mercoledì 21 maggio 2014

l’Unità 21.5.14
Il caso Unità
Il dovere della chiarezza
di Luca Landò

L’’Unità sta vivendo uno dei suoi momenti più difficili da quando è tornata in edicola il 28 marzo 2001 dopo una chiusura durata otto lunghi mesi. Pochissimi, prima di quel giorno, credevano che il giornale fondato da Gramsci e travolto dai conti avrebbe ritrovato la voce. E invece quei pochi, pochissimi smentirono ogni previsione dimostrando che nessuno può permettersi di spegnere un giornale pieno di vita, di storia e di passione come l’Unità.
Quello che avete tra le mani è un giornale cocciuto e testardo. Perché solo i cocciuti e i testardi si ostinano a sfidare i numeri che non tornano, i finanziamenti che calano, la pubblicità che svanisce. I giornali, tutti i giornali, stanno vivendo una crisi profonda e grave.
Ma la crisi che riguarda l’Unità è ancora più grave e ancora più profonda. Perché un giornale politico e impegnato, un giornale dalla striscia rossa e dalle scelte di campo nette come le nostre ha una vita complicata. Lo sa bene la concessionaria quando, andando a proporre la nostra testata agli inserzionisti, si sente ripetere «ma l’Unità è un giornale politico...». Oh bella, e che sono gli altri? Opere di carità? Un giornale è politico per definizione, perché la vita è politica. La lettura, nel senso dell'interpretazione delle notizie e dei fatti è politica. A meno che non si voglia far finta di nulla e girare la testa dall'altra parte. Ma anche questa è politica.
Sì, l’Unità è un giornale politico, solo che non volta la testa dall’altra parte. Neanche adesso (in realtà è da tanto) che i numeri dicono che i conti non tornano, che le copie e la pubblicità non bastano, davvero non bastano più, a coprire i costi: costi di carta, costi stampa e distribuzione, i «costi» di chi ci lavora.
Da due mesi tutti i dipendenti dell’Unità (sia giornalisti che poligrafici) lavorano senza stipendio. Non è facile, in questo momento di crisi, ma lavorano lo stesso perché sanno bene che i lettori (e il Paese stesso) hanno bisogno di un giornale chiamato l’Unità, mentre ci sono altri, molti, che sarebbero davvero contenti se quella voce sparisse di nuovo.
Con il passare dei giorni, la vicenda sta però assumendo contorni diversi. Oggi il problema non è più tirare la cinghia, come peraltro fanno milioni di persone e di famiglie in questo momento in Italia. Il problema è sapere se ancora esiste una cinghia, se ci sono altri buchi da stringere. Il problema non è più soltanto il presente, per quanto difficile, ma soprattutto il futuro.
Quello che le lavoratrici e i lavoratori dell’Unità stanno chiedendo da giorni con diverse forme di lotta, dallo sciopero vero e proprio a quello delle firme, è semplice: sapere se quanto stiamo vivendo è un momento di transizione, travagliato e complicato, o se invece è il cammino, passo dopo passo, verso un altro burrone dopo quello terribile del luglio 2000.
Come direttore ho il dovere, morale prima ancora che professionale, di rappresentare la redazione che ho l’onore (e il piacere) di guidare. Per questo intendo rivolgere a tutti i soggetti coinvolti in questa avventura dall’azienda che edita questo giornale, ai soci della Nie (tra cui anche il Pd) all’editore di riferimento le domande, legittime, di redattori e poligrafici chiedendo risposte chiare e convincenti da parte di tutti sul futuro dell’Unità e sulle azioni che si intende intraprendere perché il quotidiano fondato da Gramsci continui con coraggio a dire la sua. Questo giornale, lo ripeto, è sì cocciuto e testardo. Ma anche i cocciuti e i testardi hanno bisogno di chiarezza.

l’Unità 21.5.14
Comunicato del Cdr

Da un silenzio inquietante a risposte reticenti. Avevamo chiesto ai soci della Nie chiarezza sul futuro del nostro giornale e dei suoi lavoratori. Niente di tutto questo è avvenuto. La proprietà continua a giocare sulla pelle dei lavoratori de l’Unità. Il futuro del giornale è oggi più che mai a rischio. Se l’Unità è in edicola è solo per il senso di responsabilità e per l’amore verso questa testata di giornalisti e poligrafici che continuano a lavorare senza ricevere gli stipendi.
Per la prima volta nella storia del nostro giornale siamo stati costretti a scioperare tre volte in un mese. E una quarta giornata di sciopero è stata indetta per venerdì 30 maggio. Lo abbiamo fatto, insieme allo sciopero delle firme che andrà avanti ad oltranza, perché lo spettro della chiusura viene agitato da più parti. Lo abbiamo fatto per mettere tutti di fronte alle loro responsabilità. I soci della Nie ma non solo. Al Partito democratico, dal quale pure in questi giorni sono giunte parole di solidarietà, diciamo che questo è il momento in cui deve dare prova concreta dell’asserita volontà di contribuire a garantire un futuro a l’Unità. Non è più tempo di parole. Non è più tempo di rinvii.
L’11 febbraio abbiamo festeggiato i 90 anni del giornale fondato da Antonio Gramsci. Ci batteremo contro chiunque voglia celebrarne il funerale.

l’Unità 21.5.14
Comunicato Rsu

I lavoratori poligrafici de l’Unità aderiranno allo sciopero che le Organizzazioni Sindacali hanno proclamato per domani 22 maggio, contro le norme che hanno modificato la legge 416, relativa all’armonizzazione dei poligrafici alla legge Fornero. È importante e significativa la partecipazione perché le modifiche apportate risulteranno a svantaggio dei lavoratori e aggraveranno ancor di più le condizioni delle aziende editoriali già in crisi da tempo.
Inoltre, cogliamo l’occasione per sottolineare la situazione all’interno del nostro quotidiano. Ci era stato assicurato che l’assemblea dei soci del 14 maggio avrebbe dato le giuste indicazioni riguardo il futuro della società. Così non è stato. Infatti, siamo ancora in attesa di queste indicazioni, necessarie e urgenti, perché riguardano il futuro del nostro giornale, nonché dei nostri posti di lavoro.
Siamo a conoscenza che gli azionisti hanno preferito rinviare ogni decisione a fine mese. Questo comporta una maggiore preoccupazione in quanto lascia i lavoratori in una totale incertezza. Ad aggravare questa situazione, denunciamo che l’ultimo stipendio è stato erogato nel mese di marzo e questo crea difficoltà ai lavoratori e alle rispettive famiglie.
Ci rivolgiamo anche ai nostri lettori, che con grande interesse ci chiedono informazioni sul futuro del giornale e con molto affetto ci esprimono la loro solidarietà, sollecitandoli ad intervenire e a sostenere la nostra lotta per il futuro del giornale.
Siamo costretti a chiedere alla società che ci venga comunicata, al più presto, una risoluzione seria e costruttiva che permetta di rilanciare la nostra storica testata.
LA RSU

La Stampa 21.5.14
Allarme nel Pd
Ora il sorpasso è un’ipotesi concreta
di Marcello Sorgi

Primo Renzi, secondo, a un’incollatura, Grillo, terzo, ma distaccato, seppure a cavallo della sua quota di sopravvivenza Berlusconi. Ncd e Lega sopra la soglia di sbarramento del 4 per cento, tutti gli altri sotto: i dati finto-segreti dei sondaggi che la legge impedisce di pubblicare circolano liberamente nei corridoi degli studi televisivi in cui i leader politici si alternano a ritmo di inseguimento e con toni da urlatori. Malgrado ciò, il record di ascolti - oltre quattro milioni - toccato dal leader del Movimento 5 stelle nello studio di «Porta a porta» con Vespa ha reso assai più incerte tutte le previsioni fatte dai sondaggisti. Se il distacco tra i due maggiori duellanti è limitato, come dicono tutti, e se l’apparizione di Grillo nel più tradizionale salotto televisivo di Rai1 è stata in grado di mobilitare un pubblico così vasto, sulla carta la possibilità del sorpasso, remota fino a qualche giorno fa, si fa più concreta. Molto resta legato all’affluenza, cioè al rientro dall’astensione di una larga parte dell’elettorato, al quale il leader di M5S ha cercato di rivolgersi con un messaggio rassicurante: votate per chi vi pare, ma se non siete convinti statevene pure a casa, tanto noi grillini non pensiamo certo di fare la rivoluzione.
Renzi ha messo in agenda un tour de force nelle piazze, oltre che davanti alle telecamere, che punta a mobilitare, dove ancora ci sono, e magari sono rimaste fredde, finora, in attesa di fare i conti dopo i risultati con il nuovo leader, le strutture del Pd. Soprattutto al Sud, le divisioni sono fortissime, la competizione tra candidati delle varie anime del partito è fuori controllo e il rischio di dispersione di voti per il centrosinistra concreto. Anche per questo Renzi ieri ha avvertito che in ogni caso la sorte del governo non sarà in discussione.
Berlusconi cerca di inserirsi nel corpo a corpo tra i suoi due avversari, alza il tono contro Grillo chiamandolo «assassino», mena duro anche contro il presidente del consiglio sconfessando ogni accordo con lui, ma sotto sotto sa che sarà difficile risalire la china di una campagna che per la prima volta in vent’anni non lo ha visto protagonista.
Primo Renzi, secondo, a un’incollatura, Grillo, terzo, ma distaccato, seppure a cavallo della sua quota di sopravvivenza Berlusconi. Ncd e Lega sopra la soglia di sbarramento del 4 per cento, tutti gli altri sotto: i dati finto-segreti dei sondaggi che la legge impedisce di pubblicare circolano liberamente nei corridoi degli studi televisivi in cui i leader politici si alternano a ritmo di inseguimento e con toni da urlatori. Malgrado ciò, il record di ascolti - oltre quattro milioni - toccato dal leader del Movimento 5 stelle nello studio di «Porta a porta» con Vespa ha reso assai più incerte tutte le previsioni fatte dai sondaggisti. Se il distacco tra i due maggiori duellanti è limitato, come dicono tutti, e se l’apparizione di Grillo nel più tradizionale salotto televisivo di Rai1 è stata in grado di mobilitare un pubblico così vasto, sulla carta la possibilità del sorpasso, remota fino a qualche giorno fa, si fa più concreta. Molto resta legato all’affluenza, cioè al rientro dall’astensione di una larga parte dell’elettorato, al quale il leader di M5S ha cercato di rivolgersi con un messaggio rassicurante: votate per chi vi pare, ma se non siete convinti statevene pure a casa, tanto noi grillini non pensiamo certo di fare la rivoluzione.
Renzi ha messo in agenda un tour de force nelle piazze, oltre che davanti alle telecamere, che punta a mobilitare, dove ancora ci sono, e magari sono rimaste fredde, finora, in attesa di fare i conti dopo i risultati con il nuovo leader, le strutture del Pd. Soprattutto al Sud, le divisioni sono fortissime, la competizione tra candidati delle varie anime del partito è fuori controllo e il rischio di dispersione di voti per il centrosinistra concreto. Anche per questo Renzi ieri ha avvertito che in ogni caso la sorte del governo non sarà in discussione.
Berlusconi cerca di inserirsi nel corpo a corpo tra i suoi due avversari, alza il tono contro Grillo chiamandolo «assassino», mena duro anche contro il presidente del consiglio sconfessando ogni accordo con lui, ma sotto sotto sa che sarà difficile risalire la china di una campagna che per la prima volta in vent’anni non lo ha visto protagonista.

il Fatto 21.5.14
La rabbia e la paura
di Antonio Padellaro

Beppe Grillo è andato da Bruno Vespa con un’apparente contraddizione. Come condottiero della protesta più scatenata e più ostile a tutto il resto della politica italiana: “O noi o loro”. Ma anche con la faccia del leader in grado di governare la “rabbia buona” e per dimostrare “alla gente di una certa età che ha un pregiudizio su di me” di non essere “né Hitler né Stalin”. È riuscito a tenere insieme incazzatura e senso di responsabilità? Diciamo subito che ha fatto il pieno di ascolti, ma che nei quattro milioni e duecentosettantamila spettatori non c’erano solo fan del M5S o anziani da rassicurare, oppure gente incuriosita da un evento spettacolare (il comico più dissacrante a cospetto dell’anchorman più istituzionale, comunque incalzante), perché davanti alla tv c’erano soprattutto elettori ancora incerti che hanno aspettato lunedì sera per decidere sul da farsi. Quanti di questi Grillo ne avrà portati dalla sua parte lo capiremo solo la notte del 25 maggio, ma certamente ha fatto breccia ciò che gli viene di più rimproverato, e cioè l’insofferenza urlante verso chi ha ridotto l’Italia allo stremo: istituzioni, ministri, banchieri, corrotti e bancarottieri, sì tutti nello stesso mazzo perché la collera non fa distinzioni.
Chi parla di mal di pancia fa finta di non capire cosa bolle nella profondità di una nazione, in quegli strati sociali massacrati dalla crisi che non credono più a una parola della politica tradizionale o nei compromessi: o noi o loro, appunto. Quel rancore rappresenta il propellente di un movimento che alle ultime elezioni ha raccolto quasi nove milioni di voti e non ha tutti i torti il capo a dire che, senza il frangiflutti grillino, la protesta avrebbe potuto esondare in una violenza di massa. Poi ci sono quelli che pensano di votare Grillo per dare un ultimo segnale all’immobilismo delle classi dirigenti, ma che lo faranno nel segreto dell’urna perché sotto sotto sentono che esiste un rischio nel lasciare troppo spazio a un fenomeno incontrollabile. È la paura su cui punta Renzi, convinto che il limite dei Cinque Stelle sia nella loro stessa forza dirompente che non ha altro programma di governo se non la conquista stessa del governo. Il premier sa benissimo che la sua vittoria è affidata al timore dell’avventura e dell’ignoto che suscita l’avversario, più che agli 80 euro o agli annunci di mirabolanti riforme. La rabbia e la paura: mai elezioni furono più emotive.

il Fatto 21.5.14
La solitudine di Renzi trincerato al governo
Panico via sms
Un messaggio arrivato ieri pomeriggio a tutti i deputati misura l’ansia dell’ex sindaco: “Tutti impegnati, senza eccezioni”
dii Marco Palombi

