domenica 25 maggio 2014

l’Unità 25.5.14
I giornalisti de l’Unità continuano a non firmare gli articoli e annunciano uno sciopero per martedì prossimo. Le due forme di lotta sono state presentate ieri durante una conferenza stampa alla presenza del presidente Fnsi Giovanni Rossi e il segretario di Stampa romana Paolo Butturini. La redazione continua a chiedere risposte e garanzie sul futuro del giornale, dopo che ha preso sempre più corpo l’ipotesi di una possibile liquidazione della società editrice. Per tutta la giornata di ieri l’hashtag #iostoconlunità è stato il primo trendtopic su twitter.

l’Unità 25.5.14
Tutti con l’Unità, ma il futuro è incerto
Impazza su Twitter l’hashtag #iostoconlunità. Tanti messaggi di solidarietà

Nella sede Fnsi l’allarme dei giornalisti: «Una battaglia per l’informazione»

«Quella dell’Unità dovrebbe diventare una vertenza nazionale», una battaglia «per il pluralismo, per salvare l’informazione democratica in questo paese». Così Paolo Butturini, segretario dell’Associazione Stampa Romana, intervenuto ieri alla conferenza stampa «L’Unità non si spegne» organizzata dai giornalisti e dai lavoratori nella sede della Federazione nazionale della Stampa. Un segnale pubblico perché si «scoprano le carte» e si abbia una risposta chiara sul futuro del quotidiano. Perché, se «a febbraio abbiamo festeggiato i nostri 90 anni, non vogliamo che il compleanno si trasformi in un funerale», ha detto Bianca Di Giovanni del comitato di redazione. Non sono mancate le testimonianze di solidarietà e l’hashtag #iostoconlunità è impazzato sul web, diventando il primo Trend Topic di Twitter in tutta la giornata di ieri.
Da dieci giorni ormai prosegue lo sciopero delle firme che continuerà fino al 5 giugno, martedì 27 si terrà la quarta giornata di sciopero e un altro giorno di protesta è previsto entro il mese. Il 5 giugno è una deadline, perché è stata convocata l’assemblea dei soci finora andata a vuoto e nella quale, come annunciato dall’editore Matteo Fago, è possibile una liquidazione della società editrice, la Nie, «con vaghi riferimenti all’incerto proseguimento delle pubblicazioni con una nuova società», spiega il cdr. A fine maggio inoltre finisce il nostro contratto di solidarietà (pagato dai lavoratori) «e noi ci ritroveremo in mare aperto, l’azienda avrà mano libera».
Il timore è «che da una liquidazione concordata con i lavoratori si passi a qualcosa di ingestibile». Come una chiusura o licenziamenti collettivi. Del resto ne abbiamo viste abbastanza, raccontano Simone Collini e Umberto De Giovannangeli, del cdr: «L’azienda non è riuscita a mettere in atto nulla tranne i tagli. I collaboratori non vengono pagati da circa un anno, le cronache locali di Firenze e Bologna non escono più», giornalisti e poligrafici senza stipendio da marzo fanno uscire il giornale «per senso di responsabilità». Quella «dismissione sotterranea» del giornale iniziata anni fa, una sottrazione silenziosa di strumenti, come la distribuzione sospesa in Sardegna, in Sicilia e in Calabria.
