venerdì 23 maggio 2014

il Fatto 23.5.14
Provvidenze
Il regno del cardinal Bertone Lusso, affari e cerchi magici
Il settennato del salesiano-juventino
Da primo ministro del Vaticano sino alle cene a casa (Propaganda Fide) di Bruno Vespa e alla rete di rapporti con i potenti
di Fabrizio d’Esposito


Tarcisio Bertone e il modello della Chiesa trionfante e mondana, sedotta dal potere temporale e dal colore dei soldi. Scena prima. Roma, piazza di Spagna, nel luglio di quattro anni fa. Il cardinale Bertone esce dalla casa spettacolare di Bruno Vespa e sale a bordo di una Mercedes nera che ha la targa del Vaticano. Il segretario di Stato della Santa Sede ha partecipato a una cena per le nozze d’oro di Vespa con il giornalismo. Spaghetti alle vongole, filetto di spigola, torta caprese. Il convivio raduna due banchieri, Cesare Geronzi e Mario Draghi, l’allora premier Silvio Berlusconi e il suo fedele gran visir Gianni Letta, il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini. Per Berlusconi è un’estate di fuoco. Fini sta preparando la scissione di Fli e B. vuole sostituirlo con Casini. Arrivati quasi alla fine, Berlusconi mette una mano sulla spalla di “Pier” e lo incita: “Dai Pier, ascoltami, saremo noi due, io e te, la nuova Dc”. Bertone annuisce con evidente soddisfazione, come il vero padrone di casa. Del resto, la reggia di Vespa è di proprietà di Propaganda Fide, controllata dal segretario di Stato. Al recalcitrante Casini, “Silvio” offre pure una doppia poltrona: vicepremier e ministro degli Esteri. Andrà diversamente.
Salesiano e juventino. Quello scippo alla Cei
Tarcisio Bertone viene nominato segretario di Stato il 15 settembre 2006 da papa Ratzinger. In quel momento è arcivescovo diGenova. Maidue, ilcardinale e Benedetto XVI, vantano un rapporto strettissimo sin dal 1995, quando Bertone va a fare il segretario della Congregazione per la Dottrina per la Fede, l’ex Santa Inquisizione, presieduta proprio da Ratzinger. Ed è qui che “Tarcisio” inizia a costruire la sua fama di pasticcione con la pubblicazione lacunosa del terzo segreto di Fatima. Salesiano e juventino, l’inclinazione all’intrigo di Bertone viene fuori con la successione di Camillo Ruini alla Cei, la conferenza dei vescovi italiani. Il segretario di Stato vuole scippare la delega politica alla Cei e così manda questo messaggio, nel 2007, al nuovo presidente Angelo Bagnasco: “I vescovi pensino alla catechesi e alla pastorale, sarà la Santa Sede a occuparsi delle relazioni con le istituzioni politiche”.
Gianni Letta, faccendieri, P4 e massoni
Per gran parte dei sette anni trascorsi alla segreteria di Stato, la rete politica di Bertone coincide con il cerchio magico andreottian-romano di Berlusconi. Quello di Gianni Letta, ambasciatore di faccendieri pregiudicati e massoni che gestiscono affari, nomine e ministre (Luigi Bisignani della P4) e di gentiluomini di Sua Santità appassionati di incontri gay e appalti (Angelo Balducci della cricca di Anemone e il giovane Marco Simeon). Anche i cardinali fedeli a Bertone orbitano nel centrodestra. Nei verbali dell’inchiesta Expo, il famigerato Gianstefano Frigerio ostenta rapporti familiari con Giuseppe Versaldi, già agli Affari economici. Negli atti di un’altra indagine, quella su Scajola e lady Matacena, è invece Francesco Coccopalmerio, altro principe bertoniano della Chiesa, a incoraggiare “Sciaboletta” per la corsa alle prossime Europee.
Un ulteriore link con Scajola è Luciano Zocchi, caposegreteria dell’ex ministro e intimo di Bertone. È tutto quell’universo della Curia bersagliato dai corvi vaticani e finito sotto accusa nella congregazioni segrete tenute prima del conclave che ha eletto papa Francesco.
Il G8 de L’Aquila e il metodo Boffo
Nell’estate del 2009, a Bertone sfugge la mano su una vicenda destinata a segnare la storia del centrodestra. All’Aquila c’è il G8 e Berlusconi è minacciato dagli scandali sessuali che rivelano la sua satiriasi. Pure il moderato Avvenire, quotidiano della Cei diretto da Dino Boffo, vacilla. Così qualcuno passa al Giornale di Vittorio Feltri la notizia che Boffo è stato condannato per una storia di molestie omosessuali. La campagna va avanti, con il nome di metodo Boffo, e il direttore di Avvenire si dimette. Tempo dopo, Bertone e un giornalista di primissimo livello verranno indicati come i mandanti delle carte arrivate al Giornale. La strategia del segretario di Stato si dimostra però autolesionista. La campagna di Feltri fa saltare infatti la cena della pace tra Berlusconi e lo stesso Bertone organizzata da Gianni Letta in occasione della festa della Perdonanza, all’Aquila, alla fine di agosto. Il primo ministro vaticano avrebbe voluto perdonare pubblicamente il suo omologo italiano per gli scandali a lucerossemale nuove tensioni scoppiate con le dimissioni di Boffo azzerano tutto. Un pasticcio da capolavoro. Quando poi, nel novembre del 2011, Mario Monti sostituisce B. a Palazzo Chigi, a Palazzo Chigi va anche Federico Toniato, pupillo di Bertone.
Uno spettacolo mostruoso e il mistero Simeon
L’inventore della Chiesa trionfante, potenza armata e temporale, è stato Giulio II. Da poco, Einaudi ha pubblicato il bellissimo Giulio di Erasmo da Rotterdam. Un dialogo tra un papa descritto come ubriacone e omosessuale, e Pietro, il primo pontefice, che non vuole farlo entrare in Paradiso. Giulio si lamenta dell’accoglienza e Pietro risponde: “Quello che vedo è uno spettacolo incredibile, senza precedenti, per non dire mostruoso”. Ecco, Bertone ha fatto vedere uno spettacolo incredibile e mostruoso, senza precedenti. Al punto che per abbattere il suo potere, i corvi hanno rubato documenti nell’appartamento del papa. Accanto al potere, Bertone ha coltivato il lusso, tuttora vive in attico di 700 mq, e gli affari finanziari (le mire sul San Raffaele e sull’Istituto Toniolo, la cacciata di Gotti Tedeschi dallo Ior) e l’ombra più incredibile sul suo settennato proviene da Marco Simeon, sconosciuto omosessuale ligure che d’improvviso rimbalzò nel mondo di Geronzi e della Rai. Protetto di Bertone, Simeon, amico del massone Bisignani, è persino socio di un centro di benessere nel centro di Roma, di proprietà della solita Propaganda Fide. Il nome del centro è quello di un’icona gay e trans, Priscilla.

il Fatto 23.5.14
Politiche d’Unione
Europee, quello che nessuno dice
di Roberta De Monticelli


Oggi, mentre le dimensioni morali, culturali, politiche ed economiche della civiltà italiana si stanno riducendo tanto penosamente, nessuno dei grandi partiti in lizza ha altro orizzonte che se stesso e la lotta politica interna all’Italia. È desolante ma vero: lo spirito di queste elezioni ci invita a un moto espansivo, ad allargare l’orizzonte del nostro respiro politico, e soprattutto a esercitare il nostro ruolo di cittadini europei (“Unione europea” sta scritto sulla copertina dei nostri passaporti sopra “Repubblica italiana”). E centinaia di migliaia di ragazzi, figli di Erasmus – cioè dell’Europa – sono già a tutti gli effetti, nelle città che abitano, nel lavoro che fanno o nelle prospettive che hanno, cittadini europei prima che del loro paese di provenienza. Ma i partiti non ci dicono qual è la posta in gioco di queste elezioni. Vincere le elezioni, per loro, significa risultare i primi in Italia . Nessuno ci dice che invece non può essere un partito italiano, ma solo un raggruppamento politico europeo a “vincere le elezioni”. Che dunque chi non aderisce a un raggruppamento politico europeo (come M5S), quand’anche prendesse tanti voti, manderà una pattuglia di 20-30 deputati (sui 73 eleggibili in Italia), a disperdersi nel mare dei 751 eletti al Parlamento europeo. E che la vera sfida sarà quella di chi avrà titolo per allearsi ai socialisti di Schulz: i popolari rappresentati da Juncker (Merkel) o la Sinistra Europea (Tsipras) e i Verdi della Keller? E quanto peserà l’Alleanza dei liberali e democratici per l’Europa, rappresentata da Verhofstadt?
“UNA VOLTA è stata messa in minoranza la linea Thatcher, quando è stato fatto l’euro”, ha scritto Barbara Spinelli. Oggi la chance di un’Europa più simile a quella che Altiero Spinelli sognava, è mettere in minoranza la Merkel. Ma l’altra cosa che nessuno ci dice è cosa verrà tradito, se anche in Europa dovesse vincere l’intesa socialisti-popolari. Verrà tradito esattamente lo spirito e il senso di queste elezioni. Che sono fatte per passare dall’Europa inter-governativa del Consiglio europeo (quello che riunisce i capi di Stato e di governo europei, e che fa dell’Europa sostanzialmente il luogo del dominio degli interessi nazionali più forti), attualmente presieduto da Van Rompuy, all’Europa sovranazionale della cittadinanza, che sarà effettivamente rappresentata nel Parlamento solo quando la Commissione europea sarà l’effettivo governo dell’Unione. Nessuno ci dice che queste elezioni sono state organizzate (Risoluzione del Parlamento del 4 luglio 2013), per “parlamenta-rizzare” l’elezione del presidente della Commissione, e cambiare i rapporti di forza fra la Commissione e il Consiglio, in modo che la prima diventi gradualmente il vero organo di governo dell’Unione europea, e il suo presidente, il capo del governo, al diretto servizio del bene comune dell’intera unione, come vorrebbe il Parlamento. E non, come vorrebbe la Merkel, quel mero coordinatore dei capi dei governi nazionali che è oggi Barroso.
Nel luglio 1939, Altiero Spinelli sbarcava a Ventotene, dopo aver scontato fra carcere e confino dodici anni dei sedici inflittigli – a neppure vent’anni – dal Tribunale Speciale fascista per la sua opposizione attiva al regime. Nel ’37, a Ponza, era stato espulso dal Partito comunista, perché, come Spinelli scrive nella sua autobiografia – una delle più intense della letteratura mondiale (Come ho cercato di diventare saggio, Il Mulino 1999) – era stato “tutto un monologo sulla libertà” quello che aveva iniziato “dal momento che le porte del carcere si erano chiuse alle [sue] spalle”. Nel ’41 nasce – sotto la sua penna e in parte quella di Ernesto Rossi, frutto delle conversazioni con Eugenio Colorni e pochi altri, il Manifesto di Ventotene, con il suo memorabile attacco: “La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico a tutti gli aspetti della vita sociale, che non lo rispettassero” . Tutti: e fra questi il contrasto fra la politica concepita sulla base degli Stati nazionali e l’economia globale. Vere democrazie che siano esclusivamente interne ai singoli stati, oggi, non sono più possibili. Quell’uomo visionario lo vide settant’anni fa. Ma la politica italiana vuole ridurre anche quella visione alla sua misura. Quella di una classe dirigente che affida la gestione della massima chance di riscatto nazionale agli occhi del mondo, l’Expo, ad alcuni avanzi di galera di vent’anni fa. Ecco l’Europa a misura d’Italia.

il Fatto 23.5.14
Mezza piazza per Renzi
Oggi televendita di governo
Poche migliaia nella Capitale per il comizio
Ultima tappa a Prato e Firenze
di Wanda Marra


Anche oggi dimostriamo che siamo più forti della nostra paura. Che non abbiamo paura della piazza”. Sale sul palco di piazza del Popolo a Roma, Matteo Renzi, poco dopo le 20, con un’ora di ritardo rispetto all’appuntamento ufficiale. Si mette le mani davanti agli occhi, guarda la gente sotto di lui. Che è poca. Abbastanza poca da fare paura. La chiusura della campagna elettorale è oggi a Firenze (ma prima il premier farà tappa a Prato), ma l’ultima tappa nella Capitale, il giorno prima dello sbarco di Beppe Grillo a Roma, è decisamente al di sotto delle aspettative. Poche migliaia di persone, forse diecimila, piazza riempita a metà. C’è anche qualche contestatore, del Movimento per la Casa, che accorre il premier al grido di “buffone”.
LA TENSIONE serpeggia nell’aria. C’è chi rispolvera lo slogan “piazze piene, urne vuote”. Chi, come il vicesegretario, Lorenzo Guerini arriva dicendo: “Siamo contenti”. Ha scommesso su una vittoria del 33 al 26 per cento. C’è chi invece pensa che ci saranno solo su 2 o 3 punti in più rispetto al Movimento 5 Stelle e lo valuta come un risultato eccellente “con tutto quello che è successo, a cominciare dalle inchieste”. A due giorni dalle elezioni, la paura fa novanta, si sospendono giudizi e aspettative.
“Se prendo meno del 30% me ne vado”. Matteo Renzi è abituato a gettare il cuore oltre l’ostacolo, e l’ha fatto anche durante questa campagna elettorale. La scelta delle piazze è arrivata alla fine, per lui che non è mai stato un “animale” da comizio tradizionale. Molte, in giro per l’Italia, le ha riempite. A Roma il partito non è con lui, e si vede: tanto ceto politico locale, nessuno dei grandi big del passato. Non ci sono né D’Alema e neanche Veltroni, che pure sono di Roma. Nessun pullman organizzato. Molti parlamentari “renziani”, da Roberto Giachetti a Paolo Gentiloni sono tra la folla. Così come Nicola Zingaretti e Goffredo Bettini. È il premier che ha chiesto a tutti, suoi e non, di restare in mezzo alla gente. Accanto a lui c’è solo la capolista al Centro, Simona Bonafè. Negli ultimi giorni di campagna elettorale Matteo Renzi tradisce il nervosismo. Mentre continua a dire che va tutto bene, la tensione si vede nelle espressioni e nei comportamenti. Mercoledì sera dopo “Otto e mezzo” è andato via immediatamente, saltando anche il tradizionale brindisi finale. Con le elezioni di domenica si gioca moltissimo e lo sa. D’altra parte, la sua navigazione al governo è stata complicata. Forse più complicata di quanto si aspettasse. Con un’alzata di scudi generale, dai magistrati, alla Rai, ai sindacati. E a proposito di Rai ieri sera alla diretta di “Porta a Porta” un presidio di contestatori lo aspettava al varco dal pomeriggio.
“IN MOLTI casi abbiamo disturbato il manovratore. Ma abbiamo cominciato a cambiare l’Italia. Spesso chi urla è il migliore alleato di chi vuole conservare - ha detto lui ieri mattina a Radio Anch’io - Il nostro governo si è assunto una responsabilità enorme, quella di portare l’Italia fuori dalle sabbie mobili e dalle secche. E può darsi che domenica molte persone a cui abbiamo tolto qualche privilegio vadano a votare contro il Pd. Ma credo che alla fine saranno molti molti di più dell’altra volta quelli che voteranno per il Pd”. Renzi stamattina alle 11 e 30 ha convocato una conferenza stampa, una “televendita” come la definisce lui stesso auto - ironicamente. Ci saranno le slide e le schede riassuntive dell’attività dei primi 80 giorni, a partire dagli 80 euro e dal tetto agli stipendi dei manager. Per arrivare alle riforme costituzionali iniziate e rimandate a dopo il voto. “Non ho la bacchetta magica”, ha detto Renzi al Fatto. La maggioranza e il Parlamento non sono i suoi.
Intanto, si cominciano a prefigurare gli scenari del dopo. Più Grillo dovesse avanzare, più il Pd di Renzi si indebolirebbe. E così il governo. E alla fine, la scelta sarà tra il voto (evocato da molti, Graziano Delrio e Matteo Richetti in testa) e il reinserimento di Berlusconi nel sistema (che non a caso continua a evocare le larghe intese).
Ma di questo si parlerà da lunedì mattina. Intanto Renzi va allo sprint finale. Oggi a Piazza della Signoria ha voluto sistemare il palco nello stesso modo di Berlinguer l’ultima volta che venne a Firenze. E non a caso a Grillo, che al segretario del Pci si è paragonato, manda a dire: “Giù le mani da Berlinguer da parte di chi non può neppure pronunciarne il nome. Sciacquatevi la bocca”.
E l’appello finale - lanciato insieme all’hashtag che continua a circolare in rete #uno per uno (da portare al seggio): “Stiamo difendendo il futuro dell’Italia”.

il Fatto 23.5.14
Ingegno italico
Cavalli, ciclisti, cardinali e svizzeri, sondaggio libera tutti


Dal 9 maggio in Italia è fatto divieto di pubblicare sondaggi. La legge proibisce ai media di parlarne e agli istituti di ricerca di diffonderne. In mancanza di dati “ufficiali”, diversi siti internet, così come nelle passate consultazioni elettorali, hanno pensato di aggirare la norma attraverso raffigurazioni di corse di cavalli, gare ciclistiche, mistificazioni linguistiche, conclave. Ognuno dà una sua cifra. Tra i cavalli, ad esempio, nel Gran Prix d’Europe, “Fan Faròn rallenta vistosamente in dirittura d’arrivo e chiude in 31,5 secondi”, davanti a Igor Brik, in sella al “puledro pentastellato, che ferma i cronometri sui 29 secondi e sfiora il miracolo”. Segue “Varenne, negli scorsi anni dominatore incontrastato dell’ippica nostrana. Sempre orfano di Burlesque, ancora impegnato nella riabilitazione a Château de Boscòn dopo un grave infortunio, il cavallo azzurro migliora però la sua prestazione sul tracciato di Spinòl e chiude in 19 secondi”. Va meglio, per il leader Pd, all’interno del Conclave. “Il cardinale ‘rottamatore’ di Firenze potrebbe dormire sonni relativamente tranquilli: le assemblee eucaristiche in piazza degli ultimi giorni gli avrebbero dato la spinta necessaria per sfondare la soglia psicologica dei 30 voti, attestandosi all’onorevole quota di 32 porporati (quasi 7 in più del bonario monsignore di Piacenza, 1 in meno del massimo storico fatto registrare al Conclave generale del 2008)”. L’esuberante camerlengo di Genova si ferma a 26. Il prelato pelato di Monza e Brianza si ferma a 18. Su “You Trend”, “Nota Politica” e “Scenari politici” si possono trovare aggiornamenti delle competizioni.
L’ingegnoso Gad Lerner, cambiando la lettera finale (Pdr per Pd, M5Z per M5S, Fb per Fi), riesce anche quest’anno a fornire i dati che ritiene sul proprio blog.
Anche sul sito svizzero Ticinoline si può consultare un sondaggio sulle nostre elezioni. Pare che il Pd sia a 32, Grillo a 26, Fi a 19,5.

il Fatto 23.5.14
Evergreen. L’Italia vista dal Venerabile
Gelli: “Il bambinone Renzi e gli ex lacchè di B.”
di Marco Dolcetta


Di questi tempi sia la schiena che il cuore stanno dando qualche problema a Licio Gelli. Il 96enne Venerabile della Loggia P2, nonostante la voce affaticata, mantiene una certa energia verbale: “Lei deve sapere che sono entrato nei Servizi di intelligence dello Stato italiano dopo un incontro con Mussolini che voleva conoscermi. Io, il volontario ‘Licio Gommina’ della guerra civile di Spagna, nella quale aveva perso la vita mio fratello. Il Duce mi chiese quale poteva essere la ricompensa che lo Stato italiano poteva dare alla mia famiglia. In quella occasione, gli dissi che senz’altro mi sarebbe interessato conoscere il mondo dei Servizi segreti... Da allora non ne sono più uscito”.
Ma che ne pensa dell’attualità italiana e di Renzi?
Renzi è un bambinone, visto il suo comportamento che è pieno di parole e molto ridotto nei fatti: non è destinato a durare a lungo... Comunque, non è mai stato (né lui né i suoi familiari) nella massoneria. Vedo che nel suo governo ci sono molte giovani donne che io personalmente vedrei molto meglio a occuparsi d’altro... ”.
E le riforme del premier?
Quelle di Renzi, per la legge elettorale e il Senato, sono goffe. Per quanto riguarda Palazzo Madama, mi fa piacere pensare che, nonostante tutti mi abbiano vituperato, sotto sotto mi considerano un lungimirante propositore di leggi; una quarantina di anni fa, con Rodolfo Pacciardi, scrivemmo, su invito dell’allora presidente Giovanni Leone, il cosiddetto Piano R., di Rinascita nazionale. Prevedeva una serie di norme e riforme che avrebbero potuto creare i fondamenti per uno Stato più efficace. Leone fu eletto presidente della Repubblica grazie ai voti della massoneria: lui mi ringraziò e poi mi chiese questo contributo. Così gli facemmo avere il testo del Piano R., cui lui non diede mai alcun riscontro e, anzi, da allora evitò di incontrarmi... Riguardo al Piano di Rinascita democratica, sfogliando le pagine di quel testo, si ritrova - nella parte riguardante le riforme istituzionali - una quasi totale abolizione del Senato. Riducendone drasticamente il numero dei membri, aumentando la quota di quelli scelti dal presidente della Repubblica e attribuendo al Senato una competenza limitata alle sole materie di natura economica e finanziaria, con l’esclusione di ogni altro atto di natura politica. L’intento era ed è ancora oggi chiaro. Dare un taglio effettivo a un ramo del Parlamento che, storicamente, ha maggiore saggezza e cultura non solo politica, a favore di una maggiore velocità nel fare leggi e riforme. Ricordo di averne parlato in seguito, quando veniva a trovarmi ad Arezzo, anche con la mia amica Camilla Cederna”.
In tema di amici, che ne pensa della carriera letteraria di Luigi Bisignani?
Più che mio amico, Luigi è mio figlioccio. Quando era ancora giovane, dopo la scomparsa di suo padre, sia io che Gaetano Stammati ci prendemmo cura di lui. Avevo e ho sempre avuto una grande stima di Luigi. Tanto che, quando nacque il progetto dell’Organizzazione Mondiale del Pensiero e dell’Assistenza Massonica, a Roma, il 1 gennaio 1975, decidemmo di affidargli l’incarico di addetto stampa, perché eravamo certi di poter fare pieno assegnamento sulla sua preziosa collaborazione... ”.
Lei con la Svizzera ha un rapporto particolare, conosce bene le galere ma anche le banche di quel Paese…
Sì, soprattutto quando mi sono stati sottratti dai giudici milanesi diversi milioni di franchi che risultavano il frutto lecito di mia mediazione internazionale e che furono destinati a risarcire piccoli azionisti del Banco Ambrosiano dopo le note vicende che mi videro ingiustamente coinvolto. Ma nonostante tutto, ho accettato questo risarcimento forzato. La cosa più sorprendente, però, è che quei soldi non sono stati mai destinati a piccoli azionisti, tanto che da tempo io, assieme al loro legale, l’avvocato Gianfranco Lenzini di Milano, ho presentato richiesta di chiarimenti in tutte le sedi, ma senza alcun risultato”.
Come spiega il caso Renzi, la sua veloce ascesa, e cosa prevede per il futuro?
Beh, Renzi è un fenomeno parzialmente italiano, e mi risulta che fra i suoi mentori politici ci siano persone che vivono a Washington. È circondato, però, da mezze tacche: gli ex lacchè di Berlusconi. Fini, che ho conosciuto bene, quando faceva l’attendente ossequioso di Giorgio Almirante cui prestavo denari per il Msi. Soldi sempre resi... quello sì che era uomo di parola. E poi Schifani, Alfano: personaggi non certo di livello. Berlusconi ha sbagliato con le giovani donne, ma soprattutto circondandosi di personaggi di bassa levatura... Penso a Verdini, un mediocre uomo di finanza; è un massone... credo, ma non della nostra squadra. Il più alto livello di maturità politica in Italia c’è stato con Cossiga e Andreotti che avevano entrambi dei sistemi di controllo politico, uno con ‘Gladio’ e l’altro con ‘Anello’, cosa che Berlusconi non è mai riuscito a ripetere. E si sono visti i risultati di questa sua incapacità... ”.
Per concludere, che ne pensa dell’Italia, e del suo futuro?
Non le nascondo che vedo, con una certa soddisfazione, il popolo soffrire. Non mi fraintenda: non sono felice di questa situazione. Sono felice, invece, che vengano sempre più a galla le responsabilità della cattiva politica. Perché, probabilmente, solo un tributo di sangue potrà dare una svolta, diciamo pure rivoluzionaria, a questa povera Italia”.

il Fatto 23.5.14
Grillo, ultimo atto: la presa di Roma
L’ex comico punta a migliorare l’evento di San Giovanni dell’anno scorso
E da Milano, accanto a Dario Fo, rassicura: “Abbiamo già vinto, non abbiamo bisogno di vendette”
di Luca De Carolis


Adunata generale, con l’imperativo del “trionfo”. Perché al capo dei Cinque Stelle non basta una San Giovanni colma come l’anno scorso. Per il gran finale invoca “una piazza che non hanno mai visto”, così da battere sulla grancassa della vittoria. A sentirlo, certa, larga, definitiva. Stasera Beppe Grillo chiuderà la sua campagna elettorale a Roma, nella piazza rossa per definizione. Proprio quella che aveva già “espugnato” il 23 febbraio dell’anno scorso alla vigilia delle Politiche, riempiendola.
OGGI CERCHERÀ IL BIS, dopo il comizio di ieri in piazza Duomo a Milano, sotto la pioggia. Ospite d’eccezione Dario Fo, “uno dei pochi uomini di cultura, che ha capito e amato subito il Movimento”. Sostenitore di peso, per il Grillo che ha assicurato: “Abbiamo già vinto, non abbiamo bisogno di vendette”. Poi il solito attacco alla stampa: “Ora mi danno la colpa dello spread, sanno che toglieremo i finanziamenti a questo schifo di informazione”. Ieri sera il suo blog ha punto in tempo reale Renzi, con un video che mostra piazza del Popolo con ampi vuoti. Nella sfida delle piazze incrociate, oggi Grillo rincorrerà il pienone assieme a Casaleggio. “A San Giovanni ci sarà anche lui con il berrettino, e io Casaleggio con il berrettino non me lo perderei” sogghigna il leader dell’M5S nel video-appello comparso ieri sul suo blog. Ma la serata sarà comunque nel segno dell’artista, al 18° comizio in 19 giorni. “Sono invecchiato di una ventina d’anni, ho fatto 700-800 km nel camper, sono frullato” spiega nel filmato con malcelata vanità. “Mai nella vita avrei pensato di andare anche a un metro di vicinanza da Bruno Vespa” quasi si giustifica. Rivendica: “Stiamo rovesciando un sistema, la gente capirà che questo è un treno che deve prendere assolutamente: o noi o loro”. E allora, ecco la chiamata alle armi. Dentro Cinque Stelle non tutti erano convinti della scelta di San Giovanni. Si temeva il paragone con il successo dell’anno scorso, e in diversi hanno spinto per chiudere a Torino o a Milano. Ma Grillo aveva deciso già mesi fa: “Chiudo a Roma”. I 5 Stelle parlano di una quarantina di pullman in arrivo da tutta Italia. Palco da 120 metri quadrati, con gru da 42 metri per riprendere la serata. Mobilitati 300 volontari. Previsti punti di accoglienza presso la stazione Termini e le fermate della metropolitana. Costo indicativo, oltre 50 mila euro. Possibile avversario, il tempo (cielo coperto, si teme un po’ di pioggia in serata). Obiettivo, raccogliere una folla. “Siamo 800 mila” gridò Grillo quel 23 febbraio. Ma a San Giovanni e dintorni possono entrare al massimo tra le 150 e le 200mila persone. La meta finale può essere quella, per il Grillo che già celebra: “Non vinceremo in un modo normale, ma con un trionfo”. Dal blog del fondatore, l’ideologo Paolo Becchi: “Renzi è il nipotino di De Mita, che non fu sconfitto dalla Sinistra bensì dal suo stesso partito, che lo sostituì con Forlani. Al premier anche una vittoria sul filo di lana potrebbe non bastare”.
È L’ENNESIMA PROFEZIA di sventura per il leader del Pd, dopo la “lupara bianca” evocata da Grillo e “la fine della carriera politica” prevista da Casaleggio. Mercoledì sera, proprio a “casa Renzi”, a Firenze, il leader di 5 Stelle ha rivendicato: “Il M5S è l’unico che porta avanti la questione morale di Berlinguer”. Poi ha preso in braccio Alessandro Di Battista, a imitare la foto di Benigni con l’ex segretario del Pci. Un dispetto al Pd, certo. Ma anche una strizzata d’occhio ai delusi di sinistra, dopo le bordate contro la “peste rossa”. Fissato il comitato elettorale per la sera del 25 maggio. Parlamentari e attivisti si ritroveranno in un hotel dell’Eur, a Roma. Grillo e Casaleggio non ci saranno.

