sabato 17 maggio 2014

l’Unità 17.5.14
Comunicato del CDR

L'Unità anche oggi esce senza firme. È in edicola solo per il senso di responsabilità dei lavoratori, senza stipendio dalla fine di marzo e ancora in attesa di notizie dall'editore circa i suoi piani per evitare il fallimento della società editrice.

l’Unità 17.5.14
Comunicato del segretario della FNSI

Il segretario della Federazione nazionale della stampa italiana, Franco Siddi, ha dichiarato la sua piena solidarietà alla protesta dei giornalisti de l’Unità e chiesto che la Fieg si faccia parte attiva per l’apertura di un rigoroso e puntuale confronto. «Lo sciopero delle firme all’Unità è l’espressione di una protesta civile, ma non perciò da considerare con sufficienza dall’azienda editrice, da troppo tempo inadempiente sul piano dell’iniziativa imprenditoriale e delle obbligazioni sociali verso i lavoratori, da due mesi senza stipendio. Il segnale “muto” del ritiro delle firme è la voce forte di una sofferenza profonda con la quale da mesi lavorano i giornalisti assicurando la pubblicazione del giornale, secondo una visione professionale e morale che trova la sua radice nella storia del giornale. I silenzi e i continui rinvii dell’azienda sia sulle prospettive della progettualità editoriale, sia sulle garanzie per il lavoro e la continuità pienamente operativa della testata sono elementi di grande preoccupazione. L’azienda con tutti i suoi azionisti (i soci privati e, per la sua parte minoritaria, ma politicamente influente, il PD) hanno il dovere di parlare con chiarezza, di presentare il loro piano editoriale, di dichiarare, comunque, quali siano le loro reali intenzioni per il futuro, garantendo intanto le obbligazioni imprenditoriali e sociali di loro competenza. Per tutte queste ragioni la Fnsi, nel confermare la solidarietà ai giornalisti dipendenti in stato di agitazione e ai collaboratori (i quali vantano arretrati nei compensi persino più prolungati nel tempo), chiede alla Fieg di farsi parte attiva per l’apertura di un rigoroso e puntuale confronto sul tavolo delle corrette relazioni industriali».

La Stampa 17.5.14
Civiltà cattolica promuove le riforme di Renzi:
“Renzi recupera lo spirito della Costituente”
Via libera della rivista dei Gesuiti al nuovo Senato
In un approfondito articolo vengono analizzate (ed elogiate) le riforme del premier
di Giacomo Galeazzi

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il Sole 17.5.14
Nelle terre di Don Camillo e Peppone la festa del Pd la fanno all'Oratorio
di Deborah Dirani

qui

Repubblica 17.5.14
Riforme e pregiudizio
di Gustavo Zagrebelsky


LA DISCUSSIONE sul bicameralismo perfetto o paritario è condizionata da preconcetti che non reggerebbero alla critica: anzitutto, la convinzione che il Governo sia privo di poteri costituzionali efficaci e tempestivi per tradurre in leggi i propri intenti; poi, che la doppia lettura comporti il raddoppio dei tempi della legislazione; infine, che la seconda lettura serva solo a insabbiare o a guastare le buone intenzioni iniziali. Se così fosse, si giustificherebbe l’abolizione o, almeno, il “senato gratis”: slogan che riassume la superficialità con la quale si affrontano argomenti serissimi. Su ciascuno di questi punti, diagnosi e prognosi non di maniera porterebbero a risultati diversi dalle presunte, ovvie verità. Ma, la questione di fondo, riguarda la sostanza politico- costituzionale. In breve: qual è la ragione della seconda
Camera?
VOLENDOLA mantenere, quale può essere l’utile funzione che le si chiede di svolgere? Guardando alla storia e ai suoi esempi, si vede che i Senati esprimono o ragioni federative, nei confronti dello Stato centrale, o ragioni conservative , di fronte alla Camera elettiva. Da noi, il dibattito sul superamento del bicameralismo perfetto o paritario si è orientato pacificamente nel primo senso: “Senato delle autonomie” (“autonomie”, perché il federalismo non esiste) al posto del “Senato della Repubblica”. Perché ciò che bene funziona, per esempio, negli Stati Uniti d’America e in Germania, non dovrebbe funzionare altrettanto bene in Italia? Non esistono forse, anche da noi, buone ragioni di coordinamento tra Enti Locali, Regioni e Stato? E poi chi si arrischierebbe oggi, nel tempo della velocità, a proporre qualcosa di “conservativo”? La comparazione con gli Stati effettivamente federali — “effettivamente” significa non che hanno sovrastrutture giuridiche federali o simil- federali, ma che hanno radici nettamente definite in senso storico-politico, come gli Stati federati in Usa o i Länder in Germania o le regioni autonome in Spagna — questa comparazione, non quella puramente esteriore dei giuristi formalisti, porta a dire che la somiglianza con la nostra realtà è ingannevole. Le nostre Regioni e Amministrazioni locali, con le eccezioni che confermano la regola, sono grossi apparati politico- amministrativi che riproducono vizi e virtù dell’amministrazione e della politica nazionale: sono, in altri termini, articolazioni di queste. Non è qui il caso di ragionare sulle cause ma, se ciò è vero, che senso ha una camera delle autonomie, se non quello di rimandare e rispecchiare al centro interessi, virtù e vizi pubblici e privati che già il centro ha trasmesso alla periferia? Il pomposo “Senato delle Autonomie” si risolverebbe in un’articolazione secondaria d’un sistema
politico unico che ha da risolvere al suo interno questioni di natura principalmente finanziaria e amministrativa. Si tratterebbe d’un organo di contrattazione di risorse e porzioni di funzioni pubbliche, in una sorta di do ut des che già oggi trova la sua sede in due “Conferenze” paritetiche (Stato-Regioni e Stato-città e autonomie locali). Se, invece, si volesse cogliere l’occasione della riforma per un’innovazione davvero significativa dal punto di vista non “amministrativistico”, ma “costituzionalistico”, tenendo conto di un’esigenza profonda della democrazia, si potrebbe ragionare partendo in premessa dalla considerazione che segue. Le democrazie rappresentative tendono alla dissipazione di risorse pubbliche, materiali e immateriali. Sono regimi dai tempi brevi, segnati dalle scadenze elettorali, in vista delle quali gli eletti, per la natura delle cose umane, cercano la rielezione, cioè il consenso necessario per ottenerla. Non conosciamo noi, forse, questa realtà? Debito pubblico accumulato da politiche di spesa facile nel c. d. ciclo elettorale; sfruttamento e dissipazione delle risorse naturali; devastazione del territorio; attentati alla salute pubblica; abuso dei beni comuni nell’interesse privato immediato; applicazioni a fattori vitali di tecnologie dalle conseguenze irreversibili, infornate di nomine clientelari in enti pubblici, ecc. Chi se ne preoccupa, quando premono le elezioni? Non stiamo noi, oggi, scontando drammaticamente questa tendenza fagocitatrice della democrazia?
Qui emergono le “ragioni conservative” della seconda Camera: non conservative rispetto al passato, come fu nel caso dei Senati al tempo delle Monarchie rappresentative, quando si pose la questione del bilanciamento delle tendenze dissipatrici della Camera elettiva e questa, secondo lo schema del “governo misto”, fu affiancata dai Senati di nomina regia. Allora, i Senatierano ciò che restava dell’Antico Regime, della tradizione e dei suoi privilegi. Ciò che si voleva conservare era il retaggio del passato. Oggi, si tratta dell’opposto, cioè di ragioni conservative di opportunità per il futuro, per le generazioni a venire.
Chi è, dunque, più conservatore? Chi, per mantenere o migliorare le proprie posizioni nel confronto elettorale, è disposto a usare tutte le risorse disponibili per ottenere il consenso immediato degli elettori, o chi, invece, si preoccupa più dell’avvenire e di chi verrà dopo di lui che non delle sue proprie immediate fortune elettorali?
Su questa linea di pensiero, la composizione del nuovo Senato risulta incompatibile con l’idea di membri tratti dalle amministrazioni regionali e locali o eletti in secondo grado dagli organi di queste, la cui durata in carica coincida con quella delle amministrazioni regionali e locali di provenienza. Questa è la prospettiva “amministrativistica”. Nella prospettiva “costituzionalistica” la provvista dei membri del Senato dovrebbe avvenire in modo diverso. Nei Senati storici, a questa esigenza corrispondeva la nomina regia e la durata vitalizia della carica: due soluzioni, oggi, evidentemente improponibili, ma facilmente sostituibili con l’elezione per una durata adeguata, superiore a quella ordinaria della Camera dei deputati, e con la regola tassativa della non rieleggibilità. A ciò si dovrebbero accompagnare requisiti d’esperienza, competenza e moralità particolarmente rigorosi, contenute in regole di incandidabilità, incompatibilità e ineleggibilità misurate sulla natura dei compiti assegnati agli eletti.
Voci autorevoli si sono levate in questo senso. Anche l’idea dei 21 senatori che il Presidente della Repubblica potrebbe nominare tra persone particolarmente qualificate corrisponde all’esigenza qui sottolineata. Dal punto di vista democratico, è un’idea insostenibile per una molteplicità di ragioni che i commentatori hanno già messo in luce. Dal punto di vista funzionale, poi, è del tutto irragionevole: qualunque organo che delibera deve essere omogeneo. Se non è omogeneo, può solo formulare pareri, non esprimere una (sola) volontà. Ma l’esigenza di cui i 21 sarebbero espressione è valida e può essere soddisfatta per via di elezione, purché secondo i criteri sopra detti. Ai quali se ne dovrebbe aggiungere un altro: il numero limitato. Negli Stati Uniti, due senatori per ogni Stato federato. Perché non anche da noi? Due per Regione, eletti dagli elettori delle Regioni stesse, dunque senza liste, “listoni” o “listini” che farebbero ancora una volta del Senato una propaggine del sistema dei partiti, con i condizionamenti e gli snaturamenti che ne deriverebbero. Questa, sì, sarebbe una novità, perfettamente democratica e tale da inserire nel circuito politico energie, competenze, responsabilità nuove. Questo, sì, sarebbe un Senato attrattivo per le forze migliori del nostro Paese che il reclutamento partitico della classe politica oggi tiene ai margini.
Un punto critico del Progetto di riforma riguarda la determinazione dei poteri legislativi e la definizione del rapporto tra le due Camere nel bicameralismo non paritario. Il nuovo articolo 70 della Costituzione prevederebbe la supremazia politica della Camera, ma in un labirintico groviglio di ipotesi, in cui si intrecciano comunicazioni, iniziative di minoranze parlamentari, proposte di modifica, andirivieni scanditi da termini prefissati, materie sulle quali le deliberazioni del Senato a maggioranza assoluta possono essere rovesciate dalla Camera, a sua volta a maggioranza assoluta, eccetera. Non si può qui possibile discutere la ragionevolezza di questo estremo “giuridicismo” applicato a organi politici. Ci si deve chiedere se potrebbe funzionare e se, nel caso in cui il Senato volesse non ridursi a vuoto simulacro, non determinerebbe frequenti conflitti. Che senso avrebbe, poi, il coinvolgimento del Senato quando già è nota l’esistenza d’una maggioranza alla Camera, in grado comunque d’imporre la propria scelta? Un lamento, una protesta fine a se stessa, tanto più in quanto la legge elettorale sia tale (ma sarà tale?) da costruire più o meno artificialmente vaste maggioranze “blindate” che non hanno bisogno di confrontare i loro pro con i contra d’un Senato capace solo di lamentazione. Futilità. Una seconda Camera di facciata, così poco rilevante che il Governo, a garanzia della propria linea politica, non ha nemmeno bisogno della questione di fiducia che, infatti, scomparirebbe.
Nella prospettiva “costituzionalistica”, la convivenza delle due Camere si potrebbe risolvere così. Alla Camera dei deputati, depositaria dell’indirizzo politico, sarebbe riservato il voto di fiducia (e di sfiducia). Le leggi sarebbero approvate normalmente in una procedura monocamerale. Il Senato, nei casi — si presume di numero assai limitato, ma non elencabili a priori — in cui ritenga essere a rischio i valori permanenti che rientrano nella sua primaria responsabilità, potrebbe chiedere l’attivazione della procedura bicamerale paritaria. Procedura bicamerale, dunque, ma solo eventuale, quando effettivamente serve.
(Questo testo è la sintesi di un documento inviato dal professor Gustavo Zagrebelsly al ministro per le Riforme Maria Elena Boschi)

l’Unità 17.5.14
Raffaele Cantone: «Legge anticorruzione inutile e inefficace»
L’affondo sul Ddl all’esame della commissione giustizia: «Basta con questi spot»
È presidente dell’Autorità in materia, e deve vigilare sull’Expo: «Non vado a Milano in gita: voglio pieni poteri»


 Lo schiaffo alla politica è doppio. E arriva con quella schiettezza che pure lo ha fatto apprezzare dallo stesso premier Renzi. Il presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone boccia senza giri di parole il disegno di legge in discussione proprio sulla “sua” materia perché ricorda a chi siede in Parlamento «sarebbe ora di dire basta «nato sull’onda dell’emotività e dell’emergenza, alla fine avremo l’ennesima legge spot».
Dove emergenza ed emotività sono quelle scaturite dall’esplosione dello scandalo Expo, e anche qui allora l’ex pm anticamorra non le manda a dire, in questo caso al governo che lo vorrebbe a vigilare sul mega cantiere: «Non faccio gite milanesi, servono poteri specifici». Prese di posizione che non passano inosservate, ma a cui replicano in pochi, in primis il presidente del Senato Piero Grasso primo firmatario del ddl anticorruzione: «Quel testo è vecchio, risale a un anno fa».
Cantone mette dunque le carte in tavola. Si è guardato a lui per un ruolo delicatissimo, stretto com’è tra l’esigenza di bloccare ogni altro tipo di intrusione del vasto mondo dell’illegalità e quella di rispettare la scadenza capestro dei 12 mesi mancanti all’apertura dell’Expo.
Il magistrato rende ora pubblica la sua prima valutazione sul compito affidatogli. E allo stesso tempo lancia un segnale, perché la politica non pensi di aver esaurito il dramma corruzione con gli interventi in corso.
E dunque, è cruda l’analisi del ddl all’esame della Commissione Giustizia del Senato e in aula dal 27 del mese, analisi che subito Roberto Saviano dice di «non poter che condividere». Già la rapida calendarizzazione è indicativa, «si prova a legiferare sull’onda dell' emergenza», al contrario «bisognerebbe riuscire a trovare il giusto equilibrio e non lasciarsi prendere delle vicende di cronaca». E anzi, la previsione del magistrato è che il ddl «verrà approvato, ormai c’è un gruppo politico in grado di stabilire che quella legge dovrà passare, però non avrà alcuna efficacia sul piano concreto». Ed ecco perché. Nel merito, «si modifica di nuovo la concussione, si interviene sul falso in bilancio senza alcuna efficacia né efficienza» e anche la norma antiriciclaggio «è inapplicabile, prevede che ci sia 'nocumento all'economia', un meccanismo assolutamente vago». Ma c’è anche in equivoco di fondo sui princìpi, il fatto è che una legge «non avrà alcuna efficacia sul piano concreto se non troviamo i meccanismi per individuare la corruzione».
E qui il pensiero corre all’Expo. Che dimostra come i suddetti meccanismi per stanare i corrotti debbano diventare ben più raffinati, i tempi di Tangentopoli nonostante i nomi coinvolti sono lontani: «Lì c'era la chiara finalizzazione della politica per il finanziamento illecito ai partiti», oggi invece rileva Cantone «la corruzione si è evoluta, il sistema dei comitati d’affari è più pericoloso», a gestire la corruzione sono lobby nelle quali la politica svolge un ruolo di aiuto ma «marginale». Da qui l’avvertimento all’esecutivo: «Allo stato dell'arte non c’è possibilità che l’Autorità anticorruzione si occupi delle vicende relative all’Expo». Le condizioni che mancano? «Individuare poteri specifici e transitori che non sminuiscano l’indipendenza dell'Anac». Il suo ruolo insomma «ha un senso se abbiamo strumenti di controllo ad hoc e se si impone alle società private di seguire le norme sulla trasparenza».
Per il governo replica il ministro dell’Agricoltura con delega all’Expo Maurizio Martina: «Penso che nessuno voglia andare a Milano a fare una gita Poteri speciali? Non tocca a me dirlo, sono discussioni che si fanno quando si hanno bozze di lavoro sul tavolo e soprattutto vanno investiti i ministri più strettamente competenti. Naturalmente è fondamentale rafforzare il meccanismo di squadra e di controllo, per cui tutto quello che sarà necessario fare, lo faremo».
Nel Pd la palla viene raccolta da Francesco Boccia, presidente della Commissione Bilancio, che già aveva sollecitato strumenti ad hoc per Cantone: «Le sue sono parole dure ma è difficile dargli torto. Servono poteri speciali, oltre al coordinamento può aiutare a spiegare i meccanismi con cui si è operato finora».
Un assist arriva anche dal Commissario di Expo 2015, Giuseppe Sala: «Sono in attesa che Cantone sia messo nelle condizioni di operare. Credo ad esempio si debba definire con più attenzione ancora chi fa parte delle commissioni di gara, se dovessi fare una richiesta vorrei che fosse Cantone o alcuni dei suoi uomini a partecipare a ogni commissione di gara».

il Fatto 17.5.14
Expo e corruzione
Cantone attacca la “legge spot” di Grasso e chiede poteri
di Davide Milosa


Milano. La bufera scatenata dall’inchiesta milanese su Expo scuote la politica e ripropone il tema corruzione. E così, per mettere una pezza al caso milanese, il premier Renzi affida i controlli al neo presidente dell’Autorità anti-corruzione Raffaele Cantone. Tutto risolto, dunque? Affatto perché l’ex pm anti-camorra gela Palazzo Chigi: “Io non vado in gita a Milano”. Tradotto: senza poteri specifici non se ne fa nulla. Posizione sostenuta anche dal commissario Giuseppe Sala: “Sto aspettando che sia messo nelle condizioni di lavorare: Cantone sta chiedendo correttamente di specificare come può agire da un punto di vista normativo”. Dal Pd interviene Francesco Boccia: “Le frasi di Cantone sono dure, ma è difficile dargli torto. È necessario che gli siano affidati poteri speciali”. C’è Expo, dunque. Ma non solo. C’è, in generale, il tema corruzione e come contrastarla. Il caso s’infiamma e non solo per gli arresti della cosiddetta “cupola” degli appalti. Il neo presidente dell’Autorità anti-corruzione, a margine di un convegno alla facoltà di Giurisprudenza, da un lato ieri ha detto di volere poteri specifici a Milano e dall’altro ha attaccato frontalmente il disegno di legge attualmente all’esame in Senato e che porta come primo prestigioso firmatario un altro grande magistrato antimafia: l’attuale presidente di Palazzo Madama Pietro Grasso.
Cantone, che ha combattuto e in parte sconfitto il clan dei Casalesi, inizia secco: “Quello che sta accadendo in Parlamento è un fatto gravissimo, si prova a legiferare sull’onda dell’emergenza su una materia sulla quale invece bisognerebbe riuscire a trovare il giusto equilibrio. Avremo l’ennesima legge spot, e sarà approvata perché ormai c’è un gruppo politico in grado di stabilire che quella legge sarà approvata, ma non avrà nessuna efficacia sul piano concreto”. Naturalmente non si è fatta attendere la risposta di Grasso, il quale ha voluto precisare: “Ho presentato il mio ddl più di un anno fa, nel mio unico giorno da senatore, proprio perché, esattamente come Cantone, ritengo quello della corruzione e dei reati economici un tema urgente e prioritario ogni giorno, non solo dopo le recenti inchieste legate a Expo”. Quindi, la seconda carica dello Stato ha sottolineato che la sua proposta sull’auto-riciclaggio “prevedeva una nuova collocazione sistematica qualificandolo non come reato contro il patrimonio, ma inserendolo in una nuova tipologia di delitti contro l’ordine economico e finanziario”. Di più: “La mia proposta originaria - ha proseguito Piero Grasso - è completamente diversa” dal testo base adottato l’altro ieri dalla commissione Giustizia di Palazzo Madama e messo a punto del relatore Nico D’Ascola (Ncd).
IL DISEGNO DI LEGGE anti-corruzione all’esame del Senato prevede misure su corruzione, concussione, riciclaggio, introduce il reato di auto-riciclaggio, ma solo in presenza di un danno alla libera concorrenza e all’andamento dei mercati; ripristina il falso in bilancio con pene da uno a quattro anni, escludendo così sia misure cautelari in carcere sia l’uso di intercettazioni. Botta e risposta con aggiunta e precisazione dello stesso Cantone il quale ha detto di non aver “mai definito gravissimo il ddl Grasso”, ma di aver rilevato che “le norme si occupano del solo aspetto repressivo e non di quello della prevenzione” ed espresso “critiche sulla formulazione del falso in bilancio e dell’auto-riciclaggio”. Giornata curiosa, quella di ieri, in cui il capo dell’Anti-corruzione ha bocciato il ddl sulla corruzione firmato dal pm antimafia e ha gelato sui controlli su Expo il premier che l’ha voluto a capo dell’Authority.

Corriere 17.5.14
Una squadra e gli atti in Rete
Ecco a che cosa punta l’ultimatum del magistrato
di Marco Imarisio


L’uomo è fatto così, prendere o lasciare. «A fare cosa?» chiese al segretario regionale campano del Pd che gli offriva la candidatura a sindaco di Napoli. «Beh, a governare la città» fu la generica risposta. «Ma qual è il progetto, cosa vogliamo fare davvero?». Si guardarono in faccia. Silenzio. Mai più rivisti.
Raffaele Cantone non è dolce di sale, come dicono a Napoli. La faccia da boy scout può ingannare, il temperamento è tosto. È un magistrato che porta rispetto per la sua storia professionale. Così, pochi giorni fa, quando il suo nome è stato evocato come panacea ai mali di Expo 2015, aveva volato basso, coniugando i verbi al condizionale, rivelando di non avere intenzione di prendere casa o ufficio a Milano fino a quando non sarebbero stati delineati i suoi compiti e le sue competenze. «Serve una norma ad hoc» aveva aggiunto, perché nel decreto legge che dava vita all’Autorità per la corruzione non c’era alcun cenno a missioni particolari. Ieri ha ribadito il concetto con una battuta davanti agli studenti che ascoltavano la sua lezione sulla legalità. «Non ho intenzione di fare gite a Milano». Magari gli è uscita in modo rude, ma la sostanza non cambia, così come il suo giudizio sul decreto legge contro la corruzione. Le reazioni politiche ai suoi rilievi lo hanno sorpreso. Lui, presidente da poco nominato dell’Autorità sulla corruzione, riteneva di avere i titoli per inserirsi nel dibattito.
Nel poco tempo trascorso dall’annuncio della sua nomina, si è guardato e riguardato lo statuto dell’Autorità che presiede da due settimane, senza trovare appigli, giuridici o fattuali, che gli consentano di lavorare come vorrebbe sulla trasparenza necessaria a Expo 2015. Non c’è traccia del modello che vorrebbe imporre a Milano. Manca ogni possibilità di intervento, che in qualunque caso avrebbe solo valore discrezionale.
Cantone ribadisce di non volere la luna. Due cose soltanto. La prima è la creazione di un gruppo che lavori alle sue dipendenze: tecnici, magistrati e ufficiali di Polizia giudiziaria con esperienza nel settore appalti. Una task force in grado e con la possibilità stabilita da un decreto legge, questo passaggio è considerato necessario, di leggere le carte dei lavori concessi e in via di assegnazione, e di muoversi sul territorio. Servirebbe a fare opera di bonifica preventiva, verificando requisiti e regolarità delle aziende destinatarie di appalti e a loro volta subappaltanti. Con il termine generico di «carte» il magistrato napoletano non ha mai voluto suggerire un accesso diretto agli atti della procura milanese. Sa che non sarebbe possibile né giusto. Le uniche «carte» giudiziarie che ha letto in questi giorni sono quelle dell’ordinanza sul gruppo Paris-Greganti-Frigerio, ormai di pubblico dominio. Ma l’esperienza fatta in Cassazione gli suggerisce la necessità di regole precise per la sua eventuale attività, che non siano attaccabili da ricorsi anche amministrativi sulla legittimità del suo intervento. Altrimenti sarebbe un caos ulteriore del quale nessuno avverte il bisogno. L’unico modo per evitarlo è un decreto che ridisegni le competenze dell’Autorità per la corruzione, o un intervento ad hoc su Expo, regolato da un adeguamento delle norme esistenti.
La seconda richiesta è tanto semplice a enunciarla quanto complicata da mettere in pratica a livello legislativo. È la sua vecchia idea del controllo diffuso. Mettere online gli appalti una volta assegnati è facile e non ha mai prodotto effetti notevoli su ruberie piccole o grandi. Altro sarebbe pubblicare su Internet ogni singolo atto, offerte iniziali, saldi di pagamento, stati di avanzamento dei lavori, compensi a progettisti e tecnici, nomi di chi fa le verifiche. Tutto in chiaro.
La frase sulla gita, forse infelice, forse evitabile non significava che questo, inutile venire a Milano senza un provvedimento formale e poteri ben precisi. E forse nascondeva una reazione ai tiepidi entusiasmi sollevati dalle sue proposte. Cantone teme di diventare una specie di specchietto per le allodole. Altro sono le riserve sul decreto anti-corruzione in fase di approvazione. Non crede in leggi fatte sull’onda dell’emergenza e dell’emotività e quel decreto non gli piace, a cominciare dall’ennesimo cambiamento nella definizione di cos’è o non è la concussione. Il giudizio da magistrato sulle norme che riguardano falso in bilancio e antiriciclaggio è netto: sono poco efficaci. A suo avviso la prima manca di chiarezza e la seconda ha maglie troppo larghe. Inapplicabile. Una legge spot. Esattamente quel che Cantone non vuol diventare.

