mercoledì 14 maggio 2014

La Stampa 14.5.14
Fra i superstiti sul molo di Catania “Eravamo carichi di donne e bimbi”
di Niccolò Zancan

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La Stampa 14.5.14
Le tragedie nel Canale di Sicilia
Così il mare è diventato cimitero
Il 2011 è stato l’anno più tragico: almeno 1.800 persone scomparse

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il Fatto 14.5.14
Gli scampati dal mare
Arrivati a Catania i 206 superstiti dell’affondamento della nave a sud di Lampedusa
17 morti e 17 dispersi. Ma la Sicilia lancia l’allarme: siamo allo stremo
di Giuseppe Lo Bianco


Catania. La prima a scendere è una donna incinta, arranca con il volto sofferente sorretta da un volontario della Croce Rossa. Dietro di lei si muove un corteo silenzioso e variopinto: sono 206, pakistani, marocchini, siriani, etiopi, algerini, in maggioranza uomini, una ventina di donne e circa dieci ragazzini. Le bare sono 17, allineate sul molo n.8 ma nessuna è bianca: tra le diciassette salme sbarcate alle 19.30 di ieri sera dalla fregata della marina Militare Grecale ci sono anche due bambine di pochi anni, annegate nel canale di Sicilia 100 miglia a sud di Lampedusa. E poi due donne di meno di 30 anni e tredici uomini.
NEL GIORNO dell’emergenza immigrazione, con altri 400 immigrati sbarcati a Pozzallo, 300 sbarcati ad Augusta dalla nave militare Sirio, un tentativo di ribellione esploso nel centro di accoglienza di Mazara e due scafisti arrestati dalla polizia a Palermo, Catania accoglie i morti portati dalla Grecale nascondendo le bare in due furgoncini posteggiati davanti alla nave da crociera Star Pride, che salpa in tempo alle 18 in tempo per lasciare il posto sul molo alla fregata della Marina Militare. Davanti ai volontari della Croce Rossa, diretti nei quattro gazebo sanitari approntati sul molo, sfilano 206 uomini, donne e qualche ragazzo, volti segnati dal sole e dalla paura: sono tutti in buone condizioni fisiche, non presentano a prima vista problemi epidemiologici, verranno smistati tutti in un centro di accoglienza a Catania (le salme sono state trasferite nel Palarcidiacono, obitorio improvvisato sempre nella città etnea).
Ad assisterli, tra i 30 volontari della Croce Rossa, c’è anche Helen, etiope giunta a Catania con un viaggio della speranza tanti anni fa, e qui rimasta ad assistere i suoi connazionali e tanti altri sventurati in fuga da miseria e guerra. Parla bene l’inglese, e il suo capo, Stefano Principato, la inserisce nel gruppo dei mediatori culturali che andranno a parlare con i superstiti. Tra la folla di giornalisti in attesa di notizie si aggira Khalid Hallak, uno dei leader della comunità siriana in Italia: vive a Crema, si è precipitato in Sicilia dopo avere ricevuto l’allarme da alcune famiglie che cercano notizie dei propri cari, in fuga dalla guerra: “Ho telefonato, ma i loro cellulari non squillano’’ – dice Khalid. Sul molo il sottosegretario all’Interno Domenico Manzione smorza le cifre della tragedia: “A bordo del barcone hanno detto di essere 240 – dice – se qui ne sono giunti salvi 206 e 17 purtroppo non ce l’hanno fatta, vuol dire che la cifra dei dispersi in mare è più contenuta di quanto è stato scritto’’.
IN EFFETTI le caratteristiche del barcone affondato lasciano pensare ad una capienza non superiore a 250 persone. Lo accerterà la procura di Catania, che ha aperto un’inchiesta per omicidio plurimo colposo e, a quanto pare, ha già individuato due scafisti, come ha detto il comandante della Grecale Stefano Frumento in un’improvvisata conferenza stampa sul molo. Già l’altro ieri pomeriggio una squadra di polizia giudiziaria è salita a bordo della Grecale per compiere i primi interrogatori dei superstiti, confluiti nell’inchiesta condotta dal sostituto procuratore Monia Di Marco, inviata ieri sul molo dal procuratore Giovanni Salvi. Non sono ancora stati effettuati fermi, previsti nelle prossime ore, così come le autopsie, anche se le morti sono tutte per annegamento.
E non è ancora chiara la dinamica della tragedia, sembra che alcuni dei superstiti abbiano riferito dichiarazioni divergenti sulle cause. E mentre il sottosegretario Manzione auspica un rimodulamento del sistema di accoglienza in Sicilia, ormai al collasso, il sindaco di Catania lancia l’ennesimo allarme: “Non ce la facciamo più e la prospettiva, a sentire le previsioni del governo, è quella di un ulteriore aggravamento della situazione degli sbarchi con centinaia di migliaia di persone che attendono di imbarcarsi per raggiungere il confine europeo, la Sicilia’’.

il Fatto 14.5.14
Al Qaeda, i signori dei barconi e la ‘bomba umana’ del Sahara
di S. Ci.


Ripercorrendo a tratti le piste carovaniere che i mercanti arabi di schiavi solcavano nel Sahara secoli fa, i contemporanei mercanti di uomini legati agli estremisti islamici portano ancora uomini attraverso il ‘signore dei deserti’ d’Africa. Nelle terre mitiche delle tribù Tuareg ora dominano i gruppi terroristi affiliati ad Al Qaeda, marchio di fabbrica delle milizie islamiche figlie dei movimenti integralisti salafiti algerini degli anni ‘90. Ogni battaglia indipendentista - come quella dell’Azawad nazione dei sogni dei Tuareg dal 2010 - tra le sabbie del Sahara solcate da confini disegnati sulle mappe dalle ex potenze coloniali, sono diventate le loro cause e i loro campi di addestramento. In gruppuscoli di poche centinaia, ingrossatisi man mano, hanno approfittato di ogni luogo e di ogni commercio - a iniziare da quello di droghe e armi - per nutrirsi di ideologia, e di affari.
Approfittando in doppia maniera dei migranti che da occidente e oriente intraprendono il viaggio attraverso il deserto per giungere alle coste del Nordafrica e da lì in Europa, gruppi guerriglieri come l’Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico) e l’alleato Ansar Dine, il Movimento per l’unità e il jihad in Africa occidentale (Mujao) presenti tra Mali, Niger , Algeria e Ciad da una parte controllano più o meno direttamente il traffico delle piste sahariane raccogliendo balzelli alle bande organizzate di passatori, dall’altra usano lo spauracchio della ‘bomba umana’ contro la Fortezza Europa come un ordigno che destabilizzi i governi del Vecchio continente.
FINO AL 2011 a guardia del deserto c’era in prima fila la Libia di Gheddafi: inflessibili e ripetuti accordi di ‘amicizia’ con l’Italia consegnavano al Colonnello gli strumenti di contenimento delle rotte dei migranti. Poi la primavera araba ha debellato il quarantennale regime del raìs di Tripoli, aprendo allo stesso tempo un nuovo fronte di emigrazione, il più tragico di tutti: quello siriano.
Gheddafi usava il rubinetto dell’immigrazione verso le coste europee come un’arma per essere ascoltato; in modo non dissimile viene ora usato dai movimenti armati che scorrazzano nel Sahara e che l’intervento della Francia e poi la missione Onu in Mali non ha debellato, mentre le alleanze di interesse, più che ideologiche, uniscono nella rete islamica africana anche il movimento nigeriano Boko Haram che, come altri, ha spesso fatto dei rapimenti (ultimo quello delle studentesse cristiane convertite a forza) un’ulteriore fonte di reddito.
Attraversato il deserto, i luoghi di partenza verso il Sud Europa non sono cambiati molto negli ultimi anni. Uno dei principali resta la zona di Zawyia, cittadina a ovest di Tripoli, dove regnano le tribù di origine berbera degli altopiani predesertici, da sempre ostili a Gheddafi e ora in controllo dei tributi dei mercanti di uomini: prezzi più bassi (e barconi più fatiscenti) hanno reso la doppia traversata Sahara-Mediterraneo ancor più battuta.

La Stampa 14.5.14
Turchia, inferno nella miniera: "I morti sono 201". Centinaia di operai intrappolati a -2000 metri
Secondo le autorità 400 sono bloccate a 4 mila metri dalle uscite con maschere di ossigeno ad autonomia limitata

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il Fatto 14.5.14
PD, panico Grillo
Europee Renzi e l’incubo pareggio coi Cinque Stelle
A due settimane dalle elezioni, il primo ministro è stretto tra voto su Genovese e l’inchiesta sulle mazzette all’esposizione universale
di Wanda Marra

Trovo un po’ sospetta la carica che il Movimento 5 Stelle sta mettendo sulla questione dell’arresto di Genovese”. Anna Rossomando, capogruppo Pd in Giunta del Regolamento, che mercoledì scorso ha votato per l’autorizzazione a procedere, chiesta dai magistrati di Messina, dà voce - seppur tra le righe - a una convinzione che circola in tutto il gruppo Democratico a Montecitorio. Ovvero che i grillini stiano lavorando sotterraneamente per salvare Francantonio Genovese dall’arresto e dare la colpa al Pd. Oggi (ostruzionismo sul decreto lavoro permettendo), o al massimo domani si vota sul deputato siciliano. A Montecitorio la vivono come la classica goccia che potrebbe far traboccare il vaso, in un momento in cui il Pd è sotto tiro per l’inchiesta sull’Expo, che tira in ballo pezzi di mondo vicini al partiti (per non parlare di un ministro di peso del governo Renzi, come Maurizio Lupi). L’arresto di Scajola, poi, mette sotto la lente di ingrandimento quanto il premier sia - politicamente parlando - legato a Forza Italia, visto che sulle Riforme ancora cerca di portare avanti con il partito di Berlusconi un asse privilegiato.
SE NEL SEGRETO dell’urna Genovese venisse salvato, per il Pd sarebbe l’ennesimo boomerang. “In Giunta hanno seguito le mie indicazioni, in Aula speriamo vada nello stesso modo”, dice Franco Vazio, il relatore (renziano) che sta ultimando il suo intervento. “Comunque, io chiarirò tutto: in maniera che se qualcuno vota contro, non possa dire che non aveva capito”. Che ci sarà chi nel Pd voti per salvare Genovese si dà per scontato. Il punto è quanti, e quanti di altri gruppi lo faranno.
Il clima è teso, la situazione a 10 giorni dalle europee esplosiva. “I sondaggi ci danno tra il 32 e il 35% e i Cinque Stelle sono tra il 25% e il 27%. L’unica cosa che potrebbe portare dei cambiamenti è la vicenda dell’Expo”, dice Roberto Giachetti, vicepresidente della Camera. Qualsiasi cosa ci sia nell’inchiesta, comunque proseguano gli interrogatori, è evidente che plasticamente davanti all’opinione pubblica l’immagine è di un Pd coinvolto, di un Renzi comunque compromesso con il potere peggiore. Tutti voti per Grillo. “Andremo bene noi e andrà bene Grillo. Chi arriva primo non si sa”, commenta velenosamente un bersaniano. Ecco, l’ ipotesi 30 per cento Pd e 30 per cento Grillo diventa tangibile. Un incubo per il Pd renziano. Perché il premier ne uscirebbe comunque indebolito. I fronti sono molteplici. “Io vorrei sapere chi ha dato la tessera a Primo Greganti”, continua a ripetere il renziano David Ermini, che non si dà pace. Renzi a Ballarò chiarisce: “Per dire che Greganti è della mia area ci vuole fantasia”.
Commenta Matteo Orfini: “Si deve lavorare a costruire il clima elettorale”. Perché il clima non c’è: poca campagna elettorale, con Renzi che di fatto una piazza ancora non l’ha occupata. Per l’elettorato tradizionalmente di sinistra vedere Beppe Grillo che riempie le piazze e il segretario del Pd che non lo fa potrebbe avere un effetto boomerang. Senza contare che nelle piazze per molti il “vecchio” Pd è percepito come un avversario di Renzi. Un paradosso (relativo, vista la capacità dei Democratici di cuocere a fuoco lento i suoi leader), che costerà voti.
AL NAZARENO lo sanno, e infatti si corre ai ripari: stasera il premier va a Palermo, sabato in Emilia, la settimana prossima a Bari, poi chiude a Firenze. In mezzo dovrebbe fare anche qualcos’altro. Ma comunque sia, la sua non è una campagna facile in queste condizioni. Grillo è all’assalto all’arma bianca. Renzi non è nelle condizioni di rompere con nessuno adesso e neanche di usare toni troppo alti rispetto al lavoro della magistratura. La task force per l’anticorruzione è un tentativo di dare una risposta. Basterà? Il ribadire che si fermano i corrotti e non le opere, il rappresentarsi come “costruttore” rispetto al “distruttore” è abbastanza per cancellare le immagini delle mazzette?
A passare all’attacco in maniera decisa, primo dei renziani a scegliere toni forti, è il deputato emiliano, Matteo Richetti, che in un post su Facebook ci va giù durissimo: “Grillo è settato sul suo stile distruttivo: mistifica e imbonisce. Racconta di un movimento che sta cambiando il paese. Io vedo un movimento che sta ingannando il paese”. Rispondere con forza a questo punto sembra necessario, ineludibile. E molti si aspettano un colpo ad effetto del premier.

La Stampa 14.5.14
Il voto su Genovese spaventa il Pd
Si teme un “trappolone” dei grillini in aula e una replica dei 101 traditori
I renziani sospettano un tiro mancino di “compagni”
di Carlo Bertini

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il Fatto 14.5.14
Le coop rosse (di vergogna) tra inchieste e lotte sindacali
Scandali & profitto
L’indagine di Milano fotografa un mondo allo sbando. Orfano della politica, ostaggio di padri-padroni inamovibili
E ora nel mirino della Cgil
di Giorgio Meletti


Altro che magistrati. L'attacco più duro alle coop cosiddette rosse è venuto dal capo della Cgil, Susanna Camusso. La settimana scorsa, chiudendo il congresso di Rimini, il segretario generale del primo sindacato italiano ha riservato alle cooperative parole al vetriolo: “Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione, quando si usano appalti alla qualunque e non si firmano i contratti, quando si disdettano gli accordi come una qualunque catena straniera della grande distribuzione. Ci indigniamo non per la presenza di soci lavoratori, ma se sono tali solo per non applicare i contratti, che lo si faccia nella cooperazione industriale o in quella sociale, non va bene”.
I FENDENTI DI CAMUSSO sono in parte strumentali, giusto per castigare un po' il ministro del Lavoro Giuliano Poletti che ha appena lasciato la presidenza di Legacoop per farsi interprete del verbo renziano sul mercato del lavoro. Ma non nuovi. Negli anni 90 il suo predecessore Sergio Cofferati già parlava di cooperative “che considerano il lavoro come occasione di profitto sulla pelle dei giovani”. Insomma, è da almeno vent'anni che le coop hanno scoperto il mercatismo e sciolto ogni legame con i valori laburisti e solidaristi. Rivendicano di essere aziende come le altre, e si comportano di conseguenza. Non solo calpestando quando serve i diritti dei loro dipendenti – che molto spesso non sono nemmeno soci, cosicché la cooperative che li assume più che di lavoratori si potrebbe definire di datori di lavoro. Ma anche infischiandosene del codice penale nella stessa misura delle normali imprese private, sebbene pretendano di vedersi ancora riconosciuta una superiorità morale.
Il coinvolgimento del gigante Manutencoop e del suo presidente Claudio Levorato nell'inchiesta sulle tangenti per l'Expo milanese non sorprende. La presunzione d'innocenza è fuori discussione, naturalmente, ma l'interessato deve invocarla anche per lo scandalo degli appalti della Asl di Brindisi, per il quale proprio la settimana scorsa sono state chiuse le indagini, e Levorato è uno dei 51 indagati. Il referente locale di Manutencoop, Mauro De Feudis è finito ai domiciliari e, secondo la procura di Brindisi, citata dalla Gazzetta del Mezzogiorno “candidamente afferma di aver richiesto l’intervento del legale rappresentante della Manutencoop Facility Management spa per risolvere la problematica relativa alla mancata assunzione di soggetti segnalati dal consigliere regionale De Leonardis che nel frattempo garantiva loro l'aggiudicazione illecita di appalti in tutto il territorio pugliese”.
Il gigante delle costruzioni Cmc di Ravenna, che oggi deve la sua fama all'appalto per il tunnel di servizio dell'alta velocità in Val di Susa, è all'onore delle cronache per il caso del “porto fantasma” di Molfetta, cantiere aperto – secondo l'ipotesi accusatoria della procura di Trani – per incassare i contributi pubblici poi stornati verso altri impieghi. Il costruttore Enrico Maltauro e il faccendiere Sergio Cattozzo, intercettati prima di essere arrestati dai magistrati milanesi per l'Expo, mostrano di conoscere bene la vicenda. Dice Maltauro: “Il casino di Molfetta, non è solo un fatto di corruzione, ma c'è un fatto di truffa ai danni dello Stato”. Specifica Cattozzo: “Per cui i soldi per fare il porto li hanno utilizzati per altre cose”. A fine 2013 la Cmc è stata coinvolta nell'inchiesta sulla bonifica dell'area Rho-Pero, che fa parte dell'operazione Expo, con l'accusa a un suo esponente di aver corrotto il direttore tecnico del cantiere perché non ostacolasse il sereno dispiegarsi del lavoro della cooperativa. C'erano di mezzo questioni di rispetto dell'ambiente anche nell'inchiesta sul tunnel dell'alta velocità di Firenze, per la quale l'anno scorso fu arrestata la presidente di Italferr (gruppo Fs) Maria Rita Lorenzetti, ex presidente della regione Umbria. In quel caso i magistrati hanno ipotizzato un'associazione a delinquere il cui scopo principale era soccorrere una coop con i conti in difficoltà: “Pianificavano una serie di interventi a vasto raggio per influire e determinare le varie amministrazioni coinvolte, in maniera da superare ogni possibile ostacolo e intralcio agli obiettivi dell'associazione: ovverosia favorire al massimo in termini economici Nodavia e tramite essa Coopsette (di cui si teme la prossima insolvenza) a scapito dei costi dell'appalto e a danno delle casse dello Stato”. In effetti la Coopsette e la Unieco, due giganti del mattone cooperativo emiliano, hanno attraversato l'inferno del concordato preventivo e adesso si preparano a fondersi nella nuova Unisette per salvarsi. Evidentemente il ricorso al doping della corruzione, abbastanza tipico per le imprese italiane, è un vizietto che non risparmia le coop, soprattutto adesso che gli affari non vanno per niente bene.
STORIA ANTICA anche qui. L'idea che esista un blocco compatto chiamato “coop rosse” e unito ai partiti della sinistra è superata nei fatti da un ventennio. Dopo la svolta della Bolognina è scomparso dalla scena il Pci che garantiva alle coop le loro quote di mercato al tavolo della spartizione degli appalti pubblici. I boiardi rossi hanno allora imparato ad arrangiarsi da soli, al grido di “ognuno per sé e tangenti per tutti”. Già il pool Mani pulite, indagando su Tangentopoli, scoprì con una certa sorpresa che era in corso una guerra feroce tra le coop emiliane e quelle lombarde per l'accesso al mercato della Lombardia, che le seconde impedivano alle prime. In uno scenario del genere la Legacoop si è trasformata da holding di fatto, quale era ai tempi del Pci a una pressoché inutile Confindustria delle coop. Poletti, per esempio, è stato tenuto rigorosamente all'oscuro dei traffici in corso tra le grandi coop del consumo per organizzare la scalata alla Fonsai da parte dell'Unipol di cui sono azioniste. E Poletti, come il suo successore Mauro Lusetti, si limitano a minimizzare come “casi isolati” gli scandali che coinvolgono grandi e piccole imprese cooperative.
NON SORPRENDE QUINDI che il risultato della “balcanizzazione” sia stato il consolidamento dei padri-padroni delle singole coop. Personaggi che già vent'anni fa l'allora presidente di Legacoop Lanfranco Turci, poco prima di essere fatto fuori, accusò di “spinte cesaristiche”. Gente come Levo-rato, presidente di Manutencoop da trent'anni, o come Turiddo Campaini, alla testa di Unicoop Firenze dal 1973, due anni prima della nascita di Matteo Renzi, o come Pier Luigi Stefanini, presidente di Unipol da otto anni dopo una vita alla Coop Adriatica. Logica conseguenza di questa parabola e di queste logiche spietate è ciò che rileva Ca-musso. Le coop si stanno sempre più spesso qualificando come datori di lavoro efferati. Sul Fatto del 16 marzo scorso Marco Palombi ha raccolto un florilegio di casi incredibili: “Sulla scheda di valutazione di un dipendente abbiamo letto che l'interessato non può essere promosso. Motivo? Fa il sindacalista. Non manca nemmeno l'ordinario marchionnismo: dal delegato Rsu trasferito o demansionato fino alla schedatura fotografica degli scioperanti”.

il Fatto 14.5.14
Le visite del mercoledì
Greganti, il fantasma del Senato
Senato: il Compagno G. mai registrato all’entrata
Gli investigatori lo seguivano: “Andava in Parlamento, ma ci siamo dovuti fermare all’iingresso”
Peccato che nei registri di Palazzo Madama del “compagno G.” non c’è traccia
Come e grazie a chi entrava?
di Wa. Ma.