il Fatto 23.5.14
Camera. La lista della spesa
I bilanci dei gruppi PD, Cinquestelle e Scelta civica: dai convegni all’estero agli “autisti”
di Eduardo Di Blasi e Carlo Tecce


Il 10 maggio, i gruppi dei deputati hanno inviato alla Camera i bilanci con le spese effettuate nel 2013. Il contribuito complessivo è di 25,4 milioni di euro. I maggiori partiti sono quelli che hanno ottenuto di più. In diversi hanno pubblicato le rendicontazioni sui propri siti, che stanno per passare al vaglio dei Questori, Forza Italia ha divulgato soltanto le spese per il personale e s’è rifiutata (a differenza di Scelta Civica) di anticipare gli altri dettagli. Di seguito, la nostra analisi ai bilanci di Pd, M5S e Sc.
Puoi rinunciare a un’eredità politica, non a un lascito in banca. Il gruppo democratico a palazzo Montecitorio, oltre agli 11,8 milioni di euro incassati per il 2013, s’è ritrovato 1,5 milioni di euro, sapientemente risparmiati durante la passata legislatura. Far quadrare i conti, nonostante l’abbondante numero di dipendenti (124 rispetto ai 94 previsti come “obbligo minimo” rispetto al fondo disponibile), non è opera traumatica: avanzano 4 milioni di euro, che restano per future esigenze. L’esaustiva relazione al bilancio fa notare che le regole sono cambiate e le restrizioni contro i fannulloni sono inevitabili: “Affermare il principio che pur trattandosi di un posto di ‘lavoro particolare’ si tratta, comunque, di un posto di lavoro. A tale principio sono state ispirate le innovazioni introdotte per quanto concerne la timbratura delle presenze”. Ma c’è un gruzzolo di denaro, non di funzionari e impiegati, che appare bizzarro. Seppur registrato. Fra i 124 dipendenti, ce ne sono un paio che offrono un servizio di guida: insomma, fanno gli autisti. E rendono “blu” le due berline di grossa cilindrata che il gruppo noleggia per Roberto Speranza, il presidente e per l’ufficio di presidenza: “I costi per godimento dei beni terzi, pari a 24.237 euro - si legge - si riferiscono a contratti full rent per due autovetture utilizzate dalla Presidenza. La durata dei contratti è di 36 mesi”. Postille: la Presidenza, con la maiuscola; con 24.237 euro almeno una macchina te la compri.
IL CAPITOLO di spesa più singolare è intitolato “servizi”. Ci sono 91.654 euro per incontri e seminari su temi di attualità politica e di interesse parlamentare. Ecco l’elenco: convegno Europa e Democrazia, 42.906 euro; Documentario sul lavoro femminile, 19.952 euro; Italia-America Latina, 10.072 euro; Ambiente al centro, 8.023 euro. Ma i deputati democratici sono andati anche in missione per illustrare le loro attività: da Brighton a Tunisi, da Bruxelles a Il Cairo per un totale di 10.701 euro. L’editoria è costata 54.085 euro, una cifra tonda che comprende abbonamenti a riveste e quotidiani e la pubblicazione di un volume in 1.500 copie (al prezzo di circa 5.000 euro, spiega il solerte Matteo Mauri, anche se il bilancio su questo punto è criptico). Il libro non è un libro: no, è un “piccolo vocabolario per comprendere il linguaggio parlamentare”. Nel testo “parole in democrazia”, lungo 122 pagine inclusa la copertina, i deputati danno definizioni di scuola. Alla B c’è berlusconismo: “È un neologismo della lingua italiana, che interviene solitamente nel linguaggio del giornalismo e della sociologia politica per indicare le linee guida e i valori che ispirano l’azione politica di Silvio Berlusconi, e il suo modo di porsi nei confronti dell’opinione pubblica”. Alla C vi insegnano la “consuetudine”, alla F anche il “franco tiratore”. Circa 257.000 euro sono stati investiti per la comunicazione del gruppo e 77.556 euro per fare pubblicità ai deputati democratici all’interno della Festa Pd di Genova, dal 30 al 9 agosto 2013. A parte la pubblicità interna (e stranamente non gratuita), il gruppo a Montecitorio ha comprato spazi su radio, televisioni e internet (Facebook, Twitter e Google) per 130.696 euro. Il Pd non è compatto sui loghi. Il gruppo a Montecitorio ne ha uno personalizzato (2.420 euro) e s’è dotato anche di un’applicazione per tablet e smartphone, scaricata da qualche migliaio di utenti: un regalo da 45.797 (costo storico), di cui 9.159 per il 2013.
“ALTRI SERVIZI” assorbono 124.446 euro. Il tesoriere Mauri assicura che, presto, i dati di spesa aggregati saranno diffusi con maggiore dovizia di particolari: “Anche se la legge non lo prevede”.
Il Movimento Cinque Stelle scrive nella relazione che per l’anno prossimo l’organico potrebbe aumentare. E forse conviene. Perché il gruppo a Montecitorio ha dovuto pagare delle penali alla Camera perché ha assunto pochi dipendenti: 16 fra giornalisti e impiegati (32 in media nel corso dell’anno), ma invece ne doveva prendere più del doppio. E dunque la Camera ha trattenuto 548.889 euro sul fondo e altri 180.000 torneranno al mittente. I Cinque Stelle hanno ricevuto 3,7 milioni di euro, ne hanno spesi circa 2 e ne restano 1,753. Il 76 per cento è servito ai costi per il personale; il 9% per le collaborazioni e le consulenze; 11.412 per la comunicazione, 5.000 per acquisti informatici.
Scelta Civica doveva gestire 1,89 milioni di euro, poi la scissione di Per l’Italia (Mario Mauro) e sono scesi a 1,3. Dal bilancio avanzano 580.000 euro. Anche gli ex montiani come i democratici, noleggiano le berline: nel 2013 hanno speso 22.114 euro. Hanno organizzato meno convegni, costati in totale 28.000 euro. Inquietante la voce “spese funebri”, 1.070 euro, ma sono soltanto necrologi. Circa 5.000 euro per la “rappresentanza”.

il Fatto 23.5.14
Il sindaco Marino: “Sì ai quartieri a luci rosse per Roma”


NUOVA POLEMICA dopo quella divampata per le parole del sindaco di Roma Ignazio Marino che si era detto favorevole alla liberalizzazione della cannabis. Stavolta il tema è quello della prostituzione: "Purtroppo non è una decisione del sindaco - ha affermato a Radio Radio Marino in riguardo ai quartieri a luci rosse –, ma sarei favorevole a che ci siano zone dove è consentita e zone dove non lo è”. Parole che hanno subito scatenato reazioni nell’opposizione.
“Dopo l’apertura alle droghe leggere, sì anche ai quartieri a luci rosse: il sindaco hippy Marino crede proprio di vivere in una comune”, ha commentato Dario Rossin, consigliere capitolino di Forza Italia. “Non offre soluzioni alla prostituzione dilagante che costringe abitanti di interi quartieri a chiudersi in casa per non assistere a scene hard sotto le proprie finestre, come a Tor Fiscale – prosegue – esprime la sua personalissima idea su una questione su cui fortunatamente non ha poteri, mentre sui problemi verso cui dovrebbe intervenire come pulizia e degrado della città tace miseramente. Roma deve essere liberata da questo marziano”.

il Fatto 23.5.14
Archeologia
Villa Adriana, la diffida dell’Unesco
di Luca Teolato


Se la Impreme di Massimo Mezzaroma costruisse le sue palazzine, Villa Adriana – uno dei più noti monumenti a cielo aperto del mondo – perderebbe lo status di patrimonio mondiale dell’umanità. Una figuraccia internazionale senza precedenti: Villa Adriana sarebbe, dopo Dresda, il secondo “Patrimonio dell’umanità” a dover subire un’onta simile, il primo se si considera l’importanza e il prestigio del sito archeologico in questione. La sentenza lapidaria è inserita nel report redatto da un team internazionale di esperti incaricato dal Mibac di redigere una relazione richiesta fortemente dal WHC dell’Unesco, preoccupato per la colata di cemento (191 mila metri cubi) nei pressi della Villa dell’imperatore Adriano. Il report al momento si trova presso la Direzione regionale Lazio e non è stato ancora reso pubblico, ma alcuni addetti ai lavori ne hanno anticipato i punti essenziali al Fatto Quotidiano. Con la lottizzazione “Nathan” dell’imprenditore Mezzaroma verrebbero compromessi i valori culturali universali Unesco, tra i quali il rapporto tra il sito archeologico ed il paesaggio, elemento centrale per l’iscrizione nell’elenco. La Nathan violerebbe la buffer zone, una sorta di zona cuscinetto stabilita con un accordo internazionale tra la Repubblica italiana e l’Unesco per proteggere l’area archeologica di Villa Adriana. Secondo il report, poi, la lottizzazione – oltre ad avere un significativo impatto visivo (negato dall’impresa, che promette schermature alberate) – crea anche un precedente preoccupante, poichè rischia di far dilagare ulteriormente le costruzioni nella zona cuscinetto.
Non sembra dello stesso parere il gruppo Mezzaroma che qualche giorno fa ha dichiarato con un comunicato stampa che “quelle dell’Unesco riguardo la zona cuscinetto sono indicazioni non vincolanti che, peraltro, non prevedono un raggio preciso entro il quale è vietato costruire”.
Il pasticcio che sta mettendo a dura prova un Paese che dovrebbe essere votato alla valorizzazione della cultura e della propria storia comincia nel lontano 1981 e culmina con il pronunciamento favorevole della magistratura amministrativa, il conseguente via libera da parte del Comune di Tivoli e dalla precedente gestione della Regione Lazio.
Ma c’è di più. La convenzione urbanistica del Comune di Tivoli prevede, come di norma, il pagamento degli oneri di urbanizzazione da parte dell’impresa che ha ottenuto il via libera a costruire. All’appello manca quasi tutto l’importo previsto: oltre un milione di euro. I pagamenti rateizzati non sono stati onorati nel 2012 tant’è che il Comune di Tivoli ha accolto la proposta di proroga inoltrata dalla Impreme di Mezzaroma.
LA SOCIETÀ del costruttore romano ha ottenuto la protrazione di un anno per poter assolvere al pagamento degli oneri concessori in questione, ma al momento ha saldato solamente 200 mila euro, una sorta di step iniziale vincolato all’accordo di proroga. Nell’arco del 2013 la Impreme avrebbe dovuto versare oltre 500 mila euro entro il 30 giugno e quasi 600 mila euro entro e non oltre il 30 novembre. Entrambe le rate non sono state pagate ed il Comune di Tivoli, che avrebbe potuto avviare la procedura di escussione della polizza fideiussoria contratta dalla Impreme con la Generali Assicurazioni, al momento non ha avviato nessuna azione in tal senso.
Una partita, quella degli oneri concessori, esclusivamente tra il Comune e l’impresa nella quale il Mibac non può pronunciarsi. Mibac che però dovrà esporsi quando il report richiesto dall’Unesco sarà reso pubblico.

il Fatto 23.5.14
Svizzera: eutanasia anche ai sani

L'associazione elvetica di assistenza al suicidio Exit ha scelto di estendere i propri servizi anche ai soggetti che non sono malati terminali, ma vogliono comunque ricorrere alla “morte dolce”. Altre due associazioni, una con sede nel Canton Ticino, dovrebbero seguire la stessa strada. Ansa

il Fatto 23.5.14
A Berlino è finita la pacchia per lo straniero disoccupato
Una norma chiede di cacciare i cittadini continentali che truffano il welfare, ma anche chi è senza lavoro da oltre sei mesi
Merkel: “L’Ue non è un’unione spciale”
di Alessio Schiesari


Dopo sei mesi, i cittadini europei disoccupati sono pregati di lasciare la Germania. Questa la misura più drastica invocata dal governo di Berlino per bloccare quello che media e politici tedeschi definiscono Sozialturismus, cioé il turismo del welfare. D’altra parte, come ha spiegato l’altra sera Angela Merkel, “L’Ue non è un’unione sociale: non pagheremo i sussidi a chi sta in Germania a cercare lavoro”. Il precursore è stato il Belgio, ora tocca a Berlono. E, in un futuro nemmeno troppo prossimo, potrebbe essere la volta del Regno Unito. L’assalto al trattato di Schengen, o almeno alla parte che prevede la libera circolazione delle persone su tutto il territorio europeo, è in atto. Tra il 4 e l’11 giugno il Bundestag, il Parlamento di Berlino voterà una legge per “togliere il diritto a risiedere in Germania” – la definizione è di un alto funzionario del ministero dell’Interno – ai cittadini comunitari senza lavoro che abbiano percepito per almeno sei mesi il sussidio di disoccupazione. In tempi di Grosse Koalitione, le possibilità che il provvedimento passi sono altissime: il disegno di legge infatti è stato scritto a quattro mani dal ministro dell’Interno in quota Cdu (centrodestra) Thomas de Maizière e dalla titolare degli affari sociali Andrea Nahles, che proviene dalle file socialdemocratiche. Il numero di italiani interessati è molto alto: sono infatti 65.081 i connazionali che chiedono il sussidio di disoccupazione al governo federale. Non tutti rischiano di perdere il diritto di risiedere in Germania: una quota consistente di chi percepisce l’assegno lavora, ma non ha un salario sufficiente a sopravvivere o riceve l’aiuto da meno di sei mesi. Molto dipenderà da quale sarà la formulazione definitiva della legge, ma non è difficile prevedere che la comunità italiana (la seconda più numerosa del Paese con 245 mila lavoratori e oltre mezzo milione di residenti) sarà tra le più colpite.
NEGLI ULTIMI MESI, l’immigrazione è stata vissuta come un vero e proprio allarme. Nel 2013 la Germania è stato il secondo Paese Ocse per arrivo di immigrati, alle spalle dei soli Stati Uniti. Cinque anni fa, era al sesto posto. In dodici mesi sono arrivate 1,22 milioni di persone e, tra queste, 787 mila provengono dai Paesi dell’Unione Europea. La crisi dei Paesi mediterranei ha fatto impennare il flusso di lavoratori verso il cuore dell’Europa (gli italiani sbarcati in Germania sono stati 32 mila, in crescita del 51 per cento rispetto al 2012) e il recente allargamento dell’Ue a Romania e Bulgaria ha fatto il resto. L’attenzione dell’opinione pubblica più conservatrice e quella dei partiti nazionalisti come Alternative für Deutschland si è concentrata sulle difficoltà di integrare bulgari e rumeni, ma le nuove norme varranno per tutti. Non che i tedeschi abbiano tutti i torti. Una parte consistente della legge si concentrerà sugli abusi ai danni del munifico sistema di welfare tedesco. Ad esempio il Kindergeld, un assegno di 180 euro al mese per ogni figlio di lavoratore. Secondo le statistiche del governo, nel 2012 ben 600 milioni distribuiti attraverso questo sussidio sono finiti fuori dai confini nazionali. E, nonostante il tasso di natalità dei tedeschi sia il secondo più basso d’Europa, nel 2013 le richieste di Kindergeld sono aumentate del 30 per cento. Per questo chiunque venga pizzicato a fornire dati falsi per accedere alle prestazioni di assistenza, o a contrarre matrimoni solo per acquisire la cittadinanza tedesca, sarà punito con il carcere fino a tre anni e, una volta scontata la pena, non potrà fare ritorno in Germania.
Il discorso però cambia, e parecchio, per quei cittadini europei che in Germania non hanno commesso nessun reato, ma sono costretti a richiedere un sussidio perché temporaneamente senza lavoro. In Belgio, il primo Paese a utilizzare le deroghe al trattato di Schengen previste dalla direttiva europea 2004/38 (che permette di interdire la permanenza ai cittadini comuniutari che diventino un onere per il Paese ospitante), non si è verificata nessuna espulsione, ma agli “indesiderati” vengono ritirati i documenti necessari a trovare un lavoro e perfino ad affittare una stanza. Dal ministero degli Interni tedesco fanno sapere che “si potrebbe ricorrere ad una misura simile, ma è ancora presto per dare dei dettagli”.

il Fatto 23.5.14
Dagli Asburgo a Jobbik
Budapest cent’anni dopo, capitale dell’estrema destra anti-europea
di Pierfrancesco Curzi


In piedi, oh magiaro, la patria chiama. È tempo... Al Dio dei magiari giuriamo che schiavi mai saremo”. L’inno di battaglia del poeta ungherese Sandor Retofi spinge la sua terra in uno dei periodi cardine della storia dell’Impero, la Rivoluzione Ungherese del 1848 contro gli Asburgo. Eppure il motto di Retofi suona attuale se rapportato alla voglia di Europa degli ungheresi, vista sempre di più con diffidenza. Dalle elezioni del 2009, l’elettorato magiaro ha deciso di spostarsi più a destra, verso posizioni antieuropeiste, xenofobe e razziste.
IL CONTROVERSO VIKTOR ORBAN, premier e leader del partito Fidesz (Centrodestra), amico di Berlusconi e della Merkel, ha perso oltre un milione di voti. Dal 56,4% del 2009 al 44% delle recenti presidenziali. Orban dovrebbe essere preoccupato dalla crescita di Jobbik (letteralmente “Migliore”), il partito di estrema destra guidato da un 38enne, Gabor Vona, passato dal 14,8% al 20,5% di aprile. Marton Gyongyosi, capo dei parlamentari europei, parla dalla sede della zona Buda, all’ombra della Cittadella: “Alle Europee contiamo di arrivare secondi, superando i socialisti. Alle politiche del 2018 saremo il primo partito. Gli altri vivono in un mondo loro, noi pensiamo ai bisogni degli ungheresi. Non ci alleeremo mai con Fidesz: loro sono il passato, il simbolo di capitalismo e corruzione. Orban parla come noi, ma agisce come i socialisti, la sua politica ha fatto danni”.
È difficile trovare punti di contatto con un movimento capace di eleggere alla vice-presidenza del Parlamento un noto skinhead. Un eurodeputato, inoltre, dovrà rispondere alle accuse di spionaggio in favore di Mosca, mosse attraverso la stampa dalla Commissione di Sicurezza, mentre pochi giorni fa un gruppo di attivisti ha aggredito il rappresentante degli ungheresi in Serbia. In un quarto di secolo l’Ungheria è passata dal senso di appartenenza comunista a un forte nazionalismo. Il pil pro-capite è il terz’ultimo dell’Eurozona (peggio solo Bulgaria e Romania), il fiorino ha perso il 15% negli ultimi due anni, un terzo della popolazione è sotto la soglia di povertà. All’opposto di Jobbik c’è Vilmos Hanti, presidente di Measz, il movimento antifascista, aggredito e picchiato da un gruppo di naziskin nel 2012: “Jobbik ha successo perché non è un partito democratico e asseconda i bollenti spiriti della gente, che non vede di buon occhio l’Europa e vorrebbe far fuori i rom. A sinistra ci sono solo macerie. In Ungheria i vecchi simboli comunisti, stelle e falci e martello sono banditi per legge, e l’attuale sinistra è divisa”.
IL CARTELLO DEI DEMOCRATICI è stato un fallimento assoluto. Alle recenti elezioni l’unione di cinque partiti di centro sinistra ha raggiunto un misero 26%. Risultato: il giorno dopo l’esito del voto la coalizione si è frantumata e alle Europee di domenica andranno divisi: “Così si vedrà chi è che ha tirato la carretta e chi, invece, ha fatto il succhiaruote”, attacca in un italiano perfetto Veronika Muczina, membro della segreteria di Dk, il partito democratico guidato dall’ex premier Ferenc Gyurcsany.
Il 2014 è un anno vitale per l’Ungheria. Quest’anno si celebrano i 10 anni dall’ammissione all’Ue, i 15 alla Nato, i 25 dalla caduta della Cortina di ferro, i 75 dall’Olocausto ungherese (un grande corteo il28 aprile ha raggiunto la stazione ferroviaria Keleti, da dove partivano i convogli diretti ai campi di sterminio) e i 100 anni dello scoppio della Grande Guerra.
E, soprattutto, i 40 anni dal lancio del celebre cubo di Erno Rubik. In fondo la società ungherese somiglia alle facce del cubo-puzzle da quando si è liberata dall’oppressione sovietica. Budapest è la rappresentazione globale della complessità sociale: perla del turismo internazionale visitata ogni anno da milioni di persone, il centro storico lucidato come uno specchio, i ponti sul Danubio, le facciate dei palazzi e la sontuosità delle terme. Eppure, basta poco per finire nel cuore del 7° distretto, il ghetto di Pest. Presto le strade pulite e affollate di turisti lasciano spazio al degrado e a scene di vita da invisibili. I governi e i sindaci della capitale che si sono succeduti hanno eretto una sorta di steccato invisibile dove la prospettiva cambia. Essere razzista in Ungheria significa soprattutto odiare i rom stanziali, intere famiglie incastrate dentro condomini decadenti, con cortili ingombri di panni a stendere. L’immigrazione, specie da Africa e oriente, è un fenomeno tenuto sotto controllo. I cinesi sembrano godere di una particolare immunità, al punto che in pochi anni hanno rivitalizzato un enorme complesso industriale abbandonato alla periferia orientale di Budapest inserendo attività commerciali e industriali.

il Fatto 23.5.14
Usa: 138 arresti per le proteste dei Fast Food

È finita con 138 arresti la protesta dei dipendenti McDonald’s a Chicago per l'innalzamento del salario minimo. Un corteo di 1500 persone si è diretto verso l'edificio che ospitava l’assemblea degli azionisti. Quando i manifestanti hanno ignorato l’ordine di fermarsi, sono scattati gli arresti. LaPresse

il Fatto 23.5.14
L’altra America
I bambini-schiavi ‘fumati’ nelle piantagioni di tabacco Usa
di Angela Vitaliano


New York Cento, 150 dollari al giorno: quando sei un immigrato “stagionale” e hai solo pochi mesi a disposizione per mettere da parte un po’ di denaro prima di ritornare alla tua ancor piu’ disperante povertà, sono una cifra allettante . Anche se per quella cifra devi stare piegato a raccogliere tabacco, a pulirne le foglie con le dita che diventano appiccicose e quel sapore in bocca, come se avessi perennemente una sigaretta a penzolarti fra le labbra. Allettanti anche se il contratto di lavoro non prevede un limite di ore giornaliere o settimanali e, dunque, solitamente, in quei campi ci passi tutto il giorno e tutta la settimana, con sole 24 ore di riposo. E, disgraziatamente, resta una cifra “allettante”, anche se hai 7 anni e, inutile dirlo, non dovresti lavorare né in un campo di tabacco del Nord Carolina, né in un qualsiasi altro posto al mondo: a 7 anni il tuo lavoro dovrebbe essere semplicemente vivere. Descrive uno scenario probabilmente ignoto a molti americani, il rapporto pubblicato da Human Rights Watch che ha per titolo “I bambini nascosti del tabacco”. Nascosti e, dunque, ignorati. Le loro storie sono colpi allo stomaco. Centoquaranta interviste, quelle condotte dall’associazione, che svelano un mondo molto vicino alla schiavitù, sebbene questa volta “allargato” ai latinos, i piu vicini e i più poveri. Arrivano in Nord Carolina, in Kentucky in Tennessee e in Virginia con le loro famiglie, hanno dai 7 ai 17 anni e lavorano alle stesse condizioni dei loro genitori che, poi, ricevono la loro paga giornaliera. “È duro, assolutamente duro – racconta Jessica Rodriguez che scoprì, per la prima volta, un campo di tabacco a soli 11 anni – Il nostro capo era una donna molto gentile che ci portava da mangiare ogni giorno ma anche mentre mangiavamo stavamo seduti in mezzo al tabacco”. Tabacco, calore, umidità e sudore. Dalle 6 del mattino alle 7 di sera “Spesso – continua Jessica – mi sentivo male per il troppo caldo e mi veniva da vomitare, mi sembrava che il mio stomaco volesse uscire fuori dal mio corpo. Allora qualcuno arrivava con dell’acqua e dei crackers e mi davano qualche minuto per riprendermi prima di tornare al lavoro”.
IL 75% DEI BAMBINI INTERVISTATI ha riportato sintomi di vario tipo, legati al contatto prolungato con il tabacco e, dunque, a forme di avvelenamento da nicotina: vomito, nausea, emicrania, capogiri, irritazioni della pelle e bruciore agli occhi. Oltre 1800, fra bambini e adolescenti, di età inferiore ai 18 anni, sono stati vittime, solo nel 2012, di incidenti, per fortuna non mortali, durante l’orario di lavoro; e due terzi delle vittime minorenni di incidenti sul lavoro, sempre nello stesso anno, appartenevano al mondo del lavoro agricolo. Le aziende produttrici di sigarette, peraltro, non hanno finora messo in pratica nessun tipo di politica restrittiva per impedire alle fattorie l’utilizzo di manodopera minorenne. In più, una regolamentazione in tal senso, proposta dall’amministrazione Obama è stata bocciata per l’opposizione compatta dei repubblicani.

il Fatto 23.5.14
Tra i due litiganti i militari thailandesi fanno il golpe
L’esercito proclama il coprifuoco. sospende la costituzione e covoca i fratelli ex premier a rapporto
Allarme della Farnesina per gli italiani
di S. Ci.


