi o no per andare a votare. Non era difficile indovinare quali sarebbero state le priorità di questo finale di stagione. La prima riguarda l'Europa, diciamo così, benché la questione sia declinata con tutta l'approssimazione tipica di uno scontro politico. L'altra priorità tocca invece l'eterno dramma irrisolto della corruzione e si può ben prevedere che le ricadute dello scandalo Expo domineranno la scena fino a domenica 25.
Sull'Europa ha stavolta probabilmente ragione Wolfgang Munchau, noto analista del "Financial Times", quando scrive che i difensori dell'euro e dell'Unione integrata non stanno facendo abbastanza per vincere la loro partita a fronte della spregiudicata frenesia con cui i nemici della moneta unica si agitano e spesso vincono la battaglia mediatica in tv. Gli argomenti dei pro-euro sono "pigri", tanto che rimane senza risposta la vera domanda su cui si potrebbe vincere o perdere l'elezione: l'Italia può prosperare all'interno dell'unione monetaria con la Germania? I difensori dell'euro non hanno saputo spiegare in modo convincente come questo potrebbe avvenire. Per cui, secondo Munchau, nel corso dei dibattiti nessuno ha convinto. Compresi, s'intende, gli anti-euro che non sanno dire se e come l'Italia potrebbe uscire dalla moneta comune senza innescare disastri.
Purtroppo sotto l'aspetto mediatico ed elettorale conta di più il fallimento dei pro-euro, il loro non riuscire a spiegare come sia possibile conciliare, qui e ora, l'unione monetaria con la ripresa dello sviluppo. C'è addirittura chi pensa che la discussione sia stata ormai vinta dai nemici dell'euro e dell'Europa integrata: grazie anche alle televisioni che hanno dato grande spazio ai fautori delle monete nazionali, messi sovente sullo stesso piano (uno contro uno) dei sostenitori dell'euro. Forse è per questo che, se si sommano i dati dei sondaggi (prima del "blackout") e si considerano le cifre dell'astensione, si vede come il voto euro-scettico potrebbe raggiungere il 50 per cento e forse andare oltre. È un dato allarmante che si deve appunto alla debolezza dei pro-euro, alla loro eccessiva timidezza nel colpire gli avversari anche sotto la cintura, forse per il timore di passare per amici della signora Merkel.
Quanto al secondo punto, la corruzione, va detto che Renzi ha colto il pericolo. La storia dell'Expo è vento nelle vele di Grillo, il quale non si farà sfuggire l'occasione per sparare in ogni direzione. L'incolpevole presidente del Consiglio è corso ai ripari con la nomina di un magistrato competente quale garante degli appalti e della conclusione dei lavori, mentre il Pd cerca solo ora di allontanare Greganti. Ma il tema è davvero molto scivoloso e forse non basta gridare «fermiamo i delinquenti» e «Milano ce la farà» per sfuggire alle sabbie mobili. Certo è che al momento tutti, tranne Grillo, sono cauti. Tutti, senza distinzioni di maggioranza e opposizione. Perfino troppo cauti per le abitudini sguaiate della nostra politica. Del resto, anche Forza Italia ha i suoi problemi con la vicenda Scajola. Ma se la "questione morale" torna a esplodere come un vulcano dormiente, unita al tema della moneta europea, gli equilibri elettorali rischiano di essere sconvolti.

Il Sole 13.5.14
Al Sud la prova più difficile per il Pd
Nel Meridione partito indietro nei sondaggi, rischio «zavorra» per l'ex rottamatore
di Riccardo Ferrazza


ROMA L'onda del renzismo non bagna il Sud. Se gli ultimi sondaggi pubblicati prima del blackout pre-elettorale registravano una crescita dei consensi per il Pd in zone tradizionalmente ostili alla sinistra come il Nord-est (si veda Il Sole 24 Ore del 9 maggio), l'effetto Renzi non si replica nelle regioni del Mezzogiorno. Se ne è accorto lo stesso ex rottamatore («abbiamo qualche problema») che ha annunciato un "giro al Sud" per recuperare quei voti che rischiano di affossare la corsa del suo partito – lanciato oltre il 33% – e disarcionarlo dalla guida del Governo se non si superare "quota trenta". Napoli, Reggio Calabria, Palermo, Bari: tappe per la campagna delle europee del 25 maggio in luoghi chiave in quel Meridione che "tradì" già una volta i democratici. Era il febbraio del 2013 e sulla poltrona di segretario del Nazareno c'era Pier Luigi Bersani che si sentiva la vittoria alle politiche in tasca. Finì diversamente: il redivivo Silvio Berlusconi prevalse in tutte le regioni meridionali (Campania e Puglia in primis), Bersani non arrivò mai a Palazzo Chigi.
Renzi vide quel film da spettatore e ora, da premier, non vuole certo ritrovarsi in un sequel nel ruolo da protagonista. Il «giro elettorale» è una naturale contromossa di Renzi, consapevole anche di non poter fare affidamento sugli esponenti politici locali del suo partito che "bruciarono" Bersani e che non sembrano aver "cambiato verso" come pretende la formula renziana (nelle regioni che compongono le circoscrizioni Sud e Isole alle primarie dell'8 dicembre Renzi ottenne consensi sotto la media nazionale). Eppure a marzo i rappresentanti del Pd di Abruzzo, Basilicata, Molise, Puglia, Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna avevano inviato una lettera al premier in cui si impegnavano «lavorare tra noi superando particolarismi e divisioni».
«Ma Renzi deve stare attento – avverte Paolo Macry, professore di Storia contemporanea all'università Federico II di Napoli – perché un "partito balcanizzato" come appare il Pd nel Mezzogiorno, rischia di bruciare anche lui». Che nel Sud la sinistra non goda dell'«effetto trascinamento di Renzi – osserva ancora Macry – non è un fatto curioso: la nuova segreteria del partito è centralizzata e gli esponenti meridionali sono calati dall'alto». Fin qui le responsabilità dell'ex sindaco fiorentino. Poca cosa, però, rispetto alle colpe della dirigenza locale che «sta sprecando una grande occasione. Renzi trova qui una situazione degradata, con un alto tasso di conflittualità e una litigiosità capillare e quotidiana che ha favorito l'ascesa di un personaggio come Luigi de Magistris».
«Sono venti anni che il centrosinistra non produce classe politica all'altezza» allarga lo sguardo Nicola Rossi, ex senatore del Pd. Colpa della «valanga di soldi pubblici spesi in modo indecente che ha selezionato dirigenti di basso livello». Proprio da qui Renzi intende ripartire: parlando, nel suo mini tour, dell'uso di fondi europei con l'obiettivo di promuoverne un migliore uso (ci sono 5-6 miliardi per il 2014 che il Governo considera ad alto rischio). «Giusto parlare di riprogrammazione dei fondi Ue – concede Macry –, vero scandalo della politica nel Mezzogiorno. Ma attenzione: è un impegno che rischia di suonare come l'annuncio della conclusione della Salerno-Reggio Calabria. Renzi ci mette la faccia ma rischia anche di perderla». Un «atto simbolico contro chi ha fatto sperperi più dannosi del terremoto in Irpinia» è il suggerimento avanzato da Nicola Rossi.
La "nuova" Europa che il premier vuole prospettare agli elettori del Sud (e non solo) rischia però di non fare da argine all'avanzata dell'antipolitica. «Le politiche nel Mezzogiorno degli ultimi venti anni sono state disastrose e così in passato – ricorda Rossi – con il voto ci si esprimeva contro chi si era visto all'opera, favorendo l'opposizione. Ora quel consenso potrebbe andare a Grillo». Impedirlo è la missione cui Renzi si dedicherà nelle prossime due settimane.

Repubblica 13.5.14
Il capitale bambino
di Chiara Saraceno


CRESCERE in povertà economica condiziona moltissimo le opportunità lungo tutto il corso della vita: sul tipo di formazione, sulla salute, sul capitale umano e sociale. È in questa situazione in Italia un milione circa di bambini e ragazzi, il doppio di cinque anni fa, nella pressoché totale indifferenza della politica e assenza di politiche. Compensare lo svantaggio di nascere e crescere poveri è difficile. Lo è ancora di più se, non solo il reddito, ma anche le risorse essenziali perché i bambini e ragazzi possano sviluppare le proprie capacità cognitive, emotive, relazionali, non sono distribuite in modo da compensare gli svantaggi ma li rafforzano, come
succede in Italia.
È quanto emerge dal rapporto appena presentato da Save The Children, “La lampada di Aladino”, sulla base di un indice chiamato di povertà educativa: appunto di povertà di risorse per la crescita e lo sviluppo delle capacità individuali. Gli indicatori che lo compongono riguardano sia le caratteristiche dell’offerta scolastica pubblica, sia dati di comportamento quali la dispersione scolastica, la pratica sportiva, la partecipazione ad attività culturali. Come tutti gli indici è parziale e imperfetto.
Anche in questo primo parziale abbozzo, tuttavia, due fenomeni appaiono con grande evidenza. Il primo è, appunto, la disuguaglianza territoriale. Fin dalla prima infanzia, ai bambini e ragazzi vengono offerte meno risorse proprio là dove sarebbe necessario offrirne di più: meno nidi, meno scuola primaria a tempo pieno, meno mense scolastiche, proprio là dove, in particolare al Sud, maggiore è non solo la povertà minorile, ma anche la dispersione scolastica, più ridotta la partecipazione ad attività sportive e culturali di vario genere, così come la lettura di libri al di fuori di quelli scolastici. In altri termini, là dove le istituzioni educative, a partire dal nido, avrebbero una maggiore responsabilità di offrire opportunità ed esperienze che le famiglie non sono in grado di fornire, è invece più povera e scarsa. Il che non significa che invece nelle regioni più ricche non ci siano problemi.
Nessuna regione italiana, ad esempio, ha ancora raggiunto l’obiettivo europeo di un 30% di copertura per gli asili nido e nessuna regione italiana offre il tempo pieno scolastico neppure al 50% degli scolari. Ed i dati sulla lettura, la pratica sportiva e la partecipazione culturale non sono molto confortanti. Ma i divari inter-regionali sono enormi (con la positiva eccezione della Basilicata al Sud e, invece, quella negativa della Valle d’Aosta al Nord).
Il secondo dato è la scarsa considerazione in cui politici e amministratori sembrano tenere i bisogni e diritti dei bambini e minori, testimoniata non solo dai divari sopra richiamati e dalle carenze riscontrate anche nelle situazioni più felici, ma anche dalla scarsa preoccupazione per la sicurezza fisica dei minori. La spia più drammatica di questo disinteresse è il fatto che quasi la metà (47%) degli istituti scolastici italiani manca del certificato di agibilità, ovvero non ha fatto effettuare nessun controllo sulla sicurezza degli ambienti in cui i nostri figli e nipoti passano tante ore della giornata. Anche qui i divari inter-regionali sono enormi: si va dal 73% delle scuole del Friuli Venezia Giulia (che guida la graduatoria complessiva) al 27% della Sardegna. Solo Campania (per altro ultima nella graduatoria complessiva) e Basilicata, tra le regioni del Sud, superano il 50%, mentre Abruzzo e Lazio arrivano solo, rispettivamente, al 42% e 33%.
Pur con limiti e parzialità, il quadro delineato dal rapporto è sufficientemente drammatico per imporre la questione della povertà non solo economica, ma anche educativa dei minori come una emergenza non più ignorabile.

il Fatto 13.5.14
Tutti a cantare col Papa: sembra quasi il concertone
di Fulvio Abbate


Per la “Giornata della scuola”, papa Francesco (o, magari, più semplicemente, la CEI, la conferenza dei vescovi italiani, per lui) ha pensato bene di copiare le idee del regista Walter Veltroni. “We care”, il titolo della manifestazione, infatti. Tra “I Care” e “We Care” siamo più o meno lì, dai. Piazza San Pietro si è presto riempita di ragazzi, studenti, scolari, insegnanti, tutti venuti, immagino, da ogni lembo d’Italia che abbia a che fare con un provveditorato agli studi. Anche Carla, mia figlia, che frequenta le medie, ha rischiato di andare con entusiasmo e curiosità per il papa “nuovo”, se solo i prof, crudeli, non le avessero detto di mettersi in marcia molto presto di mattina. I ragazzi, si sa, sono decisamente pigri. Peccato per lei, perché, in compenso, l’incontro tra i ragazzi e Bergoglio sembrava la copia del concertone del primo maggio di Cgil, Cisl e Ulil. Sia televisivamente, sia, a guardare bene, per la selezione accurata degli ospiti. Pressoché simile anche la scaletta, perfino visiva, abitualmente cara all’estetica dei sindacati: parole-musica-parole- striscioni-bandiere-mani che freneticamente salutano verso la telecamera fissata sulla giraffa…
Lo so, mancava, diversamente dal concertone della “Triplice”, la solita bandiera con i quattro mori sardi, che di solito, lì a San Giovanni, frulla in prima fila accanto alla grande banana pubblicitaria marcata “Chiquita”, un’assenza comunque tollerabile, veniale.
MA TORNIAMO alle insegne papali. Te l’ho già detto che il titolo della cerimonia sembrava strappato al versatile Veltroni? Se sì, aggiungo che, accanto alle citazioni (in forma di letture accorate) di brani di Don Lorenzo Milani e dello scrittore-insegnante francese Daniel Pennac, e poi le esperienze, i racconti personali, i ricordi di scuola di studenti e docenti (sovente per consegnare un report sullo stato di degrado delle strutture scolastiche), tra i partecipanti c’era modo di inquadrare le facce democratiche di Giulio Scarpati, Fiorella Mannoia, Jury Chechi, Veronica Pivetti. Oltre, s’intende, al presidente dei vescovi italiani, il cardinale Angelo Bagnasco, e il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, quest’ultima sempre più in tiro. Ah, dimenticavo, c’era pure Francesco Renga, il compagno di Ambra Angiolini, con il suo “Angelo”, un brano che, come hanno segnalato in rete i fan del cantante ricciolone, ha conquistato “un sorriso compiaciuto e un applauso direttamente al Pontefice”. Ma dimmi tu se basta intravedere sul sagrato Fiorella Mannoia per avere la sensazione che si tratti di un concertone bis? Nel senso che la scansione dell’intero spettacolo dava l’idea di una secolarizzazione di un evento comunque concepito sotto le virgolette vaticane.
Alla fine della diretta di A sua immagine (Rai1, se non l’ho ancora detto), mentre la jeep papale si avventurava in mezzo ai corridoi della piazza per la gioia dei ragazzi in cerca, magari, di un “selfie”, ho visto il sorriso di Bergoglio in dissolvenza incrociata con quello della Camusso. E perfino di Angeletti.

