lunedì 19 maggio 2014

Repubblica 19.5.14
Un illecito sulla pelle dei rifugiati
Non distribuiti milioni di euro
Interattivo Il dossier tenuto segreto dal Viminale
di Raffaella Cosentino e Alessandro Mezzaroma

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Nel 2004 eravamo quartultimi, adesso siamo diventati ULTIMI !
Il Sole 19.5.14
Laureati, l'Italia è ultima
Nel 2013 superati in classifica anche da Romania e Macedonia


Il consuntivo dice «ultimi in Europa», e gli obiettivi ufficiali comunicati dall'Italia a Bruxelles nell'ambito della «strategia Europa 2020» lo confermano: ultimi siamo e ultimi resteremo, almeno fino al 2020.
Tanta coerenza riguarda il tasso di laureati nella popolazione fra 30 e 34 anni di età. L'indicatore è piuttosto trascurato nel dibattito pubblico di casa nostra ma è centrale nei documenti europei, perché ancor più dei titoli di studio nella popolazione complessiva misura il «capitale umano» più importante per il presente e il futuro di un Paese.
I numeri sono tutti scritti in documenti ufficiali - li ha spulciati per primo Roars.it, blog animato da un'associazione di docenti presieduta da Francesco Sylos Labini (si veda anche Il Sole 24 Ore del 16 aprile) - e sono parecchio efficaci nel raccontare una delle cause della crisi italiana. Il fenomeno non è nuovo, perché già nel 2009 superavamo in graduatoria solo Slovacchia, Repubblica Ceca, Romania e Macedonia, ma negli ultimi anni si è aggravato: mentre l'Italia procedeva con i ritmi "tranquilli" del passato, portando al 22,8% la quota di laureati nella popolazione fra 30 e 34 anni, gli altri Paesi correvano di più: la Repubblica Ceca, con un balzo del 9,2% in quattro anni, si è portata al 26,7%, ma anche la Romania (dove il Pil pro capite è meno di un quarto del nostro) e la Macedonia, caratterizzata da una ricchezza per abitante pari al 58% di quella rumena, hanno fatto meglio. La media europea, che conta 36,8 laureati ogni 100 giovani 30-34enni, è lontana, così come i dati registrati nei Paesi che più di Macedonia e Romania dovrebbero rappresentare i "concorrenti" diretti dell'Italia: la Germania si attesta al 33,1%, la Francia è al 44% e il Regno Unito vola al 47,6 per cento.
Fin qui il presente. Ma a evidenziare la scarsa ambizione della politica italiana sulla questione strategica della conoscenza sono soprattutto gli obiettivi ufficiali che negli anni scorsi abbiamo comunicato alla Commissione europea nell'ambito del progetto 2020. Il target continentale chiede di arrivare nei prossimi sei anni almeno al 40% di laureati, dato in effetti non lontanissimo dal 36,8% raggiunto nel 2013, ma noi ci accontentiamo di molto meno. Se rispetterà il proprio programma, l'Italia arriverà infatti al 27%, una percentuale che la abbona all'ultimo posto nel continente almeno fino al 2020: quando in Francia, stando agli obiettivi ufficiali, sarà laureato un giovane su due, e in Irlanda si arriverà al 60 per cento.
La modestia degli obiettivi italiani, del resto, è coerente con le performance di un sistema universitario che non accelera (i laureati 2012, ultimo dato disponibile nelle banche dati Miur, sono stati 295.699, lo 0,2% in più di quelli del 2008), e anzi pare tempestato dai segni «meno» in molti indicatori. Il fondo di finanziamento ordinario, cioè il cuore della spesa statale per l'università, ha perso dal 2008 a oggi 706 milioni, cioè il 9,73% del totale, mentre le stime parlano di un dimezzamento degli professori ordinari e di un taglio del 27% degli associati da qui al 2018. Con questi numeri, il consiglio universitario nazionale (Cun) ha lanciato l'allarme sul «collasso strutturale» delle università, mentre la Conferenza dei rettori si è appena lamentata per la pioggia di adempimenti burocratici «in arrivo da più parti». La carta, insomma, pare l'unica cosa che oggi abbonda nell'università italiana.

Corriere 19.5.14
Matteo Renzi e la delusione dei fatti
Non si può crescere di sole Promesse
di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi


È bastato un piccolo numero negativo sull’andamento del Prodotto interno lordo nel primo trimestre dell’anno (meno 0,1%) per riportare indietro di due mesi le lancette dello spread. Dimostrazione di quanto sia ancora fragile la nostra economia.
I problemi in realtà vengono da lontano. Gli spread, le differenze di rendimento fra i titoli di Stato della periferia europea e quelli tedeschi sono scesi, negli ultimi cinque mesi, in buona parte per effetto dello spostamento dei flussi finanziari internazionali dai Paesi emergenti verso l’Europa. Abbiamo cioè tratto beneficio dalle preoccupazioni sulla stabilità macroeconomica, in particolare di Cina, Brasile e Turchia. Ma l’esperienza insegna che gli investimenti verso quei Paesi sono spesso volatili, fatti di «stop and go », con flussi massicci, seguiti da uscite improvvise. La fuga degli investitori dai Paesi emergenti, che è stata impetuosa all’inizio dell’anno, si è ora arrestata. Anzi, vi sono segni di un ritorno di fiducia, almeno verso alcuni Paesi, come il Brasile. Non solo, ma si mormora che la fiducia concessa ai Paesi europei ad alto debito fosse eccessiva. Il ministro dell’Economia Padoan ha quindi ragione quando si dice preoccupato che la finestra di spread contenuti si possa chiudere. I segnali non mancano. Giovedì scorso eravamo a quota 178, trenta punti in più della settimana prima.
Per evitare una nuova caduta nella fiducia dei mercati è quindi essenziale che dal giorno dopo le elezioni europee il governo acceleri sulle riforme promesse per cercare di aiutare l’Italia a uscire da una recessione che sembra non finire mai e che in sette anni ci ha fatto perdere il 10 per cento del reddito e un milione e centomila posti di lavoro.
Finora il rapporto fra promesse e realizzazioni non è stato soddisfacente. L’Italia ha molte imprese assai produttive che esportano con successo, altre che sopravvivono boccheggiando. Abbiamo bisogno di un mercato del lavoro flessibile che permetta di riallocare la mano d’opera da un tipo di impresa all’altro. Ciò significa sostituire la cassa integrazione, che oggi lega il lavoratore all’impresa mantenendo in vita anche quelle inefficienti, con un sussidio universale che protegga i lavoratori, non i posti di lavoro, e consenta al mercato di aggiustarsi. La riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali, arrivata in Senato a inizio aprile, apre alla possibilità di un contratto unico con tutele crescenti — e questa è una svolta importante —, ma non elimina la cassa integrazione e non spiega come verrà finanziato il sussidio universale per i disoccupati, un intervento che Tito Boeri e Pietro Garibaldi su www.lavoce.info stimano costerebbe oggi fra i 10 e 15 miliardi netti l’anno. Inoltre, la liberalizzazione dei contratti a tempo determinato, varata la scorsa settimana, aiuterà nel breve periodo, ma potrebbe rendere più difficile il passaggio al contratto unico.
Vi è ancora troppa incertezza su che cosa il governo intenda fare dal lato della spesa per permettere una riduzione significativa del cuneo fiscale. Il commissario alla spending review Carlo Cottarelli sta lavorando bene: è disposto il governo ad ascoltarlo? E, soprattutto, sono disposti il governo e la sua burocrazia non solo ad approvare una lista di tagli, ma poi a farli davvero, senza compensare con la mano destra quello che taglia la sinistra?
Se l’obiettivo è ridurre le imposte sul lavoro di 20-25 miliardi nei prossimi 5 anni, certo non basta tagliare qualche auto blu e le Province (la cui abolizione è benvenuta, ma nell’immediato produrrà scarsi risparmi). Non vi è nemmeno chiarezza su che cosa il governo intenda chiedere all’Europa. Più flessibilità sul deficit per permettere una riduzione aggressiva delle imposte sul lavoro? E con quali assicurazioni su tagli di spesa graduali, ma incisivi? Senza questi ultimi l’Europa ci dirà giustamente di no. Matteo Renzi ha parlato con grande entusiasmo di riforme della Pubblica amministrazione per far risparmiare tempo e denaro a cittadini e imprese. Parole sante, ma i fatti si fanno attendere. Quali provvedimenti per ridurre i costi di «fare impresa»?
E a proposito di imprese e concorrenza, anche in questo caso qualche atto simbolico, ma finora scarsi risultati. Intendiamoci, anche i simboli sono importanti. Renzi è stato coerente nel suo impegno ad abbandonare la concertazione in modo che la politica economica non sia più condizionata da sindacati e Confindustria. Pur essendo il segretario del Pd, non ha partecipato al congresso della Cgil. Poi, però, venerdì scorso il Consiglio dei ministri ha varato una privatizzazione delle Poste che pare essere fatta a pennello per i sindacati, e infatti riscuote l’applauso di Raffaele Bonanni, segretario della Cisl, l’organizzazione più importante fra i lavoratori delle Poste. Una privatizzazione che sembra un regalo ai dipendenti dell’azienda, a scapito della concorrenza nel settore bancario e assicurativo. Quindi a scapito dei cittadini.
Matteo Renzi sta perdendo di vista gli obiettivi più importanti. Nelle prime settimane, decine di slides e raffiche di promesse servivano per dare al governo il necessario slancio iniziale. Ma ora quella strategia rischia di dare l’impressione che il governo non sappia identificare le priorità. Occorre concentrarsi, scegliendo pochi provvedimenti chiave e portandoli in porto con una determinazione che invece si sta affievolendo.

La Stampa 18.5.14
Tra coop rosse e fiduciarie
La seconda vita nell’ombra del “Compagno G.”
Affari in vari settori e società intestate alle figlie
di Gianluca Paolucci


«Un vulcano di idee», racconta un imprenditore che ci ha avuto a che fare. Non tutte portate a buon fine, va detto. Ma con un gran lavorìo di contatti a tutti i livelli. Sempre restando lontano dai riflettori, protetto da intrecci di quote societarie e schermi di fiduciarie. Il gruppo Seinco, a lui riferibile, era prima intestato a una fiduciaria e poi passato alle figlie Barbara e Luna, che si dividono il 50% ciascuna del capitale. Gli uffici sono nel cuore di Torino e alla Seinco fanno capo una serie di partecipazioni. Come quella nella Seinco En.Ri. alla quale Greganti fa avere un «contratto di partnership» con la Cmc di Ravenna, colosso del mondo cooperativo. Altra coop che intreccia gli affari di Greganti e gli appalti nelle carte dell’inchiesta milanese è la Viridia di Settimo Torinese. I finanzieri scrivono che Viridia «assume rilevanza con riferimento a buona parte delle vicende attenzionate» dai pm Claudio Gittardi e Antonio D’Alessio.
 A Seinco o alle sue controllate fanno capo una serie di quote societarie ma anche i telefoni o le auto utilizzate da Greganti. La En.Ri. ad esempio aveva, fino allo scorso anno, il 24% della Agenergia. Tra i soci della stessa società c’era Pierpaolo Maza, ex membro del Toroc ed ex presidente della Fondazione postolimpica. Tramite la Agenergia - e Greganti - il comune di Torino trova gli sponsor per il sistema di lampioni intelligenti di Piazza San Carlo. Tra gli sponsor c’è la Olicar, che si occupa di servizi per l’energia. Che, guarda caso, compare anche lei nell’inchiesta milanese, nel filone Città della salute. In una mail che, scrive la Finanza, sarebbe stata inviata a Greganti l’11 aprile del 2013 da Lorenzo Beretta di Olicar veniva indicato come oggetto «Città della Salute e della Ricerca-Sesto San Giovanni», ed era allegato «un file» chiamato «Sesto San Giovanni Accordo Preliminare», che in precedenza sarebbe stato girato, secondo la Gdf, dall’imprenditore vicentino Enrico Maltauro, ora in carcere, allo stesso Beretta. Il file conteneva «la bozza di una scrittura privata tra i seguenti soggetti: Impresa Costruzioni Giuseppe Maltauro spa; Cons. Naz. Coop di Produzione e Lavoro Ciro Menotti Scpa (che interveniva per la consociata Viridia, ndr); Cefla S.C; Prisma Impianti spa; Gemmo Spa; Manutencoop; Servizi Ospedalieri spa; Olicar; Vivenda spa; Sotraf». Era una bozza con l’indicazione della «costituzione di un raggruppamento temporaneo di imprese» per partecipare alla gara.
Quello dell’energia e delle rinnovabili è un settore che interessa molto al «Compagno G.» nella sua seconda vita di facilitatore d’affari. A cavallo del decennio la Società energetica Vinovo, della quale la Seinco di Greganti è socia, cerca di costruire una centrale elettrica a biomasse alle porte di Torino. Il progetto resta solo sulla carta ma tra i fornitori del combustibile, materiale legnoso, doveva esserci la segheria Mozzone, ex socia - fino al 2013 - dei Greganti anche in un’altra attività: la bioedilizia. Con la Mozzone Building System realizzano case in legno.
La storia più interessante è però forse quella della Finomnia. Viene costituita nel febbraio del 2012 e i soci sono al solito schermati da due fiduciarie, la Simon e la Nomen dello studio Grande Stevens. Il 25% è in realtà della Seinco dei Greganti. Tra gli altri soci, una società del gruppo Marachella. Si tratta di una gruppo che si definisce «multiservizi», che ha sede a Torino e nei cui uffici Greganti è stato visto spesso negli ultimi due anni. Nel periodo di suo massimo splendore, tra il 2012 e il 2013, è attiva praticamente dappertutto. Gestisce ristoranti a Torino, alberghi in provincia di Cuneo, impianti di risalita, servizi di catering, un golf club, cura la ristrutturazione di una residenza di caccia dei Savoia, spazi espositivi, tre call center (a Torino, Livorno e Palermo) che lavorano per grandi clienti.
E ancora energie rinnovabili, una lavanderia industriale e di nuovo la bioarchitettura con la Mwb. Mette in piedi anche un allevamento di asini. Di chi sia la Marachella non si sa: il 90% è in mano a una fiduciaria. Tramite la Finomnia, Greganti e la Marachella mettono in piedi la Mr. Facile, sede a Jesi e guidata da Simone Greganti, nipote di Primo. Doveva realizzare kit fotovoltaici «fai da te», ma anche questa attività stenta a decollare. «Ho conosciuto Greganti perché abbiamo lo stesso commercialista», dice Marco Maniezzi, ad del gruppo. Quello dei pannelli è l’unico affare in comune? «Abbiamo parlato di tante cose», dice Maniezzi, «ma nessuna si è concretizzata». Così anche la Finomnia viene venduta. Il 20 gennaio di quest’anno la proprietà passa tutta alla galassia Marachella. Che due settimane dopo, l’11 febbraio, presenta la richiesta di concordato preventivo: il sistema «multiservizi» prevede troppi servizi e non sta più in piedi. Ma Greganti sta già pensando ad altro: il 29 febbraio Greganti è con Paris e un responsabile di Viridia per discutere della realizzazione dei padiglioni Expo. Il 14 febbraio Greganti invia una mail a Dario Foschini, ad di Cmc, contenente il testo di un contratto che riconosceva «sostanzialmente da parte di Cmc un concorso in spese di ufficio per sei mesi e, soprattutto, una provvigione sulle attività e progetti frutto del presente accordo che (...) non potrà essere inferiore all’1% del valore delle operazioni portate a buon fine».

Corriere 19.5.14
Ai partiti 80 milioni: quasi 18 dal leader FI


MILANO — La cifra abbaglia: 80 milioni di euro. A tanto ammontano i finanziamenti che i partiti politici hanno ricevuto grazie alle donazioni dei privati cittadini nel 2013. Eppure, andando ad approfondire, la realtà è un po’ diversa: la gran parte dei fondi — come si apprende dalle dichiarazioni congiunte depositate alla Tesoreria della Camera — arriva dai candidati delle elezioni politiche dello scorso anno. E in realtà, i contributi di cittadini slegati dalla politica sono stati inferiori a quelli del passato. Va anche detto che le cifre a seguire non sono replicabili: dallo scorso febbraio, lo stop al finanziamento ai partiti voluto dal premier Letta, prevede che le donazioni dei privati abbiano un tetto di 100 mila euro. In testa alla lista dei finanziatori, Silvio Berlusconi. Che con due versamenti ha coperto un quarto del totale: 17,8 milioni complessivi. Tra l’altro, il grosso della cifra (15 milioni) è andato a Forza Italia il 30 aprile 2012, circa sei mesi prima della (ri)nascita ufficiale del partito. Nell’elenco si trovano poi i nomi di Enrico Letta e Angelino Alfano (33 mila euro a testa), Pier Luigi Bersani (21.400), Roberto Maroni (14.280), Mario Monti (9 mila). Ma questi sono soltanto i leader. Tra i grandi beneficiari si trova proprio Scelta civica, che ha ricevuto 711.500 euro da Ilaria Borletti Buitoni, 114 mila da Alberto Bombassei, 151.500 da Lorenzo Dellai, 121.500 da Angela D’Onghia, 216 mila da Andrea Mazziotti Di Celso; senza contare i 100 mila euro dell’ex commissario alla spending review Enrico Bondi. Il Pdl ha raccolto in tutto oltre 22milioni ma da aziende e privati cittadini sono arrivati solo 388.400 euro (60 mila dalla Todini costruzioni). Il Pd quasi 15 milioni ma solo 90mila euro dalle aziende.

Alle ultime Europee del 2009 la partecipazione ha raggiunto il minimo storico del 43 per cento degli aventi diritto
Il Sole 19.5.14
Ue, il futuro si gioca in quattro giorni
Tra giovedì e domenica 382 milioni di europei alle urne: sui risultati l'incognita degli euroscettici


«Mi piacerebbe che la tendenza a una partecipazione in calo si rovesciasse. Soltanto vent'anni fa in molti Paesi che sono oggi nell'Unione europea non si poteva nemmeno votare liberamente». Era il 7 giugno 2009 e il presidente della Commissione Ue Josè Manuel Barroso lanciava un ultimo appello a non disertare le urne. L'Europa era chiamata a scegliere il nuovo Parlamento nell'annus horribilis della crisi, che aveva affossato la crescita, con un Pil in caduta libera del 4,5% e appesantito i conti pubblici con un deficit medio intorno al 7 per cento. Il voto ha ridisegnato la mappa politica del Vecchio Continente, premiando i partiti di destra ed estrema destra, gli anti-europei e i Verdi, mentre ha punito i governi socialisti allora in carica. Cinque anni dopo, dal 22 al 25 maggio, 382 milioni di cittadini dei 28 Paesi - la Croazia nel frattempo è entrata nel club - potranno recarsi alle urne per scegliere i 751 rappresentanti dell'unica istituzione europea eletta a suffragio universale. Un'Aula che con il Trattato di Lisbona ha allargato il ventaglio dei suoi poteri: può porre veti sul bilancio dell'Unione e sugli accordi internazionali e modificare o bocciare il 62% della legislazione.
L'Europa di oggi si presenta però con le ossa rotte e l'amarezza si è trasformata in disincanto, con un'economia che tenta la difficile risalita e quest'anno - secondo le stime di Bruxelles - dovrebbe viaggiare a un ritmo dell'1,6%, ma dove la recessione ha lasciato ferite profonde: una disoccupazione media oltre il 10% e un fardello del debito pubblico sempre più pesante. «Rispetto a cinque anni fa – sottolinea Charles de Marcilly, responsabile dell'ufficio di Bruxelles della Fondazione Schuman – il voto di questa settimana sarà una triplice sfida politica: per la prima volta il partito che vincerà le elezioni, forte del Trattato di Lisbona, cercherà di convincere i leader, e soprattutto Angela Merkel, a designare come presidente della Commissione Ue il suo candidato capolista. I nuovi eletti dovranno poi ridisegnare l'Europa del futuro, per tentare il rilancio dopo la crisi, con un forte accento sulla dimensione sociale. La terza sfida riguarda la gestione dell'avanzata dei partiti populisti».
I quattro giorni che potrebbero cambiare volto all'Unione cominceranno in Gran Bretagna e Olanda giovedì. Venerdì toccherà all'Irlanda, sabato alla Lettonia, mentre in Repubblica Ceca le urne resteranno aperte il 23 e il 24 maggio. In tutti gli altri Paesi si voterà domenica 25. L'Italia sarà l'ultima a chiudere alle 23 e da quel momento potranno essere comunicati i risultati ufficiali. Le prime proiezioni "informali", basate sugli exit poll degli altri Paesi, saranno diffuse a partire dalle 22, a urne ancora aperte in Italia.
Il calendario è diverso, così come le regole di voto e il numero di rappresentanti da inviare a Strasburgo e a Bruxelles, la doppia sede dell'Europarlamento. La più rappresentata sarà la Germania, con 96 eurodeputati, seguita dalla Francia (74) e a pari merito da Italia e Gran Bretagna (73), fino a Estonia, Cipro, Malta e Lusseburgo con sei rappresentanti, in proporzione alla quota di abitanti. Le liste sono aperte in 18 paesi, con la possibilità di scegliere uno, due candidati o tre candidati. In 8 sono chiuse e gli elettori possono indicare solo i partiti, mentre a Malta e in Irlanda vige il sistema del «voto singolo trasferibile»: è possibile assegnare più di una preferenza numerando i candidati sulla scheda.
Chi vincerà le elezioni? Il Ppe guidato da Jean-Claude Juncker, il Pse di Martin Schulz, i liberali di Guy Verhofstadt, la sinistra di Alexis Tsipras o i Verdi con il ticket tra Ska Keller e José Bové? Rispetto al 2009 l'incubo dell'astensionismo è ancora attuale, anzi, la partecipazione alle urne ha registrato un calo costante dai tempi delle prime elezioni del 1979, quando si sono espressi sei cittadini su dieci, mentre nel 2009 ha raggiunto il minimo storico del 43 per cento. Non solo. «Lo spettro dell'euroscetticismo – spiega de Marcilly – si aggira oggi come allora, non perché le urla dei partiti populisti sono più forti, ma perché le loro idee hanno una maggiore risonanza». In alcuni casi la loro avanzata potrebbe essere favorita dall'assenza di soglie di sbarramento, come in Germania, dove la Corte costituzionale ha giudicato il tetto del 3% «in contrasto con il principio generale di uguaglianza». In tutto sono 13 i Paesi che non prevedono questa barriera. In altri 9 la soglia è del 5%, in tre, tra cui l'Italia (si veda l'articolo sotto) è al 4%, in Grecia e Portogallo al 3% e a Cipro all'1,8 per cento.
La grande incognita riguarderà proprio la performance dei partiti che dicono "no" alla Ue. In totale, secondo la Fondazione Schuman, potrebbero arrivare a 180-200 seggi rispetto ai 32 attuali del gruppo politico euroscettico "Europa della libertà e della democrazia". Formare un'unica compagine non è però così facile: qui entra in gioco un'altra barriera, perché servono venticinque eurodeputati di almeno sette Paesi. La vera partita comincerà dunque solo lunedì prossimo.

