giovedì 15 maggio 2014

il Fatto 15.5.14
Unità senza certezze Gli azionisti rinviano

ULTERIORE RINVIO. La decisione è stata quella di non decidere. E rinviare ulteriormente. Si è conclusa così l’assemblea degli azionisti dell’Unità che ieri avrebbe dovuto valutare se mantenere in vita o liquidare la casa editrice del giornale, la Nuova iniziativa editoriale (Nie). “Purtroppo”, spiega il Cdr, “la risposta non è arrivata. Oggi saremo riuniti in assemblea con il presidente della Federazione nazionale della stampa e decideremo cosa fare. La nostra valutazione sulla non decisione è negativa, faremo di tutto per mantenere viva l’attenzione sui destini del giornale. Non sono bastati i tre giorni di sciopero dai quali siamo usciti per arrivare a una risposta. Eppure gli azionisti avevano promesso che oggi sarebbe stato definito il percorso definitivo. Una promessa rimasta tale”.
Secondo i dati più recenti, da inizio 2013 fino al 31 luglio scorso sono state accumulate perdite per 2,1 milioni di euro, che si vanno ad aggiungere a quelle degli esercizi precedenti, superiori a 10,5 milioni di euro. In tutto quasi 12,7 milioni. A decidere le sorti aziendali dovrebbero essere i principali azionisti della Nie, in primo luogo il socio di maggioranza con il 51% del capitale Matteo Fago, il secondo socio Maurizio Mian e il patron di Tiscali, Renato Soru.
I PRECEDENTI RECENTI
l’Unità 13.5.14
Vertenza l'Unità
I poligrafici in sciopero

qui

il Fatto 12.5.14
L’Unità, mercoledì i soci vanno a consulto sulla liquidazione dell’editrice

Gli azionisti valuteranno se mantenere in vita o chiudere la Nie, la casa editrice del giornale, che da inizio 2012 al luglio scorso ha accumulato perdite per 12,7 milioni. Tra le ipotesi la costituzione di una nuova società che metterebbe a rischio i contratti di lavoro in essere
di Camillo Dimitri
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L’Huffington Post 9.5.14
L'Unità in crisi d'identità sciopera e chiede lumi e aiuto al Pd
di Carlo Patrignani

qui

l’Unità 8.5.14

COMUNICATO DEL CDR Il 14maggio è convocata un’assemblea straordinaria dei soci della Nuova Iniziativa Editoriale (Nie) editrice de l’Unità. Una società che sembra essere arrivata al suo capolinea, ultima tappa di un processo, che al di là delle buone intenzioni più volte predicate ma mai praticate, ha indebolito fortemente il giornale, facendo mancare un serio piano industriale che ne sostenesse lo spazio di mercato; spazio tutt’altro che residuale come dimostra il successo dei supplementi legati al 90esimo de l’Unità. La fine di una società non dev’essere la fine de l’Unità, della sua storia, del suo futuro, della comunità dei suoi lettori, delle lavoratrici e dei lavoratori che ne sono parte che oggi vedono negato anche il diritto alla retribuzione. Ai soci della Nie diciamo chiaramente che contrasteremo con tutte le nostre forze questa opera di dismissione che il 14maggio potrebbe avere un passaggio decisivo. Devastante. Il nostro nonè un appello. È l’annuncio di un’iniziativa di lotta che si articolerà su vari piani, politici, sindacali, legali. A chi proclama la sua vicinanza al giornale diciamo che non bastano, non ci bastano più generici attestati di solidarietà: le manifestazioni di impegno dalle parole devono trasformarsi in fatti. Oggi, non in un indefinito domani. Per queste ragioni i giornalisti de l’Unità proclamano due giornate di sciopero, per giovedì e venerdì 8 e 9 maggio.
Il Cdr
COMUNICATO DELL’AZIENDA La situazione economico-finanziaria dell’Azienda è di oggettiva difficoltà ed è necessario che tutte le parti coinvolte agiscano con il massimo senso di responsabilità. L’assemblea straordinaria dei soci è stata convocata proprio con l’obiettivo di ottenere indicazioni chiare e definitive sul percorso da seguire.
L’Azienda

il Fatto 8.5.14
L’unità sciopera 2 giorni
Matteo ha un problema
 
Due giorni di sciopero già fissati per domani e dopodomani, e una assemblea straordinaria dei soci, il 14 del mese, che preoccupa i sessantacinque lavoratori del giornale fondato da Antonio Gramsci. All’ordine del giorno, tra le ipotesi al vaglio, c’è anche la liquidazione della Nie, la società editrice che ha contribuito a far tornare il quotidiano in edicola nel marzo del 2001. Tanto che il cdr del giornale scrive nel proprio comunicato di ieri: “La fine di una società non dev’essere la fine de l’Unità, della sua storia, del suo futuro, della comunità dei suoi lettori, delle lavoratrici e dei lavoratori che ne sono parte che oggi vedono negato anche il diritto alla retribuzione. Ai soci della Nie diciamo chiaramente che contrasteremo con tutte le nostre forze questa opera di dismissione che il 14 maggio potrebbe avere un passaggio decisivo. Devastante” . Che farà il segretario del Pd Matteo Renzi con lo storico giornale del partito? Per adesso in agenda sono fissati incontri con il reggente del Nazareno Lorenzo Guerini e con il tesoriere Francesco Bonifazi. “A chi proclama la sua vicinanza al giornale - chiedono i rappresentanti sindacali de l’Unità - diciamo che non bastano, non ci bastano più generici attestati di solidarietà: le manifestazioni di impegno dalle parole devono trasformarsi in fatti”.

Prima on line 7.5.14
Sciopero all’Unità domani e venerdì. La Nie replica: “Bisogna agire con responsabilità”
qui
Strage della miniera, la Turchia in rivolta
Oggi sciopero generale in tutto il Paese
La Stampa 15.5.14
Quel grido: “Assassino”
La miniera restituisce solo cadaveri E scoppia la rivolta contro Erdogan
Le vittime sono 274, nei cunicoli restano 120 operai: poche le speranze di recuperarli. Urla contro il premier: “Assassino”. E lui fugge in un negozio. Scontri a Istanbul
di Francesca Paci


La campana a morto ha il suono della carrucola che cigola risalendo in superficie e poi si blocca di colpo azzittendo i pochi deboli bisbigli. 
Fuori nel tanfo nauseabondo che sa di plastica bruciata gruppi di donne senza età con il fazzoletto fiorato in testa e la mano davanti alla bocca aspettano mariti, figli e fratelli accovacciate sulle barriere metalliche deformate dal fuoco. La miniera di Soma, l’inferno a 300 chilometri a Sud-Ovest di Istanbul in direzione delle vestigia dell’antica Pergamo, apre ancora una volta la porta scorrevole per far uscire i soccorritori con un lungo sacco scuro tra le braccia. 
L’ennesimo. In mezz’ora ne escono quattro. 
«Dopo i pochi fortunati sopravvissuti venuti fuori martedì con la maschera a ossigeno abbiamo contato solo cadaveri» racconta l’agente Zeikeira. Non conosce i numeri, dice, non ne vuole parlare. Le autorità stimano 274 vittime. Ma non si capisce quanti siano gli uomini intrappolati dentro, nell’enorme tomba gonfia di monossido di carbonio a tremila metri di profondità. Potrebbero essere 120. 
Tacciono i volontari, tace la protezione civile, tacciono i familiari senza speranza. L’unico momento in cui il popolo muto accampato in questa vallata di sassi e polvere gialla ha rotto il silenzio del lutto è stato ieri mattina quando il premier Erdogan ha oltrepassato le due torrette rosa con la scritta «Dikkat», attenzione, che segnano l’inizio della zona generalmente riservata agli addetti ai lavori. Da due giorni non ci sono più barriere qui, tra le ambulanze e i camion dei vigili del fuoco. Il messaggio che Erdogan voleva recapitare alla gente della miniera è stato rimandato al mittente con un’eco sinistra sottolineata dallo sferragliare della carrucola. «Vogliamo la verità, vogliamo le cifre, vogliamo sapere quanti lavoravano al nero, assassino, ladro» hanno gridato i tanti in attesa di un nome da piangere mentre la scorta faceva quadrato fino a dover proteggere l’automobile da calci e pugni Erdogan, si rifugiava in un negozio. 
Un urlo che è rimbalzato fino a Istanbul e Ankara dove nel pomeriggio i ragazzi, gli eredi di Taksim, hanno invaso la metropolitana e le piazze per protestare contro la gestione dell’incidente, ma soprattutto contro il governo reo di aver più volte lodato la sicurezza della «miniera modello» nella regione in cui il partito del premier pesca voti a man bassa. Un pretesto forse, la miccia di una bomba carica da mesi ed esplosa ieri con pesanti scontri. 
«Ci sono quattro porte per entrare nella miniera, sono appena tornato dalla prima, ho trovato corpi sopra corpi, non potevo vedere i volti perché i soccorritori ufficiali ce li passano già coperti ma sono tutti giovani, hanno i piedi molto piccoli». La voce di Mahmoud Yasar è rauca, si respira malissimo là dentro dove il veleno ha ucciso alla velocità in cui l’incendio divampava tra i tunnel angusti. Ha 22 anni, studia ingegneria a Smirne, martedì si è precipitato qui con un gruppo di amici per dare una mano. Ci sono centinaia di volontari in questo altopiano artificiale disegnato a ridosso dei campi di cocomeri che circondano Soma, 70 mila anime votate al miracolo economico della Turchia occidentale tra le pale eoliche orgoglio delle provincia, la mega centrale termica con le ciminiere che sfidano i minareti delle moschee e la miniera. Mahmoud e il coetaneo Gokhan sono tra i pochi a voler spendere qualche parola mangiando yogurt e riso distribuiti dalla Mezzaluna Rossa: «I media turchi cercano di indorare la pillola, oltre la prima porta ci saranno almeno 380 cadaveri e si sta ancora cercando di arrivare alla quarta, dove il fumo del fuoco appena spento non consente l’accesso ma dove sappiamo che c’erano decine di operai». 
Yazmine scuote la testa. Non fiata, non piange. Il suo ragazzo aveva cominciato a lavorare in miniera da poco, un aiuto prezioso per la famiglia contadina che campa vendendo olive verdi come quelle in bella mostra sui banchetti che si incontrano lungo la strada tra Smirne e Soma. «Yazmine resta qui fin quando non la chiamano dall’ospedale per dirle che è finita e che il suo Haymi non c’è più» sintetizza una cugina spigando l’attesa vuota come lo sguardo della donna. I sacchi che risalgono dalle viscere della terra vengono portati all’ospedale e poi nel grande capannone di Kirkagag solitamente utilizzato per la raccolta dei cocomeri e oggi adibito a camera mortuaria. È lì che i medici comunicano alle famiglie i nomi delle vittime, è lì che in serata la quarantenne Esmahan giace a terra battendo testa e mani sulla strada appena attraversata dal cadavere del marito, è lì che il sindacalista Serkam raccoglie il malcontento e giura che «questa sarà la fine di Erdogan». 
La strada tra l’ospedale e la miniera è una lunga via crucis. Due ambulanze risalgono piene tra le curve a gomito pian piano illuminate più solo dalla luna e altre due ne scendono vuote, macabra staffetta fino alla fine del mondo. Bilal, insieme a quattro compagni, consegna il suo carico agli infermieri, si toglie la mascherina, ha il volto sporco di fumo nero, la barba impastata di polvere e sudore, gli occhi arrossati. «Sono morti avvelenati, hanno capito che soffocavano e che non ce l’avrebbero fatta, i cunicoli sono strettissimi e l’aria a disposizione di questi poveracci è durata pochissimo» mormora quasi a se stesso. Un ragazzo accanto a lui si toglie l’elmetto e si raccomanda ad Allah. I minatori cileni rimasti intrappolati nel sottosuolo di Copiapó l’estate scorsa hanno raccontato di essersi salvati mantenendo la calma e pregando. A Soma la preghiera si è strozzata in gola. 

Repubblica 15.5.14
In miniera centinaia di sepolti vivi Turchia in piazza “Erdogan assassino”
di Marco Ansaldo



SOMA. ADESSO è solo buio, e odore di morte a Soma, nella miniera maledetta che ha inghiottito centinaia di vite, mentre le fotoelettriche, disperatamente, vagano cercando uno squarcio dove salga una voce umana .
DAVANTI alla Galleria Madre, la numero 1, le pompe elettriche tremano quando tentano di soffiare aria sottoterra. Intorno, una folla di familiari muta assiste alle operazioni di salvataggio. Ogni tanto un grido scuote l’atmosfera. «Fatemelo vedere!». Per lo più è il pianto di una madre, di una sorella, quando i corpi senza vita, 274 finora, riemergono portati a spalla dai loro compagni, come in un dagherrotipo d’altri tempi. Solo di rado l’urlo si trasforma in un grido liberatorio, quando qualcuno di quei corpi si muove ancora, scuotendo il petto nel tentativo convulso di respirare tutta l’aria mancata là dentro.
«Erdogan premier ladro, dimettiti ». «Stato assassino!» . Parte anche l’insulto più grave, in Turchia, dove la Repubblica e le istituzioni, considerate quasi sacre, vengono prima di tutto, anche prima dell’individuo. Ma questa volta il governo non sembra avere difese. Solo due settimane fa, al Parlamento di Ankara, un deputato dell’opposizione socialdemocratica, Ozgur Ozel, sceso tra i banchi con un casco giallo simile a quello dei minatori, aveva sollevato il problema di Soma, della sua sicurezza, dei tanti siti dove la morte in Turchia è di casa visto l’alta incidenza di vittime: più dell’8 per cento tra i lavoratori delle miniere. E il partito di governo, quello conservatore islamico guidato dall’uomo che sempre più è il signore e il padrone del Paese, Recep Tayyip Erdogan, lo aveva irriso respingendo la mozione presentata anche da curdi e nazionalisti sulle tante Soma che popolano la Turchia. «La miniera è sicura» hanno decretato i suoi fedelissimi, certi dell'impunità.
Quei caschi gialli, quegli stivali dello stesso colore, sporcati dal carbone che intride la terra di questa piccola città a 140 chilometri da Smirne, e a poche decine dal sito turistico di Pergamo, segnano l’andirivieni continuo dei minatori che salgono e scendono come formiche caricandosi i colleghi sulla schiena. Alla galleria 2 e 3 ci sono uomini grandi e grossi, i giacconi di pelle indosso, che piangono in ginocchio mettendo le mani a coprire gli occhi. Poche ore fa hanno estratto il corpo di un ragazzo di 15 anni, Kemal Yildiz, uno dei tanti lavoratori assoldati in “nero”, mentre le associazioni dei sindacati urlano nei megafoni il loro dolore e cifre da vergogna: 5000 vittime nel 2013, il 19% dei quali all’interno delle miniere, Turchia primo paese europeo per incidenti sul lavoro e terzo a livello globale. Il quindicenne Kemal è stato strappato alla miniera nel cuore della notte dai soccorritori. Era poco più che un bambino. Lo ha riconosciuto uno zio. «Non ho nulla da dire», ha mormorato distrutto dal dolore, in mezzo alla folla indistinta di familiari in ansia.
Soma in greco significa corpo. E la lotta contro il tempo per restituire a questa città dalle influenze elleniche quanti più corpi possibili in vita dura fino al mattino. Più di 120 persone restano intrappolate nelle gallerie a cinquanta metri sotto terra. «Difficile riuscire a salvare ancora qualcuno», dice un uomo mentre si passa il dorso della mano sulla fronte per togliersi una macchia di carbone. Sono morti tutti per avvelenamento da monossido e biossido di carbonio, quando l’esplosione per un trasformatore elettrico difettoso è partita martedì pomeriggio, 2 chilometri più in giù.
Quando finalmente il volto teso del primo ministro compare sulla spianata del disastro, la gente di Soma sembra scuotersi dal torpore e c’è chi si lancia sulla sua auto prendendola a calci: «Ladro». «Assassino». «Dimettiti». Una scena mai vista in Turchia. Erdogan, spaventato e coperto dalle guardie del corpo, si è dovuto rifugiare in un supermercato. Questo il suo commento: «Gli incidenti sono un fatto normale. C’è qualcosa in letteratura che si chiama incidente sul lavoro. È qualcosa che può accadere. Ma le dimensioni di questo incidente ci hanno profondamente colpito. Quello che è successo qui è causa di una violenza dovuta a facinorosi ». I suoi gorilla sono andati sul pesante nel tentativo di difendere l'incolumità del leader: hanno preso a pugni il parente di una vittima e lo hanno gettato a terra, come mostravano alcune immagini che hanno sollevato lo sdegno di molti cittadini.
Oggi sarà la volta del capo dello Stato, Abdullah Gul, arrivare a Soma dopo aver cancellato il suo viaggio in Cina. E sarà interessante misurare la reazione della gente, a poco più di due mesi dalle presidenziali di agosto a cui entrambi i leader islamici aspirano a presentarsi. Gli uomini di governo, però, sono adesso sotto tiro. «È il più grave incidente di questo genere mai accaduto in Turchia », ha dovuto ammettere il ministro dell’Energia, Tamer Yildiz, che qualche tempo fa aveva osannato l’efficienza e la sicurezza del comparto minerario di Soma.
Ieri cinquemila giovani si sono diretti minacciosamente verso la sede del suo dicastero, ad Ankara, scontrandosi a lungo, nella notte, con la polizia che ai lanci di sassi e di petardi ha opposto lacrimogeni e cannoni ad acqua. Una protesta che rischia di divampare in tutto il Paese. Il governo ha decretato tre giorni di lutto nazionale per onorare le vittime, con tutte le bandiere sugli edifici pubblici esposte a mezz’asta. Il sito della società proprietaria della miniera, la Soma Coal Mining Company, assalito dalle proteste, è stato chiuso. Sullo schermo è apparsa solo una nota della ditta, che parla di un «triste incidente» e garantisce che la società aveva preso «le massime precauzioni, continuamente monitorate». Sotto accusa i profitti delle società che hanno rilevato le miniere dopo la privatizzazione. Il quotidiano Hurriyet ha poi rispolverato un’intervista del 2012 di Ali Gurkan, proprietario della Soma Mining, che spiegava come il costo della tonnellata di carbone fosse sceso da 130 a 24 dollari dopo la privatizzazione, grazie alla drastica riduzione del costo del lavoro. Due settimane fa annunciando in Parlamento il “no” dell’Akp, il partito conservatore islamico da 12 anni al governo, all’inchiesta sulla sicurezza di Soma il deputato Muzaffer Yurttas, ricorda ancora Hurriyet , aveva detto che «se Dio vuole» nella miniera non sarebbe successo nulla: «Nemmeno sangue dal naso».
Per oggi i sindacati hanno proclamato una giornata di sciopero. Chi vorrà sfilerà in abiti neri per ricordare i minatori scomparsi. I quotidiani sono usciti con le testate listate a lutto. Fiocchi neri sono comparsi sullo sfondo dei programmi televisivi. Bandiere rosse con la mezzaluna e la stella sono visibili ovunque. Anche Papa Francesco ha pregato «per la miniera in Turchia, e per quanti vi si trovano intrappolati nelle gallerie ». A Soma scende la notte, quando non c’è quasi più speranza di trovare qualcuno in vita. Oggi sarà un altro giorno di pianto. La gente torna a pestare i mucchi di carbone per vedere meglio la galleria della morte, sfila per coprire i suoi morti con coperte scure, mastica in silenzio dolore e maledizioni.

Repubblica 15.5.14
Ragazzi sdraiati per terra il ritorno di Gezi Park
di M. Ans.


SOMA . Decine di ragazzi per terra, in silenzio, sdraiati: lungo i binari, sui vagoni, nei corridoi della metropolitana di Istanbul. Una protesta simbolo. Come una pièce teatrale. Come l’inizio della rivolta di Gezi Park, proprio un anno fa, il 28 maggio, contro la costruzione di un grande centro commerciale al posto dei 600 alberi del giardino vicino alla centralissima Piazza Taksim.
Identificandosi con i minatori crollati a terra nelle gallerie invase dal monossido di carbonio, i giovani turchi stufi dell’arroganza e dei personalismi del premier Recep Tayyip Erdogan hanno idealmente saldato la loro protesta con quella del Parco Gezi.
In molte città, in tutta la Turchia, la gente si è seduta per strada con accanto un casco giallo da minatore. Un anno fa era la protesta dell’“Uomo in piedi”, di fronte al ritratto di Ataturk, il padre della patria, fondatore della Turchia moderna. Poi la sfida della gente sui marciapiedi, con i libri in mano. Oggi la nuova trovata: sdraiati sul metro.
Mentre nelle gallerie della miniera di Soma ancora invase da fiamme e fumo continua febbrile il lavoro di centinaia di soccorritori, in una disperata corsa contro il tempo, cresce ovunque la rabbia per un disastro in qualche modo annunciato. Ad Ankara ci sono scontri fra polizia e manifestanti. E l’indignazione monta sulle reti sociali. Fra gli hashtag più popolari su Twitter c’è: @NotAccidentButMurder (@NonIncidente MaOmicidio). «È il peggiore omicidio di lavoro della storia di questo Paese», denuncia infatti Cetin Uygur, già leader del sindacato dei minatori turchi Maden Is.
Così oggi i siti ricordano altrettanto impietosamente, ma con puntualità, le parole pronunciate dal premier Erdogan nel 2010, quando aveva scatenato una valanga di critiche affermando, dopo un incidente in una miniera, che i minatori erano «morti beatamente» e che la morte è «il destino» di chi fa quel mestiere.
Ricordando quelle dichiarazioni, ieri un gruppo di manifestanti ha protestato a Istanbul di fronte alla sede della società che gestisce la miniera di Soma, esibendo cartelli con la scritta «Non sono morti beatamente: questo è un omicidio, non è il destino».

il Fatto 15.5.14
L’ecatombe dei minatori di Soma scatena la rabbia dei giovani turchi contro Erdogan
di Al. Sch.


La strage nella miniera di Soma è il più grave incidente sul lavoro della storia della Turchia. Ieri in tarda serata erano già 274 i cadaveri accertati, cui si aggiungono i 120 minatori ancora intrappolati 150 metri sotto terra, con pochissime possibilità di venire tratti in salvo. Secondo le prime ricostruzioni, il disastro, avvenuto nel tardo pomeriggio di martedì, è stato provocato dall’esplosione di un trasformatore che ha provocato un incendio e un cortocircuito elettrico. Gli ascensori, l’unica via di fuga, si sono bloccati, e la miniera è diventata una camera a gas piena di monossido di carbonio. Gli sforzi delle squadre di soccorritori, che hanno tentato di pompare ossigeno dentro la miniera, si sono rivelati insufficienti.
Quest’ecatombe ha già un volto simbolo: è quello di Kemal Yildiz, il più giovane dei minatori morti nel disastro. Si guadagnava da vivere estraendo carbone, ma aveva solo 15 anni. La stessa età di un altro volto simbolo, quello di Berkin Elvan, il ragazzino ucciso negli scontri di Gezi Park. E anche la miniera di Soma, come il progetto per la distruzione del parco di Istanbul, è stata l’occasione per una rivolta popolare che ha preso di mira il primo ministro turco, Recep Tayyp Erdogan. Lo scorso 29 aprile, il suo governo si era opposto alla richiesta, proveniente dall’opposizione, di un’inchiesta parlamentare sulle condizioni di lavoro a Soma. Ieri il premier ha peggiorato ulteriormente la situazione in conferenza stampa, quando ha dichiarato che i disastri in miniera avvengono in ogni angolo del mondo. È stata la scintilla che ha dato il la alle proteste. Prima la sua auto è stata presa a calci da alcuni manifestanti. Poi, nel pomeriggio, la folla l’ha costretto a rifugiarsi in un supermercato. Intanto, di fuori, la sua scorta picchiava quello che, secondo le ricostruzioni dei social network, sarebbe stato il genitore di un minatore. Migliaia di persone sono scese in piazza a protestare a Istanbul, e anche ad Ankara la polizia ha usato lacrimogeni e idranti per contrastare i manifestanti. Per oggi è in programma uno sciopero in tutto il Paese e sono stati indetti tre giorni di lutto nazionale.