Giovanni Rossi, presidente della Fnsi che ci ha ospitati, avverte: «L’azienda si assuma le sue responsabilità senza ulteriori rinvii», rispettando gli impegni verso dipendenti e collaboratori e presentando «un progetto per il giornale». E se sarà creata una nuova società, prosegue, «tutto deve avvenire senza passaggi traumatici nella gestione del personale, con iniziative unilaterali» altrimenti si andrà allo scontro.
Butturini è diretto: «C’è poi una responsabilità del Partito democratico», «Bisogna avere il coraggio di dire se questa storia la vogliamo salvare o no. Io ancora non l’ho sentito, voglio una posizione ufficiale». Nella sala della Fnsi a corso Vittorio ci sono Stefano Fassina e Filippo Sensi, giornalista e portavoce del premier Renzi, che assicura un impegno reale e non solo solidarietà formale. Secondo Fassina, sempre vicino al nostro giornale, è «fondamentale il rilancio dell’Unità» anche come «lievito per una comunità democratica, critica e libera in un panorama mediatico che ne ha la necessità».
Da giorni riceviamo messaggi di solidarietà. Ieri da Gianni Cuperlo, («sono a Milano ma è come se fossi lì, sto seguendo la vicenda personalmente»), da Cesare Damiano («Leggo l’Unità dal 1970: non ho mai saltato un giorno perché trovo ancora notizie su temi sociali e del lavoro che tutti gli altri giornali trascurano»). Da Susanna Camusso con la Cgil nazionale a Maurizio Landini della Fiom che solidarizza in un tweet; e ancora dalla rivista «Confronti» il direttore Gillio («un giornale che ha saputo dare voce alle minoranze»), da Sergio Chiamarono e Antonio Bassolino, da Articolo21 (che ci ospita sul sito), dalla Consulta dei Cdr di Roma e Lazio, Psichiatrica democratica, il Forum del Terzo Settore e il Giornale radio sociale. E prima ancora dal Pd il vicesegretario Guerini, il tesoriere Bonifazi, Pollastrini e Vita.
Attorno all’Unità ci sono interesse e affezione, come hanno dimostrato le vendite straordinarie degli inserti per i 90 anni. E ora usciranno due iniziative editoriali a trent’anni dalla scomparsa di Enrico Berlinguer: il 3 giugno il bellissimo supplemento di 96 pagine con le foto del nostro Archivio storico, interventi di ex direttori, da Reichlin a D’Alema e Veltroni, un ricordo di Claudio Martelli sul difficile rapporto con Craxi. In copertina il sorriso del leader del Pci, al posto del quale, afferma Luca Landò, attuale direttore, «oggi c’è l’insulto e dilaga l’antipolitica. Se ci fosse stato oggi Berlinguer l’antipolitica avrebbe avuto tempi duri». L’11 giugno, inoltre, con l’Unità uscirà il libro In auto con Berlinguer, una lunga intervista al suo autista, Alberto Menichelli, con una prefazione della figlia Bianca Berlinguer.

