domenica 18 maggio 2014

l’ Unità 18.5.14
Ai lettori
Passano i giorni ma dall’editore non arriva alcuna risposta né sul pagamento delle retribuzioni arretrate, né sul piano
per salvare il nostro giornale. Per queste ragioni le redattrici e i redattori de l’Unità proseguono lo sciopero delle firme.

l’Unità 18.5.14
«La Cgil è trasparente Renzi sbaglia bersaglio»
intervista a Maurizio Landini

Il leader Fiom sull’intesa Electrolux: «La solidarietà è la strada da seguire nelle crisi». E sull’Ilva: «Via i Riva, lo Stato entri nel capitale»
Landini, dopo l’accordo Electrolux i contratti di solidarietà - cavallo di battaglia suo e della Fiom per far lavorare tutti, alternativo all’uso della cassa integrazione - sembrano diventati il nuovo mantra del governo...
«È da due anni e mezzo che facevamo questa proposta ed era stato l’oggetto dell’incontro di dicembre a palazzo Chigi con il governo Letta. Siamo contenti di aver raggiunto l’obiettivo, di aver fatto cambiare idea al governo. Ridurre l’orario e redistribuire il lavoro tramite i contratti di solidarietà ora deve diventare però una strategia generale. Tornando ad Electrolux bisogna comunque sottolineare che l’accordo è figlio soprattutto delle 150 ore di sciopero degli operai».
Electrolux si prenderà una bella fetta dei 15 milioni stanziati per i contratti di solidarietà nel decreto Lavoro. Una cifra un po’ bassa per l’obiettivo di farne una «strategia generale»...
«Assolutamente sì. Quei 15 milioni sono un primo passaggio importante, ma certo non sufficiente. Non solo servono più risorse, ma i contratti di solidarietà devono diventare uno strumento per una nuova politica industriale che vincoli l’uso di soldi pubblici al mantenimento dei posti di lavoro, ad investimenti in innovazione. In più serve una nuova stagione di intervento pubblico che rischia mi investimenti sia pubblici che privati per invertire una tendenza che negli ultimi anni ha visto andar via dall’Italia tante aziende».
L’intervento pubblico è l’altro vostro cavallo di battaglia. Tanto da arrivare a chiedere che lo Stato nazionalizzi l’Ilva, estromettendo la famiglia Riva. Vi aspettate che il governo vi segua anche su questo? «Noi diciamo che per l’Ilva serve ridare credibilità al progetto di bonifica. E per farlo serve un nuovo assetto societario, escludendo la famiglia Riva che ha portato all’estero parte dei soldi della bonifica e rilancio. Per questo proponiamo che lo Stato entri nel capitale per una fase transitoria ma necessaria anche per trovare alleanze industriali che permettano all’Ilva di rilanciarsi. In più il discorso va allargato a tutta la siderurgia, perché in crisi non c’è solo Taranto, ma anche Piombino e Terni. Chiediamo anche qui che si usi il modello Electrolux convocando un tavolo sotto la supervisione della presidenza del Consiglio. Non vorrei che finisse come con l’auto e la componentistica, dove il governo non ha il coraggio di convocare Fiat».
In questo quadro su Ilva, il commissario Bondi è un interlocutore credibile?
«Scegliersi gli interlocutori non è il nostro mestiere. Noi discutiamo con chi c’è».
Per chiudere il capitolo industriale, a Finmeccanica è iniziata l’era Moretti. «L’uomo dei treni» farà vivere la vostra idea di un polo pubblico dei trasporti che metta assieme Ansaldo Breda, Firema, Bredamenarini, Irisbus?
«Non lo so, lo vedremo presto. Noi la proposta l’abbiamo avanzata da tempo proprio perché riteniamo sbagliato privatizzare le aziende che funzionano come Fincantieri e Ansaldo Energia. Noi a Moretti e al governo diciamo: visto che in questo paese sappiamo costruire navi, autobus, treni e auto perché non facciamo dell’Italia il polo logistico del Mediterraneo, legando questo progetto ad una nuova idea di mobilità nelle nostre città?».
Passiamo alle frasi dette dal premier Matteo Renzi: «Chi vota Pd, non vota Cgil». Lei si sente chiamato in causa?
«No. Io ho sempre pensato che il sindacato deve essere autonomo. Gli iscritti alla Cgil hanno la loro testa e voteranno alle Europee rispetto all’idea di Europa che le varie forze politiche propongo- no».
Non la colpisce l’idea che il segretario del maggior partito di centrosinistra faccia campagna elettorale attaccando la Cgil? «Io parto da una considerazione opposta: è stata la scarsa autonomia della Cgil rispetto ai partiti, dal Pci fino al Pd, che ha creato dei problemi al sindacato. La Cgil deve avere le sue idee e deve confrontarle con tutte le forze politiche, non solo col Pd».
Però quando Renzi dice: «Se volevo fare il segretario della Cgil mi sarei presentato alle primarie... Ah no, lì non le fanno», il riferimento a lei è esplicito...
«Se il presidente del Consiglio vuole fa- re una cosa utile per i lavoratori, faccia la legge sulla rappresentanza. Lui è stato eletto segretario del Pd con il voto di iscritti e non iscritti. Questo diritto i lavoratori in Italia non ce l’hanno. Se glielo vuole dare, lo strumento ce l’ha: una legge che preveda che su tutti i luoghi di lavoro ci si possa scegliere liberamente i propri rappresentanti e si possano votare piattaforme e contratti».
Lei, a dir la verità, le primarie per la Cgil non le ha mai chieste. Non è vero?
«Io ho detto che per riformare il sindaca- to serve più democrazia. Non escludendo alcuna forma per scegliere i dirigenti».
Ma non ha mai usato la parola «primarie».
«Ripeto: ho chiesto più democrazia».
Renzi poi ha usato parole di fuoco anche sulla trasparenza, accusando il sindacato di non esserlo e di fare business con la formazione...
«Se il presidente del Consiglio ha delle cose da denunciare, lo faccia. Non si li- miti a fare accuse generiche. Di sindaca- ti ce ne sono tanti, la Cgil non ha nulla da temere da queste accuse. Anzi, forse da guadagnarci, perché altri non sono trasparenti. La Cgil non ha mai pensato che fare formazione e business sia il suo compito, che è sempre stato quello di fare contrattazione».
Il vostro rapporto fa comunque discutere anche tanti suoi iscritti. Un rapporto che appare strumentale: Renzi “usa” lei in funzione anti-Camusso e lei “usa” Renzi per ottenere la legge sulla rappresentanza. Non è così?
«Questa è la malattia della politica in Italia. Quella di vedere sempre il doppio fine, la personalizzazione dei rapporti. Io invece guardo al merito e se sento un presidente del Consiglio dire che vuole cambiare il Paese, lo ascolto e discuto con lui perché questo Paese lo voglio cambiare più di lui. Lo ascolto e lo appoggio quando fa qualcosa di buono per i lavoratori. E se fa qualcosa di sbagliato, mobilito i lavoratori contro di lui. Niente di più».
A proposito di democrazia, ieri un altro sindacalista “renziano” - Paolo Pirani del- la Uil - ha chiesto di tenere un Election Day per il rinnovo delle Rsu. È anche una vostra richiesta.
«Noi abbiamo proposto a Fim e Uilm di rinnovare tutte le Rsu, ma ci hanno ri- sposto di no. Sono contento se qualcuno di un altro sindacato la pensa come noi, magari li convince».

l’Unità 18.5.14
I consumi restano ancora al palo: -3,7%

Il primo segnale negativo è arrivato due giorni fa dalla frenata del Pil. E ieri ne è giunta la conferma, con l’ennesima doccia fredda per l’economia italiana dai consumi delle famiglie, che sono ancora al palo e non consentono alle imprese del commercio e dei servizi di portare in positivo il bilancio delle vendite al dettaglio, che nel primo trimestre 2014 hanno chiuso con un calo del 3,7% nel settore commerciale e del 2,6% in quello dei servizi. E nemmeno si può sperare nella ripresa a breve, visto che l’ampia maggioranza delle imprese (tra i due terzi del commercio e i tre quarti degli altri servizi) prevede un andamento degli affari sostanzialmente piatto anche nel secondo trimestre dell’anno. È quanto emerge dall’indagine congiunturale realizzata dal Centro studi di Unioncamere.
La perdita di fatturato continua a essere di entità rilevante tra le imprese con meno di 20 dipendenti (-4,5%), ma è comunque consistente anche tra quelle di dimensioni maggiori, compresa la grande distribuzione organizzata (-1,6%). Le sofferenze si concentrano soprattutto tra le imprese delle regioni centrali (che registrano una perdita del 5%) e tra quelle del Mezzogiorno (-4,2%). nord-ovest e nord-est, invece, con- tengono la flessione rispettivamente al -2,8% e al -2,5%.
Tra i settori, il più penalizzato è quello del commercio al dettaglio non alimentare (-4,2%), seguito dall’alimentare (-3,4%). Ipermercati, supermercati e grandi magazzini fermano invece la caduta al -1,6%.
Il desiderio di voltare pagina con la crisi induce il 24% delle imprese commerciali ad attendere un miglioramento del proprio fatturato tra aprile e giugno prossimo, mentre il 10% prevede una riduzione ulteriore delle vendite. La componente più cospicua, tuttavia, resta quella degli imprenditori che non si aspettano modifiche del quadro attuale (sono il 66%). Le maggiori attese di recupero interessano iper e supermercati e le imprese di maggiori dimensioni.
Risale ma resta con il segno meno il volume d'affari del settore dei ser- vizi, con il comparto degli alberghi, ristoranti e servizi turistici che chiude il periodo al -4,1%, precedendo, nella graduatoria, gli altri servizi (-3,9% per l'insieme delle attività finanziarie e assicurative, immobiliari e di gestione delle acque e dei rifiu- ti) e il commercio all'ingrosso e auto- veicoli (-3,2%).

l’Unità 18.5.14
Expo, spunta un contratto Greganti-coop
La presunta «cupola degli appalti» sarebbe riuscita ad inserirsi anche nei lavori per la cosiddetta «Piastra»
E tra le carte compare anche una lista di imprese per la «Città della salute» a Sesto San Giovanni

MILANO. C’è un contratto con provvigione che collega Primo Greganti, il «Compagno G» che secondo i magistrati faceva par- te della presunta «cupola degli appal- ti», con una delle più grandi cooperati- ve del mondo delle costruzioni la Cmc di Ravenna. Greganti, secondo i magistrati, si sarebbe interessato all’appalto nei lavori per la cosiddetta «Piastra» dell’Expo, l'appalto più rilevante ag- giudicato per 149 milioni di euro e giunto ormai ad oltre il 50% di realizzazione. Quell’infrastruttura è la piattaforma di base su cui si sviluppa il sito espositivo.
Greganti in base a una intercettazione era definito come l’uomo che governava «le coop rosse» come un «martello» e che, proprio per questo, avrebbe stipulato addirittura un contratto, con tanto di «provvigioni», con la Cmc di Ravenna.
Un altro appalto dell'Expo, dunque, diverso da quelli delineati nell’inchiesta potrebbe aver subito i condizionamenti delle presunta associazione per delinquere che vedeva in prima linea, oltre a Greganti, anche l’ex parlamentare Dc Gianstefano Frigerio e l'ex se- natore di FI, Luigi Grillo. Grillo che, secondo quanto diceva in una telefonata Sergio Cattozzo, ex esponente Udc e presunto corriere delle tangenti, avrebbe avuto «consolidate aderenze» e «rapporti diretti» anche «con Lupi», ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti.
«Il malaffare dell’Expo è cresciuto all’ombra della debolezza della politica di questi anni. Quello che sta accadendo mostra che c’è una politica inca- pace di regolare la vita del Paese. In parte questo è stato voluto, altrimenti non saremmo un’Europa a rischio di cadere nel populismo ha detto il presidente della Commissione antimafia, Rosi Bindi. «Come si può chiedere a un commerciante di Palermo - ha aggiunto - di non pagare il pizzo, se in questo Paese continua la cupola di affari che si accaparra miliardi di fondi pubblici? È possibile chiedere che chi sia stato coinvolto sia interdetto a vita dall'uso del denaro pubblico?». «Penso che Frigerio e Greganti abbiano poco a che fare con la politica e più con le tangenti», ha concluso Bindi.
Gli inquirenti però sanno che non tutte le intercettazioni nelle quali la «squadra» fa nomi di politici possono ritenersi buone per l’inchiesta. Si sta valutando anche l’ipotesi che una par- te di queste siano delle vere e proprie millanterie. È in un'informativa della sezione polizia giudiziaria della Guardia di Finanza, invece, che compaiono una serie di intercettazioni nelle quali il «Compagno G» parla con Fernando Turri, rappresentante legale di Viri- dia, coop di Settimo Torinese attiva dal '92 e che opera in vari settori, delle costruzioni alla produzione di energia.
I finanzieri scrivono che Viridia «assume rilevanza con riferimento a buona parte delle vicende attenzionate» dai pm Claudio Gittardi e Antonio D'Alessio: la società, infatti, era interessata anche «alla realizzazione della Città della Salute» e «agli appalti» di Sogin. E soprattutto, pur «non essendo pale- semente ricompresa nel raggruppa- mento di imprese», capeggiato dalla Mantovani Spa, che vinse l'appalto per la «Piastra» (appalto citato anche nelle carte dell'inchiesta che a marzo ha portato in carcere l'ex direttore generale di Infrastrutture Lombarde, Antonio Rognoni), Viridia ha «svolto dei lavori nel sito di Expo 2015, verosimilmente in qualità di consorziata del Consorzio Veneto Cooperativo».
Ma c’è un altro capitolo che sta emergendo dalle carte. Una decina di imprese, che avrebbero avuto «collega- menti con il sodalizio Frigerio-Cattozzo-Greganti-Grillo», si sarebbero mosse per aggiudicarsi il maxi-appalto da 323 milioni di euro per il progetto «Città della Salute», un grande polo sanita- rio, ancora da realizzare, che dovrebbe sorgere a Sesto San Giovanni, alle porte di Milano. È quanto emerge da un'informativa della Gdf milanese nel- la quale spunta anche una e-mail indirizzata all'ex funzionario del Pci Pri- mo Greganti con un «accordo preliminare» tra le società interessate alla ga- ra. L’11 aprile del 2013, in particolare, Lorenzo Beretta, un responsabile di Olicar, gruppo che si occupa di servizi per l'energia, avrebbe inviato una e-mail, poi «acquisita» dalla sezione pg della Gdf, a Greganti. E-mail in cui era indicato come oggetto «Città della Salute e della Ricerca - Sesto San Giovanni» e che conteneva «un file» con la «la bozza e l’indicazione della «costituzione di un raggruppamento temporaneo di imprese» per partecipare alla gara.

La Stampa 18.5.14
Tra coop rosse e fiduciarie
La seconda vita nell’ombra del “Compagno G.”
Affari in vari settori e società intestate alle figlie
di Gianluca Paolucci

«Un vulcano di idee», racconta un imprenditore che ci ha avuto a che fare. Non tutte portate a buon fine, va detto. Ma con un gran lavorìo di contatti a tutti i livelli. Sempre restando lontano dai riflettori, protetto da intrecci di quote societarie e schermi di fiduciarie. Il gruppo Seinco, a lui riferibile, era prima intestato a una fiduciaria e poi passato alle figlie Barbara e Luna, che si dividono il 50% ciascuna del capitale. Gli uffici sono nel cuore di Torino e alla Seinco fanno capo una serie di partecipazioni. Come quella nella Seinco En.Ri. alla quale Greganti fa avere un «contratto di partnership» con la Cmc di Ravenna, colosso del mondo cooperativo. Altra coop che intreccia gli affari di Greganti e gli appalti nelle carte dell’inchiesta milanese è la Viridia di Settimo Torinese. I finanzieri scrivono che Viridia «assume rilevanza con riferimento a buona parte delle vicende attenzionate» dai pm Claudio Gittardi e Antonio D’Alessio.
A Seinco o alle sue controllate fanno capo una serie di quote societarie ma anche i telefoni o le auto utilizzate da Greganti. La En.Ri. ad esempio aveva, fino allo scorso anno, il 24% della Agenergia. Tra i soci della stessa società c’era Pierpaolo Maza, ex membro del Toroc ed ex presidente della Fondazione postolimpica. Tramite la Agenergia - e Greganti - il comune di Torino trova gli sponsor per il sistema di lampioni intelligenti di Piazza San Carlo. Tra gli sponsor c’è la Olicar, che si occupa di servizi per l’energia. Che, guarda caso, compare anche lei nell’inchiesta milanese, nel filone Città della salute. In una mail che, scrive la Finanza, sarebbe stata inviata a Greganti l’11 aprile del 2013 da Lorenzo Beretta di Olicar veniva indicato come oggetto «Città della Salute e della Ricerca-Sesto San Giovanni», ed era allegato «un file» chiamato «Sesto San Giovanni Accordo Preliminare», che in precedenza sarebbe stato girato, secondo la Gdf, dall’imprenditore vicentino Enrico Maltauro, ora in carcere, allo stesso Beretta. Il file conteneva «la bozza di una scrittura privata tra i seguenti soggetti: Impresa Costruzioni Giuseppe Maltauro spa; Cons. Naz. Coop di Produzione e Lavoro Ciro Menotti Scpa (che interveniva per la consociata Viridia, ndr); Cefla S.C; Prisma Impianti spa; Gemmo Spa; Manutencoop; Servizi Ospedalieri spa; Olicar; Vivenda spa; Sotraf». Era una bozza con l’indicazione della «costituzione di un raggruppamento temporaneo di imprese» per partecipare alla gara.
Quello dell’energia e delle rinnovabili è un settore che interessa molto al «Compagno G.» nella sua seconda vita di facilitatore d’affari. A cavallo del decennio la Società energetica Vinovo, della quale la Seinco di Greganti è socia, cerca di costruire una centrale elettrica a biomasse alle porte di Torino. Il progetto resta solo sulla carta ma tra i fornitori del combustibile, materiale legnoso, doveva esserci la segheria Mozzone, ex socia - fino al 2013 - dei Greganti anche in un’altra attività: la bioedilizia. Con la Mozzone Building System realizzano case in legno.
La storia più interessante è però forse quella della Finomnia. Viene costituita nel febbraio del 2012 e i soci sono al solito schermati da due fiduciarie, la Simon e la Nomen dello studio Grande Stevens. Il 25% è in realtà della Seinco dei Greganti. Tra gli altri soci, una società del gruppo Marachella. Si tratta di una gruppo che si definisce «multiservizi», che ha sede a Torino e nei cui uffici Greganti è stato visto spesso negli ultimi due anni. Nel periodo di suo massimo splendore, tra il 2012 e il 2013, è attiva praticamente dappertutto. Gestisce ristoranti a Torino, alberghi in provincia di Cuneo, impianti di risalita, servizi di catering, un golf club, cura la ristrutturazione di una residenza di caccia dei Savoia, spazi espositivi, tre call center (a Torino, Livorno e Palermo) che lavorano per grandi clienti. E ancora energie rinnovabili, una lavanderia industriale e di nuovo la bioarchitettura con la Mwb. Mette in piedi anche un allevamento di asini. Di chi sia la Marachella non si sa: il 90% è in mano a una fiduciaria. Tramite la Finomnia, Greganti e la Marachella mettono in piedi la Mr. Facile, sede a Jesi e guidata da Simone Greganti, nipote di Primo. Doveva realizzare kit fotovoltaici «fai da te», ma anche questa attività stenta a decollare. «Ho conosciuto Greganti perché abbiamo lo stesso commercialista», dice Marco Maniezzi, ad del gruppo. Quello dei pannelli è l’unico affare in comune? «Abbiamo parlato di tante cose», dice Maniezzi, «ma nessuna si è concretizzata». Così anche la Finomnia viene venduta. Il 20 gennaio di quest’anno la proprietà passa tutta alla galassia Marachella. Che due settimane dopo, l’11 febbraio, presenta la richiesta di concordato preventivo: il sistema «multiservizi» prevede troppi servizi e non sta più in piedi. Ma Greganti sta già pensando ad altro: il 29 febbraio Greganti è con Paris e un responsabile di Viridia per discutere della realizzazione dei padiglioni Expo. Il 14 febbraio Greganti invia una mail a Dario Foschini, ad di Cmc, contenente il testo di un contratto che riconosceva «sostanzialmente da parte di Cmc un concorso in spese di ufficio per sei mesi e, soprattutto, una provvigione sulle attività e progetti frutto del presente accordo che (...) non potrà essere inferiore all’1% del valore delle operazioni portate a buon fine».

il Fatto 18.5.14
Il fattore Greganti: “È il martello sulle Coop”
In un sms l’ex manger Expo Angelo Paris: “Le cooperative rosse performano male, lui le fa rigare dritto, è uno che conta in quel mondo”
di Davide Milosa

Se Tangentopoli battezzò Primo Greganti come il “Compagno G”, ora l’inchiesta sulla cupola degli appalti che programmava l’assalto all’Expo gli regala un nuovo soprannome: il martello. Così lo definisce l’ex manager di Expo Angelo Paris in un sms inviato il 12 febbraio scorso. Il particolare emerge da un’annotazione della Finanza di Milano, agli atti dell’indagine dei pm Claudio Gittardi e Antonio D’Alessio. La conversazione fotografa l’attività della presunta organizzazione criminale, tesa a intavolare rapporti e contatti per favorire la cerchia delle imprese amiche. Al centro del dialogo ci sono le coop rosse e il grande affare di Expo 2015. Quel 12 febbraio Paris è in contatto con “tale Massimiliano Riva”. Ecco cosa scrive l’ex braccio destro del commissario Giuseppe Sala: “Ne ho parlato ieri con Primo Greganti, il partito si spacca”. L’incipit resta senza un seguito, perché in un altro messaggio Paris chiede: “Sai chi è Primo Greganti? Uno che conta in quel mondo”.
DALL’ALTRA PARTE l’interlocutore risponde preoccupato: “Ma hai a che fare con Primo Greganti? Perché?”. Chiarissima la risposta dell’ex funzionario pubblico: “Perché è uno che governa le coop rosse che, al momento, performano male su Expo, e quindi lui è il martello che le fa rigare. Ma hai capito che dimensione c’è in ballo su Expo?”. Da questa telefonata emerge come la cupola, dopo la gara “Architetture di servizi”, si era infiltrata anche nel ma-xi-appalto della Piastra. Valore, 149 milioni di euro. Di questo appalto si è occupata l’impresa Viridia svolgendo “lavori nel sito di Expo 2015, verosimilmente in qualità di consorziata del Consorzio Veneto Cooperativo”. In una telefonata del settembre 2013 il rappresentante legale Fernando Turri diceva a Greganti che sarebbe servita “una posizione di controllo e per tale scopo aveva proposto un ‘uomo” e poi gli faceva presente, annota la Gdf, di non aver “potuto parlare con ‘l’amico Fritz’ e invitava Greganti a “parlarci lui, quando lo vedrà a Roma”. Greganti, che davanti al giudice Fabio Antezza, oltre ai soliti silenzi, ha detto di occuparsi da anni solo della filiera del legno e non certo di appalti, appare sempre più centrale in questa indagine che ha scoperto un enorme mazzettificio bipartisan, con “il martello” Greganti a garantire il fronte del centrosinistra e Gianstefano Frigerio a tessere la rete di relazioni nel centrodestra. Una rete che giorno dopo giorno si allarga. E che potrebbe tracimare la prossima settimana quando scatterà la fase due dell’operazione. In calendario, infatti, la Procura ha diversi interrogatori. Le nuove informative della Gdf confermano la grande influenza di Greganti sulle coop rosse. Un dato che secondo gli investigatori viene avvalorato da un contratto tra la Seinco, società intestata alle figlie di Greganti, “e la Cooperativa Muratori & Ce-mentisti - Cmc di Ravenna”. L’accordo avrebbe previsto per la Seinco “una provvigione sulle attività e progetti”. Tanto che il 12 febbraio Greganti al telefono con la segretaria Ester dice: “Bisogna mandare bozza del contratto alla Cmc”. Se le coop a lui legate avevano interessi in Expo, la cupola degli appalti stava già lavorando per spartirsi i 323 milioni della Città da salute mettendo in prima fila un cartello di dieci società amiche. L’ex “Compagno G” mette al servizio della presunta cupola la sua agenda politica. Da Milano a Torino, dove ha le porte aperte in Comune.
IL 14 FEBBRAIO al telefono con Paolo Fusaro, Ad di Olicar, gruppo che si occupa di servizi per l’energia, dice: “Sono qui in assessorato”. È uno spezzone di telefonata fatta per confermare a Fusaro un incontro con Paris all’hotel Michelangelo di Milano. La rete di contatti emerge anche da una nuova intercettazione tra Sergio Cattozzo, ex segretario ligure dell’Udc, e Alberto Alatri, all’epoca manager della Sogin. I due parlano dei rapporti tra Luigi Grillo, ex senatore di Fi (arrestato) e il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi. Quando Alatri chiede a Cattozzo se Grillo abbia incarichi ufficiali al ministero, l’altro “risponde negativamente evidenziando, tuttavia, che lui è responsabile nazionale delle Infrastrutture e dei Trasporti di Ncd e palesando l’esistenza di consolidate aderenze anche con Maurizio Lupi”.
La capacità di tutelare le carriere dei funzionari emerge da un’intercettazione tra Frigerio e Cattozzo del maggio 2013, in cui discutono del destino di Giulio Antonio Rognoni, all’epoca dg di Infrastrutture Lombarde, che la cupola vorrebbe spostare all’Anas. Dopo aver detto di voler mandare un “bigliettino” a Lupi “per suggerirlo come presidente Anas”, Cattozzo dice: “Ne parliamo con Primo, e per quello che io volevo fare una cena o un pranzo a Milano: l’Antonio, Primo, io e te, per battezzare (…) questa è la chiave, perché quelli danno garanzie politiche ad Antonio sul suo futuro a Roma che è la cosa che gli interessa di più”.

il Fatto 18.5.14
Ginnasta e allevatore, Renzi va alla campagna d’Emilia
Tra Forlì, Sassulo, Modena e Reggio visita Tecnogym, Orogel e Amadori
di Wanda Marra