Tutti i mercoledì Primo Greganti andava in Senato. Racconta il Corriere della Sera che gli investigatori della Procura di Milano lo pedinavano, ma poi, per evitare che si accorgesse della loro presenza, lo abbandonavano sulla porta di Palazzo Madama. E dunque, gli inquirenti non sanno cosa andava a fare, chi andava ad incontrare. Dopo che la cosa è stata resa nota e il Senato si è attivato per capire chi andasse a trovare, non è che se ne sappia più di prima. Anzi. A quanto risulta al presidente, Pietro Grasso “il compagno G.” in Senato non c’è mai nemmeno entrato. Uno dei tanti gialli che accompagnano la vita del fu protagonista di Tangentopoli , ora arrestato nell’ambito dell’inchiesta sull’Expo. Misteri.
Un po’ come quello della tessera del Pd: Greganti risultava iscritto a Torino, nel circolo 4 di San Donato-Campidoglio nel 2012 e nel 2013, e in attesa di rinnovo per il 2014. Ora è stato sospeso. Resta la domanda, su come è possibile che un personaggio con quel curriculum giudiziario, sia stato riammesso tra i democratici.
IERI , dopo le rivelazioni sulle sue frequentazioni dei Palazzi, è partita la “caccia” agli amici del compagno “G” in Senato. Primi sospettati, i senatori democratici. “Io non l’ho mai visto, non veniva da noi. Magari andava a cercare altri”, dicono dal gruppo Dem. E tutti quelli interpellati negano assolutamente di aver mai visto Greganti aggirarsi per i corridoi del Senato. Ugo Sposetti, l’ex tesoriere Ds, additato da componenti di altre forze politiche come il primo indiziato, a chi glielo chiede direttamente, nega. “Non l’ho mai visto. E neanche l’avrei riconosciuto”, scherza il lettiano Francesco Russo.
Però, la necessità di capire effettivamente cosa ci facesse Greganti nelle stanze della Camera alta è condivisa.
Ieri mattina a presentare richiesta formale al presidente del Senato, Pietro Grasso, è stato il democratico Felice Casson. Perché in realtà per varcare le soglie del Parlamento italiano serve un permesso (sia un accredito stampa, un pass di un senatore o di qualcuno che ci lavora), che deve essere regolarmente registrato.
Computer in tilt per tutta la mattinata, Grasso in un primo momento non riesce a rispondere. Poi, nel pomeriggio è il capogruppo Pd, Luigi Zanda a chiedere delucidazioni. La risposta di Grasso è sconcertante: non ci sono tracce dell’ingresso del compagno G.. A stare agli atti ufficiali del Senato, nessuno gli ha mai dato il permesso di accedere. Di più, lui in realtà non è mai entrato. Il mistero si infittisce.

Corriere 14.5.14
Dalla Cina al Senato, la rete del compagno G Greganti
Le relazioni a Palazzo Madama e la consulenza con la cooperativa che sta costruendo il padiglione di Pechino
di Marco Imarisio


«My friend!». L’ambasciatore Sun Yuxi strinse in fretta le mani di qualche onorevole e senatore Pd giunto all’hotel Ergife di Roma per l’annuale cena degli imprenditori cinesi in Italia, e si diresse verso il centro della sala ad abbracciare e baciare come fosse un vecchio amico l’ospite appena arrivato. «Chi è quello?» chiese un po’ interdetto uno della delegazione democratica. «Il compagno G» rispose gelido un parlamentare piemontese.
L’episodio risale alla primavera del 2009, e nel suo piccolo dimostra come la Cina non sia mai stata lontana per Primo Greganti. A leggere le intercettazioni dell’inchiesta che ha riportato ai disonori della cronaca l’uomo che non disse una parola sui conti del Pci emerge il suo ruolo di informatore sul padiglione Cina di Expo 2015, molto sollecitato da un dirigente della cooperativa ravennate Cmc, un colosso dell’edilizia nostrana. Greganti aveva pieno titolo per farlo. Si presentava spesso come dirigente del gruppo Seinco, società torinese di costruzioni, che può vantare «costruzioni di grandi opere» in Cina.
La sua attività di mediazione però non veniva certo fatta a titolo gratuito. Greganti aveva un forte interesse personale a chiudere gli affari per la Cmc, l’azienda che si vantava di aver portato a Shanghai, ma «trent’anni fa», come dice nelle intercettazioni. E la politica non è certo estranea a questa personale partita di giro. Nel biennio 2012-2013 le sue visite a Camera e Senato furono frequenti. Un Greganti bisognoso di aiuto economico si presentò più volte dai suoi colleghi del Pd chiedendo una mano e un contatto con Cmc. Si fece risentire mesi dopo. Aveva ottenuto un contratto di consulenza da diecimila euro una tantum, con la provvigione dell’un per cento sui lavori che sarebbe riuscito a portare in dote al gruppo romagnolo. E spulciando le principali società per le quali ha lavorato la «sua» Seinco abbondano i collegamenti con il mondo cooperativo.
Anche Torino non dista molto. Greganti era uno dei ragazzi di via Chiesa della Salute, la storica sede del Pci. Nel ‘91 lo chiamarono a Roma per replicare su larga scala i successi ottenuti con la raccolta pubblicitaria per le feste dell’Unità locali. Ci ritornò dopo Tangentopoli. Nel 2012 si iscrisse alla sezione Pd di Borgo San Donato. Gli ultimi avvistamenti ufficiali risalgono allo scorso 29 marzo al teatro Carignano, durante una manifestazione per Sergio Chiamparino, candidato Pd alle regionali, e al corteo del Primo Maggio.
I tentativi di aggiornare l’agenda passavano inevitabilmente dalla sua città. Ma in questi giorni Greganti non risulta a nessuno. Eppure tutti sanno dei suoi problemi di salute, delle sue difficoltà economiche e del recente acquisto di quote di una società che produce fabbricati in legno, come quelli che dovrebbero accogliere le case delle varie nazioni nei padiglioni dell’Expo. La reticenza si spiega anche con una lotta interna al Pd locale, dove ha un certo peso quella che i rivali chiamano la «corrente autostradale». Nelle carte della Procura di Milano è descritto il suo tentativo di avvicinare il parlamentare europeo Gianni Pittella, all’epoca candidato alle primarie vinte da Matteo Renzi. A propiziare l’incontro fu Gioacchino Cuntrò, ex segretario provinciale Pd, ex socialista di sinistra, attuale tesoriere della Federazione locale, ma soprattutto consigliere di amministrazione della Musinet engineering, società del gruppo Sitaf che gestisce l’autostrada del Frejus, partecipata al 36 per cento dalla famiglia Gavio, la famiglia di costruttori piemontesi che ebbe la sorte di condividere con Greganti i processi di Tangentopoli.
Cuntrò racconta che negli ultimi tempi lo incontrava spesso al parcheggio vicino al Comune. «Chiacchiere politiche, come militante voleva che il Pd tornasse più vicino alla gente. Nient’altro». La vicinanza con il municipio, non solo per questioni automobilistiche, chiama in causa Giancarlo Quagliotti, classe 1942, ex funzionario Pci, area migliorista, che di Musinet è presidente, nonché membro della nuova segreteria regionale ed eminenza grigia della campagna elettorale di Fassino a sindaco di Torino. La Procura di Milano lo cita come uno dei contatti di Greganti, del quale è molto amico. Nel 1993 vennero indagati e processati insieme per finanziamento illecito, sei mesi a testa per l’appalto di un depuratore. Il Pd autostradale si ferma al casello dell’attuale presidente di Sitalfa, una controllata Sitaf. Salvatore Gallo, ex socialista, è considerato il signore delle tessere democratiche, con tanto di figlio candidato alle Regionali nelle liste Pd, sponsorizzato proprio da Quagliotti. Vecchie storie e nuovi imbarazzi. A volte ritornano, come Greganti.

Repubblica 14.5.14
Greganti in cella: “È tutto una bolla di sapone”
di Tommaso Ciriaco

ROMA . Luigi Grillo provato, stanco, in lacrime. Primo Greganti, invece, freddo e determinato. È la fotografia fornita dal senatore di Gal Lucio Barani, al termine di un incontro con due dei principali indagati nello scandalo Expo. Il parlamentare si è recato domenica scorsa nel carcere di Opera dopo che la settimana scorsa aveva fatto visita anche a Claudio Scajola nel carcere romano di Regina Coeli. E a quarantotto ore dal colloquio con Greganti e Grillo racconta cosa si è trovato di fronte.
Il più provato dalla vicenda è Grillo, sostiene Barani: «Ho 71 anni e se questa storia fosse capitata venti anni fa avrei reagito - ha spiegato l’ex parlamentare - Ora sono stanco, ho paura di non avere la forza per scagionare tutte le accuse». Diversa, quasi opposta la reazione del “compagno G”: «È tutta una bolla di sapone, un caso mediatico e basta - ha confidato - Sono abituato a queste inchieste, non mi spaventano e passerà anche questa». Di più: «Questa storia si chiuderà il 26 maggio...».
Il faccia a faccia con i due detenuti - racconta l’agenzia Agi - si è svolto alle 11 di domenica mattina. E non è stato un incontro semplice, giura Barani: «Il faccia a faccia più difficile è stato con Grillo. Non nascondo che non è stato l’unico a mettersi a piangere ». Lacrime, allora, per l’ex parlamentare berlusconiano. Recluso in una piccola cella, nel centro medico del carcere, prende dei farmaci a causa della pressione alta. «Qui mi trattano bene - ha assicurato - ma non si mangia un granchè». Ha con sé frutta, una bottiglia di acqua minerale, gli atti del processo e un libro su Medjugorie - con l’immagine della Madonna - , che gli è stato donato dalla figlia. Proprio quella figlia che, da giorni, staziona davanti al penitenziario. «Diglielo tu di tornare a casa - è stato l’invito di Grillo consegnato a Barani - è inutile che stia qui. Dille che sono orgoglioso di avere una figlia come lei e che non si pentirà di avere un padre come me. Riprenderò il mio onore che è stato infangato».
Contesta le accuse, Grillo: «Ho avuto la visita dell’imprenditore Meltauro nella mia vigna. Ha comprato 40 bottiglie di vino e poi il 28 dicembre mi ha telefonato. Per questo motivo l’ho ringraziato. Tutto qui, c’è anche la fattura che lo dimostra. Io - ha raccontato a Barani il detenuto - non ho fatto nulla, non ho ricevuto un euro, sono solo un privato cittadino, non posso certo influenzare gli appalti. E pensare che delle bottiglie di vino per Natale le hanno ricevute anche alcuni giudici.. ». Poi la confidenza, amara: «Sono finito nel mirino per le mie frequentazioni e per aver partecipato a delle cene. È assurdo. Alcune di queste persone le conosco, ma mi hanno solo chiesto dei consigli». E ancora: «Quando ero presidente della Commissione dei Lavori pubblici del Senato ho fatto fare le leggi sulla trasparenza per l’Expo, le infrastrutture si stanno realizzando anche grazie a me». Nulla di irregolare, a sentirlo. E un ultimo interrogativo: «Se la procura non ha bloccato gli appalti vuol dire che è stato tutto regolare, no?».

il Fatto 14.5.14
Dario e Matteo in Piazza della Signoria
Il candidato fedelissimo Nardella propone e ottiene l’uso dello spazio più simbolico per il comizio col premier
di Tomaso Montanari


Lo Stato – anzi il Comune, anzi lo Stato e il Comune – sono io: ecco il perfetto riassunto dell’ennesimo atto di arroganza con cui Matteo Renzi ha deciso di chiudere la campagna elettorale tenendo un comizio tra le statue di Piazza della Signoria: chiamando a fargli da testimonial gratuiti e inconsapevoli – attraverso le loro statue in originale e in copia – Michelangelo e Giambologna, Cellini e Bandinelli, Ammannati e Donatello.
L’accordo per la disciplina della propaganda elettorale siglato il 28 aprile scorso tra tutti i rappresentanti delle liste impegnate nella tornata elettorale prevedeva che fossero “escluse dalle manifestazioni elettorali, su indirizzo della Giunta, per motivi ambientali e turistici, le seguenti piazze: Signoria, Uffizi, Duomo, San Giovanni”. Poi, il 9 maggio, i rappresentanti delle liste sono stati riconvocati per firmare un’integrazione che prevedeva, tra l’altro, la possibilità di utilizzare proprio Piazza della Signoria, nell’ultima settimana di campagna, dalle 17 alle 23. Con una buona dose di ingenuità (per non dir di peggio) tutti hanno firmato: raccontando tuttavia, che si era parlato di volantinaggio, e non certo di un comizio del presidente del Consiglio.
MA ORMAI ERA FATTA, e il sindaco de facto Dario Nardella ha prontamente concesso al candidato Dario Nardella e al suo padrino politico l’uso di Piazza della Signoria, e dunque dell'immagine di Palazzo Vecchio: simbolicamente autoinvestendosi come sindaco naturale. Già, perché il punto non è certo che una piazza storica non si possa usare per un comizio: per quello sono nate. Il punto è che il simbolo del potere cittadino, l’oggetto stesso della contesa elettorale – Palazzo Vecchio, sede del comune e dell’ufficio del sindaco – non può essere usato per dare un indebito vantaggio a chi già lo occupa. È il motivo per cui la legge sulla par condicio stabilisce che, tra la convocazione dei comizi elettorali e il voto, le amministrazioni pubbliche possano comunicare solo quando è indispensabile, e comunque in modi impersonali: per impedire “il consolidarsi di un maggior vantaggio elettorale a favore dei soggetti politici uscenti, derivante dalla maggior visibilità di cui questi dispongono rispetto agli altri candidati”. Ecco, il fatto che Renzi e Nardella usino i simboli del potere comunale come se fossero loro, viola esattamente lo spirito di questa norma.
A dimostrare che le cose stanno proprio così è un’altra incredibile iniziativa. Nardella ha convocato per il 17 alle 15.15 (e dunque in una fascia oraria inibita all’uso elettorale anche dopo la deroga) l’“Abbraccio più grande del mondo”, scrivendo ai fiorentini: “abbracciamo tutti insieme Palazzo Vecchio per entrare nel Guinness dei Primati”. Lasciamo perdere la qualità intellettuale della manifestazione: il punto è che Nardella ha inondato le email dei fiorentini con un invito firmato non da vicesindaco, ma da candidato, con una lettera che contiene tutti simboli delle liste che lo sostengono e un esplicito invito al voto. Il messaggio è chiarissimo: regole o no, Firenze ha già un padrone.

il Fatto 14.5.14
Le donne di Renzi che civettano tra gaffe e biliardini
Le capoliste del Pd alle europee appaiono come gregarie allo sbaraglio, appese ai voti dei capibastone
di Fabrizio d’Esposito


Sul manifesto, la testolina di Alessandra Moretti, semplicemente “Alessandra” nell’agenda elettorale, è incastonata tra sei stelle gialle, la settima si scorge appena, della bandiera blu dell’Unione. Un fotomontaggio artigianale che trasfigura l’ex bersaniana nell’ennesima Madonna renziana, con una sorta di corona stellare. “Alessandra”, capolista del Pd nel nord-est appare più dinamica sui benedetti social network. Così su Twitter si apprende del suo cambio di scarpe, documentato da un’apposita foto, prima “di raggiungere i piccoli imprenditori del Triveneto”. Dalle ballerine al tacco, o viceversa.
In un parcheggio, la deputata del Pd effettua il cambio poggiando la gamba destra sul portabagagli, aperto, di un’auto rosso fiammante. Ora, provate a immaginare, la stessa scena riandando a cinque, dieci anni fa, senza scomodare gli austeri donnoni comunisti di una volta. Magari con Livia Turco o Anna Finocchiaro o Rosy Bindi. Impensabile.
Il nuovo corso femminile del Pd di Matteo Renzi rende visibile il superfluo e talvolta il vuoto. Non sono critiche sessiste. La questione è più aggrovigliata, tra dilettantismo politico e semplificazione paraberlusconiana. L’imperativo è civettare con gli elettori, nel senso di una frase di Stalin del 1937 contro le elezioni della democrazia borghese e capitalista: “Finché dura la campagna elettorale i deputati civettano con gli elettori, strisciano davanti ad essi, giurano loro fedeltà, promettono mari e monti”. Una critica ancora attuale, se si vuole.
SCELTE a sorpresa dal premier durante una notte in cui le liste del Pd sono state stracciate, non senza alti lai e minacce di vendetta, Alessandra Moretti nel nord-est, Alessia Mosca nel nord-ovest, Simona Bonafè al centro, Pina Picierno al sud sono le quattro capoliste per le Europee che la cattiveria di Beppe Grillo ha retrocesso a “veline” di Renzi (su altro piano, c’è Caterina Chinnici nelle isole). Mancano poco più di due settimane al voto del 25 maggio e cosa si ricorda di loro? Eppure si muovono tanto, tra programmi televisivi e manifestazioni sul territorio, cosa usa dire. L’altra sera, la Bonafè era su La7. Tra le quattro è che quella che scimmiotta di più il dante causa “Matteo”. Dalla “portata storica” delle riforme, come nessuno mai in questo Paese, nemmeno con il centrosinistra di Fanfani, tanto per fare un esempio, ai fatidici 80 euro in busta paga. A sentire la Bonafè e l’ennesimo tintinnio virtuale degli 80 euro persino il calmo Pigi Battista del Corsera ha perso la pazienza: “E basta con questa storia”. La Bonafè è stata promossa alla Camera direttamente dal comune di Scandicci, dov’era assessore, e adesso guida una lista per Strasburgo. Un’ascensione da vertigini più che una scalata, dove però “un momento per il biliardino si trova sempre”. Segue l’immagine, ovviamente su Twitter: la Bonafè, Lorenzo Guerini e Andrea Marcucci che giocano a biliardino. “Wow!”, fonzianamente esclamando. Sul manifesto, la Bonafè da Scandicci ha le mani in tasca come il Renzi della fiducia in Parlamento. L’imitazione del Capo è un’ossessione, come quando tutti i dalemiani andavano in tv e ripetevano lentamente, con enfasi, il noto intercalare del Generale Massimo: “Diciamo...”. Gli slogan della Bonafè e della Moretti hanno una similitudine da salumeria di lusso: “Il cibo è made in Italy”, “La bellezza è made in Italy”, “L’innovazione è made in Italy”, “L’ambiente è made in Italy”.
La più verace e sanguigna è Pina Picierno, annoverata in una corrente dal nome impronunciabile: i franceschiniani. Una gaffe della Picierno ha tenuto banco per giorni. Quella che con gli ottanta euro sbandierati dal Pd si fa la spesa per due settimane. Anche lo slogan della giovane Picierno, di origini casertane, punta sull’estetica: “È il sud, bellezza”.
L’EX BERSANIANA (Moretti), la renziana (Bonafè), la franceschiniana (Picierno). E la lettiana, infine, nel senso di Enrico. La più defilata di tutte: la bionda Alessia Mosca, capolista nel nord-ovest, che si autodenuncia come “secchiona”. Altra parola chiave nelle biografie politiche delle quattro è “passione”. La Mosca, su Twitter, si fa ritrarre addirittura con l’odiato Renzi in un comizio. Loro, tutti i big senza distinzione alcuna si stanno prodigando molto per le quattro capoliste. Ancora la Mosca: “Un grazie gigante a Bersani per la generosità mostrata anche in queste ore al Chilometro Rosso di Stezzano”. Tutto è propaganda, tutto è pubblico. In cerca di voti, le quattro hanno bisogno del Leader Matteo, degli altri colonnelli e dei signori delle preferenze. Dovrebbero trainare le liste, le donne, ma in realtà sembra il contrario. Alla fine a sovrastarle tutte, in questa campagna elettorale dominata dalle facce di Grillo e Renzi, è la solita Maria Elena Boschi, l’autentica Madonna renziana che si ricorda per i colori accesi. Il completo blu elettrico al giuramento da ministra o l’abito lungo rosso al Maggio Fiorentino. La voce boschiana, oltre agli spot elettorali baresi e alle interviste in rosa sull’amore, ha la suprema funzione di annunciare la decisione del governo di mettere la fiducia. Uno speaker impeccabile. In un partito diventato personale, non è affatto poco.

il Fatto 14.5.14
Matteo Prozac e l’ottimismo obbligatorio
di Daniela Ranieri


L’ottimismo è il profumo della vita!”, gridava Tonino Guerra a un certo Gianni nello spot dell’azienda che fu di Oscar Farinetti. E infatti l’ottimismo va bene per gli spot delle lavatrici, per una chiacchiera dall’estetista, per la tv del pomeriggio. Quando diventa categoria politica, come un tempo l’“amore” per il partito fondato da chi sappiamo, può stordire e dopare i sondaggi lì per lì, ma poi accresce nelle masse quella imponderabile sensazione di presa per il culo che può portare a ben peggio che a una sconfitta elettorale. Su, su, è il leit motiv di governo e giornali: bisogna pompare, non demoralizzare, non impaludare la terribile ascesa e progressiva del governo attentato più da gufi e rosiconi che dai cascami di un potere malato a cui si professa estraneo.
Siccome audace, Renzi è aiutato dalla fortuna: vicino a Montecitorio trova per strada 20 euro (Forattini li disegnerebbe sfuggiti a una mazzetta di euro del ’93). Una cosa da Signor Bonaventura o da Gastone il fortunato, che così perfetta non sarebbe venuta in mente nemmeno a consulente di comunicazione nascosto dietro l’angolo. Il Corriere lo immortala, sotto il titolone “Il premier a Milano contro il pessimismo” mentre raccoglie la banconota, in posa da coach-motivatore che infonde entusiasmo alle truppe disincentivate del Paese .
Doppiando il Fattore C. di Prodi e obliterando per sempre la sfregatina sulla gobba di Andreotti, la mitologia di Renzi Fortunello sfiora quell’ottimismo idiota associato alla cosiddetta “sindrome di Pollyanna”, che in psichiatria e in politica va sotto il nome di rimozione. E se Prodi attribuiva il “culo” proprio a un ottimismo consolidato da strategia attendista e sorriso da gattone fiducioso, Renzi diffonde un pensare positivo di sfondamento, aggressivo e spinterogeno, un anti-catastrofismo da bulldozer con le ali ai piedi dentro la gora degli affossatori di principio. Il suo governo-Red Bull si tesse da sé la leggenda di un new deal frenato non tanto dal principio di realtà o dal sano scetticismo davanti a un malato grave per cui occorre ben altro che zuccherini, ma da avversari politici e musi lunghi. Quando tutto è tifo e tasto “Mi piace”, non si può dissentire dicendo “È la democrazia, bellezza”, ché si viene tacciati di “remare contro” o di esser grillini.
Quanto all’affare Expo, il nemico è la sfiducia ingenerata da questi spiacevoli episodi, come fossero incidenti di un percorso altrimenti sereno e non l’effetto dello scoperchiamento di un pentolone che bolle nel perfetto equilibrio degli ingredienti da almeno 30 anni. Di guardare in faccia, seriamente e con durezza, una realtà ancora e purtroppo imparentata col presente, non se ne parla. Meglio somministrare intramuscolo di parole insulse come ottimismo e pessimismo, evitando di affrontare la contraddizione che le grandi cose di cui dovremmo andare fieri in Italia si fanno solo in un contesto di sporcizia morale e corruzione sistemica. D’altra parte, non va di moda il sentiment? Non è, questa sciocca trovata del marketing politico, il feticcio di una politica post-ideologica che non ce la fa ad auto-rottamarsi per riacquistare un po’ di credibilità? C’è qualcosa di maniacale in questo ottimismo arrogante che non sopporta le critiche e non somiglia a quello del Candide di Voltaire ma, tra cambiar verso e svolte buone, finisce per sapere di fuffa, se donne e uomini renziani, interrogati in tv, rispondono a tutto con il magicabula degli 80 euro.
COSÌ SONO MALAFEDE e pessimismo ad associare, fatalmente simmetrico e contrario al Fattore C., il Compagno G, vecchia dinamo dei finanziamenti del Pci che non ha niente a che spartire con Renzi, incidentalmente capo del partito di cui Greganti aveva la tessera fino a ieri.
Insomma è questione di umore nazionale la riuscita o il fallimento di questo esperimento di governo nato col collo torto, è il nichilismo a cui hanno condotto 20 anni di malgoverno e corruzione l’origine della sua eventuale débâcle. Fosse così, sarebbe possibile raddrizzare le sorti del Paese assumendo tutti massicce dosi di Prozac. E mentre Berlusconi promette di regalare un nuovo, inutile sorriso agli anziani, Renzi potrebbe inserire iperico e fiori di Bach nel Sistema Sanitario nazionale.
“Essere ottimisti è da criminali”, concordarono Theodor W. Adorno e Samuel Beckett in una trasmissione alla radio tedesca nel 1968; a togliere l’individuo dai carboni ardenti di una società ingiusta non è né mai sarà l’ottimismo, soprattutto se magicamente infuso dall’alto come le raccomandazioni del comandante di un aereo che rischia di precipitare.