il Fatto 25.5.14
Editoria sinistra. “Io sto con l’Unità”
La solidarietà del Pd per ora è su Twitter
Il 3 giugno supplemento dedicato all’ex segretario del PCI
Allarme per gli stipendi
di Sa. Can.


La vertenza dell’Unità conquista per un giorno la prima pagina di Twitter. Ma, per i giornalisti del quotidiano, il fatto importante è che la notizia che #iostoconlunità, sia il primo hastag del social network, la dia Filippo Sensi, il portavoce di Matteo Renzi, presente ieri mattina alla conferenza stampa presso la Fnsi, il sindacato dei giornalisti. La presenza di Sensi, che prima di essere portavoce è stato giornalista dell’altro quotidiano di area Pd, Europa, è stata colta molto positivamente dai giornalisti che da tempo chiedono di sapere quali siano i progetti dell’azienda ma dovranno aspettare, il 5 giugno, la convocazione dell’assemblea dei soci. Nel frattempo, il 31 maggio, scadranno i contratti di solidarietà e nessuno sa ancora dire se anche gli stipendi di maggio, dopo il digiuno imposto ad aprile, saranno pagati. Sull’onda di Twitter sono così arrivate le prese di posizione di buona parte del Pd, come il capogruppo alla Camera, Roberto Speranza, il ministro Maurizio Martina, Francesco Nicodemo, responsabile nazionale della Comunicazione, il candidato alla Regione Piemonte, Sergio Chiamparino, Stefano Fassina, presenta anche alla conferenza stampa. Solidarietà anche dalla Cgil che sottolinea il ruolo del giornale sulle notizie del lavoro ma anche da categorie come i     Pensionati, la Funzione pubblica e la Fiom. Solidarietà anche dalla Fnsi e da Stampa romana il cui segretario, Paolo Butturini, propone una “manifestazione nazionale”. I giornalisti, intanto, puntano sui contenuti presentando il supplemento di 96 pagine previsto per il prossimo 3 giugno che sarà dedicato a Berlinguer nel trentennale della morte. “Se ci fosse stato oggi uno come lui l’antipolitica avrebbe avuto tempi duri” ha spiegato il direttore, Luca Landò. Nel supplemento ci saranno gli interventi, fra gli altri, di Alfredo Reichlin, Massimo D’Alema, Walter Veltroni, Claudio Martelli. Ma l’iniziativa punta soprattutto a evidenziare l’esistenza di una “comunità di lettori ed elettori” di circa centomila persone. “Sul mercato ci siamo già, dice Umberto Di Giovannangeli, del cdr, una proprietà capace saprebbe investirci”.