Reggio Emilia. “Siamo il doppio”. Matteo Renzi sul palco di Piazza Prampolini a Reggio Emilia beve un sorso d’acqua, si guarda intorno. E lo manda a dire a lui, a Beppe Grillo, il nemico numero uno di questa campagna elettorale e che qui è venuto la settimana scorsa. Reggio è una distesa di folla, elegante, composta. Partecipe. Diecimila, annunciano. Palco affollato, con i candidati sindaci dei vari comuni della zona. Insieme a Renzi, Graziano Delrio, che qui è stato Sindaco. Ultima tappa di una giornata lunghissima. “Tin botan”. Glielo scrivono, glielo urlano. Matteo Renzi ci mette mezza giornata per capire il ritmo e modularlo in emiliano. “Tieni duro”, per dirla in italiano. E il premier per il giro in Emilia Romagna si trasforma in ginnasta, allevatore di polli, leader “di sinistra”. Multiformi panni per una cavalcata che ha in sé diverse insidie: il post terremoto, l’accoglienza della piazza di Modena, tradizionale roccaforte rossa, il confronto con Grillo a Reggio. Foto ricordo agonistica di buon mattino per fan ed elettori: lui che si allena sul tapis roulant alla Tecnogym di Nerio Nesi, in Romagna , prima tappa della giornata. E non fa niente se la forma fisica non è quella propriamente di un atleta: quel che conta è la convinzione. Renzi lo sa, e quella non gli manca.
“IO SONO ARRIVATO alla politica con Renzi. Prima non avevo capito che potesse essere importante”, Alberto Neri, 31 anni, architetto, mentre in macchina si dirige verso Sassuolo, la mette così. L’Emilia Romagna è la Regione Rossa per eccellenza, dove il “renzismo” si è scontrato con il rosso del passato. Ma è in corso la mutazione antropologica: “Vogliamo convincere, convertire”, scherza (ma neanche troppo) ancora Alberto. Per Renzi la battaglia è sull’adesso, ma anche sul futuro. E allora, sfodera tutte le sue armi di seduzione politica.
Dopo la Tecnogym, ancora due aziende. All’Orogel, anche se manca la foto col surgelato. Poi l’Amadori: il tempo per una discesa nella stanza dove si impacchettano i polli, tutina verde in prestito. E’ l’Italia delle imprese, l’Italia che produce. Bagno di folla in mattinata a Forlì. La gente riempie la piazza, e il parco. Poi via, alla volta dell’Emilia. Prima tappa Sassuolo, il cuore del distretto ceramico. “Pranzo popolare con Matteo Renzi per Claudio Pistoni” , recitano i volantini di fronte al Modena Fruit, un capannone dove un tempo si trattava la frutta. “Tifare, non gufare”, lo striscione di benvenuto. Fuori, pasta al ragù e gnocco fritto. La cornice ricorda quella delle feste dell’Unità, dagli altoparlanti la colonna sonora – Jovanotti in testa - è quella della Leopolda. Popolo misto, diverso. Jeans e camicia bianca, Renzi arriva super carico. “Solo tu ghe puoi salvar”, gli dice un vecchio signore, in una lingua che più che emiliana pare veneta. Lui è in forma e ci perde pure un paio di minuti per farselo ripetere. “Vai avanti”, “fallo per noi”, “grazie”: sembra quasi di essere tornati alle primarie 2012, quelle contro Bersani, quando Renzi infiammava le folle che ancora non lo conoscevano . Ora lo conoscono di più. Da premier è un’altra storia, qualche ammaccatura si sente. “Non sono il re Mida”, dice lui dal palco. “Ma non mollo di un millimetro”. Con lui il candidato sindaco per strappare una città simbolo al centrodestra è di provenienza bersaniana. Renzi deve vincere con tutti. Sul palco anche Stefano Bonaccini, provenienza Bersani, ora responsabile Enti Locali del Pd. “Matteo Richetti, dove sei? Vieni qui. Fate passare il Matteo bello, non quello grasso”, ironizza su di sé il premier, chiamando sul palco il deputato di Sassuolo, che renziano lo è dal primo momento e un po’ di Emilia gliel’ha portata. Stoccata a Grillo: “Beppe gufo…ops ho sbagliato animale”.
IL TEMPO DI RUBARE un maccherone, via verso l’incontro con alcuni esponenti della Confindustria locale. E poi a Medolla dai terremotati. I sindaci gli chiedono di sbloccare i fondi europei. Poi Modena. Sulla via Emilia è una passerella tra tanti in bocca al lupo e qualche insulto. In piazza Grande lo aspettano i contestatori di “Sisma 12”. “Sono passati due anni dal terremoto e i problemi sono ancora tanti”, spiegano. Su migliaia di persone 30 fischietti sono molti. Renzi fa un comizio in stile leader di sinistra. Alza i toni, s’arrabbia. Registro inconsueto. Rivendica di aver iniziato a lavorare per la ricostruzione. “Hitler non va citato neanche per scherzo”, scandisce. Dopo un po’ i fischi quasi spariscono. Con lui sul palco la Moretti e il candidato sindaco Muzzarelli (vecchia guardia)”. “Su le bandiere”, dice la sera a Reggio. “Siamo in piazza, perché questo è il nostro posto”. La piazza risponde, la sfida con Grillo e Berlusconi che “oggi hanno fatto a gara ad annunciare la marcia su Roma” s’infiamma. Saranno scintille per un’altra settimana.

il Fatto 18.5.14
Ma chi è davvero Matteo Renzi?
risponde Furio Colombo

CARO COLOMBO, non penso male di Matteo Renzi, ma non riesco a farmi di lui un’idea precisa. Di sicuro non ha niente a che fare con il Pd, pregi e difetti, così come lo conoscevamo prima di lui. Dire “democristiano” funziona poco. È troppo giovane e attivo. Niente in lui ricorda la sinistra (sia che si apprezzi, sia che si tema), e gli spunti di destra mi sembrano più caratteriali che politici. Allora?
Vito

È UN BUON TEMA, di esercitazione, cercando però di evitare il processo. Qui si tratta di analizzare e capire come si farebbe con il personaggio di un racconto, e non di emettere un verdetto politico. Certo Renzi non è di sinistra, non nel senso sprezzante di Grillo, non nella interpretazione amica di quella buona parte del Pd che lo sostiene. Qui si nota una estraneità completa che, causa l’irruenza giovanile, a volte diventa maleducato rigetto (le frasi dedicate ai sindacati), a volte pura e semplice e vistosa estraneità. Gli si fa un cattivo servizio evocando continuamente il fantasma di Blair, uno che fa una guerra devastante appoggiando le ragioni su una finzione e su una bugia. Definirlo di “destra” è facile, ma non chiarisce l’ambiguità di fondo del personaggio, dove “ambiguità” non significa deliberato camuffamento o messa in ombra di qualcosa. Significa una sorta di asse di equilibrio che Renzi percorre con una notevole bravura (in senso ginnastico), ma che non ha disegnato lui. Renzi è il terzo di tre governi non eletti, e il solo dei tre che non sia “del presidente” nel senso che Renzi si è fatto da solo: ha scelto se stesso per governare, ma non ha scelto, salvo vivacissime manifestazioni di volontà in senso contrario, dove portare il Paese se non, genericamente, “in salvo”. Ma quello era stato il tema anche degli altri due governi. Una parte di questa storia resta oscura (quanto all’Italia, non quanto a Renzi) per due ragioni. La prima è che nessuno ha mai spiegato che è stato il governo di Berlusconi a portare l’Italia al disastro (nel senso più tragico). E in tal modo ha fatto perdere le tracce del sia pur tenue lavoro di opposizione del Pd, e dunque della identità di quel partito. La seconda è che l’intero sistema politico italiano di governo è costruito in stretta associazione con Berlusconi, la sua gente, la sua cultura, i suoi valori, il suo passato, creando così un insieme indistinto che rende possibile solo una opposizione indistinta, fondata sulla promessa (sovietica più che fascista) di distruggere tutto, Stato incluso, in caso di vittoria. A questo punto diventa immensamente difficile trovare, nell’orizzonte contraddittorio e confuso di ciò che sta accadendo, una parola per definire Matteo Renzi. Governa con Berlusconi ma l’invenzione non è sua. A lui è stata data come una scelta già fatta e una necessità. Suo è l’avere spostato tutta l’attenzione su uno dei due termini, “governo”, decidendo di neutralizzare il partner con l’espediente del rispetto invece che con la dichiarazione di disprezzo. Diamogli atto che in tal modo ha abbassato, e non alzato, il ruolo e l’efficacia di Berlusconi (che però non se ne va) anche se ha reso più ambigua tutta la scena, e dato più forza all’opposizione. Come vedete, tutto si gioca sulla parola “governo” (bene o male, ma prima di Renzi nessuno governava). Proprio questo, però, ha dato una potente motivazione all’opposizione M5S, che ha già preso la rincorsa, e punta alla spallata. La verità è che quello di Renzi è il primo vero governo tecnico.

Corriere 18.5.14
La corsa del premier a quel 5% indeciso se votare Pd
Al Nazareno timori per le amministrative persino nelle roccaforti «rosse»
di Maria Teresa Meli

ROMA. Cinque per cento. È una cifra da tenere a mente e da ricordare la notte del 25 maggio, quando si sapranno i risultati delle europee.
È la cifra che deciderà se quello di Beppe Grillo sarà ancora il partito più votato dagli italiani residenti nel nostro Paese, come accadde nelle politiche dello scorso anno, o se, piuttosto, questo primato gli verrà strappato nel giro di sei mesi (cioè da quando è stato eletto segretario del Pd) da Matteo Renzi.
È la cifra che spiega perché il presidente del Consiglio abbia deciso di scendere in campo con tanta forza in questa campagna elettorale, prendendo di mira il leader del Movimento Cinquestelle. Si tratta infatti, come spiega su «Europa» il politologo Paolo Natale, esperto della materia e consulente dell’Ipsos, della percentuale dei votanti effettivi che è ancora incerta se votare per Beppe Grillo o per il Partito democratico.
È vero che sinora alcuni sondaggi pubblicati fino al divieto elettorale davano addirittura dieci punti di distanza tra il Pd e i Cinquestelle, ma c’è da dire che Renzi non ha mai dato troppo credito a queste rilevazioni e che comunque riguardavano interviste fatte agli elettori prima che scoppiasse il caso dell’Expo, su cui, come sostiene il premier, Grillo «si è fiondato come uno sciacallo». Anche per questo motivo il presidente del Consiglio ci ha voluto «mettere la faccia», cercando di trasformare quella grana in un’occasione «per marcare la differenza tra il nostro modo di fare e certe pratiche antiche e poco lineari».
Dunque, l’avversario è Grillo. Il Pd è convinto di essere ben posizionato nel Nord est e nel Nord ovest, ma teme per le altre aree del Paese. «L’unica cosa che sanno fare Grillo e certi suoi epigoni — è il succo del ragionamento che il premier va facendo in questi giorni ai suoi — è sperare di ottenere vantaggi da eventuali errori del governo o del Partito democratico. È per questa ragione che non possiamo permetterci neanche uno sbaglio. Il nostro lavoro al governo è appena iniziato e non può essere interrotto, non lo dico perché sono attaccato alla poltrona, perché non è così, lo dico perché se andiamo bene noi, va bene anche l’Italia».
Già, ma Renzi sa che il leader del Movimento cinquestelle «trova terreno fertile» nelle «zone dove c’è maggiore disperazione e povertà» ed è per questo che secondo lui è proprio in quella parte d’Italia che il Partito democratico deve «far capire che il Paese può riprendere a sperare, che può riuscire a farcela». In questo modo, a suo giudizio, si toglierà «il terreno da sotto i piedi a Grillo». È quindi il Meridione(e la Sicilia soprattutto) a preoccupare il Partito democratico e il Presidente del Consiglio. Del resto, Renzi ha potuto toccare con mano nella sua trasferta a Palermo che la situazione da quelle parti è difficile. E anche altrove è dura. A Bari Michele Emiliano è rimasto male perché non ha fatto il capolista per le Europee, tant’è che c’è chi lo dà in avvicinamento ai grillini, benché lui smentisca categoricamente. A Salerno Vincenzo De Luca ha rotto i rapporti con Renzi, secondo le malelingue perché si aspettava un posto nel nuovo governo. Insomma nel Sud il premier non sembra messo benissimo, ma tutti sanno che sono gli ultimi giorni di campagna elettorale quelli che decidono le sorti del voto.
Se i grillini andassero bene alle europee, ragionano al Nazareno, sede nazionale del Partito democratico, c’è il rischio che vi sia un effetto trascinamento anche sulle elezioni amministrative, un voto questo in cui, salvo rare eccezioni (come quella di Parma), il Movimento cinquestelle «non ha mai brillato in modo particolare». Ma questa volta potrebbe essere diverso. L’estrema politicizzazione della campagna elettorale e il previsto calo del centrodestra potrebbero favorire i grillini. È questa eventualità che ha spinto il responsabile Enti Locali della segreteria del Partito democratico a dire nei giorni scorsi: «Nessuno immagini di essere già sicuro».
Insomma, anche chi, in teoria, avrebbe la vittoria in tasca in un comune blindato è bene che si mobiliti ventre a terra, perché nel Pd si teme che il voto grillino si estenda a macchia d’olio nelle zone tradizionalmente «rosse» come l’Emilia-Romagna e la Toscana.

Repubblica 18.5.14
Il 25 maggio bisogna votare per Renzi e per Schulz
di Eugenio Scalfari

DA MOLTE settimane, esattamente da quando all’improvviso mise in crisi il governo Letta con un voto quasi unanime della direzione del Pd di cui era (ed è tuttora) il segretario politico, io ho criticato il governo Renzi e soprattutto lui medesimo che accentra nelle sue mani tutto il potere, con una minoranza di sinistra che di fatto si è messa il silenziatore per disturbarlo il meno possibile.
Le ragioni delle mie critiche sono note. Riguardano la legge sul lavoro, la rottura con le organizzazioni sindacali, la legge elettorale, la riforma (di fatto l’abolizione) del Senato e la rivalutazione di Berlusconi. Quest’ultima era forse inevitabile per mandare avanti il programma di riforme, ma in tutte le cose e specialmente in politica c’è modo e modo di ottenere un risultato senza intestarlo con inutile enfasi ad un uomo che per vent’anni ha sgovernato il Paese e — dopo decine di leggi ad personam — è stato finalmente condannato con sentenza definitiva. Un pregiudicato insomma e non un padre della Patria.
Ma la critica maggiore che ho sempre ripetuto al simpaticissimo Matteo Renzi — che sa vendere i suoi “articoli” mirabilmente — è stata quella che, lungi dal risolvere uno per ogni mese a cominciare da subito, i problemi che affliggono il Paese da trent’anni, non avrebbe potuto fare altro che proseguire il programma già impostato da Monti e poi aggiornato e avviato da Letta con i tempi e i passaggi da lui previsti e addirittura, per la sua parte maggiore, già contenuto nella legge di stabilità scritta da Letta con la preziosa collaborazione dell’allora ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni e approvata in via definitiva dal Parlamento.
IN EFFETTI le cose sono andate ed andranno così. Ormai a dirlo non è più soltanto il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, ma lo stesso Renzi: «Per vedere i risultati ci vorranno un paio d’anni». Noi lo sapevamo, tutti quelli che si occupano dei problemi attuali lo sapevano e Renzi stesso, che è persona di indubbia intelligenza anche se finora la sua sola e breve esperienza politica è stata quella di sindaco, lo sapeva. Ma voleva quel posto subito e perciò ha detto il contrario della verità e il suo partito gli ha creduto. Poi, adesso, la verità è chiara a tutti.
I lettori mi perdoneranno questa lunga ma indispensabile premessa. Indispensabile perché ora debbo infatti dire agli elettori che rappresentano la parte responsabile del Paese e che mi auguro siano una cospicua maggioranza del corpo elettorale, che debbono a mio avviso votare per il Pd e quindi per Matteo Renzi che ne è il leader. Naturalmente il mestiere che faccio mi impone di dimostrare il perché di questa esortazione ed è quanto ora mi accingo a fare.
***
Tra sette giorni da oggi gli europei e quindi anche gli italiani andranno a votare per eleggere i deputati al Parlamento di Strasburgo. La legge con la quale si voterà è proporzionale con una soglia di sbarramento del 4 per cento; chi non la supera resta fuori.
Gli ultimi sondaggi consentiti dalla legge davano Forza Italia in rapida e inarrestabile discesa: rischia un risultato per loro catastrofico.
Grillo è in salita. E molti prevedono che lo scandalo dell’Expo possa farlo ancora crescere: potrebbe avvicinarsi pericolosamente al Pd di Renzi. Le ripercussioni in Europa saranno di una certa gravità ma non catastrofiche. Male che vada i partiti antieuropeisti o euroscettici e contrari all’euro non dovrebbero superare il 30 per cento, anzi le previsioni europee più attendibili li danno più vicini al 20 che al 30.
Si profila come possibile un’alleanza a Strasburgo dei popolari con i socialdemocratici, già più volte avvenuta. Da questo punto di vista dunque non ci dovrebbero essere temibili ribaltoni salvo un punto tutt’altro che trascurabile: questa volta la nomina del presidente della Commissione europea (che è poi l’organo di governo della Ue) spetta al Parlamento e non più al Consiglio dei primi ministri dell’Unione. Si tratta di un passo avanti estremamente importante nella faticosa (e troppo lenta) costruzione dell’Europa federale. Se i popolari prevalessero sia pur di poco sui socialdemocratici, il presidente non sarebbe il socialdemocratico Schulz ma un altro scelto dai popolari che non ne hanno ancora detto il nome. Forse non un tedesco (Schulz invece è tedesco ma non gradito alla Merkel e alla Cdu-Csu) ma un democristiano. È pur vero che a Berlino c’è ora un governo di grandi intese tra democristiani e socialdemocratici, ma il Cancelliere con i poteri del cancellierato è Angela Merkel.
Insomma, l’esito delle elezioni europee e quindi la scelta del nuovo presidente della Commissione Ue, dipende dal voto del 25 maggio. Di tutti i partiti italiani in lizza il solo che ha assicurato di votare Schulz è il Pd di Renzi. Non ci fossero altri motivi (e ci sono e li vedremo tra poco) gli italiani responsabili che vogliono veder progredire l’Unione Europea verso uno Stato federale non hanno altra scelta che votare per il Pd.
*** Prima di lasciare il tema europeo ci sono tuttavia altre importanti considerazioni da aggiungere. Ne ha già parlato con dovizia di notizia di argomenti Bernardo Valli nel suo articolo di venerdì scorso. Ne ho parlato anch’io nell’ultimo numero dell’ Espresso recensendo un pregevole libro del germanista Angelo Bolaffi dal titolo Cuore tedesco. Ma vale la pena di parlarne ancora sia pur brevemente.
Che la Germania, dopo la caduta del muro di Berlino e la riunificazione dell’Est con l’Ovest, sia di nuovo diventata la potenza egemone al centro dell’Europa è fuori di ogni dubbio e chiudere gli occhi a questa realtà sarebbe comportarsi peggio di uno struzzo.
Ma è la stessa Germania ad essere piena di incertezze e profondamente divisa al proprio interno sulle iniziative da prendere. Direi che ogni tedesco, ogni famiglia, ogni ceto ed ogni azienda tedeschi sono diversi dentro di loro e lo è altrettanto la stessa Merkel.
La conseguenza (deleteria) è che l’incertezza tedesca si riflette inevitabilmente sulle istituzioni europee. Esse sono e si sentono dominate dalla Germania la quale le guida per interposte persone. I tedeschi occupano nell’Unione una serie di strutture operative ma nei posti di vertice appaiono assai poco. Dominano le strutture ma non le rappresentano verso l’esterno.
Si aggiunga a questa situazione le posizioni della Gran Bretagna, che è fuori dall’euro ed euroscettica, della Polonia anch’essa fuori dall’euro e della Francia che è un caso a parte.
La Francia è l’altra grande potenza europea e la Comunità europea prima e l’Unione poi sono nate perché Francia e Germania decisero 60 anni fa di scrivere la parola fine sui loro contrasti secolari e imboccare la via non della tregua ma della pace. La Francia però, finora, si è trincerata dietro la sua storica ma non più attuale, grandeur e non contempla finora un’Europa veramente federale. Vuole che l’Ue resti una confederazione di Stati sovrani con qualche sobria cessione di sovranità. In questa fase tuttavia sta attraversando una crisi economica non molto dissimile dalla nostra. Se continuerà così avrà bisogno che la Germania allenti le briglie dell’austerity e la Germania, di fronte ad una richiesta proveniente da Parigi, non potrà rifiutarsi.
Non potrebbe neppure rifiutarsi se i movimenti anti-europei e anti-euro diventassero una forte minoranza al Parlamento di Strasburgo e nella stessa Germania.
Infine c’è ed opera con coerente fermezza la Bce guidata da Draghi, la sola istituzione finora che sia realmente sovranazionale rispetto alla confederazione degli Stati europei.
Se in questa situazione così complessa e fragile fosse Schulz a guidare la Commissione di Bruxelles, l’Europa potrebbe compiere un passo avanti decisivo e forse la Germania uscirebbe dalla sua incertezza. Schulz alla guida della Commissione sarebbe il primo tedesco al governo dell’Europa ed è il più dichiaratamente europeista ed interventista, politicamente ed economicamente, dei tedeschi. Questo è dunque il significato del 25 maggio. Tenetelo ben presente quando andremo alle urne.
***
Infine c’è il significato di politica interna delle elezioni imminenti. Se il Pd riuscisse ad ottenere almeno 5 punti sopra il movimento grillino, l’affermazione di quest’ultimo sarà stata certamente notevole ma quella del Pd altrettanto. In una situazione di quel genere Renzi avrà interesse a governare fino alla scadenza naturale della legislatura puntando sul rafforzamento del suo governo (che oggi forte non è) e facendo il possibile perché il partito di Alfano faccia breccia nel fronte moderato. Quanto al Pd dovrà essere un perno centrale tra una destra moderata ed europeista e la sinistra di Vendola ma anche, con gli opportuni distinguo, dei Zagrebelsky e dei Rodotà.
Un grande partito democratico deve avere una sua destra e una sua sinistra ed alcune neutralità possibilmente amichevoli di forze sociali che sono anche canali di consenso.
Si porrà anche, ad un certo punto, il problema del Quirinale già preannunciato da Giorgio Napolitano. Ci sono vari possibili e validi candidati anche se sarà difficile che sappiano emulare il Presidente uscente. Personalmente ho un’idea chiara in proposito ma dirla ora significherebbe soltanto bruciarla. C’è ancora tempo ma a quel punto è sperabile che la candidatura quale che sia venga accettata dalle Camere rapidamente. Il Quirinale è la più alta magistratura e personifica lo Stato. Gli italiani amano poco lo Stato ed esso ha fatto complessivamente assai poco per essere amato. Questo sarà il compito del futuro: uno Stato amato, un’Europa federale che sia competitiva sui grandi temi nella società globale. L’Europa è stata la culla dell’Occidente; i diritti dell’uomo e del cittadino sono nati qui e mai come oggi il mondo ha bisogno di conoscerli e di applicarli. Buona vita e buona fortuna.

il Fatto 18.5.14
Tutela zero. Emporio rinascimentale
Sfilate, golf, cene e Masai: se hai i soldi ti prendi la città
di Tomaso Montanari
  
Come Scajola, anche Dario Nardella agisce a sua insaputa. Ignorava che la sua amministrazione avesse noleggiato Santa Maria Novella a una delle più importanti banche d’affari del mondo. Bizzarro, perché durante il regno del suo mentore Matteo Renzi, la privatizzazione del patrimonio monumentale è diventato il core business di Firenze.
NEL SETTEMBRE 2011 si prova a inviare la Velata di Raffaello nella hall di un grande albergo di Montecarlo, in occasione del Ballo del Giglio: “Si era pensato di arrivare con un omaggio per la principessa”. Nel gennaio del 2012 il Salone dei Cinquecento diviene la location di una sfilata di moda di Ermanno Scervino, lo stilista del sindaco e signora. Nel giugno seguente Madonna noleggia gli Uffizi per una visita privata, soprintendente inclusa. Il giorno dopo lo stilista Stefano Ricci fa correre una tribù di Masai nei corridoi degli Uffizi. A seguire, esclusiva cena di lusso.
Nell’aprile del 2013 è la volta del matrimonio di un magnate indiano: viene chiusa ai fiorentini Piazza Ognissanti, e il Cortile dell’Ammannati in Palazzo Pitti è travestito da pagoda bollywoodiana. Sabato 29 giugno si tocca l’apice: Renzi trasforma Ponte Vecchio in location per una festa della Ferrari. Un evento esclusivo in senso letterale, perché i cittadini sono allontanati dal ponte, chiuso alle estremità e costellato di tavole imbandite. I permessi vengono rilasciati solo il giorno dopo, e la Ferrari darà la metà delle cifre annunciate da Renzi.
UN MESE dopo trapela un vero e proprio tariffario per la “concessione in uso dei beni culturali per eventi” da parte del Polo Museale fiorentino. Per fare un cocktail nella Grotta del Buontalenti a Boboli bastano 5000 euro. Per una cena agli Uffizi, 10.000.
L’8 settembre cinquanta pulmini sono parcheggiati in Piazza Pitti, requisita insieme al Palazzo dal Fondo Azimut per una cena privata: alle domande sul compenso, la soprintendenza risponde che non è possibile comunicarlo senza l’assenso del noleggiatore privato. Tanto per chiarire chi è il padrone.
NEL FRATTEMPO un sito web offre la Sala di distribuzione della Nazionale di Firenze come “location perfetta per meeting aziendali, lanci di prodotti, cene, ricevimenti”. Dopo aver ospitato una partita di golf, il 9 gennaio 2014 la Sala di Lettura chiude per accogliere una sfilata di moda.
Tutto all’insaputa di Nardella. Il quale, dopo aver appreso dal Fatto Quotidiano che lui stesso aveva ottenuto dalla Morgan Stanley solo 20.000 euro, ha chiesto “lo sforzo” di arrivare a 40.000. Forse tra le cose che Nardella non sa, c’è anche che se una coppia di ragazzi fiorentini vuole sposarsi nel Salone dei Cinquecento deve pagare 5000 euro: come può chiederne solo 40.000 a 120 milionari ospiti dei banchieri più ricchi del mondo?
I cartelli che venerdì annunciavano ai fiorentini e ai turisti la chiusura di Santa Maria Novella accampavano “motivi liturgici”: e in effetti il culto del denaro e del potere ha le sue liturgie. E i suoi rosari di menzogne.

il Fatto 18.5.14
Camilleri, Guzzanti e Maselli a sostegno della Lista Tsipras

UN’ALTRA EUROPA che metta al centro dell’azione politica e di governo l’impegno e il sostegno alla cultura, al cinema, al teatro, alle arti, alla lettura, alla scuola. È quello che chiedono un gruppo di intellettuali italiani al leader greco di Syryza, Alexis Tsipras, candidato alla presidenza della Commissione europea. Andrea Camilleri, Sabina Guzzanti, Citto Maselli, Felice Laudadio, Piero Bevilacqua, e molti altri intellettuali (la raccolta delle adesioni è iniziata solo ieri) nella lettera annunciano inoltre il sostegno alla Lista Tsipras in Italia, di fronte a un quadro desolante del panorama politico italiano. “Non è certo un caso – scrivono - che questo appello ti venga da un Paese come l’Italia, dove venti anni di dominio politico e mediatico di un personaggio simbolo come Berlusconi hanno costruito un senso comune cui nemmeno una parte rilevante della sinistra (o meglio del centro-sinistra) si è sottratta”.

il Fatto 18.5.14
A Bruxelles ce l’hanno con noi: chiudiamo i seggi troppo tardi
In Italia si vota fino alle 23 e i risultati delle Europee arriveranno di notte
di Stefano Feltri

A Bruxelles stanno facendo di tutto per trasformare queste elezioni nel primo vero voto politico sull’Europa, un po’ come se fossero le presidenziali Usa. Al secondo piano del palazzo del Parlamento intitolato ad Altiero Spinelli c’è un colossale studio televisivo, maxi-schermi, una società di sondaggisti francesi è pronta a fare le proiezioni sulla composizione del Parlamento aggregando i dati nazionali. “Peccato che l’Italia abbia reso tutto questo inutile”, è il commento che si registra nei corridoi del Parlamento in questi giorni: l’esperimento democratico europeo non riuscirà a conquistare la prima serata delle tv del continente per colpa dell’Italia che costringe gli altri 27 Paesi ad aspettare la notte per divulgare i risultati. Per risparmiare qualche soldo, infatti, il governo Letta nel 2013 stabilì che da quest’anno le elezioni si terranno solo di domenica, “dalle ore 7 alle 23”. Un giorno in meno del solito per votare, ma un’appendice serale di un’oretta nella speranza di contenere i danni ed evitare che l’astensionismo esploda finendo per penalizzare (soprattutto) il Pd di Renzi: nel 2009, ad esempio, alle Europee votò il 65% degli aventi diritto, stavolta dovrebbero essere ancora meno – gli ultimi sondaggi quotano l’astensionismo al 37% – cui vanno aggiunti gli indecisi, un 17%, sempre bendisposti a starsene a casa.
TORNANDO a Bruxelles, visto che il governo Renzi ha confermato la decisione di Letta, tutta Europa deve rallentare per aspettare gli italiani: i nostri risultati arriveranno a notte fonda mentre in altri Paesi le urne saranno già chiuse da ore o da giorni. In Olanda e Gran Bretagna si vota giovedì 22, in Irlanda venerdì 23, in Lettonia, a Malta e in Slovacchia sabato 24, la Repubblica Ceca comincia il sabato e continua domenica, quando voteranno tutti gli altri. Nessuno, però, finisce tardi come l’Italia. È di lunedì scorso la decisione della commissione elettorale di Zagabria: alle loro prime elezioni europee, i croati non potranno commentare i risultati con gli speciali tv fino alle 23. Anche se i seggi si chiudono alle 19, bisogna aspettare gli italiani. Le tv italiane a Bruxelles stanno cercando di capire come muoversi : è praticamente impossibile che non filtri alcuna informazione fino alle 23 della domenica, anche perché in molti Paesi ci sono anche elezioni domestiche (il Belgio vota le politiche). E gli exit poll? E le proiezioni? È lecito dare informazioni, anche parziali, sull’andamento del voto in altri Paesi se questo può influenzare le scelte degli italiani? Il garante delle comunicazioni (Agcom) dovrà rispondere in tempi rapidissimi.
Se fosse un’elezione come quelle del passato, il danno sarebbe minimo: tanto il risultato era sempre già scritto, il Parlamento se lo spartivano le due grandi “famiglie” (così si chiamano i partiti in Europa) dei socialisti e dei popolari mentre i governi nazionali riuniti nel Consiglio europeo sceglievano da soli il presidente della Commissione. “In un momento in cui l’Unione cerca di superare la crisi economica e i leader europei riflettono su quale direzione prendere in futuro, queste sono, a oggi, le elezioni più importanti”, si legge nel materiale informativo (e come sempre un po’ propagandistico) del Parlamento europeo. È il primo voto in cui vale il Trattato di Lisbona: i governi nazionali non potranno più scegliere il presidente della Commissione (l’esecutivo comunitario) in autonomia, ma dovranno “tenere conto” del risultato elettorale. Tradotto: il successore di José Barroso alla commissione dovrebbe essere uno dei cinque candidati principali, Martin Schulz (socialisti), Jean Claude Juncker (popolari), Ska Keller (Verdi), Guy Verhofstad (liberali) o Alexis Tsipras (sinistra).
MA NIENTE è scontato: Angela Merkel sta provando a fare in modo che siano ancora i governi a decidere da soli e quindi ha convocato i capi di stato e di governo per la sera del 27. Il Parlamento ha risposto fissando una riunione dei capigruppo per la mattina del 27, in maniera che siano loro a stabilire il vincitore e a fare il nome al Consiglio che poi dovrà ratificarlo. Socialisti e popolari sono quasi in pareggio e, secondo gli ultimi sondaggi, molto si deciderà in Italia dove c’è l’unico partito di centrosinistra in crescita (il Pd di Matteo Renzi), una delle più rilevanti forze euroscettiche (M5S) e in cui Forza Italia ha un piede fuori dal Ppe, che considera Silvio Berlusconi un paria.

