venerdì 16 maggio 2014

l’Unità 16.5.14
Comunicato del CDR

I giornalisti dell’Unità da oggi non firmano gli articoli. Una decisione presa in assemblea con la partecipazione del presidente della Fnsi e del vicepresidente dell’Associazione stampa romana. È la forma di protesta scelta per denunciare il comportamento dell’azienda e dell’editore Matteo Fago che hanno fatto della politica del rinvio la loro linea guida.
Ci era stato detto che l’assemblea straordinaria dei soci del 14 maggio avrebbe dovuto assumere decisioni definitive sul futuro del nostro giornale e delle lavoratrici e dei lavoratori dell’Unità. Nulla di tutto questo è avvenuto. Si è scelto di rimandare ogni decisione a fine mese, mantenendo un atteggiamento inaccettabile fatto di opacità, di silenzi assordanti, di rimpallo di responsabilità. Responsabilità invece manifestata dai lavoratori che hanno continuato a garantire l’uscita del giornale nonostante l’ultimo stipendio percepito sia quello relativo al mese di marzo. Decidere un’altra giornata di sciopero è per noi un pesante sacrificio, per più motivi, ma non esiteremo a farlo se dall’editore non dovessero arrivare in tempi brevi risposte esaurienti.
Con scelte irresponsabili dell’azienda si mette a rischio il futuro stesso della testata. Noi faremo di tutto per contrastare disegni che possano portare al fallimento e alla chiusura dell’Unità. Ci batteremo in tutte le sedi perché sia garantito un futuro al nostro giornale e mantenuti gli attuali livelli occupazionali. E chiediamo che questi impegni vengano fatti propri dal Partito democratico, che in questi giorni ha manifestato, insieme alla Cgil, solidarietà alla nostra lotta. È oggi che questa solidarietà, espressa finora soltanto a parole, deve tradursi in atti concreti e coerenti.

l’Unità 16.5.14
Su Left la ’ndrangheta dei colletti bianchi
di Giovanni Maria Bellu

direttore di LEFT

L’annosa questione del «concorso esterno» in associazione mafiosa forse è stata risolta. Non dai giuristi, ma dai diretti interessati. Infatti alcuni di quelli che sono stati già condannati per aver sostenuto appunto «dall’esterno» la ’ndrangheta, nel frattempo sono entrati in modo organico all’interno dell’organizzazione. E hanno fatto carriera: ne sono diventati i capi. È quanto racconta nell’intervista che potrete leggere sul numero di left che sabato sarà in edicola con l’Unità il sostituto procuratore della Repubblica di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, il magistrato che ha chiesto - e ottenuto - l’arresto di Claudio Scajola.
Una «rivoluzione strutturale» per la mafia calabrese, anzi «di origine calabrese» perché la ’ndrangheta ormai da trent’anni ha abbandonato l’ambito regionale per diventare una delle più potenti organizzazioni criminali del mondo. Un’organizzazione che fa affari in Colombia come in Australia e intrattiene in Italia relazioni politiche a largo raggio. Impressiona apprendere dal pm Lombardo che per l’indagine che ha portato in cella Scajola - e cioè per la ricostruzione della rete che sosteneva la latitanza dell’ex deputato forzista Amedeo Matacena - la procura reggina è partita da Bruno Mafrici, «un personaggio già interessato alle perquisizioni che avevano riguardato anche l’ex tesoriere della Lega Nord Francesco Belsito».
D’altra parte, la procura di Milano ha confermato che si è arrivati alle tangenti di Expo - e all’arresto di vecchie glorie della prima Tangentopoli quali Gianstefano Frigerio e Primo Greganti - partendo da un’inchiesta sulle infiltrazioni della ’ndrangheta in Lombardia. «Un’Italia rovesciata, claustrofobica, malefica - scrive il giudice Alberto Cisterna nell’editoriale che apre questo numero - con le toghe che operano capovolte a ruoli inversi: Milano sui calabresi e Reggio sui lombardi e sul ligure Scajola».
A poco più di una settimana dalle Europee left dedica anche un servizio a uno dei temi più caldi della campagna elettorale: cosa accadrebbe se si uscisse dall’euro? Abbiamo potuto visionare in anteprima una ricerca dell’economista Emiliano Brancaccio che, per rispondere alla domanda, ha messo a confronto 28 casi di uscita da un regime di cambio fisso avvenuti nel mondo dal 1980 al 2013. Il quadro finale è diverso da quelli tracciati dai pasdaran del sì e dagli ultras del no. Un quadro complesso da cui emerge con chiarezza che l’argomento monetarista comunque non basta per difendere l’ideale dell’unità europea. Banalmente, ci vuole la politica. Quella buona.

Repubblica 16.5.14
Quel cimitero blu ignorato da tutti
di Tahar Ben Jelloun


NEL 1920 Paul Valéry scrisse un lungo poema metafisico sul tempo e la morte. Lo intitolò Cimitero marino, perché era ossessionato dal mistero del mare, dal fascino dei suoi segreti e dalla ricerca dell’immortalità. Da allora, ogni volta che dei marinai non tornano più, si parla del mare come tomba insondabile e senza appello.
Guardando le foto di quei corpi di immigrati che hanno trovato “asilo” nei fondali marini al largo di Lampedusa, viene in mente quella poesia, prima di immaginare come e perché quelle persone abbiano avuto una fine tanto tragica. Uomini e donne che sono precipitati in una spessa assenza, in una profonda solitudine. Il mare è diventato la loro ultima dimora, il cimitero di tutto quello che hanno sognato, la tomba di tutte le loro speranze. I loro occhi si sono perduti nei flutti, i loro corpi si sono dissolti nelle alghe e nel silenzio, la loro memoria si è svuotata dei ricordi.
CHE cosa dire? Che cosa scrivere? Gli dei sono rimasti calmi. Gli uomini sono indaffarati. Il cielo è indifferente.
Partiti da molto lontano, hanno marciato con l’Europa negli occhi, un’illusione, un errore. Sapevano che altri prima di loro avevano compiuto questo viaggio, e che avevano perso la vita. Ma a che vale una vita senza dignità, senza lavoro, senza luce interiore? Quando non si ha più nulla da perdere, si tenta l’impossibile, e il tuo destino prende la via dell’esilio e cade in pezzi finché l’anima non spira.
Hanno marciato e attraversato Paesi, montagne, mari, per finire, quella notte del 3 ottobre 2013, in una cisterna nera che li ha stritolati, inghiottiti: alcuni sono stati rigettati su e altri sono rimasti nelle profondità marine. I loro corpi stanno lì, come oggetti trovati in un’imbarcazione naufragata. Sono prove a carico per un processo che non avrà mai luogo. Sono ancora vestiti, ma che ne è stato dei sogni che avevano costruito mettendoci musica e colore? Si sono sciolti in questo mare divoratore di vite, spietato e senza scampo. Ah, il Mediterraneo che cantano i poeti! È un mare dove molto sangue è stato versato. È diventato un grande cimitero e continua a esserlo, perché contro la disperazione degli uomini, la morte degli altri non serve a niente. C’è qualcosa in loro che dice: «Io ci riuscirò! ».
E intanto certi politici urlano al lupo, seminano paura e incolpano gli immigrati di tutti i mali. Sono sempre più numerosi quelli che sfruttano le sventure degli immigrati per fare propaganda e vincere elezioni. Il razzismo si è banalizzato. Certi intellettuali sono convinti che l’identità europea sia minacciata dal multiculturalismo, che l’islam sia la peggiore delle religioni, che il “razzismo antibianco” non venga perseguito. L’odio e la paura si alleano contro i nuovi “dannati della terra”. L’Europa che ha ancora bisogno di manodopera straniera non ha battuto ciglio di fronte a quella tragedia, che è stata seguita da altri morti, altri drammi. Ha la memoria corta o pigra, egoista e cinica. È così. I Paesi del Sud, alcuni dei quali mal governati, accetterebbero volentieri investitori che dessero lavoro a quegli uomini che emigrano perché si vergognano di non essere in grado di garantire una vita decorosa ai loro figli.
Delle soluzioni ci sarebbero, ma per arrivarci servirebbe che l’Europa prendesse coscienza del problema e lo affrontasse in modo serio. Visto che i sondaggi ci rivelano tutti i giorni che i partiti di estrema destra potrebbero arrivare in testa alle elezioni europee del 25 maggio, il rischio è che la situazione si aggravi e che ci troveremo a guardare altri aspiranti immigrati affondare in nuovi cimiteri marini. (Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 16.5.14
Castelnuovo di Porto, immigrati in rivolta: la carica della polizia

Dura protesta degli immigrati nel Centro accoglienza richiedenti asilo (Cara) di Castelnuovo di Porto, vicino a Roma. Gli ospiti della struttura hanno bloccato l'ingresso, per contestare le condizioni del centro, impedendo il cambio turno. Dopo avere abbattuto la recinzione, gli agenti hanno caricato i manifestanti, colpendone alcuni con i manganelli. Feriti tra le forze dell'ordine e i migranti, otto le persone fermate dopo gli scontri.
A scatenare la rabbia di gran parte degli immigrati, il mancato pagamento del "pocket money", il salario di 2,5 euro al giorno che veniva dato il primo del mese. E' stato abolito dal 7 aprile, quando a gestire il centro è arrivata la cooperativa Auxilium al posto della Gepsa. Doveva essere sostituito da una carta prepagata per fare la spesa, che però non è mai stata consegnata ai richiedenti asilo.
Un video qui

Come ha votato la sinistra del Pd? Nessuno lo scrive...
l’Unità 16.5.14
Approvato il decreto lavoro
Tito Boeri: «Così si aggiunge ancora un po’ di precarietà»
L’economista della Bocconi sostiene che il decreto è in linea con le politiche del lavoro di Sacconi: scarsa formazione salari modesti

«È un decreto in continuità con le politiche del lavoro degli ultimi anni che portano la firma dell’ex ministro Maurizio Sacconi: lavoro con scarsa formazione, produttività e remunerazione piuttosto basse». Tito Boeri, economista alla Bocconi, fondatore del sito lavoce.info, commenta il decreto Lavoro approvato con voto di fiducia a Montecitorio, che modifica l’attuale normativa sull’apprendistato e sui contratti a termine. Decreto rispetto al quale non ha mai nascosto il suo dissenso, immutato anche dopo le modifiche parlamentari.
Un decreto che risponde alle esigenze di chi, secondo lei?
«È chiaro che l’idea di base è condivisibile, ed è quella di stimolare la creazione di posti di lavoro, contando sul fatto che la ripresa sia alle porte. Il punto è che ci sarebbero state altre strade, a mio avviso più utili, per raggiungere l’obiettivo: un contratto a tutele progressive avrebbe avuto il senso, pur a fronte di una maggiore flessibilità in ingresso, di puntare effettivamente alla stabilizzazione. I contratti a termine e di apprendistato così come ci vengono proposti, invece, finiranno per rafforzare il dualismo contrattuale già in essere. Si sarebbe dovuto spingere le imprese a ridurre le distinzioni, invece che ad accentuarle».
Secondo lei, dunque, i passaggi parlamentari, con relative modifiche, non hanno cambiato granché del decreto.
«Non è cambiato molto, in effetti. La riduzione del numero di proroghe (da 8 a 5, ndr) è positiva, ma la previsione di una sanzione pecuniaria al posto dell’obbligo di assunzione nel caso di sforamento del tetto del 20%nel ricorso a contratti a termine è una sostanziale ipocrisia. Ora si pagherà di più, ma non è comunque molto e, peraltro, non si tratta nemmeno di soldi dovuti ai lavoratori. Aggiungo che questo tetto del 20% rischia anche di aprire controversie giuridiche, perché già oggi esistono settori, come ad esempio quello del legno, in cui la soglia è fissata al 35%. Credo che, abbastanza rapidamente, il peso dei contratti a termine nel panorama complessivo salirà dal 12-13% attuale al 20%, e per quanto riguarda le nuove assunzioni arriverà pressoché al 100%, eccezion fatta per qualche figura particolarmente specializzata. Il problema è anche che la trasformazione in contratti a tempo indeterminato sarà più difficile, perché è aumentata la distanza tra le due tipologie».
Il governo potrebbe replicare: meglio essere assunti a tempo determinato che non essere assunti affatto.
«Certamente. Ma ancora meglio sarebbe avere un contratto a tutele progressive, che vada nella direzione di ridurre l’attuale dicotomia del mercato del lavoro».
Questo dovrebbe essere solo un primo intervento in materia.
«Intervento che però si pone in aperto conflitto con una possibile seconda fase. Per la quale, comunque, non mi pare ci sia l’intenzione di procedere. Aver liberalizzato così tanto il contratto a termine con il decreto approvato, mi sembra ponga di fatto, al di là delle formalità, la parola fine all’ipotesi di contratto a tutele progressive».
Lei prima ha accennato alla ripresa, ma sembra che il suo ritmo in Europa continui a divaricarsi: nel primo trimestre dell’anno il Pil italiano ha ripreso a scendere. «Non è un dato sorprendente, visto che già quello sulla produzione industriale era stato negativo. È chiaro che la ripresa italiana si preannuncia asfittica. Puntare sulla crescita oggi significa anzitutto, oltre a ridurre le tasse sul lavoro come in effetti è stato fatto, anche se si sarebbe potuto operare sui contributi sociali, accelerare davvero i pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione».

La Stampa 16.5.14
Dai contratti a termine alla maternità
Ecco come cambia il mondo del lavoro
Tre anni di proroghe per i rapporti a tempo, sanzioni per chi sfora quota 20%
qui
http://www.lastampa.it/2014/05/15/economia/dai-contratti-a-termine-alla-maternit-ecco-come-cambia-il-mondo-del-lavoro-hMabTOjqfhgT4FJyeltVzJ/pagina.html

l’Unità 16.5.14
Nuove privatizzazioni? No grazie
In questa situazione servirebbe l’opposto, cioè un rafforzamento dell’intervento pubblico di grandi dimensioni
di Laura Pennacchi

LA NOTIZIA CHE IL MINISTRO DELL’ECONOMIA PADOAN SI APPRESTEREBBE A UNA intensificazione del programma di privatizzazione - che porterebbe la quota azionaria detenuta dal pubblico in Eni ed Enel ben al di sotto del 30% - lascia sconcertati. Per molte ragioni, la più pressante delle quali è il contesto in cui tale intensificazione privatizzatrice cadrebbe. Un contesto che per il 2014 vede i maggiori paesi dell’eurozona condannati a una crescita del Pil inferiore all’1%, la qual cosa si traduce da un lato in livelli esponenziali di disoccupazione, dall’altro in una perdita enorme di capacità produttiva e di produzione industriale (che per l’Italia raggiunge il -25% rispetto al 2008).
A loro volta la stagnazione dell’eurozona e l’esplosione della disoccupazione rendono manifeste due emergenze: a) la debolezza della domanda privata di lavoro; b) il crollo degli investimenti (in Italia caduti dal 2007 della cifra astronomica del 28,7%). In questa situazione sembrerebbe essere richiesto l’opposto di un ulteriore programma di privatizzazioni. Cioè un rafforzamento dell’intervento pubblico di grandi dimensioni, sia sul piano quantitativo che su quello qualitativo, un «big push» trainato dal pubblico per lavoro e investimenti, in grado di porre fine alle implicazioni dannose delle politiche di austerità e di invertire la relazione tradizionale: non spingere la crescita per avere lavoro e investimenti, ma creare lavoro e investimenti per generare una crescita qualitativamente rinnovata. D’altro canto insegnamenti storici e contributi recenti - tra cui «The Entrepreneurial State» di Mariana Mazzucato, in corso di traduzione da Laterza - tornano a ribadire ciò che dovremmo sapere da tempo. Lo Stato, le sue politiche industriali e tecnologiche, i suoi programmi di ricerca hanno sempre operato alla base dei vari cicli di innovazione che hanno migliorato la qualità delle nostre vite. Non si è trattato solo di «aiuto» o di «assecondamento» dell’iniziativa privata, si è trattato di vero e proprio traino, indirizzo, promozione, spinta realizzati dall’operatore pubblico, direttamente e indirettamente. Si pensi al ruolo giocato dal Cern per la fisica o dai programmi spaziali per Internet o dal National Institute of Health negli Usa per la farmaceutica.
Oggi urgono l’esigenza di contrastare la debolezza della domanda privata di lavoro e la fragilità dell’attitudine privata all’investimento, così come il bisogno di ideare e costruire un nuovo modello di sviluppo - visto che il vecchio, quello neoliberista, è deflagrato con la crisi globale - che sia articolato sulla domanda interna e sui consumi collettivi: conversione ecologica dell’economia, energie rinnovabili, risparmio energetico, tecnologie dell’informazione, riqualificazione delle città e dei beni culturali, sistema del welfare state. Chi può farsi carico di questa esigenza e di questo bisogno se non l’operatore pubblico, ridefinito a scala europea, ma che anche a scala nazionale e non rinunzi alla sua funzione di interprete del bene comune e pertanto si avvalga di tutti i suoi strumenti, comprese le imprese variamente pubbliche, di cui è quindi sbagliato disfarsi privatizzandole? Politiche pubbliche eterodosse possono affrontare insieme sia le carenze di domanda sia gli squilibri di offerta.
Bisogna anche tener conto del significato che assume la terza ondata di privatizzazioni che sotto la spinta delle visione deflazionistica dell’austerità si sta lanciando in Europa. Cosi come la finanziarizzazione dei decenni passati ha costituito la ricerca e la conquista di nuove occasioni di profittabilità - affidate alla droga delle «bolle» finanziarie e immobiliari e dunque all’esplosione dell’indebitamento privato (assai più che di quello pubblico) - da parte di un capitalismo che dal compromesso keynesiano e dai «trenta gloriosi» prevalsi alla fine della seconda guerra mondiale aveva visto ridimensionate le proprie aspettative di profitto, oggi il capitalismo è nuovamente alla caccia di inesplorate occasioni di profittabilità e le cerca nelle aree in cui fin qui è prevalsa la protezione della responsabilità collettiva e in quelle “demercatizzate” e “demercificate”, sottratte al dominio del mercato e della mercificazione e quindi a prevalenza di servizi pubblici. Ma queste sono proprio le aree dei beni pubblici, della ricerca di base, dei beni sociali, dei beni comuni, del welfare state, in cui maggiormente si avverte il bisogno della spinta dell’operatore pubblico.
Si obietta che le imprese pubbliche sono esposte strutturalmente all’inefficienza e alla “cattura” da parte di interessi politico-lobbistici. Ma cosa pensare dell’inefficienza - e dell’irrazionalità - che il mercato e le imprese private spesso manifestano e del loro frequente asservimento a interessi opachi? Senza dire che un’analisi anche solo superficiale dei risultati raggiunti nelle ondate precedenti di privatizzazioni vede drammaticamente peggiorati tutti gli indicatori, per occupazione, valore aggiunto, produttività, indebitamento, investimenti (si pensi in Italia al mancato decollo della banda larga connesso alla privatizzazione di Telecom). Il panorama dell’assetto produttivo e industriale italiano è oggi talmente deteriorato che Pierluigi Ciocca - curatore con Roberto Artoni di una straordinaria ricerca sulla storia dell’intervento pubblico italiano - discute apertamente della desiderabilità della ricostituzione dell’Iri. Il che non significa negare che ci sia necessità di una grande iniziativa di recupero di efficienza e qualità nell’azione pubblica. Molti anni fa Pasquale Saraceno ha dimostrato la possibilità che amministratori delle imprese pubbliche e amministratori delle imprese private seguissero esattamente gli stessi criteri di efficienza. Gli “enti di gestione” dovevano rispondere delle finalità di interesse pubblico a loro attribuite contenendo i costi entro le risorse specificamente allocate ed esercitando un rigoroso controllo sugli amministratori, adeguatamente selezionati, delle aziende controllate. Questo avrebbe consentito allo Stato di operare sia come “stratega” nell’individuazione dei settori e degli obiettivi, sia come azionista che ha a cuore l’operatività efficiente delle sue imprese. A questa indimenticata e ineguagliata lezione bisogna ritornare.

il Fatto 16.5.14
Di nuovo nel tunnel: Pil negativo
Nel primo trimestre il prodotto torna a scendere
In valori assoluti siamo ai livelli del 2000. 14 anni persi
di Marco Palombi


Brutte notizie per l’ottimista Matteo Renzi: la realtà non si sta piegando alla sua pressione per migliorare le aspettative degli italiani. Il Prodotto interno lordo nel primo trimestre 2014 è tornato a calare: -0,1 per cento rispetto ai tre mesi precedenti, addirittura -0,5 per cento a confronto col primo trimestre dell’anno scorso. La notizia - combinata con alcuni rumors sulla tassazione dei titoli di Stato in Grecia (il Tesoro ha smentito la cosa per quanto riguarda l’Italia) - ha funestato la giornata di Borsa e spinto lo spread a un consistente rialzo: Milano ha chiuso ieri pomeriggio con una perdita del 3,6 per cento mandando in fumo ricchezza per 17,6 miliardi di euro (particolarmente male Mediaset e il settore del credito, a partire da Ubi banca); il differenziale tra i Btp a dieci anni e gli equivalenti bund tedeschi, invece, è schizzato in alto di oltre venti punti, passando dai 154 punti dei giorni scorsi ai 180 della serata di ieri, mentre il rendimento dei titoli tornava, conseguentemente, a sforare il muro del 3 per cento.
LA NOTIZIA della giornata, in ogni caso, è decisamente il ritorno in territorio negativo della crescita italiana, dopo che il misero +0,1% dei tre mesi precedenti aveva interrotto la bellezza di nove trimestri di recessione consecutivi. Il dato di ieri, peraltro, comporta sul 2014 una variazione già acquisita della ricchezza prodotta in Italia negativa per lo 0,2 per cento, che andrà recuperata per centrare il 0,8% previsto dal governo a fine anno.
Il calo rispetto alla fine del 2013, scrive l’Istat, “è la sintesi di un aumento del valore aggiunto nel settore dell’agricoltura, di un andamento negativo dell’industria e di una variazione nulla nel comparto dei servizi”. Se si guardano le cifre assolute al posto delle percentuali, invece, il dramma italiano è solare: il Prodotto nazionale tra gennaio e marzo è ammontato a 340,591 miliardi di euro, all’ingrosso il livello che il Pil italiano aveva nel primo trimestre del 2000 (338,36 miliardi). Quattordici anni persi: per capire di cosa parliamo, basti pensare all’impoverimento che avrebbe subito un lavoratore che oggi guadagnasse esattamente quanto nel gennaio 2000.
L’Italia non è l’unico paese a doversi preoccupare: se la Germania, infatti, sale oltre le previsioni nel periodo gennaio-marzo (+0,8%), il resto dell’Eurozona non se la passa affatto bene visto che il Pil decresce anche in Estonia (-1,2%), Olanda (-1,4%), Portogallo (-0,7%) e Finlandia (-0,4%), mentre la Francia vive una fase di stagnazione. In generale l’area della moneta unica cresce solo dello 0,2 per cento nel primo trimestre, la metà circa di quanto si attendevano gli analisti. Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, s’affida a un tweet: “Pil, speculazione, spread... Teniamo alta la guardia: testa alla crescita, occhi sui conti, cuore all’occupazione”. Gli hashtag - quello di oggi era #riformareovivacchiare - a un certo punto non basteranno più.

il Fatto 16.5.14
Contrordine
Irrealistici i numeri di Renzi In autunno c’è la manovra
di Marco Palombi

Cominciamo coi fatti. Il Pil italiano nel primo trimestre 2014 ha già cumulato una variazione negativa dello 0,2%. Lo dice l’Istat. Questo fa sballare tutti i conti su cui il governo ha basato la sua politica economica: il +0,8% inserito da Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan nel loro Documento di economia e finanza (Def) rischia di essere solo un sogno e persino il +0,6% previsto dalla Commissione Ue sembra ottimistico. L’istituto fondato da Romano Prodi, Nomisma, sostiene ad esempio che anche “scontando rialzi nei prossimi trimestri l’incremento del Pil nel 2014 è dello 0,2-03%”. Insomma, almeno mezzo punto meno rispetto alle stime dell’esecutivo: ne consegue che anche gli altri numeri - rapporto deficit/Pil e debito/Pil su tutti - sono scritti sulla sabbia.
IL GOVERNO ieri ha fatto una sorta di gara a sminuire la cosa. “Ovviamente il dato ci preoccupa, ma ci stimola a fare di più”, ha sostenuto ad esempio il sottosegretario all’Economia Giovanni Legnini: “Il rallentamento, come è noto, è su scala europea, il nostro paese ne ha risentito di più, ma è arbitrario e pretestuoso attribuire questa notizia al governo”. Più colorito il viceministro Enrico Morando: “Colpa del governo? È un’evidente cazzata”.
Il punto, però, non è che sia colpa del governo, ma quanto questi numeri mettano in crisi il teatrino messo in piedi da Matteo Renzi in queste settimane: i 10 miliardi di euro l’anno di sgravi Irpef da confermare per il 2015 e estendere anche a incapienti e partite Iva, più un’operazione (finora un po’ fumosa) per aumentare le pensioni minime. Il tutto condito col dogmatico rispetto dei vincoli di bilancio del Fiscal Compact accennato ancora ieri da Padoan via Twitter. Troppa roba se il Pil italiano, alla fine, sarà mezzo punto meno di quello stimato: in quel caso servirebbe recuperare una cifra compresa tra i 4 e i 5 miliardi con tagli e/o tasse solo per rispettare gli impegni presi sul pareggio strutturale di bilancio.
Al momento, piuttosto che affrontare la realtà, al Tesoro e a palazzo Chigi preferiscono la vecchia cara rimozione e sembrano nutrire una fiducia messianica nei famosi 80 euro al mese in busta paga. “Questo dato non è affatto sorprendente, il motivo per cui il governo ha accelerato è perché sapeva che la crisi non era finita, ma il Paese sta reagendo, vediamo la tendenza della ripresa e abbiamo fiducia nelle misure che abbiamo messo in campo”, spande ottimismo Graziano Delrio, braccio destro di Renzi.
SORRIDONO al futuro pure al ministero dell’Economia: “Ci aspettiamo che il taglio dell’Irpef abbia un effetto positivo sull’andamento dell’economia con la ripresa dei consumi e, allo stesso tempo, siamo sicuri che, durante la presidenza italiana, l’Ue darà una svolta alle politiche per la crescita e l’occupazione”. A parole, insomma, sono tutti rassicuranti, quando scrivono un po’ meno: secondo lo stesso governo infatti - lo si legge proprio nella relazione tecnica all’ultimo decreto - l’impatto degli sgravi Irpef da 80 euro al mese sulla crescita per il 2014 è zero. C’è scritto proprio così: zero. Anche il decreto lavoro appena approvato, in una crisi di domanda come la nostra, ha poche speranze di ottenere effetti, mentre vanno calcolati invece quelli dei tre miliardi di tagli di spesa pubblica previsti per quest’anno (2,1 miliardi dei quali di acquisti, cioè di domanda diretta alle imprese), che diventeranno addirittura 17 l’anno prossimo e 32 miliardi nel 2016. “Bella domanda, ma non lo sappiamo”, hanno risposto tempo fa al ministero dell’Economia (eppure, applicando i moltiplicatori che usano tanto il Fmi di Carlo Cottarelli che l’Ocse di Padoan si saprebbe che si tratta di una manovra incredibilmente recessiva).
INSOMMA, PASSATE le Europee, archiviati i dati del secondo trimestre, tra agosto e settembre il governo dovrà ufficializzare il fatto che i conti non tornano: è probabile, ammettono fonti di maggioranza, che con la Legge di Stabilità, a ottobre, arriverà la manovra correttiva per rimettere sul giusto binario il bilancio dello Stato. Usare la leva della tassazione è escluso tanto per volontà politica che per le decine di mine già inglobate nei conti pubblici sotto forma di “clausole di salvaguardia” (dall’aumento delle accise a quello della fiscalità locale).
La cosa più probabile, insieme a un’accelerazione della spending review, è la vendita accelerata di pezzi del patrimonio pubblico (il decreto sulle società quotate è in arrivo), per mettere almeno una pezza sul 2014, Bruxelles permettendo. Sempre che il Servizio Bilancio del Senato non abbia ragione sulle coperture degli 80 euro: la faccenda, a quel punto, si farebbe davvero complicata.