Repubblica 13.5.14
L’omelia di Bergoglio: “Sacramenti a tutti, anche ai marziani”
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO. Poi non c’è da stupirsi se, nel padiglione vaticano al Salone del libro di Torino chiusosi ieri, il volume più venduto (almeno 500 copie ogni giorno) è stato quello delle omelie di Santa Marta. Un successo destinato di certo a proseguire, dopo quanto ha detto il Papa ieri nella sua nuova predica mattutina. «Chi siamo noi per chiudere le porte allo Spirito Santo? Se domani venisse una spedizione di marziani e alcuni di loro venissero da noi, verdi, con quel naso lungo e le orecchie grandi come vengono dipinti dai bambini, e uno di loro dicesse “voglio il Battesimo!”, cosa accadrebbe?». Risposta: «Lo Spirito Santo è quello che fa andare la Chiesa più avanti, oltre i limiti».
Bergoglio ha preso spunto dal brano evangelico in cui Pietro subisce dure critiche dai cristiani di Gerusalemme perché ha mangiato con una comunità di pagani, di «non circoncisi». E, citando quell’esempio, il Pontefice ha osservato che il capo degli apostoli «comprende che ciò che è stato purificato da Dio non può essere chiamato “profano” da nessuno». «Quando il Signore ci fa vedere la strada, chi siamo noi per dire che non è prudente? È la domanda che si pone Pietro, “Chi sono io per porre impedimenti?”. Una bella parola per i vescovi, per i sacerdoti e anche per i cristiani. Chi siamo noi per chiudere le porte?».
Insomma, per il Papa argentino non si devono negare i sacramenti nemmeno ai marziani. Francesco ha poi proseguito, nell’aula Paolo VI, rivolgendosi con un fitto botta e risposta agli allievi dei Pontifici Collegi e Convitti di Roma, illustrando le qualità di un buon sacerdote. Più di un’ora di colloquio, spaziando da come essere un pastore che comunica a come organizzare la propria giornata, da come guidare il popolo a come fare un’omelia che non addormenti il pubblico. «Ma padre, in questo tempo di tanta psichiatria e psicologia non sarebbe meglio andare dallo psichiatra?», ha detto Bergoglio citando la domanda che ogni tanto si sente fare dai sacerdoti. «Non scarto quell’ipotesi - ha spiegato Francesco - ma prima di tutto bisogna andare dalla Madre, la Madonna, perché a un prete che si dimentica della madre nei momenti di turbolenze, qualcosa manca». Quindi ha continuato: «No ai pastori affaristi, vanitosi e orgogliosi, che fanno le cose per soldi, per interessi economici o materiali». Per il Papa, «c’è una sola strada per la leadership: il servizio. Se anche si hanno tante qualità da comunicare ma non si è un servitore, la leadership cadrà. L’umiltà e la vicinanza devono essere le armi del pastore».
Ma essere umili «non è facile», perché infine «la verità è come una cipolla, che si comincia a sfogliare e alla fine, quando si è tolta una foglia dopo l’altra, si arriva al niente e resta soltanto il cattivo odore della cipolla». E il Pontefice, forse memore di quando, alcuni mesi fa, telefonò a un convento di suore senza trovare risposta, ha aggiunto in ultimo: «Che sofferenza, ora, quando si chiama una parrocchia e risponde la segreteria telefonica! Ma come si può essere al servizio del popolo, senza neanche sentirlo?».

il Fatto 13.5.14
L’appello
Il New York Times: salvate Venezia
di Carlo Antonio Biscotto


Che la salvezza di Venezia con il suo inestimabile patrimonio di storia, arte e cultura stesse a cuore della comunità internazionale era da tempo più che un sospetto. Ieri se ne è avuta l’ennesima conferma. L’edizione online del New York Times ha ospitato a centro pagina un pezzo a firma Jim Yardley che ricostruisce la storia del tentativo di distruggere uno degli angoli più preziosi e intatti della laguna veneziana: l’isoletta di Poveglia.
Poveglia è da molti considerata l’altra faccia di Venezia. Quanto Venezia è affollata di turisti, chiassosa, piena di negozi di souvenir, altrettanto Poveglia è silenziosa, appartata, senza gondole né negozi. A pochi minuti da piazza San Marco, ha tutta l’aria di un luogo dimenticato: un campanile di mattoni che troneggia su alcuni edifici abbandonati. L’isoletta, di cui pochi fino a qualche tempo fa ricordavano il nome, è salita prepotentemente alla ribalta quando è stata inserita dal governo tra le proprietà demaniali da mettere in vendita per risanare i conti pubblici e ridurre l’enorme debito pubblico. Poveglia è così venuta a trovarsi al centro di un doppio problema: da un lato la necessità nazionale di fare cassa, dall’altro l’insofferenza dei veneziani nei confronti di un turismo asfissiante e inarrestabile che ha reso invivibile il centro storico della celebre città trasformando l’asta per l’isoletta in una questione di Stato. Nel timore che anche Poveglia finisca nelle mani dell’internazionale del “mattone 5 stelle lusso”, un gruppo di veneziani si sta battendo per una diversa destinazione dell’isoletta. I veneziani chiedono che Poveglia divenga il rifugio dal caos della città, il luogo in cui i veneziani potrebbero andare a cercare un po’ di pace passeggiando tra i giardini, imparando a veleggiare o facendo un pic-nic.
IL MOTTO della neonata associazione è “Poveglia per tutti”. La dirige l’architetto Lorenzo Pesola che spiega quali sono gli obiettivi dei veneziani raccolti intorno a lui: “Che Venezia abbiamo in mente per il 21° secolo? Dobbiamo trovare un equilibrio tra coloro che vogliono vedere Venezia per la prima volta e quanti non vogliono vederla per l’ultima volta”. L’asta ha luogo sotto gli auspici del ministro per l’Economia, cerimoniere di una operazione di dismissione di beni pubblici che non ha precedenti nella storia del ”Bel Paese”. Nel caso di Po-veglia il governo sta vendendo l’usufrutto per 99 anni mantenendo la nuda proprietà dell’isola. Mercoledì scorso è stato comunicato il risultato della prima fase dell’asta. Le due maggiori offerte sono state quelle di una multinazionale rimasta anonima e quella dell’associazione “Amici di Poveglia” che ha raccolto donazioni private di cittadini veneziani. L’offerta della multinazionale è stata di 513.000 euro, quella dei veneziani di appena 160.000 euro. Una gara impari.
Venezia è diventata una specie di museo a cielo aperto, una città fantasma con una popolazione residente scesa al di sotto delle 50.000 unità e orde di turisti (oltre 20 milioni l’anno) e navi da crociera che hanno sfregiato il volto della città lagunare. E la speculazione non si ferma. Uno dei progetti in cantiere prevede la costruzione di un parco divertimenti in stile Coney Island. Alberto Zamperla, promotore del progetto, afferma che la realizzazione creerà moti posti di lavoro. I critici la ritengono un’altra tappa verso la definitiva “Disneyficazione” di Venezia. Ma per qualche strana ragione Poveglia ha suscitato maggiore emozione, forse perché l’isoletta si trova ad appena tre chilometri da Piazza San Marco, è considerata l’ultima zona “vergine” della Laguna e per le numerose leggende che l’hanno sempre accompagnata nell’immaginario dei veneziani che da secoli la ritengono abitata dai fantasmi. “Ci venivo da giovane”, racconta Patrizia Veclani che partecipa alla campagna “Amici di Poveglia”. “Facevamo il bagno e organizzavamo grigliate all’aria aperta. Da ragazze ci venivamo con il ragazzo perché era un luogo appartato e romantico”.
Quando il governo ha annunciato la vendita dell’isola, i veneziani hanno iniziato a raccogliere donazioni. Basta donare 99 euro per aspirare a diventare comproprietario di Poveglia. Antonio Cirillo, un maestro elementare, ha offerto 100 euro. ”L’ho fatto col cuore”, ha detto. Pier Paolo Baretta, sottosegretario all’Economia nato a Venezia, è rimasto colpito dall’impegno dei suoi concittadini e ha confessato che fa il tifo per loro.

Repubblica 13.5.14
I custodi del futuro
di Salvatore Settis



NELLA discussione sulla funzionalità del Ministero dei Beni Culturali e in particolare delle Soprintendenze, di recente rinfocolata da un documento del governo, colpiscono tre costanti. Primo, quasi tutti gli intervenuti sembrano credere che in quel Ministero si annidino vizi e misfatti specialissimi, di cui la pubblica amministrazione è per il resto esente, e pertanto meritevoli di più accanito cannoneggiamento. Secondo, quasi tutti sono d’accordo sull’urgentissima necessità di riforme, ma quasi nessuno si degna di precisare quali. Terzo, si sprecano le battute sulla natura “ottocentesca” della struttura, quasi che fosse ibernata da un secolo; e si tace sul fatto che quel Ministero è esso stesso il frutto di una riforma, essendo stato scorporato dalla Pubblica Istruzione nel 1975; e che di riforme da allora ce ne sono state cinque; la sesta, iniziata da Bray, è ora in lista d’attesa. Se qualcosa non funziona, dunque, non è perché siano mancate le riforme, ma perché ce ne sono state troppe.
Su queste riforme anche recentissime, i sermoni dei finti esperti non spendono una sillaba, né dicono una banale verità: che prima di farne una nuova bisognerebbe chiedersi con quali fini e aspettative si siano fatte le altre, e perché non abbiano funzionato. Ma questo è il Paese (con la “p” sempre meno maiuscola) dove l’improvvisazione la vince sull’analisi, l’approssimazione sulla competenza. Una delle ipotesi che ora si fanno è di modificare la struttura del sistema, con soprintendenze territoriali distinte per ambiti, creando soprintendenze “miste” con un solo dirigente a capo di ciascuna. Difficile dire se è giusto o sbagliato; quel che è certo è che in Sicilia, unica regione autonoma in questa materia, le soprintendenze miste ci sono da decenni, e la prima cosa da fare sarebbe studiare che cosa ha funzionato di quel sistema e che cosa no. Qualcuno lo sta facendo? Non risulta. Meglio tirare a indovinare.
Il divorzio della Sicilia dal resto d’Italia sul fronte dei beni culturali è la prova provata che la creazione stessa del Ministero fu fatta in modo confuso. Che senso ha creare un apposito ministero per un ambito tanto centrale per l’Italia ed espellerne la regione più vasta, e tra le più ricche di patrimonio culturale? Eppure il Ministero fu istituito il 29 gennaio 1975, e la Sicilia gli fu sottratta il 30 agosto di quell’anno, senza che l’allora ministro Spadolini aprisse bocca. Si vede così che il nuovo Ministero rispondeva a criteri di opportunità politica, e non all’esigenza primaria di attuare la Costituzione, che pone la tutela del paesaggio e del patrimonio artistico della Nazione fra i principi fondamentali dello Stato (art. 9), e dunque impone un identico livello e criterio di tutela in tutto il territorio nazionale. Da allora, i segni del degrado si sono moltiplicati, diventando sempre più visibili via via che il Ministero veniva depotenziato da irresponsabili tagli di bilancio nonché da un blocco delle assunzioni, che ha ridotto i ranghi degli addetti accrescendone l’età media e impedendo un sano rinnovo con l’immissione di giovani, esperienza, entusiasmo. Intanto, leggi e leggine rendono sempre più complesso il compito delle Soprintendenze, senza dar loro né nuovi mezzi né nuovo personale per farvi fronte. Perciò molte singole lagnanze su questo o quell’episodio di disfunzione saranno anche fondate, sia perché tutti possono sbagliare sia perché è più facile sbagliare quando non si hanno i mezzi per far bene: ma un errore giudiziario non giustifica l’abolizione della magistratura, una diagnosi sbagliata non vuol dire che si devono chiudere gli ospedali, dieci cattivi insegnanti non generano la proposta di abolire la scuola. Perché, dunque, a ogni vera o finta disfunzione delle Soprintendenze qualcuno ne chiede l’abolizione? Punto di partenza dev’essere la funzione civile del patrimonio culturale secondo la Costituzione: e cioè come bene comune dei cittadini, attributo della sovranità popolare, strumento di eguaglianza e di promozione della solidarietà sociale e della dignità personale. Tutto il resto (compreso il turismo) viene dopo: il patrimonio è in primo luogo dei cittadini e per i cittadini. Perciò le Soprin- tendenze non sono superfetazioni burocratiche, bensì istituti di ricerca sul territorio, di conoscenza del patrimonio e dei paesaggi, di protezione della memoria storica, di custodia dell’anima stessa del Paese. Se questo è, tre sono le più urgenti riforme: rimettere questo tema fra i più meritevoli d’investimento pubblico, e non fra gli ultimi (dunque, non improvvisare riforme solo perché obbligati da una qualche spending review); riaprire le assunzioni sulla base del merito, cercando altissime competenze specifiche, tecnicoscientifiche e gestionali; infine, assicurare la completa indipendenza dei funzionari dalla politica, facendone una sorta di magistratura del territorio.
Il recente documento del governo non va affatto in questa direzione. C’è da augurarsi che, quando parla di «abolire enti che non servono più», le Soprintendenze non siano tra questi; ma certamente ad esse si riferisce il punto 30 («accorpamento delle Soprintendenze e gestione manageriale dei poli museali»), che fa riferimento alla consueta mitologia, ignota al resto del pianeta, secondo cui tutti i manager (comunque definiti) sono efficienti, e nessuno storico dell’arte può esserlo mai. Altri punti del documento (21: «un solo rappresentante dello Stato nelle conferenze dei servizi»; 39: «unificazione della modulistica di edilizia e ambiente») sono altrettante bombe a orologeria che potrebbero impedire qualsiasi tutela del territorio. Perché i funzionari delle Soprintendenze, non dimentichiamolo, non sono opachi burocrati passacarte. Sono, o meglio devono essere o diventare, i custodi del futuro. Perché, se non sapremo affidare in mani competenti i nostri tesori più preziosi, saranno le generazioni future a pagare i costi della nostra insipienza di oggi. Nelle sue dichiarazioni al Salone del Libro di Torino, il ministro Franceschini se ne è mostrato ben consapevole. Ci auguriamo che la sua voce possa prevalere nel governo Renzi, dove le opinioni opposte non mancano.

Il Sole 13.5.14
Lo studio dell'Istituto Affari Internazionali
Il lato industriale ed europeo degli F-35
di Alessandro Marrone e Alessandro R. Ungaro


La scorsa settimana la commissione Difesa della Camera ha approvato la relazione del Pd che chiede tra l'altro una «moratoria» sul programma F-35 e il dimezzamento della spesa. Un argomento, quello dei velivoli F-35, sempre più al centro del dibattito pubblico. Nel 2012, nel quadro delle misure di austerità adottate per fronteggiare la crisi, la flotta di F-35 è stata ridotta da 131 a 90 velivoli. Oggi ci si chiede se servono davvero gli F-35 e perché, e se ci sono alternative ugualmente efficaci ma meno costose.
A queste e ad altre domande cerca di rispondere uno studio dell'Istituto Affari Internazionali (IAI) presentato oggi a Roma. Lo studio parte da un'analisi del ruolo italiano nelle missioni internazionali, che evidenzia in maniera concreta un salto di qualità nei compiti che i velivoli da combattimento italiani sono stati chiamati a svolgere negli ultimi due decenni, a partire dalla Prima Guerra del Golfo fino alle più recenti operazioni in Libia. La partecipazione italiana al programma F-35 scaturisce dalle necessità e dai requisiti identificati da Aeronautica e Marina - in larga parte simili a quelle degli altri partner europei e internazionali del programma - durante la più che ventennale esperienza operativa maturata nelle missioni internazionali. La scelta dell'F-35 è la conseguenza della volontà di mantenere il livello di efficacia e di operatività raggiunto, con una visione di lungo periodo che permetta di disporre di un velivolo di quinta generazione, ancor più integrato con i sistemi informativi della difesa.
In questa ottica, la partecipazione dell'Italia al programma multinazionale di produzione dei velivoli conviene dal punto di vista militare e industriale. Vi è la necessità irrinunciabile di sostituire nei prossimi vent'anni una flotta di 253 velivoli in via di obsolescenza, composta da Tornado, AMX e AV-8B. Partecipare al programma permette alle industrie italiane del settore aerospazio e difesa di partecipare alla produzione del velivolo. Alenia Aermacchi è responsabile della produzione della cellula centrale e delle ali del velivolo, non solo per gli aerei italiani ma anche per una percentuale degli F-35 acquistati dai partner. Molte piccole e medie imprese sono coinvolte come fornitori di componenti e sistemi, con importanti ricadute tecnologiche e industriali. La costruzione dello stabilimento FACO di Cameri, unica struttura del suo genere al di fuori del territorio americano, fa sì che il ministero dello Difesa italiano non dovrà spendere ulteriori risorse per la realizzazione di una struttura doppione, dal momento che la FACO è già predisposta a fungere da centro di manutenzione, riparazione e aggiornamento degli F-35, non solo italiani ma potenzialmente per tutti gli F-35 che opereranno nell'area. Ciò comporterà un volume di lavoro per le imprese italiane per il periodo in cui i velivoli saranno in servizio, ovvero i prossimi 30/40 anni.
E l'annosa questione dei costi? Come in ogni programma di procurement la curva del costo diminuisce nel tempo per poi stabilizzarsi. I primi velivoli costano di più perché risentono dei ritardi e dei problemi che emergono dallo sviluppo e dalla produzione di una nuova piattaforma con sistemi e tecnologie di ultima generazione. Successivamente, però, la cosiddetta "curva di apprendimento" rende la produzione più efficiente mentre l'aumento del numero di velivoli prodotti fa diminuire i costi unitari. Il primo F-35 è costato agli Stati Uniti 215 milioni di dollari mentre il costo dei singoli velivoli prodotti durante la sesta fase di produzione iniziale a basso ritmo è sceso a circa 130 milioni. Secondo alcune stime, quando partirà la produzione a pieno regime, ogni velivolo costerà circa 85 milioni di dollari, ben al di sotto del costo di un velivolo da combattimento della generazione precedente. È alla luce di queste e altre considerazioni che vanno valutati i pro e i contro della partecipazione italiana al programma.
Alessandro Marrone è Research Fellow Security and Defence Programme allo IAI e Alessandro R. Ungaro è Junior Research Fellow allo IAI

Il Sole 13.5.14
Il semestre italiano
Il coraggio di idee forti per il rilancio dell'Unione
di Alberto Quadrio Curzio