Repubblica 18.5.14
Il saggio
Dall’antifascismo militante al movimento studentesco Negli inediti dello storico e filosofo italiano le fasi di un lungo studio
Bobbio-Marx tre incontri cruciali
di Nadia Urbinati

CHI «entra nel labirinto dell’opera di Bobbio si accorge presto che Marx non è indicato tra gli autori prediletti», eppure egli è sempre stato “affascinato” dal suo pensiero politico e filosofico. Così Cesare Pianciola e Franco Sbarberi introducono questa antologia di scritti inediti di Norberto Bobbio. I suoi “incontri” con Marx hanno coinciso con momenti cruciali della storia nazionale, a dimostrazione del fatto che le idee di Marx non hanno solo suggerito interpretazioni della società, ma ispirato l’azione politica
stessa, di movimenti e partiti.
Tre sono stati i “momenti cruciali” dell’incontro: “l’antifascismo militante” (1941-42), i “problemi della ricostruzione” (1945-50) e il movimento di contestazione degli anni ’60 e ’70. Tre momenti e tre piani di discussione su Marx: la sua filosofia della storia e quindi la via al socialismo; la sua scienza della società e quindi la totalità della dialettica; la sua visione politica e quindi il ruolo dello stato. Questi testi inediti testimoniano le tappe di questa ricerca e ci consegnano un Bobbio che legge Marx in chiave liberalsocialista centrata sul primato del potere economico, la diagnosi critica della riduzione del lavoro a merce, e la ricerca di una società nella quale l’individuo dovrebbe godere della libertà che il liberalismo ha promesso senza riuscire a garantire.
Emerge anche come Bobbio abbia riconosciuto il valore originario del movimento studentesco. È noto come avesse a più riprese criticato la democrazia assemblearistica e leaderistica del movimento. Ora, i curatori ci consegnano un Bobbio per nulla professorone pieno di certezze su quel che era vivo e morto della sinistra, ma al contrario un contestatore al pari degli studenti che lo contestavano quando si trattava di chiedere (come si legge in una lettera inedita a Pietro Nenni del dicembre 1967) “una maggiore moralizzazione della vita universitaria” o di criticare i colleghi che avevano “rivendicato il diritto di essere contemporaneamente deputati e professori”.
Andare contro corrente è stato uno stile del pensare critico di Bobbio. Come Politica e cultura (1955) maturò nel corso del dialogo con il marxismo e i comunisti nell’età della guerra fredda, Il futuro della democrazia (1984) è stata l’esito delle riflessioni su marxismo e democrazia sollevate dal movimento di contestazione; di qui la sua diagnosi dei tre maggiori problemi della democrazia rappresentativa: la “partecipazione distorta”, il “controllo inefficace” e il “dissenso limitato”. Problemi che sono ancora qui, aggravati, e che il professore ci aiuta a riesaminare. I problemi sono seri e enormi, scriveva, e “ogni forma di semplificazione” o di “ricerca delle scorciatorie” è “perfettamente inutile e imprudente”. (Scritti su Marx, Norberto Bobbio, Donzelli, pagg. 132, euro 19,50)

Repubblica 18.5.14
La poesia del mondo
Lo scrigno di Montale a chiusura ermetica
Indecifrabile a una prima lettura, “Le occasioni” nasconde dietro i versi segreti e riferimenti precisi alla vita sentimentale del poeta e un aggettivo, “freddoloso”, cela il nome dell’amata, idealizzata come avrebbe fatto un Dante ateo
di Walter Siti

Lei si chiama Brandeis che in tedesco, scomposto, può essere letto come “incendio di ghiaccio” (in un altro componimento dirà “fuoco di gelo”)
Qui diventa chiara l’idea di amore dell’autore, dove la donna è messaggera per uno sconosciuto aldilà, scala per un’ossessione più metafisica
POESIA chiusa, piuttosto indecifrabile a una prima lettura: chi è la donna (anzi l’essere umano, perché nemmeno il sesso è precisato; anzi l’essere, perché perfino la sua umanità è messa in dubbio dalle “penne”), chi è la creatura a cui ci si rivolge e perché sta lì? Perché la sua presenza resta incognita alle “altre ombre”? Perché sono ombre, e il loro non-sapere merita di essere segnalato? Guardando alla data, 1940, si direbbe in modo spiccio “ermetismo”; ma non è come in Quasimodo o in Luzi, dove l’oscurità del testo tende a dilatarsi portando le parole verso un limite di significazione indefinita, o abissale: qui l’incomprensibilità tende al segreto, come se il
testo fosse uno scrigno di desiderio e di verità da difendere gelosamente — sottraendo ai profani quegli umili dati circostanziali che chiarirebbero la situazione. È un difetto di contesto insomma, non un’ambizione di poesia pura perché vaga e generalizzante. Anzi, dal punto di vista formale tutto è molto preciso e realistico: i passanti non girano l’angolo ma “scantonano nel vicolo”, l’ombra nera è incorniciata con nettezza nel riquadro del cortile, l’ora è esatta — e sembra un’incisione di Dürer l’immagine dell’essere alato con la fronte imperlata di ghiaccioli, le penne lacerate, persa in un sonno che è stanchezza e incubo da cui si riscuote “a soprassalti”. La metrica è un vero gioco a incastro: due quartine di endecasillabi apparentemente non rimati (tranne le quasi-rime “alte/soprassalti” e “ghiaccioli/sole”); ma poi “mezzodì” rima con “qui”, “raccogliesti” con “desti”, “nebulose” è in quasi-rima con “freddoloso”e gli sdruccioli dei vv. 5 e 7 si rispondono. La sintassi si inarca sulla metrica annullando il ritmo endecasillabico, ma pezzi di versi contigui formano invece endecasillabi perfetti (“s’ostina in cielo un sole freddoloso”). È un rimpiattino con la tradizione, un adeguarsi e un sottrarsi, come un prestigiatore che fa sparire un oggetto e poi riapparire come per magia.
Diamoli allora questi dati circostanziali che chiariscono il testo. La donna è Irma Brandeis, un’ebrea americana d’origine austriaca di cui Montale s’era innamorato a Firenze nel 1933; amore passionale ma poco vissuto, lei nel 1938 era tornata in America a causa delle leggi razziali, lui non aveva avuto il coraggio di raggiungerla (Drusilla Tanzi, che poi avrebbe sposato, minacciava il suicidio se abbandonata). Stanche e tristi lettere erano intercorse dopo la partenza di lei: l’ultima è datata al dicembre 1939, un mese prima della composizione del nostro testo. Lei torna, in sogno o in visione, a visitarlo. Ha traversato l’Atlantico volando negli strati alti dell’atmosfera (le “nebulose” saranno le nuvole ma certo alludono al cosmo), “metà angelo e metà procellaria”; lui, riscattando oniricamente una debolezza di cui si rimprovera, assiste al suo sonno e la cura, la protegge. La frangia dei capelli era il dettaglio di lei che amava di più e gliela accarezza scaldandola; è un’ora comune per tutti ma per lui è l’ora delle visitazioni angeliche. Lei si chiama Brandeis, che in tedesco può essere scomposto e letto come “incendio di ghiaccio” (“fuoco di gelo”, dirà in un’altra poesia); qui il freddoloso sole invernale è un accenno criptato al suo cognome, il particolare che forse l’ha evocata, un ammicco tra loro che deve restare segreto all’altra donna.
Con Irma (a cui in altre poesie attribuirà i soprannomi di Clizia, o Iride) arriva alla massima chiarezza l’idea montaliana di amore-passione: la donna è la scala per un’ossessione più metafisica, messaggera di un aldilà di cui Montale non sa nient’altro se non che deve esistere, oltre una barriera.
La Brandeis era venuta a Firenze perché studiava Dante e certo le donne poetiche montaliane somigliano a Beatrice ma per un Dante che non crede in Dio. Per questo la donna è meglio lontana che vicina, così può idealizzarla come vuole — l’amore diventa un marchio di aristocrazia per gli uomini che non si accontentano di vivere e basta. Gli uomini che invece non sanno niente di Irma e della sua visitazione, sono “altre ombre” che quasi non si distinguono dall’ombra del nespolo: uomini che scantonano via dall’Assoluto, mai esponendosi all’amore verticale ed escludendo la possibilità stessa di “un’altra orbita”.
Per Maria Luisa Spaziani, dieci anni dopo, Montale scriverà versi che richiamano questi: anche lei gli ricorderà “lo strazio/di piume
lacerate”, anche lì compiangerà i “ciechi” che “non ti videro/sulle scapole gracili le ali”. Ma sarà un surrogato, un tentativo di mediazione tra cielo e terra: l’esperienza folgorante dell’angelo incarnato si vive una volta sola nella vita. Da vecchio riparlerà con ironia tenera della Brandeis e della vigliaccheria propria (lei lo voleva arruolato volontario nella guerra di Spagna); non sarà più così bisognoso di sublime, si mostrerà vecchio dandy superstizioso e disilluso; ma l’Assoluto che ti viene a trovare in camera, di nascosto da tutti, quello non potrà mai dimenticarlo. Lei nel frattempo è diventata un’accademica esperta della Divina Commedia e lui loderà i suoi scritti: ma nell’ultimo bigliettino che le manda, poco prima di morire, ancora la chiamerà “my divinity”.
Eugenio Montale, da Le occasioni, Einaudi 1940:
Ti libero la fronte dai ghiaccioli che raccogliesti traversando l’alte nebulose, hai le penne lacerate dai cicloni, ti desti a soprassalti.
Mezzodì: allunga nel riquadro
il nespolo
l’ombra nera, s’ostina in cielo un sole freddoloso; e l’altre ombre
che scantonano
nel vicolo non sanno che sei qui.
Eugenio Montale (Genova, 12 ottobre 1896 - Milano, 12 settembre 1981) è stato un poeta, scrittore, giornalista italiano, insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1975 e senatore della Repubblica dal 1967

Corriere 18.5.14
Quell’iniezione fatale e il piano dei Kennedy
Marilyn, l’ultimo atto
di Ennio Caretto

NEW YORK — A 51 anni dalla morte di Marilyn Monroe il 4 agosto del 1962, Jay Margolis e Richard Buskin del New York Times , due giornalisti americani autori di molti best seller, annunciano di averne risolto il mistero. In un libro intitolato «L’assassinio di Marilyn Monroe: caso chiuso» pubblicato dall’editrice Skyhorse, Margolis e Buskin affermano che l’attrice non si suicidò, come concluso dalle autorità, ma venne uccisa dal proprio psichiatra Ralph Greenson dietro pressione di Bob Kennedy. E ne svelano quelli che ritengono i retroscena.
Dopo essere stata l’amante del presidente John Kennedy, l’attrice era diventata l’amante del fratello Bob, il ministro della Giustizia. Secondo il cognato dei Kennedy Peter Lawford, «i due se la passavano come una palla». Ma Marilyn voleva essere sposata, e quando entrambi si rifiutarono di divorziare dalle mogli, li minacciò di rivelare ai media tutti i segreti personali e politici dei Kennedy. Stando a Margolis e Buskin, «li aveva annotati in un piccolo taccuino rosso» poi scomparso. L’ultimatum, scrivono i due giornalisti, convinse Bob Kennedy, in lite con lei, che l’attrice andava eliminata. Peter Lawford lo aveva informato che Marilyn aveva un altro amante, lo psichiatra Greenson, e il fratello del presidente lo intrappolò: se la tresca fosse venuta alla luce, non avrebbe più potuto esercitare la professione e forse sarebbe finito in carcere. Non sarebbe stata solo la fine della dinastia Kennedy. La ricostruzione della morte della dea hollywoodiana fatta da Margolis e Buskin è terrificante. Bob Kennedy entra con le guardie del corpo nella villa di Lawford dove la Monroe è ospite per farsi consegnare «il piccolo taccuino rosso». Lei rifiuta, lui le fa iniettare alcuni barbiturici e chiama Greenson affinché la finisca. Ma l’attrice, che ha perduto i sensi, viene scoperta dalla cameriera, che chiama l’ambulanza. Il paramedico è James Hall, e secondo gli autori la sua testimonianza è determinante. Hall riesce a rianimare Marilyn ma Greenson, giunto nel frattempo, le fa un’iniezione di pentabarbitol al cuore. L’attrice spira di lì a poco. La tesi dell’assassinio non è nuova. Ma in precedenza, l’assassinio venne attribuito prevalentemente all’Fbi e alla Cia, che lo avrebbero compiuto per proteggere i Kennedy, o alla mafia, che lo avrebbe compiuto per mettere le mani sul libretto rosso dell’attrice. Nel loro processo a Bob Kennedy Margolis e Buskin ci mettono la faccia, resta da vedere con quali conseguenze.

Corriere 18.5.14
Un vulcano di nome Europa
Nel primo Novecento regnava la fiducia nel futuro ma le tensioni sotterranee produssero la catastrofe
di Giuseppe Galasso

L’Europa del 1914 divenne ben presto un mito dopo che oltre quattro anni di guerra avevano sconvolto ogni aspetto della sua vita civile e morale. Ma che cosa era quel mondo di prima della guerra fatto poi oggetto di rievocazioni intensamente nostalgiche?
La realtà delle sue dimensioni materiali e morali era imponente. Pochi Paesi europei possedevano i tre quarti del globo. I loro eserciti e le loro flotte erano paurosamente consistenti e potenti. Le economie dei Paesi più sviluppati erano tali da non far neppure pensare a confronti che con gli Stati Uniti. Londra e Parigi erano le capitali della finanza mondiale. Il tenore di vita era nettamente superiore a quello di altri continenti. Ovunque, sia pur lentamente, si affermava un regime di libertà.
Ancora di più si può dire per la cultura, il progresso scientifico e tecnico, i centri di studio. L’atmosfera generale era ispirata a un illimitato ottimismo: forse solo al tempo dell’Illuminismo, nel Settecento, le sorti dell’umanità erano apparse altrettanto «magnifiche e progressive». E c’era anche chi — come il grande naturalista Ernst Haeckel in un bestseller da 400 mila copie — riteneva che, dei sette grandi «enigmi del mondo», sei fossero stati già sciolti, sicché ne rimaneva ancora uno solo da sciogliere. Anche la guerra appariva come un’eventualità indubbia della storia, ma era pure ovunque nato un movimento pacifista di larghissima diffusione (uno dei premi Nobel fu riservato fin dall’inizio alla pace e nel 1907 ne fu insignito l’italiano Ernesto Moneta).
Per tutto ciò si è poi parlato della Belle époque di prima della tragedia della guerra. Eppure, in questo mondo di certezze e di ottimismi molte spinte e fermenti espliciti o impliciti apparivano diversi e opposti.
A cominciare, intanto, dalla stessa posizione dell’Europa nel mondo. Stati Uniti e Giappone apparivano ormai potenze economiche, politiche e militari di grande livello. Nei possedimenti europei erano cominciate agitazioni politiche e sociali per l’indipendenza, che l’Europa fronteggiava con difficoltà, perché esse si sviluppavano sulla base di idee tutte europee.
Più gravi, però, apparivano questioni interne come quella nazionale e quella sociale. Benché le aspirazioni nazionali fossero già state soddisfatte in molti Paesi, numerosi erano i popoli per i quali ciò non era accaduto. Così in Irlanda, fra i cechi e gli italiani dell’Austria-Ungheria, fra i polacchi d’Austria, Germania e soprattutto Russia. In qualche caso c’era una questione di rivincite aperte, come tra Francia e Germania per la guerra del 1870-71, costata alla prima la perdita dell’Alsazia e della Lorena. Inoltre, le nazioni balcaniche apparivano in un fermento ingovernabile. Fra il 1911 e il 1913 avevano combattuto complicate guerre con la Turchia e tutte si ritenevano maltrattate dalle successive paci. I Balcani apparivano perciò come il «ventre molle» dell’Europa, e fu qui che, non per caso, ebbe luogo l’attentato che portò alla Grande guerra.
La coscienza di queste soggiacenti tensioni alimentava una gara costante agli armamenti in tutte le grandi e piccole potenze, come in specie tra Germania e Inghilterra per quelli navali. Forti erano anche le rivalità per le colonie. Conflitti furono evitati in extremis tra Francia e Inghilterra nel 1898 e tra Germania e Francia nel 1907. Ma il militarismo e il bellicismo erano di certo più forti del pacifismo, e potevano contare su orgogli e interessi nazionali radicati. Contro il rischio di guerre da combattere in condizioni svantaggiose, e per preoccupazioni di equilibrio e prudenza politica, erano nati due sistemi di alleanze: la Triplice fra Germania, Italia e Austria-Ungheria e la Duplice franco-russa. Nel momento della verità si vide che erano catene condizionanti che rendevano la guerra ancora più inevitabile, e tali da trascinare nel conflitto anche l’Inghilterra, unica grande potenza europea libera da qualsiasi vincolo di alleanza.
Per la questione sociale il fermento era ancora maggiore. La rivoluzione industriale era al suo culmine in molti Paesi o al suo inizio in altri, ma tutti ne subivano le conseguenze globali. Ne nasceva, fra l’altro, una fluviale emigrazione soprattutto verso le Americhe, trasmessasi dai Paesi più (e prima) industrializzati all’Europa mediterranea e ai Paesi slavi. Ben più gravi erano le lotte del lavoro. Operai e contadini erano in un’agitazione perenne e, anche per l’influenza di ideologie marxistiche, nutrivano risentimenti e volontà di rivalsa che facevano della lotta di classe un elemento forte del paesaggio sociale, giustificato dalle condizioni prevalenti di vita delle masse, nonostante progressi rilevanti soprattutto nei Paesi più avanzati. Solo in questi Paesi erano poi nate forme di previdenza sociale, e lo sciopero e i sindacati solo lentamente e stentatamente stavano diventando un diritto. E perciò da un lato si temeva la folgore di una grande rivoluzione sociale, dall’altro incombeva l’ombra di una grande reazione politico-sociale.
Nella cultura europea tutto ciò si rifletteva in atteggiamenti, inquietudini, sobbollimenti, velleità e seri propositi del tutto opposti all’apparente felice condizione di quell’area del mondo. Si parlava di eventuali guerre, ma in Europa non si erano più avuti conflitti che coinvolgessero tutto il continente da un secolo. E proprio questo generale prevalere della pace, quell’ordine, quella quiete, quello stato sfacciato e ostentato di buona salute suscitavano reazioni opposte. Il futurismo italiano ne fu un documento impressionante. Tutto quel che era «normale» appariva desolante, insopportabile mediocrità «borghese». Viva la folle velocità, viva la guerra «igiene del mondo», viva tutto ciò che rompesse discipline e criteri di opprimenti tradizioni, viva le pulsioni della volontà di potenza e del piacere.
Si avvertiva, più di quanto non apparisse, che un qualche male oscuro, un qualche vulcano nascosto soggiacevano a quel mondo che amava esibire le sue magnifiche sorti in cammino. Qualcuno dei grandi intellettuali europei lo avvertì, infatti. Ma, forse, sarebbero bastate, per coglierlo, le note di struggente, profonda malinconia che echeggiano nel galop del ballo Excelsior o nei valzer di Strauss: la malinconia per qualcosa di bello e di dolce che sta per sfuggire e finire.

Corriere 18.5.14
Il diritto islamico riguarda anche noi
di Roberto Tottoli

Agli attentati contro chiese e cristiani nel mondo islamico, alle conversioni forzate delle studentesse nigeriane (nella foto una protesta a Parigi con i nomi delle liceali rapite sui cartelli), la cronaca di questi giorni ha ricondotto il caso della condanna a morte di Meriam. Un caso non isolato, dunque, intricato ma esemplare allo stesso tempo.
Una donna di famiglia musulmana, condannata a morte perché sposa di un cristiano sudanese, anche se cittadino americano. Più che il rifiuto di una famiglia mista, per religione e cittadinanza, o un ipotetico atteggiamento persecutorio, in questo caso è il diritto islamico che interviene in una questione spesso sottaciuta, ma latente e destinata a ripresentarsi.
Per il diritto islamico la donna musulmana può sposare solo musulmani, mentre l’uomo può contrarre matrimonio anche con altre donne, ad esempio ebree o cristiane. Frutto di una prescrizione nata quando i musulmani erano una piccola minoranza nei territori conquistati fuori dall’Arabia, il divieto nasceva dalla considerazione che una donna musulmana sposata a un cristiano o a un ebreo era perduta alla piccola comunità dei credenti. Così del resto fu per le prime generazione che seguirono Maometto e che conquistarono un territorio immenso. Con il passar del tempo, però, divenuto l’Islam religione di maggioranza e imperiale, tale proibizione ha assunto connotazioni di esclusivismo religioso, anche se le punizioni previste a chi infrangeva questo divieto sono state raramente eseguite. È solo negli ultimi decenni che la questione sta tornando di grande attualità. Con milioni di musulmani in occidente, e spinte verso processi di laicizzazione, i matrimoni misti sono sempre più frequenti, anche tra musulmane e uomini non musulmani. Voluta indifferenza o silenzi più che giustificati li accompagnano, ma sono silenzi che non possono cancellare il problema giuridico.
Nella maggior parte dei casi il contenzioso è evitato con conversioni fittizie dei mariti, oppure si perde quasi del tutto nei matrimoni di potenti o personaggi famosi per cui l’appartenenza all’islam passa quasi in secondo piano. È il caso, più recente, della nuova compagna di George Clooney, la drusa Amal Alamuddin, la cui storia ha raccolto qualche critica in tal senso.
Qualche pallido tentativo di affrontare il problema c’è, ma si scontra con realtà nei Paesi musulmani attraversate dal caso di Meriam o dall’approfondirsi degli steccati confessionali. Le discussioni giuridiche dei musulmani europei hanno dato origine al cosiddetto «diritto delle minoranze islamiche», che cerca appunto di ridiscutere prescrizioni e doveri dei musulmani in società in cui non vige la legge islamica. La questione dei matrimoni «misti» è sicuramente una delle più importanti e spinose che attendono una risposta. Tale realtà sollecita infatti l’Islam nel suo complesso, ma soprattutto i musulmani europei.
Silenzi e sottovalutazioni non possono nascondere il fatto che il divieto tradizionale rappresenta un ostacolo sulla strada di future integrazioni e tocca sul vivo il rapporto dei musulmani emigrati con i loro Paesi di origine. Sollecita e mette alla prova le interpretazioni legali conservatrici, come tante prescrizioni che toccano il mondo femminile. Ma interroga anche laici e musulmani più integrati, perché sanno che su questo tema, insieme a pochi altri, si misurerà la capacità di riforma degli stessi musulmani, e la loro volontà di incidere nel dibattito religioso e giuridico, oltre che di misurarsi con la realtà non islamica in cui vivono.

Corriere 18.5.14
Perché la Gran Bretagna volle gli ebrei in Palestina
risponde Sergio Romano

Durante la Prima guerra mondiale si svolse una accanita lotta tra le navi di superficie dell’Intesa e i sommergibili tedeschi. Il 1° febbraio 1917 la Germania proclamò la guerra sottomarina indiscriminata, comportante l’affondamento senza preavviso di tutte le navi, anche quelle adibite al trasporto di passeggeri o di merci. Questo fatto viene fornito come appoggio alla tesi giustificativa dell’ingresso degli Stati Uniti nella Prima guerra mondiale. Altra versione la darebbe originata dalla dichiarazione di Balfour fatta a Lord Rothschild con la quale veniva formulata la promessa ai sionisti di un focolare in Palestina il che la presupporrebbe come compenso all’ingresso degli Stati Uniti a fianco dei belligeranti che combattevano contro le potenze centrali. Penso che l’accusa di aver scatenato la guerra pronunciata da Hitler il 30 gennaio 1939 alludesse alla seconda supposta motivazione. Vorrebbe approfondire l’argomento esprimendo la Sua opinione? Antonio Fadda

Caro Fadda,
G li Stati Uniti entrarono in guerra contro la Germania il 6 aprile 1917 mentre la dichiarazione di Balfour porta la data del 2 novembre dello stesso anno. Fra i leader del movimento sionista vi fu un grande personaggio della vita pubblica americana, il giudice della Corte Suprema Louis Brandeis. Ma non dette alcun contributo alla decisione interventista del presidente Woodrow Wilson e i suoi contatti con il governo di Washington, in quel periodo, servirono soprattutto a favorire il progetto per l’instaurazione di un protettorato britannico in Palestina dopo la fine della guerra. La tesi secondo cui gli ebrei americani avrebbero agito per ottenere l’intervento degli Stati Uniti nel conflitto appartiene all’arsenale propagandistico di Hitler e di Goebbels.
Chaim Weizmann, leader del movimento sionista in Gran Bretagna, ebbe a sua volta cordiali rapporti con i maggiori esponenti della vita pubblica inglese, ma i principali temi delle sue discussioni furono quasi sempre le condizioni delle comunità ebraiche in Palestina e il futuro status della regione nel trattato di pace. L’uomo che sarebbe divenuto il primo presidente d’Israele dopo la fondazione dello Stato cercò di convincere i suoi interlocutori che gli insediamenti ebraici avrebbero giovato alla politica estera del Regno Unito e, come scrisse nella sua autobiografia, avrebbero salvaguardato il controllo britannico del Canale di Suez. Londra non voleva che tutta la Grande Siria (di cui la Palestina faceva parte) cadesse nelle mani dei francesi. La creazione di un focolaio ebraico avrebbe suscitato maggiori simpatie nel mondo ebraico per la causa alleata e meglio giustificato il progetto di un protettorato britannico. Vi fu quindi, nell’intera vicenda, una buona dose di realismo politico.
Il quadro non sarebbe completo, tuttavia, se non aggiungessi che i sionisti trovarono nella classe politica britannica forti simpatie religiose. Molti degli uomini con cui Weizmann dovette trattare erano cristiani nonconformisti, seguaci delle «sette» protestanti (come venivano chiamate nei Paesi cattolici) che si erano lungamente battute per sopravvivere contro l’egemonia della Chiesa anglicana. Credevano nella seconda venuta del Cristo ed erano convinti che il ritorno degli ebrei nella terra promessa sarebbe stata la condizione necessaria per la realizzazione della profezia. Nelle sue memorie Weizmann scrisse che quegli uomini di Stato britannici «della vecchia scuola» erano sinceramente religiosi e che il ritorno degli ebrei in Palestina rispondeva ai principi della loro tradizione e della loro fede. Hitler non poté capirlo perché odiava gli ebrei, ma anche, e forse soprattutto, perché non era cristiano.