La Stampa 14.5.14
“Gli 80 euro? Sapremo in autunno se i tecnici hanno sbagliato”
De Ioanna, decano dell’Ufficio al Senato: “Non c’è acrimonia nei nostri rilievi”
intervista di Antonella Rampino


Come valuta la polemica che s’è aperta tra governo e uffici del Parlamento chi istituì -con Nino Andreatta- il Servizio di Bilancio del Senato? E quanto sono attendibili le critiche al taglio Irpef di 80 euro al mese per i ceti medio-bassi? Il professor Paolo De Ioanna, uno dei maggiori esperti di bilancio dello Stato, stretto collaboratore di Ciampi e Padoa Schioppa e che dunque si è trovato per così dire da entrambi i lati della barricata, dice che «le osservazioni mosse al decreto del governo sono nella media di quanto fa da decenni il Servizio di Bilancio, e ovviamente senza acrimonia». Ieri si è appreso che i tempi di esame del decreto si allungano, con oltre mille emendamenti depositati e una condizione politica non proprio serena, fino ai primi di giugno e dunque scavallando le elezioni europee.
Professore, ma i rilievi mossi sono considerevoli. Quanto sono attendibili questi dubbi?
«I rilievi dei tecnici del Senato mi sembrano sulla stessa linea di quelli della Banca d’Italia. I Servizi di Bilancio ci sono dal 1989-1990, ed è da allora che ci si chiede ciclicamente se il loro lavoro viene poi smentito o meno. Il punto è che in termini contabili ed ex post le coperture poi ci sono, i governi le trovano e il Parlamento come anche in questo caso lavora in direzione contabilmente corretta. Ma non è così in termini di previsioni tendenziali macroeconomiche. In altri termini, se le coperture previste poggiano su stime ottimistiche il risultato finale sarà fuori asse. Sono almeno vent’anni che ricorriamo a misure correttive, dovremmo chiederci se sono le coperture finanziarie che non vanno o se è sbagliata la qualità delle politiche economiche».
Ma se è tutto un dejà-vu, perché tanto clamore? Perché c’è in ballo un taglio dell’Irpef consistente?
«Il valore del taglio è importante, ma non inedito: anche il secondo governo Prodi, con Padoa-Schioppa e Visco, attuò una revisione Irpef pari a 5 miliardi dell’Irap e quasi altrettanti dell’Irpef. E anche allora vi furono critiche degli uffici tecnici del Parlamento. Oggi, che non vi siano coperture per rendere stabili i tagli lo dice lo stesso governo, e spiega che lo farà, con una tecnica piuttosto sofisticata. Ma sapremo veramente se la manovra annuale si trasformerà in strutturale solo con la Legge di Stabilità, in settembre. È quello il vero banco di prova, lì si capirà l’andamento del Pil, come tutti i dati macroeconomici si andranno strutturando nell’arco di tre anni. Al momento, l’effetto sembra quello del barone di Munchausen che si tira fuori dal pantano tirandosi per i capelli...»
Come giudica la risposta del premier, «i tecnici del Senato dicono il falso»? Tra l’altro a breve entrerà in funzione un’autorità indipendente, l’Ufficio Tecnico del Bilancio, con il rischio che le polemiche si duplichino.
«Credo che tutti, anche il Parlamento, debbano affrontare la discussione in modo tecnico, distaccato. I governi di solito rispondono alle osservazioni in Commissione: è sempre stato così, e adesso c’è anche una legge che lo impone, prescrivendo che i governi “prendano nota” e “se non intendono conformarsi” lo motivino in Parlamento. Varrà anche per il nuovo Ufficio».
Basterà la Legge di Stabilità per imboccare la via della crescita?
«Quel che occorre è una nuova rotta in Europa, un orizzonte più ambizioso. Riconsiderare il ruolo degli investimenti, ridiscutere il fiscal compact, aiutare la Bce nella politica espansiva. E il bilancio Ue non può essere l’1 per cento del Pil».

La Stampa 14.5.14
Lo scontro finale si gioca anche sugli sviluppi dell’inchiesta
di Marcello Sorgi


Ambientato volutamente a Milano, la Milano dell’Expo e dello scandalo delle tangenti, dove Grillo ieri ha raggiunto Renzi per non lasciargli la scena, lo scontro tra il presidente del consiglio e il capo del Movimento 5 stelle sembra destinato a segnare la conclusione della campagna elettorale. Se Renzi ha insistito sulla linea della «normalizzazione» - avanti con i lavori dell’Esposizione internazionale, massima severità con i corrotti -, Grillo ha parlato di «rapina» in corso e ha chiesto di fermare i cantieri. Sarà questo il «mood» del confronto finale, che tende a concentrare l’attenzione degli elettori sui due leader, con il rischio, per gli altri, di finire nel cono d’ombra di un appuntamento elettorale che già non solletica molto l’attenzione dei cittadini.
Renzi punta a superare il 30 per cento e a distaccare l’avversario M5S. Grillo continua ad assegnarsi l’obiettivo di arrivare primo, battere il Pd com’è avvenuto (tolti i voti degli italiani all’estero) l’anno scorso, e far saltare per aria il fragile equilibrio della maggioranza di governo. Ora, è possibile che un risultato polarizzato sui due maggiori avversari di questa tornata possa danneggiare, sia l’assetto dell’esecutivo sia il cammino delle riforme, si tratti di quella elettorale (se Forza Italia arriva terza, Berlusconi non avrà più interesse a un sistema a doppio turno), o di quelle istituzionali, che sempre Berlusconi rimette ormai in discussione tutti i giorni. Ma nell’immediato, a meno di una vittoria piena di Grillo, il rafforzamento del M5S spingerebbe tutti gli altri partiti a resistere e a evitare, almeno nel futuro prossimo, nuove crisi e prove elettorali.
Molto dipenderà dagli sviluppi in arrivo dell’inchiesta di Milano: sebbene il dissenso interno alla Procura sia ormai venuto allo scoperto in termini assai espliciti. È abbastanza chiaro ormai che tra il procuratore Bruti Liberati che ha voluto gli arresti della scorsa settimana e il suo vice Robledo che s’è rifiutato di firmarli non c’era accordo sui tempi e sui confini da dare alle indagini: nel dubbio, secondo il vice, che ulteriori approfondimenti avrebbero potuto portare a un più largo coinvolgimento dei vertici politici, e non solo all’individuazione delle responsabilità dei manovali delle tangenti.

l’Unità 14.5.14
Via al decreto lavoro Ora tocca al Jobs Act
Le operazioni di voto di ieri si sono svolte tra le proteste delle opposizioni
di Bianca Di Giovanni


Passa la fiducia sul decreto lavoro, che oggi sarà varato definitivamente da Montecitorio. I sì sono stati 333, 159 i no. Oggi diventerà legge la nuova normativa sui contratti a termine, che l’esecutivo Renzi ha voluto per aumentare le possibilità di occupazione dei giovani, mentre per l’opposizione (e per i sindacati) sarebbe solo uno strumento in più di precarizzazione. La partita lavoro comunque non è finita: manca la seconda gamba del Jobs Act, quel disegno di legge che avvierà il contratto a tempi indeterminato e le tutele universali, rivolte a tutti quelli che restano senza occupazione, a prescindere dal tipo di contratto che hanno.
Durante l’esame parlamentare il Pd è riuscito a inserire parecchie modifiche al testo originario. Per Cesare Damiano il risultato finale è un «compromesso accettabile: le modifiche inserite al Senato erano state già concordate alla Camera». Il riferimento del presidente della commissione Lavoro a Montecitorio è alle polemiche scatenate anche dal Nuovo centrodestra sugli emendamenti che - secondo la vulgata di allora - sarebbero stati voluti solo dalla minoranza Pd. In particolare durante la prima lettura si sono ridotte le possibilità di proroga del contratto a termine da 8 a 5 nell’arco dei 36 mesi. È stata inserita la sanzione per chi assume oltre il 20%di dipendenti a termine, anche se in Senato l’obbligo di assunzione è stato trasformato in una «multa» pari a un quinto dello stipendio per il primo contratto extra20% e al50%dello stipendio per i successivi.
È stato inserito anche il diritto di precedenza da indicare nel testo del contratto. Inoltre il Parlamento ha dato valore anche ai periodi di maternità per far valere la precedenza. Molte le modifiche inserite anche nell’apprendistato. C’è l’obbligo di formazione (che in origine mancava) sia in percorsi organizzati dalle Regioni che on the job cioè in azienda. Il testo originario del dl rendeva «flessibile» la formazione: se le Regioni non avessero provveduto a una proposta entro 45 giorni, i corsi si sarebbero potuti cancellare. C’è l’obbligo di stabilizzare il20% degli apprendisti, anche se il Nuovo centrodestra lo ha limitato alle aziende con più di 50 dipendenti (e non 30 come aveva concordato il Pd). Insomma, non mancano elementi positivi. Resta il fatto che il provvedimento inserisce una novità assoluta nell’ordinamento italiano: la possibilità di effettuare contratti a termine fino a tre anni senza causale. Sembra un dettaglio, ma in realtà è una piccola rivoluzione che le imprese aspettavano da tempo. Secondo l’ordinamento italiano (e anche europeo) il rapporto principale di lavoro è quello a tempo indeterminato. Per inserire un termine c’è bisogno di un motivo: di qui l’obbligo di causale. Già la legge Fornero aveva eliminato quell’obbligo per 12 mesi: oggi si arriva a tre anni. Per Giuliano Poletti con questa mossa si eviterà che le aziende sostituiscano il lavoratore che ha finito il contratto di un anno. Per questo il ministro considera il decreto un aiuto alla stabilizzazione. Per sindacati e una parte della sinistra, invece, queste norme indeboliscono il contratto a tempo indeterminato, inserendo più precarietà. Senza contare che in questo modo si è aggirato quello che è un vero totem per le forze sindacali: l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che vieta il licenziamento senza giusta causa. La querelle si è sviluppata per tutto il periodo dell’esame parlamentare e sicuramente continuerà a dividere il campo della politica. Poletti dal canto suo ha annunciato un monitoraggio sugli effetti del decreto, con una valutazione tra un anno.
Le operazioni di voto di ieri si sono svolte tra le proteste delle opposizioni. I deputati di Sel hanno indossato una maschera e mostrato la scritta: «Da oggi i lavoratori saranno ancora più invisibili e soli nella crisi perché ricattati con un decreto che non aumenta l'occupazione, indebolisce i lavoratori e accresce la precarietà». All’attacco anche i 5 Stelle «Chiedete la fiducia agli esodati che voi stessi avete creato e per i quali non riuscite a trovare una soluzione - ha detto Giuseppe Brescia - Chiedete la fiducia ai pensionati che sopravvivono con 490 euro al mese. Il testo è uno scempio che rende più difficile la vita dei precari e ne aumenta il numero».
Insomma, ancora fuochi d’artificio.
D’altro canto il tema lavoro è tradizionalmente un campo di battaglia politico ad alta tensione. Damiano va all’affondo, facendo un appello al premier su un tema strettamente collegato a quello dell’occupazione: le pensioni. «Sui temi sociali si gioca la credibilità di questo governo - dichiara - vogliamo ancora una volta dire al premier Matteo Renzi che tra le priorità della sua azione politica deve essere incluso il tema delle pensioni al fine di risolvere tempestivamente il problema degli esodati, delle ricongiunzioni e di “quota 96” degli insegnanti (quelli che avevano raggiunto i requisiti di pensionamento durante l’anno scolastico, ma sono stati tagliati fuori dall’intervento Fornero). La legge Fornero sulla previdenza va cambiata: se si vuole, come afferma il ministro Poletti, trovare una soluzione strutturale, bisogna tornare alle quote introdotte nel 2007 o alla flessibilità nell'uscita dal lavoro verso la pensione».

l’Unità 14.5.14
Il governo: «Leva universale per la difesa della Patria»
Il servizio civile sarà con benefit e crediti formativi
Le linee guida della riforma Impegnati ogni anno fino a 100mila giovani
Aperto agli stranieri e darà possibilità nel mondo del lavoro
di Adriana Comaschi


Una riforma epocale, per un settore «che chiamano il Terzo ma che in realtà è il primo». Con un’Authority ad hoc, un Testo Unico chiamato a raccogliere e semplificare le norme vigenti e un rinnovato Servizio civile nazionale universale, aperto anche agli stranieri, anticamera per l’ingresso nel mondo del lavoro. Questo il succo delle linee guida sulla riforma del Terzo Settore, twittate tra lunedì e martedì da Renzi per lanciare una raccolta di pareri da qui al 13 giugno. Il testo integrato dalle osservazioni delle associazioni confluirà in un disegno di legge delega, da portare in Consiglio dei ministri il 27 giugno.
Dopo anni di oblìo mediatico dunque Renzi riporta il Servizio civile sotto i riflettori. Istituto il 6 marzo 2001 con la legge n° 64, dal 2005 solo su base volontaria, il Servizio civile si rivolge a giovani tra i 18 e 28 anni «ed è un modo di difendere la patria - si legge sul sito del governo - quanto alla condivisione di valori comuni e fondanti l’ordinamento democratico». Il premier ne sottolinea proprio il carattere di «impegno civile, per la formazione di una coscienza pubblica e civica». E lo ridisegna con obiettivi ambiziosi. Anzitutto nei numeri: dovranno poterlo svolgere, su richiesta, «fino a 100 mila giovani l’anno per il primo triennio», per 8 mesi (meno dell’anno di servizio militare e dell’attuale Servizio civile, comunque prorogabili a 12), un modo per «fare un’esperienza significativa che non li tenga bloccati per troppo tempo». Già questo dà l’idea della nuova rilevanza che il Servizio civile «universale» dovrebbe acquisire, Renzi parla di «assicurare una leva di giovani per la difesa della Patria» accanto al servizio in divisa. Per dare un termine di paragone l’ultimo turno dell’attuale Servizio Civile coinvolge 1.541 fra ragazzi e ragazze, impegnati in 198 progetti che fanno capo a enti diversi: moltissimi i Comuni, che li impiegano dall’assistenza agli anziani alla tutela del patrimonio artistico, e poi Asl, associazioni ambientaliste o attive nel sociale.
Le proporzioni del Servizio universale immaginato da Renzi sono dunque ben diverse e affiancate da novità rilevanti. Spicca quella dell’apertura anche agli stranieri, un segnale forte anche in vista di un confronto politico sullo ius soli. A renderlo più appetibile dovrebbero poi contribuire la «previsione di benefit per i volontari, quali crediti formativi universitari; tirocini universitari e professionali; riconoscimento delle competenze acquisite durante il servizio». L’ingresso dei volontari nel mondo del lavoro verrà poi facilitato da «accordi» con le associazioni di imprenditori e cooperative del terzo settore, che garantiscano anche corsi di formazione.
Le linee guida hanno però una portata ben più ampia. Si punta certo a «valorizzare lo straordinario potenziale di crescita e occupazione insito nell’economia sociale del terzo settore, l’unico che negli anni della crisi ha continuato a crescere». Ma «delineando i confini, separando il grano dal loglio». Ecco allora il riordino giuridico, per fare chiarezza su alcune ambiguità ancora presenti ad esempio tra volontariato e impresa sociale, con la modifica del titolo II del libro I del Codice civile ovvero delle norme sulla costituzione degli enti no profit e sulla loro gestione economica. Previsti poi «forme di controllo e accertamento dell’autenticità sostanziale dell’attività realizzata» e «un regime di contabilità separata tra attività istituzionale e imprenditoriale». Ma anche una «codificazione dell’impresa sociale » e procedure più semplici e «digitalizzate» per il riconoscimento della personalità giuridica».
5 PER MILLE E VOUCHER
Tra le facilitazioni, anche quelle economiche con un «potenziamento del 5 per mille», sempre all’insegna della trasparenza con un elenco visibile a tutti delle realtà che ne beneficiano. Da notare poi l’introduzione di «voucher o detrazioni fiscali» per chi «sceglie liberamente un’impresa sociale». Un impianto subito accolto «molto bene» da Forum del Terzo settore, che raccoglie 80 reti nazionali: «Il documento contiene molti dei nostri princìpi ispiratori, anzitutto quello della valorizzazione della sussidiarietà verticale e orizzontale - spiega il portavoce Pietro Barbieri -, l’idea di costruire un welfare partecipativo e di investimenti per creare una vera economia dal Terzo settore. Forse questa è davvero #lavoltabuona».

il Fatto 14.5.14
Il welfare di Renzi: lavorare gratis, ma per la patria
Il premier lancia il nuovo servizio civile: 100 mila giovani volontari per riformare il terzo settore e garantire assistenza oltre il pubblico
di Salvatore Cannavò


Una “difesa della Patria”: una leva di giovani per un Servizio civile universale fino a un massimo di 100 mila giovani l’anno tra i 18 e i 29 anni”. Come spesso accade con Matteo Renzi, anche in questo caso, la forza dell’annuncio precede i fatti e in parte li oscura. L’ultima proposta del presidente del Consiglio, infatti, si rivolge al mondo del volontariato e a quello della disoccupazione giovanile, prospettando un impegno civile ammantato di orgoglio nazionale. La proposta è rivolta “ai giovani che lo richiedono”, quindi è volontaria, punta a offrire “una esperienza significativa” che non duri troppo, 8 mesi prorogabili di 4, è aperta agli stranieri e prevede anche dei “benefit”: “crediti formativi universitari, tirocini universitari e professionali, riconoscimento delle competenze acquisite” . Non si parla di denaro ma il Servizio civile attualmente è remunerato con circa 400 euro mensili.
“STRANO PERCHÉ il Servizio civile in Italia esiste già” ricorda Giulio Marcon, deputato di Sel ma già docente di Terzo settore e politiche sociali e autore di studi sull’argomento. “La legge risale al 2001, ma è nel 2006 che il servizio diventa esclusivamente volontario per effetto della soppressione della leva obbligatoria e la gestione viene trasferita a Regioni e Province”. Da quell’anno, in effetti, si verifica il boom di iscrizioni con oltre 40 mila giovani che, però, dopo il 2008, con i tagli di Berlusconi e Tremonti, si riducono fino ai circa 15-16 mila all’anno”. Prodi stanziò 300 milioni, aggiunge Marcon, ma poi sono stati portati a 70. Perché, invece di fare annunci, Renzi non aumenta quella cifra?”. L’idea della “difesa della Patria”, in realtà, è contenuta in un documento chiamato Linee guida per una Riforma del Terzo settore che costituisce la sostanza del progetto. Renzi l’aveva promesso a Lucca, lo scorso aprile, al Centro nazionale per il volontariato presieduto dal deputato Pd Edoardo Patriarca, vera autorità del settore. Così come ne fa parte il sottosegretario al Lavoro, con deleghe alle politiche sociali e al Terzo settore, Luigi Bobba, a lungo presidente delle Acli che parla di un “Civil act”: “Il futuro welfare – chiarisce – non potrà essere quasi esclusivamente pubblico né vogliamo una deriva di tipo privatistico. L’idea è di dar vita a un welfare di tipo partecipativo”. “Un giovane su tre impegnato nel servizio civile – rincara Giuseppe Guerini, portavoce dell’Alleanza delle Cooperative Sociali – trova lavoro”.
A tutti costoro, Renzi assicura che il Terzo settore è in realtà “il primo”. E quindi si farà una riforma con un Testo unico per costruire un intervento “complementare” a quello dello Stato in materia di diritti sociali, valorizzando “l’autonoma iniziativa dei cittadini” con “nuovi modelli di assistenza in cui l’azione pubblica possa essere affiancata dai soggetti operanti nel privato sociale”. Per dirla con Renzi: “Pubblica amministrazione e Terzo settore sono le due gambe su cui fondare una nuova welfare society”. E in cui si possa anche far profitto. Uno strumento individuato, già esistente, è il rafforzamento del “voucher universale” a disposizione delle famiglie e “speso” in strutture pubbliche o private. Proposta già avanzata dal centrodestra in versione ciellina, leggi Formigoni o Lupi.
IN QUESTA CHIAVE Renzi propone di rivedere il Libro I Titolo II del Codice civile, l’aggiornamento della legge sul Volontariato, la riesumazione dell’Authority del Terzo settore (abolita da Monti), la riforma del 5Xmille con il suo “potenziamento” ma soprattutto la sussidarietà, “verticale” – Stato-Regioni-Enti locali – e “orizzontale”: Enti locali-associazioni private. Per questo si propone di “far decollare l’impresa sociale” anche “remunerando il capitale”. È questo lo schema in cui, ultimo tassello, si inserisce la proposta della “leva di giovani per la ‘difesa della Patria’”.
“Come spesso capita – conclude Marcon – ci sono cose positive e altre che costituiscono degli annunci. Il rischio principale, però, è che si utilizzi il Servizio civile per sostituire il welfare pubblico”.