La Stampa 17.5.14
Pietro Grasso:
“La legge Severino non ha funzionato Ora basta compromessi”
Il presidente del Senato: “L’opinione pubblica si aspetta una risposta seria, stavolta non possiamo più sbagliare”
intervista di Marcello Sorgi


Presidente Grasso, si aspettava un attacco così duro da Raffaele Cantone? Il capo dell’Anticorruzione, che come lei viene dalla magistratura, parla di “legislazione spot”, fatta sull’onda dell’emergenza a proposito del disegno di legge che porta il suo nome. 
«Nessuno scontro. Mi ha subito chiamato e ci siamo chiariti. Raffaele forse non si aspettava una così forte amplificazione mediatica delle sue parole. Gli ho spiegato che la mia proposta ha più di un anno, e che nel corso dei mesi sono stati annessi altri ddl anticorruzione, e il relatore, dopo la discussione in commissione, ha prodotto un testo unificato come base per gli emendamenti».

Ma ammetterà che questa accelerazione a pochi giorni dallo scandalo Expo di Milano, dall’arresto dell’ex-ministro Scajola e di quello del deputato Genovese, legittima qualche dubbio sulla scelta dei tempi. A una settimana dal voto delle Europee, questa discussione in Senato non ha anche obiettivi elettorali? 
«Sarà discusso dopo le elezioni, fuori dalla campagna elettorale. Che ci sia un’urgenza, legata anche ai fatti recenti, non c’è dubbio. Ma ripeto, il lavoro al Senato su questa materia era cominciato un anno fa. Gli scandali di questi giorni sono solo gli ultimi di una serie. A vent’anni da Tangentopoli, non solo la corruzione non è finita, ma ha assunto forme nuove che richiedono nuovi strumenti di legge per essere combattute».

Presidente, ma poco più di un anno fa non era stata approvata una nuova legge anticorruzione proposta dal ministro della Giustizia Severino? 
«Infatti. E il giorno stesso in cui fu approvata, io, che ancora facevo il procuratore nazionale antimafia, obiettai che per com’era fatta non sarebbe servita. Non ce l’avevo con la Severino, che aveva un testo di partenza efficace. Ma gli emendamenti frutto di compromessi politici, visti con gli occhi di chi poi le leggi deve applicarle, erano chiaramente al di sotto delle aspettative. D’altra parte, non è che con la nuova legge la corruzione sia diminuita, anzi...».

Con quel che accade, sembra proprio di no. 
«E se il Procuratore generale della Cassazione, in apertura dell’anno giudiziario, ha voluto sottolineare che gran parte dei processi che vanno in prescrizione sono proprio quelli per corruzione, aveva le sue ragioni».

Non salva proprio nulla, della legge Severino? 
«Se fosse stata approvata nei termini in cui era stata proposta, non saremmo qui a parlarne. Invece, a colpi di emendamenti, si è finiti con l’indebolire figure di reati e strumenti che dovrebbero servire ai magistrati per indagare».

Può spiegar meglio un giudizio così negativo? 
«La legge ha una parte preventiva e una repressiva. La prima non è stata attuata, la seconda non ha funzionato. Si prevedeva di mettere in ogni amministrazione pubblica un responsabile anticorruzione, ma ciò non è avvenuto. E quanto alla concussione e alla corruzione, che sono i reati chiave che bisognava definire e punire con più efficacia, all’atto pratico è accaduto il contrario».

Ma com’è stata possibile una cosa del genere? 
«Glielo spiego, anche se il discorso diventa necessariamente più tecnico. Partiamo da come è cambiata la corruzione dai tempi di Tangentopoli. Il problema non sono più solo le tangenti, ma le consulenze, le intermediazioni, le cricche di amici degli amici che si associano con pezzi di partiti e concorrono insieme all’arricchimento personale e alla lotta politica».

Ma siamo sicuri che mescolando la corruzione con la lotta delle correnti interne ai partiti, alla fine non si finirà per metter sotto accusa la politica tout-court? 
«Conosco questa obiezione, e le rispondo che la buona politica, che non fa interessi di parte e non cerca di favorire gli amici per un proprio tornaconto, non ha nulla da temere a una più puntuale definizione dei meccanismi di corruzione».

Torniamo alle differenze tra passato e presente. 
«Con le vecchie figure di reato, come la precedente concussione, era possibile che la vittima, che pur senza ricevere evidenti minacce era indotta a pagare per poter lavorare, denunciasse i fatti».

E adesso invece com’è? 
«La stessa vittima oggi viene punita con una nuova figura di reato, la corruzione per induzione, con una pena fino a tre anni, il che significa che nessuno denuncia più. Sono solo due esempi. Per farne un altro, pensi che la corruzione tra privati, che all’estero è perseguita severamente, da noi è punibile soltanto a querela di parte, e il traffico di influenza, cioè l’avvalersi di illecite influenze e pressioni presso funzionari pubblici o politici, è punito come il millantato credito e non consente quindi né intercettazioni né arresti. Inoltre la mia intenzione era di unificare i reati di riciclaggio e autoriciclaggio, ipotizzando di inserirli nei delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio».

Presidente Grasso, Cantone sostiene anche che è difficile combattere la corruzione, se l’Autorità che è stato chiamato a guidare non ha i poteri per farlo. 
«Ha ragione. Per funzionare dovrebbe avere poteri ispettivi, di controllo, di sostituzione, di punto di riferimento e di raccolta delle informazioni, di coordinamento e impulso alle indagini».

Dice ancora Cantone che con i poteri attuali, a Milano, al massimo potrebbe farsi una gita. 
«Se non ha la possibilità di vedere carte, chiedere documenti, interfacciarsi con i magistrati e le forze di polizia che fanno le inchieste, effettivamente, non vedo cosa potrebbe andarci a fare, a Milano come altrove».

E se li immagina, Presidente Grasso, i suoi ex-colleghi magistrati quando il capo dell’Anticorruzione gli chiederà le carte? 
«Non è questo il punto. L’Autorità dovrebbe avere compiti soprattutto preventivi, e solo occasionalmente dovrebbe incrociare chi fa le indagini. Ma se l’obiettivo è chiaro e la collaborazione trasparente, non vedo perchè dovrebbero nascere conflitti».

Per concludere, Presidente: stavolta ce la farà il Parlamento ad approvare una buona legge? 
«Me lo auguro. Il tema dell’Anticorruzione è ormai il più delicato nel rapporto tra cittadini elettori e forze politiche. Con quel che è accaduto e continua ad accadere, l’opinione pubblica si aspetta una risposta seria, non un altro compromesso al ribasso. Stavolta non possiamo davvero permetterci di sbagliare».

La Stampa 17.5.14
Così nel mondo si combattono le tangenti
di Federico Varese


Lo scandalo delle mazzette all’Expo di Milano ha riacceso il dibattito sulla lotta alla corruzione nella pubblica amministrazione.

Come c’era da aspettarsi, le proposte sul tavolo sono caratterizzate dal vizio tutto italiano di credere che basti approvare l’ennesima legge per far scomparire il problema.
Purtroppo la bacchetta magica, saldamente nelle mani della fata dai capelli turchini, esiste solo nell’immaginazione di Carlo Collodi e nelle pagine del suo capolavoro, Pinocchio. Introdurre nuove e complicate fattispecie nel codice penale è la strategia usata dalla classe politica per autoassolversi e non intacca il sistema delle tangenti.
Quali sono dunque le ricette che hanno ridotto, anche se mai eliminato del tutto, la corruzione negli stati che occupano i primi posti della classifica di Transparency International?
Innanzi tutto la corruzione si può combattere partendo dal basso, dando gli strumenti ai cittadini per operare come «vedette civiche» al servizio del bene collettivo.
Gli Stati Uniti hanno una legislazione molto avanzata sul ruolo del whistleblower, quel dipendente pubblico che denuncia illegalità nell’amministrazione dove lavora. E’ cruciale promuovere questo tipo di denunce e difendere chi le fa dall’accusa di essere una spia oppure un invidioso. Questi cittadini, al contrario, svolgono un servizio pubblico, anche se i loro motivi iniziali possono essere poco nobili. Un altro modo di combattere la corruzione dal basso è promuovere la discussione del fenomeno. Siti come Ho pagato una tangente (https://www.ipaidabribe.com/) stanno avendo un grande successo. Tale piattaforma è stata introdotta dapprima in India e permette ai cittadini di raccontare, facendo o meno i nomi, i loro incontri quotidiani con la corruzione. In Italia, bisognerebbe imparare dalla lotta alla mafia e applicare alla corruzione il principio di AddioPizzo, l’associazione di imprenditori siciliani i quali si rifiutano di pagare il pizzo. Questi movimenti hanno bisogno di leader carismatici e tempo per crescere, ma possono avere un effetto rivoluzionario. Nel Regno Unito, ad esempio, esiste un’iniziativa simile, tra aziende nel settore delle costruzioni. Questi imprenditori hanno creato anche un forum anti-tangenti, che permette loro di scambiarsi informazioni preziose su funzionari corrotti (un’iniziativa simile esiste anche nel settore del trasporto navale).
Dare potere ai cittadini va di pari passo ad uno sforzo della politica. I Paesi più onesti hanno un numero di leggi e regolamenti molto inferiore del nostro. Ad esempio, nel 2003, il Parlamento italiano ha approvato 173 leggi, mentre il Regno Unito 50, la Spagna 82 e la Germania 85, nazioni che hanno livelli di corruzione inferiori al nostro. Vi è una relazione statisticamente significativa tra quantità di leggi e regolamenti, e corruzione. Un funzionario pubblico ha più potere discrezionale quando la legislazione è fuori controllo. La ricetta è semplificare le regole. Un’altra misura utile consiste nell’introdurre forme di competizione tra uffici pubblici: quando è possibile ottenere licenze, passaporti e altri titoli in uffici diversi dal proprio comune di residenza si riduce il potere discrezionale dei funzionari.
Vi è un’altra riforma della pubblica amministrazione che avrebbe un effetto rivoluzionario: introdurre un sistema di rotazione e di estrazione a sorte dei funzionari assegnati a certi settori. Il corruttore istituisce rapporti di lungo periodo con il corrotto. Non stupisce se anche nello scandalo dell’Expo incontriamo sempre gli stessi signori, già all’onore delle cronache negli Anni Novanta. Questi individui dispongono di un capitale di rapporti sociali costruito negli anni e di grande valore. E’ necessario rompere il sodalizio tra di loro e i funzionari statali introducendo degli elementi di incertezza, attraverso l’estrazione a sorte di coloro cui viene affidato un incarico pubblico. I nomi dei prescelti potrebbero benissimo essere pescati da una lista idonei, scelti sulla base delle loro competenze da una commissione indipendente.
Chi legge le cronache in questi giorni rischia di farsi prendere dallo sconforto. Al contrario, non bisogna cedere al pessimismo cosmico. L’Italia dispone di una magistratura indipendente, di una società civile attenta, e di molte persone oneste. Alcune riforme mirate potrebbero avere effetti rivoluzionari in poco tempo. Diversi Paesi sono passati da un equilibrio della mazzetta ad uno di relativa onestà in pochi anni. Per fare questo miracolo servono però due ingredienti: uno sforzo collettivo, e non credere alla bacchetta magica. Quella esiste solo nel mondo di Pinocchio, il burattino che diceva le bugie.

Corriere 17.5.14
L’ex tesoriere democratico Riccio
«Ho incontrato Greganti Ma io non c’entro»
intervista di Monica Guerzoni


ROMA — Francesco Riccio?
«Sono io».
L’ex tesoriere di Pds-Ds e che il 26 febbraio ha incontrato Primo Greganti, giusto?
«Confermo che l’incontro c’è stato. Ma adesso mi scusi, sto parlando con un’altra persona e la devo lasciare».
Avrà letto che il suo nome è finito nelle carte dell’inchiesta sull’Expo...
«Io non c’entro niente in tutta questa vicenda e fare un’intervista al telefono mi sembra fuori luogo».
Il «compagno G» è in carcere con accuse pesanti.
«E allora? Perché chiedete a me? Io l’ho visto solo perché voleva presentarmi questo, questo...»
Questo Paolo Fusaro, amministratore delegato della Olicar?
«Fusaro, sì».
Vi siete visti alle 15.30 a Roma dopo uno scambio di sms, all’ingresso del «Freccia Club».
«Confermo, ma io non so niente e non c’entro niente».
Non sa niente della «cupola»
di Greganti e Frigerio? È vero che brigavano per garantire alle coop rosse appalti in cambio di mazzette?
«Perché lo chiedete a me?».
Perché lei, che è stato tesoriere con D’Alema e Veltroni e presidente dell’Arca, editrice de «L’Unità», incontrava Greganti.
«Appalti? Mazzette? Non c’entro nulla io, nel modo più assoluto. Greganti non l’ho frequentato per tantissimi anni, ci siamo rivisti di recente qualche volta. Io sono consulente aziendale e lui mi disse che c’era
la possibilità di ottenere una consulenza, per questo ci siamo visti con Fusaro».
E vi siete accordati?
«La cosa non si è mai realizzata».
Che rapporti aveva Greganti con il Pd, in tempi recenti?
«Io non lo so cosa faceva Greganti, ma guardi che sono con una persona e la devo lasciare».
Quattro ore dopo, alle 18.20, Riccio (descritto dalle cronache come un «funzionario stile Frattocchie») risponde di nuovo al cellulare: «Sono in macchina, sto guidando e non posso parlare. Di che si tratta?».
Sempre di Greganti e dell’inchiesta Expo.
«Aspetti... Devo attaccare, ci sono i vigili».

il Fatto 17.5.14
I “nuovi” compagni del compagno Greganti
di Fabrizio d’Esposito


Francesco Riccio detto Ciccio, calabrese della Locride, quand’era tesoriere del Pds, introduceva il comizio finale del compagno segretario alla festa nazionale dell’Unità, come era d’uopo. Seguì poi Claudio Velardi, ex lothar dalemaniano di Palazzo Chigi, nella società Reti. Soci. E lobbisti. Ma i due da tre anni non lavorano più insieme. Riccio fa il consulente per conto proprio e tre mesi fa, a febbraio, come annotano i finanzieri, ha incontrato Primo Greganti. È l’unico contatto chiaro, per il momento, che emerge tra il compagno G e il suo antico mondo di riferimento, sia dalemiano, sia bersaniano. A più di una settimana dal suo secondo e clamoroso arresto, Greganti e le sue relazioni romane con il Pd rimangono il mistero più grande della nuova via crucis giudiziaria della sinistra.
Al centro di tutto, le sue visite al Senato, senza lasciare traccia all’ufficio passi. È come se, una volta entrato, il compagno G fosse stato inghiottito da un buco nero. Chi l’ha visto? Chi l’ha ricevuto? Il giallo Greganti a Palazzo Madama riecheggia, per certi versi, l’enigma della valigetta da un miliardo di lire che varcò Botteghe Oscure portata da Gardini e di cui non si è mai saputo il destinatario, cruccio storico dell’allora pm Antonio Di Pietro. Ancora una volta, il tentativo è quello di accreditare il compagno G come uno che sbaglia da solo e che millanta rapporti che non ha. Eppure le conferme sulle sue relazioni di partito, vent’anni dopo la stagione di Tangentopoli, non mancano. Al di là dei nomi citati nell’ordinanza di custodia cautelare, emergono nuovi dettagli forniti dall’ineffabile coppia Frigerio-Cattozzo.
I due, parlando un anno fa di appalti legati a Finmeccanica, ribadiscono lo schema delle coperture bipartisan per avere successo. Dice Cattozzo: “Ma perché tu non metti in campo tutto il tuo prestigio con Gianni Letta e il Presidente, e Primo dall’altra parte parla con D’Alema con chi cazzo vuole?”. Frigerio risponde: “Certo”. Giorno dopo giorno si ispessisce sempre più il filo che lega il compagno G al giro dalemiano, da cui forse non si è mai distaccato. Altro esempio di peso sono le pressioni, intercettate dagli investigatori, del tesoriere ligure del Pd sul governatore di quella regione, Claudio Burlando, dalemian-bersaniano. La catena di Greganti sembra invisibile ma è d’acciaio. In fondo anche i suoi rapporti con i corregionali Sergio Chiamparino e Piero Fassino appartengono a quegli ambienti. Che poi Chiamparino e Fassino sia siano convertiti al renzismo questo è un altro fatto. Anche Greganti ha sempre sperato in futuro riformista e largo del Partito democratico, alla maniera dell’ex sindaco di Firenze. Senza dimenticare, però, che il famigerato Cattozzo in un’altra intercettazione, già nota, fa riferimento a un sì di Bersani, riferito da Greganti, sulla conduzione della Sogin. Una banda di millantatori?
TUTTA QUESTA catena conduce ai mercoledì di Greganti a Roma. Lucio Barani, senatore socialista di Gal, il gruppo autonomista, ha dichiarato di avere visto il compagno G a Palazzo Madama insieme a “due o tre senatori del Pd e a un componente del governo”, forse un ministro, oppure un sottosegretario. Chi? Il ministro Martina, per esempio, che si occupa di Expo ha già detto di non avere mai visto Greganti. C’è da credergli, fino a prova contraria.
Ma resta l’imbarazzante silenzio di quel senatore o di quei senatori amici di Greganti. Perché non escono allo scoperto, invece di alimentare questa caccia all’uomo? Passare per amici di Greganti, oggi come vent’anni fa, è una sorta di marchio infame. Otto anni fa, in un libro-intervista sulla sua vita, il compagno G alla fine si congedò così: “Il compagno G non andrà in pensione. Tenderò ad occupare tutti gli spazi che mi saranno consentiti per sostenere le mie idee. Lasciami essere presuntuoso: il bisogno che sento di esprimerle è prima di tutto motivato dalla inadeguatezza e la superficialità dell’offerta politica oggi disponibile”. Se sostituite la parola “idee” con “appalti”, sembra una confessione, non una profezia.

il Fatto 17.5.14
Il libro
G. il dirigente caro solo ai suoi capi


È un libro scritto in terza persona quello che Nello Pacifico, manovale e giornalista, ha scritto sulla sua vita nella Torino operaia e comunista. In un estratto si parla anche del “Compagno G”
I comunisti erano giunti buoni ultimi nella gara delle cosiddette “antenne libere”. Pur con mezzi limitati l’emittente comunista torinese Videouno, giunta così tardi sul mercato, era riuscita ad imporsi. (...) Tutto liscio se gli argomenti trattati riguardavano la cronaca nera o quella giudiziaria, ma quando l’emittente “rossa” si affacciava su questioni di natura politica si avvertiva una certa diffidenza da parte delle alte e mediocri sfere. (...) Per chi conosceva le norme più elementari della vita di un giornale, si presentava imbarazzante il comportamento disinibito di Primo Greganti e di Enrico Buemi, paracadutati chissà da dove in quel collettivo. Quando Buemi sbatterà la porta per trasferirsi armi e bagagli al Psi, nessuno avrà a dolersi. In quanto a Greganti, nominato amministratore delegato, lui lo conosceva meglio di chiunque altro avendo lavorato insieme alle Ferriere, e Greganti aveva sempre tenuto la contabilità del giornale di fabbrica.
(...) Aveva ricevuto una lettera che lo invitava a un’assemblea dedicata all’esame della situazione finanziaria del Partito alla quale avrebbe partecipato “un compagno particolarmente competente in questa materia... Primo Greganti... ”. Con Ermanno Marchiaro, amministratore locale del Pci, avevano riso a lungo di quella convocazione che si imponeva all’insegna del millantato credito.
In seno all’emittente alcune sortite del povero Greganti denotavano come, del ruolo, possedesse soltanto il grado. Ricordava il giorno che gli aveva suggerito, qualora qualcuno fosse giunto in redazione per un’indagine sul lavoro nero e sommerso, di dire: “Sono venuto a Videouno per portare una roba...” dimostrando di non guardare nemmeno la “sua” televisione e di non leggere i giornali. La notizia dell’incarico a Videouno era stata pubblicata con tanto di foto e in video appariva tutti i giorni.
Con una lettera al segretario della Federazione, Piero Fassino, e per conoscenza a Greganti, aveva esternato alcuni dubbi sulle reali capacità operative e manageriali dell’ex amministratore dell’Acciaio. Fassino non si era degnato di rispondere, nemmeno con una di quelle lettere che facevano parte della liturgia corrente, e dovendo scegliere tra i due, malgrado la lettera non avesse toni ultimativi, aveva provveduto al suo licenziamento... in tronco. Come alla Fiat. (...) Nella televisione “rossa” la maggior parte lavorava in nero e gratis. Mentre Berlusconi, poco più che sconosciuto, stava trattando con Walter Veltroni l’acquisto di tutte le emittenti del Partito, i comunisti torinesi avevano accennato a una certa resistenza essendo Videouno di proprietà del Pci locale. Questione di tempo. Videouno finirà per essere ceduta.

il Fatto 17.4.14
A volte ritornano
L’eterno fantasma di Tangentopoli sui soliti noti dell’ex Pci
Una classe politica finita nella bufera di Mani Pulite da anni si è ben rinsaldata nelle istituzioni locali dopo aver passato alcuni anni nel mondo degli affari
di Ettore Boffano