Corriere La Lettura 18.5.14
La depressione post parto dei neopadri
Tic, manie e angosce (vere o inventate)
I segnali di un’altra fragilità maschile
di Francesco Piccolo

Ormai è un fatto noto: la depressione di padri che hanno appena avuto un figlio si avvicina al 10 per cento (con tendenza all’aumento, come dicono i meteorologi). La grande novità dei nuovi padri, quelli che si sono affrancati dalle consuetudini medievali in vigore fino a non troppo tempo fa, è anche questa. Dando una grande fiducia a questa tanto attesa evoluzione del maschio, le donne non avevano calcolato la sua capacità di esprimere soprattutto le fragilità, e di assumersi meno i compiti.
È evidente che la depressione post parto paterna si nasconda dietro la normalità, e forse si confonde con essa. Infatti, alla fine di giornate in cui si è dato il proprio contributo in modo serio e appassionato, in cui si è condiviso il ruolo accudente, arriva sempre il momento in cui, anche se il neonato è meraviglioso e voi siete raggianti di essere il suo genitore, non ne potete più. Vi siete rotti le scatole. È legittimo. Non bisognerebbe vergognarsi o sentirsi in colpa. Perché chi si vergogna o si sente in colpa, soccombe. Si deprime. E comincia a dare segnali visibili di quel sentimento generico di scontentezza che sconfina nell’angoscia che sconfina nell’infelicità. Questo sentimento si contorce pian piano su se stesso e comincia a esprimersi in modi diversi, inconsueti. Sia per le madri sia per i padri. Ma mentre per le madri la casistica della depressione post parto è stata lungamente studiata, per i padri è una disciplina nuova, tutta da catalogare.
Quindi, la questione più difficile è accorgersi della depressione post parto dei nuovi padri, che tendono a respingere l’ipotesi e sono convinti di essere soltanto un po’ nervosi, ma oggi, solo oggi, anzi stasera, ma di essere in realtà (lo giurano) profondamente felici della nuova vita e di queste meravigliose serate passate a casa con l’orecchio teso o a cambiare batterie all’interfono perché, dato che non è possibile che i figli dormano, se non si sentono urla e pianti vuol dire che le batterie sono difettose o scariche.
Però, per le compagne più preoccupate e per quelle meno accorte, ci sono una serie di segnali scientifici in presenza dei quali è necessario entrare in allarme. Si potrebbe essere in presenza di un padre afflitto da depressione post parto, se si verificano una o più delle seguenti condizioni:
Il neopadre possiede un quadernino sul quale segna, con penne di vari colori, il record giornaliero, settimanale, stagionale, di alcuni videogiochi della playstation.
Diventa amico fraterno, e insiste per organizzare la vacanza estiva con gente che non ha mai visto, conosciuta giocando su ruzzle o nei videogiochi di ruolo.
Una sera, e poi un’altra e ancora quella successiva, comincia a fare discorsi filosofici complicatissimi sulla necessità di non chiudersi in un mondo isolato, di non stare sempre a casa tutti e tre, di comunicare con gli altri. Porta a supporto della tesi citazioni colte, aforismi, esperienze di vita. Alla fine, prega di dire sì a quell’invito, almeno una volta, portiamo anche il bambino. Così, ci si ritrova a cene a casa di amici che fumano ininterrottamente, dicendo mica ti dà fastidio se fumo? E dicendolo in un modo che non ammette risposte negative. Il bambino intanto strepita al buio di una camera da letto sconosciuta. Lui dice: strano non fa mai così, deve essere la colica.
Dice la parola colica fino a 547 volte al giorno, l’ottanta per cento delle quali assolutamente a sproposito.
Ritiene fondamentale possedere il decoder Sky con il quale registra tutto quello che è possibile registrare. Se qualcuno si avvicina al decoder, simula un infarto, oppure qualche volta ha davvero un infarto. Lo spolvera ogni giorno, qualche volta lo accarezza, dicendogli delle paroline dolci che forse con il neonato non ha ancora adoperato. Dovesse portarselo a letto e dormire abbracciato con quello, l’allarme deve scattare immediatamente.
Ha gli occhi fissi sul telefonino perché risponde contemporaneamente a proposte di aperitivi, proposte erotiche pesanti, organizzazioni complicate di tornei di calcetto. E deve scusarsi con il compagno di videogiochi ma purtroppo hanno altri impegni per questa estate.
Fa sempre finta di non accorgersi che il neonato ha — come si dice solo per i neonati — fatto la cacca. In quel momento è molto distratto e impegnato in qualcos’altro, passa alla larga, segue le mosse della madre, la spinge ad avvicinarsi al neonato. Se la tecnica riesce, la madre dirà: «Mi sa che ha fatto la cacca». C’è una regola non scritta: chi se ne accorge, lo deve cambiare. Non si sa perché c’è questa regola, ma c’è. Per questo il padre depresso fa finta di non accorgersene. Ci sono casi in cui tutti e due i genitori adoperano la stessa tecnica. Sono momenti molto difficili, soprattutto per il neonato. Le strategie di movimento casalingo si fanno complicate. Anche perché succede un altro fatto strano, nei genitori: spesso, si stancano contemporaneamente. Sarebbe semplice se le energie e le capacità fossero distribuite a turno durante il giorno (e la notte); ma non è così. Quando il padre si rompe le scatole del proprio figlio, di solito si rompe le scatole anche la mamma. Chissà perché.
Dopo il primo periodo di entusiasmo e intraprendenza, il padre depresso comincia a mostrarsi incapace di fare qualsiasi cosa bene. Di sentirsi molto in difficoltà nel cucinare il brodino, nel cambiare la tutina, nell’addormentarlo nella culla. Mostra molta buona volontà, mostra che non vorrebbe fare altro, ma poi dice con senso di sconfitta e impotenza: «Non ci riesco, mi aiuti?», «Mi fai vedere come si fa?». È una tecnica sofisticata, che soltanto qualcuno arrivato allo stremo dei nervi può adottare: bisogna essere esasperanti, incalzare, chiedere soccorso di continuo. Ci vuole un po’ di pazienza, ma alla fine la praticità vince: e la madre ti chiede di levarti, che fa lei, anche perché fa prima. E in quel momento lui dice: «Ma no, mi dispiace, fammi provare, è che non sono ancora bravo...». E se ne va di là a guardare la televisione e a registrare altri programmi ancora, convinto che potrebbe succedere di non uscire mai più da casa, di non potere andare mai più a fare un aperitivo.
La parola che il padre afflitto da depressione post parto pronuncia di più, anche più di «colica», è «aperitivo». All’improvviso, ritiene l’aperitivo un fondamento delle relazioni umane. Parla dell’agorà, della necessità del dialogo, ritiene l’aperitivo fondamentale per i suoi rapporti di lavoro, per le opportunità future, per l’equilibrio della mente. Qualche volta si mette a piangere, se le circostanze gli impediscono di uscire in tempo per un aperitivo già concordato.
Lo si può individuare facilmente anche nel luogo degli aperitivi. Indossa camicie sgargianti, che qualche volta si possono definire senza esagerazione: hawaiane. È particolarmente interessato alle giovani donne di circa venti anni. Muove la testa al ritmo della musica, ride sguaiatamente, si diverte moltissimo, ed è il primo ad alzare le braccia e a muovere il bacino quando si decide di improvvisare un ballo ubriachi. Allo stesso tempo, guarda di continuo l’orologio e sospira ogni volta che vede l’ora. Molte delle persone presenti all’aperitivo lo definiscono: scatenato; le ventenni: scemo.
Usa subdolamente — e quasi sempre con successo — la teoria che i neonati siano molto legati alla figura materna. Prova a dire che ha letto su una rivista scientifica inglese che è così fino a nove anni, e odia essere smentito.
Sa comunque che la madre del figlio in comune è molto sensibile a una frase che costituisce la tecnica di tutte le tecniche di deresponsabilizzazione: «Vuole te».
«Vuole te», pronunciato con intenzione e uno sguardo ipocrita che esprime senso di frustrazione per la consapevolezza di dover aspettare anni (non erano nove? a me sembrava di aver letto nove...) prima di entrare per davvero nel cuore del proprio figlio. «Vuole te», allungandole il neonato per piantarglielo in braccio. «Vuole te» rende la madre vulnerabilissima, per il semplice fatto che non importa che sia vero o no: lei ci crede. E ci crede perché non desidera altro che questo: che il figlio voglia lei. La madre si commuove, apre le braccia e accoglie il neonato come farebbe una divinità salvifica e mentre lo consola e lo vezzeggia, lo cambia o lo fa mangiare o lo fa addormentare, il padre è libero di giocare alla playstation, di mandare messaggini a tutta l’umanità, di appoggiare teneramente la guancia sul decoder, di uscire a fare due passi.
È capace di dire, una sera in cui è più depresso del solito: forse non ci amiamo più. Si dichiara disposto a prendersi un periodo di riflessione, ad andare via di casa, mentre piange abbracciato per ore con la compagna. Tutto questo per soddisfare un desiderio futile, tipo andare a vedere la partita a casa di un amico, o a fare aperitivi appunto. Dopo, torna a casa dicendo che ci ha pensato e che bisogna riprovarci, perché ci amiamo troppo.
Annuncia che sta scrivendo racconti o romanzi erotici. Non sente mai che il bambino sta piangendo. Però dice che lo ha sentito, certo, ma lo sta lasciando piangere per una questione educativa. «Piangere un po’ gli farà bene».
Dice spesso: come? Non ho capito. Perché stava pensando ad altro.
Al parco tiene gli occhi fissi nel vuoto mentre spinge un bambino troppo piccolo per stare sull’altalena, e tutti gli altri genitori guardano la scena come se fosse un thriller mozzafiato.
È felice, anzi raggiante, solo il giorno dell’inaugurazione di un nuovo canale satellitare.
Alle feste dei bambini, mangia tutte le pizzette e i panini che ci sono, e spesso anticipa un bambino perché sta per afferrare l’ultima fetta di torta.
Guarda a lungo suo figlio nella culla e intanto calcola quanti anni avrà quando il figlio compirà dieci anni, quando ne compirà diciotto, trenta. Si avvilisce molto.
Aspetta sotto casa una di quelle ventenni che ha conosciuto all’aperitivo e le si inginocchia davanti dicendo che è la donna della sua vita, che ha già lasciato casa, che dorme in macchina da tre giorni, che vuole sposarla appena ottiene il divorzio.
Poi torna a casa, ricordandosi di comprare prima il latte.

Corriere La Lettura 18.5.14
Stati di ansia e umore ricadono sui bambini
di Luigi Ripamonti

La depressione (quella vera) dopo un figlio può colpire anche i padri e non solo le madri, come ben noto e documentato. La conferma più recente arriva da uno studio della Northwestern University di Chicago, pubblicato sulla rivista «Pediatrics». Secondo la ricerca, condotta su 10.623 uomini, i sintomi depressivi aumentano in media del 68% durante il primo anno di paternità, quando questa arriva intorno ai 25 anni. Indagini precedenti avevano già mostrato che i padri depressi sono più inclini alle punizioni corporali nei confronti dei bambini, che interagiscono meno con i figli e che sono più facilmente stressati e negligenti nei confronti della prole. I figli dei padri depressi hanno maggiori rischi di avere difficoltà nell’apprendimento linguistico e nello sviluppo dell’abilità di lettura, oltre a maggiori problemi di comportamento. «Noi sapevamo che la depressione paterna esisteva — ha sottolineato Craig Garfield, primo firmatario dell’indagine — e anche che aveva queste ricadute sui bambini». «Questo studio su grandi numeri ora ci conferma che se un giovane padre è incline a umore triste, ad ansia o è incapace di gioire per la sua nuova condizione, va incoraggiato a farsi aiutare».

«Habermas àncora la sua formulazione alla tradizione giudaico-cristiana e insieme al repubblicanesimo romano»
Corriere La Lettura 18.5.14
Habermas ha ragione quando critica la Merkel
Ma è irrealistico pensare che la Germania possa impegnarsi per cambiare lo status quo
Tocca ai paesi latini prendere l’iniziativa
di Maurizio Ferrara

Roma-Parigi-Madrid, l’asse necessario Il tono dei saggi che compongono l’ultimo libro di Jürgen Habermas rispecchia fedelmente il sottotitolo scelto da Laterza: un’arringa per la solidarietà europea. In molti passaggi, il più grande filosofo «neoilluminista» vivente fa parlare il cuore anziché la ragione. L’Europa unita è diventata «carne e sangue delle nuove generazioni», dobbiamo fare attenzione a non sparare «un colpo di pistola che darebbe il via allo scatenamento di tutti i populismi». La crisi finanziaria ha generato «ingiustizie che gridano vendetta al cielo» e ha spinto la Ue in una Spirale tecnocratica (la metafora che dà il titolo al libro) dalla quale bisogna uscire al più presto.
L’arringa è in larga misura condivisibile. Ma difficilmente inciderà sulla campagna elettorale. Il sentimento prevalente in seno all’opinione pubblica è l’Europamüdigkeit (termine coniato da Heine un secolo e mezzo fa), una «stanchezza» nei confronti dell’integrazione che viene cavalcata dai partiti euroscettici, nelle loro varianti (si veda l’illustrazione a fianco).
Parlare in favore dell’Europa oggi non è facile. Bisogna infatti evitare di confondersi con quelle élite neoliberiste e tecnocratiche che hanno salvato le banche impiegando «senza ritegno» le garanzie dei cittadini pagatori. Gli eurodemocratici sono un drappello disunito e frastagliato, le loro bussole sembrano incapaci di fornire la direzione. Che invece per Habermas è chiara, e passa per tre fondamentali riforme: 1) l’Unione politica fra i Paesi della zona euro (un’Unione aperta alla Polonia); 2) la messa in comune delle politiche fiscali, di bilancio ed economiche, attraversando in questi cruciali settori la «linea rossa» della sovranità nazionale; 3) la generalizzazione del metodo comunitario (quello che coinvolge il Parlamento) in tutti i processi decisionali.
Condizione necessaria per procedere verso questi approdi è il consolidamento di una solidarietà «civica» fra gli europei. Le riflessioni su questo tema sono fra le più interessanti del libro. Habermas elabora una concezione «politica» di solidarietà, slegata dal diritto e dalla morale e fondata invece sull’autointeresse di popoli/Stati sempre più interdipendenti. I Paesi più ricchi devono convincersi che aiutare gli altri è indispensabile per tenere assieme l’Unione in quanto tale, ossia come comunità politica che offre a tutti (anche ai più ricchi e oggi soprattutto a loro) enormi vantaggi.
Habermas àncora la sua formulazione alla tradizione giudaico-cristiana e insieme al repubblicanesimo romano. Ma l’idea di solidarietà civica potrebbe essere collegata anche ad altre tradizioni, come l’utilitarismo di matrice socratica o il realismo politico di Max Weber. Riflettendo sui vari tipi di «comunità», Weber trattò anche le «comunità di vicinato», le quali, in virtù di prossimità spaziali, generano interessi e dunque legami condivisi fra i componenti. La condizione di «vicini di casa» è un dato che i Paesi membri dell’Ue non possono negare né ignorare. Habermas non sfrutta a sufficienza il potenziale di normatività insita in questo fatto, che è insieme geografico e storico e che sei decenni di integrazione hanno trasformato, appunto, in «carne e sangue» dei nostri giovani. Solo facendo leva sui sentimenti di vicinato diffusi fra la generazione Erasmus e sulla nascente sfera pubblica che si serve dei social media, possiamo sperare che la «politica» sappia rilanciare il progetto eurodemocratico, trovando una base larga di consenso.
I ragionamenti di Habermas sul ruolo della politica sono l’altro tema molto interessante del libro. Per ritrovare un’autentica «ragion d’Europa» occorre un cambio di rotta da parte di partiti e leader. I primi (quelli filoeuropei, beninteso) devono adottare un Politikmodus , una modalità di azione completamente nuova. Intelligenza e sensibilità normativa, ricchezza di idee e coraggio, efficacia argomentativa: queste le doti che servono ai partiti per suscitare adesione ai valori eurodemocratici. Habermas riconosce che la situazione è straordinaria, e dunque difficile. Ma la straordinarietà apre anche spazio per l’emergenza di leader carismatici, capaci di sollevarsi al di sopra di quell’attitudine dei piccoli passi che oggi caratterizza l’élite politica europea.
L’autore ha parole molto severe nei confronti di Angela Merkel, che accusa di «prudente miopia», di irresponsabile ostinazione nel voler imporre il paradigma dell’austerità. La Merkel è un politico incapace di interventi coraggiosi, il suo rapporto con il futuro è prigioniero della mentalità contrassegnata dalla sigla Tina: «There is no alternative». La Merkelpolitik è dannosa per l’Europa, ma lo è anche per la Germania. Da anni Habermas sollecita il proprio Paese a uscire dallo status di «semiegemone riluttante» e ad assumersi la responsabilità di guidare la Ue. Il politico tedesco che Habermas cita spesso è Helmut Kohl, che nei primi anni Novanta seppe unificare la Germania legandola irreversibilmente all’Europa, con il trattato di Maastricht.
Sui limiti di Angela Merkel e sulla necessità di un più responsabile coinvolgimento tedesco nella guida della Ue non si può che essere d’accordo. Ma quali fattori possono cambiare la politica tedesca? Nell’auspicare una conversione alla responsabilità solidale da parte dei leader del suo Paese, che faccia perno sulla loro «coscienza normativa», Habermas appare poco realista. Quando Kohl riunificò la Germania e firmò il trattato di Maastricht, seguì anche (se non soprattutto) istinti «machiavellici»: ciò che gli stava a cuore erano l’accrescimento del potere tedesco in Europa e un maggior consenso per il suo partito in patria, grazie al voto dei nuovi Länder. Furono gli interessi nazionali francesi, difesi da Mitterrand, a controbilanciare la strategia di Kohl. E fu Delors (il più grande presidente che la Commissione europea abbia avuto) a orientare il contrasto d’interessi franco-tedesco in favore della costruzione europea.
L’attuale configurazione politica è molto diversa. Per la Germania, la «ragion di Stato» coincide quasi interamente con il mantenimento dello status quo: lo testimonia anche la sostanziale concordia di vedute fra Spd e Cdu sui temi europei. La Francia è debole, Italia e Spagna sono stremate dalla crisi. Eppure è soprattutto sulle spalle di questi tre Paesi che grava il fardello di sfidare l’austerità germano-centrica che tiene in scacco l’Europa intera. Habermas ha ragione quando dice che solo la buona politica può combattere la cattiva politica: nemo contra deum nisi deus ipse , come diceva Goethe. Oggi in Europa la cattiva politica è quella tedesca, bisogna avere il coraggio di dirlo, prendendo anche atto che ci sono ben pochi incentivi endogeni al suo cambiamento. Il problema è che, per ora, di «politica buona» non si vede traccia né negli altri Paesi né nelle istituzioni Ue. Ciò significa che restiamo prigionieri della spirale tecnocratica, senza alcuna certezza di poterne (e saperne) uscirne.

Corriere La Lettura 18.5.14
Il supercervello va (anche) a felicità
Deepak Chopra, atteso per la prima volta a Milano, nel nuovo libro combina neurologia, fisica quantistica e spiritualità
Io dico che la materia è coscienza organizzata, non il contrario
intervista di Cristina Gabetti

Deepak Chopra, definito dalla rivista «Time» una delle cento icone del XXI secolo, è la dimostrazione vivente che possiamo creare la realtà che desideriamo. Produce ricerche con gli istituti scientifici più importanti al mondo, scrive libri e insegna tecniche per lo sviluppo della coscienza con un ampio bagaglio di conoscenza e una forte dose di carisma. Le sue meditazioni gratuite, disponibili anche in Italia su www.deepakchopra.it, hanno raggiunto milioni di persone. Lo abbiamo intervistato mentre si trova a Praga per parlare del supercervello e di come possiamo tutti imparare ad attivarlo.
Lei è considerato uno dei più autorevoli ponti tra scienza e spiritualità. Come si sono incrociati i due sentieri nella sua vita?
«In principio non ero concentrato sulla spiritualità. La mia specialità era la neuro-endocrinologia, lo studio degli ormoni, in particolare, la chimica del cervello e le connessioni tra la nostra coscienza e la biologia; sono i meccanismi che regolano le nostre azioni e stanno alla base della nostra esperienza soggettiva: il regno di intenzione, creatività, intuizione e tutto ciò che consideriamo vita interiore. Io studiavo la chimica dietro tutto questo. Ma avevo una formazione medica e sapevo che due soggetti con la stessa diagnosi e la stessa cura reagivano in modo completamente diverso. Mi interrogavo, cercando di capire come l’esperienza soggettiva e la biologia influenzavano il decorso delle malattie. Notavo che molte persone non sono realmente consapevoli di sé. Siamo tutti condizionati dalla società, dai media, dalla religione e così via. E le nostre menti operano soprattutto come robot. Così, lungo quel sentiero, ho scoperto la spiritualità».
Che ha indagato, tornando alle radici della sua cultura indiana, e ha correlato ai principi della fisica quantistica che, in un certo senso, i testi Vedici avevano anticipato, è corretto?
«Sì, per alcuni aspetti. Per semplificare una materia complessa, ci sono sei, sette interpretazioni della meccanica quantistica, che è basata sull’equazione del fisico austriaco Erwin Schrödinger. La più popolare è quella di Copenaghen, secondo cui è la coscienza che fa collassare le possibilità in particelle. Non tutti sono d’accordo e il dibattito è aperto, ma quello che sappiamo oggi è che la materia, le cose fisiche, sono particelle invisibili a meno che non si vada al Cern, e le particelle sono anche onde, quindi c’è un’intersezione tra il visibile e il possibile, il concreto e il potenziale. E qui la scissione tra chi dice che quel potenziale è consapevolezza e chi dice che non lo è».
Come sta evolvendo la scienza della consapevolezza?
«Sta evolvendo al punto che illustri cosmologi fisici e neuroscienziati — ne cito due: Max Tegmark, capo dipartimento di matematica e fisica al Mit e Christof Koch a Caltech — sono dell’idea che la coscienza è una proprietà fondamentale dell’universo come lo sono gli atomi o la forza di gravità. Dove c’è materia c’è qualche elemento di coscienza. Questo ramo, definito panpsichismo, è il marchio di moda del pensiero teorico nella fisica e nella cosmologia. Secondo me non si è ancora approfondito abbastanza: loro dicono che la coscienza è materia organizzata, io dico da anni che la materia è coscienza organizzata. C’è una grande differenza».
Come si connette questo con lo studio del cervello e con il suo nuovo libro, «Super Brain»?
«Ho scritto Super Brain insieme al neuroscienziato di Harvard Rudolph Tanzi, uno dei pochi nell’ambito tradizionale che è a proprio agio con il concetto che il cervello non produce coscienza bensì la scarica dall’universo. Il nucleo essenziale del nostro essere non è il cervello, ne siamo fruitori. Dove risiede l’Io? È il grande mistero. Non si riesce a localizzarlo nel corpo e nel cervello. Le tradizioni spirituali la chiamano anima, ma la scienza ha un problema con l’anima. Dov’è? Dove nasce la scelta? Dove risiede l’esperienza del libero arbitrio? La maggior parte degli scienziati dice che la coscienza è prodotta dal cervello governato dalle classiche leggi della fisica e che il libero arbitrio è un’illusione; ma nella nostra esperienza sentiamo di avere facoltà di scegliere. Mentre loro litigano, ci sono sempre più persone che credono che la coscienza è non locale, che il nucleo essenziale dell’essere che chiamiamo coscienza non è nello spazio-tempo, è trascendente. Quando riconosciamo questo, attraverso le nostre scelte possiamo riorganizzare il “cablaggio” del cervello, integrando l’emotivo, il reattivo, il creativo e l’intellettivo per massimizzare ogni esperienza, e così l’evoluzione spirituale, la salute, il benessere, fino a raggiungere la pienezza».
Creiamo in sostanza un link per scaricare coscienza dall’universo?
«Sì».
Quali sono le ricerche più interessanti che secondo lei aiuteranno a sviluppare resilienza per affrontare le sfide globali?
«Nella biologia cellulare si dimostra che la meditazione cambia gli enzimi che controllano l’invecchiamento e il comportamento dei geni. E a livello macroscopico vediamo che il benessere nel senso più ampio — fisico, emotivo, finanziario, spirituale e collettivo — può essere quantificato. Questo apre scenari interessanti per creare soluzioni ai grandi problemi del mondo. Siamo in grado di calcolare ogni giorno il livello di benessere delle nazioni».
Qual è l’indice del benessere in Italia?
«Circa sessanta, su 130 Paesi. Al primo posto c’è la Danimarca, al quinto il Costarica dove non c’è un esercito, la prima industria è l’ecoturismo e la massima priorità è l’educazione. In Italia meno del 35% della popolazione vive in prosperità, in Danimarca più dell’85%».
Da alcuni suoi incontri con il Dalai Lama, insieme ad altri scienziati, è nata la formula della felicità. È un seme del Super Brain?
«È un elemento, però la felicità non basta. Ci sono persone felici come in Bhutan, ma il Paese soffre. Oggi sono basilari anche l’educazione, la salute, il lavoro. Con il Chopra Center stiamo per lanciare Body Mind and Me , il più grande social network per aiutare collettivamente le persone a raggiungere benessere fisico, emotivo e spirituale».
Come possiamo trasformare il nostro cervello di base in un supercervello?
«Bisogna smettere di usare il cervello reattivo e imparare a essere centrati, potenziare il cervello emotivo attraverso l’esperienza di amore, gioia, calma, compassione, empatia, e sbloccare la corteccia attraverso auto riflessione e auto consapevolezza, trascendenza e scelte coscienti. È per spiegare questo che vengo a Milano. Darò strumenti pratici per integrare il supercervello e farò una carrellata sull’evoluzione della coscienza: la gente è pronta a sentir parlare di ciò che le tradizioni spirituali chiamano illuminazione».
Che ruolo occupa il cuore in tutto ciò?
«Grande, non solo come organo fisico. C’è un’area che si chiama cardunculus, fa parte dell’insula, e si può imparare a usarla per regolare il benessere del cuore sia a livello emotivo sia fisico».
E lavorare dal cuore per raggiungere il cervello?
«Anche. È un’autostrada a due corsie. Abbiamo la capacità di riorganizzare il cervello globale e fare massa critica per diffondere pace, giustizia socio-economica, sostenibilità, salute e benessere. Lo scenario attuale è deprimente. O decidiamo collettivamente che vogliamo fare qualcosa, o lasciamo stare e andiamo tutti a prenderci un drink».