Corriere 14.5.14
Sdoganata la parola Patria

di Antonio Carioti

La Costituzione stabilisce all’articolo 52 che «la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino». Ma concetti del genere sono stati a lungo relegati dalla cultura diffusa della sinistra tra le anticaglie ottocentesche. Specie dopo il Sessantotto, aveva preso il sopravvento una visione cosmopolita e pacifista, poi è subentrato un europeismo diffidente verso ogni forma di sentimento nazionale. La Patria tra i progressisti non era più di moda, benché il primo a farvi appello fosse stato un uomo di sinistra, Giuseppe Mazzini, e nonostante la riscoperta di quella parola da parte dello stesso Partito comunista nel corso della Resistenza e poi, sia pure a fini strumentali, in opposizione alla Nato. Certo, a parte le manifestazioni dei gruppi più estremi, non si era mai tornati al tempo in cui, dopo la Prima guerra mondiale, i partiti marxisti ostentavano disprezzo verso il tricolore e i reduci. Ma in sostanza il richiamo alla Patria era stato abbandonato alla retorica della destra. Il modo in cui ora Matteo Renzi lo riporta in auge dimostra una volta di più il suo intento di segnare una discontinuità incisiva rispetto al passato. Anche una parola antica, per alcuni logora, può costituire un elemento di novità.

il Fatto 14.5.14
L’economista Riccardo Realfonzo
“La precarietà crea lavoro? Falso”
di Carlo Di Foggia


La flessibilità produce occupazione? “È la grande bugia dei nostri tempi. Basterebbe esaminare i dati ufficiali per scoprire gli insuccessi di queste politiche”. Dati che Riccardo Realfonzo, economista, docente di economia politica all’Università del Sannio ed editorialista del Sole 24ore ha pubblicato sulla rivista economiaepolitica.it . “Vi è evidenza empirica che gli interventi di liberalizzazione del mercato del lavoro, anche con specifico riferimento al lavoro a termine, hanno fallito nel determinare la crescita occupazionale - si legge nel documento - Non si comprende, quindi perché l’Italia e l’Europa dovrebbero continuare lungo una strada che ha ampi costi sociali”. Lo studio si fonda sui dati Ocse, “cioè quell’istituzione di cui il ministro Padoan è stato capo economista”. Tutto rientra negli indicatori dell’organizzazione parigina. “Basta incrociarli con la media delle variazioni del tasso di disoccupazione”.
E cosa si scopre?
Che non c’è alcuna correlazione. Prendiamo l’indice che misura il grado di protezione del lavoro in un Paese (Epl). A eccezione di Francia, Austria e Irlanda, tutti i Paesi dell’Eurozona hanno ridotto le tutele dei lavoratori. Per l’Italia, l’indice è calato di oltre il 40 per cento dal 1990 a oggi.
Con quali risultati?
Nessuno, se non pesantissimi costi sociali. All’aumentare della flessibilità la disoccupazione nell’Eurozona tende semmai ad aumentare. Paesi come Spagna e Grecia hanno deregolamentato molto il mercato del lavoro, senza alcun effetto.
Però nel frattempo è intervenuta la crisi.
Per questo abbiamo effettuato anche una analisi relativa al solo periodo pre-crisi, fino al 2007, e il risultato non cambia. Ma questo studio non può destare sorpresa. Già l’Employment Outlook pubblicato nel 2004 dall’Ocse spiegava che la maggiore flessibilità non determina più occupazione. Ma Padoan non è stato capo economista dell’Ocse? Non li ha letti quei numeri? Come fa a difendere la liberalizzazione del lavoro a termine? Nel passato l’Ocse non è stata nemmeno una voce isolata.
Chi altro?
Anche l’attuale capo economista del Fmi, Olivier Blanchard, nel 2006 ha spiegato che la flessibilità non favorisce l’occupazione.
Perché intervenire sulla flessibilità non è servito?
Perché frena i salari, rallentando la domanda interna.
Il ministro del lavoro Giuliano Poletti ha detto che il decreto produrrà occupazione.
Poletti crede nella precarietà espansiva, l’idea che la flessibilità possa aumentare l’occupazione. Una idea totalmente smentita dall’analisi scientifica. È preoccupante, gli spunti più interessanti del Jobs Act, e cioè gli interventi di politica industriale, sembrano accantonati per la mancanza di risorse. Ci sono i vincoli europei da rispettare. L’unica cosa che viene fuori è la precarietà espansiva di Poletti. Che non ci porterà da nessuna parte.

l’Unità 14.5.14
Caso Expo e truffa Magnoni, le asimmetrie informative
di Massimo Mucchetti


DUE PESI E DUE MISURE. NON VA BENE. Gli arresti per le tangenti sugli appalti dell'Expo hanno riempito le prime pagine dei quotidiani per giorni, con cronache a largo raggio, retroscena e prese di posizione sulla nuova Tangentopoli. Non poteva mancare l'immediata reazione del Governo e del Parlamento. Bene. Gli arresti di tre banchieri milanesi della Sopaf per le truffe ai danni delle casse previdenziali di ragionieri, medici e giornalisti, invece, hanno suscitato assai meno clamore.
Le cronache giudiziarie non sono mancate, ma per lo più nelle pagine interne. Commenti zero, se si esclude Salvatore Bragantini sul Corriere, focalizzato sul caso finanziario. Gad Lerner ha notato tale silenzio sul suo blog, il Bastardo. Zero prese di posizione, finora, anche da parte della classe politica. Non ci siamo. E allora dobbiamo porci qualche domanda e darci qualche risposta, come si usa dire parafrasando il premier, cambiare verso a questo Paese nel grande gioco dei poteri reali. Tangenti e truffe sono reati economici. Partiamo dunque dai soldi. Le tangenti emerse finora dalle indagini della procura diMilanoassommanoa1,2 milioni, un terzo dei quali può dirsi accertato. Le truffe al momento scoperte dalla medesima procura assommano a 79milionied è possibile che ne emergano per altri 250-300 milioni a seconda delle valutazioni in corso da parte della cassa dei ragionieri. Le indagini non sono chiuse; i numeri potrebbero aumentare. E magari potrebbero emergere altri personaggi. I paragoni, perciò, non possono ancora essere definitivi.
Nel caso dell'Expo la dimensione effettiva del malaffare avrà il suo peso nel giudizio politico. Gli appalti dell'Expo sono tutti inquinati o lo sono soltanto alcuni, e di quale dimensione rispetto al totale? In sostanza, le furbate degli amici degli amici erano la regola o l'eccezione? E il denaro per intermediazioni improprie a scopo di ottenere favori è finito anche nelle tasche dei politici e dei loro fiduciari nell'alta burocrazia o è rimasto in mano a Primo Greganti, Gianstefano Frigerio e Luigi Grillo? Le percentuali sugli affari sono modeste rispetto ai fasti della Tangentopoli storica. E allora si tratta di capire se le creste erano fatte per "ringraziare" una politica stracciona, che "viene via" con poco perché ormai priva di autorevolezza ma non di potere, o se rappresentavano la mancia per modeste intermediazioni rese da veterani della corruzione. Comunque si concluda l'indagine, emergono due questioni politiche. La prima consiste nell'insufficiente capacità della politica e dell'alta amministrazione di governare la macchina degli appalti pubblici. La seconda questione consiste nelle regole di gara adottate post Tangentopoli che, per un'eterogenesi dei fini, fanno vincere chi offre ribassi in dumping, magari grazie a qualche informazione privilegiata, e poi si consola con subitanee revisioni prezzi prontamente concesse dall'amministrazione amica. Simili distorsioni vengono favorite dai governi locali e nazionali quando rinunciano a misurare i manager sulla base di una lettura professionale dei risultati in relazione ai mandati ricevuti. Nell'irresponsabilità generale, che copre le clientele, politiche e manageriali, alla fine alligna il malaffare. Nel caso della Sopaf la dimensione, già grave, potrebbe diventare gravissima. Ma si fa solo cronaca giudiziaria con, al massimo, un ritrattino d'archivio dei fratelli Magnoni, in particolare di Ruggero, il quale, da alto dirigente della Lehman, aveva ottenuto la fiducia di Silvio Berlusconi, Carlo De Benedetti e Roberto Colaninno, e poi, da professionista in proprio, di Vincenzo Manes. Come per gli accusati di tangenti, anche per i fratelli Magnoni vale la presunzione d'innocenza. Certo, si potrebbero mettere in rilievo le relazioni con la politica di questi clienti e sodali eccellenti dei Magnoni, e far rilevare un trasversalismo analogo a quello dei vecchi cowboys delle tangenti. Ma in queste ore non è ancora scattata la corsa al ricamo malevolo e insinuante. Chi è socio di chi e ha finanziato chi e come. Un gioco che non di rado alimenta suggestioni superficiali e falsificanti. Tant'è. E però un dato politico enorme andrebbe già oggi posto in rilievo, e non accade. Il crac Sopaf rappresenta una storiaccia di sottrazione di risorse dalla società da parte dei soci maggioritari, i Magnoni, ai danni dei soci di minoranza. Ma lo scandalo che più interpella la politica è la truffa ai danni delle casse previdenziali. In particolare, interpella la politica che vorrebbe sostituire la previdenza pubblica con la previdenza privata perché così si fa in America. Le casse di cui sopra sono enti privati, deputati però a un servizio di pubblico interesse e, come tali, sottoposti al controllo della Covip e di un paio di ministeri. Se la cassa dei ragionieri, che dovrebbero saperla lunghissima sui bilanci, e quella dei giornalisti, che per mestiere dovrebbero essere diffidentissimi, scelgono i fratelli Magnoni anche dopo la Lehman e si fanno truffare, dobbiamo certo chiedere conto a chi, nelle casse, nell'authority e nelgoverno,dovevacontrollarecomequestecasseprivateaprotezionepubblicaaffidanoidenari dei propri contribuenti. Vengono in mente i dubbi preveggenti del tanto vituperato Mastrapasqua e della professoressa Fornero. E allora dovremmo infine chiederci, andando oltre il caso Sopaf- casse, quanto siano credibili le assicurazioni private dopo le malefatte dei Ligresti alla Fondiaria Sai e le astuzie dell'ex vertice delle Generali. Forse è arrivato il momento di ripensare il ruolo della previdenza privata, quella obbligatoria nelle categorie che ancora l'hanno e quella integrativa, entrambe legate alla finanza, non per impedire alle persone di aderirvi ma per riconsegnare a ciascuno la facoltà di scegliere, in alternativa, la previdenza pubblica, legata all'evoluzione dell'economia reale del Paese.

l’Unità 14.5.14
Crisi e tangenti, il bivio delle classi dirigenti
di Michele Ciliberto


Nel campo della sinistra siamo abituati a interrogarci su di noi, a sottolineare i nostri limiti, le insufficienze della nostra azione, i contrasti che ci ostacolano anche quando sono fecondi. Ma per una volta non vorrei parlare di Renzi, della sinistra del Pd, del dividersi di questo partito in tanti rivoli. Pongo un altro problema: quali sono oggi gli orientamenti delle tradizionali classi dirigenti italiane?
Ne hanno e sono in grado di farli valere e come? Bisogna partire, anche in questo caso, dal ventennio berlusconiano: in quel periodo le classi dirigenti italiane, a differenza di quanto avveniva nella prima Repubblica, sono andate direttamente al potere, saltando la mediazione politica tradizionale. Come disse il loro esponente più significativo, se avesse vinto Berlusconi avrebbero vinto tutti; altrimenti avrebbe perso solo lui. Ma Berlusconi vinse, e per tutti. A differenza di quanto era accaduto prima, economia e politica si sono direttamente intrecciate, senza la mediazione dei partiti. Questo è stato, sul piano storico, il significato del berlusconismo; e in questo senso ha rappresentato un momento di notevole trasformazione nelle forme del rapporto tra classi dirigenti e Stato nazionale. Né è difficile vedere le cause e le conseguenze di tutto questo: nuovo ruolo del leader; rapporto diretto tra il leader e il «popolo»; disprezzo per il Parlamento e la dialettica politica; crisi e collasso dei partiti, anche di quelli di sinistra. È stato questo, in Italia, l’esito della crisi apertasi nella seconda metà del secolo scorso, rappresentata simbolicamente dall’assassinio di Moro, da cui si dipartono gli elementi essenziali del collasso della Prima repubblica, scandita dal ruolo assunto dalla magistratura, dall’azione dissolvitrice della Lega, dalle elezioni che videro la vittoria di Berlusconi. Essa fu, al tempo stesso, la conclusione e l’inizio di un processo disgregatore della Costituzione e della legalità repubblicana. In maniera complessa, e anche contraddittoria - Berlusconi era infatti una sorta di alieno, come dimostrò il trattamento da lui inflitto a Renato Ruggiero - nel ventennio passato le classi dirigenti italiane hanno comunque trovato, in questa forma, un punto di equilibrio e di raccordo, per quanto precario, imperniato sul nuovo rapporto, istituito attraverso Berlusconi, tra strutture proprietarie e dinamiche politiche. Simmetricamente, i gruppi dirigenti della sinistra, completamente spiazzati, si sono trovati in una sorta di assenza di gravità, essendo venuti meno tutti i loro riferimenti storici e politici, a cominciare dal partito e dal sindacato travolti dalla stessa crisi. Tutto questo riguarda però il passato. Come stanno oggi le cose? Le tradizionali classi dirigenti hanno percepito il declino e la degenerazione di Berlusconi e del berlusconismo, ma hanno cercato, in una parte, di rispondere alla crisi muovendosi sullo stesso terreno, continuando a stabilire un rapporto diretto tra sfera economica e politica.
È stato questo il significato della «discesa in campo» di Montezemolo e di Italia futura: una bolla di sapone in un mare in tempesta. Altre parti delle classi dirigenti sono rimaste invece sostanzialmente inerti, incapaci di decidere cosa fare, pur nella consapevolezza che la lunga stagione berlusconiana era finita. Ma la situazione impone una nuova assunzione di responsabilità da parte di tutti. Il punto centrale è infatti questo: tutte le fondamenta del ventennio berlusconiano sono saltate, né appare possibile restaurarle. Di qui la domanda che concerne il futuro dell'Italia: cosa intendono fare le classi dirigenti italiane, nel pieno di una crisi di sistema ulteriormente acuita dalla situazione internazionale? Una cosa è certa: il ricorso alla «tecnica» non basta, né è possibile ricorrere alla forza, come le classi dirigenti italiane hanno fatto in altri momenti.
Dove vogliono allora andare, cosa hanno in mente come prospettiva strategica? Domanda alla quale è tanto più difficile rispondere perché le classi dirigenti attuali mancano oggi di un leader, o di un punto generale di riferimento. È un fatto: le forze riformatrici e di sinistra sono state più rapide nel cominciare ad uscire dalla crisi, pur con gli strumenti disponibili. Sul piano storico, per quello che si può capire, il governo Renzi rappresenta questo: la prima consapevole uscita dal ventennio berlusconiano e l’assunzione di tutte le novità della situazione, che non sono ovviamente solo di ordine generazionale. In questo caso, «generazione» è anche una metafora, e rappresenta, sul piano simbolico, la fine della figura del partito, quale l’abbiamo conosciuto nel XX secolo. La riaffermazione del primato della politica non coincide, infatti, con il riconoscimento della funzione dei partiti, ridotti a puri strumenti nelle mani del leader. Su queste basi è oggi in atto un forte e impetuoso tentativo di cambiamento, sul quale occorre prendere posizione. Qual è, rispetto a questo governo, l’atteggiamento delle classi dirigenti italiane di area moderata? In concreto: come intendono schierarsi in prospettiva, a cominciare dalle prossime elezioni?
L'alternativa è netta: in campo ci sono due forze, Pd eM5S. La destra di Berlusconi è finita; quella di Alfano ricorda la rana della favola antica. Non ho alcun pregiudizio sul M5S, anzi considero che abbia il merito di ricondurre in un alveo politico un risentimento sociale e politico che lasciato a se stesso potrebbe assumere connotati assai gravi ed anche eversivi. Allo stesso modo ritengo rilevanti alcune sue proposte specifiche di ordine sociale. Quello che invece è discutibile, anzi da respingere, è il progetto istituzionale e politico del Movimento: il primato della democrazia diretta, la torsione anti-parlamentare, da cui scaturisce l’adesione di forze di destra; la pulsione dispotica che anima la sua concezione della leadership e del rapporto tra leader e militanti. In una parola è da respingere con nettezza la rottura della legalità costituzionale e dei principi della democrazia rappresentativa, con il dissolvimento di tutti i corpi intermedi, che è intrinseca all’azione del Movimento. Rispetto a questa alternativa, sufficientemente limpida, cosa intendono fare le classi dirigenti? In che modo ritengono di poter uscire dal ventennio berlusconiano, contribuendo a superare l'attuale crisi di legittimità e sovranità? Oggi nella nostra borghesia mancano uomini come Lepoldo Pirelli (pur sempre minoritari), ma rispetto alla crisi d’epoca che attraversiamo quali sono gli orientamenti delle classi dirigenti nazionali? E venendo a un esempio concreto, cosa hanno da dire, e cosa propongono di fare, di fronte alla nuova Tangentopoli esplosa a Milano? In sintesi: quali devono essere per loro, oggi, i soggetti della sovranità, le forme della democrazia repubblicana, i rapporti tra società, opinione pubblica e Stato?

il Fatto 14.5.14
Scajola, il latitante e la pista che arriva dritta in Vaticano
Un manager collegato al giro di Matacena è inquisito a Roma per ricettazione allo IOR
di Lucio Musolino e Valeria Pacelli


C’è un personaggio che fa da tramite tra l’indagine calabrese su Claudio Scajola e altri, e lo Ior, la banca vaticana. Si tratta di Giovanni Morzenti, perquisito nei giorni scorsi dalla procura di Reggio Calabria e negli anni scorsi al centro di un processo per corruzione insieme a un ufficiale della Guardia di Finanza. Morzenti è stato condannato a 6 anni in secondo grado, poi la Cassazione ha rinviato il processo alla Corte d’appello di Torino. Però è anche l’uomo indagato per ricettazione dalla procura di Roma insieme al monsignor Bonicelli, ex arcivescovo di Siena. Il periodo su cui indagano i pm romani è lo stesso di interesse dei colleghi calabresi, tanto che dalla capitale hanno disposto ulteriori approfondimenti. Qualora ci fossero contatti con personaggi presenti nell’inchiesta di Scajola, le carte saranno inviate a Reggio, dove si scoprono nuovi dettagli. I pm stanno cercando di capire dove si trovi l’hotel chiamato al telefono da Scajola e dalla moglie di Matacena, Chiara Rizzo, “K”, per non far capire il luogo di incontro. Come pure cercano di chiarire l’appunto segnato dall’ex ministro su una lettera, trovata durante le perquisizioni, dell’ex presidente libanese Gemayel che riguardava il trasferimento in Libano di Amedeo Matacena. Alla fine della lettera ci sarebbe un appunto scritto a mano dall’ex ministro. Qui avrebbe espresso due concetti: che il reato di concorso esterno non è punito e che Matacena si trovava lì per motivi umanitari. Anche questo sarà oggetto di contestazione nell’interrogatorio di Scajola fissato per venerdì prossimo. Ieri invece è stata interrogata dal gip la madre di Amedeo Matacena, Raffaella De Carolis, finita ai domiciliari. La donna ha detto di non sapere nulla nè delle attività delle società del figlio nè della nomina di nuovi amministratori. Sulla latitanza del figlio ha detto di averlo più volte spinto a rientrare in Italia. Durante la giornata di ieri è stato sentito anche Antonio Chillemi, commercialista finito ai domiciliari. Al gip ha spiegato che i suoi “Rapporti con i Matacena risalgono al 1968 quando lavoravo in una società del padre di Amedeo come commercialista. Poi sono andato in pensione ma quando è morto il papa di Amedeo, ho dato una mano.” Intanto nell’inchiesta di Reggio sarebbero stati iscritti altri nomi nel registro degli indagati, notizia che a fine serata viene smentita dalla Dia. A fare chiarezza sulla gestione delle scorte da parte di Scajola invece sarà in Viminale che ha inviato ieri un’ispettore a Imperia. Interviene sul caso anche il Copasir, che cercherà di capire i rapporti tenuti da Scajola ad alti livelli come pure gli atti segreti che avrebbe potuto avere tra le mani quando era a capo del Comitato per la sicurezza nel 2006.