Corriere 25.5.14
Crisi all’Unità, quarto sciopero in un mese

ROMA — Un nuovo sciopero il 27 maggio (il quarto in un mese) e niente firme fino al 5 giugno, quando si riunirà la nuova assemblea dei soci. Prosegue la protesta dei giornalisti de L’Unità per il rischio di una possibile liquidazione della società editrice, la Nie. Ieri il cdr del quotidiano ha organizzato una conferenza stampa nella sede della Fnsi nel corso della quale è anche stato annunciato un nuovo evento entro fine mese «perché con maggio finisce il nostro contratto di solidarietà attuale e noi ci ritroveremo in mare aperto: l’azienda avrà mano libera». Intanto da due mesi dipendenti e collaboratori, che chiedono «un piano di rilancio all’azienda», non prendono un euro. «A febbraio abbiamo festeggiato i nostri 90 anni, non vogliamo che il compleanno si trasformi in un funerale», ha sottolineato Bianca di Giovanni, membro del cdr. E Giovanni Rossi, presidente della Fnsi, ha chiesto che «l’azienda si assuma le sue responsabilità senza ulteriori rinvii».

Formiche.net 24.5.14
L’Unità gli scioperi, la lotta e… i buchi neri
di Carlo Patrignani

qui

l’Unità 25.5.14
Cgil: ad aprile mezzo milione in cassa integrazione


Se è vero che l’andamento della cassa integrazione rappresenta uno degli indicatori più sensibili del clima economico, allora dopo la lettura degli ultimi dati messi a disposizione dalla Cgil, relativi ai primi quattro mesi dell’anno, tutto si può dire meno che la tempesta sia passata. Al contrario, la crisi appare ancora nella sua fase più acuta, con oltre 350 milioni di ore di cig registrate nel quadrimestre, con un’esplosione per quella straordinaria, e più di 510 mila lavoratori coinvolti a zero ore; il tutto per una perdita di reddito di 1,3 miliardi di euro, pari a 2.600 euro netti in meno in busta paga.
Questi ed altri numeri emergono dalle elaborazioni delle rilevazioni Inps da parte, appunto, dell’Osservatorio cig della Cgil Nazionale nel suo rapporto di aprile. Un’analisi da cui emerge un andamento abbastanza divergente della cassa integrazione ordinaria rispetto a quella straordinaria. I numeri forniti da Corso d’Italia evidenziano innanzitutto come nei primi quattro mesi dell’anno si sono registrate 351.594.804 ore di cig, con una flessione troppo contenuta, -4,44%, sul drammatico dato relativo allo stesso periodo del 2013. Nel dettaglio emerge che la cassa integrazione ordinaria (cigo) è calata ad aprile su marzo del 17,71%, per un totale pari a 22.531.401 di ore. Da inizio anno la cigo ha invece raggiunto quota 97.227.479 di ore per un -27,08% sul periodo gennaio- aprile del 2013. Di contro, la richiesta di ore per la cassa integrazione straordinaria (cigs), sempre per quanto riguarda lo scorso mese, è stata di 46.947.534 per un +3,20% su marzo mentre il primo quadrimestre dell’anno totalizza 175.160.282 ore autorizzate con una crescita del 18,16% sullo stesso periodo dello scorso anno. Infine la cassa integrazione in deroga (cigd) ha registrato lo scorso mese un deciso calo su quello precedente, pari a -36,33% per 17.360.233 ore richieste. Nei primi quattro mesi dell’anno, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, la flessione della cigd è stata invece dell’8,30%.
Intanto, continua a crescere il numero di aziende che fanno ricorso ai decreti di cigs. Da gennaio ad aprile sono state 2.939 con un +42,67% sullo stesso periodo del 2013, e riguardano 5.389 unità aziendali (+52,06%). Nello specifico si registra un aumento dei ricorsi per crisi aziendale (1.491 decreti da inizio anno per un +24,77% sui primi quattro mesi del 2013) che rappresentano il 50,73% del totale dei decreti. Crescono poi le domande di ristrutturazione aziendale (74 per un +1,37%) e quelle di riorganizzazione aziendale (77 per un +20,31%). La meccanica è ancora il settore dove si è totalizzato il ricorso più alto allo strumento della cassa integrazione, seguono il settore del commercio e quello dell’edilizia.
Tenendo conto dell’ammontare complessivo della cig, e considerando i lavoratori equivalenti a zero ore, si determina un’assenza completa dall’attività produttiva per 511.039 persone, di cui 250mila in cigs e 115mila in cigd. Ed i dipendenti coinvolti hanno perso nel loro reddito, a partire da inizio anno, oltre un miliardo e trecento milioni di euro al netto delle tasse, pari a 2.600 euro in meno in busta paga per ogni singolo lavoratore in cassa a zero ore. Infine, dal rapporto della Cgil emerge che al primo posto per ore di cassa integrazione autorizzate nei primi quattro mesi dell’anno c’è la Lombardia con 90.575.323 ore che corrispondono a 131.650 lavoratori. Seguono Piemonte (56.734 lavoratori), Emilia Romagna (46.541), Lazio (37.934) e Campania (30.201).

l’Unità 25.5.14
Giannini, all’ultimo tuffo: «Dentro altri 17mila precari»
Reclutamento dei docenti, un tweet del Miur dà il via libera degli «idonei» 2012: è guerra fra poveri