Che sia affaticato è normale: gira come una trottola da settimane. Che questo lo renda a volte meno brillante è fatto che consegue direttamente dal primo. Che invece quella macchina da comizio e da tv che è Matteo Renzi per di più da presidente del Consiglio affrontasse una campagna elettorale non riuscendo a dominarla e senza dettarne l’agenda è abbastanza sorprendente. Gli manca, ad oggi, il colpo d’ala: il “derby tra la paura e la speranza” non funziona. Di più: questo duello a due con Beppe Grillo stante la fine del ciclo politico e antropologico di Silvio Berlusconi finisce per penalizzarlo, soprattutto dopo lo scandalo Expo.
IERI, PER DIRE, è stato costretto a inseguire il comico genovese sul tema della tenuta governo: “Non c’è mai stato in nessun Paese europeo un collegamento tra il risultato delle elezioni europee e il governo”. Queste elezioni, dice Renzi, “sono un derby tra chi crede che l’Italia debba contare in Europa e chi crede siano un sondaggio per la politica nazionale. Io credo che questo sondaggio lo vinciamo, ma spero che gli italiani vadano a votare per l’Europa”.
Eppure aver impostato tutta la propaganda del Pd sulla sua figura di capo del governo è stata una scelta precisa di Renzi stesso. Il titanismo dell’ex sindaco, a cui piace rappresentarsi in guerra con l’invisibile nemico della conservazione, funziona assai meno se il suo bersaglio è Beppe Grillo. La rottamazione non funziona più: per la prima volta la sua campagna non può basarsi soprattutto sull’attacco ai dinosauri del suo partito, non può rifulgere sulla pochezza, la compromissione, i fallimenti altrui. Il dinosauro, per i tempi rapidissimi della politica spettacolo, è diventato lui: “Loro insultano, noi governiamo”, è stato lo slogan ripetuto nei molti appuntamenti di ieri. Una roba alla Romano Prodi.
Il dato politico, alla fine, è che nonostante non ci sia il suo nome nel simbolo del Pd come Renzi continua a ripetere il partito è scomparso dai radar: “Con lui a Palazzo Chigi si sta appannando, si sta destrutturando. Andando in giro trovo gruppi di amici, ma il partito vero e proprio fatico a trovarlo”, come dice Massimo D’Alema.
Lui e Bersani, d’altronde, sono relegati a fare campagna lontano dai riflettori, alle cene di finanziamento, coi candidati sindaco, mai insieme al premier.
MATTEO RENZI è solo in campagna elettorale. Di più: le proposte del partito e le figure dei candidati sono appannate dietro uno schema comunicativo che punta tutto su quel che il governo ha fatto, sta facendo, farà: è ovvio anche visto che questo esecutivo è nato con un accordo di palazzo che sia un referendum su di lui, lo stesso premier ha fatto in modo che lo fosse. Attorno a lui - a fargli da corona e a dimostrare che nessun uomo può essere un’isola, ma magari un arcipelago sì solo la ministro Maria Elena Boschi, la vicesegretario democratica Debora Serracchiani e le cinque capoliste donne scelte dallo stesso one man band: Alessia Mosca (Nordovest), Alessandra Moretti (Nordest), Simona Bonafè (Centro), Pina Picierno (Sud) e Caterina Chinnici (Isole). Non proprio un cast in cui la figura del premier rischi di essere appannata. Questa strategia, però, è magari l’unica possibile per non snaturare Renzi, ma di cero è assai rischiosa per il governo che dirige. La sicurezza delle prime settimane ha lasciato il passo ai dubbi. È così che si arriva al “tra Europee e governo non c’è alcun collegamento” scandito ieri in tv dal premier. E pure al “un punto sopra Grillo per noi è comunque un successo perché alle politiche eravamo pari”, messo a verbale anonimamente da uno dei suoi. Massimo Cacciari, ieri su Radio 24, l’ha messa in tutt’altro modo: “Se il Pd dovesse perdere con Grillo e anche se ci fosse una situazione di pareggio con il M5S è chiaro che Renzi scomparirebbe dalla scena”, “si aprirebbe una crisi enorme e difficilmente governabile anche da un genio della politica come Napolitano”.
ANCHE NEL PD disgregato, umiliato, cancellato dal discorso pubblico dal suo stesso capo cominciano ad essere preoccupati: lo scambio a cui molta parte della classe dirigente ha dato silenzioso assenso tra perdita di peso politico e successo elettorale rischia di non funzionare. Ora qualcuno, di certo, aspetta il cadavere di Renzi sulla riva del fiume, altri semplicemente non sanno che fare: dai sondaggi che girano sui tavoli dei vari partiti, infatti, sembra che Grillo abbia smesso di pescare nel bacino del Pd e abbia preso a farlo in quello assai più appetibile in libera uscita dal berlusconismo (il crollo di Forza Italia, peraltro, trascinerà con sé anche le raffazzonate riforme costituzionali). Non solo: al Sud i democratici continuano ad andare male. Quanto siano preoccupati al Nazareno retto dal renzianissimo vicesegretario Lorenzo Guerini lo testimonia l’sms inviato ieri pomeriggio a ogni singolo parlamentare Pd: “Tutti impegnati in campagna elettorale, senza eccezione alcuna”. Chiude lo stesso Renzi in serata: “Mancano quattro giorni, bisogna fare uno sforzo pazzesco”.

Macaluso, Cacciari, Salvadori e Cancrini, come vuole Scalfari, tutti al soccorso di Renzi

Repubblica 21.5.14
Eanuela Macaluso
“Niente sorpasso e comunque Giorgio non si dimetterà”
intervista di Concetto Vecchio

Emanuele Macaluso, reputa possibile il sorpasso del M5S sul Pd?
«No, al contrario non nutro dubbi sulla vittoria del Pd. Grillo arriverà secondo. Poi, staccata, Forza Italia».
Da cosa deriva questa certezza?
«Molti italiani, di fronte al rischio di un’ondata populista, saranno alla fine tentati di votare per il meno peggio: e ciò vale anche per me. Scegliendo cioè il partito che abbia più atout democratici, che funga da barriera contro questo clima melmoso di vaffa alle istituzioni ».
Poniamo che il sorpasso invece avvenga: Napolitano allora scioglierà le Camere?
«Non credo. Io non le scioglierei. Per cosa poi per un sorpassino in un voto che non è nemmeno quello delle politiche? Non cambiano mica i rapporti parlamentari».
Ma politicamente non sarebbe un fatto dirompente?
«Sì, renderebbe più pesante il clima, ma non tale da imporre nuove elezioni».
Perché Grillo minaccia di assediare il Quirinale?
«È un proposito assurdo, come la richiesta d’impeachment. Cose che non hanno senso politico».
Eppure per i grillini il primo obiettivo è proprio la caduta di Napolitano. Come si spiega?
«Perché è l’unica istituzione il cui prestigio è rimasto intatto all’onda dell’antipolitica. E perché vogliono concorrere all’elezione di un presidente condizionato da loro».
In caso di vittoria M5S Napolitano si dimetterà?
«Non vedo perché: per rispondere a un ukase di Grillo?» Se il Pd esce sconfitto, non saltano le riforme: a cominciare dall’Italicum?
«Guardi che Berlusconi ha tutto l’interesse ad approvare l’Italicum, perché è l’unica legge con cui potrà ancora nominare i suoi parlamentari. E il patto sulle riforme reggerà, anzi in caso di vittoria di Grillo potrebbe addirittura accelerare».
Ha seguito Grillo da Vespa?
«No, ma capisco perché ci sia andato: aveva bisogno che una forza eversiva come la sua fosse legittimata politicamente dal salotto che più di tutti rappresenta l’establishment».
Quanto peseranno gli scandali?
«Un po’ peseranno, ma Renzi ha reagito con prontezza. La nomina di Cantone è stata tempestiva».
Non è stato un errore ridare la tessera Pd a Greganti?
«Ma Greganti non ha alcun cordone politico con il partito, ha agito da solo, per conto suo, da lobbista».

Repubblica 21.5.14
Massimo Cacciari
“Beppe ha capito il web non basta ma la sua ricetta è un’avventura”
intervista di Francesco Bei


ROMA. «Grillo è un corpo in movimento, è spettacolo. Mentre tutti blateravano sull’importanza della tv e del web, lui da due anni girava per le piazze d’Italia cercando il contatto fisico ». Con la campagna elettorale alle ultime battute, il filosofo Massimo Cacciari vede tutte le difficoltà di una sfida che si sta sempre più polarizzando.
Professore, ha visto la puntata di Porta a Porta?
«Sì, ovvio. Dal punto vista “tecnico” Grillo si è mostrato estremamente abile. Ormai ha fatto il pieno dei suoi e deve solo stare attento a non spaventare i moderati, lasciando che restino a casa e non vadano a votare. Al di là di questa ideologia arcaica di Internet, è da tempo che sta dimostrando fiuto politico».
Ideologia arcaica?
«Ma certo, solo i primi fanatici del Web pensavano di poter determinare chissà quali rivoluzioni democratiche. Ma di che stiamo parlando? L’abilità di Grillo è stata proprio quella di capire che lo strumento fondamentale di ogni azione e comunicazione politica resta quello del contatto fisico. Grillo è un corpo in movimento, solo i cretini del Web non l’hanno capito ».
Anche Renzi è andato in piazza. Chi ha vinto la gara?
«È vero, Renzi è andato in piazza. Ma deve stare attento a non sembrare un inseguitore, altrimenti l’immagine rischia di essere quella di uno che si mette a fare Grillo».
E che giudizio dà di questo Grillo metà piazza e metà web?
«Da un punto di vista culturale e politico è un disastro. C’è un uso strumentale della Rete, è una finzione di democrazia. Per votare in teoria c’è il Web, ma chi fa decidere è in realtà il leader in rapporto diretto con la piazza».
Renzi è stato efficace oppure no?
«Ha avuto un po’ di incidenti di percorso. Alcuni se li è cercati, altri gli sono capitati. Il primo handicap è stato quello di non poter contare su un governo di forte rappresentanza politica ».
Il governo-Leopolda non funziona?
«Nel governo nessuno gli fa ombra. Ma in questo modo adesso c’è soltanto lui in campo... onori e oneri».
Gli altri punti deboli?
«È banale dirlo, ma in un momento di crisi stare al governo logora. E questo paese è oltre la crisi, siamo all’esasperazione».
Pensa che possa vincere Grillo?
«Io tocco ferro. Non perché penso che sia come Hitler, ma di certo sarebbe un’avventura. Se dovesse esserci non dico il sorpasso, ma un avvicinamento troppo forte tra M5S e Pd, la fibrillazione sarebbe pazzesca. A quel punto cosa fa Napolitano? ».
Cosa dovrebbe fare?
«Immagino che debba rimandare Renzi davanti alle Camere. Si aprirebbe una fase avventurosa per il paese».
Torniamo alla campagna Pd.
«Un evento esterno come lo scandalo Expo può pesare. Una catastrofe in cui il Pd, se non altro per peccati di omissione, c’è finito dentro fino al collo. Io che vivo al Nord mi rendo conto di quali reazioni forti questa vicenda stia suscitando nella gente».
E cosa dovrebbe fare Renzi a questo punto?
«Dovrebbe fare Grillo ma non può. L’unica è lanciare un segnale forte e convincente sulla nuova Tangentopoli. Non chiacchiere, servirebbero fatti molto concreti, visto che ormai nessuno si fida più di nessuno».
Da dove vengono queste difficoltà del Pd?
«La madre di tutte le disgrazie è stata la candidatura di Bersani alle Politiche: Renzi bisognava lanciarlo allora. Berlusconi sarebbe sparito e Grillo non sarebbe mai arrivato così in alto».

Repubblica 21.5.14
Le scelte che fanno la differenza
di Massimo L. Salvadori


CHE cosa può dare il voto ad un elettore che non scambi l’urna per il luogo in cui appagare i suoi ultimi desideri? Consente di scegliere tra le diverse opzioni che offre in concreto lo stato politico di un paese, bello o brutto che sia. In Italia è quello che è. Ma, proprio per le gravi difficoltà in cui versa il paese, il voto è importante.
Uno può buttare via il suo voto in quattro diversi modi: standosene a casa (il che equivale a dire: “andate tutti al diavolo!”) oppure consegnando scheda bianca (il che, se non si è organicamente indifferenti, equivale a dire: “vorrei fare il mio dovere di cittadino, ma fate tutti egualmente schifo”) oppure dando un voto di punizione (il che equivale a dire: “vorrei votare per te in base alle mie inclinazioni di fondo, ma non lo faccio perché desidero darti una lezione e quindi scelgo un altro anche se non mi piace”) oppure do la mia preferenza ad un partito incapace di in-
fluire sui rapporti di forza per dare quanto meno una testimonianza ideale. Questo atteggiamento ha fatto breccia tra molti di coloro che in passato, nonostante tutti i maldipancia possibili, si ascrivevano alla sinistra, fornendo così prova di dare ancora importanza a distinzioni che ora sembrano non più riconoscere.
Nella loro diversità di motivazioni i quattro modi sopra indicati convergono in un unico esito: contribuire all’indebolimento se non alla sconfitta della forza politica che pure dovrebbe rappresentare anche ai custodi del meglio ideale il meno peggio reale. Poiché nella realtà dei rapporti politici e sociali esiste sempre il meno peggio. Chi non vuol vederlo e accettarlo si pone al di fuori dei comportamenti orientati a criteri di razionalità. Aspira a rendere più sana, più alta la politica e, spinto dalle proprie delusioni, contribuisce a farla affondare del tutto. Invoca una più nobile responsabilità negli altri mentre ignora la propria che è di non lasciare libero campo alle forze che se non altro il buon senso dovrebbe indicare come le peggiori anche nello scenario che è indotto ad avversare nel suo insieme. Non percepire il valore del relativo significa in politica, appunto, porsi contro la razionalità.
Passando dal discorso generale ai fatti con cui l’elettore si troverà a fare i conti, chi non andrà a votare, chi deporrà scheda bianca, chi voterà con intenti punitivi e chi lo farà per testimoniare scegliendo l’inefficacia si orienterà in base ad un comune orientamento: quello secondo cui Berlusconi, Alfano, Renzi pari sono, mentre a Grillo, se non lo si fa rientrare nella stessa compagnia, si attribuisce il ruolo di vendicatore dei peccati altrui. Orbene, concediamo una certa venia ai tanti che, comprensibilmente imbufaliti dagli spettacoli indecenti offerti dalla mala politica, si lasciano trascinare dal sentimento a perdere il senso delle differenze che vi sono tra un partito e l’altro, e quindi il senso del relativo; ma non possiamo concederla ai non pochi illustri intellettuali di sinistra che fanno sfoggio di accanimento — guarda caso — soprattutto nei confronti di Matteo Renzi. Li abbiamo sentiti dire, contenti della prova offerta di allegra e compiaciuta intelligenza, che Renzi è l’alter ego di Berlusconi, una minaccia per la democrazia, un populista, che questi due insieme con Grillo rispecchiano la stessa Italia. Non entro nel merito di tali giudizi. Li si lasci a chi li pronuncia. Fatto è che, comunque la pensino, essi non possono eludere l’interrogativo che ha posto Scalfari e a cui si deve rispondere: ritengono che un grave insuccesso del Pd non faccia differenza? Sono indifferenti alle conseguenze che avrebbe l’eventuale sorpasso da parte di Grillo?
È un vecchio, intramontabile vizio della “sinistra pura” l’amore per le dichiarazioni di principio, per l’etica della convinzione, per l’imperativo categorico che non transige e induce a avversare in primo luogo la sinistra impura. Più la sinistra ne è stata danneggiata e più questo vizio si riproduce come un fungo dalle belle apparenze e dagli effetti velenosi. Sì, siamo costretti a scegliere tra Berlusconi, Alfano, Renzi e Grillo. Tutti uguali? Dopo il 25 giugno avremo i risultati elettorali. Ebbene, questo nostro paese che si trova nella tenaglia in cui lo stringono le difficoltà non avrà lo stesso destino se vincerà l’uno o l’altro. Chiunque lo dovrebbe capire. La ragione può sopportare molte violenze, ma di queste violenze non abusino in primo luogo intellettuali dottissimi ed espertissimi di politica antica e moderna.

l’Unità 21.5.14
A proposito di Scalfari, Schulz e Matteo Renzi
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Finalmente un articolo di Scalfari che indica come preferenza di voto il Pd e lo indica con una bella e intelligente spiegazione, che riassunta dice come il Pd sia un partito proEuropa e come lo stesso sosterrà la nomina di Schulz uomo europeista, interventista sulle politiche e sull’economia. ALFIO FINETTI
Scalfari si è reso conto con un po’ di ritardo, a mio avviso, del fatto che votare per il Pd di Renzi significa fare la scelta giusta, in questo momento, per il nostro paese e per l’Europa e Schulz gliene ha dato atto martedì, su la Repubblica, con una risposta intelligente e argomentata. Quella cui Scalfari non rinuncia nel suo articolo di domenica, tuttavia, è la sua polemica con Renzi cui ancora non perdona di aver preso il posto di Letta: riproponendo una serie di critiche da lui già formulate allora e che non sembrano tenere in considerazione, tuttavia, il cambio di marcia che Renzi ha saputo dare, in meno di tre mesi, alle attività di un esecutivo comunque molto diverso da quello guidato da Letta anche per la politica economica. Dire poi che Renzi ha rimesso in gioco Berlusconi solo perché ha deciso di discutere con il leader dell’opposizione che accettava di parlarne (Grillo purtroppo parla solo con se stesso e con il suo guru), come in democrazia è non solo ragionevole ma inevitabile, la riforma elettorale e la riforma del Senato sembra a me veramente paradossale se si pensa che Monti e Letta proprio con Berlusconi avevano trattato e definito non ipotesi di riforme istituzionali ma i loro programmi di governo. E ben venga comunque questo incompleto pentimento. Un uomo come lui difficilmente sul suo giornale avrebbe potuto ammettere semplicemente di essersi sbagliato.