Le elezioni europee sono imminenti e tra poco più di un mese inizia il semestre di presidenza italiana del Consiglio europeo. Sono due appuntamenti che segneranno i 5 anni di durata delle istituzioni europee le cui cariche vengono rinnovate. L'Italia dovrebbe fare delle proposte forti per lasciare un segno politico ed economico di coraggio della sua presidenza. Se il coraggio non avrà effetti subito, sarà tuttavia meglio di una routine che la tecnocrazia di Bruxelles può benissimo gestire. La storia europea mostra tanti casi di coraggio che hanno avuto successo perché la loro razionale visione ha prevalso sul realismo immobilista. Consideriamo alcuni passaggi di questa proposta.
Le elezioni europee. Non crediamo che porteranno a un Parlamento bloccato dagli antieuropeisti perché i due grandi partiti su cui la Ue è costruita sono molto forti e, se necessario, sapranno trovare quell'accordo "alla tedesca" per governare l'Europa. I due candidati alla presidenza della Commissione - Martin Schulz per i socialisti (Pse) e Jean-Claude Juncker per i popolari (Ppe) - sono dei seri europeisti con grande esperienza e potranno avere un ruolo determinante anche per la presidenza semestrale italiana.
Il prossimo quinquennio non potrà però essere una replica del precedente, nel quale la sostanziale passività della Commissione europea e il dogma del rigore fiscale hanno bloccato la crescita portando la disoccupazione a livelli record in Europa. È stata una scelta sbagliata su cui è inutile adesso recriminare perché ciò che importa è cambiare. Sia nella Ue che nella Uem.
Le istituzioni europee. La necessità di una riconfigurazione della Ue è chiara. Va rilanciato l'ideale di unità nella diversità per un semi-federalismo della sussidiarietà dove popoli e Stati si complementino, dove le istituzioni comunitarie (Commissione e Parlamento) e quelle intergovernative (Consiglio e Consigli) si ripartiscano meglio i livelli di governo. Dal 1992 sono stati varati 4 Trattati (Maastricht, Amsterdam, Nizza, Lisbona) con un ciclo medio di 5 anni.
L'Italia dovrebbe proporre adesso una revisione per chiarire(almeno) molte ambiguità del Trattato di Lisbona e per rilanciare la "Carta dei diritti fondamentali" della Ue, varata nel 2000 quando Prodi era presidente della Commissione, che non è stata poi adeguatamente valorizzata per rafforzare l'identità europea.
Poiché il Trattato di Lisbona, in vigore dal 1° dicembre 2009, prevede anche la "Convenzione" per avviare le procedure di modifica dei Trattati, è giunto il momento di usarla almeno per rafforzare valori e principi su cui è stata fondata l'Europa, tra i quali spiccano la solidarietà per lo sviluppo fatto di crescita e occupazione.
Lo esige innanzitutto la disoccupazione totale Ue all'11% (pari a 26,4 milioni) e quella giovanile al 23,4% (pari a 5,6 milioni), aggravata dai giovani rinunciatari (Neet) ormai a 7,3 milioni, pari al 13% della popolazione tra i 15 e i 25 anni.
L'economia europea. La disoccupazione impone di rilanciare subito la crescita usando gli strumenti di politica economica disponibili. Si tratta del Qfp (quadro finanziario pluriennale) che pianifica l'impiego di 960 miliardi ripartiti su 7 anni (2014-2020) e su 4 filiere di spesa (più una quinta per l'amministrazione). Per la prima volta questo Qfp, soprattutto per merito di Schulz in quanto presidente del Parlamento europeo, contiene importanti innovazioni. E cioè: una clausola di revisione dopo due anni (cioè nel 2016)
con una prospettiva di allineamento ai 5 anni dei cicli istituzionali europei; una clausola di flessibilità tra capitoli di spesa; l'istituzione di un gruppo di lavoro (pro tempore presieduto da Mario Monti) per riconsiderare gli accordi sulle fonti di finanziamento del Qfp. Usando queste clausole va accelerato ed eventualmente riorientato l'uso delle risorse in investimenti comunitari secondo i progetti di Europa 2020 e quelli delle Ten (Trans-European Networks) in energia, trasporti, infotelematica per costruire l'unione di economia reale, non bastando il mercato interno fatto solo di regole.
L'eurozona. Suo compito è quello di completare il ruolo della Bce (che ha limiti statutari pur flessibilmente interpretati da Mario Draghi che tuttavia non può continuare a fare miracoli) per rilanciare la crescita. Questo può essere fatto usando il Fondo Esm (che ha soccorso Spagna e Cipro, mentre l'Efsf lo ha fatto per Grecia, Irlanda e Portogallo), che ha tuttora una capacità di emissioni obbligazionarie garantite di circa 450 miliardi. Lo stesso potrebbe finanziare investimenti infrastrutturali materiali (comprendendovi anche la tutela ambientale e territoriale), immateriali (comprendendovi anche programmi europei di apprendistato da svolgere in Paesi diversi da quelli di propria cittadinanza per favorire l'integrazione comunitaria), misti (comprendendovi anche la crescita dimensionale delle Pmi). Questo Fondo, già governato dall'Eurogruppo, potrebbe collaborare con la Bei (ed eventualmente con le Casse depositi e prestiti nazionali) per spingere la crescita. Una modifica del Trattato internazionale istitutivo dell'Esm non è irrealistica (mentre lo è quella del fiscal compact al quale si opporrebbe la Germania). Se poi vi si incorporassero quegli "accordi contrattuali" per vincolare le riforme degli stati membri, verrebbe rafforzato anche il progetto "Verso un'autentica Unione economica e monetaria" al quale ha dato un contributo importante nel 2012 Juncker, allora presidente dell'Eurogruppo e adesso candidato del Ppe alla presidenza della Commissione. Questa proposta è più debole di quella fatta a suo tempo da Romano Prodi e da me sugli EuroUnionBond ma è anche più fattibile al presente.
In conclusione. Abbiamo parlato spesso di Schulz e Juncker, oggi candidati del Pse e del Ppe alla presidenza della Commissione europea, che nei loro precedenti ruoli istituzionali europei si sono spesso espressi per il rilancio della crescita e per le riforme. Il presidente Renzi deve dialogare con loro per impostare un semestre di presidenza italiana che abbia una visione progettuale alta.

il Fatto 13.5.14
Le ragazze convertite a forza ultima beffa dei Boko Haram
Gli estremisti islamici negeriani diffondono la foto delle studentesse rapite con il velo e circondate da armati. Il racconto di una fuggitiva
di Carlo Antonio Biscotto


Mentre con iniziativa piuttosto teatrale i jihadisti di Boko Haram hanno fatto sfilare in piazza le ragazze ancora prigioniere offrendo la loro libertà in cambio della liberazione di alcuni terroristi in carcere, alcune delle giovani sequestrate e riuscite a fuggire cominciano a raccontare come sono andate le cose. “È stata una cosa talmente terribile che non riesco a trovare la parole per raccontarla”, ha detto Sarah Lawan, 19 anni, studentessa del Liceo scientifico parlando ai fedeli raccolti in preghiera per la salvezza delle 276 studentesse tuttora in mano agli estremisti islamici. “Non ho il coraggio di tornare a scuola”, ha aggiunto.
L’APPARENTE incapacità del governo di liberare le giovani ha provocato nel Paese una rabbia crescente tanto che la il governo nigeriano, dopo aver a lungo resistito, si è deciso ad accettare l’aiuto internazionale aprendo le frontiere ai negoziatori americani e a personale specializzato proveniente dalla Gran Bretagna, dalla Francia, dalla Cina, dalla Spagna e da Israele. “Mi addolora che le mie compagne non abbiano avuto il coraggio di scappare insieme a me”, ha spiegato Sarah Lawan. “Piango ogni volta che incontro i loro genitori distrutti dal dolore”.
Secondo la polizia 53 studentesse sarebbero riuscite a fuggire . Fin dalle prime ore i terroristi di Boko Haram hanno minacciato di vendere le ragazze come schiave e, stando ad alcune voci non confermate, alcune sarebbero già state costrette a sposare i loro rapitori che le hanno “comprate” per 12 dollari. Altre sarebbero state vendute in Camerun e Chad.
Tra i singhiozzi Sarah ha spiegato ai giornalisti che, pur terrorizzata, tornerà a scuola perchè il suo sogno è studiare legge e non intende rinunciarci. “Ho veramente paura, ma non ho scelta. Quest’anno debbo fare gli esami di licenza liceale e l’anno prossimo mi voglio iscrivere all’università”. Da giorni i nigeriani si raccolgono nelle chiese di tutto il Paese e pregano per la salvezza delle prigioniere in questo momento di crescente tensione tra musulmani e cristiani. La Nigeria con i suoi 170 milioni di abitanti, è la nazione più popolosa del continente e i cristiani sono grosso modo il 50% della popolazione. Il reverendo Stephen Omale ha pronunciato una omelia nella capitale Abuja: “Dio le salverà; la misericordia del Signore non permetterà che accada loro nulla di male”, ha detto dinanzi ad una folla di fedeli. La Gran Bretagna spera di poter dare il suo contributo alla liberazione degli ostaggi e alla fine di una rivolta che va avanti da cinque anni e che ha fatto migliaia di vittime tra musulmani e cristiani oltre a 750.000 sfollati costretti ad abbandonare le loro case.
Il ministro della Difesa degli Stati Uniti, Chuck Hagel, ha dichiarato che “sarà molto difficile trovare il luogo in cui sono nascoste le ragazze”. Ma ieri è stato smentito da Boko Haram che le ha mostrate in piazza sfidando le autorità e il governo e dichiarando che le giovani sono state “convinte” a convertirsi all’Islam. Nella foto che ha fatto il giro del mondo appaiono quasi completamente coperte. Un esperto di sicurezza nigeriano ha detto che i militanti di Boko Haram potrebbero aver piazzato mine anti-uomo per scoraggiare ogni tentativo di fuga da parte delle ragazze. “Forse la cosa migliore sarebbe prenderli per fame”, ha detto un ex generale dell’Aeronautica militare nigeriana. “I militanti di Boko Haram non hanno scrupoli, sono belve feroci, rapiscono anche i bambini, ma hanno bisogno di cibo”.
L’altro ieri una organizzazione umanitaria nigeriana ha chiesto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di adottare sanzioni contro Boko Ha-ram. ”Il destino di queste studentesse è in bilico. L’Onu non deve abbandonarle”, ha dichiarato Adetokunbo Mumuni, direttore esecutivo dell’organizzazione. Certo è che l’inaudita ferocia e la brutalità degli islamisti di Boko Haram ha per lo meno contribuito a mostrare il vero volto del fanatismo religioso. Sarà difficile per i militanti di Boko Ha-ram rivendicare il ruolo di custodi della morale musulmana e dei valori tradizionali dell’Islam.

La Stampa 13.5.14
I volti di una sventura irreparabile
di Domenico Quirico


Sono rientrate brutalmente nel lutto del loro pudore imposto. Coperte di nero e di grigio, un domino di panno che nasconde le forme, solo gli occhi ci guardano mentre sedute, piegate, calde e cave come un nido, scandiscono, in una radura, il primo capitolo del Corano. Irriconoscibili in quella radura scialba le cento giovinette prigioniere che erano, appena ieri, piene di colore e di vita, l’Africa che è colore e vita: annullate in un tempo scomparso come se il tessuto e il colore dell’hijab cancellasse il tempo e la vita e soffocasse ogni altra cosa sotto la sua cova.

Nel video dei Boko haram le immagini delle studentesse sequestrate nel nord della Nigeria si alternano con il sermone del capo della setta islamista Abubakar Shekau. Con il kalashnikov negligentemente appoggiato sulla spalla, a gesti larghi, lo sguardo magnificamente torbido, annuncia che le ragazze ‘’per cui vi preoccupate tanto in occidente noi le abbiamo liberate. E sapete come? Sono diventate musulmane!’’.

Tre di loro parlano: ininterrottamente, con quella voce al di là che si ha quando si recita, quando si obbedisce a quello che si dice senza esserne più padroni. Confermano: eravamo cristiane. Ora siamo convertite all’Islam. E loro parole, con l’abito che indossano, scavano una sventura irreparabile; il passato che è morto brutalmente risuscita per soffrire, la felicità della loro giovinezza è distrutta. I giorni trascorsi che parevano felici sono divenuti tristi ed è il lutto di tutto, del vestito e dell’anima. La conversione! cosa c’è in tutto questo del dono di una tenerezza divina, di una consolazione che non è nell’uomo?
Guardano fisse le telecamera, le convertite, non c’è paura in quel riquadro di viso, solo la visione della crudeltà della vita, una paziente rassegnazione, la consapevolezza del nulla. Intente, si direbbe, alla propria debolezza si guardano sanguinare come un’urna piegata. Ecco l’impressione della sacra povertà degli esseri umani travolti dalla sopraffazione e dal fanatismo.
L’islam è una religione egualitaria, tutti ricchi e poveri potenti e derelitti sono eguali davanti al definitivo mistero di dio. Tutti meno tre categorie: i miscredenti, gli schiavi e le donne. Ma lo schiavo poteva esser liberato da suo padrone, l’infedele comprendere il vagare nell’errore e diventare credente cancellando subito la sua inferiorità. Solo la donna è condannata per sempre a restare ciò che è. Perché nel corpo delle donne passa il confine tra modernizzazione e occidentalizzazione. Conservatori tradizionalisti e radicali fanatici su una cosa concordano: possono accettare la tecnologia moderna, la utilizzano perché necessaria e efficace. Ma la emancipazione delle donne è, per gli uni e gli altri, la peste della occidentalizzazione che deve esser tenuta lontana o estirpata senza pietà.
A Chibok, in Nigeria, si fonde nella violenza un altro tassello del grande jihad planetario madido di odi di guerra. Lo stanno costruendo, giorno dopo giorno da Kabul a Aleppo, dalle sabbie del Sahara al nord della Nigeria uomini come Abubarak Shekau. Uniti dall’invisibile e sublime legame del male pensano che per trionfare bisogna uccidere, per salvare la vita perdere quella degli altri.

Corriere 13.5.14
Quelle ragazze già vedove di tutto
di Isabella Bossi Fedrigotti


Si sono convertite all’Islam, hanno annunciato con orgoglio i loro rapitori. E chi, avendo quattordici, quindici, diciotto anni o anche di più, minacciato di violenza, di morte o di schiavitù, non si sarebbe convertito in perfino meno di due settimane da qualsiasi religione a qualsiasi religione? Recitare il Corano a memoria, cantarne dei versetti, velo bianco, velo nero, fosse pure velo integrale: qualsiasi cosa pur di salvarsi e di tornare alla vecchia vita di prima.
Povere, disperate ragazze colpevoli di essere andate a scuola, qualcuna di loro magari controvoglia, come succede a tutti gli scolari del mondo, obbligate dai genitori ansiosi per il loro futuro. Ragazzine, anzi, a giudicare dall’ audio dell’ultimo video inviato dai rapitori, che ci fa ascoltare le loro voci inconfondibilmente giovanissime, fresche, chiare nonostante la paura, nonostante le minacce, nonostante la loro condizione di ostaggi, infelice merce di scambio per un ricatto che il governo nigeriano ha già proclamato che non accetterà.
Le sentiamo cantare in coro e potrebbe essere un canto qualsiasi, una salmo religioso, un inno patriotico, una canzone popolare che tutte conoscono. Poi vediamo le foto delle studentesse e verrebbe da pensare che di un canto funebre si potrebbe trattare, invece. Vediamo i loro visi terrorizzati, chiusi, disperati, rassegnati: piccole donne che fino a due settimane fa avevano le loro minime vite tranquille, liete o meno liete, tra libri di scuola e lavori domestici, tra genitori e fratellini, e che d’improvviso si sono ritrovate nell’inferno.
Nessuna piange, devono aver già pianto quanto era possibile, soltanto guardano fisso, ci guardano, e i loro occhi immobili, scuri, profondi, esprimono l’angoscia dei condannati a morte che neppure più chiedono aiuto, che sanno quanto sia inutile gridare, agitarsi, chiedere pietà. Sono giovanissime ma già vedove e orfane di tutto, non hanno più corpi avvolti come sono nelle pezze nere, non hanno più età, non più amici né famiglia. Sono un centinaio, sedute vicine l’una all’altra, ma dai loro visi si capisce che sono perdutamente sole. Hanno visto morire ammazzate compagne, amiche, forse sorelle, e quello che hanno subito probabilmente non sperano più di poterlo un giorno confidare a qualcuno. Nemmeno sanno — anche questo è probabile — che in tutto il mondo si parla di loro, speriamo non soltanto per passeggera indignazione internazionale.
Sono armati fino ai denti gli uomini che sorvegliano il gruppo, elmetti in testa e mitra imbracciati, pronti a fare fuoco: e hanno l’aria di chi va a caccia di passerotti e fringuelli con un fucile da caccia grossa, buono per leoni ed elefanti. Solo che gli sventurati passerotti neri messi in fila per la sceneggiata della conversione, paralizzati come sono dal terrore, nemmeno si sognano di spiccare il volo.
Tra i volti mortalmente seri delle piccole vedove senza lacrime spicca un sorriso soltanto, se tale si può definire l’orribile ghigno del capo dei banditi. E chissà se ride per la contentezza di essere riuscito ad avere la meglio, con la sua soldataglia, su delle ragazzine di quattordici, quindici anni, a farle addirittura convertire, sotto la minaccia delle armi.