Repubblica 19,5.14
L’Europa ringrazi gli antieuropei
di Ilvo Diamanti

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Repubblica 19.5.14
L’incognita astensione che deciderà il risultato


ROMA . I toni alti disgustano invece di infiammare. Lo spettro dell’astensione si aggira sulle elezioni del 25 maggio con alcuni picchi che i sondaggisti hanno rilevato. Un esempio per tutti? All’indomani delle violenze ultrà nella finale di Coppa Italia a Roma, Euromedia Research diretto da Alessandra Ghisleri registrò un crollo di votanti rispetto alla percentuale delle europee del 2009, in cui l’affluenza alle urne fu del 66%. Delusione, assenza dello Stato, sconforto: e ci si allontana dalle urne.
Ancora più allarmanti sono le previsioni di altri analisti e politologi. Per i quali sono però i fatti dell’Expò a determinare la differenza. Mazzette, tangenti, collusioni politiche costituiscono il colpo finale sulla voglia di andare a votare. Nando Pagnoncelli della Ipsos qualche giorno fa aveva fatto notare che alla gente comune, a chi ha un figlio in cerca di lavoro, a chi è alle prese con le difficoltà quotidiane non piace questa escalation di insulti. I toni estremi appunto allontanano molti elettori mentre cooptano i simpatizzanti e i militanti 5Stelle. La disaffezione si prevede sarà forte.
L’astensionismo è una incognita. Non si sa chi avvantaggi alla fine, se Grillo o Renzi. I sondaggisti su questo non si sbilanciano, le opinioni divergono: per alcuni più astensione è favorevole al Pd, che può contare su uno zoccolo duro di militanti e elettori; per altri sarebbero invece i grillini a volare se i votanti calano. Nicola Piepoli racconta della sacralità del voto e di quando nel 1946 accompagnò la madre al seggio a Novara. L’astensionismo è una brutta bestia da allontanare - afferma Piepoli - però l’Italia non avrà la maglia nera tra i paesi Ue in fatto di non-voto. Ad aiutare la partecipazione ci sono le elezioni amministrative. Se infatti in 4 mila comuni si vota per le europee, in altrettanti - ragionano all’Istituto Piepoli si vota anche per altro. Il traino amministrative o regionali - in Piemonte e in Abruzzo si vota per il rinnovo del consiglio regionale - dovrebbe far lievitare la partecipazione. Comunque tra ottimisti e pessimisti la linea di confine passa attorno al 60%: sotto è allarmante, sopra è accettabile. Se votasse solo un elettore su due, la politica dovrebbe fare una seria autocritica. È vero che le europee sono da sempre le elezioni meno partecipate, e il trend del voto degli ultimi anni è stato in costante calo, tuttavia per i partiti è un test politico non di poco conto. Ghisleri nota che i fatti dell’Expo, gli stipendi altissimi dei manager, gli altri scandali sono benzina in favore dell’astensione. L’ultima settimana, ribadisce, è quella decisiva. Non è ottimista sulla previsione di affluenza. Né lo è Roberto Weber di Ixè: «Bisogna caricare sulle medie delle ultime europee, la flessione delle più recenti tornate elettorali».

l’Unità 19.5.14
Casaleggio: «Se vinciamo via Napolitano e al voto»
Il guru Cinquestelle intervistato in tv da Lucia Annunziata
«Arriveremo primi Renzi uscirà dallo scenario politico»
Neanche una parola sull’Europa, ma dice: «Presenteremo la nostra squadra di governo»


Il tono è monocorde, lo sguardo basso, l’impressione complessiva assai distante da quella di un leader. Ma Gianroberto Casaleggio, ospite ieri di Lucia Annunziata a «In Mezz’ora», parla da capo del M5S. E annuncia sfracelli, se il suo partito dovesse arrivare primo il 25 maggio. Sfracelli che prevedono la defenestrazione del presidente Giorgio Napolitano (lui non dice in base a quali presupposti) e nuove elezioni politiche con un proporzionale «che recepisce le indicazioni della Consulta». Non solo. Per Casaleggio se il M5s arriverà primo «Renzi uscirà dallo scenario politico». Una sottovalutazione dell’ex sindaco? «È già abbastanza debole da solo», replica il guru a 5 stelle, convinto che «non ci sono dubbi sulla nostra vittoria, la campagna si chiama “vinciamo noi”...». Quanto all’assurdità delle sue richieste, il guru spiega che «questo Parlamento non è legittimato e lo sarebbe ancor meno nel caso in cui le europee le vincessimo noi». E dunque, per raggiungere l’obiettivo dello scioglimento delle camere, spiega di confidare «nella ragionevolezza delle istituzioni».
Di Europa, Casaleggio non dice una parola. Per loro il 25 maggio è solo una tappa verso la conquista del potere in Italia, lo sguardo è tutto rivolto alla prossima campagna elettorale per le politiche. «Presenteremo una squadra di governo, con tutti i nomi dei ministri. Saranno selezionati in rete dai nostri 130mila iscritti. I cittadini non voteranno M5S, ma una squadra di governo. Nel movimento ci sono molte persone che possono ricoprire incarichi di governo. Saranno scelti in base ai tre criteri che avevo annunciato l’anno scorso in piazza San Giovanni: onestà, competenza e trasparenza». Il guru parla di un «gruppo» di «alcune decine » di parlamentari già pronto a «sostenere il M5S, io e Grillo non siamo eterni, e prima potranno fare a meno di noi meglio sarà». I nomi non li fa, ma non sono un certo un mistero: si tratta della pattuglia di eletti che da settimane viene ricevuta a Milano nei suoi uffici per mettere a punto le strategie: si parte con i due leaderini Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, più visibili mediaticamente, e poi l’esperto di riforme Danilo Toninelli, Riccardo Nuti, Nicola Morra, Roberto Fico, Vito Crimi, Paola Taverna, Roberta Lombardi.
È questa l’ossatura della eventuale squadra di governo grillina, al netto di qualche bel nome della società civile che potrebbe prestarsi all’operazione, dopo che la gran parte dei quirinabili del 2013 ha preso le distanze dal movimento, a partire da Stefano Rodotà. Come si muoverebbero i grillini, una volta arrivati al potere? Il guru non ripete la sequela di minacce ai giornalisti che Grillo quotidianamente lancia dalle piazze, a proposito di chiusure di quotidiani e di ritorsioni sulla Rai nei «primi cento giorni». E neppure cita Hitler, Stalin e altri dittatori. «Proporremo un piano di rilancio delle piccole e medie imprese per far sì che siano competitive in Europa», puntando «soprattutto sull'innovazione», spiega. Senza naturalmente dettagliare in alcun modo le proprie ricette economiche.
Intanto, questa settimana, prima del voto europeo, sarà resa pubblica la proposta di legge elettorale che negli ultimi mesi è stata a lungo dibattuta sul blog di Grillo con l’aiuto del professor Aldo Giannuli. Si tratta di un proporzionale con sbarramento al 5%, un voto di preferenza (ma solo in una lista diversa da quella votata), collegi di dimensione intermedia (15 seggi) e un conseguente meccanismo per la ripartizione dei seggi che privilegia i partiti più grandi. C’è anche una novità: la preferenza negativa. I cittadini avranno due schede: una per i partiti e una con cui possono cancellare alcuni nomi di “impresentabili” dalla lista votata (uno o due), e i partiti che subiscono questa cancellazione vengono decurtati da una porzione di voto. Niente coalizioni e niente premi di maggioranza. I grillini spacciano questa soluzione sulle preferenze come «un vincolo di mandato», in realtà si tratta semplicemente delle vecchie preferenze della prima repubblica con l’aggiunta del meccanismo della preferenza negativa. «Con questa soluzione otteniamo la sparizione dei mafiosi e dei delinquenti dalle liste», assicura Toninelli. In realtà è un caos. Il cittadino potrà cancellare due nomi dalla lista votata ma potrà indicare una preferenza solo in un partito che non ha votato. «Ma così i mafiosi non entreranno in Parlamento», insiste Toninelli. «È un progetto rivoluzionario».
Casaleggio, dal canto suo, non ha voluto dire per quali partiti abbia votato in passato: «Ho sempre votato ai referendum e chi sosteneva tesi antinucleari e ambientaliste». E ha ricordato che il M5S è nato il 4 ottobre per «avere la protezione di San Francesco, una figura cristiana che ho sempre apprezzato ».
Per lui quella di ieri è stata la prima intervista televisiva. Stasera alle 23 toccherà anche a Grillo: la sua prima volta negli studi di Porta a Porta. Proprio nel salotto simbolo della Casta, da lui sempre indicato come culla del peggior giornalismo. Ormai sono lontanissimi i tempi delle espulsioni dei malcapitati grillini che andavano ospiti nei talk show. Ma Grillo sa che stavolta la posta in gioco è enorme: in caso di sconfitta il M5S rischia di entrare in una spirale di auto-dissoluzione. E, nonostante la demagogia sulla rete, Grillo sa che il pubblico più anziano si raggiunge solo con la vecchia tv.

Repubblica 19.5.14
Così i fondi stranieri hanno conquistato il capitalismo italiano
Hanno in portafoglio il 38 per cento di Piazza Affari E sono ormai al capolinea patti storici e salotti buoni
di Ettore Livini



MILANO. UN MANIPOLO di vedove scozzesi, preti presbiteriani e combattivi maestri dell’Illinois sta ridisegnando in questa primavera 2014 la mappa del potere economico di Piazza Affari.
LA BORSA tricolore è stata per quarant’anni una riserva di caccia con due soli protagonisti: i salotti buoni - un groviglio di patti di sindacato e partecipazioni incrociate tra banche e famiglie incaricato di gestire gli affari dei soliti noti - e le aziende di Stato. Oggi il vento è cambiato. Gli ex-poteri forti, fiaccati dallo sfarinamento delle dinastie industriali, dai prestiti in sofferenza e dalla crisi, sono a corto di quattrini. E in virtù dell’aurea legge (“Articolo quinto, chi ha i soldi ha vinto”) coniata da Enrico Cuccia, il deus ex machina di questo mondo, il listino milanese ha trovato il suo nuovo padrone: i grandi fondi esteri. Un universo magmatico a molti volti - tra cui quello delle mitiche Scottish Widows, i fondi delle parrocchie presbiteriane e i gestori dei risparmi dei professori dell’Illinois - che in un mese, con un uno-due violento quanto inatteso, ha spazzato via i cocci del capitalismo di relazione tricolore e ha messo ko all’assemblea dell’Eni e di Finmeccanica il Tesoro italiano.
La Waterloo dei salotti buoni ha una data e un luogo preciso: l’assemblea di Telecom Italia a Rozzano, 16 aprile 2014. Il copione, lo stesso degli ultimi sette anni, era in teoria già scritto:
Telco - la holding partecipata da Generali, Mediobanca e Intesa San Paolo, uno degli ultimi residuati dei salotti buoni - avrebbe voluto nominare con il 22,8% del capitale un nuovo cda a sua immagine e somiglianza. Facendo ratificare al mercato le decisioni prese nelle segrete stanze del miglio quadrato attorno a Piazzetta Cuccia. Non è andata così. Alla conta dei voti, è arrivata la sorpresa: i grandi investitori internazionali hanno battuto i vecchi padroni di Piazza Affari, nominando tre loro rappresentanti in consiglio.
Un eccezione? No, la nuova regola. La presenza dei fondi nelle assemblee delle società italiane è raddoppiata in due anni dall’11,6% al 21,6% del capitale rappresentato, dice uno studio della Fondazione Bruno Visentini. Oggi con 200 miliardi di investimenti hanno in portafoglio il 38% di Piazza Affari. Sono loro il primo azionista delle Generali (all’ultima assemblea avevano il 15,2%), di Unicredit e Intesa Sanpaolo con quote attorno al 30% e di molte altre blue chip. E dopo anni vissuti da minoranza silenziosa hanno iniziato a far sentire la loro voce nella foresta pietrificata della finanza tricolore. Ne ha dovuto prendere atto, obtorto collo, anche il governo Renzi. Palazzo Chigi e il Tesoro hanno passato giornate a limare i nuovi requisiti di onorabilità da proporre alle assemblee di Eni, Finmeccanica ed Enel. Convinti di farli approvare senza problemi. Anche loro hanno fatto i conti senza l’oste. Quando il rappresentante di via XX settembre ha messo ai voti il piano all’assemblea Eni, i grandi fondi esteri - allergici alle intrusioni dello Stato - si sono messi di traverso e la norma non è passata. Confermando così che l’Italia ha perso il controllo della maggiore (e più strategica) impresa nazionale. Lo stesso è accaduto in Finmeccanica.
L’identikit dei nuovi padroni di Piazza Affari è un’immagine insieme semplice e complessa. Semplice perché sono i gestori di quella valanga di liquidità ammucchiata negli ultimi anni (o pompata dalle banche centrali) che muove gli equilibri geopolitici del mondo, spostando masse enormi di denaro dalle star-up di Internet ai laboratori biotech, dai derivati ai titoli di stato, dai dollari all’euro, magari affondando - salvo poi reinnamorarsene in questi mesi - i paesi in odore di crisi. Complessa perché in questo mare magnum ci sono mille realtà finanziarie diverse: fondi a lungo termine, attivisti, hedge che muovono quattrini ai ritmi frenetici dei millesimi di secondo dettati dai programmi computerizzati del listini. Speculatori? Tutt’altro, dicono loro. «Il 50% dei nostri sottoscrittori sono famiglie, tra cui migliaia di italiani, magari con solo 10mila euro da investire. Non mi pare che questi siano i fantomatici raider di cui si parla», è il mantra di Andrea Viganò, country head del fondo Blackrock, il colosso Usa che gestisce 4.300 miliardi di patrimonio (il doppio del Pil tricolore, 10 volte il valore dell’intero listino tricolore) e che negli ultimi mesi si è messo in tasca il 6% di Intesa e Unicredit, il 5% di Bpm, il 3,7% di Mps oltre a quote importanti in Generali, Fiat, Atlantia e Mediaset.
Il loro sbarco in Italia coincide, non a casa, con l’implosione del sistema dei salotti buoni. Mediobanca, fiutato il vento, ha da tempo iniziato a smontare il suo reticolo di partecipazioni per concentrarsi sul core business della banca d’affari, In pochi mesi si sono sciolti come neve al sole patti di sindacato storici e inossidabili come quelli di Pirelli, Rcs e Benetton. Oggi a questo piccolo mondo antico - che non a caso ha messo in vendita 4 miliardi delle sue quote incrociate - è venuto a mancare il collante che lo teneva unito: i soldi (spesso degli altri). «Le vecchie famiglie non li hanno. Le banche di riferimento nemmeno. Il meccanismo del do ut des, delle operazioni gestite chiamando a raccolta un gruppo ristretto di amici si è inceppato. Le aziende per crescere o per non morire sono costrette a cercarli dove ci sono: dal mercato e dai fondi», spiega Dario Trevisan, il legale milanese che da anni rappresenta i nuovi poteri forti di Piazza Affari alle assemblee delle aziende quotate. Trevisan non è un Agnelli né un Berlusconi. Eppure si è presentato all’assemblea di Generali con il 15% dei voti, in quella di Telecom con il 27% e all’Eni con il 30%, più dello Stato. «E’ un bene? Sì - sostiene lui - . I fondi non sposano interessi e non hanno miopi visioni locali».
Il rischio, dicono i critici, è che i grandi fondi seguano logiche finanziare di breve respiro. «Mi sento di dire che non è così - assicura Valerio Battista, ad di quella Prysmian che uscendo da Pirelli è diventata la prima grande public-company italiana gestita dai grandi investitori istituzionali - : la maggioranza di quelli che stanno sbarcando ora sul mercato italiano è gente seria che investe sul lungo termine. Gente che non ha paura di mettere soldi su un buon progetto. Il loro problema è la remunerazione del capitale, non la diluizione delle quote». «In America il boom pluridecennale dell’hi-tech e delle biotecnologie è stato sostenuto proprio dai loro soldi. Il mercato su questo fronte è molto più efficiente di banche e famiglie», dice Umberto Mosetti, uno dei massimi esperti italiani di corporate governance che con il fondo Amber ha combattuto con successe alcune battaglie tra cui quelle contro la gestione Besnier in Parmalat. Qualcuno, dopo il voto all’Eni, vede a rischio l’italianità del Belpaese Spa. «Rischio che non esiste - dice il “mercatista” Mosetti - visto che il totem della difesa dell’identità delle nostre aziende è stato utilizzato finora per arricchire singole persone e non nell’interesse della nazione».
Nessuno, per ora, pare aver intenzione di alzare barricate. Anche perché lo Tsunami dei fondi internazionali è stato uno dei fattori chiave per riportare lo spread italiano sotto quota 200. L’importante, dice l’esperienza del passato, è non sottovalutarne l’umoralità. Come arrivano, spesso vanno.. Alla stessa velocità. E se vogliono colpire duro, anche Vedove scozzesi, preti presbiteriani & Co. sono in grado di far male a chiunque: hanno fatto saltare i vertici di Hewlett Packard, costretto un colosso come Apple a rivedere la sua politica di dividendi, tagliato lo stipendio a un nume tutelare della pubblicità come Martin Sorrell. Il 30% di loro ha votato contro le super-buste paga dei manager italiani nell’ultima tornata di assemblee. Chi ha orecchi per intendere, intenda. La loro battaglia, nello stivale, è solo all’inizio.