il Fatto 21.5.14
Redditi dei ministri
Mancano il premier, Padoan e Guidi
di Alessio Schiesari


MANCANO SOLO 24 ore alla scadenza dei termini imposti dalla legge, ma quasi tutti i ministri del governo Renzi (o almeno quelli che non ricoprono anche la carica di parlamentare) ancora non hanno pubblicato la propria dichiarazione dei redditi sul sito del dicastero. Solo un ministro su sette (tra quelli che non siedono sugli scranni parlamentari, per cui la pubblicazione è automatica) hanno messo online la propria situazione patrimoniale, come prescritto dal decreto trasparenza voluto dal governo di Mario Monti. Eppure i novanta giorni di tempo dall’insediamento del governo scadranno domani: per questo c’è da prevedere una corsa contro il tempo e non è detto che tutti ce la facciano. Il primo della lista è proprio il premier: la sua segreteria a Palazzo Chigi fa sapere che “c’è ancora tempo, ma potrebbero esserci slittamenti”. Oltre a Renzi, anche il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, il ministro allo Sviluppo economico Federica Guidi, il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, il ministro per gli Affari Regionali Maria Carmela Lanzetta e il titolare dell’Ambiente Gian Luca Galletti ancora non hanno pubblicato il proprio Cud. L’unico tra i ministri non parlamentari ad avere messo tutto online è il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina (102 mila euro). Galletti, che pure non ha ancora pubblicato nulla, ha inviato il proprio Cud a il Fatto Quotidiano: 137.353 euro, questo il suo reddito per il 2013. I due membri del governo che, con ogni probabilità, risulteranno più facoltosi sono Padoan e Guidi. I loro ministeri, Economia e Sviluppo, hanno promesso che la pubblicazione avverrà entro i termini stabiliti dalla legge.
Tra gli altri ministri, quello con il reddito più alto è Federica Mogherini con 131 mila euro. Gli altri, tra cui Lupi, Pinotti, Lorenzin e Franceschini, dichiarano tutti tra i 90 e i 105 mila euro, più o meno l’equivalente dello stipendio da parlamentare.

il Fatto 21.5.14
Storia Fiom
Landini e Camusso, uno scontro antico
di Salvatore Cannavò


Lo scontro in Cgil tra Susanna Camusso e Maurizio Landini ha ormai assunto le caratteristiche del feuilleton. Caratteri e strategie diverse, diversi rapporti con la politica, la cultura, la comunicazione. Eppure, quello scontro ha una sua precisa storia sindacale e il libro di Gianni Rinaldini, nel quale l’autore svolge anche un ampio colloquio con l’ex direttore del manifesto, Gabriele Polo, la ricostruisce abbastanza fedelmente. Rinaldini è il segretario generale della Fiom che ha preceduto Landini e lo ha proposto alla segreteria. In qualche modo ne rappresenta il padre putativo ma, allo stesso tempo, è anche “figlio” dell’altro importante dirigente della Fiom, per lo meno di quella degli ultimi venti anni, Claudio Sabattini.
Ed è a Sabattini che tutto viene ricondotto. Il dirigente sindacale, scomparso nel 2003, viene eletto alla guida dei metalmeccanici nel 1994 proprio quando alla testa della Cgil arriva Sergio Cofferati. È il primo vero passaggio di testimone dopo la storica stagione degli anni 70 e a garantirlo, non a caso, è Bruno Trentin. Con la scomparsa, all’inizio degli anni 90, dei partiti storici di riferimento, la Cgil si adegua al nuovo contesto, nascono le “aree programmatiche” interne e la Fiom di Sabattini si ritaglia una identità sulla base della “democrazia dei lavoratori” e dell’indipendenza, concetto a cui la Fiom rimarrà in seguito strenuamente legata. È con Sabattini che si ha una sterzata radicale e si avvia una fase di conflitto anche con la Cgil di Cofferati che però non si traduce mai in aperta contraddizione. La forza della ricomposizione, come al congresso del 1996, ha sempre la meglio, favorita anche da anni in cui, tra Genova 2001 e il Circo Massimo del 2002, le piazze vedono un grande protagonista politico della Cgil. Quando Cofferati lascia il timone al suo successore, Guglielmo Epifani, la dialettica si farà scontro aperto. Con Epifani prima, e Camusso poi, si verificherà anche la novità-Marchionne e, quindi, la segreteria di Landini. “La Cgil è ormai un’altra cosa”, scrive Rinaldini. La cui ricostruzione è amara, fatta di rimpianti e qualche pentimento ma confida ancora nel futuro del sindacato.
IN BASSO A SINISTRA, Gabriele Polo, Gianni Rinaldini, Manni, 162 pagg, 14,00

l’Unità 21.5.14
Riforma Pa, i sindacati pronti alla sfida col governo
Cgil, Cisl e Uil rispondono ai 44 punti di Renzi: disponibili al confronto, ma rinnoviamo il contratto

ROMA Quarantaquattro risposte e una richiesta. I sindacati confederali del pubblico impiego accettano la sfida del governo e rispondono unitariamente ai punti indicati dall’esecutivo per riformare la Pa, disponibili a discutere su tutto.
Ma alla fine ne aggiungono uno: il rinnovo del contratto scaduto da cinque anni. «La 45esima domanda, incomprensibilmente assente, la poniamo noi al governo attaccano i sindacati e il contratto nazionale dei lavoratori della pubbliche amministrazioni? Sicuri di poter chiedere sforzi e uno scatto di modernità a un pubblico impiego impoverito e demotivato da 5 anni di blocco? Senza la riapertura della contrattazione nessuna vera riforma è possibile. Non si tratta solo di sanare una situazione di ingiustizia ormai evidente. Il contratto è uno strumento di governo dei processi di riforma».
Dunque Cgil, Cisl e Uil lanciano «quarantacinque idee per discutere della riforma della pubblica amministrazione con le lavoratrici e i lavoratori nelle assemblee del 23 maggio, per poi rilanciare le proposte di Cgil, Cisl e Uil di categoria sulla riorganizzazione dei servizi e sul lavoro pubblico». Con una nota congiunta i segretari di Fp Cgil Rossana Dettori, Cisl Fp Giovanni Faverin, Uil-Flp Giovanni Torluccio e Uil Pa Benedetto Attili lanciano i 45 punti in risposta alla lettera inviata ai dipendenti delle Pa e aperta al contributo di tutti (quasi 21mila a ieri le mail rivoluzione@governo.it) dal presidente del consiglio, Matteo Renzi, e dal ministra Marianna Madia. «Più che una sfida lanciamo un’opportunità: aprire una fase di riforma partecipata dicono fare finalmente la spending review per riqualificare la spesa, eliminare sacche di spreco e investire in servizi efficienti. A Renzi e Madia diamo la possibilità di ripensare l’offerta di servizi partendo dal lavoro, con un confronto ancora possibile. Se lo vogliono davvero, se vogliono andare oltre gli spot e le consultazioni mediatiche, troveranno con sorpresa una riforma già pronta, un mondo del lavoro pubblico che, nonostante 5 anni di blocco del contratto e la troppa propaganda negativa, ha ancora le capacità di contribuire al cambiamento del Paese». Una accettazione della sfida che viene lodata dallo stesso ministro Marianna Madia, che in un tweet commenta: Grazie a Cgil-Cisl-Uil pubblico impiego per aver risposto a consultazione sulla riforma con loro proposte. Ci vedremo presto prima del consiglio dei ministri del 13 giugno», quello in cui verrà varato il testo della riforma.
Nel merito le 44 risposte dei sindacati in qualche modo vanno ad intaccare autentici tabù sindacali. Sul blocco del turn over per esempio i sindacati indicano i settori in cui è più urgente «sbloccarlo immediatamente»: «legalità, lotta all’evasione fi-
scale, patrimonio ambientale e culturale, assistenza e welfare ai cittadini». Altro tema su cui le posizioni dei sindacati appaiono assai avanzate sono quelle dell’agevolazione del part time («Via le norme che negli ultimi anni hanno colpito soprattutto le donne»). Appoggio alla proposta di «modifica del codice degli appalti pubblici» («bene, basta appalti al massimo ribasso») e agli accorpamenti fra Aci, Pra e Motorizzazione («Ma basta favori ai privati, reinternalizziamo i troppi servizi dati in appalto»). Accanto a queste però anche tante critiche. Agli spot del governo («L’abolizione della figura del segretario comunale») e al rischio dello «spoil system» sull’introduzione del ruolo unico della dirigenza: «Il problema è l’accertamento delle competenze e la scelta trasparente dei manager. In questo la politica non si è dimostrata all’altezza del ruolo», attaccano i sindacati.

l’Unità 21.5.14
Fecondazione, nessun vuoto
Il rinvio che riapre lo scontro
di Carlo Flamigni


La Consulta ha preso ancora tempo per le motivazioni sulla sentenza contro il divieto di fecondazione eterologa.

In questi giorni aspettavamo che fossero rese note le motivazioni della sentenza della Corte Costituzionale relativa alle donazioni di gameti, quella che ripristina anche nel nostro Paese le cosiddette fecondazioni eterogamiche.
Al suo posto è apparso un articolo sull’Avvenire, a firma di Umberto Folena, che parla di un «grave vuoto normativo» e descrive i «tanti scenari mai affrontati fino a oggi dalla normativa vigente», per concludere che «i problemi sono tanti» ed è necessario che il Parlamento intervenga rapidamente con una legge che metta ordine per impedire (questo lo dico io) un nuovo Far West. L’intervento più significativo a questo proposito è della signora Eugenia Roccella che ripetete i temi che, con singolare preveggenza, aveva affrontato un anno fa in una lettera ai suoi colleghi senatori: «Evitiamo il mercato, inseriamo il diritto alla trasparenza, stiamo attenti ai rapporti incestuosi (un incubo ricorrente nei sogni della signora Roccella) stabiliamo come riconoscere i consanguinei». È evidente che la signora sente il lezzo dell’alito del demonio. Gli altri interventi (Giuseppe Fioroni e Paola Binetti), sono meno incisivi, ma dicono le stesse cose.
Fermiamoci un momento su un punto, quello che è al centro della discussione tra laici e cattolici: esiste un vuoto di diritto? Perché se esiste, è necessario che qualcuno scriva le regole, il Parlamento (una legge) o il Ministro (le Linee Guida), una cosa che le Associazioni di Pazienti e le Società Mediche temono perché nella situazione politica del momento significherebbe un regolamento che disfa quello che la Consulta ha tessuto. Se non esiste un vuoto di diritto, invece, si può stare lontani dai luoghi dove le leggi vengono scritte senza tener in alcun conto la morale collettiva e il diritto dei cittadini all’autodeterminazione, e limitarsi a discutere (con le società scientifiche e le associazioni di pazienti) un regolamento molto leggero che precisi alcune (pochissime) cose.
Per capire chi ha ragione mi sono rivolto a Maria Elisa D’Amico, professore ordinario di Diritto costituzionale, Direttore della Sezione di Diritto Costituzionale, Dipartimento di Diritto pubblico italiano e sovranazionale, Vice Presidente del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa, vera protagonista del dibattito che c’è stato davanti alla Consulta: la professoressa D’Amico si arrabbierà un po’ con me perché ho inserito alcuni dei suoi titoli accademici, ma l’ho fatto perché desidero che chi legge si renda conto del peso del suo parere. Così sono andato l’altro ieri ad ascoltare il suo intervento a un convegno delle Associazioni mediche di biologia e fisiopatologia della riproduzione e posso riassumere le sue parole: «Dopo la dichiarazione di illegittimità costituzionale non può esserci un vuoto legislativo, in quanto esiste già una disciplina sugli aspetti essenziali, contenuta nella legge 40. L’art. 9 stabilisce il divieto di disconoscimento di paternità, il divieto per la madre di non riconoscere il figlio e anche, al comma 3, il principio di assoluto anonimato del donatore, il quale non può avere alcun rapporto giuridico, né alcun diritto rispetto al figlio. L’art. 12 stabilisce il divieto di commercializzazione dei gameti, che è un’altra norma importante, che ha consentito al giudice di far cadere il divieto senza paura che ci fosse un caos di principi. In altre parole se la Corte avesse pensato al vuoto normativo non avrebbe potuto dichiarare l’illegittimità costituzionale, ma avrebbe deciso per l’inammissibilità, in quanto la materia avrebbe dovuto essere regolata dal legislatore (che invece l’ha già regolata: oltre alle norme della 40, la disciplina è soggetta alla normativa sui trapianti,
che prevede controlli sui donatori, sui centri e registri, secondo decreto legislativi del 2007 e del 2010, che sono attuazione di direttive europee e che quindi vigono già per i centri di Pma e che fino alla decisione della corte non potevano essere applicati alla donazione di gameti».
«Il problema reale, invece, continua D’Amico per il quale non servono nuove leggi, ma servirebbe applicare bene la legge e anche la Costituzione, è quello di vigilare sulla possibilità concreta per il pubblico o il privato convenzionato di praticare la Pma e, più in generale, di non consentire una situazione di totale differenza fra regione a regione, imponendo la Pma all’interno dei cd. Lea (livelli essenziali di assistenza), ai sensi dell’art. 117, lett. m della Costituzione. Qui c’è bisogno dell’intervento del governo, attuato in collaborazione a avvalendosi dei dati dell’Istituto superiore di sanità».
C’è stato un interessante dibattito dopo questo intervento, dibattito del quale mi limito a riportare alcuni temi:
1) La necessità che chiunque voglia capire qualcosa di questi argomenti convochi le Associazioni mediche e chieda loro lumi: sarebbe uno scandalo se faccio per dire istituzioni serie come il Comitato Nazionale di Bioetica decidessero di preparare un documento su questo tema senza convocare gli esperti, credo che messi tutti insieme i membri non abbiano mai incontrato più di un paio di coppie che sono ricorse a queste donazioni; ho anche capito, leggendo i quotidiani, che nessuno si è ancora reso conto del fatto che non si può parlare semplicemente di «eterogamia», bisogna distinguere tenendo conto del sesso del genitore sostituito, perché le motivazioni dei donatori, le reazioni della coppia, il destino delle famiglie sono del tutto diversi a seconda che il gamete donato sia un uovo o uno spermatozoo.
2) Qualcuno ha anche sorriso sul fatto che vengano chiamati a decidere le regole di un diritto molto laico persone molto religiose che considerano questo diritto una infamia per la morale.
3) Qualcuno si è chiesto come può, una persona religiosa, partecipare alla stesura delle regole su una questione tanto odorosa di zolfo, se a me chiedessero di scrivere le norme per una legge che riabiliti il fascismo emigrerei in Alaska.
4) Molti hanno ricordato la sentenza della Corte per i diritti dell’uomo (2010) nella quale la Grande Chambre chiede ai legislatori europei di monitorare continuamente le modificazione della morale di senso comune sui vari temi della bioetica prima di sedersi al tavolo per scrivere le nuove regole, un messaggio che in questo Paese, a quanto pare, solo la Consulta ha recepito.
Spero che la signora Roccella si renda conto del male che procura a tutti propalando informazioni «non vere» e che le corregga. Mi dispiace che non si renda conto che alle persone che si occupano di politica i cittadini chiedono soprattutto di non dire sciocchezze e di adoperarsi per bonificare il vero far west italiano che, a giudicare dalla fedina penale dei suoi componenti, sembra proprio essere il Parlamento.
Il ritardo della pubblicazione delle motivazioni della sentenza ha fatto nascere molte voci su una possibile, fortissima interferenza cattolica che avrebbe messo in imbarazzo la Corte Costituzionale. Non ci credo, i cattolici non sono così stupidi e la nostra Consulta è l’ultima difesa della Costituzione, ci vuol altro per metterla in imbarazzo.