Repubblica 13.5.14
Quei volti senza sorriso e l’impotenza del nostro mondo
La libertà delle donne è ormai il nocciolo duro della parola Occidente
di Adriano Sofri



IERI, grazie all’impudenza dei loro persecutori, le abbiamo viste “le nostre ragazze” rapite, rivestite e velate al gusto di quelli, con gli occhi sbarrati dallo spavento, addestrate a pregare con le palme aperte ma non abbastanza da simulare un solo sorriso. Il mondo è ubriaco di petrolio, acqua, traffici di droga e armi, minerali rari, giochi della finanza.
CHE si combatta una guerra planetaria la cui vera posta è il controllo e la riconquista delle donne può sembrare una boutade, o un’iperbole. I signori di Boko Haram si sono premurati di renderlo evidente, come in un Manifesto. Centinaia di ragazze rapite dal dormitorio della loro scuola, una delle poche ancora aperte nello stato di Borno, subito dopo aver sostenuto gli esami di fine anno; e poi il capobanda che annuncia che le venderà a quattro soldi per farle schiave o mogli forzate (è la stessa cosa) fuori dai confini; e poi ancora il capobanda – vanesio, come tutti questi epici farabutti - che si dichiara magnanimamente disposto a scambiarle con i suoi adepti detenuti dal governo federale nigeriano, quelle che non si sono convertite, e mostra le altre, quelle «che si sono sottomesse». «Anzi, le abbiamo liberate», dice.
C’è una difficoltà, abbiamo imparato, a tradurre adeguatamente il titolo mezzo hausa mezzo arabo della banda, Boko Haram –vuol dire, più o meno, che ciò che è occidentale è peccaminoso, e vietato. Qualche etimologista inclina a pensare che il Boko storpi l’inglese book , libro – l’inglese è lingua ufficiale in Nigeria: così, questi fanatici del libro sacro da prendere alla lettera, sarebbero i vietatori del libro. L’occidente che aborrono – il loro fondatore, Mohammed Yusuf, guidava una Mercedes e negava sdegnato che la terra fosse rotonda - era arrivato in Nigeria con il colonialismo e ci è rimasto con le multinazionali del petrolio, ma anche col cristianesimo delle scuole e la bella storia sulla lapidazione mancata dell’adultera.
Il governo corrotto e inetto di Abuja ha trattato per anni le stragi di Boko Haram come affare di musulmani che si ammazzavano fra loro: un po’ come facevano i nostri governi con le guerre di mafia. Quando, ogni tanto, decidevano di esibire la propria repressione, emulavano la ferocia dei terroristi. Anche questa volta, ad Abuja per un po’ hanno fatto finta di niente, e anzi denunciato l’allarme sulle ragazze come un diversivo al loro balletto elettorale, come ha scritto Wole Soyinka, che avete letto qui ieri. Poi hanno chiesto aiuto agli occidenti, quello che trepida e prega per le ra- gazze violate, e quello che prega, Cina compresa, per il colossale serbatoio di petrolio e gas che la Nigeria possiede, ma molto lontano dal nordest. Per i Taliban di Boko Haram le bambine non devono andare a scuola, come per i loro colleghi afgani. Devono tornare a chiudersi dentro una galera domestica, o dentro la galera portatile del burka o del velo imposto. Comunque lo si traduca, l’occidente che Boko Haram vieta, maledice e condanna ha la sua essenza nella libertà civile e sessuale della donna, cui tutte le altre li- bertà sono debitrici: anche la Conchita Wurst che scandalizza i governanti russi.
Il ratto delle ragazze nel nordest della Nigeria è così vistoso ed esemplare che ha scosso il mondo, e ha suscitato una reazione commossa. Americani, inglesi, francesi, hanno offerto collaborazione. Israele ha proposto di partecipare alle ricerche delle ragazza sequestrate, e il presidente Goodluck Jonathan ha accettato. Ma ancora una volta ci si chiede, di fronte a questa volonterosa impotenza, per così chiamarla, come possa il mondo fare a meno di una polizia capace di prevenire o punire la malavita, quando la malavita lavori all’ingrosso. Negli stessi giorni in cui dura il sequestro, i suoi autori vanno avanti con gli attentati suicidi e le aggressioni armate, ben armate, distruggendo chiese, moschee, scuole, villaggi interi, ammazzando centinaia di persone alla volta, come a Gamboru Ngala lo scorso 5 maggio. In questi giorni, alla gara di persone comuni e personaggi famosi fotografati con l’appello “ Bring Back Our Girls ”, hanno fatto da contrappunto voci di malcontenti: per l’esibizionismo o l’ipocrisia supposta della campagna, perché “ben altro”, perché la guerra di Boko Haram ha fatto più di 12mila vittime, per il silenzio sulla devastazione del delta del Niger, per ilsilenzio o le complicità con la spietata tratta di ragazze prostitute dalla Nigeria del sud, quella cristiana e voodoo, che riempie i campi della Campania o i marciapiedi di Genova. E’ vero, tutto vero, e però inutile e fatuamente anticonformista.
Fra i milioni che si commuovono per le ragazze del villaggio di Chibok, molti si saranno informati e interrogati per la prima volta su una quantità di cose. Sulla Nigeria, così grande da contenere un quarto di tutti gli africani, così ricca da eccitare gli appetiti di occidente e oriente e così povera da regalare a una banda di fanatici i pretesti per proclamarsi paladini della gente. E sul mondo, in cui si combatte una guerra di liberazione delle donne, con le armi più diverse, come il Facebook delle donne iraniane che si fotografano con il vento fra i capelli. Boko Haram ha avuto tempo sufficiente a trasformarsi da una banda efferata di cialtroni in una banda di cialtroni che spadroneggia a cavallo dei confini di Nigeria, Ciad, Camerun, Niger. L’islamismo jihadista africano si associa già, e più si associerà, con quello maghrebino, e la loro alleanza si salderà sull’odio per l’occidente, parola sempre più difficile da tradurre, se non per quel nocciolo duro, quella quintessenza, la libertà delle donne.

La Stampa 13.5.14
Algeria, la dittatura morente di Bouteflika
di Amel Boubekeur’


Nonostante la salute cagionevole, il presidente algerino Abdelaziz Bouteflika il mese scorso ha vinto un quarto mandato con il 81% dei voti - o almeno così ha annunciato il regime. In realtà, lungi dal segnalare una crescente stabilità politica, la falsa vittoria del settantasettenne in carica evidenzia quante poche opzioni abbiano gli algerini per cambiare il sistema dall’interno.

Sotto la guida di Bouteflika il governo algerino non è riuscito ad affrontare le sfide economiche e sociali più urgenti per il paese. E non c’è motivo di aspettarsi che cambi qualcosa. Da quando è stato vittima di un ictus lo scorso anno, Bouteflika non è quasi mai apparso in pubblico, sia per fare campagna elettorale in vista del voto, sia dopo la vittoria.
Di conseguenza il regime trova sempre più difficile sostenere, come ha fatto negli ultimi 15 anni, che il governo di Bouteflika rappresenta il controllo civile sulle forze armate. Così ha messo a punto una nuova strategia, volta a creare l’impressione di una transizione: la Costituzione sarà rimaneggiata per designare un vice presidente come legittimo successore del presidente. Naturalmente il vero scopo della mossa è quello di permettere all’esercito di stringersi attorno al prossimo compiacente «leader civile».
Il regime proporrà anche un «contratto nazionale», presumibilmente per avviare un dialogo con l’opposizione. Ma, dopo la vittoria fasulla di Bouteflika, l’opposizione non può più accettare un ruolo nella farsa dei piani di riforma del regime.
In effetti l’annuncio che Bouteflika intendeva presentarsi è bastato per unire gli islamisti e la sinistra - anche partiti che in precedenza erano stati cooptati dal regime - e spronarli a organizzare un boicottaggio del voto. Quando sono stati resi noti i risultati delle elezioni, hanno subito rifiutato il nuovo governo in quanto illegittimo.
Ma, per guadagnare credibilità, i partiti dell’opposizione dovranno estendere la loro critica al di là di Bouteflika, al sistema nel suo complesso. Questo è cruciale per la loro sopravvivenza, dato che gli avversari più giovani stanno cercando nuove vie per arrivare a un cambio di regime al di fuori del sistema controllato dallo Stato.
Uno sviluppo importante è la crescente influenza di voci del dissenso che non sono di parte. Si sono formati movimenti non violenti di protesta non solo contro l’eterna leadership di Bouteflika, ma anche contro il ruolo pervasivo dell’esercito e dei servizi segreti nella società civile. Questi movimenti, come la tanto sbandierata «Barakat» (Basta), hanno contribuito a spostare gli algerini da una rancorosa astensione al boicottaggio militante.
Anche i sindacati clandestini – che organizzano manifestazioni e scioperi per tutelare i diritti dei lavoratori, pur rifiutandosi di collaborare con i sindacati ufficiali del regime - hanno criticato le elezioni. Inoltre, i giovani hanno assunto un ruolo di primo piano nell’opposizione, ad esempio sabotando i comizi elettorali di Bouteflika. Le manifestazioni dei giovani disoccupati nel sud dell’Algeria, il centro dell’industria petrolifera, tracciano un collegamento diretto tra l’alto tasso di disoccupazione e il controllo delle risorse naturali del paese da parte dell’esercito.
Attraverso l’organizzazione di proteste pacifiche per chiedere trasparenza sulla spesa pubblica, questi movimenti stanno sollevando questioni che non sono state affrontate durante la campagna elettorale. Nell’immediato stanno anche sfidando il veto del governo alle manifestazioni di piazza - vestigia dello stato di emergenza durato dal 1992 al 2011. Poiché la guerra civile degli Anni 90 è finita da un pezzo, i funzionari della sicurezza non possono spiegare per quale ragione siano stati arrestati degli algerini che chiedevano lavoro.
Naturalmente la repressione continua a intimidire la maggior parte degli algerini. Ma sta diventando sempre più facile suscitare la loro simpatia per i propri concittadini attraverso Twitter, YouTube e Facebook. Che, stimolando quotidianamente il dibattito pubblico sulle violazioni locali dei diritti umani, diffondono il messaggio del malcontento in modo più efficiente di quanto mai abbiano fatto i partiti tradizionali.
Chiedendo migliori servizi statali piuttosto che una «primavera araba», gli algerini hanno camminato sul filo del rasoio, evidenziando l’incapacità del regime di garantire sicurezza e prosperità economica, nonostante i suoi sforzi per soffocare ogni dibattito. Così, anche senza parlare esplicitamente di politica, il numero degli algerini contrari al governo sta crescendo.
La maggior parte delle proteste di piazza sono avvenute nelle zone più svantaggiate e trascurate del Paese e le richieste primarie sono state economiche: migliori posti di lavoro, abitazioni, servizi sanitari e infrastrutture. Ad alcuni basterebbe il diritto di guadagnarsi da vivere grazie all’economia informale.
E i manifestanti hanno fatto di tutto - a volte in modo distruttivo - per essere ascoltati, bloccando strade,occupando fabbriche ed edifici governativi e sabotando la rete di distribuzione dell’acqua e dell’elettricità. Dal 2011 oltre 150 algerini si sono addirittura dati fuoco, di solito di fronte a edifici pubblici.
In questo contesto non sorprende il fallimento dei goffi tentativi del governo per comprarsi i manifestanti. Nel 2011 il governo, temendo il contagio dalla Tunisia e dall’Egitto, dove dittature di lunga data erano appena state rovesciate, ha risposto al diffondersi delle proteste tra i lavoratori del settore pubblico aumentando i loro stipendi del 100% - retroattivamente dal 2008. Ma il piano è fallito; le proteste si sono intensificate, con altri lavoratori che hanno iniziato a manifestare per ottenere gli stessi benefici e a protestare contro l’inflazione innescata dalla manovra.
Certamente le proteste di piazza hanno già avuto un impatto profondo sulla politica autoritaria dell’Algeria e i timori ufficiali di sollevazioni di massa influenzano i bilanci pubblici e le scelte politiche. Ma la decisione di prolungare la presidenza di Bouteflika non fornisce il genere di leadership forte, trasformazionale, che occorre all’Algeria per dare corpo alle promesse di stabilità del regime.
Le autorità algerine si trovano di fronte a una grande sfida, perché il rifiuto di istituzioni pluralistiche rende più difficile trovare partner negoziali. Quanto più il regime tenta di corrompere i manifestanti, tanto più arrogante risulta – e tanto più si arrabbiano i cittadini. E la generazione più giovane e infuriata, soprattutto, non ha particolare timore di perdere i limitati vantaggi offerti dallo status quo.
*Analista al German Institute for International and Security Affairs (SWP-Berlino).
Copyright: Project Syndicate, 2014.

Il Sole 13.5.14
Crescita media del 5,3% nel 2014
Il rinascimento dell'Africa orientale


Nello scenario dell'economia mondiale finora l'Africa ha ricoperto il ruolo di fornitore di materie prime, agricole e minerali. Probabilmente questo ruolo è ancora il prevalente e l'Africa si deve augurare che i mercati emergenti, Cina in prima fila, continuino a correre per evitare che il costo delle materie prime calino. Ma detto questo qualcosa sta finalmente cambiando nel Continente Nero e soprattutto nell'Africa Orientale, Kenya in primis. Non si può ancora parlare di rivoluzione industriale, ma i costi del lavoro inferiori di 1/3 di quelli cinesi, la ritrovata stabilità politica e il rispetto delle regole del mercato affiancato a una stabile organizzazione del credito, stanno iniziando ad attrarre multinazionali da tutto il mondo. L'Africa inizia a realizzare prodotti in casa e sta cominciando a esportarli. Il Pil è quasi raddoppiato dal 3,5% del 2011 al 6,6% nel 2012. Poi si prevede un declino al 5% nel 2013 e una crescita media del 5,3% nel 2014. Cifre da far invidia a numerosi Paesi europei. Un rinascimento in atto proprio nella parte orientale, quella vicina all'Asia. (V.D.R.)

Il Sole 13.5.14
Africa, la ferrovia dei cinesi
Strategie di investimento. Pechino finora si è assicurata tutti i grandi progetti nell'Est del continente
Firmato da Li Keqiang il maxi-accordo per la linea Mombasa-Nairobi
di Gabriele Meoni


Il più grande progetto dell'era post-coloniale. Un'infrastruttura capace di abbattere radicalmente i costi di trasporto. Un balzo nel futuro per l'economia di mezza Africa.
I capi di Stato che domenica in Kenya hanno firmato il maxi-accordo per la costruzione di una nuova linea ferroviaria tra cinque Paesi (Kenya, Uganda, Ruanda, Burundi e Sud Sudan) erano visibilmente soddisfatti. Accanto al padrone di casa, il presidente kenyano Uhuru Kenyatta, i fotografi hanno immortalato l'uomo senza il quale l'intesa non sarebbe stata possibile: Li Keqiang, il primo ministro cinese.
Li ha concluso in bellezza il suo tour africano. Dopo le tappe in Etiopia, Nigeria e Angola, dove ha cementato i già floridi rapporti economici con i governi locali, il numero due dell'establishment di Pechino ha coronato in Kenya un progetto concepito, finanziato - e presto realizzato - dai cinesi. Il contratto da 3,8 miliardi di dollari per il primo tratto della ferrovia, quello che collega il porto di Mombasa con Nairobi, è stato infatti assegnato alla China Road and Bridge Corporation.
La società del gruppo China Communications Construction Company costruirà una linea lunga 609 chilometri. I lavori partiranno il 1° ottobre per essere completati nel marzo 2018. In una seconda fase è prevista l'estensione a Uganda, Ruanda, Burundi e Sud Sudan. I treni saranno destinati sia ai passeggeri che alle merci, ma è chiaro che la funzione principale, e soprattutto quella che più interessa a Pechino, è il trasporto cargo. Il progetto infatti servirà e decongestionare la strada che collega Mombasa e Nairobi, sulla quale transitano gran parte delle merci provenienti dalla Cina e le materie prime africane destinate ai mercati asiatici. Il disegno strategico cinese mira dunque a sviluppare la rete di trasporto dell'Africa orientale per farne un corridoio privilegiato di commodities locali e di prodotti made in China.
Chi finanzierà il progetto? Il 90% sarà a carico della China Export-Import Bank, la banca pubblica che sostiene l'espansione all'estero delle imprese di Pechino, il restante 10% lo metterà il governo del Kenya. È un modus operandi tipico della Cina: assicurare il finanziamento delle infrastrutture e in cambio ottenere le commesse per costruirle. A nulla sono valse le critiche rivolte al governo kenyano, accusato di non aver svolto gare d'appalto internazionali. Alti funzionari di Nairobi citati dall'agenzia Reuters hanno fatto sapere che tra le condizioni del finanziamento c'era proprio l'assenza di tender.
La Cina sembra senza rivali in Africa orientale. Nella vicina Etiopia le sue imprese hanno già realizzato il 37% della ferrovia Addis Abeba-Gibuti, una linea di 756 chilometri che secondo i piani sarà terminata nell'autunno del 2015. I lavori sono condotti da China Railway Engineering e da China Civil Engineering Construction. Anche in questo caso il trasporto merci sarà prioritario, con l'obiettivo di movimentare 11 milioni di tonnellate nel 2016 e 25 milioni entro il 2025, sfruttando lo sbocco marittimo di Gibuti sul Golfo di Aden. Intanto nella capitale Addis Abeba è in fase avanzata la realizzazione della prima metropolitana leggera (Light Rail Transit) che punta a trasformare la mobilità in una metropoli congestionata. Il progetto da 500 milioni di dollari è stato assegnato a un altro gruppo cinese, China Railway Group. Le imprese europee e americane, che pure vantano competenze e tecnologie all'avanguardia, possono aspettare.