Corriere La Lettura 18.5.14
Docuweb sul Ruanda in cento giorni: uno per ogni momento del genocidio
di Chiara Campara

Nel luglio 1993 una nuova stazione radio iniziava le sue trasmissioni in Ruanda, la Radio Télévision Libre des Mille Collines (Rtlm). Da qui, il 6 aprile 1994, poco dopo l’attentato al presidente Habyarimana, venne trasmesso il segnale che diede inizio al genocidio in cui morirono più di 800 mila tutsi e hutu moderati. In quei giorni la radio fu uno dei più potenti mezzi di propaganda e incitamento alle violenze: trasmetteva liste di persone da uccidere, assieme a programmi comici e buona musica. Oggi, su quelle stesse frequenze, va in onda Musekeweya (Nuova alba), una fiction radiofonica che racconta le vicende di due comunità in conflitto e della storia d’amore tra due giovani di fazioni opposte. Anoek Steketee e Eefje Blankevoort, rispettivamente fotografa e giornalista/filmmaker, hanno fatto di Musekeweya il punto di partenza per un web documentario, Love Radio . Episodes of Love and Hate (nella foto, un’inquadratura), che segue la trama della soap e il suo lieto fine, ma riflette anche sul passato recente e sugli attuali problemi di riconciliazione.
Avviata più di dieci anni fa, la soap è diventata in poco tempo seguitissima in Ruanda, dove la radio è il principale mezzo di comunicazione di massa. Gli ascoltatori si identificano nei personaggi e le voci degli attori sono così note che da esse vengono riconosciuti sull’autobus o in strada. La storia raccontata è la loro stessa storia, si muove sulla linea sottile che separa realtà e finzione. «Ma la finzione — chiedono le autrici — può davvero guidare verso la riconciliazione? O questo tipo di programmi è semplicemente una patina superficiale in un Paese che è ancora alle prese con un trauma profondo? Che cosa significa riconciliazione? E quando un’ideologia “anti-genocidio” diventa essa stessa repressiva?».
Rtlm fu chiusa nel luglio 1994 e i suoi principali animatori condannati dal tribunale penale internazionale per il Ruanda. Oggi le radio private non sono più vietate, ma la stampa è sotto lo stretto controllo del governo. Nell’arco di cento giorni, tanti quanti quelli del massacro, usciranno i sette episodi del web documentario (www.loveradio-rwanda.org) , approfondendo la vicenda storica, il potere manipolatore dei media nella società, l’emergere di una memoria collettiva. Love Radio utilizza materiali e linguaggi diversi: video, fotografie, testi, documenti d’archivio, frammenti della soap radiofonica, lettere degli ascoltatori. Dall’11 luglio diventerà anche una mostra, in programma al museo Foam di Amsterdam.

Corriere La Lettura 18.5.14
Il cavallo di Troia svela che il dono non è (sempre) un beneficio
di Matteo Aria e Adriano Favole

Immaginate di ricevere un regalo da una persona che conoscete a malapena. È il vostro compleanno e, complice Facebook che spiffera tutto a tutti, quella persona vi porta in regalo un’ottima marmellata autoprodotta di piccoli frutti raccolti nel bosco. Che fate? Avete davanti un paio di possibilità: potete per esempio rifiutare il dono, perché quella persona non vi va a genio. Si tratta di un gesto forte, che tronca la relazione e certo non vi renderà amici. La seconda possibilità è accettare il dono con un sorriso, invitare il vostro nuovo amico a bere un bicchiere e, alla prima occasione, ridonare a vostra volta.
Sono passati novant’anni da quando Marcel Mauss, antropologo francese nipote del più famoso Émile Durkheim, scrisse un libro che rappresenta una pietra miliare degli studi antropologici, il Saggio sul dono (Einaudi, 2002, edizione originale 1923-24). Mauss scoprì che numerose società studiate dagli antropologi all’inizio del Novecento scambiavano per lo più beni e servizi attraverso la logica del «dono», quella forza che crea il legame sociale e che ci fa sentire obbligati (pur essendo in teoria liberi di non farlo) a dare, ricevere e ricambiare. Se l’essere umano agisse solo per interesse egoistico, pensava Mauss, non si spiegherebbe perché, ricevendo un dono, ci sentiamo obbligati a ricambiare o comunque ci sentiamo vincolati da un debito. Il dono era la migliore risposta all’interrogativo che Durkheim aveva posto ai suoi allievi sull’origine della solidarietà sociale. Mauss riteneva che, purtroppo, la logica del dono svolgesse ormai un ruolo residuale in Occidente.
In realtà, gli studi compiuti a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, soprattutto nell’ambito di un gruppo di ricerca francese che si è auto-definito con la sigla Mauss (Movimento anti-utilitarista nelle scienze sociali), hanno mostrato viceversa la grande rilevanza del dono nelle società e nelle economie contemporanee (Jacques Godbout, Lo spirito del dono , Bollati Boringhieri, 2002). Dal volontariato al dono del sangue; dai servizi alla persona in famiglia che integrano o suppliscono uno Stato sociale sempre più in crisi ai legami di amicizia e vicinato; dal mecenatismo alle varie forme di solidarietà sociale: sono molteplici i fenomeni riconducibili alla logica del dono piuttosto che a quella del mercato (o dello Stato).
A novant’anni, tuttavia, il «dono» di Mauss comincia a dare segni di invecchiamento. In primo luogo, esso non ritaglia necessariamente un’area di buoni sentimenti. Il cavallo di Troia, la mela di Eva, il vaso di Pandora ci ricordano che il dono può essere un’esca avvelenata. Molto più prosaicamente, le mazzette, i favoritismi, il clientelismo mettono in luce gli aspetti ambivalenti del dono. Il dono esagerato, il dono che non si può ricambiare crea gerarchie. Come diceva George Bataille, lo spreco, l’ostentazione, la dépense , il noblesse oblige sono spesso l’estrema affermazione del sé. C’è poi, da Mauss in avanti, uno snodo teorico irrisolto: il dono crea relazioni attraverso lo scambio , è un motore che lavora su tre livelli (dare, ricevere, ricambiare). Parlare di dono come pura spontaneità e gratuità, di «dono senza contraccambio» (come fa Enzo Bianchi nel suo ultimo libro, Dono e perdono , edito da Einaudi) è maussianamente un non-senso.
Per ovviare a queste aporie teoriche, ma soprattutto per dar conto di quelle piegature di realtà che sfuggono alla presa del dono, è opportuno, a nostro parere, introdurre il concetto di «condivisione». Qualche esempio ci è di aiuto. Il tavolo della cucina su cui mangiamo insieme ai nostri figli o compagni di vita non è un dono, è uno spazio di condivisione. Il frigorifero racchiude cibi che vengono condivisi, non donati ai figli (i quali infatti, generalmente, non dicono «grazie» a ogni portata!). Come osserva Russell Belk, uno studioso americano di consumi che è stato tra i primi a proporre la distinzione teorica tra dono e condivisione (Sharing , pubblicato nel 2010 sul «Journal of Consumer Research»), il fenomeno prototipico della condivisione è la maternità. Due esseri umani condividono per vari mesi lo stesso corpo.
La condivisione ha a che fare con tutte quelle situazioni in cui vi è un «io» diffuso, con quel senso di compartecipazione che crea un «noi». Un’intera famiglia di termini in italiano, la famiglia del «con-» (convivere, convivialità, consenso…), rientra in questa prospettiva. La condivisione è il «fare insieme», l’agire insieme, il convivere in cui ci si svincola (anche solo temporalmente) dal possesso e dalla gerarchia. Una festa, un pellegrinaggio, molti riti aprono spazi di condivisione in cui non necessariamente opera la logica del dono. Possiamo forse ipotizzare, a rettifica delle proposte di Jacques Godbout e di Alain Caillé (Anthropologie du don , Desclée de Brouwer, 2000) che famiglia e parentela non siano aree esclusive del dono, ma anche della condivisione. La condivisione insomma non è un dono!
Condivisione, dono, scambio di mercato definiscono allora tre diverse modalità dell’interazione umana, anche se, a ben vedere, molti fenomeni occupano un’area di confine e di soglia tra essi. La condivisione, viene però da chiedersi, ci lega in modo nostalgico alla piccola comunità? È un concetto «buono» da pensare solo per la famiglia, la parentela, il vicinato? È destinata a scomparire nei grandi numeri che caratterizzano la società globale? Intanto è utile distinguere tra beni pubblici e beni condivisi. I primi rappresentano una sorta di cornice, di garanzia per le pratiche di condivisione. Un bosco demaniale è un bene collettivo, ma diventa un bene condiviso solo se andiamo a farci una passeggiata. Una piazza è un bene pubblico, ma diventa condiviso nel corso di una manifestazione. Una costituzione, una buona legge elettorale sono beni comuni che diventano «democrazia condivisa» quando si moltiplicano le occasioni e gli spazi di discussione, confronto e deliberazione. La condivisione è inevitabilmente legata a gruppi ristretti, ma si tratta di una esperienza che può essere incrementata e può diffondersi in mille rivoli. Si possono creare comunità di condivisione in famiglia, ma anche sul luogo di lavoro; nelle attività di volontariato come negli spazi del tempo liberato per lo sport e il gioco. Facendo il verso a Lev Trotsky, potremmo forse osservare che i tempi di crisi che viviamo sono forse propizi per lanciare l’idea di una «condivisione permanente».

Corriere La Lettura 18.5.14
Dal possesso all’accesso l’economia della condivisione
Non solo auto a nolo: ecco proprietà multiple e imprese collettive
Si guadagna in flessibilità e sostenibilità, il rischio è la deregulation
Negli Usa già si manifesta una concentrazione di risorse in poche mani che snatura l’idea originaria
di Emanuela Mora e Silvia Mazzucotelli Salice

Sfoggiare per una settimana la più ricercata borsa del marchio di moda preferito (vanitylady.it); muoversi in città con la libertà di orari garantita dall’automobile, ma senza il problema di trovare il parcheggio (car2go.com; guidami, il servizio di car sharing del Comune di Milano; Uber.com ecc.); liberare il ripostiglio da quegli oggetti che si usano raramente, come il trapano o la gelatiera, prendendoli a prestito solo quando ci servono (locloc.it); visitare una nuova città accompagnati dalle dritte di chi ci vive e condivide i nostri interessi (airbnb.com; couchsurfing.org); fare nuove amicizie condividendo la passione per il cibo (gnammo.it) o per la barca a vela (sailsquare.it). Sono tutte pratiche che vengono oggi sinteticamente indicate come sharing economy .
Il concetto viene usato per lo più a indicare piattaforme digitali che favoriscono l’uso, il noleggio, l’affitto, lo scambio di oggetti, servizi, spazi, tempi. In realtà si tratta di attività che si sono sempre fatte anche senza l’ausilio del web, ma che con internet vengono modificate in modo significativo. In particolare, ciò che cambia con la Rete è l’opportunità di entrare in contatto con persone nuove, che non si sono mai incontrate — e in alcuni casi non si incontreranno mai — e fare insieme cose che richiedono fiducia reciproca. In alcuni casi la piattaforma digitale si limita a razionalizzare e a estendere il raggio d’azione dei tradizionali servizi di noleggio. In altri casi a questo servizio si aggiunge una coloritura culturale che fa leva sulla trasformazione del valore del consumo nella nostra società: dal possesso all’accesso.
Complice la crisi economica, ad alcune frange di consumatori sofisticati non pare più così necessario possedere quei beni di lusso che incarnano e manifestano il prestigio sociale dei loro proprietari. È sufficiente godere del piacere che deriva dal loro uso. È questo il caso delle piattaforme che propongono la proprietà condivisa di beni di lusso, un’evoluzione dei tradizionali programmi di multiproprietà, che fino a poco tempo fa riguardavano soprattutto le abitazioni per le vacanze e che oggi invece offrono anche la possibilità di acquistare quote di aerei, yacht, automobili... Sulle stesse piattaforme, come per esempio fractionallife.com, da un po’ di tempo a questa parte vengono proposte anche le borse must have dei marchi più esclusivi della moda globale. A dire la verità, nel caso della moda la proprietà condivisa è temporanea e non è molto diversa da un noleggio (l’espressione usata nei siti americani e inglesi, più avanti degli altri in questo settore, è rent to own , noleggiare per possedere, che sembra essere diventata una sottocategoria della fractional ownership , proprietà frazionata). Se dunque tecnicamente si tratta sempre di forme di noleggio, il significato che si attribuisce a esse è diverso: il noleggio comunicava l’impressione che il consumatore non fosse all’altezza del lusso di cui andava in cerca, vorrei ma non posso; la «proprietà temporanea» suggerisce invece l’immagine di un consumatore in movimento, che cambia al passo con le più innovative tendenze e che rinuncia a riempire la propria casa di oggetti inutilizzati per la gran parte del tempo.
Tale parabola, ormai ben consolidata soprattutto in quei Paesi, come gli Stati Uniti, in cui le persone cambiano spesso casa e città, sta prendendo piede anche in Italia, con una mappa delle attività molto articolata. Alla fine del 2013, avviando la prima ricerca nazionale sulla sharing economy , abbiamo identificato quattro aree che hanno alla base una logica comune. Le due più ampie sono quelle del baratto online (bartering ) e dei consumi collaborativi (sharing ). Coprono nell’insieme il 64% dei circa 270 casi censiti (nel grafico). È inoltre da notare che se nel 2007 la presenza di tali attività era ancora insignificante, negli anni successivi c’è stato un incremento esponenziale, tuttora in corso.
Tra i consumi collaborativi troviamo le piattaforme che noleggiano i beni di lusso, che coordinano il prestito di oggetti, che organizzano l’ospitalità gratuita o l’affitto per breve periodo di stanze o appartamenti; inoltre siti attraverso i quali è possibile individuare persone con cui condividere uno spazio di lavoro (il cosiddetto coworking ) o mettere sul mercato del consumo finale le proprie abilità per svolgere, dietro modesto compenso, piccoli lavori richiesti dagli utenti della piattaforma (taskrabbit.com). Nell’area del baratto, invece, sono presenti siti come reoose.com o zerorelativo.it che coordinano attività di baratto di oggetti usati; un’interessante galassia di micro attività nelle quali ciò che viene scambiato tra gli utenti è il proprio tempo, per farsi compagnia o per svolgere gratuitamente piccoli servizi. Tali iniziative, pur non nuove in sé, sono interessanti tentativi di fare fronte alle difficoltà economiche causate dalla crisi: da un lato permettono una più efficiente organizzazione dei servizi; dall’altro consentono di mantenere elevati standard di consumo, anche se il potere di acquisto si è ridotto. Inoltre, tutto considerato, possiamo forse azzardare che esse consentono di alimentare forme di solidarietà tra estranei che appaiono interessanti esperimenti per ricostruire legami sociali basati sulla condivisione e il riconoscimento reciproco.
Nel complesso, però, non si intravvede un vero e proprio cambiamento di paradigma economico e sociale. Certo, queste forme di sharing economy possono favorire una maggior efficienza del sistema economico e una ridensificazione dei legami sociali informali di cui da decenni denunciamo la crisi. Appunto per questo però esse rischiano di essere solo la versione più innovativa del modello di neocapitalismo liberale considerato come il responsabile della grave crisi attuale.
Le altre due aree individuate nella ricerca, vale a dire l’area dell’artigianato digitale (making ) e quella del finanziamento/progettazione collettivi (crowding ), oggi in forte crescita, sono quelle che sembrano portare con sé un potenziale di trasformazione più interessante. Esse costituiscono l’evoluzione digitale della cosiddetta economia della conoscenza. Vi includiamo le piattaforme che consentono l’incontro e la collaborazione tra progettisti (soprattutto nella moda e nel design, ma anche nelle forme più avanzate di ingegneria) che insieme concorrono alla messa a punto di progetti innovativi, ma non sempre dei prodotti finiti destinati ai consumatori finali: in molti casi essi collaborano alla progettazione di nuovi materiali — spesso derivanti dal reimpiego di materiali usati —, di macchinari per la produzione, di tecnologie o di servizi.
L’artigianato digitale in particolare riguarda quelli che talvolta vengono definiti come designer-impresa, professionisti creativi che lavorano in proprio o in collaborazione con altri, curando tutto il processo, dalla progettazione alla produzione materiale vera e propria, fino alla distribuzione, spesso diretta e online; possiamo dire che l’artigianato digitale lega il proprio potenziale di sviluppo alle forme di progettazione collettiva che in gergo vengono chiamate crowdsourcing : professionisti portatori di competenze diverse che uniscono i loro sforzi per trovare il proprio posto sul mercato e conquistarsi, spesso andandoli a cercare uno per uno, investitori e clienti.
È per esempio il caso di wemake.cc, una piattaforma digitale che ha però anche una sede fisica, dove artigiani digitali, produttori di moda, piccole imprese locali, istituzioni educative possono collaborare per creare collezioni che chiunque può scaricare (sotto forma di cartamodelli) e personalizzare. Come si sostengono economicamente iniziative di questo tipo? Una delle caratteristiche più interessanti è che intorno a esse si raccolgono micro comunità di persone, che partecipano all’impresa dando il proprio contributo creativo, pre-ordinando i prodotti proposti nella collezione, votando le proposte considerate migliori e condizionando così il successo di un designer o di una collezione (wowcracy.com), finanziando con piccole cifre i progetti più interessanti, sotto forma di investimento da cui ci si aspetta un ritorno economico, o anche nell’ottica del mecenatismo.
Dal punto di vista del modello sociale che tali attività inaugurano, diversi sono gli elementi innovativi, anche se l’ottimismo enfatico con cui esse oggi vengono spesso valutate è quanto meno prematuro. Certamente sembrano essere strumenti al servizio di un sistema industriale più sostenibile, dove le filiere sono accorciate, e molti passaggi resi più flessibili. Soprattutto, appare più lineare e trasparente il rapporto tra produttori e consumatori, che hanno trovato canali per rapporti più personalizzati. In un contesto come quello italiano, tali attività potrebbero coniugare il patrimonio culturale derivante da un sistema diffuso di piccole e medie imprese con le potenzialità di connessione e di superamento delle barriere fisiche e geografiche fornite dal web.
Il rischio, che negli Usa si sta già parzialmente presentando, è che esse si trasformino in strumenti di deregolazione e di concentrazione del potere nelle mani di pochi soggetti, detentori di ingenti risorse, perdendo così il potenziale più interessante di luoghi in cui dare nuova vita a un tessuto di relazioni dense e capaci di costruire socialità tra soggetti esclusi o tenuti ai margini dal mondo economico.

Corriere La Lettura 18.5.14
Al Festival di Pistoia te giornate sui beni comuni
di Viviana Devoto

Condividere: è una parola che non riguarda soltanto le foto sui social, ma descrive una tendenza con ampie implicazioni antropologiche, sociali, culturali ed economiche, che si applica ormai pressoché in ogni ambito.
E «Condividere il mondo. Per un’ecologia
dei beni comuni», è l’argomento dei «Dialoghi sull’uomo», il festival di antropologia contemporanea ideato e diretto da Giulia Cogoli, a Pistoia dal 23 al 25 maggio con incontri, letture e spettacoli sui diversi aspetti dello sharing (programma sul sito www.dialoghisulluomo.it). Per cominciare, venerdì 23 maggio Stefano Rodotà aprirà sulla nozione di «bene comune» (ad esempio l’acqua, o la conoscenza), Luca Scarlini illustrerà la declinazione femminile della «condivisione» civile, politica, pedagogica, che va da Maria Montessori a Teresa Noce, mentre in serata Lella Costa leggerà brani da Il pranzo di Babette della Blixen. Sabato 24, voce alle neuroscienze con Enrico Alleva su «Competizione e cooperazione nel regno animale», e ai temi antropologici con Adriano Favole sulla differenza tra dono e sharing, con Marco Aime sulla (troppa) condivisione in famiglia, mentre Mauro Agnoletti si occuperà di globalizzazione ambientale, e Ugo Mattei di leggi sui beni comuni. Si parlerà di sharing nella cultura con Gustavo Zagrebelsky, e di sharing come cultura (del limite e del non spreco) con Serge Latouche. Domenica 25 la lectio di Luca Serianni sulla lingua italiana nata da condivisioni e contaminazioni, e poi Alain Caillé sul concetto di «con-vivere» e Derrick de Kerckhove sulla condivisione ma anche l’appropriazione dei dati in Rete. Inoltre concerti e proiezioni. Chiuderà, tra conferenza e recital musicale, Roberto Vecchioni .
Ida Bozzi

Il Sole Domenica 18.5.14
Beni comuni
Di chi sono le risorse?
Una riflessione per ridiscutere le basi della nozione di «beni comuni», partendo dal caso strano del Coltan
di Remo Bodei

In che misura è realisticamente possibile condividere dei beni che - da un punto di vista etico - dovrebbero appartenere a tutti? Di fatto una sorta di lotteria naturale ha distribuito i doni della terra (fertilità, acqua potabile, ricchezze minerarie) in maniera casuale rispetto agli abitanti di determinate zone. Ci sono quelli più fortunati che li posseggono e se ne sono appropriati e quelli meno fortunati che ne sono provvisti in scarsa misura o ne sono addirittura privi: gli abitanti di zone inospitali o desertiche, coloro che non hanno risorse nel loro sottosuolo o ne sono stati espropriati. Popoli e individui hanno da sempre combattuto per la loro sopravvivenza e per il relativo controllo delle risorse e le frontiere sono state per lo più disegnate dalle guerre.
Anche oggi, in una fase storica in cui il consumo di energia derivante dal petrolio o dall'uranio è enorme, l'economia e la politica sono dominate dal bisogno di assicurarsi, spesso con la forza o con l'astuzia, non solo questi beni, ma anche altri, sempre più indispensabili all'alta tecnologia. Un esempio è il coltan, un minerale metallico termo-resistente, (una combinazione tra colombite e tantalite), che si presenta come una sabbia nera da cui si estrae il tantalio, utilizzato per microconduttori, superleghe, computer o cellulari. Tale elemento radioattivo, l'ottanta per cento del quale si trova in Congo, dove viene raccolto a mani nude da uno stuolo di improvvisati scavatori, ha scatenato sanguinose guerre civili e internazionali, che coinvolgono l'Uganda e, nascostamente, le grandi potenze non africane.
Ponendo la domanda più radicale ma inaggirabile: Con quale diritto un individuo o un popolo abita la terra e sfrutta i suoi doni in maniera esclusiva? L'essere stati più favoriti dalla natura autorizza la disponibilità indiscussa di alcune risorse indispensabili oppure i loro benefici possono anche essere, almeno in parte, pacificamente ridistribuiti? Ma chi decide e in base a quali criteri? Non si tratta di una questione astrusa o ingenua, da spostare in un remoto futuro. Prendiamo il caso dell'acqua: come si risolverà la disputa in atto tra l'Etiopia e l'Egitto? Se gli etiopi finiranno di costruire la loro diga per imbrigliare il corso del Nilo Azzurro (sulla base di un progetto del valore di cinque miliardi di dollari e una energia erogata equivalente a quella di cinque centrali nucleari), la riduzione del limo derivante dalle esondazioni del fiume, in grado da millenni di assicurare all'Egitto una fiorente agricoltura in zone altrimenti desertiche, metterà in pericolo l'esistenza di novanta milioni di Egiziani.
La pace è minacciata proprio dalle prevedibili lotte che si scateneranno e già sono in corso per il controllo di risorse materiali che non possono essere condivise su questa Terra, dove, come dice Dante, «è mestier di consorte divieto» (Purgatorio, XIV, v. 87). Grazie a negoziazioni e ad arbitrati internazionali si potranno trovare , in questo o in altri casi, degli accordi soddisfacenti?
Entro certi limiti - ancora ristretti - si possono già mettere dei confini, giuridici e politici, all'appropriazione privata o nazionale di certi beni condivisibili, quelli il cui consumo da parte di qualcuno non escluda necessariamente gli altri o quelli che dovrebbero essere gratuiti per tutti (come i pesci in acque internazionali). Non di tutto ci si può appropriare in esclusiva, non tutto deve essere sottoposto a pure leggi di mercato. Le Nazioni Unite e alcuni parlamenti nazionali hanno attribuito la qualifica di common goods all'acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari (risoluzione 64/292 del 28 luglio 2010), al fondo marino e all'Antartide e la stanno estendendo alla Luna e al genoma umano. Per questi l'applicazione concreta di tale qualifica si tratta, per ora, di una prospettiva di lunga durata o di una utopia.
Riprendendo in esame il problema più urgente, quello dell'acqua, è facile profezia ipotizzare che l'"oro azzurro" sarà alla base di grandi contese, non solo a causa del previsto aumento della popolazione mondiale, specie nei paesi più poveri, ma anche per effetto del riscaldamento globale e della conseguente desertificazione di molte aree. Già ora, quasi un miliardo di uomini non dispone a sufficienza di acque potabili per soddisfare la sete, preparare il cibo e allevare il bestiame e neppure di acque non potabili per i servizi igienici (la mancanza d'acqua è, in generale, la seconda causa di morte su scala planetaria).
Anche ciò che appare meno urgente e che resta sullo sfondo del dibattito pubblico non deve però essere perso di vista, come la salvaguardia del genoma, perché essa mira alla tutela non solo della collettività dei viventi, ma dell'insieme della specie umana, presente e futura. Lo stesso vale per la possibile o paventata spartizione tra gli Stati dell'Antartide e della Luna (sebbene in questo caso sembri proprio di parlare di fantascienza), da trasformare in luoghi di sfruttamento esclusivo di determinate risorse - petrolio, minerali, terre rare, prodotti della pesca, compreso il krill (i piccoli crostacei che formano lo zooplancton) - o per conquistare posizioni militarmente strategiche.
L'emergenza è ormai diventata la norma e la percezione dell'insicurezza è giunta a un punto tale che studiosi seri sostengono che, da quando l'umanità è divenuta capace di auto-sopprimersi o con le armi di distruzione di massa o alterando le condizioni necessarie alla sua sopravvivenza - clima, riproducibilità delle risorse, inquinamento dell'aria, delle acque e del suolo - bisogna lucidamente prepararsi ad affrontare i disastri già avvenuti grazie a una teoria definita "catastrofismo illuminato".
Forse non è necessario essere così tragici, ma occorre, per contro, evitare anche fughe in avanti, immaginando utopicamente altre forme di vita basate sull'avvento di un'epoca di "abbondanza frugale", in cui si rinunci al superfluo in cambio della riscoperta di aspirazioni, valori e modelli di esistenza diversi da quelli vigenti, che vanno dalla rivalutazione dell'amicizia alla convivialità, dalla serenità alla lentezza, dal piacere della conoscenza a quello del silenzio, dal rifiuto del consumismo alla promozione dello spirito del dono e della gratuità. Sebbene queste generose proposte costituiscano un ulteriore sintomo dell'insostenibilità delle condizioni attuali e della conseguente esigenza di una svolta radicale, è difficile capire se abbiano, specie in Occidente, una qualche intrinseca consistenza e attualità o non si tratti, invece, di processi che implicano molti decenni o secoli.
La nostra situazione è grave e getta individui, comunità e popoli in preda di paure in parte diverse, ma certamente non peggiori di quelle che hanno attanagliato gli animi in tutta la storia passata e, parlando di epoche più vicine a noi, nella prima metà del Novecento. Siamo usciti da crisi e sofferenze maggiori, ci riusciremo ancora?