Titoli: per il Corriere è una “sottrazione”, per la Stampa è un “buco”, ma per l’Unità è una “perdita”, «Tutto regolare»...
Corriere 21.5.14
«Bertone sottrasse 15 milioni allo Ior»
Conti e società di Londra e Malta per finanziare la società Lux Vide
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — C’è un buco da 15 milioni di euro nei conti dello Ior. Soldi che sarebbero stati utilizzati dal cardinale Tarcisio Bertone, quando era segretario di Stato vaticano, per finanziare un affare del suo amico Ettore Bernabei, giornalista e produttore televisivo presidente della «Lux Vide». Per questo l’alto prelato è accusato di malversazione. L’operazione, effettuata attraverso società e conti correnti esteri, riguarda proprio l’acquisto di quote della Lux ed è stata ricostruita dall’Aif, l’Autorità di informazione finanziaria vaticana. L’indagine si intreccia con quella avviata dalla Procura di Roma sulla gestione dei depositi dell’Istituto delle Opere Religiose e si concentra su quanto accaduto nel dicembre 2012.
La Lux Vide è una società quotata almeno 80 milioni di euro, ritenuta strategica da chi si occupa di tv, visto che ogni anno viene finanziata dalla Rai con oltre 30 milioni di euro per la produzione di fiction. La proprietà è di vari soci tra i quali figurano la «Rml comunicazione» della famiglia Bernabei, la «Prima Tv» dell’imprenditore tunisino Tarak Ben Ammar, Intesa Sanpaolo, la «Impresat» che fa capo alla Cei e la «Ricerche e Consulenze Az» del banchiere Pellegrino Capaldo. Due anni fa la Rml decide di aumentare la propria partecipazione e chiede un finanziamento proprio allo Ior. Parte così una complessa operazione che ha come perno la «Movie Invest Ltd» società britannica che in realtà fa capo proprio ai Bernabei. L’azienda emette obbligazioni per 15 milioni di euro che vengono acquistate dalla «Futura», società che invece è di diritto maltese. Ed è proprio quest’ultima a diventare anello di congiunzione con lo Ior visto che proprio alla Banca vaticana cede le obbligazioni. I soldi non tornano però nelle casse e dopo l’esame dei bilanci l’Aif avvia l’indagine interna.
Ieri, dopo il lancio della notizia del suo coinvolgimento da parte del giornale tedesco Bild , Bertone ha emesso una nota per assicurare come «la convenzione dello Ior con la società Lux Vide è stata discussa e approvata dalla commissione cardinalizia di vigilanza e dal consiglio di sovrintendenza nella riunione del 4 dicembre 2013, come dimostra il verbale relativo» e padre Lombardi esclude che si tratti di «un’azione penale». In realtà il retroscena di quanto accaduto lo hanno svelato proprio le indagini della Procura di Roma, affidate al Nucleo Valutario guidato dal generale Giuseppe Bottillo, sul ruolo dell’ex presidente Ettore Gotti Tedeschi. Le intercettazioni e le mail sequestrate avevano fatto emergere la volontà dell’allora direttore di Rai Vaticano Marco Simeon di far comprare allo Ior il 25 per cento della Lux Vide per 20 milioni. In una mail spedita a Gotti scriveva: «Credo fermamente nel progetto Lux Vide (...). Ho incontrato il presidente Geronzi col quale ho analizzato alcune strategie che qui ti trasmetto, affinché tu possa rivolgerle al cardinale (Bertone, ndr )...». Lo scambio di lettere va avanti per giorni e alla fine Gotti manifesta la propria contrarietà proprio nel memoriale spedito a Bertone: «Il valore richiesto non è frutto di vere valutazioni di mercato, il valore sarebbe molto più basso».

La Stampa 21.5.14
Vaticano. Gli scandali
Buco allo Ior, bufera su Bertone
Finanziata la società cinematografica di Bernabei, amico dell’ex segretario di Stato, persi 15 milioni
di Andrea Tornielli

qui

l’Unità 21.5.14
Una perdita da 15 milioni mette nei guai Bertone
Il tabloid tedesco Bild: «Indagine sull’ex segretario di Stato per malversazione»
Il Vaticano smentisce. Il porporato: «Tutto regolare»


L’ex segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone sarebbe sotto inchiesta per malversazione dall’Autorità di informazione finanziaria (Aif) della Santa Sede. La notizia apparsa ieri nella versione online del quotidiano tedesco Bild Zeitung è stata come una bomba, anche se poi è stata smentita dalla Santa Sede. Secondo il tabloid tedesco «gli investigatori avrebbero scoperto delle pressioni effettuate dal cardinale sullo Ior per un finanziamento di 15 milioni di euro alla Lux vide», la società fondata dall’ex direttore generale della Rai, Ettore Bernabei e ora leader nella produzione di fiction televisive come «don Matteo» e di importanti produzioni cinematografiche su temi religiosi.
L’accusa mossa dal quotidiano tedesco all’ex segretario di Stato è pesante. Bertone, che ricopriva anche l’incarico di presidente della commissione cardinalizia di controllo sull’Istituto finanziario vaticano, è sospettato di aver fatto pressione sullo Istituto per le Opere religiose, perché malgrado la contrarietà dei suoi vertici, venisse concesso quel significativo prestito alla casa di produzione fondata da Ettore Bernabei. Quei 15 milioni avrebbe preso la forma di «un finanziamento rimborsato con prestito obbligazionario», poi trasferito dallo Ior alla fondazione Optimum. Un’operazione che sarebbe stata in perdita per le finanze vaticane.
La notizia ha avuto un effetto particolare perché è stata lanciata proprio il giorno dopo la presentazione da parte del direttore dell’Autorità vaticana di informazione finanziaria (Aif), lo svizzero Renè Brulhart, del «Rapporto annuale relativo al 2013» sulla sua attività di vigilanza sulle operazioni finanziarie che hanno coinvolto la Santa Sede e la Città del Vaticano. Un anno indicato come quello dell’inizio della svolta per il più stretto rispetto della normativa internazionale sull’antiriciclaggio e l’anti-terrorismo. Si è segnalato come nel 2013 il sistema di allarme abbia permesso di segnalare ben 202 operazioni finanziarie sospette dentro il Vaticano, «Un finanziamento rimborsato con prestito obbligazionario», le casse Ior ci hanno rimesso ma solo cinque di esse (e tra di esse quella di Bertone non è presente) sono state inoltrate al pm vaticano. Interpellato da Bild, René Brulhart ha risposto di non poter «nè confermare, nè smentire» la notizia e di non voler parlare dei singoli casi. Una risposta che non è suonata come una smentita assoluta.
A darla ci ha pensato lo stesso cardinale Tarcisio Bertone che interpellato dall’Adnkronos, ha voluto puntualizzare che: «La convenzione dello Ior con la società Lux Vide è stata discussa e approvata dalla Commissione cardinalizia di vigilanza e dal Consiglio di sovrintendenza nella riunione del 4 dicembre 2013, come dimostra il verbale relativo». Quindi la decisione del prestito plurimilionario alla casa di produzione cinematografica, vi è stata ed è stata formalmente presa dallo stesso board laico dello Ior, tuttora in carica, che nel maggio 2013, consenziente Bertone, licenziò il presidente Ettore Gotti Tedeschi, poi sostituito, a pochi giorni dall’addio di Ratzinger, dal tedesco Ernst von Freyberg.
All’Ansa, l’ex segretario di Stato ha voluto sottolineare come ci sia «molta invenzione da parte della stampa. Io sono più citato di altri cardinali, giudichi lei». Per poi aggiungere: «Non riesco a capire il perché di questi attacchi». «Io sono in sintonia con il Papa, mi sento tranquillo».
La «Bild» gli muove anche l’accusa di avere accertamenti in corso in merito alla compravendita sotto costo di immobili di proprietà della Santa Sede.
Nel pomeriggio, infine, è arrivata la «smentita» ufficiale dal Vaticano per bocca del direttore della Sala Stampa, padre Federico lombardi. «A proposito di notizie che circolano in queste ore, dichiaro che non vi è in corso alcuna indagine di carattere penale da parte della magistratura vaticana a carico del cardinale Tarcisio Bertone».
Ma non è la prima volta che il cardinale Tarcisio Bertone finisce sotto i riflettori. Vi è stata la polemica sul «mega-appartamento» in Vaticano, quindi la disputa dei salesiani su un’eredità «contesa» che riemerge ciclicamente, ora è arrivata la polemica sul finanziamento destinato alla società televisiva Lux Vide. Molto spesso in vicende che riguardano operazioni finanziarie spregiudicate che coinvolgerebbero il cardinale salesiano, spunta il nome di Marco Simeon, già giovanissimo direttore della struttura Rai-Vaticano, suo uomo di fiducia, cresciuto alla scuola del banchiere Geronzi e ben inserito nei giri di certa finanza.
Con l’arrivo di Papa Francesco questo sembra essere un tempo lontano. Le prime scelte del pontefice argentino sono state quelle di cambiare i vertici dell’Apsa (Amministrazione del patrimonio della sede apostolica) e dello Ior (lasciando però Von Freyberg alla presidenza), estromettendo gli italiani dagli organismi di decisione. Ed è solo l’inizio.

il Fatto 21.5.14
Ior, Bertone e i 15 milioni alla società di Bernabei
di Marco Lillo


La notizia pubblicata dal giornale tedesco Bild Zeitung ieri mattina è di quelle che lasciano il segno: l’ex segretario di stato Tarcisio Bertone, l’uomo forte del pontificato di Benedetto XVI, sarebbe indagato dall’autorità giudiziaria vaticana. L’indagine per malversazione riguarderebbe sempre secondo il quotidiano popolare tedesco un’obbligazione convertibile da 15 milioni di euro per la società di produzione televisiva Lux Vide, che fattura 40 milioni producendo tra l’altro Don Matteo e in passato i telefilm sulle vite dei Santi e sulla Bibbia. Fondata da Ettore Bernabei, storico direttore generale della Rai, oggi presidente onorario a 92 anni, la Lux Vide fattura 40 milioni di euro all’anno ed è controllata dalla famiglia che detiene il 52 per cento attraverso una holding londinese. L’indagine giudiziaria interna al Vaticano di cui parla la Bild forse non c’è ma la storia del buco da 15 milioni nei conti dello IOR per colpa di questa operazione è vera.
IL FATTO nel settembre 2013 ha pubblicato un carteggio segreto risalente al dicembre 2010 sulla Lux Vide. La mail sequestrate a Gotti Tedeschi da parte dei CArabinieri del NOE dimostravano le pressioni di Tarcisio Bertone e del suo consigliere più ascoltato, Marco Simeon, allora direttore di RAI Vaticano, per convincere Ettore Gotti Tedeschi a comprare per 20 milioni una quota del 20-25 per cento della Luxvide. Il Fatto aveva pubblicato la mail di Simeon che forte dell’appoggio di Bertone e del presidente di Mediobanca di allora, Cesare Geronzi scriveva a Gotti: “dopo aver chiesto parere al Presidente Geronzi, Ti sottopongo l'ipotesi di ricorrere al Cardinale ed al c.d.a. affinchè ti autorizzino ad avviare la trattativa di acquisto quote per una somma non superiore ai 20 milioni di euro, per l'acquisto di una partecipazione non inferiore al 25 per cento”. Il Fatto aveva pubblicato la risposta di Gotti a Bertone: “il valore richiesto per Lux Vide non è frutto di vere valutazioni di mercato o economico finanziarie bensì è il frutto di transazioni passate di compravendita”. In pratica il prezzo della quota era stato fissato dai Bernabei per evitare perdite all’uscita del loro socio: Banca Intesa. Per Gotti: “il valore reale di mercato sarebbe molto più basso”. A maggio del 2012 il Consiglio di Sovrintendenza fa fuori il presidente dello IOR e a dicembre 2012 lo IOR decapitato, sotto l’ala protettrice di Bertone, sborsa 15 milioni di euro per sottoscrivere un prestito convertibile in azioni della Movie Invest Ltd dei Bernabei, che controlla il 52 per cento della Luxvide.
L’OPERAZIONE oggetto della presunta indagine giudiziaria del Vaticano (non confermata) è proprio quella alla quale si era opposto Gotti Tedeschi nel dicembre 2010 e che era stata svelata dal Fatto nel settembre scorso. Nessuno può dire oggi: ‘non avevo capito’ o ‘non sapevo’. Ernst Von Freyberg è nominato presidente solo a febbraio 2013. Si accorge dell’esistenza nella tesoreria dello IOR delle obbligazioni Movie Invest che e nel dicembre del 2013 le sbologna gratis alla Fondazione Scienza e Fede del cardinale Angelo Ravasi, destinata a diventare azionista della Lux Vide con una quota del 17 per cento superiore a quella del banchiere Pellegrino Capaldo e quasi pari a quella di Tarak Ben Ammar, amico di Berlusconi. Bertone ha avuto buon gioco a smentire ieri mattina: “Nessuna accusa di malversazione a mio carico. Sono tranquillo. La convenzione dello Ior con Lux Vide è stata discussa e approvata dalla commissione cardinalizia di vigilanza e dal consiglio di sovrintendenza nella riunione del 4 dicembre 2013”. Con qualche ora di ritardo è arrivata anche la smentita di Padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa Vaticana: “non vi è in corso alcuna indagine penale da parte della magistratura vaticana a carico del Cardinale Tarcisio Bertone”. Esclusa l’esistenza di un inchiesta da parte del promotore di giustizia, ‘il pm del Papa’ impersonato dall’avvocato Gian Piero Milano, resta un dubbio sull’esistenza di un fascicolo all’AIF, l’Autorità di Informazione Finanziaria diretta da René Brulhart che lunedì nel corso della conferenza stampa aveva risposto con un ‘no comment’ alla domanda sull’esistenza di un’indagine su Bertone da parte dell’autore del servizio. Intanto Luca e Matilde Bernabei ricordano che la Luxvide fattura 40 milioni e che il Vaticano qualcosa ha ancora in mano: “la quota azionaria trasferita è pari a circa il 17 per cento del capitale sociale”. Anche se non c’è un’indagine penale resta un fatto: lo IOR, per colpa dell’operazione voluta da Tarcisio Bertone a beneficio di Luxvide, avrà 15 milioni di utili in meno da girare al Papa che li avrebbe probabilmente impiegati meglio in opere benefiche piuttosto che in telefilm. Certo a rileggere oggi le cronache del dicembre del 2013 non si trova traccia di un’opposizione all’operazione Luxvide. Anzi sui giornali alla vigilia di Natale si parlò di un incontro di Bergoglio con i Bernabei per conoscere meglio Luxvide. Francesco quel giorno disse: “non voglio una fiction su di me”.

l’Unità 21.5.14
Giannini: test di Medicina addio, a luglio nuove regole
«Sì al modello francese di selezione alla fine del primo anno». Ma resta da capire come verrà attuata
Nuovo contratto per i docenti?