La Stampa 19.5.14
Abolire la povertà, un dovere per l’Europa di domani
Il grande economista inglese Anthony Atkinson rilancia il progetto di un reddito-base per tutti
di Anthony Barnes Atkinson


Quarantacinque anni fa pubblicai un libro, Poverty in Britain and the Reform of Social Security, in cui avanzavo proposte che puntavano a realizzare nel Regno Unito l’aspirazione del Piano Beveridge del 1942.
Ossia, di «mettere l’uomo al riparo dal bisogno assicurando sempre a ogni cittadino che voglia servire secondo le proprie energie un reddito sufficiente per far fronte alle sue responsabilità». A parte i toni un tantino maschi, questa affermazione della nostra aspirazione a garantire un reddito minimo nazionale appare importante ai nostri giorni come lo era allora.
Oggi, il problema della povertà è urgente allo stesso modo. Nel 1969, il tasso di povertà nel Regno Unito era, secondo gli standard attuali dell’Unione Europea (la quota di persone che vivono con un reddito inferiore al 60% del reddito disponibile mediano equivalente), del 14%. Nel 2011, è stata registrata al 16%. Eppure, la risposta della politica sembra camminare all’indietro. Nel marzo del 2014, il parlamento britannico ha approvato a larga maggioranza un tetto ai sussidi della previdenza sociale. Il cosiddetto Welfare cap stabilisce un limite, suscettibile di adeguamenti solo in rapporto all’inflazione, alla spesa complessiva di tutte le prestazioni previdenziali (a parte le pensioni statali di base e certi sussidi di disoccupazione) per gli anni dal 2015-16 al 2018-2019. Questo è un provvedimento che va ad aggiungersi alla precedente legge, approvata nel 2012 dal governo di coalizione britannico, per limitare l’ammontare dei sussidi che possono essere percepiti settimanalmente da una singola famiglia. Il tetto alla spesa per il Welfare viene così messo in due modi.
La cosa sconcertante, per me, è che i tetti ai costi globali del Welfare sono stati approvati in Inghilterra avendo scarsa o nessuna considerazione delle conseguenze per gli obiettivi propri che la spesa previdenziale vuole raggiungere. Vuol dire questo che il Regno Unito ha voltato le spalle all’obiettivo di Beveridge di garantire un reddito minimo nazionale? Vuol dire che a una persona che non è in grado di lavorare – ad esempio per un incidente – dovremo dire che non ci sono più soldi nel bilancio del ministero del Lavoro e delle Pensioni? Che i sussidi per l’infanzia dovranno essere tagliati per le ristrettezze di bilancio imposte da altri programmi? [...]
Delle nuove forme di previdenza sociale, la più discussa è forse l’idea di un «reddito di cittadinanza» o «reddito di base», che prevede un sussidio universale da pagarsi individualmente a tutti i cittadini, variabile da uno dei paesi membri all’altro a seconda delle loro specifiche circostanze. L’entità della somma potrebbe essere legata ad alcuni parametri determinati da caratteristiche personali, come l’età, ma non sarebbe legata al fatto di essere o no occupati.
Il reddito di cittadinanza è una vecchia idea, che però non è stata adottata come parte della protezione sociale europea. A livello nazionale, è stato in genere molto discusso in tempi di ricostruzione, come dopo la Seconda guerra mondiale, e in questo senso potrebbe essere naturale per l’Ue riprenderla come elemento di un più grande «balzo in avanti» del dopo recessione. Essa tuttavia solleva la questione del fondamento della idoneità. Il reddito di base viene spesso presentato come «incondizionato», ma deve comunque esserci una condizione qualificante. Questa viene di solito individuata nella cittadinanza, ma la cittadinanza non è la stessa cosa che la base per la tassazione e evidentemente non è la base giusta nel contesto della Ue. Il criterio della cittadinanza significherebbe che un lavoratore svedese in Francia riceverebbe il reddito di base svedese, non il reddito di base francese, il che non sarebbe coerente con la libertà di movimento della manodopera.
La razionalità di un reddito di base che varia da paese a paese dovrebbe essere nel fatto che il reddito di base vari in relazione al costo della partecipazione a una società particolare. Un approccio alternativo perciò è di rendere il reddito di base condizionato, ma non alla cittadinanza, bensì alla partecipazione nella società. [...]
Proponendo un simile «reddito di partecipazione», piuttosto che un universale reddito di base, sono ben consapevole che esso presta il fianco a due obiezioni: che il suo essere condizionato rischia di escludere persone vulnerabili, e che comporta un notevole impegno amministrativo. Ma il reddito universale è una chimera. Tutti i progetti attuali prevedono una condizione di idoneità e quindi il rischio di esclusione. La cittadinanza sarebbe di tutta evidenza un criterio altamente discriminatorio, e probabilmente contrario alle leggi europee. Le regole esistenti per stabilire l’idoneità a ricevere sussidi si sono rivelate politicamente tossiche, e parecchie difficoltà nascono quando si tratta di applicare le regole a persone che vivono in un paese ma che non vi hanno domicilio per motivi fiscali. Tutti questi elementi evidenziano la necessità di un accordo esplicito sulla nozione di partecipazione a una particolare società. Una volta stabilito un accordo del genere, l’applicazione delle regole richiederebbe naturalmente un apparato amministrativo. Per esempio, la qualificazione di attività non di mercato richiede una certificazione. Ma il sistema esistente di assicurazione sociale richiede un analogo apparato se dev’essere adeguato al XXI secolo, per cui il tema dovrà essere comunque affrontato.
Lanciare un’iniziativa europea per un reddito di partecipazione sarebbe una mossa politica ardita. Proporre un’iniziativa del genere può apparire come una sfida ai decenni di incapacità dell’Ue di fare progressi nell’armonizzazione della previdenza sociale. Ma ci sono due ragioni di ottimismo. La prima è che essa offre una soluzione a problemi con cui i governi nazionali stanno oggi combattendo – esattamente come le prime istituzioni europee offrirono una soluzione a problemi nazionali di ristrutturazione economica. La seconda è che il reddito di partecipazione è – salvo un’eccezione – una forma nuova di previdenza sociale. Non ci sarebbe il problema di imporre un modello nazionale a tutti gli Stati membri. Non sarebbe un’assicurazione sociale alla Bismarck o alla Beveridge. Sarebbe una strada del XXI secolo verso un’Europa sociale.
C’è un’eccezione all’affermazione che un reddito di base non è ancora entrato nella protezione sociale europea: l’erogazione di un sussidio universale alle famiglie per tutti i figli, magari variabile per età, può essere vista come una forma specifica di reddito di base. Erogazioni del genere sono comuni nei paesi Ue. Se la Ue vuole incamminarsi lungo la strada del reddito universale, il punto di partenza naturale è di cominciare con un reddito di base europeo per i bambini. Una decina d’anni fa, il Gruppo ad Alto Livello sul futuro della politica sociale in un’Unione Europea allargata fece una proposta simile, come elemento di un possibile «patto intergenerazionale». In termini concreti, ciò può significare un reddito di base in tutta la Ue per bambini, fissato, diciamo, al 10% del reddito mediano pro capite in ciascuno degli Stati membri per ogni bambino. Sarebbe amministrato e finanziato, con clausole di sussidiarietà, da ciascuno degli Stati membri. Un programma del genere – rifinito nei dettagli – permetterebbe all’Europa di investire sul suo futuro.
Quarantacinque anni fa, proponevo riforme al sistema di previdenza sociale britannico che miravano a realizzare l’obiettivo di Beveridge di abolire la povertà. All’epoca credevo che il suo Piano di assicurazione sociale, portato pienamente a compimento, fosse il percorso giusto da seguire. Non è accaduto, e oggi, purtroppo, il problema della povertà rimane – in Inghilterra e in tutta l’Unione Europea. Quali risposte possiamo dare alla ricerca di riformare il Welfare State europeo oggi?
- La prima priorità è di ri-affermare l’aspirazione a offrire previdenza sociale per tutti;
- Partire da un tetto alla spesa per il Welfare è il modo più sbagliato; abbiamo invece bisogno di partire da obiettivi sociali;
- Il Welfare State deve adattarsi ai radicali cambiamenti del mercato del lavoro e della società;
- Ciò significa ripensare tutto a fondo, e da parte mia propongo un «reddito di partecipazione» e un reddito di base in tutta l’Unione Europea per i bambini.
Sto di nuovo sognando?
[Traduzione di Michele Sampaolo]
© Eutopia

Repubblica 19.5.14
La ricetta di Stiglitz agli italiani incerti
di Mario Pirani


POCHI giorni fa il premio Nobel americano Joseph Stiglitz - noto per le sue posizioni anti austerità - ha svolto, nell’Aula Magna dell’Università Luiss di Roma, una Lezione - dedicata ad uno dei più importanti Presidenti di Confindustria del dopoguerra, Angelo Costa - dal titolo: “L’euro può essere ancora salvato?”.
La sua risposta ha quanto mai colpito un pubblico, quello italiano, non abituato a un linguaggio così tagliente quando si tratta di parlare dell’economia europea. Per anticipare la risposta, se è vero che i Paesi non lasceranno l’euro, vi è un altro pericolo all’orizzonte: quello di una “sindrome giapponese” in cui si fa il minimo necessario per preservare la valuta comune, ma ci si condanna a sopportare costi enormi, danneggiando le capacità di lungo periodo dell’economia europea di crescere e generare occupazione.
La sindrome giapponese, è il caso di notare, fu fatta di deflazione e crescita pressoché nulla per quasi un ventennio: due fenomeni che si rafforzano a vicenda tenendo conto che la riduzione dei prezzi è figlia della crisi da domanda e che quest’ultima peggiora con la deflazione, che fa posticipare i consumi, aumentando il costo reale del debito per i debitori già in difficoltà e il costo del lavoro per le imprese che non riescono più a trattenere il personale. Che la Banca Centrale Europea stia annunciando nuove misure di espansione monetaria con i tassi praticamente a zero e che i dati sulla crescita italiana in questo primo trimestre siano peggiori del previsto non fanno che rafforzare i timori che la sindrome sia drammaticamente reale. Proprio quando, ecco l’ironia, il Giappone stesso pare pronto ad uscirne grazie allo stimolo alla domanda proveniente dal piano di consistenti investimenti pubblici annunciati dal premier Abe prima del rialzo della tassazione indiretta sui consumi per finanziarli.
La soluzione proposta da Stiglitz? Visto che l’austerità non ha essenzialmente mai funzionato, c’è bisogno di un piano europeo in cui il Nord (la Germania) espanda più del Sud (l’Italia) la sua economia, così che ambedue sollevino il Continente senza al contempo che si allarghino le differenze nelle nostre rispettive bilance commerciali, accumulando con ciò insostenibili debiti esteri nel Sud dell’Europa.
È il primo passo verso una unione fiscale che sappiamo bene essere lenta e graduale e dunque impossibile da ottenere nel breve periodo, come ci insegna anche la storia degli Stati Uniti, in cui la vera Unione si è celebrata solo dopo più di un secolo e mezzo con l’arrivo del New Deal di Roosevelt. Quando Jean Monnet, padre fondatore dell’Europa, affermava che «i paesi della Comunità Europea sono in procinto di stabilire tra loro relazioni d’uguaglianza e solidarietà, sarebbe a dire delle relazioni simili a quelle che già esistono in seno ai nostri propri paesi» dava il segno più di una direzione da intraprendere che di una soluzione a portata di mano. Il primo gesto di solidarietà che si richiede dunque alla Germania non è poi così drammatico: aiutare se stessa permettendo ai propri lavoratori di spendere di più (abbassando le tasse ed aumentando i salari ai lavoratori tedeschi) fa bene all’export italiano e ci aiuta a guadagnare tempo riprendendo fiato per fare le riforme che servono al Paese.
La prima riforma che ci spetta di fare è quella della lotta alla corruzione, come dimostra la vicenda Expo, ben più dura come sforzo di quella che coinvolge la vendita delle auto blu. Da essa proverranno le risorse per fare anche noi senza debito quegli investimenti pubblici che rimettono in piedi il Paese.
Stiglitz giustamente ricorda come la crisi di cui viviamo le conseguenze non è un disastro naturale ma una situazione che ci siamo masochisticamente imposti. Solo nel tempo ne sentiremo gli effetti se non arrestiamo l’emorragia: scoraggiamento giovanile, distruzione di piccole imprese e anche disillusione verso i meccanismi democratici di rappresentanza.
Ecco, le elezioni. Come ha notato Gustavo Piga, professore di Economia a Tor Vergata e organizzatore dell’evento, l’appuntamento europeo di questo fine settimana, di fatto, diventa un’ultima ciambella per inviare al Parlamento europeo chi potrà con tenacia difendere gli interessi italiani all’interno del progetto europeo: nell’euro, in un’altra Europa.

Corriere 19.5.14
La crisi preoccupa
Il 22% teme per la propria condizione
Ma per un italiano su 4 il peggio è alle spalle
di Nando Pagnoncelli


L a notizia della contrazione del Pil nel primo trimestre 2014 rappresenta una doccia fredda per il sistema Italia. Le attese, non solo del governo che pure prudenzialmente aveva già ridotto le stime di crescita, ma anche della gran parte degli osservatori, erano invece di una lieve crescita. D’altra parte lo scorso trimestre, per la prima volta, si era registrata un’inversione di tendenza rispetto al precedente ciclo recessivo. Questo stop and go , piccole schiarite e immediato ritorno al maltempo, sembra caratterizzare anche gli atteggiamenti degli italiani di fronte a questa crisi che si prolunga ormai da molto tempo.
La preoccupazione è elevata: coinvolge complessivamente l’84% dei cittadini, con quasi due terzi molto preoccupati per l’impatto che la crisi può avere (o, spesso, ha già avuto) sulle condizioni economiche delle famiglie. Si tratta di una preoccupazione trasversale, anche se più sentita nel Sud del Paese, dove le condizioni economiche sono più difficili. Ed è una preoccupazione stabile, che ci accompagna in questa misura dal secondo semestre 2011, cioè a partire dall’estate terribile che ha segnato l’inizio della crisi del governo Berlusconi con l’intervento pesante sul nostro Paese da parte della Bce.
Le previsioni per il prossimo futuro sono stabili: il 24% pensa che la propria situazione economica di qui a sei mesi migliorerà, il 22% si aspetta che peggiorerà, la maggioranza assoluta prevede condizioni invariate. Più consistente l’attesa di miglioramento nel Nord Est e nel Centro Nord (le cosiddette regioni rosse), mentre nel Sud prevale il pessimismo. Quindi un clima grigio, che però è decisamente migliore di quello che registravamo negli ultimi anni, anche se già nel 2013 erano emersi segnali di miglioramento.
Comunque la situazione economica del Paese si mantiene pesante: solo il 16% valuta positivamente lo stato della nostra economia, mentre l’80% ne dà un giudizio negativo (e di questi un terzo pesantemente negativo). È un’opinione stabile e largamente trasversale. Dalla fine del 2011 le valutazioni sono infatti al loro minimo storico e non si sono ancora risollevate. E sono sostanzialmente simili in tutto il Paese: dal minimo dell’8% al Centro Sud sino al massimo del 19% del Nord Ovest.
Ma in questo clima poco confortante, in cui al massimo possiamo aspirare alla stabilità (una stabilità di redditi che però per le famiglie si sono già contratti nel corso della crisi), uno spiraglio sembra intravedersi. Piccolo, come breve è stato il segnale di ripresa (o meglio di non contrazione) dell’economia nazionale, ma pure da cogliere. Questo spiraglio è segnalato sia dall’Istat che dai nostri sondaggi. L’Istat misura mensilmente la fiducia dei consumatori. Si tratta di un indice composto dai risultati di più domande relative a giudizi e attese sulla situazione economica del Paese, della famiglia, sulla disoccupazione, ecc. Questo indicatore segnala una netta crescita negli ultimi due mesi, marzo e aprile, con un dato che ritorna per la prima volta ai livelli del 2010. E in particolare con una crescita della fiducia nel Sud del Paese, cioè nei territori più in difficoltà.
La stessa tendenza viene registrata da una domanda del nostro sondaggio che mira a definire il momento percepito della crisi. Oggi il 38% pensa che il peggio debba ancora arrivare, il 33% ritiene che siamo ora all’apice della crisi, un quarto invece valuta che il peggio sia già passato. A prima vista ancora un dato poco confortante. Ma se guardiamo al trend recente le cose cambiano. Negli ultimi mesi, esattamente come Istat per il proprio indicatore, registriamo un evidentissimo cambio di clima. Fino alla fine del 2013, sia pure con un calo, la maggioranza assoluta degli italiani valutava che il peggio della crisi dovesse ancora arrivare. Questa percentuale si attenua a marzo (48%) ma oggi crolla, scendendo di ben 10 punti. E specularmente cresce l’ottimismo di chi pensa che oramai il peggio sia già passato, con un incremento di 10 punti. Questo sentimento è decisamente diversificato nel Paese. Per aree geografiche: molto più ottimista il Nord Est (che spesso anticipa orientamenti del Paese), decisamente pessimista il profondo Sud. Per caratteristiche professionali, dove emerge una evidente frattura: decisamente più ottimisti gli imprenditori e i manager, fortemente pessimisti i lavoratori autonomi. Di nuovo un’Italia a due (e forse più) velocità. Ma se la contrazione del Pil di questo trimestre non è foriera di un peggioramento strutturale, questo ottimismo va colto e valorizzato. Perché il Paese ha un disperato bisogno di un’iniezione di fiducia.

Corriere 19.5.14
«Uscire dalla moneta unica, una catastrofe per l’Italia»
Il liberale Verhofstadt: la Ue non sia un poliziotto
intervista di Luigi Offeddu


BRUXELLES — Presa buona nota di quei manifesti, «Basta Euro», e di certi deputati italiani che in televisione si soffiano il naso con la bandiera dell’Unione Europea, Guy Verhofstadt spalanca le braccia: «Grexit, come si usava dire? Italexit? Ma in tanti qui parlano di uno scenario, l’uscita dell’Italia dall’euro, come un tempo si diceva della Grecia, senza neppure rendersi conto della catastrofe che ciò significherebbe. E senza dirlo mai chiaro: il calo del potere d’acquisto dei cittadini e dei pensionati, una svalutazione ogni tre anni, il debito pubblico che sale ancora…Tutti ne parlano come di un buffetto, una cosa da nulla, senza un minimo di dibattito vero, o di analisi scientifica: ma non sarebbe così, sarebbe invece una cosa molto grave».
Verhofstadt, candidato alla presidenza della Commissione europea per l’Alleanza dei liberali e democratici, nonché ex primo ministro che condusse il suo Belgio nel pianeta dell’euro, ha almeno 3 obiettivi dichiarati in queste elezioni: «Convincere appunto i cittadini di quale sciagura sarebbe per chiunque lasciare la moneta comune. Prendere più voti del blocco populista o euroscettico. E lanciare la nostra proposta di rilancio europeo attraverso il meccanismo dei “future bond”».
Cominciamo da questi ultimi.
«Detto in due parole: dei capitali privati, raccolti dalla Banca centrale europea, dalla Banca europea degli Investimenti e dalla Commissione europea, attraverso un apposito veicolo finanziario a livello della Ue, possono confluire su grandi investimenti europei, per esempio nel campo dei trasporti, delle telecomunicazioni, dell’energia. E portare un’alta liquidità attinta dal mercato dei capitali».
Ma che cosa guadagnerebbero i privati da un’idea simile? Non accetteranno certo per beneficenza...
«Si ripagheranno con i ricavi di quegli stessi investimenti, a buoni interessi».
Questi «future bond» non assomigliano però ai project bond di cui si parlava negli anni scorsi, a proposito per esempio delle linee Tav?
«No, quelli erano come i mostri di Loch Ness dell’economia europea. E quanti investimenti veri hanno portato, alla fine?»
Veniamo all’altro obiettivo della sua campagna: prendere più voti degli euroscettici e populisti. Naturalmente, non sarà soltanto un fatto d’orgoglio.
«Certo che no. È una vera sfida per noi. Con un risultato sicuro, consolidato, nel Parlamento europeo avremo un vero centro per le riforme e per l’Europa. Diversamente, se i populisti prevarranno, probabilmente non sarà possibile garantire alcuna maggioranza stabile».
Perché no? Dopotutto, a Bruxelles e Strasburgo, il centrodestra del Partito popolare europeo e il centrosinistra dei Socialisti e democratici convivono già da tempo, senza l’emetto in testa.
«Sì. Ma non dimentichi che nei banchi di quello stesso Ppe siederanno anche seguaci di Forza Italia. E anche se non sarà in aula sarà sempre lui, Berlusconi, a ispirarli».
Così, siamo arrivati all’argomento Italia. Se lei fosse già il presidente della Commissione, quali priorità riterrebbe consigliabili per il nostro Paese?
«Prima di tutto, la lotta alla corruzione. Poi, come seconda emergenza, la gestione del problema immigrazione, divenuto ormai uno scandalo quotidiano. Ognuno, qui, deve fare la sua parte. Non abbiamo in Europa una strategia reale per evitare il traffico di esseri umani, né abbiamo una strategia reale di buon vicinato con Paesi come la Libia, o la Tunisia».
Eppure l’Ue ha, o dovrebbe avere una sua politica estera.
«Se è per questo, lavoriamo ancora sulle carte di Solana (Javier Solana, fino al 2009 «ministro degli Esteri» Ue, ndr). Mentre dovremmo aggiornare e usare tutti gli strumenti a disposizione della Ue: l’aiuto umanitario ai migranti, il controllo militare delle frontiere, il commercio, l’aiuto allo sviluppo economico dei singoli Paesi».
Torniamo all’Italia. Ha visto gli ultimi dati sul Pil?
«E come no, si parla di una crescita acquisita del Pil, per il 2014, ferma a –0,2%. Alcuni si attendono che duri così per anni, e parlano di stagnazione economica».
Di chi è la colpa?
«Della mancanza di riforme, e della responsabilità dell’Europa che non ha aiutato a fare quelle stesse riforme».
E oggi?
«E oggi il governo si concentra sul bonus da 80 euro, difende la singola tasca, mentre il debito pubblico supera il 132% del Pil. Un punto percentuale di debito equivale a 20 miliardi… Forse sarebbe venuto il momento di dire agli italiani la verità. E di fare veramente le riforme».
«Siamo quasi fuori dalla crisi», affermano vari leader europei. È d’accordo?
«Per nulla. Mi sembra irresponsabile dire così. Anche l’altro giorno, i dati Eurostat hanno confermato che la crisi non è finita. Ma Van Rompuy, Barroso, Juncker e altri continuano ad asserire il contrario».
Altri dicono invece che l’Europa non si salverà se continuerà ad applicare rigidamente i dogmi di Angela Merkel.
«Non tocca a me rispondere. Parlando in generale, posso solo dire che, secondo me, l’Europa non deve essere un poliziotto».
E allora?
«Un promotore di iniziative e progetti, senza mai perdere di vista l’orizzonte generale».
A proposito di orizzonte generale: esiste un tetto del 3% imposto dall’Ue al rapporto fra deficit e Prodotto interno lordo in ogni Paese, ma la Francia gode già di un’ampia deroga fino al 4,8%. Che ne pensa un possibile futuro presidente della Commissione?
«Penso che non accettiamo, non dobbiamo accettare queste deroghe».
L’Ue è tornata a una «debole ripresa», come dicono a Bruxelles, ma gli Stati Uniti sono ben più avanti. C’è una spiegazione per questa differenza?
«C’è il ruolo della Federal Reserve, naturalmente, diverso da quello della Bce. E c’è il mercato americano molto più integrato del nostro. Come si vede bene nel campo delle telecomunicazioni, dove si parla di 28 regolatori per 28 Paesi: ma si può?»