Meta ambita di quel turismo esotico addomesticato e un po’ ambiguo che piace all’Occidente, la Thailandia mostra il volto meno incantevole e mite con il coprifuoco ordinato dalla Forze armate, scese nelle strade per garantire sicurezza e ordine al paese. I militari si sono eretti a salvatori della patria dopo mesi di tensione e caos politico, ma le cancellerie occidentali sono inquiete e lanciano bollettini di allerta per i loro connazionali nel Paese.
Ai 10mila italiani, a cui si aggiungono parecchi ‘stagionali’ o periodici la Farnesina consiglia “cautela e di rispettare il coprifuoco” indetto dalle 22 alle 5. Niente notti a zonzo per le località turistiche.
La nuova giunta militare intanto si è messa a far da paciere tra le fazioni che hanno spaccato la Thailandia, emanando un ordine di convocazione per la famiglia dell’ex primo ministro Yingluck Shinawatra ed esponenti politici del suo governo questa mattina. Altrettanto dovrà fare Thaksin Shinawatra, altro ex premier, sorta di tycoon alla Berlusconi orientale e fratello della premier deposta dalle Forze armate.
Il generale Prayuth Chan-Ocha ha assunto le funzioni di premier forzatamente lasciate dalla Shinawatra, carica che manterrà fino a quando - ha fatto sapere - non ne subentrerà un altro. Il governo a interim è stato sciolto e la Costituzione è stata annullata. Ma il Senato, sempre secondo i dettami della giunta, rimarrà in vigore.
Il ‘Consiglio nazionale per il mantenimento della pace e l’ordine’ come si è pomposamente auto-nominato il direttorio composto dai capi delle diverse armi ha annunciato di aver preso il potere alle 16 e 30 di ieri, dopoché lunedì aveva già imposto la legge marziale.
QUATTRO ANNI FA, le ‘camicie rosse’ fedeli a Thaksin Shinawatra (a sua volta deposto con un golpe nel 2006, ndr) occuparono il centro di Bangkok per oltre 2 mesi contro l'allora governo di Abhisit Vejjajiva, salito al potere solo grazie a un ribaltone parlamentare manovrato dai militari. La protesta fu repressa dall’esercito, causando 91 morti e 2mila feriti. Con l’arrivo al potere di Yingluck Shinawatra si formarono due schieramenti (le ‘camicie rosse’ e le ‘camicie gialle’ che esprimevano l’opposizione politica e anche sociale) che tra alti e bassi di tensione ha portato i militari a tornare in forze per le strade e spazzare via i manifestanti accampati nel cuore di Bangkok. Le ‘camicie rosse’ hanno ieri sera annunciato di voler proseguire le proteste. Ora sì che è un golpe: aspettatevi rappresaglie”, ha fatto sapere il ‘Fronte unito per la democrazia’.
Tradizionale mediatore degli scontri sociali e politici che si intrecciano con le storiche famiglie del potere thailandese è il re Bhumibol Adulyadej (nato negli Usa, ormai 86enne e malato) al potere dal 1946, e si aspetta che anche stavolta faccia valere il suo ruolo di ‘camera di compensazione’ tra le parti. Chi ha fretta che le cose si aggiustino è la comunità internazionale, a iniziare dagli alleati statunitensi. “Non c’è alcuna giustificazione per questo colpo di stato militare”, ha detto il segretario di Stato Usa John Kerry condannando la decisione dell’esercito di sospendere la Costituzione e prendere il potere. Decisione che “si ripercuoterà negativamente sulle relazioni tra Stati Uniti e Thailandia, in particolare per quello che riguarda il nostro rapporto con l’esercito”. Dopo la notizia dell’arresto dei leader dei maggiori partiti politici, “chiedo il loro rilascio”, ha ammonito Kerry sollecitando il ripristino “immediato” di un governo civile. “Il cammino che la Thailandia deve percorrere dovrà includere delle elezioni che riflettano il volere della gente”.

il Fatto 23.5.14
Jimmy’s Hall
Per fortuna non ha smesso, Ken Loach corre per la Palma
di Federico Pontiggia


Cannes A ciascuno la sua Palma. C’è chi ne ha già vinta una, con Il vento che accarezza l’erba nel 2006, e a 78 anni ci prova per la 12esima volta – record – con il suo nuovo, forse l’ultimo, film: Ken Loach, Jimmy’s Hall. C’è chi, a 25 anni, ci prova per la prima, con il quinto film e “un soggetto che conosco meglio di ogni altro, che amo più di tutto: mia madre”: il canadese Xavier Dolan, Mommy. C’è chi, infine, si avvicina ai 40 anni, e con la sua terza regia non si affaccia in competizione, eppure possiede “un certo sguardo”: Asia Argento, la nostra Incompresa al Certain Regard.
Mentre per il toto Palma si aspettano oggi i due ultimi film in Concorso, Leviathan del russo Andrey Zvyagintsev e Clouds of Sils Maria del francese Olivier Assayas, Ken il Rosso ritrova la voglia. Jimmy’s Hall non è il suo addio al cinema, quello che lui stesso aveva lasciato presagire durante la lavorazione: “L’ho detto nel momento di massima pressione, quando non avevamo girato ancora nulla e la montagna che ci trovavamo davanti era molto alta”. Della serie, vedi Cannes e poi rivivi, il regista annulla il rientro ai box: “Ho abbastanza benzina per un altro piccolo film. Mollare è davvero dura”. Tra dramma e qualche spiraglio di commedia, Jimmy’s Hall mette il costume e torna nell’Irlanda del 1932, con Jimmy Gralton (Barry Ward, poco carisma) di ritorno al villaggio dopo una decade in America: un attivista “in odore” di comunismo, che deve difendere una sala da ballo polivalente da preti, fascisti e reazionari tutti. La storia è vera e, sceneggiata dal fido Paul Laverty, apre al paradigma, a Jimmy e i suoi fratelli attuali: “Abbiamo bisogno – rivendica Ken – di eroi come lui, che si oppongono ai poteri forti con coraggio e integrità: oggi penso a Julian Assange, Edward Snowden, Malala”.
DOPO LA RABBIA (L’altra verità, sui contractor in Iraq), l’evasione (La parte degli angeli, whisky e neet), Loach affida a Jimmy il malinconico passaggio di testimone tra la sua e le nuove generazioni: un po’ moscio, nonostante gli applausi, il “riflusso” la fa da padrone. Eppure, almeno a parole, Ken non molla, anzi: “Ormai da 50 anni noto che chi scrive dei film non sopporta i personaggi della working class, i proletari che sanno di quel che parlano: preferiscono vittime, criminali e probabilmente una moglie maltrattata o due”. E la critica è servita. La stessa che, con più di un’eccezione, indica Mommy tra i papabili per vittoria o premi pesanti: una vedova sboccata e irresistibile, un figlio 15enne sboccatissimo e incontenibile, una vicina balbuziente , per un ménage à trois di ottimi attori (nell’ordine Anne Dorval, Antoine Olivier Pilon e Suzanne Clément), il fascino dell’immagine quadrata (1:1), il Dolan touch sensibile ed empatico, ma anche il fastidio per una sceneggiatura che non sa dove andare a parare. Vedremo che farà Mammina. E formato famiglia è anche Incompresa, scritto da Asia con Barbara Alberti e attaccato ad Aria (Giulia Salerno, chapeau), una bambina di 9 anni messa in mezzo da papà (Gabriel Garko, sì, lui) e mamma (Charlotte Gainsbourg) che si stanno separando: volano gli stracci, e non solo, e Aria si ritrova con borsone e gatto nero sballottata tra due genitori che non la vogliono. Siamo nel 1984, e le tocca pure una notte al parchetto, povera lei, ma la Argento non indora la pillola: “Anche chi dice che ha avuto un’infanzia felice, ha subito profonde ingiustizie da piccolo: succede a tutti, io volevo raccontare la famiglia come in Italia non si fa, per me quella perfetta non esiste”.
Se Giulia la scopre comunista: “Quando si arrabbia mangia i bambini”, Asia rifiuta i legami autobiografici: “Lo chiedete a tutti i registi? No? E allora che cazzo me lo chiedete a fare! Tutti i genitori sono ingombranti, e questo film non è terapia”. Ma l’Italia non finisce qui: Fulvio Risuleo con il corto Lievito madre prende (ex-aequo) il terzo premio della Cinéfondation, mentre tra i 13 registi del collettivo I ponti di Sarajevo, dove un secolo fa si “innescò” la Prima Guerra Mondiale, ci sono Leonardo Di Costanzo con L’avamposto, per cui “la paura del soldato è ribellione”, e Vincenzo Marra con Il ponte teso tra Sarajevo e Roma: “Molti sostengono che il tumore sia una malattia dell'anima, ebbene, in Bosnia sono aumentati”.

Reprint
il Fatto 23.5.14
“Cosa Nostra? È come entrare in seminario”
Il colloquio con Giovanni Falcone
di Enzo Biagi


Ero a cena con Giovanni Falcone e con Francesca Morvillo, una sera del 1987, in casa di un amico, Lucio Galluzzo, a Palermo: a mezzanotte andarono a sposarsi.
“Come due ladri”, dissero poi, solo quattro testimoni, così vuole la legge. Uscivano da tristi vicende sentimentali, e si erano ritrovati, con la voglia di andare avanti insieme, fino in fondo, fino alla strada che dall’aeroporto conduce in città.
“Perché non fate un bambino? ” chiesero una volta a Giovanni. “Non si fanno orfani” rispose “si fanno figli”. Qualche tempo prima lo avevo intervistato per la tv, il nostro colloquio iniziò così: “Dottor Falcone mi fa un suo ritratto del mafioso. Chi è un mafioso?”
Mafioso è chi presta giuramento e diventa quindi un affiliato di Cosa Nostra.
Che cos’è la mafia?
La risposta non è semplice e rischia di essere fuorviante se dicessi semplicemente che la mafia è solo un’organizzazione criminale. Non bisogna confondere l’attività dell’organizzazione criminale con la mentalità mafiosa. L’organizzazione è ben individuata nelle sue complesse articolazioni, nel tempo non è mutata e ha sempre mantenuto i suoi obiettivi criminosi, con una grande capacità di mimetizzarsi nella società. Nel discorso inaugurale dell’anno giudiziario, fatto nel 1954, il primo nel dopoguerra, si disse che la mafia, più di un’organizzazione tenebrosa, costituisce un diffuso potere occulto. Da allora sono trascorsi oltre trent’anni e nulla è cambiato. Quando parliamo di mafia ci riferiamo a un’organizzazione criminale che ha per scopo il raggiungimento di fini illeciti attraverso un’attività di intimidazione, questo, comunemente, viene confuso con la mentalità mafiosa.
Dottor Falcone ci faccia capire che cosa intende per mentalità mafiosa.
Dividiamo la mafia in due parti: la prima, come ho detto, è data dall’attività criminosa, la seconda dal comune sentire, dal consenso popolare verso queste attività criminali.
Si può distinguere un mafioso?
Non esiste un cliché del mafioso. A prima vista il mafioso non è distinguibile. Chi dice il contrario commette un errore, oppure, l’affermazione è una semplificazione giornalistica. Per definire una persona mafiosa bisogna confrontarsi con fatti concreti e ogni caso singolo è un caso a sé. Perciò non è facile stabilire dall’esterno se uno è mafioso, lo si può intuire, lo si può sospettare. Non è da un dialogo che si può avere la certezza assoluta sull’appartenenza o meno alla mafia di una determinata persona.
La mafia è un’organizzazione che ha delle regole, e le fa rispettare. Entrare nel giro è come entrare in seminario: e si resta preti e mafiosi per sempre. Non si diventa ‘uomo d'onore’ se uno ha un padre carabiniere o uno zio giudice. È un modo di vivere.
La subcultura del fenomeno mafioso non è altro che la sublimazione e contemporaneamente la distorsione di valori che in sé potrebbero non essere censurabili, e che sono propri di vari strati della popolazione del mezzogiorno d’Italia e soprattutto della Sicilia. Per questo la mafia non è estranea al tessuto sociale che la esprime, ma ne fa parte.
Si riesce a stabilire un contatto umano con un mafioso?
Certamente, i mafiosi sono uomini come tutti gli altri, anche loro possono essere più o meno simpatici e possono avere un animo più o meno nobile.
Giovanni Falcone è il primo magistrato col quale Buscetta si abbandona: si incontrano a Brasilia, e il giudice istruttore ha subito l'impressione di trovarsi di fronte a una persona molto seria e dignitosa: ‘Tutti e due siamo palermitani’ dice Falcone. ‘Bastava un giro di frasi, un’occhiata, il riferimento a un luogo e a una vicenda, che ci capivamo. Giocavamo a scacchi’. Lo avverte: ‘Scriverò tutto quello che mi dice, e farò il possibile per farla cadere in contraddizione’. E Buscetta replica: ‘Intendo premettere che non sono uno spione, e quello che dico non è dettato dal fatto che spero di propiziarmi i favori della giustizia; le mie rivelazioni non nascono da un calcolo di interesse. Sono stato un mafioso e ho commesso degli errori, per i quali sono pronto a pagare interamente i miei debiti, senza pretendere sconti. Voglio raccontare quanto è a mia conoscenza su quel cancro che è la mafia, affinché le nuove generazioni possano vivere in modo più degno e umano’. Falcone elenca le scoperte che il discorso di Buscetta consente. Cosa Nostra ha una sua ideologia, anche se censurabile. Sfrutta certi valori del popolo siciliano: l’amicizia, l’onore, il rispetto della famiglia, la lealtà.
Dottor Falcone cosa rappresenta il pentimento di Buscetta?
Grazie a lui abbiamo compreso il fenomeno mafioso. Ci ha fatto conoscere la struttura, ha svelato come avviene il reclutamento, ci ha svelato il metodo, senza il quale non si può capire la mafia. Ci ha dato una chiave per entrare nel codice mafioso.
La collaborazione tra i magistrati americani e italiani ha portato all’arresto dei cinque padrini di Cosa Nostra americana, in pratica la cosiddetta “Commissione”: Salerno, Corallo, Langella, Rastelli e il boss dei boss Paul Castellano della famiglia Gambino. Come giudica l’operazione condotta a New York?
Eccellente, ma ho ancora pochi elementi per poterla valutare.
Che differenza c’è tra un membro di Cosa Nostra americana e un mafioso siciliano?
Cosa Nostra è nata in Sicilia e non a caso quella americana si chiama così perché è a immagine e assomiglianza di Cosa Nostra siciliana, anche se poi a causa delle diversità derivanti dalla nazione in cui l’organizzazione criminale opera e in cui vivono i mafiosi, hanno acquisito delle connotazioni particolari. Tutto è sempre riconducibile alla mafia siciliana.
Lei pensa che noi potremmo trarne qualche vantaggio da questi arresti?
È ancora troppo presto per poterlo scoprire. Una cosa è certa: Cosa Nostra americana ha avuto il massimo ‘splendore’ negli anni Venti e Trenta, poi è cominciata a diminuire, mentre la mafia italiana dagli anni Settanta ha cominciato a crescere e a diffondersi.
Quale è l’attività prevalente della mafia?
Oltre all’estorsione, l’attività più lucrosa è quella del traffico degli stupefacenti. L’Italia sul mercato della droga è presente a diversi livelli: come produttore soprattutto nel passato, quando l’eroina, spedita dal Medio Oriente, transitava attraverso il nostro paese, la mafia la lavorava e la spediva in America; oggi l’Italia è un paese dove il consumo è in forte aumento, ci sono dai cento ai
duecentomila eroinomani. Sempre in questi ultimi anni le attività criminose della mafia sono aumentate, questo le ha permesso di creare una serie di collegamenti con altre organizzazioni a livello internazionale, ad esempio: ha creato un canale diretto con il sistema bancario che le permette di riciclare il denaro sporco. Questo ci preoccupa molto perché non ci sono leggi adeguate per svolgere controlli all’interno delle stesse banche.
Per trovare la mafia bisogna andare dove c’è il profitto?
Non necessariamente, anzi bisogna stare attenti perché il rischio è quello di fare di ogni erba un fascio, questo sarebbe un grande regalo alla mafia. Perché tutto è mafia e niente è mafia
Cosa Nostra negli anni si è evoluta?
Questo è il problema di chi lotta contro la mafia: riuscire a recepire la naturale evoluzione del fenomeno mafioso, perché riuscendolo a cogliere in tempo ci consentirebbe di poter intervenire rapidamente. Il problema, ancora una volta, è di struttura e di professionalità della polizia e della magistratura. Dobbiamo tener presente che dovremo confrontarci con questo problema ancora a lungo nei prossimi anni.
C’è una differenza tra la mafia di ieri, di oggi e quella di domani?
Io non farei una distinzione così netta tra mafia soprattutto tra quella di oggi e quella di domani.
Cosa chiede per poter andare avanti con maggiore efficienza?
Abbiamo bisogno di passare da una fase artigianale a una fase maggiormente professionale sia dal punto di vista organizzativo che nell’attività istruttoria.
Oggi la mafia è più forte perché ha trovato complicità economiche e complicità politiche?
La mafia gode di una rete protettiva. Ci sono collegamenti, collusioni, convivenze di cui la mafia si nutre. È evidente che lo sforzo che deve essere fatto, adesso e nel futuro, è quello di saper isolare il fenomeno criminale da quella rete di protezione che finora lo ha avvolto.
Il rapporto tra mafia e politica.
Un problema reale, molto grave, soprattutto sottovalutato. La società è portata a dare una lettura inadeguata del rapporto tra mafia e politica. La gravità è che la mafia, in virtù del rapporto con la politica, in autonomia, pone le regole del gioco.
Dottor Falcone, io credo che sia importante parlare di mafia non solo quando accadono fatti di cronaca. Lei cosa ne pensa?
Non è importante parlarne, ma importantissimo, però bisogna farlo correttamente. Parlarne serve a far sì che vi sia maggior sensibilità sociale verso questo grave problema. Purtroppo, caro Biagi, spesso manca la correttezza dell’informazione, non parlo di malafede ma di superficialità sì.
La mafia sembra invincibile. Si riuscirà mai a sconfiggerla?
La mafia non è affatto invincibile, ha avuto un inizio e avrà una fine come tutto ciò che nasce dall’uomo. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave. Per sconfiggere la mafia non occorrono eroismi, ma nella battaglia devono essere usate le forze migliori. Le forze dell’ordine e la magistratura devono essere dotate di strumenti adeguati.
Lei ha paura?
L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, ma è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Questo è il coraggio altrimenti non è più coraggio ma incoscienza.
È mai stato tentato di abbandonare la lotta? Lei è costretto a rinunciare alla sua privacy.
No, mai.
L’aria della Sicilia non sa di zagare, di mare o di gelsomini, odora di domande. La prima, la più angosciosa: chi uccideranno adesso, a chi toccherà? e perché proprio in questo momento? Il dottor Giovanni Falcone sapeva. Anche Dalla Chiesa cadde perché era solo, e senza poteri. E qualcuno che adesso piange, farebbe bene, per decenza, a tirarsi da parte. “Perché la mafia uccida – spiegava Falcone – ci vuole una agibilità politica”.
I mafiosi devono sentire che, in qualche modo, sei abbandonato a te stesso. Ti hanno segnato nel libro, e non dimenticano.

l’Unità 22.5.14
Memorie necessarie dallo sterminio del regime dei Khmer
Rithy Panh è l’autore con Bataille del libro sul genocidio dei cambogiani da «rieducare»
di Flore Murard-Yovanovitch


SUI REGISTRI, ACCANTO AI NOMI DEI DETENUTI NEL CENTRO DI TORTURA S21 DI PHNOM PENH, il capo della sicurezza del regime dei Khmer rossi annotava «distruggere», «annientare». Estorcere confessioni, con scariche elettriche e vivisezione, ma prima sempre fotografare, nella folle meticolosità della macchina della morte. Ti ammazzavano perché avevi le dita troppo fini da borghese, perché portavi gli occhiali, perché sapevi il francese. O perché rubavi chicchi di riso e «sabotavi la lotta». Presto furono tutti «impuri» i nemici della rivoluzione, per gli ideologici dello sterminio di massa che prese il volto del regime dei Khmer rossi. In meno di quattro anni dal 1975-1979, un quarto della popolazione cambogiana viene sterminata, il paese intero rimodellato in un immenso campo di lavoro, un’intera società resa dottrina. È al cuore di quel crimine di massa ancora poco conosciuto in Italia, che non è una particolarità geografica, bensi, ha tratti comuni universali con gli altri genocidi del XX secolo che si addentra L’eliminazione di Rithy Panh (Feltrinelli, 2014). Scritto assieme a Christophe Bataille, è il primo straordinario libro del pluripremiato regista, vincitore con The missing Picture di «Un certain regard» a Cannes 2013. Nato a Phnom Penh nel 1965, sopravvissuto ed emigrato in Francia, Panh non ha poi smesso di documentare, svelare, raccogliere archivi, fare uscire dall’oblio l’innominabile. Il libro intercala i ricordi del terrore di massa di lui adolescente, con l’estenuante intervista a Duch, il capo della sicurezza del regime dei Khmer rossi, il boia del centro di tortura S21 e dell’ex campo M13 campo di sterminio in mezzo alla giungla, dove nessuno è sopravvissuto, insegnante delle torture, e responsabile di migliaia di morti una specie di Eichmann khmer. Di fronte, il documentarista sopravvissuto che usa la cinepresa per porsi delle domande (che riecheggiano in sottofondo quelle della Harendt), per capire, spiegare, ricordare che cos’è il crimine contro l’umanità.
Prima delle fosse comuni, sono le parole a cambiare significato, le vecchie a scomparire mentre ne appaiono delle nuove: «i guardiani dell’azione», una misteriosa «Angkar» l’Organizzazione onnipotente, che presto ridurrà tutti al controllo totale. In una nuova classificazione, che non è mai sinonimo di orizzonte di progresso ma solo l’inizio dell’annientamento, si distingue il «popolo vecchio»” dal «popolo nuovo» da rieducare. I sentimenti, la poesia e la musica: vietati, il taglio dei capelli: uguale per tutti; scuole, pagode, mestieri, classe sociali, salute, educazione e scienza: aboliti. La storia e il presente riscritti, a colpi di deliranti obiettivi di produzione, di carestie di massa, di deportazioni, purghe, massacri. L’eliminazione dei «nemici» «non uomini». Anzi, la loro cancellazione, perché quel regime usava la parola «kamtech» che vuole dire distruggere poi cancellare ogni traccia, erroneamente tradotto dal tardivo e deludente processo ad alcuni leader patrocinato dall’Onu come «schiacciare» mentre significa «far sparire». «Qual è un regime che prevede un’assenza di uomini piuttosto che uomini imperfetti?» si chiede Panh. La violenza lucida, astratta, voleva «realizzare l’irrealtà». Idolatri di una purificazione che doveva arrivare dal marxismo, una manciata di intellettuali che avevano studiato a Parigi, si erano nutriti al Discorso sul metodo e alla Rivoluzione francese. Panh non risparmia la ragione illuminista alla radice della concezione di quei crimini e critica anche il fatalismo contemporaneo secondo il quale saremmo tutti potenziali carnefici. Questo invece è un progetto.
L’eliminazione comporta le estenuanti ore di faccia a faccia tra vittime e carnefice e lancia interrogativi universali: come si può arrivare a questo? Lo sterminio però non è suicidio o autogenocidio di una nazione, bensì preciso progetto pianificato: «sono azioni disumani compiuti da esseri umani. Su altri esseri umani. Ma senza alcuna umanità».
Reietti, rifiuti, «eravamo cose», si ricorda l’allora ragazzo Rithy, rinominato compagno pelato, perché un nome non lo dovevi più avere, solo annullarti nell’Organizzazione. La valenza straordinaria di questo racconto è di aver intercalato, tra i momenti del processo, i ricordi vivi di uno che ha vissuto l’incubo sulla propria pelle. È questo andirivieni tra verità storica e flash di memoria autobiografica che dà a questo racconto il suo valore unico. Senti i campi di rieducazione, la sopravvivenza nelle risaie, le sessioni di autocritica, la fame, le marce forzate e la disumanizzazione: ricordi vivi per dare corpo all’allucinante incubo. Pagine necessarie, universali. Piccolo appunto: la Kampuchea democratica aveva un seggio all’Onu, mentre si compivano quei crimini di massa.

giovedì 22 maggio 2014

l’Unità 22.5.14 
Left, in edicola sabato con l’Unità
Il meccanismo della corruzione: legge cancellata per legge
di Giovanni Maria Bellu


 Dopo Tangentopoli le regole per l'assegnazione degli appalti pubblici furono rese più severe. Ma durò poco. Si cominciò ad attenuarle fin dalla fine degli anni Novanta. Con l'Expo di Milano sono crollate quasi tutte di schianto: ottanta deroghe al Codice degli appalti.
È questo il terreno nel quale è cresciuta la malapianta del nuovo scandalo che ha portato in cella Primo Greganti, Gianstefano Frigerio, Angelo Paris e compagnia. Nel numero in edicola sabato assieme a l'Unità, left entra nel cuore del meccanismo della corruzione, ne illustra le regole. A partire da quella fondamentale – sancita dal duo Berlusconi-Bertolaso – che consiste nel mettere davanti a tutto l'urgenza, la fretta, e in questo modo giustificare la sospensione della legge.
Come poi sia stato possibile introdurre questa filosofia emergenziale anche per l'Expo - un evento del quale si sapeva da una decina di anni - non è il solo mistero. Ce n'è un altro, per certi aspetti più inquietante. E cioè la decisione di alzare da 50mila a 100mila euro la soglia per i controlli antimafia. «Una mossa disperata e avventata – scrive Claudio Fava nell'editoriale che apre il numero – che lascia immaginare la necessità di un possibile baratto: puntualità in cambio di legalità. Sarebbe una sconfitta per tutti».
Di certo impressiona scoprire come il “Mai più” (mai più tangenti, mai più appalti facili) solennemente proclamato dopo Tangentopoli sia stato rapidamente dimenticato. Non solo nel costume politico e imprenditoriale, anche nella legge, nella sua formulazione testuale. Col risultato di elaborare una normativa che anziché impedire la corruzione la favorisce e la incentiva. E – osserva Andrea Ranieri - «ne fa uno strumento per sopperire alla mancanza di competitività dovuta al basso tasso di innovazione». «Provate a immaginare – scrive Ranieri – cosa sarebbe stata l'economia italiana se le imprese costruttrici avessero investito in innovazione e ricerca le cifre accantonate per procurarsi commesse a prescindere dalla effettiva qualità dei prodotti e dei servizi che offrivano».
Un'altra inchiesta left la dedica all'eterna questione della ricerca del luogo dove realizzare il megadeposito dei rifiuti radioattivi. Sono passati undici anni dal pasticciaccio di Scanzano Jonico e la questione ancora non è stata risolta. Ed entro fine maggio l'Ispra dovrà rendere pubblici i criteri per la localizzazione della nuova “pattumiera nucleare”. I tecnici sono già al lavoro, gli ambientalisti in allarme. A chi toccherà questa volta?
Va avanti, infine, la campagna per l'insegnamento della musica in tutte le scuole, a partire dall'asilo. L'iniziativa lanciata da Nada e da Paolo Fresu, ha come testimone di questa settimana Vittorio Emiliani. A sabato e buona lettura.