Il Sole 18.5.14
Se la Storia «ridisegna» i destini dell'economia
Epidemie e guerre hanno impresso una svolta alle produzioni
di Fabrizio Galimberti

Tenetevi forte: questa volta parleremo della "Morte nera". Precisiamo subito: non è quell'immenso e letale globo, un'arma di distruzione di massa, che compare nella saga cinematografica di "Guerre stellari". Si tratta di un altro nome dato alla "peste nera", quel terribile evento che imperversò a metà del XIV secolo decimando la popolazione europea (e non solo). Parleremo degli effetti economici di quella devastazione.
I proverbi e i detti (la saggezza dei popoli, si dice) sono pieni di saggezze consolatorie. Da "sposa bagnata sposa fortunata" a "sfortunato al gioco fortunato in amore", da "donna barbuta sempre piaciuta" a (invertendo) "non ci sono spine senza rosa", per finire a "non tutto il male viene per nuocere". E il male della peste nera, in effetti, non venne tutto per nuocere.
Parliamo prima di questo male. È difficile per noi immaginare la piena portata di quella catastrofe. Cominciamo dall'inizio. Il virus della peste arrivò dall'Oriente, portato dai topi, e infuriò dapprima in Cina e in Russia. Forse il primo esempio di "guerra batteriologica" fu all'assedio di Caffa, in Crimea, quando un condottiero tartaro fece lanciare oltre le mura di Caffa (un avamposto genovese) dei cadaveri infetti. Poi le navi genovesi portarono l'infezione in Italia e in Europa. E dal 1347 in poi l'epidemia avvampa nel continente.
Le cifre sono spaventose: nel Trecento quasi la metà della popolazione europea morì di peste. Nell'Europa mediterranea la percentuale fu anche più alta. Per esempio, Firenze aveva nel 1338 110-120mila abitanti: nel 1350 erano ridotti a 50mila. Si stima che nel 1348-49 Londra abbia perso due terzi degli abitanti. E la morte era brutta, fra spasimi e sofferenze.
Una tragedia su scala così vasta non poteva non avere anche conseguenze economiche. A prima vista, potreste pensare che le conseguenze economiche non potevano che essere negative. E avreste ragione. Non c'era più chi lavorasse nelle campagne, la produzione di derrate diminuiva, i prezzi salivano. Oltretutto, poco prima che scoppiasse la peste le due maggiori potenze continentali - Inghilterra e Francia - avevano cominciato quella che poi sarebbe stata chiamata la Guerra dei cent'anni. Insomma, fra epidemie, inflazione e guerre, il Trecento fu un bruttissimo secolo.
Ma, come abbiamo ricordato sopra, non tutto il male viene per nuocere. Se nell'immediato i primi effetti della "morte nera" furono negativi, a lungo andare quel tragico episodio si rivela uno spartiacque della storia economica. Possiamo vedere almeno sei "consolazioni".
Primo, cosa succede quando una merce diventa scarsa? Succede che il prezzo sale. E, guardando al salario come il prezzo del lavoro, cosa succede quando il lavoro (il numero dei lavoratori era stato decimato dalla peste) scarseggia? Succede che il prezzo sale. Questa fredda constatazione economica comporta che i salari dei sopravvissuti erano più alti di prima.
Secondo, in Europa era diffuso il sistema dei "servi della gleba": cioè a dire, chi coltivava la terra, nel sistema feudale, era legato a quel'appezzamento e non poteva andarsene. Ma, con lo scarseggiare del lavoro, il potere negoziale andò spostandosi dalla parte dei lavoratori, e il sistema feudale cominciò a incrinarsi. La maggiore mobilità sociale avrebbe portato nel tempo a una migliore distribuzione delle risorse umane: un coltivatore che avesse il bernoccolo della meccanica non era più costretto a una vita da zappatore, e poteva impiegare al meglio i suoi talenti.
Terzo, per produrre ci vogliono lavoro e capitale. Quando il lavoro costa poco, se ne impiega di più, e non c'è incentivo a impiegare più capitale. Ma quando il lavoro comincia a costare di più (e non solo: come abbiamo appena detto, diventa libero di andarsene) si crea un incentivo a usare più capitale. Quindi a inventare macchine e tecniche di coltivazione agricole che finiscono per migliorare la produttività della terra. La peste forzò quindi un cambiamento delle tecniche produttive, in favore di una maggiore intensità di capitale.
Quarto, l'abbandono di tante terre dopo la morte degli appestati portò a un consolidamento degli appezzamenti. La dimensione media delle proprietà agricole aumentò di molto. Invece di tanti campicelli si formarono, se non dei latifondi, delle fattorie più grandi, che potevano sfruttare le economie di scala e supportare gli investimenti necessari. Per fare un paragone coi tempi moderni: se avete solo un campicello, è inutile comperare un trattore agricolo. Questo macchinario è adatto a estensioni di terreno più ampie, ed è questa ampiezza che, a sua volta, permette di fare la spesa di un trattore.
Quinto, tanti terreni agricoli abbandonati, che venivano lavorati con la vanga e l'aratro (agricoltura ad alta intensità di lavoro) dovettero essere adattati a coltivazioni a bassa intensità di lavoro, come il pascolo. Aumentò quindi la produzione di carne, prodotti lattiero-caseari e proteine, migliorando l'alimentazione dei sopravvissuti.
Sesto, se il lavoro diventò più caro, come detto prima, i prezzi della terra invece diminuirono, dato che c'erano tanti terreni abbandonati, o perché i proprietari erano morti di peste, o perché chi era rimasto voleva andarsene verso altri lidi e offriva le terre sul mercato. Per i produttori, era un'occasione di acquisire terre a poco prezzo. Lo spostamento verso tecniche a più alta intensità di capitale era quindi favorito da un andamento a forbice: il lavoro costava di più e la terra costava di meno.
Quindi è vero: non tutto il male viene per nuocere. Ma è ancora più vero che sarebbe bello avere benefici senza malefici...

Il Sole Domenica 18.5.14
XVII congresso Spi a Milano
Psicoanalisi allo specchio
Le neuroscienze sono oggi imprescindibili per capire la psiche
Il Premio Musatti 2014 allo studioso del cervello Vittorio Gallese
di Vittorio Lingiardi

All'origine dell'esperienza psichica: divenire soggetti è il titolo del diciassettesimo congresso della Società Psicoanalitica Italiana (SPI). Si svolgerà presso l'Università degli Studi di Milano dal 22 al 25 maggio e a giudicare dal programma molte relazioni affronteranno il tema, che più freudiano non si può, della formazione delle strutture psichiche. Come sappiamo, le psicoanalisi sono molte, ma nessuna può sottrarsi all'arduo compito di definire che cosa intende per "struttura psichica". Per questo ci sembra appropriata l'idea di inserire nel titolo quel "divenire soggetti" che sembra richiamare il complicato divenire se stessi in tempi di identità, psichiche e sociali, indefinite e a volte fragili. Ma, soprattutto, che sembra interrogarsi sugli ingredienti del processo di soggettivazione.
«L'incontro tra gli elementi idiomatici e le qualità dell'accudimento – dice Tiziana Bastianini, segretaria scientifica della SPI – dà luogo a una relazione in cui si sviluppa la nostra soggettività. Un processo che la teoria psicoanalitica ha raccontato con diverse metafore: contenimento, holding, riconoscimento, sintonizzazione affettiva». E che, aggiungerei, vive della tensione tra unico e molteplice e della capacità, direbbe Bromberg, di stare tra gli spazi. Infine, continuando a circumnavigare il titolo del convegno, nelle parole "origine" e "soggetto" ravvisiamo l'intenzione di riportare la psicoanalisi alla centralità della funzione materna senza consegnarsi alla nostalgia di un patriarcato perduto.
Temi che non possono più essere affrontati dalla posizione di «(non troppo) splendido isolamento», per usare la nota espressione di Fonagy, in cui a lungo parte della psicoanalisi si era rifugiata. Il dialogo con altri saperi disciplinari, in particolare le neuroscienze cognitive e l'infant research, si rivela necessario per qualunque ipotesi sul funzionamento psichico.
Sembra dunque intersoggettività la parola chiave di questo convegno, come anche dimostra la scelta di conferire il Premio Musatti a Vittorio Gallese, neuroscienziato dell'Università di Parma, autore, con Rizzolatti e altri, della scoperta dei "neuroni specchio" (una classe di neuroni che si attiva quando compiamo un'azione e anche quando solamente osserviamo un altro che compie quell'azione) e ideatore della teoria intersoggettiva della "simulazione incarnata" (uno specifico meccanismo mediante il quale il nostro sistema cervello/corpo modella le proprie interazioni con il mondo, processo non metarappresentazionale dove l'intercorporeità descrive un aspetto cruciale dell'intersoggettività). «Rispetto alle teorie dello sviluppo infantile – leggiamo nelle motivazioni al Premio – si comprende oggi che il processo di graduale riconoscimento dell'oggetto come soggetto indipendente, dotato di una propria realtà psichica, non passa solo per le vie della mentalizzazione e della rappresentazione simbolica, attraverso le quali egli formula inferenze cognitive sulle intenzioni proprie e altrui, ma anche attraverso accessi mimetici preriflessivi, molto più diretti e automatici, la cui mediazione è corporea».
La scelta di un esecutivo psicoanalitico di premiare l'ingegno scientifico di Gallese vuole sottolineare la centralità del dialogo tra discipline biologiche e psicologiche. «Un approccio neurobiologico alla comprensione dei processi mentali – scrive del resto Gallese – non può limitarsi a indagare la relazione tra i concetti con cui li descriviamo e le aree cerebrali che si attivano durante l'applicazione di tali concetti, ma deve studiare come dal sistema cervello-corpo nelle sue situate relazioni mondane scaturisca l'attività mentale e venga recepita quando espressa dagli altri. Detto altrimenti, il livello di descrizione offerto dalle neuroscienze cognitive è necessario ma non sufficiente. Dobbiamo partire dal tema dell'esperienza degli individui, decostruirla, naturalizzarla studiandola con l'indagine sub-personale propria delle neuroscienze, e utilizzare i risultati così ottenuti per ridiscutere il livello personale da cui eravamo partiti, instaurando così un virtuoso circolo conoscitivo».
In un momento in cui è forte il rischio di polarizzare il confronto (come la formula neuromania vs neurofobia ci vuole ricordare) è importante affermare, e questo premio sembra farlo, che discipline diverse possono e devono mantenere la loro autonomia senza per questo rinunciare a un'inevitabile interdipendenza. Evitiamo così di imboccare le scorciatoie che pretendono di utilizzare, spesso opportunisticamente, le grandi conquiste delle neuroscienze per spiegare ogni complessità della vita psicologica e psicopatologica. E di abbracciare semplificazioni pseudocliniche che pretendono di riassumere le vicissitudini del processo terapeutico (dall'incontro diagnostico al momento della separazione) nella comoda raccomandazione, suggellata dall'inevitabile riferimento ai mirror neurons, di essere "empatici e relazionali" (peraltro riesce difficile pensare a una relazione terapeutica senza empatia e senza relazione).
Quello intersoggettivo è un orientamento che vanta una lunga tradizione clinica e teorica e oggi informa, con sfumature diverse, molte correnti di pensiero psicoanalitico. Una tradizione che si è sviluppata e rinforzata grazie all'incontro tra teoria dell'attaccamento, studio dei sistemi motivazionali, infant research, neuroscienze cognitive e ricerca empirica sulle specifiche componenti della relazione psicoterapeutica (tra cui l'alleanza e il ritmo delle rotture e delle riparazioni). Grazie al contributo di autori come Daniel Stern e molti altri è stato finalmente messo a fuoco come le manifestazioni delle caratteristiche temperamentali del bambino interagiscano in processi di regolazione reciproca bambino-caregiver.
Sul piano clinico l'intersoggettività, può essere definita un processo in gran parte implicito di comunicazione e creazione di senso tra i due mondi intrapsichici di paziente e terapeuta. Un'esperienza che produce cambiamento in entrambi e nella loro relazione. E inevitabilmente ci porta a ridisegnare l'idea di psicoanalista.
Pensando al convegno SPI penso a Luciana Sica che ne avrebbe scritto su «Repubblica». Ma Luciana non è più con noi. Amava la psicoanalisi e proprio l'anno scorso aveva ricevuto il premio Musatti.

Il Sole Domenica 18.5.14
Veleni nella valle
Aldo Semerari, lo psichiatra nero
di Andrea Di Consoli

Prima fanatico stalinista, poi nazifascista, teorico dell'eversione nera e del colpo di Stato. Inoltre, affermato psichiatra, erede della cattedra di Medicina criminologica di Cesare Lombroso e "mago" delle perizie psichiatriche in sede giudiziaria (spesso offerte con diagnosi benevole in cambio di supporto criminale). È la storia di Aldo Semerari, personaggio oscuro dai plurimi volti: pagano, scienziato, cerniera tra servizi segreti ed eversione e, di questa, con la criminalità organizzata (Banda della Magliana, Nuova Famiglia e Nco). Una figura difficile da decifrare, soprattutto nel suo continuo compromettersi – finanche a fini conoscitivi – con le menti criminali (era grande studioso di Heidegger e Jaspers). A lui dedica un'indagine monografica Corrado De Rosa, che ne La mente nera. Un cattivo maestro e i misteri d'Italia: lo strano caso di Aldo Semerari (S&K - Le radici del presente, pagg. 290, € 17,00) illumina una delle vicende esistenziali più complesse della storia sotterranea della Prima Repubblica. Semerari, dopo essere stato incarcerato, finì male i suoi giorni: venne assassinato a Ottaviano (gli fu tagliata la testa) nel marzo del 1982 dal camorrista anticutoliano Umberto Ammaturo, il quale confessò molti anni dopo che lo psichiatra «era un traditore», perché contemporaneamente alla Nuova Famiglia faceva anche perizie in favore di Cutolo.
I veleni della Valle del Sacco
Molto probabilmente il fiume Sacco (affluente di destra del Liri) è il più inquinato d'Italia. Esso nasce sui monti Prenestini e termina la sua corsa, dopo un percorso di 87 chilometri, nel cuore della Ciociaria. Lungo questo piccolo fiume sorgono ben 87 scarichi industriali che da molti decenni riversano direttamente nel Sacco i propri rifiuti liquidi. Tanto che oggi la Vall del Sacco – tra discariche, inquinamento industriale e abusivismo edilizio – è, insieme alla Terra dei Fuochi e Taranto, uno dei luoghi più drammaticamente avvelenati del territorio italiano. Ci dà puntuali e rigorose notizie sui problemi sostanzialmente sconosciuti di questa valle il giornalista Carlo Ruggiero, che nell'inchiesta-reportage Cattive acque. Storie della Valle del Sacco (Round Robin, pagg. 126, € 12,00) racconta il dolore di quanti, ancora memori di quando nel fiume Sacco «si poteva fare il bagno», oggi sono costretti a fare i conti con straordinarie casistiche tumorali e con una devastazione ambientale che non ha lasciato in eredità né salute né sviluppo.

Il Sole Domenica 18.5.14
Estetica sperimentale
A suo modo il corpo conosce
I neuroni specchio hanno rivoluzionato l'estetica classica con l'idea che l'esperienza artistica non è solo visione ma conoscenza incarnata
di Anna Li Vigni

Chi volesse avere un'idea di cosa significhi veramente fare cultura, dovrebbe leggere l'articolo pubblicato dal neuroscienziato Vittorio Gallese sulla rivista «Micromega». Arte, corpo, cervello: per un'estetica sperimentale è un vero e proprio manifesto che promuove la collaborazione multidisciplinare delle neuroscienze e delle scienze umane nello studio di quel fenomeno ancora assai misterioso che è la vita culturale del l'essere umano. Proprio da un famoso neuroscienziato ci proviene una lezione di metodologia animata da una profonda umiltà epistemologica: da una parte, infatti, vi troviamo una correzione di quell'attitudine neuroscientifica al riduzionismo, oggi assai diffusa, che si suole chiamare «cerebrocentrismo»; dal l'altra parte, vi leggiamo la necessità di considerare la prospettiva umanistica come assolutamente complementare a quella scientifica. Comprendere più da vicino le dinamiche di un comportamento umano come quello della creazione e della fruizione dell'arte può divenire determinante nella comprensione dell'uomo in senso lato.
Eppure sia l'estetica filosofica – che si è resa sempre più una disciplina chiusa in un circuito umanistico autoreferenziale –, sia gran parte della neuroestetica – che si è spesso limitata a considerare l'arte semplicisticamente come il risultato di un'attività chimico-elettrica del cervello –, offrono prospettive che si sono rivelate alla fine non così lungimiranti. Dato l'indiscutibile fatto – Gallese ovviamente non lo mette in discussione – che anche l'arte, come tutte le altre attività umane, è frutto di attività cerebrale, il neuroscienziato suggerisce però una visione più ampia del fenomeno artistico: «Il cervello, infatti, esprime la propria funzionalità solo ed esclusivamente perché legato a un corpo situato in un particolare mondo fisico, popolato da altri individui».
Il recupero della nozione di corpo non è affatto scontato: siamo gli epigoni di una millenaria cultura (da Platone a Cartesio all'Idealismo e, con l'eccezione di Merleau-Ponty, al neo-cartesianesimo) che offre una concezione disincarnata della conoscenza e del l'esperienza della realtà, e che continua a mettere da parte il corpo come una zavorra d'impaccio alla conoscenza stessa. La scoperta dei neuroni specchio, con l'originale elaborazione da parte di Gallese della categoria di «simulazione incarnata», ha indiscutibilmente rivoluzionato il mondo del l'estetica classica, inducendo l'idea che la visione non sia limitata al cervello visivo, ma sia al contrario un'attività multimodale, un'esperienza incarnata, appunto, nella quale un ruolo importante viene giocato anche dal cervello sensorimotorio, viscero-motorio ed emotivo: quella dell'arte è dunque un'esperienza vissuta da e con il corpo, perché il corpo a suo modo conosce.
Pertanto, studiare il fenomeno delle immagini artistiche semplicemente in un'ottica semiotico-ermeneutica, come ancora accade in ambito umanistico, escludendo la dimensione della "presenza" corporea nell'esperienza del l'arte, è riduttivo alla stessa stregua del riduttivismo neuroscientifico classico: «Quando entriamo in un museo, non ci poniamo di fronte a una semplice immagine» che il nostro cervello deve "decodificare", «bensì a un'immagine che trova la propria giustificazione nell'essere collocata in quello spazio» e che stimola non solo la nostra vista, ma anche e soprattutto il nostro corpo, la nostra memoria di vita e le nostre emozioni più profonde, suscitando in noi una risposta empatica.
La proposta di Gallese, lodevolmente ambiziosa, è quella di un immenso progetto multidisciplinare – le Neuroscienze Cognitive – al quale tutti gli ambiti della conoscenza possano e debbano collaborare, per poter ricostruire il puzzle attualmente disgregato del l'essere umano, per restituirlo cioè alla sua dimensione naturale di unicum inscindibile di mente e di corpo.

Vittorio Gallese, Arte, corpo, cervello: per un'estetica sperimentale; in Micromega, 2/2014, pagg. 190, € 15,00

Il Sole Domenica 18.5.14
Politically uncorrect
Il disagio dell'egoismo
Il breve e denso pamphlet di Lasch e Castoriadis prende atto dello scacco della cultura individualistica
di Vittorio Giacopini

«Dobbiamo dare forza alle emozioni, all'immaginazione, ai sentimenti morali, al primato dell'essere umano individuale… La radice è l'uomo, qui e non altrove, adesso e non più tardi». Nel '46, a neanche un anno dalla fine della guerra, Dwight Macdonald lanciava un messaggio in bottiglia alla sinistra ma è dubbio che questa ne abbia intuito la forza, e il paradosso. Ripartire dal soggetto individuale, dalle emozioni. La formula era ineccepibile ma ambigua. Già negli anni Cinquanta lo stesso Macdonald volge apparentemente le spalle alla politica optando per la battaglia culturale. Non è una forma di rinuncia, a guardar bene. Quel «qui e non altrove», quell'«adesso e non più tardi», si rivelano all'improvviso una formula retorica e la critica culturale assume l'aspetto di un'analisi impietosa di un disastro già interno alla vita quotidiana più ordinaria. Il messaggio nella bottiglia era stato raccolto dal Capitale, e alla rovescia. Nell'orizzonte della società opulenta dei consumi, la cultura di massa si irrigidisce in Midcult mistificante e il «primato» dell'individuo si erge a dogma nel l'istante stesso dell'esautoramento totale (o quasi totale) del soggetto. La totalità è il mercato, fatto Sistema (e il consumatore viene consacrato in sovrano, beffardamente).
Quarant'anni dopo, quando Cornelius Castoriadis e Cristopher Lasch si incontrano per un dibattito negli studi della BBC, la percezione che il «guasto» sia esattamente all'altezza – e all'interno – del soggetto appare acquisita. La cultura dell'egoismo fotografa, con perfetta messa a fuoco, un imbarazzo. Il contesto è quello del thatcherismo trionfante, del reaganismo, ma il nodo che Lasch e Castoriadis neanche provano a sciogliere è più imbrogliato. La fine delle grandi visioni politiche, delle Utopie, la «disgregazione del movimento operaio e del progetto rivoluzionario ad esso collegato» è stata anticipata sul filo di lana da un più estremo «cambiamento negli individui» (Castoriadis). Si è aperta una stagione diversa, del tutto inedita. È il tempo del "narcisismo", dell'Io minimo (Lasch), il basso orizzonte che segna la colonizzazione del soggetto, l'esaurimento di ogni modello di "autonomia" (Castoriadis). L'esito è uno stallo paralizzante: l'io trionfa e insieme dilegua mentre il mondo esterno, ridotto a puro flusso di merci e consumi, assume «un carattere allucinatorio, fantasmatico, irreale» (Lasch). L'impasse non è soltanto politica o sociale. Un'ampia alterazione ha investito il terreno stesso dell'antropologia, il tipo di persone che siamo oppure non siamo, le virtù e le qualità che un individuo può ancora avere o costruirsi. Così si capisce come nei giudizi accigliati di Lasch e di Castoriadis si colga una – perplessa – presa di distanze dal campo stesso della modernità. Prima ancora della "disgregazione" del "progetto" della sinistra colpisce semmai il divorzio in atto tra etica protestante e spirito del capitalismo.
Ma non ci sono proposte, soluzioni. Lasch e Castoridadis condividono più che altro un disagio, e un imbarazzo. La cultura dell'egoismo è un sintomo interessante anche per questo. Incalzati da Ignatieff, prendono atto entrambi di uno scacco. Al silenzio progettuale della politica risponde l'inservibilità della "coscienza". Si è aperta una fase segnata dall'assenza simultanea della comunità e dell'individuo e non potrebbe esserci scenario più inquietante. Ai falsi movimenti del presente, viene naturale contrapporre un passato già remoto – una preistoria – ma i ricorrenti, nostalgici, accenni all'antica Grecia non sembrano convincenti, suonano a vuoto. La questione posta con efficacia da Ignatieff resta inevasa: «che genere di individuo possiamo inventare? Che genere di teoria politica possiamo cominciare a costruire». Lasch e Castoriadis, d'altronde, lo sanno bene. Gli individui «non si inventano» (e la politica la inventano gli individui, d'altra parte, e quando possono farlo, se possono). Per entrambi era il momento di girare pagina (ma il loro imbarazzo di ieri è ancora il nostro). Negli anni successivi Lasch si ostinerà a ricostruire scenari di comunità, di vita in comune, innestando sulla tradizione repubblicana del «momento machiavelliano» un populismo liberato da gravami reazionari troppo retrivi (Il paradiso in terra, Feltrinelli). Quanto a Castoriadis, lui proverà a muoversi ancora nel segno del «qui e adesso» di Macdonald (e di Paul Goodman). Per quanto sembri una strada senza uscita, tocca ancora provare a ripartire dal soggetto. «Una trasformazione radicale della società….potrà essere operata soltanto da individui che vogliono la loro autonomia…lavorare a preservare e ad ampliare le possibilità di autonomia e di azione autonoma… è già fare opera politica» (La rivoluzione democratica, Eleuthera).