Il Sole 13.5.14
Gran balzo cinese nella finanza globale
Riforma dei mercati dei capitali per spingere l'economia reale
di Rita Fatiguso


La Cina tenta il gran balzo nella finanza globale. La riforma più attesa, quella dei mercati di capitale, diventa - nei piani dei vertici di Pechino - lo strumento per dare nuova linfa all'economia reale rafforzando la crescita inchiodata, finora, al 7,4 del primo trimestre.
Ad annunciarlo, infatti, è lo State Council mentre le istruzioni complete, racchiuse in nove capitoli, fanno parte di un corpus a sé: daranno certamente filo da torcere agli operatori finanziari che dovranno interpretarle e poi prepararsi ad applicarle in un contesto estremamente fluido. Intanto, stanno lì a dire che i vari enti regolatori, spesso in conflitto tra di loro, possono procedere: il via libero politico, adesso, c'è.
Ma lo State Council ha messo insieme, a ben guardare, quasi l'impossibile: dalle attese guidelines per le Ipo (ben duecento quelle ai blocchi di partenza più altrettante ancora in fase di predisposizione dei prospetti) alle operazioni crossborder a Taiwan, Hong Kong e Macao, dall'aumento delle quote per gli investitori esteri qualificati ai bond delle municipalità, dal mercato dei future delle materie prime alla revisione del mercato obbligazionario.
Alcune misure rischiano di "cannibalizzarsi" a vicenda come l'apertura delle quote agli investitori stranieri rispetto alle regole sulle Ipo; altre, come la revisione del regime di delisting, erano attese e richieste a gran voce da tempo, specie dalle aziende in attesa di quotarsi.
La premessa dei nove capitoli firmati dallo State Council è che i mercati di capitali di Mainland China non sono ancora maturi, però ci provano, a diventarlo, affrontando il giro di boa della maggiore età. Tuttavia spetta sempre al Governo della Repubblica popolare cinese adempiere le sue funzioni di regolamentazione, supervisione e controllo «per creare un ambiente equo di mercato concorrenziale, tutelare i legittimi diritti e gli interessi degli investitori, mantenendo efficacemente l'ordine nel mercato».
Prima di tutto si mette mano al mercato azionario, toccando il sistema di registrazione dei titoli. Si fa riferimento al rafforzamento del mercato secondario per le Pmi, quelle che dovrebbero trovare nella borsa la fonte preziosa di finanziamento. Fanno capolino, nella riforma, perfino i piani di stock option per i dipendenti e si fanno grandi riferimenti alle acquisizioni e fusioni. Mentre per le Ipo si traccia un percorso dettagliato, il sistema di delisting diventa la ramazza con la quale fare pulizia (decine di società sono in odore di insider trading), specie nei casi di conclamata frode delle società quotate per le quali scatterà il delisting obbligatorio. Poi si passa al mercato obbligazionario puntando a diversificare i prodotti per i diversi gruppi di investitori. Qui fa l'apparizione il sistema dei titoli emessi dagli enti locali che dovrebbero diventare l'architrave di un'urbanizzazione sostenibile anche dal punto di finanziario: troppe città si finanziano vendendo la terra sempre più scarsa, spesso sottoscrivendo prodotti collaterali ad alto rischio, debiti che si finisce per non onorare.
La riforma punta anche a promuovere il regolare flusso delle obbligazioni cross-market, introducendo anche un sistema di registrazione obbligazionario. E grande enfasi viene messa sulla costruzione di un mercato dei futures delle materie prime, dalle opzioni su commodity, agli indici sulle materie prime, al trading delle emissioni di carbonio. Ma, in un'epoca di rampante finanza online, non poteva mancare l'internet banking che sarà anch'esso valorizzato.
L'apertura all'estero e agli scambi cross-border, con Hong Kong e Macao, regioni amministrative speciali e con Taiwan, renderanno necessario rafforzare la cooperazione anche per reprimere ogni tipo di attività di raccolta fondi o di manovre illegali.
Insomma, bisognerà premunirsi e disinnescare i rischi finanziari, specie a livello transfrontaliero e del wealth management che con il suo trilione di dollari di peso incombe sul mercato. Forte è la preoccupazione di creare anticorpi contro le tentazioni speculative, ad esempio sui futures, per i quali si propone una sorta di Future Act. Ma che cosa davvero succederà, prossimamente, non è possibile prevederlo.
L'apertura all'esterno, in ogni caso, è particolarmente accentuata rispetto al passato. «La Cina, intanto, sta apprendendo le tecniche della finanza, sta imparando», osserva Alessandro Varaldo direttore commerciale di Eurizon Capital SGR, tra i primi fondi attivi in Cina e oggetto di attenta analisi da parte dei cinesi. «È presto per dirlo, il mercato oggi è in una fase di wait and see», gli fa eco Giulio Pagliai di Az Fund Management, altra realtà che è riuscita a farsi strada in Mainland China.

Repubblica 13.5.14
“Liberate Liu Xiaobo, per gli affari” L’appello dei principini rossi al partito
di Giampaolo Visetti


PECHINO. «Liberate Liu Xiaobo». A sorpresa l’invito a porre fine alla detenzione del premio Nobel per la pace, simbolo del dissenso cinese, non arriva dalla comunità internazionale. Fonti riservate rivelano che nelle ultime ore è partito da un gruppo influente di “principini rossi”, figli dell’élite del partito comunista. A poche settimane dal 25° anniversario della tragica repressione in piazza Tienanmen, i rampolli più in vista dei dirigenti di Pechino non hanno chiesto un atto di clemenza nel nome di una distensione democratica, ma per ragioni di business. Costringere Liu Xiaobo in carcere e sua moglie Liu Xia agli arresti domiciliari, secondo i pragmatici “principini”, danneggia l’immagine globale della Cina e costa «milioni di dollari di contratti mancati».
Non è noto se l’inedita «petizione politica dall’alto» sia stata presentata sotto forma di lettera, o solo oralmente. Ignoti anche i nomi dei promotori, tutti appartenenti alla seconda e alla terza generazione dei “principini”, nati tra il 1960 e il 1970 e vicini al presidente Xi Jinping. Alti dirigenti del partito confermano che l’improvviso pressing e il fatto che la notizia sia filtrata attraverso le maglie della censura, rivelano come dentro il politburo il dibattito sulla liberazione di Liu Xiaobo, condannato a 11 anni per aver promosso «Charta 08», stia spaccando le fazioni del potere. Gli eredi dell’oligarchia rossa, reduci da studi all’estero, non concordano più con la repressione dei padri e degli zii. Sono giovani, istruiti e ricchi, hanno più interessi in Occidente che in patria e temono che l’eventuale morte di Liu Xiaobo in una cella della Manciuria, o un gesto disperato di sua moglie, possa ripercuotersi sui loro patrimoni.

Corriere 13.5.14
La resa degli scienziati sull’origine del linguaggio
Chomsky demolisce vent’anni di ricerche: non si sa com’è nato il linguaggio
«Teorie infondate, ecco la via per ricominciare»
di Massimo Piattelli Palmarini


Penso sia pura coincidenza che esca proprio in questi giorni, sul numero di maggio di Frontiers in Psychology, una critica devastante di molte recenti pubblicazioni sulle origini del linguaggio.
Coincidenza perché ha appena chiuso i battenti, a Vienna, il decimo congresso internazionale, bi-annuale, dedicato, appunto, all’evoluzione del linguaggio (Evolang X), nel corso del quale dozzine di relatori, provenienti dai quattro angoli del mondo, hanno esposto il tipo di lavori persuasivamente demoliti nell’articolo in questione. Questo impietoso saggio di rassegna, intitolato Il Mistero dell’Evoluzione del Linguaggio , porta la firma di colui che molti (e io sono tra questi) considerano il massimo linguista vivente, cioè Noam Chomsky.
Oltre a Chomsky è firmato da colui che molti (e io sono anche tra questi) considerano il massimo evoluzionista vivente, Richard Lewontin, e da altri sei qualificatissimi coautori: Marc Hauser, esperto di comunicazione animale, Robert Berwick, linguista, matematico ed evoluzionista del Mit, spesso coautore di Chomsky, Charles Yang, esperto di apprendimento del linguaggio (Filadelfia), Ian Tattersall, antropologo esperto di evoluzione della specie umana (New York), Jeffrey Watumull, linguista matematico (Cambridge, Inghilterra) e Michael J. Ryan, esperto di evoluzione della cognizione e della comunicazione animale (Austin, Texas).
Questi studiosi ci ricordano che, nel 1866, la Société de Linguistique de Paris, decise di bandire ogni articolo sull’evoluzione del linguaggio, dato che si accumulavano contributi con le più bizzarre e insensate speculazioni. Nessun bando di questo tenore è mai più stato promulgato e, specie negli ultimi vent’anni circa, una pletora di libri, articoli e congressi si sono cimentati con questo problema, corredando le speculazioni con dati neurobiologici, genetici, paleontologici, etnografici e naturalmente evoluzionistici. Chomsky, Lewontin e colleghi espongono in dettaglio perché questi dati, anche quando sono solidi, non consentono di trarne le pretese conclusioni.
Corredata da una ricchissima bibliografia, la loro rassegna critica spazia dai modelli matematici e computazionali alle pretese ingenue spiegazioni di tipo adattazionista neo-Darwiniano, passando per i reperti fossili (calchi del cranio dei Neandertal), le segnalazioni vocali dei primati, i linguaggi artificiali e la genetica comparativa. Una ad una, tutte queste ipotesi sull’evoluzione del linguaggio sono da loro puntualmente e precisamente confutate. Non mancano, però, alla fine dell’articolo, sensatissimi suggerimenti su come procedere, pur tra mille difficoltà, verso approcci assai più fruttuosi all’evoluzione del linguaggio. Va precisato che questi stessi autori, in anni precedenti, individualmente o variamente tra loro combinati, già avevano specificamente confutato queste ipotesi, una dopo l’altra. Direi, purtroppo, con scarso successo.
Posso darne testimonianza diretta. La precedente edizione del grande congresso sull’evoluzione del linguaggio (Evolang IX) si tenne a Kyoto nel Marzo 2012. Chomsky aveva inizialmente accettato di tenere il discorso inaugurale, in sessione plenaria, ma ci aveva poi ripensato. Mi disse, saggiamente: «Non vedo l’interesse di passare quattro giornate a sentir proporre ipotesi implausibili». Gli organizzatori, sgomenti, gli chiesero chi poteva sostituirlo. Chomsky propose due nomi: quello di Robert Berwick (molto opportunamente) e il mio (assai meno opportunamente). Bob declinò ed io mi assunsi il non lieve carico. In sostanza, in versione abbreviata e meno analitica, offrii alla numerosa platea il tipo di critiche adesso ben dettagliate nella rassegna di Chomsky e coautori. Certo, nessuno poteva sostituire Chomsky e io ero un nano in confronto a un gigante. Ma fu come non avessi parlato affatto. Per quattro lunghe giornate sentii sciorinare le ipotesi che avevo tentato di confutare in apertura del congresso, senza una parola di contro-critica.
Un ulteriore aneddoto, al ritorno da Kyoto, rafforzò il mio disappunto. Un mio studente di dottorato, all’Università dell’Arizona, dopo aver sentito tre mie dettagliate lezioni di critica a quelle ipotesi, e aver (spero) letto alcuni articoli degli autori sopra nominati, candidamente mi confessò: «Niente mai potrebbe persuadermi che l’evoluzione del linguaggio non è il risultato di pressioni selettive Darwiniane esercitate dalla comunicazione e la cognizione in genere». Trattandosi di un corso di bio-linguistica, quindi di scienza e non di religione o ideologia, la sua confessione, con quel sinistro «niente mai» (nothing ever ), mi parve assai preoccupante. Eppure quello studente era, almeno, più sincero di molti studiosi criticati da Chomsky, Lewontin e coautori. E della stragrande maggioranza dei partecipanti ai dieci convegnoni Evolang. Non posso sperare che Evolang XI, tra due anni, sarà molto diverso.

Corriere 13.5.14
Il processo Eichmann divise Israele e gli ebrei americani
Le critiche a Ben Gurion dagli Usa, la sua aspra replica
di Paolo Mieli


Lo sterminatore davanti ai giudici Esce oggi in libreria il saggio di Deborah E. Lipstadt Il processo Eichmann (traduzione di Maria Lorenza Chiesara, Einaudi, pagine 183, e 27). Tra i testi riguardanti la vicenda del criminale nazista: Isser Harel, La casa di via Garibaldi (Castelvecchi, 2012); Sergio Minerbi, La belva in gabbia (Lindau, 2012); Hannah Arendt, La banalità del male (Feltrinelli, 2001); Peter Malkin, Harry Stein, Nelle mie mani (Sperling & Kupfer, 1991).