La Stampa 22.5.14
L’ora della prudenza
Renzi: se vince Grillo io non mi dimetto
Tutti i leader abbassano l’asticella dei sondaggi


Alle 9 di mattina lo spread (rieccolo) era balzato a 200 punti. Pure la Borsa andava male. Un tam-tam aveva sparso la voce di un Grillo inarrestabile, per cui grande agitazione... Poi, però, il trend si è rovesciato, Piazza Affari ha chiuso col segno più. Anche qui la spiegazione è legata ai sondaggi, che nei santuari della finanza circolano sottobanco: dopo quelli del mattino favorevole ai Cinque stelle, ne sono circolati altri che vedono Renzi in testa, da cui l’effetto calmante. I bookmaker pagano 2,5 una vittoria grillina: segno che giudicano a rischio metterci su dei soldi.
E i protagonisti? Nei loro pronostici, di colpo, sono diventati prudentissimi. Quasi umili. Casaleggio, ad esempio, confida a Travaglio che gli basterebbe un voto in più del 26 per cento conquistato dal M5S nel 2013. Berlusconi era partito dando per sicura Forza Italia al 25 per cento, successivamente era calato al 20, ora non disdegnerebbe un 18-19 (dei voti persi per strada darà la colpa ad Alfano). Renzi non fissa asticelle. «I dati delle ultime ore sono straordinariamente incoraggianti», infonde fiducia ai suoi. Però ospite dalla Gruber mette le mani avanti, «se vince Grillo non mi dimetto, decide il Parlamento». Gli basterebbe anche meno del 30, così assicura, a patto di avere «il gruppo più numeroso nel Parlamento europeo», visto in fondo che di Europa si tratta. Tutti discorsi inevitabilmente viziati dalla propaganda. Il premier sa che non gli basterebbe vincere per un pelo: se vorrà evitare fibrillazioni, deve tenere Grillo a debita distanza, altrimenti nel Pd comincerebbero subito a rimproverargli di non essere l’antidoto giusto al populismo, contro cui Napolitano ha messo ieri in guardia dalla Svizzera (Marchionne totalmente d’accordo con lui).
Stesso discorso per i Cinque Stelle. Il loro vero obiettivo è, quantomeno, mettersi sulla scia del Pd, in modo da tentare il sorpasso al prossimo rettilineo. Casaleggio sul «Fatto» già prefigura un ruolo da ministro per sé e per Beppe, salvo precisare in una nota che i futuri incarichi di governo verranno decisi dai cittadini on-line. E sempre on-line si svolgeranno i processi alle «tre categorie di distruttori», all’«orrendo trio», che nella visione M5S sono giornalisti, industriali e politici (sul sito grillino l’editto integrale), tutti senza distinzione gettati nel falò del risentimento collettivo. A sua volta l’ex comico deve subire le ingiurie dell’ex Cavaliere che ospite da Vespa insiste nel dargli dell’«assassino» per il triplice omicidio colposo commesso nel 1981, «un incidente d’auto che ha voluto lui» va giù pesantissimo Berlusconi. Il quale così ritiene di vendicarsi per gli epiteti ricevuti da Grillo («pregiudicato») e soprattutto della minaccia poi ritirata di vivisezionare Dudù, cui Silvio vuole più bene ormai che agli umani. Rinfaccia a Renzi di essere diventato comunista. L’unica carta a sorpresa da quella parte la gioca Toti, rivelando che secondo lui Balotelli voterà Forza Italia.
Con queste premesse non è difficile per Renzi accomunare i rivali, «due facce della stessa medaglia», e cestinarli insieme («In Europa non abbiamo bisogno di pagliacciate»). Stasera alle 18 parlerà in Piazza del Popolo a Roma. Berlusconi lo precederà di mezz’ora all’Eur. Invece Grillo invoca masse oceaniche domani a San Giovanni, per la spallata finale.

La Stampa 22.5.14
Il premier e i timori per gli effetti sul governo
di Marcello Sorgi


Grillo prepara il suo show finale, previsto per domani pomeriggio a Piazza San Giovanni a Roma, con una serie di colpi a sorpresa. Dopo la serata «moderata» da Vespa, e dopo l’annuncio, ieri, in un’intervista a Marco Travaglio sul «Fatto», che Grillo e Casaleggio sono pronti a fare i ministri, serviva un aggiustamento di linea per la parte più radicale del popolo della rete. Ecco quindi i tribunali popolari in cui, oltre a imprenditori e giornalisti, dovrebbero essere processati, dopo la vittoria che il leader di M5S continua ad annunciare, Napolitano, Renzi, Berlusconi e Monti, per i quali tra l’altro sarebbero pronte le celle nel castello di Lerici.
Anche se è difficile prendere sul serio argomenti come questi (e Grillo tra l’altro ne approfitta per un gioco di continui aggiustamenti e smentite), è chiaro l’obiettivo di occupare la scena fino all’ultimo momento della campagna elettorale. Il linguaggio è truce, i tribunali popolari ricordano quelli delle Brigate rosse, ma il leader del Movimento, che fino all’altro ieri ripeteva e assicurava che i grillini non pensano di fare la rivoluzione, può far finta in ogni momento di aver scherzato.
Renzi è quasi solo ormai ad accettare la sfida della campagna in crescendo di M5S, a ribattere colpo su colpo (ha trattato da «poltronisti» gli aspiranti ministri Grillo e Casaleggio), e a prepararsi anche lui a chiudere il suo tour elettorale in Piazza della Signoria a Firenze, accettando la sfida del numero dei partecipanti, e non solo dei telespettatori, alle manifestazioni finali. La scelta del Presidente del Consiglio è di contrapporre alla propaganda «pop» l’appello a rafforzare il governo per metterlo in condizione di proseguire il proprio lavoro e realizzare il programma di riforme interrotto a causa delle divisioni preelettorali. Renzi continua a ripetere che le elezioni europee non sono un referendum sul governo. Ma sotto sotto sa che sarà impossibile sterilizzare i risultati del 25 maggio. Un’eventuale vittoria del Movimento 5 Stelle, che continua a considerare impossibile, sarebbe assai difficile da digerire, sia per il governo che per il Pd. Una vittoria, ma solo di un’incollatura, del premier, congelerebbe gli attuali equilibri di maggioranza (nessuno avrebbe più voglia di andare ad elezioni anticipate), ma senza dare al governo la spinta di cui ha bisogno.
La preoccupazione per l’avanzata delle forze populiste del resto riguarda tutta l’Europa. All’allarme che Napolitano ha ripetuto anche ieri s’è affiancato a sorpresa, quasi con le stesse parole, quello dell’amministratore delegato di Fiat-Chrysler Marchionne. Un altro segno del peso che il voto di domenica può avere sulle prospettive del Paese.

La Stampa 22.5.14
Voti ribelli e addio clientele
Il sisma elettorale del Sud
Divisioni locali e ondata M5S: il Pd spedisce i suoi ministri
di Fabio Martini


C’è qualcosa di nuovo, anzi di molto antico in arrivo dal Sud. Una messe di voti ribellisti e di disperazione, un possibile boom del Cinque Stelle che finirebbe per collocare un’intera area del Paese all’opposizione. Certo, per ora si tratta soltanto di una sensazione, ma molto diffusa in tutti i partiti, in particolare tra coloro che sono impegnati nella campagna elettorale. Una sensazione confermata dalla decisione di Matteo Renzi di chiedere improvvisamente gli straordinari ad alcuni suoi ministri: Roberta Pinotti, Giuliano Poletti, Maria Elena Boschi, Andrea Orlando, Maurizio Martina, Graziano Delrio hanno dovuto trasferirsi al Sud, impegnati nelle ultime 48 ore in una full immersion. E la Boschi ammette: «Sì, il test nel Mezzogiorno rischia di diventare decisivo per il successo nel Paese».
Ma c’è di più. Il presidente del Consiglio aveva fatto sapere che domani – a distanza di pochissimi giorni dal comizio in piazza Politeama – sarebbe tornato a Palermo, in occasione dell’anniversario della strage di Capaci. Un bis plateale da collegare al tam-tam che dà Grillo in testa in Sicilia? Ovviamente da Palazzo Chigi non confermano una lettura a tinte così forti, sta di fatto che ieri Renzi ha rinunciato al viaggio, per fugare il sospetto di una presenza elettoralistica. Ma sul forfeit di Renzi ha pesato anche l’eventualità di ritrovarsi sul palco di Palermo, a fianco dei protagonisti di una polemica furibonda tutta interna alla sinistra, quella che divide il presidente della Regione Sicilia e il candidato alle Europee Giovanni Fiandaca. E la Boschi chiosa: «Basta con le divisioni del Pd in Sicilia, altrimenti si rischia di fare un regalo a Grillo».
Ma il Pd lacerato al Sud da faide intestine, non è il principale motivo del sommovimento elettorale che si sta preparando. Ci sono ragioni strutturali che un parlamentare di grande esperienza come Pino Pisicchio, entrato alla Camera nel 1987, spiega così: «Al Sud il voto clientelare di una volta non esiste più, non c’è quasi più nulla da scambiare o promettere, sia perché si sono ridotti i rubinetti della spesa pubblica, sia perché il “patrono” politico non sta più al governo in eterno, come capitava con la Dc». E se il clientelismo ha meno armi che nel passato, il sentimento dilagante è la rabbia: «Da noi - dice il pugliese Rocco Palese, parlamentare emergente dell’ultima leva di Forza Italia - la quasi totalità dei giovani sotto i 30 anni si prepara a votare per Grillo. Rabbia, ma anche qualcosa che somiglia ad una moda, direi una nuova tendenza. Anche al Sud sta arrivando una società post-ideologica e post-partitica».
Dunque centinaia di migliaia di giovani, ma Grillo al Sud è solo questo? Dice il napoletano Enzo Amendola, già segretario del Pd campano: «Attenzione, l’unica certezza per ora è che per la prima volta il partito-leader al Sud, il Pdl, avrà una caduta forte. E quanto al voto al Cinque Stelle non si alimenta soltanto di rabbia o di insurrezionalismo: nelle ultime Politiche nei grandi centri della provincia campana loro sono andati fortissimo, intercettando un fenomeno importante: l’incazzatura silente». Effettivamente un anno fa i Cinque Stelle sono stati il primo partito in una città Palermo (32,8%) ma anche in tanti paesi dell’entroterra meridionale, come Canicattì (36,7%) o come Grotte (addirittura 40,6%). Sostiene il professor Mauro Calise, autore di alcuni dei saggi politologici più significativi degli ultimi anni: «I Cinque Stelle partono già da un risultato alto e il contesto è il più favorevole per loro: le Europee non mobilitano il voto micro-notabilare, che ancora esiste; non si vota per il governo; quanto ai tantissimi giovani senza lavoro perché non dovrebbero votare Grillo che denuncia i signori della austerità? In questo contesto la vera notizia sarebbe quella opposta al frame prevalente: Renzi che accorcia le distanze al Sud».

La Stampa 22.5.14
In Sicilia
“Qui c’è sofferenza e i masanielli attirano consensi”
di Francesco Grignetti


Giovanni Fiandaca, ordinario di Diritto penale a Palermo, è uno dei candidati più illustri del Pd. Sta girando la Sicilia per una campagna elettorale sempre più in salita. Nel frattempo polemizza ferocemente con Rosario Crocetta, il Governatore siciliano, del suo stesso partito.
Professore, è vero che Grillo dilaga in Sicilia?
«Purtroppo la gente è ormai convinta che l’Europa sia sinonimo solo di austerità, di tagli, di ostacoli alla crescita. Per fortuna, però, non sono pochi i giovani che hanno ben chiaro che la possibilità di uscire dalla crisi non è connessa alla fuoriuscita dall’Europa, ma a un nuovo modello di integrazione. Dico i giovani più consapevoli e più colti. Ma è anche vero che l’elettorato non è fatto solo di colti e di consapevoli. E qui la sirena grillina risulta molto attraente. Voglio sperare però che l’affermazione dei grillini in Sicilia non sia così eclatante come qualcuno crede».
L’isola ci ha abituato ai cappotti elettorali.
«La Sicilia è anomala politicamente, come tutti sappiamo. È molto protestataria. Ha la tendenza a fare i cappotti. E siccome c’è tanta gente che soffre, qui i capipolo, i populisti, i masanielli purtroppo attraggono».
Sarà sufficiente, allora, contrapporre la speranza alla rabbia?
«Guardi, io mi considero uno studioso illuminista, erede di Sciascia, e preferisco contrapporre la ragione alla rabbia. Mi piace pensare alla necessità di una concretezza competente. In tutti i campi. Anche in quello dell’antimafia».
Ecco, veniamo alla polemica ultima.
«Persino don Ciotti, pur sottolineando l’importanza dell’educazione morale, dei riti, e dei simboli, si è accorto che un certo tipo di antimafia corrente è diventata retorica in senso deteriore».
Intanto Crocetta l’ha attaccata a testa bassa, dandole del «negazionista». Lei ha risposto con «stalinista». Il Pd si spacca e gli altri se la godono?
«Io rivendico il diritto di criticare, se è il caso, le scelte politiche di tutti. Non credo si possa dire che il governo Crocetta abbia dato risultati significativi in termini di crescita».
E secondo lei quanto quell’antimafia retorica sfocia nel complottismo?
«Purtroppo c’è molta ignoranza, disinformazione e mancanza di consapevolezza. I grandi ayatollah dell’antimafia ne approfittano. C’è un modo di fare antimafia che è molto emotivo e anche molto strumentale».

Corriere 22.5.14
Al di là dei proclami tutti i partiti temono il non voto
di Massimo Franco


Si comincia a capire meglio la ragione per la quale Silvio Berlusconi è arrivato a paragonare Beppe Grillo al dittatore nazista Adolf Hitler. «Di fronte al pericolo di un regime autoritario», ha detto ieri l’ex premier, «qualsiasi ipotesi alternativa va perseguita». Traduzione verosimile: non esclude un governo di larghe intese col Pd di Matteo Renzi dopo le elezioni europee. Dette alla vigilia di un voto che potrebbe far scivolare la sua Forza Italia al terzo posto, sono parole che segnalano un certo grado di preoccupazione, se non di disperazione. E potrebbero offrire al Movimento 5 Stelle un ulteriore pretesto per accreditarsi come unica opposizione rispetto a quello che Grillo dipinge come un patto tra Pd e Forza Italia.
È il segno che mentre i partiti si combattono negli ultimi giorni di campagna elettorale, in realtà già guardano al dopo. Ha colpito la disponibilità dei vertici grillini, a cominciare da Gianroberto Casaleggio, a diventare ministro in caso di vittoria: un’ammissione sfuggita in un’intervista al Fatto , e poi ridimensionata. E ieri Berlusconi ha ventilato un ritorno al governo: prospettiva, in realtà, poco verosimile. Pensare che Renzi possa allearsi con FI contraddirebbe quanto è stato detto finora dal presidente del Consiglio. L’unica possibilità è che avvenga dopo elezioni politiche anticipate; e in una situazione parlamentare bloccata.
Ma prima bisognerebbe trovare un compromesso sulla riforma del sistema elettorale, in alto mare nonostante le assicurazioni del governo; e subordinato ai rapporti di forza che emergeranno dalle Europee. L’incertezza sul voto del 25 maggio è vistosa: tanto che lo spread , la differenza tra il rendimento dei titoli di Stato italiani e tedeschi, ieri era risalito fino a 200 punti. Ed ha fatto dire al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che «c’è un elemento di nervosismo sui mercati legato alle attese dei risultati elettorali»: non solo in Italia ma nell’intera Europa. A fine giornata, lo spread è tornato a 178.
Con premesse del genere, tuttavia, non ci si può non chiedere che cosa accadrebbe a livello finanziario se i movimenti populisti uscissero rafforzati dalle urne. Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, dalla Svizzera chiede di «guardare con fiducia al nostro Paese»: nonostante i toni virulenti dei partiti. Renzi si mostra sicuro di ottenere «un ottimo risultato». Il Pd è convinto di riemergere come la prima forza, e di superare il 30 per cento. Ma il premier, deciso a separare le sorti del governo dal voto europeo, anticipa che non si dimetterà nemmeno se il risultato sarà più deludente.
Uno dei suoi vice, Debora Serracchiani, sostiene che «la soglia minima per il Pd è superare il 26 per cento scarso» delle Europee di cinque anni fa: un gioco al ribasso, che serve a esaltare un risultato migliore considerato a portata di mano. L’impressione è che la cautela, riscontrabile anche nella cerchia di Grillo, nasca dalla difficoltà di misurare lo scontento. Potrebbe tradursi in voti di protesta, ma anche in un’alta percentuale di astensioni. E questo rende ogni previsione impervia. Le oscillazioni marcate che si notano tra un sondaggio e l’altro rispecchiano una volatilità inafferrabile con i metodi di rilevazione tradizionali.

Corriere 22.5.14
La mossa di Berlusconi «Pronti all’accordo anche con il diavolo»
Torna l’ipotesi larghe intese
di Dino Martirano


ROMA — Quando arriva in via Teulada non ci sono le ali di impiegati e di tecnici che per tanti anni hanno dato il benvenuto a Silvio Berlusconi davanti allo studio Rai di «Porta a Porta». A Bruno Vespa — reduce dal «botto» di ascolti ottenuto lunedì sera con Beppe Grillo — l’ex Cavaliere impone comunque l’argomento del giorno: l’allarme Grillo, appunto. Lui e il Movimento Cinquestelle sono «un pericolo per la democrazia, come Hitler e i nazisti che nel ’32-’33 presero il potere e poi rinchiusero gli ebrei nei campi di sterminio». E poi, tanto per essere ancora più rassicurante con il popolo dei moderati (soprattutto quelli che intendono astenersi), il presidente di Forza Italia butta là una suggestione in chiave europea, ma anche italiana: «Se c’è di mezzo l’interesse del Paese e degli italiani, noi siamo disposti a fare l’accordo con tutti. Anche con il diavolo».
Dunque, domanda Vespa tornando agli affari di casa nostra, Forza Italia entrerà nel governo delle «larghe intese»? «Questi sono scenari futuri...», glissa Berlusconi. Oppure: «Io non convinco nessuno», risponde quando l’intervistatore gli chiede se dopo la Europee sarà in grado di chiedere ad Alfano di divorziare da Renzi.
Ma il Berlusconi che si presenta a quattro giorni dalle elezioni non dà l’idea di qualcuno che vuole rompere. Anzi, insiste su Grillo e su quella vecchia condanna subita per avere guidato una jeep in condizioni estreme causando la morte di tre persone: «Ecco, gli italiani devono sapere chi hanno di fronte». Paragona gli elettori indecisi agli «ebrei ottimisti che nel ’33 non scapparono dalla Germania e finirono poi nei campi di concentramento». Berlusconi dice questo per ribadire che lui e solo lui è l’unico leader di una forza tranquilla ed europea: votare Grillo è un errore perché il M5S in Europa «verrà ghettizzato visto che non è stato capace di fare un accordo neanche con gli altri partiti populisti». E anche votare Pd è un errore: perché «i voti dei moderati italiani danno la possibilità al Partito popolare di Angela Merkel di essere maggioranza. Senza i voti di FI, invece, è il Partito socialista europeo che diventa maggioranza». E a fine anno, gli italiani si accorgeranno pure che «le coperture per gli 80 euro sono ballerine e che il conto si pagherà, automaticamente, con le accise sulle benzina».
Molto determinato è apparso Berlusconi nel ricostruire il suo anno orribile, il 2011, quando fu «spazzato via da Palazzo Chigi» perché era stato l’unico leader europeo «a mettersi di traverso davanti alle richieste della Merkel». A proposito, coglie la palla al balzo Vespa, la rifarebbe la battuta irripetibile sull’aspetto fisico della Cancelliera? «Guardi io non ho mai detto certe cose, e poi neanche le penso....».
Rassicurante su tutti fronti, l’ex Cavaliere si appella a quei 24 milioni di cittadini che secondo i suoi calcoli hanno maturato il disgusto per la politica: «Non credete a Grillo, specula sulle vostre vite». Si picca solo sul caso Raiway (la società strategica proprietaria dei ponti radio) che secondo il grillino Roberto Fico è stata oggetto di un regalo di Renzi a Mediaset col patto del Nazareno: «Querelo», replica secco il patron del Biscione.

l’Unità 22.5.14
Sindacati a congresso, Camusso: «Basta austerità»
A Berlino il segretario Cgil traccia la linea per combattere le diseguaglianze: «Creare lavoro»


«Se i Paesi continuano con le politiche di austerità e disuguaglianza non cresceremo. Bisogna creare lavoro perché è l'unica condizione per far ripartire l'economia». Susanna Camusso è intervenuta ieri mattina dal palco del congresso del sindacato mondiale - l’Ituc (International trade unions confederation), che raggruppa 325 organizzazioni sindacali, in 161 paesi, con una affiliazione totale di 176 milioni di lavoratrici e lavoratori - in corso a Berlino fino a domani. Nel suo intervento l’appena rieletta segretaria generale della Cgil ha sottolineato come «nella crisi - ha ricordato Camusso - sono peggiorate, mentre l’unico lavoro che cresce in tanti Paesi è quello povero», citando la tragedia di pochi giorni fa in Turchia nella miniera di Soma, le tragedie dell’Asia, le nuove forme di schiavismo che riemergono dalle campagne.
Quando le multinazionali hanno preso il sopravvento su quelle dei Paesi, per Camusso l’unica strada per il «sindacato mondiale non può che essere la contrattazione mondiale che si contrappone alle politiche delle multinazionali. Da questo punto di vista - ha detto - è molto importante sapere come il negoziato multilaterale, e quelli che sono in corso sul piano delle relazioni commerciali (il patto Europa-Usa, il cosiddetto Ttip, ndr), non diventino un ulteriore alibi e libertà per le multinazionali in grado di avere tribunali autonomi e non passare così per le regole dei paesi”. E allora "Building worker's power" - «costruire la forza dei lavoratori», lo slogan del congresso berlinese - significa «difendere il diritto di sciopero, rafforzare la contrattazione collettiva e costruire eguaglianza. Sono questi gli strumenti di cui disponiamo, i nostri strumenti che dobbiamo usare perché si crei più lavoro, perché le nostre società possano crescere e vivere in eguaglianza».
Nelle conclusioni del suo intervento Camusso ha rilanciato l'importante tema della democrazia. «La sfida vera che abbiamo davanti è come si possa generare contrattazione e come, attraverso le condizioni di lavoro e il contrasto alle politiche di diseguaglianza, il sindacato non solo si rafforza come componenti, ma determina lavoro dignitoso come condizione per tutti i paesi», ha concluso Camusso.
Il congresso si concluderà dell’Ituc si concluderà domani. Nel documento finale si fissano gli obiettivi futuri: il primo è una crescita della sindacalizzazione, ora stimata al 7 per cento del totale dei cosiddetti lavoratori formali (senza contare l’8 per cento - 238 milioni - di iscritti al sindacato cinese), poi c’è la richiesta di globalizzazione dei diritti «per un lavoro dignitoso», mentre specie in Europa i diritti sono sotto attacco, e - infine - la lotta contro il cambiamento climatico.
BURROW CRITICATA MA RICOFERMATA
«L’attacco al dialogo sociale è comune a gran parte dei Paesi presenti al congresso - spiega da Berlino Leopoldo Tartaglia, coordinatore Politiche globali della Cgil - . Quello che ci conforta è che dove i sindacati sono più forti, la diseguaglianza sociale è minore. E dove c’è ancora un buon welfare state, ad esempio in Nord Europa, la crescita economica è migliore ».
La segretaria uscente dell’Ituc - l’australiana Sharan Burrow - sarà quasi certamente confermata. Ma non sono mancate le critiche alla sua gestione centralistica. «Serve più collegialità, più occasioni per far valere le ragioni di tutti, far conoscere e valorizzare le tante esperienze », ha spiegato Susanna Camusso.

La Stampa 22.5.14
Competitività, l’Italia arranca. In due anni perse sei posizioni
l’Italia nel 2014 scende dal 44° al 46°. Nel 2012 eravamo al 40°
E i licenziamenti sono low cost
Siamo maglia nera nella classifica globale. Solo la Grecia fa peggio.
L’unico primato è sui costi legati allo scioglimento dei contratti
di Paolo Baroni

qui

La Stampa 22.5.14
Instabilità italiana e riforme in ritardo La paura dei mercati spinge lo spread
Timori anche per un trionfo degli euroscettici in Francia e Olanda
di Francesco Manacorda


«Se lei fosse qui ad ascoltare i miei colloqui di questi giorni con gli investitori istituzionali capirebbe che l’effetto della politica degli annunci di Renzi si è già esaurito». Forse l’uomo della grande banca che lavora sulla piazza di Londra è un po’ troppo tranchant, quando spiega come e perché gli investitori si stanno rapidamente spazientendo. Ma può valere la pena di ascoltarlo, soprattutto dopo la cavalcata di maggio dello spread. Due settimane fa il differenziale tra il rendimento dei Btp nostrani a 10 anni e quello dei Bund tedeschi era sotto i 150 punti base; ieri, spinto anche dai timori di instabilità politica, ha chiuso oltre quota 190 punti. Siamo lontanissimi dai picchi vertiginosi dell’inverno 2011, quello del lungo addio berlusconiano e dei berlusconiani sospetti di golpe, ma ci stiamo allontanando anche da quella zona di sicurezza che ancora a inizio mese - prima della doccia fredda del Pil in rallentamento, fenomeno spiegabile ma comunque negativo - vedeva i rendimenti dei titoli di Stato incamminati verso una strada in discesa. 
Che cosa pensino davvero della situazione italiana questi inafferrabili ma onnipresenti «mercati», al di là dell’indicatore davvero molto sintetico dello spread, è compito arduo. Certo è che la congiuntura politica continentale non aiuta. Le elezioni per l’Europarlamento, in altre circostanze evento del tutto trascurabile per il fondo pensione Usa o l’hedge fund britannico, adesso sono viste come il luogo dove rischiano di detonare all’unisono i tanti antieuropeismi nazionali dalla miccia cortissima, con effetti in buona parte imprevedibili. 
Non a caso per illustrare la sua copertina sul tema l’Economist chiama in aiuto Hyeronimus Bosch e alle delizie che allietano la Le Pen e Grillo, il britannico Farage e l’olandese Wilders, contrappone i supplizi di Merkel, Cameron e Hollande, quest’ultimo perfidamente ritratto con casco per scappatelle extraconiugali a portata di mano. Più austere, le banche d’affari rifuggono dalle illustrazioni ma sfornano rapporti venati dai loro timori. «I risultati delle elezioni europee possono avere più implicazioni a livello nazionale, specie in quei Paesi dove è probabile che i partiti euroscettici vadano assai bene», commenta la giapponese Nomura. Bank of America Merrill Lynch parla di «Rebus politico europeo» e avverte che «è aumentato il rischio che la disaffezione politica aumenti la frammentazione» a Bruxelles, impedendo così «l’ulteriore integrazione» e il «senso della direzione» europea. «Alla fine - è il commento di un operatore che preferisce restare anonimo - si potrebbero avviare politiche economiche meno orientate al rigore di bilancio. un rigore che invece i mercati si aspettano».
Ma un effetto Grillo - in accelerazione nei sondaggi e al galoppo in quelle sedute di training autogeno che sono i suoi comizi - pesa anch’esso, e quanto pesa, sulla nuova prudenza degli operatori finanziari verso l’Italia? L’altra notte Davide Serra, finanziere con il suo fondo Algebris, ma anche renziano della prima ora, ha affidato a un tweet una valutazione partigiana: «Il dramma è che se Grillo fa bene nelle elezioni nessuno investirà più in Italia. 2 casi: a) Troika o b) Default/Uscita €. Game Over comunque». Che un successo di Grillo si traduca in un immediata fuga dei capitali non lo pensa invece il nostro interlocutore londinese: «I mercati hanno capito già dall’anno scorso che il voto di protesta in alcuni Paesi, Italia compresa, sarebbe stato forte. Non vedo ritracciamenti precipitosi». Quel che potrebbe avvenire, invece, è che con un Grillo trionfante, il centrosinistra renziano e un Berlusconi in difficoltà abbiano un incentivo a ricompattarsi. Ma se i grillini si rivelassero secondo partito e la strana maggioranza italiana dovesse diventare ancora più anomala ci sarebbe ancora spazio per fare davvero le riforme, prima fra tutte quella elettorale? Siamo al discorso iniziale: più di un Grillo che spaventa gli investitori come se fosse un venezuelano Chavez in salsa mediterranea, l’effetto Cinque Stelle potrebbe giocare di sponda, aumentando l’instabilità del quadro politico e spingendo le altre forze verso posizioni di arrocco. Se così fosse il giudizio arriverebbe di sicuro prima dai portafogli degli investitori che non dalle prossime elezioni italiane. 

il Fatto 22.5.14
“Italian disaster”
The London Review Of Books: “Napolitano, anomalia italiana”
di Caterina Soffici


La vera anomalia italiana? Giorgio Napolitano. Sull’ultimo numero della prestigiosa London Review of Books, lo storico britannico Perry Anderson analizza la crisi europea in un lungo saggio dal titolo: The Italian Disaster. Non c’è bisogno di traduzione ed è interessante che per parlare del futuro dell’Europa e delle falle nel sistema della democrazia del vecchio continente, si parli del disastro italiano, raccontato con la secchezza degli storici inglesi: una sequenza di fatti, date, pochi commenti e molti argomenti. Quello che Denis Mack Smith ha fatto con i suoi saggi sul Risorgimento e la nascita del fascismo, Anderson, storico di formazione marxista, lo fa con gli anni recenti della storia patria. Secondo Anderson è il capo dello Stato la vera minaccia della democrazia italiana. Visto in patria come il salvatore, “la roccia su cui fondare la nuova Repubblica”, Napolitano è invece una vera pericolosa anomalia, un politico che ha costruito tutta la carriera su un principio: stare sempre dalla parte del vincitore. Così da studente aderisce al Gruppo Universitario Fascista, poi diventa comunista tutto d’un pezzo: nel 1956 plaude l’intervento sovietico in Ungheria, nel 1964 si felicita per l’espulsione di Solgenitsyn, sostenendo che “solo i folli e i faziosi possono davvero credere allo spettro dello stalinismo”. Fedele alla linea del più forte, vota sì all’espulsione del Gruppo del Manifesto per i fatti di Cecoslovacchia e negli anni Settanta diventa “il comunista favorito di Kissinger”, perché il nuovo potere da coltivare sono ora gli Stati Uniti. Gli Usa e Craxi sono i nuovi fari di Napolitano e dei miglioristi (la corrente era finanziata con i soldi della Fininvest) e nel 1996 il nostro diventa ministro degli Interni (per la prima volta uno di sinistra), garantendo agli avversari che “non avrebbe tirato fuori scheletri dall’armadio”. Ma il meglio Napolitano lo dà da presidente della Repubblica: nel 2008 firma del lodo Alfano, che “garantisce a Berlusconi come primo ministro e a lui stesso come presidente l’immunità giudiziaria”, dichiarato poi incostituzionale e trasformato nel 2010 nel “legittimo impedimento”, anch’esso dichiarato incostituzionale nel 2011. E poi una gragnuola di fatti: il mancato scioglimento delle Camere nel 2008, l’entrata in guerra contro la Libia del 2011 (scavalcando costituzione, senza voto parlamentare, violando un trattato di non aggressione), le trame con Monti e Passera per sostituire Berlusconi, modo - secondo Anderson - “completamente incostituzionale”. Per non parlare della vicenda della ri-elezione al secondo mandato (“a 87 anni, battuto solo da Mugabe, Peres e dal moribondo re saudita”) e delle ultime vicende, con il siluramento del governo Letta. Napolitano, che dovrebbe essere “il guardiano imparziale dell’ordine parlamentare e non interferire con le sue decisione”, scrive lo storico britannico, rompe ogni regola. “La corruzione negli affari, nella burocrazia e nella politica tipiche dell’Italia sono adesso aggravate dalla corruzione costituzionale”. E poi il caso Mancino e la richiesta di impeachment contro il presidente da parte di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso, e l’invocazione della totale immunità nella trattativa Stato-mafia, che Anderson definisce “Nixon-style”, termine che evoca scandali come il Watergate. Ma gli esiti italiani sono stati diversi, come ben sappiamo.