Christopher Lasch, Cornelius Castoriadis, La cultura dell'egoismo. L'anima umana sotto il capitalismo, Eleuthera, Milano, pagg. 72, € 8,00

Il Sole Domenica 18.5.14
Ragionevoli emozioni
Un'analisi originale del ruolo dei sentimenti nelle nostre vite: sono spesso fuorvianti, ma possono anche indirizzare al meglio le nostre ragioni
di Carla Bagnoli

Negli ultimi anni le neuroscienze e le scienze cognitive hanno dato nuovo impulso allo studio filosofico delle emozioni, riconoscendo il loro contributo alla razionalità. Questi studi hanno sottratto supporto scientifico ed empirico ai modelli di razionalità disincarnata e spassionata consegnatici dalla tradizione filosofica e ci hanno insegnato a diffidare delle teorie filosofiche che separano e contrappongono ragione ed emozioni. Ma se l'osservatore imperturbabile e neutrale è un ideale di oggettività ormai tramontato, più difficile è capire quali ideali stanno emergendo. Emotional Insight di Michael Brady, un giovane filosofo della University of Glasgow, offre un contributo rimarchevole in questo senso. Al centro del suo studio vi è la tesi che l'esperienza emotiva ha un ruolo epistemico decisivo e peculiare. L'argomento di Brady si distingue soprattutto perché di solito il ruolo delle emozioni in ambito epistemico è rappresentato in modo negativo, come elementi di disturbo e distrazione. E da questo punto di vista i nuovi studi di neuroscienze non hanno contraddetto le teorie filosofiche tradizionali. Di certo, le emozioni interferiscono spesso con il ragionamento, possono distrarre dagli obiettivi epistemici corretti e indurci a formare credenze sbagliate. Sono spesso fonti di pregiudizio, ci rendono osservatori parziali e interessati e, in questo senso, poco obiettivi. Ma proprio per le stesse ragioni per cui possono essere di intralcio alla formazione di credenze corrette, le emozioni possono anche essere un ausilio importante dal punto di vista epistemologico. Per esempio, nel film di Sidney Lumet Twelve angry men (La parola ai giurati, 1957), sono proprio emozioni come la rabbia, la paura, il risentimento, a orientare verso un affrettato verdetto di colpevolezza undici dei dodici membri della giuria, chiamati a giudicare un caso di parricidio. Ma è ancora per via di un'emozione che uno dei giurati nutre un dubbio ragionevole, convince gli altri a riesaminare le carte processuali e inizia una riflessione collettiva che si conclude con il riorientamento delle emozioni degli altri giurati e il ribaltamento del verdetto iniziale. Fin qui, si può dire, nessuna scoperta. Questo è il modo in cui le emozioni funzionano normalmente. Anzi, Brady insiste sul fatto che in contesti quotidiani, non filosofici, le emozioni sono riconosciute come una base importante per la valutazione delle situazioni in cui ci troviamo. Affidarsi alle emozioni anche nel ragionamento epistemico che riguarda la formazione di credenze è una pratica di buon senso. La novità dello studio di Brady consiste nel produrre un modello filosofico in grado di caratterizzare precisamente il contributo epistemico delle emozioni. Sono due le domande centrali intorno alle quali si articolano gli argomenti complessi dello studio: in che modo le emozioni contribuiscono al nostro status epistemico? E a quali condizioni le emozioni possono contribuire in modo positivo? Le emozioni svolgono un ruolo epistemico fondamentale perché servono a richiamare l'attenzione non solo su certi dettagli salienti della situazione, ma anche sulle emozioni stesse. Ci motivano a cercare ragioni e prove che giustificano le emozioni. Le emozioni sono perciò "riflessive" e proprio questa loro caratteristica di riflessività spiega il loro ruolo epistemico peculiare. Per esempio, l'emozione di rabbia che un atleta può provare dopo una competizione lo incoraggia a riflettere sulle ragioni di questa reazione emotiva. L'atleta può così scoprire che la sua rabbia è motivata da un giudizio inconfessato di essere stato valutato erroneamente o dall'impressione di aver subito un fallo che ha impedito una sua azione decisiva. Per questa via, può iniziare un ragionamento complesso che altera decisamente il quadro iniziale. Il giurato può rendersi conto che il suo verdetto di colpevolezza è motivato da un'avversione rabbiosa verso il giovane imputato, semplicemente perché gli ricorda suo figlio, e concludere che quindi corre il rischio di condannare un innocente. La compagna amorosa che si prodiga per un compagno distante e insofferente può iniziare ad interrogarsi sulle ragioni del suo amore, sulla natura del comportamento del compagno, sul futuro della loro relazione, e così via. Insomma, l'esperienza emotiva non si esaurisce in se stessa, ma dà origine a una rete complessa di ragionamenti. È perciò un grave errore filosofico cercare di isolare le emozioni dalla riflessione critica.
C'è, però, un altro errore filosofico che Brady cerca di estirpare. L'argomento centrale del libro è, infatti, un poderoso attacco contro il modello percettivo delle emozioni, un approccio che si è affermato con grande determinazione nel dibattito filosofico degli ultimi anni, grazie ad epistemologi e filosofi come Martha Nussbaum, Robert Audi, Sabine Döring e Christine Tappolet. Ci sono ragioni importanti a favore dell'analogia tra percezioni ed emozioni. La prima è che trattare le emozioni alla stregua di percezioni indica in modo abbastanza semplice e diretto com'è che le emozioni contribuiscono a formare buone credenze. Le emozioni sono modi di vedere il mondo e di orientarvisi. L'esperienza visiva di una mela sul tavolo è una ragione per credere che vi sia effettivamente una mela sul tavolo. Analogamente, la paura di volare, dovrebbe contare come una ragione per non volare. Naturalmente, ci si può sbagliare sia a proposito della percezione della mela sul tavolo, sia a proposito della paura. Come le percezioni, le emozioni sono fallibili, ma sono anche fonti indispensabili di conoscenza. Chi sostiene l'analogia con le percezioni ritiene che il ruolo epistemico delle emozioni sia dello stesso tipo. Questo è un merito importante del modello percettivo. Infatti, molti altri modelli avvicinano le emozioni ai desideri e quindi ne mettono in rilievo il ruolo motivazionale, negando che possano svolgere una funzione positiva anche da un punto di vista epistemico. Che le emozioni possano avere forza motivazionale tanto significativa da determinare l'agente all'azione è un fatto che nessun modello filosofico pone in discussione. Anzi, solitamente, è proprio in virtù di questa loro capacità motivazionale che le emozioni vengono contrapposte alla riflessione e rappresentate come forze estranee alla razionalità. Brady ci incoraggia a ripensare questa opposizione e quindi anche a riconsiderare le modalità per cui le emozioni possono interferire e disturbare il ragionamento e inficiare la formazione di credenze corrette. Tuttavia, secondo Brady, le emozioni non sono propriamente ragioni, né forniscono direttamente ragioni. È proprio per questo che differiscono dalle percezioni. Le percezioni sensoriali, infatti, offrono delle evidenze o delle ragioni immediate per le nostre credenze. Invece, le nostre emozioni motivano a cercare ragioni, ma non sono esse stesse ragioni. La gelosia spinge Otello a cercare prove per i suoi sospetti. Percepire la luce del sole dalla veranda gli dà ragione di credere che sia sorto il sole. Eppure, l'esperienza emotiva ci motiva a cercare ragioni che possono determinare l'accuratezza delle nostre emozioni. Questa funzione epistemica distintiva delle emozioni emerge proprio in contrasto con la percezione, argomenta Brady. L'attacco al modello percettivo delle emozioni è perciò più che un argomento destruens, poiché è proprio attraverso una critica serrata a questo modello che si scopre com'è che le emozioni possono svolgere una funzione epistemica positiva e distintiva. Infatti, in contrapposizione alle percezioni, le emozioni alterano l'attenzione e la direzione del ragionamento. Le emozioni possono restituirci credenze giustificate a condizione che siano ben governate, cioè educate attraverso pratiche virtuose. L'effetto positivo e negativo delle emozioni sulla conoscenza e sulla comprensione di noi stessi e del nostro spazio valutativo devono essere studiate attraverso un'investigazione attenta della relazione tra emozione, attenzione e comprensione. Quando riflettiamo, le emozioni possono anzi ampliare la prospettiva dell'agente, correggere certi pregiudizi e affinare il giudizio mettendo in rilievo dettagli salienti, oppure mettere a tacere certe considerazioni come irrilevanti. In generale, le emozioni promuovono la riflessione su se stesse. Questo contributo epistemico emerge anche quando le emozioni non sono perfettamente allineate con il nostro ragionamento. Prendiamo, per esempio, il caso delle emozioni recalcitranti.
Abbiamo paura di prendere l'aereo, e questa paura persiste anche quando abbiamo raccolto prove sufficienti a dimostrazione del fatto che volare non è più rischioso di guidare. La paura interferisce a vari livelli. Ci motiva ad agire in contrasto con il nostro miglior giudizio, ma dà anche un ordine alle nostre opzioni e quindi non ha solo una forza motivante cieca, ma propone considerazioni che possono valere come ragioni. Soprattutto, dal punto di vista epistemico ci spinge a cercare prove che possano dirimere la questione di quale opzione sia più rischiosa. Ciò significa che le emozioni interagiscono in modo significativo con i processi e le pratiche che conducono alla formazione di credenze corrette. Le condizioni alle quali le emozioni svolgono una funzione positiva sono dettate da abitudini virtuose.
Questa è certamente la parte più problematica e impegnativa del saggio di Brady, sulla quale meriterebbe discutere, proprio perché c'è un disaccordo ragionevole su che cosa conta come abitudine virtuosa e su come si possono educare le emozioni. Dal punto di vista metodologico, questo disaccordo è positivo: un esempio eccellente della necessità di integrare studi empirici e filosofici per la comprensione dell'esperienza emotiva.

Michael Brady, Emotional Insight: the Epistemic Role of Emotional Experience,
Oxford University Press, pagg. 216, £ 30,00

Il Sole Domenica 18.5.14
Vaccinarsi contro i pregiudizi
Perché cambiare idea è così difficile anche di fronte a verità certe?
Neutralizzare i «bias» cognitivi è fondamentale per le decisioni pubbliche
di Gilberto Corbellini

«Una persona con una convinzione è una persona difficile da cambiare. Ditele che siete in disaccordo con lei, e se ne andrà. Mostrategli fatti e numeri, e metterà in discussione le vostre fonti. Fate ricorso alla logica, e non sarà in grado di capire il vostro punto di vista». Con queste parole, nel 1956, il fondatore della psicologia sociale cognitiva, Leon Festinger, descriveva la scoperta che lo avrebbe portato a introdurre negli anni successivi il concetto di «dissonanza cognitiva», per cui lo stesso individuo può coltivare credenze e comportamenti tra loro incoerenti, che inducono automaticamente a ricercare una qualche consonanza attivando diverse strategie di elaborazione cognitiva o comportamentale compensatoria. Nel caso in specie, gli adepti di una setta americana, i quali attendevano la fine del mondo prevista dalla loro credenza l'1 dicembre 1954, quando l'evento non si realizzò non smisero di credere alle sciocchezze che predicavano. Bensì, accentuarono il loro fanatismo e le azioni di proselitismo, "razionalizzando" con argomenti ad hoc il fallimento del presagio.
Sessanta anni dopo, la letteratura scientifica sull'esistenza, anche nella cosiddetta mente umana, di una sorta di sistema immunitario che protegge da credenze e opinioni diverse e potenzialmente destabilizzanti per un'identità psicologico-sociale individuale faticosamente costruita, è sterminata. Un'immunità che riguarda ogni ambito delle decisioni umane che possono associarsi a qualche percezione o falsa percezione di minacce, incluse quindi le resistenze che gli stessi scienziati possono maturare psicologicamente contro spiegazioni dei fatti diverse da quelle preferite. Quella che potrebbe essere una legge dell'immunità ideologica, dice che le persone con forti credenze sbagliate e fondate su false percezioni di alcuni fatti, reagiscono ai tentativi altrui di correggere tali false percezioni, accentuandole. In alcuni ambiti della psicologia politica il fenomeno è descritto con la metafora del «ritorno di fiamma». Quello che sta accadendo di interessante nello studio di questi bias cognitivi, che sono poi delle varianti degli idola di Bacone solo finalmente meglio dettagliate a livello sperimentale, è che si comincia ad assistere ad aperture importanti nel campo della comunicazione medico-sanitaria verso queste conoscenze.
«Pediatrics», che è la più autorevole rivista mondiale di pediatria, ha pubblicato nel marzo scorso uno studio, ideato principalmente da Brendan Nyhan che insegna scienze politiche alla Michigan University, in cui si dimostra che la comunicazione pubblica sui vaccini è in larga parte sbagliata, perché non tiene conto dei bias cognitivi ed emotivi attraverso cui le persone filtrano i fatti. Le false percezioni di fatti scientificamente acclarati, raramente possono essere corrette in modo efficace somministrando la "verità". Per questo è importante che studiosi dei bias cognitivi che sono all'opera nelle mistificazioni politiche dei fatti, collaborino con i medici per entrare nel merito di come funziona la mente umana e quali sono le strategie più efficaci per combattere false credenze che possono danneggiare persone e comunità. Come è stato per il caso Stamina, o l'idea che i vaccini siano pericolosi. Perché i fenomeni sono più o meno della stessa natura.
Lo studio ha arruolato 1.759 genitori statunitensi coinvolgendoli in un esperimento in cui essi erano casualmente suddivisi in quattro gruppi, ognuno oggetto di specifiche e differenziate forme di comunicazione volte a far capire l'utilità della vaccinazione MMR (quella ritenuta dai fanatici responsabile dell'autismo), o a un gruppo di controllo. Il risultato è stato che nessuno degli interventi di comunicazione rivolti ai genitori che non intendevano vaccinare i figlio li ha smossi da quell'atteggiamento. Tra l'altro, quando i genitori che avevano l'atteggiamento meno favorevole verso il vaccino capivano la falsità delle tesi che associano la vaccinazione MMR all'autismo, essi correggevano le loro false percezioni ma riducevano anche ulteriormente l'intenzione di vaccinare i figli. Inoltre, l'uso di immagini o racconti che mettevano in evidenza i rischi di non vaccinare, inducevano nei genitori un aumento della credenza in un legame tra vaccino e autismo, o un'aumentata percezione dei rischi di effetti collaterali dovuti alla vaccinazione. Anche se l'esperimento può essere criticato, perché i partecipanti in qualche modo sapevano di esser parte di una situazione costruita, in realtà risultati analoghi sono stati ottenuti per altre vie. E confermano, tra l'altro, una scoperta costante sulle figure e i contesti che portano le persone a fidarsi delle informazioni sanitarie dissonanti rispetto a quello in cui credono. Sono i medici che hanno in cura i malati, in questo caso i bambini, quelli di cui i genitori hanno più fiducia. Il che in Italia non è incoraggiante, perché ricordo esperienze raccapriccianti quando circa tre lustri fa interagivo con questa categoria medica, per far star bene mio figlio. In realtà, ho avuto la fortuna di essere amico di Roberto Burgio, scomparso recentemente, e che tanto ha fatto per far maturare anche in Italia una visione razionale e moderna della medicina per i cuccioli umani, in cui i vaccini svolgono un ruolo fondamentale.
Studi come questi dimostrano che le idee di democrazia deliberativa o partecipativa sono illusioni se non si interviene direttamente ai livelli decisionali istituzionali per assicurarsi che le scelte siano effettuate sulla base di fatti accertati e non falsamente interpretati. La discussione in corso per garantire che le istituzioni parlamentari riformate includano figure con le necessarie e adeguate competenze è decisamente una versione aggiornata, alla luce delle conoscenze psicologiche sui bias cognitivi ed emotivi, del concetto di check and balances. I controlli e contrappesi oggi possono essere garantiti solo se le istituzioni reclutano al loro interno figure davvero indipendenti e di eccellenza internazionale, la cui reputazione sia tale da assicurare che non cadranno vittime di trappole populiste. A queste spetterà di esercitare una rigorosa sorveglianza sulla validità scientifica dei dati e sui metodi usati per interpretarli e per decidere e controllare gli effetti delle scelte politiche.

Il Sole Domenica 18.5.14
Delitti e pene tra Becker e Foucault
di Armando Massarenti

Gary Becker, premio Nobel per l'Economia, esponente della Scuola di Chicago, morto da poco all'età di 83 anni, non è famoso solo per la felice definizione di «capitale umano», ma anche per aver scritto, nel 1968, un saggio intitolato Crime and punishment che riprendeva un'intuizione fondamentale di Cesare Beccaria e del suo Dei delitti e delle pene, di cui ricorre il 250° anniversario. Beccaria, come Becker, ragionava da economista ed è grazie a ciò che il pensiero di entrambi assume i toni del più autentico riformismo sociale. Lo aveva sottolineato Michel Foucault nel corso al Collège de France del 1978-79, ricordando che la riforma del diritto penale alla fine del XVIII secolo, che portò a chiarire la distinzione tra delitti e peccati, danno e colpa, pena ed espiazione, «era proprio una questione di economia politica», ben riassunta nella definizione di crimine data da Becker: un crimine altro non è che un'azione che fa correre il rischio a un individuo di essere condannato a una pena. Così egli evita qualunque definizione sostanziale, qualitativa, morale o antropologica. Il crimine è ciò che viene punito dalla legge. Punto e basta. Il soggetto di fronte alla legge altro non deve essere che un homo oeconomicus. E chi lo giudica non farà alcuna differenza di tipo qualitativo tra un'infrazione al codice stradale e un omicidio premeditato. Il che potrà sembrare controintuitivo, ma offre l'enorme vantaggio che il criminale non sarà in alcun modo contrassegnato o interrogato a partire da tratti morali o antropologici. L'homo oeconomicus è un imprenditore di se stesso, un «capitale umano» che può produrre, ad esempio, un certo reddito. Ma che può anche assumersi certi rischi. Tra questi ci sono quelli relativi alla trasgressione di alcune leggi più o meno dannose per la società. Tali trasgressioni vanno certamente punite, a patto però di non confondere i crimini con altri aspetti, morali ad esempio, della vita sociale. Se davvero adottassimo questo approccio, e pensassimo, come Beccaria, a eliminare tutti gli aspetti inutili e dannosi dei modi tradizionali di intendere le pene, forse anche la nostra «emergenza carceraria», più volte evocata dal Capo dello Stato, potrebbe trovare uno sbocco. Il problema non è estirpare o punire ogni possibile crimine, riempiendo inutilmente le carceri, ma chiedersi qual è il danno sociale ed economico che ogni crimine davvero comporta. La domanda essenziale della politica penale non è tanto «Come punire i crimini?», e neppure «Che cosa bisogna considerare un crimine?», ma, al contrario, direbbe Becker, «Che cosa possiamo tollerare come crimine?». O, meglio, come riassume bene Foucault: «Che cosa sarebbe intollerabile non tollerare?».

Il Sole Domenica 18.5.14
Dal 1922 in poi con il fascismo al potere realizzò un vero etnicidio culturale
In ricordo dei martiri sloveni
di Boris Pahor

Recentemente sono stato spettatore di un evento nobile e inaspettato, durante le celebrazioni per la ricorrenza del 25 aprile, organizzato dal Comune della città di Villorba in provincia di Treviso. Per spiegarne l'importanza devo riallacciarmi al lontano 1941 e ai fatti di tutto il periodo postbellico, avvenuti nella così detta regione Venezia Giulia dove, oltre agli italiani, in modo compatto vivevano 600mila persone appartenenti a due popolazioni, la slovena e, in Istria, la croata.
Ecco, in questa Regione ha origine la negazione dei diritti delle due lingue e delle due culture, slovena e croata. Da principio, questa soppressione si era manifestata attraverso atti vandalici, incendi di case di cultura, roghi di libri e mettendo a soqquadro uffici. Dal 1922 in poi con il fascismo al potere era stata abolita la possibilità di impartire un'educazione in lingue non italiane, vi era stata un'italianizzazione dei cognomi, dei nomi dei paesi e delle borgate ed era stato interdetto l'uso dello sloveno in pubblico. A tale negazione, vero etnicidio culturale, la popolazione aveva reagito e si era organizzata clandestinamente in modo capillare. Quando veniva scoperta veniva punita, tanto che tra le due guerre c'era nelle diverse prigioni mezzo migliaio di oppositori. Già nel 1930 il Tribunale speciale per la difesa dello Stato a Trieste su 18 imputati ne aveva condannati a morte quattro, di cui il più giovane aveva 22 anni. Fu una vera dimostrazione accompagnata dallo sfoggio di navi da guerra in porto. L'organizzazione clandestina non reagì con azioni palesi, si concentrò a prepararsi alla guerra, con cui si anelava la liberazione dalla dittatura fascista.
Nella primavera del 1941, entrate le Forze Armate italiane e quelle fasciste a Lubiana, dove il popolo si sollevava in massa iniziando la lotta di liberazione nazionale, in risposta l'autorità italiana concepì il grande processo del Tribunale speciale a Trieste. Voleva così, a un tempo, minacciare gli antifascisti sloveni della Venezia Giulia, che già si stavano unendo agli insorti della Provincia italiana di Lubiana annessa all'Italia.
Il processo durò dal 2 al 14 dicembre contro 60 imputati presenti e dieci assenti. Uno dei dieci era il professor Lavo Cermelj, che fu portato al processo da Lubiana dove, come tantissimi altri, era stato esiliato. Al processo fu condannato a morte e poi graziato, perché autore, nel 1936, di un importante volume, pubblicato in Inghilterra, Life and Death struggle of a National Minority. Degli altri nove quattro furono graziati, mentre i cinque fucilati furono: Pino Tomažic, comunista triestino, Ivan Vadnal, agricoltore, Viktor Bobek, panettiere, Simon Kos, agricoltore, Ivan Ivancic, tessitore.
I condannati furono fucilati all'alba del giorno seguente alla sentenza, cioè il 14 dicembre 1941, le loro salme vennero inumate in un luogo sconosciuto. Solo dopo la guerra si seppe che segretamente erano stati tumulati nel cimitero di Fontane, di Villorba (Treviso). Il 27 ottobre del 1945 i loro resti furono trasferiti al cimitero di Trieste.
Ora, e mi scuso, ritorno alla mia presenza a Villorba il 24 e 25 aprile. È stato un evento inaspettato. Trovandomi a Treviso il 29 marzo per ricevere la cittadinanza onoraria, un signore di Villorba mi ha informato che avrebbero festeggiato il 25 aprile con un monumento ai cinque antifascisti tumulati segretamente nel cimitero di Fontana, detto Chiesa Vecchia. La sera prima, il 24 aprile, ci sarebbe stata una riunione, una serata in ricordo con alcuni storici, l'intervento della cronista triestina Lida Turk, autrice del libro bilingue Dicembre 1941, con il quale la sezione triestina della VZPI-ANPI aveva onorato il settantesimo anniversario dell'uccisione dei cinque antifascisti. Stupito e oltremodo soddisfatto, ho promesso che se non all'inaugurazione del monumento, perché obbligato a intervenire a una conferenza internazionale sulle minoranze, alla riunione di studi ci sarei voluto essere. E sono stato presente, invitato dal Comune di Villorba, all'interessantissimo incontro, dove ho preso la parola dopo il sindaco, Mario Serena, i professori, Marzio Favaro e Ernesto Brunetta, la cronista Lida Turk, Sergio Amadio, presidente locale dell'associazione Fanta, ideatrice del monumento agli antifascisti sloveni. Come scrittore sloveno, che si è prodigato per far conoscere i metodi della dittatura fascista nella Venezia Giulia, desideravo complimentarmi del l'iniziativa che faceva onore al popolo italiano, mentre la Repubblica italiana, nata dalla Resistenza, cerca di dimenticare e di non parlare ai giovani del terrore del passato regime nella Venezia Giulia, i crimini, gli ostaggi uccisi nella Lubiana occupata, i morti nei Campi di concentramento fascisti, per esempio di Monigo, vicino Treviso, e di Visco, in provincia di Udine. Voglio sperare, ho spiegato, che la dimostrazione di civiltà del comune di Villorba possa essere di esempio. All'avvenimento di Villorba il quotidiano sloveno «Primorski dnevnik» (il Giornale del Litorale) ha dedicato due articoli, riportando l'incontro di studi e la solenne cerimonia sotto il titolo Un'emozione indimenticabile. Erano presenti i rappresentanti dei diversi ordini delle Forze Armate, Sergio Amadio, con gli anziani "Fanti", davanti ai quali hanno preso la parola il sindaco Marco Serena, la Console generale della Slovenia a Trieste Signora Ingrid Sergaš, il Consigliere del Comune di Trieste Igor Švab, la presidente dell'VZPI-ANPI, Stanka Hrovatin, due parenti di due famiglie.
In un simpatico parco in Fontane Chiesa Vecchia, posto su base di pietra carsica, il monumento, opera di Silvio Massarin, è semplice e attraente perché formato da pertiche portanti, in linea orizzontale, le foto dei cinque martiri, mentre sopra di loro si elevano verso il cielo e la gloria i prolungamenti delle stesse pertiche. In mezzo una catena e il riconoscimento che questi cinque uomini si sono sacrificati per la libertà e la giustizia.

Il Sole 18.5.14
Dante. Altro che Commedia!
Esce il secondo tomo dei «Meridiani». Le opere politiche e filosofiche delineano un audace progetto culturale
di Gianluca Briguglia

Dante filosofo e pensatore politico è il protagonista del secondo volume delle Opere di Dante, edizione diretta da Marco Santagata, appena uscito per i Meridiani Mondadori. Il corposo volumetto, quasi duemila pagine, propone infatti il Convivio, cioè il grandioso e non concluso esperimento filosofico dantesco in lingua volgare, la Monarchia, con cui Dante, in latino, dimostra la necessità di un governo universale, le Epistole, che testimoniano di un Dante che è anche parte attiva della politica del suo tempo e le Egloghe, unica testimonianza poetica dantesca in latino.
«Tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere»: è con la citazione di Aristotele che si apre il Convivio e si annuncia il progetto rivoluzionario di cui è portatore, cioè la possibilità di una vera filosofia in lingua volgare. Dante – che dei quindici trattati previsti per il Convivio ne porta a compimento quattro, con il commento a tre canzoni – vuole mostrare «la gran bontade del volgare del sì», che è capace di esprimere «altissimi e novissimi concetti convenevolmente, sufficientemente ed acconciamente». Gianfranco Fioravanti, raffinato studioso della filosofia medievale e curatore di questa edizione del Convivio, nel suo imponente commento mostra come la cultura filosofica di Dante si nutrisse della conoscenza diretta di un buon numero di opere aristoteliche, ma anche del complesso Liber de causis e di testi importanti di Alberto Magno fino alla Summa contra Gentiles di Tommaso d'Aquino. Il Convivio non è infatti una semplice opera di divulgazione di contenuti filosofici in volgare. Si tratta invece di un progetto di radicale rinnovamento della cultura e della società: gli intellettuali delle università, i chierici e il loro latino, hanno chiuso il sapere in un monopolio linguistico e di ceto che il volgare vuole rompere. Il sapere va trasmesso ai molti, perché solo così si moltiplica per tutti, proprio come il pane evangelico. I destinatari dell'opera sono allora «principi, baroni, cavalieri e molt'altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari, e non litterati». Il quarto trattato, aperto dalla canzone Le dolci rime d'amor ch'io solìa – che Claudio Giunta, curatore delle tre canzoni del Convivio, ci aiuta a comprendere anche nel quadro dell'evoluzione personale delle scelte linguistiche e tematiche di Dante – è allora un esempio di quaestio filosofica in volgare, ed è un'indagine razionale sulla vera nobiltà, tema essenziale per capire come la società vada intesa e rinnovata. Fioravanti mostra la complessità della risposta dantesca: la vera nobiltà è data da un intreccio di caratteristiche personali, legate alla nascita, alla complessione, alla natura, all'ambiente, alla capacità individuale di coltivare i propri talenti; il «divino seme» cade nei singoli, ma non si esclude la possibilità di una concentrazione di «bene nati» in uno specifico lignaggio. La filosofia, in volgare, è rivolta a tutti loro.
La Monarchia – con cui Dante s'interroga sulla necessità di un governo universale, sulla missione storica del popolo romano, sulla relazione tra impero e papato – ci riconduce al contesto del latino e dell'originalissimo pensiero politico dantesco. Diego Quaglioni, curatore dell'opera e profondo conoscitore del pensiero giuridico medievale e moderno, nel corposo lavoro di commento prende posizione su interpretazioni classiche come l'idea che la Monarchia sia il semplice esercizio di un'«utopia politica» e la inserisce nello sviluppo del diritto pubblico del tardo medioevo, rendendo più chiara anche la specifica posta in gioco giuridica del discorso dantesco.
Quaglioni presenta qui un testo latino basato sull'edizione critica di Prue Shaw, ma che propone in molti punti specifici alcune scelte differenti. Particolarmente interessante è la discussione di Quaglioni su uno specifico manoscritto (l'Additional 6891) conservato alla British Library e non utilizzato dalla Shaw. Si tratta di un manoscritto del XIV secolo, già segnalato, che presenta alcune particolarità. Per esempio il copista, nell'indicare il titolo e l'autore dell'opera, si sente autorizzato a segnalare l'avvenuta morte di Dante («...la cui anima riposi in pace»): c'è dunque memoria di Dante ancora vivo? Se così fosse il manoscritto potrebbe allora risalire ad anni forse molto vicini alla stesura dell'opera. E questo renderebbe importante un altro particolare, cioè il fatto che, in questo manoscritto, un famoso inciso che rimanda al Paradiso («...come ho già detto nel Paradiso della Commedia»), presente nelle altre copie, si legge diversamente e ha tutt'altro significato. Certo sembra un dettaglio – che qui riportiamo perché fornisce al lettore anche uno scorcio sul complesso lavoro filologico delle interpretazioni storiche –, ma un dettaglio che per Quaglioni elimina uno dei pochi appigli interni sulla misteriosa cronologia dell'opera (gli interpreti infatti non sono in grado di dare una datazione univoca della Monarchia) e mette in questione alcune antiche certezze sul testo e sulla sua ricostruzione.
Le Epistole sono in massima parte indirizzate a personaggi politici di primissimo piano e comprendono anche la famosa e controversa lettera a Cangrande della Scala, in cui Dante spiega i princìpi di lettura e interpretazione della Commedia. Il commento e la cura di Claudia Villa consentono non solo una puntualissima contestualizzazione di temi e vicende, ma hanno il merito di intrecciare la scrittura delle epistole nel tessuto ampio dell'evoluzione di Dante e del suo immaginario politico e letterario.
Sono invece le Egloghe, corrispondenza poetica in quattro carmi in latino tra Dante e Giovanni del Virgilio, a chiudere il volume. Si tratta dell'ultima opera di Dante e della sua unica prova poetica in latino, sollecitata proprio da Giovanni del Virgilio, che apparteneva a quel gruppo di avanguardia classicista umanista di area padana che nel latino vedeva la forma espressiva più alta e dal quale Dante era rimasto significativamente distante. La bella introduzione di Gabriella Albanese, che cura le Egloghe e ne fornisce un'edizione critica, ci parla di un Dante nel pieno delle sue forze e della sua creatività, che a Ravenna esercita l'arte diplomatica per Guido da Polenta ed è lontano dalla mischia politica: in un contesto tanto favorevole, godendo anche del compimento del suo straordinario lavoro intellettuale, senza presagire la morte improvvisa, Dante stava forse già pensando con questi componimenti a un'altra eccezionale sfida letteraria, quella della poesia in lingua latina.