l’Unità 19.5.14
Se non si ridistribuisce il lavoro la disoccupazione ci divorerà
Pubblichiamo ampi stralci di un articolo dell’ex segretario generale della Cisl sulla crisi e sulle proposte per creare occupazione che sarà pubblicato sul prossimo numero di «Mondoperaio»
di Pierre Carniti


MALGRADO IL TEMA DEL LAVORO sia oggetto di sempre più debordanti inchini retorici, la disoccupazione resta un problema dei disoccupati. Né potrebbe essere diversamente, considerato che negli ultimi anni le politiche pubbliche si sono concentrate sulla cosiddetta «riforma del mercato del lavoro», che ha moltiplicato forme e normative dei rapporti di lavoro lasciando ovviamente immutata la dimensione della disoccupazione. Così, più diventava chiaro che il problema con cui eravamo (e siamo) alle prese è la mancanza di domanda di lavoro, più ci si è accaniti con interventi sul versante dell’offerta.
Quel che è certo - venga aggiunta o meno qualche nuova immaginifica norma al già ricco armamentario dei contratti di lavoro - è che non ci saranno effetti sulla disoccupazione. Per affrontare concretamente il problema il primo aspetto di cui si deve tenere conto è la disoccupazione provocata da «insufficienza da domanda effettiva»: ossia da domanda assistita da una adeguata distribuzione dei redditi. L’assunto è semplice. Essendo necessaria manodopera per produrre le merci, se queste non trovano domanda adeguata sul mercato l’occupazione è inevitabilmente destinata a calare. È appunto quanto è avvenuto nel corso della crisi con cui siamo ancora alle prese. Il rimedio a simile disoccupazione (detta «keynesiana», perché descritta magistralmente da Keynes) consiste nel rilancio della domanda tramite aumento dei consumi delle famiglie e dello Stato. Purtroppo il potere d’acquisto dei salari, e dunque delle famiglie, perde colpi perché la contrattazione langue (quando addirittura non regredisce). Mentre, per quanto riguarda la domanda pubblica, più stringenti sono i vincoli di bilancio (e questo è appunto il caso dell’Italia), più probabile è che le misure di rilancio si rivelino insufficienti. O che comunque, proprio a causa dei vincoli di bilancio, tra misure tendenzialmente espansive ed interventi restrittivi della spesa pubblica il saldo algebrico sia alla fine negativo.
Il secondo tipo di disoccupazione, di cui poco si parla ma le cui conseguenze sono sempre più evidenti ed estese, è quella tecnologica. Il punto da avere ben chiaro in proposito è che non esiste più (ammesso che sia mai esistita in passato) una correlazione pratica e stabile tra produzione di merci ed occupazione. In ogni caso, mentre è ancora vero che se la produzione cala anche l’occupazione scende, non è più vero il contrario. In sostanza non ha alcun fondamento la convinzione, per altro ancora assai diffusa, che se la produzione riprende pure l’occupazione aumenta. Tant’è vero che sempre più spesso, pur in presenza di un aumento degli investimenti o di modesti aumenti del Pil, i disoccupati crescono invece di diminuire. La spiegazione per questo andamento asimmetrico è semplice: i posti di lavoro che si guadagnano dove si «producono» le macchine e si innova la tecnologia non compensano quelli che si perdono dove si «introducono» le macchine e le innovazioni tecnologiche. Si tratta appunto della «disoccupazione tecnologica». Fenomeno non nuovo (già individuato da Ricardo nel XIX secolo) di sostituzione del lavoro con macchine. Ma che ora, con la diffusione dell’informatica, dell’automazione e della robotica, ha assunto un’ampiezza ed una velocità eccezionali. Sia pure su scala e con una intensità diversa, si tratta di un evento già largamente sperimentato nella prima e nella seconda rivoluzione industriale, a cui (allora) si è risposto con una riorganizzazione degli orari ed una ripartizione del lavoro (...). In effetti i cospicui incrementi di produttività ottenuti nella prima fase della rivoluzione industriale nel XIX secolo (caratterizzata dal passaggio dall’energia idraulica al vapore e poi all’elettricità) sono stati seguiti da una riduzione dell’orario di lavoro prima da 80 a 72 e poi fino a 60 ore settimanali. Allo stesso modo nel XX secolo, quando le economie industrializzate hanno sperimentato una nuova organizzazione produttiva (con il fordismo e le linee di montaggio), il forte aumento della produttività ha condotto ad un ulteriore accorciamento della settimana lavorativa, che è arrivata a 48 ore e poi a 40.
Analizzando la storia economica e facendo una previsione sul futuro, in una celebre conferenza tenuta a Madrid nel 1930 (Prospettive economiche per i nostri nipoti), Keynes si diceva convinto che nel giro di un secolo l’umanità avrebbe potuto risolvere definitivamente quello che negli ultimi due secoli era stato il suo assillo principale, il problema economico: «Mi sentirei di affermare che di qui a cent’anni il livello di vita dei paesi in progresso sarà da quattro a otto volte superiore a quello odierno. Non vi sarebbe nulla di sorprendente, alla luce delle nostre conoscenze attuali. Peraltro non sarebbe fuori luogo prendere in considerazione la possibilità di progressi anche superiori». E partendo da queste premesse giungeva ad una conclusione che non esitava a definire «sconcertante». Perché sconcertante? Perché, a suo avviso, non esiste paese o popolo che possa guardare senza terrore all’era del tempo libero e dell’abbondanza: «Per troppo tempo infatti siamo stati allenati a faticare anziché godere. Per l’uomo comune, privo di particolari talenti, il problema di darsi un’occupazione è pauroso, specie se non ha radici nella terra e nel costume o nelle convenzioni predilette di una società tradizionale. Per ancora molte generazioni l’istinto del vecchio Adamo rimarrà così forte in noi, che avremo bisogno di un qualche lavoro per essere soddisfatti. Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono (però) tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi».
A sua volta il fondatore della Fiat Giovanni Agnelli, muovendo da considerazioni pratiche, ha sostenuto che è anche nell’interesse delle imprese rispondere alla innovazione tecnologica con una riduzione degli orari di lavoro. Il suo ragionamento è esplicitato in una lettera del 5 gennaio 1933 diretta a Luigi Einaudi: «Partiamo dalla premessa che in un dato momento, in un dato paese, a ipotesi nella parte industrializzata di questo nuovo mondo, via siano 100 milioni di operai occupati. Sia il loro salario medio di un dollaro. Sulla base di un dollaro ogni giorno nasce una domanda di 100 milioni di dollari di beni e servizi e ogni giorno industriali ed agricoltori mettono sul mercato 100 milioni di merci e di servizi. Produzione, commercio, consumi si ingranano perfettamente l’un l’altro. Non esistono disoccupati. Non si parla di crisi. Noi industriali diciamo, nel nostro linguaggio semplice, che gli affari vanno. Alla macchina economica non occorrono lubrificanti. A un tratto uno o parecchi uomini di genio inventano qualcosa e noi industriali facciamo a chi arriva prima ad applicare la o le invenzioni le quali permettono risparmio di lavoro e maggiore guadagno. Quando le nuove applicazioni si siano generalizzate risulta che con 75 milioni di uomini si compie il lavoro il quale prima ne richiedeva 100. Rimangono 25 milioni di disoccupati nel mondo. Quale la causa? La incapacità dell’ordinamento del lavoro a trasformarsi con velocità uguale alla velocità di trasformazione dell’ordinamento tecnico (...). Rendiamo uguali le velocità dei due movimenti progressivi, quello tecnico e quello, chiamiamolo così, umano. Poiché a produrre una massa invariata di beni e servizi occorrono 600 invece che 800 milioni di ore di lavoro, tutti i 100 milioni di operai occupati nel primo momento per 8 ore al giorno rimarranno occupati nel secondo momento per 6 ore al giorno. Poiché essi producono la stessa massa di beni di prima, il salario rimarrà invariato in un dollaro al giorno. La domanda operaia di beni e servizi resta di 100 milioni di dollari. Nulla è mutato nel meccanismo economico, il quale fila come oro colato. Non c’è disoccupazione, non c’è crisi» (...).
Dunque il fatto tanto indiscutibile quanto trascurato è che la disoccupazione attuale (se si esclude l’occupazione derivante dai servizi alla «persona», o certi lavori manuali, come ad esempio l’idraulico) ha una chiara impronta «ricardiana», come conseguenza del passaggio dalla produzione fordista a quella post-fordista. Che ha significato progressiva sostituzione dell’informatica, dell’automazione e della robotica al lavoro. Ne è derivato un eccesso di manodopera che viene espulsa dalla produzione e che, in assenza di politiche capaci di dare risposte concrete al problema, resta lì. Nella terra di nessuno. Almeno finché sopporta la propria esclusione. Questa disoccupazione era già presente negli ultimi decenni del secolo scorso, ma allora si era pensato di poterla recuperare, almeno in parte, tramite la «precarizzazione» del mercato del lavoro, in base all’assunto che le imprese avrebbero avuto «convenienza» ad utilizzare quei lavoratori «usa e getta». Almeno in una certa misura così è stato. Ma con l’ovvia conseguenza di un calo sensibile della produttività del lavoro. Perché se si possono costringere i precari a lavorare di più non gli si può imporre anche di lavorare meglio. Da qui la comparsa di una occupazione flessibile ma a bassa produttività. Come hanno ampiamente messo in evidenza diverse ricerche. Contro l’occupazione patologicamente flessibile ha provato a muoversi la riforma Fornero. Con soluzioni discutibili, ma con una motivazione giusta: il lavoro precario deve costare di più del lavoro stabile. Oggi, con il decreto sul lavoro del governo Renzi, siamo alla «riforma della riforma». Giustificata da una discussione surreale. Essa verte infatti, non su se sia utile o meno disincentivare forme dilaganti di lavoro flessibile e precario, ma su se l’obbligo a motivare la causale sia da ritenere una ragione sufficiente o meno a scoraggiare le aziende dal fare assunzioni. Inutile dire che non è certo da simile approccio che potrà derivare un aumento dell’occupazione. E peraltro nemmeno la tanto auspicata crescita porterà i nuovi posti di lavoro che invece servirebbero. Almeno per i prossimi anni. Le ragioni sono tante. Non ultima quella relativa al fatto che, come detto, la disoccupazione con cui siamo alle prese è appunto in larga misura di tipo «ricardiano»: quindi non può essere curata con «placebo» e rimedi estemporanei che intervengono solo sui sintomi invece che sulle cause (...).
Resta il fatto che la ridefinizione del ruolo dell’individuo e delle organizzazioni che rappresentano il lavoro in una società sempre più deprivata del lavoro di massa costituisce sicuramente la questione fondamentale con cui dovrà sapersi confrontare la società del futuro. Nello stesso tempo bisogna sapere che per riuscire ad affrontare concretamente questa sfida il punto da avere chiaro, fin da ora, è che sarà impossibile fare davvero i conti con la questione della disoccupazione se si continuerà ad ignorarne la sua duplice natura, «keynesiana» e «ricardiana». Perciò di una cosa occorre essere consapevoli: fino a quando questa presa di coscienza non incomincerà a farsi adeguatamente strada, la disoccupazione continuerà purtroppo a restare (per quanto ciò venga a parole considerato riprovevole) essenzialmente un problema dei disoccupati.

il Fatto 19.5.14
“In Europa serve un’Italia senza evasori, tangenti e P2”
Poche ore prima del dramma
Genova, 6 giugno 1984: Il segretario più amato del PCI parla alla vigilia delle elezioni europee. Dalla questione morale all’impegno civile. Sono passati trent’anni, ma nulla sembra cambiato
di Teresa Tacchella


Genova. 7 giugno 1984: mancano 10 giorni alle elezioni europee, stiamo ultimando il montaggio dell’intervista a Enrico Berlinguer realizzata poche ore prima, nel salottino di un albergo vicino alla stazione Brignole, in una pausa della sua impegnativa giornata elettorale in Liguria, a Genova e Riva Trigoso, ultima tappa prima del comizio di Padova dove il segretario del Pci viene colto da malore sul palco. E mentre arrivano le drammatiche notizie dalla città veneta, con un nodo alla gola, inseriamo la sigla del programma, le note di Beethoven in una celebre esecuzione, audio e video, diretta da Von Karajan. A rivedere quelle immagini un po’ sbiadite dal tempo, sul nastro indebolito nella qualità dal peso degli anni, tornano alla mente, quelli sì nitidi, i momenti dell’intervista, il linguaggio semplice e diretto e l’attualità dei contenuti: a distanza di 30 anni.
Enrico Berlinguer, all’apparenza fragile, l’eleganza sobria della giacca grigia pied de poule, sul pullover amaranto, camicia azzurra e cravatta con tonalità blu, ci riceve con un sorriso: una disponibilità e una gentilezza d’altri tempi. Anche quando gli accompagnatori e il servizio d’ordine danno segni di impazienza; quando il suo volto sudato e il suo sguardo stanco, sotto la luce dei riflettori, mostrano impietosamente i segni della fatica, lui non si sottrae e risponde a tutte le domande, comprese quelle raccolte in precedenza per strada, fra la gente. Era strutturata così la trasmissione Europa, come…, durata 18 minuti, realizzata assieme a Beatrice Ghersi e Luciano Degli Abbati, prodotta dalla cooperativa Filmvideocoop, un gruppo affiatato di operatori dell’informazione il cui presidente era Giordano Bruschi che ancora oggi ricorda i rapporti con Berlinguer che si perdono nel tempo: dal 1946, con le riunioni romane del “fronte della gioventù” che raccoglieva ragazze e ragazzi delle associazioni democratiche.
Per le interviste ai cittadini, era stato scelto un quartiere popolare di Genova, San Fruttuoso in bassa Valbisagno, alle prese con una forte espansione urbanistica che ha visto le colline inondate da impressionanti colate di cemento. Chi ha più anni e ha sofferto la guerra guarda con speranza all’Europa, tra i più giovani c’è invece indecisione, sfiducia, scetticismo.
Una sfiducia che può tradursi in astensionismo, cosa risponde Enrico Berlinguer a questi cittadini?
È comprensibile, afferma, che ci siano dei fenomeni di sfiducia data la condizione del nostro Paese, il modo in cui è stato ed è governato. Tuttavia, pensiamo che non votare significhi lasciare il campo libero ai responsabili dei guasti di cui soffre l’Italia e dei problemi non risolti che sono all’origine della sfiducia dei cittadini. E quindi, noi pensiamo che si debba votare e che il voto possa esercitare un’influenza sulla vita del Paese, possa contribuire a dare più forza a coloro che lottano per cercare di cambiare lo stato delle cose”.
Ma al voto europeo viene attribuito un significato pieno di incertezza. Secondo lei qual è la posta in gioco?
Prima di tutto, la questione della “unità politica” dell’Europa. È proprio dalle file del gruppo comunista che è venuta la proposta più innovativa che sia stata fatta nel corso di questi cinque anni di vita del parlamento europeo eletto: la proposta di Altiero Spinelli che rappresenta una via d’uscita alla crisi che attraversa la Comunità Europea. Spinelli propone, infatti, di passare da un semplice “mercato comune” a una “unificazione politica dell’Europa” e di spostare l’asse del potere dai governi che hanno fatto soltanto praticamente dei compromessi fra di loro, al Parlamento Europeo eletto a suffragio universale dai popoli della Comunità Europea. Questa è la prima questione che direttamente concerne il futuro dell’Europa. Tuttavia, le elezioni cadono anche in un momento cruciale della vita politica italiana. Esse possono dare un’indicazione, manifestare una volontà dell’elettorato, nel senso di contribuire a porre fine all’attuale situazione che, contrariamente a quello che viene predicato dai partiti al governo, è di assoluta ingovernabilità. Possono finalmente aprire la strada a governi che guardino agli interessi generali e non siano caratterizzati dalla conflittualità continua fra i partiti al governo e fra le loro fazioni.
C’è un rapporto stretto fra il voto europeo e la situazione politica italiana?
Certo. Soprattutto nel senso che dobbiamo portare in Europa l’immagine e la realtà di un Paese che non sia caratterizzato dalla P2, dalle tangenti, dall’evasione fiscale e dalla iniquità sociale qual è quella che si è vista col decreto che taglia i salari, per portare invece nella Comunità Europea il volto di un Paese più pulito, più democratico, più giusto.
Dall’Europa dei popoli alla ‘questione morale’, ai venti di guerra che soffiano da più parti: l’attualità dell’intervista a Berlinguer di 30 anni fa tocca nodi ancora oggi irrisolti e delinea nuove preoccupazioni. Ieri c’era il problema dei missili in Sicilia, a Comiso, oggi le polemiche sugli F35, mentre la crisi Ucraina e i conflitti nel sud del Mediterraneo e nel vicino Oriente aprono scenari inquietanti.
Ma quale pace si può costruire?
La pace è la pace. E oggi significa evitare che l’umanità possa precipitare nella guerra atomica e nucleare che significherebbe la fine della civiltà umana. Anzi, come dice Alberto Moravia che si presenta come candidato indipendente nelle nostre liste, la fine della stessa specie umana. Per la pace oggi si lotta soprattutto opponendosi alla corsa al riarmo che è in pieno svolgimento fra le due massime potenze, cercando la soluzione politica dei conflitti che sono aperti in varie zone del mondo; cercando di far sì che l’Italia e l’Europa agiscano come fattori di distensione e di cooperazione sul piano mondiale. Dalle domande dei cittadini emergono altri due argomenti al centro del dibattito politico: la disoccupazione giovanile e le pensioni.
Le sorti della gioventù sono in gran parte legate al futuro della Comunità Europea, perché se l’Europa continuerà a decadere, a perdere punti rispetto agli Stati Uniti e al Giappone, il numero dei disoccupati crescerà inevitabilmente. Oggi ci sono 13 milioni di disoccupati nei 10 paesi della Comunità Europea e l’Italia è forse il paese che ha la percentuale più alta. Quanto ai pensionati noi ci siamo sempre battuti e continueremo a batterci per i loro diritti e le loro rivendicazioni, contro la sordità dei governi. L’attuale governo non è stato ancora in grado di presentare un progetto di riforma e di riordino del sistema pensionistico. A chi mette in dubbio la democraticità del Pci e parla di partito totalitario, Berlinguer risponde con chiarezza e determinazione:
“Se c’è una cosa che ha distinto il nostro partito dalla sua fondazione, dal 1921 ad oggi, è stato proprio il fatto che esso ha coerentemente, sempre, lottato a difesa della libertà e della democrazia: contro il fascismo, nella Resistenza e nella lotta di liberazione nazionale, per la fondazione della Repubblica democratica, per la difesa della Costituzione. Quindi, non vedo proprio come il Partito Comunista Italiano possa essere considerato un partito totalitario. Nel corso degli ultimi tempi poi, il partito comunista ha caratterizzato la sua azione politica proprio nella opposizione ai tentativi di far degenerare il nostro sistema politico verso forme autoritarie quali sono quelle praticate dal governo a presidenza socialista (di Craxi, ndr). Noi pensiamo che il partito comunista italiano nel corso della sua esistenza e negli ultimi tempi si sia proprio caratterizzato per questi tratti: di essere il garante della difesa della libertà dei cittadini e della libertà anche di chi la pensa diversamente dai comunisti ed è loro avversario”.
La nostra intervista è finita. Enrico Berliguer ci lascia con un sorriso e una stretta di mano.