Repubblica 16.5.14
Siamo la pecora nera dell’Europa
Ora a rischio gli effetti del bonus Irpef
di Federico Fubini



I PRIMI segnali di scollamento fra speranze e realtà erano emersi la settimana scorsa. Da gennaio Piazza Affari aveva corso più delle altre Borse, prima volta da anni. Eppure dall’inizio del mese qualcosa si era spezzato. Come a maggio 2011, subito prima che l’Italia venisse investita dal contagio, il listino di Milano ha iniziato a perdere mentre gli altri tenevano.
QUESTO non è il 2011, certo. Ora esiste una garanzia (condizionata) della Banca centrale europea, quindi il mercato sa che l’Italia potrà sempre trovare un prestatore ultimo a Francoforte se necessario. Ma se c’è un filo rosso che collega quei giorni traumatici a questi, è nel fatto che il Paese non è mai riuscito a liberarsi davvero dalla recessione in cui è piombato tre anni fa. Il calo dell’economia nei primi tre mesi del 2014 è appena dello 0,1%, poca cosa dopo un crollo di oltre il 5%, ma contiene un duplice messaggio.
Il primo è che l’Italia di oggi non ha i muscoli per risalire dal fondo e, evidentemente, non ha usato questi anni per costruirli. Ma l’altro messaggio di ieri è che questa debolezza cronica ancora una volta minaccia l’architettura di bilancio del governo in carica. Oggi quello di Matteo Renzi, come ieri quelli di Enrico Letta, Mario Monti e Silvio Berlusconi.
Non c’è dubbio infatti che l’impianto dello sgravio da 80 euro al mese da ieri poggia su basi meno solide. L’Istat fa sapere che quest’anno l’Italia per ora è decresciuta dello 0,2% dunque, calcola Sergio De Nardis di Nomisma, per il 2014 può contare al massimo in un Pil in aumento dello 0,2% o 0,3%. È una stagnazione, non la ripresa annunciata. L’Istat peraltro stima che spendere 6,7 miliardi per il bonus Irpef già nel 2014 genererà circa 1,5 miliardi crescita in più. Il resto verrà risparmiato dalle famiglie per paura del futuro, finirà ai produttori esteri di smartphone o farmaci comprati dagli italiani, o in parte ai professionisti in posizione di rendita che si fanno pagare troppo cari i propri servizi.
Dunque il governo spende molto per raccogliere poco: poiché il motore dell’economia italiana è palesemente guasto da anni, la benzina che i vari esecutivi cercano di versarci dentro perché sia consumata spinge poco lontano. Era successo con i 5 miliardi dell’Imu del governo Letta, può riprodursi con i 6,7 miliardi dell’Irpef di quello di Renzi benché quest’ultima misura miri all’equità sociale con molta più determinazione. Ma con un’economia quasi a zero, anziché in ripresa, rischiano di non esserci neanche i soldi previsti per finanziare il bonus Irpef rispettando l’impegno a non far salire il deficit oltre il 3% del Pil. In un Paese fermo infatti la coperta si accorcia. Poiché la crescita sarà più debole di quanto stimato dal governo, l’ammanco di cassa prevedibile per la fine dell’anno sembra essere di circa 4,5 miliardi di euro. Basta un minimo intoppo negli ingranaggi pensati per coprire la spesa del bonus Irpef, perché il deficit torni di nuovo eccessivo. Siamo solo a maggio ma, come l’anno scorso, già si allunga l’ombra di una manovra correttiva in estate o in autunno. Allora il governo la smentì per poi farla in ottobre e anche oggi lo percorso ha iniziato a ripetersi. Per spezzare l’incantesimo di questo ciclo continuo di cadute del Pil, manovre, nuove cadute e ulteriori strette al bilancio, il governo può guardare ai dati sui Paesi europei pubblicati ieri. Eurostat segnala che economie fragili come Spagna, Portogallo o Irlanda sono risalite nell’ultimo anno, mentre l’Italia è scesa ancora di più. Quelli restano Paesi carichi di problemi, ma hanno un aspetto in comune: cercano di adattare le proprie istituzioni economiche interne alla nuova realtà della vita in un’unione monetaria. Hanno capito che non si può giocare a calcio continuando a indossare i tacchi alti come prima. In quei Paesi i negoziati sui salari non escludono certo i sindacati, ma avvengono sempre più al livello delle singole aziende per permettere loro di stare sul mercato. Magistrati e avvocati sono sotto pressione per produrre una giustizia dai tempi praticabili, non decennali. E contro la corruzione non si creano «task force», ma si rende il falso in bilancio un reato per cui si va in carcere. Quanto alla Spagna, poi, il governo è stato costretto ad affrontare il problema delle banche prima e con forza, senza rinviarlo. Solo in Italia il credito (a marzo) è di 27 miliardi sotto i livelli di un anno fa. Non che ciò risolva tutti i problemi. I dati Eurostat di ieri gettano luce su un’area euro che emerge dalla sua crisi in pezzi. L’unione monetaria resta un edificio di pieno di squilibri. Non fosse per la Germania che cresce dello 0,8%, l’area nel suo complesso sarebbe ferma. La Francia lo è e sembra avere molti degli stessi problemi dell’Italia. Persino le economie un tempo più vicine alla Germania arrancano: l’Olanda vive una recessione dettata dai bilanci delle famiglie, in profondo rosso a causa dei mutui casa; la Finlandia somiglia a un’azienda il cui modello di business è saltato: persa Nokia, l’unica grande impresa, scopre nell’era digitale che l’export del suo legname per produrre carta sta crollando. Solo l’Austria sembra tenere il passo della Germania e di un euro talmente forte che in ogni altro Paese deprime l’export e i consumi, facendo salire solo il debito in rapporto al Pil.
Ora tutti guardano a Mario Draghi perché riduca lo stress che schiaccia ancora l’area euro. Per la Bce i prossimi mesi non si annunciano più tranquilli degli anni passati: nel 2012 ha sedato la crisi, ma questa può risvegliarsi in ogni momento.

il Sole 16.5.14
Il Pil torna negativo, scossa sui mercati
Lo spread risale di 26 punti e chiude a 180, Milano perde il 3,61%
Ritorno alla realtà
di Roberto Napoletano


Non esiste la ripresa naturale, non è stata ancora inventata. È vero che sui mercati l'euforia era eccessiva, ma lo shock è arrivato del tutto imprevisto e (tutto) intero dal terreno più delicato che è quello dell'economia reale. Andiamo peggio degli altri principali Paesi europei in termini di prodotto interno lordo (ritorna il segno negativo) e siamo quelli che perdiamo di più sui mercati. L'obiettivo di una crescita dello 0,8% accreditato come una stima prudente, è in parte compromesso, di sicuro lo è se non cambia il trend. I capitali affluiti in quantità ingente sui nostri titoli sovrani sono di portafoglio non di investimento. In una sola giornata ci hanno dimostrato qual è il tasso di velocità con il quale possono migrare altrove. Non ci resta che sperare, per quanto ci riguarda, in una semplice battuta d'arresto della ricchezza complessiva prodotta dal Paese e in una correzione di un mercato troppo euforico.
L'America si è svegliata e ha scoperto che l'Europa è ferma: la sola Germania va bene, ma non fa da locomotiva. L'Olanda va molto male, il Portogallo pure, la Francia è al palo inchiodata allo zero, una piccola crescita (+0,4%) la porta a casa la Spagna dove c'è una classe di governo che è uscita dalla propaganda e qualche riforma l'ha fatta. Da notare che i mercati continuano a far valere lo scudo tedesco per i Paesi Nordici e la Francia (anche quando, come in questo caso, vanno davvero male) non per gli altri. Si è detto che sui mercati possono aver pesato voci che il Tesoro italiano ha categoricamente smentito su un'ipotesi (assurda) di tassazione retroattiva sui titoli di Stato, ma la caduta dei mercati non ha riguardato solo noi e resta da interrogarsi su come nascano simili (inquietanti) voci.
Al netto della confusione, resta un'Europa che deve bruscamente voltare pagina (da ieri) e si spera che la Francia capisca che lo scudo tedesco alla lunga non serve a niente se l'economia europea sprofonda. La Francia si allei con l'Italia e la Spagna e incoraggi i segnali di ravvedimento sempre più forti che emergono nel ceto politico, economico e finanziario all'interno della stessa Germania.
Resta, per noi, qualcosa di più importante (e vitale): un test di fragilità che "buca" i semplicismi e gli ottimismi di maniera. La forza politica e le energie che il premier Renzi sprigiona e che segnano positivamente la sua stagione politica, si devono tradurre in un piano organico che sappia coniugare il taglio della spesa pubblica improduttiva alla voce fatti (avvalendosi e motivando le competenze giuste) con una scelta di politica economica che metta al centro della sua azione il tessuto produttivo sano e globalizzato di questo Paese tagliando il cuneo fiscale e incentivando la ricerca. Il segnale dato sul mercato del lavoro è importante, mettere 80 euro in busta paga è una scelta che non avremmo compiuto per prima e in questo modo, ma va comunque nella direzione giusta di lungo termine e merita rispetto. Lo shock di ieri, elezioni permettendo, può essere addirittura salutare se favorisce un ritorno alla realtà.

il Sole 16.5.14
Se la liquidità si esaurisce
di Alessandro Plateroti


Non più di una settimana fa, l'invito alla prudenza sulla sostenibilità del rally dei mercati europei lanciato da BlackRock è caduto nel vuoto.

Con le borse ai massimi di 6 anni e i titoli di Stato italiani, irlandesi, portoghesi, spagnoli e greci ai minimi storici, la raccomandazione dell'esperto è passata come la profezia della Cassandra. Meglio rischiare di perdere soldi che perdere il rally, è stato il ragionamento prevalente, tesi peraltro rafforzata dalla tendenza ormai ben radicata a contare più sulla vigilanza anti-speculativa della Bce che sull'analisi tecnica dei titoli e degli indici, sulla situazione macroeconomica mondiale o sull'evoluzione quadro geopolitico. D'altra parte, uno degli effetti collaterali della sbronza di liquidità in cui sono caduti i mercati dopo 4 anni di stimoli monetari sembra essere proprio questo: un'esuberanza irrazionale che se da un lato accentua la propensione al rischio degli investitori, dall'altro permette anche ai politici e ai governi delle economie più fragili - tra cui ovviamente l'Italia - di rallentare il passo delle riforme, diluirne la portata, allungarne i tempi o addirittura di mettere in discussione gli impegni già presi. In alcuni casi, come la Grecia e l'Italia, si è andati persino oltre: non solo si è tornati a dire che lo spread è una truffa e che le riforme sono inutili e dannose, ma - fatto ancor più grave - l'uscita dall'Euro o addirittura dall'Europa sono diventate alla vigilia del voto europeo le parole d'ordine delle piattaforme elettorali dei partiti populisti (e non solo) o in generale d'opposizione al sistema.
I mercati, grazie soprattutto alla liquidità messa a disposizione dalle banche centrali, hanno finora sostanzialmente trascurato i rischi reali di questa visione distorta della realtà, contando anche sul fatto che la ripresa economica in corso negli Usa e attesa in Europa avrebbe sgonfiato le spinte estremiste o populiste alimentate dalla recessione e dalla crisi occupazionale. E nella stessa ottica, hanno persino commesso l'errore di sottovalutare la portata dello scontro tra Russia e Ucraina, relegandolo a poco più di una crisi regionale: salvo poi accorgersi, come è successo ieri, che anche loro hanno sbagliato i calcoli: non solo l'economia europea arranca sotto il peso delle economie tradizionalmente deboli che poco o nulla hanno fatto per risanarsi, ma è tornata persino a rischio la tenuta politica dell'Eurozona, ormai chiaramente minacciata da un eventuale successo elettorale dei partiti anti-euro. E poi c'è la Russia: la minaccia lanciata ieri da Putin di chiudere i rubinetti del gas all'Europa se l'Ucraina non salda subito la sua bolletta energetica è stata non solo una delle cause principali dell'ondata di vendite che ha colpito i mercati europei, ma anche un monito chiarissimo a non sottovalutare la propensione del Cremlino a richiudere la cortina di ferro. E in uno scontro tra la Russia e l'Occidente, nè il bazooka di Draghi nè le manovre della Fed sarebbero in grado di limitare i danni al commercio mondiale.
Questo è quanto accaduto ieri. Per la prima volta negli ultimi 4 anni, i mercati hanno messo in discussione l'illusione della liquidità che cura tutti i problemi politici ed economici: la liquidità salva le banche, ma se non arriva alle imprese l'economia non riparte. Ma soprattutto, hanno cominciato a ponderare meglio la fiducia accordata agli impegni di risanamento di quei Paesi europei - in primis Italia e Grecia - che hanno rischiato 4 anni fa di essere travolti dalla crisi del debito. Non è un caso se ieri proprio Roma e Atene siano stati i detonatori dell'esplosione ribassista sui mercati: la Grecia perchè si era diffusa la notizia di una possibile nuova tassa a carico degli investitori esteri che possiedono bond greci, l'Italia perchè gli investitori hanno subito preso per buona l'indiscrezione di una possibile tassa retroattiva sui BTp. Entrambe le suggestioni sono state subito smentite dai rispettivi governi, ma senza produrre effetti: i tassi dei BTp e quelli dell'intera scuderia dei Piigs sono tornati a salire più velocemente di quanto erano scesi. In questo caso, è evidente quanto sia ancora pesante il deficit di credibilità che subisce ancora il nostro Paese. Senza contare che tanto per l'Italia quanto per la Grecia, tutti gli operatori di Borsa hanno messo in evidenza tra le ragioni che hanno spinto a vendere il peso crescente dei partiti anti-euro nei sondaggi elettorali: nessuno discute il fatto che il voto è sovrano e che ogni paese ha il diritto di scegliersi il governo che vuole, in casa e in Europa. Ma è altrettanto vero che anche chi investe ha il diritto di scegliere quale sia il mercato più affidabile per coltivare i risparmi, e soprattutto quello che offre le migliori condizioni per la loro crescita. Di questo è bene che si tenga conto non solo in Italia, in Grecia o in Spagna. Ma soprattutto a Berlino e Bruxelles, dove anche i fautori del rigore e delle riforme draconiane dovrebbero cominciare a riflettere su quale sia oggi il vero interesse comune. I dati sul Pil europeo del primo trimestre confermano infatti che la distanza tra economie forti ed economie deboli si sta accentuando, e che persino paesi come l'Olanda e la Finlandia che sembravano ben inseriti nella corazzata mitteleuropea cominciano a presentare crepe economiche paurose, così come sta avvenendo anche in Francia. La liquidità non basta più. Serve una guida politica che rassicuri i mercati e che faccia sentire meno periferica quella parte d'Europa che non riesce a stare al passo. La politica monetaria funziona se c'è una leadership nelle riforme e una politica industriale che orienta la bussola degli investimenti, reali e finanziari. Poichè, come abbiamo visto, non c'è una sola ragione forte, nuova o imprevista che possa giustificare il crollo subito ieri dai mercati, si può sperare che il segnale sia stato colto.

il Sole 16.5.14
Lo schiaffo dell'economia reale ai mercati iper-ottimisti
di Morya Longo


Il mondo reale, quello fatto di imprese che arrancano e di famiglie che faticano ad arrivare a fine mese, sembra aver riportato l'onirico mondo dei mercati finanziari con i piedi per terra. Gli investitori che fino a due giorni fa accumulavano BTp e azioni italiane come se il Sud Europa fosse diventato il nuovo Eldorado, ieri sono rimasti spiazzati: non si aspettavano un segno meno davanti al Pil dell'Italia. E con essi sono stati presi in contropiede anche gli istituti di ricerca che elaborano i vari indicatori sulla fiducia di imprese e famiglie: mentre i loro indici ultimamente mostravano evidenti segnali positivi, la realtà dei fatti si è rivelata ben più fosca. La sorpresa, dunque, ieri mattina è stata forte. Per tutti. E la reazione dei mercati è stata altrettanto forte. Eppure è difficile capire se questo scivolone di Borse e bond preluda a un cambio di tendenza oppure se sia solo una pausa causata da banali prese di beneficio.
Per cercare di immaginare il comportamento degli investitori nei prossimi mesi, bisogna partire dall'analisi dei mesi scorsi. Fino all'altroieri gli investitori di tutto il mondo (in gran parte esteri) adoravano l'Italia e tutto il Sud Europa. Mercoledì si sono messi in fila per comprare il nuovo BTp quindicennale, facendo arrivare al ministero dell'Economia 20 miliardi di euro di ordini d'acquisto. Lo stesso giorno il rendimento dei BTp decennali ha toccato il minimo storico (segno di forti acquisti), mentre la Borsa di Milano viaggiava sui massimi dal 2011. Praticamente ogni giorno c'è qualche grande fondo americano come BlackRock, qualche banca d'affari o qualche investitore che esprime parole di apprezzamento per il mercato italiano.
I motivi che da mesi spingono gli investitori internazionali, e soprattutto americani, a puntare sull'Italia sono almeno quattro. Innanzitutto sul mercato mondiale c'è troppa liquidità. Anche quando la Fed smetterà di stampare dollari, a livello globale la quantità di moneta continuerà ad aumentare per effetto delle politiche ultraespansive delle altre banche centrali. Insomma: gli investitori hanno tanti soldi e, in un mondo dove le Borse sono tutte sui massimi e i bond hanno ormai rendimenti ridotti al lumicino, è difficile trovare un posto remunerativo dove investire. L'Italia da tempo attira capitali americani proprio per questo motivo: perché le azioni di Piazza Affari hanno valutazioni tutt'ora più convenienti e i BTp rendimenti più allettanti rispetto ai titoli di molti altri Paesi. Per di più la Bce dovrebbe varare una manovra espansiva a giugno: anche questo, soprattutto negli ultimi giorni, ha dato benzina ai mercati. Infine gli investitori erano convinti che l'Italia, come tutto il Sud Europa, avesse imboccato il cammino della crescita. Lieve, lievissima, ma comunque crescita.
Ieri è stata smentita solo quest'ultima convinzione. Questo, dopo mesi di forti acquisti, ha ovviamente spinto gli investitori a vendere azioni e BTp, per prendere profitto in attesa di capire cosa fare. Ma le altre condizioni che negli ultimi mesi hanno indotto gli investitori a comprare Italia restano inalterate. La liquidità resta abbondante: anzi, continua ad aumentare. Le valutazioni delle azioni italiane e dei BTp restano più convenienti rispetto a quelle di altri Paesi. La Bce, a maggior ragione dopo la delusione sul Pil di ieri, dovrebbe intervenire con una maggiore energia a giugno. Insomma: nulla è cambiato tra le maggiori motivazioni che da mesi spingono gli investitori a comprare Italia. E anche lo stesso calo del Pil, seppur sorprendente, conferma la sostanziale stagnazione del Paese: è stata una sorpresa, certo, ma secondo gli economisti nulla di così drammatico.
Dunque, guardando il mondo con gli occhi degli investitori, la sorpresa sul Pil non dovrebbe cambiare più di tanto le strategie. Questo dovrebbe far pensare che le vendite di ieri siano state dettate più da prese di beneficio dopo i forti rally, che da una effettiva marcia indietro dei grandi capitali. Per esserne certi, però, bisogna attendere le prossime mosse degli investitori e i prossimi dati macroeconomici. Eppure, guardando il mondo con occhi diversi da quelli della grande speculazione, non si può che trarre un insegnamento da quello che è accaduto ieri: non può essere sostenibile una tale euforia sui mercati, se il mondo reale non riesce a stare al passo. Prima o poi, su mercati tenuti in uno stato di iper-eccitazione dalle banche centrali, le sorprese negative non possono non arrivare. Più che gli investitori, dovrebbero meditare le generose banche centrali.

il Sole 16.5.14
Senza crescita robusta conti pubblici a rischio
di Dino Pesole


Qualora il Pil si attestasse su base annua bene al di sotto del target indicato dal governo, il deficit scivolerebbe inesorabilmente verso, se non oltre, il tetto massimo del 3 per cento. Materializzandosi con questo il rischio di una manovra correttiva in autunno.
Di certo non è un buon viatico per la trattativa che il governo ha immaginato di avviare in autunno, per ottenere quanto meno più flessibilità nel timing di rientro dal debito, attualmente al 134,9% del Pil con il pareggio di bilancio in termini strutturali che slitta dal 2014 al 2015. Il punto è che l'intero edificio si regge proprio sulla previsione di crescita formalizzata nei documenti programmatici (Def, Programma di stabilità e Programma nazionale di riforma), sui quali la Commissione europea si pronuncerà il 2 giugno. Stima giudicata ottimistica dall'Ocse che prevede lo 0,5% e dalla Commisisone europea, che fissa l'asticella allo 0,6%.
Si può obiettare che altri paesi, del calibro della Francia, sono largamente al di sopra del 3% nel rapporto deficit/pil. Un approccio meno ragionieristico alla disciplina di bilancio di certo gioverebbe, ma fino a quando non vi sarà un'esplicita indicazione politica in sede europea che vada in questa direzione, il superamento del tetto del 3% avrebbe per noi (il debito della Francia è decisamente più contenuto del nostro) conseguenze immediate. Oltre al permanere nella lista dei paesi su cui - come ha ribadito Bruxelles - pende una situazione di squilibrio macroeconomico, rischieremmo di finire nuovamente in procedura d'infrazione per disavanzo eccessivo. A quel punto la correzione dei conti sarebbe obbligata. Esattamente quel che è avvenuto lo scorso anno, quando il governo Letta si è trovato nella necessità di ricorrere a una manovra aggiuntiva, ancorché contenuta nello 0,1% del Pil (1,6 miliardi) per ricondurre il deficit nominale al 3 per cento. Anche quest'anno, rischiamo dunque di attestarci a un livello molto vicino a quel limite. Scenario complesso, che - come sottolinea la nota del ministero dell'Economia - riflette il rallentamento di buona parte dei paesi dell'eurozona. Il problema è che a bocce ferme la prossima legge di stabilità ha già in cantiere interventi per 10 miliardi. Servono ad assicurare la copertura a regime del bonus Irpef, ammesso che la gelata sull'economia consenta di stabilizzarlo, com'è nelle intenzioni del governo. L'attuale copertura "multipla" (un mix di entrate una tantum e tagli per un totale di 6,9 miliardi) copre solo il periodo maggio-dicembre. Ai 10 miliardi del bonus Irpef vanno aggiunti ulteriori interventi che faranno salire l'asticella della manovra nei dintorni dei 20 miliardi, se si vorrà intervenire sull'Irap (dopo il primo taglio del 10% contenuto nel decreto Irpef), onorare gli impegni contenuti nella legge di stabilità del 2014 (con annesse clausole di salvaguardia) e far fronte al tempo stesso alle spese inderogabili che si renderanno necessarie nel corso del 2015: dal finanziamento della cassa integrazione alla copertura delle missioni internazionali.
La maggiore crescita - questa la scommessa che il governo ha deciso di giocare - sarà innescata dalla riforma del mercato del lavoro, dallo sblocco dell'ulteriore tranche di debiti commerciali della Pa, dal bonus Irpef. Per non parlare delle misure in cantiere, dalle semplificazioni ai primi provvedimenti attuativi della delega fiscale, ma anche dell'effetto atteso dalle riforme costituzionali. È la linea che lo stesso ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan ha prospettato in sede europea, magna pars degli intendimenti strategici e programmatici che lo stesso presidente del Consiglio, Matteo Renzi prospetterà ai partner nell'assumere tra breve la presidenza di turno dell'Unione europea.
Su questo assunto dovrebbe basarsi l'offensiva d'autunno, quando il governo porrà sul terreno del confronto con Bruxelles, oltre alla richiesta di maggiore flessibilità nel timing di rientro dal debito, anche la possibilità di recuperare la «clausola per investimenti produttivi», congelata a novembre dalla Commissione europea. Ma se verrà meno proprio l'elemento fondamentale, vale a dire il denominatore, garanzia assoluta per la tenuta dei conti pubblici accanto all'avanzo primario e alla minore spesa per interessi (nell'aspettativa che l'impennata di ieri a quota 180 punti base sia transitoria), l'esito della trattativa sarà già scritto. Ben difficilmente potremo mettere allora in campo ulteriori «circostanze eccezionali», dopo quelle avanzate non più di un mese fa per sostenere la richiesta di «scostamento temporaneo» dall'obiettivo di medio termine.

il Sole 16.4.14
Renzi rilancia sulla velocità del cambiamento, ma teme per l'impatto sulle elezioni
Il premier difende la scelta dell'ottimismo Ma Grillo e Fi lo assediano: troppe bugie
di Emilia Patta