Il pudore post-comunista protegge da sempre il “compagno G”. Soprattutto sotto la Mole, nella Torino un tempo regno dello scontro di classe con la Fiat e oggi guidata dagli ex Pci convertiti al “renzismo” e al “marchionnismo”: Piero Fassino e Sergio Chiamparino. Là dove la vita politico-giudiziaria dell’ex tuta blu di Mirafiori, diventato un “cassiere” occulto del Pci-Pds, era cominciata (e dove non ha mai smesso di tornare in scena, anche ai tempi del Pd). 
A dire le bugie, però, non è mai stato Primo. Lui, semmai, sta sempre zitto, come ha certificato lo spezzone di Tangentopoli che lo coinvolse: 90 giorni di “non so” in una cella di San Vittore. Un “compagno” vero, fedele nei secoli al suo mandato: dicono che anche in queste ore, di nuovo in galera per Expo 2015, il “compagno G” abbia concesso agli inquirenti milanesi solo innocue amenità e sostanziali silenzi. Una serietà militante imparata in quella federazione torinese della quale Ugo Pecchioli, il “ministro-ombra degli Interni” del Pci, aveva sempre continuato a interessarsi. Una serietà cementata con una ferrea gerarchia: i dirigenti del partito, poi gli amministratori pubblici e infine i funzionari più oscuri e più piccoli. Come Primo, appunto. Le non verità sul “compagno G” e sulle sue frequentazioni, dunque, sono altri a pronunciarle: soprattutto in certi ambienti di quel Pd che ora l’ha sospeso. Era già accaduto 21 anni fa, ma oggi la storia si ripete e, spesso, con gli stessi protagonisti. È il 1° marzo 1993, un lunedì, e il “partito” si chiama ormai Pds. Greganti si costituisce alla Procura di Milano che lo cerca da giorni, accusandolo di corruzione. Ad accompagnarlo, c’è l’avvocato Laura D’Amico, storico legale dei “compagni che sbagliano” del Pci subalpino e figlia di Vito, ex partigiano comunista, licenziato Fiat e poi presidente della pubblicitaria Rai, la Sipra. Tra i suoi clienti c’è Giancarlo Quagliotti, ex capogruppo comunale di Torino del Pci negli anni delle “giunte rosse” (aveva preso il posto di Giuliano Ferrara). Anche lui con una cultura politica da autodidatta cresciuto nelle sezioni. Il 3 marzo 1983 è travolto dallo “scandalo Zampini” che decapita il Comune e la Regione per una vicenda di proto-tangenti: a denunciare tutto è stato il sindaco Diego Novelli. In manette o sotto accusa finiscono il vicesindaco psi, assessori del Garofano, dirigenti dell’opposizione dc e anche i due capigruppo comunale e regionale del Pci. Molti di loro, Quagliotti compreso, saranno poi assolti. Negli ultimi giorni del febbraio 1993, l’ex capogruppo riceve un cronista nel suo ufficio di corso Vittorio Emanuele con vista sul Po, per un’intervista che vuole rievocare quelle vicende di 10 anni prima. Collabora con la Sitaf, la società che ha finito da poco di costruire l’autostrada del Frejus e che è guidata dal ras socialista calabrese Franco Froio (arrestato due volte, a Milano e poi a Genova, ma sempre scagionato), e lavora per Marcellino Gavio (in quel momento è latitante a Montecarlo, inseguito da Antonio Di Pietro) che - con il factotum Bruno Binasco (che finirà in galera) e la sua Itinera di Tortona (Alessandria) - domina il sistema autostradale del Nord-Ovest, è socio della Sitaf e non ha mai fatto mancare finanziamenti (legali e non) all’intero arco costituzionale. 
DA UNA SETTIMANA, la voce che Milano sta per arrestare il misterioso “compagno G” circola. “Quagliotti, lei sa chi è?”, è la domanda inevitabile, ma la risposta è secca: “Non ne so nulla”. Il lunedì successivo però, quando le agenzie hanno già battuto la notizia dell’arresto di Greganti, ex tesoriere del Pci subalpino, Quagliotti parlerà diversamente: “Non potevo dire nulla. L’ho accompagnato io dall’avvocato”. 
Oggi, 21 anni dopo, le cose non vanno molto diversamente, salvo qualche piccola sfumatura. Lunedì scorso, sentito da Repubblica, Quagliotti se la cava  dicendo di non vedere Primo “da mesi”. Con il Fatto Quotidiano, invece, è meno nebuloso: “Siamo amici”. Nel frattempo, molta acqua è passata sotto i ponti di Torino, anche per Quagliotti, nella città dove è diventato sindaco quel Fassino che, negli anni 80, aveva cominciato la sua parabola nazionale da segretario provinciale del Pci e dove oggi Chiamparino tenta di riconquistare la Regione. A lungo al bando nel Pci, Quagliotti è poi rientrato sulla scena - con tanto di scuse ufficiali - ai tempi dei Ds e adesso staziona negli uffici di Fassino (“È la sua eminenza grigiastra”, ironizza il sito locale Lospiffero). Nel frattempo, è stato a lungo dirigente per Gavio (il gruppo di Tortona non ha mai smesso di avere ottimi rapporti con gli ex pci di Torino e di Genova) ed è presidente di Musinet, la partecipata gestita dalla Sitaf e dal Gruppo Fata (al suo vertice c’è Ignazio Moncada, ex agente segreto e brasseur d’affaire legato a Giuliano Amato). 
Nel 1993, fu inquisito prima a Torino e poi condannato a Milano proprio assieme a Greganti: un finanziamento illecito da parte della Fiat di 260 milioni di lire, transitato in Svizzera su un conto (chiamato “Idea”) intestato a Quagliotti. Il “compagno G”, invece, continuava a inanellare condanne: l’ultima (5 mesi) per un miliardo di lire legato alla compravendita di un immobile romano del Pci-Pds. Greganti è fermato con quel denaro su un’auto. A Tortona, appunto, la città del Gruppo Gavio: con lui, sul banco degli imputati, finirà Binasco.    
Dopo, per il “compagno G” ci sarà solo un anonimato discreto e complice, inframmezzato dal rientro nel Pd e sino all’arresto della settimana scorsa. Quando, nella sua Torino, hanno cominciato a riemergere vicende e personaggi che, come in un puzzle, ritrovano all’improvviso contorni attuali. Gavio e Froio sono entrambi morti, dopo aver offerto ospitalità nelle loro aziende proprio agli ex pci travolti dagli scandali, e Binasco ha lasciato il gruppo di Tortona (prima, però, ha fatto in tempo a essere condannato con l’ultimo segretario del Pci torinese, Giorgio Ardito, per una mazzetta incassata da quest’ultimo nel 2010. E anche Ardito aveva lavorato per Froio e per la Sitaf). La società dell’autostrada del Frejus, invece, non ha mai abbandonato gli intrecci con la politica torinese. Così, nel cda di Musinet (il 36 per cento è dei Gavio), siede anche Gioacchino Cuntrò, ex psi, tesoriere del Pd subalpino, il cui nome compare accanto a quello di Greganti nelle intercettazioni dell’inchiesta sull’Expo. E ancora alla Sitaf, porta infine la Sitalfa, un’altra partecipata che è guidata da Salvatore Gallo, ex signore delle tessere del Psi (fu condannato in un processo sulla sanità negli Anni 90) e oggi ras del Pd: suo figlio Stefano è assessore nella giunta Fassino, mentre l’altro figlio Raffaele corre con Chiamparino per la conquista, il 25 maggio, della Regione Piemonte. Un mondo nel quale il “compagno G” era rientrato comunque a pieno titolo, come dimostra la foto scattata al Teatro Carignano per la convention elettorale di Chiamparino, il 29 marzo scorso: con, attorno a lui, molti dei suoi “compagni” di un tempo.

il Fatto 17.5.14
Guerra realtà-Renzi
“Nessuna manovra e più soldi per tutti”
Il premier nega le difficioltà: “Il Pil cala? la ripresa c’è”
Attacca la Cgil, benedice la precarietà e promette bonus a partite Iva e pensionati
Intanto crolla pure l’export
di Marco Palombi


La campagna elettorale, si sa, è attività che assorbe completamente l’animo del propagandista, il quale - a furia di ripetere i propri slogan - finisce senza colpa per scollarsi dalla realtà. Questo, ovviamente, capita anche all’impegnatissimo Matteo Renzi, il quale ritiene che la contrazione del Pil nel primo trimestre 2014 con una decrescita già acquisita dello 0,2% sia “poco significativa in termini di futuro”. Il premier ormai - oltre a vedere nemici e gufi dappertutto - guarda oltre, prevede: “Il mio non è un ottimismo stupido o vano, ma di chi vede 74 mila posti di lavoro in più negli ultimi mesi, un +18% dei mutui. Il mio è un ottimismo che fa i conti con la realtà. Sembra quasi che certi commentatori godano a dare un’immagine negativa dell’Italia”.
ENRICO ZANETTI, sottosegretario all’Economia, si butta invece sugli ordinativi: “È maggiore in questa fase questa componente piuttosto che quella della lavorazione. Non manca l’elemento di ripartenza, manca la sua trasposizione numerica nel Pil”. Cioè la ripresa c’è, ma non si vede. Zanetti, bontà sua, ha almeno la buona creanza di ammettere che “è evidente che se il trend continua a rimanere sotto le stime presenti nel Def i conti vanno rifatti”. Curioso che gli indicatori attraverso cui il governo sogna la ripresa economica siano gli stessi che citava Fabrizio Saccomanni ai suoi tempi coi risultati pratici che vediamo.
Il discorso pubblico di Renzi ormai procede parallelamente alla realtà: le due entità si guardano, ma non si toccano. “Escludo una manovra correttiva, assolutamente”, scandisce di prima mattina. D’altronde, un Pil che cresce per lui è una certezza, non una speranza. Lo ha già messo a bilancio: “Mi dispiace che non siamo riusciti a mettere nel decreto Irpef anche incapienti, partite Iva e pensionati. Riusciremo a farlo con la legge di stabilità per il 2015”.
Ovviamente questa fantasmagoria ha bisogno di nemici: ieri i preferiti sono stati, oltre ai gufi, variamente nominati, e agli avversari politici (“pagliacci”), la Rai e la Cgil. Della prima si sa, i tagli eccetera, della seconda pure, ma sul sindacato ha voluto affondare il coltello: “Abbiamo idee diverse, ma può essere un fatto incoraggiante per il Pd e per la Cgil. Se volevo fare il segretario della Cgil mi candidavo lì, anzi no perché nella Cgil non fanno le primarie. Comunque sia chiaro che, il 25 maggio, chi vota Pd non vota per la Cgil”. La risposta è stata abbastanza secca: “Avete sentito Renzi? Non votate Pd”, ha detto Nicola Nicolosi, della segreteria Cgil.
IL NOSTRO, comunque, non è tipo da perdersi d’animo e - oltre a intestarsi abbastanza inspiegabilmente l’accordo Electrolux (“è stato il nostro decreto a consentire la firma”) - ha anche indicato la via per uscire dalla crisi: “I dati del Pil indicano che paesi come la Spagna, che hanno fatto una riforma del lavoro che adesso stiamo facendo noi, sono avanti”. Ebbene la Spagna - che ha una disoccupazione sopra il 26%, il doppio della nostra - è cresciuta sì dello 0,4%, ma resta comunque oltre 7 punti di Pil sotto il picco del 2007 (l’Italia è a -9%) e soprattutto ha chiuso il 2013 con un rapporto deficit-Pil al 6,6%. Madrid ha fatto cioè quella politica espansiva che Renzi non vuole, non è in grado o non può fare.
NON BASTASSE, ieri l’Istat ha buttato di nuovo la sabbia dei numeri nell’ingranaggio perfettamente oliato del discorso elettorale renziano: le esportazioni calano per il terzo mese di fila (-0,8% a febbraio) soprattutto per il pessimo andamento delle vendite verso Svizzera, Russia e Paesi Opec (positivo, invece, il trend in Europa). Nonostante questo, la bilancia commerciale italiana resta in attivo per quasi 4 miliardi: un dato positivo, ma che certifica la profondità della crisi. Più che altro, infatti, dipende dal fatto che importiamo sempre meno per mancanza di reddito adatto alla bisogna. Certo, ora arrivano gli 80 euro, ma lo stesso governo ne prevede un effetto sui consumi quasi nullo. Questo sulla carta, a chiacchiere è l’Italia che cambia verso.

La Stampa 17.5.14
Stefano Fassina: «Così non va. Il Pil riparte solo se il pubblico torna a investire »
intervista di A. Pit.


«Così, non va». La ricetta di Stefano Fassina, è chiara: «Servono politiche anticicliche a sostegno della domanda e dei consumi». Unica strada, secondo l’ex vice ministro dell’Economia del Pd, «per uscire dal circolo vizioso della stagnazione, dell’aumento della disoccupazione e del debito pubblico». La cura? «A base di investimenti».
Intanto è arrivata la doccia fredda delle previsioni di crescita da zero virgola del Pil. Come se ne esce?
«Dati, va precisato, al di sotto delle aspettative per tutta l’Eurozona. Il messaggio, comunque, è chiaro: continuare con l’austerità e la svalutazione del lavoro comporta una sequenza di risultati deludenti».
Intravede manovre correttive all’orizzonte?
«Sarebbe autolesionismo allo stato puro. Non solo dico no a una manovra correttiva, ma chiedo con forza una manovra espansiva».
Ma con quali soldi?
«Innanzitutto, destinando le risorse che arriveranno dalla vendita delle quote di Poste e di Enav agli investimenti, in particolare quelli dei Comuni, e non ad una irrilevante riduzione del debito pubblico. Così come, in questa direzione, vanno utilizzati i margini di manovra che abbiamo sotto il 3% del rapporto deficit/Pil».
Magari anche ipotizzando ulteriori tagli al programma sugli F35?
«Non ho condiviso l’intervista rilasciata da Parisi a La Stampa. La commissione Difesa ha fatto un lavoro serio arrivando alla conclusione che possiamo dimezzare la spesa prevista per l’acquisto degli F35 e più in generale quella per la difesa senza compromettere gli obiettivi. Una posizione coerente con la quota di investimenti sul totale della spesa indicati dall’ex ministro Di Paola, che non è un figlio dei fiori».
In Europa qualcuno potrebbe non condividere le sue idee...
«Serve discontinuità nella politica macroeconomica, innanzitutto a Bruxelles dove lo status quo non è più sostenibile. Il governo italiano deve essere parte attiva di questo cambio di rotta. Se il Pse vincerà le europee e Martin Schulz sarà eletto presidente, cambierebbero i rapporti di forza e potrebbero crearsi le condizioni politiche per riuscirci».

Repubblica 17.5.14
Matteo Renzi
L’incubo di cadere nella palude e l’exit strategy del voto a ottobre
di Claudio Tito



C’È CHI la chiama la “rivoluzione d’ottobre”. Per ora è solo un’ipotesi. Un’opzione. O meglio: una via d’uscita.
UNA piccola scala d’emergenza per tirare fuori il collo dalla eventuale palude che rischia di allagare la politica e le istituzioni dopo le elezioni europee di domenica prossima. Una porta con una scritta ben chiara: elezioni anticipate. Appunto in autunno.
Ormai sono in tanti a parlarne. A considerarla la carta da giocare se tutto dovesse andare per il verso sbagliato. Nel centrosinistra e nel centrodestra. Nel governo e nel Partito democratico. Certo quel “se” è ancora molto grande. Eppure per molti, nel corso di questa campagna elettorale, sta diventando via via sempre più piccolo. Mentre crescono le probabilità di votare a ottobre «per dare una
svolta».
«Per quanto mi riguarda - ripete Matteo Renzi ad ogni occasione - le elezioni sono fissate per il 2018». Ma a Palazzo Chigi alcuni dei suoi collaboratori hanno iniziato a prendere in considerazione proprio la “rivoluzione d’ottobre”. Dopo l’inchiesta Expo, l’arresto di Scajola e il voto su Genovese, i calcoli sono diventati sempre più serrati. Illustrano i vantaggi e gli svantaggi di una soluzione di questo tipo. Vagliano le condizioni che a partire dal 26 maggio potrebbero modificare e sbilanciare l’attuale assetto. E il tutto si basa su questo interrogativo: una ipotetica avanzata del Movimento 5 Stelle è in grado di mettere in crisi l’attuale equilibrio? Dipende dalla quota che i grillini raggiungeranno e dal loro distacco rispetto al Pd e a Forza Italia.
Tra i democratici e forzisti infatti sta avanzando una sorta di “demone”. Una paura per certi aspetti incontrollata che i pentastellati si avvicinino a insidiare la soglia di successo del Pd e che il distacco da Berlusconi riduca Forza Italia definitivamente al ruolo di terzo partito. Ieri, nel Transatlantico di Montecitorio, era scattato l’allarme tra deputati di prima nomina e veterani raggiungendo i massimi livelli. Un turbinio di bigliettini passava di mano in mano con i dati degli ultimi sondaggi. E ogni volta tutti sgranavano gli occhi. Scuotevano la testa e se ne andavano. Se quei numeri venissero confermati - è il ragionamento che molti fanno nel governo e nelle Istituzioni - il primo effetto sarebbe il disconoscimento da parte del Cavaliere del cosiddetto “patto del Nazareno”. La vittima istantanea sarebbe dunque l’Italicum. L’ex premier non potrebbe più accettare una legge elettorale che prevede il ballottaggio tra i primi due partiti e quindi la sua ininfluenza. La riforma costituzionale - l’abolizione del Senato - salterebbe un minuto dopo. Senza contare che diventerebbe più complicato cambiare il sistema di voto e il quadro istituzionale senza o addirittura contro il M5S eventualmente irrobustito dalle urne europee. «Per quanto mi riguarda - dice proprio Berlusconi in queste ore - quell’impianto di riforme già non esiste più». Il leader forzista è già passato ad una sorta di “fase due”. Quella della «difesa a oltranza». Prova a ricucire con l’ex delfino Alfano nella speranza di poter unire i voti di tutti i “satelliti” del suo schieramento (in primo luogo la Lega e Fratelli d’Italia) e sommarli a quelli del Nuovo centrodestra. Per provare a dire dopo il 26 maggio che la sua coalizione è ancora competitiva. Ma lo stesso Cavaliere non nasconde il suo pessimismo: «Sarà inutile». Al punto che già non esclude con i suoi fedelissimi la strada della disperazione: «Un governo di unità nazionale».
Ma ci sarebbe anche un secondo effetto. Ed è quello che alcuni degli uomini che frequentano Palazzo Chigi stanno valutando con più attenzione. Far saltare le riforme significa far precipitare il governo nella «palude». Una delle «ragioni sociali» di questo esecutivo verrebbe di fatto meno. Come scrive l’”Economist” nel suo ultimo numero riferendosi a tutta l’Europa e alla carica del fronte populista e “no-euro”, «la disillusione degli elettori può provocare una nuova crisi».
Renzi più di una volta ha spiegato che sulle riforme «ci metteva la faccia». Paralizzare il percorso di modifica della Carta equivale allora ad elidere la sua “mission” fondamentale. «Ma se Forza Italia dovesse andare male è il suo ragionamento - ancora di più sarà costretta a blindare la legislatura». Ma a questo discorso viene spesso chiosato dai suoi collaboratori: «E se non fosse così?». Il suo incubo peggiore prenderebbe forma: l’impossibilità di agire e l’esposizione al ricatto di un governo insieme a Forza Italia. «Inaccettabile».
Ma c’è di più. In autunno, quando entrerà in gioco la legge di Stabilità, il governo dovrà - così prevedono i programmi - procedere con un’altra gigantesca opera di “Spending review”: circa 19 miliardi. Allora in tanti si domandano: è possibile incidere sulla spesa in maniera così pesante senza un mandato elettorale e con le urla dell’opposizione ingigantite dal megafono elettorale del 25 maggio? È possibile tenere il passo di 400 miliardi ogni anno di roll over nel debito pubblico (emissione di titoli di Stato) in queste condizioni? «Forse - è la soluzione che alcuni dei collaboratori di Renzi stanno prospettando - bisogna chiedere un parere agli elettori. Non ci possiamo assumere certe responsabilità da soli, lo devono fare gli italiani». Chiedere insomma un incarico pieno, suffragato dalle urne.
Eccola dunque la “exit strategy”. Ma si tratta comunque di un percorso pieno di incognite. Due delle quali gigantesche. La prima riguarda proprio la legge elettorale. Il rischio del voto a ottobre sarebbe quello di presentarsi agli italiani con il cosiddetto “Consultellum”, un sistema completamente proporzionale corretto solo dalle soglie di sbarramento. La possibilità che si riprecipiti nell’ingovernabilità sarebbe assai consistente. Non a caso sia nel Pd, sia in Forza Italia sta rispuntando l’idea di una sorta di «riforma transitoria»: il ritorno al Mattarellum.
La seconda incognita è il Quirinale. Napolitano ha più volte fatto sapere che non intende sciogliere le Camere senza una nuova legge elettorale. Piuttosto sarebbe pronto a dimettersi. Ma se tutto dovesse precipitare, le sue dimissioni risponderebbero anche ad un’altra esigenza: quella di far eleggere dall’attuale Parlamento il nuovo capo dello Stato. Quello che gli ha rinnovato il mandato e che offre le maggiori garanzie dal punto di vista della “successione democratica”.
Tutto però, prima di ogni cosa, dovrà essere misurato dal dato reale dei risultati elettorali di domenica prossima e non dalla emotività dei sondaggi. «Per quanto mi riguarda io voglio andare avanti fino al 2018», ripete ad ogni piè sospinto il presidente del consiglio. Ma molti a questo punto vogliono capire se le elezioni di domenica prossima saranno davvero un viatico per la fine della legislatura.

il Fatto 17.5.14
L’economista Stephen D. King
“Scordatevi la crescita, non tornerà”
di Stefano Feltri


E se la crescita non tornasse più? In fondo non c'è scritto da nessuna parte che la ripresa è garantita, la stagnazione è una possibilità. Il dato dell'Istat sul Pil nel primo trimestre italiano, con il sorprendente calo di -0,1 dopo lo striminzito segno positivo di fine 2013, offre nuovi spunti ai pessimisti. Stephen D. King non è un teorico della decrescita, è il capo della ricerca economica di una delle più grandi banche del mondo, Hsbc, e sostiene che dobbiamo rassegnarci alla “fine dell'età dell'abbondanza”, questo il sottotitolo del suo libro appena pubblicato da Fazi editore, “Quando i soldi finiscono”. Come il suo omonimo scrittore horror, King tende a evocare incubi.
King, che succede, la crescita è sparita?
Anche prima della crisi finanziaria i tassi di crescita di gran parte delle economie occidentali erano deludenti rispetto al passato. Niente suggerisce che il mondo industrializzato possa crescere molto nei prossimi anni.
Con quali conseguenze?
Nel mondo occidentale ci siamo fatti molte promesse basate sui tassi di crescita elevati del passato: pensioni, stato sociale , istruzione. La possibilità di continuare con larghi aumenti del debito in percentuale del Pil è ora limitata. Quindi quello che ci siamo promessi è molto più di quanto l'economia può mantenere. La gente lo capisce e diventa più prudente: sale il tasso di risparmio e diminuisce la propensione al rischio imprenditoriale. E questo contribuisce a ridurre il tasso di crescita in prospettiva.
È passato un anno da quando il suo libro è uscito in inglese. Nessun miglioramento?
Un anno è un periodo breve, io parlo di tendenze di fondo. Ma ci sono alcune parti del mondo che hanno fatto meglio che in passato, anche la Gran Bretagna sta crescendo più di quanto ci aspettavamo un anno fa. Ma la crescita inglese al momento è basata sull'andamento dei mercati, sui bassi tassi di interesse e un aumento della leva finanziaria, condizioni simili a quelle che abbiamo visto in Spagna prima dell'esplosione della crisi. Negli Stati Uniti le stime su Pil e occupazione sono sempre sbagliate per eccesso. La zona euro è passata da una fase di crisi acuta a una frase cronica, come dimostra il tasso di inflazione insolitamente basso che evoca paralleli con il Giappone.
La crescita è sempre stata l'alimento della democrazia. Che succede senza crescita?
Il rischio è che il disagio porti a un aumento del consenso per i movimenti populisti. Lo stiamo vedendo con Alba Dorata in Grecia, con le spinte separatiste come in Catalogna o in Scozia. Le persone cercano una spiegazione per l'assenza di crescita: in Inghilterra, la trovano nello Ukip di Nigel Farage che indica gli immigrati come bersaglio.
Siamo tutti appesi a Mario Draghi: a giugno la Bce dovrebbe avviare l'acquisto diretto di titoli dalle banche, il famoso quantitative easing all'americana invocato da anni. Basterà a far partire la ripresa?
Nel 2009 negli Usa è servito a evitare che la crisi diventasse come quella del 1929. Ma gli argomenti teorici a sostegno del quantitative easing sono cambiati, siamo passati dal “serve per evitare il disastro” a “ci serve per tornare al mondo che conoscevamo prima della crisi”. Ma il problema è che negli Usa, in Uk e in Giappone non c'è alcuna evidenza che sia possibile tornare a quei tassi di crescita. E il ricorso al QE aumenta le distorsioni nel mercato finanziario.
In che modo?
Sale il valore delle azioni e delle obbligazioni private molto al di sopra di quanto sarebbe coerente con i fondamentali dell'economia. E questo ha un enorme impatto nella distribuzione di ricchezza, rendendo i ricchi sempre più ricchi mentre chi vive di salari sperimenta come unica conseguenza (negativa) l'aumento dei prezzi per i prodotti d'importazione.
Se lei fosse Mario Draghi cosa farebbe?
Spiegherei che la politica monetaria ha i suoi limiti e non può risolvere da sola i problemi cronici della zona euro. Servono altre cose, la politica conta più della Banca centrale: serve una Unione bancaria con le risorse finanziarie per gestire davvero le crisi, e una qualche forma di unione fiscale, che però richiede un collante politico molto più forte di quello oggi presente in Europa.
Le banche sono parte del problema della crescita o possono essere la soluzione, erogando più credito?
I politici vogliono banche più solide per evitare un'altra crisi finanziaria. Ma vogliono che prestino di più all'economia per aiutare la ripresa. Equilibrio difficile. Il problema sono gli effetti delle regole che dovrebbero rendere le banche più sicure: le spingono a mettere le risorse su investimenti a basso rischio, sono di fatto incentivate a prestare soldi ai governi. Questo spiega i tassi di interesse sui debiti pubblici sorprendentemente bassi. Ma così si riducono i fondi disponibili per imprese e famiglie.