Corriere 19.5.14
Il nuovo Codice Deontologico che lascia i medici nel passato
di Giuseppe Remuzzi


I presidenti degli Ordini provinciali dei medici italiani hanno approvato ieri a Torino il testo definitivo del nuovo codice deontologico. A dire sì sono stati 87 presidenti su 99, dieci non lo hanno approvato e due si sono astenuti. L’unico elemento su cui è stata raggiunta la completa unanimità è stato il sì alla lotta all’abusivismo. Il professionista è tenuto, infatti, a denunciare (obbligo etico) se viene a conoscenza di situazioni di abusivismo o di prestanome. I dieci Ordini che hanno votato contro hanno annunciato che si atterranno al vecchio codice. Il nuovo codice sarà presentato a Roma il prossimo 23 maggio.
Nuove regole di comportamento per i medici? Sembra proprio di sì. I presidenti degli Ordini hanno elaborato il nuovo codice deontologico. Quanto nuovi e quanti importanti gli emendamenti rispetto a prima? Vediamo. Si riafferma con forza che «le competenze diagnostico-terapeutiche sono del medico, esclusive e non derogabili» (ineccepibile anche se infermieri dedicati, preparati e colti sono i nostri migliori alleati per far bene e non sbagliare; ma su questo non c’è neanche una riga).
C’è preoccupazione per la tecnologia: «il medico, facendo uso dei sistemi telematici, non può sostituire la visita medica, che si sostanzia con una relazione diretta con il paziente, con una relazione esclusivamente virtuale». Non è molto chiaro cosa vogliono dire se non il timore che le nuove tecnologie mettano a rischio il rapporto fra medico e ammalato. Al contrario, scienza e tecnologia stanno cambiando (in meglio) le nostre capacità di diagnosticare e curare le malattie a vantaggio degli ammalati; abbiamo l’obbligo morale di conoscere e trarre il massimo vantaggio da tutto quello che c’è, tecnologia dell’informazione e genetica per esempio, che da qui a qualche anno cambierà radicalmente la medicina. Questo non è in contrasto col visitare l’ammalato e un bravo medico sa bene di cosa avvalersi e quando senza bisogno del codice deontologico. Che invece sarebbe prezioso per essere più gentili con gli ammalati, saperci scusare se li facciamo aspettare, ascoltarli di più, sforzarci di essere chiari quando gli parliamo; pochi di noi per esempio sanno resistere alla tentazione di parlare male dei colleghi di fronte agli ammalati.
È vero che nel nuovo codice deontologico (art. 20 emendato) un richiamo che va in questa direzione c’è ed è giustissimo; forse, visto che si cambiava su questo punto, si poteva essere più espliciti.
Fra le novità una nota (sacrosanta) sul problema del conflitto d’interessi; che è molto di più che cedere, nel prescrivere, alle lusinghe di chi vende farmaci. Nel dire a un ammalato «per questo intervento c’è da aspettare tre mesi ma si può fare settimana prossima se lei paga, nello stesso ospedale e con lo stesso chirurgo» si crea un conflitto di interessi formidabile. Stando al nuovo codice deontologico (art. 69) da domani non dovrebbe succedere più. Sarebbe bellissimo; ma gli Ordini sapranno farlo rispettare quell’articolo? (Quello di prima era molto simile ma erano ben pochi a rispettarlo).
Secondo il nuovo codice non si parlerà più di eutanasia ma di morte; il medico non dovrà accelerare la morte nemmeno se il malato lo chiede (ci sarebbe molto da discutere ma almeno si comincia a fare un po’ di chiarezza). Sulle dichiarazioni «anticipate di trattamento», cioè se uno dice o scrive che non vuole essere rianimato, il testo è confuso e contraddittorio anche perché non ci sono norme di legge di riferimento.
E ancora, c’era chi voleva che gli ammalati non si chiamassero più «pazienti» ma «persone assistite». Poi hanno fatto marcia indietro ma non del tutto. Così saranno «pazienti» i malati, e «persone assistite» quelli che stanno bene o che fanno esami. Peccato che molti che sembrano star bene sono malati e molti di quelli che pensano di essere malati non hanno niente. Un bel pasticcio. Chiamiamoli malati gli ammalati, così quando guariscono non saranno né pazienti né persone assistite ma saranno anche loro come tutti gli altri.
Che dire insomma del nuovo codice deontologico? Non è molto diverso da quello di prima e le modifiche di questi giorni non mi pare abbiano contribuito a migliorarlo. Sarà forse perché pretendere di trovare un accordo fra 99 presidenti è un po’ troppo, in fondo Ippocrate 2400 anni fa aveva preferito fare tutto da solo.

La Stampa 19.5.14
Grecia, sinistra in testa nel voto amministrativo


La Grecia, in attesa delle europee di domenica, comincia a svoltare a sinistra nelle amministrative. Secondo i primi exit poll, Rena Dourou, candidata di Syriza alla carica di presidente della regione Attica avrebbe ricevuto tra il 27 e 30 per cento delle preferenze. Al secondo posto Yannis Sgouros, candidato di centro-sinistra (presidente uscente) con il 20-24. A Salonicco, la seconda città della Grecia, Yannis Butaris, sindaco uscente e candidato di centro-sinistra, sarebbe invece in testa con il 35 -39%. Al secondo posto Vassilis Michaloliakos, sindaco uscente e candidato di Nea Dimokratia, con preferenze fra il 28 ed il 32%. Al terzo posto, Thodoris Dritsas, candidato di Syriza, con il 18-22%. La Grecia è governata da una alleanza fra i socialisti del Pasok e Nea Dimokratia.[E. ST.]

Corriere 19.5.14
Voto locale in Grecia Sinistra radicale avanti


ATENE — Il partito della sinistra radicale Syriza risultava ieri sera in vantaggio nelle elezioni amministrative in Grecia, secondo tutti gli exit poll. La formazione guidata da Alexis Tsipras, candidato domenica prossima a presidente della Commissione Ue per il Partito della sinistra europea, ha segnato una performance migliore delle aspettative piazzandosi al primo posto nei sondaggi all’uscita dai seggi nella capitale Atene, con il suo candidato Gavriil Sakelaridis, e nell’importante regione dell’Attica, con Rena Dourou. Il successo di Syriza rappresenta allo stesso tempo un passo indietro per la fragile coalizione di governo diretta dal premier Antonis Samaras, in carica dal giugno 2012, che per la prima volta da quell’anno è sottoposta a un test elettorale.
Se ieri 10 milioni di elettori sono stati chiamati alle urne per rinnovare 325 amministrazioni comunali e 13 regionali, ancora più importante sarà però il voto di domenica prossima, quando il secondo turno delle Amministrative coinciderà con le elezioni europee. Lo stesso Tsipras aveva invitato gli elettori a considerare già le Amministrative un referendum sulle politiche pro austerità di Samaras, ovviamente per bocciarle. Il premier, leader del partito liberalconservatore Nuova Democrazia e alleato al governo con i partiti di sinistra Pasok e Dimar, può contare attualmente solo due seggi di maggioranza in Parlamento in un Paese dove la crisi economica resta gravissima, con oltre il 26% di disoccupazione, un generale crollo dei salari e un quasi annientamento del welfare. Per contro la formazione di estrema desta xenofoba Alba Dorata sembra aver attratto meno elettori del previsto: ad Atene negli exit poll di ieri sera il suo candidato a sindaco era al quarto posto rendendo così probabile se non certa la sua eliminazione già al primo turno.

l’Unità 19.5.14
Libia nel caos
A Bengasi è guerra civile
La Libia precipita nel caos


A capo di un esercito paramilitare, l’ex generale in pensione Khalifa Haftar ha scatenato l’offensiva contro le milizie integraliste islamiche. A Bengasi i morti sono almeno 80. Il governo di Tripoli ha gridato al golpe e ha chiesto agli abitanti di difendere la città. Uomini armati assaltano e occupano il Parlamento.
La Libia ripiomba nel caos. Un caos armato, scatenato dall’offensiva sferrata da Khalifa Haftar, ex generale in pensione ora a capo di un esercito paramilitare dotato anche di aerei e elicotteri che ha lanciato i suoi uomini contro le milizie integraliste islamiche, definendole gruppi di terroristi. Il risultato è stato un durissimo scontro con un bilancio - ancora provvisorio - di almeno 80 morti e oltre 140 feriti. Il governo di Tripoli ha gridato al colpo di Stato con un comunicato congiunto di governo, parlamento e esercito, letto dal presidente del Congresso generale nazionale (Cng, parlamento) Nouri Abou Sahmein, nel quale l’attacco compiuto da Haftar viene definito «al di fuori della legittimità dello Stato», un vero e proprio «colpo di Stato». «Chiediamo agli abitanti di Bengasi, città della rivoluzione - si legge nella dichiarazione - di rimanere fermi e uniti... di liberarsi di coloro che guidano il golpe e di protegge la loro città».
CAOS ARMATO Intanto l’esercito regolare libico ha dichiarato una zona di esclusione aerea su Bengasi (est), minacciando di abbattere qualunque aereo militare sorvoli l’area. Lo stato maggiore dell’esercito, si legge in un comunicato reso noto dall’agenzia libica Lana, «dichiara Bengasi e le sue periferie zone di esclusione aerea, fino a nuovo ordine». In risposta, le truppe fedeli ad Hifter avrebbero consigliato ai civili rimasti a Bengasi di lasciare le parti della città vicine ai quartier generali di «Rafallah al-Sahati» e «17 Febbraio», le milizie islamiche oggetto dell’attacco di venerdì. Secondo il capo dello Stato maggiore dell’esercito libico, Abdel-Salam Gadallah al-Obeidi, l’operazione lanciata da Haftar a Bengasi è un «colpo di Stato». «L’esercito e i rivoluzionari», ha detto inoltre Gadallah, fanno un appello «all’esercito e ai rivoluzionari perché si oppongano a qualunque gruppo tenti di prendere il controllo di Bengasi con la forza delle armi». Di conseguenza altre unità delle forze federali non verranno autorizzate a entrare nella città dell’Est del Paese. Il primo ministro ad interim, Abdullah al-Thani, ha precisato che agli attacchi hanno partecipato un aereo caccia e circa 120 soldati. «Si tratta - ha affermato - di un tentativo di sfruttare l’attuale situazione di sicurezza per schierarsi contro la rivoluzione. L’era dei golpe è finita ».
Lui, Khalifa Haftar, che dopo vent’anni negli Stati Uniti, era tornato in Libia nel 2011 e aveva partecipato alla rivolta contro il regime di Muammar Gheddafi, ora è a capo di un cosiddetto «esercito nazionale» e afferma di agire di sua iniziativa, ma al suo fianco vi sono molti ufficiali e soldati dell’esercito regolare di Tripoli e a sua disposizione ha armamenti governativi. L’attacco, dopo che i bombardamenti e i combattimenti di ieri nel centro della città dell’est libico hanno lasciato sul campo almeno 37 morti e oltre 150 feriti, è proseguito oggi e, stando alle parole di Haftar, non si fermerà. «L’operazione militare - ha assicurato - continuerà fino a ripulire Bengasi dai terroristi». Secondo alcuni esperti l’obiettivo del generale in pensione è partire da Bengasi per prendere il potere in Libia con un colpo di stato. Altri ritengono invece che possa essere l’uomo forte in grado di eliminare una volta per tutte i gruppi fondamentalisti e jihadisti che le autorità di transizione di Tripoli finora non sono riuscite neppure a indebolire.
DOVE TUTTO EBBE INIZIO
Bengasi fu il cuore della rivolta contro il regime di Gheddafi che secondo la popolazione locale per decenni aveva depredato le risorse della regione e i proventi del petrolio. Dopo la caduta del raìs, il potere reale l’hanno preso le milizie formate dagli ex ribelli, tra cui sono in continuo aumento quelle legate al radicalismo islamico. Negli ultimi due anni, nell’est della Libia sono state uccise circa200 persone che ricoprivano incarichi di vario genere nella polizia, nell’amministrazione, in magistratura o in politica. Tra le vittime l’ambasciatore statunitense Chris Stevens e altri tre cittadini Usa, assassinati durante un attacco l’11 settembre 2012.
Ma la violenza non si ferma a Bengasi. Nel pomeriggio, un attacco armato è stato sferrato contro la sede del Parlamento libico, a sud di Tripoli. Lo ha riferito un deputato, confermando quanto riportato in precedenza da testimoni che avevano udito colpi d’arma da fuoco e esplosioni. Secondo il Parlamentare Omar Bushah alcuni uomini armati sono entrati nell’edificio e hanno appiccato un incendio. In precedenza la sede del Parlamento era stata evacuata. Secondo un portavoce del Parlamento ad attaccare sono i paramilitari di Khalifa Haftar. Secondo l’agenzia ufficiale Lana, gli aggressori hanno bloccato le vie d’accesso limitrofe all’edificio. Secondo testimoni, un convoglio di veicoli armati era entrato in città, proveniente dalla strada di collegamento con l’aeroporto.

Repubblica 19.5.14
Un governo ostaggio delle milizie
di Renzo Guolo



LA LIBIA precipita nel caos. Nelle ultime settimane si sono susseguiti assalti al Parlamento, sequestri di parlamentari e minsitri, attacchi di gruppi jihadisti e salafiti. Sullo sfondo, la consueta incapacità del governo centrale di imporre la propria sovranità sulle milizie e sulla Cirenaica, dove i separatisti guidati da Ibrahim al Jadran continuano a controllare parte dei terminal della regione.
L’attacco contro le milizie islamiste radicali dell’ex-generale della riserva Khalifa Hiftar, non è che l’ennesimo episodio di questa infinita transizione. Hiftar punta a catalizzare quanti ritengono di mettere fine alla fibrillazione seguita al post-Gheddafi. Il suo bersaglio è duplice: piegare le forze islamiste, accusare di destabilizzare il paese, e riportare l’Est sotto il controllo di Tripoli. Il governo centrale ha definito questo tentativo «un colpo di Stato»: del resto le forze della Fratellanza Musulmana sono decisive in Parlamento, come ha dimostrato anche la farsesca vicenda della nomina di Ahmed Maiteeq a nuovo primo ministro al posto del premier a interim Abdullah al-Thani, annullata innescando una grave crisi istituzionale. Con il risultato, paradossale, che la Libia si è trovata con due capi del governo, anche se un governo
effettivo non c’è.
Hiftar, che si è presentato come capo dell’Armata nazionale, ha l’appoggio anche di effettivi e mezzi dell’esercito regolare, frustrato dalla sua irrilevanza nell’attuale situazione e dagli attacchi condotti dalle milizie dell’Est contro le sue truppe. Bisognerà vedere se riuscirà a aggregare altre unità. Anche se il capo di Stato maggiore delle forze regolari, Abdessalem Jadallah al-Salihin, ha fatto appello a militari e milizie rivoluzionarie, vero cuore del potere, perché si oppongano contro chiunque tenti di controllare Bengasi con la forza.
Hiftar ha vissuto per vent’anni negli Stati Uniti dopo aver abbandonato, alla fine degli anni Ottanta, il regime di Muammar Gheddafi. Potrebbe essersi mosso autonomamente, puntando a un crescente consenso interno e internazionale se il suo tentativo di «sradicare il terrorismo» andasse in porto. In caso contrario, nessuno si preoccuperebbe della sua sorte. Un tentativo, comunque, destinato a alimentare l’instabilità sulle sponde del golfo della Sirte.

Corriere 19.5.14
La partita di americani ed egiziani
di Guido Olimpio


La Libia è un vulcano. Lo è da quando hanno cacciato Muhammar Gheddafi. Ha prodotto violenza, settarismo, terrore. Condizioni ideali sfruttate da chi traffica in fucili e clandestini. Inevitabile che ci sia qualcuno che sogni di imporre con le armi un nuovo ordine in un Paese senza legge. Complicato farlo in una realtà così frammentata.
L’azione del generale Khalifa Haftar è un tentativo che probabilmente ha molti sponsor, vicini e lontani. Fedele del raìs, l’ufficiale si è poi trasferito negli Usa dove ha costruito nel tempo ottimi rapporti con Pentagono e intelligence . Tornato in Libia all’epoca della rivolta ha provato a ritagliarsi uno spazio. Con risultati alterni e sotto la stella americana. Ora ha lanciato l’attacco contro i gruppi islamisti finendo poi per coinvolgere le deboli strutture libiche.
Per alcuni osservatori la sua iniziativa è stata incoraggiata dai generali egiziani, sempre più preoccupati dell’instabilità cronica della vicina Libia. Poi si è detto degli Emirati arabi e di qualche potentato del Golfo, tutti spaventati dal crescere con quell’estremismo con il quale hanno peraltro mantenuto rapporti ambigui. Non è poi un caso che Haftar abbia raccolto molti consensi in Cirenaica, nell’est della Libia, la regione con aspirazioni secessioniste e insanguinata da una interminabile serie di atti terroristici.
Infine ci sono gli americani. Informati o quantomeno spettatori interessati. Significativa la coincidenza delle mosse. In particolare l’arrivo nella base statunitense di Sigonella (Sicilia) di 200 marines, una task force pronta ad agire nel caso di minacce a siti diplomatici Usa in Nord Africa. Washington, in passato, ha chiesto a Tripoli di agire con fermezza, ha sollecitato l’arresto di personaggi sospettati di aver avuto un ruolo nella morte dell’ambasciatore Chris Stevens a Bengasi, ha fornito aiuti che sono andati perduti. Un supporto esterno mai troppo convinto, per non finire impelagati in una realtà melmosa. Proprio l’uccisione dei diplomatici Usa ha dimostrato quanto sia intricata la storia. Pensi di avere dei nuovi amici e scopri dei vecchi nemici.
Ora rispunta Haftar e magari gli americani sperano che regoli qualche conto. Ma resta da capire come il generale possa essere una cura per i guai cronici dei libici. Lui è solo un pezzo di un mosaico dove nulla combacia. E per di più le istituzioni, mai esistite sotto Gheddafi, sono fragili come le dune esposte al vento del deserto.