ROMA La linea è quella della «fiducia» e dell'«ottimismo». Ma certo i dati diffusi nelle prime ore della mattina dall'Istat – che certifica un calo del Pil dello 0,1% sul trimestre e dello 0,5% sull'anno – arrivano a Palazzo Chigi come una vera e propria doccia fredda. Matteo Renzi non se lo aspettava. A dieci giorni dalle elezioni questo segnale negativo sull'economia preoccupa, e molto, in una campagna elettorale già condizionata dalle inchieste giudiziarie di Milano sul caos Expo. Tutta acqua che rischia di finire nel mulino grillino.
La nuova bordata da sostenere è stata subito al centro di un confronto tra il premier e il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, in una delle consuete telefonate. E subito sono partite le reazioni dello stesso Padoan e del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio: la situazione era in larga misura prevedibile, ed è per questo che il governo Renzi è sceso in campo per fare «scelte grandi e radicali». «Non mi faccio facili illusioni quando il Pil è +0,1%, non mi deprimo quando, come oggi, è -0,1% – ha poi detto lo stesso premier alla trasmissione radiofonica Zapping –. Valuteremo con grande attenzione i dati Istat, che sicuramente non ci fanno piacere. Ma sono molto fiducioso e ottimista. L'Italia è un Paese che ha tutte le condizioni per ripartire, ma bisogna cambiare le regole del gioco, perciò insisto sulla necessità di fare le riforme». Quella arrivata dall'Istat si è rivelata una doccia gelida pure per i mercati, in una giornata nera per la Borsa di Milano, caduta in picchiata fino ad oltre il 3% mentre lo spread è invece risalito in poche ore di oltre 30 punti base. Un terremoto anche amplificato da rumors, smentiti dai governi di Italia e Grecia, di una tassa retroattiva sui titoli di Stato. Ma da ambienti dell'Esecutivo si fa appunto notare che non c'è alcun rapporto tra il calo del Pil e il balzo dello spread, legato invece alle voci sui titoli di Stato. Quanto alla stima dello 0,8% del Pil scritta nero su bianco nel Documento di economia e finanza, il governo ha subito messo in chiaro che si tratta di una stima «prudenziale» (quella dell'esecutivo Letta era di 0,9%). E l'obiettivo resta alla portata – è la linea – considerando la cura di cavallo attivata: intervento sull'Irpef (gli 80 euro che diventeranno strutturali), il taglio del 10% dell'Irap, le riforme messe in campo a partire da quella del lavoro approvata proprio ieri in via definitiva. «Non dobbiamo rivedere i conti», ha subito sottolineato il viceministro all'Economia Enrico Morando puntualizzando che i dati del primo trimestre non possono dipendere «dall'azione del governo in carica».
Un'autodifesa più che necessaria, quella del governo, viste le bordate giunte dalle opposizioni. A partire da Forza Italia, che a dieci giorni dalle elezioni parla esplicitamente di «fallimento» «L'Istat brucia le attese di Matteo Renzi, certificando la caduta del Pil italiano nel primo trimestre dell'anno. I dati sono impietosi – tuona il capogruppo azzurro Renato Brunetta –. Le profezie del ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, rischiano pertanto di dimostrarsi quelle che sono apparse fin dal primo momento. Altro che crescita superiore allo 0,8%, come indicato dal Def in polemica con le più accorte previsioni dei principali istituti internazionali. Per conseguire quel risultato, stante la gelata invernale, il Pil dovrebbe crescere nei prossimi trimestri ad una velocità media di circa 1,2%, rispetto ai corrispondenti trimestri del 2013. Obiettivo talmente ambizioso da risultare improbabile. Cosa farà ora Matteo Renzi? Dopo aver criticato ingiustamente il servizio Bilancio del Senato, per aver espresso dubbi sulle fantomatiche coperture recate dal decreto legge sul bonus fiscale, denuncerà anche il presidente dell'Istat?». Incalza il vicepresidente dei senatori di Fi Maurizio Gasparri: «La ripresa non c'è. E non basteranno le mance elettorali di Renzi a cambiare l'opinione che gli italiani si stanno facendo di lui. È un bluff che ci costa caro».
Da parte sua Beppe Grillo, persa l'occasione di accusare il Pd sul caso Genovese (ieri la Camera ha votato per l'arresto del deputato democratico con il voto dei suoi compagni di partito, si veda pagina 22), si getta subito sul nuovo caso economico: «Mentre Renzie (così il leader del M5S chiama il premier, ndr) il bamboccio va in giro per l'Italia a raccontare balle nonostante le continue contestazioni, l'economia italiana affonda», scrive sul suo blog. Solo un assaggio delle possibili polemiche dei prossimi giorni, soprattutto se dai mercati dovessero continuare ad arrivare segnali negativi.

il Fatto 16.5.14
Renzi arresta Genovese, ma nel Pd incubo Greganti
La Gurdia di Finanza di Milano ha la prova, un’intercettazione dell’ex comunista
Pietro Grasso chiede a Bruti Liberati le date degli incassi
di Davide Milosa


Milano. Se Palazzo Madama smentisce, la Finanza di Milano conferma e risolve il giallo della presenza di Primo Greganti in Senato. I militari, titolari dell’indagine sulla cupola degli appalti Expo 2015, sostengono che il compagno G, già condannato per Tangentopoli, si recasse in Parlamento ogni mercoledì. Ma fanno di più: in un’annotazione messa agli atti svelano la pistola fumante in grado di risolvere il mistero. Per capire bisogna tornare al 19 febbraio scorso.
IN QUEL MOMENTO il telefono dell’ex comunista è intercettato. Mancano due minuti alle undici di mattina. Greganti riceve una telefonata da Sergio Cattozzo, l’ex segretario generale ligure dell’Udc, ritenuto uno dei capi dell’associazione a delinquere ricostruita dai pm Claudio Gittar-di e Antonio D’Alessio. Si legge: “Cattozzo chiama Greganti per evidenziare che l’aereo per Roma (dove si sarebbero dovuti incontrare, ndr) ha accumulato due ore di ritardo”. A quel punto, viene scritto, “Greganti dice di avere appena finito una riunione al Senato”. Non certo una millanteria. Tanto che, spiegano gli investigatori, “la cella di localizzazione a cui si appoggia il cellulare in uso allo stesso, a titolo di esempio, alle ore 10,58 è ubicata in via dei Cestari, nei pressi di corso Rinascimento/Palazzo Madama”. Ieri il presidente del Senato Pietro Grasso ha chiesto al procuratore Bruti Liberati date e orari degli ingressi di Greganti. E così, mentre l’interrogatorio di Enrico Maltauro conferma l’esistenza della cupola, le informative della Finanza svelano nuovi contatti e particolari inediti. Su tutti, la presenza di Greganti in Senato. Presenza della quale i vecchi amici del Pd non si sono mai accorti, mentre i senatori del M5S la denunciano ormai da due giorni. Oltre a questo, colpiscono i 25 mila euro di pensione all’anno che, stando alla dichiarazione dei redditi, sarebbero l’unica fonte di sussistenza di Greganti. Poco, anzi pochissimo. E decisamente non credibile se solo si pensa che in un anno, lo stesso Mal-tauro ha dichiarato di aver versato alla cupola una ma-xi-stecca da 1,2 milioni di euro. Un cortocircuito segnalato dalla stessa Finanza che, descrivendo la figura di Greganti, spiega: “Basta considerare, quale sintomatico punto di partenza, che le interrogazioni eseguite presso l’Anagrafe tributaria hanno evidenziato, quale unica fonte reddituale per le ultime tre annualità di imposta” dal 2009 al 2011 “redditi di pensione per un importo di circa 25 mila euro netti” all’anno e che “non risultano dichiarate altre tipologie di reddito”. Non solo: Greganti non è intestatario di quote di società, né di immobili. Tanto che il suo cellulare e la sua auto sono intestati al gruppo Seinco di cui sono socie le figlie. Ecco, allora, la conclusione dei militari per i quali il dato appare “oltremodo significativo” se lo si studia “alla luce delle considerazioni svolte circa la fervente attività di consulenze posta in essere da Greganti a fronte della totale insussistenza di qualsivoglia giustificazione formale delle dazioni percepite”. Nel mazzettificio bipartisan così Greganti copre la parte del centrosinistra. Tre mesi fa, infatti, a Roma vede Francesco Riccio ex tesoriere nazionale Ds. L’incontro viene registrato dalla Guardia di finanza. Il resto, vale a dire il centrodestra, è competenza dell’ex dc Gianstefano Frigerio, anche lui vecchia conoscenza di Mani Pulite. Perché contatti e rapporti sono essenziali per gestire al meglio gli affari. E così i finanzieri, in un’altra annotazione, rivelano che nel 2013 Frigerio avrebbe preparato per Berlusconi un “elenco” di nomi di politici “essenziali, soprattutto se c’è una seduta alla Camera o al Senato”.
SI TRATTA di un’intercettazione con Cattozzo definita “molto importante”. Scrive la Finanza: “Frigerio chiede a Cattozzo cosa farà adesso Gigi”. Il riferimento è all’ex senatore Luigi Grillo (arrestato). A quel punto Cattozzo “dice che Gasparri e Quagliariello avevano portato a Berlusconi un elenco di sei nomi dove il primo dei sei era Gigi (Grillo) e il secondo era Bruno”. Frigerio “dice che è lo stesso elenco che aveva fatto lui a Berlusconi e dice che gli aveva messo Gigi (Grillo) e Donato Bruno e poi aveva aggiunto la Casellati, Roberto Rosso che sono suoi amici”. Frigerio poi specifica e dice che i primi due sono essenziali, soprattutto se c’è una seduta alla Camera o al Senato da fare, perché sono quelli che hanno più mestiere”. Insomma, la cupola vuole tutto e soprattutto punta in alto. Come dimostra l’intercettazione tra Cattozzo e Frigerio dove i due discutono di “un commissariamento” della So-gin e per questo intendono (senza riuscirci) agganciare l’attuale ministro dell’Ambiente e il portavoce del Pd Lorenzo Guerini, il quale, sentito dal Fatto, è stato categorico: “Mai visto e conosciuto questi personaggi”.

il Fatto 16.5.14
Barani: “Ho avvistato il compagno G.”
di Fabrizio d’Esposito


Lucio Barani è un craxiano dichiarato, nonché orgoglioso, del gruppo autonomista, il Gal. È senatore. Gira con un garofano all’occhiello e, in genere, visita i politici che finiscono in carcere. L’ultimo è Primo Greganti, il Compagno G. Ieri al Corsera, Barani ha rivelato di aver visto Greganti anche in Senato.
Lei è l’avvistatore ufficiale del Compagno G.
Non credo di avere avuto un’allucinazione. Anche perché non ero da solo, c’erano i miei collaboratori e tanti altri colleghi. Com’è possibile che l’abbia visto solo io?
Lei osserva e ricorda.
Domenica sono andato a trovarlo nel carcere di Opera, a Milano. Sono stato cinque minuti e gliel’ho detto: “Era meglio quando ci siamo visti al Senato”.
Greganti al Senato è come il Fantasma dell’Opera.
Era alla buvette. Pensi che a un certo punto è arrivato un senatore grillino e ha ordinato un caffè. Ricordo perfettamente la battuta di Greganti: “Ma allora voi lo prendete il caffè”. Ha capito il senso?
Sono uomini, non marziani. E magari fanno pure pipì. Il Compagno G. era solo?
No.
Chi c’era con lui?
Due o tre colleghi del Pd, sicuramente.
Non è preciso.
Guardi non è omertà, è la memoria che ha dei flash che vanno e vengono. Lì per lì non ci avevo fatto caso. Poi, dopo l’arresto, ho ricordato.
C’era Sposetti, l’ex tesoriere ds?
No. Sono amico di Ugo, ci rivolgiamo battute piccanti, ci avrei parlato. Poi la scena si è allargata.
In che senso?
A Greganti e ai senatori del Pd si è aggiunto qualcun altro.
Chi?
Un componente del governo. Un ministro o un sottosegretario, non lo escludo.
Lei semina indizi e allusioni. E non fa nomi.
La scena è questa: Greganti, due o tre senatori del Pd, un ministro o un sottosegretario. Non credo sia un reato parlare con Greganti.
Non lo è, ma adesso il Compagno G. è come se non fosse mai esistito per il Pd. Perdi-più non lascia tracce in Senato.
Questo non vuol dire niente.
Cosa?
La questione delle tracce.
Può spiegare?
Se io entro con un ospite questi lascia solo un documento, senza essere registrato. Diversamente se io telefono e dico che attendo una persona , il nome rimane scritto. Sono segretario di presidenza, so come funzionano gli ingressi qui.
Ergo, Greganti è entrato a Palazzo Madama con un senatore del Pd.
Esatto, ma se la volpe volesse nascondere qualcosa non credo si avvicinerebbe alla porta del cacciatore.
È una parabola craxiana?
È una riflessione che mi viene per dire che Greganti avrebbe potuto scegliere altri posti per i suoi incontri segreti. Se ha scelto di venire qui...
Tanto volpe non è.
Ecco.

il Sole 16.5.14
Il presidente Grasso scrive alla Procura per avere chiarimenti sulla vicenda
Giallo sulle visite di Greganti al Senato
Angelo Mincuzzi


MILANO È giallo sulle visite di Primo Greganti a Palazzo Madama. In una intercettazione del 19 febbraio di quest'anno, il "compagno G" rivela al mediatore Sergio Cattozzo di aver appena finito una riunione al Senato. E in effetti tra le carte dell'inchiesta della procura di Milano spunta una informativa della Guardia di Finanza nella quale gli investigatori annotano che il telefono di Greganti aggancia alle 10,58 di quella mattina la cella di via dei Cestari, nei pressi di corso Rinascimento-Palazzo Madama. Greganti millantava conoscenze inesistenti o ha davvero incontrato qualcuno? Per chiarire il mistero, ieri il presidente del Senato, Pietro Grasso, ha scritto una lettera al procuratore della Repubblica, Edmondo Bruti Liberati, per chiedere «con urgenza informazioni più circostanziate» e ha convocato il Comitato di Sicurezza del Senato. Grasso ha richiesto «ogni utile elemento di dettaglio riguardante le date e gli orari in cui il signor Greganti sia stato eventualmente osservato fare ingresso o uscire da palazzi del Senato e indicazioni precise di quali specifici palazzi e ingressi si tratti».
Si chiama fuori dall'inchiesta, intanto, il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi. «Non ho mai incontrato il signor Frigerio, che è un vecchio uomo della Democrazia cristiana che ho conosciuto 30 anni fa. Mi fa la cortesia di mandarmi ogni tanto dei suoi pensieri sulla situazione economica mondiale, europea e italiana. Tanto è vero che li abbiamo rintracciati nei nostri archivi e questa mattina il mio legale va a consegnarli tutti alla procura», ha detto ieri Berlusconi davanti alle telecamere de La7. E ieri mattina, poco dopo l'intervento dell'ex premier in tv, l'avvocato Niccolò Ghedini si è incontrato con Bruti Liberati, al quale ha consegnato i documenti scritti da Gianstefano Frigerio e inviati ad Arcore. Nell'ordinanza di arresto firmata dal gip Fabio Antezza sono riportate alcune intercettazioni nelle quali Frigerio parla di visite ad Arcore e spiega di aver inviato alcuni messaggi al leader di Forza Italia: «Ho mandato un biglietto a Berlusconi», diceva. E il 10 maggio 2013 in un'altra conversazione spiegava: «Il mio capo mi ha chiamato ad Arcore».
Dopo i due interrogatori dell'imprenditore Enrico Maltauro e del mediatore Sergio Cattozzo (che sarà nuovamente ascoltato martedì), ieri i pm Claudio Gittardi e Antonio D'Alessio hanno dato parere negativo alla richiesta dei difensori di Angelo Paris di trasferimento agli arresti domiciliari. L'ex direttore generale di Expo 2015 è rinchiuso nel carcere di Opera da giovedì scorso. Per i pm Paris deve ancora chiarire molti aspetti della vicenda e per questo sarà interrogato lunedì prossimo.
Non si placa, invece, la polemica tra Bruti Liberati e il procuratore aggiunto Alfredo Robledo sul "doppio pedinamento" di Paris. Davanti al Csm Bruti aveva accusato Robledo di aver intralciato le indagini predisponendo il pedinamento di Paris mentre ne era già in corso uno. Robledo aveva smentito il capo della procura allegando una lettera della Gdf che confermava la sua versione. E ieri Bruti ha scritto nuovamente al Csm accusando il suo vice di aver indagato senza informarlo.

il Fatto 16.5.14
Greganti & C: indaga anche la Corte dei conti


ANCHE LA PROCURA lombarda della Corte dei conti ha iniziato a indagare sulla vicenda della cupola che gestiva gli appalti di Expo 2015 e che ha portato in carcere Gianstefano Frigerio, Primo Greganti, Luigi Grillo, Sergio Cattozzo, l’ex manager di Angelo Paris e l’imprenditore Enrico Mal-tauro. I giudici contabili hanno avviato un’indagine per accertare possibili profili di danno erariale nella gestione delle gare. A guidare il pool di magistrati contabili sarà il procuratore regionale, Antonio Caruso che si avvarrà dell’ausilio del Nucleo di polizia tributaria della guardia di finanza di Milano. Come si legge in una nota, l’inchiesta è “in stretta connessione con i recenti provvedimenti della magistratura penale in materia di gestione delle gare di appalto di Expo”. Questa nuova inchiesta si aggiunge ad un’indagine già in corso: quella relativa alla presunta truffa ai danni della Regione tramite Infrastrutture Lombarde, in cui sarebbero state rilevate numerose illegalità nell’attività contrattuale. I giudici contabili lombardi sono al lavoro anche su numerosi fascicoli relativi agli appalti negli ospedali lombardi, attualmente in fase istruttoria.

La Stampa 16.5.14
Dietro la votazione a scrutinio palese anche il timore dei franchi tiratori
di Marcello Sorgi


Il voto con cui la Camera ha concesso l’autorizzazione all’arresto di Francantonio Genovese - ex segretario del Pd ed ex sindaco di Messina, sotto inchiesta per corruzione -, segna un altro passaggio dell’inseguimento tra M5S e Pd che ha caratterizzato tutta la campagna elettorale per le europee. Il Pd infatti, non è un mistero, avrebbe preferito rinviare il voto a dopo il 25 maggio, e in questo senso si era espresso fino a mercoledì sera. Ma Renzi, dopo il rinvio del giorno prima, ha capito che lasciare la questione Genovese aperta nell’ultima settimana che precede l’apertura dei seggi avrebbe dato a Grillo un forte argomento di propaganda, specie nei giorni successivi agli arresti di Milano e di Scajola e alle polemiche sul possibile ritorno di Tangentopoli. Di qui la brusca inversione di marcia che ha portato ieri allo scrutinio della Camera.
C’era anche un secondo timore che spingeva a mettere da parte la questione: i parlamentari del Pd temevano che i colleghi grillini, dopo aver premuto per la concessione dell’arresto, nel segreto dell’urna avrebbero votato contro, lasciando al loro partito (all’interno del quale non tutti erano d’accordo) l’onere di aprire le porte del carcere per Genovese, o di scontare il peso di un risultato gravato dai franchi tiratori. La scelta del voto palese, maturata in mattinata, ha eliminato questo rischio, limitando anche a poche unità il dissenso interno dei Democrat, ma ha fatto sì che Grillo, subito dopo l’esito della votazione, si appropriasse del merito di aver portato in carcere il deputato accusato di corruzione e di aver costretto il Pd ad uscire dalle ambiguità.
A votare platealmente contro l’arresto sono rimasti così una quarantina di deputati di Forza Italia, con Berlusconi che, fuori dal Parlamento, rivendicava la coerenza del centrodestra con la sua tradizionale linea garantista. In realtà il Cavaliere è alle prese in questi giorni con le conseguenze dei casi Dell’Utri e Scajola-Matacena, che, sebbene non siano più stati ricandidati alle ultime elezioni, sono ancora ricondotti, in termini di immagine, a Forza Italia. Ecco perché Berlusconi insiste a presentarli come vittime di ingiustizia, anche se a causa della sentenza che gli ha imposto gli arresti domiciliari non può più adoperare i suoi tradizionali e durissimi argomenti anti-giudici.
Genovese, che ha appreso l’esito del voto nella sua città, si è subito costituito. A Montecitorio, nei corridoi semideserti in cui gli ultimi deputati sì attardavano, silenziosi dopo la decisione di concedere l’arresto, c’era chi si interrogava se l’ex sindaco di Messina, che controlla ancora un pacchetto consistente di voti personali, nuocerà più al Pd stando in carcere, che non fuori.

Corriere 16.5.14
Campagna avvelenata tra colpi bassi ed economia in bilico
di Massimo Franco


Il «sì» all’arresto del deputato del Pd Francantonio Genovese è stato votato con una maggioranza schiacciante. Ma nel silenzio gelido dei deputati. Il sospetto è che sia stato non un giorno trionfale per la giustizia, ma un’altra tappa di una campagna elettorale per le Europee punteggiata di colpi bassi; e che l’esito finirà per favorire non tanto il partito e il governo di Matteo Renzi, ma soprattutto Beppe Grillo. Il capo del Movimento 5 stelle già si vanta di avere piegato il premier e il Pd a votare ieri; e di avere indotto il Parlamento a ricorrere allo scrutinio palese nel timore che i grillini potessero giocare qualche brutto tiro nel segreto dell’urna.
Non è tanto la votazione di ieri ad acuire i timori di un grillismo ulteriormente in ascesa, però. I dati negativi sul Prodotto interno lordo (Pil) nel primo trimestre del 2014; gli oltre 17 miliardi di euro bruciati ieri dalla Borsa; e l’impennata di trenta punti dello spread , la differenza tra gli interessi sui titoli di Stato italiani e tedeschi, sono indizi di una condizione economica ancora in bilico. Tanto da far dire al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan: «Teniamo alta la guardia»; e da costringerlo a smentire voci su una tassazione retroattiva dei Bot. «Siamo preoccupati», ammette il sottosegretario a palazzo Chigi, Graziano Delrio. «Per questo abbiamo deciso scelte radicali».
Renzi rivendica: «Noi applichiamo la legge anche quando riguarda i nostri». Il guaio è che la marcia verso le Europee del 25 maggio sembra regalare quotidianamente un piccolo vantaggio a Grillo, e un problema in più all’esecutivo. Può darsi che si tratti soltanto di una sensazione, di un’insicurezza psicologica senza riscontro nella realtà e negli orientamenti di voto. Ma qualcosa dev’essersi incrinato se perfino un ministro del governo Renzi, Stefania Giannini, mette le mani avanti affermando che «se i risultati dovessero assegnare a Grillo un trionfo, dal punto di vista politico non ci sarebbero ripercussioni, trattandosi di elezioni europee».
L’ipotesi che il M5S diventi il primo partito è tutta da verificare. Che in quel caso tutto possa rimanere com’è, tuttavia, è da escludersi. Silvio Berlusconi continua a delegittimare le riforme istituzionali di Renzi. Questo fa pensare che, se i rapporti parlamentari in Italia fossero contraddetti da quelli continentali, l’asse Pd-Fi potrebbe entrare in crisi. E accordi come quello per cambiare il bicameralismo e il sistema elettorale sarebbero rimessi automaticamente in discussione. Già ieri Berlusconi ha definito il Senato abbozzato dal governo con la proposta del ministro Maria Elena Boschi «un dopolavoro per sindaci “rossi”», nel senso di eletti dalla sinistra.
FI cerca anche di sfruttare la controversa teoria di un complotto internazionale contro il suo governo nel 2011. L’ex premier dice che sarebbe necessaria una commissione di inchiesta, e non smette di adombrare che Giorgio Napolitano ne sia stato il regista occulto: a costo di alzare un’altra palla a un Grillo anti-Quirinale. Il dubbio più corposo alla tesi del «colpo di Stato» contro Berlusconi proviene tuttavia dai suoi alleati leghisti. Matteo Salvini, segretario del Carroccio, fa notare che «se ti mandano a casa dopo un complotto non voti, dopo un mese, la fiducia al governo di Mario Monti». E magari nemmeno la rielezione di Napolitano per altri sette anni, voluta da Berlusconi.

Corriere 16.5.14
«Renzi imitatore? Ha imparato da me»

«Bello e molto divertente... quello che qualcuno dice, e cioè che Renzi abbia imparato qualcosa da me, è davvero realistico... ». Ospite di Telecamere, Silvio Berlusconi commenta la sua imitazione fatta da Matteo Renzi nel 1996 in un video trasmesso da Striscia la notizia: «Non mi sorprende  e io questa cosa già l’avevo vista». Ed è vero: «C’è una simpatia nei confronti di Renzi, sul piano umano, nata quando era sindaco di Firenze e ci accordammo per una colazione ad Arcore. Tra noi  ci fu una corrente di simpatia».

l’Unità 16.5.14
Scajola, l’inchiesta punta su Servizi e Vaticano
Oggi interrogatorio per l’ex ministro scaricato da Berlusconi. Tra i 19 nuovi indagati, cinque politici. Il ruolo di Danesi (ex P2) e i conti presso la Santa Sede


L’inchiesta «Breakfast», che ha portato all’arresto dell’ex ministro Claudio Scajola, sta per arrivare al cuore stesso di Forza Italia e dei Servizi Segreti nazionali; tanto che Silvio Berlusconi, sentendo puzza di bruciato, si è affrettato a scaricare in pubblico l’ex titolare del dicastero degli Interni dichiarando a una tv nazionale «Claudio ha sbagliato».
Lo stesso Scajola verrà interrogato stamane alle 10 da Giuseppe Lombardo, il sostituto procuratore della distrettuale antimafia reggina che aveva aperto l’indagine «Breakfast» sui rapporti tra Lega Nord e ‘ndrangheta. Secondo quanto trapelato dalla riunione operativa presso la Procura dello Stretto nella mattinata di ieri, cui hanno partecipato il colonnello della Finanza Gianfranco Ardizzone in rappresentanza della Dia, il procuratore capo Cafiero de Raho e il suo sostituto Giuseppe Lombardo e il procuratore Antimafia nazionale Francesco Curcio, ci sarebbero 19 nuovi indagati i cui nomi non potrebbero essere ancora resi noti, nella rete di relazioni messa su da Scajola per favorire la latitanza dell’ex parlamentare Amedeo Matacena jr e portarlo da Dubai, verso il Libano dove si sarebbe potuto dichiarare «prigioniero politico» come ha intenzione di fare anche Marcello Dell’Utri da Beirut in queste ore.
Cinque di questi nuovi indagati sarebbero politici con posizioni apicali nel partito di Silvio Berlusconi, e per le loro trame avrebbero coinvolto servitori dello Stato del servizio di Intelligence; gli agenti segreti adesso starebbero cercando coperture politiche per non avere conseguenze penali dall’essersi messi a disposizione delle richieste di un politico - Scajola - che risulta pur sempre essere l’ex ministro degli Interni, cioè il loro ex capo. Nel corso della stessa riunione, i pubblici ministeri avrebbero dato altre due nuove deleghe investigative a carabinieri e Finanza dello Stretto: la prima è indagare sul conto ex banco di Napoli che tutti i deputati hanno nella agenzia presso la Camera, e Matacena aveva - come tutti - ancora attivo. In una intercettazione a disposizione degli investigatori la moglie dell’armatore, Chiara Rizzo, che in serata è attesa all’aeroporto di Reggio Calabria e che domani verrà interrogata dal pm Lombardo nel carcere di Reggio, riferiva ad una amica che «Claudio (Scajola, ndr) mi ha chiesto se Amedeo aveva un conto alla Camera... e mi ha detto che quello è perfetto, che possiamo fare tutto da li basta portargli la documentazione che provi che è suo...». Così la signora Rizzo su indicazioni di Scaloja avrebbe fatto transitare da quel conto i soldi che sarebbero serviti a «oliare» la latitanza libanese dell’ex parlamentare. La signora Rizzo in Matacena, pur dichiarando allo Stato italiano un reddito imponibile di 1400 euro, movimenta in due mesi oltre un milione e mezzo su quel singolo conto bancario: 950mila euro e passa nel luglio 2013, quasi 700mila e 107mila nel mese successivo.
La seconda delega investigativa porta in Vaticano, dove alcuni personaggi vicino alla ex loggia P2 avevano possibilità di far transitare somme. Uno dei nomi che ricorrono nelle parole degli investigatori è quello di Emo Danesi, 79 anni, uno dei destinatari della ordinanza cautelare che ha disposto gli arresti per Claudio Scajola; Danesi venne espulso dalla Democrazia Cristiana perché grande amico e frequentatore di Licio Gelli (sono ambedue toscani) a seguito dello scandalo P2 a metà anni ’80. Ora nonostante Danesi sia quasi ottuagenario è ancora attivo in quegli ambienti occulti dove si riesce a riciclare e maneggiare quantitativi abnormi di cash, grazie ai suoi contatti nelle logge; tanto che venne ancora indagato nel 1996 quando la Procura di Roma era sulle tracce del finanziere italo svizzero Pierfrancesco Pacini Battaglia, e da essere di nuovo messo sotto la propria attenzione dal pm John Woodcock nel 2007 in una inchiesta sul riciclaggio di liquidi in Svizzera.
Infine, tutti i magistrati da lunedì si sposteranno in Liguria, dove gran parte dei faldoni trovati nella villa di Scajola si trovano presso i locali della Direzione Investigativa di Genova, e sono ritenuti troppo sensibili per essere trasportati; grande attenzione viene riservata ai dossier riservati su cosa successe durante il G8 del 2001, trovati nella disponibilità dell’ex ministro.