La Stampa 17.5.14
Il Bilderberg 2014 di nuovo segreto, l'Ue e la misteriosa figura di Jozef Retinger, ideatore del club.
di Maria Grazia Bruzzone

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Repubblica 17.5.14
Renzi contro la Camusso “Non fate politica o affari, chi vota Pd non vota Cgil”


IL SILURO arriva di buon mattino, prima delle 9, dagli studi di Radio 24. «Se un Presidente del Consiglio non è d’accordo con la Cgil non è uno scandalo. Mi pare che sia un elemento incoraggiante. Noi non abbiamo paura di dire che il Pd non è il sindacato e chi vota il Pd il 25 maggio non vota il sindacato». Così dice Matteo Renzi dai microfoni dell’emittente di Confindustria. E per evitare equivoci aggiunge: «Quando il sindacato fa il suo lavoro, come nel caso della trattativa Electrolux, io sono contento. Il problema è quando vuole fare politica o peggio ancora quando si occupa di formazione, di quei business... ». Frase lasciata a metà. Dichiarazioni accolte dal gelo di Cgil ma anche di Cisl e Uil che per tutta la giornata hanno preferito tacere. In particolare il bersaglio del premier è proprio l’organizzazione più a sinistra, quella di corso d’Italia: «Se volevo fare il segretario della Cgil facevo le primarie lì. Ah, no: lì non si possono fare». Provocazione bella e buona all’indomani di un congresso che ha coinvolto milioni di iscritti per rinnovare i gruppi dirigenti. Ma subito dopo aver concluso la polemica con l’organizzazione di Camusso, il Renzi mattutino accoglie una delle richieste che i sindacati avevano avanzato subito dopo l’annuncio del taglio dell’Irpef: «Mi spiace di non averlo potuto fare subito ma a partire dalla legge di stabilità del 2015 ci sarà il taglio delle tasse anche per partite Iva, incapienti e pensionati». Poi l’attacco agli avversari politici: «Ho sentito Berlusconi, Grillo e Piero Pelù dire che 80 euro sono niente. Forse sarà così per chi guadagna molti soldi. Per me sono una misura di giustizia sociale». Come trovare i soldi per i nuovi tagli all’Irpef? «Escludo una manovra correttiva».

dall’Unità di oggi:
Renzi, polemica con la Cgil: «Contento quando il sindacato fa il suo mestiere, il problema è quando fa politica o peggio ancora business». E il Pd, aggiunge, «non è il sindacato. E chi vota Pd il 25 maggio, non vota per la Cgil».
«La Rai è dei cittadini, noi, a nome del Pd, dico che non vogliamo metterci i nostri, come è accaduto in passato, vogliamo prendere la Rai, eliminare gli sprechi e restituirla ai cittadini».
L’Usigrai ribatte: «Il presidente del Consiglio dice che la Rai ha “numeri stravaganti”. A noi non piace fare sterili polemiche, quindi ci limitiamo a fornire alcuni dati. Poi saranno i cittadini a valutare. La Rai ha 13mila dipendenti. La Bbc 21mila. Il servizio pubblico francese 14mila. Quello tedesco 24mila. Eppure la Rai ha il più alto numero di ore di programmazione prodotte internamente».

Repubblica 17.5.14
Bersaniani e sindacato: ora usa gli slogan, dopo tratterà
di Paolo Griseri


CHE si fosse rotta era evidente da tempo. La stessa metafora della cinghia di trasmissione, quella che collega l’ingranaggio del più grande partito della sinistra con la ruota dentata del più grande sindacato della sinistra, è un pezzo di archeologia industriale. Risale all’epoca in cui non c’era l’elettricità, le fabbriche funzionavano con i mulini e le cinghie collegavano i macchinari a un grande albero di trasmissione. In genere gli operai finivano impigliati nella cinghia e rischiavano la vita. Roba da ex voto del primo Novecento.
La novità di ieri non è che Pd e Cgil viaggino ciascuno per contro proprio senza alcuna cinghia a renderne uniformi le scelte. Ma che a una settimana dal voto il leader del più grande partito della sinistra ritenga utile, per aumentare i consensi, prendere le distanze dalla Cgil: «Chi vota Pd non vota Cgil». «E’ una strategia studiata a tavolino dicono al Nazareno - fin dall’inizio Matteo aveva promesso che sarebbe andato a cercare i voti dei delusi di Berlusconi». E l’elettorato in fuga dall’ex Cavaliere non ha perso le antiche abitudini: prendersela con il sindacato e con la Cgil in particolare era uno sport nazionale quando Berlusconi era premier e Sacconi era il suo ministro del Lavoro. Perché Renzi può permettersi tanta spregiudicatezza? Non poteva farlo Bersani, tradizione emiliana, radici nel mondo dell’industria e della fabbrica. Tantomeno poteva il predecessore, Guglielmo Epifani, che della Cgil era stato a lungo segretario nazionale. Renzi arriva da un altro mondo. E, fanno ancora osservare nel suo entourage, «sa che non ci sono molti nemici a sinistra». In un’altra fase storica la frase di ieri avrebbe suscitato il putiferio. Invece ha prodotto solo l’ironia di Chiara Geloni, area Bersani, che su twitter domanda: «Ma se uno è della Cgil, può votare Pd o, tipo, dà fastidio?».
Non dà fastidio perché è esattamente ciò che farà la gran parte dei 6 milioni di iscritti al sindacato che fu di Di Vittorio. La forza di attrazione della Lista Tsipras non pare, la momento, tale da costituire una minaccia per il voto del Pd. In corso d’Italia, ieri, si minimizzava: «Renzi ha detto una cosa ovvia. Alle elezioni si votano i partiti, non i sindacati. E quando il premier avrà bisogno di riformare il pubblico impiego verrà a sedersi di fronte a noi. Un conto sono le sparate elettorali, un altro la dura realtà dei fatti». Se fosse una strategia, fingere di litigare per allargare i consensi elettorali, sarebbe molto raffinata. Ma non è così. «Per Renzi - sussurrano i bersaniani del Nazareno - il rapporto con il sindacato è spesso stato ostico. Non ce l’ha nel dna. La sua cultura politica è quella del partito dei sindaci, il rutellismo originario». Quel movimento che il dottor Sottile Amato definì con una dose notevole di snobismo «il partito delle cento padelle». In fondo alla concezione del partito dei sindaci c’era l’idea che il sindacato finisce solo per tutelare i lavoratori garantiti e non i precari ed è dunque un ostacolo al cambiamento. «Idea diffusa ma assai errata», si controbatteva ieri in Cgil. «La nostra categoria di lavoratori attivi più numerosa è il commercio. L’età media dei delegati è di 33 anni. E nell’agricoltura abbiamo sindacalizzato i braccianti e imposto la legge sul caporalato, altro che garantiti. Vogliamo dirla tutta?
Mentre la politica aboliva il falso in bilancio tutti i nostri iscritti, precari e garantiti, pagavano le tasse fino all’ultimo spicciolo». Eppure dei 6 milioni di aderenti alla Cgil, metà sono pensionati..: «E’ una colpa questa? Lo si dica. Se abbiamo una colpa è quella di essere lo specchio dell’Italia: un pensionato per ogni lavoratore attivo».
A parlare sono gli autorevoli collaboratori della segreteria. I vertici nazionali tacciono perché non può accadere che il numero uno della Cgil attacchi il leader del Pd alla vigilia del voto. A rendere più difficile il rapporto tra Renzi e l’organizzazione di Camusso ci sono state anche vicende recenti. Gli endorsement cgiellini a favore di Bersani alle primarie del centrosinistra dell’autunno 2012 furono tanto espliciti quanto ruvidi nei confronti di Renzi: «Bersani - si leggeva in un documento firmato da 16 dirigenti di corso d’Italia - è l’unica speranza in campo» mentre gli altri nomi «favorirebbero la disgregazione e l’implosione del sistema ». Che Renzi voglia oggi prendersi la rivincita? L’ora della verità arriverà tra poco meno di un mese, il 13 giugno, un venerdì. Quel giorno al Consiglio dei ministri arriverà la riforma della Pubblica amministrazione. «Quel giorno - dicono in Cgil - si capirà se Renzi vuole andare avanti da solo, in una riedizione di sinistra del noto schema del leader che stabilisce un rapporto diretto con il popolo, o se invece preferisce discutere con i rappresentanti dei lavoratori. Noi attendiamo fiduciosi».

La Stampa 17.5.14
Manager d’oro, continua la pioggia delle super-buonuscite
A Pansa (Finmeccanica) un assegno di 5,4 milioni
di Paolo Baroni

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il Fatto 17.5.14
Ogni giorno ha la sua pena
Dopo Genovese il Pd sbanda e va sotto alla Camera
In aula niente numero legale dul Dl casa
Governo costretto alla fiducia
di Luca De Carolis

Nervoso, quasi frastornato. Tanto da incartarsi su se stesso alla Camera, con il numero legale sfuggito tre volte sul “decreto legge casa” e da essere costretto a ricorrere al voto di fiducia. Il Pd del dopo-Genovese ha mal di pancia da giorni neri e la testa altrove. Un partito lasciato indietro da Matteo Renzi che corre a perdifiato per stare davanti a Grillo. Tanti tra i Democratici non volevano il sì all’arresto del deputato di Messina. Un malessere che può aver pesato sull’autogol di ieri sul decreto casa, da approvare entro il 27 maggio, pena la decadenza.
Un testo che aumenta le risorse per l’edilizia agevolata e ridisegna tutto il settore. Contestato da M5S, che sottolinea i “25 milioni infilati nel decreto per sottrarli ai precari e darli all’Expo”. Di fronte al muro dell’opposizione, con 200 emendamenti e altri 80 iscritti a parlare (in gran parte di Cinque Stelle), ieri pomeriggio la maggioranza ha provato a forzare. La proposta è arrivata proprio dal Pd: interrompere la discussione generale, di fatto una tagliola al dibattito, “per fermare l’ostruzionismo dell’opposizione” (il Dem Ettore Rosato).
MA LA VOGLIA di accelerare di Democratici e alleati ha cozzato contro i numeri. Per tre volte di fila in aula è mancato il numero legale. Non sono bastate le affannose telefonate dei capigruppo, per richiamare deputati in campagna elettorale o semplicemente rientrati a casa per il fine settimana. Inutili, come l’arrivo in tutta fretta alla Camera dei ministri Orlando e Boschi, o la trattativa last minute con Sel. La scaramuccia a Montecitorio l’hanno vinta M5S e i vendoliani, usciti dall’aula per affondare definitivamente la maggioranza. Alla fine c’è voluto l’ennesimo ricorso alla fiducia del governo. Verrà votata lunedì prossimo, mentre l’ultimo sì sul dl casa sarà martedì. Non c’era altra via per il governo guidato da Renzi. Ma tra i Democratici affiorano i nervi scoperti. Dario Ginefra: “Molti di noi avevano iniziative sul territorio, a tutti è costato non parteciparvi. I colleghi che sono rientrati a casa infischiandosene hanno creato un grave danno all’immagine del Pd”. Un problema di organizzazione, certo. Ma c’è anche chi parla di effetto Genovese sulle assenze . Perché il sì all’arresto ha seminato scontenti. Il lettiano Francesco Boccia spara durante Agorà: “Sul caso Genovese c’è stata una deriva giustizialista da campagna elettorale, la discussione sulla parte giudiziaria è durata un’ora e 35 minuti”. È la tesi di diversi, sparsi tra i Popolari (Fioroni è tra i sei che hanno votato contro l’arresto), dalemiani e bersaniani. Un dalemiano di lungo corso: “Il caso Genovese andava risolto prima, molti hanno vissuto il voto segreto come una forzatura”. Il bersaniano Miguel Gotor: “Renzi non aveva scelta, se ci fosse stato il voto segreto M5S e Forza Italia ne avrebbero approfittato, votando contro per poi dare la colpa al Pd. Certo, vedere un grillino che faceva il gesto delle manette in Aula mi ha fatto senso”. Restano le scorie. Innanzitutto in Sicilia, dove l’Ncd punta a intascare i 20mila voti di Genovese . Il siciliano Fausto Ra-citi: “Forse proveranno a mettere le mani sui consensi Pd, ma non vedo assalti. E poi i voti non si spostano a pacchetti”. Lei che ne pensa della gestione del caso Genovese? “Preferisco non commentare”.
Il cognato del parlamentare messinese, il deputato regionale Franco Rinaldi, ringhia: “Hanno sacrificato un uomo per ragioni elettorali”. È la tesi anche di Vladimiro Crisafulli, signore delle preferenze ad Enna: “Il voto su Genovese è la morte della politica, lui ha pagato gli oltranzismi di M5S e del Pd: le carte giudiziarie secondo me non le ha lette nessuno”. I voti di Genovese a chi andranno? “Io non lo so, e se qualcuno le dice che lo sa, le racconta una fesseria”. Renzi è un giustizialista? “No, diciamo che ha gestito la vicenda in modo non opportuno”.

l’Unità 17.5.14
Su Genovese il Pd ha sbagliato
di Giuseppe Provenzano


Siamo in campagna elettorale. Ed è impopolare, sconveniente tornare sulla vicenda dell’autorizzazione all’arresto di Francantonio Genovese. Del resto, «non poteva che andare così»… Solo che le cose possono sempre andare diversamente. Serviranno alcune premesse - anche di carattere personale, ahimé - per arginare gli strali di chi per malafede o stoltezza confonde la bilancia della giustizia con le manette. Dalla fondazione del Pd in Sicilia, a cui ho partecipato con qualche responsabilità, ho ritenuto Genovese una figura politicamente da avversare.
Non serviva il pronunciamento di un giudice - che nel merito ancora non c’è, sarà bene ricordarlo- se non per la richiesta di autorizzazione alla custodia cautelare in carcere (misura spesso abusata, com’è noto, nel nostro Paese: che funge ormai da processo mediatico sommario invece di quello giusto che, specialmente per reati come la corruzione, finisce generalmente in prescrizione). Bastava - cioè, purtroppo non è bastato - il giudizio politico su un uomo che per cultura e costume, per modalità di raccolta e mantenimento del consenso, conflitti di interesse ed esercizio della funzione dirigente ed elettiva, era quanto di più lontano da come molti immaginavano e immaginano il Pd. Non è solo una valutazione etico-politica, attenzione. È che figure del genere, specie al Sud ma non solo, forti di un consenso personale da far valere all’interno del partito, recano un danno maggiore sul piano del consenso generale, del cosiddetto voto di opinione.
Avessimo discusso veramente di cosa dovrebbe essere il Pd (e l’Italia) e di chi dovrebbe rappresentarlo, avremmo magari scoperto che uomini politici come Genovese forse sono «estranei» alle sue ispirazioni, o almeno incompatibili con ruoli di leadership e candidature in Parlamento. Ricordo un illustrissimo esponente del Pd nazionale, per decenni campione indiscusso di intransigente legalità, spiegare appassionatamente a noi riluttanti «fondatori» le ragioni per cui in Sicilia Francantonio Genovese sarebbe stata la guida giusta.
Negli anni, e sette non sono pochi, tutti hanno potuto farsi un’idea. C’era chi continuava ad avversare una concezione della politica à la Genovese e chi - uomini di tutte le correnti, persino ora con importanti incarichi - con lui faceva cordata interna o considerava il suo consenso imprescindibile in ogni passaggio politico. È dal tempo degli scandali della formazione professionale che si sarebbe dovuta aprire una riflessione forse seria sul partito e su come è possibile che suoi pezzi siano coinvolti in sistemi criminogeni come quello. Invece, niente. E ora siamo al «chi sbaglia, paga» e «la responsabilità penale è personale». Solo che questo non è politica, è ovvietà, talvolta ipocrita e meschina. Prima non ci dovrebbe essere la politica? Bastava, ma soprattutto serviva, se non un giudizio politico, almeno farsi un giro a Messina, prima di lasciar partecipare Genovese alle «parlamentarie» e poi metterlo in lista (per l’esclusione di altri sono valse ragioni di opportunità). Il Pd gli consentì allora una prova di forza spudorata (ventimila voti alle primarie), abbastanza inutile se si pensa che negli stessi mesi, se non per le stesse capovolte ragioni, maturava il disastro del partito nel voto amministrativo in città.
La questione morale era una grande questione politica, molto prima della richiesta di autorizzazione a procedere. Finite le premesse (con lo spazio eccessivo che pure serve a prendere le contromisure ai tempi che corrono), mi pare che quanto accaduto alla Camera resti un grave vulnus democratico. E non per il fatto che si è votato a favore dell’autorizzazione, ma per le modalità con cui si è arrivati a quel voto, per la tempistica scelta, il comando dall’alto a mezzo stampa e il voto palese rivendicato per la pressione e lo sciacallaggio del M5S.
Probabilmente i parlamentari non potevano fare diversamente, non vi era traccia di «fumus persecutionis ». Però noi questo non possiamo saperlo, perché tra le miserabili risultanze del dibattito non vi è stata traccia di una discussione libera e accurata sulla questione. E davvero qualcuno, sotto elezioni, col clima che monta da Milano in giù, ne avrebbe potuto discutere serenamente?
Il Parlamento dovrebbe cambiare le leggi (specie se non funzionano visto che i livelli di corruzione nel nostro Paese sono tanto alti), «non di farle applicare». È un altro mestiere, forse un po’ più difficile della caccia al ladro. In un’aula parlamentare la traduzione de «la legge uguale per tutti» non può essere «in galera oggi stesso», e «i mettiamo la faccia». Il clima, forse appena un po’ mitigato, resta quello inferocito di sempre. Certo, serviva una mossa per scansarsi dagli schizzi di fango. La mossa c’è stata, ma le regole del gioco restano quelle fissate da altri. Della libertà di un uomo, qualunque uomo esso sia, si fa carne da campagna elettorale. Solo che questo può ancora scandalizzare qualche democratico, lo stesso che potrebbe rabbrividire sapendo che l’esito del proprio voto palese è rappresentato dal ghigno indecente di un deputato grillino che fa il gesto delle manette. Ma ora basta, c’è «la campagna elettorale. Bisogna arginare l’onda populistica e antipolitica. Sì, forza. A patto di non scoprire, con un certo raccapriccio, che nell’onda ci stiamo già nuotando, persino troppo bene.

Corriere 17.5.14
Il cognato (Pd) di Genovese: il partito l’ha sacrificato
di Carlo Macrì


MESSINA — L’arresto del deputato del Pd Francantonio Genovese, dopo il sì della Camera, non tormenta Messina, città dove il sistema politico-clientelare s’identificava, sino a qualche tempo fa, nel democrat riconosciuto come l’uomo più forte del Pd in Sicilia. Intanto chi grida vendetta è Franco Rinaldi, deputato regionale del Pd, cognato di Genovese. «Quello che hanno fatto a mio cognato la ritengo una schifosissima scelta elettorale — dice il capo del collegio dei Questori all’Assemblea regionale siciliana —. Hanno sacrificato un uomo per fini elettorali e il Pd lo ha immolato pur di mantenere la castità». E Francesco Boccia, deputato del Pd, parla di «deriva giustizialista da campagna elettorale». Di «farsa» ragiona l’avvocato Nino Favazza, legale di Genovese: «Hanno lasciato la politica in mano ai 5 Stelle; non dovranno stupirsi dell’emorragia di consensi». E adesso si vedrà che strada prenderanno i 20 mila voti che «mister Magoo» riusciva a incassare facendo recapitare — si dice da queste parti — pacchi di pasta casa per casa, come ai tempi della vecchia Dc, quella di Gullotta, zio del Nostro, cui lasciò in eredità non solo voti, ma anche potere economico. «Non ci saranno dispersioni di voti e non sarà una débâcle», spiega Francesco Ridolfo, segretario del Pd messinese, che ieri ha riunito i delegati piddini della provincia di Messina per ragionare su un’eventuale perdita di consensi che potrebbe vitalizzare il Nuovo centrodestra o stabilizzare il primato dei 5 Stelle. Oggi, intanto, Francantonio Genovese sarà interrogato dal gip sullo scandalo dei «corsi d’oro». Nella sua prima notte in cella, al primo piano del carcere di Gazzi, il deputato del Pd ha «divorato» già uno dei quattro libri che dovranno fargli compagnia nella solitudine del momento.

Corriere 17.5.14
La Sinistra alle prese con tutti i suoi limiti
Ogni elezione fa storia a sé. Come andranno le prossime Europee? Una riflessione
di Antonio Polito

qui

Corriere 17.5.14
Per il governo sfida scivolosa con i 5 Stelle
Il presidente del Consiglio percepisce la pericolosità di quanto sta avvenendo
di Massimo Franco


C’è un sentore di passato, nel miscuglio malsano di politica e giustizia che accompagna le elezioni europee di fine maggio; e anche nel clima strumentale e un po’ forcaiolo col quale vengono «lette» e usate le inchieste della magistratura. L’unica variante, rispetto ai decenni passati, sono i contrasti emersi dentro la Procura di Milano: anche quelli sottolineati o minimizzati in modo sospetto. Tra il ciclone sull’Expo milanese, Silvio Berlusconi ai servizi sociali, l’arresto dell’ex senatore Marcello Dell’Utri e quello del deputato Pd Francantonio Genovese dopo il voto della Camera di giovedì, il panorama è inquietante.
Dilata l’immagine non di una classe politica ma di un sistema in crisi. E regala visibilità e argomenti da propaganda facile e demagogica a un Movimento 5 Stelle, soprattutto, che fa della delegittimazione altrui la stella polare della propria strategia. Il Pd cerca di non essere messo sulla difensiva, e la decisione di votare per l’arresto di Genovese risponde all’esigenza di Matteo Renzi di non subire imboscate parlamentari da parte dei grillini. Il presidente del Consiglio percepisce la pericolosità di quanto sta avvenendo.
Sull’Expo, ammette candidamente che gli è stato suggerito di starne lontano e di non metterci la faccia per non perdere voti. Eppure ha deciso di esporsi proprio mentre Grillo chiede nel suo stile la chiusura di un’iniziativa strategica per l’Italia. Il bipolarismo tra governo e grillismo si sta trasferendo sul piano della giustizia. E la possibilità di contrastare il M5S su quel piano è difficile, perché il movimento alza in continuazione il tiro. Può dire di tutto perché non ha responsabilità di governo, né alleanze da salvaguardare. E si comporta come la forza che mira a «rottamare» le istituzioni con una virulenza e toni beceri che fanno impallidire quelli del Renzi della prima ora.
«Noi riempiamo le piazze, loro le carceri», rivendicano in modo becero gli esponenti del M5S, in polemica col Pd. Il premier replica presentando un’Italia «più forte di questi buffoni e pagliacci che cercano di mandarla in rissa». Purtroppo, però, la rissa è già in corso. E minaccia di diventare la colonna sonora di questi ultimi dieci giorni di campagna elettorale; e forse anche del dopo 25 maggio, se davvero lo scontento popolare gonfierà le percentuali di Grillo. «Capisco chi vota Grillo: sono persone disperate», gli offre una sponda Berlusconi, senza volerlo.
La miscela di corruzione, inchieste giudiziarie e crisi economica complica qualunque discorso pacato; e probabilmente tende ad allontanare dalle urne spezzoni consistenti di elettorato. I timori di una manovra correttiva, sebbene smentita da Palazzo Chigi, sono alimentati dallo stillicidio di dati negativi sul Pil e l’occupazione. La paura di ritrovarsi in una situazione fuori controllo è tale da suggerire il dubbio che una strategia estera punti a rendere l’Italia instabile. Può darsi. Ma la classe politica, e non solo, sta dando una grossa, sciagurata mano alla presunta congiura.