l’Unità 14.5.14
Il complotto al contrario
di Claudio Sardo


Le memorie di Timothy Geithner, ex ministro del Tesoro americano, sarebbero secondo Berlusconi la prova di un «complotto europeo» che portò alla sua caduta nel novembre 2011.
Invece non sono altro che un ulteriore attestato dell’incapacità di quel governo, del suo discredito internazionale, dei danni prodotti e del rischio estremo a cui ha sottoposto il nostro Paese e non solo. Cosa scrive Geithner? Che alcuni funzionari europei lo contattarono, prima del G20 di Cannes del 2011, per chiedere all’amministrazione Usa un ruolo attivo per costringere Berlusconi alle dimissioni. In sostanza, a fronte dell’«offerta» da parte del Fmi all’Italia di un piano di salvataggio da 80 miliardi, Obama avrebbe dovuto porre a Berlusconi come condizione la rinuncia a Palazzo Chigi. Questa rivelazione dimostra - è la tesi rilanciata dalla corte berlusconiana- la trama che Berlino e Parigi, con la complicità della tecnocrazia di Bruxelles, ordirono contro il povero Silvio. E dimostra anche che la sostanziale illegittimità della caduta del governo, avallata da istituzioni complici (la polemica è anzitutto con il Capo dello Stato) ma nei fatti programmata e voluta da cancellerie straniere. In un Paese che si fa volentieri sedurre dal complottismo, tanto più se strampalato o ridicolo, i forzisti pensano forse di strappare un po’ di benevolenza tra gli elettori.
Ma, soffermandosi sulle parole di Geithner, si arriva presto alla conclusione che Berlusconi è caduto – in ritardo, purtroppo - nonostante il famoso complotto sia fallito. Washington, infatti, rifiutò la proposta: «Non possiamo avere il suo sangue (di Berlusconi, ndr) nelle nostre mani» disse Geithner a Obama. Il presidente Usa peraltro non condivideva l’eccesso di austerità di Merkel e Sarkozy, tanto che sollecitò Draghi all’adozione di politiche monetarie più espansive. Anche il Cavaliere, da parte sua, rifiutò il piano di salvataggio del Fmi. Ma il suo governo cadde lo stesso. Secondo alcune ricostruzioni, Berlusconi era intenzionato ad accettare gli 80 miliardi: lo spread italiano era altissimo, la tenuta dei nostri conti insostenibile, la solidarietà europea azzerata. Per qualche ora intravide attraverso quel piano la possibilità di restare al governo, benché ormai la sua maggioranza, dopo l’uscita di Fini, fosse praticamente inesistente. Fu Tremonti a convincerlo che l’aiuto del Fmi era in realtà un commissariamento del governo e del Paese. Così Berlusconi pronunciò il suono, ma, nello stupore di tutti i leader mondiali, svelò in conferenza stampa l’«offerta» che doveva rimanere segreta, proprio a tutela dell’Italia, aggredita dalla speculazione. Berlusconi disse urbi et orbi che il Fmi aveva proposto un piano di 80 miliardi per difendere le emissioni dei Bot, ma noi non ne avevamo bisogno. Ciò ebbe un effetto catastrofico, perché i mercati percepirono che il rischio Italia stava crescendo. Dire no era la scelta giusta, a tutela dell’autonomia del nostro Paese, ma averlo reso pubblico ci ha fatto pagare tutti i costi, senza avere i benefici finanziari.
Ciò che è impossibile ai Silvio-boys è difendere il loro capo ricorrendo alla dignità nazionale. Berlusconi è il premier che ha negoziato il Six-pack (propedeutico al Fiscal compact), regalando all’Italia un piano di rientro dal debito insostenibile. Dovremmo chiudere, a partire dal 2015, il bilancio con 40 miliardi di attivo, da destinare al ripiano del debito. Una condizione-capestro, che il governo Berlusconi ha accettato solo perché era cosciente del proprio discredito: è stato il prezzo più alto fissato a carico di uno Stato membro della Ue. Ma così paga l’Itali e i ceti più deboli. Berlusconi e Tremonti, nel tentativo disperato di placare i mercati, hanno anche accettato condizioni più gravose sul deficit corrente: per gli altri Paesi europei è considerato pareggio di bilancio anche un -0,5%, per l’Italia il pareggio è0e ogni decimale di passività comporta una sanzione.
Questo è il risultato dell’azione patriottica dei governi Berlusconi. Altro che complotti. Per salvare l’Italia, ed evitare un cracche avrebbe fatto saltare l’euro, il centrosinistra decise di sostenere il governo Monti. Col senno di poi, possiamo dire che avrebbe fatto meglio a tenersi Monti solo pochi mesi. Ma questo sacrificio fu una prova di responsabilità nazionale. Anche Berlusconi sostenne Monti, è vero. Tuttavia, doveva far dimenticare i suoi disastri. Non è un caso che il complotto esca dopo due anni e mezzo dai fatti. Perché non si ricorda che Berlusconi presentò le dimissioni al Quirinale? Nonfu un voto di sfiducia a disarcionarlo, ma la constatazione che né il governo, né la maggioranza con Scilipoti erano in grado di evitare una Caporetto. Viviamo in un sistema economico interdipendente. Non è certo l’autarchia la risposta alla linea politica sbagliata dell’Europa. Ma ci vuole credibilità, forza, coerenza per guidare un Paese fondatore dell’Europa. E per sostenere un cambiamento di rotta. Berlusconi, oltre a minacciare Germania e Francia, giocava oggettivamente contro l’Italia. E il paradosso è che oggi chi vota Forza Italia darà una mano proprio al partito di Merkel e Sarkozy e alla loro linea di austerità.

l’Unità 14.5.14
«Basta dimissioni in bianco»
di Rachele Gonnelli


L’Organizzazione internazionale del lavoro, agenzia delle Nazioni Unite che promuove gli standard minimi di diritto del lavoro in tutto il mondo, nel suo Rapporto sulla tutela della maternità pubblicato ieri, si rivolge direttamente al governo italiano perché elimini la deleteria pratica della richiesta di dimissioni in bianco.
L’indagine del Centro studi dell’Ilo, diretto per questo settore da Mauela Tomei, non nasconde che l’Italia rispetto a Paesi come il Mozambico o la Malesia brilla per tutele delle lavoratrici in gravidanza. La legislazione italiana brilla ancora persino in Europa, dove pure i Paesi membri sono chiamati a osservare la Direttiva comunitaria del ‘92 che prevede 14 settimane di astensione dal lavoro assistita per le puerpere. Persino la Grecia riluce in questo campo avendo dalle 13 alle 17 settimane di maternità pagata (l’Italia ne riconosce 22 settimane), anche se - precisa il Rapporto - con la crisi, l’adozione di misure di austerità, l’impennata di disoccupazione e il peggioramento delle condizioni di lavoro si è notevolmente ridotta la platea delle lavoratrici che possono effettivamente usufrire dei benefici. Così in Serbia, dove il sindacato Nezavisnost denuncia che, con l’aumento vertiginoso dei contratti atipici, solo le dipendenti a tempo indeterminato sono di fatto coperte dalle tutele di legge, cioè appena il 7,8 per cento delle donne. Anche in Spagna le ong denunciano fenomeni di «mobbing contro le madri» ma è un’anomalia tutta italiana quella del ricatto delle dimissioni in bianco al momento dell’assunzione. La convalida richiesta davanti all’Ufficio del lavoro - precisa l’Ilo - non è un deterrente efficace e le dimissioni in bianco continuano a colpire le donne tra i 26 e i 35 anni ed è aumentato nel biennio 2011-2012 del 9 per cento. Perciò l’Ilo chiede esplicitamente al governo di eliminare l’autorizzazione prevista nel 2012.
Una proposta di legge volta a ripristinare e aggiornare, tramite dichiarazione digitale, le norme della legge 188, risalente all’ultimo governo Prodi, è passata alla Camera il mese scorso. Ma il presidente della commissione Lavoro al Senato, Maurizio Sacconi, lo stesso che da ministro di Berlusconi abrogò la legge 188, ha ora assorbito la proposta nella legge delega nota come Jobs Act, stemperandone di fatto le procedure di tutela.

l’Unità 14.5.14
Fine vita, il governo avvii l’indagine conoscitiva
di Luigi Manconi


IL DIBATTITO ITALIANO SUL FINE VITA RISCHIA DI NON USCIRE DAL PIANO DELLE IDEOLOGIE E DELLE EMOZIONI e dal terreno della guerra all’ultimo sangue tra avverse opzioni morali. Per questa ragione è quanto mai necessario e urgente dotarsi di una documentazione per quanto possibile oggettiva e scientifica sulla portata di un fenomeno come quello dell’eutanasia illegale, che resta generalmente sottovalutato o rimosso o censurato. Se da una parte vi è una percezione diffusa che nel nostro Paese l'eutanasia faccia parte della prassi(comune ancorché occulta), dall’altra, è vero che i dati a disposizione per definire la questione sono scarsi e non sistematici, dovuti alle iniziative volontaristiche dei ricercatori: iniziative che, per quanto lodevoli, risultano inevitabilmente viziate dal limite della parzialità. Non esiste, dunque, uno studio ufficiale, completo e dettagliato, valido per tutto il territorio nazionale.
Un’indagine conoscitiva sull’eutanasia – come quella sollecitata da Maria Antonietta Farina Coscioni su l’Unità del 7 maggio scorso – si configura come atto indispensabile ai fini della discussione e dell’approvazione di una legge che disciplini in modo coerente la materia. In Olanda, fu proprio uno studio del genere a introdurre nel 1990 un dibattito assai intenso all’interno del Parlamento, che terminò con l’approvazione dell’Euthanasia Act nel 2002. Ma l’indagine olandese fu commissionata e realizzata dal governo attraverso l’istituzione di un apposito organismo (la Commissione Remmelinck) con il consenso della Royal Dutch Medical Association. Lo studio coinvolse tutti i medici olandesi, sottoponendo loro un questionario anonimo, e riuscì a raggiungere la copertura del 95% dei decessi avvenuti in quell'anno. In questo modo, i risultati riprodussero la fotografia fedele di quelle che erano le pratiche più frequentemente utilizzate, evidenziando come l’eutanasia attiva fosse già una realtà «sotterranea » eppure assai diffusa (stimata intorno all’1,7% dei decessi). Negli anni successivi il governo olandese dispose un monitoraggio con gli stessi criteri del primo report, a cadenza quinquennale. Un’indagine così capillare - richiesta dall'Associazione Luca Coscioni sin dal 2006 - esula totalmente dalle possibilità e dalle funzioni dell’organismo che presiedo (la Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato), che non dispone dei mezzi, delle competenze e dei poteri necessari. Resta ciò che posso fare io, in qualità di membro del Parlamento. Personalmente ritengo che i rapporti di forza, per così dire ideologici – specie all'interno del Senato – rendano ardua qualunque iniziativa per l’approvazione di un disegno di legge sull’eutanasia. Questo non deve limitare in alcun modo l’attività per sollecitare un dibattito, che è mia premura – dal  momento che ho depositato un progetto di legge in materia – tenere aperto: e che è necessario sviluppare innanzitutto sul piano culturale. Se è vero, come è vero, che l’opinione pubblica è probabilmente già assai sensibile e addirittura maggioritariamente favorevole, restano resistenze sorde e ostilità robuste. Ma molto, moltissimo, c'è da discutere e da approfondire. Si pensi alle seguenti affermazioni, fatte da due Papi in tempi non recenti. La prima è di Pio XII che, nel 1957, nella Allocutio ad participantes XI Congressum Societatis Italicae de anaesthesiologia, così rispondeva a un essenziale quesito: «La soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici (quando è richiesta da un' indicazione medica), è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente (anche all’avvicinarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita)? Se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali: sì».
E Paolo VI, nel 1970, rivolgendosi ai medici cattolici sosteneva: «Il carattere sacro della vita è ciò che impedisce al medico di uccidere e che lo obbliga nello stesso tempo a dedicarsi con tutte le risorse della sua arte a lottare contro la morte. Questo non significa tuttavia obbligarlo a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza che gli offre una scienza instancabilmente creatrice. In molti casi non sarebbe forse un’inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase terminale di una malattia incurabile? In quel caso, il dovere del medico è piuttosto di impegnarsi ad alleviare la sofferenza, invece di voler prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va naturalmente verso il suo epilogo: l’ora ineluttabile e sacra dell’incontro dell’anima con il suo Creatore, attraverso un passaggio doloroso che la rende partecipe della passione di Cristo. Anche in questo il medico deve rispettare la vita».
Sia chiaro: nulla che abbia a che vedere direttamente con l’eutanasia e tuttavia, lette quelle parole di Pio XII e di Paolo VI, viene da intristirsi per come la dottrina e la pastorale della Chiesa cattolica siano così cupamente regredite nel corso degli ultimi decenni.

Repubblica 14.5.14
“Quei bambini sono i nostri figli l’altra coppia ce li restituisca”
Parlano i genitori biologici degli embrioni scambiati in un ospedale romano “Vogliamo incontrare la donna che li ha in grembo e suo marito. A chi ha sbagliato chiediamo una soluzione”
intervista di Fabio Tonacci



ROMA. IO, come padre, non posso sopportare che la vita dei nostri figli non ancora nati sia già distrutta da un caso giudiziario». L’intervista potrebbe anche finire qui, con la frase con cui Paolo, 41 anni, esordisce. Dice tutto. I “nostri” figli, non i “loro”.
LUI già “padre” di quei due bambini, che però stanno crescendo nel grembo di una donna sconosciuta. E l’ombra della lunga e dolorosa battaglia legale a cui lui e la moglie Elisa (39 anni), loro malgrado, potrebbero andare incontro e che li spaventa.
L’uomo che siede al tavolo di questo bar nel quartiere Ostiense e la donna che ci passa al telefono sono la “coppia biologica” dell’Ospedale Pertini di Roma. Chiedono di non essere fotografati, non vogliono essere citati con i nomi reali, pretendono la massima privacy. «Cercate di capirci, è una situazione delicata, siamo ancora frastornati». I loro embrioni, durante la procedura di fecondazione assistita, sono stati impiantati per errore nell’utero di un’altra signora, che ora sta portando avanti la gravidanza. Per la prima volta, i genitori naturali hanno deciso di parlare, di aprirsi. E di raccontare.
L’impianto è stato fatto il 6 dicembre scorso, ma quando avete saputo di essere stati vittima di uno scambio?
Elisa: «Non sono passati neanche 20 giorni da quando l’abbiamo scoperto. Ci ha telefonato l’ospedale e ci è crollato il mondo addosso. Non pensavamo proprio di essere noi. Eppure, anche se non abbiamo pance da esibire in televisione, abbiamo subito capito cosa vuol dire essere genitori».
In che senso, scusi?
Elisa: «Non abbiamo nulla dei nostri bambini, soltanto una cosa: le analisi genetiche che ci ha inviato l’ospedale. Le guardiamo e le riguardiamo, sono i nostri quattro codici tutti su una pagina, quattro colonne affiancate, ci sorprendiamo a vedere le somiglianze dei caratteri, ci emozioniamo a pensarli, a immaginarceli... sono loro, siamo noi! Per ora abbiamo solo questo, ma permetteteci di considerarla la nostra prima foto di famiglia».
Paolo: «Le nostre vite sono già inesorabilmente cambiate, e cambieranno ancora. Questa è una storia lunga, tante pagine devono essere scritte. Ora deve prevalere il senso di responsabilità di tutti. Una diatriba mediatica tra noi e l’altra coppia non servirebbe a nessuno».
E però gli altri coniugi si sono già esposti e hanno detto che, una volta terminata la gravidanza, vogliono tenere i due figli, anche a costo di mettere inmezzo gli avvocati.
Paolo: «Non è il momento delle polemiche, adesso. Tra l’altro non so nemmeno di chi stiamo parlando. A quasi un mese dal fatto, pur avendo consegnato al Pertini la richiesta formale di accesso ai dati, non ci hanno ancora detto i loro nomi. Non sappiamo chi siano, dove vivano, cosa facciano. Non sappiamo niente di loro. Tutta questa lentezza burocratica è un altro motivo di rammarico. Anche perché noi li vogliamo incontrare, se sono disposti. Vogliamo parlarci, provare a risolvere la questione».
Elisa: «In questa assurda vicenda l’unica cosa veramente importante è proteggere e tutelare i nostri figli. Non ci sono diritti se non i loro, non ci sono verità se non le loro. Mi pare evidente che quello che stiamo vivendo è un incubo. Ma noi possiamo sopportare. Quello che non possiamo consentire è che i nostri bambini diventino vittima degli sbagli altrui ».
È chiaro, da come parlate, che il vostro obiettivo sia di riaverli. Ma cosa vi aspettate da questo incontro, se mai ci sarà?
Che accettino di riconsegnarvi uno o entrambi i neonati dopo il parto? O volete proporre una sorta di famiglia allargata?
Paolo: «Noi non crediamo che l’ipotesi della famiglia allargata sia fattibile, ci aspettiamo qualcos’altro. Ma di questo parleremo direttamente con l’altra coppia, non è il caso di farlo con un’intervista sul giornale. Ribadisco, è importante vederci».
Elisa: «Abbiamo cercato e voluto i nostri bambini con tutti noi stessi, sono loro la priorità. È difficile spiegare o far capire la sofferenza di una gestazione negata. Non ho mai visto una loro ecografia, né ho mai sentito un solo battito dei loro cuori. Ma, forse ancor di più per questo, sentiamo fortissimo il legame indissolubile che lega le nostre quattro vite».
La legge, tra l’altro, seppure nel vuoto normativo dove si sistema questo inedito caso, al momento è dalla parte degli altri coniugi, perché “la madre dei figli è colei che li partorisce”.
Elisa: «Ecco, allora allo stesso servizio pubblico che ha sbagliato, e ci ha reso vittime di un errore, adesso chiediamo una soluzione. I bambini meritano risposte, certezze e verità, meritano che qualcuno riempia quel vuoto legislativo in cui ci troviamo. Così che possa essere ristabilita la serenità di cui hanno diritto».
Paolo: «Mi sembra di capire, da quello che ho letto, che non vi sia certezza normativa di quale potrebbe essere l’esito se il caso finisse eventualmente in Tribunale. Perciò mi unisco all’appello di mia moglie affinché le istituzioni, lo Stato, possano disciplinare questo caso, sicuramente unico. Nell’interesse delle due vite che stanno per arrivare, senza strumentalizzazioni di qualsiasi natura. E prima che intervengano magistrati o avvocati».

Corriere 14.5.14
Telecamere sulle divise degli agenti in stadi e cortei
Sperimentazione a Roma e Milano. Così la polizia registrerà gli scontri
«Preveniamo anche gli abusi degli agenti»
di Fiorenza Sarzanini


Il Viminale ha dato il via libera: sulle uniformi dei poliziotti che svolgono servizio di ordine pubblico saranno montate le telecamere. Gli apparecchi saranno appuntati ai capisquadra per filmare non solo quanto accade durante le manifestazioni ma anche fuori e dentro gli stadi. La sperimentazione a Roma e a Milano.

Telecamere sulla divisa . ROMA —Telecamere montate sulla divisa dei poliziotti che svolgono servizio di ordine pubblico. Congegni appuntati sul petto per filmare quanto accade durante le manifestazioni, ma anche fuori e dentro gli stadi. Il Viminale dà il via libera alla sperimentazione a Roma e Milano. Dopo le polemiche per quanto accaduto nel corso dei cortei e soprattutto allo stadio Olimpico in occasione della finale di Coppa Italia fra Napoli e Fiorentina, si decide di accelerare la procedura che consente l’utilizzo dei dispositivi per la registrazione. E non è escluso che il primo appuntamento possa essere quello di sabato prossimo nella capitale, quando sfileranno i movimenti che chiedono la tutela dei «beni comuni» e protestano contro le privatizzazioni. Il test durerà sei mesi. Se — come è accaduto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, dove è diminuito il numero degli scontri di piazza e degli episodi di violenza— darà risultati positivi, diventerà operativo per tutti.
Videocamera  per 150 funzionari
La scelta del capo della polizia Alessandro Pansa prevede l’uso di 150 apparecchiature ad alta definizione. Per fissare i criteri di impiego, nelle prossime ore sarà diramata una circolare alle questure e alle prefetture. Ma le regole sono già state decise. Saranno i capisquadra dei reparti mobili a tenere la telecamera. Ognuno di loro «governa» un gruppo di dieci agenti e questo vuol dire che le riprese riguarderanno almeno 1.500 uomini. Naturalmente il raggio d’azione sarà molto più ampio e in caso di situazioni critiche è previsto che il funzionario più vicino si posizioni in modo da documentare quanto sta accadendo con l’obbligo di riprendere che cosa fanno tutte le parti coinvolte e quindi anche con la possibilità che siano più telecamere a filmare la scena.
Al momento si è scelto di cominciare dalle due città dove maggiore è il numero dei cortei, ma è possibile che già prima della fine della sperimentazione si allunghi l’elenco. Anche perché l’idea è quella di partire con l’attività di ordine pubblico, ma poi coinvolgere altri reparti, primo fra tutti quello delle volanti in modo che gli agenti di ronda possano filmare gli interventi effettuati. Gli apparecchi hanno una tecnologia digitale e «riversano» il materiale in un server protetto che però dovrà essere messo a disposizione della magistratura in caso di incidenti o per l’accertamento di altri possibili reati sia da parte dei manifestanti sia dei poliziotti.
Le spy pen e la «campagna» del Sap
Era stato il Sap, uno dei maggiori sindacati di polizia, il primo a chiedere l’utilizzo delle telecamere. E per rafforzare la propria campagna ha distribuito ai poliziotti iscritti in Emilia Romagna «che svolgono lavoro di strada» circa ottocento «spy pen», dispositivi che consentono di avere immagini e voci di quanto succede durante il servizio. Un’iniziativa inizialmente guardata con diffidenza dai vertici del Dipartimento e adesso fatta propria con strumentazioni più sofisticate e soprattutto con una pianificazione mirata.
Il segretario Gianni Tonelli è lapidario: «Sbaglia chi pensa che la telecamera sia utilizzata soltanto a garanzia dei poliziotti. Poter documentare ciò che succede in strada è una forma di trasparenza soprattutto per i cittadini. La registrazione riguarderà infatti sia i manifestanti e i tifosi sia gli agenti dei reparti mobili. La nostra è stata una battaglia di civiltà che adesso sta dando i primi frutti. Durante l’ultimo corteo a Roma e allo stadio Olimpico abbiamo avuto la percezione di quanto fosse necessario avere la prova dei fatti. Noi siamo convinti che le telecamere saranno un deterrente forte per ogni forma di violenza, siamo certi che questa iniziativa consentirà a tutti di tornare a vedere le partite e partecipare alle manifestazioni nella massima tranquillità. Aspettiamo l’esito di questo test, con la convinzione che sia un passo fondamentale per giungere a una revisione totale delle norme» .
Le nuove regole  di ingaggio
Durante l’ultimo convegno del Sap — poi finito al centro delle polemiche per l’applauso dei poliziotti ai colleghi condannati per la morte di Federico Aldrovandi — era stato Pansa ad annunciare il varo di nuove regole d’ingaggio per i poliziotti. In particolare il prefetto aveva sottolineato come «il regolamento serve a bilanciare esattamente il ricorso all’esercizio legittimo della forza attraverso le modalità che devono essere confrontabili correttamente con la violenza che i tutori dell’ordine subiscono nel corso delle manifestazioni, nel corso dei loro interventi».
Poi si era detto contrario all’ipotesi di mettere un codice alfanumerico sul casco degli agenti: «Questo meccanismo regolamentare una volta che sarà approvato sarà chiaro a tutti. Sia a coloro che manifestano o che vengono sottoposti a controllo sia alle forze dell’ordine che esercitano la loro attività e quel punto onestamente io ritengo che molti temi come quello dell’identificativo in ordine pubblico non avranno più ragion d’essere perché a fronte di regole precise non avremo bisogno di questo tipo di argomento, non sarà più argomento di attualità».