Repubblica 16.5.14
A Finmeccanica inizia l’era Moretti
Clausola onorabilità bocciata dai fondi


MILANO. Era già accaduto all’assemblea dell’Eni.
Quando la maggior parte dei fondi internazionali si schierò contro la proposta del Tesoro, socio di maggioranza. Lo stesso risultato si è avuto ieri, durante l’assemblea che ha nominato il nuovo cda, sancendo così l’inizio dell’era di Mauro Moretti - l’ex numero uno delle Ferrovie dello Stato - alla guida del gruppo Finmeccanica.
Anche in questa occasione, la maggioranza degli investitori internazionali ha bocciato la richiesta di inserire nello statuto della società la cosiddetta “clausola di onorabilità”. In sostanza, l’obbligo di non eleggere o di far decadere gli amministratori della società nel caso di condanne di primo grado o anche solo di rinvio a giudizio. Occorreva il voto favorevole del 75 per cento del capitale presente in assemblea, ha votato a favore il 66 per cento e contro il 33,37per cento, più una manciata di astenuti.
Le sorprese non sono finite qui: tra i soci ha fatto la sua comparsa la Caisse de depots, l’equivalente francese della Cassa Depositi Prestiti, con una quota dell’1,5 per cento. L’assemblea ha poi votato, senza più colpi di scena, il via libera al nuovo consiglio di amministrazione, in cui è stato confermato alla presidenza l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, che conferma le deleghe a relazioni esterne e istituzionali, sicurezza aziendale e internal audit. I membri del cda indicati dal Tesoro sono oltre a Moretti, Marta Dassù, Alessandro De Nicola, Guido Alpa, Marina Elvira Calderone, Fabrizio Landi. I consiglieri indicati dai fondi ed eletti sono Paolo Cantarella, Dario Frigerio, Marina Rubini e Silvia Merlo. Il consiglio di amministrazione si è poi riunito nel pomeriggio per dare l'incarico ufficiale a Moretti.
L’assemblea ha pure stabilito i compensi del cda. Il presidente avrà un compenso annuo di 90mila euro annui, aumentabili con le deleghe, mentre i consiglieri 80mila. All’ex ad Pansa dovrebbe spettare una liquidazione che dovrebbe aggirarsi sui 4,5 milioni.

il Fatto 16.5.14
Roma
Avanzata Cinque Stelle Matteo non vuole Marino sul palco
di Santo Iannò


Un uomo solo sul palco. Si presenterà così giovedì prossimo, in piazza del Popolo, il presidente del Consiglio Matteo Renzi nel tentativo di tirare la volata al Pd per le Europee del 25 maggio. Per lui sarà il primo comizio da premier a Roma, ma senza avere al suo fianco il sindaco della Capitale, Ignazio Marino. La sua presenza, ragionano i democratici romani, potrebbe far perdere consensi al partito. Un calo dimostrato da un sondaggio interno, che gira in queste ore negli uffici di via delle Sette chiese e che vede il MoVimento 5 stelle prima forza all’interno del Gra, con i Democratici costretti a inseguire. La colpa, dicono al Nazareno, è dell’inquilino del Campidoglio. Le accuse: il salario accessorio dei dipendenti comunali salvato in extremis dal governo nazionale, il taglio delle linee dei bus in periferia e l’ok a un bilancio fatto di tagli. Ecco perché Renzi preferisce il one man show, in contemporanea con l’intervento di Beppe Grillo a Milano.
In città il vento grillino, confermano i dati in possesso del segretario capitolino Lionello Cosentino, cresce. “Se confermati - afferma il deputato Umberto Marroni - sarebbe una catastrofe”. Il parlamentare ed ex capogruppo in Comune, però, non vuole credere a quelle cifre: “Il dato nazionale, solitamente, non si discosta da quello di Roma e noi siamo primi nel Paese. Senza dimenticare che per valutare i sondaggi bisogna essere in possesso di alcuni parametri: le domande fatte e la platea degli intervistati”. L’emorragia di consensi c’è comunque, per questo il premier ha deciso di fare a meno di Marino. Che vede una “inutile zizzania” e dice sicuro: “Lavoriamo per vincere”. Di “stupide polemiche” parla invece il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti. Mentre Goffredo Bettini, candidato al Parlamento europeo e regista del centrosinistra capitolino, prova a gettare acqua sul fuoco spiegando che si procede “con passione e serenità verso il voto del 25 maggio. Tutto il partito sarà in piazza del Popolo con Renzi”. Ma non sul palco.

La Stampa 16.5.14
L’avanzata di Grillo Masaniello
di Elisabetta Gualmini

qui

La Stampa 16.5.14
“Il Pd di oggi è come il Pci di Tangentopoli”
“A comandare sono gli stessi, non cambia nulla”
intervista di Andrea Rossi


«Li vedo un po’ nervosi. Chissà, forse se la stanno facendo sotto». Davide Bono è così: scostante e diretto. Medico, 33 anni, nel 2010 Beppe Grillo lo lanciò alla conquista del Piemonte. Furono eletti in due. Uno è stato cacciato. Lui no, anzi, è stato ricandidato. E da qualche giorno agita i sonni di Chiamparino e del Pd. Da quando l’inchiesta Expo ha coinvolto Primo Greganti l’offensiva grillina ha ripreso vigore. Molto vigore. Ci sarà lavoro per gli avvocati.

Bono, il Pd l’ha querelata per le sue invettive su Greganti. 
«Di nuovo? È l’undicesima in quattro anni. Le altre dieci le ho vinte tutte. Comunque confermo: il Pd è come il vecchio Pci coinvolto in Tangentopoli. Comandano le stesse persone. Non sanno fare pulizia. Il loro rinnovamento è finto come una banconota da 80 euro».

Le han dato dello sciacallo. 
«A me? Dovrebbero chiedere i danni a Greganti. Se un attivista del Movimento 5 Stelle venisse scoperto a trafficare sulle grandi opere lo cacceremmo su due piedi anziché prendercela con chi ne parla».

Ma Chiamparino che c’entra con l’Expo? 
«C’entra, c’entra. Lui, Greganti e quelli che comandano in città arrivano dalla stessa casa».

Può bastare una storia comune per fare di tutte l’erbe un fascio? Chiamparino è il sindaco delle Olimpiadi, il più grande evento italiano degli ultimi vent’anni. Oltre tre miliardi di euro e nemmeno un’inchiesta per corruzione. 
«Già, poi arriva un pentito, Rocco Varacalli, e dice che i cantieri di Torino 2006 sono stati subappaltati a ditte affiliate alla ’ndrangheta».

Anche qui, però, nessuna inchiesta, nessun riscontro. 
«Sarà, ma il problema è più generale. Al Piemonte serve una classe politica nuova che spazzi via chi occupa questa regione da quarant’anni. Ne abbiamo viste di tutti i colori, fino all’ultima legislatura. Io c’ero. Un disastro. Ora non si può più scherzare. La crisi è pesante. Non è più tempo di mutande verdi né di chi ha governato facendo debiti. Serve gente perbene, senza interessi, padrini e lobby da accontentare».

Sì, ma per fare che cosa? 
«Basta con la storia che il Movimento sa solo distruggere. I miei quattro anni in Regione, il lavoro degli altri nei comuni e in Parlamento, dimostrano il contrario. Andate a vedere il nostro programma: reddito di cittadinanza, banda larga, burocrazia zero, trasparenza. Stiamo girando il Piemonte in camper: due, tre città al giorno. Lo stiamo raccontando a tutti».

È vero che ha chiesto un confronto a Chiamparino? 
«Sì, settimane fa, ma non mi ha mai risposto. L’ho visto un giorno ad Alba, dove tutti i candidati firmavano un documento per salvare il tribunale dalla chiusura. Una buffonata: Pd e Forza Italia, che all’epoca governavano insieme, quand’era ora non hanno mosso un dito».

Che cosa gli ha detto? 
«Nulla. Oggi gli dico che vinceremo noi. E anche se non ce la faremo, lui farà la fine di Bersani nel 2013».

il Fatto 16.5.14
Milano e Firenze, chiese a uso privato
Cena di lusso a Santa Maria Novella
E Farinetti si porta il Duomo in Usa
di Tomaso Montanari


Stasera la banca d’affari newyorchese Morgan Stanley accoglierà i suoi danarosissimi ospiti per una cena ultraesclusiva (organizzata dall’albergo di lusso Four Seasons) nel Cappellone degli Spagnoli, che è la sala capitolare trecentesca di Santa Maria Novella a Firenze. Si chiama così perché, a metà del Cinquecento, divenne la cappella dove si riunivano gli spagnoli del seguito di Eleonora di Toledo, moglie del granduca Cosimo I. È, insomma, una chiesa - con tanto di grande crocifisso marmoreo sull’altare - completamente coperta di affreschi che raccontano la spiritualità e le opere dell’ordine mendicante fondato da San Domenico.
LA BRILLANTE idea di usarla come location al servizio della grande finanza responsabile della crisi è del vicesindaco e candidato a sindaco Dario Nardella: la cappella è, infatti, compresa nel circuito museale comunale. Rispettando più il desiderio di discrezione del gruppetto di super-ricchi che non il diritto dei cittadini a essere informati dell’uso del loro patrimonio monumentale, il Comune ha tenuto finora segreto l’evento. Ma si apprende che il beneficio economico sarà minimo: meno di 20 mila euro, che dovrebbero essere destinati al restauro di un’opera d’arte. La precipitosa e silenziosa organizzazione della serata - gestita direttamente da Lucia De Siervo, responsabile della Direzione cultura di Palazzo Vecchio e membro del cerchio magico renziano - potrebbe comportare la temporanea chiusura della chiesa di Santa Maria Novella (eventualità che ha fatto infuriare il Fondo Edifici di Culto del ministero dell’Interno, proprietario del tempio), e obbligherà a collocare le cucine in un chiostro del convento ancora di proprietà dei frati, all’oscuro di tutto.
Nardella, evidentemente, non cambia verso rispetto a Renzi: l’unico uso del patrimonio pubblico è ancora quello commerciale. Ma vista la grottesca esiguità del canone, è evidente che il vero movente è piuttosto quello di disporre di queste location per costruire e consolidare la rete dei rapporti politici ed economici del gruppo dirigente renziano, assai proclive a frequentare la più spregiudicata finanza internazionale. Colpisce che il connubio chiesa-lusso-affari non turbi i sonni di politici che non perdono occasione per esibire il proprio cattolicesimo. Negli affreschi del Cappellone i milionari vedranno San Domenico, ardente di amore per la povertà, che converte e confessa coloro che vivono nel lusso: ci si riconosceranno? Poco più in là vedranno rappresentato il trionfo di San Tommaso d’Aquino, il grande filosofo medioevale che scrisse che “il lucro non può essere un fine, ma solo una ricompensa proporzionata alla fatica”, e che “nessuno deve ritenere i beni della terra come propri, ma come comuni, e dunque deve impiegarli per sovvenire alle necessità degli altri”. Chissà cosa avrebbe pensato se avesse saputo che la sua immagine dipinta avrebbe un giorno decorato la location di un banchetto per i super squali che hanno costruito la più grande disuguaglianza della storia umana.
IL PROSSIMO passo quale sarà? Far sfilare modelle in biancheria intima su un altare? Ma si è già fatto, e proprio a Firenze: in Santo Stefano al Ponte, con la benedizione della Curia. Si arriverà a prestare pezzi di chiese gotiche a centri commerciali? Già fatto anche questo: Oscar Farinetti ha appena annunziato che porterà un pezzo del Duomo di Milano nel suo supermercato sulla Fifth Avenue, a New York, per la precisione “due guglie”. E sì, la Veneranda Fabbrica del Duomo (quella che voleva mettere un ascensore per fare una terrazza da aperitivi sul tetto della Cattedrale) gli presta due guglie da tempo musealizzate, con relative statue di santi. Non per un progetto scientifico, ma come attrazione: insieme a quattro di quelle che Farinetti ha chiamato “grondaie” (le gronde gotiche), e a quella che ha definito “una statua di Santa Lucia incinta”. Ora, Santa Lucia era vergine e finì martire: ma incinta non risulta, e probabilmente l’esuberante Farinetti ha frainteso la veste goticamente cinta sotto il seno della bellissima Santa Lucia del Maestro del San Paolo Eremita, che verrebbe strappata al circuito del Museo del Duomo. Ma il punto non è la gravidanza della statua, né la cultura del patron di Eataly: il punto è chiedersi se abbia senso portare pezzi di una grande chiesa medioevale in un supermercato di cibo a New York, o far banchettare i banchieri in una chiesa del Trecento.
IL VANGELO dice che non si può servire a due padroni, e che si deve scegliere tra Dio e il denaro: bisogna riconoscere che sia la Veneranda Fabbrica sia Nardella hanno scelto. Ma anche chi non ha scrupoli religiosi dovrebbe preoccuparsi per la distruzione della funzione civile del patrimonio culturale. Chi crede nel marketing dovrebbe interrogarsi sulla ridicola entità degli utili, e chi immagina che questa privatizzazione sia la via del futuro dovrebbe farsi qualche domanda sulla mancanza di trasparenza. Gli unici che in nessun caso avranno dubbi sono i pochissimi che ci guadagnano: questo è certo.

il Fatto 16.5.14
Salesiani, la telefonata di Bertone per l’eredità
di Valeria Pacelli


Per due volte il cardinale Tarcisio Bertone è stato convocato in procura a Roma: ad aprile del 2013 e il 22 gennaio scorso. I pm lo hanno sentito a sommarie informazioni nell’ambito dell’inchiesta su una presunta truffa (Bertone sarebbe tra i raggirati) relativa all’eredità dei salesiani, finita al centro di una disputa che dura da 24 anni. La storia inizia nel 1990, quando il marchese   Gerini, senatore democristiano, lascia opere d’arte, terreni e palazzi alla Fondazione - posta sotto il controllo della Congregazione Salesiana - che porta il suo nome. I nipoti del marchese però si oppongono e impugnano il testamento. A rappresentare gli eredi nel 2007 arriva Carlo Moisè Silvera (indagato a Roma per truffa), 68enne di origini siriane, che acquista i diritti di eredità. L'8 giugno del 2007 si arriva al primo accordo in sede civile   e a conclusione di ogni controversia la Fondazione versa 16 milioni: cinque di questi destinati ai nipoti del nobile, altri 11 e mezzo come parcella per lo stesso Silvera che li ha rappresentati. A caldeggiare la transazione sulla spartizione dell’eredità fu lo stesso Bertone, che poi spiega ai pm romani di esser stato truffato. Infatti passa poco tempo e i salesiani denunciano Silvera ed altri per un raggiro. Bertone quando viene richiamato in procura per la seconda volta aggiunge nuovi   dettagli. Il 22 gennaio scorso spiega ai pm di aver telefonato al Cardinale Franc Rodé, prefetto della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata, chiedendogli di cedere all’accordo sull’eredità del 2007. “Avendo ricostruito i fatti di quel periodo - mette a verbale Bertone - ho ricordato di aver telefonato al Cardinal Rodè a maggio 2007. La telefonata era finalizzata a insistere (...) per la concessione dell’autorizzazione alla stipula della transazione; la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata aveva infatti delle perplessità; (...) la Congregazione è sempre molto prudente quando si tratta di esborso di somme così elevate da parte di singoli istituti. L’autorizzazione doveva essere rilasciata alla Fondazione Gerini ed è ovvio che io ero convinto che l’esborso non avrebbe superato 25 milioni di euro. Io intervenni con la telefonata perché in quel periodo ero sotto pressione da parte del gruppo Sodi, Zanfagna e Gherro. (...)”. Renato Zanfagna è un avvocato milanese, anche lui indagato a Roma per truffa con Silvera; Don Manlio Sodi, invece, è il presidente della Pontificia Accademia della Teologia. Sentito dai pm romani, racconta di alcune promesse in denaro che gli erano state fatte. Come una “somma di 400 mila euro - spiega ai pm - che era stata promessa da Silvera a me, Grotti e Zocchi. Tale somma era da dividere in parti uguali”. Grotti è “ex amministratore delegato Eni coinvolto in tangentopoli” e Zocchi “era capo della segreteria del ministro Scajola”. Spiega di aver avuto 5 incontri con Bertone “su questo tema” e poi fa riferimento ad un compenso che avrebbe dovuto ricevere: “Il mio compenso - afferma - era dovuto solo in quanto ho fatto da intermediario con Bertone. Questi doveva persuadere Mazzali (don Giovanni Mazzali, economi dei Salesiani, ndr) e gli altri a chiudere questa vicenda”. E precisa: “Io non ho mai riferito nè a Bertone né ad altri che era stato pattuito per me un compenso. La circostanza era intuitiva dato il contesto”. “A me - conclude - Silvera disse che se la cosa si sarebbe risolta bene avrebbe fatto un’offerta anche al Santo Padre”. E così tra soldi promessi e accordi su una mega eredità, l’inchiesta della procura di Roma dopo anni volge al fine. E adesso deciderà il gip se archiviare o iniziare un processo su questo scontro per l’eredità Gerini che dura da 24 anni.

«le religioni meno pensate» ?!?
l’Unità 16.5.14
Dialoghi
Parlare di sesso e di omosessualità a scuola
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Mi riferisco al caso di un liceo romano dove i docenti hanno utilizzato un testo discutibile per educare gli studenti al rispetto delle diversità compresa quella dell'orientamento sessuale. Il testo in questione oltre a promuovere il modello di famiglia omosessuale che si sposa e adotta bambini, cita anche un amplesso orale tra due maschi con riferimenti espliciti e volgari non adatti a quattordicenni.
Lorella Groten

Uno dei problemi più seri, nella scuola, è quello legato all’evitamento delle discussioni difficili. Troppi sono ancora, infatti, gli insegnanti che parlano con i loro ragazzi «come se» i problemi con cui i ragazzi devono confrontarsi semplicemente non esistessero. In modo analogo spesso si comportano del resto anche i ragazzi nel momento in cui parlano con gli adulti perché di droga, di politica e di sesso, di follia e di omosessualità adulti e ragazzi tendono a parlare sempre in luoghi separati se gli adulti rispondono alle loro domande con dei silenzi imbarazzanti o con delle frasi secche e stereotipate. La droga fa sempre e comunque male, dicono queste frasi, di sesso non si parla in pubblico, l’omosessualità è una perversione, la politica è qualcosa cui a scuola non ci si deve neppure avvicinare: rinunciando, di fatto, alle responsabilità fondamentali del buon educatore, quelle di far da guida al ragazzo nelle complessità della vita che lo aspetta. Perché? Soprattutto per paura di esporsi, a mio avviso e senza pensare, per ciò che riguarda in particolare il sesso, che lo si lascia così nelle mani dell’ insegnamento: antagonista e minaccioso delle religioni meno pensate e/o di quello, lascivo e perverso, della pornografia. Con risultati che potrebbero essere evitati proprio leggendo e discutendo in classe libri come quello proposto nel liceo romano.

l’Unità 16.5.14
Per rilanciare la Rai non può bastare un taglio
di Vittorio Emiliani


La polemica innescata sulla Rai e dentro la Rai dalle dichiarazioni di Matteo Renzi, a partire dalla richiesta di portare al governo un obolo sotto forma di 150 milioni di euro, può essere positiva se conduce ad una vera riforma in senso «aziendale». Se porta cioè a fare o a rifare della Rai un’impresa. Pubblica sì e però in grado di funzionare come azienda, eliminando, certo, sprechi e sacche di improduttività e però avendo anche compiti meglio definiti. Gli strumenti sono due. Primo, il contratto di servizio che regola i rapporti fra lo Stato e l’azienda in discussione.
Secondo, un organismo di garanzia che la sciolga dall’abbraccio soffocante del governo e del partito di maggioranza, voluto con ogni forza da Berlusconi nell’intento, in parte riuscito, di «affondare la Rai».
Le sedi regionali sono sovradimensionate e quindi troppo costose? Non è stata sempre la Rai a volerle così, è stata la politica di un passato spesso lontano. Il centro di Firenze è certamente faraonico, da ogni punto di vista, ma risale ai tempi dei tempi, all’epoca bernabeian-fanfaniana. Certo va ripensato e però non è cosa che si improvvisa. In ogni caso però l’informazione regionale fa parte degli obblighi di servizio pubblico. Una Rai agile e snella ne farebbe volentieri a meno e però le viene imposta in base al canone. Che però quest’anno non è lievitato, chissà perché, neppure di un centesimo e che ormai viene evaso «normalmente» da quasi un terzo degli utenti. Molti di loro pagano tranquillamente un abbonamento Sky che costa dieci volte il canone Rai e che però non li salva da una vera e propria fiumana di spot, ma quando devono sborsare poco più di 113 euro per la Rai, sostengono che è «un iniquo balzello tutto italiano».
Fesserie. C’è in tutta Europa e costa molto di più. In Germania e in Austria il doppio e anche oltre, in Svizzera il triplo. Nella stessa Irlanda viaggia sui 150 euro. E in Europa l’evasione è contenuta, mentre da noi è diluviale, soprattutto nelle grandi città, a Napoli non lo paga la metà degli utenti. Nella terra dei Casalesi lo evade il 90 %. L’esatto contrario della provincia di Ferrara, dove a Copparo o a Goro non lo pagano, sì e no, due o tre famiglie in tutto…
Lo Stato, il governo esiga dalla Rai un piano serio, incisivo, pluriennale di ristrutturazione produttiva, di rientro da sprechi e parassitismi, da maxi-stipendi per gli «appesi» (dirigenti e direttori silurati e rimasti lì), pretenda un piano di riduzione dagli appalti esterni e il ritorno a produrre in proprio al fine di utilizzare in modo pieno i suoi oltre 11mila dipendenti. Ma fornisca all’azienda gli strumenti - che hanno tutte le altre Tv europee, Bbc in testa - per combattere l’evasione. È impopolare? Forse. Ma non è meglio che dire alla Rai di vendere, oplà, Rai Way, la società delle torri e dei ponti, per «sacrificare» 150 milioni sull’altare della Patria?
Ho fatto parte del Consiglio di amministrazione, presidente Roberto Zaccaria, che nell’aprile 2001 aveva ceduto ai texani di Crown Castle il 49 % di quell’azienda ricavandone ben 724 miliardi di lire netti già depositati alla Chase Manhattan Bank in attesa della «presa d’atto» del ministro delle Tlc. Non si sentì di darla alla vigilia delle elezioni il ministro Salvatore Cardinale (Udeur). Vinse Berlusconi e ovviamente Maurizio Gasparri disse di no accusandoci anzi di aver «svenduto» quel 49% di Rai Way. Ci avrebbe pensato lui a trovare altri migliori acquirenti.
Balle solenni. Venderla per questi 150 milioni di euro, vorrebbe dire svenderla. O la Rai è una impresa, o la si considera il solito carrozzone da mungere (in tempi di vacche magre pubblicitarie da paura). Non si può ignorare che l’azienda di Viale Mazzini viene - secondo le statistiche elaborate da un solerte ex dirigente Rai, Francesco De Vescovi - da un 2012 in passivo per 244 milioni di euro e da un 2013 con un attivo minimo (5,3 milioni) e con ascolti calanti, soprattutto fra i giovani. Per cui nell’intera giornata essa è scesa dal 48% di ascolti del 1998-99 al 38% di quest’anno e in prima serata dal 49 al 40 %,ma nella fascia fra i 25 e i 54 anni precipita al 29 %, diventando così la terza emittente dopo Mediaset (in discesa anch’essa e però al 37%) e le altre tv (34%).
Renzi vuole una Rai autonoma da partiti e governi? Non ha che mettere subito in agenda la tanto auspicata Fondazione stile Bbc, proprietaria di tutte le azioni Rai, garantita da «governors» competenti e al di sopra di ogni sospetto (ci saranno anche in Italia) i quali nominano i vertici aziendali. Se ne discute da anni. Si sa tutto di essa. Il sottosegretario Delrio, da Lucia Annunziata (incredula), ha annunciato la ferma intenzione del governo di affrontare il conflitto di interessi. Benissimo. Cominci con lo sbaraccare l’iniqua legge Gasparri tutta favorevole a Mediaset. Ma partire dalla coda dei 150 milioni, no, non sembra onestamente credibile. Una azienda è una azienda. E il cavallo di Viale Mazzini può davvero stramazzare stavolta. Altro che 150 milioni, dopo.

il Fatto 16.5.14
risponde Furio Colombo
L’ultimatum di Renzi a “Ballarò”


CARO COLOMBO, non so se considerare divertente o minaccioso (di una strana minaccia che non so decifrare) lo scontro fra il presidente del Consiglio, per legge e di fatto controllore della tv di Stato, e il giornalista Floris, un suo dipendente.
Luciano

L’EVENTO infatti è molto strano e non è facile da spiegare. Che senso ha intimare alla Rai, da parte del governo, di versare un riscatto per evitare di essere indicati come odiosi privilegiati? Infatti assistiamo a un curioso sdoppiamento: da un lato si apprende che “la Rai deve pagare” una certa somma (150 milioni di euro). Dall’altra si passa allo scontro senza chiarire se il taglio debba toccare il personale o i programmi. Naturalmente è pronto lo scherzo dei risparmi sugli sprechi. Chi ha buona memoria ricorda che nessun leader politico italiano e nessun capo azienda della burocrazia di Stato si è mai privato della più classica e fallace delle promesse: tagliare gli sprechi. Poiché al compimento di ciascun decennio che segue i “tagli profondi” di uno spreco, si ripete la stessa minaccia, lo stesso impegno e si vanta la stessa vittoria sullo stesso ente, tutti hanno capito che “i tagli” sono sempre a carico dei piani bassi, dei posti di lavoro più modesti, e comportano la chiusura di qualche servizio che recava vantaggio agli utenti (se vi sono utenti). In questo caso ci sono alcuni problemi in più, almeno quanto a chiarezza. Provo a dirlo come segue: 1) È possibile tagliare all’improvviso la dotazione di un ente (settore informazione e spettacolo) mentre tutti i suoi piani, giusti o sbagliati, sono in corso, i suoi bilanci sono fatti e tutti i compiti assegnati, e il suo personale organizzato in relazione ai progetti (si pensi alle decine di redazioni composte di precari e saltuari)? 2) In particolare un’azienda di comunicazioni e di spettacolo deve per forza impegnare in anticipo le sue risorse per la produzione, la programmazione e le scritture. Si tratta di contratti con valore legale privato. Che fa la Rai, li cancella? 3) La televisione di Stato ha subìto per vent’anni la concorrenza sleale delle reti private di proprietà di Berlusconi, che otteneva montagne di pubblicità come naturale e inevitabile favore al presidente del Consiglio-proprietario. Sappiamo anche di programmazioni Rai cambiate o ritoccate per fare largo a Mediaset. In questa improvvisa multa che tocca la Rai (ma non Mediaset) non c’è il rischio di un nuovo grande favore all’azienda dell’ex primo ministro? Certamente non sarà nelle intenzioni, ma era impossibile per Floris, durante il suo programma (“Ballarò”, 13 maggio) evitare la domanda che tutta l’Italia si è fatta. 4) Che cosa vuol dire che “ciascuno deve fare la sua parte”? Stipendi? Non era già stato stabilito un tetto per i compensi dei manager dello Stato giustamente giudicati troppo alti? Se invece si tratta di un pesante “una tantum” a carico di tutta l’impresa del servizio pubblico (e provveda chi può a suddividere), allora, certo, si mettono le mani nella concorrenza. E nel servizio pubblico. 5) Poi ci sono autori, attori, presentatori che trattano il loro compenso programma per programma, a seconda della forza professionale, del successo di “share” e di pubblicità e anche, s’intende, di forza politica. Chi metterà le mani su questo mercato? Siamo sicuri che il governo possa comportarsi “alla Berlusconi”, usando un nuovo tipo di editto bulgaro travestito da offerta volontaria di “oro alla Patria”?