Corriere 17.5.14
Il cittadino sospetto e il cittadino perfetto I pericoli del nuovo pauperismo
di Michele Ainis


Ogni stagione della storia genera uno spiritello che le soffia nell’orecchio. Si chiama Zeitgeist, lo spirito dei tempi. Ma nel nostro tempo è una creatura secca e allampanata come uno spaventapasseri, come la dottrina che propaga a destra e a manca: il pauperismo. Significa che la povertà non è più una sciagura, bensì un modello, un esempio, un ideale. Se negli anni Ottanta Deng Xiaoping cambiò la Cina con il messaggio opposto (Arricchitevi!),se negli anni Novanta in Italia Berlusconi celebrò le sue fortune promettendo a tutti la fortuna, ora uno stigma sociale perseguita chiunque abbia un ruolo pubblico o privato, e dunque un portafoglio senza buchi.
Da qui la nuova frattura che divide gli italiani: da un lato, il cittadino sospetto; dall’altro, il cittadino perfetto (povero, e ancora meglio se nullatenente).
Le prove? Basta accendere in un’ora qualunque la tv, dove ogni dibattito si trasforma in un alterco, ogni alterco erutta una domanda: «E tu, quanto guadagni? Troppo, allora zitto, non hai diritto di parola». O altrimenti basta tendere l’orecchio nelle strade. L’unica eccezione investe la gente di spettacolo: cantanti, calciatori, anchor men, soubrette, piloti, attori. Sicché lo stesso benpensante che non perdona al segretario comunale i suoi 3 mila euro in busta paga, è pronto a maledire il presidente della squadra per cui tifa, se lascia scappare il centravanti anziché accordargli un ingaggio di almeno 3 milioni.
In questo clima c’entrano assai poco i teorici della decrescita felice: Georgescu-Roegen, Latouche, Pallante. Intanto, le loro idee girano presso un pubblico ristretto. E soprattutto il desiderio dominante — qui e oggi — non è la (mia) felicità, bensì la (tua) infelicità. Non un sentimento ma un risentimento, un rancore collettivo. Come se anni di crisi economica e morale ci avessero lasciato in dote una cifra di disperazione, l’incapacità di volgere lo sguardo sul futuro, d’immaginarlo più propizio. E allora l’unico risarcimento consiste nel tirare dentro gli altri, tutti gli altri, nella miseria che inghiotte il nostro orizzonte esistenziale.
Infine questo malumore si trasforma in energia politica, in un vento che soffia sulle urne. Destinatario e interprete ufficiale: il Movimento 5 Stelle. Dove uno vale uno, ed è un’idea potente, il paradiso dell’eguaglianza nella terra più diseguale di tutto l’Occidente, dopo il Regno Unito e gli Usa. Ma quell’eguaglianza declina verso il basso, verso l’appiattimento dei destini individuali, e allora il paradiso diviene la porta dell’inferno. Un inferno sempre più affollato, perché ormai ciascun partito ambisce al ruolo di Caronte. Chi in nome dell’antica avversione dei cattolici nei riguardi del denaro («lo sterco del diavolo»), chi attraverso un’eco lontana del marxismo. Anche il presidente del Consiglio, sì: pure lui. Non per nulla ha esordito facendo dimagrire gli stipendi pubblici più alti, senza tuttavia sfilare ai grillini un solo voto. Nessuno può riuscirci: se il modello è questo, meglio l’originale della copia.
Dunque fermiamoci, finché siamo ancora in tempo. Certo, alcuni dirigenti si erano trasformati in dirigibili, gonfi d’oro anziché d’aria. Ma in primo luogo ogni correzione dovrebbe rispettare il principio di proporzionalità, elaborato sin dalla giurisprudenza prussiana di fine Ottocento: oggi Scilipoti guadagna più di un giudice costituzionale, e questo non va bene. In secondo luogo, se abbassi troppo le retribuzioni alzi le corruzioni; accadde già durante Tangentopoli, ammesso che sia mai finita. In terzo luogo, uno Stato debole, dove trovano alloggio soltanto le professionalità senza mercato, non saprà più opporre una trincea contro i poteri forti.
Da un malinteso ideale di giustizia deriva quindi la massima ingiustizia, ecco la lezione. E dall’ideologia del pauperismo sgorga un veleno che può uccidere le stesse istituzioni democratiche. Perché non c’è democrazia senza ceto medio, come ci ha spiegato in lungo e in largo Amartya Sen. C’è soltanto l’America Latina, con i poveri nelle favelas, i ricchi blindati nei propri quartieri, e un Caudillo che regna incontrastato. O sbagliava Sen, o stiamo sbagliando tutto noi italiani.

Il Sole 17.5.14
Voto europeo e prospettive nazionali: gli scenari e le paure della vigilia
di Stefano Folli


La forbice fra il Pd e Grillo può decidere l'esito delle riforme Specie quella elettorale
A una settimana dal voto e con i partiti euro-scettici (M5S, Lega, Fratelli d'Italia, la stessa Forza Italia) che potrebbero nel complesso superare la soglia del 50 per cento, speculare sul dopo è inevitabile. Tra i vertici politici è un esercizio inevitabile, fondato però sulle sabbie mobili perché il voto del 25 è probabilmente davvero imprevedibile. Ma ognuno, si sa, ha in mente uno scenario preferito e cerca di costruirlo orientando gli ultimi giorni della campagna.
Come si è capito da tempo, Renzi fa la corsa su Grillo. Il deputato Genovese è stato sacrificato alla Camera proprio per tamponare il "battage" grillino. E infatti l'"Unità" titolava ieri mattina: «Il Pd spiazza Grillo». Con ciò confermando il calcolo elettoralistico dietro la decisione di votare l'arresto. Il problema del premier è soprattutto uno: allargare il più possibile la forbice delle percentuali fra il Pd e i Cinque Stelle. Nel 2013 Bersani e Grillo arrivarano quasi alla pari e solo il premio di maggioranza salvò i democratici e la legislatura.
Oggi Renzi sa che la sua vittoria non sta tanto nella percentuale (benché il 33 per cento sia un po' la soglia magica), quanto nella forbice: sette-otto punti o più sarebbero i gradini del trionfo; viceversa un distacco di un paio di punti, o magari tre, renderebbe inestricabile una matassa politica già abbastanza complicata. Anche per questo la campagna renziana è tutta "tagliata" su Grillo, a costo di suscitare critiche e qualche dubbio. Ma Renzi ha un solo risultato utile, la vittoria, ed è logico che giochi le sue carte senza risparmio, anche a costo di qualche scivolata di stile.
Quanto a Grillo, il suo scenario prediletto è fin troppo ovvio: arrivare a ridosso del Pd, se non proprio al primo posto nella graduatoria; costringere Renzi sulla difensiva; chiuderlo nel circuito ristretto della sua maggioranza, in cui aumenterebbe il peso contrattuale di Alfano; lucrare sull'involuzione del sistema e l'eventuale fallimento delle riforme. Non è una strategia sofisticata, certo, ma è tipica di una forza che raccoglie malessere e rancore sociale come se avesse una rete a strascico. Peraltro l'esperienza storica insegna che i movimenti populisti vivono una parabola abbastanza breve, a meno di non conoscere un'evoluzione politica. Grillo non si evolve e tuttavia resta in apparenza sulla cresta dell'onda. Il voto servirà a verificare questo paradosso.
Poi c'è Berlusconi. Nel sentire comune Forza Italia è destinata al collasso. Ma anche qui c'è un elemento d'imprevedibilità, per quanto pochi riescano a vedere la lista oltre il 19-20 per cento. Non a caso Berlusconi adombra un ritorno alla grande caolizione, nel tentativo di avviluppare Renzi e salvare il salvabile. Ma è un'ipotesi di fantapolitica. Il Pd non potrà mai accettarlo, specie se i Cinque Stelle uscissero dal voto europeo sulle ali di un buon risultato.
Il punto è un altro: se la somma dei consensi al Pd e a Forza Italia fosse molto al di sotto del 50 per cento, il destino delle riforme, almeno della nuova legge elettorale, sarebbe segnato. Il che avrebbe conseguenze insondabili sul futuro della legislatura perché la stessa filosofia del "renzismo" come novità politica si fonda sulla riforma elettorale. E non una riforma qualsiasi, bensì quella il cui testo era nato dall'intesa con Forza Italia. Ciò tuttavia presuppone un duopolio che è ormai saltato nel paese, benché non ancora in Parlamento.

Repubblica 17.5.14
Firenze chiude la basilica per la cena dei banchieri turisti messi alla porta
Santa Maria Novella concessa per 40mila euro alla Morgan Stanley Il Comune: servono al restauro. E il 24 toccherà a Forte Belvedere
di Massimo Vanni


FIRENZE. La chiesa chiude per una cena di 120 banchieri. Con i turisti che rimbalzano davanti alle porte sbarrate del museo. Accade a Santa Maria Novella, monumento del rinascimento fiorentino. Il Comune concede alla banca d’affari newyorkese Morgan Stanley il “Cappellone degli Spagnoli” e i suoi affreschi trecenteschi per una cena privata in cambio di 20mila euro. Poi trasformati in 40mila sull’onda delle polemiche dal vicesindaco Dario Nardella, candidato alla successione di Matteo Renzi. E nel bel mezzo della campagna elettorale, esplode lo scontro sullo sfruttamento del patrimonio culturale, che già l’anno scorso, con la cena Ferrari sul Ponte Vecchio chiuso per l’occasione, aveva acceso gli animi.
«È tutto concordato con i frati, nel rispetto dei regolamenti e predisposto dagli uffici previo pagamento di una cifra considerevole », dice Nardella. «Se una cena privata serve e trovare soldi per restaurare il nostro patrimonio, credo sia giusto farlo». Poche ore dopo, annusata l’aria, Nardella pensa bene di raddoppiare: «Ho personalmente chiesto ai privati uno sforzo economico maggiore, il contributo sarà di 40 mila». Perché non chiederne allora subito 40? E perché non 80, se il metro di misura è quello delle polemiche? La decisione di affittare il “Cappellone degli Spagnoli” ai banchieri la prendono gli uffici del Comune. Che si “dimenticano” però di farlo sapere: «Oggi il museo di Santa Novella resterà chiuso», si legge solo sul cartello affisso sulla porta. E ai turisti, che invano ricontrollano l’orario di apertura sulla guida, non resta che prenderne atto con disappunto. Anche i frati sono stati però colti di sorpresa: «Non sapevo niente», confessa il parroco Giovanni Monti.
Sabato 24 il Comune concederà pure il Forte Belvedere per le nozze del rapper Kanye West e dell’attrice e reginetta della mondanità Kim Kardashian. Ma in questo caso si parla di 300mila euro. E la festa si terrà sulle terrazze, all’aperto. Così la polemica si concentra su Santa Maria Novella. Soprattutto a sinistra, tra i candidati sindaco, a ormai una settimana dal voto. «Morgan Stanley è la banca di provenienza di David Serra, il finanziere sponsor di Renzi », salta su Laura Bennati, candidata della sinistra movimentista. «È uno scandalo, com’è possibile una cena in un luogo del genere con tutti i rischi connessi?», chiede il candidato sindaco di Sel e Rifondazione Tommaso Grassi. Mentre l’ex assessore regionale Cristina Scaletti supportata da tre liste civiche: «Il dubbio è che si stia usando una risorsa pubblica per scopi personalistici».

Corriere 17.5.14
Dalla mitica Officina H degli stabilimenti Olivetti
La strategia del Fai: «Ambiente e cultura per battere la crisi»
di F. Alb.


IVREA — Non poteva che partire da qui, dalla mitica Officina H degli stabilimenti Olivetti, la nuova strategia del Fai (Fondo ambiente italiano): una proposta per dare un contributo all’uscita dalla crisi. La materia prima la abbiamo sotto i piedi: la nostra Italia, la potenzialità dei suoi territori, le mille identità. La scommessa del Fai è mettere tutto ciò in un circuito virtuoso, «un’integrazione tra paesaggio e cultura, tradizione e innovazione, industria e turismo». È impegnativo il titolo del 18° convegno nazionale che ha ieri portato ad Ivrea centinaia di delegati e volontari: «Quale rinascita?». Ma come ha ricordato l’economista Marco Vitale «senza un’utopia non si va da nessuna parte». E se quest’utopia, come la definiva Adriano Olivetti, «è un’utopia concreta», allora il gioco si fa interessante. C’è molto di simbolico nella scelta del Fai di venire a Ivrea. L’Officina H è una delle anime della «fabbrica in mattoni rossi», culla di quella cultura olivettiana che «puntava al coinvolgimento della società»: una fabbrica vista «non solo come produttrice di beni, ma anche di bene». Simbolica è pure la scelta del Canavese, dove sorge il Castello di Masino, da 25 anni di proprietà del Fai, che l’ha restaurato e riaperto al pubblico, «coagulando la comunità» come ha ricordato il presidente Andrea Carandini. Una sfida. Ma se ci crede, e ancora si batte, una signora di 90 anni come Giulia Maria Mozzoni Crespi, tra le fondatrici del Fai, di cui è presidente onorario, vale la pena provarci. «Il Canavese deve diventare un modello per l’Italia» ha affermato, dopo aver ricordato l’insistenza con la quale Marella Agnelli la convinse anni fa a rimettere in sesto il Castello di Masino. Da qui riparte il Fai. Piero Fassino, sindaco di Torino, lancia la proposta di «un grande patto per la cultura». Il ministro Franceschini assicura l’impegno del governo «per agevolazioni fiscali che stimolino investimenti privati». Senza gioco di squadra non si otterrà nulla.

il Fatto 17.5.14
Abu Omar “La Consulta nega la verità”
Durissima sentenza della Cassazione sulle scelte dei giudici costituzionali sul rapimento dell’Imam
Un “nero sipario” calato sulle attività dei servizi di sicurezza
di Gianni Barbacetto


Altro che aprire gli armadi e abolire il segreto, come promesso da Matteo Renzi. Si è abbassato invece un “nero sipario” sull’attività dei servizi di sicurezza, che ha abbattuto in radice non soltanto ogni possibilità di conoscere la verità, ma anche ogni potere di controllo da parte della magistratura, sottoposta di fatto alla discrezionalità della politica. A dirlo non è un oppositore antisistema, ma la Corte di cassazione, nelle motivazioni della sentenza con cui è stata costretta a prosciogliere i vertici del Sismi, il servizio segreto militare, dalle accuse di aver partecipato al sequestro di Abu Omar. E l’oggetto della loro - per niente velata - polemica è nientemeno che la Corte costituzionale, che nella sua ultima sentenza sul caso avrebbe abbattuto “alla radice la possibilità stessa di una verifica di legittimità, continenza e ragionevolezza dell’esercizio del potere di segretazione in capo alla competente autorità amministrativa, con compressione del dovere di accertamento dei reati da parte dell’autorità giudiziaria che inevitabilmente finisce per essere rimessa alla discrezionalità della politica”.
È L’ATTO FINALE della vicenda dell’imam rapito a Milano il 17 febbraio 2003 da agenti della Cia. Per quel sequestro di persona, i tribunali italiani hanno già condannato in via definitiva 26 cittadini americani. Avevano condannato a pene pesanti anche alcuni ufficiali italiani del Sismi accusati di aver collaborato all’operazione: tra questi, il direttore del servizio Nicolò Pollari e il suo braccio destro Marco Mancini. Avevano fatto ricorso, forti delle pronuncie della Corte costituzionale, chiamata in causa da quattro governi (Prodi, Berlusconi, Monti, Letta) che avevano sollevato conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato, sostenendo che la magistratura non poteva utilizzare atti coperti dal segreto. La Consulta ha dato ragione ai governi e torto ai giudici, tanto che la Cassazione - presidente Cristina Siotto, relatore Umberto Zampetti - il 24 febbraio aveva definitivamente prosciolto gli imputati. Ieri sono state depositate le motivazioni del proscioglimento: pesantissime contro la decisione della Corte costituzionale. “Dirompente” e “dilacerante”. La Consulta ha “inaspettatamente” tracciato “quell’ampio perimetro” di immunità che costringe i supremi giudici a un proscioglimento “ineludibile”, ma che viene concesso “obtorto collo” e solo per “neutrale lealtà istituzionale”, anche se la decisione “non può non indurre ampie e profonde riflessioni che vanno al di là del caso singolo” e che hanno a che fare con i “capisaldi dell’assetto democratico del Paese”. Nelle precedenti decisioni sul segreto, scrivono i giudici, la Consulta si era mossa “secondo un filone valoriale custode degli equilibri costituzionali”. Così nessun segreto di Stato sul sequestro di Abu Omar, “la cui marcata illegalità era ben evidentemente fuori dei perimetri istituzionali” del Sismi.
MA NELL’ULTIMA sentenza, secondo i giudici, la Consulta ha cambiato “orientamento”, assumendone uno “francamente demolitorio”. “In conclusione, risultano coperti da segreto di Stato, ritualmente apposto, le direttive e gli ordini che sarebbero stati impartiti dal direttore del Sismi agli appartenenti al medesimo organismo ancorché fossero in qualche modo collegati al fatto di reato, con la conseguenza dello sbarramento al potere giurisdizionale”. Fin qui, il “nero sipario” del segreto poteva proteggere soltanto i rapporti tra servizi italiani e stranieri e gli “interna corporis, intesi come assetti organizzativi e operativi”, con riferimento “ad attività istituzionale lecita”. Ora invece, per la prima volta è sceso a coprire anche l’area dei comportamenti illegali. La massima istituzione della giustizia penale e civile prende a schiaffi la massima istituzione a presidio della Costituzione.

Corriere 17.5.14
Tra i Sikh di Sabaudia 15 ore al giorno nei campi
«Drogati per lavorare»
Schiavi della metanfetamina contro dolore e fatica
di Goffredo Buccini


SABAUDIA (Latina) — Le pupille sono due spille nere sotto il turbante arancione. La lingua è quell’esperanto da naufraghi della vita buono a qualsiasi latitudine. Le storie si rassomigliano tutte: «Amigo , quindici ore al giorno raccolgo zucchine e cocomeri, anche domenica, piegato in due: occhi bruciano, schiena urla. Sette, otto anni così. Io omo di carne, no ferro. Allora prendo piccola sostanza, quando pausa da lavoro: una, due volte. E schiena bene, occhi bene».
La davano ai kamikaze giapponesi, la danno ai cavalli da corsa. Qui la prendono i nuovi schiavi. La «piccola sostanza» è la metanfetamina, spintarella magica che fa scordare la fatica ma alla lunga mangia l’anima; l’alternano col bhukki , il bulbo di papavero in polvere, bevuto col chai : sospende il dolore, avvolge il cervello. Nelle terre che furono palude e adesso sono la retrovia contadina di spiagge e ville per romani ancora benestanti e russi spendaccioni, è questa la droga dei sikh, gli ultimi degli ultimi. Trent’anni fa sono immigrati dal Punjab i primi indiani miti e sorridenti, si sono tirati appresso parenti e amici, e pian piano ci hanno rimpiazzato nei compiti più ingrati, quelli da paria del mondo dei consumi che a noi facevano schifo. Inginocchiati tra le zolle, col sole che cuoce la nuca. Tre euro l’ora, spesso in nero, quando la paga c’è. Diritti zero. Molti chiamano «padrone» il datore di lavoro e prima di parlargli fanno due passi indietro chinando il capo.
Sono trentamila nell’Agro Pontino, ottomila solo a Sabaudia. Sudano, pregano, amano e muoiono sotto il nostro naso, e di loro, fino a pochi anni fa, non è mai importato un accidente a nessuno. Alle sette della sera, quando anche il padrone più infame li lascia liberi, li vediamo pedalare lungo la Litoranea, sfiorati pericolosamente dalle macchine, tra San Felice e Borgo Grappa, in mezzo al Parco del Circeo, fino all’ex residence Bella Farnia e a stambugi che dividono coi connazionali, dove stravolti guardano Sikh Channel , sfogliano riviste sikh, sognano ritorni in patria e dive bollywoodiane ad attenderli. Fino a pochi anni fa, un mondo a parte.
«Per sopravvivere ai ritmi massacranti e produrre di più sono costretti a doparsi. Se ne vergognano, perché la loro religione lo vieta. Ma per molti è l’unico modo per sopravvivere», racconta Marco Omizzolo, giovane sociologo di Sabaudia, responsabile scientifico della onlus In Migrazione che ha raccolto decine di racconti dei lavoratori sikh tra Sabaudia, San Felice e Terracina e ha deciso di rendere pubblico il caso. Omizzolo, che è anche presidente provinciale di Legambiente , è il primo ad avere rotto il silenzio sui sikh: per narrarne l’epopea, in un saggio documentatissimo, nel 2009 ha lavorato due mesi nei campi con loro e vissuto sei mesi in Punjab. Cinque anni dopo, la fiducia della comunità ha prodotto queste testimonianze, per ovvie ragioni di sicurezza coperte da iniziali nel dossier. K.: «Alcuni indiani pagano per piccola sostanza, per non sentire dolore a braccia, gambe, schiena». La tariffa è di circa dieci euro a grammo. N.: «Non è droga vera come prendono italiani, è contro dolore». Il bukkhi costa circa il doppio. H.: «Amici comprano da italiani, mettono in acqua calda e prendono come the. Si può anche mangiare ma fa più male». Le prime soffiate sono venute proprio da queste campagne, la Procura di Latina è stata informata e a fine gennaio la Finanza della brigata di Sabaudia ha sequestrato 300 grammi di metanfetamina e sei chili di bulbi di papavero bloccando due giovani sikh su un furgone di frutta e verdura (stessa roba scoperta dai carabinieri tre mesi dopo a lavoratori cinesi e vietnamiti di Reggio Emilia: il doping dei nuovi schiavi d’Italia si va diffondendo in fretta). Dice J. Singh: «Contento che carabinieri pigliano indiani con droga». Molti sikh evitano di parlare in prima persona e si rifugiano dietro il racconto di «amici» che «prendono droga mattina e poi pomeriggio per lavorare tanto e poi però stanno troppo male».
In verità qualcosa sta cambiando attorno al nucleo storico della comunità. Alcuni sikh cominciano a diventare meno invisibili, il sacrificio della prima generazione sta dando frutti: solo a Sabaudia hanno aperto una mezza dozzina di negozi e alimentari, per la prima volta sono concorrenti degli italiani, i loro figli vanno a scuola. Qualcuno si perde, qualcuno entra nel circuito dello spaccio, porta la droga ai connazionali. Ma l’iniziativa della onlus serve anche a contrastare l’idea rozza di «indiani tutti spacciatori» che va diffondendosi. Maurizio Lucci, sindaco rieletto un anno fa con una lista civica di destra, usa parole molto più caute: «Negli ultimi quattro, cinque mesi sta passando tra loro questa droga derivata dal papavero, ci sono stati diversi sequestri. È la prima volta che abbiamo questo problema e mi fa un po’ paura, perché la loro è una comunità forte, sono obbligato ad accoglierli». Obbligato? Non pare contento. «Ma è perché attorno a loro c’è lo sfruttamento, si crea un problema sociale. Lo so che prendono le metanfetamine, so che sono vittime. Ma noi stiamo per riaprire la stagione turistica, sta tornando la bella gente. Questa è Sabaudia, lo capisce?».
È Sabaudia anche via Ayrton Senna, periferia di centri commerciali dove a inizio estate si comprano ombrelloni e panche da giardino a buon prezzo. Qui si consuma la battaglia sul Gurudwara , il nuovo tempio. «Avevano il permesso per un laboratorio di dolci, perciò gliel’abbiamo bloccato», spiega Lucci. Un consigliere della destra, Piero Giuliani, era andato a scattare foto per provare «l’abuso degli indiani». Lui dice d’essere stato aggredito, loro che provocava, di fatto è stato costretto a scappare. Scaramucce incomprensibili per i «sikh originali», della prima ondata: che ancora pedalano, ogni sera, sulla Litoranea. Come trent’anni fa, quasi invisibili. Solo, più stanchi.