Il Sole 15.5.14
Vicino alle coste del turismo. Nel Paese record di incidenti sul lavoro
Turchia, la tragedia svela il lato oscuro del boom
di Alberto Negri


C'è sempre un Terzo Mondo che scava nelle viscere della terra: una volta eravamo noi italiani i sepolti vivi, come ricorda la tragedia del 1956 a Marcinelle in Belgio (262 morti, 135 italiani), adesso i volti dei minatori sono turchi, cileni, cinesi, africani. La tragedia nella miniera turca di Soma, a 120 chilometri da Smirne - 240 morti e un centinaio di persone intrappolate - è avvenuta non lontano dalle coste del turismo, del boom dell'export, della crescita del Pil, un'affermazione salutata dall'ascesa della Turchia al 16° posto tra le economie mondiali.
Ma questa Turchia affluente ha anche un altro triste primato, è il Paese d'Europa con il maggior numero di incidenti sul lavoro. Nel '92 263 minatori morirono in un'esplosione sul Mar Nero e negli ultimi 30 anni le vittime nelle miniere sono state almeno 700. L'anno scorso ne sono morti 93 e a novembre 300 minatori - imitando quelli del Sulcis - si erano rinchiusi con l'esplosivo in fondo alla miniera di Zonguldak per protestare contro misure di sicurezza insufficienti. Due settimane fa il partito di opposizione Chp aveva proposto in Parlamento un'inchiesta sulla sicurezza proprio nella miniera di Soma: iniziativa sonoramente bocciata dal partito di governo Akp.
Questa morìa endemica è accettata con un colpevole fatalismo: lo stesso primo ministro Erdogan nel 2010, in seguito a un incidente, affermò che i minatori erano «morti beatamente», aggiungendo che questo è «il destino» di chi fa quel mestiere. La frase allora suscitò un'ondata di polemiche e oggi è destinata a risollevarle perché Erdogan, dopo la svolta autoritaria imboccata a Gezi Park, non perde occasione per distinguersi con dichiarazioni imbarazzanti.
La tragedia di Soma appare destinata ad avere una rilevanza politica, come dimostrano ieri le manifestazioni di protesta a Istanbul, Ankara e le contestazioni al premier durante la visita alla miniera. È forse in arrivo un'altra ondata di malcontento per Erdogan che dopo il trionfo alle amministrative punta a vincere le presidenziali: può contare su solide maggioranze e un potere di seduzione che ha esercitato per anni nei confronti delle élite economiche attratte dai suoi innegabili successi.
Ma c'è qualche cosa di più delle cifre nude e crude che proietta ombre sul modello di sviluppo turco, non troppo dissimile da altre potenze in ascesa come la Cina, che ha il record mondiale di produzione di carbone e di morti nelle miniere. La protesta contro i progetti di centro commerciale e moschea a piazza Taksim è stata indicativa dei limiti di questo modello: tra cantieri e colate di cemento all'orizzonte del Bosforo, la società civile lamenta le gravi conseguenze di un liberismo selvaggio.
Per molti turchi questo boom edilizio sfrenato non è un segno di progresso: i frequenti terremoti sgretolano labili edifici di sabbia costruiti sull'onda della speculazione senza seguire le regole anti-sismiche e neppure quelle urbanistiche più elementari. E ora è arrivata la strage di Soma, «di coloro - come Luciano Bianciardi descriveva 60 anni fa i minatori maremmani - che scavano nell'acqua gelida con le gambe succhiate dalle sanguisughe, di coloro che a centinaia di metri di profondità consumano i polmoni respirando silicio e vampate di grisou». C'è una Turchia agra e amara, dimenticata o sfregiata dal miracolo economico: anche a Erdogan conviene riconoscerla e occuparsene.

Repubblica 15.5.14
Migranti, le foto mai viste dei morti in fondo al mare
di Attilio Bolzoni


GUARDATE cosa c’è oltre le nostre parole, i nostri articoli, le storie che raccontiamo ogni volta che s’inabissa un barcone. Guardate questi corpi che si abbracciano, in fondo al mare. È tutto quello che resta di loro. Corpi.
I corpi abbracciati dei migranti vittime della strage del 3 ottobre in Sicilia
SU UNO sfondo azzurro, bello, dove intorno sembrano nuotare anche i pesci o forse sono solo piccole boe trascinate giù dalle correnti.
Guardate e poi ripensate alle parole: naufragio, migranti, Mediterraneo. Scivolano così velocemente che neanche ce ne accorgiamo, le ripetiamo o le scriviamo sempre il giorno dopo, un reportage, un titolo, un numero - 120, 285, 366 - che riferisce la portata della «tragedia». È un’altra di quelle parole: tragedia, tragedia del mare. Ci siamo abituati, siamo addestrati a riportare con dovizia di particolari le dinamiche degli affondamenti, ogni dettaglio curioso, ci siamo specializzati nel ricostruire le vite degli altri che non ci sono più.
Khaled del Marocco che ha perso il figlio al largo di Zarzis, Samir che si è salvato fra Cala Creta e Cala Croce, la ragazza somala senza nome che ha partorito mentre moriva a poche miglia da Porto Empedocle. È diventata la nostra normalità, siamo noi l’Italia che ha imparato tutto sui migranti che affogano e su come affogano, sappiamo da dove vengono e dove vogliono arrivare, quali sono i loro sogni, cosa hanno lasciato. Sappiamo tutto di loro. In molti proviamo pietà, alcuni provano o dicono di provare fastidio. In molti soffriamo, altri s’incazzano perché sono morti qui, proprio qui da noi, in quell’Italia che non li vorrebbe mai né vivi e né morti. Politicamente corretti e politicamente scorretti, pregiudizi, ideologie, razzismi, stupidità che diventa malvagità. E c’è chi prega, chi dichiara, c’è chi promette e chi minaccia.
Ma li avete visti, li avete visti davvero questi corpi?
Guardateli da vicino per favore, guardateli e diteci se abbiamo visto bene anche noi, diteci se c’è un uomo che stringe con le sue braccia una donna, se ci sono due neri stesi sulla sabbia - chissà a quale profondità - che sembrano dormire, se c’è un ragazzo a testa in giù e a piedi in su che cerca disperatamente un appiglio per resistere un altro secondo, se c’è una ragazza che non ha volto ma una cintura che luccica anche in fondo al mare. Sembra in posa, come una modella. Una modella morta.
Non avrei mai immaginato di ritrovarli così, quelli di cui tanto ho scritto in questi ultimi quindici anni senza sapere nulla e tutto di loro, dei loro viaggi, delle loro paure. Non avrei mai immaginato di ritrovarmeli davanti agli occhi incastrati a prua o a poppa, immobili come manichini, come se stessero ostentando la loro naturale morte. Sì, si può ostentare anche la morte per coloro che sanno di morire, che stanno morendo senza una patria che li ricordi o una famiglia che li pianga, senza una tomba dove riposare e con le scarpe ai piedi.
È quello che gridano nel loro silenzio gli uomini e le donne di queste foto, è quello che gridano questi corpi.
Non l’avrei mai immaginato. Nemmeno quando la domenica del 15 settembre del 2002 stavo su un gommone di fronte alla spiaggia di Realmonte e i sommozzatori sollevavano i cadaveri degli etiopi rimasti intrappolati sul loro barcone, a mezzo miglio dalla costa, davanti allo scoglio degli “ziti”, gli innamorati. I cadaveri - erano decine - li vedevo issare a bordo eppure mi sembrava “logico”, normale anche quello: erano annegati, morti per asfissia. Un vigile gridava: «Tira, Rosario tira». L’altro tirava e una volta risaliva una ragazzina nuda, un’altra volta un vecchio o un bambino riccio. Più di loro, inanimati, già rigidi, più della loro morte mi aveva colpito cosa custodivano nelle tasche dei giubbotti: bacche. Si nutrivano solo di bacche mentre attraversano il grande mare. Ma non riuscivo a vederli, a immaginarli giù, quando erano ancora sotto. Dove erano morti. Non riuscivo a capire come erano morti e come avevano scelto di morire, in quale posizione, da soli, vicini a qualcuno o lontano da tutti.
Non l’ho immaginato neanche il 4 ottobre scorso, la mattina dopo che avevano trasportato questi stessi corpi che vediamo adesso nelle foto nel grande hangar dell’aeroporto di Lampedusa, una morgue sterminata dove mi sono aggirato come in trance fra bare ancora vuote, teloni rigonfi di cadaveri, necrofori. I morti sembravano manichini che imploravano, che maledivano noi che eravamo ancora vivi. Ogni tanto scorgevo un seno che spuntava da un telone, un gomito, un ginocchio, un piede, una scarpa. Ma non avevo capito nemmeno quella volta. Non avevo capito come si muore in mare. Prima, quando si muore davvero. Quando finisce la vita. Quell’istante.
Delle tragedie, dei naufragi nel “cimitero Mediterraneo” ecco cosa ci consegnano queste fotografie crude della Guardia Costiera: loro, solo loro. Con gli ultimi gesti d’amore o di terrore, con quei fogli che spuntano dai jeans - quanti ne abbiamo visti, pieni di numeri di telefono, di nomi, di indirizzi in Germania o in Francia, amici, parenti, passeurs e trafficanti di uomini - con le loro magliette a righe o a torso nudo, con le braccia strette sotto la pancia o allargate a più non posso e le unghie che scavano nella sabbia.
È tutto quello che ci rimane dei migranti che arrivano. Forse intuiamo come hanno voluto morire quando sapevano che sarebbero sicuramente morti, scegliendo un legno al quale aggrapparsi o abbandonandosi sul fondo, tutti in qualche modo composti, dignitosi nell’offrirci la loro fine.
Cosa dovremo allora scrivere la prossima volta? Quali parole e quali aggettivi dovremo usare per rappresentare la loro morte? Cosa dovremmo dirci più di quanto questi corpi ci stanno dicendo?

Corriere 15.5.14
Bloccare all’origine la rotta di Lampedusa
di Aldo Cazzullo


Le drammatiche testimonianze degli uomini dello Stato impegnati nell’operazione Mare Nostrum non possono essere ignorate. I marinai che lunedì scorso hanno salvato 240 naufraghi — e recuperato almeno 17 salme — raccontano una situazione insostenibile. Basta ascoltare la denuncia dell’elicotterista Vincenzo Romano, raccolta sul Corriere da Andrea Pasqualetto: «Qui è un inferno, bisogna esserci per rendersene conto. È un inferno di proporzioni enormi che solo chi fa il nostro lavoro può capire».
Non è possibile fare come se tutto questo non stia accadendo. Lampedusa è al centro di una vera e propria crisi internazionale. Che va affrontata e risolta. Invece finora la reazione prevalente è l’ipocrisia. Salviamo i migranti dal mare e lasciamo che spariscano, verso il cuore di un’Europa pilatesca che si disinteressa di quel che avviene nel Canale di Sicilia e nel luogo dove la crisi ha origine: la sponda africana e mediorientale del Mediterraneo.
Salvare i naufraghi è un dovere. Ma non basta. Bisogna chiudere la rotta di Lampedusa. Invocare la povertà dei migranti non è sufficiente. La carità va sempre praticata. Ma la dignità non è un valore meno importante. Il divario tra Nord e Sud del mondo non si colma salendo su un barcone, mettendo la propria vita e quella dei propri cari nelle mani degli scafisti, cioè di mercanti di carne umana, e affidandosi ai capricci del caso e ai cavilli del diritto, per cui approdare in un lembo di terra vicino alle coste africane dà accesso al mondo che va dalla Sicilia alla Scandinavia. Un mondo che è certo infinitamente più ricco, ma che in questo momento non ha bisogno di manodopera (anzi ha un eccesso di manodopera), e che prima rinchiude i disperati in campi strapieni e disumani, per poi destinarli spesso al ruolo di manovali della malavita o del lavoro nero.
Non è in discussione il diritto di asilo per i profughi. A maggior ragione per i profughi della guerra siriana, da cui l’Occidente ha distolto gli occhi. Ma la dignità di un profugo non può essere affidata a un mercante di schiavi. I Paesi al confine della Siria, a cominciare dalla Turchia, ospitano già milioni di siriani. Salvare loro la vita è un dovere della comunità internazionale. Ma la salvezza non passa dalle carrette che percorrono il Canale di Sicilia.
Non si tratta ovviamente di rimpiangere Gheddafi, e tanto meno i suoi aguzzini, che per anni hanno esercitato sui migranti e sui profughi ruberie e violenze. Ma è chiaro che Frontex, l’impotente agenzia europea che dovrebbe fermare i flussi clandestini, non può prescindere da una politica molto più ambiziosa rivolta a stabilizzare i nuovi governi nordafricani e a costruire con loro partnership e accordi seri. La tragedia che si consuma tra la Libia e Lampedusa è uno dei frutti avvelenati del collasso di Stati — non da ultimo la Somalia — in cui si sono insediati gli estremisti islamici, che approfittano della debolezza del potere centrale per occupare intere regioni e imporre la propria legge, sollevando ondate di fuggiaschi. Si tratta di una questione epocale, che richiede un impegno lungo e difficile, e anche un consenso convinto dalle opinioni pubbliche. Oggi questo consenso non c’è. L’aria tira semmai verso il disimpegno e l’isolazionismo. Le notizie dei morti in mare generano tentativi di strumentalizzazione, che sfruttano da una parte il senso di colpa, dall’altra l’indifferenza e l’allarme sociale per l’immigrazione. Se la lotta per stabilizzare il Sud del Mediterraneo appare oggi difficilissima, da qualche parte bisognerà pur cominciarla. Fermare la rotta di Lampedusa, non sbarrando la porta nell’ultimo miglio ma chiudendola sulle coste da cui parte il traffico di vite umane, è il primo passo. Rimandarlo non è più possibile .

il Fatto 15.5.14
Il deputato Pd Genovese
Il Pd di Renzi ha paura del voto segreto
La decisione sull’arresto del deputato potrebbe slittare a dopo le europee
Battaglia tra Dem e Movimento: oggi la decisione sulla data del voto in aula
Europee, la fifa nera del premier su Genovese. E l’arresto si allontana
di Wanda Marra


L’arresto di Genovese oggi? No, si vota dopo le Europee”. Non c’è ancora niente di ufficiale, l’autorizzazione all’arresto del deputato del Pd è ancora calendarizzata dopo il decreto lavoro, ma in Transatlantico lo dicono un po’ tutti. Democratici e non solo. La pressione è tanta. Il Pd renziano teme sgambetti complice il voto segreto. E lo stesso Genovese, accusato di reati tributari e associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio, peculato e truffa, si aggira per Montecitorio, facendo sentire la sua presenza.
COSA È PEGGIO, rimandare a dopo il voto o rischiare che sia salvato? I numeri non ci sono”, commentano i renziani. A favore dell’arresto sono schierati teoricamente Pd e M5s, Sel è spaccata, gli altri votano contro. In tutto, quaranta voti di scarto teorici. E il sospetto è che molti del vecchio Pd siano pronti a votare contro l’arresto, nel segreto dell’urna. Sarebbero addirittura 30, che non lo dicono esplicitamente, ma l’hanno fatto sapere ai vertici del Nazareno. E i grillini, che stanno facendo una battaglia all’arma bianca per arrivare al voto? Molti del Pd raccontano di averli sentiti organizzarsi per salvare il deputato e poi dare la colpa ai Democratici. “Il gioco di Grillo è chiaro: spera di andare in Aula, chiedere il voto segreto e poi liberare i franchi tiratori”, commenta il renziano David Ermini, che si è già espresso in Giunta. Trasformare la Camera in un Tribunale, ammettono in molti, è un argomento sensibile a dieci giorni dalle elezioni.
Fatto sta che la giornata è di quelle memorabili. Si inizia con il voto sul decreto lavoro. Sel fa ostruzionismo, Cinque Stelle invece rinuncia e ritira i suoi ordini del giorno. "Avete rinunciato a impedire la scadenza di questo decreto per l’autorizzazione all’arresto dei un deputato del Pd. Avete tradito i lavoratori", denuncia Antonio Scotto. Nel giorno delle accuse incrociate , in molti tra i renziani sono convinti che Sel faccia il gioco sporco per conto di una parte del Pd, per rimandare il voto. Intanto Grillo scatena la rete. "Oggi Genovese sarà con tutta probabilità salvato dal 'Soccorso Rosso che farà di tutto per evitare il voto”, scrive sul blog. E in corso di giornata si spinge a chiedere alla polizia di evitare un’altra fuga eccellente. Il primo voto contestato arriva subito dopo le 16: l’aula della Camera (il Pd vota no) boccia la richiesta del capogruppo dell’M5S, Giuseppe Brescia, di anticipare il voto sulla richiesta di arresto "per pericolo di fuga". Polemiche a non finire. Si aspetta la capigruppo dopo il voto sul decreto lavoro slittato ad oggi, tra le denunce grilline: dovrà decidere se inserire il decreto sull’emergenza casa, che scade il  27.
VISTO che la settimana prossima la Camera non vota, per consentire ai deputati di fare campagna elettorale, questi sono gli ultimi giorni utili. “È meglio mandare in galera Genovese oppure dare una casa agli italiani?”, dicono dal Pd. “Prima gli interessi degli italiani”, chiarisce il capogruppo Speranza. Il decreto potrebbe far uscire dal calendario il voto sull’onorevole siciliano. Un potenziale boomerang elettorale, che però a molti sembra il male minore. L’unico modo per evitarlo, per dirlo ancora con Ermini, è “scegliere il voto palese”. Strategia condivisa anche dal premier. Al Nazaremo si sta lavorando per verificarne la fattibilità. Ma non è semplice: a favore della segretezza basta che si esprimano 20 deputati, o un gruppo: sono pronti a farlo FI e Ncd. E altrimenti, Sel. Nel frattempo, il renziano Franco Vazio ha consegnato una relazione molto netta che ripercorre il quadro accusatorio ed esclude categoricamente il fumus persecutionis.

La Stampa 15.5.14
L’eterna vocazione al suicidio del Pd
Genovese e la vocazione-Lemmings
di Jacopo Iacoboni

Potremmo dirlo con le parole di Romano Prodi: "La spinta al suicidio di questo partito non ha limiti". Il Professore, commentando una vicenda particolare (le nomine alle Authority nel 2012), disegnava però un quadro universale del comportamento del Pd. La vocazione al suicidio.
Tafazzista come sempre, il gruppo parlamentare alla Camera è orientato a decidere che, sulla richiesta di arresto di Genovese, si voterà solo dopo le elezioni europee. Si oppone cioè al M5S che chiedeva di votare subito, già oggi. Perché lo fa, chiediamo noi ingenuamente? Francantonio Genovese è un personaggio a dir poco discusso, e di fatto già scaricato, politicamente, dal suo partito; ma non è questo il punto. Ferma restando la presunzione di innocenza per lui come per tutti, Montecitorio doveva solo votare se dire sì o no a una richiesta di arresto della magistratura, che non significa condannarlo, peraltro per un pacchetto di accuse gravissime: Genovese, uno dei grandi signori delle tessere siciliane del Pd, è accusato a Messina di reati gravissimi, associazione a delinquere, riciclaggio, peculato e truffa. Si potrebbe difendere forse meglio fuori dall'aula; e comunque, difendendo lui il Pd non difende se stesso.Questo è certo.
Magari domani il Pd cambierà idea, e accetterà di votare, subito, e votare il sì all'arresto, sapendo che è assurdo immolarsi per un tipo così, oltretutto con le elezioni dietro l'angolo. Certo tornano in mente mille storie diverse, politiche e non politico-giudiziarie, accomunate da questa vocazione suicidaria, i 101 che impallinano Prodi (appunto) col voto segreto - la pagina più nera. O storie più tragicomiche come "lo smacchiamo lo smacchiamo", il motto di Bersani prima della "non vittoria" alle politiche del 2013. Perché lo fanno, e ora che hanno - comunque lo si giudichi - un leader capace di farsi votare? Si suicidano perché, come i Lemmings - i piccoli roditori che, secondo una credenza popolare, nei periodi di carestia si ucciderebbero gettandosi in massa da uno strapiombo - non possono fare altro, è più forte di loro? Oppure, come sussurrano i maligni, suicidandosi uccidono il vero nemico (interno), ossia l'usurpatore Renzi, che certo non dà l'immagine di avere un governo pieno del suo stesso partito?
Grillo nel frattempo esulta. Altro grande argomento di campagna elettorale, gli viene regalato.