Corriere 16.5.14
Scandalo Expo
Una pallida imitazione di Tangentopoli
di Paolo Franchi


Non c’è bisogno di aver accesso a sondaggi riservati per capire che le indagini demoscopiche sugli orientamenti elettorali degli italiani effettuate prima degli arresti milanesi valgono quel che valgono: poco, molto poco. Perché è molto difficile prevedere quanto e come voterà un Paese arciconvinto che, con Tangentopoli e tutto quanto ne consegue, ci risiamo.
È davvero così? Non proprio. Forse siamo messi anche peggio. Proviamo a scorrere qualche cronaca di ventidue anni fa. Per restare a questi giorni: il 13 maggio 1992, l’amministratore della Dc, Severino Citaristi, riceveva il suo primo avviso di garanzia. Che avesse incassato una quantità di denaro illecito per la Dc era universalmente scontato, che si fosse tenuto una lira in tasca non è mai passato per la testa a nessuno. Le cose non sembravano stare così nemmeno all’epoca, figurarsi oggi, per un altro democristiano poi transitato nelle file berlusconiane, Gianstefano Frigerio. Per Primo Greganti, arrestato il 1° marzo del 1993, mesi e mesi di carcere preventivo senza mai ammettere di aver girato al Pds una tangente di 621 milioni versatagli dal manager della Ferruzzi Lorenzo Panzavolta, invece, pareva di sì: il mito del compagno G che resiste fermo come una roccia fece una quantità di proseliti anche oltre i confini del suo partito. Chissà se qualcuno continua a coltivarlo: a occhio e croce, si direbbe di no.
E poi, capitolo terribile sin dall’inizio, i suicidi di Tangentopoli, spesso persone che non sopportavano il disonore, o che non sapevano assuefarsi a un mutamento del contesto così radicale da far ritenere ignobile ciò che fino a poco prima sembrava quasi normale. È il caso del deputato socialista Sergio Moroni, che il 27 luglio del 1992, subito prima di togliersi la vita, ne scrisse all’allora presidente della Camera, Giorgio Napolitano: «Ricordo ancora con passione tante battaglie politiche e ideali, ma ho commesso un errore accettando il “sistema”, ritenendo che ricevere contributi e sostegni per il partito si giustificasse in un contesto dove questo era prassi comune ... Mai e poi mai ho pattuito tangenti... Eppure vengo accomunato nella definizione di “ladro”, oggi così diffusa. Non lo accetto, nella serena coscienza di non aver mai approfittato di una lira. Ma quando la parola è flebile, non resta che il gesto». Speriamo con tutte le nostre forze che la nuova Tangentopoli, o come vogliamo chiamarla, non conosca simili tragedie. Ma resta la domanda: chi, oggi, potrebbe scrivere righe come queste?
Nessuna retorica, per carità. Il sistema era peggio che guasto. Circolavano (in politica e non solo in politica) fior di mascalzoni, procacciatori di affari, moderni venditori di indulgenze. Potere e denaro (pubblico e privato) andavano, eccome, a braccetto; il tempo in cui i soldi illeciti certo non mancavano, ma il più delle volte servivano comunque a fare politica, stava già tramontando, e stava arrivando il tempo nuovo (che è ancora il nostro) in cui, tutto al contrario, è la politica che spesso serve a fare i soldi. Ma quella che si consumò vent’anni e passa fa resta una cesura vera della nostra storia. La grande slavina di Tangentopoli abbatté fragorosamente un mondo che aveva accumulato nei decenni anche grandi meriti, ma ormai sopravviveva malamente a se stesso, incapace di autoriformarsi e anche di approntare un’estrema difesa, ridotto com’era a un gigantesco termitaio. Non si trattò, come pure allora si scrisse, con ipocrita enfasi, di una «rivoluzione di velluto», ma più semplicemente di una falsa rivoluzione: in primo luogo perché al vecchio ordine che cadeva a pezzi non ne subentrava, come in tutte le rivoluzioni che si rispettino, uno nuovo e diverso, con i suoi gruppi dirigenti, le sue tavole della legge, la sua visione dell’Italia e del mondo. Né tanto meno si trattò dell’atto d’inizio, drammatico e confuso quanto si vuole, di una riforma della politica e delle istituzioni: per il semplice motivo che soprattutto i grandi movimenti riformatori hanno bisogno di leadership forti e credibili, di visione, di consenso consapevole e organizzato per fini condivisi.
Sono scomparsi, lasciando il posto a vuoti simulacri, i partiti, o quel che ne restava. Ma non la logica spartitoria che un tempo presiedeva incontrastata il sistema, e poi è serenamente sopravvissuta a vent’anni di bipolarismo selvaggio, di partitocrazia senza partiti e di promesse, puntualmente disattese, di regole in grado quanto meno di circoscrivere una corruzione politica e amministrativa divenuta ormai endemica. Sono scomparsi, chi prima chi dopo, i politici di formazione per così dire tradizionale. Ma non i «funzionari» del sistema, i mediatori, i mezzani che, forti delle loro relazioni consolidate, ne garantivano il funzionamento materiale: un’umanità diffusa e radicata, che il suo know-how lo ha conservato e messo a frutto nella convinzione, teorizzata persino al cellulare e, a quanto pare, fondata, che il mondo, o quanto meno il rapporto tra soldi e politica, sempre così è andato, e sempre così andrà. Se è questo, o soprattutto questo, che la vicenda dell’Expo milanese ci segnala, è davvero difficile immaginare che, da sole, la miglior magistratura e la migliore task force di questo mondo possano venirne a capo. Servirebbe molta politica, anzi, moltissima. Ma qui il buio si fa ancora più fitto.

Corriere 16.5.14
«La psiche non mi fa essere sereno»
In aula i colloqui tra Mancino e Colle
L’audio delle intercettazioni con il consigliere D’Ambrosio
di Giovanni Bianconi


PALERMO — Uno insisteva, e si lamentava di essere stato riconvocato come testimone: «Ho già risposto su tutto... Sono scocciato... la mia psiche non mi mette in condizione di essere sereno». L’altro cercava di spiegare: «È un modo di fare indagini che non si capisce, che non è nelle regole... Vabbè, presidente che vuole farci...». E ancora: «Non vedo molti spazi... È Grasso che è orientato a non fare niente... È difficile evitare il confronto...».
Le voci di Nicola Mancino e di Loris D’Ambrosio risuonano nell’aula bunker dell’Ucciardone, al processo per la presunta trattativa tra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi. Sono le famose telefonate dell’ex ministro col Quirinale, che due anni fa alzarono la temperatura sull’inchiesta fino a produrre il conflitto davanti alla Corte costituzionale. A parlare con l’ex ministro dell’Interno in crescente stato d’agitazione è il consigliere giuridico del capo dello Stato. Il quale ascolta gli sfoghi di Mancino e spesso risponde con silenzi imbarazzati, o spiegazioni tecniche che non frenano l’ansia dell’ex ministro; comprendendo però la delicatezza di un’inchiesta che — soprattutto a causa delle controverse dichiarazioni del testimone-indagato Massimo Ciancimino — aveva provocato profonde divisioni tra le Procure di Palermo e Caltanissetta.
Quando a giugno del 2012 fa furono rese note le trascrizioni di queste conversazioni intercettate, D’Ambrosio fu investito da polemiche che certo non lo lasciarono indifferente, e a fine luglio morì improvvisamente. Oggi l’ascolto di quelle voci rende quasi tangibile la preoccupazione che l’allora consigliere del presidente Napolitano aveva non tanto per la sorte processuale di Mancino, quanto per un metodo investigativo che rischiava di provocare contrasti e conclusioni diverse tra i vari uffici giudiziari.
L’ex responsabile del Viminale voleva evitare a tutti i costi il confronto nel processo contro il generale Mori per la mancata cattura di Provenzano nel 1995 (poi terminato con l’assoluzione) con l’ex Guardasigilli Martelli, che riferiva di averlo informato su vicende che Mancino nega tutt’oggi. D’Ambrosio chiedeva, perché glielo aveva domandato Napolitano, se Mancino avesse parlato con Martelli «indipendentemente dal processo», e quello rispondeva che no, «non è che io ci possa parlare». Dopodiché il consigliere ribatteva che non si poteva fare nulla, la decisione sul «faccia a faccia» toccava solo ai giudici (i quali effettivamente lo considerarono superfluo), ma continuava a sottolineare la necessità di un collegamento tra le diverse Procure da parte dell’allora superprocuratore Grasso, oggi presidente del Senato come lo fu Mancino tra il 1996 e il 2001. Invece Grasso, sosteneva D’Ambrosio, si nascondeva dietro l’impossibilità di avocare le indagini per evitare d’intervenire, mentre secondo il consigliere del Quirinale avrebbe dovuto attuare un reale coordinamento. Che non significa solo scambiarsi atti, bensì, ad esempio, far condurre interrogatori congiunti. Magari arrivando a conclusioni diverse, ma senza avere dichiarazioni che potevano cambiare a seconda di come venivano poste le domande. «Ne va della credibilità dello Stato», commentava D’Ambrosio per spiegare l’intervento di Napolitano, in qualità di presidente del Csm, sul procuratore generale della Cassazione a sostegno di un intervento del superprocuratore Antimafia, previsto dalla legge. Per un discorso generale, non sul caso specifico, ribadiva.
Dall’ascolto delle telefonate la posizione del consigliere emerge in maniera piuttosto chiara, al pari del progressivo turbamento di Mancino che chiamava in continuazione temendo di precipitare in una situazione più grave, come poi è effettivamente accaduto con l’imputazione di falsa testimonianza. E adesso, davanti alla Corte d’assise che deve giudicarlo, rivendica: «Mi sentivo sotto pressione. Siamo di fronte a un teorema in base al quale io avrei saputo che era in atto una trattativa, ma la negavo. Io non ne ho mai saputo niente, da ministro dell’Interno ho combattuto la mafia con determinazione e fermezza. Ho subito una campagna denigratoria, e mi sono rivolto all’amico D’Ambrosio non per avere protezione, bensì per confidare la mia amarezza divenuta angoscia».
Tra le intercettazioni ascoltate in aula, c’è pure quella in cui l’ex colonnello dell’Arma De Donno, già braccio destro del generale Mori, chiamò Marcello Dell’Utri all’indomani dell’annullamento della Cassazione della sentenza di condanna per concorso in associazione mafiosa. «Sono davvero contento... Ogni tanto qualche persona onesta c’è ancora», si congratula l’ex carabiniere. Due anni dopo Dell’Utri è condannato definitivamente, arrestato in Libano in attesa di estradizione; insieme a De Donno e Mori è imputato al processo per la trattativa.

il Sole 16.5.14
Riforme. Testo ancora da limare
Per il Dl cultura il nodo coperture
di Antonello Cherchi


ROMA. Non è stato un passaggio indolore quello che il decreto legge sulla cultura e il turismo ha dovuto affrontare ieri in preconsiglio dei ministri. I tecnici del ministero dei Beni culturali e di Palazzo Chigi hanno, infatti, continuato a lavorare al testo per cercare di presentarlo al consiglio dei ministri di oggi, anche se nell'ordine del giorno diffuso in tarda serata non vi compare. L'impianto del documento è stato nella sostanza confermato, ma si è dovuti intervenire per sciogliere alcuni nodi. Uno su tutti quello delle coperture, considerato che il nuovo provvedimento consente maggiori detrazioni fiscali sia per i mecenate sia per gli esercenti attività turistico-ricettive (si veda Il Sole 24 Ore di ieri).
C'è poi anche il capitolo delle fondazioni lirico-sinfoniche, che sono state escluse dal pagamento dell'Irap. Anche in questo caso si tratta di trovare le risorse per farvi fronte. Nella bozza del provvedimento entrato al preconsiglio l'argomento è stato lasciato in bianco.
Sempre in tema di enti lirici è, però, pur vero che se da una parte il Governo deve affaticarsi su nuove coperture, dall'altra punta a risparmiare. Per esempio, con la norma che estende agli organi di amministrazione, direzione e controllo delle fondazioni, nonché ai dipendenti, consulenti e collaboratori, il tetto retributivo del primo presidente della Corte di cassazione, che il decreto legge 66 del 24 aprile, in corso di conversione, ha tagliato da 311mila a 240mila euro lordi a partire dal 1° maggio.
Il tetto da applicare alle retribuzioni dei manager della lirica – alcuni dei quali abbondantemente oltre il nuovo limite – è riferito allo stipendio onnicomprensivo, incluso ogni trattamento accessorio. Le nuove retribuzioni scatterebbero dalla data di entrata in vigore del decreto legge. E ciò potrebbe portare alcuni vertici delle fondazioni a ridiscutere la loro posizione. Forse per la Scala di Milano, alle prese con la questione Pereira, può essere una via d'uscita.

l’Unità 16.5.14
La Turchia si ribella alla strage dei minatori
Sciopero generale, idranti e lacrimogeni contro i manifestanti, ferito leader sindacale
Nessuna speranza a Soma: 282 morti accertati, 150 dispersi


Una tragedia, uno sciopero generale. E la Turchia esplode di nuovo, dopo le proteste di Gezi Park e la tangentopoli di fine anno. L’obiettivo è sempre lo stesso: il governo del premier Recep Tayyip Edogan. Nel giorno dei primi funerali delle centinaia di minatori morti nell’inferno di Soma, sepolte in fosse comuni, le grandi città del Paese hanno reso omaggio ai caduti di questa tragedia e per il secondo giorno consecutivo il dolore si è trasformato in rabbia. A Istanbul, decine di migliaia di persone hanno partecipato alle manifestazioni contro le morti sul lavoro e contro i subappalti. Dopo tre minuti di silenzio per ricordare i 282 operai morti martedì nella più grande strage sul lavoro della storia del Paese, il corteo organizzato dalle principali organizzazioni sindacali - le confederazioni Kesk e Disk - è stato bloccato dalle forze dell’ordine nel quartiere di Gayrettepe. Ai manifestanti è stato concesso di ripartire solo dopo che decine di persone, tra cui i leader sindacali, si sono sdraiate davanti ai blindati che gli sbarravano la strada per dirigersi verso piazza Mecidiyekoy dove hanno trovato ad attenderli centinaia di agenti che non hanno permesso loro di continuare a marciare verso il centro della città. «I subappalti vanno vietati, le miniere rese di nuovo pubbliche, la legge sulla sicurezza sul posto di lavoro va riscritta e i controlli devono essere eseguiti dagli ordini professionali», è stata la forte richiesta giunta dalla segretaria generale della Disk, Arzu Çerkezoglu.
La situazione più grave è avvenuta a Smirne, dove gli agenti hanno più volte caricato il corteo dei sindacati, circa 20mila persone, usando idranti e lacrimogeni. Il presidente della Disk Kani Beko e vari altri sindacalisti si sono sentiti male a causa del gas e sono stati ricoverati d’urgenza in ospedale. Proteste si sono svolte anche a Mersin e Antalya, mentre nella capitale Ankara, invece, in migliaia hanno partecipato al presidio di protesta dei sindacati davanti al ministero del Lavoro, mentre gli studenti delle scuole superiori si sono dati appuntamento in piazza Kizilay dove sono stati caricati più volte dalle forze dell’ordine. Alcuni degli studenti indossavano caschi e sventolavano bandiere con l’immagine di Che Guevara. «Il fuoco di Soma brucerà l’Akp», è stato uno degli slogan.
SI CERCA ANCORA
Più tranquilla, dopo le contestazioni al premier, è stata l’atmosfera durante la visita del presidente della Repubblica Abdullah Gul a Soma. Alcuni residenti hanno urlato comunque insulti contro di lui lamentando un rallentamento delle operazioni di soccorso e chiedendo di fare di più per raggiungere eventuali altri sopravvissuti. Un gruppo di minatori gli ha urlato contro: «Non vogliamo polizia, ma soccorritori». I soccorritori stanno ancora cercando di raggiungere i corridoi della miniera di carbone. I morti accertati finora sono 282, ma rimangono davvero poche speranze di trovare superstiti fra i 142 minatori che mancano all'appello. Risale ormai a mercoledì mattina il ritrovamento dell’ultima persona estratta viva dalla miniera. Da allora sono stati tirati fuori solo corpi senza vita. E ieri mattina sono stati estratti dalla struttura i corpi dei 14 lavoratori che avevano trovato rifugio nell’unica camera di sicurezza della miniera. Le scarse riserve di ossigeno non sono bastate a salvarli: sono sopravvissuti solo poche ore in più respirando a turno dalle poche bombole presenti prima che terminassero l’ossigeno. La camera di sicurezza era insufficiente per tutti i lavoratori. È obbligatoria in molti Paesi quando il percorso per raggiungere l’imbocco della miniera è più lungo di un chilometro. Ma nessuna norma in questo senso è stata mai approvata in Turchia. Proprio le norme di sicurezza sono uno dei punti della polemica contro Erdogan, alla guida di un governo considerato troppo vicino ai magnati delle miniere e incapace di far applicare gli standard di sicurezza. Secondo i sindacati, le condizioni di chi lavora in miniera sono peggiorate negli ultimi anni in seguito alla progressiva privatizzazione del settore minerario. L’indagine sull’incidente è stata assegnata a una squadra di 15 procuratori. Ancor prima di Yusuf Yerkel, il consigliere del premier immortalato da un fotografo mentre sferra il calcio a un manifestante a terra, fa infuriare lo stesso Erdogan ripreso in un video mentre apparentemente sferra un pugno a un uomo che lo ha contestato, poi colpito ripetutamente dalla scorta.

il manifesto 16.5.14
«Dopati per lavorare di più»
Anfetamine e oppio venduti ai sikh che lavorano nell’agro pontino. Per non fargli sentire fatica e dolore. Dossier-choc di In Migrazione
di Angelo Mastrandrea

inviato a Bellafarnia (Latina)

L’ovetto che aiuta a sop­por­tare la fatica costa appena dieci euro, al mer­cato nero dello schia­vi­smo pon­tino. Singh ha due pos­si­bi­lità: scio­gliere il con­te­nuto diret­ta­mente in bocca o mesco­larlo al chai, il tè dei sikh. Sce­glie la seconda per­ché «se lo man­gio fa più male, allo sto­maco e alla gola». Così, di prima mat­tina, quella che gli indiani di Bel­la­far­nia chia­mano «la sostanza» can­cella la fatica e i dolori del giorno pre­ce­dente e si pre­para ad affron­tare quello che sta per comin­ciare «dopato come un cavallo», come sostiene Marco Omiz­zolo, un gio­vane socio­logo che, con l’associazione In migra­zione, ha rea­liz­zato un dos­sier che è un j’accuse nei con­fronti di padron­cini e capo­rali del basso Lazio.

I tanti Singh dell’agro pon­tino – i nomi non sono di fan­ta­sia: i sikh reli­giosi por­tano tutti lo stesso cognome, che vuol dire «leone», men­tre le donne pren­dono l’appellativo Kaur, «prin­ci­pessa» — da que­ste parti lavo­rano quasi tutti nelle cam­pa­gne, a col­ti­vare ortaggi in maniera inten­siva, sotto il sole o in serre arro­ven­tate che si tra­sfor­mano in camere a gas quando ven­gono costretti a spruz­zare agenti chi­mici senza nes­suna pro­te­zione. Sot­to­po­sti ad anghe­rie e soprusi, sfrut­tati all’inverosimile, costretti a chia­mare «padrone» il datore di lavoro, sot­to­pa­gati e con il rischio di essere deru­bati della misera paga men­tre tor­nano a casa in bici­cletta. Come far fronte a tutto ciò? Rac­conta B. Singh in un ita­liano sten­tato: «Io lavoro dalle 12 alle 15 ore al giorno a rac­co­gliere zuc­chine e coco­meri o con il trat­tore a pian­tare altri ortaggi. Tutti i giorni, anche la dome­nica. Non credo sia giu­sto: la fatica è troppa e i soldi pochi. Per­ché gli ita­liani non lavo­rano allo stesso modo? Dopo un po’ ho male alla schiena, alle mani, al collo, anche agli occhi per via della terra, del sudore, delle sostanze chi­mi­che. Ho sem­pre la tosse. Il padrone è bravo ma paga poco e vuole che lavori sem­pre, anche la dome­nica. Dopo sei o sette anni di vita così, non ce la fac­cio più. Per que­sto assumo una pic­cola sostanza per non sen­tire dolore, una o due volte durante le pause dal lavoro. La prendo per non sen­tire la fatica, altri­menti per me sarebbe impos­si­bile lavo­rare così tanto in cam­pa­gna. Capi­sci? Troppo lavoro, troppo dolore alle mani».

Eccola qui, la nuova fron­tiera dello sfrut­ta­mento del lavoro migrante: gli schiavi delle cam­pa­gne ven­gono dopati per pro­durre di più e non sen­tire la fatica. Dall’inizio dell’anno, le forze dell’ordine hanno seque­strato tra Latina, Sabau­dia e Ter­ra­cina una decina di chili di sostanze stu­pe­fa­centi: «metan­fe­ta­mine», con­te­nute negli ovetti spac­ciati soprat­tutto dai capo­rali. Ma anche bulbi di papa­vero da oppio essiccati.

Nelle comu­nità sikh di Bel­la­far­nia e di Borgo Her­mada di tutto ciò si parla poco. I sikh, spe­cie se irre­go­lari, rara­mente denun­ciano i soprusi di cui sono vit­time. Se subi­scono una rapina fanno buon viso a cat­tivo gioco. Lo stesso accade quando il padrone non dà loro il dovuto o tarda nei paga­menti. Le dro­ghe sono proi­bite dalla loro reli­gione, chi ne fa uso è restio a par­larne e quando si decide a farlo non rie­sce a repri­mere il senso di colpa: «Noi siamo sfrut­tati e non pos­siamo dire al padrone ora basta, per­ché lui ci manda via. Allora alcuni di noi pagano per avere una sostanza che non fa sen­tire dolore a brac­cia, gambe e schiena. Il padrone dice lavora ancora, lavora, lavora, forza, forza, ma dopo 14 ore nei campi com’è pos­si­bile lavo­rare ancora? Per la rac­colta delle zuc­chine lavo­riamo pie­gati tutto il giorno. La sostanza ci aiuta a vivere e lavo­rare meglio. Ma non tutti lo fanno: solo pochi indiani la usano. Ma a loro serve per arri­vare a fine mese e por­tare a casa i soldi per la fami­glia», dice K. Singh. Quello delle dro­ghe sta diven­tando un vero e pro­prio pro­blema sociale, in una comu­nità coesa, orga­niz­zata, «ope­rosa e silen­ziosa», come la defi­ni­sce Omiz­zolo, che mi accom­pa­gna in un tour per i campi e i paesi di que­sto pezzo d’India ita­liana. Per defi­nirlo, ha coniato un neo­lo­gi­smo: «Punjitalia».

Il resi­dence Bel­la­far­nia mare ne è la capi­tale. A pochi metri dalle dune di Sabau­dia, lon­tano dalla vista delle ville dei vip, vive un pezzo della più nume­rosa comu­nità sikh dopo quella emi­liana di Novel­lara: 12 mila abi­tanti cen­siti uffi­cial­mente tra que­sto vil­lag­gio di seconde case per i vil­leg­gianti subaf­fit­tate agli immi­grati e l’edilizia low cost anni ’80 che già cade a pezzi e fa da con­torno al razio­na­li­smo fasci­sta di Borgo Her­mada, un pugno di abi­ta­zioni nelle cam­pa­gne di Ter­ra­cina. In realtà, con­tando gli “irre­go­lari”, le pre­senze aumen­tano deci­sa­mente: 30 mila, forse per­sino di più. La Flai Cgil è arri­vata a distri­buire ben 40 mila casac­che cata­ri­fran­genti ai lavo­ra­tori che si spo­stano in bici­cletta, per ten­tare di limi­tare i nume­rosi inci­denti stra­dali che li coin­vol­gono, soprat­tutto d’inverno, nelle strade di cam­pa­gna poco illuminate.