ROMA Poche ore e l’esultanza si diffonde sul web. «È una nostra grande vittoria», così gli studenti accolgono l’annuncio del ministro di Istruzione e Università, Stefania Giannini: addio al test di ingresso a numero chiuso per Medicina e Odontoiatria, le nuove regole «a luglio». Regole che potrebbero interessare anche chi ha sostenuto l’ultima e contestata prova, anticipata quest’anno ad aprile. E allora le associazione studentesche mettono i loro paletti: «No a spot elettorali» in vista delle Europee, «la riforma sia fatta insieme a noi».
Il sasso nello stagno Giannini lo getta quasi in sordina dal sito di Scelta civica. Tanto che le domande sul test a numero chiuso per Medicina si infittiscono, e lei precisa che sì, «è certo che sarà modificato. Entro fine luglio formulerò la proposta e le nuove regole. Credo che sia un cambiamento importante e necessario». Il punto fermo dell’ufficialità quindi è stato messo. Rimane da capire in che direzione vorrà guardare il Miur. Il ministro infatti aveva già “aperto” alla possibilità di rivedere i test («non sono sicura siano i metodo di selezione più adatto»), dopo le polemiche, scatenate tra l’altro dalla perdita di un plico con le domande a Bari, un’irregolarità contro cui ha fatto ricorso l’Udu (Unione degli Universitari). Il Miur però aveva tirato dritto, nessun annullamento della prova. Ancora prima poi le associazioni contestavano i test come «discriminatori» e non efficaci nella valutazione degli aspiranti camici bianchi. Un giudizio negativo a cui si erano unite migliaia di studenti coinvolti nel test (con una campagna virale sui social media, #stopaltest io ci metto la faccia), messi in difficoltà dall’anticipazione ad aprile, in piena fase di studio per la maturità.
Si era chiamato in causa il paragone con i cugini d’Oltralpe, e su questo torna in effetti Giannini, «intendo rivisitare il sistema di selezione, prendendo a modello quello francese: accesso al primo anno libero e poi alla fine dello stesso anno selezione su base meritocratica». Difficile però che questo percorso venga importato tout court. Una delle ipotesi al vaglio sarebbe quella di un correttivo all’insegna di una maggiore selezione, tutta centrata su voti e regolarità degli esami (in Francia si svolge invece una prova ulteriore, suddivisa in due parti, sulle materie oggetto di studio appunto nel primo anno). Il nodo verrà sciolto dunque entro due mesi. E potrebbe essere seguito da altre novità, se il meccanismo individuato venisse considerato adatto anche per la selezione nelle altre facoltà oggi a numero chiuso come Veterinaria e Architettura.
NUOVO CONTRATTO DOCENTI
Ma la lunga estate calda del ministro prevede che si affronti anche un altro oggetto di dibattito acceso, in questo caso sul versante scuola. Sempre ieri infatti Giannini ha spiegato di voler avere per fine luglio pure «la proposta per un nuovo contratto per gli insegnanti, con stato giuridico e trattamento economico, abbinato però a una rivisitazione della governance e dell’autonomia, per gli insegnanti e dirigenti scolastici, quindi alla possibilità di valutare e premiare».
Parole che subito fanno saltare sulla sedia i sindacati. Cgil, Cisl, Uil e Gilda concordano, bene che al Miur si lavori a un nuovo contratto ma non si può arrivarci senza prima «pensare al rinnovo del contratto, scaduto da cinque anni». Il tavolo è bloccato appunto da un lustro, e allora se c’è chi come la Cisl approfitta dell’uscita del ministro per chiedere di sedersi e discutere, la Flc Cgil è più netta e avverte, «no a discussioni che prescindano dal rinnovo. E poi nota polemico Domenico Pantaleo oltre agli insegnanti ci sono Ata e dirigenti. Di loro quando parliamo?».

l’Unità 21.5.14
Il turismo di massa e l’assedio di Roma
di Vittorio Emiliani


E GRANDI METE DEL «TURISDOTTO», CIOÈ VENEZIA, FIRENZE E ROMA, VENGONO OGGI SEMPRE PIÙ TRASFORMATE da città complesse (residenziali, direzionali, commerciali, turistiche, ecc.) in vere e proprie «infrastrutture per il turismo». Fin qui l’invasione di alcuni centri storici provocata anche dalla grassa rendita di posizione dei tour operators veniva subita dalle Amministrazioni comunali. Penso alle maxi-navi che stravolgono Venezia. Ora siamo, almeno a Roma, alla scelta consapevole di «sfruttare» i quartieri storici essenzialmente quali «giacimenti turistici» diurni e «divertimentifici» not-
turni.
A Roma il nuovo Piano Generale del Traffico Urbano (Pgtu) fa regredire la città, non soltanto rispetto alla normativa vigente, italiana ed europea, ma, in generale, rispetto alla cultura maturata, nel nostro Paese, in mezzo secolo di studi, convegni e concrete realizzazioni riguardanti i centri storici e il loro rapporto con la restante area urbana. Mentre fanno progredire una nuova «filosofia» di sfruttamento intensivo (turistico e ludico) delle città d’arte.
I dati sull’incremento turistico a Roma parlano chiaro e altrettanto chiaramente parla il collasso quasi quotidiano delle strutture centrali e semi-centrali di una metropoli il cui centro storico rischia di morire per «eccesso di funzioni» (city politica e parlamentare, uffici pubblici e privati, doppie ambasciate, banche, atelier, shopping, ecc.) che attraggono un traffico privato insostenibile. Coi residenti 80-85.000 nell’area storica considerati sempre più un elemento accessorio, privilegiato «in sé», e quindi da limitare nei diritti fondamentali. Roma insomma viene ripensata, essenzialmente, come una «infrastruttura turistico-commerciale». Basta vedere come essa venga lasciata occupare dai Lungotevere a Villa Borghese, da Colle Oppio a Villa Celimontana da flotte intere di bus turistici, totalmente incontrollati. Con Papa Francesco al quale vanno stima e simpatia siamo ormai ad una sorta di Giubileo «permanente», senza che viga la pianificazione dei parcheggi di bus efficacemente varata da Rutelli nel 2000. O che almeno si ventili l’idea di regolamentare e quindi limitare l’ingresso di mezzi pesanti. Dai mille e mille bus ai camion, ai furgoni, ai furgoncini che, senza più nessun orario, invadono e intasano strade, vie e vicoli, al servizio di una rete sempre più fitta (e spesso dubbia, come confermano gli ultimi pesanti sequestri a danno del racket) di locali e localetti .
L’assessore Guido Improta ha fornito una notizia interessante: le richieste di permessi per la Ztl da parte dei residenti sono calate di un 10%. Attribuendole bontà sua non all’ulteriore spopolamento e/o invecchiamento anagrafico del centro storico, ma al fatto che i residenti si stanno adattando a non usare l’auto, bensì la bicicletta e altri mezzi alternativi. Ogni residente nei rioni storici può testimoniare di usare pochissimo, da anni, l’auto (se ce l’ha), di muoversi a piedi, in motorino, in autobus o in taxi. Mentre l’uso della bici è ostacolato (lo dico da vecchio e sperimentato ciclista) dallo stato spesso disastroso delle strade, dall’assenza di percorsi ciclopedonali e dallo stato spesso deplorevole delle ciclabili esistenti, dall’età avanzata (gli anziani, da soli, costituiscono circa 1⁄4 dei residenti). Senza contare le forti pendenze collinari. Ma poi, sugli oltre 2 milioni di auto circolanti a Roma (978 ogni mille abitanti contro le 415 di Parigi), quale potrà mai essere l’incidenza delle vetture degli 80-85.000 residenti di ogni età (infanti, vegliardi, disabili gravi inclusi)?Frail3eil4%deltotale?
Evidentemente si fa strada anche col caro-permessi per la Ztl oltre i mille euro l’idea di liberare definitivamente altre zone centrali dagli abitanti veri. Il nuovo Pgtu prevede isole semi-pedonali con la eliminazione di marciapiedi, di fasce esclusivamente pedonali, riducendo le carreggiate a 2,5 metri di larghezza e sacrificando ulteriormente il diritto a spazi fisici protetti spettante a famiglie con bambini, a disabili e anziani, ai pedoni in generale. Un vero attentato alla vivibilità complessiva, alla sopravvivenza della città rispetto alla oggettiva dirompenza del turismo di massa e del «divertimentificio».
Tali provvedimenti non potranno che favorire l’ulteriore dilagare delle Osp (Occupazioni di suolo pubblico) in ogni tipo di strada o piazza, sacrificando anche le aree di sosta tariffata o a vantaggio dei residenti. Oltre tutto il caro-permessi si risolve come ha notato il consigliere del I Municipio, Nathalie Naim in una beffa: si paga una cifra spropositata per veder entrare poi chiunque, grazie alla oggettiva inflazione di permessi fasulli, ad orari di chiusura dei varchi, specie di quelli serali, che non proteggono niente e nessuno dal parcheggio selvaggio, dall’inquinamento atmosferico e acustico, ecc. A questo proposito, mentre i comitati dei residenti chiedono che la vendita di alcolici, coi relativi assembramenti, venga sospesa alle 22, l’amministrazione senza consultazioni di sorta opta per le 24 di notte. Come dire di no ai «bottegari» e ai ragazzi che chiedono «libertà di sbronza» (dichiarazioni testuali) ?
Siamo ad una politica che porta alla «movida» continua fino a notte fonda, al «divertimentificio» senza limiti, affaristico, equivoco, inquinato e inquinante, lasciando che le periferie rimangano un buio deserto per murati vivi e sfruttando come merce un patrimonio culturalmente e storicamente unico e irripetibile. E l’identità culturale, sociale, antropologica delle città storiche? Ma che discorso antiquato, via.

Corriere 21.5.14
Marino: «Liberalizzare la marijuana. Il proibizionismo ha fallito»
Il sindaco: «Sono favorevole alla cannabis per uso medico o personale. Bisogna aprire un dibattito per arrivare a una riforma delle leggi»

qui

Repubblica 21.5.14
La nostra casa non diventi un museo
di Agnes Heller


LA DOMANDA può essere formulata in due modi: l’Europa è un museo o l’Europa è (diventerà) solo un museo? Guardiamo innanzitutto la posizione degli europei: se chiedi a un qualsiasi europeo dell’Europa, ti risponderà che la sua patria, la sua nazione è in Europa. Qualcuno aggiungerà anche che l’Europa è la sua casa più grande. È un’esperienza comune, ogni volta che un europeo torna da un altro continente, di provare la sensazione di essere tornati a casa. Se insistete a chiedere a quell’europeo cosa significa l’Europa per lui (o lei), vi risponderà citando l’Unione Europea, la democrazia, ma anche aspetti della civiltà, come le regole nel vestire, il tipo di famiglia, il cibo preferito e così via.
SEMPRE di più gli “stranieri”, gli “estranei” per loro sono persone con preferenze differenti. Se andate ancora più in profondità e gli chiedete della cultura, vi citerà più facilmente il cristianesimo che non l’arte o i musei. Molti europei sicuramente vanno orgogliosi del loro patrimonio culturale, e questo patrimonio include visite a città e musei famosi, in particolare quelli più segnalati dalle guide turistiche. Da questo punto di vista l’Europa diventa anche un museo per gli europei: si scattano e si collezionano foto, e insieme con le foto qualche ricordo.
Gli europei dei nostri giorni non vivono la discrepanza, per non dire l’abisso, fra le tradizioni culturali dell’Europa
e la loro vita effettiva sul continente europeo.
Quando ero giovane io era diverso. Io ho vissuto in Paesi totalitari, in un’Europa di campi di concentramento e campi di sterminio. Quando Thomas Mann visitò l’Ungheria, il più grande poeta di quell’epoca, Attila József, scrisse un poema in suo onore, che si concludeva così: «Siamo estasiati di vedere finalmente tra gli uomini bianchi un europeo».
Per noi a quel tempo c’erano due Europe: l’Europa dei campi di sterminio, dei massacri, delle guerre, e l’Europa della poesia, dell’arte. L’altra Europa. In termini filosofici distinguevamo, senza conoscere quelle parole, tra l’Europa empirica e l’Europa trascendente. L’Europa trascendente era l’Europa della cultura umanista, della poesia, di un altro mondo. L’Europa empirica era il nostro mondo reale fatto di guerra, lager, fame e morte. L’Europa trascendentale era la promessa. Per la sua stessa esistenza e come consolazione. Quante volte abbiamo citato l’ Ode al vento occidentale di Shelley: noi che vivevamo nell’inverno della storia vi leggevamo la promessa che la primavera non poteva essere troppo lontana. Quanto era affascinante un Baudelaire che desidera fuggire lontano con la sua amata.
Musei o campi di concentramento: questo era il dilemma. Per il momento il dilemma sembra risolto: ci sono rimasti solo i musei.
L’Europa è sempre stata — tra le altre cose — anche un museo, almeno da quando i re hanno cominciato a collezionare quadri, da quando i papi hanno invitato gli architetti a creare grandi cattedrali, da quando i borghesi hanno cominciato ad andare ai concerti e da quando Gutenberg ha scoperto la stampa. Ma quando tutto questo avveniva, l’Europa era ancora solo un piccolo continente, e il prezioso concetto di “Europa” non era ancora venuto alla luce. La “cultura europea” come concetto, come idea, è comparsa tardi, ha iniziato la sua carriera con l’idea di Goethe di una “letteratura mondiale” (considerando che l’Europa, almeno nel suo aspetto culturale, all’epoca era identificata con il mondo). Erano pochi quelli che potevano viaggiare per vedere la “cultura europea” dal vivo, e quei pochi andavano per lo più in Italia, ma la stampa cominciò a fare il suo lavoro dalla seconda metà del Settecento in poi: disegni di importanti opere d’arte, e successivamente anche riproduzioni, viaggiavano al posto delle persone.
La tradizione, il “museo”, cioè l’arte “alta”, aveva in breve tre funzioni: la contemplazione, l’ispirazione e l’innovazione. Le prime due sono rimaste vive fino a oggi. Il problema odierno dell’Europa “come semplice museo” ha a che fare con la terza funzione. Dal Rinascimento in poi, insieme alla nascita del concetto di “progresso”, gli artisti importanti dovevano costantemente andare oltre la tradizione da cui provenivano. Questo dinamismo è finito con il superamento di tutti gli stili e scuole avvenuto con l’high modernism. Avvennero due cose: l’arte europea, al pari della filosofia, divenne una faccenda individuale, e al tempo stesso cessò di essere europea. Sono la globalizzazione e la personificazione dell’arte che hanno fatto sorgere la domanda se l’Europa non sia diventata solo un museo.
Per non dare adito a malintesi, è il caso di dire che gli artisti europei continuano a creare opere d’arte importanti, ma lo stesso fanno gli artisti cinesi, giapponesi e via discorrendo. Cosa che hanno sempre fatto, ma non è questo il punto: il punto è che è impossibile distinguere le opere d’arte create in un continente da quelle create negli altri continenti. Il fatto che un maggior numero di premi Nobel provenga da continenti diversi dall’Europa è solo l’aspetto più superficiale del cambiamento. La sostanza è che tutti questi scrittori, a parte un po’ di colore locale ogni tanto, appartengono allo stesso mondo. Quello che resta specificamente europeo è il “museo”, la sua tradizione culturale unica, non imitabile. Ma finché esisterà creazione artistica contemporanea, l’Europa non si trasformerà in un puro e semplice museo.
Anche la democrazia liberale europea non è un semplice museo. La democrazia europea, se eccettuiamo l’Atene antica, non è molto vecchia. La democrazia in America è più vecchia, più stabile, anche più popolare. Ma rimaniamo al tema dell’Europa come semplice museo.
Dopo aver parlato del punto di vista degli europei, voglio soffermarmi sul punto di vista dei non europei. Qui è il caso di distinguere fra turisti ricchi e rifugiati poveri. Per i rifugiati poveri in fuga, l’Europa è la Terra Promessa. I giovani sognano l’Europa, un continente dove non si corra il rischio di morire, dove lavorare e studiare.
L’Europa è un semplice museo soltanto per i turisti ricchi. Questo museo include anche le stradine medievali, le case, in altre parole la storia. E il gusto del cibo, del vino, il colore del cielo. Fra le migliaia di turisti, ce ne saranno sempre almeno tre che cominceranno a contemplare, che non vedranno soltanto il passato dell’Europa reificato nei musei, ma anche il presente vivo e il futuro. L’utopia, o per usare le parole di Adorno, «la promessa di felicità».
Torniamo ai tre utilizzi dei musei nel senso più ampio del termine: contemplazione, ispirazione e innovazione. L’innovazione, intesa come creazione non semplicemente di grandi opere d’arte, ma anche come creazione di nuovi stili e scuole, non è più possibile, almeno così sembra. La nostra tanto amata creatività ora la condividiamo con altre persone nel mondo.
L’Europa diventerebbe un puro e semplice museo se dovesse scomparire anche la fantasia, lo spirito creativo degli europei, se gli europei dovessero limitarsi a starsene seduti sugli antichi allori, se l’ispirazione ricevuta dal passato dovesse lentamente morire, se la democrazia liberale dovesse diventare una questione di abitudine.
Sì, l’Europa potrebbe diventare un semplice “museo all’aria aperta”: ma speriamo che non accada. (L’autrice è una filosofa ungherese Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 21.5.14
Hénin-Beaumont una volta era una roccaforte “gauche”: ora è la culla del terremoto populista d’Europa
È la città-simbolo del travaso dei voti della sinistra inghiottiti dalla Le Pen
Nel “Far West” della Francia dove la destra ha già vinto
di Bernardo Valli


QUESTO è il piccolo teatro di una grande svolta politica. Qui il proletariato, come si diceva un tempo, si è espresso votando per l’estrema destra. Hénin-Beaumont è una cittadina del bacino minerario in disuso del Nord della Francia. Hai l’impressione di visitare la trincea di lontane guerre: oltre alle guerre di soldati, quelle mondiali del ‘900 che qui hanno infierito, ci sono state le non meno cruente guerre di minatori di cui i pozzi di carbone chiusi sono i sepolcri.