Repubblica 15.5.14
Il commento
Due pesi e due misure
di Liana Milella

DUE pesi e due misure no, proprio non è consentito. Una per Berlusconi e per i parlamentari della destra, vedi Papa e Verdini, una per quelli del Pd, vedi Genovese. Misura strettissima per i primi, decadenza, arresto e intercettazioni subito, misura lasca per quelli del proprio partito. La regola deve valere in ogni momento dell’anno, anche quando di mezzo ci sono le elezioni, e magari può far comodo un rinvio per non perdere i voti dell’ala supergarantista del partito. Il Pd non se lo può permettere, soprattutto in queste ore, mentre a Milano scoppia la nuova Tangentopoli, Scajola viene arrestato, Dell’Utri condannato se ne sta in Libano. Non si può mandare a Milano l’ex pm Cantone come garanzia di futura trasparenza e a Roma, in Parlamento, traccheggiare e ricorrere a escamotage sull’arresto di Genovese. Anche a Montecitorio sono necessari coerenza e coraggio. La prima vuole che Genovese sia giudiziariamente trattato come i suoi coimputati, tutti messi in carcere dai magistrati. Il Pd vada immediatamente in aula, non si nasconda dietro il calendario. Il secondo, il coraggio, esige di affrontare a viso aperto i grillini sul voto segreto. Al Senato impose quello palese per la decadenza di Berlusconi, ora non ha altro da fare che seguire la stessa strada.

il Fatto 15.5.14
Gli inizi: strane amicizie
La rete Usa per l’ascesa di Matteo
Fin da quando era presidente della Provincia ha tessuto una rete con i Repubblicani più reazionari
di Michele De Lucia


Esce in libreria “Il Berluschino - il fine e i mezzi di Matteo Renzi” dell’ex tesoriere dei Radicali italiani Michele De Lucia. Ne pubblichiamo uno stralcio.
Appena approda sulla poltrona di presidente della Provincia, Renzi comincia a tessere una ragnatela di rapporti negli Stati Uniti: allaccia rapporti privilegiati non tanto e non solo con i settori progressisti del Partito democratico, ma soprattutto con gli ambienti più reazionari della destra repubblicana. Nell’ottobre del 2005 Renzi riceve a palazzo Medici Riccardi l’ambasciatore Usa in Italia Ronald Spogli. “Durante il colloquio, Spogli ha comunicato tra l’altro a Renzi che ha vinto il Visitor Program (progetto di scambi del governo degli Stati Uniti che ha un enorme impatto nel mondo e che riguarda i dirigenti che si sono distinti in giovane età). La visita di Renzi negli Usa si concretizzerà il prossimo anno... Al termine dell’incontro il presidente della Provincia ha invitato l’ambasciatore alla prossima edizione del “Genio fiorentino” che si svolgerà tra aprile e maggio del 2006” (AdnKronos, 25 ottobre 2005).
Nel novembre del 2005 l’Associazione Eunomia dei renziani Marco Carrai (responsabile relazioni esterne) e Dario Nardella (direttore) organizza a Palazzo vecchio il dibattito “La politica di Europa e Stati Uniti di fronte alla globalizzazione”. Alla presenza di Renzi e di 500 studenti italiani e americani, intervengono due pezzi da novanta dell’establishment Usa, due falchi vicini al Partito repubblicano, Michael Ledeen e Richard Perle.
Il programma della rassegna “Genio fiorentino” 2006 presenta, alla data del 16 maggio, “Opportunities and Constraints in the Conduct of Foreign Policy: evento a cura dell’Università di Stanford e del Consolato Usa (a palazzo Medici Riccardi). Partecipano: George
P. Shultz (Segretario di Stato degli Stati Uniti dal 1982 al 1989), l’ambasciatore Usa in Italia Ronald Spogli, l’ambasciatore Usa in Austria Susan Rasinski Mc-Caw, e Gerhard Camper della Stanford University”.
ALL’INIZIO DEL 2007 RENZI annuncia che volerà negli Stati Uniti, e ci resterà dal 26 febbraio al 2 marzo, per presentare una singolare iniziativa della Provincia fiorentina: “Cinquecento camere gratis ad altrettanti turisti americani che verranno a Firenze, per celebrare i 500 anni del nome America... La speciale iniziativa, intitolata “500 anni-500 camere”, prevede che Firenze offrirà una camera di hotel gratuita ai primi 500 americani che ne faranno richiesta sul sito”. A fine febbraio il viaggio renziano in Usa comincia da Los Angeles in quanto “la Provincia di Firenze è gemellata con una contea della California”, e tocca quattro città in cinque giorni. Alla fine di giugno 2007 Renzi è di nuovo a Washington, stavolta al seguito del vicepresidente del Consiglio Rutelli, e nell’occasione invita a Firenze Hillary Clinton, candidata alle primarie dei Democratici per la corsa alla Casa Bianca: “Mi auguro di rivederla presto a Firenze, in veste di presidente degli Stati Uniti”.
Sul finire del 2008 la dedizione ai legami americani di Renzi, presidente della Provincia in scadenza e aspirante sindaco di Firenze, fa un salto di qualità: il viaggio in Usa, a novembre, del renziano Dario Nardella, al momento consigliere comunale: “Non è ancora assessore alla cultura, anche se è in predicato per diventarlo in un’eventuale giunta di Matteo Renzi, ma da mesi lavora nell’ombra come se lo fosse. Tanto da salire su un aereo, volare negli Usa e, per un mese, prendere contatti con decine di fondazioni culturali e istituzioni del mondo dell’arte... È Dario Nardella, il giovane presidente della Commissione cultura di Palazzo vecchio”. La stampa informa che Nardella negli States è stato “ospite del Dipartimento di stato americano nell’ambito di un programma internazionale di scambio”, e che è ritornato dalla missione speciale con sei progetti, uno dei quali, intitolato Cento canti a Washington, lo ha “inventato dal presidente della Provincia Renzi per la rassegna del ‘Genio fiorentino’”. Il progetto renziano “vedrà coinvolti cittadini americani nella lettura della Divina commedia con la collaborazione di prestigio dell’Istituto italiano di cultura a Washington”. Il premio fedeltà non tarda ad arrivare. Nel febbraio 2009 il Berluschino campeggia, in primo piano, sulla copertina del prestigioso settimanale Time, sotto il titolo, roboante e programmatico, “La sinistra italiana ha trovato il suo Obama?”.
È IL FATTO CHE RENZI in Usa ha rapporti privilegiati non con i settori progressisti del Partito democratico, ma con gli ambienti più reazionari della destra repubblicana. Infatti, benché possa risultare incredibile, l’imminente Rottamatore della vecchia partitocrazia italica, l’aspirante giovane leader della “nuova” sinistra italiana, a Washington ha come amico, interlocutore privilegiato e superconsigliere un vecchio personaggio a dir poco imbarazzante: Michael Ledeen. Un ritratto di Ledeen (con acclusa intervista) lo pubblicò un settimanale vicino a Comunione e liberazione nel marzo del 1992: “Professore di storia, giornalista, studioso di fascismo. Oppure: agente segreto, disinformatore, intrallazzatore”. Il trait d’union fra Renzi e Michael Ledeen è ancora e sempre Marco Carrai. Il quale, a proposito dell’imbarazzante personaggio, dichiara al quotidiano confindustriale: “A me piace andare a capire l’intelletto delle persone. Ledeen è una persona intellettualmente viva... come ce ne sono altre diecimila”.

Corriere 15.5.14
Brunetta: bene il leader pd, mi copia ma gli lascio il copyright


ROMA (P.Co.) — Renato Brunetta, Forza Italia, incoraggia Renzi: «Ha ragione quando dice che la Rai non è dei conduttori e non è dell’Usigrai. Il premier continua a copiarmi ma gli regalo volentieri il copyright». Poi Brunetta aggiunge: «Direi anche che la Rai non è nemmeno di chi la invade 5 ore al giorno, come sta facendo Renzi. Ma da questo punto di vista chi è senza peccato scagli la prima pietra ed essendo io una persona seria, sono pronto all’autocritica». Brunetta, lei è d’accordo anche sui 150 milioni che lo Stato chiede alla tv publica con la spending review? «Prima mi preoccuperei dell’efficienza, della produttività, del recupero del canone, della razionalizzazione del lavoro, dei 40 dirigenti nominati da Gubitosi... e solo dopo arriverei ai 150 milioni».

(immagine: libro il Berluschino)

l’Unità 15.5.14
Senato
«Non ci sono accrediti a favore di Greganti»

«Quanto ad articoli di stampa relativi alla presenza del signor Greganti in Senato, non risultano accrediti a suo nome». Lo fa sapere il Senato in un comunicato, dedicato a spiegare il black-out del sistema informatico di Palazzo Madama che secondo alcuni avrebbe cancellato l’ingresso del faccendiere ora agli arresti a Milano. Il movimento 5 Stelle ha detto che « è successo un fatto gravissimo. Dopo che un senatore aveva richiesto di conoscere gli accessi di Greganti agli uffici del Senato, il sistema informatico si è improvvisamente bloccato ed è rimasto fuori servizio per mezza giornata. Quando ha ripreso a funzionare, non risultavano tracce di ingressi di Greganti».

Corriere 15.5.14
«Un mese fa in Senato». L’ultimo giallo di Greganti
Il socialista Barani non ha dubbi: l’ho visto
In cella il compagno G prepara un memoriale
di Monica Guerzoni


ROMA — «Certo che sono sicuro! Ho visto Primo Greganti un mese fa mentre andava alla buvette con alcuni senatori del Pd, credo fossero lombardi». Sono le sei del pomeriggio, i grillini preparano esposti in Procura sul «giallo» del «compagno G» e dal taschino del socialista d’antan Lucio Barani spunta l’eterno garofano rosso. Domenica l’esponente del gruppo Gal è entrato nel carcere di Opera e ha parlato con Greganti, un pezzo di storia del Pci riesumato dalla Procura di Milano nel corso dell’inchiesta sull’Expo. E adesso, che l’ex tesserato del Pd annuncia un «memoriale» per difendersi dalle accuse di corruzione e turbativa d’asta, i giornalisti cercano con la lente tracce del suo passaggio in Senato. Barani non ha dubbi: «Era Greganti. Chi di noi non lo riconoscerebbe?».
È strano, perché nessuno dei senatori «dem» sembra invece averlo mai visto calcare il parquet scricchiolante di Palazzo Madama: colpa dei capelli bianchi? Eppure, durante il voto di fiducia sulla droga, è di lui che parlano i senatori del Pd. Chi scherza sul «gomblotto», chi tradisce un filo di imbarazzo, chi accentua una smorfia di stupore. Ecco il bersaniano Miguel Gotor: «Fantasmi... A volte ritornano. Ma io qui non l’ho mai visto, mai sentito nominare». Per la Guardia di Finanza, che lo ha pedinato, entrava in Senato ogni mercoledì. Il problema è che non ha lasciato impronte. «Non risultano accrediti a nome Greganti» assicura una nota di Palazzo Madama, arrivata a sera dopo che Luigi Zanda, capogruppo del Pd, aveva telefonato a Grasso per chiedere lumi.
A leggere tra le righe, però, non c’è scritto che non risultino ingressi. L’«esponente/lobbista del Pd», come lo chiama Grillo, potrebbe aver varcato uno dei tre accessi al braccio di un senatore, senza consegnare documenti. Lo conferma Renato Schifani: «Io sono qui dal ‘96 e accessi segreti non ce ne sono. Ma se un senatore arriva con una persona sottobraccio entra senza controlli, è la prassi». Greganti che entra ed esce da Palazzo Madama senza bisogno di farsi riconoscere, perché «coperto» da un membro del Parlamento... Ma chi?
In questa caccia all’uomo tra i quadri e gli specchi il nome di Ugo Sposetti è quello che più ricorre. «Se cercate il “compagno G” chiedete al ”compagno S”» lo punzecchia un funzionario del Pd, alla presenza dell’interessato. «L’ha presa bene — racconta Francesco Russo — con me ha scherzato “Greganti? È mercoledì e lo sto aspettando...”». Ma ai suoi l’ex tesoriere dei Ds rivela tutto il fastidio di essere anche solo accostato al personaggio: «Non lo frequento e non ho altro da dire». Maurizio Gasparri, uno che sui presunti affari delle Coop rosse ha spesso polemizzato, lascia cadere un «provate a chiedere a Sposetti», ma nel Pd lo difendono tutti. Il lombardo Massimo Mucchetti giura di non aver mai incrociato Greganti: «Il Senato è un porto di mare, ho visto tanti brasseur d’affaires di Eni ed Enel su questi divanetti e nessuno si è mai scandalizzato».
La girandola dei sospetti diffonde la voce che la «segretaria storica» di Greganti lavori al gruppo del Pd. Ma lo spiffero non trova conferme. «Da noi il “compagno G” non si è mai visto — assicura il renziano Giorgio Tonini — Sottobraccio a qualcuno magari sarà successo, ma non penso più di una volta». I grillini sono scatenati. Per loro la storia del black out di martedì, che per molte ore ha spento il sistema informatico, puzza di bruciato. Oggi Mario Giarrusso presenterà un esposto in Procura: «Non era mai accaduto, se c’è stata una manomissione per coprire gli accessi di Greganti è una cosa molto grave». Palazzo Madama assicura che il blocco non ha prodotto conseguenze sui dati di accesso e che si è trattato di un guasto. Giarrusso ride: «Ma sì, sarà stata una coincidenza. Succede che qualcuno vinca al superenalotto».

il Fatto 15.5.14
Expo, perché è peggio di Tangentopoli
di Gianni Barbacetto


LUI È UN VECCHIO comunista, io un vecchio democristiano. Quindi sappiamo come si parla... tra noi, no?”. Il “vecchio democristiano” è Gianstefano Frigerio, (ri)arrestato per l'indagine Expo. Il “vecchio comunista” è Claudio Levorato, grande capo della cooperativa rossa Manutencoop. Dopo gli arresti dei sette uomini d'oro degli appalti, è difficile negare i fatti e sostenere che non è successo niente. È sotto gli occhi di tutti la girandola di manovre, pressioni, spinte, promesse, corruzioni, gare truccate. La linea di difesa del sistema, allora, si attesta su un'altra trincea: “Prendevano soldi per sé, non per i partiti. Sono vecchi faccendieri che lavorano in proprio e spesso millantano rapporti che non hanno”.
Frigerio aveva anche una sua curiosa filosofia: “È colpa dei magistrati”, pontifica in un'intercettazione, “perché è vero che ci poteva essere corruzione, ma non puoi trasformare per un po' di corruzione... non puoi distruggere tutto. Questo è il punto del problema, cioè la legalità: non è un valore, è una condizione, e quindi se tu la tratti come l'unico valore che un Paese ha, scassi tutto... L'illegalità c'è in tutto il mondo, bisogna trattarla con... normalità. Ogni volta una crociata: così si distruggono le nostre aziende all'estero”. Dal punto di vista giudiziario, ci pensa-ranno i magistrati a distinguere tra millanterie e verità, tra rapporti esibiti e contatti reali. Ma dal punto di vista giornalistico e politico è già abbastanza chiara la relazione tra i “mediatori” e la politica. Altrimenti , perché mai gli imprenditori e gli uomini dei partiti avrebbero dovuto dar retta a personaggi come Gianstefano Frigerio e Primo Greganti? Perché mai buttare soldi e tempo per degli inutili mediatori? Sono solo vecchi arnesi della vecchia Tangentopoli? No. Essi sono importanti e ascoltati proprio in quanto hanno dimostrato le loro “capacità” nel sistema della Prima Repubblica. Hanno il know-how giusto per intervenire oggi. Sono quelli che possono mettere in contatto politici, manager e imprese, per chiudere il cerchio delle gare e degli appalti. E sono quelli che possono convincere i partiti, per esempio, a mettere nei posti giusti i loro amici manager “disponibili”, che poi possono truccare le gare. Niente a che fare con i partiti, dunque? Certo, oggi non c'è più il “cassiere centrale” di partito che regolava il flusso delle tangenti, vigilava sulla spartizione degli appalti e incassava il finanziamento per “i costi della politica”. In Tangentopoli, i partiti almeno ci mettevano la faccia e coinvolgevano i loro cassieri ufficiali. Oggi si nascondono ipocritamente dietro personaggi che, quando sono colti con le mani nel sacco, possono scaricare definendoli “impresentabili”, “squalificati”.
I PARTITI della “nuova politica” si affidano a personaggi che non sono “pirati” (che “lavorano in proprio” e attaccano ogni nave che passa per depredarla), ma “corsari”, che fanno la guerra in mare per conto del re d'Inghilterra, sotto la bandiera del teschio con le ossa incrociate, ma con la prospettiva di essere infine nominati baronetti della Corona . Frigerio e i suoi hanno rapporti con partiti, manager e imprenditori, sul lato “destro”. Greganti copre il lato “sinistro” e porta nel sistema le grandi coop rosse. Se non ci fosse la necessità di un tacito e “alto” ok politico, perché mai curare gli “equilibri” destra-sinistra? Ormai, almeno dal 2005 dei “furbetti del quartierino”, i sistemi che sono emersi dalle indagini sono tutti (sistema Sesto compreso) delle piccole o grandi bicamerali degli affari, con contropartite destra-sinistra. Più difficile, oggi, risalire ai piani alti della politica. Eppure, se a quei piani fosse stata fatta davvero pulizia, nessuno darebbe più retta ai Frigerio e ai Greganti.

La Stampa 15.5.14
Il premier alla prova del tabù Mezzogiorno
di Marcello Sorgi


Il veloce tour di Renzi ieri al Sud ha un’importanza strategica nella campagna del presidente del Consiglio. Renzi infatti ha provato a rimuovere gli ostacoli che per due volte, nel 2012 e nel 2013, lo videro soccombere nel Mezzogiorno, nelle primarie in cui era stato sconfitto da Bersani e in quelle in cui prevalse su Cuperlo nella gara per la segreteria del Pd. In entrambi i casi le percentuali dei suoi avversari risultarono più alte della media nazionale, come se l’elettorato meridionale del centrosinistra avesse reagito con scetticismo all’urto della rottamazione che aveva funzionato nel resto del Paese.
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. E ieri Renzi si è ripresentato nei nuovi panni di capo del governo e ha parlato un linguaggio che sembrava costruito apposta per un certo tipo di pubblico. Dunque, uno Stato che cerca di rimettere in moto l’economia a partire dagli investimenti pubblici, pochi o niente accenni al peso della burocrazia, impegno per la disoccupazione giovanile, che in metà del territorio nazionale raggiunge percentuali inaccettabili, con enclavi in cui un giovane su due resta praticamente a carico della famiglia per la vita. E ancora, l’obiettivo di utilizzare al più presto le centinaia di milioni di euro di fondi bloccati e non spesi a causa del meccanismo del co-finanziamento da parte del Paese che vorrebbe utilizzarli, che Renzi vorrebbe provare a modificare durante il suo semestre di presidenza europea.
Tra le accuse fatte a Renzi nelle sue precedenti esperienze c’era anche quella di essersi occupato poco, non solo di Sud, anche di antimafia e lotta alla criminalità organizzata. Un argomento indispensabile, per il popolo di sinistra, a cui il premier ha cercato di venire incontro parlando a Palermo, dove il suo maggior avversario di oggi, Beppe Grillo, partì nell’ottobre 2012 - dopo aver attraversato a nuoto lo Stretto di Messina - per la conquista del primo posto alle elezioni politiche dell’anno scorso. Renzi aveva cominciato la campagna elettorale per le europee con un distacco di oltre dodici punti sul Movimento 5 stelle. Ma a spingerlo a un impegno eccezionale sul territorio è l’incubo di un testa a testa finale, che nascerebbe da un’accelerata grillina ai danni di elettori di centrodestra in libertà.

La Stampa 15.5.14
Daniele Ciprì
“La mia Sicilia catatonica. Il primo che arriva e urla si prende un mare di voti”
di Amedeo La Mattina


Interrompe il montaggio del suo cortometraggio surreale sui campi di concentramento e viene al telefono per parlare della sua Sicilia «catatonica», terra di conquista elettorale: prima affascinata da Berlusconi ora osannante Grillo (si aspetta il botto dei 5 Stelle nell’isola). Daniele Ciprì, regista del film «È stato il figlio» con Toni Servillo e inventore insieme a Franco Maresco del cult «Cinico tv», è stranito. «Perchè chiedi a me un’intervista su cose politiche? Guarda che io non vedo la tv e non leggo i giornali, ma insegno cinema ai ragazzi e quando posso me ne torno nella mia casa di Ortigia a Siracusa dove sento il mare. Ho lasciato Palermo ... Vedo la grande confusione, che non è solo dei siciliani, ma di moltissimi italiani».
In Sicilia vanno forti gli urlatori.
«Urlatori, chi la spara più grossa e la mia Sicilia catatonica abbocca sempre. Anche i giovani riempiono le urne di voti per Grillo, che secondo me è un dittatore: urla e non risolve niente. Ora c’è questo marziano di Renzi che ci promette novità e noi attendiamo Godot. Speriamo che ci porti qualcosa di nuovo, ma non voglio dare un messaggio di disperazione, non dirò mai meglio la raccomandazione, perchè farsi raccomandare (cultura siciliana sempreverde) è la cosa più umiliante che ci sia. Se dovessi dirti cosa si può fare e chi votare, non saprei cosa rispondere».
Serve ancora votare?
«Certo, serve, una scelta va fatta, assolutamente perchè non si può vivere nell’instabilità. Bisognerebbe uscire da questa situazione psicologica. È una situazione imbarazzante. In Sicilia, che è una terra meravigliosa, non la cambierei per nessun’altra al mondo, non ci sono i soldi per fare niente. Nel mio campo si potrebbe creare una industria cinematografica eccezionale: potremmo girare film di tutti i generi. E invece niente, lentezza e difficoltà enormi. Abbiamo mortificato la cultura, siamo immersi nella spazzatura grazie al nostro grande eroe Silvio. Il mondo è diventato una televisione gigantesca».
Dimmi qualcosa per tirarmi su.
«Guarda, alla fine io spero sempre. Noi siciliani siamo un po’ schizofrenici: ci esaltiamo per una personaggio politico poi lo buttiamo giù e cadiamo in depressione. Ma questa schizofrenia è un modo di appoggiarsi disperati. Abbiamo bisogno di urlare, di ribellarci e spesso non si capisce per fare cosa. C’è sempre uno dietro di te che suona il clacson ma non sa perché, magari non vede che davanti è tutto bloccato. Ma che suoni?, aspetta, prima o poi da questo ingorgo usciremo».
Finalmente un po’ di speranza.
«Sì, però sono anni che non abbiamo cambiamenti positivi e aspettiamo Godot».
Renzi?
«Le sue parole sono belle ma vorrei vedere i fatti. Certo ci vuole tempo e bestemmiare non serve. La verità è che la confusione ci ha stordito, come nell’invasione degli ultracorpi».