Contrordine, sul reclutamento dei docenti si cambia. Ed è subito «guerra tra poveri». Dopo aver già agitato le acque con l’annuncio di un nuovo concorsone nel 2015, il Miur guidato da Stefania Giannini getta un altro sasso nello stagno: il 23 maggio (con le graduatorie provinciali chiuse il 17maggio) il ministro decreta l’assunzione a tempo indeterminato dal 2014/15 per i cosiddetti «idonei» del concorso 2012 («in subordine ai vincitori»). Ben 17 mila persone, che pur avendo superato il punteggio minimo richiesto erano risultate in sovrannumero rispetto agli 11.500 posti banditi. Una scelta che scatena fortissime reazioni in rete da parte dei precari “storici”, inseriti nella graduatorie a esaurimento (Gae), con tanto di accuse sui tempi dell’operazione, alla vigilia del voto per le europee.
Esultano dunque gli idonei 2012, che da tempo chiedevano di rivedere quanto stabilito dai predecessori di Giannini. Le regole del Concorsone 2012 stese dall’ex ministro Profumo prevedevano infatti l’assunzione solo nella misura dei posti disponibili, e nemmeno l’abilitazione per chi pure avesse un punteggio utile. Una strettoia contro cui si sono scagliati i diretti interessati, con una vera campagna sui social media. Il 20 maggio una loro delegazione incontra il capo di Gabinetto di Giannini, Alessandro Fucecchia, da cui nelle scorse settimane erano arrivate diverse rassicurazioni via twitter agli «idonei», in una dialogo fitto e costante. Ed è proprio lui, poco dopo la mezzanotte di sabato, a postare con un tweet (con il commento «giù la maschera») l’articolo uno del decreto che cambia il sistema di reclutamento in vigore, subito accolto da un’ovazione di cinguettii degli «idonei». Anche su Fb fioccano reazioni. Quelle dei precari Gae (160 mila circa in Italia) sono però di ben altro segno. Si accumulano i «vergogna!» per una scelta che «cambia le regole in corsa». Perché se in teoria ai precari storici viene garantito il50%delle future immissioni in ruolo (il restante andrebbe appunto ai vincitori di futuri concorsi), l’assunzione di queste 17 mila persone riduce il numero di supplenze disponibili per i precari che ora temono di avere ancora minori chances di lavoro. «Oltretutto - notano - la novità arriva dopo l’aggiornamento delle graduatorie appena chiuso, con cui abbiamo dovuto scegliere in che provincia lavorare per i prossimi tre anni». Ci si è legati insomma a una provincia, prima di sapere che magari con le nuove assunzioni degli idonei le supplenza disponibili saranno meno del previsto.
LO SCONTRO SUL «MERITO»
Ci sono poi questioni pratiche. Difficile pensare che possano essere assunti tutti e 17mila, il posto potrebbe arrivare magari per meno della metà di loro; che fine faranno gli altri? Si creerà una nuova graduatoria per loro? Intanto però la guerra tra aspiranti docenti si consuma in rete anche su questioni di princìpio: gli «idonei» lodano il governo perché premia «il merito» e i giovani («l’Italia del #merito stamattina esulta...») , molti denigrano apertamente i precari storici come meno preparati. Questi ultimi ribattono per le rime, ricordando che ad esempio anche la vecchia Siss era equiparata a un percorso concorsuale, con ben due anni di frequenza ed esami finali. Insomma uno scontro in piena regola.
Ed è questo l’aspetto su cui insiste il segretario Flc Cgil Domenico Pantaleo: «Ancora una volta il Miur ha creato una guerra, si risolve il problema di qualcuno ma finendo per penalizzare qualcun altro - nota il segretario Domenico Pantaleo -: sul reclutamento docenti manca un piano complessivo e organico, questa gestione frammentata dei diversi percorsi - Tfa, Pas, concorso, Gae - produce caos». L’altro appunto è sulle 14 mila assunzioni, annunciate da Giannini in Parlamento con un nuovo concorsone nel 2015: «Con questa novità trovo praticamente impossibile che il Miur possa bandirlo - osserva Pantaleo -, ci sono troppi fronti aperti da gestire, compresi i vincitori del concorso 2012 ancora senza assunzione per il ritardo nella pubblicazione delle graduatorie». Secondo il sindacato, per non creare ulteriore confusione occorrerebbe «prevedere un piano di stabilizzazione per i precari Gae; rivedere i meccanismi di reclutamento; coprire i posti vacanti e stabilizzare i concorsi».

Il Sole 25.5.14
Spazio a chi ha superato il concorso Profumo ma eccedeva i posti a bando
Assunti 7mila docenti «idonei»
di Eugenio Bruno