Repubblica 14.5.14
John Locke e David Hume si contendono l’Unione
di Ian Buruma



STANDO agli ultimi sondaggi nelle elezioni europee di fine mese cresceranno molto i partiti populisti di destra, accomunati tra loro dall’avversione per l’Unione Europea, e vedranno affermarsi in particolare il Fronte nazionale francese, il Partito per la libertà dei Paesi Bassi e l’Ukip britannico. Anche se la destra euroscettica non otterrà la maggioranza dei seggi del nuovo Parlamento, la sua forza collettiva indebolisce la causa dell’unità europea. Come mai un progetto nato tra tante speranze all’indomani della Seconda guerra mondiale oggi incontra una simile resistenza?
Il successo del populismo di destra in Europa non rappresenta solo una reazione alla Ue, ma si inserisce in un’ondata di proteste contro le élite della sinistra liberal, considerate responsabili di molte fonti di inquietudine: l’immigrazione, l’incertezza dell’economia, l’estremismo islamico e, naturalmente, la presunta egemonia dell’“eurocrazia” a Bruxelles. Al pari dei sostenitori del Tea Party negli Stati Uniti, alcuni europei ritengono che il loro Paese gli sia stato sottratto. La gente si sente politicamente impotente ed è convinta che se solo potessimo tornare a fare i padroni a casa nostra le cose andrebbero certamente meglio.
ALL’INDOMANI della catastrofe delle due Guerre mondiali, dal 1945 in poi i cristiano-democratici e i socialdemocratici avevano condiviso l’ideale di un’Europa pacifica e unita che avrebbe gradualmente sostituito al nazionalismo la solidarietà pan-nazionale. Tale ideale iniziò ad essere seriamente scalfito negli anni Novanta, quando la caduta dell’impero sovietico screditò non solo il socialismo, ma qualsiasi forma di idealismo collettivo. Il neo-liberalismo iniziò allora a riempire il vuoto ideologico. In quegli stessi anni nelle città europee iniziarono a stabilirsi in numero sempre maggiore immigrati, provenienti spesso da Paesi musulmani, con il conseguente insorgere di tensioni sociali alle quali i maggiori partiti politici non furono in grado di rispondere adeguatamente.
In quel clima spaventoso, tra declino economico e atti sporadici di terrorismo, i moniti di coloro che mettevano in guardia contro razzismo o xenofobia non convincevano più. Ecco perché i demagoghi populisti che promettevano di difendere la civiltà occidentale dai musulmani, opporsi a “Bruxelles” e riprendersi i rispettivi Paesi strappandoli alle élite di sinistra stanno riscuotendo un simile successo.
Tuttavia questa reazione non aiuterà certo i Paesi europei a prosperare: per competere con le potenze in ascesa di altri continenti una politica estera e di difesa comuni a livello europeo saranno sempre più importanti. E una moneta unica richiede istituzioni finanziarie comuni. Per riuscire in questo, gli europei devono ritrovare il loro senso di solidarietà.
In che modo? Come si può convincere gli europei del nord relativamente ricchi, del fatto che i proventi delle loro tasse dovrebbero essere impiegati per aiutare gli europei del sud? Vi si può riuscire solo in presenza di un senso comune di appartenenza - che il più delle volte purtroppo i movimenti pan-nazionali hanno dimostrato di non riuscire a promuovere.
I fondatori delle istituzioni paneuropee erano nella maggior parte dei casi cattolici, come Robert Schuman, Konrad Adenauer e Jean Monnet. E avendo già trovato un senso di appartenenza nella Chiesa romana, che spesso coincideva con l’idea di Europa, i cattolici sono più inclini al paneuropeismo rispetto ai protestanti. Tuttavia non può essere questo il modello per l’Europa - i cui cittadini abbracciano ogni fede, o nessuna. Una risposta all’Europa non può essere trovata nemmeno nella solidarietà etnica che Vladimir Putin sta cercando di promuovere tra i russi dell’ex impero sovietico.
Alcuni leader europei, come l’ex primo ministro belga Guy Verhofstadt, vagheggiano una comunità culturale comune: Verhofstadt parla infatti del suo amore per il vino francese, l’opera tedesca e la letteratura inglese o italiana. L’idea, indubbiamente allettante, di certo non è sufficiente.
Non rimane che un’unica soluzione, rappresentata da una sorta di contratto sociale: i cittadini europei non dovrebbero essere indotti a rinunciare a parte della sovranità nazionale in nome di motivi religiosi, culturali o etnici. Né occorre chieder loro di destinare parte delle proprie tasse ad altri Paesi. Dovrebbero persuadersi del fatto che si tratta di cose che coincidono con il loro stesso interesse.
I politici di ciascun Paese dovrebbero spiegare ai cittadini che alcuni problemi possono essere risolti solo attraverso delle istituzioni pan-nazionali. Se ne convinceranno? La domanda ricorda i vecchi dibattiti dell’epoca dei lumi, quando il contratto sociale di John Locke, basato su un’interpretazione illuminata dell’interesse personale, si scontrava con l’idea di David Hume secondo cui pregiudizi culturali e tradizioni rappresentano il collante essenziale di una comunità.
Le mie simpatie vanno al primo, ma la storia ha dimostrato che il secondo potrebbe esercitare un richiamo maggiore. La storia tuttavia dimostra anche che spesso le tradizioni vengono inventate dal nulla per interesse delle classi dirigenti. Il problema dell’unificazione europea sta nel fatto di essere sempre stata promossa dai membri di un’élite politica e burocratica. Le persone comuni venivano consultate solo di rado. Ecco perché i populisti stanno vincendo. (Traduzione di Marzia Porta)

il Fatto 14.5.14
Potere amaro
“Jfk come mio padre: cacciatore seriale di donne”
All’aste le lettere finora segrete di Jacqueline Kennedy al prete-confidente
di Angela Vitaliano


New York. Dio mi dovrà dare delle spiegazioni se mai lo incontrero’ un giorno. Ed io devo pensare che esiste Dio, altrimenti non ho più nessuna speranza di ritrovare di nuovo Jackie”. È una Jacqueline Kennedy distrutta dal dolore per l’assassinio di suo marito, quella che scrive al reverendo (irlandese, come la famiglia Kennedy, ndr) Joseph Leonard per confidargli che quella morte gli ha causato “amarezza nei confronti di Dio”.
Era il 1964 e la vedova Kennedy era ora molto diversa dalla ragazza di 21 anni che aveva conosciuto colui che sarebbe diventato il suo più fidato confidente, durante un suo viaggio in Irlanda. Eppure identica era la sua necessità di affidare a quell’inchiostro nero, il senso più profondo dei suoi sentimenti, delle sue paure, delle sue malinconie, tutto quel groviglio di umanità che, una vita sotto i riflettori, le avevano impedito di mostrare e forse anche di vivere pienamente. “John è come mio padre in qualche modo
– aveva scritto una futura sposa parlando del suo fidanzato in carriera – e, una volta sposato, dovrà provare di essere ancora attraente, per questo corteggerà le altre donne e sentirà il peso della mia presenza. Io ho visto questo comportamento quasi uccidere mia madre”. Sapeva, insomma, Jackie, secondo le lettere scritte a padre Leonard, che saranno messe all’asta a giugno per un valore di oltre un milione e mezzo di dollari, chi fosse l’uomo che si apprestava a sposare e che, le cronache mondane, avrebbero legato a donne bellissime (e meno belle) a cominciare dal sexy symbol per eccellenza: Marilyn Monroe. Eppure, dopo i primi tempi, l’elegante Jackie aveva confessato di amare molto il fatto di essere sposata “molto di più di quanto non fosse all’inizio”.
UNA VITA FELICE, ma anche piena di solitudine, quel sentimento che, spesso, con parole cariche di malinconia, affida al suo confidente perché lo serbi da occhi e orecchie indiscrete. “Forse sono solo impressionata e mi immagino nel mondo scintillante delle teste coronate e degli Uomini del Destino – scrive ancora Jackie nel 1953 – e non solo come una piccola triste casalinga. Quel mondo, tuttavia, può essere molto glamour dall’esterno, ma se tu ci sei dentro, e sei sola, puo’ diventare un inferno”.
Dal 1950 al 1964, l’ex First Lady scrisse circa 30 lettere a Joseph Leonard che incontrò di persona soltanto una seconda volta dopo il suo viaggio in Irlanda e cioé a Dublino, cinque anni dopo, durante un viaggio con l’allora senatore Jfk. “Fa cosi bene poter scrivere tutto ciò e liberarsi da quel peso che opprime il cuore, perché io non posso mai parlare veramente con nessuno” spiega sottolineando, ancora una volta, la sua condizione di disperante solitudine.

Repubblica 14.5.14
Museo Picasso licenziata la presidente
Anne Baldassarri è stata rimossa dal ministro della Cultura Filippetti per i ritardi e la mancata riapertura
di Anais Ginori



PARIGI. È CONSIDERATA una delle massime esperte dell’opera di Picasso ma da ieri Anne Baldassari dovrà separarsi dal museo parigino dedicato all’artista spagnolo, di cui è stata la padrona di casa per quasi un decennio. La ministra della Cultura, Aurélie Filippetti, ha infatti deciso di nominare un nuovo presidente del museo dopo le polemiche sui lavori di ristrutturazione dell’Hôtel Salé, il prestigioso immobile dov’è custodita la più grande collezione di opere di Picasso. L’edificio del Marais è chiuso al pubblico da ormai cinque anni per lavori di ristrutturazione, con un ritardo di quasi tre anni sulla previsione del cantiere. Il museo doveva finalmente riaprire a giugno, ma la data dell’inaugurazione è stata spostata di altri tre mesi, a metà settembre. L’annuncio delle dimissioni forzate di Baldassari è l’ennesima puntata nel conflitto che circonda l’istituzione pubblica, in cui parte della famiglia del pittore si è schierata contro lo Stato. Il figlio dell’artista, Claude, ricevuto dal primo ministro Manuel Valls, ha accusato il governo di “disinteressarsi” del futuro del museo. Alcuni collezionisti famosi, come la giornalista Anne Sinclair, membro del consiglio direttivo, hanno difeso il ruolo di Baldassari, accusata dal personale di “metodi autoritari”. Conservatrice nel museo dal 1992, organizzatrice di diverse mostre tematiche, come quelle che accostavano Picasso a Matisse o Bacon, Baldassari guidava il museo dal 2005.
I problemi sono iniziati con il progetto di ampliamento dell’Hôtel Salé che doveva dare maggior spazio espositivo alle oltre cinquemila opere di Picasso. Baldassari ha cambiato diverse volte la ditta incaricata dei lavori e si è rifiutata di mandare all’estero alcune pitture per finanziare il restauro del palazzo parigino. Nel 2009, quando era già aperto il cantiere, un prezioso carnet dell’artista, valutato 8 milioni di euro, è scomparso. Qualche settimana fa i dipendenti del museo hanno firmato una lettera per chiedere di mandare via la presidente. Gli ispettori del ministero della Cultura hanno dato ragione al personale, registrando un “clima ansiogeno” e un “degrado delle condizioni di lavoro” nel museo. Il nuovo presidente dovrebbe essere nominato entro una quindicina di giorni, con una procedura aperta di selezione. Tra i nomi possibili, anche due conservatori del museo Beaubourg, Laurent Le Bon et Didier Ottinger. Si vedrà se questo cambio ai vertici riuscirà a chiudere una polemica che è diventata un affare di Stato.

l’Unità 14.5.14
Capire è accettare il «mostro» che è in noi
Riconoscere le nostre paure interiori è la via per sconfiggere l’omofobia e accogliere il «diverso»
di Delia Vaccarello


«ACCOGLIETEVI GLI UNI GLI ALTRI COME CRISTO HA ACCOLTO VOI», È QUESTO IL VERSETTO BIBLICO CHE APRIRÀ LE VEGLIE DI PREGHIERA contro l'odio nei confronti di omosessuali e trans in questa settimana in cui cade la ricorrenza del 17 maggio, istituita ufficialmente dall' Unione Europea come giornata contro l'omofobia. Il messaggio di accoglienza che innerva i vangeli - come abbiamo già sottolineato a proposito del bel libro di Paolo Rigliano, Gesù e le persone omosessuali - è quello che dal punto di antropologico ispira i migliori momenti di contrasto alle discriminazioni e che si oppone ai fascismi di ieri e di oggi. Può essere inteso come esortazione dai credenti, ma anche come nuovo passo culturale e simbolico inaugurato da quell'uomo rivoluzionario che fu ed è per i laici Gesù di Nazareth. Accoglienza vuol dire farsi pronti al rapporto con l'altro, ascoltare le sue parti profonde dopo aver fatto un viaggio per contattare le proprie ed esprimerle. Vuol dire riuscire a sconfiggere i «mostri» che in primo luogo albergano nello sguardo di chi addita l'altro come «diverso» e che sono alimentati dal silenzio, dalla inibizione all'espressione di sé, dal fatto che ciò che fa paura perché tende a sfuggire al controllo, come sanno fare l'amore o la sessualità, troppo spesso viene collocato in un altrove e demonizzato. Insomma, per sconfiggere l'omofobia bisogna che ciascuno accetti di essere un po’ «mostro».
Anche di questo si è parlato lunedì mattina presso l'università Luiss di Roma, in occasione di un incontro organizzato dall'associazione Luiss arcobaleno presieduta da Edoardo Messineo che ha aperto la settimana degli eventi rainbow previsti nella capitale. Se di omofobia si può persino morire di proprio pugno, come testimoniano le vicende gravi in cui le vittime in preda alla disperazione decidono di farla finita - è anche vero che un limite può essere trasformato in una risorsa. «Oggi si sta perdendo il rapporto con la propria interiorità - ha fatto notare Fabrizio Petri - e le persone omosessuali e trans sono portatori di un patrimonio enorme cioè la capacità di avere un rapporto con l'ombra», avendo comunque per necessità iniziato un percorso di interrogazione di sé a partire da un contesto che tende a non contemplarli.
L'incontro è stato aperto dal professor Sebastiano Maffettone, direttore del dipartimento di Scienze politiche, che ha posto l'accento sul ruolo cruciale di un ateneo - quello di mettere la cultura a contatto con la realtà - e ha sottolineato la stupidità e la povertà della omofobia: «tanto più una società può scegliere quanto più è ricca, dentro ognuno di noi ci sono forme di sessualità diverse, siamo persone complesse ed è sbagliato dividere la società in rigide appartenenze di genere. I liberali odiano le discriminazioni, il loro sogno è che ogni persona possa realizzare ciò che è autenticamente». Si è parlato anche di diritti, e del primato da riconoscere oggi al movimento per i diritti civili anche rispetto a quello femminista «che appare arroccato su posizioni vetero e incapace di svolgere un ruolo propulsore» ha dichiarato Ingrid Salvatore, docente di Gender studies, mentre Fabio Galluccio ha parlato di come una azienda può favorire la corsa di ciascuno dei propri dipendenti riconoscendo parità di diritti, ferie matrimoniali comprese, e Alessandra Barberi ha descritto le reti tese da Unar per coinvolgere tutte le istituzioni nel contrasto ai pregiudizi. Su invito di Luiss Arcobaleno mi trovavo tra i relatori e ho scelto come introduzione la proiezione di alcune sequenze del film Freaks di Tod Browing del 1932.Ne consiglio la visione, il film si trova anche su youtube. La pellicola parla dei «mostri », l'uomo-donna, i nani, l'uomo senza gambe, che con spirito cristiano vengono detti «bambini» e accolti perché Gesù accoglie tutti. Mostri che vengono considerati malvagi senza che abbiano fatto nulla. Così «i mostri» sono respinti quando «osano» festeggiare una bella donna appena sposata con un uomo del circo definendola «una di noi». L'invito è a bere tutti dalla «coppa dell' amore» ma per la donna è «troppo». I mostri non hanno diritto all'amore? Neanche a festeggiare quello altrui? Il film è del ‘32, nel ‘33 Hitler è salito al potere, l'ideologia della razza pura seminerà orrori, anche in Italia. Ma i «mostri» non resteranno con le mani in mano. Hanno una «legge» per difendersi, ciò che soffre uno soffrono tutti, ciò che fa gioire uno rende felici tutti. Così alla fine del film la donna che li odiava diventa una «donna gallina». Lo sguardo «mostruoso» la trasforma, e sarà davvero «una di loro». Per comprendere le differenze bisogna capirle «da dentro». È la legge dei freaks.

l’Unità 14.5.14
Berlinguer profeta della fine dei partiti
di Bruno Gravagnuolo


QUESTIONE MORALE: SLOGAN MORALISTICO O DIAGNOSI PROFETICA? Nel trentennale della scomparsa di Berlinguer, la domanda riacquista tutta la sua attualità. I fatti di Milano sono lì, 22 anni dopo tangentopoli. E basta questo «ricorso» a rendere onore a chi pose con tanta forza il tema. Qual era il cuore dell’analisi di Berlinguer nell’intervista con Scalfari? Era il nesso politica-affari mediato dai partiti che occupavano lo stato colonizzandolo, fino a snaturare la loro funzione.
Bene, era, e resta, uno schema interpretativo attuale. Che si è andato via via inverando, via via che la politica è rimasta schiacciata nella morsa fatta di spesa pubblica degenerata, ed esplosione degli spiriti animali liberisti. La crisi del welfare e del debito, e il crollo dell’Est europeo, hanno fatto il resto. Ma alla fine la nascita dei partiti personali e d’opinione, sulle ceneri delle ideologie, non hanno migliorato il quadro. Lo hanno peggiorato invece! Perché i nuovi partiti sono divenuti vieppiù elettoralistici e concidenti con l’amministrazione centrale e periferica dello stato: lottizzatori, notabilari. E il tutto nel quadro di sistema maggioritario, che al centro e in periferia - primarie o meno - diluiva ogni identità radicata. Ogni blocco sociale riconoscibile. Con liste pigliatutto ad alto tasso di trasformismo potenziale. E con al vertice figure elette direttamente. Esentate dal rispondere alla loro comunità socio-culturale di partito.
L’Italicum? Accrescerà la ressa e le risse, nelle liste trasversali. E ancora una volta la Post-politica decisionista alleverà al suo interno infinite questioni morali. Dove sbagliò Berlinguer? Forse fu incapace di indurre nel Pci una reale autoriforma- coerente con la questione morale - nonché di schierarlo per una vera alternativa, che non fosse la riedizione dell’intesa con Moro. Ma c’era Craxi che voleva divorarlo. E la tenaglia Usa-Urss sullo sfondo. Come che sia fu un gigante e i suoi eredi... davvero nani sulle sue spalle.

il Fatto 14.5.14
Patrimonio all’italiana
La Scuola Archeologica Italiana di Atene: salvate il futuro
di Tomaso Montanari


LA SCUOLA Archeologica Italiana di Atene, fondata nel 1909, è uno dei quasi venti istituti stranieri che scavano in Grecia: istituti che non sono utili solo agli archeologi, ma a tutti coloro che credono che le relazioni internazionali possano basarsi anche sulla condivisione della conoscenza, e non solo sugli affari o sui rapporti di forza. La Scuola dipende congiuntamente dal ministero per i Beni culturali e dal ministero per l’Istruzione e la Ricerca: testimoniando così quel nesso fondamentale tra patrimonio culturale, ricerca ed educazione che abbiamo ormai quasi completamente rimosso. In quel “quasi” c’è anche la speranza di vita della Scuola stessa, minacciata da un letale definanziamento deciso nell’e ra Tremonti e confermato con stupidità e pervicacia bipartisan dai quattro governi successivi. La situazione è così grave che il direttore della Scuola, Emilio Greco è stato costretto a una umiliante richiesta di soccorso: “Ora mi rivolgo a voi per chiedere il vostro sostegno per una sottoscrizione in denaro che, da un lato aiuti la Scuola a superare le difficoltà momentanee (si spera!), dall’altro serva come segnale contro la tendenza generalizzata a operare quei tagli scriteriati che colpiscono in particolare le istituzioni culturali”. Chi verserà un contributo (sull’iban IT09N06055032000 0000 0020548) sarà ricordato sul sito web della Scuola: moderno equivalente delle preghiere benedettine a favore dei benefattori dei monasteri. Vergogna nella vergogna, lo stesso Stato italiano che chiude, o costringe all’accattonaggio, le sue istituzioni culturali nel mondo, spende poi milioni per organizzare mostre d’arte risibili e dannose che dovrebbero propagandarne il “brand” all’estero. Negli stessi giorni in cui il professor Greco diramava la sua supplica, il Mibact inaugurava a Pechino (alla chetichella, per evitare polemiche) una improbabile mostra sul Barocco romano, che rappresenta il sequel di quella (forse ancora peggiore) sul Rinascimento di due anni fa. Far morire gli istituti di ricerca e sciorinare i gioielli di famiglia come i più cialtroni degli ambulanti: ecco il perfetto ritratto di un Paese che si suicida

La Stampa 14.5.14
Quel che resta dell’onestà
Dall’antichità ai giorni nostri, un concetto dalla natura molteplice. La filosofa Francesca Rigotti ne insegue le trasformazioni
di Massimiliano Panarari


«Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand’ella altrui saluta…», scriveva il sommo poeta Dante. E, tempo dopo, nel Cinquecento fu tutto un fiorire di manuali per insegnare, giustappunto, gli «honesti costumi» e le regole di condotta alle donne cristiane, dallo spagnolo Juan Luis Vives al veneziano Lodovico Dolce.
Anche questa, in un Occidente a lungo strutturalmente maschilista, è stata un’idea di «onestà» (rigorosamente riservata alla popolazione femminile, e tuttora perdurante), a testimonianza della natura molteplice di questo concetto, polisemico quanto pochi altri, come racconta nel suo nuovo libro la filosofa politica Francesca Rigotti. Docente all’Università della Svizzera italiana a Lugano e specialista in particolare di metaforologia, in Onestà (Raffaello Cortina, pp. 166, € 12) la studiosa evidenzia come per la contemporaneità questa qualità coincida, sostanzialmente, con il non rubare, e abbia finito con l’investire, in via esclusiva, la sfera economica, esito di scivolamenti progressivi che hanno ristretto il campo semantico della parola.
All’inizio, grossomodo, c’era Cicerone, che consacrò il primo libro del De officiis (praticamente il bestseller sull’etica del mondo antico) all’honestum, ovvero la virtù (o il bene morale) che coincide con l’utile e il giusto. Così, il pensiero stoico greco si innesta sul modo di vivere dell’uomo romano, e il bello spirituale e morale del primo si fonde con l’attitudine pratica del secondo, nonché con la centralità dell’essere cittadino, condizione per la quale il bene del singolo non può che identificarsi con quello della patria. Seneca, anch’egli debitore dello stoicismo e aduso alla politica, ma notoriamente più meditativo di Cicerone, sfronda l’honestas del riferimento al cursus honorum della vita pubblica, e la porta nella direzione di concetti come virtù e sapienza. Il bello morale in cui consiste l’onestà per i latini, come per i greci, è dunque fine a sé stesso; in seguito arriverà il cristianesimo e, da Agostino a Tommaso d’Aquino, capovolgerà la prospettiva, facendone un mezzo per il conseguimento di un obiettivo superiore.
Nel Medioevo, l’onestade finisce pertanto anche al centro della grande letteratura, con l’Alighieri e Petrarca che l’associano alle nozioni di decoro, gentilezza, «cortesia», mentre Boccaccio, nel Decamerone, sottolinea come sia sua intenzione dare al lettore un racconto e un divertimento onesti, ossia armoniosi e senza altri fini. E l’Umanesimo, che bussa forte alla porta, ritorna quindi, almeno in parte, all’honestas della classicità ciceroniana. Una stagione gloriosa, che arriva al culmine nel Rinascimento, ma dietro l’angolo c’è già una delle varie stagioni di crisi dei fondamenti della storia occidentale, quella che trova le proprie vette in William Shakespeare e nello scettico Michel de Montaigne, profondamente dubbioso riguardo al fatto che l’uomo onesto potesse trovare un posto adeguato in un mondo che metteva l’utile al di sopra di ogni cosa. Anche se il saggista, considerato ormai da qualche tempo come una sorta di «padre putativo» della teoria dei neuroni specchio, pensava tutto sommato che la forza esemplare dell’onestà riuscisse a far ravvedere anche i malvagi (e, a tal proposito, citava un paio di episodi di cronaca nera che gli erano capitati, un’imboscata di banditi in viaggio verso Parigi e un assalto alla sua dimora, ai quali era scampato proprio suscitando l’empatia dei violenti che si era trovato di fronte).
Nel Seicento del barocco, intriso di doppiezza e ambiguità, dilagò la letteratura sulle virtù oneste: un paradosso, di cui l’epoca era golosa, e una manifestazione di quella dissimulazione - esaltata da figure quali il neostoico Giusto Lipsio, Ugo Grozio e Francesco Bacone - che vi ravvisavano la sola possibile strategia di ribellione e di opposizione alla tirannide. Dopo l’Illuminismo si avanza a grandi falcate verso una nozione di onestà destinata a dominare fino ai nostri tempi, quella che la connota in contrapposizione alla corruzione. Una delle ragioni principali risiede nella conquista della centralità, sul palcoscenico delle idee, del pensiero politico anglosassone, dove viene messa a punto la metafora della body politic (con l’assimilazione del corpo sociale a quello umano, soggetto al corrompersi); e che, soprattutto, si rivela, lungo i secoli, attentissimo all’economia, da Thomas Hobbes (che scriveva della corruption dei giudici pronti a vendere per denaro la loro funzione) sino a John Rawls, per il quale una società giusta è anche una società onesta, nella quale i livelli di corruzione risultano bassi e si hanno così maggiori chance di affermazione per i meno privilegiati. E proprio di tipo monetario, difatti, è la disonestà di colui che rappresenta il simbolo cinematografico per antonomasia della corruzione, il prefetto di polizia Louis Renault, nel film cult Casablanca del 1942.
L’onestà nell’accezione odierna diventa allora quella che rigetta il «familismo amorale» codificato, nel ’58, dal sociologo statunitense Edward Banfield a partire dal nostro Mezzogiorno - mentre al vertice delle nazioni virtuose, secondo il Corruption Perception Index, svettano la Scandinavia, la Nuova Zelanda e Singapore. Tuttavia i politici non mancano certo di inventiva nella vastissima gamma dei comportamenti disonesti e disonorevoli, e riescono a prodursi in imprese «memorabili» che bypassano in quanto a «creatività» la corruzione economica. Come insegnano i casi dell’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan, che piazzò un intero clan di parenti mentre tuonava contro la corruzione, e dell’ex ministro della Difesa tedesco (con ambizioni di cancelliere) Karl-Theodor zu Guttenberg, costretto alle dimissioni per il plagio di ampie porzioni della tesi di dottorato.