La Stampa 15.5.14
Nuovo gruppo per gli ex senatori grillini espulsi


Il nome non c’è ancora, ma ormai la decisione è stata presa: a fine mese, forse ad inizio giugno, nascerà un nuovo gruppo parlamentare al Senato che, inevitabilmente, andrà ad incidere sugli equilibri politici di palazzo Madama. Otto parlamentari ex cinquestelle hanno dato vita ad una «componente politica» all’interno del gruppo Misto al Senato. Hanno scelto un nome, «Italia lavori in corso», e ne hanno dato notizia con una nota che porta le firme di Francesco Campanella, Lorenzo Battista, Fabrizio Bocchino, Paola De Pin, Monica Casaletto, Bartolomeo Pepe, Adele Gambaro e Alessandra Bencini.

l’Unità 15.5.14
Privatizzazioni e beni comuni, sabato il corteo
Organizzata da Arci e Forum dell’Acqua pubblica con l’adesione di centinaia di associazioni e comitati
di Rachele Gonnelli


Si annuncia per sabato prossimo una grande manifestazione a Roma «per i beni comuni e contro le privatizzazioni», organizzata da Arci e Forum dell’Acqua pubblica con l’adesione di centinaia di associazioni e comitati. C’è però ancora un braccio di ferro tra organizzatori da una parte e questura e prefettura dall’altra sul percorso del corteo, corteo per altro già autorizzato.
Ieri, per ribadire la volontà dei manifestanti di passare sotto il ministero dell’Economia in via XX settembre e sotto la vicina sede della Cassa depositi e prestiti, indicata come collettore delle privatizzazioni che si annunciano,, una cinquantina di attivisti hanno inscenato una protesta, o meglio un «flash mob», proprio davanti a uno dei due luoghi-simbolo negati al corteo: la Cassa depositi e prestiti appunto, in via Goito. «Abbiamo dato tutte le assicurazioni possibili sul fatto chela manifestazione sarà radicale nei contenuti ma assolutamente pacifica nelle modalità, sullo stile creativo e plurale che contraddistingue da sempre il movimento per l’acqua pubblica - dice Paolo Carsetti, portavoce del Forum - e a questo punto denunciamo anche un restringimento inaccettabile degli spazi democratici. È chiaro - aggiunge - che è il ministro Alfano che chiamiamo in causa e che vogliamo rassicurare di nuovo: non c’è alcun timore di scontri o contestazioni violente».
La lista delle adesioni alla manifestazione per i beni comuni è molto lunga e composita, si va dai comitati Stop Biocidio della Terra dei Fuochi in Campania a quelli No Grandi Navi del Veneto passando per NoTav, NoMuos, NoTtpi fino alla nuova sigla dei NoTriv, gli ambientalistiche, in particolare in Basilicata, si battono contro le trivellazioni a caccia di giacimenti di gas e petrolio. Parteciperanno anche, quasi al completo, i movimenti per il diritto all’abitare protagonisti delle ultime manifestazioni a Roma, da Action alla costituenda Coalizione per il patrimonio comune che ha lanciato la raccolta di firme per delibere di iniziativa popolare in Campidoglio. Più molti centri sociali, la rete dei teatri occupati a partire dal Valle, i giovani studenti e precari della Rete della Conoscenza, Legambiente con una propria piattaforma. Le parole d’ordine saranno contro il decreto Poletti sul lavoro e il Jobs Act, contro i tagli alla cultura, per più risorse alla sanità e alla scuola pubblica oltre che contro le privatizzazioni. Essendo l’ultimo sabato pre-elettorale, ci saranno anche numerosi candidati alle europee, soprattutto della lista Tsipras. Il concentramento è alle 14 a piazza della Repubblica mentre la fine del corteo è prevista a piazza del Popolo. Il percorso per ora è ancora un punto interrogativo. Gli organizzatori nei prossimi giorni torneranno a incontrarsi con questura e prefettura, che al momento non vorrebbero neanche che il corteo sfilasse per piazza Barberini, dove il 12 aprile scorso c’è stata una violenta carica dei carabinieri, e insistono per un percorso molto breve e quasi tutto all’interno del parco del Pincio.
Appelli, adesioni e modalità organizzative sono sul sito 17maggio.noblogs.org.

La Stampa 15.5.14
Il divorzio è breve: bastano sei mesi per la separazione
Accordo tra i partiti in Commissione giustizia
La legge attuale (del 1987) prevede tre anni, quella del 1970 ne prevedeva cinque
di Francesca Schianchi

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Il Sole 15.5.14
Sanità. La cannabis tra le sostanze «soft»
La legge distingue di nuovo tra droghe leggere e pesanti
di Rosanna Magnano


ROMA. Il decreto su droghe e farmaci off label diventa legge e torna la distinzione tra "leggere" e "pesanti". Ha ottenuto ieri sera la fiducia al Senato (con 155 sì e 105 no) la legge di conversione del decreto legge 36/2014 sulla disciplina degli stupefacenti e l'impiego di farmaci meno onerosi per il Ssn. Il provvedimento - il testo è lo stesso approvato dalla Camera il 29 aprile scorso - ripristina e riscrive le tabelle delle sostanze stupefacenti e psicotrope per renderle coerenti con il regime sanzionatorio antecedente alla legge Fini-Giovanardi, dichiarata incostituzionale dalla Consulta con la sentenza 32/2014.
Le tabelle sono cinque. Le prime quattro riguardano le sostanze stupefacenti e psicotrope sotto controllo internazionale e nazionale, mentre la quinta comprende i medicinali (a base di sostanze attive stupefacenti o psicotrope) di corrente uso terapeutico. Semplificazioni per la prescrizione dei farmaci contro il dolore e per le cure palliative.
La cannabis, nonostante le polemiche, è classificata tra le droghe leggere. Anche se, come sottolinea il relatore del provvedimento, Carlo Giovanardi (Ncd), «il governo ha accolto in commissioni riunite Giustizia e Sanità un ordine del giorno che impegna il ministro della Salute a valutare la pericolosità della cannabis arricchita di ultima generazione, per collocarla in tabella uno unitamente ai cannabinoidi sintetici assieme a cocaina ed eroina già presenti in quella tabella». Quindi la battaglia continua e il dibattito si svilupperà nei prossimi mesi. Per modificare le tabelle, come si legge all'articolo 1 del provvedimento approvato ieri, serve un decreto del ministero della Salute, sentiti il Consiglio superiore di sanità e l'Istituto superiore di sanità. Per il resto il Dl alleggerisce le sanzioni per fatti di lieve entità (il cosiddetto piccolo spaccio) e ripristina la possibilità per il giudice di applicare i lavori di pubblica utilità al posto del carcere per i tossicodipendenti, su richiesta dell'imputato e sentito il pm. La misura sostitutiva non è irrogabile per più di due volte. Ripristinate poi le sanzioni amministrative (depenalizzazione) per l'uso personale di sostanze stupefacenti. Sanzioni che sono differenziate per droghe leggere (da uno a 3 mesi) e pesanti (da 2 mesi a un anno).
Per i medicinali utilizzati per un'indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata l'articolo 3 del decreto prevede che il fondo istituito presso l'Agenzia italiana del farmaco (Aifa), alimentato con i contributi obbligatori a carico delle aziende farmaceutiche, possa essere destinato - da parte dell'Aifa stessa - anche alla sperimentazione clinica di medicinali per un impiego non compreso nell'autorizzazione all'immissione in commercio (cosiddetto uso off label).
Tali medicinali, previa valutazione dell'Aifa potranno essere erogati a carico del Ssn, purché tale indicazione sia nota e conforme a ricerche condotte nell'ambito della comunità medico-scientifica.

Repubblica 15.5.14
Scuola, la rivolta contro i quiz
di Tito Boeri



NON è da oggi che si cerca di invalidare gli Invalsi. Si è tentato in passato di boicottarli, consegnando i test in bianco o permettendo agli studenti di copiare gli uni dagli altri, il che significa rendere i test di apprendimento del tutto inutili. Gli studenti delle scuole superiori, gli insegnanti precari (in non poche scuole la maggioranza del corpo docente) e molti dirigenti scolastici hanno da sempre visto con ostilità queste valutazioni. I primi rifiutano i test a crocette “imposti dall’alto”, i secondi temono che possano allontanare ulteriormente la tanto anelata stabilizzazione, i terzi vedono comunque con preoccupazione quella che, dopotutto, è una forma di valutazione del loro operato.
Per esperienza diretta so quanto sia difficile far accettare una valutazione a chi deve essere valutato. Ognuno vorrebbe costruirsi il proprio test in nome della propria specificità. La ribellione contro i testi standardizzati e le “crocette” è spesso una ribellione contro qualcosa che può dare informazioni comparabili fra classi e scuole diverse. I test imposti dall’alto servono proprio ad evitare che i docenti scelgano di adottare criteri di valutazione favorevoli ai propri studenti, dunque a se stessi. Ma sono gli stessi insegnanti i primi a sapere che non si può delegare ai propri studenti la decisione sul voto che devono ricevere dopo un’interrogazione.
QUESTO non vuol dire che i test Invalsi non siano perfettibili. Tutti i test lo sono: in questi giorni il Guardian ha sferrato un attacco frontale ai test Pisa, preparati dall’Ocse, muovendo alcuni rilievi condivisibili. I test Invalsi dovrebbero permettere l’ancoraggio, vale a dire la possibilità di comparare i risultati nel corso del tempo per capire se un istituto sta migliorando nel corso del tempo. Vengono, inoltre, per lo più preparati da insegnanti su base volontaria, sottraendo tempo ad altre attività e, come spesso avviene quando non si è remunerati, non dedicando a questo esercizio il tempo che meriterebbe. Si devono anche migliorare le modalità con cui si svolgono le prove. Ci devono essere ispettori che controllino che agli studenti non venga permesso di copiare e i risultati devono essere valutati da docenti diversi da quelli degli allievi hanno sostenuto la prova, che hanno tutti gli incentivi a far fare bella figura ai propri studenti. Bisognerebbe, al contempo, raccogliere informazioni sugli studenti assenti alle prove in modo tale da dissuadere gli istituti dall’incoraggiare assenze selettive degli studenti che hanno le performance peggiori.
A questo punto i risultati dei test potrebbero essere resi pubblici, scuola per scuola, nel loro migliorare o peggiorare nel corso del tempo, senza timore di fornire segnali fuorvianti alle famiglie. Oggi solo un docente su tre si informa sui risultati dei test dei propri studenti e solo in una scuola su cinque c’è una discussione (e spesso non pubblica) dei risultati dei test. Nell’organizzare questi incontri bisognerebbe dare informazioni aggiuntive rispetto ai test e impegnarsi a fornirne altre ancora a mezzo web. Ad esempio, nell’era di Internet ogni docente potrebbe affiggere sulla pagina web della scuola una nota in cui descrive a grandi linee come intende organizzare il programma di insegnamento e illustrare i propri metodi didattici e criteri di valutazione. Oggi si viene a sapere qualcosa a riguardo, ma solo nelle riunioni del consiglio di classe, a scelte (di scuola e magari sezione) già fatte dagli studenti e dalle loro famiglie. E poi ci sono molte altre informazioni che dovrebbero essere raccolte dalle scuole e rese pubbliche sugli esiti occupazionali e universitari dopo il diploma. Il nostro sistema scolastico permette alle famiglie, soprattutto nelle grandi città, di scegliere la scuola a cui iscrivere i propri figli. Ci sono vincoli in questa scelta, ma molto meno che in altri paesi, dove l’iscrizione è dettata unicamente dalla residenza. Questa maggiore possibilità di scelta dovrebbe fondarsi su informazioni adeguate sul valore aggiunto offerto dai diversi istituti alla formazione di chi si prepara per il mondo del lavoro. Per questo i test Invalsi dovrebbero essere condotti anche per ultimo anno delle scuole superiori. Invece in Italia ci sono meno informazioni che altrove sui contenuti formativi dei programmi didattici, sugli sbocchi professionali e sull’accesso all’università dei diplomati nei diversi istituti.
Siamo un paese con un forte turnover dei ministri della Pubblica Istruzione e chi gestisce la scuola pubblica ondeggia pericolosamente in materia di valutazione. Quello dei test è un argomento difficile e tutti i politici che non cavalcano per opportunismo le proteste, lo evitano come un campo minato. Quindi anche un ministro, a parole, a favore dei test Invalsi non fa nulla per investire nella valutazione. Questo significa sprecare risorse. Perché una valutazione fatta seriamente ha inevitabilmente dei costi, ma anche grandi benefici per le famiglie e per chi deve gestire risorse limitate nel ridurre le criticità del nostro sistema formativo (l’idea che stava alla base del rapporto fra Invalsi e Indire), mentre una valutazione fatta male ha solo costi per tutti, studenti, insegnanti, dirigenti, famiglie e contribuenti. Vedremo se il ministro Giannini vorrà interrompere questa tradizione. In ogni caso è bene che un esecutivo che dice di voler invertire la tendenza al disinvestimento nel nostro capitale umano avviata dai governi precedenti, si ricordi di un vecchio adagio popolare: “se non ti poni il problema di misurare una cosa, significa che quella cosa per te non ha alcun valore”. Chi non vuole misurare la qualità dell’istruzione, non assegna alcuna importanza alla scuola.

La Stampa 15.5.14
Colosseo
Da anfiteatro a spartitraffico gloria e tramonto di un simbolo
I romani e il monumento: 1500 anni di difficile convivenza
di Mattia Feltri


È più o meno da mille e cinquecento anni che i romani non sanno bene che fare del Colosseo. L’utilizzo di successo della seconda metà del Novecento - grande rotatoria - si è (quasi) esaurito da che il sindaco Ignazio Marino ha reso (quasi) pedonale metà di via dei Fori Imperiali. In fondo la funzione di spartitraffico non è stata la più umiliante per l’anfiteatro costruito sul laghetto di Nerone e inaugurato nell’80 dopo Cristo con cento giorni di bagordi e ammazzamenti: nel Medioevo fu anche un deposito di concime. Il problema di allora è il medesimo di oggi, e cioè come trarre utilità da un gigantesco edificio posto da un incidente della storia sulla gobba della capitale. Per quattro secoli abbondanti fu l’ombelico godereccio e sanguinoso del mondo, ma all’arrivo dei barbari era già fatiscente. Il trasloco della capitale dell’Impero a Costantinopoli (Istanbul) aveva impoverito Roma e non c’erano i denari per aggiustare e mantenere in attività uno stadio da circa ottantamila spettatori. Le pietre che cascavano venivano portate via e riciclate per innalzare nuove case; qualche bella scossa di terremoto contribuì al recupero del materiale e al buon umore degli operai, e alcuni dei fori che si vedono ancora oggi sulle pareti esterne originano dall’estrazione delle grappe di ferro, utili e costose.
Insomma, generalizzando, i romani dal Colosseo succhiano il succhiabile ma non lo amano più di tanto, anche ora nell’età del turismo, che il Grande Molare Cariato (soprannome dei detrattori) è una miniera d’oro. La vicenda degli introvabili cinque custodi per la notte dei musei è esemplare: la vecchia arena dà uno stipendio. Finita lì. Il resto sono scocciature. C’entra l’andazzo complessivo italiano, ma c’entrano anche quindici secoli di lotta fra l’anfiteatro e l’Urbe. Il caso perfetto è quello di papa Sisto V (1521-1590), colto e amante del bello. Prima ebbe l’idea un po’ drastica di radere al suolo il Colosseo, di modo da congiungere enfaticamente San Pietro a San Giovanni in Laterano. Troppo costoso. Allora pensò di riconvertirlo in lanificio e i lavori partirono pure, ma dovettero essere fermati sempre per l’esorbitanza delle spese. Nel frattempo si continuò a scambiare il Colosseo per una specie di cava. I marmi furono portati via dai nobili ad abbellire gli sfarzosi palazzi del Rinascimento romano. Alcune delle pietre si dice siano tornate buone per la Basilica di San Pietro, mentre è certo che servirono a edificare Palazzo Barberini e Palazzo Venezia, da dove il Duce teneva i suoi discorsi alla folla eccitata.
E intanto che pezzo a pezzo il gioiello di Vespasiano se ne andava in giro per la città, dentro se ne ricavò spazio per una fabbrica di colla, per una chiesa, per le stazioni della Via crucis, e alla sera vi si radunavano gli animatori della movida, a bere vino e cantare, intanto che fra gli archi coppie di giovinastri o di fedifraghi improvvisavano l’alcova. Certo, non è stato un destino esclusivo del Colosseo. Lo è stato di quasi tutta la Roma imperiale. Il Colosseo aveva quel difetto in più che tutto l’accanimento della storia non bastò a completare la distruzione. Subito dopo la caduta dell’Impero, e per secoli, dentro e a ridosso dell’anfiteatro vennero costruite capanne, stalle, fienili, botteghe di maniscalchi, di speziali, di ciabattini. Nei secoli crebbe una tale vegetazione che nell’Ottocento furono classificate quattrocento specie diverse di fiori ed erbe. Arrivarono gli archeologi, e soprattutto la tronfia ambizione del fascismo, a restituire onore e gloria al Colosseo. Eppure oggi è semplicemente il regno di finti gladiatori e di venditori ambulanti, oltre che di turisti sbigottiti in perenne fila davanti a uno scheletrone. Vietato sfruttare lo stadio più famoso e struggente del pianeta per concerti o spettacoli, facilitarne la visita, aprire librerie e negozi: sarebbe volgare commercializzazione. Quando poi il Colosseo volgare nacque e volgare visse, e volgare andrebbe bene pure in vecchiaia.

l’Unità 15.5.14
Basta decreti: più forza al governo parlamentare
di Claudio Sardo


LA CAMERA HA APPENA VOTATO LA FIDUCIA SUL DECRETO LAVOROE, PROBABILMENTE, IL GOVERNO PORRÀ OGGI DI NUOVO LA QUESTIONE DI FIDUCIA SUL DECRETO PER L’EMERGENZA CASA. Il decreto-legge è ormai la modalità ordinaria per legiferare e il voto di fiducia è la procedura standard per superare gli ostacoli parlamentari e assicurare così la conversione entro i 60 giorni previsti dalla Costituzione. La prassi viene da lontano, oggi però siamo davanti a una regola assoluta. Totalitaria. E non si può negare che rappresenti uno stravolgimento dei principia cui si era ispirato il costituente.
A ben guardare, qualcosa è cambiato in questa legislatura: la fiducia viene posta prevalentemente alla Camera (il decreto Poletti è stato finora la sola eccezione), dove la maggioranza è più solida. E qualcosa è cambiato pure dopo la recente sentenza della Consulta, che ha vietato i decreti omnibus, contenenti al loro interno le materie più svariate: il governo Renzi ha risposto al divieto sfornando decreti-legge più corti e sicuramente più omogenei (salvo il decreto sulla finanza locale). Comunque, da quando il nuovo esecutivo è in carica, le Camere non hanno approvato altro che leggi di conversione dei decreti.
I leggeri correttivi, insomma, tendono a perfezionare la procedura, a stabilizzarla. Anche i mostruosi maxi-emendamenti di un tempo sono stati di molto ridimensionati, dopo i ripetuti e molto severi intervenuti del presidente della Repubblica. Mail problema non è stilare la classifica dei governi che, nella stortura, si sono comportati meglio. Il problema è come raddrizzare la stortura. I decreti non possono diventare la sola via legislativa praticabile. Il Parlamento verrebbe ucciso e la qualità delle leggi, come si è visto in questi anni, peggiorerebbe ancor di più. Al tempo stesso, però, non sarebbe una risposta accettabile per il Paese un indebolimento dei poteri di indirizzo del governo. Per ricondurre i decreti ai soli casi eccezionali di necessità e di urgenza, bisogna consentire al governo di percorrere la strada principale della legislazione, quella voluta dalla Costituzione ma oggi ostruita da vari fattori, regolamentari e politici.
Nel progetto di riforma del Senato si introduce il voto a data certa sui disegni di legge che il governo considera più importanti. E’ un buon punto di partenza. Che va sviluppato con una riforma dei regolamenti parlamentari, soprattutto della Camera. La presidente Laura Boldrini ha già messo al lavoro la giunta per il regolamento e, a quel che si sa, l’impostazione è promettente. Il governo deve poter disporre di una corsia preferenziale per ottenere il voto finale su alcuni disegni di legge entro 30 giorni dalla presentazione. Non solo. Occorre spostare in commissione il grosso del lavoro sugli emendamenti, selezionando le votazioni in aula e riducendole alle questioni più qualificanti. Non può essere l’ostruzionismo, o comunque il potere di ritardare le decisioni, l’arma più forte a disposizione del Parlamento.
Abbiamo bisogno di una democrazia decidente. E di rafforzare il contenuto democratico delle decisioni. Non è vero che da noi il governo non ha poteri. Dobbiamo evitare che questo potere si fondi su torsioni del sistema. Perché si può rafforzare il governo, rafforzando al tempo stesso il Parlamento. Ad esempio, se in un bimestre il governo porta in votazione tre sue leggi con procedura accelerata, si può riconoscere alle opposizioni il diritto di sottoporre al voto almeno una loro proposta. Con analoghe garanzie e procedure. E così le leggi di iniziativa popolare, finora le grandi dimenticate nel nostro sistema, devono essere portare al giudizio dell’assemblea entro un termine stabilito. Per rafforzare il Parlamento bisogna soprattutto far funzionare i contrappesi (e ovviamente il primo dei contrappesi è recuperare il legame degli eletti con il territorio e i cittadini: basta liste bloccate!).
Ce la faremo a costruire una democrazia più matura e decidente? Le riforme non sono il vezzo di qualcuno. Sono ciò che manca da tempo. Anche perché in assenza di riforme pensate, abbiamo avuto strappi e mutamenti di fatto. Il punto è se vogliamo ricostruire un sistema parlamentare razionalizzato, aggiornando i principi dei costituenti, oppure se vogliamo fuggire altrove, inseguendo populismi e demagogie. In Europa i sistemi flessibili sono quelli che stanno dando le prove migliori. Speriamo di restare su questa strada. Ma ce n’è un'altra: quella del presidenzialismo e di una maggiore rigidità del sistema. L’illusione è che l’uomo forte basti a rendere più forti le istituzioni. E’ un’illusione che può aprire la porta alle avventure.
Comunque, per difendere i valori della nostra Costituzione bisogna avere il coraggio di cambiare. Nella paralisi attuale Berlusconi può aumentare i suoi ricatti e Grillo può continuare a giocare allo sfascio, facendo leva sull’ostruzionismo ad oltranza. Un governo più forte in un Parlamento più forte, comunque, sarà possibile solo se i partiti e i gruppi parlamentari torneranno ad essere sintesi di politica e di interessi sociali: proprio la loro crisi è una delle cause del deterioramento istituzionale. Non ci sarà mai un Parlamento più forte, qualunque regolamento si adotti, se i deputati saranno ridotti alla corte di un capo e se si continuerà ad ascoltare la sirena della democrazia senza partiti.