ROMA Spazio a 7mila assunzioni nella scuola tra gli idonei del vecchio "concorsone". La responsabile dell'Istruzione, Stefania Giannini, ha firmato il decreto che prevede l'immissione in ruolo di altrettanti docenti che avevano superato la selezione bandita dall'ex ministro Francesco Profumo ma che erano rimasti esclusi dalla lista dei vincitori perché collocati oltre il numero dei posti a disposizione. Settemila "reduci" dell'ultimo bando che si sommano ai 4mila già entrati in servizio l'anno scorso e ai 7mila che lo faranno a settembre.
Il provvedimento del Miur è molto scarno. Nel suo unico articolo viene stabilito che «i candidati inseriti a pieno titolo nelle graduatorie di merito del concorso ordinario per il reclutamento di personale docente bandito con il decreto del Direttore generale per il personale scolastico 24 settembre 2012, n. 82, ma non collocati in posizione utile tale da risultare vincitori, hanno titolo, a decorrere dall'anno scolastico 2014-2015, ad essere destinatari di contratto individuale di lavoro a tempo indeterminato, in subordine ai vincitori». Fermo restando – prosegue il testo – «il vincolo della procedura autorizzatoria di cui all'art. 39, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, nei limiti del 50 per cento dei posti previsti per il concorso ai sensi dell'articolo 399, comma 1, del decreto legislativo n. 297 del 1994 e fermo restando quanto previsto dell'articolo 400 del suddetto decreto legislativo».
Quest'ultima precisazione non è di poco conto perché comporta due effetti. Il primo è che nelle immissioni in ruolo dell'anno scolastico 2014/2015 si seguirà la regola del fifty fifty tra bandi e graduatorie a esaurimento (dove stazionano ancora circa 170mila precari "storici"). Il secondo è che solo una piccola parte dei 7mila idonei non vincitori accederà alla cattedra già a settembre. Delle 29mila assunzioni già in programma, 15mila saranno sul sostegno, con la seconda tranche di stabilizzazioni previste dal decreto Carrozza del 2013; le altre 14mila saranno divise a metà tra i 7mila vincitori del concorsone che non sono ancora entrati in servizio ed altrettanti precari.
Per gran parte degli idonei è probabile che le porte delle aule si spalanchino solo nel 2015/2016 quando saranno coinvolti 22mila insegnanti. Da un lato, ci sarà la terza e ultima "infornata" sul sostegno con gli ultimi 8mila stabilizzandi del decreto Carrozza. Dall'altro ci saranno circa 14mila posti da turn over. Ed è qui che entrano in gioco i 7mila destinatari del decreto ministeriale citato insieme a un contingente presumibilmente analogo di precari. 
Chi non ce la farà rischierà di restare fuori perché dal 2016/2017 arriveranno anche i 17mila vincitori del nuovo concorso che sarà bandito nella primavera del 2015.

La Stampa 25.5.14
Elezioni, urne aperte con l’incognita su chi colpirà di più l’astensionismo
La crisi ha aumentato la sfiducia e i toni violenti
di Francesco Grignetti