La Stampa 17.5.14
“Italia, punta sugli immigrati”
Il sindaco di New York de Blasio accoglie il ministro Mogherini: “Fermate l’intolleranza”
di Paolo Mastrolilli


«I movimenti che fomentano l’intolleranza sono un pericolo per la democrazia e la stabiltà». Bill de Blasio sa che il 25 maggio l’Italia andrà alle urne, e non vuole usare la sua popolarità per cercare di influenzare le elezioni europee. Il messaggio che lancia, però, è chiaro: «Mi aveva colpito molto la scelta del governo precedente di nominare ministro Kyenge. Io sono di origini italiane e mia moglie africane: quella decisione era il simbolo della capacità del mio paese di origine di essere inclusivo. New York sarebbe una città impossibile, senza questo genere di integrazione. L’intolleranza ci condanna».
L’occasione per incontrare il sindaco della Grande Mela è la visita in città del ministro degli Esteri Federica Mogherini. De Blasio ha deciso di onorarla tenendo una tavola rotonda con i giornalisti italiani, che dura quasi un’ora. All’inizio mostra la sua cravatta e dice: «Questa viene da Napoli. È la dimostrazione della mia intenzione di investire nell’Italia». Scherza, ma solo un po’, perché poi aggiunge: «Le mie origini sono fondamentali per la mia identità. Andai in Italia la prima volta quando avevo 14 anni, e ci sono tornato molto spesso. Farò tutto il possibile per aiutarla».
De Blasio è stato eletto con il 73% dei voti grazie a una campagna basata sull’obiettivo di combattere la diseguaglianza: «È un pericolo, una minaccia per la tenuta delle nostre società. Quindi guardo con interesse a tutte le istituzioni che riconoscono l’esistenza di questo problema e cercano soluzioni. Non è una questione partitica, ma di governance». Da questo punto di vista, New York e l’Italia si trovano davanti ad emergenze simili, provocate in larga parte dalla recente crisi economica: «Il governo in carica è un simbolo della nuova Italia, che affronta le sue sfide a testa bassa». Lui è pronto ad offrire il suo sostegno: «Farò tutto il possibile per aiutarvi ad avere successo. Lo dico con umiltà, e con l’orgoglio di essere italiano. Se qui a New York riusciremo a trovare soluzioni utili per voi, sarò felice di condividerle, e viceversa». Un’offerta che il ministro Mogherini coglie al volo: «Accettiamo subito di parlarne, ci risentiremo». De Blasio, comunque, scommette sul futuro del suo paese d’origine: «Avete migliaia di anni di storia alle spalle, di creatività e di successo. Conosco le sfide che abbiamo davanti, ma ho un senso di ottimismo sulla vostra possibilità di superarle».
Una forza fondamentale dell’Italia sta anche nella sua diaspora: «Un esempio su tutti: papa Francesco. Sta dando un contributo enorme, dal tema della diseguaglianza economica, a quello della tolleranza, ma è un frutto della diaspora italiana che si trova in tutto il mondo». Proprio per questo, però, il nostro paese dovrebbe avere una sensibilità particolare per il tema dell’immigrazione e dell’inclusione: «Migrare è una tendenza naturale dell’animo umano, per sfuggire da situazioni di oppressione o dalla povertà. Francesco è stato molto potente anche su questo punto. Qui a New York abbiamo mezzo milione di illegali, e abbiamo deciso di affrontare il problema dando loro carte di identità che permettano di lavorare e vivere, in attesa che la questione dei 12 milioni di illegali negli Usa venga affrontata a livello nazionale. Senza questa solidarietà e tolleranza, la nostra società sarebbe condannata a fallire».

l’Unità 17.5.14
Turchia
Gas e idranti, scontri attorno alla miniera della strage: cinque feriti


Gas lacrimogeni, proiettili di gomma, idranti, pietre. Polizia e manifestanti turchi si sono affrontati oggi con violenza, dopo che gli agenti hanno cercato di disperdere una protesta a Soma, la località nell'ovest della Turchia dove circa300minatori sono rimasti uccisi martedì in un disastro minerario. Almeno cinque persone sono rimaste ferite. Secondo quanto ha constatato l’agenzia France Presse, la polizia è intervenuta dopo che i 10mila dimostranti hanno rifiutato di disperdersi. La manifestazione aveva assunto toni decisamente anti-governativi. La folla, circa 10mila persone, urlava «Governo, dimissioni» e «Non dormire Soma, non dimenticarti dei minatori». La polizia ha lanciato gas lacrimogeni e ha diretto contro i dimostranti il getto degli idranti. Inoltre ha sparato proiettili di gomma. I dimostranti, dal canto loro, hanno risposto con una fitta sassaiola.
Sono finora 284 i corpi recuperati nella miniera e secondo il ministro turco dell’Energia, Taner Yildiz, mancano all’appello altri 18 minatori, una cifra che viene però contestata dai familiari delle vittime secondo i quali il numero è decisamente più alto. In ogni caso si tratta del peggior disastro industriale della storia della Turchia.
La società privata che gestisce la miniera di carbone di Soma, ha negato che siano state commesse «negligenze». «Non abbiamo commesso alcuna negligenza in questo incidente» ha detto Akin Celik, direttore operativo di Soma Komur Isletmeleri in una conferenza stampa, precisando che lo scoppio di polvere di carbone potrebbe essere all’origine della tragedia. Sulla vicenda è stata parta un’inchiesta. Fanno intanto discutere le immagini del collaboratore di Erdogan che prende a calci un manifestante così come il video in cui lo stesso premier spintona un contestatore. Per l’entourage del capo del governo turco si sarebbe trattato di «legittima difesa», di fronte a contestazioni violente.

il Fatto 17.5.14
Addio Gandhi (e marò) I nuovi Modi dell’India
Il leader nazionalista indù cancella 70 anni di potere del Partito del Congresso
Per Roma potrebbe essere più difficile far tornare i fucilieri
di Marta Franceschini


Non è stata una semplice sconfitta politica, ma un tracollo senza precedenti, una débâcle storica, un’umiliazione conclamata. Il Partito del Congresso, che ha dominato la scena politica indiana dalla conquista dell'indipendenza a oggi, incarnando per quasi 70 anni l'identità nazionale della più popolosa democrazia del mondo, ha ottenuto solo una manciata di voti, 44 seggi in tutto che, grazie ai pochi alleati miracolosamente rimasti al suo fianco, arrivano a 58 poltrone, contro le 340 del gruppo guidato dal vincente Bjp. Il ciclone di Narendra Modi ha mantenuto la promessa e ha spazzato via il Congresso dal Parlamento. Un ex venditore di tè che fa le scarpe a un “principe”. Potrebbe essere la trama di un film bollywoodiano, invece è la realpolitik indiana. Modi, che ha scalato il potere dai gradini più bassi del sistema castale indiano, ha spodestato il principe Rahul, ultimo rampollo della dinastia Gandhi, ridicolizzandolo durante tutta la campagna elettorale col soprannome di sherazade: principe appunto e, potremmo aggiungere oggi, decaduto.
A POCHE ORE dall'annuncio dei risultati, il futuro premier ha esultato via Twitter: “È finita l'era del governo di mamma e figlio”, alludendo alla gestione familistica del modello Congresso, presieduto dall’italiana Sonia e dal figlio Rahul. I due si sono presentati in un’affollata conferenza stampa nella capitale, tesi, lividi, ma con la dignità dei grandi regnanti. Poche parole misurate, a braccio, in inglese lui, lette a fatica, in hindi lei; nessuno spazio concesso alle domande dei giornalisti: “Ci congratuliamo col nuovo governo a cui facciamo i più sinceri auguri. Ci assumiamo la responsabilità di questa sconfitta con grande umiltà. Il Congresso continuerà a battersi per i suoi principi dai banchi dell'opposizione, senza cedere a nessun compromesso”. Cala il sipario sull'ultimo atto della dinastia Gandhi. Almeno per ora.
L'India è abituata ai cambi di scena, la stessa Indira, nonna illustre di Rahul, fu sconfitta alle elezioni del 1977, ma tornò al potere 3 anni dopo, più forte che mai. Tra le file scomposte e demoralizzate del Congresso resta un'ultima carta da giocare, e si chiama Priyanka: la sorella minore di Rahul, finora rimasta fuori dai giochi, ma considerata la vera erede della mitica nonna, alla quale fra l'altro somiglia in modo impressionante. Intuitiva, carismatica, capace, a differenza della mamma e del fratello, di parlare al cuore della gente, Priyanka potrebbe diventare il nuovo volto pubblico del Partito. “O Priyanka, o la morte”, ripetono come un mantra gli ultimi fedelissimi, incrociando le dita. Intanto, per le strade di Nuova Delhi impazza la festa, si canta, si balla, si sparano gli onnipresenti fuochi d'artificio, e c'è persino chi esulta a cavallo di un elefante. Ma oggi c'è anche chi non ha motivi per festeggiare. Per esempio, i 177 milioni di musulmani indiani, ai quali la deriva induista del nuovo premier non promette niente di buono.
E AI GIOCHI POLITICI di Nuova Delhi è legato anche il destino di due nostri connazionali, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due fucilieri della marina italiana accusati di aver ucciso due pescatori al largo delle coste del Kerala nel febbraio 2012. In attesa di processo presso l'ambasciata italiana di Delhi, i due marò potrebbero non avere nessuna voglia di festeggiare l'avvento di Modi. Durante la campagna elettorale il leader del Bjp ha più volte accusato il governo precedente di mollezza e parzialità nei confronti dei due imputati che, a parer suo, avrebbero dovuto trovarsi dietro le sbarre di una galera indiana , invece che tra le mura protette della nostra ambasciata. Tra poco sapremo se le sue intenzioni si trasformeranno in dura realtà per i marò italiani.

Repubblica 17.5.14
Lo scrittore
Pankaj Mishra “Ora l’estremismo si impadronirà del mio Paese”
intervista di Valeria Fraschetti


PANKAJ Mishra è preoccupato, e parecchio. «Non solo per l’India, per tutta l’Asia meridionale ». Mentre dall’Himalaya al Kerala si festeggia la fragorosa vittoria della destra nazionalista, lo scrittore e saggista che si divide tra il Subcontinente e il Regno Unito, autore di raffinate analisi sulla sua terra d’origine come “ La tentazione dell’Occidente” (Guanda), sostiene che l’ascesa di Narendra Modi potrebbe aprire il «periodo più buio dai tempi dell’indipendenza».
Mishra, per la prima volta dopo 30 anni un partito, il Bharatiya Janata Party, ha ottenuto la maggioranza semplice, ha i numeri per approvare le necessarie riforme economiche, promesse da Modi. Non è una buona notizia?
«L’India ha certamente bisogno di riforme, ma non di un leader nazionalista indù. Modi è un politico volitivo, un fascista. E si tende ad assumere che un leader forte possa portare velocemente sviluppo in un Paese in crisi. Ma è un grosso malinteso, ci sono cascati gli indiani come ci cascarono nella prima metà del Novecento gli elettori di alcuni Paesi europei. E tutti sappiamo com’è finita in quel caso».
Nei 12 anni in cui Modi ha guidato il Gujarat lo stato ha registrato uno dei tassi di crescita più effervescenti della federazione.
«La crescita del Pil non è garanzia di crescita per tutti. Il Gujarat model , ostentato da Modi, è uno sviluppo basato su un capitalismo clientelare, in cui lo chief minister ha svenduto agli industriali terre e risorse statali ottenendo sì una crescita strepitosa, ma diseguale. L’India è strutturalmente diseguale, a causa delle caste. E ha bisogno di riforme strutturali, che nessun premier può ottenere in pochi anni al potere. Gli indiani vedono i benefici dell’economia globalizzata da lontano: dalla tv, dai cartelloni pubblicitari. E continueranno a non avere accesso al loro sogno di modernità se il capitalismo sarà solo clientelare».
Il programma della destra si fonda anche sull’hindutva, l’induismo politico che sogna un’India per soli induisti. Cosa significherà per le minoranze e per i rapporti col Pakistan?
«Il Bjp sarà pronto a usare l’hindutva come arma di riserva per distogliere i cittadini dai problemi economici, polarizzando così le posizioni di musulmani e induisti. È successo anche quando il Bjp era al potere negli anni Novanta: invocò la minaccia pachistana, trasferì un milione di soldati al confine e il mondo restò col fiato sospeso, nel terrore di una guerra atomica. Ora militarismo ed estremismo potrebbero riaccendersi. E questo porterà a un’escalation dei nazionalismi e degli estremismi nella regione. Mentre i musulmani d’India hanno tutte le ragioni per avere paura di un Paese guidato da un uomo cresciuto in un’organizzazione politica, le Rss, ispirata ai fascismi europei e complice di una delle peggiori violenze anti-islamiche dell’India, quella del 2002 in Gujarat».
Possiamo aspettarci qualcosa almeno sul fronte dei diritti delle donne?
«Temo di no, la concezione della donna nel Bjp è profondamente patriarcale. Tanto che gli assalti in pubblico avvenuti contro donne single o vestite all’occidentale sono spesso opera dei radicali indù. Attacchi che ora potrebbero solo crescere».

La Stampa 17.5.14
“Il Paese ha scelto l’uomo che promette crescita e stabilità”
La scrittrice Sankaran: “Ma con una maggioranza così forte c’è il rischio della deriva nazionalista”
intervista di Francesco Semprini


Lavanya Sankaran, è una scrittrice liberale e attivista per i diritti civili, autrice di «The Red Carpet» - per due anni nella classifica dei best-seller.
Come vede l’India di Narendra Modi?
«Quello di queste elezioni è stato un voto per la stabilità, la crescita economica e la lotta contro la corruzione. C’è una forte volontà di cambiamento in India, e questa ha trovato espressione in Modi. È importante che il nuovo governo abbia un mandato chiaro e che punti alla crescita economica e ai diritti civili».
Ci sono rischi di derive nazionaliste?
«C’è sempre un rischio quando c’è una grande maggioranza composta da un solo partito. Ma l’India ha una costituzione forte che tutela le nostre istituzioni e i nostri diritti».
E timori di intolleranza religiosa?
«La legge indiana garantisce gli stessi diritti per tutte le confessioni e per tutti i fedeli. Il premier mi sembra intenzionato a seguire queste leggi».
Secondo lei Modi si batterà anche per i diritti delle donne?
«Per quanto posso dire mi sembra che sia orientato su quella strada, ma c’è una questione di attitudine sociale che deve essere cambiata, e questo non dipende solo dal governo, ma dalla gente. La mia speranza è che accada, ma non è detto che succederà».
Come saranno i rapporti con l’Occidente?
«Le relazioni saranno più strette soprattutto dal punto di vista economico e militare. La Cina è molto forte nella regione asiatica e poter contare sulla nostra alleanza, ovvero quella della più grande democrazia del mondo, è fondamentale per l’Occidente. Inoltre la forza economica dell’India significa anche più lavoro per le economie avanzate».
Modi però era stato inserito da George W. Bush nella lista nera...
«Queste sono state le più grandi elezioni democratiche della storia, tutti devono rispettarne il risultato. Noi però non dobbiamo dimenticare gli episodi che in passato hanno macchiato l’immagine del nostro Paese, proprio per garantirci il rispetto nel mondo».
L’India di Modi avrà anche una coscienza ecologica?
«I presupposti ci sono. Vivere in grandi città dove il livello di inquinamento è crescente, è un aspetto che preoccupa un numero sempre maggiore di indiani. Credo che Modi abbia raccolto tanti consensi anche perché offre soluzioni di crescita bilanciate».
Cosa accadrà ora ai Marò?
«Modi non ha fornito ancora elementi precisi in fatto di politica estera, questo rimane il grande punto interrogativo, e lo è quindi anche la vicenda dei due fucilieri. Spero in una soluzione veloce, ma noi dobbiamo fare i conti con un sistema giudiziario lento».

Il Sole 17.5.14
Cina vs Asia / Quei mari orientali agitati che cominciano a spaventare il mondo
I contenziosi territoriali che rischiano di provocare conflitti armati e iniziano a danneggiare l'economia globale
di Stefano Carrer

qui

Repubblica 17.5.14
Schmidt: “L’Europa sbaglia sull’Ucraina così rischiamo la terza guerra mondiale”
di Andrea Tarquini


BERLINO. «La situazione oggi mi sembra ogni giorno più paragonabile con quella dell’Europa sull’orlo del baratro nel 1914, poco prima della prima guerra mondiale». Il grave monito è lanciato dall’ex cancelliere federale Helmut Schmidt, in un’intervista al quotidiano popolare Bild. «La situazione che stiamo vivendo in questi giorni mi appare sempre più comparabile a quella di allora», incalza Schmidt, 95 anni ma sempre presente e lucido. «L’Europa, gli americani, anche i russi, si comportano così come lo storico Christopher Clark ha descritto il comportamento delle grandi potenze mondiali del 1914 ne “I sonnambuli”, il suo recentissimo libro sull’inizio della prima guerra mondiale. Si comportano come sonnambuli, appunto».
C’è anche il pericolo che l’analogia tra la tragedia di cento anni fa e la crisi attuale sia strumentalizzata per politiche riarmiste, ammonisce lo statista che guidò la Germania dal 1974 al 1982. «Io non sono affatto a favore di discorsi che parlino di guerra accompagnati da richieste di aumentare le spese militari dei paesi della Nato. Ciò nonostante, il pericolo che la situazione s’inasprisca come fu nell’agosto del 1914 è un pericolo che sta crescendo di giorno in giorno».
I politici europei, presi dalle elezioni per l’Europarlamento, «sottovalutano il problema. Da mesi, io m’impegno per far sì che tutti gli statisti e statiste coinvolti nella crisi vengano riuniti attorno a un tavolo, anche i russi, gli ucraini, i bielorussi. C’è bisogno di un incontro internazionale, sull’esempio della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa tenutasi tra i due blocchi e i paesi neutrali a Helsinki nel 1975».
Pieno appoggio dunque alla proposta di Steinmeier (illustrata in un’intervista a Repubblica) di una nuova Conferenza di Ginevra. «Sì, il vertice proposto da Steinmeier è urgente e necessario. Ma al momento purtroppo non c’è nessuno che esponga proposte costruttive per il futuro dell’Ucraina». Un altro problema: a Bruxelles, i vertici Ue «s’immischiano troppo nella politica mondiale, sebbene la maggioranza dei membri della Commissione non ne capisca nulla. Ultimo esempio, il tentativo di far entrare nella Ue l’Ucraina. E’ megalomania…e hanno posto a Kiev la scelta, o Ue o Est…ci vuole una rivolta del Parlamento europeo contro gli eurocrati di Bruxelles».

il Fatto 17.5.14
Stranieri nazionalisti
Ai nuovi inglesi piace Farage
di Carlo Pizzati


Londra. Saranno proprio i figli degli immigrati a decretare il previsto successo elettorale del Partito per l’Indipendenza del Regno Unito? L’Ukip si presenta alle elezioni locali ed europee convinto d’aver attratto il voto di quegli immigrati di seconda generazione che, come si dice qui, vogliono “tirare su la scala.” Ma le cose potrebbero cambiare.
La metafora della scala si riferisce agli immigrati arrivati qui tra gli anni 50 e 70 e, affrontando un razzismo ben più violento di quello attuale, hanno raggiunto prosperità e ricchezza, ma che adesso vogliono “tirare su la scala” per non consentire alle nuove ondate migratorie di far parte della ripresa economica britannica, applicando una politica di emigrazione più severa. Insomma, uno scenario già visto in Italia con quell’elettorato leghista meridionale nella Milano dell’ex sindaco Albertini oppure quello zoccolo di elettorato di origini algerine che nel sud della Francia ha votato e vota per la dinastia Le Pen.
Perciò non ci si sorprende quando persone come Seema Takhan, proprietaria del Pink Salon a Londra, di famiglia indiana, ammettono: “Quando la mia famiglia arrivò qui negli anni ’70 nessuno li aiutò. Dovemmo lavorare sodo per ogni piccola conquista. Ma ora è diverso. I nuovi immigrati arrivano qui e vivono grazie ai sussidi e nelle case finanziate dal Comune. E i loro figli vivranno anche loro di sussidi perché quel mondo è l’unico che conoscono”. Quindi Seema voterà Ukip, per la gloria del suo leader Nigel Farage che in campagna elettorale s’è fatto fotografare su un palcoscenico assieme a 40 immigrati di seconda generazione. Ma ecco che arrivano le prime sorprese per l’Ukip e per Farage, che nelle ultime settimane ha trasformato la sua campagna elettorale in un messaggio mirato più ai razzisti del British National Party che non ai Tories.
Così, la sua “stella nascente” (Farage dixit) dei Giovani Indipendenti dell’Ukip, quella Sanya-Jeet Thandi appena 20enne che nei talk-show sbraitava in difesa delle idee libertarie del partito e sulla necessità di avere una politica più severa sugli immigrati ha fatto dietrofront e ha annunciato che lascerà il partito: “L’Ukip sta scadendo in una forma di populismo razzista che non posso condividere,” ha dichiarato, “È una deriva orrenda. Così ho deciso di astenermi dal votare alle europee ed esorto i sostenitori dell’Ukip a fare lo stesso. Non posso condonare quella politica di ‘noi’ contro ‘loro’. Perché io sono ‘loro’”.

Repubblica 17.5.14
Cari ragazzi vi spiego il razzismo
di Michelle Obama


È UN enorme piacere e un onore essere qui per festeggiare la classe dei diplomandi del 2014. Penso che sia più che opportuno celebrare proprio oggi lo storico caso della Corte Suprema, non soltanto perché il caso Brown partì proprio da qui a Topeka, o perché ricorre il suo sessantesimo anniversario, ma perché credo che tutti voi — i nostri diplomandi — siate l’eredità vivente di quel caso.
Michelle nel 1969: è in terza fila dal basso, seconda da destra
COURTESY OF THE CHICAGO SUN-TIMES
PER capirlo è sufficiente guardarci intorno, osservare tutti i colori, le culture, le confessioni religiose rappresentate qui. Voi tutti arrivate da posti diversi e avete percorso strade diverse per arrivare a vivere questo momento. Forse, i vostri antenati hanno vissuto per secoli qui in Kansas. Forse, invece, sono arrivati in questo paese in catene, come i miei antenati. A prescindere da come siete arrivati fino a qui, siete arrivati a vivere questo giorno insieme.
Per molti anni avete studiato insieme, nelle stesse classi. Avete giocato per le medesime squadre, avete frequentato le stesse feste. Avete discusso tra voi le vostre idee, e ascoltato ogni opinione e prospettiva possibile. Avete sentito parlare nei corridoi altre lingue, inglese, spagnolo e altre ancora, tutte mescolate in un unico dialogo americano. Avete festeggiato ciascuno le feste e le tradizioni degli altri.
Cari diplomandi, è evidente che una parte molto importante dell’istruzione che avete ricevuto non l’avete ricevuta semplicemente in classe, ma direttamente dai vostri compagni di classe. In fondo, la speranza e il sogno di Brown erano proprio questo. È per questo motivo che stiamo facendo festa, perché quando il caso Brown vs. Board of Education arrivò alla Corte Suprema nel 1954 la vostra esperienza qui a Topeka era del tutto inimmaginabile. Come voi tutti sapete, allora Topeka era una città nella quale vigeva la segregazione razziale: bianchi e neri avevano ristoranti separati, alberghi separati,
teatri separati, piscine separate, e anche alle scuole elementari c’era la segregazione.
E così, anche se molti bambini neri vivevano ad appena pochi isolati dalla scuola dei bianchi del loro quartiere, dovevano prendere l’autobus e scendere dopo molte fermate, entrare in scuole per soli neri dall’altra parte della città. Alla fine, un gruppo di genitori di bambini di colore si stancò di questo stato di cose e decise di fare qualcosa in proposito.
I genitori si rivolsero al tribunale per chiedere che le scuole dei bambini fossero desegregate. Provate adesso per un momento a pensare a quelle persone che dovettero rivolgersi addirittura alla Corte Suprema degli Stati Uniti soltanto per affermare una questione di principio: che i bambini neri e i bambini bianchi avrebbero dovuto poter frequentare la scuola insieme.
Oggi, a sessanta anni di distanza, probabilmente tutto ciò parrà assurdo e insensato per le classi che si diplomano. Voi tutti date per scontata la diversità dalla quale siete circondati. E questo è del tutto comprensibile, se teniamo conto del paese nel quale siete cresciuti: una governatrice donna, un giudice della Corte Suprema di origini latino-americane, un presidente di colore. Avete visto cantanti latinoamericani vincere premi Grammy e allenatori neri vincere il Super Bowl.
Avete assistito a spettacoli televisivi con personaggi di ogni background possibile, e quando seguite uno show come “The Walking Dead” non vi interessa se si tratta di una donna nera, di un ragazzo di colore, di un asiatico-americano, di una coppia gay, di un bianco. Tutto ciò che vi interessa è che c’è un gruppo di amici che cerca di salvarsi dall’arrivo degli zombie.
Vedete? Se siete cresciuti in un posto come Topeka, nel quale tutto ciò che avete conosciuto è la diversità, i vecchi pregiudizi non hanno più senso alcuno. Ma ricordate: non tutti sono cresciuti in un posto come Topeka. Sappiate che molti distretti di questo paese hanno invertito la marcia e hanno smesso di sforzarsi per integrare le loro scuole e molte comunità sono diventate meno diverse perché alcuni cittadini si sono trasferiti dalle città in periferia. Oggi, quindi, in un certo senso le nostre scuole sono segregate come lo erano quando Martin Luther King fece il suo discorso. Di conseguenza, molti giovani in America frequentano scuole che in buona parte hanno studenti identici. Noi sappiamo che oggi in America troppi individui sono fermati in strada a causa del colore della loro pelle, o non sono accolti bene a causa del luogo dal quale provengono, o sono oggetto di sopraffazioni a causa delle persone che amano.
La verità è che il caso Brown vs. Board of Education non è soltanto la nostra storia: è anche il nostro futuro. Perché anche se quel caso si chiuse 60 anni fa, il caso Brown si discute ogni singolo giorno, e non soltanto nelle aule dei tribunali o delle scuole, ma nel modo stesso col quale viviamo la nostra vita. Le risposte a molte delle sfide con le quali siamo alle prese noi oggi non si trovano necessariamente nelle nostre leggi: il cambiamento deve aver luogo anche nelle nostre menti e nei nostri cuori.
Sta a voi indicare la strada e trascinare la mia generazione e quella dei vostri nonni lungo di essa. Questa è la sfida che io oggi vi lancio. Ci saranno occasioni in cui vi sentirete frustrati o scoraggiati. Ma ogni qualvolta a me capita di sentirmi così, mi piace fermarmi e ripensare a tutti i progressi ai quali ho assistito nell’arco della mia vita. Penso a mia madre, che da bambina frequentava una scuola per soli neri di Chicago e sentiva quanto fosse pungente la discriminazione. Penso ai nonni di mio marito, bianchi nati e cresciuti qui in Kansas, loro stessi oggetto di segregazione, persone buone e oneste che hanno aiutato ad allevare il loro nipotino meticcio, ignorando coloro che avrebbero voluto mettere in discussione l’esistenza stessa di quel bambino. E poi penso che quel bambino è cresciuto ed è diventato presidente degli Stati Uniti. Infine, mi piace pensare alla storia di una donna che si chiamava Lucinda Todd e fu il primo genitore a firmare per la causa Brown vs. Board of Education. Oggi, a distanza di sessant’anni, la bisnipote della signora Todd, una giovane donna di nome Kristen Jarvis, lavora come mio braccio destro alla Casa Bianca. Traduzione di Anna Bissanti L’autrice è la First Lady degli Stati Uniti d’America

l’Unità 17.5.14
Datagate, la Cia: «Con i metadati possiamo uccidere»
L’ex capo dell’intelligence Usa Hayden ammette che la raccolta di informazioni rivelata da Snowden è utilizzata per neutralizzare potenziali nemici