La Stampa 15.5.14
Europee, la scomparsa dei comunisti
Per la prima volta dal 1946 nessun partito comunista e nessuna falce e martello correranno per conquistare voti ad una elezione di carattere nazionale
Che ne è di quel mondo?
di Fabio Martini

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l’Unità 15.5.14
Lo sciopero mondiale dei lavoratori fast-food
Dall’America parte la protesta dei dipendenti delle grandi catene
che chiedono paghe giuste e migliori condizioni
La difficile lotta in Italia
di Massimo Franchi


Se non il primo sciopero globale - ‘che scioperare in buona parte del mondo è troppo rischioso -comunque la prima mobilitazione planetaria. Parte oggi dall’America dei fast food, dei McJob - diventato in slang americano il simbolo del lavoro mal pagato, poco prestigioso e a termine - e si aggira per 33 Paesi di tutti i continenti. Dalla California fino alla Nuova Zelanda tutti i fusi orari saranno attraversati dalla protesta - che si chiuderà domani in Italia - dei lavoratori delle grandi catene delle ristorazione a buon mercato. Un «buon mercato» figlio però delle paghe da fame e dalle condizioni di lavoro spesso da galera a cui sono sottoposti i lavoratori, sempre meno giovani che sfornano patatine, hamburger e panini. Il loro boom è figlio della crisi. E la crisi ora porta chi la subisce in prima persona a chiedere paga e condizioni di lavoro «decenti».
«CONDIZIONI DI LAVORO DECENTI»
Dove non arrivano i sindacati confederali in Europa - nonostante i sei anni di crisi, lo sciopero continentale è ancora un’utopia - sono arrivati i debolissimi sindacati dei fast food. L’azione globale e l’hashtag #FastFoodGlobal sono stati lanciati durante il primo meeting internazionale la scorsa settimana a New York dallo Iuf, - International Union of Food ( che rappresenta anche i lavoratori degli hotel e dell’agricoltura) - al quale hanno partecipato i rappresentanti sindacali dei lavoratori dei fast food di tutto il mondo. Sono gli Stati Uniti ad aver lanciato l’idea sotto lo slogan «Fight for fifteen» - lotta per i 15 dollari l’ora rispetto agli attuali 7,5 con cui si devono pagare anche la sanità - che porterà a picchetti di protesta in 150 città sotto la bandiera a stelle e strisce. Una stima su quanti lavoratori saranno coinvolti è assai complicata. Il lavoro è ormai così frammentato che se in Italia ci lamentiamo del sindacato che non raggiunge i precari, nel resto del mondo la parola «sindacato» è spesso sconosciuta.
«In Italia i lavoratori coinvolti sono circa 500mila», spiega Christian Sesena che per la Filcams Cgi ha partecipato all’incontro di New York. Il suo racconto di quella due giorni dà l’idea di come sia complicato il mondo del lavoro e il mestiere del sindacalista nel 2014. «Ogni Paese ha la sua specificità. Ho assistito alle denunce delle lavoratrici thailandesi licenziate perché protestavano, ai racconti di quelle inglesi che spiegavano i contratti a zero ore per cui sei assunto a tempo indeterminato ma lavori solo a chiamata, alla lavoratrice danese che prende 21 dollari l’ora e non vuole sentirsi in colpa se nel suo Paese il governo fa rispettare i contratti e le relazioni sindacali». E allora dal primo meeting internazionale è stata lanciata «una lettera simbolicamente consegnata a tutti gli amministratori delegati di McDonalds e delle altre catene» che chiede diritti globali minimi per tutti i lavoratori del globo, un salario decente - sull’indicare una paga minima globale siamo però ancora molto lontani - l’abolizione dei contratti a zero ore, condizioni e orari di lavoro non da sfruttamento. «I punti in comune in tutte le esperienze raccontate riguardano il fatto che ormai nei fast food non lavorano più solo i giovani, non è più in lavoro di transizione e che, a parte l’eccezione scandinava, le relazioni sindacali sono praticamente nulle», spiega Sesena.
Le peculiarità italiche riguardano il caso McDonalds. In Italia il brand in realtà copre l’80 per cento di franchising per i suoi quasi 500 ristoranti con 17mila lavoratori in gran parte con un part time involontarioda20orea620euroalmese- per 6,8 euro netti l’ora. «Ma poi in Italia ci sono tantissime catene di autogrill in cui i problemi sono gli stessi». Ora acuiti dalla disdetta da parte della Fipe (federazione pubblici esercizi facente parte di Confcommercio) del contratto nazionale. Per questo lo sciopero di domani - «lo avevamo già proclamato per quel giorno e comunque sarà in contemporanea con la Nuova Zelanda» - vedrà la protesta comune dei lavoratori dei fast food con quella degli alberghi e dei tour operator di Confindustria, delle agenzie di viaggio di Fiavet, e quelli di Confesercenti tutti in attesa da più di un anno del rinnovo.
Pensare localmente per agire globalmente «perché di noi non parla nessuno». L’esempio dei lavoratori dei fast food si spera sia d’esempio per tutti.

l’Unità 15.5.14
Hamdeen Sabahi
«L’Egitto non può tornare indietro»
Laico, nasseriano  di sinistra, è lo sfidante alle elezioni presidenziali del 26-27 maggio contro l’uomo forte dell’esercito Abdel Fattah al-Sissi
Le due priorità della sua campagna: lotta alla povertà e giustizia sociale
Nelle voto del 2012 si era piazzato al terzo posto con un inaspettato 20,7%
di Umberto De Giovannangeli


È l’espressione dell’Egitto che non si piega alla restaurazione in divisa e che, al tempo stesso, non ha creduto in un futuro islamista. Il «Davide» egiziano sfida il «Golia» in divisa. La parola a Hamdeen Sabahi, laico, nasseriano di sinistra, lo sfidante alle elezioni presidenziali del 26-27 maggio prossimi, dell’uomo forte dell’Egitto, colui che ha guidato il putsch militare che ha portato alla defenestrazione del presidente Mohamed Morsi e alla messa al bando dei Fratelli musulmani: l’ex comandante in capo delle Forze armate egiziane, Abdel Fattah al-Sissi.
Sabahi, 60 anni, non si sente un predestinato alla sconfitta. A l’Unità ribadisce che «I cittadini egiziani hanno il diritto di assistere a un confronto diretto tra i candidati (alla presidenza, ndr) per conoscerli a fondo». Al centro della sua campagna elettorale vi sono due priorità assolute: la lotta alla povertà e la giustizia sociale le parole d’ordine della sua campagna elettorale. E una promessa solenne: «Se sarò eletto presidente - afferma Sabahi - il governo da me nominato non consentirebbe il ritorno alle misure repressive che hanno caratterizzato il regime di Hosni Mubarak. Indietro non si torna. Non consentiremo ad alcuno di divorarci o di ridurci al silenzio, né ad alcun regime di privarci di una vita prospera e dignitosa».
Nelle presidenziali del 2012, il leader «Corrente Popolare Egiziana» si era piazzato al terzo posto con un inaspettato 20,7% (4,8 milioni di voti).
Da più parti si sostiene che la sua è molto più di una «missione impossibile» e che il futuro presidente dell’Egitto ha già un nome e un volto: quello del feldmaresciallo Abdel Fattah al-Sissi.
«Non mi sento un predestinato alla sconfitta, la mia non vuol essere solo una candidatura di testimonianza. So bene che al-Sissi ha dietro di sé un apparato potentissimo che va ben oltre l’esercito. Ma per chi come me ha creduto nelle istanze di libertà e di giustizia sociale che furono alla base della rivoluzione di Piazza Tahrir, presentarsi alle elezioni presidenziali è stato un atto di coerenza, un dovere civile».
Cosa la divide da al-Sissi?
«Il mio passato oltre che la visione del futuro. Al di là delle affermazioni di principio, al-Sissi rappresenta un elemento di continuità col regime di Hosni Mubarak. Detto questo vorrei subito aggiungere che considero al-Sissi un avversario e non un nemico. Lui ha denunciato di essere sfuggito a due attentati: dico chiaramente che mi impegnerò a proteggere la sua vita, se sarò eletto presidente. Resto però convinto che la sua elezione sarebbe il colpo definitivo alle speranze della “Primavera araba”, con lui si sta riciclando la vecchia nomenklatura, politica e affaristica, che prosperò con Mubarak. La lotta alla corruzione è uno degli spartiacque tra me e al-Sissi ».
Alle elezioni non sono presenti candidati islamisti. Al-Sissi ha affermato che i Fratelli Musulmani sono fuorilegge.
«Sono stato tra i più feroci critici del presidente Morsi e della gestione assolutistica del potere operata dalla Fratellanza. Morsi e i Fratelli musulmani hanno diviso l’Egitto, facendo promesse che non sono state mantenute, gestendo in modo arbitrario e totalizzante il potere. Morsi ha fallito su tutti i fronti, ma questo non significa giustificare una repressione brutale o misure liberticide quali quelle adottate in questi mesi. Condannare a morte o all’ergastolo centinaia di islamisti non pacifica il Paese ma finisce per rafforzare i gruppi che puntano alla resistenza armata. Abbiamo bisogno di giustizia, democrazia e indipendenza. La lotta al terrorismo è efficace solo se passa attraverso una maggiore giustizia sociale. La rivoluzione deve continuare fino a raggiungere il governo».
Vorrei tornare sui Fratelli Musulmani. Lei ha criticato il pugno di ferro dei militari ma non sulla loro messa al bando. Non è un atteggiamento contraddittorio?
«Assolutamente no. La Fratellanza non potrà esistere come gruppo politico in quanto la Costituzione del 2014 vieta la formazione di partiti su base religiosa, ma se sotto la mia presidenza non vi sarà alcun ostracismo verso orientamenti islamici pacifici. Quanto ai militari proteggeranno il Paese ma non potranno governarlo. Su questo punto occorre essere molto chiari: l’esercito rappresenta una garanzia fondamentale per la sicurezza, interna ed esterna, dell’Egitto. Se la rivolta anti-Mubarak non è finita in un immane bagno di sangue è anche per il fatto che l’esercito si è schierato con il popolo. Con il popolo, non con uno dei suoi leader. E questo deve continuare ad essere. Per questo l’esercito deve tenersi fuori dal perimetro politico ed elettorale, e questo sarà il mio impegno da presidente. L’esercito, come afferma la Costituzione, deve essere di “proprietà del popolo”, e il miglior ruolo che può svolgere è quello di proteggere e non governare. Per quanto mi riguarda, se una guerra intendo condurre, sarà la guerra contro la povertà che affligge milioni di egiziani. È un dovere morale, prim’ancora che politico, offrire opportunità di lavoro ai nostri giovani, giovani pieni di energia, di creatività, di capacità, giovani che sono stati i protagonisti delle due rivoluzioni in Egitto. Insisto su questo: lottare contro la povertà e la disoccupazione è anche il modo più incisivo per non lasciare i giovani più vulnerabili in balia delle organizzazioni terroristiche. Quanto alla giustizia sociale, per realizzarsi davvero ha bisogno di una ridistribuzione delle ricchezze e di una politica di sviluppo che crei nuova ricchezza e opportunità di lavoro. Su questo ho avanzato proposte concrete su cui sfido il mio avversario al confronto».
Il fronte pro-Sissi l’accusa di connivenza con i Fratelli Musulmani.
«Chi mi accusa di connivenza ha poca memoria. Vorrei ricordar loro che quando il sottoscritto era in piazza Tahrir a fianco dei giovani che protestavano contro l’assolutismo di Morsi, raccogliendo milioni di firme contro di lui, al-Sissi era il suo ministro della Difesa».
Le più importanti organizzazioni internazionali di difesa dei diritti umani, da Amnesty International a Human rights watch, hanno ripetutamente denunciato gli abusi perpetrati in questo campo dai militari.
«Sicurezza e rispetto dei diritti umani e civili non sono, non devono essere tra loro inconciliabili. La lotta al terrorismo non può essere utilizzata per violare ingiustamente diritti e libertà. Se sarò eletto presidente abolirò l’attuale legge anti-proteste e darò il mio assenso solo a leggi per la regolamentazione e non per il divieto delle manifestazioni. Tutto questo passa anche per una riforma del ministero dell’Interno. Così come intendo impegnarmi per abolire i reati di opinione: nelle carceri devono finire chi si è macchiato di atti di terrorismo o incitato alla violenza e non chi ha espresso critiche e difeso pacificamente il proprio punto di vista».
In precedenza, lei ha parlato di giustizia sociale e diritti umani. C’è un filo rosso che lega il suo programma e che segnerebbe la sua presidenza?
«Quel filo esiste e si chiama lotta ad ogni forma di discriminazione, etnica, religiosa, di genere. La discriminazione tra musulmani e cristiani, sunniti e sciiti, donne e uomini, deve finire. Se verrò eletto, uno dei miei primi atti da presidente sarà quello di istituire una Commissione per la lotta contro la discriminazione. Quello per cui mi batto è un Paese fondato su uno Stato di diritto, che combatta ogni forma di discriminazione e di autoritarismo. Non è un libro dei sogni, ma una speranza che sento di condividere con milioni di egiziani. A chi mi accusa di aver presentato un programma troppo ambizioso, rispondo che è un diritto del popolo egiziano vedersi ripagato dei propri sacrifici».

Repubblica 15.5.14
Danza del ventre la rivoluzione segreta degli egiziani
Il ballo è la vera passione nazionale. Ecco perché è anche una questione di democrazia
di Alaa Al-Aswani



IL CAIRO. UNA crisi economica catastrofica, l’inflazione alle stelle, attentati terroristici a ripetizione: è il panorama dell’Egitto oggi. Eppure gli egiziani su YouTube
guardano videoclip di raqs sharqi , la danza orientale, detta in Occidente “danza del ventre”. Un video della danzatrice armeno-egiziana Safinaz è stato visto dagli egiziani più di 4 milioni di volte in un mese, e quello della libanese Haifa Wehbe da oltre 10 milioni. Si direbbe che la danza offra sollievo dalla tensione, ma c’è di più.
La raqs sharqi è sempre stata controversa nella cultura del mio Paese. Gli egiziani l’adorano: Tahia Carioca, una leggendaria danzatrice, dichiarò che «alle feste di nozze appena parte la musica le ragazze ballano come matte ». Eppure la danza del ventre, ricca com’è di allusioni, è simbolo di volgarità e vita dissoluta. Dire a qualcuno «figlio di una danzatrice del ventre» è un insulto.
Quel disprezzo ha una lunga tradizione. Nella Descrizione dell’Egitto gli studiosi francesi al seguito di Napoleone nel 1798, definivano le danzatrici «donne senza alcuna preparazione o decoro, e non si può immaginare nulla di più osceno dei loro movimenti di danza». Invece Gustave Flaubert, che visitò l’Egitto nel 1849-1850 rimase incantato da una danzatrice di nome Kuchuk-Hanem, di cui ammirava «l’alta statura e la carnagione più chiara di quella degli arabi». L’americano George William Curtis s’innamorò anche lui di Kuchuk-Hanem: «Non più una gemma, ma un fiore non ancora pienamente sbocciato». Qual è, allora, il segreto del fascino? Edward Said, lo studioso palestinese-americano autore di Orientalismo, ha paragonato il balletto occidentale, che «è tutto elevazione, leggerezza, sfida al peso corporeo», e la danza orientale con «la danzatrice che si pianta sempre più saldamente nella terra, quasi scavandoci dentro».
Ma la raqs sharqi stuzzica il desiderio o è qualcosa di più? Secondo Andrea Deagon, docente all’Università della Carolina del Nord, è uno strumento di liberazione per le donne; una forma di autoespressione in movimento, dà voce a una verità sui piaceri del corpo che non è esprimibile in altri modi nella società egiziana. Poiché sfida una religiosità che ogni esibizione come un atto impuro, la raqs sharqi è sempre stata fraintesa e associata al disonore. Questo ne fa un’arte sovversiva: la danzatrice che si scuote di dosso le catene dell’ordine patriarcale semina paura nel cuore dei religiosi conservatori e può costituire una minaccia per la tirannia. Infatti, è spesso oggetto di misure repressive.
Nel 1834 Muhammad Ali prese misure per “preservare” (a modo suo) la morale ordinando di arrestare ed esiliare nell’Alto Egitto le danzatrici e le prostitu- te. Prescrisse anche 50 frustate per qualunque donna sorpresa a ballare per strada. Sotto la presidenza di Nasser, il responsabile della supervisione e censura delle arti deliberò che «le danzatrici di raqs sharqi non sono autorizzate a fare le seguenti cose: stendersi sulla schiena, stendersi per terra in modo volgare e tale da eccitare, o effettuare movimenti rapidi tali da causare eccitazione. Le cosce non devono essere del tutto aperte quando la danzatrice è stesa per terra. Non devono esserci movimenti sussultori in su e in giù». Le danzatrici forse risero di queste regole: rispettarle avrebbe voluto dire cambiare mestiere.
Ancora oggi serve un permesso del governo, e una certa ipocrisia rimane. Se da un lato il governo reprime le danzatrici in nome della moralità pubblica, dall’altro le usa per fini politici. Dopo la guerra del 1973 con Israele, Kissinger faceva la spola in vista degli accordi di Camp David; e l’Egitto faceva in modo che la sua danzatrice preferita, Nagwa Fouad, si esibisse per lui a porte chiuse al Cairo.
Cambierà mai l’atteggiamento degli egiziani verso le danzatrici del ventre? Per il momento il Paese ha problemi più pressanti: democrazia, diritti umani, povertà. Ma io vorrei un Egitto nuovo, dove la danza del ventre si evolva in una forma d’arte, priva delle connotazioni di condotta immorale che la circondano. In una vera democrazia c’è un posto per ogni cittadino, danzatrici del ventre comprese. Fino ad allora, gli egiziani continueranno a essere entusiasti consumatori di danza del ventre; e ad avere poco rispetto per le danzatrici.

il Fatto 15.5.14
Xenofobi scandinavi
Accoglienza non fa più rima con Svezia L’estrema destra raddoppia i consensi
di Michela Danieli


Stoccolma. È una delle mete finali preferite da quanti sopravvivono alle odissee nel “Mare Nostrum” . Proprio il nodo dell’immigrazione giocherà qui un ruolo cruciale alle Europee cui faranno seguito, a settembre, le Politiche. È la Svezia, il Paese che per antonomasia ha alle spalle una storia di accoglienza. Il clima però è cambiato. Il flusso di profughi ha saturato le disponibilità economico-territoriali stanziate dal Paese che, proprio al centro del dibattito politico, mette oggi la distribuzione dei profughi tra i comuni. Grafici e statistiche mettono sotto accusa quei quartieri dell’alta borghesia che, con l’alibi della carenza di alloggi, scaricano il fardello nei ghetti. A questo fenomeno si aggiunge una sempre più insistente presenza di zingari, che vivono di furti ed elemosina.
Un paio di comuni di Stoccolma e Göteborg hanno recentemente finanziato il rientro in patria di due grossi gruppi rom, i quali sono però rientrati indisturbati in Svezia, nel giro di settimane. Tutta l’opinione pubblica risente del nuovo quadro sociale e la questione non sta più a cuore ai soli populisti. È stata avanzata dal partito Popolare, l’idea di chiedere all’Europa una direttiva per tassare i Paesi che inducono i propri cittadini poveri a emigrare. È ormai bipartisan l’intenzione di ripristinare il reato di accattonaggio.
LA SVEZIA INOLTRE, si troverà alle urne europee proprio a un anno esatto dalle guerriglie urbane che misero a ferro e fuoco i sobborghi di Stoccolma. Ad accendere la miccia della bomba sociale, fu un intervento della Polizia finita con una sparatoria e un immigrato morto. Da allora, il leader del partito di estrema destra (nascosto dietro la sigla di Sd, Partito democratico) Åkesson, ritiene di avere la prova tangibile del fallimento della politica di integrazione del governo di centrodestra moderato-conservatore, guidato da Reinfeldt. Secondo i sondaggi (che garantiscono l’anonimato), negli ultimi due anni i consensi di Åkesson sono raddoppiati, toccando il 9,3%. Il partito, che a livello di iscritti è cresciuto del 40%, è dato dall’Ufficio di Statistica come terza forza del paese. Non è un caso che SD sia stato corteggiato dal Front National di Marine Le Pen.

Il Sole 15.5.14
Gli ex «paradisi» del Nord Europa ora fanno paura più dei «Pigs»
di Morya Longo


Ormai di «Pigs» non parla più nessuno. Portogallo, Italia, Grecia e Spagna non sono più considerati i «maiali» dei mercati finanziari. In compenso la fervida fantasia degli economisti sta iniziando ad inventare giochi di parole poco lusinghieri per alcuni Paesi che erano sempre stati considerati «safe havens», cioè «paradisi sicuri»: c'è chi, come gli analisti di Rbs, inizia infatti a chiamare Gran Bretagna e Scandinavia «fake havens». Cioè «paradisi tarocchi». Perché i nuovi rischi si trovano sempre meno nel Sud e sempre più nel Nord.
Il Sud Europa, in effetti, si sta riformando. Il Portogallo è appena uscito dal programma di aiuti. La Spagna migliora. Anche l'Italia sta facendo apprezzati (seppur limitati) passi in avanti. Il Nord, invece, inizia a mostrare i postumi delle grandi iniezioni di liquidità: gigantesche bolle immobiliari. In Gran Bretagna la banca centrale ha più volte lanciato l'allarme per la corsa dei prezzi delle case (cresciuti di oltre il 10% solo lo scorso anno): peccato che per ora la stessa banca centrale non abbia fatto nulla per sgonfiare questa bolla. E anche in Paesi come la Svezia e la Norvegia la bolla immobiliare si sta gonfiando a vista d'occhio. Mentre il Sud migliora, insomma, il Nord inizia a preoccupare.
I mercati sembrano percepirlo. Se gli investitori fanno arrivare al Tesoro italiano 20 miliardi di euro di ordini d'acquisto per comprare un nuovo BTp quindicennale, significa che non vedono più «maiali» in questa parte dell'Europa. Ma opportunità. Per contro, mentre i rendimenti dei BTp crollano grazie ai grandi flussi di acquisti, a salire sono i tassi d'interesse dei titoli nordici. Che vengono venduti. I decennali inglesi negli ultimi 12 mesi sono lievitati di 0,69 punti percentuali. Nello stesso periodo, invece, i tassi dei BTp decennali sono scesi di 2,95 punti. Tanto che ormai i titoli italiani pagano appena 33 centesimi in più di quelli britannici. È ovvio che questo movimento dipende in gran parte alle diverse prospettive della politica monetaria (Oltremanica sono attesi rialzi dei tassi nel 2015, mentre in Eurolandia si prevedono tagli), ma può anche essere causato da un riequilibrio nella percezione dei rischi globali. In poche parole: il mercato si accorge che non sono più tutti al Sud.
Eppure non si può non notare come questo riequilibrio sia, in fondo, causato dalla stessa medicina globale: le grandi iniezioni di liquidità. È la liquidità che crea la bolla immobiliare nel Nord. È la liquidità che investe i BTp e la Borsa di Milano. Anni di politica monetaria ultra-espansiva stanno insomma creando i primi effetti collaterali. E, per un'ironica legge del contrappasso, rischiano di mandare all'«inferno» anche i vecchi «paradisi».

l’Unità 15.5.14
Le Monde, vince la redazione. La direttrice si dimette
di Roberto Arduini


Nougayrede ha lasciato la direzione del quotidiano francese Le Monde, dopo essere stata sfiduciata dalla maggioranza dei giornalisti. Contestata da mesi all’interno del quotidiano, le sue dimissioni giungono dopo più di una settimana di braccio di ferro tra la direzione e la redazione del giornale: infatti, sette caporedattori su undici si erano dimessi all’inizio di maggio. E i suoi due vicedirettori, Vincent Giret e Michel Guerrin, avevano presentato le loro dimissioni lo scorso venerdì.
All’origine del braccio di ferro ci sarebbe una serie di conflitti irrisolti su diversi temi con i giornalisti che lamentavano una mancanza di comunicazione tra caporedattori e direzione. A Nougayrede i capiredattori contestavano una gestione troppo autocratica del giornale, scelte troppo schiacciate su quelle della proprietà (con un trasferimento di molti redattori nel settore digitale, scelta considerata una forma di ristrutturazione del quotidiano preludio però a una serie di licenziamenti) e l’abolizione delle pagine dedicate a ambiente, sociale e periferie. In una lettera aperta alla direzione e a Louis Dreyfus, presidente del direttorio, i sette giornalisti dimissionari hanno denunciato che «Da diversi mesi abbiamo inviato molti messaggi d’allerta per segnalare importanti disfunzioni, come anche l’assenza di fiducia e comunicazione con la direzione, cosa che ci impedisce di svolgere il nostro ruolo». Tutto senza esito perché la direttrice porta avanti una gestione «solitaria, senza ascoltare nessuno».
Nougayrede,47 anni, ex corrispondente da Mosca e vincitrice del premio Albert Lonres per i suoi reportage dalla Cecenia, era approdata alla guida del quotidiano nel 2013, dopo la morte improvvisa nel novembre 2012 dell’allora direttore, Erik Izraelewicz. Nougayrède aveva assunto l’incarico nel marzo del 2013, eletta con l’80% dei voti dei giornalisti, primo direttore donna del quotidiano di rue de Solferino in più di 65 anni di storia. In una lettera la Nougayrède ha spiegato di «non aver più modo di svolgere in serenità e nella pienezza dei suoi poteri» le proprie funzioni. Nella sua lettera la Nougayrède ha aggiunto: «La volontà di certi membri del giornale di ridurre drasticamente le prerogative del direttore per me è incompatibile col proseguimento della mia missione. Non posso acconsentire a questo ridimensionamento del ruolo del direttore».
La protesta era iniziata a febbraio quando era stato annunciato il piano di mobilità che prevedeva lo spostamento alla redazione digitale di una cinquantina di giornalisti. Il presidente del direttorio di Le Monde, Louis Dreyfus, davanti alla «rivolta» della redazione, aveva già rinviato da giugno a fine settembre il piano di mobilità e la riorganizzazione del quotidiano con una nuova formula per l’edizione cartacea e il varo di un’edizione digitale del mattino per telefoni cellulari e iPad. Nel sito web del quotidiano francese la notizia è stata riportata con una foto e poche laconiche righe: «La direttrice si è dimessa in seguito ai disaccordi sulla governance».