HÉNIN-BEAUMONT LE vestigia di una civiltà operaia scomparsa. Le immagini dei grandi romanzi popolari dell’Ottocento riemergono nella memoria più vive della smorta realtà lì sotto gli occhi. Un terremoto ha sconvolto il panorama sociale e politico del nostro tempo e ha raggiunto anche questo struggente, ferito angolo del far west francese. Mi riferisco allo scambio incrociato tra i voti delle classi popolari, finiti nell’estrema destra, e quelli delle classi professionali, finiti nella sinistra riformista. Hénin-Beaumont è il piccolo ma significativo esempio di come quel travaso di consensi cambi il volto politico delle nostre società.
Le metropoli hanno istinti europeisti, le province profonde diffidano invece di una comunità aperta al mondo, senza frontiere, esposta alle immigrazioni. Il voto all’estrema destra è come una barricata contro l’Islam. Tra pochi giorni avremo un’altra operazione di chirurgia plastica-elettorale. L’estrema destra populista raccoglierà una nuova ondata di consensi perché ha saputo impadronirsi della collera popolare e la scaglia contro le istituzioni europee e i suoi tecnocrati, contro le elites politiche ed economiche nazionali, contro le banche e la mancanza di vere frontiere. Quest’ultime sono viste come vergognosi colabrodo: lasciano passare l’Islam, giudicato islamista anche quando non lo è. Il voto del 25 maggio ci rivelerà gli umori burrascosi, che in Francia dovrebbero fare del Front National il primo partito del paese, sia pur provvisoriamente. Un posto d’eccezione nella gerarchia dei movimenti nazionalpopulisti che inquietano con i loro successi la democrazia europea.
Qualche settimana fa, a fine marzo, le elezioni amministrative francesi hanno dato un’anticipazione, poiché in quell’occasione si è affermata l’estrema destra in cui gli specialisti distinguono la corrente radicale e la corrente populista. Quest’ultima ha prevalso a Hénin-Beaumont (27 mila abitanti), ed è stato un avvenimento nazionale. Da sempre, fino al marzo scorso, nella città prevaleva una società di sinistra con un passato di tragiche e oleografiche lotte operaie. Dal 1789 più di trenta sindaci hanno rappresentato movimenti progressisti. Neppure due mesi fa le stesse classi popolari, con alle spalle generazioni di minatori, hanno scelto Steeve Briois, stretto collaboratore di Marine Le Pen, come primo sindaco del Front National a Hénin-Beaumont. Dallo scontento dovuto alle difficoltà economiche particolarmente pesanti nella regione, e aggravato dagli ultimi pessimi amministratori municipali, coinvolti in scandali e rivelatisi ingordi di tasse, in altri tempi avrebbe tratto vantaggio l’estrema sinistra, anch’essa versata spesso nel populismo. Invece ne ha approfittato l’estrema destra. La quale ha una netta impronta anti-europea.
I superstiti politici della sinistra azzardano un giudizio severo. Per loro è un sacrilegio. Pensano al passato mitico della regione. Sono trascorsi centotrent’anni dalla primavera del 1884, quando Emile Zola venne qui nel Nord-Pas-de-Calais per seguire un grande sciopero dei minatori. Scese nelle gallerie Renard della Compagnies des mines d’Anzin a Denain, percorse per otto giorni i quartieri operai di Bruay, e da questa esperienza ricavò il romanzo popolare Germinal, ancora letto nelle scuole di Francia. “Germinal” è un mese del calendario repubblicano, corrisponde all’inizio della primavera e alla rinascita della natura e Zola stabilisce un parallelo con il risveglio della coscienza operaia, osservato durante lo sciopero nelle miniere. Nemmeno un secolo e mezzo dopo, Marine Le Pen ha scippato quel passato. È stata consigliera comunale a Hénin-Beaumont e ha fatto proseliti, aiutata dal tenace Steeve Briois, il nuovo sindaco. Appena insediato, Briois ha messo alla porta la Lega dei diritti dell’uomo, col pretesto che occupava un locale del municipio senza pagare l’affitto. In realtà non sopportava coinquilini che l’avevano accusato di razzismo. Il quarantenne Briois si dichiara tuttavia un «repubblicano », che in Francia è sinonimo di cittadino rispettoso delle leggi della République. Ciò non toglie che quelli che la governano o l’hanno governata siano tous pourris ( tutti marci), secondo lo slogan di Marine Le Pen. Il cui successo, oltre all’innegabile capacità di oratore e all’immagine accattivante, per molti addirittura carismatica, è dovuto anche alla solidarietà con le classi popolari. Solidarietà ribadita in tutti i comizi, con la solennità di un atto di fede. Non sono stati inutili, hanno creato proseliti, i puntuali abbracci a quello che era il proletariato. Il quale nel frattempo ha smarrito nome e cambiato natura. Infatti, per Marine Le Pen, più che da cittadini è composto da individi.
La conquista è costata una rinuncia. Una censura-rinuncia ai temi classici dell’estrema destra: l’antisemitismo, la difesa del cristianesimo occidentale, l’opposizione alla laicità, all’aborto e all’omosessualità. Questi principi non più sbandierati restano nelle convinzioni di molti militanti del Front National. Interrogato sul “matrimonio per tutti” — in sostanza se celebrerà come sindaco i matrimoni gay — Steeve Birois ha dato una risposta dapprima vaga e poi rassegnata, da buon repubblicano: la legge li prevede e dunque s’hanno da fare. Poi magari si cercherà di cambiare la legge. Steeve Birois è gay, non lo nasconde come altri non pochi collaboratori di Marine Le Pen, ma non è sedotto, per disciplina di partito o per scelta personale, dall’idea del matrimonio per tutti.
Lontano dal piccolo, simbolico Hénin-Beaumont, ed anche fuori dai confini di Francia, il Front National non esercita l’influenza che si pensa dovuta a un partito al quale i sondaggi annunciano un imminente grande avvenire. Il movimento di Marine Le Pen stenta a trovare alleati nelle estreme destre impegnate a trasformarsi in nazionalpopulismi più accettabili dagli elettori europei, e soprattutto ansiose di costituire domani una forza in grado di contare nel nuovo Parlamento di Strasburgo. Dove per formare un gruppo, e quindi proporre leggi, sono necessari venticinque deputati di almeno sette diversi paesi.
Marine Le Pen la metamorfosi l’ha attuata, almeno in superficie, e rifiuta la qualifica di estrema destra che le viene ancora affibbiata. Dice di non essere né di destra né di sinistra, anche perché le due definizioni per lei non hanno più alcun senso. La sua famiglia politica resta tuttavia quella che le ha lasciato il padre Jean-Marie. E nell’ambito di quella famiglia di estrema destra il suo potere è scarso. Resta “casalingo”, non si estende molto oltre i patri confini. Sul piano ideologico non gode di un grande prestigio. Ha come ribalta la Francia e questo la rende un’ospite di rango, ambita e corteggiata. È accolta con tutti gli onori nella Russia di Putin. È telegenica. Ma non è considerata l’ispiratrice di un nuovo populismo, con pretese democratiche.
Non lei, ma l’austriaco Andreas Moizer stava tentando con un certo successo di creare una grande alleanza delle estreme destre. Esponente di rilievo dell’Fpö (Partito austriaco della libertà), Moizer ha una grande influenza tra i pangermanisti del suo paese: è stato consigliere culturale in Carinzia, quando Joerg Haider, leader dell’estrema destra, era il governatore. Nello scorso novembre è stato Moizer a disegnare un’intesa nazional-populista sulla base di una piat- taforma ideologica comune ed emancipatrice, cioè accettabile dai partiti democratici, di cui servirsi per essere ammessi al potere, una volta allontanata la discriminante accusa di estremismo. Per contrasti interni al Fpö, Andreas Moizer è però stato tolto in aprile da capolista dei candidati alle elezioni europee e il suo aggiornamento del nazional populismo è rimasto in sospeso.
Cosi i vari movimenti entrano dispersi e con programmi diversi nel Parlamento di Strasburgo. Marine Le Pen ha stretto legami con l’olandese Geert Wilders del Partito per la libertà, con l’austriaco Heinz-Christian Strache del Partito libertà, con l’italiana Lega Nord, col Partito nazionale slovacco, con i Democratici svedesi. Insieme fanno parte dell’Alleanza europea per le libertà. Ma entrano con i loro eventuali deputati nel Parlamento di Strasburgo con progetti contrastanti. In particolare per quel che riguarda l’Unione europea, che gli uni vogliono riformare ed altri abolire. Cosi per l’euro, difeso dagli uni, sia pur con notevoli cambiamenti rispetto ai criteri attuali, e dagli altri invece condannato e sostituito con monete nazionali.
Il britannico Nigel Farage, dell’UK Indipendence Party, non desidera legami con il Front National di Marine Le Pen, ma neppure con le estreme destre ungheresi, troppo indigene, troppo locali. Non l’attrae neppure il partito eurofobo greco, troppo rozzo. Farage vuole soltanto che il Regno Unito tagli i vincoli con Bruxelles e recuperi la propria indipendenza. Uno storico belga, David Engels, ha paragonato l’Unione europea alla Repubblica romana in declino e destinata a trasformarsi in un impero. L’esercizio intellettuale è interessante, numerosi colleghi di Engels ne hanno discusso, ma nel panorama europeo non c’è traccia di un Augusto imperatore. Né di un Nerone davanti a Bruxelles in fiamme. C’è piuttosto una frantumata tribù di barbari che vorrebbe disintegrare l’Europa semiunita, ma che per ora non ne ha la forza sufficiente. E si deve accontentare di condividere quello che appare l’ossessione comune: la ripulsa dell’Islam, che attraverso l’immigrazione tenderebbe a distruggere la civiltà occidentale.
(3 fine)

La Stampa 21.5.14
Israele, video accusa i militari
“Due palestinesi uccisi a freddo”
di Maurizio Molinari


Un video palestinese accusa i militari israeliani di aver ucciso a sangue freddo due manifestanti ma per il portavoce dell’esercito di Gerusalemme si tratta di «immagini manomesse in malafede». Il video è stato girato dalla telecamera privata di un negozio palestinese a Betunia, dove in occasione del Nakba Day vi sono stati gli scontri attorno alla prigione di Ofer durante i quali due manifestanti sono rimasti uccisi. Il video mostra entrambi i giovani (il diciassettenne Nadim Nawara e il quindicenne Mohammed Odeh) mentre vengono colpiti, dalle immagini non sembrano portare minacce e uno viene colpito mentre dà le spalle ai soldati. A trovare e distribuire le immagini è stata la ong Difense for Children International Palestine, il cui direttore Rifat Kassis afferma che «documenta omicidi illegali perché nessuno dei ragazzi uccisi poneva una minaccia vitale al momento in cui è stato raggiunto dai proiettili». Da qui la richiesta alle autorità israeliane di «condurre un’indagine imparziale per identificare i responsabili e obbligarli a rispondere dei crimini commessi».
La stessa ong palestinese ha reso pubblico il referto medico dell’ospedale di Ramallah in cui si attesta che i manifestanti sono stati uccisi da «proiettili veri e non di gomma». Per Hanan Ashrawi, del comitato esecutivo dellOlp, si tratta di un «crimine contro l’umanità da punire in base alla legge internazionale».
La reazione delle forze armate israeliane è arrivata con un comunicato del portavoce nel quale si afferma che «il video è stato manomesso in malafede e non riflette in alcuna maniera la violenza e i disordini» con cui i soldati si sono dovuti confrontare giovedì scorso, in occasione della giornata che vede i palestinesi ricordare la «catastrofe» della nascita di Israele nel 1948. Inoltre, aggiunge il portavoce Peter Lerner, «l’indagine iniziale ha portato a smentire l’uso di proiettili veri da parte dei reparti impegnati e dunque resta da appurare come sono morti i due palestinesi». Il procuratore militare ha ordinato un «supplemento di indagine» su quanto avvenuto.

l’Unità 21.5.14
Putin in Cina
La Russia cerca un nuovo asse
Mosca e Pechino mai così vicine, ma il capo del Cremlino non riesce a chiudere il contratto che sbilancerebbe verso Pechino le forniture di gas


Russia e Cina mai come ora così amiche e collaborative. Vladimir Putin e Xi Jinping si incontrano a Shanghai in margine ad una conferenza pan-asiatica sulla sicurezza. E in un documento congiunto sottolineano i giudizi comuni sull’insieme della situazione internazionale, sulle crisi regionali e sulle vicende ucraine in particolare. Una vicinanza di valutazioni politiche generali che si accompagna ai «progressi» ma non ancora la firma verso un accordo ormai dato per imminente per massicce forniture di gas russo alla Repubblica popolare, mentre nuove manovre militari congiunte vengono annunciate per il 2015 nel settantesimo anniversario della fine della guerra mondiale.
Putin fa precedere il suo arrivo a Shanghai da dichiarazioni entusiastiche sullo stato dei rapporti bilaterali. Definisce la Cina «un amico affidabile» e assicura di «non esagerare nel dire che la nostra cooperazione è al massimo livello mai raggiunto nella storia». Sono lontani anni luce i tempi in cui la teorica fratellanza imposta a Mosca e Pechino dall’appartenenza al campo del comunismo internazionale, franava rovinosamente in un inconciliabile antagonismo con reciproca imposizione di insultanti etichette. A Mosca comandano «revisionisti» e «social-imperialisti», dicevano i leader cinesi, rispondendo ai sovietici che li accusavano di «avventurismo» e «deviazionismo».
TRENT’ANNI DI ENERGIA
Dietro alle scomuniche ideologiche stavano divergenti interessi strategici ed economici. Oggi accade il contrario. Russia e Cina sono spinte l’una verso l'altra dalla comune e diversamente motivata rivalità nei confronti dell’altra superpotenza, gli Usa. Il maxi-contratto sul gas sarebbe il coronamento di una trattativa iniziata oltre dieci anni fa, che potrebbe soddisfare da un lato la volontà russa di allargare il fronte degli acquirenti, dall’altro la formidabile fame cinese di risorse energetiche.
L’accordo acquista però un valore del tutto particolare nel contesto dei drammatici avvenimenti in corso in Ucraina. Mentre Gazprom minaccia di tagliare le forniture di gas a Kiev, si appresta a dirottarne enormi quantitativi verso Pechino: da 38 a 60 miliardi di metri cubi all’anno per trent’anni a partire dal 2018. Un ramo del gasdotto che attraversa la Siberia sino al porto di Vladivostok ne convoglierebbe il flusso verso la Cina nordorientale, regalando al Paese di Xi Jinping un’alternativa al carbone e al soffocante inquinamento delle sue metropoli.
Il negoziato è andato avanti a fatica per l’ostinazione cinese nel tirare sul prezzo. Mosca ha tenuto duro ma ora ha due ottime ragioni per cedere: sigillare i rapporti di alleanza con la Cina per rafforzarsi nel contenzioso strategico e diplomatico con l’Occidente, e assicurarsi comunque introiti, che sono quanto mai necessari nel momento in cui la sua economia sembra entrare in una fase di debolezza. Da quando si è aggravata la crisi ucraina è iniziata una fuga di capitali all’estero pari ad almeno 220 miliardi di dollari, secondo stime della Banca centrale europea. Standard&Poor's ha abbassato il rating sul debito nazionale russo sin quasi al livello «junk», spazzatura. Le sanzioni europee ed americane rischiano nel lungo periodo di creare seri problemi a Putin.
Nel comunicato congiunto i due presidenti si riferiscono alla situazione ucraina lanciando un appello affinché «si abbandoni il linguaggio delle sanzioni unilaterali» e si favorisca una «de-escalation» del conflitto attraverso «un ampio dialogo nazionale» che includa tutte le regioni e i gruppi politici. Attraverso formule diplomaticamente prudenti, Pechino sembra sposare sempre di più le posizioni russe, allontanandosi dall’atteggiamento neutrale che aveva cercato di tenere in un primo tempo. Del resto a Xi Jinping serve trovare una sponda a Mosca nel momento in cui si accentuano i contrasti con Washington, che denuncia tra l’altro le sempre più frequenti provocazioni cinesi nelle dispute con altri Paesi del Pacifico per la sovranità su tratti di mare e arcipelaghi contesi.