Il pomeriggio del 23 maggio 1960, mentre alla Knesset era in corso un dibattito sul bilancio, David Ben Gurion chiese la parola e annunciò che era stato catturato Adolf Eichmann, definendolo «uno dei più grandi criminali di guerra nazisti». «È già in Israele in stato d’arresto», aggiunse, «e sarà tra breve processato». Pronunciate queste parole, il primo ministro lasciò l’aula, che restò attonita per qualche secondo e poi fu travolta da un’onda inimmaginabile di commozione. «Mai come quel giorno, dai tempi della Dichiarazione di indipendenza, gli israeliani avevano provato un senso di unità nazionale così profondo», ha scritto Tom Segev nel libro Il settimo milione (Mondadori). L’indomani, un quotidiano laico, «Maariv», titolò così: «Il Potente Iddio, a cui spetta la vendetta, è apparso».
È da questo istante che prende le mosse uno straordinario e coraggioso libro di Deborah E. Lipstadt, Il processo Eichmann , che esce oggi da Einaudi. La Lipstadt è una studiosa assai nota per essere stata sottoposta a sua volta, nel 2000, in Gran Bretagna, ad un procedimento giudiziario per un’azione legale intentata a lei e alla sua casa editrice, la Penguin, da David Irving. Quell’Irving che era stato a sua volta accusato dalla Lipstadt di aver dolosamente negato l’esistenza delle camere a gas e lo sterminio sistematico degli ebrei ai tempi di Hitler. Il dibattimento ebbe ampia risonanza e quando si concluse — con una sentenza di trecento pagine che assolveva la studiosa — il «Daily Telegraph» scrisse: «Questo processo è stato per il nuovo secolo quel che il processo di Norimberga o il processo Eichmann furono per le generazioni precedenti». Di qui l’autrice si è sentita in dovere di tornare sul caso Eichmann.
Il criminale nazista era già stato catturato dagli Alleati alla fine della guerra senza però che se ne conoscesse l’identità; era poi fuggito in una zona remota della Germania dove aveva lavorato — sempre sotto falso nome — in un’azienda di legname. Sarebbe poi riuscito ad espatriare all’inizio degli anni Cinquanta, per scomparire una decina di anni, e poi essere ritrovato in Argentina nel 1960, rapito dal Mossad, portato in Israele dove, dopo un processo, sarebbe stato mandato a morte nel 1961. Nel ricostruire questa storia, la Lipstadt si è concentrata su alcune questioni di dettaglio, degne di interesse.
L’autrice sostiene che il «cacciatore di nazisti» Simon Wiesenthal, che avrebbe poi rivendicato una parte decisiva nella cattura di Eichmann, ebbe invece un ruolo marginale nella vicenda. Anzi, una sua lettera del 23 settembre 1959 (sei mesi prima dell’arresto del criminale) all’ambasciatore israeliano a Vienna suggeriva che egli si trovasse ancora nel Nord della Germania. Il merito di aver scoperto che Eichmann viveva in una povera casa (senza elettricità, né acqua corrente) di via Garibaldi alla periferia di Buenos Aires, va a Lothar Hermann, un tedesco quasi cieco, ebreo a metà, trasferitosi in Argentina nel 1939 dopo essere riuscito a uscire da un campo di concentramento dove era recluso. Una sua figlia adolescente, Sylvia, aveva iniziato a frequentare un giovane che diceva di chiamarsi Klaus Eichmann. Proprio così: il padre, in fuga dalla Germania, aveva cambiato nome e cognome (quello nuovo era Ricardo Klement), ma il figlio aveva tenuto quelli veri. La notizia per vie traverse era giunta al capo dei servizi segreti israeliani, Isser Harel, che l’aveva presa sottogamba, anche perché Tuvia Friedman, un altro cacciatore di nazisti, sosteneva di avere le prove che Eichmann si trovasse in Kuwait. E la «rivelazione» di Friedman era finita addirittura sui giornali, mettendo a rischio la successiva operazione di Buenos Aires.
Poi però Harel (che ha raccontato questa storia in La casa di via Garibaldi , pubblicato da Castelvecchi) si convinse della bontà dell’informazione di Hermann, spedì in loco un commando che, ottenuto il via libera da Ben Gurion, catturò Eichmann la sera dell’11 maggio, per strada. Secondo uno degli uomini che lo bloccarono, Peter Malkin (lo scrive in Nelle mie mani , pubblicato da Sperling&Kupfer), Eichmann quella sera si lasciò sfuggire «il grido primitivo di un animale intrappolato», provò a dire di essere Ricardo Klement, ma, poco dopo, ammise la sua vera identità. Durante il volo che lo avrebbe portato a Tel Aviv, un agente del Mossad offrì ad Eichmann una sigaretta, ma un capo meccanico presente sull’aereo, orfano di genitori uccisi dai nazisti, si mise a piangere e protestò contro quel gesto: «Lei a lui dà le sigarette, lui a noi ha dato il gas».
Israele comunicò al mondo che la cattura di Eichmann era opera di alcuni «volontari» e si scusò (tramite il ministro degli Esteri, Golda Meir) per la violazione della sovranità del Paese latinoamericano. Il presidente argentino Arturo Frondizi si arrabbiò per quel rapimento. E diede incarico al suo rappresentante alle Nazioni Unite, Mario Amadeo (ammiratore dichiarato di Francisco Franco e di Benito Mussolini), di chiedere l’immediata restituzione di Eichmann. Gli Stati Uniti sulle prime appoggiarono la richiesta di Frondizi, ma, in vista della campagna elettorale, il vicepresidente Richard Nixon, in procinto di candidarsi contro John Kennedy, nel timore di perdere l’appoggio della comunità ebraica, ordinò all’ambasciatore Henry Cabot Lodge di definire le scuse della Meir un «atto sufficiente di riparazione». I giornali americani, invece, si scatenarono contro Israele. Il «New York Times», il «Washington Post», il «New York Post» scrissero che lo Stato ebraico aveva adottato «la legge della giungla», dando prova di un «grande disprezzo delle norme internazionali», che il processo sarebbe stato «inquinato dall’illegalità» e inficiato dallo «spirito di vendetta». I quotidiani tedeschi furono invece molto più prudenti, anche perché il cancelliere Konrad Adenauer — che pure era circondato da ex nazisti (o, forse, proprio per questo) — aveva da tempo avviato una politica molto generosa nei confronti di Israele, atta a scoraggiare i sentimenti antitedeschi dei superstiti della Shoah. Per non dar adito ad equivoci, la Germania rifiutò di pagare le spese processuali per la difesa di Eichmann (le pagò Israele).
Durissime furono, invece, le reazioni degli ebrei antisionisti come il rabbino Elmer Berger. Il celebre psicologo Erich Fromm qualificò il tutto come un «atto di illegalità del genere esatto di cui gli stessi nazisti si erano resi colpevoli». Anche esponenti di primo piano dell’American Jewish Committee polemizzarono apertamente con Ben Gurion, accusandolo di volersi erigere a rappresentante dell’intero popolo ebraico. Essi chiesero esplicitamente di consegnare Eichmann alla Germania e di evitare di tenere il processo in Israele. Suggerivano inoltre agli israeliani di «smorzare i toni sulle sofferenze degli ebrei durante la soluzione finale» così da non «dare la stura a nuove manifestazioni antisemite». Parole che oggi difficilmente potrebbero essere pronunciate da un ebreo (e anche da un non ebreo). Ben Gurion rispose con durezza che l’ebraismo americano stava «perdendo ogni significato» e che soltanto un cieco poteva non vedere quanto fosse prossima la sua «estinzione». Queste loro prese di posizioni — proseguiva Ben Gurion — dimostravano che gli ebrei statunitensi si disponevano a ricevere «il bacio della morte», che avrebbe suggellato il loro «lento declino nell’abisso dell’assimilazione».
In Israele il caso Eichmann andò a incrociare un processo che aveva diviso il Paese negli anni precedenti, quello a Israel Kasztner. Kasztner era un ebreo ungherese, che nel 1944 aveva negoziato proprio con Eichmann una cessione di autocarri in cambio della vita di un consistente numero di ebrei. L’operazione «sangue in cambio di merci» (così fu definita) aveva consentito la messa in salvo di 1.700 persone e altre ancora avevano evitato di finire ad Auschwitz a seguito di quella trattativa. Dopo la guerra, Kasztner era espatriato in Israele dove aveva militato nel Mapai, divenendo portavoce del governo. Ma un altro ebreo immigrato in Palestina dall’Ungheria, Malchiel Gruenwald, si era messo a far circolare ciclostilati nei quali Kasztner veniva accusato di aver favorito i propri familiari e altri ebrei ricchi, nonché di essere stato per tutti gli altri (cinquecentomila) finiti nei Lager una sorta di «assassinio vicario» dei nazisti. Il governo aveva fatto causa a Gruenwald, ma il suo avvocato, Shmuel Tamir, era riuscito a capovolgere i termini del procedimento giudiziario, trasformandolo in un processo agli ebrei che avevano in qualche modo «collaborato» con i nazisti. Il dibattimento, rievoca Lipstadt, fece venire allo scoperto «una percezione da tempo diffusa in Israele secondo cui i sopravvissuti all’Olocausto avevano fatto qualcosa di disdicevole per salvarsi la vita». Il giudice, Benjamin Halevi, condivise pressoché apertamente le tesi di Tamir, assolse Gruenwald e disse, nei modi più chiari, che Kasztner, negoziando con Eichmann, aveva «venduto l’anima al diavolo». Poco tempo dopo Kasztner era stato ucciso davanti alla porta di casa, a Tel Aviv. E non aveva potuto sapere della successiva sentenza della Corte suprema che avrebbe capovolto le decisioni di Halevi, condannando il suo accusatore
Adesso, proprio quando, come ha scritto Sergio Minerbi nel libro La belva in gabbia (Lindau), in Israele «si era diffuso il desiderio di sbarazzarsi dell’amarezza» per il caso Kasztner, con un colpo di scena, proprio al giudice Halevi, diventato nel frattempo presidente del tribunale distrettuale di Gerusalemme, sarebbe spettato di presiedere il processo ad Adolf Eichmann. Halevi pretendeva di far valere questo diritto, in molti si erano schierati dalla sua parte e avevano sostenuto che non era lecito «adattare» le leggi di uno Stato alle circostanze. Altrettanti, però, fecero rilevare come non ci si dovesse «nascondere dietro i formalismi» e che la politica dovesse operare delle scelte. Tra questi ultimi, Ben Gurion. La Knesset fece propri questi dubbi e varò un’apposita legge, con la quale disponeva che il nuovo dibattimento dovesse essere guidato da un magistrato appartenente all’Alta Corte di giustizia (fu scelto Moshe Landau). Per i due giudici che avrebbero affiancato Landau, si restò alle disposizioni di sempre, che assegnavano il diritto di scelta ad Halevi. Il quale fece due nomi: il proprio e quello di Yitzhak Raveh. Tutti e tre erano ebrei tedeschi, laureati in Europa prima di emigrare in Palestina.
Il processo iniziò l’11 aprile del 1961. Elie Wiesel, lì in veste di reporter per il «Jewish Daily Forward», si disse colpito dal fatto che Eichmann non appariva «diverso dagli altri esseri umani». Cyrus Leo Sulzberger, sul «New York Times», notò che «sembrava più ebreo, secondo le definizioni convenzionali, delle due abbronzate guardie israeliane» schierate a sua protezione. Protezione davvero eccezionale. Eichmann era recluso nella prigione di Yagur: una guardia fu incaricata di sorvegliarlo, un’altra di sorvegliare la prima e una terza di occuparsi della seconda. Nessuno dei tre aveva perso parenti nell’Olocausto, né parlava tedesco. Come suo difensore fu scelto Robert Servatius, che, pur non essendo mai stato nazista, aveva già svolto il ruolo di avvocato della difesa dei collaboratori di Hitler al processo di Norimberga. Il ruolo di pubblico ministero toccò a Gideon Hausner, privo di competenza in quel campo specifico (era specializzato in diritto commerciale), ma in stretti rapporti con Ben Gurion. Nel corso della fase istruttoria, la Corte israeliana chiese un’imponente documentazione a molti Paesi: l’Unione Sovietica e la Gran Bretagna non la concessero. Servatius nella prima fase del dibattimento fu assai abile nel sollevare una serie di obiezioni procedurali, alle quali però Hausner seppe rispondere con efficacia. Una legge israeliana del 1950 e una delibera delle Nazioni Unite rendevano legale il processo.
I testimoni a favore di Eichmann, che non potevano entrare in Israele senza rischiare l’incriminazione (o peggio), avrebbero potuto deporre all’estero. I corrispondenti dei giornali americani, in principio assai critici nei confronti del processo, lodarono la pertinenza e la quantità di precedenti fatti valere da Hausner. Eichmann si difese con grande abilità raccontando che nei primi anni del regime hitleriano, quando era in Austria, aveva avuto intensi rapporti con i leader sionisti per un piano che avrebbe consentito agli ebrei di espatriare, qualora si fossero rassegnati a lasciare in «patria» i loro averi. A tal fine avrebbe anche «soggiornato» a lungo in Palestina (ma si scoprì che, dopo un giorno ad Haifa, era stato espulso dagli inglesi alla volta dell’Egitto). Hausner smontò quel racconto grazie alla testimonianza di Aharon Lindenstrauss che, per conto degli ebrei, aveva «trattato» con Eichmann, venendone apostrofato «vecchio sacco di merda». Hannah Arendt, però, liquidò l’impianto di ricostruzione di Hausner come «cattiva storiografia e retorica a buon mercato». Deborah Lipstadt — che pure prende le distanze dalla Arendt — definisce «indubbio» che Hausner abbia presentato «gran parte della storia in modo errato», e imputa all’esposizione del pubblico accusatore «superficialità storica e autocelebrazione».
Un momento assai complicato fu quello dell’interrogatorio all’eroe Moshe Bejski, che raccontò di come in Polonia 15 mila ebrei furono costretti ad assistere all’impiccagione di un bambino. Hausner gli domandò a bruciapelo: «Perché, essendo in 15 mila contro poche centinaia di guardie, non vi ribellaste passando all’attacco?». Bejski chiese di potersi sedere e rispose evocando il terrore di chi spera di aver salva la vita, ma soprattutto, ove mai scegliesse di ribellarsi, non saprebbe poi dove cercar riparo. Con quella domanda, il processo rischiava di sfuggire di mano ad Hausner e di trasformarsi in un procedimento d’accusa contro le vittime. Ma la Lipstadt sostiene che il pubblico ministero volesse «dimostrare l’ingiustizia intrinseca di questa domanda». Hausner, scrive, «era perfettamente consapevole del fatto che gli israeliani nati in Israele e che nel 1948 avevano sconfitto cinque eserciti, non capivano perché gli ebrei di numero tanto superiore rispetto ai loro aguzzini non avevano fatto lo stesso» con i nazisti. E aveva portato la questione allo scoperto proprio per far sì che comprendessero quanto eccezionali fossero stati gli episodi di rivolta, come quello del ghetto di Varsavia nella primavera del 1943. Per dimostrare questo assunto, Hausner chiamò sul banco dei testimoni Abba Kovner, capo della Resistenza di Vilnius. Ma qui vennero a confliggere la parte politica e quella strettamente giudiziale del dibattimento. Dopo che Kovner ebbe parlato, il giudice Landau con grande irritazione richiamò Hausner, accusandolo di aver «divagato molto rispetto all’argomento di questo processo» portando quell’uomo sul banco dei testimoni. E quando Zvi Zimmerman, alleato politico di Ben Gurion, andò alla sbarra per riferire quel che di Eichmann gli avevano detto persone della Gestapo, Landau diede in escandescenze: «Il valore di questa prova è, direi, quasi nulla… Questi, di fatto, sono pettegolezzi», disse ad alta voce. Il presidente del tribunale era a tal punto spazientito che sembrò pendere dalla parte di Servatius, sia nel caso dell’interrogatorio a Leon Wells (che parlò nello specifico degli ebrei costretti a cancellare le tracce delle uccisioni in massa), sia nel caso di quello a Michael Musmanno, i quali non riuscirono a dire con precisione in che modo quel che raccontavano fosse legato alla persona di Eichmann.
Ci riuscì, invece, il decano protestante di Berlino, Heinrich Grueber, il quale raccontò di un tedesco che aveva dato una mano a degli ebrei. Però al momento di farne il nome non volle, per non mettere a repentaglio, disse, la sua incolumità. Il fatto che, nella Germania degli anni Sessanta, fosse ancora rischioso dire di aver aiutato gli ebrei provocò sconcerto. Il testimone aggiunse che stava parlando per esperienza, dal momento che, quando la stampa tedesca aveva rivelato la sua intenzione di testimoniare contro Eichmann, aveva ricevuto uno «spesso dossier» di «minacce» e «lettere di insulti».
In quegli stessi giorni il processo entrò nella fase decisiva, quella in cui si esaminava il ruolo svolto da Eichmann in Ungheria nel 1944, dove aveva organizzato il «trasferimento» ad Auschwitz di 437 mila ebrei. Eichmann aveva suggerito di cominciare con quelli della Carpazia, cosicché i loro correligionari di Budapest si «tranquillizzassero» al pensiero che ad essere colpiti fossero solo gli ortodossi. Poi aveva aperto una trattativa con il negoziatore Joel Brand per «vendergli» un milione di ebrei e nello stesso tempo aveva suggerito al comandante di Auschwitz, Rudolph Höss, di «trattarne» con il gas il maggior numero possibile. Infine si era tornati sul caso Kasztner — su cui la Lipstadt ha parole di grande comprensione — e quando si era presentato a testimoniare Pinchas Freudiger, membro del consiglio ebraico ungherese, dopo che un uomo dall’aula lo aveva accusato di essere responsabile della morte della propria famiglia, il processo era precipitato nel caos. Aggravato dal fatto che il giudice Halevi (quello che aveva condannato Kasztner) chiese a uno di quei testimoni se avessero mai pensato di uccidere Eichmann. Senza ottenerne risposta. Con il che Halevi aveva raggiunto lo scopo di dimostrare che in qualche modo i dirigenti dei Consigli ebraici — tranne rare eccezioni — avevano delle «colpe» per quel che era accaduto al loro popolo.
Il 20 giugno, dieci settimane dopo l’inizio del processo, Eichmann salì sul banco degli imputati. Fu assai vago e, ad un tempo, loquace. Il giudice fu costretto più volte a interromperlo: «Non le è stata chiesta una lezione generale… Le è stata posta una domanda specifica». Ma lui decise di insistere con la sua vuota verbosità. E ottenne un risultato. Il «New York Times» scrisse che non appariva «astioso o insolente», dal momento che «si crogiolava in frasi burocratiche» e che, dunque, non «valeva la pena di odiarlo». Hausner, secondo Lipstadt, commise molti errori nell’interrogarlo. Va ad Halevi merito di averlo indotto a pronunciare la frase che lo avrebbe condannato. Fu quando Eichmann, per dimostrare di non essere stato antisemita, raccontò di aver favorito la fuga di una coppia di ebrei viennesi e, per spiegare in che modo, si lasciò sfuggire: «In ogni legge esiste qualche scappatoia». Da quel momento non poté più cavarsela dicendo che era stato soltanto ligio alle leggi del suo tempo. Per lui non c’era più scampo.
A dicembre Eichmann viene condannato a morte. Alcune autorità morali del Paese, Martin Buber, Yeshayahu Leibowitz, Gershom Sholem, chiedono che ci si fermi lì. Ben Gurion che pure aveva dato battaglia per non includere la pena di morte nel codice penale di Israele, discute della questione con Buber, ma non si fa convincere. Decisiva è la presa di posizione del poeta Uri Zvi Grinberg: «Buber può rinunciare al castigo per la morte dei suoi genitori, se sono stati assassinati da Eichmann, ma né lui né altri Buber possono chiedere un’amnistia per l’assassinio dei miei genitori». Il 31 maggio 1962 Eichmann salirà sul patibolo.
Merito di questo libro è di aver ripercorso le tappe del processo senza fermarsi ai celebri reportage di Hanna Arendt, usciti sul «New Yorker» e poi raccolti nel libro La banalità del male (Feltrinelli). Ma un capitolo è dedicato alla stessa Arendt. Un capitolo non simpatizzante: «La Arendt tra l’altro mancò dall’aula per buona parte del processo», fa notare Lipstadt, «il suo fu un abuso di fiducia nei confronti dei lettori». Si mette in risalto come la Arendt scrivesse della «commedia di parlare ebraico», descrivesse i poliziotti israeliani come «simili agli arabi», «brutali», gente che «obbedirebbe a qualsiasi ordine», imputasse ai sionisti («senza offrire alcun dato per giustificare tale accusa») di «parlare un linguaggio non del tutto diverso da quello di Eichmann», avesse parole sprezzanti per i Consigli ebraici, il cui capitolo definì «fosco, patetico e sordido». Anche se, alla fine, la Arendt fu favorevole alla pena di morte. E diede il suo contributo a far sì che, se a Norimberga al centro dell’attenzione erano stati i carnefici, adesso giungesse «l’ora delle vittime». Gli ebrei. È questa, scrive Lipstadt, l’eredità più significativa del dibattimento che si concluse nel 1962 con le ceneri di Eichmann sparse nel mare.