Repubblica 19.5.14
Dopo gli scontri per le isole contese Pechino rimpatria i suoi operai
Cinesi in fuga dal Vietnam migliaia evacuati con navi e aerei
di Giampaolo Visetti



PECHINO. Riesplode in Asia la guerra dei nazionalismi e la Cina allarga il fronte dello scontro nel Sudest. A dieci giorni dai primi assalti in fabbriche e negozi cinesi, Pechino ha scelto ieri uno spettacolare rimpatrio dei connazionali in Vietnam, rilanciando accuse e minacce contro Hanoi. Tivù di Stato e media governativi per tutto il giorno hanno seguito in diretta la maxi-evacuazione dei cinesi dai principali distretti produttivi vietnamiti, effettuata con navi e aerei militari. Secondo la propaganda i rimpatriati sono già 3 mila e in queste ore cinque navi stanno portando in salvo altre migliaia di operai ed emigrati, obbiettivo delle ritorsioni dei vietnamiti insorti contro l’installazione di una piattaforma petrolifera di Pechino nell’arcipelago conteso delle Paracels. Finora le vittime cinesi sono state ufficialmente due, oltre cento i feriti. I sedici cinesi con le lesioni più gravi sono stati prelevati da aerei-ambulanza e ricoverati negli ospedali di Pechino, accolti come reduci-eroi di un conflitto. Tra mercoledì e ieri però i cinesi fuggiti dal Vietnam, a piedi o con mezzi di fortuna, sono migliaia. La maggioranza è riuscita a passare il confine con la Cambogia, costruendo campiprofughi lungo la frontiera. Non si può ancora parlare di una guerra aperta, ma tra Vietnam e Cina la tensione non era così alta da quarant’anni.
Nel 1974, mentre gli Usa si ritiravano dal Vietnam del Sud, le truppe di Pechino tentarono un blitz issando già la propria bandiera sulle isole Paracels. A sud di Hanoi, tra Ho Chi Min City e il distretto industriale di Ha Tinh, squadre di vietnamiti nei giorni scorsi hanno distrutto e incendiato decine di aziende, proprietà di Cina, Taiwan e Singapore. Gli operai cinesi sono stati aggrediti e pestati dai loro stessi colleghi del Vietnam, colpevoli di essere nati nella super-potenza che torna a minacciare il territorio di Hanoi. Nella serata di ieri l’annuncio della prima ritorsione cinese: scambi bilaterali, per decine di milioni di dollari, sono stati sospesi. Hanoi assicura che 600 saccheggiatori sono stati arrestati, che gli assassini dei cinesi.
Navi vietnamite e cinesi continuano però a fronteggiarsi attorno alle Paracels e la minima provocazione può far sfuggire la situazione di mano ai rispettivi governi. La piattaforma petrolifera galleggiante Haiyang Shiyou 981, scintilla degli scontri, ha costi di manutenzione proibitivi e non può dunque rimanere inattiva a lungo. Il Vietnam, sostenuto dagli Usa, è deciso a impedire la ripresa delle tri- vellazioni su fondali che considera propri, mentre la Cina è decisa a usare gli interessi economici ed energetici per ridisegnare i confini nel Mar cinese meridionale. Vecchi rancori e nuovi affari soffiano in particolare sui crescenti nazionalismi: Pechino sfrutta la caccia ai cinesi in Vietnam per sviare l’attenzione interna dal rallentamento della crescita e dal dilagare della corruzione nel partito, ma pure Tokyo, Hanoi e Manila cavalcano l’odio xenofobo per consolidare il potere. Toccati gli orgogli patriottici, nessuno può permettersi un passo indietro. Farne un altro in avanti, come un secolo fa, minaccia però di far riesplodere il Pacifico.

Repubblica 19.5.14
Nato nel 1977 in Cisgiordania, è l’uomo nuovo della Spd: “Sarà lui a guidare la capitale”
“Raed sindaco” un palestinese alla conquista di Berlino


BERLINO. È PALESTINESE, ha appena 37 anni, parla tedesco con quel po’ d’accento che spesso i migranti venuti dal caldo Sud conservano, ed è la speranza della capitale della prima potenza europea. Un palestinese, che emigra, studia e passa la maturità ma poi interrompe l’università per lavorare in un fast food e sceglie l’impegno politico. Un palestinese sognato dai media e dalla gente come futuro sindaco-governatore
d’una grande metropoli del Vecchio continente: persino grandi testate liberalconservatrici dell’ovest della Repubblica federale, l’illustre Frankfurter Allgemeine in testa, cominciano a fare il tifo per lui. Se non altro perché la stella dell’attuale primo cittadino, Klaus Wowereit, appare in caduta libera. Questa è la storia di Raed Saleh, politico in ascesa nato in Cisgiordania nel 1977, e diventato nella Berlino multietnica la speranza del più antico partito della sinistra europea e mondiale. «Sarebbe l’uomo più adatto per i tempi duri, quando la lunga èra dei party spensierati di Wowereit finirà», ha scritto di recente in un reportage a piena pagina l’edizione domenicale della Faz. Perché il giovane figlio di umili palestinesi della cittadina di Sebastia parla di politica e vita quotidiana in termini concreti, vicini alla gente. E perché al contrario di Wowereit non lo vedi mai a sfilate di moda, feste del jet set o in ristoranti eleganti e costosissimi, né con gli occhi rossi dal party di ieri: non beve. Forse non s’immaginava di salire tanto in alto il figlio di migranti palestinesi cresciuto a Spandau, l’enorme quartiere di Berlino Ovest dove ceto medio non facoltoso e classe operaia si mescolano, Raed che lasciò l’illustre facoltà di medicina del settore occidentale di Berlino per pagarsi la vita da impiegato semplice e poi far carriera da dirigente in una catena di fast food ad Amburgo. Eppure, dal 2011 Raed è capogruppo nel parlamento cittadino. Carica che fa da trampolino. Lui lo sa e prende tempo: per questo ha deciso di non sfidare Jan Stoess, tedesco doc, alla carica di leader del partito cittadino.
Un palestinese sindaco di Berlino: nella città preferita dai giovani europei forse nulla è impossibile. «Raed non cerca show e luci della ribalta, è freddo e analitico come oratore, und das ist gut so », dicono molti socialdemocratici. Und das ist gut so: e va bene così. Era lo slogan di Klaus Wowereit quando quattordici anni fa fece coming out sulla sua omosessualità, e vinse proponendosi come sindaco-governatore di “Berlino povera ma sexy”. Iniziò popolarissimo, ha deluso. Non solo per il flop dell’aeroporto che non apre mai, anche perché la città non cresce abbastanza. Non bastano feste e sfilate di moda; e le mille start-up giovanili nonché le tre università d’eccellenza si sentono lasciate sole. Rispetto a Londra o Parigi, Berlino difetta di leadership degna d’una metropoli globale. Raed Saleh sa profilarsi. Quale uomo del law and order ( come il neopremier socialista francese Manuel Valls) ha approvato «in nome della legge» lo sgombero della tendopoli di protesta dei rifugiati nel quartiere alternativo di Kreuzberg. Simpatizza in pubblico con la polizia, chiede ai migranti, col suo accento, più sforzi per integrarsi. Prende tempo ma è pronto, il giovane palestinese di Berlino. «La sua storia ci narra dei migranti da noi, ma anche di noi stessi», scrive il quotidiano della metropoli finanziaria e della Bce, non nascondendo la sua simpatia.

Repubblica 19.5.14
I “Sadomarxisti” d’Inghilterra si dividono: cacciata l’esperta di bondage
di Enrico Franceschini



LONDRA. Cosa hanno in comune la giovane fidanzata del miliardario russo trapiantato in Inghilterra Roman Abramovich, le pratiche sadomasochistiche e il marxismo-leninismo? Non molto, in teoria, eppure sono finiti strettamente legati insieme in una polemica che ha provocato l’ennesima scissione nelle turbolente acque della sinistra marxista britannica. La controversia ha un grave antecedente: l’uscita di un folto numero di militanti dal Socialist Workers Party (Swp), lo scorso anno, per pr otesta contro la presunta copertura da parte della dirigenza del minuscolo movimento di accuse al suo leader, identificato solo come Compagno Delta, di avere stuprato un membro del partito.
I fuoriusciti hanno fondato un gruppo ancora più piccolo, l’International Socialist Network (Isn). Ma nei giorni scorsi alcuni iscritti alla nuova formazione politica, tra cui due noti autori marxisti inglesi, China Mieville, scrittore di fantascienza, e Richard Seymour, columnist del Guardian, si sono dimessi anche dall’Isn a causa di una curiosa disputa su bondage, dominazione e “razzismo sessuale”. Tutto nasce dagli attacchi che la leadership dell’Isn ha mosso a un’iscritta, Margaret Corvid, dominatrice professionista ed esperta di sadomasochismo, colpevole di avere espresso apprezzamento per una foto che ha fatto molto discutere, in cui Dasha Zhukova, patrona dell’arte concettuale e girlfriend del proprietario del Chelsea Football Club Roman Abramovich, siede su una poltroncina fatta a immagine di una donna nera seminuda dalle braccia legate (ispirata a un’opera dell’artista pop Allen Jones).
Vari militanti dell’Isn hanno accusato la Corvid di giustificare «la dominazione e sottomissione della razza nera da parte bianca». Lei ha risposto che, in materia di bondage, il colore della pelle non c’entra, difendendo il sadomasochistico piacere di «umiliare attraverso la trasformazione di una persona in oggetto d’arredamento». Altri membri del partito hanno disquisito sulla possibilità che la pratica sia accettabile, ma solo se la persona seduta è nera e quella trasformata in sedia è bianca. La vicenda si è conclusa con le dimissioni di Mieville, Seymour, della “dominatrix” Corvid e di altri cinque militanti (si vedrà se per formare un altro gruppuscolo marxista). Lo storico settimanale laburista New Statesman ha dedicato un servizio di cinque pagine al caso. E il Times, quotidiano conservatore, ci ha fatto una pagina sotto l’ironico titolo: «Niente sesso compagni, siamo inglesi». Sadomarxisti di tutto il mondo, unitevi?

Repubblica 19.5.14
La rivolta dei college americani che tolgono la parola ai potenti
Inviti cancellati a Condoleezza Rice, Christine Lagarde, Ayaan Hirsi Ali
Nelle università torna la stagione della lotta politica
di Federico Rampini



NEW YORK. «DIS-invitation season»: la stagione degli inviti cancellati, la chiama la Foundation for Individual Rights in Education. Che protesta… contro le proteste:
l’avanzata del politically correct nei campus Usa è una nuova forma di censura? Da Condoleezza Rice a Christine Lagarde, si allunga la lista dei Vip che devono rinunciare ad arringare gli studenti. Soprattutto donne, sono finite nel mirino della contestazione. Dovrebbe farla franca la più potente di tutte, Janet Yellen, presidente della Federal Reserve: l’intero Yankee Stadium da cinquantamila posti è prenotato per gli studenti della New York University. Almeno la sacralità della banca centrale sembra reggere, in questa stagione di miti decaduti.
Le università americane vanno fiere delle loro tradizioni. Tra queste c’è il rito del “commencement speech”: è il discorso solenne che un’illustre personalità esterna viene a pronunciare alla consegna dei diplomi di laurea. Da quest’anno bisogna aggiungerci un’altra tradizione, la cancellazione del “commencement speech”. Secondo alcuni è il segnale che i campus universitari stanno riscoprendo la passione della lotta politica. Secondo altri invece è una forma preoccupante di intolleranza, che minaccia un principio costituzionale come la libertà di espressione.
Un’altra critica denuncia una sottile forma di “femminismo contro le donne”. Per la verità l’ultima vittima è un uomo: Robert Birgeneau. L’ex rettore della University of California avrebbe dovuto pronunciare il discorso della laurea allo Haverford College, vicino a Philadelphia. Ha preferito ritirarsi davanti alle vibrate proteste di gruppi di studenti. La loro accusa: quando Birgeneau era al vertice della University of California, nel 2011 tollerò le incursioni della polizia contro Occupy Wall Street e non tutelò i diritti di manifestazione.
Prima di Birgeneau le vittime di queste contestazioni erano state donne: Rice, Lagarde, Ayaan Hirsi Ali. Il caso della Rice era il più prevedibile. Come consigliera per la sicurezza nazionale di George W. Bush, poi segretario di Stato, la Rice è una conservatrice strettamente associata alle guerre in Afghanistan e in Iraq. È la prima volta però che la Rice si vede costretta ad annullare un “commencement”, quello della prestigiosa Rutgers University.
La stessa scelta ha dovuto farla la direttrice generale del Fondo monetario internazionale. Christine Lagarde era stata invitata dallo Smith College. L’accusa degli studenti politicamente più impegnati: il Fmi è associato con delle politiche di austerity che soprattutto nelle nazioni emergenti hanno inflitto duri sacrifici alle popolazioni. Per la verità Christine Lagarde è la continuatrice di un’operazione di correzione delle politiche rigoriste (già iniziata dal suo controverso predecessore Dominique Strauss-Kahn), e il Fmi ha avviato una cauta autocritica sulle scelte del passato. Timothy Egan sul New York Times è sferzante: «Una delle più potenti donne del mondo non può parlare agli studenti, perché il Fmi avrebbe puntellato delle società patriarcali?».
La terza donna che è “caduta” nella battaglia dei “commencement” è Ayaan Hirsi Ali, originaria della Somalia, ex deputata al Parlamento olandese, oggi naturalizzata americana. Anche lei era stata invitata da un ateneo di grande prestigio, la Brandeis University. Le stesse autorità accademiche hanno preferito annullare quell’invito dopo le proteste studentesche. Nel caso della Ali i contestatori l’accusavano di posizioni anti-islamiche. Originaria di un Paese musulmano, la Ali è diventata una virulenta critica dell’Islam per il trattamento delle donne in molti Paesi dove è la religione maggioritaria. Fu eletta nelle liste del partito xenofobo olandese Vvd, poi nella stessa Olanda le sue posizioni estreme portarono a una crisi di governo, su sfondo di minacce di toglierle la nazionalità.
«Gli studenti vogliono sentir parlare solo chi la pensa come loro », denuncia il Wall Street Journal. Le proteste però hanno sullo sfondo un disagio della popolazione universitaria. Un tempo il college era il “grande livellatore” della società americana, un moltiplicatore di opportunità per tutti. È sempre meno vero: l’istruzione di alta qualità diventa sempre più costosa, il diritto allo studio per tutti è una chimera, l’università torna ad essere lo specchio di una società sempre più diseguale.

l’Unità 19.5.14
L’antologia
Poeti aborigeni. Poeti liberi
Tradotta in italiano la raccolta «Inside black Australia»
Dopo centinaia di migliaia di anni di tradizione orale, nell’ultimo ventennio si è approdati alla scrittura che scuote tutte le regole
l’introduzione di Kevin Gilbert


NEGLI ULTIMI VENT’ANNI LA VOCE DEGLI AUTORI ABORIGENI HA RICEVUTO NOTEVOLE ATTENZIONE E CONSIDERAZIONE NEL MONDO DELLA LETTERATURA EUROPEA AUSTRALIANA. Molti, specialmente chi ha assunto una prospettiva critica aspettandosi qualcosa di diverso, forse di più esotico, da chi possiede una forma di espressione orale, non sono però riusciti ad avere un tipo di avvicinamento adeguato nei confronti di questo materiale grezzo, certamente irregolare, tracciato seguendo un reale e soggettivo impulso creativo. Ci sono molti problemi nella percezione e nelle analisi di questo materiale e la maggiore difficoltà risiede nel tentativo di mettere insieme in maniera razionale le centinaia di migliaia di anni di tradizione orale e gli ultimi vent’anni in cui è stato reso possibile agli aborigeni un limitato accesso alle forme di educazione dei bianchi ed alla sconosciuta lingua inglese.
La riuscita della transizione dall’oralità alla scrittura può essere misurata sul successo ottenuto dagli scritti di Oodgeroo Noonucaal (Kath Walkers), dalle opere teatrali di Robert Merritt, The Cake Man, di Gerry Bostock, Here Comes The Nigger, e di quelle più recenti di Jack Davis, che hanno ricevuto consensi qui e all’estero.
Nel 1929 David Unaipon vide pubblicato il suo Native Legends, il primo lavoro interamente composto da un aborigeno. Oodgeroo Noonucaal, con la sua raccolta di poesie We are going, uscita nel 1964 ancora con il nome di Kath Walker, fu il nostro primo libro di poesie ad essere pubblicato. Colin Johnson scrisse il primo romanzo aborigeno, Wildcat falling, nel 1965. Jack Davis pubblicò il suo primo libro The firstborn and other poems, nel 1970. Io, nel 1973, completai il primo grosso lavoro politico scritto da un aborigeno, Because the white man’ll never do it, e con Living Black, nel 1978, pubblicai la prima raccolta di storia aborigena contemporanea raccontata dal punto di vista aborigeno. Nel complesso gli «Scrittori Aborigeni», sebbene fossero un gruppo esiguo, e malgrado le difficoltà, rappresentavano un potenziale mercato ancora sconosciuto.
Negli anni Ottanta, con la trasmissione di Women of the sun di Hyllus Maris e Sonia Berg, e di altri film aborigeni, nella comunità aborigena si iniziò a capire che noi potevamo scrivere ed esprimere il nostro punto di vista con maggiore forza, maggiore importanza e maggiore onestà di quanto potessero fare i bianchi. Il risultato fu una piccola valanga di biografie aborigene, scritti teatrali, politici e di opere poetiche. Molti di questi scrittori e poeti sono occupati a tempo pieno nella produzione di quotidiani e riviste nella comunità aborigena, attività che produrrà, nei prossimi anni, una maggiore loro partecipazione nel campo della letteratura.
Una disciplina del tutto nuova è apparsa nell’area accademica, nella quale sembrerebbe che oggi ogni studente stia facendo la sua tesi di dottorato sulla «Letteratura Aborigena». Molti di essi inevitabilmente si chiedono: cos’è un poeta aborigeno? Come possono venir differenziati, e perché devono esserlo, da ogni altro poeta che scrive in lingua inglese?
La poesia aborigena scuote e piega le catene e le regole del verso, qualche volta in maniera notevole. Ma all’interno di ogni curvatura si può vedere il ciclico incantamento, la memoria emozionale, la sostanza di cui è fatta la poesia aborigena.
Quando gli europei vedono un gruppo di aborigeni seduti attorno al fuoco che cantano canzoni cerimoniali, dicono «cerimonia sacra» o «chiacchiericcio di neri». Ma capire ciò che stanno facendo introduce ad una zona di comprensione e di analisi del tutto nuova. Per esempio, molte persone sanno con che cosa ha a che fare la meditazione trascendentale, o le posizioni dello yoga, o capiscono qualcosa del processo per cui una persona si inginocchia, congiunge le mani e rivolge lo sguardo al cielo, dicendo, «Padre Nostro che sei nei cieli». Il punto di vista aborigeno ha a che fare con il continuum creativo:
Di notte quando mi siedo vicino al fuoco
lo Spirito del Grande Serpente divenuto stella
io canto canzoni d’amore alla sua Presenza
mentre gioca con le scintille sul mio fuoco.
Così, ciò che è visto come una porzione di un canto, un «chiacchiericcio» di neri, è un’esperienza profondamente sacra e spirituale. A tal punto che, se un uomo o una donna si avvicina senza essere stato invitato, può benissimo andare incontro ad una sentenza di morte, perché all’interno di quel cerchio di persone che cantano è presente l’Essenza del Grande Creatore.
(...) Molti critici della poesia aborigena mostrano qualche difficoltà nel trovare comparazioni e parallelismi con altra poesia. La loro solenne enunciazione sui percorsi estetici, di immagini, ritmici, metrici e metaforici, sulla lucidità, fluidità, gergalità, polemica, musicalità e fenomenologia presente nella poesia aborigena, è comunque un’assicurazione per noi che il dibattito continuerà ancora per molto.
I poeti aborigeni condividono qualcosa di universale con tutti gli altri poeti, anche se differiscono da questi per le loro esperienze materiali e traumatiche, ma specialmente con quelli che hanno vissuto nei ghetti, rifiutando le imposizioni, costrizioni e regolamentazioni sociali.
I poeti aborigeni hanno sofferto la fame in una vita vissuta sotto lastre di vecchia lamiera raccolte dalle discariche dei bianchi; nell’estrema povertà dei ghetti, o in prigione. Per esempio, un poeta sudafricano bianco è facilmente identificabile con il suo equivalente inglese, olandese o americano, specialmente quando ognuno di essi segue sontuosamente la moda della «new poetry» imitandone scimmiescamente lo stile, cosa che fu prevalente nell’Australia degli anni Settanta. I poeti aborigeni, dall’altro lato, possono essere identificati come i poeti liberi dei paesi decolonizzati più recentemente e come un nuovo fenomeno sulla scena australiana, che richiedono una nuova visione della vita attorno a noi, una nuova relazione con la sacralità, la spiritualità e la Presenza che vive nella terra e in ogni forma di vita nell’universo.