Repubblica 21.5.14
“Pago solo ciò che consumo”
È la fine della proprietà
di Riccardo Luna


MA È la condivisione o la disperazione il motore di tutto? Un mese fa il dibattito su cosa sia davvero, aldilà dei facili slogan, la sharing economy è esploso negli Stati Uniti. E in campo sono scesi due pesi massimi. Da una parte, a San Francisco, si è schierato Wired, il mensile icona della Silicon Valley e del cambiamento innescato dalla rivoluzione digitale. E dall’altra si è opposto il primo settimanale patinato dell’east coast, il New York.
Era accaduto questo. L’ultima storia di copertina di Wired celebrava il trionfo dei siti come Uber e AirBnb e in definitiva la rivoluzione culturale innescata dalla economia collaborativa. Che bello, era il senso di tutto, grazie a Internet e a queste app adesso gli americani si fidano degli sconosciuti. E poco importa che le statistiche dimostrassero che il livello di diffidenza degli americani verso “l’altro” è ancora altissimo (59 per cento). La morale era solo una: trust me!, fidatevi, fidiamoci. Di chi ti affitta la stanza o l’auto, di chi ti guarda il cane o di chi viene in casa tua a fare quei lavoretti che non sai fare. Bello. Ma falso. Perché — è la tesi del New York magazine — il vero motore che ci mette nelle condizioni di affittarci tutto, e che ci spinge nelle mani di sconosciuti per avere dei servizi a basso costo, sarebbe la crisi economica. “Per capire perché queste app hanno tanto successo, guardate i dati: dalle crisi del 2008 a oggi molti posti di lavoro sono andati perduti e una parte si è trasformata in lavoro precario. E i salari reali sono calati per tutti”.
I numeri sono questi. Negli Stati Uniti come in Europa. Ma non spiegano tutto. Infatti non c’è dubbio che la crisi economica stia accelerando la diffusione del “consumo collaborativo” come lo chiamò nel suo best seller Rachel Botsman — “Quel che è mio è tuo” — tre anni fa. Ma è in corso un cambiamento più profondo. La fine del concetto di proprietà esclusiva per far spazio non tanto a una proprietà condivisa di stampo socialista, quanto piuttosto all’acquisto di un servizio più che di un bene. Mi compro il passaggio in auto quando mi serve invece dell’auto e così via: per tutto. Pago, poco, quello che consumo e basta. Per le nuove generazioni è questo l’unico modo di vivere. È l’alba di un nuovo capitalismo? Vedremo, intanto quello che si può dire è che in questa rivoluzione Internet agisce in due modi: il primo è infrastrutturale, diffondendo le offerte e domande di consumi collaborativi; il secondo è reputazionale. Infatti formalmente la sharing economy ti porta a fidarti degli sconosciuti, ma in rete nessuno è davvero sconosciuto. C’è una storia che parla per noi, ci sono le tracce digitali e le referenze che quelli che hanno avuto a che fare con noi hanno lasciato. Queste due leve stanno aprendo le porte a una economia parallela. Piccola? Si, ma neanche tanto. Sempre la Botsman ha calcolato che parliamo di un mercato globale di 26 miliardi di dollari. A San Francisco chi si affitta una o più stanze, in media lo fa per 58 giorni l’anno, mettendosi in tasca circa novemila dollari l’anno. Moltiplicate per centinaia di migliaia di annunci al giorno e capirete perché l’ultimo round di finanziamento ha fatto volare la valutazione di AirBnb a dieci miliardi di dollari. Roba che molte catene alberghiere se la sognano. Quelli che all’inizio snobbavano i servizi peer to peer adesso si preoccupano. E quando non scendono in piazza a protestare contro Uber, chiedono misure legislative e fiscali restrittive: chi regola questi servizi? Come pagano le tasse? In molti paesi europei e stati americani è tutta una corsa ad adeguare le leggi. Ma non sarà una norma ottusa a fermare il cambiamento. È bene che i tassisti lo sappiano. Lo dice la storia. Nel 1865 per esempio nel Regno Unito si stabilì che le auto potessero circolare solo a passo d’uomo e dietro un agente con la bandiera rossa in mano in segno di pericolo. Non servì a salvare le carrozze con i cavalli.

Repubblica 21.5.14
Un gruppo di ricercatori inglesi e tedeschi ha trovato la ricetta per riprodurre le origini dell’universo: è già sfida a chi realizzerà per primo l’esperimento
Il Big Bang in laboratorio “Così la luce diventa materia”
di Silvia Bencivelli


PRENDERE luce, sottoforma di fotoni ad altissima energia. Sbatterla in un apparecchio cilindrico foderato d’oro. Prelevare la materia fresca fatta di elettroni e positroni che ne schizzano fuori. Ecco la ricetta per replicare il Big Bang tra le quattro mura di un laboratorio. È stata scritta da un gruppo di ricercatori inglesi dell’Imperial College di Londra con i colleghi tedeschi del Max Planck Institut di Heidelberg che, ottant’anni dopo le prime
idee teoriche sulla possibilità di convertire luce in materia, sono finalmente riusciti a disegnare un esperimento capace di farlo davvero.
Si tratterebbe del primo esperimento in grado di replicare uno dei processi fondamentali avvenuti al momento della nascita dell’universo. In particolare quei primi cento secondi di quattordici miliardi di anni fa quando la pura energia della luce si è potuta trasformare liberamente in materia primordiale. Questa, successivamente, ha dato vita alla materia che oggi forma le stelle, i pianeti, noi che ci abitiamo sopra e tutto quello che esiste. Adesso, dicono gli scienziati, abbiamo la tecnologia adatta e la ricetta da seguire. Il tempo necessario per preparare l’esperimento sarebbe minimo: solo dodici mesi. E la sfida a chi lo realizzerà per primo è già aperta.
L’idea di produrre materia dalla luce risale alla metà degli anni Trenta, quando due fisici americani di nome Gregory Breit e John Wheeler presero l’equazione più famosa del loro collega Albert Einstein e scrissero che un giorno, basandosi su quella, sarebbe stato possibile trasformare la luce in materia. Formulata nel 1905, l’equazione di Einstein afferma infatti che l’energia e la massa sono strettamente legate tra loro. A tenerle insieme c’è una costante, un numero fisso che non cambia mai, cioè il quadrato della velocità della luce. Breit e Wheeler immaginarono una dimostrazione dell’equazione di Einstein che partisse dall’energia di due fotoni (il “pacchetto minimo di energia” della luce) e che producesse un elettrone e il suo equivalente con carica positiva, cioè il positrone. Siccome gli elettroni sono in tutti gli atomi, e gli atomi sono le componenti fondamentali di ogni cosa, ecco che producendo elettroni avremmo creato materia.
Ma i due fisici americani, negli anni Trenta, non avevano la tecnologia per realizzare l’esperimento. E nemmeno potevano immaginare che un giorno questa sarebbe stata disponibile. Così scrissero anche che «l’osservazione della produzione di materia in un esperimento di laboratorio è del tutto senza speranza».
Adesso il gruppo di ricercatori inglesi e tedeschi sostiene invece, dalle pagine della rivista scientifica Nature Photonics , che finalmente ci siamo. Grazie a nuove sofisticate tecnologie, come i laser ad alta energia, dicono che l’idea di Breit e Wheeler può diventare realtà. Si tratta di sparare elettroni contro una lastra d’oro per creare fotoni un miliardo di volte più energetici di quelli della luce visibile. E poi, in una seconda fase, di farli entrare in una lattina dorata mantenuta ad altissima temperatura dove il fortissimo riscaldamento ha prodotto altri fotoni. La collisione tra i due tipi di fotoni produrrebbe la materia che cerchiamo. Non solo. Se qualcuno allestisse un simile apparecchio per le collisioni fotone — fotone, ha spiegato il primo firmatario dell’articolo Oliver Pike, «avremmo uno strumento molto pulito per studiare tutta la fisica fondamentale ». Cioè uno strumento in cui «entra luce, esce materia ». In un certo senso, un vero nuovo Big Bang.

Repubblica 21.5.14
“Non si è mai visto nulla di simile ora bisogna farlo”
intervista di S. Ben.


«IL contrario è stato già fatto, abbiamo già trasformato materia in energia. Per cui l’esperimento per trasformare energia in materia ha tutte le carte in regola per funzionare. Ora lo aspettiamo con entusiasmo ».
Per Antonio Masiero, vicepresidente dell’Istituto nazionale di fisica nucleare e fisico teorico all’università di Padova, è solo questione
di tempo.
In che senso abbiamo già trasformato particelle di materia in pura luce?
«Lo facciamo e lo abbiamo fatto con le macchine acceleratrici, come quelle del Cern di Ginevra, in cui particelle si scontrano e producono altre particelle, tra cui i fotoni, cioè le particelle di luce. Ma non nascondo che il processo proposto oggi è molto affascinante: sappiamo che deve avvenire, e che è avvenuto dopo il Big Bang, ma non lo abbiamo mai visto. Ed è l’affermazione più forte dell’equivalenza tra massa ed energia legata alla formula di Einstein».
Perché allora non è mai stato realizzato?
«Perché per trasformare luce in materia ci vogliono fotoni ad altissima energia e per di più concentrati in uno spazio piccolissimo, proprio come è accaduto durante il Big Bang. Insomma: ci vuole un’altissima tecnologia. Che oggi abbiamo ».
Qualcuno lo farà davvero?
«Gli scienziati che firmano l’articolo ritengono di sì. Del resto, in tutto il mondo esistono ormai le macchine che permettono di farlo. Ce le abbiamo anche a Frascati, nei laboratori dell’Infn ».

l’Unità 21.5.14
Mare e sangue
6 giugno 1944: settant’anni fa lo sbarco in Normandia
Alle celebrazioni di quest’anno saranno presenti tutti i «grandi»: Hollande, Putin, Merkel, la regina Elisabetta, Obama, il premier canadese renderanno onore ai 210mila caduti, feriti e dispersi
di Wladimiro Settimelli


L’ODORE DEL MARE È FORTE E INTENSO LUNGO LE COSTE DELLA NORMANDIA. POI TI ASSALE QUELLO DEI FIORI E DELL’ERBA E TUTTO PARE DI UNA BELLEZZA STRAORDINARIA. Poi giri gli occhi e vedi tutti i cimiteri con le lapidi bianche, le croci e le bandiere. Intorno, il silenzio è solenne. Il dolore, allora, ti chiude subito la gola. Ne sono morti a migliaia di soldati qui: americani, inglesi, canadesi, francesi, tedeschi. Tutti giovani e coraggiosi che si scannarono, settanta anni fa, in una confusione indicibile tra l’esplosione di mille bombe, i colpi di cannone, le raffiche di mitragliatrice, il rumore degli aerei, il fracasso dei carri armati, le botte sorde delle bombe a mano, le urla dei feriti e quelle di chi incitava di correre all’attacco. Era l’alba fosca del 6 giugno 1944 e il mare era mosso. Faceva anche freddo e il cielo era chiuso dalle nubi. Un tempo infame, insomma. Questo lo scenario del «D-day», dell’operazione Overlord o meglio ancora dello sbarco in Normandia, con l’attacco alla «Fortezza Europa» occupata dai nazisti. Le truppe di Hitler erano in ritirata ovunque e l’Armata Rossa aveva già spazzato via, con tanti morti e tanta sofferenza, l’orgoglio e la potenza nazista a Stalingrado, dove il generale Timoscenko aveva costretto alla resa l’armata di von Paulus per poi passare all’attacco. Lo sbarco in Normandia era ora l’apertura del «secondo fronte», promesso a Stalin dagli alleati.
Fu una operazione gigantesca, mai vista prima nell’arco di tutta la seconda guerra mondiale. I soldati della Wehrmacht e le Waffen SS, quella mattina piovigginosa e cupa, sentirono arrivare gli aerei appena sbucati dalle nuvole. Erano migliaia: esattamente diecimila, un numero pazzesco. Poi stavano sorvolando la Normandia altri 2.300 velivoli da trasporto e centinaia di alianti con a bordo 27 mila paracadutisti. Con terrore, nelle postazioni difensive naziste in cemento armato sparse lungo la costa, gli ufficiali videro con i binocoli una flotta gigantesca che arrivava dal largo. Era composta da 4.126 navi che avevano a bordo carri armati, camion, semoventi, mezzi da sbarco, cannoni e cannoncini, mitragliatrici, ambulanze e armi di ogni tipo e genere. 1.213 di quelle navi avevano il compito di bombardare con i grossi calibri le batterie costiere tedesche. Altre, trascinavano enormi cassoni di ferro galleggianti, detti «Mulberry» che furono utilizzati per realizzare, in poche ore, un grande porto artificiale. Quei cassoni, oggi, rotti e consunti, sono ancora in parte al loro posto, ad ovest di Arromanches. Come al loro posto sono decine di piccoli musei allestiti in ogni villaggio coinvolto nel grande sbarco, con mezzi militari riprodotti alla perfezione, cartoline, libri, cartine, soldatini e cimeli tantissime volte rifabbricati in questi settanta anni.
La storia dello sbarco in Normandia è stata raccontata in centinaia di libri, in tanti film e «special» televisivi, indagata dagli storici e dagli esperti militari, ma la visita ai musei dei paesi della costa, suscita, appunto, ancora grande emozione. Anche visitare quel che resta delle fortificazioni tedesche, grandi, massicce e «pesanti», fa pensare a quello che deve essere stato l’attacco al Vallo Atlantico e allo scontro duro e terribile di quel giugno 1944.
Forse per questo, dicono, alle celebrazioni di quest’anno saranno presenti tutti i «grandi»: Hollande, Putin, la Merkel, la regina Elisabetta, Obama, il capo del governo canadese e tanti altri. Visiteranno cimiteri, deporranno corone e parteciperanno a tutte le celebrazioni ufficiali.
La preparazione dello sbarco in Normandia era cominciata nel 1943 con indagini e ricerche sulla consistenza delle difese tedesche, lo stato delle strade, delle comunicazioni e la scelta dettagliata delle zone da assaltare. La Resistenza francese aveva contribuito con una massa straordinaria di informazioni e dettagli, con il controllo continuo dei ponti e quello dei comandi nazisti lungo tutta la costa francese. I tedeschi, in realtà, erano convinti che lo sbarco alleato si sarebbe verificato al Pas-de-Calais per la distanza più breve dall’Inghilterra. Proprio in quella zona tutto era stato fortificato e organizzato per respingere l’attacco.
I gruppi di armate B erano al comando, per parte nazista, del maresciallo Rommel, l’eroe dell’Afrika Korps. Lui aveva minuziosamente pianificato e fatto costruire tutte le difese: aveva fatto piantare in mare palafitte in acciaio, tetraedri di calcestruzzo, rotaie ricurve a pelo d’acqua, cavalli di frisia sommersi, mine di ogni potenza e fatto costruire lungo la costa tutta una serie di casematte in cemento armato: opere possenti e praticamente imprendibili. Nelle casematte erano stati poi sistemati potenti cannoni da marina. Dall’altra parte della Manica, al comando di migliaia e migliaia di soldati forniti di ogni genere di arma, c’erano il generale Eisenhower e il celeberrimo generale inglese Montgomery. Per mascherare la preparazione del grande sbarco, gli alleati avevano fatto di tutto. Persino piazzare carri armati di legno ben esposti alla ricognizione aerea tedesca, in direzione di Calais. Non solo: era stato fatto ritrovare in mare il corpo di un falso ufficiale inglese (era invece un barbone sconosciuto) con alcune carte in una borsa. Erano falsi piani alleati che confermavano lo sbarco a Calais.
La data del vero sbarco era stata ormai fissata per il 5 giugno, ma alle 9 e 45 minuti del giorno 4, Eisenhower era stato costretto a rinviare di un giorno la grande operazione a causa del maltempo. Rommel, dall’altra parte della Manica, tranquillizzato dalle pessime previsioni del tempo, era partito per qualche giorno di vacanza in Germania. Tra l’altro era anche convinto che l’invasione alleata sarebbe stata possibile solo con l’alta marea.
Finalmente, il giorno 5, alle ore 22, migliaia di aerei erano decollati dall’Inghilterra. Anche le navi avevano preso il largo. Trasportavano 280mila soldati. Intanto, la Bbc aveva trasmesso per radio, alle ore 20 del 5 giugno, la celebre strofa (modificata) di Verlaine che diceva: «I singhiozzi lunghi/dei violini/d’autunno/feriscono il mio cuore/ di un languore/monotono». Era il messaggio tanto atteso dalle forze della Resistenza francese. L’annuncio, cioè, dello sbarco. I partigiani erano entrati subito in azione: bloccando treni militari, tagliando i cavi di comunicazione tra i comandi tedeschi, e facendo saltare ponti e bloccato le strade. Insomma era giunto il momento atteso da tanto tempo e la commozione tra i combattenti per la libertà era grande.
Ed eccola la grande invasione. I soldati alleati sbarcano in cinque diverse zone che sono state denominate Sword, Juno, Gold, Omaha e Utah. Intanto, migliaia di paracaduti scendono dal cielo. A centinaia muoiono nei canali della zona allagati dai nazisti. Altri finiscono in località completamente diverse da quelle previste. Alcuni scendono nel parco di un comando tedesco e vengono subito uccisi. Altri ancora finiscono nel fuoco di un incendio. Uno si finge morto e rimane appeso tutta la notte al campanile di una chiesa. Gli alleati devono conquistare la penisola del Cotentin per arrivare al porto di Cherbour e procedere per Caen. La lotta è durissima e migliaia di vite vengono falciate.
Il cinema ha raccontato ogni particolare di quelle ore. Terribile è la lotta alla punta dell’Hoc per i rangers americani che devono scalare con i rampini e scale da pompieri una falesia altissima e scoscesa. Ci vorranno due giorni di scontri feroci prima di conquistare il rifugio di cemento dei tedeschi che si trova sulla vetta. Dall’alto dei punti di approdo delle navi, le truppe speciali di Hitler falciano centinaia di soldati inglesi, canadesi e francesi. Sono scontri titanici. Intanto Rommel è tornato dalla Germania a grande velocità ma la sua macchina viene mitragliata da alcuni aerei americani. Il generale rimane gravemente ferito e deve rientrare. Tornerà al fronte solo il 17 luglio.
Comunque, piano piano, gli alleati sfondano e si avviano verso l’interno. Una intera divisione corazzata tedesca, che forse avrebbe potuto ribaltare la situazione, viene bloccata dagli alti comandi. Solo Hitler avrebbe potuto ordinarne l’utilizzazione. Ma lui, dicono, «dorme e non può essere disturbato».
È davvero l’inizio della fine.