Repubblica 22.5.14
La malattia populista e la cura dei partiti
di Piero Ignazi


L’URLO , l’invettiva, il dileggio, non sono nuovi nella politica italiana. I lazzi e le volgarità di Beppe Grillo affondano le loro radici in un lontano passato, costellato di dannunziane insolenze verso l’avversario, come il “Cagoia” affibbiato dal Vate al capo del governo Francesco Saverio Nitti, o di quarantottesche denigrazioni popolate di trinariciuti e servi sciocchi. Le espressioni grevi e tonitruanti del leader grillino risuonano però anche d’altro, al di là dello scadimento nel cabarettismo da angiporto: portano a galla una storia antica di rabbia e di esclusione. È con questo filo rosso della nostra cultura politica che dobbiamo fare i conti. Grillo è il sintomo di una malattia, di un malessere profondo che è esploso ora, dopo aver scoppiettato qua e là per molti anni. In fondo, se risaliamo ai primi decenni della repubblica, le lotte sindacali e politiche della sinistra esprimevano anche la protesta per un senso atavico di esclusione, una condizione che larghi strati della popolazione sentivano come incombente e ineluttabile. Poi la stagione dei movimenti, a sinistra (‘68 e autunno caldo) e a destra (maggioranza silenziosa), ha dato sfogo alle
frustrazioni generate da una società e un sistema politico bloccati. E in seguito è esplosa anche la violenza politica. La società pacificata degli anni Ottanta ci ha illuso. Sembrava che la politica si fosse incanalata lungo i sentieri della tolleranza e del pragmatismo. Addio alle ideologie e all’impegno totalizzante, via libera al Macondo, alla febbre del sabato sera e, per finire, alla Milano da bere. Una stagione di abbagli. Dopo vent’anni di illusionismi berlusconiani, di saghe celtiche e di “rivoluzioni liberali” alle vongole, la grande crisi ha riproposto le antiche diffidenze anti-sistemiche. Con una carica di disperazione e aggressività enormemente accresciuta. Un quarto degli italiani che d’improvviso vota una improbabile lista di neofiti della politica, guidata da un trascinante show-man, attesta quanto fosse -e sia -profondo il malessere nel nostro paese.
Ora, è normale e fisiologico che i nuovi movimenti abbaino alla luna e si popolino di acchiappanuvole. Non è però questo il metro per valutare oggi il M5S. È molto più rile- vante individuare il grado di irriducibilità della protesta che esprime. Quanto è spessa e dura la rabbia che i grillini canalizzano nelle istituzioni? E soprattutto, quali rischi esistono che questo sentimento non sfugga di mano e non prenda altre strade, ben più pericolose e violente? Sono queste le domande fondamentali da porsi di fronte al perdurare del fenomeno cinque-stelle. In altre parole, visto che il M5S non si sgonfia, contrariamente a quanto molti sprovveduti avevano pronosticato di fronte agli insuccessi alle varie competizioni amministrative (per i distratti, ricordiamo che Forza Italia alle prime competizioni locali non raggiunse nemmeno il 10%…), quale impatto sistemico può avere un movimento di protesta di tali dimensioni?
Finora i grillini hanno preferito autoghettizzarsi, ritirarsi sdegnosi sulla montagna rifiutando ogni contatto, considerato di per se stesso inquinante e corruttore: Bersani docet. Questo perché la logica totalizzante -o noi, o loro -non prevede intese di alcun genere con “gli altri”. I guru genovesi vogliono tutto il banco. Anzi, ce l’hanno già, visto che Grillo dichiara nel salotto di Vespa (che si è ricordato, per una volta di essere un giornalista) di avere in tasca già il 96% dei consensi. A questo infantile delirio di onnipotenza va contrapposta la razionalità della politica. Anzi, la sua “normalità”. Non certo per avviare trattative con i parlamentari pentastellati, ma per evitare che il popolo grillino venga rinchiuso dai suoi leader in un recinto. Il malessere di una così larga parte dell’opinione pubblica che va riportata nella politica, non lasciata incancrenire nel ghetto di una opposizione assoluta. Gli elettori grillini costituiscono un magma indistinto, e oscillano tra l’iconoclastia nei confronti del “sistema”, come predicano i loro rappresentanti, e il semplice desiderio-bisogno di una politica concreta, fattiva e pulita. La loro disaffezione verso tutto quello che fin qui ha offerto la politica è comprensibile; e questo sentimento ha trovato sfogo nel grido furioso e distruttivo di Grillo. Spetta ai partiti democratici, e in primis al Pd, riportare questo elettorato ad avere fiducia nella politica. Anche perché, nella nostra storia nazionale, la fuga dalla politica ha preso scorciatoie pericolose.

Repubblica 22.5.14
Quelle armi spuntate contro le corruzione
di Franco Cordero


LA STORIA italiana è in larga misura teatro, dove l’immaginario eclissa i fatti. L’atto politico par excellence consiste nell’iniettare immagini ai cervelli. Negli anni trenta li gestiva un ufficio (stampa e propaganda), poi ministero della Cultura popolare. Così l’Italia s’era convinta d’essere guerriera invincibile, non avendo armi evolute né una dottrina del come usarle, sebbene spendesse più degli Stati ricchi, mantenendo un esercito elefantiaco e gerarchie obese, sorde alle novità (la metamorfosi delle divisioni da tre a due reggimenti moltiplicava generali e colonnelli). Nell’anno del Signore 1347 il notaio Nicola, figlio dell’oste Rienzo, incanta Roma con arti da showman latinista: spettacolo effimero, d’appena sette mesi, perché l’uomo aveva nervi deboli; sei secoli dopo, era fragile anche Benito Mussolini, sotto maschera feroce, ma sta in sella 20 anni, 8 mesi, 26 giorni; e da vent’anni tiene banco con grancassa, piffero, lanterne magiche un ormai vecchio ma ancora micidiale imbonitore, refrattario alle verità empiriche (quando dica «piove» o «suona mezzogiorno », lo spettatore giudizioso subodora dei trucchi). L’attuale premier differisce dal modello sinora praticato in Palazzo Chigi: è più giovane del non ancora quarantenne Mussolini chiamato da Sua Maestà Vittorio Emanuele III; sinora niente lo lascia supporre demagogo pifferaio ma piace alla platea, così disinvolto, dinamico, rapido, pronto nella battuta; senza gli aspetti fraudolenti e volgari, in qualche misura ripresenta un déjà vu ossia i registri facili in cui l’Olonese, dissimulando l’anima da caimano, parlava al pubblico ignaro dei precedenti delittuosi.
Vediamolo in una congiuntura attuale d’alto interesse clinico. L’Italia porta ai piedi la catena dell’enorme debito pubblico in fase ascendente: lavoro, produzione, consumi calano, mentre l’Europa cresce; né c’entrano le comete o un destino baro; il salasso ha cause strutturali. Corruttori e corrotti formano un avido fisco nero; talpe illegaliste dissanguano il tesoro moltiplicando la spesa: ad esempio, un km d’alta velocità costa 6 milioni, mentre in Francia ne basta uno. In tale sfondo esplode l’ultimo caso: gli appalti Expo valgono miliardi; secondo gl’indaganti, una «cupola» li gestisce mediando tra managers e imprese. Spiccano due tangentomani degli anni novanta, biancofiore uno (poi forzaitaliota), comunista l’altro, eroe taciturno ammirato dai compagni. Come allora, due chiese lavorano solidali, su piede paritario. I rispettivi politicanti rispondono a voce stridula, con un riflesso condizionato, chiamandosi fuori: privati faccendieri millantano rapporti inesistenti; le accuse scoppiano a orologeria, in clima elettorale; e quanto resisteranno? Il premier non insinua sospetti d’un complotto giudiziario né assolve le nomenclature: augura che lo Stato sia abbastanza forte da condurre a compimento le importantissime opere, punendo i delinquenti; discorso serio. In proposito installa una «task force ». Parliamone e salteranno fuori conclusioni interessanti.
La gestione corrotta del potere è carattere genetico. Benedetto Croce, spiritoso conversatore, vedeva nel fascismo un regime d’asini (onagrocratico), «temperato dalla corruzione»; era discreta rispetto al vampiresco fenomeno attuale. Qui le «task forces» lasciano il tempo che trovano, come i codici d’etica ipocritamente affissi. Benvenuti i passi preventivi, in quanto siano incorruttibili, ma vanno puniti i delitti che svuotano il tesoro seminando miseria (con quanto implica, dai costumi guasti allo squallore intellettuale). Ora, esisteva un sistema penale, riformabile in meglio (Alfredo Rocco, codificatore, aveva pregiudizi classisti). Vent’anni d’anticultura berlusconiana l’hanno disintegrato, cominciando dal falso in bilancio. Bel colpo strategico, studiato dai consulenti, futuri difensori (solo lui sa quanti scheletri nascondesse l’armadio): falsificando i bilanci, gli amministratori prelevano denaro spendibile in nero; e quando il falso sia scriminato o diventi reato bagatellare, perseguibile a querela, Dio sa dove finiscano i soldi. L’incriminato gioca al perditempo: la prescrizione, fatto estintivo dei reati, aveva termini congrui; Camere ubbidienti al padrone li tagliano quanto basta nel caso che lo concerne, acquiescenti gli oppositori; e garantismi viziosi allungano i tempi processuali, finché il termine sia scaduto (l’udienza preliminare nel caso Prele viti dura anni, perché l’imputato le diserta invocando impegni parlamentari). Così l’Olonese lucra comodi proscioglimenti, qualificandosi «assolto»: nossignore, falsario impenitente; è reo non punibile. Terza mossa strategica, imporre alle prove requisiti sui quali sia facile discutere, tirando il colpo a escluderle: vedi le intercettazioni, aborrite dai garantisti d’Arcore, nel cui lessico “privacy” significa impunità; quando poi sulla linea sotto controllo s’infilino dei parlamentari, dipende dai loro colleghi concedere o no, sovranamente, il permesso d’una lettura utile all’accusa (grazie a quest’immunità l’europarlamentare Massimo D’Alema evita qualche fastidio nell’affare Unipol, i cui scenari poco edificanti costano tanti voti al Pd). I processi diventano messinscena burlesca.
Ecco dove colpire. Matteo Renzi è lodevolmente intervenuto nel caso Genovese (15 maggio) ma appena tocchi i rosicanti in colletto bianco, scatteranno veti dai consorti Ncd, custodi d’interessi il cui santo patrono è Berlusco Magnus. In conclusione, ognuno vede che sciagura fossero le «larghe intese ». A sinistra qualcuno spera che Re Lanterna domenica 25 non perda troppi voti, e l’ultimo ex premier augurava in pubblico che gli elettori non acquisibili lo preferissero alle Cinque Stelle. Esiste anche una cupola oligarchica.

l’Unità 22.5.14
Gli ottanta euro e le cose fatte da Matteo Renzi
di Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta


Ha cominciato Paolo Mieli a Ballarò, hanno continuato Alberto Alesina e Francesco Giavazzi con un editoriale sul Corriere. Fino a ieri ne parlavano bene, mentre oggi, per loro, non si può più sostenere Renzi che avrebbe fatto solo delle promesse mentre quelli di cui c'è bisogno sono i fatti. LETTERA FIRMATA
Ho avuto anch’io una certa difficoltà a capire perché giornalisti esperti come quelli di Rcs abbiano cambiato così rapidamente e in piena campagna elettorale il giudizio positivo che davano fino a ieri su Renzi e sul suo governo: dimenticandosi, improvvisamente, di tutte le cose che sono state invece fatte. Far arrivare 80 euro nelle tasche di chi guadagna meno di 24.000 euro lordi all'anno non è un fatto nel momento in cui si decide anche, dopo tante promesse non mantenute, di tassare le rendite (e le banche) fissando tetti ragionevoli per gli stipendi fino a ieri troppo alti? Impostare in Parlamento le riforme istituzionali, diminuire i costi della politica con un intervento che blocca i rimborsi ai gruppi nei Consigli Regionali e intervenire sull'edilizia scolastica proponendo la priorità di questo investimento pubblico non sono fatti? Può darsi, ovviamente, che io mi sbagli ma quello che probabilmente non piace a Confindustria e ai suoi giornalisti è l'idea di un governo che minaccia, se stabilizzato dal voto europeo, di lavorare oltre che ad una redistribuzione delle ricchezze, ad una iniziativa forte di moralizzazione (dal ripristino del falso in bilancio all'Authority dotata di poteri reali sulla corruzione) del capitalismo italiano. Quello che non sarà facile, voglio dire, è chiarire bene a tutti, con l’aiuto di un giornalismo un po’ più obiettivo che davvero lo Stato è più forte dei ladri.

l’Unità 22.5.14
L’Europa al voto vista da Auschwitz
di Roberto Della Seta


OGGI MI TROVO IN POLONIA, A OSWIECIM: AUSCHWITZ IN TEDESCO. QUI SETTANTA ANNI FA, IL 23 MAGGIO 1944, furono ammazzati perché ebrei un fratello (Giovanni) e tre sorelle (Eva, Gina, Valentina) di mio nonno Angelo Della Seta con le loro famiglie: Jacopo Franco marito di Gina; Enrico Di Capua marito di Eva; Angelo e Elda Di Nola marito e figlia di Valentina; Mario e Renzo Roccas marito e figlio di Elda (Mario e Renzo furono ammazzati alcuni mesi dopo gli altri).Mio nonno non c’era, era morto di malattia quattro anni prima. Non c’era neanche mio padre Piero: per sua (e per mia) fortuna si era allontanato dalla famiglia d’origine e avvicinato a una nuova, quella del Partito comunista clandestino. Anche per questo quando ad aprile 1944 i suoi zii e cugini vennero arrestati dai fascisti a Chianni, vicino a Pisa, dove credevano di stare al sicuro, poi portati nel carcere di Firenze, infine consegnati ai nazisti e deportati nel campo di Fossoli e da qui ad Auschwitz, lui invece si trovava a Roma come la madre Jole e la sorella Giovanna, ben nascosti da qualche parte grazie ad amici, preti, comunisti. Tutti e tre si salvarono dai nazisti, tutti e tre il 4 giugno 1944 - senza sapere che una settimana prima un pezzo della loro famiglia era stato distrutto ad Auschwitz - poterono festeggiare la liberazione della città.
Visitando le baracche ben conservate dello sterminato campo di Auschwitz mi sono venute in mente le parole scritte da Edgar Morin e Mauro Ceruti in un libro recente e bellissimo che s’intitola «La nostra Europa». L’Europa metanazionale - così Morin e Ceruti - è figlia della barbarie, del male assoluto simboleggiato da Auschwitz e anche del rifiuto di quell’altro male profondissimo che fu lo stalinismo. Ma questa Europa che fra errori, parziali fallimenti, viltà, ritorni indietro non ha mai smesso di cercare la via dell’unità, della cittadinanza europea, è figlia soprattutto dell’improbabile: «Le sorti della seconda guerra mondiale - ricordano Morin e Ceruti - vissero un rovesciamento drammatico nell’inverno 1941-1942. In soli due mesi, il probabile della vittoria nazista iniziò a diventare improbabile; l’improbabile della vittoria alleata iniziò a diventare probabile ».
Per Morin e Ceruti, anche l’Europa di domani «sarà figlia dell’improbabile o non sarà». L’improbabile, per l’Europa attuale, è fermare il suo declino, economico ma prima ancora identitario, e aiutare a sconfiggere le nuove barbarie - sociali, ecologiche, umanitarie - che essa stessa ha coltivato dentro e oltre i suoi confini. Può riuscirci, come già settant’anni fa, usando le sue migliori risorse di pensiero e di cultura, le stesse che nei suoi giorni più bui diedero forma al «sogno» federalista di Altiero Spinelli e Ernesto Rossi: scrivono ancora Ceruti e Morin che «l’Europa ha prodotto, con l’umanesimo, l’universalismo, l’ascesa progressiva di una coscienza planetaria, gli antidoti alla stessa barbarie pure da essa diffusa nel mondo. Anche questa è una condizione per superare i rischi, sempre presenti, di nuove barbarie». L’idea di Europa come antidoto alla barbarie: la stessa idea difesa appassionatamente e disperatamente da Alex Langer negli anni tragici della carneficina nella ex-Jugoslavia. Oggi mi trovo ad Auschwitz mentre l’Europa sta per votare, tutta insieme, per eleggere il prossimo Parlamento europeo.
Si voterà a Oswiecim-Auschwitz come a Roma, a Chianni come a Berlino, voteranno i discendenti dei carnefici e quelli delle vittime di Auschwitz. Potranno votare anche alcuni che sopravvissero ai campi di sterminio: come Piero Terracina, che viaggiò verso Auschwitz sullo stesso treno con i miei familiari e che da decenni viaggia per le scuole raccontando cosa fu la Shoah. Voteranno, per la prima volta, le donne e gli uomini della Croazia, divenuta nel 2013 il ventottesimo Paese membro dell’Unione europea; non ancora i serbi, i macedoni, i montenegrini, i bosniaci, i kosovari, gli albanesi, che però pure loro, finalmente, sono parte dell’integrazione europea. Centinaia di milioni di europei, dal circolo polare artico a Lampedusa, voteranno tutti insieme per scegliere deputati che in un’unica assemblea elettiva dovranno rappresentare non il proprio Paese, ma i cittadini europei. L’Europa oggi sembra malmessa: per molti europei non è ancora una «patria» ed è anzi una specie di «matrigna», spesso nelle sue politiche - dal lavoro all’immigrazione - non si vede traccia dei valori di apertura, socialità, sostenibilità che a parole proclama.
E però questa possibilità, questa idea di eleggere tutti insieme un solo Parlamento, a me piacciono. Domenica torno a casa per votare anch’io.

l’Unità 22.5.14
La ricetta per evitare il naufragio dell’Euro
di Stefano Fassina


DAVVERO, COME SOSTENGONO TANTI NELLE RISSE QUOTIDIANE DELLA CAMPAGNA ELETTORALE, i nostri problemi si risolverebbero se uscissimo dall'euro? Davvero esiste una scorciatoia per risolvere il dramma dell'assenza di lavoro, della morte di decine di migliaia di piccole imprese, della povertà, dell'impoverimento delle classi medie e del debito pubblico? No, purtroppo non è così. Anzi. Il progetto politico del quale sarebbe dovuta essere strumento la moneta comune, ossia l'integrazione politica, attraverso la partecipazione democratica, degli Stati nazionali europei, è l'unica strada per recuperare nella condivisione la sovranità perduta da almeno un quarto di secolo. I nostri problemi, nostri di cittadini europei, sono dovuti a radicali mutamenti demografici, tecnologici, economici, sociali, politici avvenuti negli ultimi quattro decenni. Del resto, per capire che l'euro non è la causa profonda dei mali delle democrazie mature sarebbe sufficiente considerare il Regno Unito: i nazionalisti e xenofobi dell'Ukip sono previsti primo partito nelle elezioni di domenica. Eppure, il Regno Unito è fuori dall'euro, ha una banca centrale prestatore, generoso, di ultima istanza, ha adottato politiche monetarie e di bilancio fortemente anti-cicliche (la sterlina all'inizio della crisi è stata svalutata del 40% mentre il deficit del bilancio pubblico balzava e rimaneva al 10%).
L'euro è stata una scelta dotata di potenzialità progressive per affrontare la grande trasformazione in corso. Purtroppo, per ideologia e per interessi corporativi fino all'autolesionismo, la moneta comune è stata mortificata da una politica liberista e mercantilista e utilizzata per moltiplicare gli effetti negativi della globalizzazione senza regolazione politica. Per comprendere la profondità e la portata storica dei movimenti in atto è di grande utilità l'ultimo saggio, il primo tradotto in Italia, di Stephen D King: «Quando i soldi finiscono. La fine dell'età dell'abbondanza» (Fazi Editore, pag 330, €18). King è un economista britannico non accademico, segnato da una lunga esperienza sul campo come responsabile globale della ricerca economica alla banca internazionale Hsbc, dal 2007 componente del Consiglio Ombra della Banca Centrale Europea. La tesi centrale della sua indagine multidisciplinare (dalla storia economica, all'economia, alla demografia, alla vicenda politica) è controcorrente, ma condivisa da alcuni anni dal sottoscritto: non siamo in una congiuntura difficile, drammaticamente aggravata da scelte di politica economica sbagliate e controproducenti (secondo quanti guardano la realtà) o gradualmente migliorata, con inevitabili effetti collaterali, da necessarie misure impopolari (secondo altri, ostinatamente impermeabili all'evidenza empirica). Scrive King in apertura del testo, «la stagnazione economica di questi anni è fondamentalmente diversa. Molti dei fattori che nei decenni scorsi hanno portato a straordinari tassi di espansione nel mondo occidentale hanno perso i loro poteri magici». In chiusura avverte, con un preoccupazione fondata: «È arrivato il momento di smettere di far finta che questo sia un semplice contrattempo di tipo ciclico. È tempo di contrastare urgentemente i problemi strutturali che minacciano il futuro di tutti noi». Nei 10 capitoli del percorso narrativo, l'autore si sofferma su casi storici (dal default dell'Argentina alle trasformazioni politiche in Indonesia, Malesia e Corea del Sud) e sulle interpretazioni date ai passaggi di fase da grandi economisti classici (da Smith a Hayek passando da Marx a Keynes). Rileva tre fratture distintive del tornante storico nel quale siamo: la disparità di reddito, dovuta a «salari che si comprimono man mano che la concorrenza delle superpotenze emergenti si fa più serrata»; la transizione demografica e un «invecchiamento senza dignità»; il debito privato e «il crollo della fiducia tra creditori e debitori ». Infine, si concentra negli ultimi due capitoli sull'Unione europea e sul l'euro-zona: l'incubo del presente, incluso l'estremismo politico, e le scelte, politiche prima che economiche, per scongiurarlo. Le proposte per evitare il naufragio dell'euro sulle quali King insiste circolano nel dibattito pubblico. Ma si rafforzano espresse da chi, da oltre Manica, non può essere accusato di voler evitare «i compiti a casa», depistante invocazione imposta dalle forze e dagli Stati dominanti, o di essere ostile all'establishment della grande finanza globale, vuota retorica populista: «C'è un modo per far funzionare l'euro-zona, se (ed è un grosso se) la politica lo consentirà. I Paesi membri devono accettare il fatto che un'unione monetaria può riuscire soltanto se accompagnata da un'unione fiscale. A meno di un accordo fiscale vincolante, l'eurozona fallirà». Insomma, i problemi dell'euro-zona sono sistemici. Non si possono risolvere soltanto con le riforme strutturali nei Piigs.
In conclusione vogliamo segnalare e fare nostro l'appello rivolto da King a chi ha responsabilità dirette o indirette dei corsi di economia: «serve una revisione completa dell'insegnamento universitario, con molta più enfasi sulla storia economica..... Soltanto dopo aver studiato la storia gli economisti potranno dire qualcosa di utile sui problemi che ci troviamo ad affrontare oggi e che sicuramente avremo anche domani». Purtroppo, tanti economisti accademici, editorialisti di grandi quotidiani nazionali, dicono tanto ogni giorno senza consapevolezza della storia. Difendono la rotta mercantilista e alimentano le forze regressive.