Corriere 13.5.14
Il giornalismo come arte di saper aspettare
di Francesco Battistini


Febbraio 1984. A Leffe, nella Bergamasca, i corpi d’una donna e d’una bambina vengono trovati in un ripostiglio. Murati. Si capisce subito chi è stato: il capofamiglia. Si capisce meno il perché: indaga il magistrato di turno, tale Antonio Di Pietro, e i pettegoli gli suggeriscono subito la falsa pista delle torbide verità, d’un amico di famiglia che partecipava a bugie&videotape… La caccia ha inizio. L’inviato del «Corriere» ha qualche dubbio, però. E lo condivide con Di Pietro: «Se ti rivelo il movente del delitto — gli confida il magistrato —, comprometto le ricerche». Il cronista intuisce. E per non rovinare chi non c’entra, toglie dal pezzo il nome di quell’uomo vittima delle voci: «Mai tappare con la fantasia le falle della notizia…».
Chiamasi fiuto. News, not views: notizie, non punti di vista, raccomandavano al «Times» dei tempi d’oro. Roba sempre più rara. Una volta, un secolo fa, i manuali di buoni consigli al giovane giornalista erano un genere un po’ narciso che cumulava retorica e sbuffi annoiati: c’era qualcosa che Buzzati non ci avesse già insegnato? Una volta. Ora che di giornalismo tutti parlano e tutti sanno, molti convinti che la notizia si generi solo sfiorando il tablet; adesso che gl’italiani leggono sempre di meno perché scrivono sempre di più, piccoli post o blablà da blog; in questo momento di grande confusione sotto il cielo dell’informazione, la situazione è dunque eccellente per capire chi saremo riscoprendo chi eravamo: La scuola dei grandi maestri , scritto da un caporedattore di lungo corso al «Corriere della Sera» come Giuseppe Gallizzi con l’italianista Vincenzo Sardelli (edizioni Cdg), parte dall’idea che nulla sia più inedito d’un «manuale di giornalismo sul campo» e torna all’abc, alle cinque W d’una professione. Il Vietnam dei giornalisti, come Franco di Bella chiamava ogni battaglia di via Solferino, per tanti è stato l’avamposto dove imparare «il coraggio dei no e l’umiltà dei sì». Metà caserma e metà convento (cit. Spadolini), «diventare caporedattore qui — spiega Gallizzi — significava saper dosare, mediare, inchiodarsi alla responsabilità d’una routine, torturati anche dal supplizio di far sembrare bravo il redattore che non lo era».
Quando la professione figurava sul passaporto, ha raccontato una volta Martin Amis, i corrispondenti americani indicavano «writer». Ma poi capitava che finissero in posti pericolosi e allora occultavano l’identità cambiando la «r» in «a», da writer a waiter, da scrittori a camerieri. C’era del vero: se di giornalisti-camerieri (nel senso peggiore) è piena la categoria, alla lettera il «waiter» è colui che aspetta. E chi, più d’un cronista o d’un deskista, passa ore nel suo deserto dei tartari ad attendere una dritta o un titolo? Informare costa: soldi e pazienza. Senza dirlo, ma ritraendo un Orio Vergani (nella foto) che non staccava mai la penna dal foglio o un Montanelli che raccomandava «mai più di un’idea per ogni articolo», Gallizzi e Sardelli fanno capire che alla scuola dei grandi maestri avrebbero da imparare tanti maestrini del copia-e-incolla. «Perché si può entrare in un giornale per una raccomandazione o per un favore. Ma rimanerci è un’altra cosa».

Corriere 13.5.14
Il passato che non passa, male di vivere di una donna chiamata Clara
di Ranieri Polese


La donna che scompare si chiama Clara. Ha 50 anni, un marito, due figli. Soffre di depressione, ha tentato più volte il suicidio. Nei diversi ricoveri l’hanno sottoposta a ripetuti elettroshock. A casa, quando la dimettono, passa il suo tempo a letto imbottita di sonniferi. Ma una sera di pioggia e freddo, in camicia da notte con solo un giaccone sopra le spalle, se ne va. E lascia un biglietto: «Perdonatemi, 50 anni bastano, mi troverete nel Tevere». Sulla sponda del fiume sotto l’Isola Tiberina ci sono i suoi documenti, ma il corpo non sarà mai ritrovato. È morta? È fuggita, inventandosi un’altra vita, e se sì, dov’è andata? Un commissario di polizia che conduce le ricerche è rimasto colpito da una foto di lei, il viso spento, gli occhi che esprimono sofferenza senza rimedio. Si chiede perché è finita così, che cosa ha prodotto quell’accumulo di dolore intollerabile.
C’è molto malessere in quella famiglia. Giuseppe, il marito, da tempo sta con un’altra donna, passa pochissimo tempo a casa, non parla più né con Clara né con i figli. E Virginia e Giovanni, i figli, crescono male, oppressi dalle tenebre in cui la madre sembra annegare, carichi d’odio per un padre troppo assente. Tevere , il secondo romanzo di Luciana Capretti (giornalista Rai, con l’opera prima Ghibli aveva vinto il premio Rapallo), si propone di ricomporre i pezzi disordinati di una vita, la cui unica costante è la pena. Dice l’autrice, che si è ispirata a una storia vera, che scrivere questo libro è stato un po’ come «restituire alla protagonista qualcosa del tanto che le è stato tolto».
Storia di una donna ma anche storia italiana, tra fascismo e anni Settanta. Sì, perché la prima giovinezza di Clara si è consumata a Novara, negli anni di guerra. Con un padre fascista repubblichino che costringe le due figlie (la terza è morta bruciata dall’alcol uscito dal fornelletto portatile, e Clara si incolpa di quella disgrazia) a diventare ausiliarie della Rsi. Alla Liberazione, il padre è catturato, condannato a morte, poi rinchiuso in un manicomio criminale da cui comunque esce presto, nei primi anni Cinquanta.
Le ragazze, picchiate, stuprate e svergognate davanti a tutti, in qualche modo si salvano. Ma Clara scappa a Roma, si rifà una vita, conosce Giuseppe, giovane sceneggiatore di film, si sposa. Credendo così di aver cancellato il passato. Purtroppo non bastano la nuova casa, la felicità piccoloborghese, la nascita della figlia a salvarla. Tornata a casa dopo il parto, la cameriera la ferma mentre con in braccio la bambina sta per buttarsi di sotto. Inizia così la lunga trafila di ricoveri, cure brutali, perdita di ogni interesse alla vita, che neppure la nascita del secondo figlio riuscirà a interrompere.
Costruito a piani alternati – le indagini del poliziotto che si spingono fino a ricostruire gli anni di Novara; le desolate scene di vita familiare; i frammenti di memoria e di consapevolezza che attraversano la mente ferita di Clara — Tevere dispone le vicende di questa donna infelice sotto gli occhi del lettore. Senza giudicare, senza emettere verdetti. Certo gli uomini (il padre, ma anche il marito) hanno gravi responsabilità nei fatti che portano Clara alla malattia senza ritorno. A volte sembra che ad agire sia il destino, anche la mamma di Clara, disperata per la morte della figlia, era finita in manicomio. E le terapie violente — i tempi del romanzo sono ancora quelli di prima della riforma Basaglia — potevano solo aggravare la condizione di quelle poverette. Quello che Luciana Capretti vuole fare, e lo fa con partecipazione e bravura, è cercare le parole per dire il male di vivere di una donna, delle donne come Clara. E le pagine in cui Clara vive e descrive il vuoto doloroso, la perdita di senso, la sofferenza, sono quelle che più restano impresse.

il Fatto 13.5.14
Il caso Karl Marx
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, crescente e scandalosa divaricazione tra ricchi (sempre più ricchi) e poveri (sempre più poveri), crescente sfruttamento dei lavoratori senza diritti. Qualcuno ricorda che un secolo e mezzo fa, un certo Karl Marx aveva fatto interessanti, approfondite analisi di questi fenomeni? A proposito, che fine hanno fatto tutti i marxisti che, qualche decennio fa, affollavano l’Italia? Tutti morti?
Oreste

VORREI RASSICURARE il lettore. Molti degli ex giovani e vigorosi militanti del marxismo non sono morti. Vivono o lottano insieme a Forza Italia e nei suoi giornali e reti televisive, o almeno lo hanno fatto fino a quando ha cominciato a spargersi panico sul futuro del grande Padrone. Forse non tutti si sentiranno di servire sotto la guida della compagna Marina, e al momento sembra che l’uno domandi all’altro: ma adesso la destra dov’è? Gli eventi hanno preso di sorpresa anche loro. Non si aspettavano che la destra sarebbe rinata a sinistra, giovane, debitamente rude e giustamente spregiudicata. Spingere indietro i sindacati, tenere a bada i giudici, rassicurare sui temi “eticamente sensibili” (per ora è appena una questione di feeling) e far nominare Giovanardi relatore della nuova legge che deve dare nuove norme alla droga, in particolare alla marijuana, tutto ciò non è poco. Come si ricorderà nel decorso della nostra breve storia della distruzione della Repubblica, da una parte incontriamo Giovanardi che fa arrestare per legge anche i consumatori di un grammo della droga più liberalizzata al mondo, provvede da solo all’affollamento delle carceri (con il concorso della ex legge Bossi-Fini sull’immigrazione), fortifica la criminalità organizzata (come hanno detto e dimostrato per decenni gli ostinati seguaci di Pannella) e brucia molte vite giovani tra arresti e carcere. E dall’altra ci imbattiamo nel ministro Beatrice Lorenzin (stessa premiata casa Berlusconi) che, di fronte a una sentenza della Corte costituzionale che elimina la legge Giovanardi per la parte “piccole droghe”, decide che non basta la sentenza. Decide che ci vuole una nuova legge. E a chi viene affidata, come relatore, la nuova legge? Come appena detto, a Giovanardi. C’entra con Marx? C’entra. Aveva previsto che il capitalismo avrebbe comprato la corda con cui impiccarsi. Le condizioni stanno creandosi. Gli ex marxisti vivono sotto traccia, il partito detto di sinistra governa strettamente legato alla destra, il primo ministro, che è anche segretario del partito di sinistra, ammonisce il maggiore sindacato operaio: “State attenti, la musica è cambiata”. No, lui tutto è meno che un ex-marxista. Ma lo sono o lo erano molti degli altri che gli hanno dato il potere, e ogni giorno il voto, alla Camera e (finché non sarà chiuso) al Senato, se occorre insieme a Berlusconi. Mi sembra chiaro che, più che un filosofo, Marx è stato un profeta.

Pagina 99 10.5.14
Il campo di battaglia tra Meccanica Quantistica e Relatività Generale
di Marco Casolino

qui

Repubblica 13.5.14
La scienza cancella gli incubi potremo decidere i nostri sogni
Su “Nature Neuroscience” i risultati di un esperimento su 27 volontari: minuscole scosse elettriche possono provocare uno stato di coscienza nel sonno
di Enrico Franceschini



LONDRA. INCUBI addio. La scienza ha trovato un sistema per controllare, influenzare e modificare quello che sogniamo: una piccola, innocua scarica elettrica sulla testa e possiamo diventare i registi della nostra attività onirica. Suona come un film di fantascienza e in effetti ne fa venire subito in mente uno di recente programmazione, Inception , in cui Leonardo Di Caprio è addirittura in grado di infiltrarsi nelle allucinazioni notturne altrui. Questo non è possibile, o perlomeno non ancora possibile, ma lo studio pubblicato dalla rivista Nature Neuroscience , e ripreso ieri dalla stampa britannica, sembra un primo passo su una strada che avrebbe sicuramente interessato
il dottor Freud.
Secondo gli esperimenti condotti congiuntamente dal professor J. Allan Hobson della Harvard University e dalla sua collega Ursula Vass dell’Istituto Goethe di Francoforte tutto quello che serve per “pilotare” i sogni è una minuscola scarica di elettricità, da 2 a 100 Hz, sulla regione frontale e temporale del cervello. La sollecitazione artificiale produce uno stato di onironautica, il termine con cui si indica la capacità di prendere coscienza del fatto di stare sognando: un’esperienza comunemente definita dagli studiosi “lucid dream” (sogno lucido, ovvero di cui si è consapevoli), durante il quale un individuo può esplorare e cambiare a suo piacimento il sogno, specie dopo avere preso dimestichezza con questa pratica. Per cui, se sta facendo un brutto sogno, può farlo diventare bello o portarlo rapidamente a conclusione. E con il dovuto allenamento chiunque potrebbe teoricamente imparare a sognare quello che vuole, proprio come da sveglio uno può immaginare quello che gli pare.
È già noto da tempo a medici e scienziati che i sogni avvengono soltanto durante una delle cinque fasi del sonno, chiamata Rem, acronimo di “rapid eye movement” (movimento rapido degli occhi), diversa sia dal sonnecchiare che dal sonno profondo, caratterizzata da alterazioni corporali fisiologiche come irregolarità cardiaca, irregolarità respiratoria e variazioni della pressione arteriosa. Quando dormiamo passiamo attraverso quattro fasi di Rem a notte della durata di 20 minuti circa l’una, a intervalli mediamente di due ore l’una dall’altra: i sogni vengono a trovarci solo nei primi tre di questi momenti di visioni notturne. Ebbene, nei sogni ordinari che si fanno in tali condizioni, il sognatore rimane solitamente allo stato di inconscio, spiegano i ricercatori americano e tedesca nel loro studio. Ma nei “sogni lucidi” scattano funzioni extra-cognitive, si diventa coscienti e in possesso di libero arbitrio, cioè di libertà di scelta. Coloro che entrano in uno stato di “lucid dream” raccontano poi di avere avuto l’impressione di essersi «svegliati dentro il sogno» e di essere stati in grado di manipolare il sogno come meglio desideravano.
Nella ricerca citata da Neuroscience , 27 volontari senza precedente esperienza di “sogni lucidi” sono stati bersagliati con piccole scariche elettriche alternate durante la fase di Rem. Gli studiosi hanno monitorato le regioni del cervello associate a un’attività di raggi gamma nota come indice di “sogno lucido”, registrando un immediato incremento. E al risveglio i volontari hanno confermato di avere fatto sogni di quel tipo, ovvero di avere «sognato sapendo che stavano sognando». Dichiara il professor Hobson al quotidiano Guardian di Londra: «Bisogna ancora essere cauti nelle interpretazioni dei risultati di quanto abbiamo fatto: servono maggiori studi, ma si tratta certamente di un progresso nella direzione di meglio comprendere come il cervello sviluppa le allucinazioni, come la mente umana si lascia illudere dai sogni ». E la dottoressa Vass dice al Daily Telegraph che la tecnica delle scariche elettriche potrebbe essere usata in futuro per aiutare persone perseguitate da incubi ricorrenti a liberarsene, «svegliandole» all’interno del sogno affinché possano controllarlo, modificarlo, risolverlo.
Se siamo fatti della sostanza dei sogni, come sosteneva Shakespeare ne La tempesta, non è inconcepibile che prima o poi decidere che tipo di sogno fare diventi normale come decidere cosa andare a vedere al cinema.

Repubblica 13.5.14
Luigi Cancrini
“Ma l’unica cura rimane l’empatia”
intervista di P. D. R.