Repubblica 19.5.14
Vi spiego perché Ovidio è un gioco da ragazzi
Il volume con la traduzione commentata delle “Metamorfosi”
Nell’estratto che qui pubblichiamo la rilettura in chiave giovanile del mito di Narciso
di Vittorio Sermonti



Guardiamoci negli occhi, amico mio: il problema non è perché mai io abbia tradotto le Metamorfosi di Ovidio, e le abbia tradotte proprio così. Ma il problema vero francamente mi sembra un altro: perché mai tu dovresti leggerle, queste Metamorfosi di Ovidio? Potrei dire: leggitele, e poi mi rispondi! Ma se tu mi chiedessi - richiesta più che ragionevole, data anche la stazza del volume - chi te lo fa fare, suggerirti una risposta su due piedi non sarebbe la cosa più semplice del mondo. [...]
Eallora? Allora mi prenderò il lusso di semplificare: le Metamorfosi sono un libro sull’adolescenza, un dizionario mitologico dell’adolescenza che canta il corpo dell’uomo in mutazione incarnandolo in figure letterarie. Vuoi che semplifichi ancora di più esemplificando? Prendi il famoso Narciso. Chi è, che cos’è “Narciso”? È, come saprai anche tu, il nome di un ragazzo bellissimo, figlio di un fiume e di una ninfa, che specchiandosi nell’acqua d’un laghetto si innamora della propria immagine; ma è anche quella categoria clinica, che consiste appunto in un esclusivo, maledetto amore di sé (mai sentito parlare di narcisismo? mai praticato?); ma è anche un fiore color zafferano con i petali bianchi. La metamorfosi si compie all’interno di un nome. Un ragazzo diventa una sindrome che diventa un fiore, restando disperatamente l’io che era. Innamorato, spaventato di sé.
Le Metamorfosi di Ovidio sono proprio il poema dell’adolescenza come esperienza della labilità e vulnerabilità dell’identità, mentre il tuo corpo non fa che cambiare, che cambiare te stesso sotto i tuoi stessi occhi. E tu non sai più chi sei. Vorresti amarti di più, ma non sai chi dovrebbe amare e chi vorrebbe essere amato. E senti il tremore della «inespugnabile solitudine» che punisce ogni bellezza, che ogni bellezza si merita. Ma l’illusione non demorde: il ragazzo Narciso sa bene di essere lui l’oggetto del proprio amore, e ne muore lo stesso; va nell’Ade e continua a specchiarsi nell’acqua del fiume Stige. L’illusione si illude.
Assumere però il bel Narciso a prototipo dell’eroe in mutazione è un arbitrio come un altro. Perché nel nostro libro le mutazioni ininterrottamente si accavallano ricorrendo il più delle volte a qualche inattendibile pretesto: una omonimia, un doppio innamoramento simultaneo, una coincidenza topografica... ed ecco sgranarsi un incredibile assortimento di storie, scandite da scarti di timbro, aritmie, modulazioni, tracciate talora da un’ironia micidiale, sull’orlo talora del gossip, dove dèi bugiardi ed erotomani ed eroi o eroine spesso assai discutibili ragionano le loro pulsioni cieche con cavillosità avvocatesca; dove però ad ogni passo può spalancarsi il crepaccio della tragedia o, comunque, una smorfia del racconto che assecondi il nostro bisogno segreto di mostri...
Ma ripensando l’impressione che mi fa la baraonda di queste favole a ripensarle tutte in una volta, vedo semmai il disordine che instaura un bambino quando, in una stanza dove ne ha fatte di tutti i colori, tenta di ripristinare l’ordine senza ricordarsi bene dove erano gli oggetti, né perché fossero lì: ordine mirato a realizzare puntigliosamente un “effetto ordine”, che rappresenta insieme la perfezione e la parodia di ogni perfezione. Come “effetto” passi, ma non scherziamo!
Alla resa dei conti, sia ben chiaro, tutta la strepitosa messinscena delle Metamorfosi di Ovidio non ha nulla di puerile, e tanto meno di adolescenziale. Anzi, è governata da un geniale uomo di mondo, che naturalmente non crede a quello che racconta (additandoli come responsabili di tutto quello che capita in cielo in terra e in mare, egli non manca di precisare che i suoi dèi è molto probabile non esistano affatto), ma gli piace far finta che tu ci creda (sapendo naturalmente che non ci credi neanche tu), e così con la leggerezza, con l’irresponsabilità di un canto spiegato, facendo onore al delicato nonsenso di essere sempre quelli stessi che siamo diventando continuamente altri, ci fornisce una scheggia di verità sottratta alla opacità del reale, alla pedanteria della verisimiglianza: cioè la famosa, inutile, insostituibile poesia. Finché, d’accordo, non arriva la Vecchia Falciatrice (che in un modo o nell’altro arriva comunque) a renderci definitivamente il ricordo animale, vegetale, minerale di noi stessi. E quella di diventare un ricordo concreto di sé, almeno fin tanto che goccioleremo resina o mirra nella memoria di qualchedun altro, non è detto sia la più lugubre delle metamorfosi.
Coraggio, amico mio, chiunque tu sia, qualunque età ti succeda di avere! Prova! e se cominci, c’è anche caso che il compito obsoleto della lettura si trasformi, annaspando in questo assurdo capolavoro, in un vizio ostinato e sottile per il te sconosciuto che sei. E se è troppo sperare che il poema dell’adolescenza interessi anche qualche adolescente, io spero lo stesso.

Repubblica 19.5.14
L’inedito
I rimpianti di Freud “Che sciocchezze i miei primi scritti”
All’asta da Christie’s una lettera in cui il padre della psicoanalisi si pente degli errori giovanili
di Gabriele Pantucci



UNA lettera finora sconosciuta di Sigmund Freud, in cui il padre della psicoanalisi esprime forti dubbi sui suoi studi giovanili, andrà all’asta da Christie’s a Londra il 21 maggio.
Un documento che suscita grande interesse in John Forrester, che si dice convinto della sua importanza per gli studi freudiani. Forrester, ora direttore del Dipartimento di storia e filosofia della scienza dell’università di Cambridge e con un passato profondo di studi psicoanalitici che ne fanno un’autorità in materia, si è consultato immediatamente con la collega Katja Guenther di Princeton, e insieme hanno condiviso l’entusiasmo per queste due pagine olografe. Freud risponde a un saggio di Brun, già suo discepolo e poi autorevole rappresentante della psicoanalisi in Svizzera. Un’opera che loda con enfasi i lavori iniziali di Freud: ma il vecchio maestro lo mette in guardia. Il valore
di quei lavori è «scarso» e «in alcuni casi nullo». Forrester ci fa notare che sono termini sconosciuti in Freud, e inedito è anche il tono della lettera. A conferma ci offre un lungo brano da Selbstdarstellung (Uno studio autobiografico ) che Freud scrisse nel 1925. Non c’è umiltà: piuttosto un legittimo compiacimento nel riferire il progresso della sua carriera sin dal 1876.
Anche il professor Brett Kahr, freudiano e responsabile del Freud Museum (la casa in cui il padre della psicoanalisi visse a Londra) ha dimostrato interesse per questa lettera. E fa notare che fu scritta in un momento di grande abbattimento e depressione. Dovuti al carcinoma alla mandibola, con la necessità di ulteriori interventi chirurgici; e alla dissoluzione del movimento psicoanalitico in Germania, nel crescente infuriare del nazismo: due anni più tardi lui stesso sarebbe dovuto emigrare nella capitale britannica, dove morì nel 1939.
Fatti inoppugnabili. Ma è pure inoppugnabile che Freud mantiene un’essenza di humour quando fa un gioco di parole con l’aggettivo läppisch (sciocchino) e gli organi delle anguille sulle quali aveva trascorso quattro settimane sezionandole a Trieste nel laboratorio del suo Professore di Zoologia, Carl Claus, alla ricerca dei loro organi di riproduzione maschili. Ma molto significativo nel profilo del maestro della psicoanalisi è anche l’avvertimento a Brun - persona di cui si fida - di non divulgare questa autocondanna del suo lavoro iniziale.

Repubblica 19.5.14
Quanta superficialità in quei testi non avrei mai dovuto pubblicarli
di Sigmund Freud



A RUDOLF BRUN, 18 marzo 1936
Stimatissimo collega
Lei ha la cortesia di voler curare i miei scritti di medicina, cosa di cui la ringrazio molto, anche se mi spaventa l’importanza che lei sembra attribuire a questi lavori.
So bene infatti che in buona parte il loro valore è scarso, e in alcuni casi nullo. Vorrei segnalarle espressamente questi ultimi, pregandola ovviamente di non dare eccessiva pubblicità al mio giudizio di condanna. Un esempio è quello del testo n° 2 sugli organi a lobi dell’anguilla, che posso solo definire futile. C’è da scusarmi: avevo vent’anni e il mio professore, lo zoologo Claus, è stato tanto incosciente da non controllare con sufficiente attenzione questo mio primo lavoro. Altrettanto scadente è uno scritto di alcuni anni dopo (1882) sugli elementi nervosi dei gamberi di fiume. Nansen, divenuto poi una celebrità, lo ha contestato, e da allora - con ragione - non se ne è più parlato. Il testo n° 8 sul nuovo metodo per lo studio dello sviluppo fibroso ecc. era un buon lavoro, rivelatosi però in seguito del tutto inattendibile, tanto che ho deciso di accantonarlo. Anche alcuni studi successivi (12 e 19) non avrebbero mai dovuto essere pubblicati. I testi sull’anatomia del cervello (13, 16 e 17) non sono elaborati con la cura che si impone in questo campo. Rigoroso come sono poi diventato, mi sono spesso meravigliato della mia iniziale superficialità. Per questi peccati di gioventù ho bisogno di molta indulgenza. D’altra parte, vari testi della raccolta testimoniano di un lavoro onesto e tenace. I numeri 22 - 25 sulle poliomieliti sono stati pubblicati nei « Beiträge zur Kinderheilkunde » («Contributi di pediatria») del I° Istituto pediatrico pubblico di Vienna, a cura del dr. Max Kassowitz, Ed. M. Perles, Vienna. Le tesi di laurea allora non usavano, quanto meno, credo, non per i laureandi in medicina - e neppure oggi.
Oltre tutto, ho anche la sensazione di dover chiedere scusa.
Suo devotissimo, Freud
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Repubblica 19.5.14
Cervello, Cnr: ciò che vediamo influenzato da visioni precedenti. E' il cervello a fare la media
Lo studio pubblicato su 'Pnas' rivela un meccanismo percettivo secondo cui il presente di cui siamo coscienti è a tutti gli effetti una mediazione di ciò che abbiamo esperito negli ultimi quindici secondi circa. "Senza questa integrazione degli stimoli nel tempo, saremmo ipersensibili alle fluttuazioni visive innescate da ombre, dal movimento e da una miriade di altri fattori"

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Corriere 19.5.14
I Moloch della materia
di Sandro Modeo

Con I buchi neri di Alessandro Marconi (Il Mulino), I motori della gravità dell’astrobiologo Caleb Scharf (traduzione di M. Gaffo, Codice, pp. 260, e 18,90) è il libro più aggiornato e avvincente sull’argomento. A lungo inquadrati, per la loro immane gravità, solo come Moloch bulimici della materia circostante (o come «interzone» spalancate su mondi paralleli), i buchi neri appaiono oggi — in simbiosi coi «nuclei attivi», ad esempio i quasar — come i co-protagonisti nella genesi e nello sviluppo delle galassie. Se di distruzione si tratta, è una distruzione creatrice: convertendo la materia in energia — bilanciando con la loro forza attrattiva quella repulsiva delle radiazioni — quegli strani oggetti (quelle strane regioni dello spazio-tempo) sono decisivi nel processo «feroce e doloroso» che aggrega e stabilizza le strutture cosmiche; e le «impronte» della loro attività (specie dei più grandi, con masse fino a miliardi di quella solare) tracciano così la storia nascosta e le dinamiche sottostanti all’apparente immutabilità del firmamento.

L'Huffington Post 18.5.14
Romano Prodi, ricetta anti crisi: "Trivelliamo, c'è un mare di petrolio sotto l'Italia"

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Repubblica 19.5.14
Il matrimonio è un diritto anche per i preti
Abolire il celibato per il bene della chiesa
di Vito Mancuso


CHISSÀ come risponderà il Papa alla lettera indirizzatagli da 26 donne che (così si sono presentate) «stanno vivendo, hanno vissuto o vorrebbero vivere una relazione d’amore con un sacerdote di cui sono innamorate». Ignorarla non è da lui, telefonare a ogni singola firmataria è troppo macchinoso, penso non abbia altra strada che stendere a sua volta uno scritto. Avremo così la
prima epistula de coelibato presbyterorum indirizzata da un Papa a figure che fino a poco fa nella Chiesa venivano chiamate, senza molti eufemismi, concubine.
Dai frammenti della lettera riportati sulla stampa risulta che le autrici hanno voluto presentare la «devastante sofferenza a cui è soggetta una donna che vive con un prete la forte esperienza dell’innamoramento ». Il loro obiettivo, scrivono al Papa, è stato «porre con umiltà ai tuoi piedi la nostra sofferenza affinché qualcosa possa cambiare non solo per noi, ma per il bene di tutta la Chiesa». Ecco la posta in gioco, il bene della Chiesa. L’attuale legge ecclesiastica che lega obbligatoriamente il sacerdozio al celibato favorisce il bene della Chiesa? Guardando ai due millenni del cattolicesimo, ritroviamo che nel primo il celibato dei preti non era obbligatorio («fino al 1100 c’era chi lo sceglieva e chi no», così scriveva il cardinale Bergoglio).
MENTRE lo divenne nel secondo in base a due motivi: 1) la progressiva valutazione negativa della sessualità, il cui esercizio era ritenuto indegno per i ministri del sacro; 2) la possibilità per le gerarchie di controllare meglio uomini privi di famiglia e di conseguenti complicate questioni ereditarie. Così il prete cattolico del secondo millennio divenne sempre più simile al monaco.
Si tratta però di due identità del tutto diverse. Un conto è il monaco il cui voto di castità è costitutivo del codice genetico perché vuole vivere solo a solo con Dio (come dice già il termine monaco, dal greco mònos, solo, solitario); un conto è il ministro della Chiesa che determina la sua vita nel servizio alla comunità. Il prete (diminutivo di presbitero, cioè “più anziano”) esiste in funzione della comunità, di cui è chiamato a essere “il più anziano”, cioè colui che la guida in quanto dotato di maggiore saggezza ed esperienza di vita. Ora la questione è: la celibatizzazione forzata favorisce tale saggezza e tale esperienza? Quando i preti celibi parlano della famiglia, del sesso, dei figli e di tutti gli altri problemi della vita affettiva, di quale esperienza dispongono? Rispondo in base alla mia esperienza: alcuni sacerdoti dispongono di moltissima esperienza, perché il celibato consente loro la conoscenza di molte famiglie, altri di pochissima o nulla, perché il celibato li fa chiudere alle relazioni in una vita solitaria e fredda. Ne viene che il celibato ha valore positivo per alcuni, negativo per altri, e quindi deve essere lasciato, come nel primo millennio, alla libera scelta della coscienza.
Vi è poi da sottolineare che la qualità della vita spirituale non per tutti dipende dall’astinenza sessuale e meno che mai dall’essere privo di famiglia, basti pensare che quasi tutti gli apostoli erano sposati e che il Nuovo Testamento prevede esplicitamente il matrimonio dei presbiteri (cf. Tito 1,6). Se poi guardiamo alla nostra epoca, vediamo che veri e propri giganti della fede come Pavel Florenskij, Sergej Bulgakov, Karl Barth, Paul Tillich erano sposati. Se i nazisti non l’avessero impiccato, anche Dietrich Bonhoeffer si sarebbe sposato, ed Etty Hillesum, una delle più radiose figure della mistica femminile contemporanea, ebbe una vita sessuale molto intensa. Anche Raimon Panikkar, sacerdote cattolico, tra i più grandi teologi del ‘900, si sposò civilmente senza che mai la Chiesa gli abbia tolto la funzione sacerdotale.
“Non è bene che l’uomo sia solo”, dichiara Genesi 2,18. Gesù però parla di “eunuchi che si sono resi tali per il regno dei cieli” ( Matteo 19,12). La bimillenaria esperienza della Chiesa cattolica si è svolta tra queste due affermazioni bibliche, privilegiando per i preti ora l’una ora l’altra. Penso però che nessuno possa sostenere che il primo millennio cristiano privo di celibato obbligatorio sia stato inferiore rispetto al secondo. Oggi, a terzo millennio iniziato, penso sia giunto il momento di integrare le esperienze dei due millenni precedenti e di far sì che quei preti che vivono storie d’amore clandestine (che sono molto più di 26) possano avere la possibilità di uscire alla luce del sole continuando a servire le comunità ecclesiali a cui hanno legato la vita. La loro “anzianità” non ne potrà che trarre beneficio. Vi sono poi le molte migliaia di preti che hanno lasciato il ministero per amore di una donna (ma che rimangono preti per tutta la vita, perché il sacramento è indelebile) e che potrebbero tornare a dedicare la vita alla missione presbiterale, segnati da tanta, sofferta, anzianità.

Corriere 19.5.14
Il nuovo libro dell’autore di “1Q84” in patria ha venduto un milione di copie in otto giorni
Murakami e l’amore reciso degli amici Un mistero tortura l’«Incolore Tazaki»: perché hanno deciso di rompere con lui?
di Matteo Persivale


Se la letteratura fosse come la boxe — un’idea di Norman Mailer — allora Haruki Murakami avrebbe il dono più prezioso: la capacità di sferrare un colpo da ko quando l’avversario meno se lo aspetta. Aveva lasciato a bocca aperta i suoi lettori, Murakami, con la grande trilogia uscita appena tre anni fa, 1Q84 (Einaudi), un libro lunghissimo ambientato sul «lato oscuro della luna» come aveva detto lui, innamorato della musica, con bella citazione dei Pink Floyd.
Ecco ora un altro colpo da ko, un romanzo che più diverso da 1Q84 non potrebbe essere: L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio (traduzione di Antonietta Pastore, Einaudi, 272 pagine, e 20, domani in libreria), un milione di copie vendute nei primi otto giorni in Giappone con la «febbre Murakami» a travolgere il Paese, interi scompartimenti di metropolitana dove tutti i passeggeri in contemporanea leggono lo stesso libro. Quella di Tsukuru è la piccola storia di un uomo profondamente infelice che — una novità nel corpus di Murakami — cerca di superare il proprio isolamento attraverso l’empatia, una novella cecoviana sostenuta sulla distanza di un romanzo: un mondo lontanissimo da 1Q84 ma altrettanto sorprendente. Il mondo di Tsukuru è tanto vasto che la distanza tra cinque amici dei tempi del liceo che si sono persi di vista non è più colmabile — né da una ricerca su Google o sui social network né da un viaggio intrapreso per rispondere una semplice domanda: perché?
Perché, si chiede Tsukuru, i suoi quattro migliori amici — due ragazzi e due ragazze — hanno deciso, quasi vent’anni prima, di non avere più nulla a che fare con lui?
La vita dell’incolore Tsukuru non è più stata la stessa, e il suo viaggio alla ricerca della spiegazione di quella scelta lontana diventa un viaggio al centro della sua solitudine.
È un romanzo diversissimo dal precedente, più intimo e infinitamente più triste, ma allo stesso tempo ha il marchio speciale di Murakami: i sogni (anche quelli erotici) che si confondono con la realtà, gli gnomi cattivi, il metrò di Tokyo, un dialogo fatto di parole non dette in riva a un lago in Finlandia dall’altra parte dell’universo rispetto alla stazione di Shinjuku che affascina tanto Tsukuru, il ragazzo che guardava passare i treni. E, come sempre in Murakami, c’è la musica: Janácek in 1Q84 , ora c’è Liszt; la nostalgia di Le mal du Pays , colonna sonora e cuore di un romanzo fatto di musica e silenzi, che non poteva che chiudersi con il suono del vento fra le betulle di un bosco.