La Stampa 14.5.14
Per diventare “cittadini della scienza”
di Piero Bianucci


Per la scienza è facile trovare su Internet fonti serie e evitare quelle folli. Basta andare alle grandi istituzioni: Cern, Nasa, università titolate, riviste come Nature e Science. C’è tutto. Anzi, troppo. E troppo specialistico. Il numero degli articoli scientifici raddoppia ogni dieci anni. Di questo passo alla fine del secolo le pubblicazioni prodotte dai ricercatori (avete notato il tramonto della parola «scienziato»?) sfonderanno i limiti fisici del pianeta. Per il cittadino che vuole tenersi informato, filtrare le informazioni utili diventa essenziale. Senza filtri efficaci, la conoscenza condivisa, cioè democratica, non ha futuro.
Filtro efficace significa competenza, obiettività, capacità divulgative. Forse è per questo che, mentre le vendite di libri arretrano al ritmo del 10 per cento l’anno, nascono nuove collane scientifiche con caratteristiche specifiche e precise: libri piccoli per formato e pagine (100-150), monografici, costruiti su nozioni di base ma per approdare alle scoperte di ieri mattina, temi di attualità. Gli stessi che occupano le pagine dei giornali ma trattati senza approssimazioni e con sguardo profondo.
Non è detto in modo esplicito, però queste nuove collane sono la risposta della carta a tablet e computer. Incominciò la Zanichelli con «Chiavi di lettura» – ultimi titoli Le stranezze del clima e I robot ci guardano – e rimase a lungo isolata. Qualche mese fa ecco la storica sigla di Hoepli: collana «Microscopi», tra i temi il bosone di Higgs e la svolta digitale. E ora, dell’editore Carocci, la collana «Città della Scienza» (sì, è in collaborazione con il museo interattivo di Bagnoli, presso Napoli, distrutto in un incendio doloso). I primi titoli parlano di economia, ecologica, radioattività, evoluzione umana, farmaci naturali, Ogm, rapporto mente-cervello, particelle elementari.
È un salvagente per chi sente di affogare in un oceano di informazioni prive di gerarchia. Può diventare un passo verso la conquista di una «cittadinanza scientifica» che ci aiuti tutti a parlare di cose che conosciamo, e non a gridare su cose che ignoriamo.

La Stampa TuttoScienze 14.5.14
Colpevole o innocente?
Il (neuro)giudice ti leggerà il cervello
di Nicla Panciera


Primo interrogativo: perché un adolescente, alla ricerca di sensazioni forti, si droga, pur essendo consapevole del pericolo? Secondo interrogativo: a partire da quale istante un individuo non è capace di intendere e di volere, trasformandosi in un criminale che non riesce più a inibire i propri istinti? Nonostante le evidenti differenze, i due casi sollevano questioni simili: metodologiche, etiche e anche giuridiche.
Il professor Pietro Pietrini, un decennio passato agli Istituti nazionali di Sanità degli Usa, è oggi direttore dell’unità operativa di psicologia clinica all’Università di Pisa. Lo psichiatra - uno dei periti della prima sentenza in Europa ad aver tenuto in considerazione dati genetici e neuroscientifici, con la conseguente riduzione di pena - interverrà al convegno internazionale organizzato dalla Sine, la Società italiana di neuroetica, al via oggi a Padova. E proprio sul piano giuridico - si tratta di una questione-chiave - quanto è rilevante sapere quando un giovane non può non reagire in modo incontrollato? «Le indagini sulla struttura morfologica e funzionale rivelano che nell’adolescente il cervello è ancora in una fase di sviluppo, che poi prosegue anche dopo la maggiore età, a partire dalla quale si è considerati imputabili - spiega Pietrini -. Le modificazioni riguardano dimensioni, struttura e collegamento tra le diverse aree: le ultime a giungere a maturazione sono le connessioni della corteccia prefrontale, quella che più delle altre si è sviluppata nel corso dell’evoluzione e che è deputata alla regolazione del comportamento sociale e al controllo degli impulsi. A stabilire se un giovane potrà scivolare in una carriera criminale concorrono quindi molti fattori: oltre a quelli ambientali, si aggiungono diversi fattori genetici e neurobiologici, elementi che non sono più ignorabili con il pretesto dell’incompletezza delle conoscenze».
L’espressione dell’aggressività è un comportamento istintivo, funzionale alla sopravvivenza, che in noi - com’è noto - è modulato dalla ragione. La patologia subentra quando «salta» il meccanismo di regolazione, che oggi possiamo fotografare. «Le tecniche di neuroimmagine, infatti, permettono di osservare nel dettaglio la struttura e il funzionamento del cervello e confrontare l’architettura cerebrale e i modelli di attivazione neurale di chi ha compiuto dei crimini e di chi, invece, non presenta disturbi del comportamento, in situazioni nelle quali sono in gioco, di volta in volta, l’aggressività, l’empatia e il controllo degli impulsi». E i risultati delle osservazioni sono chiari. «Il cervello di alcuni criminali è diverso - aggiunge lo psichiatra -: la sostanza grigia prefrontale è ridotta di oltre il 20%, è più piccolo il fascio che unisce l’amigdala alle aree prefrontali del controllo cognitivo, detto fascicolo uncinato, così come è ridotta l’attivazione delle aree temporali e della corteccia orbitofrontale, legate all’empatia e all’autocontrollo».
Ma la questione è ancora più complessa. Avere identificato i circuiti neurali coinvolti nei processi decisionali e averne identificato una disfunzione in chi ha già commesso un crimine non significa approdare a conclusioni rozzamente deterministiche. Configurazioni geniche sfavorevoli, infatti, pur indicando una serie di predisposizioni ad agire in modo impulsivo, non sono condizioni necessarie né sufficienti per il crimine o per venire giudicati «tout court» incapaci di intendere e di volere. Le interazioni con l’ambiente - vale a dire le specifiche condizioni sociali e familiari - restano importantissime nel convertire in comportamento effettivo alcune predisposizioni neurobiologiche ad alto rischio.
L’essere umano, non a caso, si interroga da sempre sulla libertà di scelta. L’esercizio del libero arbitrio è la capacità di procrastinare la risposta a un impulso e, dunque, il ruolo dei lobi frontali è fondamentale. «Grazie alle neuroscienze potremo in futuro distinguere con precisione crescente tra coloro che agiscono al di fuori della legalità in modo consapevole - i cattivi per scelta - e quelli che invece sono incapaci di operare altrimenti - i malati -: questi ultimi non perseguibili dalla società, la quale potrà mettere in atto dei meccanismi di tipo protettivo».
Ma allora, affinati gli strumenti a disposizione, che differenza ci sarebbe tra un individuo che tace non perché reticente, ma perchè le sue aree del linguaggio non funzionano correttamente, e un criminale con pesanti alterazioni a carico dei network cerebrali decisivi per il controllo degli impulsi? «Appare chiaro che la ricerca neuroscientifica - conclude Pietrini - impone una rivisitazione in ambito forense dei criteri con cui si stabiliscono la capacità di delinquere e di pari passo fornisce, e fornirà, nuove e più efficaci strategie di intervento educativo e rieducativo. Obiettivo: porre rimedio alle varie forme del disagio giovanile, fino a quello estremo che potrebbe sfociare in comportamenti criminali».

La Stampa TuttoScienze 14.5.14
Tutte le Terre che ci aspettano
di Antonio Lo Campo


«Quelli scoperti sono circa 2 mila e altre migliaia stanno aspettando una conferma prima di venire catalogati». Sono gli esopianeti - anche noti come pianeti extrasolari - quelli che orbitano attorno ad altri Soli, così come gli otto pianeti del nostro Sistema Solare. A raccontare la nuova frontiera della ricerca è Giovanna Tinetti, astrofisica e docente allo University College di Londra.
Centinaia, migliaia e, tra non molto tempo, milioni di altri sistemi solari verranno scoperti grazie a occhi elettronici sempre più sofisticati: quelli dei grandi osservatori a Terra e soprattutto quelli inviati nello spazio a bordo dei satelliti. «La rivoluzione che inducono tutte queste scoperte - sottolinea Tinetti - è che il nostro Sistema Solare rappresenta solo una delle tante casualità dell’Universo. Molti di questi nuovi pianeti, infatti, presentano caratteristiche assai diverse rispetto a quelle che già ben conosciamo». Ma non c’è dubbio - aggiunge - che «tra i pianeti più interessanti ci siano quelli che noi chiamiamo le “Super-Terre”, corpi celesti a volte rocciosi, proprio come la Terra oppure come Marte, ma fino a 10 volte più pesanti, e a volte con strutture di ghiaccio e acqua, come alcuni dei satelliti di Giove e Saturno». E infatti alcuni di questi pianeti hanno forti somiglianze con il nostro.
Se Gliese 581 g, a circa 20,5 anni luce dalla Terra, nella costellazione della Bilancia, potrebbe avere le potenzialità per ospitare la vita, di certo l’ultimo pianeta osservato in ordine di tempo, battezzato Kepler 186-f (a 500 anni luce), ha caratteristiche molto simili a noi. «La “fascia di abitabilità”, misurata sulla base della distanza dalla sua stella, oltre che le dimensioni, lo rendono, più che gemello, un parente prossimo - sottolinea l’astrofisica -. Se possono esserci forme di vita? Ce lo auguriamo. Le caratteristiche ci rendono ottimisti, ma questo aspetto è ancora tutto da scoprire».
Quello degli esopianeti è un settore in espansione, che rappresenta il presente e futuro dell’astronomia. «Il satellite “Kepler” ha compiuto uno straordinario lavoro - dice Tinetti - e altre missioni, come “Gaia”, realizzata con un forte contributo italiano, promettono di scoprire altre migliaia di nuovi pianeti». Scenari ricchi di promesse - come quelli delle atmosfere «aliene» - che racconterà nella conferenza «Il mio pianeta preferito», sabato, al Circolo dei Lettori di Torino, in occasione della manifestazione «now.new»: in programma dal 16 al 18 maggio, è stata ideata - spiegano gli organizzatori - «per accorciare le distanze tra ricerca e cittadini», enfatizzando le ricadute culturali, sociali e economiche. La serata inaugurale sarà venerdì, con la lezione di Luigi Naldini dedicata alla terapia genica.

La Stampa TuttoScienze 14.5.14
Ecco il Senato dei fisici. Ma era di un secolo fa
Tra 1848 e 1943 essere uno scienziato era un titolo di merito per essere ammessi nelle istituzioni del Regno d’Italia
di Matteo Leone - Nadia Robotti


In questi tempi di profondo ripensamento del nostro assetto istituzionale guardare in prospettiva storica il Senato della Repubblica può essere di aiuto per superare i difetti dell’ordinamento attuale, recuperando il meglio dell’esperienza del passato. E guardare in prospettiva storica la «Camera Alta» del nostro Paese significa anche parlare, per quanto strano possa apparire oggi, di scienziati e, tra questi, di fisici e astronomi..
Vi fu un tempo nel quale essere scienziato era considerato un titolo di merito nella composizione delle istituzioni. Nel periodo che va dall’applicazione dello Statuto Albertino (1848) alla caduta del regime fascista (1943) risulta infatti che, considerando solo la cerchia numericamente ristretta dei fisici e degli astronomi italiani, ben una ventina di loro furono nominati senatori a vita dal Re e vi furono anni (come intorno al 1910) nei quali sedevano contemporaneamente in Senato anche sei tra fisici e astronomi.
I fisici e gli astronomi senatori appartenevano a due categorie significative: erano «membri della Regia Accademia delle Scienze dopo sette anni di nomina», e questa era la maggioranza, oppure perché «con servizi o meriti eminenti» avevano «illustrata la Patria». Di quest’ultima categoria facevano parte alcuni tra i fisici italiani più importanti dell’Ottocento, che per primi cercarono di coniugare l’impegno scientifico con quello civile. Tra questi vi sono alcuni «padri del Risorgimento», come Carlo Matteucci, noto per i suoi studi di elettrofisiologia, che partecipò ai moti del 1848, e che nel 1862, in qualità di ministro della Pubblica Istruzione, tentò la prima riforma dell’Università; o come il famoso fisico Ottaviano Fabrizio Mossotti, che a 57 anni, al comando del Battaglione Universitario Toscano, combatté nella battaglia di Curtatone e Montanara; o ancora come l’astronomo Annibale De Gasparis, che partecipò ai moti del 1848 a Napoli, ma evitò la repressione borbonica dedicando a re Ferdinando la scoperta di un nuovo asteroide.
L’analisi dell’attività parlamentare dei fisici e astronomi senatori del Regno d’Italia, e prima ancora del Regno di Sardegna, ci riconsegna un quadro affascinante dell’evoluzione scientifico-tecnologica del periodo e ci riporta in un mondo dove è possibile osservare i caratteri dell’azione legislativa esercitata dagli scienziati. Ad esempio, l’insigne astronomo Giovanni Plana presenta e vede approvato nel 1851 il suo progetto di istituzione di una linea telegrafica tra Torino e Genova, appena quattro anni dopo l’inizio della diffusione in Europa del telegrafo Morse e la realizzazione del primo telegrafo elettromagnetico italiano ad opera dello stesso Matteucci.
Cinquant’anni dopo, un altro tipo di telegrafia faceva il suo ingresso tra i banchi del Senato. Nel 1903 Pietro Blaserna, fisico senatore, come relatore di un’apposita commissione, caldeggiava lo stanziamento di una somma per l’«impianto di una stazione radiotelegrafica ultrapotente» in grado di comunicare con un’analoga stazione in America Latina. I tempi erano giusti: poco più di un anno prima Guglielmo Marconi era riuscito a realizzare la prima trasmissione radio transoceanica, mostrando le enormi potenzialità della «telegrafia senza fili». Nobel per la Fisica nel 1909, Marconi sarà nominato senatore nel 1914 per aver «illustrata la Patria». Occorrerà attendere quasi un secolo, il 2013, per ritrovare in Senato un fisico, e un Nobel, con la medesima motivazione: Carlo Rubbia.
Anche dopo la Prima guerra mondiale l’attività legislativa dei fisici senatori è particolarmente significativa sul terreno della modernizzazione tecnologica del Paese. Ad esempio, nel 1920 il fisico Guglielmo Mengarini pone all’attenzione del Senato la necessità di dare nuovo impulso al processo di elettrificazione delle ferrovie, in connessione al problema della derivazione delle acque pubbliche per la produzione di energia elettrica a livello nazionale. Di questo si era occupato nel dopoguerra il fisico senatore Augusto Righi e successivamente, con grande successo, Orso Mario Corbino, come presidente del Consiglio Superiore delle Acque. Si tratta dello stesso Corbino, che pochi mesi dopo sarà nominato senatore, per diventare ministro della Pubblica Istruzione nel 1921 e ministro dell’Economia Nazionale nel 1923, e che, come direttore dell’Istituto Fisico di Roma, riuscirà a chiamare a Roma nel 1927 Enrico Fermi come professore di Fisica Teorica e a far nascere intorno a lui una nuova generazione di fisici.
Lasciamo ad altri il compito di capire fino in fondo se esempi come questi, nei quali le competenze scientifiche vanno ad arricchire le competenze di un’assemblea preposta al bene comune, possano essere di ispirazione per la revisione dell’architettura istituzionale. Noi comunque ci speriamo.
19 - continua

La Stampa TuttoScienze 14.5.14
La frontiera estrema: capire perché ogni cellula è diversa
di Marta Paterlini


Si chiama «single cell genomics»: è la genomica delle singole cellule. Un settore in espansione, per molti l’ultima frontiera, dove le tecnologie della genomica - l’analisi della sequenza dei nostri geni e della loro posizione sui cromosomi - vengono applicate a livello di ogni cellula, invece che a livello di un organo o di un intero essere vivente.
Ogni cellula - com’è noto - contiene la copia completa del Genoma di un organismo e, man mano che cresce e si divide, il suo Dna va incontro a una serie di mutazioni. A lungo si era pensato che gruppi di cellule simili tra loro avessero una variazione genomica limitata. Ma le ricerche dimostrano che anche le cellule che si presentano identiche possono avere mutazioni che le rendono diverse. Proprio queste trasformazioni possono giocare un ruolo cruciale nello stato di salute.
Tracciare modelli complessivi di cambiamento attraverso centinaia e migliaia di cellule, individualmente considerate, potrebbe quindi aiutare a fare chiarezza sui cambiamenti che avvengono nel Dna nell’arco del tempo, con conseguenze decisive: per esempio seguendo i cambiamenti genetici associati all’origine e al progredire di molte malattie.
Il flusso di lavoro per questi studi è complesso e i problemi non mancano: isolata la cellula, bisogna fare i conti con il suo esiguo Genoma. Questa, infatti, contiene solo una quantità minima di Dna, nell’ordine dei picogrammi, vale a dire un miliardesimo di grammo! Ecco perché, oggi, il fulcro della ricerca è lo sviluppo di metodologie capaci di amplificare il materiale genomico senza introdurre errori.
Ma, mentre la risoluzione delle differenze tra una cellula e l’altra aumenta, si carica anche di un nuovo malloppo di domande: quali sono gli stati funzionali delle cellule? Come interagisce ciascuna di loro per generare una funzione a livello del tessuto? «Uno degli aspetti più sorprendenti non sono tanto le differenze tra le cellule, ma come tessuti e organi lavorano in modo coerente nonostante queste differenze», ha spiegato su «Nature» Nicholas Navin, ricercatore della University of Texas.
Ecco perché le potenzialità della «single cell genomics» sono davvero promettenti. Un esempio è l’area del cervello dove risiede la memoria, il giro dentato dell’ippocampo: decifrare la relazione tra un neurone e l’altro e come crescano oppure capire come una cellula staminale pluripotente diventi una cellula specializzata (il neurone, appunto) avrà un fortissimo impatto sulla medicina rigenerativa. E non soltanto. Comprendere le differenze tra il Genoma di singole cellule all’interno dello stesso organismo darà indizi decisivi per studiare come evolve nel tempo un tumore.