Repubblica 22.5.14
Che cosa succede se fallisce l’euro? Davvero noi decidiamo qualcosa? Ecco un test per capirne di più
Fenomenologia della crisi europea in quaranta domande
di Hans Magnus Enzensberger


PER favore, segni con una crocetta le sue risposte.
Quando una donna intelligente, che occupa una posizione di rilievo, afferma: «Se l’euro fallisce, fallisce l’Europa»?, si tratta:
1) di una minaccia? Sì No
2) di una menzogna per autodifesa? Sì No
3) oppure semplicemente di una stupidaggine? Sì No
4) Ha l’impressione che il nostro continente continui ad esistere, sebbene nel corso degli ultimi duemila anni siano tramontati il talento, il denaro, il fiorino olandese, la lira, il leptone e il marco imperiale? Sì No
5) Sa chi ha inventato la parola monca euro, che non era mai stata pronunciata da nessuno prima della fine del XX secolo? Sì No
6) È in grado di decifrare acronimi come Bce, Fesf, Mes, Eba e Fmi? Sì No
7) Non teme forse che la maggior parte dei paesi europei siano governati da un po’ di tempo non da organi democraticamente legittimati, ma da quelle abbreviazioni? Sì No
8) Ha votato per queste istituzioni? Sì No
9) Queste istituzioni vengono menzionate nella Legge fondamentale o in un’altra Costituzione europea? Sì No
10) Le hanno mai detto negli ultimi anni che le decisioni di queste istituzioni sono «senza alternativa»? Sì No
11) Non è forse vero che i senzatetto, i tossicodipendenti, i salariati o i pensionati non sono legittimati a reclamare i loro bisogni economici, mentre lo sono i soci dell’Eurogruppo, i consigli d’amministrazione delle banche e i dirigenti delle aziende televisive? Sì No
12) Questa richiesta viene soddisfatta regolarmente?
Sì No
13) Ha incontrato nell’ultimo periodo il termine tecnico “repressione finanziaria”? Sì No In caso affermativo, con questa espressione si intende:
14) riduzione delle pensioni? Sì No
15) aumento delle tasse?
Sì No
16) tagli del debito? Sì No
17) imposte obbligatorie? Sì No
18) inflazione? Sì No
19) riforme monetarie? Sì No
20) Conosce il nome e l’indirizzo preciso dei «mercati» che prescrivono ai salvatori dell’euro che cosa devono fare? Sì No
21) La guardia costiera deve verificare se i passeggeri in pericolo di naufragio sono rilevanti per il sistema prima di salvarli? Sì No
Indichi se è d’accordo con i seguenti punti di vista:
22) «Il potere è il privilegio di non dovere imparare» (Karl Deutsch, 1912-1993). Sì No
23) «Una vita senza la Corte costituzionale è possibile, ma priva di senso» (Loriots Mops). Sì No
24) «Noi decidiamo qualcosa, lo poniamo nello spazio, e aspettiamo che cosa accada. Se non c’è nessuna lamentela e non si verificano ribellioni, perché la maggioranza della gente neppure capisce che cosa è stato deciso, allora continuiamo passo dopo passo finché non si potrà più tornare indietro» (Jean-Claude Juncker). Sì No
25) «I politici sono come cattivi cavalieri che si impegnano così tanto nell’impresa di mantenersi in sella da non curarsi più di quale sia la direzione verso cui stanno cavalcando» (Joseph A. Schumpeter, 1944). Sì No
26) La Commissione europea conosce il significato della parola sussidiarietà? E, in caso affermativo, lo ha forse dimenticato? Sì No
Che cosa si intende con l’espressione alleggerimento quantitativo?
27) Un esercizio di yoga? Sì No
28) L’accelerazione della stampa delle banconote? Sì No
29) Il costituzionalista Gusy di Bielefeld ha ragione quando dice: «Dove c’è un trogolo si radunano i maiali»? Sì No
30) Lei pensa di riuscire a familiarizzare con la fantasiosa metafora dei salvatori dell’euro oppure le sembra qualcosa di marziale, confuso o persino ridicolo? È in condizione di distinguere con precisione tra ombrelli, leve, bazooka, cannoni pesanti, muri ignifughi e pacchetti di aiuti? Sì No
31) Si culla nella ferma speranza espressa da Karl Valentin con queste parole: «Si spera che le cose non vadano così male come ora stanno andando»? Sì No
32) Se si dimostra che l’introduzione di una nuova moneta ha condotto, anziché all’integrazione dell’Europa a una sua spaccatura, a un nuovo odio e al risentimento reciproco, non sarebbe allora giunto il tempo di concludere questo esperimento invece di procedere secondo il motto «avanti a testa bassa». Sì No
33) O una simile ritirata è impensabile perché significherebbe una ferita narcisistica per i politici responsabili? Sì No
34) C’è un’Europa al di là delle istituzioni dell’Ue e dei suoi 40 mila funzionari? Sì No
35) Spetta a queste stesse persone decidere chi debba essere considerato antieuropeista? Sì No
36) Capisce per quale motivo i politici dell’Europa maneggiano i trattati di Roma e quello di Maastricht come se non li avessero mai sottoscritti? Sì No
37) Ritiene che questi politici considerino i referendum e le elezioni fastidiosi perché ogni espressione di opinione da parte della popolazione potrebbe disturbare i loro sforzi per tranquillizzare i mercati? Sì No
38) La democrazia era davvero un’idea così cattiva da potervi rinunciare in casi eccezionali? Sì No
39) L’esempio della Cina non mostra che anche senza la democrazia, nel segno della globalizzazione, si può portare un paese a diventare una potenza mondiale di successo? Sì No
40) Quindi, l’interdizione politica dei cittadini è inevitabile? E la loro espropriazione economica una conseguenza necessaria? Sì No
(traduzione di Micaela Latini) Questo testo, che si trova nell’ultimo numero di MicroMega, è stato originariamente pubblicato sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung del 2-5/ 1-2/ 2-012

Repubblica 22.5.14
Già Marx e Nietzsche avevano capito che il processo di unificazione economica doveva essere intrapreso
Il Vecchio Continente fantasma politico in cerca di un’identità
di Massimo Cacciari


PIÙ appare inarrestabile la decadenza del ruolo politico e del peso economico dell’Europa nel mondo fattosi Globo ( The Globe è il simbolo, consacrato all’esposizione universale di Parigi del 1889), più sembra crescere il desiderio di definirne la figura, di disegnarne l’identità, di stabilirne l’idea. Ma quanto esso si fonda su una reale conoscenza della storia europea? Quanto esso corrisponde al “dèmone” che ne presiede le continue metamorfosi? E di che natura sono i progetti e i programmi che da esso possono prendere vita?
Infermissima, insecura è l’idea di uno spazio culturale europeo fin dal suo primo manifestarsi. Europa non ha mai indicato un luogo in contrapposizione ad altri, tantomeno un “centro sacrale”, come molti un tempo hanno preteso, ma un’energia irradiante in ogni direzione, una radicale insofferenza per ogni confine che non significasse somica.
glia da trasgredire. Qui mai il dio Termine ha trovato dimora. Questa energia ha assunto due volti, che nella loro inseparabilità hanno costituito la tragica grandezza d’Europa: un’inquietudine interiore, da cui nasce la “invenzione” di un movimento storico, che tutto relativizza e, alla fine, travolge; l’impossibilità di “lasciare in pace”, il non poter fare a meno di trascinare nel vortice di quel movimento ogni altra cultura, magari soltanto con la volontà di “scoprirla”. Fame di conoscenza e fame di conquista sono categorie rigorosamente scisse solo nella fantasia delle anime belle.
La “detronizzazione” d’Europa, seguita inesorabilmente alle guerre mondiali che essa ha scatenato, ha posto fine a ogni sua possibile “missione”? Il suicidio delle sue volontà egemoniche deve comportare l’impotenza a deciderne qualsiasi “compito”? È chiaro che a queste domande non si risponde con i “programmi” per il rafforzamento (o il salvataggio) della sua unità economica. Ben prima infatti che quel suicidio si compisse, i grandi “profeti” dell’età che viviamo, da Tocqueville a Marx a Nietzsche, avevano compreso la necessità che il processo di unificazione economica venisse intrapreso. Gli staterelli europei (diceva Nietzsche nel 1885!) saranno costretti sotto la spinta dei commerci mondiali a stringersi insieme in un’unica potenza. Il solo denaro li obbligherà a questo tentativo, per l’impossibilità evidente di competere nell’economia globale da parte di qualsiasi antico ”staterello sovrano”. Riconoscere ciò che è necessario fare per sopravvivere è certo buon segno di volontà di vita, ma non indica di per sé alcuna “missione”, non può assumere alcun significato per il destino degli altri spazi dell’unico Globo.
Altrettanto evidente è, però, che nessun compito futuro può essere “inventato”, che qualsiasi “progetto” dovrà rivivere in sé fattori essenziali del passato e la sua lingua sapersi esprimere nei linguaggi in cui storicamente l’Europa si è rappresentata, non nell’universale esperanto tecnico- formale che appartiene al “solo denaro”, per trasformarli, magari, proprio parlandoli.
Ora, l’Europa insecura, operante proprio sempre in forza di tale insecuritas, questa Europa, che mai è sembrata avere sede certa, attorno a un linguaggio si è tuttavia costruita o, meglio, a un suo “originario fenomeno”. Possiamo chiamarlo “filosofia”. Non si tratta di contenuti determinati, tantomeno di astratti sistemi, ma di un atteggiamento complessivo che informa di sé tutta la nostra immagine del mondo, che determina una idea di vita: la possibilità che, al limite , essa possa essere condotta sulla base di norme razionali; che, proprio a tal fine, cultura e scienza debbano poter procedere autonomamente, ovverosia incondizionatamente, per potersi così esprimere in tutta la loro intrinseca potenza; che la libertà che in questa attività si incarna sia possesso del soggetto che opera, e che operando fa la propria storia, di noi, i Soggetti. Si potrebbe dimostrare come questa prospettiva si sia intrecciata con tutte le dimensioni dell’esperienza europea, ma la questione che urge non è storiografica. Può l’Europa avere altro compito che quello che il suo dèmone filosofico gli ha dettato? Programmi, certo, ne potrà elaborare comunque, come qualsiasi grande spazio del Globo, per salvaguardare la propria “competitività”. Ma una “identità” diversa da quella che nel linguaggio della filosofia si è tracciata, dove potrebbe mai immaginarla? Poiché questo appunto è il problema: che quel linguaggio è apparso compiuto (e, per tanti versi, vittoriosamente compiuto) nel corso del tragico “secolo breve”, che esso, proprio con la “occidentalizzazione” dell’intero pianeta, sembra giunto al suo estremo. Che rimane all’Europa da fare dopo aver compreso ogni alterità nella forma trascendentale del Cogito e svelato ogni “ideale” o “valore” come proprie creazioni, che di volta in volta storicamente si realizzano? Forse nient’altro che la critica de-costruttiva, la messa in dubbio radicale della fondatezza di quell’eroica istanza. Può il compito attuale d’Europa consistere nell’esercizio ironico- scettico rispetto ad ogni pretesa di riduzione del mondo a “sistema”? Un gesto di rinuncia ne caratterizzerebbe, allora, l’idea. Rinuncia a ogni volontà di possesso e afferramento del reale sul metro della propria storia, rinuncia a ogni forma di teleologia. Rinuncia che non significhi pessimistico abbandono, ma capacità di accogliere in sé, attenzione e ascolto rivolti all’infinita differenza che ci separa dal prossimo, e insieme a lui ci accorda. Il tramonto destinato della potenza europea può trasformarsi in una volontà operante, capace di indicare una destinazione: un mondo in cui l’esperienza della coscienza, per dirla con Hegel, giunga a comprendere che la presenza dell’altro è condizione necessaria della ricerca della propria stessa identità. “Costituzionalizzare” l’Europa per impedirne il tramonto, per arrestare la decadenza della sua volontà di potenza, rappresenta la prospettiva opposta. E nessun “potere che frena” basterebbe alla bisogna. Che il tramonto divenga un tramontare , questo occorre, che sia conflitto verso ogni forma di idolatria identitaria, che sia apertura all’imprevedibile e all’inaudito che ogni incontro con l’altro, ogni nuova aurora, porta con sé.

Corriere 22.5.14
Quanto ci assomiglia la Grecia moderna in bancarotta perenne
di Carlo Vulpio


«I migliori sono privati di ogni convinzione, mentre i peggiori sono pieni di chiassosa passione». Con queste parole (Il giorno del Giudizio , William Butler Yeats) sull’Europa in rovina del 1920 si chiude La Grecia moderna . Una storia che inizia nel 1821 (Argo editrice, pp. 294, e 22, traduzione dal greco di Massimo Cazzulo), di Thanos Veremis e Ioannis Koliopulos, rispettivamente docenti di Storia politica e di Storia moderna nelle Università di Atene e di Salonicco. Diciamo subito che l’opera non solo non ignora l’attualità — il coma in cui è precipitata la Grecia —, ma la utilizza per far meglio comprendere le cause che hanno «spezzato le reni» a un Paese al quale, come a una madre, tutti dobbiamo qualcosa.
E allora, dal default di oggi è necessario fare subito un salto all’indietro di 120 anni, al 1893, quando la Grecia fallì per la prima volta, per colpa di «un debito nazionale sette volte più elevato rispetto a 17 anni prima». Sono passati appena 50 anni dalla sua prima Costituzione, che è del 1844, e 70 dall’indipendenza dall’impero ottomano — raggiunta con quella rivoluzione del 1821 che infiammò la meglio gioventù europea di un filellenismo mai visto prima e dopo —, che la giovane Grecia già si trova in bancarotta. Certo, per colpa dello sforzo economico a sostegno delle cause irredentiste, con debiti contratti per pagare altri debiti, e della grave crisi del settore viticolo, che dopo un breve periodo di floridezza viene affossato dai vigneti (e dai dazi) francesi. Ma anche perché «i prestiti stranieri dei primi 45 anni dell’indipendenza erano usati raramente per opere pubbliche legate alle infrastrutture, in quanto la maggior parte di essi finanziava spese di amministrazione, bilancio per la difesa e pagamento dei prestiti».
Il processo di unificazione del Paese e la ricerca di una smarrita «identità greca» erano riusciti a trovare nella lingua e nella continuità culturale con il passato gli elementi più efficaci per neutralizzare tutti coloro che, sulla base delle teorie razziali alla moda, ritenevano i greci moderni soltanto degli «slavi albanesizzati». Ma ciò che la Grecia non è mai riuscita a evitare è stato l’indebitamento incontrollato, quasi una coazione a ripetere lungo due secoli. Già nel 1833, il re Ottone, non sapendo come pagare i debiti con l’estero, «è pronto a vendere la terra pubblica». Poi ci si mettono anche le guerre balcaniche agli inizi del XX secolo e gli scontri con la Turchia, con il conseguente catastrofico scambio di popolazioni tra i due Paesi (585 mila musulmani ellenofoni cacciati dalla Grecia e un milione e 300 mila ortodossi turcofoni cacciati dalla Turchia), la Seconda guerra mondiale seguita da una durissima guerra civile, un golpe con relativa dittatura militare nel 1967, un altro referendum (il sesto) tra monarchia e repubblica nel 1974, una nuova Costituzione nel 1975 e, finalmente, l’agognata ripresa. Che però dura poco, non più di 15 anni, quanto basta per riprendere la folle cavalcata verso l’indebitamento improduttivo che l’ingresso nella Cee prima e nell’euro poi non riescono a frenare e che porta la Grecia (dove, per dirne una, la crescita del settore pubblico dal 1980 al 2010 è stata tripla rispetto a quella dell’Austria) al disastro.
Veremis e Koliopulos sono impietosi, non scelgono la via facile di incolpare «gli altri» per «questa sorta di destino greco» e sostengono che i disastri economici, oggi come in passato, sono il frutto della «comunità segmentata, cioè di un sistema premoderno che corrode lo Stato greco fin dalla sua nascita». Un sistema in cui ciò che conta è la protezione dell’unità familiare, del gruppo, del clan, a scapito della meritocrazia nella vita pubblica, e in cui ognuno fa la sua parte, ma in senso negativo: la politica «che attira per lo più persone prive di un sapere politico e personaggi dello spettacolo», l’economia e la cultura «che scelgono secondo il criterio della totale dedizione e non delle capacità», e la stessa società civile «che concorre con zelo a saccheggiare il sistema». Ovviamente, ogni somiglianza con l’Italia è puramente casuale.

Corriere 22.5.14
«I proletari? Artigiani e autonomi» Il nuovo Casarini riparte dal Papa
L’ex disobbediente, la corsa con Tsipras e la vita in famiglia a Palermo
«I politici ascoltino Francesco. Ho chiuso la partita Iva, non reggevo»
di Gian Antonio Stella


E i figli come sono: ribelli? «No: ri-belli. Nel senso che sono bambini bellissimi...». È tutto in questa risposta, tenera tenera, il «nuovo» Luca Casarini. L’uomo che visse due volte. Nella prima vita era un no-global molto attaccabrighe che si fiondava in tutte le rivolte di piazza da una parte all’altra del pianeta finendo in manette a Istrana e in Messico, a Trieste e Copenaghen, in Israele e a Torino. Nella seconda non è che da incendiario sia diventato pompiere («incendiario, sinceramente, non mi sono sentito mai e pompiere oggi men che meno: solo che, andando verso la cinquantina, sono un po’ cambiato») però dopo aver messo su famiglia, ha deciso di dare battaglia in maniera diversa. Fino a candidarsi al voto di domenica, nella circoscrizione di centro, con «L’altra Europa per Tsipras», la lista di quanti, nella scia del greco Alexis Tsipras, combatte l’anti-europeismo demagogo e populista teorizzando «un’Europa diversa, dei diritti e non delle banche». Ma che c’entra, uno come lui, con un’intellettuale «liberal» quale Barbara Spinelli? «Sempre stato a favore di un’alleanza fra ribelli e democratici. E poi Barbara è Barbara. Sono affascinato da lei».
Non sarà un po’ imborghesito, come accusano certi gruppuscoli duri e puri dell’estrema sinistra? «Ma va! Lo so io cosa ho in banca... Del resto Marcos diceva: “a destra mi danno del rivoluzionario, a sinistra del riformista: forse ho ragione”. Io resto in trincea sul fronte delle diseguaglianze, della povertà con cui fanno ormai i conti 120 milioni di europei e quasi un terzo degli italiani. Uso una parola antica: contro le ingiustizie. Non possiamo accettare che 43 milioni di persone, nella Ue, vivano in miseria».
Lui la vede tutti i giorni, dice. Nei quartieri più infelici di Palermo. Lasciato il Veneto («Ho costretto mia moglie a vivere sette anni a porto Marghera, appena lei ha avuto un contratto di ricerca in Sicilia, siamo venuti via») vive oggi alla Kalsa, nel cuore della città antica e popolare: «Mi sono battuto per anni per tutti i Sud del mondo. Era scritto che dovessi venire a vivere nel Mezzogiorno».
Com’è stato il passaggio da un dialetto all’altro, dal «pesse» al «pisci», dai «folpi» ai «purpi»? «Nessun problema». Prima parola imparata? «Minchia». Conosceva già, la Sicilia? «Più che altro ero venuto a Comiso, contro la base Nato...». Ammicca: «Una visione un po’ ristretta». Molto più complicati, più che quello familiare, sono stati altri traslochi: dai centri sociali al romanzo «La parte della fortuna» edito da Mondadori, dalle «tute bianche» alla contestazione dell’oppressione fiscale, dagli scontri di piazza alla partita Iva: «Mi ha cambiato la prospettiva. Il piccolo artigiano, il piccolo imprenditore, il piccolo autonomo è l’ultimo anello della catena, lavora 24 ore su 24, non stacca mai ed è attaccato da tutte le parti. È spesso, davvero, un sottoproletario dei tempi moderni». Dice che l’ha chiusa, lui, la partita Iva: «Non ero in grado di reggere. Adesso, a 700 metri dal Politeama, abbiamo aperto con alcuni amici uno spazio “co-working”. Dividiamo le spese, il telefono, gli spazi... Mettiamo insieme le idee...». Basta a «calari ‘a pasta», cioè a dar da mangiare? «A intermittenza. Quanto possa essere pesante il lavoro a intermittenza lo provo io stesso tutti i giorni. Pensare di risolvere i drammi del lavoro solo con la precarietà non ha senso. Se tu mi fai il decreto Poletti che prevede il lavoro a intermittenza pagato tre euro all’ora e ti dà la possibilità di lavorare due mesi e poi stai fermo un mese e poi ne lavori altri due da un’altra parte, quando stai fermo cosa mangi, come paghi il mutuo, come ti fai carico delle bollette? Non puoi fare un decreto come quello senza ragionare sulla “flexsecurity” e il reddito minimo garantito».
A proposito, quella è una battaglia di Grillo: che ne pensa? «Metto tutto insieme, le cose che mi piacciono e quelle che non mi piacciono. La somma è che lui non mi piace. Vuole mandar via tutti, avere il voto di tutti... La democrazia non è questa cosa qui. La democrazia è scontro ma anche confronto. È terribile questa idea di voler rappresentare tutti. Vuole piacere ai poliziotti ma anche ai no-tav. Come fa? È un populista. Come Berlusconi. O Renzi. Magari si attaccano fra di loro e si dicono cose tremende ma sono tutti “pop”. Noi siamo rock».
Casarini finì nelle case di tutti gli italiani, attraverso i tiggì, nei giorni del G8 a Genova. Portavoce dei «Disobbedienti», spiegava la strategia così: «Quando un giornalista mi telefona e mi chiede di dargli qualcosa da prima pagina, rispondo: “A Genova dichiariamo guerra ai grandi del mondo”. E quello lo mette in prima pagina. Oppure tiriamo fuori la storia degli “uomini topo”, che sono già al lavoro, sempre a Genova, a scavare nei sotterranei. E loro abboccano».
Tredici anni dopo quelle giornate di violenza, il leader del movimento di ieri che i «giovani internazionalisti» di oggi accusano nella loro forum community d’esser dalla parte della «piccola borghesia imprenditorial-affaristica di stampo veneto», dice che lui non la capisce la rabbia di Grillo: «Quale visione ha della società? Quale? La rabbia di Grillo è una cattiva consigliera. È un elemento giusto perché bisogna arrabbiarsi davanti alle ingiustizie ma è sempre foriera, senza una visione, di storture…»
E guai a ricordargli che anche la rabbia dei black block a Genova non aveva un disegno se non la violenza, lo sfascio delle vetrine, la demolizione delle auto parcheggiate, l’assalto alle filiali delle banche: «Certo, sono stati fatti degli errori. Ma quelle furono giornate buie. Guardiamo i processi: quelli che hanno spaccato e torturato le persone se la sono cavata con una tirata d’orecchi, quelli che hanno spaccato solo “cose” si son beccati 14 anni di galera». Lui, racconta, è uscito assolto dopo otto anni con formula piena: «Mi avevano accusato di cospirazione contro lo Stato. Manco fossi un generale golpista...» Fatto sta che ancora oggi è così legato a quella stagione che quando ha saputo di lui Andrea Camilleri, polemicamente... «No, no, con Camilleri credo che ci siamo chiariti. Del resto, non ha fatto forse un appello per votare per la nostra lista? C’è bisogno di sinistra». Renzi non lo è? «Votando Renzi si vota Schulz, votando Schulz si vota Junker... Le larghe intese stanno mutando la natura della sinistra europea. Del resto, su un sacco di temi, a partire dai diritti e dall’attenzione alla povertà, all’emarginazione, alle periferie, all’immigrazione mi trovo molto meglio con tanti cattolici che non con gli esponenti del Pd. Prenda il traffico di armamenti: c’è solo il Papa a denunciare questo traffico». Ha preso una cotta? «No. Ma è stato straordinario il suo viaggio a Lampedusa. Così come la telefonata a Pannella sulle carceri. Un Papa che si occupa delle carceri! Peccato che, nel loro cinismo, i politici non lo ascoltino per niente...».

il Fatto 22.5.14
Verso le Europee
Quei comizi alla luna degli invisibili di Tsipras
di Antonello Caporale


Il comizio numero 40 è fissato alla pizzeria da Rocco in Andretta, Irpinia d’Oriente. Ad ascoltare l’oratore c’è suo figlio Lidio, un amico di suo figlio, poi Valentina, infine l’oste con sua moglie e io. In tutto siamo sei ed è già un buon numero perché Franco Arminio, di professione paesologo, in genere fa comizi individuali e a domicilio. Fa comizi agli umani, agli animali e anche al resto del mondo inanimato. È riuscito a parlare alle pecore del Gargano, ai pescatori di Monopoli, alle pastiere, a una vacca solitaria, a un gruppo di galline, a una pozzanghera del Formicoso, all’albero rosso, ai frequentatori del bar Carlino, a tutto il popolo di Carife, al cane di via Mancini in Avellino e a molti altri essere viventi.
IL BACCANO elettorale delle formazioni maggiori, quella vagonata di insulti e dannazioni distribuite quotidianamente su ogni fronte, ha oscurato una novità significativa di questo appuntamento. Per la prima volta, sarà per scelta consapevole o disperazione pura, la sinistra italiana ha scelto di farsi guidare da un leader di un altro paese. E quel leader, che si chiama Alexis Tsipras, guida il suo partito, Syriza, verso una vittoria straordinaria ad Atene. Tsipras è anche candidato a guidare la Commissione europea. Le singolarità non finiscono qui. La lista è animata da Barbara Spinelli, figlia di Altiero, e imbottita invece che di ‘arraffavoti’ da intellettuali: letterati, poeti, attori, giornalisti, filosofi. Gente sì creativa, ma dal carattere difficile. L’unica forza organizzata che sostiene questo movimento di pensiero raffinato è Sel di Nichi Vendola.
Ma Nichi si tiene basso e prudente, il suo partito ha scelto di attestarsi a una distanza di sicurezza. Se si perde, hai visto mai?
Insomma, è come se una squadra di calcio fosse schierata solo da numeri dieci: tutti registi assoluti, dal tocco di palla magico e dal dribbling stretto, ma nessun centromediano a spingere il pallone verso l’altra metà del campo. Sembra perciò una lista costruita apposta per testimoniare la sconfitta. Non c’è un alito di demagogia, un'unghia di voto di scambio. Solo proposte concludenti e alternative per costruire un’altra Europa. Malgrado tutto questo la soglia del 4 per cento non sembra irraggiungibile.
TRA GLI INTELLETTUALI che più si dannano per strade e città del Mezzogiorno c’è Franco Arminio, che i lettori del Fatto conoscono bene e che vanta estimatori di varia radice culturale e politica (da Fabrizio Barca a Valerio Magrelli, da Vinicio Capossela a Roberto Saviano e Rocco Papaleo). Gira i paesi del Sud a modo suo e con alterne fortune. Filma continuamente le sue scarse perfomance e i video li manda su Youtube. Sono di regola comizi impossibili. Vaga per le piazze alla ricerca di gente e si ferma dove può.
Questa sera è ospite di Rocco, l’oste di Andretta. “Il problema è che appena ti candidi già ti considerano delinquente. Lo fanno a prescindere. Io sono uno a cui piace sperimentare, trovare il punto in cui ti infrangi sullo scoglio. Quello che percepisco è che mancano la rabbia e il popolo, nel senso che non è facile distinguerle, a volte si accavallano, si inseguono, si respingono e non sai mai se si tratta di due entità diverse o no. L'impatto che si ottiene è la disgregazione che di certo non aiuta, il popolo poi vive nella convinzione che ci va in Europa chi aspira ad arricchirsi. Il fatto stesso che uno come me che parla alle vacche, che fa i comizi alle pecore si candidi, significa che sta cambiando qualcosa, che c'è il clima giusto per osare, per rompere gli schemi di un Sud che si esalta e avvilisce. Sento una lontananza abissale con gli altri candidati. Quando mi chiedono un’opinione, invece di rispondere alla domanda comincio a parlare di mia moglie, perché il poeta è così: tu chiedi A e lui ti risponde C. Mi sento un'avanguardista, come se stessi spianando la strada a chi verrà dopo di me. Ma chi mai avrebbe potuto pensare che un poeta fosse - con le sue sole forze - nella condizione persino di farsi eleggere?”.
L'OSTE lo interrompe: “In questi posti non c’è un manifesto per l’Europa, quando noi i soldi li prendiamo soprattutto dall’Europa”.
Il comizio riprende: “Mastella ha fallito perchè ha agito con metodi simili a quelli che sono definiti camorristi e De Mita ha voluto fare sempre il padrone. Il problema del Sud è proprio questo: la gente è senza orgoglio. C’è servilismo. Queste sono terre che non si ribellano mai. Non so quanta gente mi voterà, potrei arrivare ultimo o primo. Molti mi seguono, e mi sembra una novità. Dimmi un po’quando mai un candidato si è presentato con una poesia romantica erotica, oppure quando mai qualcuno in politica ha esordito facendo un discorso sulla morte. Oggi stare a sinistra significa stare contro gli altri, come se i miei elettori fossero dei candidati mancati. La politica è più vicina all'attività letteraria. Renzi è un surrealista e un futurista. Io sono contro gli ogm, l’uso delinquenziale dei fondi europei. Se venissi eletto porterei il Parlamento europeo ad Andretta, a Palomonte, a Bisaccia. Il voto per me è un voto benigno. Vota e fai votare. Fine del comizio”.