Omiz­zolo ha impie­gato anni per con­qui­starsi la fidu­cia della comu­nità, è andato con loro nei campi e ha com­piuto il per­corso migra­to­rio inverso, dall’Italia al Pun­jab, dove ha incon­trato le fami­glie di pro­ve­nienza e rian­no­dato i fili della dia­spora. Ha rac­colto le sto­rie di sfrut­ta­mento e, con il dos­sier dell’associazione In migra­zione, denun­cia che «per soprav­vi­vere ai ritmi mas­sa­cranti e aumen­tare la pro­du­zione dei padroni ita­liani» i lavo­ra­tori sikh «sono let­te­ral­mente costretti a doparsi con sostanze stu­pe­fa­centi e anti­do­lo­ri­fici che ini­bi­scono la sen­sa­zione di fatica». Si tratta, spiega, di «una forma di doping vis­suta con ver­go­gna e pra­ti­cata di nasco­sto per­ché con­tra­ria alla loro reli­gione e cul­tura, oltre a essere seve­ra­mente con­tra­stata dalla loro comunità».

«Eppure si tratta dell’unico modo per soprav­vi­vere ai ritmi di lavoro»: dodici ore al giorno a semi­nare, dis­so­dare, rac­co­gliere, spruz­zare veleni. Per quat­tro euro l’ora, nel migliore dei casi, spesso costretti a subire torti, anghe­rie e ves­sa­zioni dai datori di lavoro, a volte non pagati per mesi come sta acca­dendo a un gruppo di una tren­tina di lavoratori-schiavi che recla­mano un sala­rio che non arriva da sei mesi. Una situa­zione non dis­si­mile a quelle di Rosarno, della Capi­ta­nata e degli altri luo­ghi dello sfrut­ta­mento delle brac­cia in agri­col­tura. Solo più taci­turna, poco incline alla ribel­lione e meno visi­bile: i sikh non vivono in barac­co­poli o in rifugi di for­tuna e non arri­vano soli come molti afri­cani che sbar­cano a Lam­pe­dusa. Si spo­sano tra loro – anche se, mi spiega Omiz­zolo, comin­ciano a regi­strarsi i primi casi di matri­moni misti, in genere tra maschi sikh e donne rumene cono­sciute al lavoro nei campi — molti sono qui ormai da trent’anni e i loro figli sono ita­liani. Le abi­ta­zioni sono ben tenute, nono­stante accada che in qua­ranta metri qua­dri si ammas­sino fino a sei per­sone, i giar­dini sono in fiore. La dome­nica nel Gurd­wara Singh Saba, un ex capan­none agri­colo tra­sfor­mato in edi­fi­cio reli­gioso, è un trionfo di colori e nelle cucine comuni si fa da man­giare per tutti. Hanno anche un gior­nale, Pun­jab express, che trovo distri­buito davanti a un nego­zietto al cui interno un anziano col tur­bante attende pigra­mente i rari visitatori.

Dil­lon Singh è il capo della comu­nità: gesti­sce uno spac­cio di generi ali­men­tari che vende anche capi d’abbigliamento, nella piaz­zetta di Bel­la­far­nia. È un poli­tico – in India è stato molto vicino a Indira Gan­dhi, la pre­mier assas­si­nata da due guar­die del corpo sikh nel 1984 — e in que­sti giorni è inquieto per­ché il nuovo cen­tro reli­gioso, il cui pro­getto è affisso alle vetrate del tem­pio, si è bloc­cato. Que­stione di per­messi e varianti urba­ni­sti­che, ma soprat­tutto di intralci buro­cra­tici frap­po­sti dalla destra che regge il comune. È pre­oc­cu­pato per­ché dovrà dar conto alla comu­nità dell’utilizzo delle risorse rac­colte: «Abbiamo rac­colto i soldi ma non riu­sciamo ad andare avanti. Finirà che le per­sone tor­ne­ranno a man­dare le rimesse in Pun­jab invece di inve­stire i loro gua­da­gni in Ita­lia», osserva sconsolato.

Alla fine di feb­braio, nasco­sti tra i cas­soni di frutta e ver­dura tra­spor­tati da due indiani, i finan­zieri di Sabau­dia hanno tro­vato 6 chili di bulbi di papa­vero e 300 grammi di anfe­ta­mina. Altri tre chili e mezzo sono stati seque­strati nel baga­gliaio di un’auto ed è stata sco­perta per­sino una pic­cola pian­ta­gione di papa­vero da oppio a Ter­ra­cina. Chi gesti­sce il busi­ness? «Gli ita­liani danno la sostanza agli indiani, che a loro volta la ven­dono e danno i soldi agli ita­liani», spiega K. Singh. Vuol dire che a monte del traf­fico ci sarebbero datori di lavoro che affi­de­reb­bero il lavoro sporco ai capo­rali, con­se­gnan­do­gli la «roba» per­ché a loro volta la ven­dano agli schiavi delle campagne.

In alcuni casi, però, a gestire la ven­dita al det­ta­glio sono diret­ta­mente «gli ita­liani». A soste­nerlo è H. Singh: «Cono­sco per­sone che usano que­sta sostanza. Le com­prano da ita­liani e loro la uti­liz­zano quando lavo­rano oppure la danno ad amici. La sciol­gono nell’acqua calda e poi la bevono. Si può anche man­giare ma fa male allo sto­maco e alla gola». Accade per­sino che, fiu­tata la pos­si­bi­lità di rita­gliarsi una torta del pic­colo busi­ness, alcuni lavo­ra­tori riven­dano a loro volta le dro­ghe acqui­state. Rac­conta S. Singh: «Alcuni indiani, soprat­tutto gio­vani che lavo­rano nelle cam­pa­gne, le com­prano per non sen­tire i dolori, però poi ne riven­dono una parte. Così fanno un po’ di soldi e allo stesso tempo la sera non si sen­tono stan­chi e pos­sono uscire. Da dove ven­gono que­ste sostanze? Alcuni le por­tano dall’India, altri le com­prano da ita­liani». Che in que­sto modo gua­da­gnano due volte, dallo spac­cio e dallo sfrut­ta­mento del lavoro.

Rai Radio 3 16.5.14
“Tutta la città ne parla” di ogghi ha dedicatio a questo Reportage tutta la propria puntata
La registrazione della trasmissione è disponibile qui

Repubblica 16.5.14
Dilemma Germania la “super-potenza”
di Bernardo Valli



BERLINO. IL TEMA è l’Europa tedesca. Da affrontare subito con un interrogativo. Esiste sul serio? Con un tono un po’ provocatorio e tutt’altro che soddisfatto, il sociologo Ulrich Beck non sembra avere dubbi. Per lui l’impronta, anche se non gradita o auspicabile, è ormai stampata su tutti noi, mezzo miliardo di cittadini distribuiti in ventotto nazioni.
GRAZIE alla potenza economica, la Repubblica federale è diventata la massima istanza, anche politica. La crisi dell’euro, la minaccia di fallimento della moneta comune a diciotto paesi, ne ha fatto il nostro tutore. Un tutore non sempre gradito. A volte detestato.
A tre vecchi berlinesi, conosciuti giovani in una chiesa protestante quando nella Germania comunista animavano gruppi di sinistra in favore della democrazia ma non del capitalismo occidentale, a quei tre amici ritrovati un po’ ingrigiti non piace appartenere a un paese accusato di egemonia. L’espressione “leadership della Germania” suona come un’offesa ai loro orecchi. Anima i demoni della storia.
Li rassicuro, questa volta non ci sono rumori cadenzati di stivali. Già, mi dicono, ma c’è chi ha paragonato Angela Merkel a Bismarck o addirittura a Hitler o ha detto che noi tedeschi neghiano l’esistenza dei campi di sterminio. Tutti imbecilli, li rassicuro. L’Europa appare tedesca, sotto l’influenza della Germania, nel senso che si adegua alla disciplina di bilancio, alla cultura di stabilità, imposta da Berlino nella bufera (e sotto la spinta) dei mercati finanziari.
Voi tedeschi, aggiungo, avete garantito la moneta unica, e il sistema neo-liberale annesso, imponendo un’austerità che riequilibra i conti ma crea disoccupati. Comporta una responsabilità pesante l’avere assunto il ruolo delle istituzioni che avrebbero dovuto sorvegliare e coordinare le economie e finanze nazionali. Neppure la Germania ha in realtà desiderato le mancate istituzioni di tipo federale. L’avrebbero costretta a condividere i debiti dei paesi deboli. Inoltre il vuoto istituzionale ha offerto a Berlino l’opportunità di colmarlo, essendo la sola capitale con una firma solida, in grado di decidere per tutte le altre. Insomma si ha l’impressione che abbiate cavalcato la crisi. Che ne abbiate approfittato. Dopo anni di austerità, non pochi euroscettici o eurofobi andranno alle urne tra dieci giorni inseguiti dai fantasmi di un’Europa tedesca che vedono imporsi a Bruxelles e che respingono.
I tre amici sono afflitti dalle mie parole. Sono professionisti (un medico ospedaliero, un piccolo commercialista, un direttore di scuola privata), appartengono alla Germania che lavora molto e consuma poco. La sobrietà delle loro abitazioni rivela una borghesia media, con i cimeli delle vacanze a Rimini o a Torremolinos. Risparmiano per andare a vivere nei paesi caldi, mediterranei, quando saranno in pensione. Si sentono e sono cittadini normali. Sono un’espressione non tanto della Germania che ci capita di definire svizzera, quanto di una società che «vuole vivere in pace con se stessa». Nell’89, prima della caduta del Muro, nella parrocchia protestante organizzavano manifestazioni con la preoccupazione che non apparissero in favore della Germania consumista, di cui Berlino Ovest era l’attraente vetrina per molti tedeschi orientali. Loro puntavano su una “democrazia sobria”. Li chiamai allora cittadini della Germania di Kant. Anche se a Kant capitò di definire «sublime» la guerra, ricorda Tony Corn, che ha insegnato l’Europa agli americani, all’US Foreign Service Institute di Washington.
Di Germanie ce n’è tuttavia anche un’altra: quella orgogliosa di avere superato, secondo Forbes , gli Stati Uniti sul piano industriale, e di essere una “piccola Cina” perché come la grande nazione asiatica esporta più della metà di quel che produce. La compongono le élites, paladine di un neo liberalismo basato sull’austerità e la stabilità. Il ministro delle finanze, Wolfgang Schaeuble, è considerato il loro Lutero. A questa seconda Germania può capitare di sentirsi troppo grande per l’Europa ed essere quindi animata dall’inevitabile desiderio di occupare nel mondo uno spazio adeguato alla sua espansione economica. Col tempo potrebbe allentare gli ormeggi europei, se le esportazioni nella Ue dovessero calare ancora (dal 65% nel 2007 sono scese al 57% nel 2012) e inla vece aumentare quelle negli altri continenti.
Essa affonda però le radici della sua coscienza storica, con tutto quel che abbraccia, qui da noi. Sa quindi che la nazione tedesca non può infliggere altre ferite all’Europa, sia pure indisciplinata. Conta nomi di antica nobiltà o di grande industrie per i quali la tradizione sopravvive ai bilanci di fine d’anno. I miei normali amici berlinesi affermano che la Germania è più europea di quanto l’Europa sia tedesca. Lo è più di tanti altri paesi vicini. Stando ad alcuni sondaggi, forse perché soddisfatti del loro governo e dei risultati economici conseguiti, i tedeschi non sono poi tanto scettici nei confronti del processo di integrazione. Gli eurofobi d’altre contrade non si stupiscono. L’Unione europea non è una loro succursale? La cancelleria federale, a fianco della Porta di Brandeburgo, è la meta obbligata dei dirigenti politici che spesso snobbano la Commissione di Bruxelles. Gli eurocrati sono entrati in letargo nel secondo semestre dello scorso anno nell’attesa dei risultati elettorali tedeschi.
Assomigliavano a notabili di corte sfaccendati ai piedi di un trono vacante.
I candidati al potere, come Matteo Renzi alla vigilia di assumere la presidenza del consiglio, si presentano ad Angela Merkel, la quale in verità restituisce puntuale le visite. Il ministro francese delle finanze, Michel Sapin, si consulta col collega Wolfgang Schaeuble sul piano di risparmio (cinquanta miliardi) quando Manuel Valls, il primo ministro, non ne ha ancora parlato agli elettori della Quinta Repubblica. I greci, aggrediti dalla crisi, non perdono tempo, saltano José Manuel Barroso e vengono direttamente qui. Anche per i problemi di politica internazionale più scottanti, come l’Ucraina, cinesi e americani si consultano con Berlino. Parigi è una tappa successiva. Cosi Londra. Cosi Roma. Quando si tratta di contenere le ambizioni russe, i polacchi seguono lo stesso percorso. I dirigenti dei paesi baltici e dell’Europa centrale fanno altrettanto. Chi detta la posizione euro- pea da tenere nei confronti di Vladimir Putin è la cancelleria, anche perché essa esprime una linea prudente, ferma nelle parole ma vaga nei fatti, condivisa in generale dai paesi dell’Unione che, come la Germania, hanno bisogno del gas russo, da scambiare con prodotti industriali. Nonostante le condanne, e le sanzioni mirate, la Germania continua a partecipare a convegni economici in Russia e a concludere affari con gli oligarchi di Mosca e Pietrogrado. Gli altri paesi europei si comportano allo stesso modo. Putin, pur non assecondandola, parla puntualmente con Angela Merkel. La quale diventa svizzera quando le minacce si appesantiscono. L’Europa, Germania compresa, si trasforma allora in un protettorato americano.
All’origine del ruolo dominante di Berlino non c’è soltanto la crisi. Né la moneta unica è stata un espediente tedesco. Ricalcata sul marco, ha imposto una gara pesante alle economie più deboli, abituate alle svalutazioni: una specie di maratona in cui i concorrenti sfiatati sono stati distanziati, hanno corso il rischio di essere esclusi. Furono i francesi (François Mitterrand) a volere l’euro, per ancorare la Germania riunificata all’Europa comunitaria. I tedeschi (Helmut Kohl) lo dettero in pegno malvolentieri. Poi, è vero, se ne sono serviti ampiamente. La nuova valuta, stabile, ha favorito le loro esportazioni e ha finanziato in parte il recupero delle province orientali ex comuniste. La Germania ha esibito i suoi muscoli a partire dalla riunificazione. Con l’abbandono di Bonn, e delle quiete sponde del Reno, e con il ritorno nella prussiana Berlino, a settanta chilometri dal confine polacco, la ritrovata capitale tedesca ha spostato a Est il baricentro dell’Europa, fino ad allora marcato da Parigi, adesso troppo spostata a Ovest, ma soprattutto confrontata a una Germania non più divisa e riabilitata. L’allargamento dell’Unione ai paesi orientali ex comunisti ha accresciuto ulteriormente l’influenza tedesca. Alla nuova situazione geopolitica vanno aggiunte le sofferte ma sopportate riforme del mercato del lavoro attuate da Gerhard Schroeder, l’ex cancelliere socialdemocratico. Riforme che hanno aumentato il precariato e ridotto i costi, quindi i salari, e che hanno consentito alla Germania di affrontare la crisi con una maggiore competitività rispetto agli altri paesi.

La Stampa 16.5.14
Svizzera, il salario minimo corre verso il massimo
3270 euro per tutti
Domenica il voto: se c’è l’ok alla proposta la paga sarà tra le più alte del mondo
I sindacati: solo la metà dei lavoratori è tutelata col contratto collettivo
di Michele Brambilla


Sembra di scrivere dal Paese di Bengodi: qui in Svizzera domenica si voterà un referendum per introdurre un salario minimo garantito di 4 mila franchi al mese, pari circa a 3.300 euro. Avete letto bene: 4 mila franchi, 3.300 euro, al mese: e per tutte le categorie di lavoratori. Se poi aggiungiamo che questo è il Paese con la più bassa disoccupazione d’Europa (3,2%), noi italiani possiamo crepare d’invidia.
Certo anche i numeri vanno interpretati. Dunque, per correttezza: i tremilatrecento euro sono lordi, e non netti. Da quella cifra va tolto un 15 per cento di tasse e contributi vari. Poi bisogna togliere anche la Cassa malattia, che non è trattenuta in busta paga, e che ciascuno si deve fare per conto proprio. Altra precisazione: in Svizzera la vita costa ben di più che in Italia: in quella francese e tedesca il 30-40 per cento in più, nel Canton Ticino il 20 per cento.
Però, però: nonostante queste precisazioni, vista dall’Italia è tutta manna che cade dal cielo. Infatti complessivamente, cioè compresa la Cassa malattia, il carico fiscale della Svizzera è circa del 30 per cento, quasi la metà che da noi. E quanto al costo della vita, la legge che si voterà domenica prevede che ogni singolo Cantone potrà adeguare il proprio salario minimo garantito, ovviamente alzandolo. In ogni caso, se passasse il referendum di domenica la Svizzera avrebbe il salario minimo più alto del mondo: 22 franchi all’ora, pari a circa 18 euro, contro – per stare in Europa – gli 8 della Francia e gli 8,5 della Germania.
I Socialisti e i Verdi, che hanno proposto il referendum insieme con l’Unione sindacale svizzera, dicono che quattromila franchi al mese non devono fare scandalo perché «siamo uno dei Paesi più ricchi del mondo». Ma i padroni (qui in Svizzera li chiamano tutti ancora così, «i padroni») sono furenti. Quattromila euro al mese è pari al 64 per cento del salario medio svizzero: insomma è uno stipendio pesante, per essere considerato come una soglia minima. E, per giunta, riguarderebbe non pochi lavoratori: quelli che attualmente non raggiungono i quattromila franchi al mese sono il 9 per cento di tutti gli occupati. Ma forse fa più effetto dare i numeri, invece delle percentuali: a prendere il salario minimo garantito sarebbero 330.000 persone in tutta la Svizzera, cioè in un Paese che ha otto milioni e centomila residenti, compresi gli stranieri che sono il 25 per cento.
«Sì, i padroni sono furenti», mi conferma Giancarlo Dillena, direttore del Corriere del Ticino, il più diffuso quotidiano della Svizzera italiana: «Dicono che si rischia di immettere sul mercato una regola che sconvolge equilibri storici. E poi qui in Ticino ci sarebbe qualche problema in più. Intanto perché gli stipendi in media sono più bassi, e si introdurrebbe un minimo uguale per tutta la Confederazione. E poi qui abbiamo sessantamila frontalieri italiani, che avrebbero pure loro diritto ai quattromila franchi». Il rischio, dicono quelli del fronte del «no», è che molte imprese, visto l’andazzo, portino la produzione all’estero. Per questo anche alcuni sindacati, come i cristiano-sociali, vanno molto cauti, e non fanno campagna.
Decisi, invece, quelli dell’Unia, una specie di Cgil elvetica. «In Svizzera – mi dice da Berna la responsabile nazionale, Vania Alleva – solo la metà dei lavoratori è tutelata da contratti collettivi. Gli altri percepiscono un salario deciso dal proprio datore di lavoro, e uno su dieci prende meno di ventidue franchi all’ora, cioè quattromila franchi al mese per chi è occupato a tempo pieno. Mi rendo conto che in Italia quattromila franchi possono sembrare tanti, ma in Svizzera non è così: se non arrivi a quella cifra, qui da noi vivi malissimo, vicino alla soglia di povertà». Spiega che il referendum è stato praticamente un’ultima spiaggia: «Gli imprenditori si lamentano, ma se non si fossero sempre rifiutati di negoziare contratti collettivi, non sarebbe stato necessario arrivare a proporre questa legge. Che, tra l’altro, avrà un impatto minore che in Germania, dove il salario minimo garantito sarà sì più basso, ma riguarderà il sedici per cento dei lavoratori. In Svizzera, ripeto, solo uno su dieci».
Comunque troppi, secondo Luca Albertoni, direttore della Camera di Commercio e dell’Industria del Canton Ticino. «Siamo contrari», mi dice, «per due motivi. Il primo è che sarebbe un’imposizione dello Stato poco conforme alle nostre abitudini: sarebbe la fine di un patto sociale che in Svizzera ha una lunga tradizione. Secondo, quattromila franchi sono tanti, e metterebbero in difficoltà molti imprenditori. È vero che da noi tutto costa caro, ma ci sono già diverse esenzioni e sovvenzioni, per cui alla fine ciascuno può contare su un livello di vita dignitoso».
Vedremo domenica. I sondaggi dicono che è in vantaggio il «no». Comunque beati loro che vanno a votare su questioni del genere.

La Stampa 16.5.14
“Se questa norma passa, le aziende potrebbero delocalizzare in Italia”
di S. Ric.


«Se questa misura del salario minimo dovesse passare, qui in Svizzera salteranno i posti di lavoro, soprattutto degli italiani frontalieri, e qualche imprenditore potrebbe anche decidere di delocalizzare in Italia». A parlare è Stefano Modenini, direttore di Aiti, associazione delle industrie ticinesi.
Per quali ragioni è contrario?
«Questa iniziativa è troppo rigida perché vuole introdurre una retribuzione minima per tutti i tipi di attività lavorativa e in tutte le regioni della Svizzera. In realtà ci sono molte differenze sia all’interno dei singoli settori produttivi, sia tra le varie città e nel costo della vita fra le zone del Paese».
Che effetti vi aspettate?
«La misura finirebbe per penalizzare proprio le categorie che i sindacati intendono proteggere, cioè i lavoratori meno qualificati come camerieri, operai, parrucchieri o falegnami, e le donne. Invece di avere un impiego mal retribuito, si ritroverebbero senza lavoro. Le aziende svizzere poi sarebbero appesantite da un aumento dei costi di produzione e perderebbero in competitività».
Come reagiranno gli imprenditori elvetici?
«Qualcuno licenzierà, altri potrebbero spostarsi fuori dai confini elvetici magari sul territorio italiano, dove i costi sono più bassi. Non posso fare nomi ma qualche imprenditore ha già annunciato questo passo. Questo vale soprattutto per le aziende che hanno già produzioni all’estero: basterà potenziare gli stabilimenti fuori dalla Svizzera».
Cosa succederà ai lavoratori italiani frontalieri?
«Se passerà il salario minimo gli italiani saranno contenti perché a fine mese prenderanno più soldi. Ma poi si tratterà di vedere se davvero avranno ancora il posto di lavoro. Potrebbero finire licenziati e da noi è più facile lasciare a casa i dipendenti. I conti alla fine devono tornare».
Il Ticino chiuderà le sue porte?
«Ecco, per le regioni con forti afflussi di frontalieri come il Ticino, il problema è anche più gravoso. In alcuni settori come quello dell’industria ben il 55% della forza lavoro è formata da lavoratori italiani che ogni giorno varcano la frontiera. Se passerà l’iniziativa del salario minimo partirebbe un messaggio incredibile e ci troveremmo con masse di lavoratori, magari più qualificati degli svizzeri, pronti a lavorare da noi. Per noi i frontalieri sono preziosi ma la gente inizia a vederli come una minaccia».
[s. ric.]

Repubblica 16.5.14
Il tesoro di Alibaba, gigante cinese che va alla conquista di Wall Street