Corriere 14.5.14
L’arroganza di chi non dorme nello studio che esalta il sonno
La ricerca: l’uomo pensa di poter ignorare millenni di evoluzione
di Antonio Pascale


«Quella umana è la specie sommamente arrogante» dicono gli scienziati britannici. Come mai? Perché pensa di poter ignorare millenni di evoluzione e vivere dormendo poco o nei momenti sbagliati. Ma non rispettare il naturale ritmo sonno-veglia può causare problemi di salute anche gravi.
Fermi: abbiamo un problema. Dormiamo poco. Motivo? Stress da eccesso di modernità. I costi dell’online perenne. La Bbc ha segnalato il problema (ha indetto uno specifico Day of the Body Clock , giorno dell’orologio biologico). Varie ricerche mostrano rapporti di correlazione tra mancanza di sonno e diverse patologie (cancro, malattie di cuore, diabete di tipo 2 e sensibilità a infezioni). Sì, questo è un problema. Poi ce n’è un altro, diciamo del secondo tipo: è in atto una particolare competizione tra uomini basata sulla mancanza di sonno. In giro trovi svariati tipi che si mostrano virili e sfoggiano citazioni più o meno colte: a) chi dorme non piglia pesci; b) ci sarà tempo di dormire nella tomba (Thomas Jefferson); c) agli uomini bastano 4 ore di sonno, alle donne 5, agli imbecilli 6 (Napoleone) e per finire d) dormire è da buoni a nulla (Margaret Thatcher). Sono quelle persone alle quali chiedi: ci prendiamo un caffè, tipo alle 8.30? E loro rispondono con un ghigno: 8,30? Per me è tardi. Alle 8,30 ho già corso 10 chilometri in villa per prepararmi alla prossima maratona, ingurgitato due litri d’acqua per reintrodurre i liquidi persi, bevuto due caffè e ora vado in palestra, prima del lavoro, naturalmente. E questo non è bello, sa di arroganza. Per inciso, sa di arroganza e non solo, pure di crudeltà, soprattutto se risposte simili hanno come bersaglio un insonne sofferente come me. Che come tutti i veri insonni ha un solo desiderio: dormire, sprofondare nel sonno, tumularsi sotto il piumone. A un insonne sofferente non gli puoi dire: approfitta, leggi! studia, lavora. E no, troppo facile: lui vuole solo dormire. Qual è il problema allora? L’esibita crudeltà, il vanto, appunto. Spesso i suddetti, cioè i felici insonni, ti incontrano a una festa, a una cena e ti dicono con orgoglio, spalle diritte e occhi che sprizzano energia: sono tre notti che non dormo, e sto benissimo! E via, corrono a ballare. E poi tornano e si muovono e straparlano, e tu gli vorresti dire: certo che se dormivi otto ore stanotte questa conversazione sarebbe stata più interessante, questa festa più divertente, il tuo ballo più entusiasmante. Attenzione: c’è da dire che gli insonni sofferenti sono capaci di prendersi delle squisite soddisfazioni. Siccome riconoscono i sintomi della mancanza di sonno, sono sempre allerta e s’accorgono del preciso momento nel quale gli arroganti insonni mostrano segni di crollo repentino. Leggeri movimenti della testa, gli occhi socchiusi, sbadigli coperti in ogni modo. E li lasciano fare, perché vogliono vedere l’effetto che fa. Sì, che piacere quando, dopo vari imbarazzanti dondolii del capo, gli insonni arroganti calano, come svenuti, la testa sul tavolo. O aprono l’anta di un armadio perché, confusi come sono, l’hanno scambiata per la porta del bagno. Che bello quando li chiami nel pomeriggio e ti rispondono con la voce alta, una nota più in su del tintinnio dei lampadari: tipico di chi, colto nel sonno, pur di non ammettere l’umana fragilità, cerca di darsi un tono di perenne efficienza, ed esagera: pronto!!! Allora gli chiedi: ma che, stavi dormendo? E che soddisfazione insistere: dimmi la verità, eri crollato? Queste scene attivano nell’insonne infelice, un vasto repertorio di piaceri.
E allora fermi: avrei una piccola idea, che potrebbe però sbloccare altre idee, più utili e grandi della mia: dormiamo. Dormiamo tutti come bambini, liberiamoci dai pensieri produttivi. No, non c’entra la decrescita e la slow life o food ecc., al contrario, per avere una vita gioiosa, viva e piena, dunque produttiva, efficiente, per farsi venire delle buone idee e migliorare questo mondo, per abbattere i costi, gli sprechi e aumentare i benefici, affinché l’indifferenza causata dal sonno non ci rapisca, il segreto è uno solo: dormire abbastanza. La società è complessa, sia le buone notizie sia i pericoli arrivano all’improvviso e se siamo tutti in piena attività, concentrati su un obiettivo poi gli occhi si fanno piccoli piccoli e perdiamo di vista l’insieme di riferimento. Dopo un sonno profondo, invece, si guarda il mondo con più apertura, da destra a sinistra, a 360 gradi e si vedono più cose di quanto noi stessi possiamo immaginare. Quindi ora invece di finire di scrivere o di leggere l’articolo — che dovrebbe ruotare attorno alle 4.600 battute — si potrebbe fare in questo modo: chiudere gli occhi per cercare di riscoprire le mille belle idee che di sicuro giacciono sepolte in noi, coperte da una coltre di mille attività tipiche della privazione del sonno, e di qualche dichiarazione di arroganza di troppo. Zzz...

Repubblica 14.5.14
Se la caravella di Colombo risorge dagli abissi di Haiti
L’annuncio del “cacciatore di velieri naufragati” Barry Clifford: “Quel relitto trovato nel Mar dei Caraibi è la Santa Maria”
di Enrico Franceschini



LONDRA. È UN impasto di alghe, legno e formazioni coralline che gli sono cresciute attorno per più di cinque secoli. Giace sepolto a centinaia di metri di profondità al largo di una costa sferzata da vento, tifoni e tempeste. Se non avessero saputo che cosa cercavano, i suoi scopritori non lo avrebbero nemmeno notato. Eppure i resti corrosi dal tempo del relitto identificato davanti all’isola caraibica di Haiti potrebbero essere «la nave che ha cambiato il mondo», come la chiama Barry Clifford, celebre cacciatore americano di velieri naufragati e capo della spedizione che in questi giorni ha annunciato di avere probabilmente ritrovato la Santa Maria, la più grande delle tre caravelle a bordo delle quali il 14 ottobre 1492 Cristoforo Colombo avvistò terra.
La storiografia politicamente corretta ha corretto la definizione insegnata un tempo a scuola secondo cui quell’atto fu la “scoperta dell’America”: non era l’America che il navigatore genovese credeva di avere “scoperto”, bensì un passaggio per le Indie Occidentali, e quasi certamente non fu davvero lui il primo a mettere piede nel nuovo continente, avendolo preceduto a occidente gli esploratori vichinghi e a oriente gli eschimesi attraverso lo stretto di Bering. Ma al suo avventuroso viaggio per mare viene
fatta risalire la consapevolezza che il nostro pianeta è rotondo; e quella data imparata a memoria da tutti i bambini segna l’avvento dell’era moderna, il momento in cui il mondo dell’antichità ha cominciato a correre verso il progresso, sebbene spesso tra sangue, soprusi e ingiustizie.
Per questo rinvenire la Santa Maria sarebbe «una delle più importanti scoperte sottomarine della storia», commentano gli esperti: la nave ammiraglia di Colombo rappresenta uno dei Sacri Graal dell’umanità, un’icona la cui forza simbolica ha pochi uguali nelle cronache delle ricerche archeologiche. Paradossalmente, come in quei “gialli” in cui si cerca l’assassino dappertutto per poi apprendere che non si era mosso dal luogo del delitto, la caravella potrebbe essere sempre stata lì dove era più logico cercarla. Si sapeva che nel suo primo viaggio attraverso l’Atlantico, dopo il «terra!» gridato dal marinaio Rodrigo de Triana (da bordo della Pinta, una delle altre due caravelle) alle 2 del mattino del fatidico giorno, Colombo sbarcò nell’isola di Bahamas, a Cuba e sulla costa settentrionale delle odierne Santo Domingo e Haiti. Qui, verso la mezzanotte di Natale del 1492, affidata a un mozzo perché il timoniere era stanco, la Santa Maria andò in secco.
L’ammiraglio fu svegliato e ben presto capì che bisognava abbandonare la nave. Sceso a terra con una lancia, Colombo fece costruire a poca distanza un forte dove lasciò una parte dell’equipaggio, facendo ritorno verso la Spagna con le rimanenti caravelle, la Nina e la Pinta. Delle quali in seguito si sono perse le tracce: la prima, dopo avere visitato le Americhe per ben tre volte, sparì nel 1501, della seconda non si sa più nulla da quando rientrò in patria dopo il primo viaggio.
Dai diari del navigatore era nota la costruzione del forte, ma non se ne conosceva l’esatta località. Scavi archeologici fatti dalla spedizione americana hanno recentemente permesso di individuarla. A quel punto sono state riesaminate le fotografie sottomarine di un relitto scattate dieci anni prima nelle vicinanze. Clifford ha inviato squadre di sommozzatori a fare altre riprese e a prendere misurazioni. E tutto di colpo secondo lui avrebbe combaciato: il fortino, la barriera corallina su cui la nave era andata a sbattere, le dimensioni e le caratteristiche del veliero. La prova forse decisiva, scrive l’ Independent di Londra, è stata scoprire un cannone esattamente del tipo che era a bordo della Santa Maria. Per avere la certezza, tuttavia, occorre recuperare la caravella o meglio il suo scheletro.
Permangono non pochi dubbi, come ricorda un’inchiesta del Pais: c’è chi crede addirittura che la caravella incagliata venne distrutta proprio per costruire il forte ed è difficile che ne sia rimasto alcunché. Ma se il cacciatore di naufragi americano dimostrerà di avere ragione l’imbarcazione verrà ripulita, restaurata e destinata a un museo ad Haiti, dove attirerebbe turisti da ogni angolo del globo per poter vedere la nave che «ha cambiato il mondo».

Repubblica 14.5.14
Dalle analisi di Kraus alle crisi attuali: parla Jonathan Franzen
“America detesto la tua ipocrisia”
di Antonio Monda


NEW YORK. Jonathan Franzen ha scoperto la «rabbia co- me stile di vita» a ventidue anni, grazie alla lettura delle opere di Karl Kraus. Oggi, a più di trent’anni di distanza, dedica allo scrittore austriaco Il progetto Kraus (Einaudi, con traduzioni di Claudio Groff e Silvia Pareschi), nel quale analizza le intuizioni folgoranti e la personalità tormentata di colui che fu soprannominato “il grande odiatore”. Commentandone alcuni saggi, Franzen riflette con toni apocalittici sul parallelismo tra l’impero austro-ungarico e l’America di oggi.
Ma sin dalle prime pagine il progetto assume una valenza personale: le proprie scelte, passioni ed idiosincrasie sono messe in parallelo con quelle dello scrittore che «passava molto tempo a leggere roba che odiava, in modo da poterla odiare con cognizione di causa». La «diffidenza di Kraus verso la melodia della vita» viene attualizzata da Franzen parlando di Amazon, della miopia di fronte a cambiamenti epocali e dell’impoverimento della cultura contemporanea. «Kraus ha rappresentato un punto di riferimento fondamentale nella mia formazione» mi spiega nel suo appartamento dell’Upper East Side, dove una chitarra e alcune sculture risaltano nell’arredamento scarno. «La sua influenza è evidente nel mio primo romanzo La ventisettesima città , ma per Kraus la letteratura era poesia ed epigramma. La rilettura mi ha consentito di ammirare alcuni elementi e distaccarmi da altri».
Kraus accusa la stampa di ipocrisia: «Il disonesto abbinamento degli ideali illuministi con l’incessante e ingegnosa ricerca di profitto e potere ».
«Kraus era un giornalista, e conosceva quel mondo alla perfezione. Negli Usa c’è stata per quasi cento anni un’idea responsabile di giornalismo, nella quale non erano esenti tuttavia interessi e pressioni di ogni tipo. È stato il New York Times a cercare di affermare questa idea rispetto alle testate di Hearst, simili a quelle che Kraus combatteva in Austria. Non possiamo dimenticare che c’è chi è andato in prigione per difendere la libertà di stampa, ma oggi prevale chi urla più forte. Si tende a pubblicare prima le notizie e poi a verificarle».
Lei in passato ha tradotto Wedekind: com’è nata questa passione per la cultura mitteleuropea?
«Da ragazzo ho studiato il tedesco e poi ho imparato ad amare quella cultura di quella regione europea. Ora ho in progetto di tradurre un classico di Kafka, sapendo che ogni traduzione è un’interpretazione».
Non le sembra una forzatura il parallelo tra impero asburgico e Stati Uniti?
«Il potere degli Stati Uniti è superiore a quanto sia mai stato quello dell’impero austro-ungarico. A me sembra che il momento glorioso dell’America sia alle nostre spalle e stiamo retrocedendo sia sul piano militare che economico. Kraus, che nasce in una cultura umanista, è allarmato dall’abbraccio della tecnologia, della quale vede gli elementi antiumanistici: un argomento estremamente attuale».
Era un benestante e pieno di privilegi: da dove nasceva la sua rabbia?
«Nella società in cui viveva c’erano molti motivi per cui essere infuriati, ma nel fondo della sua anima era arrabbiato proprio perché era privilegiato. È un sentimento che mi appartiene molto».
Lei si scaglia contro la “tirannia della gentilezza”.
«Detesto l’ipocrisia della bontà esibita, e l’invito alla semplificazione morale. L’America è piena di persone perbene che hanno contribuito a rendere il paese uno dei più odiati del mondo. Per rimanere in campo letterario, è assurdo che non si possa dire che un libro è brutto per rispettare il lavoro dell’autore. Quando rifiutai di essere scelto da Oprah Winfrey mi reso conto che molti la pensavano come me ma nessuno lo aveva detto esplicitamente, con l’aggravante che facevo uno sgarbo a una persona che è donna ed anche di colore. C’è una grande differenza tra la bontà e la correttezza politica».
Lei cita Nietzsche quando afferma che c’è una «mentalità da schiavo alla base del giudizio morale».
«In questo caso c’è la differenza tra morale e moralismo, tipico di chi criminalizza le persone che giudica.
Kraus scrisse a proposito di Hitler «non mi viene in mente nulla».
«Può apparire una battuta a effetto, ma è un giudizio tragico, avvalorato dalla chiarezza con cui predisse l’orrore del nazismo. Ebbe analoga lungimiranza con la prima guerra mondiale: fu l’unica voce autorevole ad opporsi, mentre tutti gli uomini di lettere si schieravano patriotticamente con l’impero».
Come mai detestava Freud?
«Nell’intimo c’era un dato personale: Freud era l’altra grande personalità viennese in grado di raccogliere accoliti che lo veneravano in modo quasi religioso. E diffidava sinceramente della psicoanalisi».
Ennio Flaiano la definiva «una pseudoscienza inventata da un ebreo per convincere i protestanti a comportarsi come cattolici».
«È una battuta divertente, che minimizza tuttavia il rapporto degli ebrei con il senso di colpa, aspetto che i cattolici vivono in maniera troppo intermittente. L’aspetto meno interessante di Freud è proprio il tentativo di essere scientifico, mentre quello più interessante è il modo in cui descrive cosa significa essere una persona divisa».
Lei si schiera con veemenza contro twitter.
«La gente tende a non leggere i testi, ma solo quello che è stato scritto sui testi, e questo è un grave impoverimento. Il link di 140 caratteri priva di responsabilità sia l’autore che il lettore. Mi spiace che alcuni scrittori che ammiro come Rushdie invece cedano a questa debolezza».
Non crede che twitter sia soltanto un mezzo e come tale un’opportunità?
«Negli anni Trenta sono state costruite centinaia di dighe che sembravano un mezzo sicuro per assicurare l’energia. Ora si è visto che non è così e abbattere quelle dighe costa decine di volte più della costruzione. Non voglio neanche fare l’esempio della corsa al nucleare: quanti Chernobyl e Fukushima dobbiamo aspettare? Non tutto quello che è possibile è anche giusto».
Non le sembra un atteggiamento conservatore?
«A me sembra di contrastare il trionfo del consumismo, in mano a chi ha interesse unicamente il profitto: rivendico il fatto di non essere affatto cool e di affermare che sono questi gli strumenti della vera conservazione ».

Repubblica 14.5.14
Quattro imperi dove il sole non tramonta
Turchia, Russia, Austria-Ungheria e Germania. Perché cent’anni dopo la Prima guerra mondiale sulla scena planetaria torna la più ambiziosa delle vocazioni
di Lucio Caracciolo



Ogni storia comincia dalla fine. Nessuna finisce mai, perché sempre siamo pronti a riscriverla. E sempre diversamente, a seconda del punto di vista, del contesto, dei gusti, delle ossessioni di ciascuno. Nulla di più vano di provare a dettarne la versione ultima, definitiva. Il presente rimodula continuamente il passato. Almeno quanto le nostre utopie, che poggiano ciò che dovrà essere sulla critica di ciò che fu. I “puri fatti”, gli eventi “così come sono effettivamente accaduti”, sono prodotti e riprodotti da quella fabbrica a ciclo continuo che è la storiografia. O la propaganda vestita da scienza.
Come stabilì E. H. Carr: «Lo storico migliore è quello dotato del miglior pregiudizio - non l’inesistente storico senza pregiudizi ». La storia resta materia viva, attualissimo strumento di potere. Per la propria idea di storia si combatte come per il proprio territorio. Talché la vigente dottrina strategica americana esalta la competizione per la narrative: i conflitti non si vincono sul campo, ma nella sfera immateriale della narrazione. Egemone è chi impone la propria versione dei fatti. In attesa che altri la sovvertano. La fine della storia può attendere.
Ripensare oggi la prima guerra mondiale, catastrofe originaria della nostra epoca, è quindi operazione eminentemente strategica. «Gli uomini del 1914 sono nostri contemporanei », conclude lo storico Christopher Clark nel suo Sonnambuli , originale perlustrazione dei meandri che sfociarono nel colpo di pistola di Sarajevo e nel nient’affatto ineluttabile suicidio dell’Europa. Segnato dal simultaneo crollo di quattro grandi imperi: turcoottomano, russo, austro-ungarico e tedesco. (…) A ben guardare, molte delle partite geopolitiche in corso possono configurarsi come guerre di successione - fredde, calde o tiepide - per l’egemonia nei territori evacuati dai quattro imperi europei. Due conflitti mondiali e una guerra fredda non hanno sciolto quei nodi. Nel 1918 come nel 1945 e nel 1991, la fine di una guerra venne spacciata come fine di tutte le guerre. Ma la formula magica per il governo dei grandi spazi attende il suo inventore. Sarà per questa ricorrente disillusione, sarà per l’inclinazione nostalgica che percorre ogni età di crisi: mai come oggi i quattro imperi, già certificati defunti, sono tornati di moda.
La Turchia del “sultano” Erdoðan vibra di neo-ottomania. Opportunamente miscelata alle vene panturanica e panislamica, l’ideologia imperial-califfale autorizza il leader turco a battezzare casa sua scelti spazi incastonati fra Adriatico e Turkestan orientale (Xinjiang). Dopo che Atatürk aveva inventato lo Stato nazionale turco sulle macerie del “grande malato d’Europa” e sull’epopea di Gallipoli (1915), oggi l’islamista Erdoðan si ostenta guardiano della Sublime Porta anche nelle condoglianze agli armeni vittime delle deportazioni e dei massacri compiuti cent’anni fa dalle truppe del sultano ai danni di centinaia di migliaia di loro antenati: «Gli incidenti ( sic) della prima guerra mondiale sono nostro comune dolore». I discutibili esiti della sovraesposizione neo-ottomana, specialmente in campo arabo, non sembrano aver intaccato l’aura di Erdoðan in patria, dove il premier serra le viti di un sistema personalistico e autocentrato.
La Russia dello “zar” Putin rivendica il passato imperiale: dopo lo sprezzante oblio sovietico per l’epopea del 1914-18 - prolungata in una guerra civile internazionale frequentata dalle potenze occidentali in chiave antibolscevica - il 1° agosto 2013 il Cremlino ne ha celebrato per la prima volta l’anniversario e ha promosso finalmente l’erezione di un mo- numento ai «quindici milioni di combattenti per la difesa della patria». Quella Russia imperiale, guidata dal “saggio e grande” Nicola II, avrebbe certamente vinto, se i comunisti non avessero rovesciato lo zar. Se Putin rifiuta il rango di sconfitto nella guerra fredda, cui Obama vorrebbe inchiodarlo, è perché si richiama all’impero dei Romanov, non al regime degli usurpatori bolscevichi, di cui gli ultranazionalisti al Cremlino e dintorni amano semmai marcare, senza simpatia, certe matrici ebraiche. L’Unione Sovietica è per Putin quel che il fascismo fu per Croce: una invasione degli hyksos. Parentesi da cancellare.
Quanto all’Austria-Ungheria, la sua leggenda è inscritta nella sua scomparsa. Nella trasfigurazione da baluardo della reazione vetero-continentale in progressivo modello di convivenza plurietnica. Tutta la Mitteleuropa oggi ne parla. Italia ex asburgica compresa. Non c’era bisogno di riscoprire Joseph Roth, con la sua Marcia di Radetzky , per resuscitare il mito della felix Austria, multiculturale, serena, pacifica.
Infine, la Germania. (…) Siamo nella terra del “passato che non passa” per eccellenza, come conferma l’ennesima ondata di germanofobia che sta attraversando l’Europa. La crisi dell’euro, moneta inventata da francesi e italiani per impedire alla Germania riunificata di dominare il continente, neanche fossimo tornati al 1913 - l’incubo di Mitterrand, e non solo - è interpretata a Berlino alla luce del 1923, l’anno dell’iperinflazione avviata con lo scoppio della guerra e incentivata dal trattato di Versailles, quando i prezzi raddoppiavano ogni quattro giorni. La paura dell’euro di carta straccia - che a noi mediterranei, asserite vittime della deflazione da austerità teutonica, appare paradossale - è figlia di quella memoria tramandata di bisnonno in bisnipote, se è vero che ancora oggi i tedeschi temono l’inflazione più del cancro. E la rinuncia al marco, concessione alle germanofobie europee, è descritta da alcuni intellettuali tedeschi come “seconda Versailles”: pedaggio ingiustamente pagato per sanare la riunificazione del 1990, percepita da alcuni vicini europei come prodromo del Quarto Reich. Tale era, e in parte resta, la visione dei teorici del “carattere nazionale tedesco”, ossia della vocazione aggressiva di un popolo postulato uguale a se stesso da Arminio ad Angela Merkel. Nient’altro che un’eterna colpa collettiva. Di cui la Grande guerra è testimonianza in quanto aggressione austro-tedesca alla pace europea.
Nel 1914, dire Europa era dire mondo, vista l’estensione degli imperi centrati sul Vecchio Continente. Nel 2014, il mondo sembra poter fare a meno dell’Europa. E anche molti europei parrebbero volerne fare a meno, chiudendosi in spazi angusti, apparentemente rassicuranti. No, la storia iniziata a Sarajevo non è finita.

l’Unità 14.5.14
Scelto per noi
Il film di oggi


Sulle orme di Ken Loach interni di famiglia con abisso
«Tirannosauro» (GB, 2011) Dopo la morte della moglie, che gli faceva da sponda e di cui era ruvidamente innamorato («tirannosauro» era il nomignolo che le aveva dato per la mole e l’incedere «rumoroso»), Joseph si è lasciato andare. Finché incontra Hannah e un percorso di riscatto sembrerebbe possibile... Sulle orme di Loach, Paddy Considine firma un film lucidissimo e aspro, con un protagonista all’altezza: Peter Mullan.
Ore 23,15 Rai Movie