La Stampa 22.5.14
Carceri, ultimatum di Strasburgo:
fino al 27 maggio per trovare soluzioni
L’Italia sorvegliato speciale: a oggi la Corte europea dei diritti umani ha ricevuto 6829 ricorsi contro il sovraffollamento carcerario nel nostro Paese: “Urgente introdurre misure per rimediare alle violazioni subite dai carcerati a causa del sovraffollamento”

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l’Unità 22.5.14
Test d’ingresso a medicina Bene abolirlo ma basta?
di Alessandro Figà Talamanca

Docente di analisi matematica all’Università La Sapienza

Sembra eccellente l’idea della ministra della Pubblica Istruzione Giannini di sostituire il test d’ingresso alla Facoltà di Medicina con una selezione basata sull’esito della frequenza del primo anno di studi universitari. Se, come è probabile, conterà il superamento degli esami del primo anno (e non un test finale come è previsto in Francia) saranno scelti gli studenti più capaci negli studi scientifici e più disponibili a studiare seriamente. Diminuiranno quindi anche i ritardi nel conseguimento della laurea, una piaga della nostra università (una piaga che, a dire il vero, è già meno grave nei corsi di laurea a numero chiuso).
Tutto a posto dunque? Ma perché allora questa soluzione non è stata adottata prima? Forse i precedenti ministri si sono occupati più dei problemi che stavano a cuore ai professori che li ispiravano che dei problemi degli studenti. Ma non è questa la sola ragione della loro inerzia. Il fatto è che non sarà facile adottare, in pratica, questa soluzione, che è semplice solo in teoria.
Se il primo anno di Medicina sarà aperto a tutti coloro che hanno conseguito un diploma di maturità, il numero di matricole si moltiplicherà in modo imprevedibile. Nel 2014 per 10.500 posti disponibili si sono presentati più di 64.000 candidati. Dovremmo prevedere quindi che lo stesso numero di diplomati del 2015 si iscriverà al primo anno, ma a questi si aggiungeranno decine di migliaia di altri studenti che non sono riusciti a passare quest’anno o negli anni precedenti e che vorrebbero usufruire delle nuove norme per entrare a Medicina.
Insomma gli immatricolati a Medicina per il 2015 dovrebbero essere tra i settantamila ed i centomila. Dove si troveranno le aule e i laboratori per ospitare tanti studenti? Dove si troveranno i docenti? Ma questo non è l’unico problema. Se dobbiamo scegliere per l’iscrizione al secondo anno di medicina uno studente su sette, tra i non scelti ci saranno sicuramente studenti che hanno sostenuto con successo un certo numero di esami, forse anche tutti gli esami, magari con un po’ di ritardo e qualche voto mediocre. Dobbiamo dire a questi studenti che gli studi che hanno compiuto non valgono nulla? Sembrerebbe invece necessario che gli studi compiuti possano valere per altri corsi di laurea, e non solo per quelli delle professioni sanitarie. Ma questo significa che si dovrebbe modificare l’ordinamento didattico di Medicina in modo da rendere il primo anno compatibile con il proseguimento degli studi in altre discipline, con convalida, almeno parziale, degli esami sostenuti. Bisognerà anche vincere le resistenze dei docenti di altre facoltà per indurli ad accogliere, senza troppi «debiti», gli studenti che hanno compiuto il primo anno a Medicina.
Alla fine, la soluzione giusta dovrebbe essere quella di riservare il primo anno di Medicina alle materie scientifiche di base (matematica, fisica, chimica, biologia), che dovrebbero essere impartite dai rispettivi dipartimenti a tutti gli studenti il cui curriculum le richieda, indipendentemente dal corso di laurea di iscrizione. Per fare un esempio concreto (e basato sulla mia esperienza diretta), negli Stati Uniti il docente di «Calculus » (traducibile in Italia come «Istituzioni di Matematica ») si trova di fronte studenti di Matematica, Fisica, Chimica, Ingegneria ed Economia, oltre ai «pre-medical students» che aspirano ad entrare in una facoltà medica. Ognuno di questi studenti utilizzerà i «crediti» dell’insegnamento di «Calculus» per la sua laurea. Un’organizzazione di questo tipo consentirebbe di utilizzare i docenti e le risorse di tutti i dipartimenti di discipline scientifiche per far fronte alle necessità del primo anno di Medicina.
L’esempio di Medicina e delle discipline scientifiche potrebbe essere seguito anche da altri corsi di laurea. Si tratterebbe di rendere il primo anno universitario un percorso flessibile utilizzabile in ambiti diversi. Lo studente del primo anno, indipendentemente dall’esistenza di un numero chiuso, avrebbe modo così di valutare i suoi veri interessi, le sue capacità e la sua vocazione. Probabilmente il risultato sarebbe anche una diminuzione dei tassi di abbandono e dei ritardi.
Stiamo parlando però di cambiamenti che incontrerebbero molte resistenze e necessitano comunque tempi lunghi. L’apparato ministeriale, l’agenzia per la valutazione, e, specialmente, il mondo accademico non sembrano pronti ad affrontare problemi di questo tipo e di questa portata, meno che mai in così poco tempo. Così c’è il pericolo che nel 2015 ci troveremo con un primo anno di medicina affollato al punto da rendere impossibile un insegnamento efficace ed una ragionevole valutazione del profitto degli studenti. Non sarebbe certo un miglioramento.

Corriere 22.5.14
A Medicina
Quell’insano entusiasmo per i test cancellati
di Gianna Fragonara

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Corriere 22.5.14
Il nuovo codice che non piace a tutti i medici
di Giuseppe Remuzzi


Pochi presidenti di Ordini contro tanti e i pochi vorrebbero ricorrere al Tar del Lazio. Che cosa non piace a chi contesta il nuovo codice deontologico? Che tutti i medici debbano assicurarsi, non piace il nuovo articolo 3
e che il termine «eutanasia» sia sostituito con il termine morte. Cosa dire? Che i problemi veri sono altri. Abbiamo in Italia un Servizio sanitario nazionale prezioso, che tutti ci invidiano. Lo dobbiamo difendere e un modo per difenderlo è che tutti i medici che vi lavorano, inclusi i medici di famiglia, dipendano dal Servizio sanitario stesso che dovrebbe assicurare tutti i suoi medici, scegliendo le polizze più convenienti. Quanto all’articolo 3 che stabilisce che il medico si deve far carico di salute e benessere fisico e psichico di tutti i cittadini indipendentemente da condizione sociale, religione ed etnia, il nuovo è meglio di quello che c’era. Il problema semmai è che al benessere di tutti (ma proprio tutti) non siamo sempre abbastanza attenti. Sull’eutanasia c’è ben poco da dire: fare il medico è rianimare ma anche saper sospendere le cure se servono solo a prolungare le sofferenze. È eutanasia? No è buon senso.

La Stampa 22.5.14
Il calvario infinito dei bimbi africani nelle scuole trasformate in dormitori
Ad Augusta giacigli di fortuna tra i banchi. I volontari: “Un’emergenza dimenticata”
di Silvia Giralucci


E’ ora di cena nella scuola primaria di via Dessiè, ad Augusta, enorme porto commerciale in provincia di Siracusa. Dalla guardiola del bidello, esce un volontario della Protezione civile con la casacca gialla fosforescente: in mano ha una bacinella carica di scatolette di lasagne. Attorno decine di ragazzi scuri, alcuni scurissimi, una babele di lingue e di razze che si accalcano per le nostre lasagne. La maggioranza sono teenager, ma ci sono anche bambini di 11-12 anni. Probabilmente anche diversi «finti» minorenni. 
Non è un centro di accoglienza accreditato, non è neppure un centro di accoglienza. Nelle classi con gli abbecedari alle pareti ci sono le brande per dormire. I disegni dei bambini sono appesi accanto ai vestiti dei migranti. Si mangia seduti sulle coperte appoggiando il cibo sulla seggiola delle elementari. Fuori da ogni norma, quando la norma non c’è.
Dall’inizio dell’operazione Mare Nostrum la Marina Militare - le cui enormi navi non possono attraccare ovunque - ha fatto sbarcare ad Augusta 52 carichi di migranti, oltre 24 mila persone, tra le quali 2.400 bambini o ragazzini. La legge prevede che i «minori non accompagnati» vengano affidati ai Servizi Sociali del Comune in cui vengono trovati. Di certo nessuno poteva immaginare che un Comune in dissesto finanziario come Augusta, guidato da un commissario prefettizio perché l’amministrazione è stata sciolta più di un anno fa per infiltrazioni mafiose si trovasse a gestire questa enormità di minori non accompagnati.
«L’unica soluzione che possiamo adottare - spiega il commissario prefettizio Maria Carmela Librizzi - è quella che si usa nel caso delle calamità: scuole e palestre per far in qualche modo dormire questi ragazzi evitando che rimangano al porto per mesi. Perché nessuno, proprio nessuno li vuole». 
Nelle aule della scuola di via Dessiè ce ne sono 160. Ne sono arrivati di 40 etnie diverse. Al momento ci sono soprattutto ragazzi siriani, del Ghana, del Gambia e del Bangladesh. Di loro si occupano i volontari della Protezione civile di Augusta, ricevono ogni giorno le visite dei mediatori culturali, ma pare che non abbiano mai visto una donna bianca: «Perché siamo qui? Ci hanno detto che ci portavano a scuola. E siamo in una scuola, ma non ci insegnano niente, non facciamo niente tutto il giorno!». 
Nella scuola di via Dessiè, Yerry, 16 anni, è il più intraprendente. E’ partito dal Gambia a fine gennaio ed è ad Augusta da un mese. Fa la guida per la scuola. Ti mostra che è pulita, perché qui vige il principio che prima riordini e poi mangi, e poi chiede: «Portami con te, a casa tua. Voglio solo stare con una famiglia italiana e andare a scuola. Education is important».
Ibraihim ha 13 anni e parla un inglese quasi incomprensibile. Mostra i vestiti, si alza la maglietta, si tocca i pantaloni. Traducono i compagni di stanza: è qui da 15 giorni, è arrivato che non aveva nulla e non ha abiti per cambiarsi. Solo la maglietta blu e jeans che gli hanno dato i volontari allo sbarco. Con Wheed 17 anni del Pakistan e Mamun, 16, del Bangladesh il dialogo è una triangolazione tra arabo e inglese.
Sono tutte diverse e tutte simili queste storie, se non c’è posto per farsi carico di ogni dramma. Il Comune di Augusta può fare proprio poco per questi ragazzi. Le palestre sono un doppio problema: i ragazzi mangiano e dormono sulle loro brandine nel campo da gioco sotto gli spalti, tutti assieme. I ragazzi di Augusta invece hanno perso le uniche due strutture che avevano per fare sport al coperto. 
Man mano che si liberano letti, i ragazzi vengono spostati in strutture di prima accoglienza. Trenta ragazzi di Gambia, Mali e Senegal possono lasciare la palestra del Palajonio per il centro Papa Francesco di Priolo Gargallo, pochi chilometri da Augusta. Salgono su un pulmino con le ciabatte ai piedi e un sacchetto della spesa che contiene tutte le loro cose. All’arrivo, prima dell’assegnazione della stanza, c’è la seconda identificazione. E foto per il tesserino con un cartello con la data dello sbarco. «In questo centro - racconta il responsabile Daniele Carrozza - dovrebbero stare un massimo di 72 ore, e invece ci stanno dei mesi». Perché per i minori non accompagnati nessuno paga e quindi nessuno li vuole. «E’ un’emergenza - afferma Carrozza - che il governo non sta proprio gestendo. C’è una palese differenza tra il trattamento per i migranti adulti o minori accompagnati da genitori per i quali il ministero dell’Interno stanzia 35 euro al giorno, e i minori stranieri non accompagnati che sono di competenza del ministero del Welfare e per i quali vengono stanziati 20 euro al giorno per ragazzo. In teoria Regioni e Comuni dovrebbero integrare questa cifra, ma è chiaro che nessuno vuole farsene carico. E’ una sperequazione seria e grave».
Con i 20 euro al giorno un centro di prima accoglienza può garantire cibo, un letto, e qualche genere di prima necessità. Già le visite mediche per chi sta male sono un problema. «Ma come facciamo a non farle?». Tra i 30 arrivati dal Palajonio c’è un ragazzo con una grande escrescenza su un orecchio. Dice che gli è venuta qualche mese fa e sta crescendo. Si può negare una visita dermatologica perché i venti euro non bastano?
Le storie che raccoglie la psicologa di Terre del Hommes che si occupa di loro sono terribili. «Un ragazzino di 16 anni - ricorda Carrozza - è stato 18 giorni in ospedale con una rabdomiolisi. Abbiamo scoperto che quella malattia era un conseguenza delle 50 elettrocuzioni che gli avevano fatto in una prigione libica, prima di attraversare il canale di Sicilia». Alcuni ragazzi giocano a calcio nel cortile, altri dormono o stanno seduti sul letto tutto il giorno. 
«Perché la gente per strada quando ci vede scappa?» chiede uno dei ragazzini della scuola di via Dessiè. Paura di questi adolescenti vestiti con gli abiti smessi dai nostri figli? O piuttosto la difficoltà di guardare? Di farsi carico di un problema? L’Europa non aiuta abbastanza l’Italia nell’accoglienza dei disperati che attraversano il Canale di Sicilia, ma forse anche l’Italia non aiuta abbastanza le varie Augusta, Pozzallo, Porto Empedocle che si trovano sole nell’emergenza. 
Questa mattina al porto di Augusta ci saranno altre due navi della Marina Militare, la Grecale e la Foscari. A bordo ci sono altri 500 migranti, tra i quali un centinaio di bambini piccoli e mamme.

La Stampa 22.5.14
Combattere la tortura a Tripoli
di Federico Varese


Nei prossimi giorni può iniziare una nuova guerra civile in Libia. Le truppe di un ex generale del vecchio regime, Khalifa Haftar, hanno sferrato domenica attacchi coordinati contro il Parlamento a Tripoli e contro milizie islamiste a Bengasi. Il primo ministro ha denunciato il tentativo di colpo di Stato. Ma sarebbe troppo semplice descrivere gli eventi in Libia come uno scontro tra rivoluzione e ancien régime. Il governo ufficiale è ostaggio di milizie armate che regolarmente rapiscono cittadini sospettati di collaborazionismo con Gheddafi e li gettano in carceri segrete. Un rapporto recente delle Nazioni Unite parla di 27 persone morte per i postumi delle torture subite in prigioni governative.
A loro volta, i golpisti annoverano tra le loro fila elementi liberali, ma anche individui compromessi con Gheddafi e un gruppo berbero di pessima fama per le sue violenze contro i civili. La Libia è oggi una giungla di uomini armati, dove le distinzioni astratte - islamisti, liberali, democratici - hanno poco valore. In questo mondo dove la violenza è ovunque, l’incarico più pericoloso e forse futile è quello svolto da Currun Singh, ventotto anni, responsabile a Tripoli dell’ufficio dell’Organizzazione Mondiale contro la Tortura (Omct).
Nato in Kuwait da genitori indiani poi immigrati negli Stati Uniti, Currun ha ottenuto due anni fa un Master alla Erasmus University di Rotterdam con una tesi sulla pirateria somala, tema di cui non ha mai smesso di occuparsi (di recente un suo articolo è apparso sul New York Times). La vita accademica, però, non fa per lui. Agile, alto, con un fisico da atleta e capelli corti scurissimi, Curran ha lo spirito del ribelle e i modi impeccabili di un signore d’altri tempi. Dopo un periodo in India e a Chicago, ha deciso di tornare alla sua passione per i diritti umani in Africa e ora guida un team di quattro persone e una ventina di volontari nel cuore di Tripoli. Il suo gruppo documenta gli abusi commessi nel passato e nel presente, e offre assistenza alle vittime. Almeno diecimila persone sono scomparse dopo la rivoluzione, e il compito di questi volontari è scoprire che ne è stato di loro: un lavoro talmente delicato, che la sede dell’Organizzazione è segreta.
«La cosa più complessa in queste ore è distinguere i fatti dalla finzione», mi dice Currun al telefono da Tripoli in una delle nostre recenti conversazioni. «La situazione è tesa. Ci sono stati un’ottantina di morti nel fine settimana, e diverse centinaia di feriti. Gli analisti fanno scenari, ma è impossibile capire fino in fondo quali siano le motivazioni di questi eserciti e le loro alleanze future». Il nuovo uomo forte, il generale Haftar, ha promesso al Paese di metter fine all’insicurezza, soprattutto nell’Est del Paese. «La situazione a Bengasi è fuori controllo. Avvocati, medici, professionisti vengono trucidati con la scusa del collaborazionismo col passato regime, ma sono vendette private». La Libia di oggi è un Paese allo stremo, in preda al terrore. Non stupisce che Haftar abbia un certo sostegno nella popolazione.
L’associazione di Currun opera in Libia da due anni. «Abbiamo documentato oltre duecento casi di tortura avvenuti prima e dopo la rivoluzione». Molti di questi morti atroci avvengono nelle carceri gestite dal Comitato della Sicurezza Suprema (parte del ministero dell’Interno), l’incarnazione rivoluzionaria della polizia segreta di Gheddafi. La Procura Generale ignora le denunce per timore di rappresaglie da parte delle milizie e l’ingiustizia si alimenta grazie all’ignoranza, all’impossibilità di sapere. «Quando una persona scompare, oppure viene trovata trucidata al bordo di una strada, nessuno sa darsi una spiegazione plausibile e spesso non sappiamo dove sia il corpo. Vi sono mille possibili ragioni, ma non esiste una polizia in grado di indagare, una stampa che faccia una denuncia. Le famiglie non hanno risposte. È questa l’ingiustizia suprema, l’ingiustizia del non sapere».
I quattro dipendenti, coadiuvati da una rete di attivisti e professionisti, fanno del loro meglio per proteggersi. «Non portiamo armi, viaggiamo senza scorta, siamo integrati nel contesto locale. I nostri uffici sono un luogo dove le vittime si sentono sicure e vengono a raccontare le loro storie». Ma negli ultimi mesi le minacce sono aumentate. Un avvocato è stato rapito e torturato, il suo corpo gettato da una macchina in corsa. In un altro caso, un medico è stato ucciso davanti ai figli. «Quando possibile, facciamo espatriare i nostri collaboratori. Alcuni oggi vivono in Tunisia».
Mi chiedo che senso abbia difendere i diritti umani in un luogo dove non esiste il diritto. Currun cerca la verità in un mondo dove è quasi impossibile trovarla. Come nella Russia sovietica raccontata da Viktor Serge o nella Cecenia di Anna Politkovskaja, documentare gli orrori è l’unico atto rivoluzionario possibile. Nella nostra ultima conversazione Currun mi dice che ha consigliato al suo staff di non venire in ufficio. Il giovane ribelle, oggi, è solo.

Repubblica 22.5.14
La polemica USA, UE ONU Chiedono Chiarezza
Uccisi 2 adolescenti palestinesi bufera su Israele dopo il video
di Fabio Scuto


GERUSALEMME Un video di meno due minuti scuote i rapporti fra Usa, Ue, Onu e Israele. È stato girato da una telecamera di sicurezza di un negozio giovedì della scorsa settimana durante il “Nakba Day” - il Giorno della Catastrofe - con il quale i palestinesi ricordano la nascita di Israele, la prima guerra arabo-israeliana e l’inizio della tragedia dei profughi. Mancano pochi minuti alle 15 e le proteste fuori del carcere israeliano di Ofer - dove sono in cella centinaia di palestinesi - sono già sfociate nella violenza: sassaiole contro soldati e polizia, copertoni in fiamme. In un’area distante centinaia di metri dal carcere, un gruppo di adolescenti cerca riparo all’ombra di uno stabile dai gas lacrimogeni sparati senza risparmio. Parlottano, si muovono, ma nessuno tira un sasso. Di colpo due figure si accasciano, sono due ragazzi di 15 e 17 anni, centrati in petto e alle spalle da pallottole vere.
Il video, diffuso dalla Ong israeliana B’Tselem e da Defense for Children International Palestine e ripreso ieri dai media israeliani, indica che le vittime erano lontane dagli scontri e non erano impegnate in un confronto diretto con i soldati. «Non sembra», scrive Haaretz, «che rappresentassero una minaccia per nessuno al momento della sparatoria». La missione Ue a Gerusalemme esprime «profonda preoccupazione per la morte dei due adolescenti, con l'uso da parte israeliana di armi letali in manifestazioni di piazza». Gli Stati Uniti chiedono un'indagine imparziale, mettendo in discussione la «proporzionalità dell'uso della forza in relazione alla minaccia posta dai manifestanti». L'Onu invita Israele a seguire «rigorosamente i principi sull'uso della forza e delle armi da fuoco». Il ministro della Difesa israeliano Yaalon giustifica il comportamento delle forze di sicurezza di fronte a «un episodio di violenza in cui bottiglie incendiarie e pietre sono state lanciate contro agenti e soldati, che sentendosi minacciati hanno reagito come dovevano fare».
L'agenzia Onu per l'assistenza ai rifugiati palestinesi (Unrwa) segnala «un incremento netto del numero di rifugiati palestinesi uccisi e feriti» dalle forze israeliane in Cisgiordania, «con munizione vere». Nel 2013 i morti palestinesi in circostanze analoghe sono stati 27, quest’anno siamo già a 11.

La Stampa 22.5.14
Cina, attentato nello Xinjiang, bombe tra la folla: 31 morti

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La Stampa 22.5.14
Russia e Cina firmano l’accordo sul gas
Fornitura da 456 miliardi per trent’anni
Dopo oltre un decennio trovata l’intesa tra la russa Gazprom e la cinese Cnpc: partirà dal 2018. Mosca tra 4 anni avrà un grosso mercato alternativo alla Ue

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La Stampa 22.5.14
Mosca e Pechino, il caos in Ucraina
fa riavvicinare le due superpotenze
Siglato lo storico accordo sul gas da 400 miliardi. Così Putin si assicura
un partner che gli consente di diversificare il problematico mercato europeo
di Francesca Paci

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Corriere 22.5.14
La mossa europea: mini-patto (subito) con gli Stati Uniti


Forse per l’Occidente è arrivato il momento di prendere un rischio e di rispondere alla nuova aggressività di Vladimir Putin: a maggior ragione dopo che, ieri, Mosca ha firmato con Pechino un importante accordo per la fornitura di gas alla Cina. La risposta ovvia e probabilmente più efficace alla strategia post-sovietica del Cremlino sarebbe la firma del Ttip, la partnership commerciale in discussione tra Stati Uniti e Ue che creerebbe un’area economica integrata atlantica senza precedenti. Anche per fare capire dove stanno i muscoli. Il problema è che le trattative stanno perdendo vapore, soprattutto a causa dei freni tirati dai democratici del Congresso a Washington. Potremmo però essere a una svolta. L’Italia avrà un ruolo forte nelle trattative, dal momento che terrà la presidenza a rotazione della Ue nel secondo semestre dell’anno. Il vice-ministro allo Sviluppo Carlo Calenda ha dunque proposto ai colleghi europei un cambio di strategia — e ne ha parlato in America. Si tratta di firmare al più presto, in teoria poco dopo le elezioni americane di mid-term a novembre, un pacchetto di accordi che contenga le misure di liberalizzazione e integrazione sulle quali c’è già o c’è quasi il consenso transatlantico. In gergo tecnico, fare unearly harvest, un raccolto anticipato. I temi più difficili da trattare resterebbero sul tavolo per un accordo successivo. Subito si potrebbero chiudere i capitoli sull’energia (importante segnale a Putin), sull’abbattimento delle tariffe, sugli appalti e sugli standard di produzione in sei settori (auto, chimica, farmaceutica, cosmetica, tessili, apparecchiature mediche). Resterebbero da negoziare i trasporti, i servizi finanziari, gli audiovisivi, gli Ogm e altri punti per i quali l’accordo è lontano, probabilmente non raggiungibile nei tempi della presidenza Obama. Il rischio — che forse vale però la pena correre — è che, firmata la parte facile, si perdano le motivazioni per completare quella difficile. Nella Ue numerosi esponenti politici sono favorevoli a questo cambio di strategia, i tecnici sono più scettici. Ma la scelta, a questo punto, è molto politica.

La Stampa 22.5.14
L’appello degli ayatollah agli iraniani: “Fate più figli, non meno di cinque”
il tasso di natalità in Iran è passato da una media di 6,4 figli per ogni donna di trent’anni fa all’attuale 1,6
di Claudio Gallo

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Corriere 22.5.14
«Il saluto nazista? Non sempre è un reato»


LOSANNA — Punire il saluto nazista? Dipende. Per i giudici svizzeri non è un atto illegale di discriminazione razziale se viene inteso come dichiarazione di un’idea personale. La differenza è sottile, quasi impalpabile. Lo ha stabilito il Tribunale federale svizzero di Losanna in un documento intitolato «Il saluto di Hitler in pubblico non è sempre punibile», affermando che il gesto è un crimine solo se, oltre che per dichiarare le proprie convinzioni, viene usato per diffondere ad altri l’ideologia razzista. La decisione dei giudici elvetici capovolge una sentenza dell’anno scorso riguardante un uomo accusato di discriminazione razziale.