Corriere 19.5.14
Avere vent’anni a Tokyo senza sentirsi all’altezza della vita
di Haruki Murakami


D al mese di luglio del suo secondo anno di università fino al gennaio seguente, Tazaki Tsukuru aveva vissuto con un solo pensiero in testa: morire. Nel frattempo aveva compiuto vent’anni, ma raggiungere la pietra miliare della maggiore età non era stato per lui un evento particolarmente significativo. Metter fine ai suoi giorni gli sembrava la cosa più naturale e coerente. Per quale motivo, però, non avesse fatto quell’ultimo passo, ancora oggi non riusciva a capirlo. E dire che in quel periodo attraversare la soglia che separa la vita dalla morte sarebbe stato più facile che bere un uovo dal guscio!
Se Tsukuru non aveva mai veramente cercato di suicidarsi, era forse perché la sua idea della morte era così pura, così intensa, che nella sua mente non vi aveva mai associato un’immagine concreta che ne fosse all’altezza. Il problema della messa in pratica era secondario: se a un certo punto avesse visto nei paraggi una porta che conduceva alla morte, probabilmente non avrebbe esitato ad aprirla. Girare la maniglia, per lui, sarebbe stato un gesto come un altro, qualcosa su cui non c’era da riflettere più di tanto. Tuttavia, per fortuna o per sfortuna, davanti a sé quella porta non la vide mai.
Spesso Tazaki Tsukuru si ripeteva che sarebbe stato molto meglio morire allora, evitando così di esistere nel presente. Era un pensiero allettante, perché in tal caso tutto ciò che ora considerava realtà, avrebbe smesso di essere reale. E come lui non sarebbe più esistito per il mondo, il mondo non sarebbe più esistito per lui.
Eppure, ancora oggi, Tsukuru non riusciva a capire quale fosse la ragione che all’epoca l’aveva portato a un passo dalla morte. Certo, una ragione concreta c’era, ma non gli sembrava sufficiente per spiegare il desiderio di annientamento che l’aveva accerchiato per sei mesi con tanta forza. Accerchiato… sì, era l’espressione giusta. Come Giona che viene inghiottito da una balena e continua a vivere nella sua pancia, Tsukuru era caduto nel ventre della morte e aveva passato giorni senza data nel buio stagnante di quell’antro.
In quel periodo aveva vissuto come un sonnambulo, o come uno che non si è ancora reso conto di essere morto. Si svegliava all’alba, si lavava i denti, indossava i primi vestiti che trovava, saliva sul treno che lo portava all’università, prendeva appunti durante le lezioni. Procedeva nelle sue giornate attenendosi alle abitudini di sempre, per lo stesso impulso che spinge una persona investita da una raffica di vento ad aggrapparsi a un lampione. Non parlava con nessuno a meno che non fosse indispensabile e, quando tornava nell’appartamento dove viveva da solo, si sedeva sul pavimento con la schiena contro la parete e si abbandonava al pensiero della morte. O meglio: dell’annullarsi. In quei momenti, davanti a lui, si spalancava una voragine nera che arrivava dritta fino al centro della terra. Un abisso dove si vedeva soltanto turbinare il nulla sotto forma di una solida nube, e si udiva nient’altro che un silenzio così profondo da opprimere i timpani.
Quando non pensava alla morte, Tsukuru non pensava a niente. Cosa che gli riusciva con una certa facilità: non leggeva giornali, non ascoltava musica, non provava nessun desiderio sessuale. Quel che accadeva nel mondo non aveva per lui il minimo significato. Se si stancava di starsene chiuso nella sua stanza, usciva e gironzolava un po’ nel quartiere senza una meta precisa.
Oppure andava alla stazione, si sedeva su una panchina e guardava arrivare e partire i treni, per ore.
Ogni mattina si faceva la doccia e si lavava i capelli e i denti, e due volte alla settimana faceva il bucato. La pulizia era uno dei pilastri a cui si aggrappava. Il bucato, la doccia, i denti. Al cibo invece non prestava quasi attenzione. A pranzo mangiava alla mensa dell’università e praticamente era il suo unico vero pasto. Se poi gli veniva fame andava al supermercato del quartiere e tornava a casa con qualche mela e un po’ di verdura, oppure del pane in cassetta che mangiava senza scaldarlo, o del latte che beveva dal cartone. Quando era l’ora di dormire buttava giù un bicchierino di whisky, come se fosse un sonnifero. Per sua fortuna non reggeva bene l’alcol e due dita di whisky erano sufficienti per spedirlo nel mondo dei sogni. In quei giorni, però, di sogni non ne faceva. E anche se ne avesse abbozzato uno, il suo ricordo, arrivato alla soglia della consapevolezza, sprofondava giù verso il territorio del nulla, lungo il piano inclinato, scivoloso e senza appigli della coscienza.
***
La ragione che aveva scatenato in Tazaki Tsukuru quella forte attrazione per la morte era chiarissima: i quattro ragazzi che per molto tempo erano stati i suoi amici più intimi un giorno gli avevano annunciato che non volevano più vederlo né sentirlo. Di punto in bianco, senza lasciare spazio a discussioni o proteste. E senza dare la minima spiegazione su cosa li spingesse a dirgli una cosa tanto crudele. Né, del resto, lui aveva osato chiederlo.
Erano amici dai tempi del liceo, ma Tsukuru aveva lasciato la sua città natale per frequentare l’università a Tokyo: per cui l’essere scacciato dal gruppo non aveva avuto grandi conseguenze sulla sua vita quotidiana, e non c’era il rischio che li incontrasse per caso. Questo almeno in teoria. Perché invece era proprio l’enorme distanza dai suoi amici a causargli un dolore tanto acuto. L’isolamento e la solitudine erano diventati un cavo lungo centinaia di chilometri teso fino allo spasmo da giganteschi argani. E attraverso quel cavo gli arrivava, giorno e notte, un messaggio misterioso. Un rumore indecifrabile che, come un vento violento che attraversa un bosco, variava di intensità, giungendo, a volte, a trapanargli le orecchie.

Corriere 19.5.14
Levi, se questo è un viaggio
Da Auschwitz all’Italia, attraverso il continente disfatto
La lunga «Tregua» per scoprire che «la guerra è sempre»
di Liliana Picciotto


Quando Primo Levi dice al suo nuovo improbabile compagno di viaggio, il greco di Salonicco Mordo Nahum, «Ma la guerra è finita», l’altro gli risponde, memorabilmente: «Guerra è sempre». «La guerre n’est pas finie », gli ripeterà poco dopo a Katowice un avvocato polacco, che gli si era fatto incontro, con il suo francese e il suo cappello di feltro, in mezzo ad un capannello di operai del luogo, formatosi incuriosito intorno all’ex deportato liberato. Primo gli parlò vertiginosamente di quello che gli era successo, della sua vita ad Auschwitz, così vicino alla città di Katowice, ma apparentemente a tutti sconosciuto. Levi, che non sapeva il polacco, capì ugualmente che l’uomo lo descriveva al pubblico non come ebreo italiano, ma come prigioniero politico italiano. Quando gliene chiese conto, stupito e quasi offeso, quello gli rispose imbarazzato, appunto: «La guerre n’est pas finie ».
Capiamo, allora, che cosa Primo ha voluto dire con quel titolo La tregua messo al suo magistrale libro, scritto tra il dicembre del 1961 e il novembre del 1962. Un libro che cattura l’attenzione, da cui una volta iniziato, è difficile staccarsi. Levi racconta il suo viaggio di ritorno in Italia dopo la prigionia alla Buna, inizialmente convinto di intraprendere un viaggio soteriologico, dove lasciarsi indietro la fine delle brutture della guerra e recuperare il sentore di essere uomo, di sentirsi vivo e uguale agli altri. Lungo il viaggio invece si accorge che quella che sta sperimentando è soltanto una tregua: tregua dalla sofferenza, dalla rovina, dallo stravolgimento di ogni senso, dal male ricevuto e inferto. Durante questo percorso, egli mette in gioco un’intera visione della vita.
Non rileggevo questo libro da 50 anni, da quando me lo dettero da studiare in terza media. Errore fatale dei miei insegnanti. Non ne potevo cogliere allora la potenza visionaria. Durante il suo viaggio, Primo ci parla di ogni cosa che riguarda l’uomo: la fame incontrollata (in buona parte psicologica), l’energica coscienza morale dei combattenti politici, il senso ancestrale dell’esilio del suo popolo ebraico, il bisogno, così primordiale, dei contatti umani, la speranza di un mondo diritto e giusto, la gioia di vivere che Auschwitz aveva spenta, la pazienza virile che ha sostenuto fino alla fine i sopravvissuti, «la dignità di chi lavora e sa perché, di chi combatte e sa di avere ragione».
Il suo viaggio è popolato da decine di persone che egli fa diventare personaggi per parlare delle debolezze e delle virtù dell’uomo, così scoperte come possono diventare nei momenti di emergenza e incertezza, quando corre l’obbligo di trovare espedienti per poter dormire, mangiare, viaggiare in una Europa devastata. Primo e i suoi compagni devono affrontare decine di insormontabili problemi: dal migliaio e mezzo di chilometri da percorrere senza soldi alla mancanza di una lingua comprensibile, dalle molte frontiere da attraversare senza documenti al freddo intenso provato sui mezzi di locomozione di fortuna. Sono sostenuti solo dal sogno di poter recuperare una dimensione umana in cui riposarsi dall’insensato sradicamento subito.
Levi incontra, nei nove mesi che lo separano dal rimpatrio, un mondo ramingo e variopinto fatto di ex militari dell’Armir, ex deportati ad Auschwitz, ex lavoratori della Todt, rei comuni, prostitute, soldati russi in disarmo. È un romanzo a suo modo epico che può essere a giusto titolo avvicinato all’Armata a cavallo di Isaak Babel, del 1926. Non mancano frangenti che sfiorano il comico come quando una guardia russa, senza tante storie, mette in mano a Levi, che sta a malapena in piedi dopo la scarlattina, una pala e gli ordina di spalare la neve. Lui ha un attimo di incertezza, non è in grado di affrontare quella fatica, se riesce a girare l’angolo nessuno lo vedrebbe e potrebbe andarsene tranquillo, ma come sbarazzarsi della pala? Venderla? Nasconderla? Portarsela dietro? Alla fine, la lascia cadere nella finestrella di una cantina e si ritrova libero.
Un’altra volta, in società con il greco Mordo, si ritrova al mercato di Cracovia a vendere una camicia, procurata chissà come nel lager. Il suo contributo consiste nel mettere in mostra e decantare la merce in un polacco stentato: «Camicia, signori, camicia». Un’altra volta, nella piazza del mercato di Katowice, si mette a vendere assieme al suo amico del lager, Cesare, una camicia bucata. La situazione è paradossale, Cesare è un ambulante del ghetto di Roma, non sa nessuna lingua, si mette a gesticolare e sventolare la merce tenendola per il colletto dove è il buco, ne proclama le doti con eloquenza torrenziale, con inserti e divagazioni insulse, apostrofando il pubblico con osceni nomignoli romaneschi. Dopo finita la contrattazione e venduta la merce ad un panzone, Primo e Cesare se la diedero a gambe (fecero resciudde , così si dice in giudeoromanesco).
Un’altra volta, con l’inseparabile compagno, entra in uno sperduto villaggio russo per barattare sei piatti, trascinati per chilometri in un sacco, con una gallina. Seguono scene esilaranti in cui Cesare cerca di farsi capire dai perplessi contadini mimando coccodè (suono per nulla universale che circola esclusivamente in Italia) e facendo mosse di covare un uovo. I contadini li prendono per matti, stanno minacciosamente per mandarli via quando a Primo viene in mente di disegnare per terra la sagoma di una gallina da cui esce un uovo. L’impresa è così felicemente conclusa.
Levi, per tornare nella sua Torino, percorre mezza Europa: dalla Polonia alla Russia, dalla Romania all’Ungheria, dalla Cecoslovacchia all’Austria, dalla Germania di nuovo all’Austria e finalmente, all’Italia. Nel viaggio, a piedi, su carretti o su tradotte militari, attraversa steppe deserte, foreste, piane grandiose, villaggi bui e sperduti, città semidistrutte, fiumi lenti e maestosi, stagni e paludi, cittadine diroccate. Dovunque, bivaccano migliaia di displaced persons in transito o in cerca di un rimpatrio, appartenenti a tutte le nazioni d’Europa. Incontra greci, francesi, italiani, iugoslavi, belgi, russi, polacchi, ungheresi, slovacchi, donne ucraine andate volontarie in Germania e rimpatriate in Russia tra il disprezzo generale.
È il contrario dell’Europa dei popoli come la pensiamo noi oggi. È solo una collettività disgregata, descritta magnificamente da un grande umanista, con piglio ora indulgente, ora ammirato, ora divertito, sempre vigile e attento, non sopraffatto dalla rabbia. Mai sguardo più lucido fu posato sull’Europa disfatta, disgregata, oltraggiata e ci viene in mente che mai come leggendo La tregua la necessità di una Europa dai valori condivisi appare più attuale.

Corriere 19.5.14
Il «giorno dopo», dalla parte dei sopravvissuti
di I.Bo.


Con il romanzo La tregua di Primo Levi (1919-1987) prefato da Frediano Sessi, oggi in edicola, prosegue la collana del «Corriere della Sera» curata da Paolo Di Stefano e dedicata ai «Romanzi d’Europa», con prefazioni inedite di scrittori e studiosi, dedicata ad alcuni dei romanzi fondamentali che hanno raccontato le radici della cultura europea (prezzo € 9,90 più il costo del quotidiano). Proprio il testo di Levi racconta la pagina nera del Novecento, il crimine dello sterminio nei lager, insomma il «giorno dopo»: mostra il risollevarsi dei perseguitati, ebrei, prigionieri politici, antifascisti, e il loro ritorno a casa, chiusi dentro il trauma irrimediabile subìto e colti nel loro interrogarsi sulla possibilità di ricominciare a vivere. Si attraversa il Continente distrutto dalla guerra, si entra nelle stazioni affollate, nei treni stracolmi e nelle città popolate di sopravvissuti ma anche di nemici o ex nemici. In un altro luogo attraversato dalla guerra, l’ex Jugoslavia, è ambientato il romanzo che sarà in edicola la prossima settimana, il 26 maggio, per la stessa collana, Il ponte sulla Drina di Ivo Andric (con la prefazione inedita di Giorgio Montefoschi): attraverso la storia di un ponte monumentale sul fiume Drina si racconta la vicenda dell’Est del Continente, crocevia certo non solo geografico tra cultura cristiana, musulmana, bosniaca e serba.

il manifesto 16.5.14
Il sistema diabolico del totalitarismo
«I filosofi di Hitler» di Yvonne Sherratt, per Bollati Boringhieri
La studiosa «dice» solo l’adesione al nazismo di pensatori come Heidegger o Schmitt, niente sulle loro idee
di Marco Pacioni


«È giu­sto inse­gnare nozioni di fisio­lo­gia in grado di sal­vare vite umane, ma basate sulle cono­scenze acqui­site mediante gli espe­ri­menti con­dotti sugli ebrei durante il Terzo Reich?». Que­sto il punto da cui parte il libro di Yvonne Sher­ratt, I filo­sofi di Hitler (trad. it. di Fran­ce­sca Pe’, Bol­lati Borin­ghieri, pp. 336, euro 19.00). La stu­diosa si chiede se sia legit­timo fare la stessa cosa con le idee di filo­sofi come Hei­deg­ger, Sch­mitt, Frege che hanno ade­rito al nazi­smo o espresso con­di­vi­sione per certi aspetti della poli­tica di Hitler. Per rispon­dere a que­sta domanda, prende in con­si­de­ra­zione le loro bio­gra­fie. Quasi nulla invece si dice su ciò che que­sti filo­sofi hanno scritto. Poco o niente sul rischioso e più dif­fi­cile eser­ci­zio di repe­rire nella loro opera con­cetti che misu­rino i legami con il nazismo.

Alle vite dei filo­sofi hitle­riani, gruppo assai ete­ro­ge­neo e spesso in conflitto(oltre a Hei­deg­ger, Sch­mitt, Frege e lo stesso Hitler, anche Rosem­berg, Bäum­ler, Krieck, Grun­sky, Grau, Wundt, Erich Rothac­ker, Faust, Schulze-Sölde, Georg Stie­ler, Heyse), Sher­ratt con­trap­pone quelle dei filo­sofi ebrei per­se­gui­tati dal nazi­smo. Ben­ja­min, Adorno, Hor­kei­mer, Mar­cuse che, oltre ad essere stati per­se­gui­tati, non avreb­bero nean­che goduto di una con­si­de­ra­zione com­pa­ra­bile a quella dei loro avver­sari dopo la fine di Hitler. E in par­ti­co­lare, una vera e pro­pria dam­na­tio memo­riae, secondo la stu­diosa, sarebbe quella toc­cata a Kurt Huber.

Il libro di Sher­ratt si sof­ferma su una serie di atti, ade­sioni, avalli al regime di Hitler. Ripete cose note per susci­tare ese­cra­zione con epi­teti a volte para­dos­sal­mente simili a quelli della pro­pa­ganda. Come se tutte le rifles­sioni dei filo­sofi che sono stati in qual­che modo amici del nazi­smo fos­sero già iscritte in un destino di deli­be­rata scelta dia­bo­lica, ragione per cui tutte le loro idee pos­sono essere col­lo­cate sol­tanto in un ambito non umano, come simil­mente alla non uma­nità si fa rife­ri­mento quando si uti­lizza l’Olocausto per sot­to­li­neare la mostruo­sità di qual­cosa o qual­cuno. Nel libro, i filo­sofi di Hitler diven­tano i per­so­naggi di un eser­ci­zio di scrit­tura del vitu­pe­rio. Ma ese­crare è, come mostra la parola stessa, un po’ anche sacralizzare.

Di Sch­mitt e Hei­deg­ger, oltre agli epi­sodi che hanno deter­mi­nato la loro scelta poli­tica nazi­sta, si citano quasi esclu­si­va­mente let­tere pri­vate e scritti legati alla pro­pa­ganda poli­tica e si liquida il resto delle loro opere, anche quelle scritte prima che del nazio­nal­so­cia­li­smo si comin­ciasse per­sino a par­lare. Con ciò non solo non si fa un’operazione cri­tica, ma para­dos­sal­mente si offre il fianco a chi nega a priori che ci possa essere un qual­siasi rap­porto di pen­siero tra le teo­rie di que­sti filo­sofi e il fatto poli­tico del nazi­smo al potere.

L’adesione al nazi­smo per Sher­ratt mostra tutto quello che c’è da vedere in que­sti filosofi. Ma per la stessa ragione, in un certo senso, quella ade­sione può essere usata per coprire e negare tutto. È un po’ come è avve­nuto per Adolf Eich­mann e altri nazi­sti che hanno negato di essere respon­sa­bili per aver agito in osser­vanza della legge, aver di fatto accet­tato la situa­zione che c’era, aver obbe­dito agli ordini. Appel­larsi a un giu­di­zio mera­mente lega­li­stico come fa Sher­ratt, spe­cial­mente in ambito filo­so­fico, può para­dos­sal­mente diven­tare un boo­me­rang. In que­sti casi, se l’obiettivo è anche giu­di­care il pen­siero oltre le per­sone che di que­sto sono respon­sa­bili, allora occorre pren­dere in esame anche le loro idee e le loro opere. Il giu­di­zio non può restrin­gersi sol­tanto alla pur impor­tante ade­sione o non ade­sione al nazismo.

Quello che Sher­ratt chiama «tono nar­ra­tivo» del suo stile si risolve di fre­quente in inser­zioni evo­ca­trici di scan­dalo, mistero, ambi­guità, come il passo seguente con il quale si vuole spie­gare il rap­porto fra Hei­deg­ger e i suoi allievi ebrei e in par­ti­co­lare Han­nah Arendt: «Hei­deg­ger eser­ci­tava un fascino ipno­tico sulle donne. Aveva il viso che pia­ceva in que­gli anni, una sorta di misto fra Leslie Howard e James Mason. In parte si trat­tava di un’attrazione sini­stra, come il magne­ti­smo ero­tico di un tiranno».

Forse il capi­tolo più emble­ma­tico del libro di Sher­ratt è pro­prio quello su Han­nah Arendt. Defi­nita sin dall’introduzione «ambi­gua» per­ché allieva e amante di Hei­deg­ger, Sher­ratt dimen­tica com­ple­ta­mente che pro­prio Arendt, e anche a causa della vici­nanza filo­so­fica a certi ele­menti del pen­siero di Hei­deg­ger, è una delle prime filo­sofe a riflet­tere e for­nire i mezzi per com­pren­dere il nazio­nal­so­cia­li­smo, la Shoah, il tota­li­ta­ri­smo. Oltre a Arendt, si potrebbe fare, ad esem­pio, anche il nome di Lévi­nas. Quanto di ciò che quest’ultimo uti­lizza per capire il nazi­smo e come cri­tica filo­so­fica a Hei­deg­ger è preso e svolto a par­tire da quest’ultimo? La stessa cosa si potrebbe dire di Ben­ja­min riguardo a Sch­mitt. Sher­ratt non con­tem­pla mai l’idea che il pen­siero di un filo­sofo possa essere anche rivolto con­tro chi lo ha con­ce­pito; o che lo stesso filo­sofo che lo ha gene­rato lo svi­luppi tra­den­dolo per motivi filo­so­fici o di altra natura.

Così Sher­ratt non solo non chia­ri­sce in che rap­porto stiano l’opera, la bio­gra­fia e il nazi­smo, ma rischia di non fare luce nem­meno su quanto di spe­ri­men­tato o argo­men­tato nel nazio­nal­so­cia­li­smo sotto men­tite spo­glie ci sia o ci possa essere ancora nelle nostre demo­cra­zie. Come se, pas­sata la sta­gione dia­bo­lica del nazi­smo, alcuni per non aver ade­rito hanno dato prova di essere pen­sa­tori mar­tiri; e altri, che invece hanno ade­rito, di essere mostri. Ed entrambi sono mar­tiri e mostri a pre­scin­dere da ciò che hanno scritto. Come se nelle demo­cra­zie moderne si fosse al riparo da quella sta­gione male­detta e l’unica pre­oc­cu­pa­zione fosse quella di tenere sotto teca, se non di distrug­gere, quelli che, con una ter­mi­no­lo­gia che ricorda quella bio­po­li­tica, Sher­ratt defi­ni­sce «germi della filo­so­fia di Hitler» e per impe­dire che que­sti «attec­chi­scano tra le nuove generazioni».