il Fatto 15.5.14
Natalie e Jill le direttore si dimettono (quasi) insieme
Abramson e Nougayrède lasciano ‘New York Times’ e ‘Le Monde’
di Luana De Micco e Stefano Citati


Natalie e Jill se ne sono andate quasi insieme, chiudendo dietro di loro la porta della direzione di due grandi quotidiani mondiali sulle due coste dell’Atlantico. Natalie Nougayrède, 48 anni nominata l’anno scorso, e Jill Abramson, 60 anni nominata nel 2011, erano state le prime donne alla guida di Le Monde e New York Times e a poche ore di distanza l’una dall’altra si sono dimesse ieri. La francese dopo giorni di crisi e tensioni con la redazione, di punto in bianco l’americana, in un passaggio della guardia che premia come primo direttore afro-americano il capo redattore Dean Baquet.
Le Monde invece cerca ancora una nuova guida. Nougayrède ha ceduto al braccio di ferro degli ultimi giorni con la redazione: “In queste condizioni non mi è più possibile assicurare pienamente e serenamente la direzione del giornale”, ha scritto in un messaggio, annunciando le sue dimissioni. Era stata eletta, con il consenso generale, appena poco più di anno fa, nel marzo 2013. Un passaggio lampo nel prestigioso quotidiano fondato nel 1944, dopo una carriera come inviata internazionale. “La volontà di certi membri di Le Monde di ridurre drasticamente le prerogative del direttore del giornale è incompatibile con il proseguimento della mia missione e indebolirà profondamente e per lungo tempo la funzione. Gli attacchi diretti e personali nei confronti della direzione e del mio operato - ha aggiunto -, mi impediscono di portare avanti il piano di trasformazione concordato con gli azionisti e che necessita un ampio appoggio della redazione, nell’interesse del giornale”.
Insomma, Natalie Nougayrède, ha detto una fonte ben informata, non aveva nessuna intenzione di ritrovarsi a interpretare un ruolo per così dire da “regina di Inghilterra”, di semplice rappresentanza. Ciò che le era stato proposto per conservare la poltrona. Le dimissioni erano dunque diventate per lei inevitabili. All’interno del giornale era completamente isolata soprattutto da quando, appena alcuni giorni fa, due vice direttori a lei vicini, Vincent Giret e Michel Guerrin, avevano deciso di andarsene. Nel frattempo la bionda 48nne ha cercato di negoziare una mediazione con la redazione. Ha tentato di riunire un nuovo staff intorno a sé. Senza trovare alleati. Lunedì sera ha incontrato i tre azionisti, quegli stessi Pier-re Bergé, Mathieu Pigasse e Xavier Niel che l’anno scorso le avevano praticamente consegnato nelle mani le redini del giornale. Ma non c’era più nulla da fare. Le dimissioni della direttrice “non sono una buona notizia”, ha commentato il presidente del direttorio, Louis Dreyfus, in una nota ai redattori. Il nuovo direttore sarà “nominato in una logica di comune accordo”. A Natalie Nougayrède erano rimproverati i metodi di gestione “rigidi” e “autarchici”. Ma è vero che, alla scomparsa del predecessore, Erik Izraelewicz, ha ereditato un giornale che andava già male (con 275.310 copie vendute nel 2013, ovvero -4,44%) e che viveva la difficile transazione dal cartaceo al web. La crisi è scoppiata con le dimissioni di massa, la scorsa settimana, di 7 capi redattori contro il piano di mobilità che prevede il trasferimento di una cinquantina di giornalisti dal cartaceo all’on line e un restyling del giornale. Piano giudicato “brutale”. “La direzione ha voluto fare tutto e subito”, sostengono i sindacati. E l’errore si paga.

La Stampa 15.5.14
Tra Cina e Usa il gioco sottile di due giganti
Fu in un taxi, dieci anni fa a Pechino, che capii veramente quanto è grande la Cina
di Francesco Guerrera


Fu in un taxi, dieci anni fa a Pechino, che capii veramente quanto è grande la Cina.
Stavo parlando di calcio col tassista in un misto orripilante di cinese e inglese - «Baggio…ting hao…very good!» - quando imboccò un’autostrada enorme che sembrava fosse stata aperta il giorno prima.
«La quarta tangenziale», mi disse molto fiero. «Pechino è l’unica città al mondo con quattro tangenziali».
Oggi, di tangenziali a Pechino ce ne sono sette, monumenti d’asfalto che celebrano la voglia di crescere della Cina moderna.
Sono anni che il Paese continua a spingere sull’acceleratore e i risultati sono eccezionali.
La Cina sta per superare gli Stati Uniti per diventare l’economia più grande del mondo. Questo, almeno, è quanto ha detto l’International Comparison Program, un progetto della Banca Mondiale, un paio di settimane fa.
La notizia ha fatto scalpore, soprattutto in America e Cina.
Se l’Icp ha ragione, saremmo di fronte ad un momento storico, un passaggio di consegne dall’Ovest all’Est che confermerebbe il declino degli Usa e l’ascesa ormai inesorabile della Cina come strapotenza economica.
I numeri, però, non sono chiari. Se si guarda solo il prodotto interno lordo, l’economia Usa vale più o meno il doppio di quella cinese (l’Italia è all’ottavo posto). Il sorpasso non è previsto prima del 2020.
Ma l’Icp e la Banca Mondiale tentano di misurare le «vere» dimensioni delle economie del pianeta. Non solo il valore nominale del Pil ma anche il potere di acquisto delle monete.
L’idea è ovvia per chiunque abbia viaggiato all’estero: nei Paesi in via di sviluppo, come la Cina, il denaro «compra» di più perché beni e servizi costano meno che nel primo mondo. In questo senso - e solo in questo senso - l’Icp ha detto che la Cina sta per superare gli Stati Uniti.
La metodologia è legittima ma i risultati sono discutibili. E’ vero che a Shanghai uno yuan compra più di un dollaro a New York, ma un Paese come la Cina deve usare la propria divisa per importare beni dall’estero. Quando comprano missili e navi da guerra, gli iPhone o le Bmw, i cinesi devono pagare il prezzo dettato dai mercati internazionali.
Ma anche se la Cina non è ancora l’unica superpotenza dell’economia mondiale, il fiato del dragone cinese è sul collo dello zio Sam e gli Usa lo sentono.
Le reazioni dei due Paesi ai calcoli della Banca Mondiale la dicono lunga sulla precaria posizione dell’economia mondiale. Negli Stati Uniti, media ed esperti hanno tentato o di ignorare i numeri dell’Icp o di spiegare perché fossero sbagliati. In Cina, il governo ha fatto lo stesso. L’Istat cinese ha detto che non «riconosce i risultati come statistiche ufficiali» e gli organi di stampa governativi hanno detto chiaramente di non credere ai numeri.
E’ un sottile gioco politico, tra due Paesi che hanno molto da perdere da un confronto aperto sia sul piano economico.
Gli Usa - soprattutto la debole amministrazione Obama - non vogliono sentire parlare di declino terminale, a pochi anni da una crisi finanziaria durissima e da una recessione devastante.
E la Cina fa la classica pretattica: non ha nessuna intenzione di spaventare il mondo né di aumentare le aspettative di una popolazione locale che, in generale, non vede molti frutti di questa crescita mozzafiato. La verità è che la Cina rimane un Paese povero perché ha quasi un miliardo e mezzo di abitanti: il Pil pro capite è il 99esimo al mondo, anche tenendo conto del valore d’acquisto della moneta.
«La Cina è grande ma non è forte», ha detto il guru dell’economia cinese Mao Yushi al Financial Times. E’ un aforisma applicabile a tanti aspetti della crescita di un Paese che mezzo secolo fa era ancora nel medioevo di Mao Zedong.
Per ora, gli Stati Uniti e la Cina sono alleati nel non voler cambiare lo status quo economico. Ma è una pace fragile, destinata ad essere interrotta dalle correnti inarrestabili di commercio, capitali e crescita.
La Cina già controlla aspetti fondamentali dell’economia del pianeta. Il suo appetito insaziabile per materie prime sta trasformando (in meglio) Paesi quali l’Australia e il Brasile, la Mongolia e l’Angola. Gli investimenti di aziende e banche cinesi stanno aiutando l’Africa a combattere secoli di oppressione e problemi economici. Non ci sono molti paralleli storici per l’impatto della Cina sul resto del mondo: un Paese in via di sviluppo che muove mercati mondiali e cambia la realtà economica di interi continenti.
Non è un caso che il successo di Pechino stia creando tensioni politiche, soprattutto con il Giappone, un’altra potenza economica in declino che un tempo aveva ambizioni di egemonia regionale in Asia.
Ma sarebbe un errore dare gli Usa per spacciati. Nonostante i fallimenti degli ultimi anni e una seria crisi di leadership politica nella Casa Bianca e nel Congresso, l’America possiede risorse uniche. E non parlo solo di petrolio e gas a fratturazione idraulica che stanno alimentando una nuova rivoluzione industriale in parti del Paese.
Mi riferisco più alle «energie capitaliste» di un Paese che ha fatto del rinnovo la sua raison d’être. La lista dei vantaggi dell’America sul resto del mondo è lunga: dai mercati finanziari all’industria dell’intrattenimento di Hollywood, dagli imprenditori della tecnologia all’esercito di immigrati pronti a tutto per prendersi un pezzetto del sogno americano.
L’influenza degli Stati Uniti sul resto del mondo è più grande persino dell’economia Usa e né la Cina, né l’Europa possono pensare di contrastarla nei prossimi anni.
Nell’autostrada dell’economia, i sorpassi sono più difficili che nelle ampie tangenziali di Pechino.
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.

La Stampa 15.5.14
Fabbriche in fiamme e proteste
Il Vietnam si ribella a Pechino
Rivolta anti-cinese per una piattaforma petrolifera nelle isole contese
di Ilaria Maria Sala

qui

Repubblica 15.5.14
Il popolo della piazza
di Thomas L. Friedman



HANOI (VIETNAM). PENSO proprio che inizierò a viaggiare più spesso da Kiev a Hanoi. È soltanto quando hai la possibilità di recarti in due luoghi apparentemente così tanto privi di connessione alcuna che ti rendi conto davvero dei big trend. E uno dei big trend di cui mi sono accorto è l’affermarsi del “Popolo della Piazza”.
Nel 2004 il politologo di Harvard Samuel Huntington parlò di una “superclasse” globale che si andava affermando, quella degli “Uomini di Davos”. Si riferiva a chi prendeva parte al Forum economico mondiale di Davos: un’élite transnazionale e cosmopolita, formata da appartenenti al mondo dell’hitech, della finanza, delle multinazionali, del mondo accademico e delle Ong. Gli Uomini di Davos avevano “scarso bisogno di lealtà nazionale” e più in comune tra loro dei loro concittadini, sosteneva Huntington. Oltretutto, avevano anche le competenze giuste per trarre beneficio in modo sproporzionato dalla nuova globalizzazione dei mercati e dal diffondersi delle tecnologie dell’informazione.
Beh, a distanza di dieci anni, mentre la rivoluzione dell’Information Technology e la globalizzazione sono state democratizzate e si sono espanse, e siamo passati dai laptop per le élite agli smartphone per tutti, dai network per i pochi fortunati di Davos a Facebook per tutti, e dai ricchi che potevano parlare dalle stanze del potere in esclusiva, a chiunque oggi può rispondere su Twitter ai propri leader - sta vedendo la luce una nuova forza politica globale, più grande e più importante degli Uomini di Davos. Io la chiamo il Popolo della Piazza.
È formato per lo più da giovani, che aspirano a standard di vita migliori e a una maggiore libertà, che perseguono le riforme o la rivoluzione (a seconda del governo che si ritrovano), e sono collegati gli uni agli altri dal fatto di ammassarsi nelle piazze o ritrovarsi in massa in qualche piazza virtuale o in entrambe, e sono uniti più da una direzione comune nella quale vorrebbero avviare le loro società che da un programma comune. Questo Popolo ormai l’abbiamo visto nelle piazze di Tunisi, del Cairo, di Istanbul, Nuova Delhi, Damasco, Tripoli, Beirut, Sana’a, Teheran, Mosca, Rio, Tel Aviv, e Kiev, come pure nelle piazze virtuali di Arabia Saudita, Cina e Vietnam.
Questi tre ultimi paesi hanno un numero insolitamente grande di utenti di Facebook, Twitter o YouTube, o dei loro equivalenti cinesi, che complessivamente formano una piazza virtuale nella quale ritrovarsi, entrare in contatto, promuovere il cambiamento, e sfidare l’autorità. Il blogger più popolare in Vietnam, Nguyen Quang Lap, ha più follower di qualsiasi giornale governativo qui a Hanoi. In Arabia Saudita uno degli hashtag più popolari di Twitter è #If I met the King I would tell him (se incontro il re, glielo dico).
Ma il Popolo della Piazza non sta soltanto addensando le sue file e appropriandosi di sempre maggior potere. “Il nostro obbiettivo è che entro tre anni ogni vietnamita possegga uno smartphone” mi ha detto Nguyen Manh Hung, a capo del Viettel Group, una società di telecomunicazioni vietnamita. “Stiamo mettendo a punto uno smartphone che costi meno di 40 dollari, ma il nostro obbiettivo è scendere sotto i 35. Facciamo pagare due dollari al mese per internet, per la connessione a un pc, e 2,50 per i servizi voice da smartphone”. Dato che i media vietnamiti sono soggetti a una rigida censura, non è un caso se 22 su 90 milioni di vietnamiti hanno una pagina Facebook. Soltanto due anni fa erano otto milioni. Il Vietnam ha centomila giovani che studiano all’estero: dieci anni fa erano un decimo. E sono tutti Popolo della Piazza del futuro.
Certo, il Popolo della Piazza rappresenta politiche diverse, compresi i Fratelli musulmani in Egitto e gli ultranazionalisti a Kiev. Ma il trend dominante che pervade tutti loro è uno solo: “Adesso abbiamo gli strumenti per vedere come vivono tutti gli altri, comprese le opportunità che ci sono all’estero e quanto sono corrotti i nostri leader in patria. E non tollereremo all’infinito di vivere in un posto nel quale non possiamo realizzare il nostro pieno potenziale. Oltretutto, adesso abbiamo gli strumenti per partecipare e fare qualcosa in proposito”.
Come dice un esperto vietnamita di politica estera, in un modo o in un altro il Popolo della Piazza “chiede un nuovo contratto sociale” con la vecchia guardia che ha dominato la politica. “La gente vuole fare sentire la propria voce in ogni dibattito importante”, per non parlare della richiesta di scuole migliori, strade e legalità. Il Popolo della Piazza fa anche presto a instaurare paragoni con gli altri: “Perché quei thai escono a manifestare e noi non possiamo?”.
Il Popolo della Piazza in Ucraina vuole associarsi all’Unione europea non soltanto perché crede che essa sia la chiave per la prosperità, ma anche perché crede che le leggi europee, le norme giudiziarie, gli standard richiesti e il requisito della trasparenza forzeranno quei cambiamenti che vogliono a casa loro ma che non possono essere generati né dall’alto né dal basso. I riformisti vietnamiti vogliono per gli stessi motivi entrare a far parte del Partenariato transpacifico. A differenza degli Uomini di Davos, il Popolo della Piazza vuole sfruttare l’economia globale per riformare i propri paesi, non per innalzarsi sopra di essi.
A Hanoi ho tenuto un discorso sulla globalizzazione all’università. Poi ho chiacchierato con Anh Nguyen, una giovane studentessa di 19 anni che mi ha rivolto alcune domande interessanti. La sua conversazione era inframezzata dalle espressioni tipiche della Piazza: “Sento di avere più potere… Penso che il Vietnam possa cambiare … Per favore racconti a tutto il mondo l’enorme caso di appropriazione indebita [in una società statale di spedizioni] portato alla luce qui. Prima la gente se ne sarebbe rimasta zitta, ma adesso è arrivata la sentenza con la condanna a morte dei responsabili. Questo ha stupito moltissimo la popolazione… Adesso non tutti i grossi boss si sentiranno protetti dal governo… Riceviamo molte informazioni da fonti diverse di tutto il mondo. E questo ci apre gli occhi”. Anh Nguyen ha aggiunto anche : “Rispetto ai miei genitori, sento di avere molte più possibilità di perseguire il mio pieno potenziale, ma non ancora quanto vorrei”. (Traduzione di Anna Bissanti)

il Fatto 15.5.14
Il libro “Una breve primavera”
Traditi e omologati: la triste fine dei ragazzi della Resistenza
di Pierfranco Pellizzetti


Tra favola e mito, come un Saturno che mangia i suoi figli. Le giovani generazioni nell’Italia del dopoguerra nel nuovo libro di Pierfranco Pellizzetti.
La storia dell’Italia repubblicana può essere raccontata come una versione in costante aggiornamento del mito di Saturno; la divinità che procreava i figli per poi sbranarli. Ossia l’interminabile sequela di coorti generazionali prosciugate delle loro migliori energie intellettuali e invariabilmente mandate al macero.
Si cominciò [...] con i ragazzi che per due inverni di ferro e di fuoco - tra il 1943 e il 1945 - si illusero (vennero illusi) di essere destinati a canalizzare le esperienze formative e fondative della lotta partigiana nello spirito fecondatore di una classe dirigente rinnovata; profondamente diversa per passione e civismo da quelle che l’avevano preceduta, durante il Ventennio e prima ancora, nell’Italietta dei re sciaboletta, dei notabili e delle burocrazie borboniche di ritorno. Tra “il fascismo come autobiografia di una nazione”, come scrisse Piero Gobetti, e il “quest’Italia non ci piace” di Giovanni Amendola.
Difatti i ventenni del 1945 vennero rapidamente normalizzati da uomini intimamente vecchi, nella mentalità del troncare e sopire prima ancora che anagraficamente, presidiatori dei varchi d’accesso al potere in una logica di puro controllo. Residui delle nomenclature compromesse con i tanti passati, talebani ante litteram del pensiero dominante o - piuttosto - funzionari dei ritrovati partiti di massa, marchiati nell’essenza più profonda dalla “legge ferrea delle oligarchie”. E fu una facile mattanza di energie nuove. Soprattutto in quanto altamente vulnerabili nella loro inesperienza, nella loro ingenuità. Solo quelli che - sottomettendosi con una rapida abiura omologante all’ordine in consolidamento - accettarono di adattarsi alle nuove situazioni, vennero salvati dal destino della messa ai margini attraverso processi di cooptazione individuale. Operazione che modificava immediatamente il Dna intellettuale dei cooptati, desertificandone i valori civili e trasformandoli in pallidi cloni dei loro stessi cooptatori; perfino invecchiandone precocemente le fattezze. [...]
UN PARADIGMA dominante, quello delle priorità indotte dai manovratori, di derivazione diretta dalla vocazione oligarchica insita nel sistema politico (la cui priorità costante era ed è quella di tenere a bada la società), su cui all’epoca andavano innestandosi le blindature d’acciaio e veleno della Guerra fredda. La prova generale di una rappresentazione della realtà all’insegna della paura quale strumento per deviare l’attenzione dalle condizioni concrete, intese come rapporti di forza e poste in gioco, allo scopo di tutelare gli equilibri sociali e politici egemoni. Mimetizzandoli. Una storia lunga mezzo secolo (la Prima Repubblica ), che si intreccia con la cronaca della divisione del lavoro tra le organizzazioni cardine di quegli equilibri: la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, con le loro formazioni satellite. Poi ribadita al ribasso nella Seconda, di Repubblica; quella della collusività e dell’affarismo senza neppure più la giustificazione di un mondo diviso in blocchi. Vent’anni dopo la fine degli anni Quaranta e per poco più di un altro biennio, la generazione successiva a quella resistenziale sembrò in procinto di forare la cappa gommosa che avvolgeva l’intera società, imprigionandola nelle sue appiccicose pareti flessibili e mobili. E fu il Sessantotto.
Presto ci si rese conto che quanto veniva rappresentato come un’insorgenza politica era - in effetti - una rivoluzione nei costumi; ciò che si sarebbe potuto definire nel lessico di allora “una perturbazione nella sovrastruttura”, presto riassorbita. Del resto senza troppi costi per i soliti normalizzatori. E ancora una volta tra quegli irriducibili contestatori dei padri, scopertisi libertari al tepore di un Joli Mai, ci furono i lesti a riciclarsi quali quadri e uomini di mano della restaurazione immediatamente successiva.