Dante Alighieri, Opere, edizione diretta da Marco Santagata, Volume secondo, Convivio, Monarchia, Epistole, Egloghe, a cura di Gianfranco Fioravanti, Claudio Giunta, Diego Quaglioni, Claudia Villa, Gabriella Albanese, Mondadori,
I Meridiani, pagg. 2.000, € 65,00

Il Sole Domenica 18.5.14
Fabriano, una risma da otto secoli
All'Istituto Italiano di Cultura di Parigi l'esposizione sui 750 anni della più celebre tra le fabbriche per produrre carta. Omaggio alla sapienza e al genio dei nostri artigiani
di Stefano Salis

Un maestro cartaio – anzi, il termine tecnico giusto sarebbe «lavorente» – immerge il telaio di legno in una tinozza con un impasto di acqua e fibra di cotone. Lo estrae, lo scuote con movimenti sapienti, secolari, e ottiene un "foglio" compatto. È il primo passo: si è compiuta una specie di piccola magia. Poi, quel foglio, viene adagiato su un panno di feltro di lana, insieme a tanti altri fogli, ciascuno separato dagli altri dal feltro: contiene ancora un 85-90% di acqua. Il cartaio raggruppa i fogli e i feltri e li mette sotto una pressa a torchio, schiaccia ed espelle altra acqua. Adesso lo tocchiamo: ma è ancora umido, siamo al 15% di materia liquida presente. Infine, ecco l'asciugatura elettrica, in un apposito macchinario; un altro passaggio per i fogli, appesi ad asciugare su uno stenditoio e, per ultimo, l'impressione, sul foglio ormai asciutto, di un simbolo. Spicca il logo con un cartiglio che reca un numero fatidico: 750. Siamo nel giardino dell'Istituto Italiano di Cultura di Parigi, il magnifico Hôtel de Galliffet (posto del quale, l'attuale direttrice, la studiosa e giornalista Marina Valensise, sta raccontando, ogni tanto, sul «Foglio» le storie, e si accinge a raccoglierle in un volume di prossima pubblicazione) e la serata è propizia: grande folla, prodotti italiani per festeggiare, si inaugura la mostra che celebra i 750 anni della carta di Fabriano, forse il primo esempio certo di «made in Italy», e uno di quelli ancora più noti e apprezzati. Il pubblico, vicino al mastro cartaio, non può trattenere la meraviglia quando vede, finalmente, come "nasce" la carta. Sì, perché, se ci pensate, questa materia, così fondamentale per la nostra civiltà (vi consiglio di andare a rileggere, ogni tanto, i molti aneddoti che racconta Ian Sansom ne L'odore della carta, Tea), la diamo per scontata ma non sappiamo come è fatta, da dove viene, perché ci fa compagnia da così tanto tempo e proprio per questo, forse, non abbiamo ancora capito davvero perché durerà ancora a lungo, alla faccia dei guru del digitale.
Intendiamoci: quei fogli di carta che il mastro cartaio "sforna" (ancora fino a oggi, poi la mostra continuerà, con altri atelier, ma senza questa performance) davanti ai nostri occhi felici non sono la carta di tutti i giorni. Una carta fatta quasi solamente di cotone è pregiatissima: adatta in pratica solo a usi artistici – e molti artisti sparsi per il mondo acquistano carte pregiate di Fabriano per le loro opere – o per scopi molto più seri; per esempio, è la carta base per i documenti d'identità e le banconote. Ma, tutto sommato, è un modo per ricordarci quanto la carta sia presente nella nostra vita. E non pensate solo alla carta da stampa (quella vile per i giornali o uso mano per i libri), da disegno (chi non è andato a scuola, almeno in Italia, con gli album della Fabriano?), o da scrittura (quaderni, notes). Pensate alla carta come documento, o appunto alla carta moneta (sapete che Fabriano è la culla dove viene prodotta la carta degli euro, e di molte altre banconote, con tecniche sofisticatissime che, però, non disdegnano l'intervento della sapienza e della manualità degli esperti di incisione e filigrane?). Ecco: la mostra sui 750 anni della carta di Fabriano ripercorre, in maniera rapida, ma sufficientemente esaustiva – in un allestimento che è pronto ad essere allargato a piacere in altre sedi espositive (la sede dell'Istituto di Parigi, proprio in quanto troppo bella e preziosa, pone dei precisi vincoli; mentre attendiamo che la mostra sbarchi in Italia in uno spazio degno) –, una storia che è davvero l'emblema del "saper fare" italiano. E va reso merito al Gruppo Fedrigoni – che detiene la proprietà delle storiche cartiere Miliani di Fabriano dal 2002 – di avere insistito per celebrare tale storia. Soprattutto con i materiali della Fondazione Fedrigoni/Istocarta che ha prestato i materiali storici; e basti pensare che l'archivio industriale (che compie 50 anni) è vincolato dalla Soprintendenza e i materiali sono usciti fuori da Fabriano oggi per la prima volta. E molto merito va a Chiara Medioli, curatrice della mostra e di un piccolo, bellissimo libro che la precede e accompagna, Cotone, conigli e invisibili segni d'acqua (Corraini, e ti pareva?), per avere reso così "immediata" la storia di questa specificità tutta italiana. E già: si parte da un documento d'archivio che, come sempre, serve a fissare la data: un notaio di Matelica, siamo nel 1264, fa richiesta di carta bambagina a un produttore di Fabriano. Dunque, ecco i 750 anni del titolo, ma possiamo azzardare facilmente che ce ne sono almeno qualche decina in più per retrodatare la produzione: non si richiede un prodotto con tanta sicurezza per la sua qualità, se prima non lo si è perfezionato! Fabriano è dunque da otto secoli leader del settore. Ma si arriva ben presto alle invenzioni tecnologiche che consentono alla carta marchigiana di sfondare. L'utilizzo e la triturazione del cotone, una speciale colla animale (tratta dalla pelle conciata dei conigli, quelli del titolo del libro di Chiara Medioli) che rende la carta sicura (prima, con le colle vegetali, si deteriorava, tanto che Federico II riteneva nulli i documenti scritti su carta...) e l'"invenzione", ancora una volta magica, della filigrana, quel segno che viene immesso nell'anima del foglio di carta che lo rende precisamente attribuibile ed esteticamente pregiato. In mostra ci sono le forme di legno e ottone con i vergelli (per la carta vergata), che fanno capire il meccanismo con il quale i disegni vengono incisi nella carta, come c'è la riproduzione, in miniatura, di un'altra innovazione fabrianese, la pila a magli multipli, una poderosa macchina che, grazie alla forza dell'acqua, lavora la materia prima rendendola una pasta da usare per farne carta. Certo, però, non è una mostra solo meccanica. La bellezza della carta resiste di per sé (non lo dimentichiamo!), ma, quando ci si può aggiungere l'emozione di quello c'è scritto sopra, beh allora... Così, solo qualche esempio, in mostra (non sono tutti originali) ecco una lettera di Michelangelo che licenzia un garzone, ecco Garibaldi, o uno spartito su carta filigranata dell'arciduca d'Asburgo firmato Beethoven, o un disegno di Fellini, o un originale di Munari, e – giusto per capire l'internazionalità della bontà della carta fabrianese – lavori di Roy Lichtenstein, Francis Bacon, Georgia O'Keeffe e così via...
Ingegnosità, cura del particolare, spirito di sacrificio e arguzia, sapienza artigianale e grandi investimenti industriali, una tradizione da custodire e tramandare e una spinta costante all'innovazione. La storia della carta di Fabriano è davvero il paradigma di che ciò che ha reso l'Italia vincente nei secoli passati. È un patrimonio che ci interroga ancora oggi (quando il costo della carta aumenta sempre e molte cartiere artigianali stanno purtroppo scomparendo) e che merita di essere conosciuto. Per questo motivo la mostra parigina non è solo una mostra per bibliofili; è una mostra per italiani orgogliosi, capaci di realizzare un prodotto d'eccellenza (e Fabriano ha aperto in concomitanza con l'esposizione un negozio di carta pregiata in rue du Bac) che ci contraddistingue. È la grande bellezza, leggera, di un foglio di carta di cotone appena realizzato che ci ricorda quanto siamo stati capaci di insegnare al resto del mondo.

Fabriano, maestri cartai da 750 anni, Istituto Italiano di Cultura di Parigi, fino al 21 giugno 2014; 73, rue de Grenelle, Paris; tutti i giorni tranne sabato 24 e sabato 31 maggio, domenica e festivi dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 15.00  alle 18.00. Entrata libera

Il Sole Domenica 18.5.14
Prima «volta» della Grecia
Riconosciuti nel Peloponneso edifici eretti con l'antica tecnica dei mattoni affiancati uno all'altro senza usare centine risalenti al primo secolo d.C.
di Cinzia Dal Maso

È proprio una bella scoperta, quella dell'architetto Paolo Vitti tra le antichità del Peloponneso. Anzi bellissima perché non è frutto di faticosa indagine nella terra o tra archivi o magazzini, ma unicamente della sublime arte di guardare. Vitti ha saputo osservare quel che era lì da sempre, agli occhi di tutti, ma nessuno in realtà aveva visto veramente, e cioè che in diversi luoghi del Peloponneso, verso la metà del primo secolo d.C., si costruirono edifici eccezionali, dall'architettura ardita e raffinata come raramente accadeva laggiù. Un'architettura che mescolava stili diversi e produsse una grandiosa invenzione: la volta a mattoni affiancati. Invenzione eccezionale e unica, se si pensa che generalmente nel mondo romano le novità in fatto di tecniche costruttive nascevano a Roma e poi si diffondevano per l'impero. E invenzione dalla lunga fortuna, come vedremo.
Capiamo innanzitutto che cos'è. I romani, si sa, costruirono per primi delle cupole enormi perché seppero usare il cemento: il Pantheon a Roma, e prima di lui le terme di Baia o di Pompei, videro la luce solo grazie all'arditissimo impiego del conglomerato cementizio. Che fare, però, dove i terreni vulcanici scarseggiano, e invece abbonda l'argilla? Beh, si fanno i mattoni, si dirà, e la risposta è corretta. Peccato però che fino a ieri si credesse che i mattoni cotti fossero ignoti all'Italia romana prima dell'epoca di Augusto o persino oltre. Solo perché non si era letto bene il grande Vitruvio che in un suo passo parla addirittura di diversi tipi di mattoni tra i quali uno rettangolare detto lidion, «quello che usiamo noi» dice. Noi chi? Se diamo retta alle voci che vogliono Vitruvio nativo di Verona, e ai recenti studi degli archeologi in loco, vediamo che in realtà nel Nordest di allora si usava abitualmente il lidion, e comunque in zona si conoscevano i mattoni cotti almeno dal III secolo a.C., come testimoniano le antiche mura di Ravenna.
Nel Peloponneso si faceva altrettanto, e inoltre laggiù qualcuno aveva anche appreso l'antica tecnica orientale di costruire le volte affiancando un mattone all'altro così che l'uno poggia sull'altro e non serve usare la centina. Una tecnica raffinatissima, usata in oriente ancora oggi perché fa risparmiare tempo e fatiche sia rispetto alla volta in cemento che a quella a mattoni sovrapposti, entrambe bisognose della centina. Nel Peloponneso compare per la prima volta nella Grande aula di Argo che, all'occhio attento di Vitti, si rivela un piccolo-grande capolavoro: mescola infatti con grande sapienza i laterizi al cemento, conferendo così alla struttura eleganza, rapidità e versatilità nell'esecuzione, ma anche grande solidità. La sua volta "mista", poi, fece scuola diffondendosi in tutta la regione, sia in grandi edifici termali come a Thouria, che in tombe private come a Patrasso, o nelle volte degli acquedotti come a Corinto. La Grande aula di Argo è insomma un'opera degna della mano di un grandissimo architetto. Uno troppo bravo per essere un semplice provinciale, pensa Vitti che in realtà ha una sua idea, non proprio sulla persona ma sull'ambiente che produsse questa grande architettura.
Innanzitutto, è bene ricordare che il Peloponneso fu oggetto di attenzione prima da parte di Cesare, che riportò in auge le sue città con grandi investimenti e creò colonie per i veterani, e poi di Augusto che consolidò la presenza romana su tutto il territorio con la costruzione di nuove strade e fattorie. Ma fiorì particolarmente con Nerone che, come sappiamo, proclamò la libertà dei greci mentre dava avvio al taglio dell'istmo di Corinto (poi non realizzato). Oltre a ciò, dice Vitti, Nerone ha fatto sicuramente molto altro nei lunghi mesi che trascorse laggiù, perché un edificio come quello di Argo può essere stato realizzato solo per volere di un imperatore. Dunque egli portò ad Argo suoi architetti, forse romani e orientali, oppure romani che seppero studiare le abitudini orientali del luogo: sicuramente, geniali.
La nuova volta era però troppo bella per morire nel Peloponneso, e infatti col crescere della parte orientale dell'impero migrò in Asia Minore dove si diffuse sempre più fino a trionfare nelle grandi chiese bizantine del VI secolo: a Efeso, Sardi, Ierapoli, e soprattutto a Sant'Irene e Santa Sofia di Costantinopoli. Il protagonismo delle cupole e delle volte a vela delle chiese bizantine trovò nella tecnica a mattoni affiancati un alleato potentissimo. E l'imperatore Giustiniano fu il suo paladino. Anche in occidente: pare che, grazie a Giustiniano, tali volte abbiano finalmente fatto il loro ingresso a Roma, nell'urbe. Sono di mattoni affiancati, infatti, alcune volte tra le torri della cinta muraria romana che abitualmente si attribuiscono al restauro effettuato da Onorio dopo il sacco di Roma dei Vandali. Ma Onorio non poteva conoscere quella tecnica così particolare: per Vitti è assai probabile che quelle volte siano opera delle armate bizantine ai tempi della guerra greco-gotica. Ed è probabile che qualcosa di quella tecnica sia rimasta nelle nostre terre, se compare a secoli di distanza in alcune chiese romaniche, specie in Lombardia. Le vie percorse per giungere così lontano nel tempo, saranno oggetto di prossimi studi. Intanto però Vitti ha vinto il premio per la ricerca di Europa Nostra: perché la sua è una storia "di provincia" che diventa insolitamente una grande storia. E perché, aggiungiamo noi, è una bella storia "euromediterranea".

Il Sole Domenica 18.5.14
Il centenario del 1914
Fu una guerra totale
L'impiego di armi nuove e più micidiali, le operazioni belliche di terra bruciata, le azioni di pulizia etnica, la potenza della propaganda: un evento apocalittico
di Gerhard Hirschfeld

Secondo una formula ormai inflazionata, la Prima Guerra Mondiale fu la «catastrofe primigenia del XX secolo» (George F. Kennan). La Prima Guerra Mondiale in effetti segnò la fine di quattro imperi: l'impero tedesco, l'impero russo, il multietnico stato austro-ungarico e l'impero ottomano. Senza la Prima Guerra Mondiale non ci sarebbero stati il fascismo italiano, il nazionalsocialismo tedesco e molto probabilmente nemmeno il bolscevismo, almeno non il bolscevismo à la Russe. Già all'epoca si parlò di "Grande Guerra" e questa definizione è in uso tuttora in alcune delle nazioni belligeranti: der Große Krieg, The Great War, La Grande Guerre, De Groote Oorlog.
Ciò che rese la guerra tanto "grande", anzi stravolgente, agli occhi dei contemporanei fu il fatto che si trattò di un conflitto di masse e mezzi industriali, nel quale si pretesero e si offrirono, anche volontariamente, enormi sacrifici individuali. Degli oltre 60 milioni di soldati mandati in campo, in tutto il mondo, fra l'agosto del 1914 e il novembre del 1918, dieci milioni persero la vita: calcolando con parametri odierni sarebbero circa 6.400. Circa 15 milioni di soldati restarono feriti, molti portarono i segni delle loro ferite per il resto della vita, e molti non sopravvissero a lungo. I soldati non caddero solo nelle grandi battaglie del fronte occidentale – nelle Fiandre, a Verdun e sulla Somma – dove pochi chilometri di vantaggio territoriale costarono centinaia di migliaia di vite. Questa guerra travolse anche l'Europa Orientale, i Balcani, le Alpi, il Medio Oriente e arrivò fino in Asia e in Africa. La Prima Guerra Mondiale, dunque, fu davvero un avvenimento globale, nel senso più autentico del termine.
Conseguenza della casualità della morte di così grandi masse fu un'incredibile indifferenza nei confronti della vita umana che a sua volta ebbe riflessi terribili sulle società del dopo-guerra. I sistemi totalitari degli Anni Venti e Trenta, sprezzanti dell'individuo e ispirati da un futurismo folle e da visioni tecnocratiche che non escludevano nemmeno il concetto di strage, sono il risultato diretto di quest'interpretazione elementare della guerra, per cui in un contesto di pianificazione militare vivere e sopravvivere sono fenomeni casuali.
Quest'interpretazione si venne affermando già nel corso della guerra quando i Capi di Stato Maggiore e i Comandanti Supremi nei loro quartier generali «ben lontani dagli spari» pianificavano e ordinavano operazioni in cui si prevedeva freddamente il «sacrificio pieno di abnegazione» di centinaia di migliaia di soldati. «Maximum slaughter at minimum expense» (massima strage al minimo costo) è la cinica espressione con cui il filosofo e pacifista inglese Bertrand Russel ha sintetizzato il calcolo costo-beneficio a cui non si sottrasse nessuna delle parti coinvolte.
Per molti aspetti fondamentali la Prima Guerra Mondiale fu già una "guerra totale", in misura simile alla Seconda Guerra Mondiale. Ciò vale soprattutto per la messa a punto e l'impiego di armi nuove e sempre più micidiali: basti pensare alla guerra totale dei sommergibili tedeschi che nel 1917 spinse gli Usa a entrare nel conflitto, o all'impiego degli Zeppelin e degli aerei attrezzati per la prima volta come bombardieri, o ancora all'utilizzo di gas (anche se la guerra chimica che alla fine tutti adottarono fu importante più per le sue ripercussioni psicologiche che per gli effetti militari).
Totale fu anche la modalità delle operazioni belliche nelle quali si riconoscono varie strategie di "terra bruciata", accompagnate dalla distruzione sistematica di centri abitati e complete regioni. Totali furono le cosiddette azioni di "pulizia etnica" , cioè la deportazione di intere comunità etniche nell'Europa Orientale o nei Balcani, oppure la soppressione di massa della popolazione civile del nemico, ma anche entro i propri confini. Le prime espressioni di questo particolare modo di fare guerra si manifestarono già nel 1914 con l'azione brutale degli eserciti tedeschi contro i presunti franc tireurs (partigiani) in Belgio e nella Francia settentrionale, con l'invasione russa della Prussia Orientale che costrinse centinaia di migliaia di tedeschi a fuggire in Occidente, o con l'avanzata delle truppe austro-ungariche in Serbia, accompagnata da «rappresaglie insensate», come le descrisse in seguito il Comando del l'esercito imperial-regio. In questa triste prospettiva, l'acme fu senza dubbio raggiunto con il massacro degli armeni nel 1915, attuato dal governo dei Giovani Turchi nell'impero ottomano, operazione che secondo alcuni storici prepara i genocidi del XX secolo.
Faceva parte della totalità della guerra anche la propaganda, sia quella prodotta dallo Stato, sia quella figlia dell'opinione pubblica, che già all'epoca aveva una vasta diffusione mediatica. Descrizioni raccapriccianti e pubblicazioni di larga distribuzione presentavano i nemici come "Unni", "Barbari" o addirittura come il "demonio". La propaganda fu in un certo senso la musica di accompagnamento dell'"imbarbarimento" di fatto della guerra. Cosa rappresentò la Prima Guerra Mondiale per le nazioni belligeranti? La questione è strettamente collegata con la memoria collettiva. Con poche eccezioni, il ricordo della guerra, dopo il 1918, fu caratterizzato dal prevalere delle rispettive «prospettive nazionali». Non si riesce a comprendere l'incapacità di una riflessione critica se non si tiene presente che dopo il 1918 la «Grande Guerra» fu sempre più al centro dell'attenzione dei mezzi di comunicazione di massa tanto che alla fine nessuno fu più in grado di distinguere i fatti dalla finzione. In Germania e Austria-Ungheria, che erano state sconfitte, e in Italia, che «si sentiva sconfitta», il ricordo era tanto più controverso in quanto l'esito della guerra e la definizione del nuovo assetto di pace ad opera della conferenza di Parigi risultavano profondamente scoraggianti. Nella Repubblica di Weimar, dove la politica era assillata dalla questione dei debiti di guerra, non fu possibile nè individuare un «luogo della memoria» accettato dalla maggioranza (come avvenne, invece, in Francia e in Gran Bretagna), nè formulare una semantica e un'interpretazione comuni degli eventi. Ovunque si diffuse il «culto dei caduti» (George L. Mosse), ma in funzione di progetti politici opposti e addirittura per diversi eroi nazionali. Nella maggior parte degli stati vincitori della Prima Guerra Mondiale, invece, poterono affermarsi forme di memoria e di ricordo civili e condivise soprattutto perché il contesto politico della nazione non era stato travolto.
La «Grande Guerra», il numero enorme di vittime, i sacrifici, le vite distrutte e private di ogni futuro non potevano però restare senza una spiegazione: era necessario dare un senso a tutto ciò tanto che negli Anni Venti in Germania fu coniata l'espressione Sinngebung, dare significato. E poiché gli sconfitti (di fatto o solo di sentimento) non riuscirono a trovare questo significato, la guerra rimase una sorta di marchio a fuoco nelle rispettive società. La particolare esperienza della guerra mondiale si prolungò negli anni successivi al 1918 come una guerra nel dopo-guerra, o una «guerra nelle teste» della gente. Da questa situazione scaturì un senso d'odio diffuso che nelle sue lungimiranti riflessioni su «Le origini del Totalitarismo» (1955) la filosofa Hannah Arendt descrive giustamente come determinante: «… L'Odio … si insinuò in profondità in tutti i minimi spazi della vita quotidiana e riuscì a diffondersi in tutte le direzioni, assumendo le forme più fantastiche e imprevedibili. Nulla poteva sottrarsi all'Odio; non c'era cosa al mondo di cui si potesse pensare con sicurezza che non sarebbe stata colpita all'improvviso dall'Odio …».

Il Sole Domenica  18.5.14
Il valore femminile
Fatica e coraggio: le donne al fronte
L'intenso lavoro delle crocerossine, i rischi corsi dalle portatrici carniche, le idee delle intellettuali militanti: storie che non si dimenticano
di Eliana Di Caro

«Spazzine, tranviere, campanare, cantoniere, addirittura pompiere. E poi barbiere, boscaiole, tassiste, ma anche direttrici d'orchestre e professoresse»: è l'iconografia del lavoro femminile durante la Prima Guerra mondiale, rievocata da Claudia Galimberti nel volume Donne nella Grande Guerra (il Mulino). «Da questo momento inizia, sia pure lentamente, la decadenza della società patriarcale italiana», scrive ancora Galimberti.
Fidanzate, mogli e madri rimangono improvvisamente sole, abbandonate dagli uomini chiamati al fronte, e imparano ad affrontare una nuova condizione che accelera l'inizio del processo di emancipazione: chi già lavorava lo farà a maggior ragione, chi non aveva un'occupazione la cercherà, costretta dai fatti. Il volume si compone di diversi ritratti che danno conto della varietà dei contributi femminili in un'Italia in cui le donne non sono spettatrici del conflitto ma compiono un lavoro spesso oscuro e faticoso. È il caso delle crocerossine raccontate da Elena Doni, in missione negli ospedali da campo, nei treni-ospedale, al fronte sulle doline del Carso o nei boschi di Asiago. Alla fine del 1918 sono un esercito di circa 10mila volontarie che prestano le prime cure ai feriti, si occupano del recupero degli invalidi, e offrono un conforto morale importante spesso al pari di quello medico. Ma in guerra altrettanto preziosa è l'attività delle portatrici carniche: gruppi di donne che a turno, sfidando la morte, riforniscono i soldati in prima linea di cibo, munizioni, medicine e ogni genere di aiuto "portando", appunto, il tutto in grosse e pesantissime ceste su per impervi sentieri di montagna. Ore di cammino, evitando le strade principali e affondando nella neve per aggirare il pericolo del fuoco nemico. Francesca Sancin tratteggia la figura di Maria Plozner Mentil, di Timau (paese della Carnia al confine con l'Austria), che cadrà a 32 anni sotto i colpi di un cecchino austriaco in un momento di riposo nel percorso di ritorno.
Nel libro non manca un capitolo dedicato ai bordelli di guerra: miseria nera d'un lato, abbrutimento in trincea dall'altro. Sono tante le Wande, scrive Maria Serena Palieri, che finiscono per prostituirsi nei casini bellici nati sotto la direttiva del generale Cadorna, e nelle case di tolleranza (destinate solo alle maggiorenni: negli altri si entrava dai 16 anni), con il consueto tariffario e il sogno di qualche tenerezza vera.
All'estremo opposto ci sono le intellettuali militanti, donne consapevoli e forti del loro sapere, curiosamente "interventiste" come sottolinea nella prefazione Dacia Maraini, rilevandone in qualche modo anche una umana fragilità: «proprio loro, che per gli studi che hanno fatto dovrebbero avere familiarità con le idee, si fanno incantare da uomini politici senza scrupoli». Come Angelica Balabanoff, raccontata da Paola Cioni: bella la storia dell'aristocratica ucraina che si ribella al destino di moglie preconfezionato dalla mamma per andar via, studiare e conquistare la libertà. Salvo poi arrivare in Italia e innamorarsi del socialista Benito Mussolini, che si rivelerà quel che effettivamente è, un opportunista avido di potere. Altrettanto appassionante e densa è la vita di Eva Kuhn tratteggiata da Mirella Serri, che ripercorre l'amore della russa con Giovanni Amendola e parallelamente la sua attività intellettuale complessa e sfaccettata: l'impegno politico con l'adesione convinta al Futurismo e dunque alla «guerra come igiene del mondo», quello sociale con l'assistenza ai soldati sordomuti e ai ciechi nel centro di villa Aldobrandini, a Frascati, ma anche un'apertura che non le impediva di accogliere nel 1919 l'invito a cena di un operaio alla periferia rossa di Milano. Un posto dove «c'erano i libri di Stirner, Proudhon, Sorel, Dostoevskij e Gor'kij» e dove discute con altri operai che poi avrebbe invitato a casa sua.
Non si riesce qui ad accennare, come si vorrebbe, alle altre protagoniste prese in esame dalle autrici del libro (Cristiana di San Marzano, Lia Levi, Simona Tagliaventi e Marta Boneschi). Certo vale la pena, nel profluvio di pubblicazioni sulla Prima Guerra mondiale, trovare uno spazio sul proprio comodino per queste storie spesso ingiustamente dimenticate.
eliana.dicaro@ilsole24ore.com

Autrici varie, Donne nella Grande Guerra, Introduzione di Dacia Maraini, il Mulino, Bologna, pagg. 244, € 22,00