Prima di tutto David descrive quello che è possibile fare con i metadati. È tutto assolutamente corretto. Noi uccidiamo persone in base a metadati. Ma non è quello che facciamo con questi metadati». Queste frasi non sono tratte da anonime intercettazioni o documenti riservati, ma le ha dette il generale Michael Hayden, ex direttore della Cia e della Nsa, intervenendo al The Johns Hopkins Foreign Affairs Symposium lo scorso 7 aprile insieme a David Cole, professore di diritto costituzionale a Georgetown e moderati da Major Garrett capo dei corrispondenti dalla Casa Bianca per Cbs News. Il confronto verteva sul tema della costituzionalità delle attività di intelligence della Nsa e del bilanciamento tra privacy personale e sicurezza nazionale, ovvero il cardine attorno al quale l'amministrazione Obama è impegnata a legiferare in tema di riforme delle agenzie di intelligence, di sicurezza, e di riforma della legislazione commerciale nel mondo del web e del settore delle informazioni.
I metadati di cui si parlava sono le «informazioni superficiali» come la data e l’ora di una telefonata, il mittente e destinatario di una email, la durata e la frequenza dei contatti e le interazioni sui socialnetwork. Ed è proprio la «superficialità » delle informazioni di cui si parla che lascia molto perplessi nella risposta del generale Hayden.
In un mondo dove tutte le comunicazioni, le conversazioni le interazioni tra le persone vengono spiate e aggregate attraverso sistemi di sorveglianza globale, un banale errore di programmazione, un’associazione di idee, di termini, di parole errata, o semplicemente valutata soggettivamente, oppure un’amicizia «sbagliata» (che lo era o lo diventa secondo criteri non certamente assoluti né certi né conoscibili) e ci si può ritrovare nella rete dei servizi segreti.
E il nodo centrale è esattamente questo. Se è vero che i servizi segreti americani «uccidono persone in base ai metadati » - certamente incrociati con tantissime altre informazioni di intelligence - prima di premere il grilletto quante persone assolutamente ignare vengono schedate, monitorate e vagliate nelle loro relazioni sociali e personali prima di essere «scartate» o confermate nell’insieme delle «possibili minacce» alla sicurezza nazionale? Come vengono garantiti i cittadini nella riservatezza di queste informazioni, nella loro archiviazione, nell’impedire che ne abbia accesso chi non ha nulla a che vedere con la sicurezza nazionale, in un mondo in cui il 90% dei generali dopo la pensione entra con stipendi a 6 e 7 cifre nel settore privato e dove la stessa intelligence è appaltata - come ha mostrato il caso di Prism - a società private esterne?
«Loro possono mettere assieme ogni connessione tra te e i tuoi amici, e tra questi e i loro amici, e ritenere te collegato a questi ultimi. Sanno quando chiami la tua fidanzata, ma anche se chiami la tua ex, se hai un’amante, quando chiami il tuo partito politico e quale sia. Cosa ordini da mangiare, quando e quanto spendi». Era questo l’insieme di metadati di cui parlava Cole e cui faceva riferimento il generale Hayden. Tutte informazioni che possono avere una qualche utilità iniziale per l’intelligence ma solo a patto che vengano gestite e «intra-lette» nel giusto contesto e in maniera corretta. Ma sono informazioni decisamente più rilevanti nel mondo privato, per le attività di business delle multinazionali «che riguarda ogni business e ogni cittadino... e per il quale non esiste alcun autentico argine che impedisca questa commistione».
Il tema immediatamente successivo è quello dei confini: dove finisce la privacy di un cittadino e la sua tutela legislativa quando la comunicazione - sia essa di messaggistica, telefonica, tramite socialnetwork o email - varca i confini nazionali, se sia o meno estesa quella più o meno garantista, cosa avviene quando un cittadino americano è all’estero o viceversa quando è un cittadino di un altra nazione ad essere (e comunicare) negli Stati Uniti.
«Noi uccidiamo persone in base a metadati. Ma non è quello che facciamo con questi metadati», e noi ne siamo certi - anche perchè se tenessimo conto solo delle nostre connessioni social e delle correlazioni telefoniche sarebbe più di un genocidio -ma la non chiarezza e la labilità dei modi con cui i metadati vengono gestiti è qualcosa di troppo aleatorio - anche per la società americana - per essere gestita attraverso il detto «noi siamo i buoni».

Corriere 17.5.14
La vita finisce, non si annulla
Il termine dell’esistenza secondo Nietzsche e Kierkegaard
di Umberto Curi


Nella conclusione di una lettera di Seneca (Epistulae , 65), irrompe all’improvviso un interrogativo. «Quid est mors?», che cosa è la morte? Non meno lapidaria, rispetto alla domanda, la risposta: «Aut finis, aut transitus». Il quid, la «cosa», in cui consiste la morte si riduce dunque al confronto fra due possibilità. Che essa sia fine, dissoluzione di tutto, ovvero che essa sia passaggio, transito verso qualcos’altro, o anche — come si dirà con l’avvento del cristianesimo — che quel passaggio sia in realtà un reditus , un ritorno alla «patria» dalla quale tutti proveniamo. Compito del sapiente, secondo lo scrittore latino, è argomentare su questo dilemma, esplorarne le implicazioni. Far emergere l’ineludibilità di un’alternativa che non lascia margini di incertezza.
Per la filosofia questo compito non è avventizio, né facoltativo. Al contrario, come già scriveva Platone, essa altro non è che un «prendersi cura della morte», interrogare la nostra vita, in quanto capace di misurare e «dire» la morte. Filosofare equivale sostanzialmente a pensare la morte, assumendola perciò non come opposizione o negazione, rispetto alla vita, ma come suo fattore essenziale.
Ma è difficile dimenticare le contestazioni mosse a questa impostazione da almeno due autori. «Ridicole, terribili “ultime parole”», definisce infatti Nietzsche il monito che sul letto di morte Socrate rivolge a Critone («Dobbiamo un gallo ad Asclepio»). Perché con quelle parole Socrate ha inteso esprimere la convinzione per cui la vita non sarebbe altro che malattia, sicché il morire si configurerebbe come guarigione, per la quale rendere grazie al dio della medicina.
Né più benevolo è l’approccio di un altro grande. «Compassionevole menzogna» — questo e non altro è infatti la filosofia che «tratta» il tema della morte, secondo Franz Rosenzweig. Mentre se essa non volesse essere sorda al grido dell’umanità impaurita, se non si ostinasse a negare il presupposto di ogni vita, dovrebbe partire proprio da questo snodo fondamentale, dal riconoscimento che ogni nuovo nulla della morte è un nuovo qualcosa, sempre nuovamente tremendo, che non si può esorcizzare: «La filosofia dovrebbe avere il coraggio di stare ad ascoltare quel grido e di non chiudere gli occhi davanti all’orribile realtà».
Ci si può chiedere fino a che punto questa invettiva colga nel segno. È però inconfutabile che talora la filosofia si sia identificata col tentativo di espungere la morte dalla vita, riducendola a nulla, allo scopo di fugare le paure e gli incubi connessi con l’attesa di un viaggio nelle tenebre. Elaborare strategie capaci di liberare l’uomo dal timore della morte, sia pure a prezzo di una «compassionevole menzogna» — questo è il compito che la filosofia si è sovente assunta.
In una direzione solo apparentemente simile procede il filone di pensiero che si articola a partire dal messaggio evangelico. Anche qui non sono mancate le critiche feroci. Come là dove Nietzsche riconosce al cristianesimo di avere realizzato un «colpo di genio», trasformando una sconfitta — la morte del Cristo — in un trionfo. D’altra parte, soprattutto se ci si riferisce alla prospettiva indicata da Søren Kierkegaard, la concezione cristiana della morte è irriducibile alla caricatura nietzscheana. Al contrario, fra il paradosso su cui insiste il filosofo danese e la «gaia scienza» preconizzata dall’autore dello Zarathustra emergono i tratti di una sorta di «amicizia stellare». Nessuna pretesa di cancellare la morte. Nessuna visione latentemente nichilistica della vita, destinata ad essere «superata» dal sopravvento della «vera vita» inaugurata dalla morte. Ma piuttosto il riconoscimento della realtà della morte, non riconducibile all’univoca dimensione dell’annientamento.
Affermare che la morte è dies natalis , che la mors è connessa al nascor , non equivale a negare la morte, né a sussumerla in una prospettiva che tenda ad annullarne, o almeno a indebolirne, l’aspetto per cui essa è consummatio , exitus , finis . Significa, invece, cogliere il nesso che intimamente connette il vivere al morire. Al di là di ogni visione sentimentale, o di ogni intento consolatorio, il simbolo della croce condensa tutta la carica drammaticamente paradossale di un evento irriducibilmente ambivalente.
Questa peculiare, anche se «minoritaria», interpretazione del cristianesimo, diametralmente opposta rispetto alle rassicuranti certezze insite nella religione cristiana, al punto da poterne sembrare la negazione, riprende alcuni spunti presenti nel modo di «pensare la morte» nella cultura greca antica. Imparare a morire, in una simile prospettiva, non vuol dire sforzarsi di «addomesticare» la morte, ma recuperarla come momento cruciale della vita, e dunque anche come ciò che concorre a definirne il senso e a farcene cogliere la specifica qualità.

Corriere 17.5.14
Autoinganni emotivi per scrittori curiosi
Il libro di Gilberto Corbellini e di Elisabetta Sirgiovanni, Tutta colpa del cervello
di Antonio Pascale


Gli scrittori si occupano di sentimenti. Tuttavia, spesso, e come scrittore, ragionando sui sentimenti umani mi sento in affanno. Altre discipline, per confronto, sono più basiche, sì, più democratiche, nel senso più umile del termine, partono dal basso e risultano, nella risalita, vitali, inquiete, passionali. Per esempio la psicologia sperimentale, la biologica evoluzionistica, l’epigenetica o le neuroscienze. Gli strumenti che usano ribaltano vecchi dualismi cartesiani (corpo/anima) e offrono interessanti punti di vista e utilissimi approfondimenti in materia di sentimenti. Non per questo le nuove discipline risultano esclusive, anzi, per uno scrittore, un filosofo, è bello, affascinante contaminarsi, e insomma, va bene, lo ammetto: per i motivi suddetti sono molto interessato allo studio del cervello. In fondo, è tutto lì, la natura umana nasce, cresce e muore a partire da quest’organo.
Il libro di Gilberto Corbellini e di Elisabetta Sirgiovanni, Tutta colpa del cervello (Mondadori università, pp. 252, e 18) si presenta da una parte come un riassunto ragionato sullo stato dell’arte, dall’altra apre la strada al dibattito che volenti o nolenti, nel bene e nel male, ci troveremo ad affrontare. Vediamo per punti sintetici. La coscienza non è un omino che muove i fili, questo omino non esiste: «Sul piano delle argomentazioni logico-razionali, prima la biologia evoluzionistica, poi le neuroscienze hanno decostruito la concezione classica della persona, intesa come insieme compatto di facoltà o funzioni (memoria, linguaggio, coscienza, volontà)». Secondo punto: cosa vuol dire avere una morale? Per essere buoni bisogna saper distinguere il bene dal male e questo è possibile se siamo consapevoli delle nostre azioni e dei nostri giudizi razionali. Ma partendo dalle intuizione di Hume e dal suo sano scetticismo e avviando una serie di interessanti esperimenti morali, le neuroscienze arrivano alla conclusione che a guidare i nostri giudizi sono le passioni, le emozioni, i moduli adattativi innati.
Terzo punto: se allora non siamo pienamente (e ragionevolmente) coscienti delle nostre emozioni, se siamo soggetti all’autoinganno, se molte scelte avvengono sotto dettatura emotiva, allora fino a che punto possiamo ritenerci liberi? Siamo determinati? Se sì, se lo siamo in parte, che ne è dell’idea della responsabilità? Attraverso una ricca serie di storie (narrative) e dilemmi morali, di studi empirici si cerca di affrontare i seguenti temi: le neuroscienze e il diritto penale (come la mettiamo con la giustizia?), la possibilità o meno di potenziare il nostro cervello (è lecito o no?) e infine la necessità di una matrimonio (seppur di convenienza) tra neuroscienza e filosofia.
La trattazione dei suddetti punti da parte di Corbellini e Sirgiovanni è così esaustiva (dati alla mano) che si disegna un arabesco colorato. Tra le gradazioni si comprende meglio la storia evolutiva del nostro cervello, passato, presente e futuro. Così, rafforzati, entusiasmati, torna pure la voglia di indagare, studiare, insomma, fare lo scrittore, in senso lato e stretto.

l’Unità 17.5.14
A proposito di omosessualità letteratura e Dante


E COSÌ ABBIAMO DOVUTO ASSISTERE ANCHE AI DELIRI DEI «MASCHISELVATICI» DI CASA POUND contro le «checche isteriche», dopo la denuncia contro gli insegnanti del liceo XXX che hanno osato far leggere quel romanzo della Mazzucco dove si descrivevano atti di amore omosessuale. Curioso che siano stati i «Giuristi per la vita» e il gruppo «Pro Vita», a fare questa denuncia: se ne deve dedurre, con ogni evidenza, che per loro la vita di un omosessuale non assurge a dignità di vita. A proposito di omosessualità e letteratura, facendo una ricerca in rete, mi sono imbattuto in un breve saggio del poeta e filologo dantesco Massimiliano Chiamenti (ricordo quando ci lasció nel 2011, lo seppi da Franco Buffoni su Nazione Indiana). In questo saggio, intitolato «Dante sodomita», dove si ipotizza la possibilità dell’omosessualità dell’Alighieri, viene citato un sonetto di Lapo di Farinata degli Uberti, indirizzato a Guido Cavalcanti (intimo compagno di Dante). Lapo invitava Guido a contarla giusta: non di belle pastorelle doveva poetare fingendo, ma, veracemente, di un bel pastorello dotato di «verghetta». Ché non conosceva, cosí diceva Lapo, alcuna nobile persona «che non l’avesse agiat’ a camerella» - e pare evidente il riferimento al gusto anale. Questo il sonetto nella sua interezza: «Guido, quando dicesti pasturella, / vorre’ch’avessi dett’un bel pastore: / ché si conven, ad om che vogli onore, / contar, se po’, verace sua novella. / Tuttor verghett’ avea piacent’ e bella: / per tanto lo tu’ dir non ha fallore:/ch’i’ non conosco re né ’mperadore / che non l’avesse agiat’ a camerella. / Ma dicem’ un che fu tec’ al boschetto / il giorno che sì pasturav’ agnelli, / che non s’avide se non d’un valletto / che cavalcava ed era biondetto / ed avea li suo’ panni corterelli. / Però rasetta, se vuo’, tuo motetto». Cosí, giusto per ricordare come stanno le cose ai gruppi Pro Vita. Che facciamo, cancelliamo anche il Cavalcanti, e possibilmente l’Alighieri?

l’Unità 17.5.14
Le sfide a sinistra: veloci e concrete
Le riforme devono passare anche da un nuovo modo di intendere la politica
di Tobia Zevi


LE PAROLE, IN POLITICA, SONO SPESSO ABUSATE. SI INFLAZIONANO NEL TEMPO, PERDONO IL LORO SIGNIFICATO PROPRIO, VENGONO PREDICATE PIÙ CHE PRATICATE. LIMITANDOCI AL CAMPO DELLA SINISTRA, PENSIAMOALTERMINE RIFORMISMO. C’è stata un’epoca in cui definirsi «riformista» era un sintomo negativo nella parte maggiore della sinistra, perché il progresso civile e sociale dell’umanità non poteva avvenire per passi sequenziali, ma attraverso la «frattura» rivoluzionaria, una cesura sulla retta del tempo che doveva mutare qualitativamente - e non quantitativamente, questa era la posizione delle culture liberal-socialiste - le condizioni dell’umanità. Lo stesso Enrico Berlinguer, rievocato nel ventennale della sua morte, così rispondeva a Eugenio Scalfari nel 1981: «Lenin non si è affidato a una naturale evoluzione riformista e anche su questo noi siamo d’accordo».
UN MANTRA PER I DIRIGENTI
Con il 1989 le cose cambiano, e da allora le riforme sono diventate un mantra per i dirigenti della sinistra, tra un corso di formazione quadri, una fondazione politica e un editoriale sulla stampa di area. Tuttavia, un altro ostacolo si para sulla strada delle riforme una volta tramontata la palingenetica speranza rivoluzionaria: a proporle arriva primo Silvio Berlusconi. Lo fa strumentalmente, occhieggiando i suoi interessi personali, in maniera confusa e controproducente, ma è proprio la sua presenza ingombrante a offuscare, nella sinistra, l’importanza di molte delle questioni affrontate. Quando parla di modernizzare le istituzioni, il sistema della giustizia, la macchina burocratica, i cicli formativi, di ridefinire i diritti della persona, a sinistra ci si rende conto che non tutto è perfetto, anzi molto meriterebbe riforme profonde, ma ci si arrocca (spesso a ragion veduta) su posizioni conservatrici, impauriti dai disastri che la destra al governo puntualmente combina. E quando invece si corre il rischio - per esempio all’epoca della Bicamerale - è Berlusconi stesso a mandare a monte il processo, spaventato dall’idea di scoprire carte truccate.
Oggi si respira una speranza diversa, non sappiamo ancora quanto effettiva. L’entrata in scena di Matteo Renzi, leader giovane e carismatico, consente alla sinistra di mettersi alla testa del processo di cambiamento. È lo stesso Renzi - meno improvvisato di quello che sembra - a teorizzare questo scenario nuovo. Nella sua introduzione recente alla nuova edizione di Destra e Sinistra di Norberto Bobbio (Donzelli Editore), il presidente del Consiglio spiega che l’asse spaziale su cui la politica si è snodata negli ultimi 150 anni (destra-sinistra) non è più attuale, e va sostituito con un altro asse, quello temporale. Il binomio da cui ripartire è conservazione-innovazione o, se volete, immobilismo contro cambiamento, e una sinistra degna di questo nome deve intestarsi con coraggio e orgoglio il secondo corno dell’alternativa. Coerentemente con questa convinzione le sue campagne elettorali hanno messo al centro il verbo cambiare, e nessun politico, in questa fase, può rinunciare a questo concetto se spera di essere eletto. Si tratta, a ben vedere, di un equivoco linguistico, nel senso il termine ha di per sé un’accezione neutra. Ma dal positivismo in giù si è affermata la percezione che il progresso sia un obiettivo in quanto tale, e, sebbene i tempi siano cambiati e oggi si avverta il bisogno di individuare un modello di sviluppo più sostenibile e di qualità, la percezione resiste.
A ciò si aggiunge l’esasperazione dei cittadini: sempre più sfiduciati nella politica e nelle istituzioni, sempre meno propensi a esercitare il diritto di voto, i cittadini sperimentano un senso di frustrazione e desiderano un cambiamento purchessia, un rimescolamento delle carte. Renzi pare l’unico in grado di inverare questo anelito, e ciò spiega l’enorme fiducia e speranza che gli italiani ripongono in lui.
Ma come si fa? Per cambiare l’Italia bisogna correre. Recentemente il Tg4 - non proprio un esempio di eleganza! - ha mandato un servizio in cui il premier veniva paragonato a Forrest Gump. Vi ricordate quando Forrest comincia a correre da un capo all’altro degli Stati Uniti, inizialmente per dimenticare Jenny e poi semplicemente per il piacere di correre, tirandosi dietro centinaia di adepti in alcune tra le scene più poetiche della storia del cinema? Stessa cosa fa Renzi - secondo il Tg4- corre tanto per correre. Ma è davvero così? Italo Calvino dedica la seconda delle sue Lezioni americane alla rapidità, che nel dibattito pubblico attuale preferiamo menzionare comevelocità. Citando Galileo Galilei, il celebre docente afferma che «Il discorrere (ragionare, ndr) è come il correre». La velocità non contraddice il valore e il pregio della lentezza - secondo il celebre motto augusteo del festina lente «Affrettati lentamente» - ma allude alla capacità di essere svelti nel ragionamento, di stabilire legami e paradigmi innovativi e imprevisti. Politicamente parlando, è questa la sfida che Matteo Renzi pone alla sinistra. Sul piano politico e su quello culturale. Con sintesi estrema e brutalità retorica, il leader novus si rivolge a una tradizione gloriosa: «È più importante difendere il contratto a tempo determinato o aprire un asilo nido? Sono più a rischio i pensionati o le donne che non lavorano? Possiamo difendere i diritti dei facchini e dei camionisti schiavizzati nel bolognese senza perdere l’entusiasmo e lo stupore di fronte alla rivoluzione di Amazon e dell’e-commerce?».
Al netto delle semplificazioni e delle polemiche, e di là da come la si pensi, la sinistra è sfidata sul piano dei contenuti, dell’analisi della società, e dell’elaborazione di nuovi paradigmi di libertà e uguaglianza.
IL SECONDO DITTICO
A questo punto dobbiamo dotarci di un secondo dittico. Alla velocità dobbiamo legare la progettualità. Contrariamente al primo binomio (immobilismo- cambiamento) i due concetti non sono antitetici ma piuttosto complementari. Un percorso di riforme deve - se vuole essere efficace e produttivo - fare perno su una visione di lungo periodo e un progetto complessivo. Proprio questo è mancato in Italia, dove la velocità è stata sinonimo di emergenza. Pensiamo a l’Aquila, simbolo dell’ipercinesi vuota di progetto, simbolo degli errori e dei vizi nazionali. A cinque anni dal terremoto il centro storico è abbandonato, le moderne cattedrali della tecnologia traballano, luoghi e persone sono in cerca di un’anima perduta. Rifacendoci a Galileo, non è questa la velocità di cui abbiamo bisogno. Al nostro Paese serve una velocità mentale da declinare in un progetto, ciò che manca da troppi anni e che nel passato gli architetti italiani hanno insegnato all’Europa intera. Un’idea di Paese, un progetto di società, valori condivisi e credibili, un orizzonte non sull’oggi, ma sul dopodomani.
Solo la politica, se recupera la sua vera vocazione, può raccogliere questa sfida. Questa è la forza di Matteo Renzi, aver rimesso la politica al centro della scena dopo la sfortunata parentesi dei tecnici. Probabilmente anche quella fase è servita, ma oggi l’Italia ha esaurito anche quella riserva. Le grandi istituzioni nazionali (Banca d’Italia) non sforneranno leader nel prossimo futuro, e perciò Renzi rappresenta l’immeritata chance di una classe politica che ha perso la sua credibilità e mancato le sue occasioni. Max Weber, in una profetica lezione tenuta a Monaco nel 1919 e intitolata La politica come professione scolpisce questi concetti con grande nitore: «L’onore del capo politico, e dunque del capo di Stato, consiste proprio nell’esclusiva e personale responsabilità per le sue azioni, che egli non può e non deve rifiutare o allontanare da sé. Sono proprio le nature di funzionario di grande levatura morale a generare cattivi politici, soprattutto irresponsabili nel significato politico della parola, e in questo senso moralmente inferiori, quali purtroppo ne abbiamo sempre avuti in posizioni direttive». Un inno alla politica che deve essere responsabile, ma che soprattutto non deve mai ridursi a (buona) amministrazione. La politica è progetto, visione e responsabilità nei confronti del futuro (contrariamente all’etica personale), e non basta aver studiato tutti i dossier - il che peraltro non guasta! - per essere un bravo statista.
Concludendo la sua lezione, Calvino racconta una storia cinese. «Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno d’un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d’una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni il disegno non era ancora cominciato. «Ho bisogno di altri cinque anni» disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto». Che sia arrivato il nostro momento di prendere il pennello e disegnare un’Italia migliore di quella che conosciamo?
Sintesi dell’intervento pronunciato al Seminario di primavera dei LiberalPD, nel quadro di un dibattito sul riformismo di governo.

il Fatto 17.5.14
La nostra confusa democrazia
di Luciano Canfora e Gustavo Zagrebelsky
Pubblichiamo un estratto de “La maschera democratica dell’oligarchia” (Laterza), dialogo tra Luciano Canfora e Gustavo Zagrebelsky a cura di Geminello Preteossi