La Stampa 21.5.14
“Non fu Sartre, e neanche Camus”
Il padre dell’esistenzialismo? Moravia
di Flavio Alivernini

qui

Corriere 21.5.14
Gillo Dorfles, elogio dell’indagine con sentimento
di Stefano Bucci


Sono 104 anni appena compiuti lo scorso 12 aprile. Ma visto che si tratta di Gillo Dorfles la sua longevità (di spirito, d’arte, di fisico, di mente) non fa più nemmeno notizia. A ricordarcelo (e a ricordarglielo) ci pensano in fondo gli altri. In occasione del suo compleanno era così uscito per le Edizioni Medusa il libro di Marco Meneguzzo Arte con sentimento. Conversazione con Gillo Dorfles (pp. 70, e 9) mentre oggi a Urbino gli verranno conferiti in un colpo solo il diploma di socio onorario dell’Accademia Raffaello e il premio «Sogno di Piero» (ore 10, sala Convegni Serra d’Inverno, Palazzo Ducale)«per essersi fatto interprete di indagini tanto accorte e per avere arricchito la cultura italiana di un appannaggio di conoscenze straniere che alla sua opera d’importazione culturale su deve attribuire». Infine sempre oggi e sempre a Urbino, stavolta alla Casa Raffaello, si inaugurerà una mostra dedicata alle opere più recenti di Dorfles (critico e artista tra i fondatori del Movimento arte concreta nonché tra i teorici-inventori del kitsch), quelle realizzate tra il 2010 e il 2013 (fino al 4 giugno, www.accademiaraffaello.it). Ad accompagnare la mostra Pittura e filosofia, libro-catalogo con testi di Luigi Sansone e Luca Cesari stampato dall’editore Campanotto che contiene anche due vere e proprie «chicche»: due antichi scritti ( Goethe disegnatore e Raffaello ) apparsi sulla rivista «Arti Plastiche» nel 1933. Come d’altra parte prezioso è anche il testo che accompagna la brochure del premio (prima di Dorfles era andato a René Berger, Fernanda Pivano, Eliseo Mattiacci, Alexandr Sokurov, Pier Paolo Calzolari, Enrico Ghezzi, Enzo Cucchi, Rosellina Archinto): un testo dedicato a Montale pittore che Dorfles (nato a Trieste nel 1910) aveva pubblicato sulla «Fiera Letteraria» del 12 luglio 1953. Scriveva Dorfles: «Il Montale lucido, cristallino, terso dei versi non è certo quello ingenuo, dolcissimo, fiabesco dei pastelli o quello ironico e caustico dei disegni e degli schizzi. Dove dovremo cercare allora il “vero” Montale? Proprio nell’incontro del pittore e del poeta». Lo stesso vale in fondo anche per Dorfles: «A cavallo tra due secoli nessun’altra figura di studioso al pari di Dorfles — spiega la motivazione del premio — ha vissuto senza timore di impurità, la connessione tra forme artistiche e ricerca scientifica nella propria persona». E premiare Dorfles (che oggi in occasione della consegna sarà al centro di una conversazione con il curatore della mostra Luigi Sansone) vuol dire «riconoscere il carattere totale dell’espressione artistica». Filosofia, estetica, medicina (considerata la laurea che Dorfles aveva inizialmente conseguito), pittura, scultura, musica, letteratura: in questo intreccio si ritrova il segreto della modernità di Dorfles e della sua longevità, la stessa che ogni anni lo spinge (ad esempio) ad affrontare senza paura Venezia e la sua Biennale per ritrovare e definire i nuovi percorsi dell’arte e dell’architettura. Una ricerca, la sua, ancora vitalissima come dimostrano già i titoli, sempre sorprendenti, dei suoi dipinti più recenti, quelli esposti alla Casa Raffaello: da Bleu vincente a Strega marina , da Articolazioni a Simmetria sconfitta , da Doppia visione a Tre gemelli . Quasi che quei titoli giocosi stessero a ribadire la forza e la vitalità dei colori e delle forme che da sempre caratterizza i dipinti di Gillo: arancio, rosa, blu, giallo, viola, verde come elementi di un arcobaleno creativo capace ancora di affascinare. Proprio come Dorfles.

La Stampa TuttoScienze 21.5.14
Il dilemma Sla: scoperto il gene come parlarne?
Le nuove indagini del Dna spalancano problemi sia etici sia di metodo per i medici
di Antonella Surbone


Poche settimane fa è stata annunciata un’importante scoperta per chi è affetto da sclerosi laterale amiotrofica, la Sla: l’identificazione del gene «Matr3» da parte del team dell’Università degli Studi di Torino diretto da Adriano Chiò, in collaborazione con il consorzio Italsgen, che include 16 centri italiani di ricerca, e alcuni studiosi stranieri. Anche se la genetica della Sla appare sempre più complessa, questa scoperta chiarisce uno dei meccanismi fondamentali alla base del processo degenerativo: l’alterazione del metabolismo dell’Rna messaggero, una molecola che permette la traduzione del codice genetico nei costituenti fondamentali della cellula, cioè le proteine. Le nuove scoperte, tuttavia, costringono i clinici ad avventurarsi su un nuovo e accidentato terreno, quello della comunicazione ai pazienti e alle loro famiglie del rischio genetico della malattia.
Accanto all’intenso lavoro per identificare nuovi geni ci si è resi conto della necessità di discutere e stilare una serie di linee-guida per i neurologi clinici che devono affrontare nuove conoscenze genetiche e decidere se, come e quando parlarne con i pazienti ammalati di Sla e i loro familiari. Le linee-guida, disponibili online dal luglio 2013 e accolte favorevolmente nel mondo anglo-americano, sono state pubblicate sul «Journal of Neurology, Neurosurgery and Psychiatry» insieme con due editoriali che ne sottolineano la necessità in questa fase di «rivoluzione genetica», che richiede una particolare attenzione dei medici alla comunicazione. La stesura delle linee-guida è nata essa stessa dalla comunicazione aperta e onesta tra oltre 20 esperti di neurologia, genetica, psicologia e bioetica in due giorni di intensi scambi di esperienze e opinioni. Ma cosa rende questo tema tanto complesso e controverso rispetto a ogni altra comunicazione in medicina clinica?
Come ha rivelato il caso di Angelina Jolie, portatrice di una mutazione del gene «Brca» che espone ad alto rischio di tumori al seno e all’ovaia, essere a conoscenza di una predisposizione genetica induce in ciascuno di noi profondi cambiamenti per tutta la vita: incertezza e preoccupazione sul futuro proprio e dei consanguinei, disagio psicologico e relazionale, medicalizzazione dell’esistenza, scandita da test, visite, eventuali misure preventive o terapeutiche, oltre a potenziali ripercussioni sociali, fino alla discriminazione.
L’informazione genetica, infatti, ci fornisce un dato indelebile su qualcosa che potrebbe accadere nel futuro, senza certezze riguardo al fatto se, quando e con quale gravità svilupperemo mai la malattia che ha già causato sofferenza o morte tra i nostri familiari. Ognuno di noi la può percepire come strumento di maggiore controllo sulla propria salute e sulla vita futura oppure come una forma inquietante di predestinazione. Tutto questo è ancora più rilevante in malattie inevitabilmente progressive, come la Sla, per la quale l’informazione genetica è disponibile prima che ci siano efficaci misure preventive, di monitoraggio precoce e terapeutiche.
L’informazione genetica, poi, non riguarda mai solo chi si sottopone al test genetico, ma i consanguinei che potrebbero un giorno ammalarsi della stessa malattia, creando particolari responsabilità di comunicazione verso i familiari. Eppure si possono anche provare delle esitazioni nel rivelare il risultato di un test genetico per salvaguardare la privacy, proteggere i propri cari da brutte notizie o perché non ci si frequenta tra familiari. Secondo la deontologia internazionale, il medico deve riuscire a creare un dialogo progressivo, nel tempo, così da spiegare al paziente le implicazioni familiari della mutazione genetica, ma non può e non deve mai scavalcare la volontà e il diritto alla privacy del paziente.
Quasi tutti i pazienti, dopo averci riflettuto, informano i loro familiari. Ma se loro, invece, non volessero sapere nulla dei propri geni? O ancora: se il medico, avendo in cura sia il paziente sia altri familiari, ritenesse di fornire loro l’informazione genetica per dovere professionale? Su questo punto la deontologia non è chiara. Le decisioni sulla comunicazione in genetica sono tra le più laceranti, soprattutto quando non esistono ancora terapie efficaci.
Perché, allora, comunicare a pazienti e familiari la presenza di un “gene della Sla”? Nelle nostre linee-guida proponiamo di farlo per rispettare intelligenza, dignità e diritto alla scelta di ogni individuo e per offrire a tutti un giusto contatto con il mondo della ricerca, che a sua volta si impegna nella diagnostica, prevenzione e terapia. Ma anche perché attraverso la comunicazione costante è possibile demistificare la diversità genetica e fare sì che non si trasformi in svantaggio sociale.
La maggior parte delle malattie ha origine dall’interazione tra geni e ambiente e questo noi possiamo e dobbiamo controllarlo. I geni non definiscono chi siamo in sentimenti, emozioni, esperienze, reazioni e scelte. Siamo tutti diversi e unici: per questo ci apprezziamo e sosteniamo a vicenda attraverso valori come rispetto, solidarietà e comunicazione.
Come coautore delle linee-guida con Chiò, infine, ho la convinzione che ogni medico debba prendersi cura dei pazienti e dei familiari in ogni aspetto: dalla ricerca su geni e farmaci all’accompagnamento medico e psico-sociale fino alla comunicazione.

La Stampa TuttoScienze 21.5.14
Gli occhi, specchio non solo dell’anima ma dell’evoluzione
di Fabio Di Todaro

Le labbra risultano tirate, la bocca serrata e lo sguardo un po’ strabico di fronte a qualcosa che provoca disgusto. In una situazione di timore, invece, gli occhi sono spalancati: per mettere meglio a fuoco la realtà.
L’essere umano guarda sempre con sospetto ciò che non lo convince e acuisce la vista, quando ritiene di essere di fronte a una situazione di pericolo. Nulla di nuovo, fin qui, se oggi non si sapesse che queste reazioni istintive nascono da un adattamento della specie umana agli stimoli ambientali e non - come si riteneva - in qualità di segnali convenzionali di comunicazione sociale.
È stato uno studio pubblicato su «Psychological Science» a mettere in dubbio la teoria sull’evoluzione emotiva di Charles Darwin. Secondo il celebre evoluzionista inglese, infatti, le emozioni sarebbero una sintesi di reazioni corporee e cognitive, dettate da fenomeni biologici, storici, sociali e anche culturali. Una teoria che, adesso, risulta messa decisamente in discussione, nel momento in cui Adam Anderson - professore All’università di Cornell, negli Stati Uniti - suggerisce che «le funzioni opposte di ampliamento e di restringimento degli occhi potrebbero costituire le primitive capacità d’espressione del nostro volto». E lo stesso si potrebbe dire per altre manifestazioni somatiche che caratterizzano l’uomo in istanti importanti, come quelli di sorpresa, rabbia e felicità.
Sarebbero le emozioni, dunque, ad attivare le differenti espressioni facciali: spesso molto diverse tra loro. Il gruppo di Anderson è riuscito a fare chiarezza al termine di un esperimento in cui ai pazienti - in uno stato di paura oppure di disgusto, confrontati con il gruppo di controllo - è stata misurata, attraverso un normale esame optometrico, la quantità di luce che raggiungeva le retine. Si è osservato così che il disgusto innescava una maggiore acuità visiva: per permettere una migliore messa a fuoco. Opposta, invece, la reazione di fronte a una situazione di paura: l’ingresso di più luce nell’occhio favoriva la creazione di un più ampio campo visivo.
In questo modo i ricercatori hanno potuto notare come la percezione di ciò che si vive avvenga nei primissimi momenti di «codifica» visiva e non dopo che l’immagine è stata processata a livello cerebrale. In sostanza gli occhi sarebbero vere e proprie telecamere in miniatura, «costruite» millenni prima che l’uomo studiasse e comprendesse i meccanismi alla base dell’ottica. «Vorremmo capire come queste espressioni ci permettano di comunicare le emozioni - chiosa Anderson -. Gli occhi rivelano quasi tutto di noi, ma ci resta da capire come ciò accada davvero».