PECHINO. LA matematica non faceva per lui: bocciato due volte nel test d’accesso all’università. Provò con l’inglese: prima interprete per comitive sulla Grande Muraglia, poi professore. Infine la scoperta di Internet, anno 1995. Cercò due parole: birra e Cina. Risultati, zero. L’uomo del decennio e l’Ipo dell’anno escono da una combinazione di fallimenti e di folgorazioni. Toccato il fondo, un poverissimo Ma Yun quattro anni dopo si trasformò in Jack Ma e le sue goffe ricerche sul web, in una baracca di Hangzhou, assunsero un nome che solo un sognatore ha il coraggio di dare: Alibaba. «Mi aveva colpito l’eroe buono che apre il Sesamo - ha raccontato anni dopo - e restituisce ai poveri il tesoro dei quaranta ladroni». Testò il brand a San Francisco, per strada. Nessun passante ignorava la favola di Alibabà, tutti sorridevano. Vent’anni dopo, mister Ma si definisce il «coccodrillo dello Yangzi», ha 49 anni, è il miliardario più ricco della Cina e dopo il presidente Xi Jiping è l’uomo più potente di quella che s’appresta a diventare la prima economia del mondo.
La sua creatura, “Alibaba”, è invece un gigante da cui dipendono la ripresa globale e la salvezza finanziaria del “tech”. Dimensioni: 24 mila dipendenti, 235 milioni di clienti, giro d’affari annuo da 250 miliardi di dollari. Scaldati i muscoli sulla piazza di Hong Kong, entro l’estate andrà alla conquista di Wall Street e l’ambizione è trasformare una fiaba in storia. Il bazar digitale della super-potenza comunista che censura la Rete è deciso a sbancare il mercato del simbolo del capitalismo democratico, dove Internet è nato: Alibaba, in poche ore, potrebbe raccogliere tra i 15 e i 20 miliardi di dollari, essere proiettata ad una capitalizzazione di 121 miliardi, irrompendo tra i primi quindici titoli quotati sul pianeta. Meglio di Facebook, o della Visa. Conseguenze di un’umiliazione. «Cina e birra - ha spiegato il giorno in cui per festeggiare il decennale indossò una parrucca bionda cantando per i dipendenti - erano le parole chiave per un sesto dell’umanità, ma sulla voce elettronica del presente neppure esistevano ». Incontrato casualmente Jerry Yang, fondatore di Yahoo, il quadro fu improvvisamente chiaro: Alibaba avrebbe messo in contatto la “fabbrica del mondo”, i produttori cinesi, con il mercato del pianeta, i consumatori americani. Dialogo e affari in tempo reale, tramite i distributori, «tra chi fa e chi usa». Risultato: non un negozio e neppure una vetrina online, come Amazon o eBay, ma un guru del consumismo globale che garantisce la qualità del “clic”. «Serviva qualcuno - ha detto il campione del capitalismo di bambù - che desse forma ai sogni che non sappiamo fare, che assicurasse la bontà della merce, che anticipasse le risorse per possederla, che la portasse in ogni casa e che la ritirasse se non fosse piaciuta». Questo segreto ha consentito ad Alibaba di togliersi qualche soddisfazione: fattura più della somma tra Amazon ed E-Bay, vale il 2% dell’intero Pil cinese, ha spostato sul web l’8% di tutti i consumi della Cina, mette il timbro sull’80% dell’e-commerce nazionale, ha spinto in Rete 600 milioni di connazionali ed entro cinque anni avrà generato un mercato virtuale più ricco di quelli di Usa, Germania, Giappone, Gran Bretagna e Francia messi insieme. Per farcela è andato oltre l’imitazione. I figli di Alibaba, “Taobao”, “Tmall” e “Alipay”, uniscono i consumatori tra loro, i grandi marchi e i piccoli clienti, gli shopping center elettronici e i risparmiatori. Prossimo step: il debutto nel cinema con Pictures Group, società di Hong Kong appena fondata per consegnare agli utenti anche film e musica via streaming.
«La grotta delle meraviglie - parola di “coccodrillo di fiume capace di divorare gli squali dell’oceano” - si rivela un universo, ancora da scoprire». Perché Alibaba non solo è diventato il cuore della classe media più numerosa del pianeta, rendendo tutto sicuro, economico e a portata di mano, ma si è scoperto moltiplicatore straordinario di bisogni. Il nuovo ad Jonathan Lu scherza, rivelando di aver registrato anche il marchio “Alimama”, ma è evidente che aver imposto una necessità ha reso obbligatorio fornirle una risposta. L’umanità chiede merce e Alibaba la costringe a partorirla, come una mamma che allatta i suoi figli. Basta un tocco di tastiera, e si viene sparati nella galassia «dove esiste anche quello che nessuno crede possibile». Lo stile della casa è un mix di glamour, prodigio, scandalo e anteprima. In offerta c’è il laser che succhia il grasso e a fianco la statua di Schwarzenegger, nudo, obeso e con il mitra in mano. Si trovano mutande usate, ma solo fashion e in stock da 24 mila paia, partite di ferro messicano e di petrolio libico, o kit per manicure con la foto di Steve Jobs impressa sull’astuccio. Lo slogan «l’uomo che ami odiare» propone la maschera di Gheddafi, la sezione «canaglie globali » propone quella di Bin Laden, o i baffetti alla Hitler, ordinabili in minimo 300 esemplari. Un gruppo di famosi pittori di ogni continente assicura ritratti di vip, da Paris Hilton, a Cristiano Ronaldo, da Vladimir Putin a Lady Gaga, o le immagini di chiunque spedisca una fotografia: consegna dell’opera, a olio, entro una settimana. Le fiere mondiali dell’hi-tech si sono fatte anticipare sul cappello-karaoke, sull’orologio-vocale e sul carica-tablet che scarica e proietta film. La «farmacia delfuturo» anticipa le pillole di caffeina indiana, con l’avvertenza che oltre i 10 grammi si rischia la morte, o le sanguisughe moldave, il meglio per i nostalgici del salasso.
Entrati nella “grotta di Alibaba”, difficile uscirne incolumi. Jack Ma non produce, non vende e non distribuisce, ma offre il tutto che supera la fantasia. Sette milioni di fornitori solo in Cina, clienti in 240 Paesi, commissioni tra 0,5 e 5%, profitti dalla pubblicità e 800 milioni di prodotti: automobili, animali, moda, ville, cibo, materie prime, viaggi, arte, pezzi di ricambio per jet e perfino sorgenti d’acqua in Himalaya, mag- giordomi britannici, cene private con le star e partner per la vita. L’ultima trovata, per combattere la noia degli acquisti in solitudine, sono le statuine di personaggi impegnati a defecare, in stile catalano: pochi dollari e sul tavolo del salotto può finire un Lagerfeld a ginocchia piegate e calzoni abbassati, o una Merkel, un Di Caprio, una Naomi, o un Obama. Tradizione, celebrità, dissacrazione e satira politica, per chiarire che Alibaba è sì l’icona dell’epocale passaggio di consegne tra l’influenza Usa e quella della Cina, ma non è condizionata dalla leadership rossa di Pechino. Un’altra mezza verità, dopo lo scivolone dei «fornitori d’oro» nel 2011, che valse al colosso l’indimenticato titolo «Alibaba e i 2.236 ladroni», i fornitori che truffavano i clienti. Perché Jack Ma in patria è un eroe popolare, il partito-Stato lo ha inserito nella sua élite e lui è perfettamente integrato nel capital-comunismo nazionalista dell’«arricchirsi è glorioso». Di più: l’Alibaba lanciato alla conquista del mondo è oggi la spina dorsale dell’autoritario «sogno cinese» di Xi Jinping, fondato sui consumi interni, sulla crescita sostenibile, sullo sviluppo della classe media e sulla creazione di una nuova «cultura cinese delle megalopoli». Alle autorità offre la più ricca banca-dati della Cina, il monitoraggio sulle abitudini degli ex compagni, il ricatto dei loro debiti. In cambio riceve il monopolio del mercato online più promettente del pianeta, protezione politica, garanzia di opacità, la disponibilità della più strabiliante forzaindustriale della storia e presto i capitali cinesi all’estero.
Conquistato l’Oriente, quello che l’Economist ha definito «fenomeno Alibaba» va dunque a caccia dell’Occidente, convinto che americani ed europei siano «disperati e soli come i cinesi », ormai «in balìa dei beni che non avrebbero mai osato immaginare ». Se fallisce l’Ipo a Wall Street fallisce Alibaba, ma pure Jack Ma, Xi Jiping, la Cina e dunque il mondo che da trent’anni si regge sul consumo del superfluo a basso costo, possibile grazie agli schiavi dell’Asia. Una civiltà nelle mani di “mister clic”, genio e-commerciale del «soddisfatti o rimborsati » online. Per questo né Pechino né New York, a malincuore, possono più tagliare le ali al cinese che cominciò con una profezia, studiando l’inglese. Senza toccare uno spillo, genera oggi il maggior valore del pianeta, candidandosi a plasmarlo chinglish, a misura di una nuova «generazione Alibaba». «Fossi nato sotto il Celeste Impero - ha detto il coccodrillo dello Yangzi - sarei stato un generale. E il destino dell’umanità non sarebbe stato quello che conosciamo».

l’Unità 16.5.14
La rivolta contro Pechino infiamma il Vietnam
Una piattaforma petrolifera vicino alle isole contese dalla Cina scatena le proteste: vittime e fabbriche in fiamme
Centinaia di cinesi in fuga


Non è più solo guerra di parole, proclami, provocazioni. In primo piano, nella contesa fra Cina e Vietnam per la sovranità sulle isole Spratly e Paracelso, irrompe la furia popolare. E mentre centinaia di cittadini cinesi abbandonano impauriti il Vietnam, ormai si contano i primi morti. Uno o due, di nazionalità cinese, secondo fonti ufficiali di Hanoi e Pechino rispettivamente. La cifra salirebbe addirittura a 21, stando a fonti mediche operanti nei luoghi delle violenze, in territorio vietnamita.
Una folla inferocita ha assaltato ieri un’acciaieria della ditta taiwanese Formosa Plastics nella provincia di Ha Tinh. Un attacco violentissimo. L’edificio è stato invaso, i dipendenti assaliti. Alcuni sono rimasti uccisi, i feriti sarebbero 150. Epilogo tragico di una sollevazione popolare che il giorno precedente aveva investito altri segni visibili e concreti della presenza cinese in Vietnam, nella provincia di Binh Duong. I manifestanti avevano appiccato il fuoco a quindici stabilimenti cinesi situati all’interno di un parco industriale. Gravi i danni materiali, ma fortunatamente nessuna vittima.
Alcune delle fabbriche attaccate, come la Formosa Plastics, non dipendono da Pechino ma da Taipei, che non è direttamente coinvolta nella disputa per la sovranità sui due arcipelaghi. Ma quando il nazionalismo travalica nella xenofobia, certe sottigliezze diplomatiche diventano marginali, e sfumano le differenze fra la Repubblica popolare fondata da Mao Zedong e la «provincia ribelle» in cui il Kuomintang sconfitto si rifugiò nel 1949 per crearvi un suo Stato, a tutt’oggi di fatto indipendente.
A innescare l’ondata di incidenti è stato l’inizio di esplorazioni petrolifere sottomarine in acque considerate proprie sia da Hanoi che da Pechino. Ma quello che conta per la Cina è la relativa vicinanza all’arcipelago delle Paracelso, dove ormai il governo della Repubblica popolare si è installato come fosse a casa sua. All’occupazione militare compiuta nel 1974, e costata la vita a 70 soldati vietnamiti, due anni fa è seguita l’istituzione di un’amministrazione civile nella cittadina di Shasha, che estende la sua pretesa di autorità anche sulle Spratley. Hanoi contesta le rivendicazioni cinesi sostenendo di avere avuto quelle isole sotto di sé sin dal diciassettesimo secolo. Tra le due capitali si susseguono accuse e controaccuse. La Repubblica popolare attribuisce l’esplosione di violenza «all’indulgenza e alla connivenza » delle autorità locali nei confronti di «alcune forze fuorilegge anti-cinesi ». Il premier cinese Nguyen Tan Dung definisce invece «legittime» le proteste contro «le illegali prospezioni petrolifere» avviate dalla Cina, pur assicurando che saranno assicurati alla giustizia i responsabili di atti violenti. Centinaia di persone sarebbero state arrestate.
La presunta abbondanza di risorse naturali nei fondali marini limitrofi è la principale ragione dell’interesse di entrambi i Paesi per quei gruppi di isole. Quelle acque sono inoltre considerate particolarmente pescose, ma ancora più importante è la collocazione strategica lungo rotte marittime assai frequentate. Da parte cinese poi, in questa come nelle altre numerose dispute analoghe in cui è coinvolta, conta la forte volontà di affermazione egemonica sull’intero scacchiere geopolitico dell’Asia-Pacifico.
Oltre che nelle capitali degli Stati direttamente coinvolti, il comportamento di Pechino preoccupa gli Usa, che temono di vedere ridimensionato il loro ruolo in una parte del mondo dove molte nazioni guardano a Washington come a uno scudo proprio nei confronti dell’espansionismo politico ed economico della Cina. In questi giorni si stanno concludendo le esercitazioni Balikatan (Spalla a spalla) condotte congiuntamente dalle forze armate americane e filippine. Manila è coinvolta non meno di Hanoi nella disputa sulle Spratly, una parte delle quali è rivendicata anche dalla Malaysia. Manila inoltre considera parte del suo territorio gli atolli di Scarborough e Second Thomas, attorno ai quali negli ultimi mesi si sono intensificati i movimenti di unità navali di Pechino. Nel varare le manovre Balikatan, il ministro degli Esteri filippino Albert del Rosario, ha sottolineato la necessità di confrontarsi con vicini «aggressivi» intenti a «modificare lo status quo». Non ha fatto nomi ma era evidente a chi si riferiva.
Molto più a nord uno scontro potenzialmente ancora più pericoloso vede contrapporsi alla Cina il Giappone. Entrambi i governi rivendicano l’arcipelago delle Shenkaku (Diaoyu). Nel suo intinerario asiatico Obama ha rassicurato Tokyo: il trattato di difesa bilaterale impegna gli Stati Uniti a soccorrere il Sol Levante se la sua sicurezza è minacciata. La vicenda delle Shenkaku, ha fatto capire, non costituirebbe un’eccezione.

Corriere 16.5.14
Tornano i rancori e i vicini ora vogliono contenere il dragone
di Sergio Romano


Nella lunga guerra degli Stati Uniti in Vietnam (dal 1965 al 1973) vi fu un doppio malinteso. Gli americani credettero che il conflitto avrebbe impedito l’«effetto domino», come fu definito dal generale Eisenhower, vale a dire la progressiva estensione del comunismo all’intera Asia sudorientale. Ed erano convinti, soprattutto all’inizio, di battersi contro un disegno strategico concepito a Mosca e a Pechino.
Erano invece caduti nella trappola di un conflitto post-coloniale contro un popolo che stava conquistando la sua indipendenza dal «padrone» occidentale e temeva l’imperialismo cinese non meno di quanto temesse quello francese e americano. La realtà emerse chiaramente dopo la cessazione delle ostilità e il ritiro delle truppe americane da Saigon nell’aprile del 1973. Per meglio sottrarsi all’influenza cinese, il Vietnam scelse il campo sovietico, firmò un trattato di amicizia con l’Urss nel 1978 e cercò di estendere la propria sfera d’influenza al Laos e alla Cambogia. La Cina reagì rapidamente entrando in Vietnam con corpo di spedizione nel febbraio 1979. La prima guerra del Vietnam indipendente, quindi, fu una guerra fra comunisti asiatici per cui il ricordo dei loro antichi conflitti nazionali, dal primo millennio dopo Cristo alla metà del Cinquecento, contava molto più della comune ideologia. Washington temeva un’Asia colorata di rosso e comprese soltanto allora che nella grande rinascita cinese, soprattutto dopo le riforme economiche di Deng Xiaoping, vi erano anche ambizioni imperiali. Ne avemmo la prova quando scoprimmo, qualche anno dopo, che la carta geografica appesa al muro nelle aule scolastiche della Repubblica popolare era quella dell’Impero di mezzo con tutte le baronie feudali e gli Stati vassalli che la Cina aveva dominato nel momento della sua maggiore potenza. E ne abbiamo avuto una conferma in questi giorni, quando l’installazione di una piattaforma petrolifera cinese nelle acque vietnamite ha provocato violente dimostrazioni in Vietnam contro i cinesi e le loro industrie. Il primo ministro di Hanoi Nguyen Tang Dung ha annunciato punizioni per coloro che hanno violato la legge, ma ha dichiarato che la piattaforma è illegale e le dimostrazione erano quindi «legittime». Questo non è un episodio isolato. È soltanto il più clamoroso esempio del modo in cui il Giappone, le Filippine e altri Paesi della Asia sudorientale stanno reagendo alle crescenti rivendicazioni territoriali di Pechino sugli arcipelaghi potenzialmente petroliferi di un mare che la Repubblica popolare considera storicamente cinese. Vi è in queste vicende un aspetto paradossale. La Cina sembra essere motivata da considerazioni economiche, ma sta litigando con Paesi, soprattutto Giappone e Vietnam, che hanno importanti scambi commerciali con Pechino e contribuiscono con le loro industrie al prodigioso sviluppo economico della Repubblica popolare. Dovremo quindi giungere alla conclusione che vi sono circostanze in cui i sentimenti nazionali e le ambizioni imperiali prevalgono su qualsiasi altra considerazione? Credo che nazionalismo e sviluppo siano in questo caso fattori complementari. Da più di tre decenni la Cina è protagonista di uno straordinario esperimento. Ha liberalizzato l’economia, ha risvegliato gli spiriti animali del suo popolo, deve a queste scelte una prodigiosa crescita della propria economia. Ma non intende rinunciare né al regime del partito unico né al controllo ideologico della società né alla brusca repressione di qualsiasi forma di dissenso. Una politica contraddittoria? La Cina teme, non senza ragione, che lo sviluppo economico possa minacciare la stabilità del regime. La crescita crea prosperità, ma anche corruzione (un fenomeno che ha contagiato la dirigenza politica), un drammatico divario fra ricchezza e povertà, aspettative che non possono essere immediatamente soddisfatte. Per sostenere la crescita ha dovuto allentare i controlli demografici (un solo figlio per ogni famiglia), ma dovrà offrire lavoro a un numero crescente di giovani e sfamare un più alto numero di bocche. Da qualche anno ormai deve fare fronte a rivolte di villaggi che hanno perduto terre coltivabili, a rivendicazioni sindacali, a manifestazioni ambientaliste. E non può più ricorrere, come in passato al mito comunista di una società in cui tutti, prima o dopo, saranno eguali e felici. È questa, probabilmente, la ragione per cui deve ricorrere a un altro mito: quello nazionalistico del suo grande passato imperiale. Ha bisogno dell’industria giapponese, ma deve rievocare periodicamente lo «stupro di Nanchino» del 1937. Ha bisogno dei mercati dei Paesi da cui è circondata, ma deve rivendicare la proprietà dei loro mari. E suscita timori a cui risponde aumentando le sue spese militari: come se quelle spese non avessero l’effetto di raddoppiare i timori degli Stati Uniti e dei suoi vicini. Sappiamo che in molti casi la Cina ha saputo dare prova di una straordinaria saggezza. Speriamo che anche in questo caso non ci deluda.

Corriere 16.5.14
Giappone
Costituzione verso la riforma Abe: più libertà nell’autodifesa

TOKYO — Il Giappone si prepara a emendare la costituzione «pacifista» imposta dagli americani alla fine della Seconda guerra mondiale. Per consentire interventi militari all’estero, Tokyo è pronta a rimuovere il divieto autoimposto sull’esercizio del «diritto di autodifesa collettiva». Lo ha detto ieri il premier Shinzo Abe. L’abolizione del divieto sarebbe per Tokyo la maggiore modifica delle politiche di difesa dal dopoguerra consentendo, tra l’altro, di «soccorrere» gli alleati, Usa su tutti, se sotto attacco. L’obiettivo è aumentare la capacità di deterrenza in ogni possibile contingenza ma il «Giappone continuerà a essere uno Stato pacifista come scritto nella costituzione».

Corriere 16.5.14
Le dimissioni dell’inviato Onu in Siria, una vittoria del regime di Assad
di Lorenzo Cremonesi


L’inviato dell’Onu per la Siria, Lakhdar Brahimi, ha gettato la spugna. Una notizia che torna a testimoniare la gravità della crisi siriana e ci spinge a ricordare le colpe criminali della dittatura di Bashar Assad. Ora più che mai la comunità internazionale è chiamata a confrontarsi con i 150 mila morti, le torture sistematiche, la decina di milioni di profughi e le immani distruzioni che dal 2011 sconvolgono il Paese. Ed è troppo semplice puntare il dito contro entrambi i contendenti come se fossero responsabili allo stesso modo. Responsabili tutti significa colpevole nessuno. Questo è stato anche l’atteggiamento dell’Italia negli ultimi tempi. Come notava un editoriale del Financial Times a fine aprile, il rischio è che ora Assad cerchi di «rilanciare vergognosamente la legittimità del suo potere», quando è stata proprio la repressione voluta dal suo regime sin dai primi giorni delle rivolte (allora largamente pacifiche) la causa maggiore del disastro.
Brahimi da due anni cercava di giungere alla deposizione graduale e pacifica di Assad. Ma tre giorni fa ha annunciato le sue dimissioni: a fine mese lascerà l’incarico. È una sconfitta che non sorprende l’ottantenne diplomatico di origine algerina avvezzo alle missioni difficili. L’impasse era già evidente a febbraio dopo il «flop» del cosiddetto «Ginevra 2». A quel summit Brahimi sperava di costituire un governo di transizione formato da elementi del regime (ma con Assad in secondo piano) e rappresentanti delle brigate dell’opposizione.
Però la rigidità di Damasco determinata a non rimuovere Assad e a far quadrato attorno ai propri generali, oltre alle divisioni tra i ribelli (lacerati dalla presenza dei radicali qaedisti ed incapaci di esprimere una rappresentanza unitaria) e lo scontro tra Usa e Russia al Consiglio di Sicurezza hanno impedito qualsiasi sostanziale progresso. L’ultima mazzata al suo progetto è stato l’annuncio unilaterale di Assad di tenere elezioni generali il tre giugno. Ora è ovvio per tutti che quel voto non avrà alcun valore. I brogli saranno la regola, la propaganda la sua bandiera. Assad riuscirà ad ottenere qualche vantaggio nel breve e medio periodo. Ma una Siria pacificata non fa parte del suo orizzonte. Il suo futuro è da imputato di fronte al Tribunale internazionale dell’Aia.

Corriere 16.5.14
Dopo la guerra fredda, cosa fare della Nato
risponde Sergio Romano


A dispetto di chi ne aveva pronosticato la scomparsa, l’Alleanza atlantica sembra continuare a godere di una discreta salute. Accanto infatti ai 28 Paesi già membri, tre sono in procinto di fare il proprio ingresso, altri due stanno intraprendendo lo stesso percorso, mentre perfino Svezia e Finlandia (complice la crisi in Ucraina) stanno riflettendo su di una simile possibilità. Ora, per quanto sia facilmente comprensibile come questa corsa all’adesione sia viziata dalla prospettiva di usufruire della clausola di mutua difesa in caso di aggressione, ciò non di meno appare comunque importante il fatto che essa porti i vari Paesi a dover comunque condividere il rispetto di determinati principi e valori. È dunque ragionevole sostenere che, nonostante limiti e difetti pure innegabili, la Nato si stia sostanzialmente confermando quale unica organizzazione di sicurezza collettiva credibile sulla scena internazionale?
Giovanni Martinelli

Caro Martinelli,
Nel corso degli ultimi 65 anni non vi è stata una sola Nato. Sino agli inizi degli anni Ottanta l’organizzazione militare del Patto Atlantico fu una struttura della Guerra fredda, concepita per preparare gli Alleati all’eventualità di un conflitto con l’Unione Sovietica. Ma sin dalla fine degli anni Settanta la rivoluzione iraniana aveva indotto gli Stati Uniti a chiedersi se la Nato non avesse bisogno di un aggiornamento. Con la fuga dello Scià da Teheran e l’avvento in Iran di un regime teocratico, Washington aveva perduto il suo maggiore alleato nel Golfo Persico e pensava che il modo migliore per colmare il vuoto fosse quello di preparare la Nato a intervenire «fuori area». Molti alleati avevano dubbi e perplessità, ma gli americani insistevano perché il problema venisse discusso e studiato.
La discussione fu interrotta dalla caduta del muro di Berlino, dalla unificazione tedesca e dalla disintegrazione dell’Unione Sovietica. Molti americani – politici, diplomatici, capi militari – cominciarono a chiedersi se l’esistenza della organizzazione fosse ancora giustificata dal nuovo quadro politico europeo. La riflessione continuò durante la presidenza di Bill Clinton quando prevalse infine a Washington la convinzione che la Nato fosse ancora utile. Avrebbe permesso agli americani di conservare le loro basi militari in Europa. Avrebbe accolto tutti i Paesi dell’ex blocco sovietico che desideravano godere della protezione degli Stati Uniti. Avrebbe conferito un apparente carattere collegiale a tutte le operazioni volute dall’America. Al vertice di Pratica di Mare, nel 2002, fu creata una sorta di partenariato con l’Unione Sovietica; ma nella realtà gli Stati Uniti continuarono ad agire come se la Russia fosse un potenziale nemico e ne dettero la prova quando cominciarono a installare basi missilistiche in Paesi che avevano fatto parte del Patto di Varsavia.
Da allora, caro Martinelli, l’organizzazione militare del Patto Atlantico è stata lo strumento di cui gli Stati Uniti si sono serviti per costringere la Serbia ad abbandonare il Kosovo, per rafforzare con il contributo degli Alleati il corpo di spedizione che ha combattuto in Afghanistan, per lanciare ammonimenti contro la Russia nel corso della crisi ucraina, per assicurare con le loro basi europee la logistica e i servizi di tutte le forze militari americane dislocate in Europa, Africa e Asia occidentale. Potremo parlare di unità politica dell’Europa soltanto quando ci chiederemo se sia compatibile con la nostra partecipazione a questo vecchio strumento della Guerra fredda.

Corriere 16.5.14
Tv svizzera e risate con i «Frontaliers»
di Aldo Grasso


La tv svizzera ha inaugurato un sito italiano (tvsvizzera.it) per tener d’occhio il nostro Paese e per dirci qualcosa del loro. Ottima idea. Il Ticino è un Paese di lingua italiana (non ne esistono tanti al mondo) che si è sempre nutrito e si nutre ancora oggi di fecondi scambi con l’Italia. Talvolta, il Ticino fa una buona tv che, almeno per antifrasi, arricchirebbe la nostra, specie per quel che riguarda l’informazione.
Sul sito è possibile vedere anche un po’ dei loro programmi, come la fortunata serie dei «Frontaliers», il quotidiano duello tra Roberto Bussenghi (Flavio Sala) da Usmate Carate e il doganiere Loris Bernasconi (Paolo Guglielmoni). È una striscia molto comica e comica deve intendersi la lingua con cui viene lanciata.
Ecco la presentazione: «Il “frontaliere” è colui che abita in una zona di confine tra due Stati e, ogni giorno, “espatria a tempo determinato” nel Paese estero per poi rientrare entro sera a casa propria, quando ha finito di lavorare. Ma non solo. Il frontaliere è un flusso quotidiano di lavoratori che si riversa nelle dogane del Ticino ad orari precisi. È un fenomeno sociale che trova radici in accordi europei siglati tra diversi Stati e la Confederazione Svizzera (Accordi di Schengen). È il tema del dumping salariale e della disocuppazione (sic) in Ticino. Se la si volesse circoscrivere geograficamente, il frontaliere è una realtà parallela, dinamica, eterogenea che prende forma tra le province dell’Insubria, quell’area che si estende tra le province di Como, Varese, Verbano-Cusio-Ossola, Lecco, Novara e il Ticino. Due culture diverse, due storie collegate, due Stati che ogni giorno si confrontano e relazionano. I Frontaliers sono il risultato di questo fenomeno sociale, politico e culturale di cui alla Garbatella di Roma nessuno (ancora) ha sentito parlare».
Benvenuti alla frontiera della Garbatella!

Repubblica 16.5.14
Zombie
Il piano segreto del Pentagono “Così fermeremo i morti viventi”Un documento dei massimi vertici militari statunitensi “Dobbiamo saper affrontare situazioni apocalittiche”
di Vittorio Zucconi



WASHINGTON. NEL giorno dell’Apocalisse, le galline morte e gli zombie carnivori si alzeranno dalla terra e sbarcheranno in America, ma il Pentagono sarà fortunatamente pronto a difenderci. Si rassegnino il Baron Samedi, gli sciamani del Vudù e il dottor Frankenstein con le loro sapienze negromantiche: le Forze Armate della massima potenza militare nella storia dell’umanità hanno un piano per rintuzzare anche i morti viventi e restaurare «il controllo civile e costituzionale» sulla democrazia Usa.
Sospettabile a prima vista di essere più una bufala volante che una minaccia reale di polli resuscitati e di cadaveri carnivori o erbivori, il piano classificato come Conop 8-888 esiste davvero negli archivi del Pentagono e chiarisce, nel testo ufficiale, di «non essere uno scherzo». Lo ha trovato per prima non un tabloid o uno show televisivo pseudo scientifico per telespettatori polli (viventi), ma la serissima rivista Foreign Policy , più nota per le sue approfondite e soporifere analisi sui problemi strategici e geopolitici che per gli scoop fantamilitari. Tutto ciò che fermenta dietro le mura del forte a cinque lati sulle rive del fiume Potomac è, per definizione e per la comprovata mancanza di senso dell’umorismo dei generali, una cosa seria e come tale va trattata. Pagata dai contribuenti.
Fu nel 2009, dunque appena cinque anni or sono, che a un gruppo di pianificatori strategici fu chiesto di predisporre un piano di difesa e poi di annientamento di zombie. Non è chiarissimo, nel sostanzioso “Progetto 8888”, chi, e perché e come, potrebbe creare e dispiegare un’Armada di cadaveri animali e umani, ma ogni ipotesi di minaccia deve essere valutata e disinnescata. Negli scaffali dei “Contingency Plan”, dei piani di attacco e difesa d’emergenza al Pentagono, c’è notoriamente di tutto e se in questi anni è esplosa la moda cinetelevisiva degli zombie, le autorità militari devono prenderne atto.
L’ordine di preparare un “Piano di Emergenza” anti-zombie, chiariscono gli autori ben consci della necessità di coprirsi le spalle, era partito da Potus, acronimo per il “President of The United States”, e dal Secdef, il Segretario alla Difesa, ed era stato girato nel 2009 al Comando Stratetigo basato a Omaha, in Nebraska. È possibile che alla Casa Bianca, Barack, Michelle e le ragazze guardassero troppi show televisvi sui Walking Dead. I pianificatori si rendono conto del potenziale ridicolo di una guerra agli zombie e mettono le mani avanti: «I soli casi conosciuti di possibile ritorno dei morti sono quelli dei polli, che vengono uccisi con mezzi chimici e poi riportati in vita apparente». Da qui nasce il timore di un assalto di milioni di galline zombie, presumibilmente furiose e assetate di vendetta per il trattamento che gli umani riservano ogni giorno ai loro figli, fratelli e sorelle allevati, macellati e fritti in batteria.
Ma l’ipotesi di cadaveri umani o di creature organiche non robotiche, prodotti da future biotecnologie sataniche, va considerata. Il potenziale distruttivo sulla società e sulle strutture delle comunità di questi non-esseri macilenti dispiegati a milioni per le strade della nazione, inquieta, proprio per la completa mancanza di precedenti nell’affrontarli. La contagiosità dello zombie che morde un vivente è, secondo i film, i telefilm e gli show tv più autorevoli, notoriamente totale, anche se fortunatamente - precisano sempre i pianificatori militari - molti di loro potrebbero essere vegetariani, dunque non pericolosi per l’uomo nutrendosi di piante. Il rischio di carciofi, radicchio e lattughe zombie non è contemplato.
Non che il Conop 8-888 manchi di autoironia, come ha spiegato una portavoce del Pentagono confermandone l’esistenza. L’idea del “Piano Frankenstein”, ha pazientemente illustrato lei, non è realmente quella di condurre battaglie campali contro legioni di pollame d’assalto o di cadaveri ambulanti. È quella di preparare ufficiali e comandi ad affrontare qualsiasi tipo di emergenza, di addestrarsi a pensare l’impensabile, di attendersi l’inimmaginabile, come già disse furioso Donald Rumsfeld, il ministro della Difesa con Bush, quando accusò la burocrazia militare e l’intelligence dopo l’11 settembre di «aver mancato di immaginazione».
Per accettare la apparente insensatezza di una guerra di zombie, si può poi sempre ricorrere al salvagente della metafora, dunque sostituire a quei tragici fantocci barcollanti e sotto il controllo di sinistri sciamani con nemici veri e viventi, con terroristi, infiltrati, eserciti invisibili e non convenzionali che anche in questo momento stanno pianificando orrori biologici e chimici da scatenare contro il “Grande Satana” americano. Il “morto che cammina” da folklore haitiano resta per ora un soggetto da sceneggiatura nera insieme con i vampiri (contro i quali non risultano piani militari). Ma che cosa erano, se non morti che camminavano, i diciannove che si impadronirono di quattro aerei civili, l’11 settembre del 2001?