Zagrebelsky: Sotto certi aspetti il populismo può apparire come il massimo della democrazia, come l’incorporazione dei tanti in uno solo e dell’uno solo in tanti. Il messaggio del vero populista è: non sono l’illuminato, non sono il condottiero che ha la sua strada, non sono il salvatore, ma sto percorrendo la vostra strada, quella che è già in voi e ha solo bisogno d’essere messa in chiaro. Io ve la indico, ma è la vostra (...) Il populismo nega la dialettica maggioranza-opposizione, perché nell’incorporazione dei tutti in uno ci deve essere identità. Quello populista è un regime identitario, nel senso dell’annullamento delle distanze. Anche gli stili di vita devono coincidere, almeno apparentemente (...)
Canfora: Mi faccio delle domande : il peronismo è una forma di populismo? Sì (...) Sotto Perón c’è un partito unico in Argentina? Direi di sì. Bene: il fascismo mussoliniano è populista? Forse sì. Quindi si comincia a dilatare l’ambito di questo concetto in modi senza dubbio interessanti, ma anche inquietanti, perché la definizione comincia a slabbrarsi un po’ (...) a rigore Perón si presenta così: sono uno dei vostri. Ma anche Mussolini (...) Alle dittature di sinistra, più o meno comunistiche, si rimproverava invece di essere guidate da intellettuali fastidiosi, antipatici, un po’ pedanti, molto convinti di essere l’incarnazione di un grande disegno della storia. Eppure (...) Stalin parla in modo semplice, tale che chiunque lo può comprendere (...) Quindi si conferma che “populismo” alla fine è una parola inutile (se non nella discussione politica come arma, si capisce), perché il suo contenuto concettuale è straripante, ramificato. (...) Comunque la si consideri, questa parola non regge. È meglio tentare altre carte, come per esempio cesarismo, fascismo (...). Certo, la definizione più generica di tutte e alla fine insignificante è “totalitarismo”; il totalitarismo è un contenitore talmente lato e multiforme da non essere utile. Il populismo viene, dai suoi avversari un po’ strumentali, tacciato di avere non solo ambizioni, ma pratiche totalitarie. Quindi si torna a quella definizione di De Felice: “fascismo come democrazia di massa”. Mi torna sempre in mente, perché è un tentativo di dire una cosa fastidiosissima, e cioè che la democrazia in quanto potere popolare, in senso indistinto, potere del popolo senza classificazioni interne e distinzioni, può benissimo assumere quella forma (...) Esso assume che ogni singolo individuo ha una sua volontà, che però esiste una volontà che li unifica tutti quanti come una sorta di laico Spirito Santo (...). Qual è la ragione per la quale noi siamo convinti che il potere popolare, nel senso di tutto il popolo, sia un valore positivo?
Zagrebelsky: Bella domanda. Aristotele diceva che se i cuochi sono tanti è probabile che il pranzo sia migliore. A parte gli scherzi, io non trovo altra risposta che questa: nemmeno la democrazia, di per sé, è una garanzia (...) Ma è l’unico regime politico che riconosce a tutti la dignità di soggetti morali, cioè capaci di autodeterminazione (...) Ci sono regimi che vivono su elezioni e altri su investiture. C’è una certa qual differenza. Regimi in cui il consenso si dà sulla base di un progetto o di un programma e altri in cui il consenso si dà per una investitura in bianco. In questi ultimi, i leader si presentano come risolutori dei malesseri sociali, facendo leva sul disagio.
Canfora: Come Renzi. È una battuta, ma resta il fatto che quest’uomo si presenta come colui che risolverà ciò che anni e anni di tentativi vani non hanno risolto.
Preterossi: Posso fare una domanda provocatoria? Se la democrazia è il regime che non prevede nemici (a parte i nemici della democrazia, ma intesi come nemici delle regole democratiche), non c’è il rischio che perda di contenuto, di sostanza, e soprattutto che neutralizzi troppo il conflitto come fattore vivificante della vita politica? Forse anche così si spiega la fortuna del populismo: a un certo punto viene utilizzato per mettere in campo un po’ di agonismo, di vitalità. (...)
Canfora: La parola populismo viene usata assumendo, come sottinteso, che sappiamo in modo chiaro e distinto che cos’è la democrazia, ma non è così: usiamo questo concetto surrettiziamente, come sinonimo di sistema rappresentativo pluripartitico. “Democrazia” è invece un meccanismo che per certi aspetti rassomiglia al populismo: c’è un gruppo sociale molto in difficoltà che tramite strumenti di pressione, che sono la piazza, i dirigenti, i sindacalisti carismatici, impone all’attenzione certe istanze, e forse addirittura conquista qualche cosa, al di là dei numeri parlamentari che gli sarebbero contro. Questo è populismo? Sì. Il problema è che è anche definibile come democrazia (...) Ecco, la vicinanza fra questi due fenomeni mi colpisce, perché conferma che la democrazia è “il governo dei poveri”, come dice Aristotele, cioè di una parte della società disagiata. E oligarchia è “il governo dei ricchi”, anche se numericamente prevalenti. Noi continuiamo a usare democrazia in un senso ambiguo e perciò ci avvitiamo in una disputa senza soluzione.
Zagrebelsky: Ma perché dici ambiguo? Io sto usando la parola democrazia nel senso della liberaldemocrazia (...) Un’altra differenza, rispetto alla democrazia come la intendiamo, alla liberaldemocrazia, è che si basa su procedure, mentre nel populismo c’è la piazza, magari televisiva, c’è il sondaggio più o meno credibile.
Canfora: (...) Cos’è al di sopra, la legge o il popolo? I garantisti cercano disperatamente di far prevalere la legge, ma l’assemblea popolare proclama che al di sopra di tutto c’è il popolo. Per venire all’oggi, il più importante leader populista italiano, cioè Berlusconi, ha ripetutamente affermato (...) che la condanna definitiva nei suoi confronti era “un attentato alla democrazia”. Quindi egli usava “democrazia” come una parola utile per calpestare le regole, perché i tre gradi di giudizio sono le regole.
Zagrebelsky: Se stia sopra il diritto o stia sopra il popolo mi sembra una domanda davvero capitale, perché tutti i discorsi berlusconiani, questi sì populisti, sono improntati all’idea della prevalenza del “popolo” sul diritto. La nostra Costituzione, nell’articolo 1, cerca un compromesso: attribuisce la sovranità al popolo, aggiungendo però che esso la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. Nella liberaldemocrazia ci sono le Costituzioni, le regole procedurali che producono politica. Viceversa, nel populismo c’è la politica che produce “ispirazione”.
Canfora: (...) Tutta la teorizzazione di matrice schematicamente marxista consistente nel dire che le leggi, le Costituzioni sono convenzioni che rispecchiano l’equilibrio dei rapporti di forza tra le classi, rassomiglia o no alla teoria che il popolo è al di sopra della legge? Sì. E quindi anche tale tradizione (...) è parte della storia del populismo.
Zagrebelsky: Il problema è che la parola democrazia (...) è diventata la parola di coloro che stanno in alto, degli inclusi, per garantirsi contro gli esclusi. Ribadisco: la gran parte delle parole del lessico politico assume un significato diverso , se non ribaltato, a seconda di chi le usa (...) I disperati che approdano a Lampedusa non chiedono democrazia; chiedono il diritto di ricevere un minimo di trattamento umano. Mentre c’è tra noi chi, dicendosi democratico , vuole cacciarli via perché turbano la tranquillità di “casa nostra”. Un’ultima osservazione sul populismo. Non è detto che l’osservanza della legge sia sempre una buona cosa, però l’illegalità sistematica è certamente una cattiva cosa, o no? E qui il discorso si fa serio perché questa categoria del populismo ha ricominciato di recente a circolare in relazione all’esperienza berlusconiana (...) Uno dei rischi del populismo, almeno nelle condizioni del nostro paese, è proprio questa tendenza: in nome della consonanza con il sentimento popolare, per il capo populista le regole comuni non valgono. Oppure, valgono solo le regole che piacciono al capo. Ed è la rovina del principio di eguaglianza di fronte alla legge.
Canfora: È vero; ma è vero pure che coloro che non sono stati capaci di sconfiggerlo politicamente in tanti anni, hanno pensato fosse più facile cucirgli addosso la definizione di populista. Occorre conquistare il popolo che lui si è tirato dietro. Questo è il problema vero.
Zagrebelsky: Ma non con gli stessi strumenti.
Canfora: Certo che no. Si può conquistare il popolo in altro modo.
Zagrebelsky: Il rischio è che la valorizzazione del populismo porti a dire: sii anche tu populista come l’altro, ma cerca di essere più efficace di lui. No, noi abbiamo un’idea diversa della democrazia.
Preterossi: Però bisogna avere ancora l’idea che occorre non divorziare dal popolo. Su questo sarete, credo, d’accordo tutti e due.

il Fatto 17.5.14
L’inchiesta
Giovanni Gentile, il prologo di Dongo
La ghirlanda fiorentina, di Luciano Mecacci, Adelphi

L‘OMICIDIO di Giovanni Gentile, avvenuto a Firenze il 15 aprile 1944 ad opera di partigiani comunisti, fu pubblicamente rivendicato. Non bastò, nel corso dei decenni continuarono a fiorire ipotesi e illazioni anche cervellotiche e strampalate. La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile (Adelphi) di Luciano Mecacci offre un minuzioso e documentato affresco ambientale dove spiccano le figure di Ranuccio Bianchi Bandinelli, Eugenio Garin, Cesare Luporini, Guido Calogero, Antonio Banfi e altri. Un clima, un mondo. Ma anche l’ammirevole impresa di Mecacci finisce per lasciare le cose come stavano. Con Gentile, non fu giustiziato un filosofo e la sua ricerca, ma l’uomo dall’immenso potere, il gerarca che si era schierato da subito con la repubblica di Salò, condividendone le colpe immani e il destino. Quel delitto politico non fu che il preannuncio di quanto sarebbe successo, a Dongo, un anno dopo.
Enzo Di Mauro

Repubblica 17.5.14
Scienziati con il complesso di Frankenstein
La storia è piena di invenzioni poi rinnegate dagli stessi autori Dalla bomba atomica alle app
di Massimiano Bucchi



Il titolo del libro, fresco di stampa, è inequivocabile e inquietante, soprattutto se siete maschi sopra una certa età: “La grande beffa della prostata”. Il sottotitolo fa pensare a un’inchiesta scandalistica o a un esempio di controinformazione: “Come la grande medicina ha messo le mani sul test Psa, provocando un disastro nella sanità”. Un tono piuttosto categorico contro un test - quello del dosaggio dell’antigene prostatico specifico - che negli ultimi decenni è divenuto assai diffuso, in alcuni Paesi, per la diagnosi del tumore alla prostata.
È una critica che si potrebbe liquidare come una voce controcorrente, se non fosse che viene da Richard Ablin, professore di patologia all’Università dell’Arizona, ovvero proprio lo scienziato che ha scoperto l’antigene Psa nel 1970. Ablin accusa i medici, il settore farmaceutico e la Food and Drug Administration americana di aver agito «anteponendo gli interessi finanziari a quelli dei pazienti», trasformando il test Psa in un esame di routine con più controindicazioni che benefici, fissando una soglia del test, oltre la quale scatta l’allarme, che Ablin definisce “arbitraria”. Il test secondo lui ha un’utilità specifica per monitorare pazienti già operati, ma il modo in cui viene usato, soprattutto negli Stati Uniti, oltre che ad elevate spese sanitarie porta «molti individui a ricevere trattamenti non necessari, con relativi rischi collaterali».
La discussione nel merito resta aperta tra gli esperti del settore, ma il caso di Ablin e del Psa non è certamente unico nel suo genere. Può accadere, infatti, che scoperte o innovazioni di grande impatto siano “rinnegate” da chi le ha intuite o messe in moto; che la loro affermazione, impatto e diffusione travolga e spiazzi gli stessi scopritori o innovatori. Alcuni dei casi più eclatanti riguardano, come è facile immaginare, l’ambito bellico. Se una parte degli scienziati coinvolti nella realizzazione della prima bomba atomica, sganciata su Hiroshima con tragiche conseguenze per la popolazione civile, rimase convinta fino alla fine dell’importanza e necessità del progetto, altri restarono profondamente segnati dal suo drammatico esito.
Il fisico Frank Oppenheimer, che pure nel progetto Manhattan aveva avuto un ruolo marginale rispetto a quello del fratello Robert (e che per questo si definiva scherzosamente “lo zio della bomba atomica”), dopo essere stato bandito dalle università americane in seguito a un processo per sospetta militanza comunista, si dedicò alla didattica delle scienze creando l’Exploratorium di San Francisco. Ma anche qui, ogni 6 agosto (anniversario del lancio della bomba), Oppenheimer si chiudeva nel suo ufficio pieno di fumo; apriva il cassetto della scrivania dove teneva una bottiglia di whisky e si passava la mano sulla fronte «come se volesse cancellare qualcosa dal profondo della propria mente». Forse ancora più celebre è il caso del chimico, inventore e imprenditore svedese Alfred Nobel, titolare di oltre trecento brevetti tra cui la dinamite. Secondo alcune interpretazioni, a spingere Nobel a istituire il premio, fu, tra l’altro, un episodio avvenuto alcuni anni prima, quando per errore alla scomparsa del fratello fu pubblicato il suo necrologio che lo descriveva come “mercante di morte”. Desideroso di essere ricordato in modo diverso, Nobel scrisse poche righe che avrebbero cambiato la scienza e la sua immagine pubblica, stabilendo che gran parte del suo patrimonio fosse destinato a premiare la più importante scoperta o invenzione in fisica, chimica, fisiologia o medicina; «l’opera letteraria più notevole di ispirazione idealistica»; «la personalità che avrà più contribuito al ravvicinamento tra i popoli». In tempi molto più recenti, un altro chimico, l’americano di origine russa Alexander Shulgin, si fece un nome sviluppando per una grande azienda il primo pesticida biodegradabile e pubblicando importanti articoli scientifici. Nel 1976 elaborò un nuovo procedimento di sintesi di una sostanza sino ad allora trascurata, pensando che potesse essere di aiuto nella psicoterapia. La MDMA, spesso nota come ecstasy, si diffuse in modo cospicuo nei decenni successivi. Il quotidiano Daily Mail si chiese se Shulgin fosse responsabile della morte di centinaia di giovani; il chimico si disse rammaricato per il modo in cui era stata usata la sua scoperta, ma soprattutto per il fatto che essendo divenuta illegale, non era più possibile condurre esperimenti sui suoi effetti. Negli anni Novanta, un portavoce dell’agenzia federale antidroga statunitense affermò che copie del libro autobiografico scritto da Shulgin con la moglie si trovavano in tutti i laboratori clandestini in cui l’agenzia faceva irruzione, definendolo «un libro di ricette per sostanze illegali».
Ma il rapporto ambivalente degli studiosi con i propri risultati non è circoscritto alle scienze naturali. A metà degli anni Sessanta due psicologi di Harvard allievi di Skinner, i fratelli Gable, utilizzarono la tecnologia missilistica per realizzare un braccialetto elettronico da far indossare a ragazzi in carico ai servizi sociali. L’idea era quella di ricompensare positivamente i comportamenti corretti dei ragazzi, ed effettivamente il sistema portò a una riduzione nella recidività dei reati. Una decina di anni dopo, quando i due fratelli avevano già lasciato Harvard, il sistema si diffuse come forma di controllo e punizione, secondo quella che i due definirono «una grossolana appropriazione indebita» del proprio sistema. Questo rapporto ambivalente con le proprie creazioni oggi naturalmente investe anche le tecnologie digitali. È recente il caso di Flappy Bird, videogioco elementare dal successo così vasto e inatteso - scaricato 50 milioni di volte, generava per il suo autore profitti di 50.000 dollari al giorno - da travolgere il giovane programmatore vietnamita Dong Nguyen, che lo aveva realizzato come svago nel tempo libero. Sopraffatto dai messaggi di giocatori che sostenevano di aver rotto lo smartphone a forza di giocarci e lo definivano «fonte di dipendenza come il crack», Nguyen ha deciso a sorpresa di rimuoverlo dagli app stores; «questo gioco mi ha rovinato la vita». Chissà se, potendo, anche Ablin e gli altri avrebbero scelto di cancellare con un click scoperte e invenzioni sfuggite loro di mano.

Repubblica 17.5.14
Quando l’amore è un’ossessione
In edicola con “Repubblica” il nuovo iLibra Natalia Aspesi racconta sesso e sentimenti nella nostra cultura
di Elena Stancanelli



IL SESSO , che tormento.
Quanto farlo, con chi farlo... Non farlo per niente?
Oppure farlo e poi a una certa età smettere di farlo? E se poi alla fine scopro che il sesso che faccio io, che ho fatto per tutta la vita, era sbagliato? Che ce n’era un altro, pazzesco, che facevano tutti tranne me? Sentimental, diario italiano di amore e disamore parla di donne e di uomini, di sentimenti e di morte, di libri e di film ma soprattutto di sesso. E di certe, angosciose, questioni. Perché se questa è l’epoca della condivisione massima di informazioni, la paura del confronto non potrà che essere moltiplicata all’infinito.
Dunque qual è il disagio psichico più diffuso oggi?, chiede Simonetta Fiori a Luigi Onnis, neuropsichiatra infantile, nell’intervista che chiude il libro. L’attacco di panico, risponde Onnis, un’ansia travolgente, un senso di spaesamento angoscioso e di perdita di sé che sconvolge il corpo con una sensazione di morte imminente. Eccoci, siamo noi: presenti! Sentimental contiene riflessioni di Loredana Lipperini, Michela Murgia, Sandro Bellassai, una bella chiacchierata con Luisa Muraro, ma soprattutto una raccolta di articoli di Natalia Aspesi. Da lei scelti, rimescolati, rielaborati. Una mappa che evidenzia le nostre tracce di imbranati sentimentali. A partire dalle lettere dei traditori e i traditi fino all’odierno rovello sul femminicidio.
Una piccola storia di questo paese e del suo disarmo amatorio. Ci sono i traditori seriali, i vitelloni, i maschi scalcinati e imbroglioni di Monicelli, a sua volta elegantemente misogino e misantropo, sia pure con malinconia. Ma soprattutto le donne, che Aspesi in questi anni non hai smesso di raccontare, dribblando genialmente tutti gli ostacoli, dal profondismo isterisureco anni Novanta al neo moralismo moscio degli anni zero, inventando una lingua e uno sguardo. Di entrambi tutte noi siamo debitrici, oltre che sfegatate fans. Noi, quelle che hanno visto Sex and the city e pensano che gli uomini possono anche essere uno spasso e non solo un marito. E qualche volta sono giusti, altre sono sbagliati ma chi se ne frega, se sanno fare l’amore come ci piace. Quelle che hanno letto Betty Friedan e Simone de Beauvoir, ma anche le Cinquanta sfumature di grigio .
Molti uomini, scrive Aspesi, saranno stati tentati di chiedere alle loro donne la prova d’amore: fallo per me, non leggerlo. Per via della questione delle mi- di Mister Grey, oltre che delle competenze. Ma le donne lo hanno letto, in massa. E qualcuna si sarà prima stupita e poi sentita defraudata. È possibile, sono i rischi del libero mercato. Del resto sono secoli che noi subiamo icone erotiche con seni grossi come palloni da calcio e un po’ più duri. Era chiaro che quando sarebbe toccato a noi infliggere il modello ci saremmo andate giù pesanti.
Non c’è scampo: ossessionati dal sesso, ci trasciniamo su e giù tutta la vita questo sassone di Sisifo, incapaci di lasciarlo rotolare via. Persino gli anziani, scrive Aspesi, non smettono di arrovellarsi. Non ci sono angoletti tranquilli dove riposarsi, nell’era dell’iperconnessione: tutto è a vista. E tanta esposizione, dicevamo, crea angoscia, attacchi di panico e, nei casi peggiori, violenza. E quando la guerra sale di intensità, le vittime sono quasi sempre donne. «L’omicidio femminile non è un evento fortuito, tanto meno occasionale », scrive Francesca Serra in un curioso pamphlet intitolato La morte ci fa belle ( Bollati Boringhieri), «ma un mito fondativo della nostra cultura. Provate a levare di mezzo tutte le donne nude. Provate a cancellare tutte le donne morte. Cosa rimarrebbe della nostra letteratura? Dei nostri riferimenti iconografici? Del nostro sistema culturale?».
Dai carmi di Orazio a Ofelia, da Ligeia di Edgard Allan Poe all’invasione degli ultracorpi fino alle foto di Charcot alle isteriche della Salpêtrière... Sul corpo morto, invaso, disanimato delle donne si fonda il nostro immaginario. Anche perché, scrive ancora Serra, «nella difficile arte di morire, le donne sono insuperabili ». Le magnifiche prede, secondo Lipperini e Murgia, alle quali si imputa ancora quella misteriosa malìa, quel talento oscuro che fa perdere la testa al maschio fesso, lasciandolo nella difficile posizione di doverci accoppare, per difendersi. Perché questo accade, perché questo accade ancora, si chiede Natalia Aspesi? Forse è davvero arrivato il momento che questa domanda se la facciano gli uomini, seriamente, «tutti quanti, anche i più irreprensibili, e generosi, e ahi! innamorati».

Corriere 17.5.14
Perché siamo quattro anni più longevi di un americano?
I dati mondiali: Italia superata solo da Svizzera e Singapore
di Luigi Ripamonti


A dispetto di difficoltà e pessimismo imperanti l’Italia si conferma fra i Paesi in cui si vive più a lungo.
A certificarlo sono le World Health Statistics 2014 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Secondo il rapporto le bambine nate nel nostro Paese nel 2012 hanno una speranza di vita di 85 anni, e i bambini di 80,2. Per fare un paragone significativo, i nostri attuali «duenni» hanno la prospettiva di vivere in media 4 anni in più dei loro coetanei nati negli Stati Uniti d’America, dove l’aspettativa è di 81 anni per le femmine e di 76 anni per i maschi.
La classifica generale per gli uomini registra una situazione migliore della nostra soltanto in Islanda (81,2 anni ), Svizzera (80,7) e Australia (80,5). Nel «campionato» femminile stravincono le giapponesi (87 anni), mentre le signore di Spagna, Svizzera e Singapore precedono le nostre di appena un decimale a 85,1. I dati combinati danno per l’Italia un’aspettativa di 82,6 anni, dietro solo a Svizzera (82,9) e Singapore (82,65). A livello globale i valori medi sono 73 anni per le donne e 68 per gli uomini, ma se un bambino nato in un Paese ricco vive intorno ai 76 anni, uno che nasce in un Paese povero non supera i 60.
Come si spiegano gli ennesimi risultati positivi in questa classifica di un’Italia per tanti versi «in crisi»? «Per cominciare con il fatto che, comunque, rimaniamo un Paese più ancorato di altri a una dieta di stampo mediterraneo, che è la più efficace nella prevenzione di malattie cardiovascolari e tumori» commenta Giuseppe Paolisso, presidente della Società Italiana di Geriatria. «Ma anche con gli effetti di una serie di politiche sanitarie iniziate già 20-30 anni fa nel nostro Paese, con l’adozione dei piani nazionali di prevenzione e con l’attuazione degli screening per la diagnosi precoce dei tumori» sottolinea Giuseppe Ruocco, direttore generale della Prevenzione al ministero della Salute.
«A questo va aggiunto che il nostro Sistema sanitario è uno dei pochi a essere allo stesso tempo moderno e universalistico» precisa Niccolò Marchionni, presidente della Società Italiana di Cardiologia Geriatrica. «Se consideriamo entrambi i parametri abbiamo uno dei migliori Servizi sanitari del mondo e questo ha un enorme impatto sulla vita media. Prova ne sia che in una nazione come gli Stati Uniti, dove le tecnologie in campo cardiologico sono le migliori del mondo ma non c’è un sistema sanitario ad accesso universale, il tasso di mortalità media per malattie cardiovascolari non è molto diverso da quello dell’Albania. E quelle cardiovascolari, insieme ai tumori, sono le patologie che influenzano di più la vita media nei Paesi in cui è stata abbattuta la mortalità infantile».
Ma non sarà anche una questione di geni? «Il pool di geni che “circola” in Italia è probabilmente buono in termini di longevità, ma si stima che possa pesare non più del 20-30 per cento sull’aspettativa reale di vita» chiosa Paolisso. «Quello che conta di più è ovviamente l’altro 70 percento — conferma Marchionni —. Non solo perché rappresenta la quota maggiore, ma perché è l’unico su cui si può intervenire, e che quindi può fare davvero la differenza fra nazione e nazione. Considerazione che assume un valore ancora più significativo se si valuta anche la qualità della vita e non solo la quantità».
«Secondo dati europei recenti, non ancora pubblicati, che valutano l’aspettativa di vita in rapporto all’aspettativa di vita senza disabilità — puntualizza l’esperto — la Finlandia, per esempio, ha un’attesa di vita non molto diversa da Italia e Spagna, ma la sua attesa di vita con disabilità è molto maggiore. In altre parole: i finlandesi vivono più o meno quanto spagnoli e italiani, ma trascorrono più anni “da malati”, e su questo parametro l’influenza di stili di vita, prevenzione e accesso a cure efficaci, è molto maggiore di quella dei geni che si possono ereditare da genitori longevi».