Corriere 15.5.14
Teatro del Bardo metafora del mondo
Noi che abbiamo l’animo libero di Edoardo Boncinelli e Giulio Giorello
di Stefano Jesurum


Che cosa succede se un noto filosofo della Scienza che è stato anche matematico, un simpatico signore con l’aria di aggirarsi perennemente per le piazze e le strade di Paperopoli — chiamiamolo Giulio — incontra un suo semicoetaneo, biologo genetista di vaglia che un tempo era un fisico, altrettanto buontempone e svagato — chiamiamolo Edoardo? Accade che, naturalmente, parlano, si confrontano, conversano. Badate bene: non argomentano di pallose tematiche scientifiche, interessanti, certo, utilissime, seppur per noi cittadini comuni astruse e lontane, ma di ciò che forse più amano al mondo, ovvero di arte, letteratura, teatro. Insomma di cultura, sola arma, con i suoi insostituibili archetipi psicologici, capace a loro avviso di farci procedere, superare gli attuali momenti difficili, scuotere e risvegliare le coscienze oggi palesemente in crisi. Ambedue appassionati cultori di Shakespeare, i due ragazzi suppergiù settantenni, s’incontrano, chissà quanto per caso, in occasione del 450° anniversario della nascita del Bardo di Avon.
Ed ecco prendere forma Noi che abbiamo l’animo libero di Edoardo Boncinelli e Giulio Giorello (Longanesi, pp. 202, € 14,90): due saggi, E.B. sull’Amleto di Amleto, G.G. sulla Cleopatra di Antonio e Cleopatra più un lungo dialogo tra i due a cura di Ilaria Cozzaglio. Detto per inciso, quel «noi che abbiamo l’animo libero» lo recita il principe danese, trasmettendo qualcosa di più della propria innocenza: «Dal piano dell’assenza di colpa ci fa passare alla possibilità di affrontare le sfide del mondo senza timore». Meglio ancora: Cleopatra e Antonio, tragici personaggi liberi: «...anzitutto, dall’ossequio al miserabile potere delle corti, ai giochi della politica, alla stessa finitudine delle umane creature. Si tratti di purificare la Danimarca dalla corruzione o di salvare l’Egitto dall’imperialismo di un ingombrante alleato».
I nostri due — sia detto con immensa, empatica stima — scienziati mattacchioni («Cos’è mai la pazzia?», Amleto Atto II, il cortigiano Polonio, «Se vogliamo definirla, cos’altro è, se non l’essere pazzi?») si divertono così, rimandando al Bardo e poi divagando e poi a Shakespeare ritornando. Usano il teatro come metafora del mondo, parlano e sparlano di italici filosofi di oggi, e di Copernico, Socrate e tanti altri, di questioni «di genere», di Camus, di infiniti ispiratori e portatori di conoscenza e saggezza. Vagliano la condizione umana, ovviamente la vita e ovviamente la morte, la fallibilità della ragione e la sete di gloria, la precarietà dell’esistenza e la molla creatrice, la responsabilità, l’anelito alla libertà. E la contrapposizione tra il «fragile principe ribelle» e la «regina accorta e sensuale» diviene la strada attraverso cui affrontare timori, speranze e passioni degli uomini e delle donne contemporanei che arrancano attraverso i dilemmi della morale, della religione, della politica.
Scrive G.G. che «Shakespeare annuncia e mette in scena le crisi che segnano il trapasso dal medioevo all’età moderna». E.B. sottolinea a sua volta la potente vicinanza del Bardo «con la sua dinamica di guerra e amore, col suo intrico di passioni che alimentano e sono alimentate dal conflitto, tra popoli ed entro un popolo, fino a quel tipo di “guerra civile” che si dispiega nell’animo dei singoli protagonisti». Quindi G.G. ritorna a una sorta di guerra civile della coscienza, riconoscendo in ciò l’ombra lunga di Giordano Bruno. Di rinvio in rinvio, sorta di ping pong tra due menti «pazze» e sopraffine.
La conclusione? Impossibile. Scegliamone, fra le tante, una proposta dal genetista biologo riferita all’ultimo monologo dell’Amleto. Scrive E.B.: «”Che cos’è mai l’uomo, se il suo massimo pregio e l’impiego del suo tempo non consistono che nel dormire e nel mangiare? Una bestia, niente di più. Certo, chi ci fece con tanto discernimento, capaci di guardare in avanti e indietro, non ci diede tali abilità e una ragione quasi divina perché ammuffissero in noi per il disuso”. Shakespeare insegna, se non a “beffarsi”, a cercar di indovinare ciò che pare “invisibile”, e ad agire coraggiosamente nelle nebbie del domani».

Corriere 15.5.14
La Grande Guerra
Giunse al fronte la modernità. E colse i generali di sorpresa
Giorgio Rochat: nel 1914 si pensava a un conflitto breve
di Antonio Carioti


Folle incoscienza è forse l’espressione più adatta a descrivere il clima in cui l’Europa corse alle armi nel 1914, come sottolinea lo storico militare Giorgio Rochat: «Da entrambe le parti, nei Paesi dell’Intesa come negli Imperi centrali, tutti erano convinti che il conflitto sarebbe durato pochi mesi, sarebbe stato eroico e vittorioso. Troppi sottovalutavano, o consideravano in modo errato, l’influenza del progresso tecnico».
Secondo Rochat l’unica innovazione di cui si era capita l’importanza era la ferrovia: «Dall’antichità ai tempi di Napoleone, gli eserciti si erano mossi a piedi e il cavallo era rimasto il più efficiente mezzo di locomozione. Rifornire un armata in territorio nemico era molto difficile. Ma le ferrovie cambiano tutto. Masse enormi possono essere spostate in fretta e adeguatamente nutrite. Se nel 1859 il Piemonte aveva faticato ad alimentare 50-60 mila uomini impiegati in Lombardia contro gli austriaci, nel 1917 e nel 1918 l’Italia riesce a sostentare circa due milioni di uomini schierati al fronte».
Si contava appunto sui treni per accorciare la guerra. Ma non fu così. «Una volta trasportati grandi eserciti alla frontiera, oltre i confini i soldati dovevano muoversi a piedi e bisognava rifornirli con i carri trainati da cavalli, in un contesto nel quale l’enorme aumento di potenza delle bocche da fuoco, cannoni e mitragliatrici, favoriva i difensori rispetto agli attaccanti. Si potevano distruggere le fortificazioni con l’artiglieria, ma poi nell’avanzare bisognava spostare i pezzi a mano, dando al nemico il tempo di riorganizzarsi. Ciò spiega lo spaventoso dispendio di vite umane per guadagnare pochi chilometri. Solo con l’uso intenso dei veicoli a motore, specie dei mezzi corazzati appoggiati dall’aviazione, la situazione sarebbe cambiata nella Seconda guerra mondiale».
Del resto negli eventi del 1914 pesò anche un caso di parziale di motorizzazione: «È un po’ un mito la storia dei taxi parigini utilizzati per spostare le truppe francesi durante la vittoriosa resistenza sulla Marna. Tuttavia è vero che il generale Joseph Joffre fu avvantaggiato dal fatto di poter trasportare i soldati più facilmente, trovandosi in territorio amico, rispetto ai tedeschi, che erano giunti alla porte di Parigi, ma dovevano marciare a piedi. Decisive furono le ferrovie, ma anche i taxi servirono a far affluire rinforzi nel punto giusto al momento giusto».
A proposito di trasporti, spesso si dice che il precipitare della guerra fu dovuto anche alla necessità di attuare una mobilitazione rapida. In particolare i generali tedeschi erano ossessionati dall’idea di sconfiggere subito la Francia, prima che la Russia riuscisse a mettere in campo le sue masse sterminate di soldati. «La questione esiste — replica Rochat — ma non è determinante. Nell’estate del 1914 non si mostrano bellicosi soltanto i militari. Anche i leader politici spingono verso la guerra. È vero che la mobilitazione è un meccanismo rigido, per cui anche un breve ritardo può avere effetti gravi. Ma non sono le esigenze della mobilitazione che costringono ad affrettare l’inizio delle ostilità: semmai sono il pretesto con cui si giustifica una condotta dettata dalla volontà politica di ricorrere alle armi».
C’è un responsabile principale della catastrofe? Si può parlare di colpa tedesca? «L’Europa all’epoca era dominata dall’asse franco-britannico, appoggiato dalla Russia. La Germania era la potenza emergente, che voleva sovvertire quell’equilibrio. La guerra nasce da un contrasto di potenza in cui tutti gli attori seguono una logica imperialista: non vedo francamente uno Stato più responsabile degli altri. Direi che tutti lo sono in proporzione al loro peso sullo scacchiere internazionale, quindi i più colpevoli sono la Germania e la Gran Bretagna, anche se non bisogna sottovalutare le responsabilità di piccoli Stati come la Serbia».
Però la prima mossa dei tedeschi è aggredire il Belgio, Paese neutrale. «Potrà sembrare un discorso cinico, ma in guerra atti del genere sono da mettere in conto. Nella lotta per la sopravvivenza di solito non si rispettano le regole. Per quanto grave sia quell’episodio, non credo si possa parlare di una prevalente colpa tedesca. Del resto la Germania imperiale del 1914 non è quella di Hitler: ha un Parlamento eletto a suffragio universale maschile, un forte movimento operaio, la libertà di stampa. Lo stesso vale per l’Austria-Ungheria, ma non per la Russia zarista, Paese dell’Intesa».
Eppure c’è chi pensa che si debba parlare di una «guerra dei trent’anni» dal 1914 al 1945. Rochat non è convinto: «La Grande guerra è un conflitto a sé, anche se non ne esce un assetto stabile e quindi c’è un legame con le crisi successive. Del resto nelle guerre mondiali vediamo una tendenza della Germania ad acquisire l’egemonia europea che non è cessata dopo il 1945 e anzi sembra essersi realizzata proprio adesso con mezzi pacifici».
E l’Italia? Nel 1915 la guerra di trincea era già cominciata: perché il nostro Paese non ricavò alcun insegnamento da quanto stava accadendo? «In effetti i progetti del comandante Luigi Cadorna –—spiega Rochat — si fondavano sull’illusione di sfondare sull’Isonzo e arrivare a Vienna in un paio di mesi. Sperava di risolvere la guerra a favore dell’Intesa. Ma non è un caso d’incoscienza isolato. I generali di tutti gli altri Paesi in lotta, all’inizio del 1915, credono ancora, al pari di Cadorna, che si possa chiudere il conflitto in breve tempo, magari entro l’estate. Perciò lanciano una serie di offensive sanguinose e inconcludenti».
Resta da capire perché prevalse la scelta dell’intervento, cui erano contrarie le masse popolari socialiste e cattoliche, nonché un leader liberale influente come Giovanni Giolitti. «La classe dirigente in realtà era quasi tutta a favore della guerra, era convinta che l’Italia, se voleva essere una potenza europea, non potesse rimanere fuori dal conflitto. Anche la piccola borghesia urbana era in prevalenza interventista, soprattutto gli studenti. Lo stesso Giolitti era più prudente di Antonio Salandra, che lo aveva sostituito alla guida del governo, ma non prese mai posizione in modo netto».
E la Chiesa? «Il Papa Benedetto XV invoca la pace e nel 1917 definisce la guerra “inutile strage”, ma nel complesso il mondo cattolico italiano tiene a dimostrare il suo patriottismo e aderisce allo sforzo bellico, così come avviene in tutti gli altri Paesi. Per esempio Angelo Roncalli, il futuro Papa Giovanni XXIII, presta servizio senza nessun problema nei servizi sanitari dell’esercito. Prevale nelle grandi Chiese la visione tradizionale per cui il buon cristiano deve obbedire alle autorità costituite, anche se si tratta di combattere».
Però durante il conflitto cresce l’insofferenza dei soldati italiani, come dimostra il gran numero dei fucilati in modo sommario o per ordine delle corti marziali. «Da noi — osserva Rochat — le esecuzioni sono un migliaio, il quadruplo rispetto alla Francia e dieci volte più che in Germania. Dipende dalla migliore organizzazione tedesca: dalle capacità degli ufficiali e dal rispetto dell’autorità diffuso nella truppa. D’altronde un terzo dei nostri soldati sono analfabeti, mentre quasi nessuno lo è nelle armate tedesche e asburgiche. Però nell’esercito italiano non avvengono i massicci ammutinamenti che si verificano invece tra i soldati francesi e austro-ungarici, per non parlare dei russi».

Corriere 15.5.14
Un sisma che sconvolse anche il Medio Oriente
Pesano tuttora gli errori di Londra e Parigi
di Lorenzo Cremonesi


Medio Oriente e Prima guerra mondiale: è il tema affrontato nell’ottavo dvd della serie «14-18 Grande guerra». Ma di solito se ne parla poco. In genere tendiamo a raccontare il conflitto come una «guerra civile europea». Dimenticando però che quello stesso conflitto condusse non solo alla fine dell’Impero ottomano, ma soprattutto resta all’origine della destabilizzazione cronica che da un secolo scuote gli ex Paesi coloniali sulla sponda meridionale del Mediterraneo, dal Marocco alla Mezzaluna fertile. Tanto che il caos violento delle cosiddette Primavere arabe, esplose nel 2011 e tuttora al centro delle tensioni regionali, viene letto anche come l’ennesimo tentativo da parte delle popolazioni locali di cambiare e rimodellare i confini «artificiali» concordati segretamente nel 1916 tra Francia e Inghilterra (i cosiddetti patti Sykes-Picot), ancora prima che le truppe del generale Allenby raggiungessero Gerusalemme nel novembre 1917.
Se è vero che in Europa la Grande guerra terminò solo nel 1945, in Medio Oriente invece la si sta ancora combattendo e in questo momento in modo più cruento che mai. Lo scenario più apocalittico è quello siriano, oltre 150 mila morti in tre anni, quasi 9 milioni di profughi, il Paese in ginocchio sotto il tallone della repressione della dittatura alawita e spaventato dagli eccessi anarcoidi dei fondamentalisti sunniti. Questa era stata per oltre quattro secoli una provincia ottomana, comprendente anche Palestina e Transgiordania. Se paragonata ai tumulti del Novecento, l’era del dominio del sultano da Costantinopoli appare tutto sommato pacifica. Alla fine dell’Ottocento Mark Twain nel suo scanzonato Innocenti all’estero descrive una Gerusalemme «quieta, trasandata e sonnolenta sino alla noia». La sua indignazione nasce dopo aver rilevato la sporcizia dei Luoghi Santi e le beghe da pollaio tra le diverse denominazioni cristiane. Nulla a che vedere però con le tensioni politiche che seguiranno le prime sommosse arabe antisioniste scaturite dalla Dichiarazione Balfour del 1917, con cui Londra prometteva di creare in Palestina un «focolare ebraico».
Alla base di tutto questo sta quella Linea nella sabbia , così come recita il titolo di un libro dell’inglese James Barr pubblicato di recente, tracciata brutalmente con il righello dagli ufficiali coloniali di Londra e Parigi. La logica era semplice. La regione veniva divisa in due, senza tener conto affatto delle realtà locali, ignorando tradizioni religiose, etniche, divisioni tribali antiche millenni. Il confine partiva sopra San Giovanni d’Acri, tra la Galilea settentrionale e il Libano meridionale, tracciava la frontiera che tutt’oggi divide la Giordania dalla Siria e quella tra l’Iraq e la Turchia contemporanei. A sud est stava la zona di influenza britannica, a nord quella francese. Poco importava che in mezzo si trovasse l’unità etnico-territoriale del popolo curdo, ancora meno che i cristiani dei monti del Libano fossero amalgamati ai drusi, con i quali si massacravano da anni. E poco importava soprattutto che venissero così tradite le promesse di indipendenza nazionale fatte dagli inglesi agli arabi per garantire la loro fedeltà nella lotta contro turchi e tedeschi.
Dallo sgambetto nacquero quelli che un altro noto storico britannico, David Fromkin, nel suo Una pace senza pace , chiama gli «Stati figli di Francia e Inghilterra: Libano, Siria, Giordania, Iraq, Israele e Palestina». Un tradimento che pesa tutt’oggi nei modi di pensare e nei pregiudizi delle piazze arabe nei confronti degli occidentali, una volta soprattutto gli inglesi e adesso gli americani. Scriverà Lawrence d’Arabia nell’introduzione al suo classico I sette pilastri della saggezza : «Era evidente, sin dall’inizio, che, se avessimo vinto la guerra, le nostre promesse sarebbero state carta straccia». È una condanna impietosa, la sua, contro le ingiustizie commesse nei confronti degli arabi da parte delle potenze vittoriose. «Se fossi stato un consigliere onesto, avrei detto agli arabi di tornare a casa e non arrischiare la vita per una simile prospettiva», aggiunge autocritico, giustificandosi solo con la sua speranza di allora per cui una travolgente vittoria della rivolta araba contro l’esercito ottomano avrebbe potuto indurre le grandi potenze a rivedere il proprio atteggiamento.
Ma così non fu. Di conseguenza la versione tradizionale dell’antisionismo arabo, che sia di matrice laica come quello di Nasser o dell’Olp, oppure islamico-fondamentalista come quello di Hamas e dei Fratelli musulmani, resta fortemente impregnata dal «peccato originale» derivato dalla Prima guerra mondiale. Come del resto non è difficile trovare tra le milizie estremiste sunnite, che oggi stanno cavalcando il progetto del «nuovo califfato» per abolire il confine tra Siria centro-meridionale e Iraq occidentale, il desiderio di ricostruire un Medio Oriente rinato dalle ceneri dei confini coloniali.

Repubblica 15.5.14
Quei burocrati toreri all’eterna corrida del potere immobile
Rituali e linguaggi degli alti papaveri ministeriali nel libro di Roberto Mania e Marco Panara
di Alberto Statera



Palazzo Chigi non è un palazzo, è una città: quindici edifici, 4.200 dipendenti, 21 uffici, 16 dipartimenti, 6 strutture di missione, 2 unità, 300 dirigenti: se non todos muchos caballeros. Questa è solo la testa del multiforme mostro della Pubblica amministrazione che l’ardimentoso Matteo Renzi, con giovanile velleitarismo, ha promesso di voler disarticolare. In quel palazzo-città è segregato con lui il sottosegretario “a tutto” Graziano Delrio, di professione ex medico endocrinologo.
Edap ochi giorni c’è anche il nuovo capo del dipartimento Affari giuridici e legislativi (acronimo Dagl) Antonella Manzione, ex comandante dei vigili urbani di Firenze, che ha partecipato per la prima volta al “pre-consiglio” dei ministri, il mitico giardino incantato dei monopolisti della complessità. Per capire il valore reale dell’evento-Manzione bisognerà leggere Nomenklatura , il libro di Roberto Mania e Marco Panara in uscita per Laterza (pagg.168, euro 15), che nel descrivere «il potere che non si vede» racconta anche come si guerreggia la corrida del “preconsiglio”, dove i tori sono in prevalenza una folla di legulei intrisi di sapienza giuridica al servizio della complessità: consiglieri di Stato, della Corte dei conti, dei Tar, i veri padroni dei ministeri assisi al vertice dei gabinetti ministeriali. Alla sua prima volta, la dottoressa Manzione, che rompe il monopolio dei magistrati amministrativi, è arrivata con la sua cartellina al seguito di Delrio, già ammaestrato dai primi pre-consigli (oltre che forse dalle riunioni di famiglia con i suoi nove figli) e al fischio di inizio ha vissuto la sua prima tauromachia. Si discutono i provvedimenti, se ne valutano le coperture, si litiga, si fa pace, si fanno scambi, si filtra. Se tutto va bene, il toro viene infilzato e la pletora di commi e contro- commi è quasi pronta per il Consiglio dei ministri. Altrimenti, all’italiana, il governo vara solo una “copertina” con la formula magica “salvo intese”, che Mania e Panara giudicano giustamente il marchio di fabbrica della politica degli annunci, ovvero di quello stile di governo nel quale si dà per fatto ciò che ancora fatto non è, possibilmente in tempo per i telegiornali della sera.
Non sappiamo se Matteo Renzi, prima di dichiarare guerra ai mandarini della Pubblica amministrazione, abbia letto il Dia logo sul potere di Carl Schmitt, ma dopo un paio di mesi deve aver avuto precisa la sensazione che purtroppo «anche il principe più assoluto è dipendente dai suoi consiglieri». Che in Italia sono consiglieri di nome e di fatto: consiglieri di Stato, consiglieri dei Tribunali amministrativi, consiglieri della Corte dei conti.
Un network giuridico che si è appropriato del processo di costruzione delle norme, spesso con «culto perverso della complessità », come lo chiamano gli autori di Nomenklatura, che rende difficile se non impossibile il “fare”. Sono diventati monopolisti dei ministeri, imponendo la loro cultura e il loro linguaggio giuridico. Quel che conta non è tanto il risultato, ma l’itinerario della carta quasi sempre imbrattata da formule incomprensibili ai più. Se le leggi sono scritte con i piedi e non sono “auto-attuative” con la semplice pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale , costringono a “decreti attuativi”. Se anche quelli non bastano, niente paura, interverrà il Tar o il Consiglio di Stato per darne l’interpretazione “autentica”.
«Il Consiglio di Stato, la Corte dei conti, le alte burocrazie ministeriali - ha scritto nella sua autobiografia l’ex banchiere Cesare Geronzi, che di potere disinvolto e incontrollato se ne intende più di tutti - formano un potere fortissimo quanto irresponsabile che esercita un controllo pervasivo sulla Pubblica amministrazione. In nome dell’indipendenza, queste entità amministrano da sé le carriere. Formano corporazioni con gerarchie ferree, impermeabili a qualsiasi forma di controllo democratico. E così tutti conservano le poltrone e le relative prebende, spesso arrotondate dagli arbitrati. I magistrati del Consiglio di Stato distaccati ai ministeri scrivono leggi e decreti con ambiguità che lascia ai colleghi in servizio nella magistratura amministrativa il potere di interpretare».
I capi di gabinetto, degli uffici legislativi, i capi dipartimento e i segretari generali, i tecnocrati della Ragioneria generale dello Stato, i magistrati amministrativi e contabili, gli avvocati dello Stato, ci sono sempre stati. Ma via via che è andata peggiorando la qualità della classe politica, il loro potere è cresciuto, insieme all’immobilismo del paese.
Correvano gli anni Settanta quando tra i Padrini del vapore (non i «Padroni del vapore», come Ernesto Rossi aveva chiama- to gli industriali) conquistò il primato di potere e di relative polemiche sull’ Espresso il presidente di sezione del Consiglio di Stato Franco Piga. Espertissimo capo di gabinetto del molle presidente del Consiglio democristiano Mariano Rumor, a palazzo Chigi non si muoveva foglia senza il suo placet. Gli epigoni dei tempi moderni si chiamano Antonio Catricalà, Giuseppe Patroni Griffi, Pasquale De Lise, Lamberto Cardia, Carlo Malinconico, Corrado Calabrò, solo per citarne alcuni.
Tutti giuristi, tutti grandi consulenti governativi in un continuo “entra ed esci” dalle poltrone del potere, come nella porta girevole di un Grand Hotel.
Un network irresponsabile, inamovibile, inscalfibile, che in tutti gli anni del berlusconismo ha avuto il suo dominus in Gianni Letta, che consigliere di Stato non è, ma che è stato molto di più: il grande lord protettore della Nomenklatura, dispensatore di nomine, di consulenze, di arbitrati, di potere e - non ultimo - di denaro. E tuttora, dietro le quinte, in servizio permanente effettivo.
Nelle amministrazioni moderne - hanno calcolato Mania e Panara - i giuristi sono il 30 per cento, gli altri sono ingegneri, informatici, matematici, geologi, agronomi. Da noi è il contrario e anche quelli che non sono giuristi sono ormai contaminati dal linguaggio esclusivo ed elusivo che si parla nelle nei templi della burocrazia, nelle sedi del «circolo vizioso disfunzionale ».
Dunque, giuristi vil razza dannata? O anche politici incapaci di affrontare il disboscamento burocratico? L’aspirante disboscatore Renzi prenda nota di quanto tanti anni fa scriveva Luigi Einaudi: «Il vero ostacolo per l’attuazione della riforma burocratica in Italia sono i ministri stessi, che per quanto siano bravi non sono in grado di compierla da soli».

l’Unità 15.5.14
L’inedito
Cara Giulietta ti scrivo
Da una collezione privata spunta un manoscritto di Togliatti, domani all’asta
di Bruno Gravagnuolo