Corriere 16.5.14
La terra verde sotto assedio
di Giovanni Sartori


Leggo che papa Francesco sta preparando una enciclica «verde», vale a dire una enciclica che condanna la crescente scomparsa delle zone vergini della Terra, sempre più erose dalla cementificazione dell’uomo. Una cementificazione prodotta dal crescente e insensato aumento della popolazione. Siamo già più di sette miliardi e, se le proiezioni di poco fa indicavano un tetto massimo di nove miliardi, oggi se ne prospettano persino dieci.
Dove li mettiamo? Per ora affollano città sempre più smisurate e squallide periferie rese pericolose da immigrati affamati senza lavoro e senza mestiere. Tokyo potrebbe arrivare (nella ultima proiezione dell’Economist ) a 39 milioni di abitanti, Delhi a 30 milioni, San Paolo e Città del Messico a più di 20 milioni, e così via.
Ma la popolazione che cresce di più e più rapidamente è in Africa con punte di nascite fino a 40 figli, una follia che potrebbe e dovrebbe essere contrastata. Senonché nel 1968 papa Paolo VI con l’enciclica Humanae Vitae ha condannato l’uso dei contraccettivi. Nessun’altra religione e nemmeno i cristiani protestanti hanno recepito questo messaggio. Ma la Chiesa di Roma, con l’appoggio dei Paesi sudamericani e dei potentissimi cattolici americani, ha bloccato perfino la politica della contraccezione sia alle Nazioni Unite sia e soprattutto in Africa (dove gran parte delle missioni sono cattoliche).
La storia della enciclica Humanae Vitae è nota ed è stata minutamente raccontata. Il Papa costituì una commissione di teologi che concluse i suoi lavori dichiarando che la dottrina cattolica non forniva nessun sostegno alla tesi di Humanae Vitae . Ma Paolo VI non si lasciò convincere.
Per la fede l’uomo è tale e diverso da tutti gli altri esseri viventi perché dotato di anima. E San Tommaso, il massimo pensatore della Chiesa, nella sua Summa Teologica distingue tre forme e fasi dell’anima. La prima è «l’anima vegetativa», la seconda è «l’anima animale», e solo la terza è «l’anima razionale» che caratterizza gli esseri umani, e che arriva tardi, soltanto quando il nascituro è formato o anche già nato. Dunque il Tomismo vieterebbe l’aborto di una anima razionale, ma certo non vieta i contraccettivi.
Dunque spero ardentemente che l’enciclica «verde» di papa Francesco lasci cadere la Humanae Vitae . Il Papa argentino ha scelto di essere francescano ma è anche stato educato dai gesuiti, un ordine che assieme ai domenicani costituisce l’ordine colto della Chiesa.
L’enciclica che sta elaborando papa Francesco non può ignorare che un formicaio umano ucciderebbe anche il verde della Terra, la natura «vera». Gli esperti ci dicono che ci restano 10 anni prima della catastrofe climatica che sarebbe anche la catastrofe umana delle donne e degli uomini che la stanno vivendo.
Papa Francesco, si obbietterà, non può ignorare e tanto meno contraddire la tesi dei suoi recenti predecessori. Invece nulla lo vieta. La dottrina della infallibilità papale è del 1876, e riflette la caduta del potere temporale della Chiesa. In ogni caso questa infallibilità vale soltanto per i pronunciamenti solenni ex cathedra , su materie di fede e di morale. E quindi papa Francesco è liberissimo di asserire — come ha già fatto, visto che cito proprio lui, da una omelia del 19 marzo 2013 — che «la vocazione del custodire non riguarda solamente noi cristiani ma una dimensione che è semplicemente umana, riguarda tutti. È il custodire l’intero Creato, la bellezza del Creato». Sante parole.

La Stampa 16.5.14
Marx vittima del copyright: il caso dell’archivio online
Un editore londinese ripubblica in ebook 50 volumi del filosofo, e scoppia la polemica con il sito che li offre gratis
di Claudio Leonardi

qui

La Stampa 16.5.14
Armstrong, la metafisica che “rende vero” il mondo
La scomparsa del grande filosofo australiano che ha rilanciato la riflessione sugli “universali”: concetti decisivi per la scienza
di Franca D’Agostini


David Malet Armstrong era nato a Melbourne nel 1926. Il suo ultimo libro, per Carocci

Si è parlato molto in Italia di «nuovo realismo», ma sicuramente un autore che ha rinnovato in modo profondo e decisivo la migliore tradizione del realismo metafisico è stato David Malet Armstrong, il grande filosofo australiano scomparso martedì scorso. Nato nel 1926, Armstrong è stato la figura più rappresentativa del «realismo australiano», e uno dei più importanti metafisici del secondo Novecento.
Un suo grande merito è stato aver rilanciato la riflessione sull’antico tema degli «universali», difendendone l’estrema importanza per la scienza. Per Armstrong non esistono solo gli oggetti particolari, ma esistono anche le loro proprietà universali (essere rosso, essere alto 95 cm, essere idrosolubile ecc.), e le leggi di natura sono precisamente relazioni tra universali. Armstrong ha anche dato un importante contributo alla teoria della verità, sviluppando la nozione di truthmaking, il «rendere vero». Il mondo, dice Armstrong, è fatto di stati di cose, i quali sono combinazioni varie di particolari (gli oggetti) e universali (le loro proprietà e relazioni), e gli stati di cose sono i truthmakers di quel che diciamo del mondo: essi rendono vere (o false) le nostre proposizioni.
Da questo ritratto semplice e preliminare emerge una costruzione estremamente raffinata, piena di ingegnose soluzioni ad antichi e nuovi problemi. È una vera e propria «metafisica sistematica», una delle pochissime oggi in circolazione, e capaci di dialogare autorevolmente con la scienza. L’ultimo libro di Armstrong è precisamente una sintesi del suo «sistema», ed è lo Schizzo di una metafisica sistematica (Sketch for a Systematic Metaphysics), testo delle lezioni tenute nel 2008 alla City University di New York, che sta per essere pubblicato da Carocci. Il lettore italiano può disporre anche delle altre opere metafisiche di Armstrong, meritoriamente pubblicate nella collana di Giovanni Reale, per la cura e traduzione di Annabella d’Atri (Ritorno alla metafisica, Bompiani, 2012).
Una grande originalità di vedute (l’idea che gli universali esistano, come tali, è senza dubbio una provocazione per il mainstream della filosofia moderna), associata a una grande sottigliezza argomentativa, e a un’estrema semplicità della teoria di sfondo. È questa in definitiva la lezione dei classici della filosofia, di cui Armstrong è stato degno erede.
Al di là delle singole soluzioni teoriche, ciò che colpisce nel suo lavoro è lo stile filosofico. Armstrong ha incarnato alla perfezione quella combinazione di assoluta libertà di pensiero, rigore argomentativo e risolutezza teorica che è stata definita a volte l’«Australian way», il modo australiano di fare filosofia. Come altri filosofi del nuovissimo continente, Armstrong ha ereditato questi requisiti dal suo maestro, lo scozzese John Anderson, professore all’Università di Sydney dal 1927 al 1958, singolare e molto influente figura di pensatore, per il quale la spregiudicatezza intellettuale era anzitutto un imperativo estetico ed etico-pratico. È in questo senso che nelle opere di Armstrong e di altri australiani il realismo non è solo una posizione metafisica: la scelta per questo mondo, e la scoperta che questo mondo contiene una quantità infinita di cose (e mondi) diventa un modo di argomentare e di lavorare in filosofia. Un modo particolarmente felice, visto che l’«Australian way» ha attirato un altro grandissimo pensatore del Novecento, David K. Lewis, e una schiera sempre più ampia di filosofi analitici americani ed europei.
Ma c’è forse un ultimo punto da considerare. Quel che nell’«Australian way» interpretato da Armstrong costituisce un dato esemplare è la grande onestà teorica che deriva da tutto ciò. Armstrong non esita a manifestare con estrema risolutezza e chiarezza le sue idee sui punti che ritiene acquisiti. Anzi, l’immagine più comune di lui (e di altri australiani: il più famoso è forse Peter Singer, che ha scandalizzato molti, con le sue teorie in etica) è precisamente quella di un teorico estremamente risoluto (d’altra parte, come sosteneva il filosofo del diritto Alf Ross, parlare di realtà è come dare «pugni sul tavolo»). Armstrong però scrive ripetutamente, nei suoi libri: «questo non lo so», «di questo non sono sicuro», «su ciò non sono ancora giunto a un’idea definitiva»… Si spinge addirittura a dire in piena onestà che «le mode» hanno un certo peso in filosofia, ed è possibile che su alcune questioni la moda abbia avuto un’influenza sui suoi pensieri.
È questa una grande lezione, per i complicati filosofi dei nostri vecchi continenti, impegnati (analitici inclusi) a torturare gli antichi concetti di essere e verità, togliendo loro l’ovvia semplicità intuitiva, e non offrendo in cambio alcuna vera soluzione.
Si è parlato molto in Italia di «nuovo realismo», ma sicuramente un autore che ha rinnovato in modo profondo e decisivo la migliore tradizione del realismo metafisico è stato David Malet Armstrong, il grande filosofo australiano scomparso martedì scorso. Nato nel 1926, Armstrong è stato la figura più rappresentativa del «realismo australiano», e uno dei più importanti metafisici del secondo Novecento.
Un suo grande merito è stato aver rilanciato la riflessione sull’antico tema degli «universali», difendendone l’estrema importanza per la scienza. Per Armstrong non esistono solo gli oggetti particolari, ma esistono anche le loro proprietà universali (essere rosso, essere alto 95 cm, essere idrosolubile ecc.), e le leggi di natura sono precisamente relazioni tra universali. Armstrong ha anche dato un importante contributo alla teoria della verità, sviluppando la nozione di truthmaking, il «rendere vero». Il mondo, dice Armstrong, è fatto di stati di cose, i quali sono combinazioni varie di particolari (gli oggetti) e universali (le loro proprietà e relazioni), e gli stati di cose sono i truthmakers di quel che diciamo del mondo: essi rendono vere (o false) le nostre proposizioni.
Da questo ritratto semplice e preliminare emerge una costruzione estremamente raffinata, piena di ingegnose soluzioni ad antichi e nuovi problemi. È una vera e propria «metafisica sistematica», una delle pochissime oggi in circolazione, e capaci di dialogare autorevolmente con la scienza. L’ultimo libro di Armstrong è precisamente una sintesi del suo «sistema», ed è lo Schizzo di una metafisica sistematica (Sketch for a Systematic Metaphysics), testo delle lezioni tenute nel 2008 alla City University di New York, che sta per essere pubblicato da Carocci. Il lettore italiano può disporre anche delle altre opere metafisiche di Armstrong, meritoriamente pubblicate nella collana di Giovanni Reale, per la cura e traduzione di Annabella d’Atri (Ritorno alla metafisica, Bompiani, 2012).
Una grande originalità di vedute (l’idea che gli universali esistano, come tali, è senza dubbio una provocazione per il mainstream della filosofia moderna), associata a una grande sottigliezza argomentativa, e a un’estrema semplicità della teoria di sfondo. È questa in definitiva la lezione dei classici della filosofia, di cui Armstrong è stato degno erede.
Al di là delle singole soluzioni teoriche, ciò che colpisce nel suo lavoro è lo stile filosofico. Armstrong ha incarnato alla perfezione quella combinazione di assoluta libertà di pensiero, rigore argomentativo e risolutezza teorica che è stata definita a volte l’«Australian way», il modo australiano di fare filosofia. Come altri filosofi del nuovissimo continente, Armstrong ha ereditato questi requisiti dal suo maestro, lo scozzese John Anderson, professore all’Università di Sydney dal 1927 al 1958, singolare e molto influente figura di pensatore, per il quale la spregiudicatezza intellettuale era anzitutto un imperativo estetico ed etico-pratico. È in questo senso che nelle opere di Armstrong e di altri australiani il realismo non è solo una posizione metafisica: la scelta per questo mondo, e la scoperta che questo mondo contiene una quantità infinita di cose (e mondi) diventa un modo di argomentare e di lavorare in filosofia. Un modo particolarmente felice, visto che l’«Australian way» ha attirato un altro grandissimo pensatore del Novecento, David K. Lewis, e una schiera sempre più ampia di filosofi analitici americani ed europei.
Ma c’è forse un ultimo punto da considerare. Quel che nell’«Australian way» interpretato da Armstrong costituisce un dato esemplare è la grande onestà teorica che deriva da tutto ciò. Armstrong non esita a manifestare con estrema risolutezza e chiarezza le sue idee sui punti che ritiene acquisiti. Anzi, l’immagine più comune di lui (e di altri australiani: il più famoso è forse Peter Singer, che ha scandalizzato molti, con le sue teorie in etica) è precisamente quella di un teorico estremamente risoluto (d’altra parte, come sosteneva il filosofo del diritto Alf Ross, parlare di realtà è come dare «pugni sul tavolo»). Armstrong però scrive ripetutamente, nei suoi libri: «questo non lo so», «di questo non sono sicuro», «su ciò non sono ancora giunto a un’idea definitiva»… Si spinge addirittura a dire in piena onestà che «le mode» hanno un certo peso in filosofia, ed è possibile che su alcune questioni la moda abbia avuto un’influenza sui suoi pensieri.
È questa una grande lezione, per i complicati filosofi dei nostri vecchi continenti, impegnati (analitici inclusi) a torturare gli antichi concetti di essere e verità, togliendo loro l’ovvia semplicità intuitiva, e non offrendo in cambio alcuna vera soluzione.

Repubblica 16.5.14
Templari e SS Fatti e misfatti dei corpi scelti
In “Guardiani del potere” di Fabio Mini una storia secolare di fedeltà, ribellioni e complotti
di Siegmund Ginzberg



Cos’è che accomuna gli eunuchi imperiali dell’antica Cina, i giannizzeri, i gesuiti, le SS, i quant, i maghi matematici del trading quantitativo, i pasdaran e i carabinieri? Che sono corpi a sé, di élite, con fortissimo senso di appartenenza e con regole proprie che li distinguono dagli altri, al servizio e a difesa dei poteri reali: il Figlio del Cielo, il Sultano, il Papa (anzi, Dio), il Führer, la grande finanza, lo Stato. Che quasi sempre a fianco di un prestigio speciale, di doveri speciali, hanno anche privilegi speciali, insomma tendono a farsi “casta”.
Che coltivano la propria indipendenza dagli stessi poteri che li hanno creati, interagiscono con e si infiltrano negli altri poteri istituzionali, sviluppano una sorta di hegeliana dialettica servo-padrone nei loro confronti, covano - o vengono sospettati, il che è lo stesso, di covare - ribellioni. E, quando questo accade, spesso vengono brutalmente ridimensionati o eliminati dai poteri di cui sono al servizio, quando non siano prima loro a far cadere i loro protetti.
È il filo conduttore dell’ultimo libro del generale Fabio Mini: I guardiani del potere. Eunuchi, templari, carabinieri e altri corpi scelti ( Il Mulino). La sua è una carrellata che attraversa secoli e continenti, ricca quasi ad ogni pagina di suggestioni, curiosità storiche e spunti che rimandano al presente, fatti e interrogativi che, se non sempre hanno una risposta, hanno il merito di suscitare altri interrogativi. Non manca e non guasta neanche la fantasia.
Il tema di chi può fare la guardia ai guardiani è antico quanto il pensiero occidentale. E Mini sa di cosa parla. Dopo l’Accademia militare di Modena e la laurea in Scienze strategiche si è specializzato in scienze umanistiche. È stato addetto militare a Pechino. Scrive degli eunuchi di corte Ming e Qing che governavano al posto degli imperatori (e finivano ammazzati quando questi decidevano di riprendersi le proprie prerogative), con la stessa competenza con cui tratta della guardia pretoriana dell’antica Roma, dei Templari che si erano distinti nelle Crociate e, per aver acquisito troppo potere, furono tutti giustiziati dal re di Francia, e dei giannizzeri, che dopo essere stati a lungo il pilastro del potere dei sultani ottomani, furono da loro sterminati. È generale di corpo d’armata, è stato capo di Stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa. È insomma uno ben addentro ai segreti e ai meccanismi della professione. Quel che si dice un insider.
Ogni tipo di potere, in ogni epoca, ha bisogno di guardiani di tipo diverso. Ma certe dinamiche appaiono costanti. Secondo Mini «il sistema che crea i guardiani li esalta, li alletta e lentamente li corrompe piegandoli alle logiche curiali, alla forza del denaro, alle attrattive della carriera e alle promesse dei potenti». Ma poi succede che, «quando cominciano ad essere troppo simili a loro, scoprono di poter costituire un proprio potere autonomo, di casta o di banda: perdono dimestichezza con le strategie e diventano esperti di manovre di corridoio, sostituiscono le finalità istituzionali con quelle di corpo». Succede nelle migliori famiglie. Anche ai corpi “molto speciali” che Mini definisce “Guardiani di Dio” o “Guardiani del partito”. Capita che estendano il proprio controllo su tutte le altre istituzioni, e poi si dissanguino in conflitti di potere. In periodi di grande crisi vengono accolti come salvatori. Ma poi si concentra su di loro l’odio verso i loro tutelati. Crollano ignominiosamente con loro o vengono da loro eliminati.
C’è un ricco capitolo sulle vicende delle Sa, la milizia che aveva portato Hitler al potere, e sulle Ss che dopo aver sanguinosamente fatto fuori le Sa, si erano affermate come i guardiani di tutti gli altri guardiani del Reich nazista. Stalin aveva espresso ammirazione e ordinato uno studio su quei meccanismi. Mi sarei aspettato un analogo capitolo sulle ricorrenti e altrettanto brutali decapitazioni staliniane nell’Armata rossa e ai vertici dei Servizi, non che del Partito (formalmente il guardiano dei guardiani). Poteva essere un modo per sollevare il problema di quanto la Russia di Putin e la sua nomenklatura di siloviki (uomini provenienti come lui dai servizi e ora al vertice di tutti i gangli dello Stato e dell’economia) abbia nel Dna la possibilità di fungere da pilastro e allo stesso tempo da potenziale minaccia per lo zar di turno.
Per non parlare della Cina, il gigante che sta dando al mondo un esempio terrificante di come economia, ordine e persino il consenso possano fiorire senza democrazia. La Cina di Mao si era fondata sulla “canna del fucile” e sul mito del grande corpo “diverso da tutti gli altri”, l’Esercito popolare di Liberazione. La rivoluzione culturale aveva contrapposto una cordata militare all’altra. L’ultima epurazione ha travolto il potente capo della Sicurezza Zhou Yongkang, che pure aveva al suo comando un bilancio astronomico e un numero di effettivi superiore a quelli delle forze armate.
E le democrazie? La parte più ampia, documentata, e inquietante del libro tratta dei carabinieri e di alcuni episodi misteriosi della nostra storia repubblicana, dal tintinnio della sciabole del generale De Lorenzo, agli intrecci da mezzo secolo ancora inspiegati tra “guardiani”, eversione, mafia e politica. Si dirà: sempre le stesse cose che ritornano, come per la Tangentopoli dell’Expo. Ma cose di cui ne va ben più che di croniche ruberie. Fa impressione leggere che l’intenzione dichiarata dei golpisti e tramatori, degli schedatori a fini di ricatto dei “peccati” dei politici, delle collusioni inconfessabili con terrorismo, eversione e mafia, della P2, era sì tutelare l’ordine, arginare il “pericolo comunista”, ma anche “far fuori i politici”, mettere freno alla “rissa dei partiti sulle riforme”, Be’, a scardinare e screditare i partiti, ci sono riusciti anche senza golpe, viene da pensare.
Così come fa impressione leggere, con riferimento esplicito alla Benemerita, che «come se non bastassero i problemi e i traumi connessi ai rischi della professione, i carabinieri cercano di crearsene degli altri con la competizione con le altre forze dell’ordine, con la ricerca di nuovi incarichi e settori in cui esercitare la propria autorità e nella frenetica lotta interna, fratricida, per posti migliori, incarichi di prestigio e per la carriera». Consiglio di Stato, Corte dei conti, Quirinale, Nato e altri organismi internazionali per i più ambiziosi, amministrazioni locali o impieghi e consulenze nel privato per gli altri. La cosa curiosa è che mentre «in ogni Paese del mondo una tale diffusione da parte di una “categoria” qualsiasi, ma soprattutto militare, costituirebbe un rischio per la stabilità e l’equilibrio dei poteri», in Italia sia «considerata una garanzia ». Che, giustamente preoccupati delle molte pagliuzze, si sia persa di vista la trave?

Repubblica 16.5.14
Dal web all’alcol così i ragazzi cadono nella rete delle dipendenze
Il 17 per cento dei minorenni ha un comportamento considerato a rischio Ricerca del Cnr su 40mila studenti: sempre più schiavi di sostanze e social
di Fabio Tonacci



ROMA. I ricercatori del Cnr lo spiegano con la metafora del “paese dei balocchi”. Prima o poi, nel “luna park” delle dipendenze, la maggior parte degli studenti entra a fare un giro. Internet, i social network, il gioco d’azzardo, gli psicofarmaci presi senza ricetta medica, gli energy drink mescolati all’alcol, sono le nuove giostre. I nuovi brividi, anche. E il 17 per cento dei minorenni - questo il dato più allarmante - porta già addosso i segnali di un comportamento a rischio.
Eccola la nuova mappa delle “addiction” giovanili, così come la disegna il rapporto Espad del 2014, che quest’anno è diventato anche un libro (sarà presentato lunedì prossimo). Nel profluvio di cifre, grafici e sondaggi, che raccontano quello che i ragazzi non dicono ai genitori, se ne intravedono le forme e le luci di questo pericoloso “luna park”. Dove anche ciò che all’apparenza è innocuo, come il web, può diventare una droga se è vero che il 93 per cento degli studenti lo usa per chattare su facebook e twitter e l’82 per cento per scaricare musica, film, videogiochi. Conta il cosa, ma soprattutto il quanto. Dunque quel 13 per cento che dichiara di restare attaccato alla Rete per cinque ore di fila o più ogni giorno può diventare un problema. Così come il 23 per cento che si fa le sue tre ore quotidiane a navigare sui social network: «Sono soprattutto le ragazze a chattare. I nativi digitali, tutti i nati a metà degli anni Novanta e cresciuti in case dotate di accesso a Internet sono esposti a nuovi rischi che ancora poco conosciamo», si legge nel rapporto.
Non mancano le vecchie conoscenze, naturalmente. Fuma sigarette uno studente su quattro, l’eroina è tornata di moda (l’ha provata l’1,2 per cento), la cocaina è ancora in voga: in 65mila l’hanno utilizzata almeno una volta nel 2013, 19mila sono “frequent users” (10 o più volte all’anno), pari allo 0,8 degli studenti delle superiori (era lo 0,3 per cento nel 2000). L’alcol rimane la sostanza psicoattiva più diffusa tra i giovani. Il 4,8 per cento, cioè 112 mila studenti italiani, sono stati classificati “frequent drinkers”, cioè si sono ubriacati più di venti volte nell’arco dei 2012 mesi: con la birra, prevalentemente, ma anche liquori, vino, shottini di superalcolici.
C’è poi chi abusa di bevande che alcoliche non sono, ma che producono lo stesso effetti eccitanti. In media già a 13 anni si comincia a bere energy drinks. Il 3 per cento consuma ogni giorno una o due lattine: tra questi 72mila studenti, secondo le statistiche, una parte consistente è rappresentata da chi ha sviluppato un rapporto problematico con il cibo. E nella galleria delle nuove figure del “luna park” delle dipendenze, compaiono gli “alchimisti fai da te”, che mescolano senza timore energy drinks, smart drugs, liquori.
Lo studio dei ricercatori dell’Istituto di Fisiologia clinica del Cnr di Pisa si è basato su 40mila questionari anonimi inviati in 480 istituti superiori, 25 per classe, in tutta la penisola. Un campione sufficientemente rappresentativo dei 2,3 milioni di studenti italiani compresi tra i 15 e i 19 anni, che descrive molto, delle vecchie dipendenze e di quelle di ultima generazione.
L’Italia di recente, ad esempio, è saltata ai primi posti in Europa per diffusione di psicofarmaci senza prescrizione medica, pratica a quanto pare molto conosciuta nelle scuole, visto che quasi 400 mila studenti (il 16 per cento) hanno preso pillole e gocce senza la ricetta. «Quelli che lo fanno più di dieci volte al mese sono diventati un’emergenza». E il gioco d’azzardo? Rispetto al 2008 pare esserci un calo di interesse, per quanto l’anno scorso oltre un milione di ragazzi ha giocato somme di denaro con gratta e vinci, scommesse sportive e superenalotto. Perché il “luna park” non chiude mai.