PICCOLE scosse elettriche per rendere paradisiaco il nostro mondo onirico. Sotto l’aspetto psicanalitico, è ragionevole? O auspicabile? Lo psichiatra e accademico Luigi Cancrini è scettico. «Diciamo che con queste scosse elettriche gli scienziati sono riusciti a far passare il paziente dal sogno Rem al sogno lucido, ossia consapevole, ad occhi aperti, con un minimo di capacità di direzionare il sogno stesso. Ma non credo che ciò possa avere di per sé un valore terapeutico».
Come giudica il fatto che i ricercatori si dicano certi di controllare gli incubi di chi soffre di disturbo post-traumatico?
«In una terapia ciò che mi sembra importante è la qualità della relazione chi s’instaura con il paziente. Il correlato neuro-fisiologico è interessante sotto il profilo della nostra conoscenza, ma il terapeuta deve anzitutto costruire le condizioni per un ascolto “empatico” del paziente».
Qual è la ragione biologica del sogno?
«Noi sogniamo perché nel momento in cui la nostra consapevolezza si attenua la vita psichica continua. E quello che arriva alla coscienza parziale del sogno è un materiale molto più vicino alle nostre emozioni profonde. Rispetto allo stato di veglia i filtri sono meno forti».
Le avrebbe usate queste scosse Sigmund Freud?
«Per abbassare le resistenze del paziente, Freud lo toccava sulla tempia provocando con la vicinanza un più libero fluire delle associazioni. Quello che usava Freud era il contatto empatico».

Repubblica Salute 13.5.14
Stress
Se la meditazione riduce anche l’ansia
di Francesco Bottaccioli

Presidente on. Società Italiana di Psiconeuroendocrinoimmunologia

LA rivista scientifica internazionale Explore, The Journal of Science and Healing, pubblica i risultati di una nostra ricerca su un campione di partecipanti ai corsi di meditazione ad indirizzo Psiconeuroendocrinoimmunologico (Pneimed). Lo studio dimostra che partecipare a questo tipo di corsi riduce in modo netto i sintomi d’ansia, depressione, auto-svalutazione e somatizzazione. Inoltre si dimostra anche una riduzione statisticamente significativa dei livelli di cortisolo, il principale ormone dello stress, sia a livello basale che sotto stimolo. La ricerca, realizzata assieme ad Andrea Minelli dell’università di Urbino, a Marcello D’Errico ed Elisa Ponzio dell’Università Politecnica delle Marche, alle psicologhe Raffaella Cardone, Monica Mambelli e Marisa Cemin e al medico Anna Giulia Bottaccioli e alla psicopedagogista Antonia Carosella (tutti affiliati alla Sipnei, Società italiana di Psiconeuroendocrinoimmunologia), ha preso in esame 125 adulti in buona salute, in prevalenza medici, psicologi e altri operatori sanitari che, negli ultimi cinque anni, hanno frequentato i corsi Pneimed. Tutte le persone sono state studiate, all’inizio e alla fine del corso (che dura trenta ore complessive in quattro giorni consecutivi) con Sympton Rating Test (SRT), un test psicologico validato, mentre a un sottogruppo è stato applicata anche l’analisi del cortisolo salivare, sia a livello basale sia in condizioni di stress mentale acuto, indotto all’inizio e alla fine del corso. Chi aveva partecipato al corso, alla fine dell’addestramento, rispetto ai controlli, aveva ridotto di tre volte il punteggio complessivo della sintomatologia psicologica (passando da un punteggio totale di 18 a 6) e aveva una minore produzione complessiva, statisticamente significativa, di cortisolo sia basale che sotto stimolo: insomma aveva imparato ad essere più tranquillo e fiducioso di sé e a gestire al meglio la reazione di stress.
Scavando nei dati c’è un elemento molto interessante, che riguarda la stimolazione stressante acuta, realizzata somministrando le 'Matrici progressive avanzate di Raven'. Un test mentalmente impegnativo, che è stato reso ancor più stressante per la limitazione del tempo messa a disposizione dei soggetti, il cui cortisolo salivare è stato monitorato 5 minuti prima dell’inizio del test, 10 minuti dopo la fine del test (quindi presumibilmente quando il cortisolo nella saliva era al massimo livello) e ancora trenta minuti dopo la fine.
Alla fine del corso, la media del cortisolo prodotto sotto stress acuto era statisticamente inferiore alla media dell’inizio del corso, ma questo risultato è il prodotto di due fenomeni opposti: da un lato, infatti, chi all’inizio del corso produceva poco cortisolo, alla fine ne ha prodotto di più e viceversa, chi ne produceva troppo, alla fine ne ha prodotto di meno. È un dato molto importante per la salute, perché il cortisolo va prodotto in quantità adeguate, né troppo poco né troppo.
Ma in che consiste il metodo Pneimed?
Secondo noi la meditazione non è riducibile a una tecnica: è una visione del mondo e della vita che si avvale di strumenti pratici di regolazione delle emozioni e dei processi cognitivi. Pneimed si basa sul presupposto che per realizzare l’obiettivo della consapevolezza di sé, che è comune a tutti gli insegnamenti meditativi, occorra anche sapere come si è fatti e come funziona l’organismo nell’unità mente-corpo.
Per questo, il metodo combina insegnamenti di Psiconeuroendocrinoimmunologia, a cura di chi scrive, con insegnamenti di filosofia antica e di meditazione, condotti dalla psicopedagogista Antonia Carosella, che ora insegna il metodo anche al master di II livello in “Pnei e scienza della cura integrata” dell’università dell’Aquila.

Repubblica 13.5.14
Tendenza middlesex la vittoria di Conchita
Ma per la vera liberazione sessuale serve altro
di Massimo Recalcati



LA DONNA barbuta è stata una figura triste che popolava i vecchi circhi dell’Ottocento. Apparteneva ad un corteo felliniano che reclutava personaggi come quelli della donna cannone, della donna a quattro gambe, della ragazza cammello, della donna babbuino, del digiunatore, del nano clown, del mangiatore di fuoco. Ma da ieri la donna barbuta non è più solo una vecchia gloria dello spettacolo circense, ma è diventata una cantante celebrata da uno dei festival musicali più importanti della scena internazionale. Ha dismesso i panni tristi del personaggio da Circo ed ha indossato quelli luccicanti
delle pop star.
I RUSSI - culturalmente impegnati ad incarnare un moralismo virile e maschilista fuori dal tempo - gridano allo scandalo e ammoniscono un’Europa ai loro occhi irrecuperabilmente degenerata. Altri invece esaltano la donna barbuta come una figura della liberazione sessuale e della tolleranza nei confronti della diversità; esultano vedendo in Conchita Wurst una eroina del nostro tempo e il suo successo come il giusto riconoscimento di un altro modo di pensare e di vivere la differenza sessuale. Perché due soli sessi? Perché escludere la possibilità ancora inesplorate di forme multiple, anarchiche, erranti, della sessualità? Non sarebbe questa la legittima liberazione sessuale da secoli di oppressione clerico-fascista? Questa cultura che esalta un sesso totalmente libero dai vincoli dell’anatomia e dai condizionamenti educativi ricade in pieno in una concezione autogenerativa dell’uomo come colui che si fa da sé. È un mito narcisistico del nostro tempo: quello di una libertà che vuole prescindere da ogni vincolo simbolico: inventarsi il proprio sesso. Per questa ragione non seguo né il giudizio feroce dei primi, né l’entusiasmo dei secondi. Guardo a tutto questo da uomo del Novecento che si sforza di abitare il nuovo secolo. Quasi come un migrante che si trova in un paese che non è il suo e di cui prova faticosamente ad intendere le Leggi strambe che lo governano. Trovo nel cinismo fallicoomofobico e prepotente dei russi l’incarnazione di una politica reazionaria destinata ad implodere su se stessa. La segregazione discriminativa della diversità ha fatto irreversibilmente il suo tempo e non bisogna averne alcuna nostalgia. Ma non posso condividere l’esultanza di coloro che vedono nella vittoria della Drag Queen barbuta la vittoria di una Civiltà della tolleranza e della diversità su quella della repressione e della mortificazione della sessualità. Per la psicoanalisi la diversità concerne innanzitutto il soggetto in quanto tale. Siamo tutti diversi perché la nostra singolarità è strutturalmente incomparabile, unica, irripetibile. L’etica della tolleranza si fonda sul rispetto di questa unicità, sull’accoglienza della diversità, sempre sintomatica, del soggetto. Ma cosa pensiamo che sia veramente una liberazione sessuale? Fare del proprio corpo quello che si vuole? È sufficiente questo per parlare di liberazione sessuale e di tolleranza verso la diversità? L’esibizione di un corpo bizzarro e ostentatamente provocatorio non corre forse il rischio di ridurre la liberazione sessuale ad un semplice rovesciamento speculare del vecchio paradigma clerico-fallico-fascista della normalità? La norma prescrittiva non è più quella ascetico-repressiva ma diventa quella narcisistico- esibizionista. Ma vogliamo davvero credere che esistano dei “diversi più diversi dagli altri”. Lo psicoanalista sa bene che nell’uso libertino della sessualità spesso si annida una difficoltà, a volte paralizzante, nei confronti del rischio che comporta l’incontro d’amore e sa altrettanto bene che la liberazione sessuale senza amore spesso degenera in una schiavitù compulsiva priva di soddisfazione. La sola liberazione sessuale degna di questo nome è quella che sa unire il corpo sessuale all’amore e che sa rispettare la diversità dell’Altro (etero o omosessuale che sia). Può essere allora solo il volto barbuto di una Drag Queen l’emblema di questo rispetto?

Repubblica 13.5.14
Cacciari una certa idea di metafisica
Esce “Labirinto filosofico” nuovo saggio dello studioso
di Antonio Gnoli


Provate a immaginare cosa sarebbe la nostra civiltà, l’Occidente, senza il pensiero greco. Se a un tratto, come per incanto sparissero – che so? – i frammenti presocratici, i dialoghi platonici, i libri di Aristotele, tanto per citare i referenti più importanti e noti. Pensereste forse che noi, gli eredi naturali, saremmo gli stessi? Non so immaginare gli effetti: ma forse che la democrazia sarebbe oggi la stessa senza quell’intenso modo di pensarla e realizzarla ad Atene tra il quinto e il quarto secolo?
E la ragion e avrebbe avuto la stessa attenzione che le filosofie successive le hanno dedicato? Sicché, mentre leggevo il nuovo libro di Massimo Cacciari, non potevo esimermi dal constatare quanto rilevante e imprescindibile sia stata quell’eredità di cui oggi abbiamo perso i tratti più perspicui e filosoficamente arditi.
Da decenni - da quando uscì Krisis nel 1976 (che credo egli ritenga in larga parte superato) - Cacciari esercita il suo talento sui nodi principali del pensare filosofico. Che proprio in quanto è un pensare (e un conoscere) non va confuso con la sua storia né con gli ambienti sociali da cui pure è scaturito. Di qui l’alta tensione teoretica che corre lungo tutte le pagine di questo vero e proprio Labirinto filosofico ( Adelphi). E titolo non poteva essere più adatto per rilevare i dubbi, le oscurità, i tormenti che un percorso del genere provoca. Molto simile all’errare: sia in quanto possibilità di errore, cui ogni esperienza si espone, sia perché la filosofia, in ultima analisi, è un cammino complicato. Verso dove? Verrebbe da chiedersi. E la risposta chiama in causa la verità. Anche se questa non può essere ridotta ai metodi della scienza o alle estenuate versioni postmoderne, due culture che si sono dimostrate incapaci di assolvere un compito tanto estremo quanto necessario: pensare il reale.
Pensare cioè l’Essente (o l’Ente) più che l’Essere.
Vi è dunque in Cacciari un richiamo alla concretezza della filosofia estranea alla vecchia metafisica. L’Essente (la Cosa) non è semplicemente questo o quell’oggetto. Non è la penna o il computer con cui scrivo o il tavolo su cui poggia il libro: oggetti la cui conoscenza richiede astrazione (cioè predicazione). L’essente - di cui con qualche forzatura possiamo dire si componga la realtà - è certamente questo ambiente di relazioni che vive nel mondo, ma è anche qualcosa di più. Che eccede queste relazioni e tuttavia è nel mondo. Compito della filosofia è interrogarsi su ciò che possiamo dire della Cosa, la sua predicazione in quanto Ente, ma anche sulla sua indicibilità, sul fatto che l’Ente non è riducibile interamente al modo in cui lo diciamo.
Cos’è questo linguaggio specialistico - che circola nel libro - che per il solo fatto di essere formulato con estrema acribia filologica sembra rinviare alle antiche dimore metafisiche del pensiero greco? Uno degli esiti sorprendenti del lavoro di Cacciari risiede nella riabilitazione, se così si può azzardare, di quella metafisica che Nietzsche (e lo stesso Heidegger) - stante almeno le letture postmoderne - avevano condannato. Letture (si pensi a quelle svolte da Rorty e Vattimo) che hanno esecrato la metafisica per la sua natura totalitaria e chiusa. Dimenticando l’enorme apporto alla costruzione di un linguaggio senza il quale sarebbe perfino inutile immaginare di filosofare.
Cacciari conosce le insidie e le aporie che da essa si sono generate. Ma non rinuncia a una propria idea di metafisica, o meglio di filosofia che la disincaglia dal pensiero teologico. Come quest’ultimo cerca una realtà (Dio) dietro l’apparire, così la filosofia tratta della materia dell’apparire. Cos’è l’apparire? Potremmo definirlo come l’inesauribile rapporto con l’esperienza. Con la vita sensibile. Non un’esperienza astrattamente intesa (come è quella che ci propone la scienza), ma temporalmente determinata e dunque molteplice e variabile. Che non assicura solidi fondamenti, ma dona lapropria inesauribile disponibilità. Ci siamo dentro? Sì. Ma non come soggetti che potrebbero anche starne fuori, per poi, magari, conoscerla successivamente. L’esperienza (realtà) ci ricomprende. Oltre ogni dualismo. Oltre ogni artificiale separatezza tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto.
Lo stesso rapporto, che intercorre tra l’esperienza e noi, c’è tra pensiero e linguaggio. Non viene prima il pensiero e poi la maniera di esprimerlo (o viceversa): non c’è un contenente e un contenuto. Concrescono insieme. Abitano nella medesima e inesauribile realtà. Esiste qualcosa prima di questa relazione? C’è il mito che è già una “voce”, un suono prima ancora di essere linguaggio o nome: la traccia di un tempo in cui l’uomo comunicava con cenni o atti o corpi. La scrittura è perciò all’origine gesto e suono. Coincide con la voce mitica, dice Cacciari, che si agita all’interno di ogni parola. Ed è quel “suono” (ancora una volta indicibile) che il poeta cerca di rievocare. C’è un dire - come osserverà Heidegger - che è comune tanto al pensare poetico quanto a quello filosofico. Le due forme non si compiono l’una nell’altra. Mantengono una relazione. Ed è da questo nesso che ciascuna trae forza senza confondersi nell’altra.
La filosofia che Cacciari insegue, fin dentro le più segrete interrogazioni, non è dualistica: non c’è il mondo incorrotto delle idee da un lato, e dall’altro quello, nel quale viviamo, soggetto a errore e fraintendimento. La partita, tutta intera, si gioca nell’al di qua: la filosofia ha come presupposto il mondo (e il mondo è l’interezza di fatti e di nessi). Non si sfugge alla doxa, alle opinioni. Come non si sfugge al disordine. Questo non significa che non si possa andare oltre, che non esista un’idea di ordine e che i filosofi rinuncino a pensare con saldezza alla missione del vero. Si vedano le pagine dove Cacciari rilegge Il Simposio, ma anche quelle in cui, da un lato, ricusa con sarcasmo la lettura distorsiva fatta di Nietzsche, per cui non esistono fatti ma solo interpretazioni; e dall’altro, mette in guardia dal “nuovo realismo” altrettanto ingenuo.
Per Cacciari la filosofia è pensiero vivente. Ma perché lo sia coerentemente non può evitare il confronto con la morte. E l’angoscia che essa produce. Non si tratta dell’ennesima variante esistenzialistica. Semmai, come insegnò Socrate, prendendosi cura della propria morte, ci si prepara a vivere il proprio morire. La qual cosa non sta a significare un atteggiamento luttuoso verso la vita, né un malinconico bisogno di tramonto: ma la consapevolezza - che l’umanesimo italiano seppe tragicamente esaltare - del divenire stesso di tutte le cose.
La filosofia cacciariana descrive il vivere dell’apparire. Ma la sostanza di questo apparire non rinvia a un fondamento (come la vecchia metafisica auspicava), è potenza, dynamis. Un’”energia” che non si può vedere e che è oltre ogni possibile determinazione. Eppure c’è. Non è confinata in un mondo altro dal nostro. Ma resta principio inesauribile e indicibile. Come ci rapportiamo ad esso? Platone lo immaginò come il bene supremo. L’impalpabile Agathòn. Verso il quale tendiamo con amore. Ma è un amore destinato a restare sempre insoddisfatto. La filosofia è questo eros inappagato e incompiuto. E tuttavia razionale e necessario. Un sistema metafisico, certo, ma aperto. L’inesausta interrogazione del filosofo nel mondo. La sua prassi attraverso il corpo e il pensiero.