Domani ai “Dialoghi sull’uomo” di Pistoia
La Stampa 22.5.14
Federico II, l’incontro di civiltà
Esecrato dal Papa, additato come l’Anticristo, l’imperatore favorì i rapporti tra Cristianesimo e Islam
di Alessandro Barbero


«E vidi salir dal mare una bestia piena di nomi di bestemmia»: così, con una citazione dell’Apocalisse, papa Gregorio IX aprì la bolla in cui denunciava i delitti dell’imperatore Federico II, che i suoi ammiratori chiamavano stupor mundi. A dar retta al Papa, Federico considerava Cristo un impostore, metteva in dubbio la sua nascita da una vergine, e preferiva l’Islam al Cristianesimo. Non c’è da stupirsi se molti fedeli credettero di riconoscere in lui l’Anticristo, che doveva mettere il mondo a ferro e fuoco preannunziando la fine dei tempi. I più convinti erano i seguaci dell’abate Gioacchino da Fiore, il mistico calabrese che aveva profetizzato per il 1260 la rovina dell’Anticristo e l’avvento di un’età nuova. Quando, nel 1250, si sparse la notizia che Federico II era morto - senza aver conquistato il mondo, come avrebbe dovuto fare l’Anticristo - il francescano Salimbene da Parma non voleva crederci, e si disperò: la profezia era sbagliata, l’Anticristo non era lui e bisognava ricominciare ad aspettarlo.
Attraverso il clamore delle testimonianze contrastanti, delle maledizioni apocalittiche e degli elogi cortigiani, par d’intuire che nei suoi ultimi anni Federico II si trasformò davvero in un tiranno malefico, come accade ai despoti abituati male da troppi decenni di potere e inaspriti dai fallimenti. Fece ammazzare tanta gente, e spesso senza buoni motivi: così si offuscò la leggenda dell’imperatore dotto e splendido, che fondava università, promulgava codici di leggi, costruiva meraviglie come Castel del Monte, assisteva a esperimenti scientifici e nei ritagli di tempo scriveva di suo pugno quel De arte venandi cum avibus che non è solo un manuale di falconeria ma un vero trattato di zoologia.
Ma almeno una delle accuse che i Papi scagliavano contro lo stupor mundi suscita piuttosto la nostra ammirazione, e anziché contribuire alla leggenda nera alimenta semmai il mito d’un Federico lontano e superiore rispetto al suo tempo: e sono i rapporti che intrattenne col mondo musulmano. Certo, oggi siamo lontani dagli entusiasmi di Jacob Burckhardt che vedeva in lui il primo uomo moderno; ma certamente Federico fece tutto quello che poteva per contrastare il clima da scontro di civiltà in cui il mondo europeo e mediterraneo era precipitato all’epoca delle crociate.
I musulmani Federico li aveva in casa, giacché prima d’essere imperatore era re di Sicilia. Certo, non erano più i tempi in cui gli scrittori arabi esaltavano la Sicilia come la provincia più ricca del mondo islamico, e neppure quelli di suo nonno Ruggero II, nella cui cancelleria lavoravano fianco a fianco notai latini, greci, ebrei e arabi. All’inizio del suo regno Federico aveva ancora al suo servizio qualche funzionario arabo, però battezzato. Dotti musulmani a Palermo non ce n’erano più; ma c’erano alcuni dotti ebrei, cui l’imperatore commissionò traduzioni dall’arabo. Federico aveva una gran voglia di discutere con i sapienti islamici, e scrisse al sultano del Marocco ponendo una raffica di quesiti filosofici e scientifici, cui sperava che i dotti di laggiù potessero rispondere. Uno di loro, Ibn Sabin, in effetti gli rispose, anche se in tono piuttosto sostenuto, invitandolo a impadronirsi un po’ meglio della terminologia filosofica, e osservando che se aveva tanta sete di verità avrebbe fatto meglio a cominciare convertendosi all’Islam.
Ma se non c’erano più dotti, la Sicilia di Federico II era ancora piena di contadini musulmani, impoveriti e vessati dopo la riconquista cristiana. Molti di loro, riparati nelle zone montagnose e poco accessibili di Monreale e del Val di Noto, erano in stato di ribellione endemica. Federico cercò di reintrodurre le colture in cui erano più esperti, come l’indaco, lo zucchero, l’henné, ma soprattutto pubblicò leggi in loro favore, per impedire che fossero maltrattati dai suoi funzionari. Musulmani ed ebrei dovevano avere la possibilità di rivolgersi alla giustizia come tutti gli altri sudditi, e non bisognava che fossero trattati diversamente dai cristiani né sottoposti a vessazioni.
Ma quando i ribelli delle montagne catturarono il vescovo di Agrigento e lo tennero prigioniero per un anno, Federico perse la pazienza. È forte la tentazione di definire pulizia etnica le ripetute campagne che i soldati del re condussero in Sicilia, al termine delle quali non c’erano più musulmani nell’isola. Un grande storico del mondo mediterraneo come David Abulafia ha proposto, non credo con molta ragione, di vedere nella guerriglia dei saraceni le remote origini della mafia; semmai è più curioso scoprire che Federico, per ripopolare le campagne devastate, organizzò il trasferimento in Sicilia di grossi contingenti di emigranti reclutati in Piemonte, e che da loro discendono gli abitanti di Corleone. Ma il punto cruciale è che i saraceni catturati, se rifiutavano di convertirsi al Cristianesimo, non vennero messi a morte com’era abituale in clima di crociata, ma risistemati in Puglia, la provincia più amata da Federico, dove il re donò loro una città. A Lucera, dove la cattedrale era opportunamente crollata e il vescovo s’era dovuto trasferire altrove, vennero risistemati 15.000 musulmani, e fra di loro l’imperatore reclutò una guardia di fedelissimi.
Per i polemisti di parte papale, quei saraceni che accompagnavano Federico sui campi di battaglia erano la prova che l’imperatore preferiva Maometto a Cristo. Del resto, quando dopo molte insistenze l’imperatore si era deciso a partire per la crociata, non aveva rovinato tutto mettendosi d’accordo col sultano e trasformando Gerusalemme in una città aperta, dove cristiani e musulmani avevano ciascuno i propri spazi? Da entrambe le parti gli integralisti, che non mancano mai, erano inorriditi. Per noi tutto questo è piuttosto la prova che lo stupor mundi, per quanti delitti abbia commesso, era un uomo che sulla convivenza tra fedi diverse aveva saputo andare avanti, e non solo rispetto al suo tempo.

Corriere 22.5.14
Tedeschi a un passo da Parigi
Il piano Schlieffen ebbe un grande successo iniziale
ma fallì per la controffensiva francese sulla Marna
di Paolo Rastelli


«Rafforzate l’ala destra». La leggenda vuole che siano state queste le ultime parole, pronunciate nel 1913 sul letto di morte da Alfred von Schlieffen, il generale tedesco a capo dello stato maggiore dell’esercito imperiale dal 1891 al 1905, ideatore del piano di guerra che porta tuttora il suo nome e che avrebbe dovuto porre fine alla guerra entro il Natale del 1914. Consisteva nel concentrare i due terzi dell’esercito tedesco in un’ala destra marciante che, violando la neutralità belga e olandese, sarebbe entrata in Francia da nord-est, avrebbe investito Parigi e infine, piegando verso sud-est e prendendo sul rovescio il confine franco-tedesco, avrebbe sorpreso alle spalle le forze francesi, schiacciandole contro il centro e la sinistra dello schieramento germanico. Insomma, una specie di «porta girevole», come ebbe a descriverla lo storico militare inglese Basil Liddell Hart.
Da quell’agosto 1914, dal momento in cui i primi fanti con l’elmo chiodato misero piede in territorio belga (la cui violazione portò tra l’altro all’entrata in guerra della Gran Bretagna), sul piano Schlieffen si sono versati fiumi di inchiostro. Secondo alcuni era un progetto geniale, che portò la Germania a un passo dalla vittoria e che fallì nello scopo solo perché eseguito maldestramente da Helmuth Johan Ludwig von Moltke (detto «il giovane» per distinguerlo da suo zio, il vincitore di Sedan contro la Francia nel 1870), capo di stato maggiore nel 1914. Secondo altri era viziato fin dalla sua concezione da difetti gravi, che lo rendevano irrealizzabile, per esempio la scarsa considerazione data alla logistica e alle capacità di trasporto, movimento e approvvigionamento dell’epoca. Secondo altri ancora, infine, non era nemmeno un piano, ma un suo abbozzo, un’ipotesi di scuola tutta da verificare nella pratica.
Comunque fu il piano con cui la Germania entrò in guerra e quindi va esaminato con cura, se non altro perché, come scrisse Barbara Tuchman nel libro I cannoni d’agosto , il vero dramma fu che non funzionò, dando origine alla guerra di trincea sul fronte occidentale, l’incubo da cui l’Europa uscì devastata. Il piano Schlieffen ha le sue radici nella geografia: la Germania è esattamente al centro dell’Europa e, se si trova circondata da forze ostili, è subito in grave svantaggio. Dal punto di vista della tattica (la disposizione, il movimento e l’impiego delle forze sul campo di battaglia), la posizione centrale è di solito un vantaggio: consente di manovrare per linee interne e quindi di muoversi più velocemente di avversari, magari più forti, ma tra loro lontani, ottenendo una concentrazione di forze quando e dove serve (Napoleone ne era un maestro). Il vantaggio della posizione centrale si tramuta però nel suo contrario quando si passa dalla tattica alla strategia, ossia allo sviluppo di un piano bellico su grande scala destinato a decidere le sorti di un intero conflitto. In quel caso prende corpo l’incubo della guerra su due fronti, l’essere circondati su confini che vanno necessariamente difesi con forze insufficienti.
Dall’incubo si esce in due modi. O si tiene uno dei due fronti in pace con un trattato: la strada scelta da Hitler nel 1939 con il patto di non aggressione tedesco-sovietico, che lasciò ai nazisti mano libera in Polonia e Francia. Oppure si tenta di portare su scala strategica la tattica napoleonica, battendo prima un avversario e poi l’altro. Questo si proponeva di fare il piano Schlieffen. La Germania era minacciata a ovest dalla Francia e ad est dalla Russia, che erano alleate: ma la seconda, date le immense distanze dell’impero zarista, avrebbe impiegato settimane per portare forze sufficienti a contatto con il confine orientale tedesco, per la cui protezione iniziale sarebbe così bastato un velo di truppe. Quindi l’obiettivo era sconfiggere la Francia in sei settimane con una manovra avvolgente e poi volgersi a est per battere i russi con le spalle ormai sicure. I tedeschi tra l’altro erano facilitati dal fatto che il piano di guerra francese, il XVII, prevedeva un attacco a testa bassa contro l’Alsazia e la Lorena, al centro del confine franco-tedesco: per restare alla metafora della porta girevole, la spinta francese era diretta proprio sul perno della porta, il che rendeva ancora più violenta e distruttiva la manovra avvolgente dell’ala destra germanica.
All’inizio tutto andò secondo i piani: 11 mila treni portarono al fronte in circa 10 giorni almeno 2 milioni di uomini e l’attacco al Belgio (che aveva deciso di resistere) iniziò già il 4 agosto. Ma subito cominciarono gli intoppi: le fortezze del Belgio, in particolare Liegi, si dimostrarono un osso più duro del previsto e consumarono ore preziose di una tabella di marcia già molto risicata, dato che l’armata tedesca più a destra, la I di von Kluck, aveva davanti una marcia di oltre 400 chilometri e che la velocità media di un esercito in marcia, anche in assenza di scontri, era di 20 chilometri al giorno. Poi Moltke decise di rinforzare il centro e l’ala sinistra, che avrebbero dovuto ricevere l’attacco francese, pensando (secondo molti storici non senza ragione) che altrimenti il fronte sarebbe stato sfondato. Poi il piccolo contingente inglese (la Bef, British Expeditionary Force) e i francesi della V Armata, che fronteggiavano l’ala destra tedesca, continuarono a ritirarsi, ma senza perdere coesione e senza accettare uno scontro che li avrebbe distrutti. Le armate germaniche di destra, nel prosieguo della campagna, invece cominciarono a perdere contatto tra loro e per mantenerlo piegarono troppo a est ed esposero il loro fianco a un contrattacco che partì dalla piazza fortificata di Parigi.
Infine i russi, di fronte alle disperate richieste francesi, attaccarono in anticipo: la pagarono cara, con la loro intera II Armata distrutta dai tedeschi nella battaglia di Tannenberg (Prussia orientale, 17 agosto-2 settembre), ma costrinsero Moltke a trasferire a est due corpi d’armata, la cui mancanza si fece sentire sulla Marna. Il «miracolo della Marna», il fiume a est di Parigi che diede il nome alla vittoriosa controffensiva francese (5-10 settembre), fermò la spinta tedesca. Poi venne la «corsa al mare», con i due contendenti che cercarono ciascuno di aggirare, senza riuscirci, il fianco scoperto dell’avversario. A fine anno una linea di trincee contrapposte si stendeva dalla Svizzera al Mare del Nord. Gli scontri dell’estate («battaglia delle frontiere») e dell’autunno avevano lasciato sul campo 800 mila tedeschi (tra morti e feriti), oltre un milione di francesi (di cui 329 mila morti), la quasi totalità delle forze originali della Bef (quasi 90 mila uomini). E il peggio doveva ancora venire.

l’Unità 22.5.14
Che cos’è la fragilità?
Ce lo spiega in un saggio Eugenio Borgna
Anticipiamo le prime pagine del volume scritto dallo psichiatra e docente, che riflette sui diversi aspetti della condizione umana, di giovani e anziani
di Eugenio Borgna


QUALE È IL SENSO DI UN DISCORSO SULLA FRAGILITÀ? QUELLO DI RIFLETTERE SUGLI ASPETTI LUMINOSI e oscuri di una condizione umana che ha molti volti e, in particolare, il volto della malattia fisica e psichica, della condizione adolescenziale con le sue vertiginose ascese nei cieli stellati della gioia e della speranza, e con le sue discese negli abissi dell’insicurezza e della disperazione, ma anche il volto della condizione anziana lacerata dalla solitudine e dalla noncuranza, dallo straniamento e dall’angoscia della morte. La fragilità, negli slogan mondani dominanti, è l’immagine della debolezza inutile e antiquata, immatura e malata, inconsistente e destituita di senso; e invece nella fragilità si nascondono valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza estenuata e di dignità, di intuizione dell’indicibile e dell’invisibile che sono nella vita, e che consentono di immedesimarci con più facilità e con più passione negli stati d’animo e nelle emozioni, nei modi di essere esistenziali, degli altri da noi.
Una parentesi semantica.
Grande e radicale è oggi la dilatazione dei significati di fragilità: abitualmente considerata dai dizionari come indice di scarsa consistenza, di scarsa durata, di gracilità e di debolezza, di transitorietà e di caducità, di trepidità morale e di debilità; identificando la fragilità in quella che è la sua linea d’ombra, la sua precarietà e la sua instabilità. Ma le cose sono cambiate nel contesto semantico della parola: accanto ai significati ora indicati, uno splendido dizionario (il Dizionario analogico della lingua italiana edito nel 2011 da Zanichelli) assegna alla fragilità i significati di vulnerabilità, di sensibilità e di ipersensibilità, di delicatezza, e di indifesa e inerme umanità, e del loro possibile incrinarsi nel corso della vita. Ma sono dilatazioni, o integrazioni, semantiche che nei dizionari comuni, anche in quelli aggiornati, non si trovano; e questo, ovviamente, non contribuisce alla immediata comprensione degli orizzonti di senso dialettico della fragilità: struttura portante, Leitmotiv, dell’esistenza, dei suoi dilemmi e delle sue attese, delle sue speranze e delle sue ferite; e queste cose vorrei ora descrivere e analizzare. Muovendo, cosí, da una comune parabola semantica che riunisce in sé, sia pure con diverse risonanze emozionali, fragilità, vulnerabilità e sensibilità: aree tematiche che sconfinano l’una nell’altra.
La fragilità fa parte della vita.
La fragilità fa parte della vita, ne è una delle strutture portanti, una delle radici ontologiche, e delle forme di umana fragilità non può non occuparsi la psichiatria: immersa nelle sue proprie fragilità e nelle fragilità dei suoi pazienti, divorata dal rischio e dalla tentazione di non considerare la fragilità come umana esperienza dotata di senso ma come espressione piú, o meno, dissonante di malattia, di una malattia che non può essere se non curata. Come definire la fragilità nella sua radice fenomenologica? Fragile è una cosa (una situazione) che facilmente si rompe, e fragile è un equilibrio psichico (un equilibrio emozionale) che facilmente si frantuma, ma fragile è anche una cosa che non può essere se non fragile: questo essendo il suo destino. La linea della fragilità è una linea oscillante e zigzagante che lambisce e unisce aree tematiche diverse: talora, almeno apparentemente, le une lontane dalle altre. Sono fragili, e si rompono facilmente, non solo quelle che sono le nostre emozioni e le nostre ragioni di vita, le nostre speranze e le nostre inquietudini, le nostre tristezze e i nostri slanci del cuore; ma sono fragili, e si dissolvono facilmente, anche le nostre parole: le parole con cui vorremmo aiutare chi sta male e le parole che desidereremmo dagli altri quando siamo noi a stare male.
Sono fragili, sono vulnerabili, esperienze di vita alle quali talora nemmeno pensiamo, come sono le esperienze della timidezza e della gioia, del sorriso e delle lacrime, del silenzio e della speranza, della vita mistica; ma ci sono umane situazioni di vita che ci rendono fragili, o ancora piú fragili, dilatando in noi il male di vivere, e sono le malattie del corpo e quelle dell’anima, ma anche la condizione anziana quando sconfini, in particolare, negli abissi della malattia estrema: la malattia di Alzheimer. Sono situazioni di grande fragilità interiore che la vita, la noncuranza e l’indifferenza, e anche solo la distrazione e la leggerezza altrui, accrescono e straziano.
Come non riconoscere (così) nell’area semantica e simbolica, espressiva ed esistenziale, della fragilità gli elementi costitutivi della condizione umana? Cosa sarebbe la condition humaine stralciata dalla fragilità e dalla sensibilità, dalla debolezza e dalla instabilità, dalla vulnerabilità e dalla finitudine, e insieme dalla nostalgia e dall’ansia di un infinito anelato e mai raggiunto? Ma come non ammettere che ci siano, anche, forme diverse di fragilità, talora concordanti le une con le altre, e talora discordanti le une dalle altre, ma le une e le altre sigillate da comuni connotazioni umane? Come non distinguere, in particolare, la fragilità come grazia, come linea luminosa della vita, che si costituisce come il nocciolo tematico di esperienze fondamentali di ogni età della vita, dalla fragilità come ombra, come notte oscura dell’anima, che incrina le relazioni umane e le rende intermittenti e precarie, incapaci di tenuta emozionale e di fedeltà: esperienza umana, anche questa, che resiste limpida e stellare al passare del tempo, e alla corrosione che il tempo rischia sempre di trascinare con sé?
Ovviamente, non di questa seconda possibile connotazione semantica della fragilità vorrei in particolare parlare ma della prima, che racchiude in sé infiniti orizzonti di senso: non sempre conosciuti, e non sempre valutati nella loro significazione umana ed etica.

Repubblica 22.5.14
Bergson-James affinità elettive tra due eretici
“Henri, mi ricordi Madame Bovary...”
Dall’amicizia al no alla guerra il carteggio tra il filosofo francese del “flusso di coscienza” e lo psicologo americano
Il libro: “Durata reale e flusso di coscienza” di Henri Bergson e William James, Raffaello Cortina



WILLIAM James a Henri Bergson, 13 giugno 1907
Omio caro Bergson, voi siete un mago, e il vostro libro ( L’evoluzione creatrice , pubblicato in quello stesso anno, ndr) è un prodigio, una vera meraviglia nella storia della filosofia, che segnerà un’era completamente nuova. Voi potreste forse ridere del paragone, ma al termine della lettura ho provato lo stesso retrogusto di quando avevo appena finito Madame Bovary, un analogo aroma di persistente eufonia... Ecco! Vi ho lodato a sufficienza? Ciò che ogni vero filosofo (ogni vero uomo, in effetti) desidera maggiormente sono gli elogi -anche se i filosofi generalmente li chiamano “riscontri”! Riguardo al contenuto... secondo me l’acquisizione fondamentale del libro è che infligge un colpo mortale all’intellettualismo. Voi dovreste ricevere il mio volumetto sul Pragmatismo. Quanto sembra puerile e irrilevante rispetto al vostro splendido sistema! Ma è così congruente con parti di quel sistema, si adatta così bene ai suoi interstizi, che voi capirete facilmente perché io sia tanto entusiasta. Sento che in fondo stiamo combattendo la stessa battaglia, voi in qualità di comandante, io come soldato semplice. Le mie migliori congratulazioni e i più cordiali saluti! Wm James
Henri Bergson a William James, 27 gennaio 1908
Grazie, caro professor James, per questo studio bello e profondo (forse Hegel e il suo metodo, ndr ) che certamente contribuirà molto a far comprendere meglio la vostra filosofia... La vostra posizione di fronte al realismo diviene molto più chiara. Il contrasto tra il pragmatismo e il positivismo (sistema intellettualista, nel senso sbagliato del termine, e in cui io vedo solo una forma mascherata della vecchia metafisica statica) viene affermato decisamente. Infine, si percepisce chiaramente nel pragmatismo una concezione nuova della relazione dell’astratto con il concreto, e dell’universale con l’individuale. Da parte mia, non ho mai sentito meglio l’affinità che esiste tra i nostri due metodi di pensiero. Abbiamo in ogni caso gli stessi avversari e, come voi mi avete scritto bene qualche mese fa, we are fighting the same fight .
Credete, vi prego, caro Collega, ai miei sentimenti di viva e affettuosa ammirazione H. Bergson William James a Henri Bergson, 28 luglio 1908 Caro Bergson (potremmo smettere di usare tra noi il titolo di “professore”? -quel titolo stabilisce una “relazione disgiuntiva” tra uomo e uomo, e la nostra relazione dovrebbe essere socialmente e intellettualmente “endosmotica”, io credo)... Nel frattempo, lasciatemi dire quale rara felicità mi ha dato la vostra lettera. Ci sono molti aspetti della vostra filosofia che ancora non riesco ad afferrare, tuttavia mi sembra di aver compreso molto chiaramente la vostra campagna anti-intellettualistica, e mi rende veramente orgoglioso sapere che, anche secondo voi, io l’abbia compresa realmente così bene. Non mi dilungo oltre... e mi firmo, il vostro molto calorosamente e sinceramente, Wm James Henri Bergson a William James, 31 marzo 1910 Mio caro James... non vi ho ancora detto quale piacere ho avuto nel leggere i vostri due articoli: The moral equivalent of war e A suggestion about mysticism . Il primo costituisce certamente quanto è stato detto di più buono e di più persuasivo a proposito della non necessità della guerra, e delle condizioni grazie alle quali la si potrebbe far scomparire, senza che l’energia umana ne sia diminuita. Quanto al vostro articolo sul misticismo, sarà, ne sono certo, il punto di partenza di molte osservazioni e di nuove ricerche. Quanto spero che voi proseguiate questo studio sul “valore noetico degli stati anormali del pensiero”!
A presto, spero. Credete, vi prego, mio caro James, ai miei sentimenti molto affettuosamente devoti H. Bergson

Repubblica 22.5.14
La scommessa più audace
Rivoluzionare la metafisica
di Massimo Recalcati


Lo scambio epistolare tra Henri Bergson e William James, di cui qui pubblichiamo un estratto, viene proposto per la prima volta al lettore italiano dall’editore Raffaello Cortina con la cura di Rocco Ronchi e la traduzione di Giacomo Foglietta e Paolo Taroni. Insieme alle lettere che raccontano di una amicizia e di una vicinanza speciale tra i due filosofi, il volume contiene altri scritti di grande interesse che confermano la solidarietà teoretica tra i due autori e il loro reciproco interesse. Nella sua lucida e intensissima introduzione Rocco Ronchi ribadisce che i sentieri della filosofia non si sovrappongono a quelli delle pura storiografia. Nel caso specifico il modo più interessante di leggere questo libro non è quello che ci porterebbe a comparare il filosofo del “flusso della coscienza” a quello della “durata creatrice”, lo spiritualismo del giovane pensatore francese al pragmatismo del più anziano pensatore americano, l’impianto cosmologico-ontologico del primo a quello più psicologico-umanistico del secondo. La posta in gioco che Ronchi ci suggerisce è assai più alta. Essa consiste nella proposta di un’altra versione della metafisica rispetto a quella che da Platone a Heidegger si è venuta consolidando in Occidente. Mentre in questa tradizione il piano aleatorio dell’esperienza deve essere oltrepassato verso quello immutabile della verità, in James e in Bergson si tratterebbe di mettere in atto un’altra versione della metafisica nella quale la verità, l’esperienza assoluta della verità, non si contrappone all’esperienza ma si manifesta integralmente in essa. È il mantra che unisce i due pensatori: «L’esperienza nel suo insieme è autosussistente e non poggia su nulla». È questo il valore del loro anti-intellettualismo: come fondare una metafisica nuova, un pensiero dell’assoluto che non abbandoni il mondo dell’esperienza ma che trovi nel mondo dell’esperienza la sua più pura manifestazione? «Eretici del pensiero» -come li definisce Ronchi -James e Bergson aprono a questa possibilità inedita: nel flusso della coscienza e nella durata creatrice le differenze tra finito e infinito, tra soggetto e oggetto sono superate verso un immanentismo assoluto che troverà in Gilles Deleuze lettore a sua volta eretico di Spinoza il suo massimo interprete.

Repubblica 22.5.14
Il congresso a Milano
La Società Psicoanalitica Italiana riunita nel segno di Freud


“All’origine dell’esperienza psichica divenire soggetti” è il tema del diciassettesimo congresso della Società Psicoanalitica Italiana, in programma all’Università degli studi di Milano da oggi a domenica 25 maggio. Stefano Bolognini, neo eletto presidente dell’IPA (International Psychoanalytical Association), il primo italiano a rivestire la carica di guida di tutti i freudiani nel mondo, tratterà dei cambiamenti che investono oggi la psicoanalisi nel mondo globalizzato. Tra gli altri, saranno presenti Tiziana Bastianini, segretario scientifico della SPI, Antonino Ferro, presidente della SPI, con la sua lectio magistralis Da Freud a Francis Bacon, il vicepresidente Cono Aldo Barnà e Anna Ferruta, segretario dell’Istituto Nazionale del Training della SPI. La Società italiana propone un ritorno alle origini della disciplina con l’osservazione della relazione madre bambino e mondo esterno, attraverso lo studio della psiche nei suoi mutamenti soprattutto a livello inconscio e in considerazione degli studi neuroscientifici più all’avanguardia.
Non è un caso che proprio a un neuroscienziato verrà consegnato oggi, alle 17, nell’aula magna dell’Università Statale di Milano, il Premio Musatti: Vittorio Gallese, docente di neurofisiologia alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Parma.

Repubblica 22.5.14
Le Scritture tra web ed economia
Al via il Festival biblico


VICENZA. Sarà le lectio magistralis del cardinal Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della cultura, a inaugurare questa sera alle 21 nella cattedrale di Vicenza la nuova edizione del Festival biblico. La manifestazione, giunta al suo decimo anno di attività, punta a far «uscire le Sacre Scritture dai più consueti spazi adibiti al sacro» e si propone di promuovere l’incontro di tutte le culture, dall’induismo all’ebraismo, dall’islamismo all’ortodossia, con un ricco programma che fino al 2 giugno coinvolgerà anche le città di Verona, Padova e Rovigo. Il tema di questa edizione del decennale del Festival, promosso dalla Diocesi di Vicenza e dalla Società San Paolo, è “Le Scritture, Dio e l’uomo si raccontano” e sarà approfondito in tutte le sue forme con una serie di convegni e appuntamenti che spaziano tra le discipline artistiche e tra i vari linguaggi della comunicazione, dall’incontro “Il web e il Gesù storico” alle conferenze “Se la Bibbia ispirasse l’economia” e “Dalla Bibbia al cyberspazio”. Tra i tantissimi ospiti presenti al Festival Nicola Piovani (che presenterà la sua suite Epta), Edgar Morin, Eraldo Affinati, Roberto Vecchioni, biblisti, giornalisti, artisti.
Il programma completo è consultabile al sito www. festivalbiblico.it.

La Stampa 22.5.14
Al via con Ravasi il Festival biblico

Con una lectio magistralis del card. Gianfranco Ravasi su «Le Scritture. Dio e l’uomo si raccontano», si apre oggi nel Duomo di Vicenza il X Festival biblico, in programma fino al 2 giugno tra Vicenza, Verona, Padova e Rovigo: lezioni, musica, canti, balli e gastronomia all’insegna dell’incontro di tutte le culture, dal cattolicesimo all’ebraismo, dall’ortodossia all’islamismo all’induismo.
Programma completo su www.festivalbiblico.it