Cara Giulietta, grazie della tua lettera. Io non vi inviai nessun telegramma e non lo inviai proprio perché Vittorio era arrivato, in perfetto orario e bene. Quanto a lui stesso, la mia impressione è che le tue preoccupazioni siano un po’ esagerate. Lo trovo molto colto e curioso di sapere, pur con le ingenuità e con quel po’ di presunzione che all’età sua è forse inevitabile. Un po’ solo, nel pensare. Orientato allo studio, però, tanto che mi ha esposto il proposito di prendere due lauree assieme, - ma non si sa ancora bene quali! Che vi sia in lui una eccessiva avidità per il guadagno, sarà, ma io non l’ho notato. Del resto, tieni presente che perla gioventù di oggi ,e particolarmente in Italia, con la disoccupazione e tutto il resto, il giovane, anche intelligente, anzi, più se è intelligente che se non lo è ,non può non pensare a risolvere col guadagno, e con un guadagno forte, la situazione che gli si apre. La vecchia strada, del sicuro guadagnetto e del trantran impiegatizio, non può più attirare il giovane, a meno che egli stesso non si consideri un mediocre, opinione che in Vittorio non c’è. L’alternativa, cioè l’altra strada che si può presentare e si presenta, è quella di collegare la soluzione del problema della gioventù alle questioni della trasformazione sociale. Per questa strada si diventa comunisti, e allora anche le questioni personali si presentano sotto una luce del tutto nuova. Ad ogni modo, io cerco di influenzare Vittorio nel senso di spingerlo a una scelta, però sono convinto che quando avrà fatto una scelta, gli sforzi per raggiungere lo scopo prefisso li farà. Nelle scuole medie è inevitabile, a un certo punto, che molto dello studio che vi si da appaia superfluo. Ho sentito che Giovanna vuole studiare, e medicina. Se un mio consiglio vale, appoggio questo suo proposito. Una segretaria può guadagnare decentemente, ma è un vero lavoro, per chi sia capace di fare qualcosa di più? Saluti affettuosi a te, Nino e Giovanna. PALMIRO 5 ottobre 1954

Verrà messa all’asta domani dalla Gonnelli, Casa d’Aste, in Firenze in Via Ricasoli, Lotto 0536. La messa in vendita è prevista attorno alle 16, 30. Il prezzo base è 400 euro, ma ne vale molte di più. Soprattutto per il suo significato privato, che illumina la personalità psicologica di Togliatti, ma anche il suo rapporto con i giovani e con il tempo dell’Italia in cui scrive. La destinataria, Giulietta è misteriosa, ma si tratta forse di un’amica o di una parente di Togliatti, che «spedisce» suo figlio Vittorio al segretario del Pci, perché il grande dirigente possa consigliarlo e orientarlo. Su carta intestata del Pci Togliatti scrive con una stilografica nera, nella sua grafia ordinata e inclinata verso destra, con una sola correzione verso la fine. Il linguaggio è colloquiale mai concetti sono netti. Giulietta non deve preoccuparsi di Vittorio, perché lui è già arrivato a Roma e non c’è bisogno di telegramma di conferma. Poi il tema della lettera: il futuro di Vittorio. Vuole prendere due lauree, è un po’ presuntuoso, e molto curioso di conoscere e sapere. Ma non c’è da preoccuparsi sulla sua presunta avidità: vuole guadagnare bene, con una professione di successo.
Bene, dice sorprendentemente il capo del Pci, in questa Italia un giovane intelligente «non può non pensare a risolvere col guadagno, e con un guadagno forte la situazione che gli si apre». Altrimenti prosegue Togliatti, si sentirebbe un mediocre: «opinione che in Vittorio non c’è». L’altra strada viceversa, sarebbe quella di collegare questo tema alla trasformazione sociale, alla questione giovanile. E per questa strada, laddove Vittorio ne avesse voglia, «si diventa comunisti». Ma in tal caso anche «le questioni personali si presenterebbero sotto una luce del tutto nuova». Insomma il segretario del Pci non ha nulla da obiettare ad una eventuale carriera di successo di Vittorio: sarebbe giusto nell’Italia che si avvia al boom, ma che è piena di disoccupati. Mentre sarebbe sbagliato augurarsi che il ragazzo si rassegni ad una vita impiegatizia. Unica vera alternativa: il Pci e la strada della politica, ma sarebbe tutta un’altra storia. E in ogni caso deve essere Vittorio a decidere cosa fare. Colpisce dunque la laicità non moralistica del leader Pci: largo alle ambizioni giovanili! E che ogni giovane possa dare il meglio di sè, in qualsivoglia campo, anche se in chiave individualistica. E poi è interessante registrare che il «capo», l’uomo venuto da Mosca comprendeva benissimo quell’Italia e quei giovani, insofferenti del «tran tran impiegatizio» e del «guadagnetto». Meglio borghesi di successo che subalterni e travet. Meglio il merito che l’adattamento passivo alle comodità e ala piccole sicurezze. Non basta, perché anche nel metodo psicologico Togliatti dà prova di perspicacia e libertà intellettuale. Infatti dice a Giulietta che non influenzerà Vittorio nella sua scelta, ma soltanto nel maturare una scelta libera e confacente alle sue aspirazioni. Quanto a boria, ambizioni esagerate e insofferenza per lo studio, anche lì meglio così. Alle scuole medie si studiano un sacco di cose che appaiono superflue ad un giovane dotato di ambizione.
Le note finali sono per «Giovanna», presumibilmente la sorella di Vittorio e un po’ più grande di lui. Bene che abbia scelto di studiare medicina. E scrive Togliatti, «se un mio consiglio vale, appoggio questo suo proposito». Infatti una segretaria può guadagnare decentemente: «ma è un vero lavoro per chi sia capace di fare qualcosa di più?». Seguono saluti affettuosi «a te, Nino e Giovanna» e la data, con la firma Palmiro:5ottobre 1954». Ricapitoliamo. Togliatti scrive ad un’amica forse ad una parente e mostra di saper orientare e capire i giovani. In un’Italia in ebollizione, dove sta maturando una giovane generazione di ceto medio intellettuale e professionale. Insofferente dell’Italia bigotta e impiegatizia, timorosa dell’autorità e conformista. «Ercoli» coltiva questa intuizione, rivelando anche nel privato doti di mentore: maieutiche. Le stesse che gli hanno già consentito di reclutare al partito la parte migliore dei giovani ambiziosi formatisi sotto il fascismo. È l’egemonia declinata nel privato. Resta il mistero: chi era Giulietta? Era la moglie di Eugenio fratello di Togliatti e padre di Vittorio? Nino invece era Nino Nacamulli, ebreo dall’intera famiglia sterminata nei lager, fratello di Giulietta. Tutti erano in ansia per i ragazzi Giovanni e Vittorio - che finì geologo - e si rivolgono alle cure di Togliatti. Che rispose con acume e finezza.

il Fatto 15.5.14
Censure
Quel “puzzone” di J. P. Sartre
di Antonio Armano


Pubblichiamo un estratto di “Maledizioni. Processi, sequestri e censure a scrittori e editori in Italia dal dopoguerra a oggi, anzi domani” di Antonio Armano (Bur).
Furto di una bici marca Littoria, verniciata di rosso e accessoriata. Contrabbando di sigarette estere, sigari Avana, tabacco trinciato comune e cartine. Rinvenimento nel Po di un feto di sesso femminile con cordone ombelicale lungo 15 centimetri e avvolto in carta di giornale. Suicidio di un ebanista, che si è buttato dal ballatoio rompendosi la colonna vertebrale. Asportazione, nottetempo, di un pino del valore di diecimila lire. Ricerca di testimonianze sui paracadutisti repubblichini della brigata Nembo, impegnati nella repressione anti-partigiana in Val d’Aosta. Morte accidentale del profugo ebreo Ota Cirk, “suddito polacco”, finito sotto le ruote del tram diretto a Venaria mentre cercava di salire.
Dopo una disperata ricerca, all’archivio di Stato di Torino, nella sede di via Piave, sfogliando migliaia di atti giudiziari di istruttoria, insomma tutto quanto di penalmente rilevante è accaduto da queste parti nel difficile anno 1947, finalmente trovo il fascicolo sulla cui copertina è scritto “Einaudi Giulio”, la documentazione sull’affaire Sartre. Nella cartella azzurra, di povera carta postbellica, ci sono anche la denuncia contro l’editore e l’articolo di giornale da cui prende avvio.
Il dopoguerra bigotto in Italia inizia il 2 marzo del ’47, seconda domenica di Quaresima, con un pezzo sulla prima pagina del Corriere che sfotte la traduttrice di Le mur: “Ti ho tenuta in braccio che avevi poche settimane e odoravi tutta di latte, di pipì e di borotalco…”. L’autore è il conte Antonio Baldini, uno dei sette savi della Ronda, glorioso foglio passatista di inizio secolo. La raccolta di racconti di Sartre, uscita nel novembre del '46, gli sembra un “mostruoso campionario di puzzonate”, e si stupisce che una signora di buona famiglia si abbassi a tradurre robaccia del genere.. Baldini non scrive il vero nome della traduttrice - già così il pezzo è una mezza istigazione alla denuncia - e la chiama leopardianamente Silvia visto che si è firmata solo con le iniziali. Ma avrebbe fatto meglio a non mettere neanche le iniziali: “Più disinvolto e senza paragone più simpatico quell’imbrattacarte che ritraducendo bestialmente da chi sa quale lingua intermedia un romanzo di Dostoieschi per uno dei tanti editori da carrettino, fece figurare bellamente sulla copertina il nome di… Menelao Lemani”.
LASCIANDO stare la storpiatura autarchica o goliardica di Dostoevskij, la lavata di capo di Baldini alla traduttrice, chissà quanto stupita di ritrovarsi in prima pagina, denota una chiusura non priva di qualche cedimento autocritico: “Se mi scruto in petto - scrive Baldini -, mi avvedo che in questo mio esserci rimasto tanto male confluiscono i più contrastanti motivi: la ripugnanza di pur pensare che quella bella figliola abbia potuto tenere tanto tempo la sua attenzione ancorata ad un’opera gremita di cosiffatte turpitudini; la noia di scoprirmi così incapace di accostare con la dovuta freddezza un (bene o male) significativo documento della mentalità d’un contemporaneo altamente rappresentante; l’imbarazzo, non vedendo se mi riuscirà simulare di non essere ancora al corrente della cosa, di non saper che faccia fare incontrando domani la bella Silvia, e la speranza insieme (e il timore ) di vederla farsi rossa se non potrò tenermi dall’entrare in argomento; e aggiungi a tutto questo il dubbio che mi tiene d’esser io veramente rimasto troppo indietro coi tempi e di far così la figura del brontolone rompiscatole”.
Ma chi è la traduttrice di Le mur? Elena Giolitti, nipote del critico teatrale Silvio d’Amico, moglie di Antonio Giolitti, membro della Costituente, nipote di Giovanni Giolitti: l’avvenente deputato del Pci descritto ne Il comunista di Guido Morselli. […].
Dopo aver letto il Corriere a Milano un avvocato, tale Antonio Carones, scrive due denunce, una contro il libro di Sartre e l’altra contro L’amante di Lady Chatterley di D. H. Lawrence (uscito in Italia nel 1946 con Mondadori, il classico di un autore sepolto e digerito dalla critica ma ovunque proibito nella versione non purgata. Le mur è l’opera ancora tutta da metabolizzare in Italia di uno scrittore-filosofo, acclamatissimo a Parigi, dove la gente sgomita per andarlo a sentire e lo venera come sacerdote dell’esistenzialismo.

il Fatto 15.5.14
Canali a tema
Scienza e legalità, meno male che c’è Rai Scuola
di Chiara Daina


Bulimia di informazioni, click nevrotici, conoscenze mordi e fuggi, capacità di attenzione finita sotto le scarpe. È la diagnosi dei mali della nostra società internet dipendente, a cui la tv di Stato può ancora offrire un valido rimedio. Si chiama Rai Scuola, il canale che da 14 anni lotta contro l’ignoranza degli italiani promuovendo l’educazione di bambini e ragazzi e la formazione continua degli insegnanti. Proprio ieri la Rai e il Miur hanno rinnovato la convenzione, partita negli anni Sessanta con il ministro Aldo Moro che finanziò il progetto “Scuola aperta”.
IL MENU è ricco. Si va dai corsi di inglese attraverso divertenti sit com, a quelle di economia, letteratura, scrittura, scienze. Non si trasmettono solo nozioni. Anche valori, con le lezioni di mafia, quelle sul disagio adolescenziale, sulle rivoluzioni tecnologiche dietro i banchi. Le puntate sul piccolo schermo vengono salvate sul sito web Raiscuola.rai.it  , una straordinaria mediateca virtuale che offre una selezione di 18 mila audiovisivi, 200 giochi interattivi e 180 prodotti multimediali per tutti i livelli scolastici, dalle scuole materne fino all'università. Numeri di cui andare fieri. Al portale nel corso degli anni si sono iscritti 72 mila insegnanti, che da quest’anno potranno avvantaggiarsi di una nuova piattaforma dedicata alla conoscenza scientifica, frutto della collaborazione tra la tv pubblica e prestigiosi enti, ovvero il Consiglio nazionale delle ricerche, l’Accademia dei Lincei, l’Istituto nazionale di Astrofisica, quello di Fisica nucleare, di Tecnologia, di Geofisica e Vulcanologia e il Cern. Da queste sinergie nasce il primo frutto: “Nautilus. Un viaggio nella scienza”, un programma condotto da Federico Taddia in onda dal 19 maggio. Otto puntate per altrettanti incursioni nell’universo delle scoperte e delle invenzioni. Così finalmente potremo capire, se non l’abbiamo ancora capito, il Fattore di crescita nervosa scoperto da Rita Levi Montalcini; metterci nelle zucca Rosetta, la sonda che scenderà su una cometa; le avventure del Cnr; come nascono i terremoti e tanti altri bocconi di scienza che sfamano. Parole di soddisfazione dalla presidente Anna Maria Tarantola, che ha sottolineato come “la Rai di per sè non può avere competenze enciclopediche” ma “deve svolgere il compito di mediazione informativa, individuando i referenti migliori”.

Corriere 15.5.14
Rai Scuola e Miur «Uniti contro l’ignoranza»


Uniti contro «l’ignoranza» in una battaglia «per la crescita culturale, economica e sociale» dell’Italia, a partire dagli studenti. Il ministero dell’Istruzione, con Stefania Giannini, e la Rai, con la presidente Anna Maria Tarantola, hanno rinnovato la convenzione (ideata negli anni Sessanta da Aldo Moro) per la produzione di programmi formativi a partire dal canale Rai Scuola. «Il ministero dell’Istruzione e la Rai hanno lo stesso avversario — ha esordito il ministro Giannini — l’ignoranza». Il direttore di Rai Scuola Silvia Calandrelli ha sottolineato: «Il canale (Rai Scuola ch. 146 del Digitale Terrestre e ch. 33 TivùSat) è una mediateca che mette insieme le competenze televisive e le conoscenze scientifiche». Ricca la programmazione con una prima serata dedicata alla scienza con «Nautilus» (Elena Cattaneo la prima protagonista) e accordi con la Biennale di Venezia, Banca d’Italia, Accademia dei Lincei, Teatro di Roma, Indire, Polizia e Guardia di Finanza, per citarne solo alcuni. «La Rai — ha concluso la presidente Tarantola — è la maggiore agenzia culturale del Paese nella formazione informale, capace di comunicare con il linguaggio dei giovani attraverso i nuovi media».

Repubblica 15.5.14
Arte e bellezza, l’ingresso è libero
Ville, palazzi, parchi, giardini... Più di 110 dimore storiche aprono al pubblico il 24 e 25 maggio per far conoscere l’importanza del patrimonio privato e il ruolo della loro associazione
di Fabrizio Filosa



Pare giusto essere stanchi delle cronache un po’ marziane che raccontano lo stato miserevole del nostro patrimonio storico e artistico, con i crolli a Pompei che si alternano ai pericoli che l’incuria pubblica sta facendo correre ai capolavori della Galleria Borghese di Roma. Almeno per un weekend possiamo rinfrancarci visitando, in una sorta di “invito a palazzo” democraticamente esteso a tutti, cortili, ville, giardini, parchi di antiche dimore, spesso poco note, che di solito sono chiuse al pubblico e che l’impegno dei proprietari, responsabili della loro tutela e gestione, ha salvato dal degrado e mantiene sane e attive. Nel weekend del 24 e 25 maggio si svolge infatti la quarta edizione delle Giornate Nazionali Adsi, organizzata dall’Associazione dimore storiche italiane con l’obiettivo di far conoscere la bellezza degli edifici privati di grande rilevanza storico-artistica nel panorama dei nostri beni culturali. Più di 110 dimore dalle Alpi alla Sicilia saranno aperte e visitabili gratuitamente, con la possibilità di assistere anche a concerti e mostre. Luoghi da Grand Tour come il Giardino Pojega, a Negrar (Verona), con il suo teatro di verzura; il Castello dal Pozzo, raro esempio di stile neogotico in Italia, a Oleggio Castello, sul lago Maggiore; in Toscana il Castello della Magione, a Poggibonsi (Siena) una struttura medievale che apparteneva ai templari; in Emilia Romagna Palazzo Albergati, splendida struttura secentesca a Zola Predosa, vicino a Bologna.
Che ci sia bisogno di bellezza lo dimostrano i numeri: lo scorso anno più di 20mila persone hanno partecipato alle giornate dell’Adsi. «La nostra organizzazione è fondamentale per la tutela del patrimonio italiano», spiega Moroello Diaz della Vittoria Pallavicini, presidente dell’Associazione. «I privati, che nella grande maggioranza hanno un forte legame anche affettivo con le dimore, perché beni di famiglia, sono pronti a fare sacrifici, ma hanno bisogno anche della collaborazione dello Stato. Che concede solo una piccola agevolazione sull’Imu a fronte del vincolo a bene pubblico della dimora, e ha sospeso dal 2012 al 2015 anche l’unica forma di finanziamento diretto, che era un contributo per i lavori di restauro a fronte della stipula di una convenzione per un minimo di vent’anni che permette l’accesso al pubblico. Il problema è che oggi lo Stato deve ai proprietari 150 milioni di euro di rimborsi per lavori già effettuati. E non si sa quando arriveranno».
L’organizzazione quest’anno ha previsto la meritata celebrazione dei maestri artigiani, fondamentali per la conservazione delle dimore storiche: in diverse località, nei nei cortili dei palazzi, marmisti, restauratori, corniciai, vetrai, ceramisti, bronzisti, argentieri, mosaicisti e pittori esporranno le loro opere e mostreranno come si svolge la propria attività. A Roma, per esempio, sono molti i palazzi nobiliari che ospitano gli artigiani, da Palazzo Sforza Cesarini a Palazzo Pasolini dall’Onda. Informazioni: www. adsi. it

Repubblica 15.4.14
Stendhal inedito: “L’arte italiana sparirà nel 2000”
In un saggio ora attribuito a lui l’autore francese si preoccupava per il futuro delle opere dei maestri
di Valerio Magrelli


NON capita spesso di imbattersi nell’inedito di un classico di fama mondiale. In questo caso, certo, la scoperta è relativa, trattandosi di un’attribuzione piuttosto che di un ritrovamento. Sul nome dell’autore, però, non si discute. Stiamo parlando nientemeno che di Stendhal, e di un lavoro che, pubblicato con l’amico pittore Abraham Constantin, conobbe una lunga serie di peripezie. Idées italiennes sur quelques tableaux célèbres (Idee italiane su alcuni quadri celebri ) uscì infatti nel 1840 da Vieusseux, a Firenze, come opera del solo Constantin. Ci volle tempo perché il testo fosse ricondotto a Stendhal (morto nel 1842). Ma ad un errore ne seguì un altro, poiché i nuovi curatori cancellarono il nome di Constantin. Adesso, dopo un decennio di ricerche, due studiose hanno risolto la questione, presentando la prima edizione critica e insieme illustrata di quel che rappresenta l’ultimo libro di Stendhal sulla pittura e su Roma.
Così, a quasi due secoli di distanza dalla sua prima comparsa, possiamo finalmente leggere questo volume a firma Abraham Constantin/Stendhal (Beaux-Arts de Paris, pagg. 469, euro 25). Arricchita da molte tavole a colori, l’edizione, stabilita e presentata da Sandra Teroni e Hélène de Jacquelot, offre abbondanti materiali inediti provenienti dalla Biblioteca di Ginevra e dal Gabinetto Vieusseux, tali da documentare le varie fasi di questa avvincente avventura bibliografica, dal manoscritto primitivo di Constantin fino alla correzione delle bozze. Ciò mostra l’ampiezza e la singolarità di una simile scrittura a quattro mani, tanto più significativa in quanto non restano quasi più tracce manoscritte delle opere che Stendhal pubblicò da vivo. Per chi voglia conoscere il tipo di intervento del romanziere, basti dire che egli non si limitò all’editing, ma partecipò all’architettura del libro, suggerendo nuovi sviluppi (su Raffaello e le quadrerie romane), prevedendo grandi margini e titoletti in testa a ogni pagina, allestendo l’indice e la divisione in capitoli, nonché predisponendo il formato di stampa in base alla fruizione prevista (un volume tascabile da consultare davanti all’opera d’arte). Insomma, l’autore del Rosso e nero rivela ottime doti di graphic design… Nelle sue pagine, che in un certo modo costituiscono il seguito della Storia della pittura in Italia (1817) e delle Passeggiate romane (1829), Stendhal esprime in piena libertà le proprie “idee” sull’Urbe, sulla pittura e sulla necessità di un’educazione dell’occhio ad uso e consumo dei viaggiatori stranieri. Tutto parte dall’acuto sentimento di quella inevitabile precarietà che minacciava tanti capolavori. Proprio per combattere i guasti dell’usura naturale cui andavano incontro i dipinti di Raffaello o Michelangelo, Constantin aveva abbracciato il mestiere di incisore e copista su porcellana, in modo da consentire a tanti affreschi o tele di sopravvivere tramite le loro riproduzioni (quasi un presentimento del pensiero di Walter Benjamin). Stendhal era dunque grato all’amico per «aver reso eterne opere che non esisteranno più nel 2000». Ma nella loro prefazione, François René Martin e Pierre Wat attirano l’attenzione su un dato ulteriore, cioè l’esigenza di un doppio requisito nella fruizione delle opere d’arte: la contabilità del tempo e l’indispensabile ripetizione contemplativa. In coda alla Storia della pittura in Italia, troviamo infatti un Corso di cinquanta ore , ossia un programma per trasformare chiunque in un “autentico amatore”. Anche nelle Idee italiane questa esigenza è espressa più volte, come quando Stendhal confessa di aver visitato la Galleria Doria a Roma «duemila volte in sei anni», e ancora: «Ho guardato la Trasfigurazione [di Raffaello] sei volte alla settimana per un anno, e cinque o sei ore ogni giorno». Ecco cosa gli conferisce il diritto di dare consigli alle persone che «non hanno fissato quel quadro almeno 1560 ore». Il valore dissuasivo di tali cifre è evidente, ma esso ci mostra come, per l’autore, solo una diligente applicazione avrebbe infine permesso di conquistare “l’arte del vedere”.