qui

Il Sole 25.5.14
La crisi e la voglia di sperimentare
di Roberto D'Alimonte


Le europee sono elezioni molto particolari. Nel gergo della scienza politica vengono definite di secondo ordine. Questo può dispiacere a chi pensa che l'Unione Europea sia più importante dei singoli stati che la compongono, ma la realtà delle cose è che in tutti i paesi della Ue - senza eccezioni - gli elettori le considerano meno importanti delle elezioni nazionali, soprattutto quelle parlamentari. Di conseguenza, tendono a snobbarle. 
Alle europee relativamente pochi vanno a votare. Nel 2009 in Slovacchia solo il 20 % degli aventi diritto è andato alle urne. In Germania, dove pure la partecipazione al voto è tradizionalmente elevata, solo il 43% degli elettori ha votato contro il 72% delle ultime politiche del 2013. Questa bassa affluenza non può essere considerata automaticamente un sintomo di disaffezione o di opposizione all'Europa. Nella stessa Slovacchia il 78% dei cittadini intervistati nel 2013, nell'ambito delle rilevazioni dell'Eurobarometro, ha dichiarato di essere favorevole all'Euro. La percentuale in Germania è stata il 71%. In questi casi l'astensionismo nel voto europeo è sintomo di indifferenza.
Quelli che vanno a votare lo fanno in maniera più libera. Il fatto che la posta in gioco non sia il governo nazionale porta gli elettori a "sperimentare" nuove destinazioni per il loro voto. Si votano partiti minori, partiti estremisti o anti-sistema. Si lanciano messaggi. E tutto ciò è facilitato dall'uso di sistemi elettorali proporzionali che non costringono a fare alleanze prima del voto o a porsi il problema di non sprecare il voto, salvo il caso di quei partiti che rischiano di non superare la soglia di sbarramento che da noi è il 4 per cento.
Per queste ragioni in tutti i paesi dell'Unione le europee tendono ad essere elezioni difficili per i maggiori partiti, quelli che appartengono alle famiglie politiche tradizionali e soprattutto per quelli che stanno al governo. L'Italia non fa eccezione. Ma c'è un però. Questi effetti non sono automatici. Conta il ciclo economico. In paesi dove le cose vanno bene gli effetti che abbiamo descritto sono minori. E conta anche il ciclo elettorale. Le europee hanno una loro dinamica che si può sintetizzare in questo modo: quando si svolgono a distanza ravvicinata alle politiche tendono a non far male a chi governa. In questo caso vale l'effetto luna di miele. Se invece cadono a metà strada tra due elezioni politiche, gli elettori tendono a utilizzarle per punire chi sta al governo. 
In Italia, a partire dal 1994 è andata grosso modo così, come si può vedere nel grafico in pagina. In due casi – 1994 e 2009 – si sono tenute a distanza ravvicinata rispetto alle politiche. In entrambi questi casi le politiche erano state vinte da Berlusconi e alle successive europee il suo partito è andato bene. Nel 1999 le europee si sono svolte tre anni dopo le politiche vinte da Prodi e il risultato è stato sfavorevole al maggior partito di governo, e cioè i Ds. La stessa cosa si è verificata con Berlusconi nel 2004. Il suo partito aveva preso il 29,4% dei voti alle politiche del 2001 ed è sceso al 20,9% alle europee del 2004. 
Lo scenario attuale, dal punto di vista del ciclo elettorale, è simile a quello del 1994 o meglio ancora del 2009. Come nel 2009 si svolgono a un anno di distanza dalle politiche. Quindi il risultato non dovrebbe essere negativo per il maggior partito di governo. Ma tra il febbraio del 2013 e il maggio del 2014 è successo di tutto. Per la prima volta nella storia della Seconda Repubblica le elezioni non hanno prodotto un vincitore. Il governo è nato da accordi tra partiti. Ci sono state scissioni e cambiamenti di maggioranza. E da ultimo un nuovo governo nato dalla decisione del Pd di sfiduciare Letta. In queste condizioni il ciclo elettorale non funziona come nel passato. La luna di miele non è proprio tale. E in più l'attuale governo è alle prese con un ciclo economico negativo. La crescita non c'è. La disoccupazione è altissima. I redditi delle famiglie calano. La rabbia è ancora il sentimento dominante in una larga fetta della popolazione. Soprattutto nei confronti della classe politica. 
In un recente sondaggio uscito sulle pagine di questo giornale (si veda il Sole 24 Ore del 9 maggio) è stato chiesto agli intervistati di indicare quale fosse secondo loro il fattore maggiormente responsabile per la crisi in cui si dibatte l'Italia. La risposta più gettonata è stata la classe politica. Non l'euro, le banche, la finanza internazionale o il nostro debito pubblico. L'euro in particolare è stato indicato solo dal 7% degli intervistati. Questo dato spiega meglio di molti altri il perdurante appeal di Grillo e del suo movimento. È la classe politica il vero bersaglio, non l'Europa. Tanta gente ha voglia di un cambiamento radicale a casa nostra. In questo clima destra e sinistra non hanno lo stesso peso che avevano in passato. Quello che conta è la rabbia e la voglia di fare piazza pulita. E qui Grillo non ha rivali. Una volta c'era Renzi a contendergli il campo, ma è diventato presidente del consiglio e ora si trova in mezzo al guado. Non è più il rottamatore, ma non ha ancora avuto il tempo di dimostrare di essere il grande riformatore. Posizione molto difficile in questo contesto.
Per tante ragioni queste sono le elezioni di Grillo. Tutto gioca a suo favore: il tipo di consultazione, la congiuntura economica negativa, la debolezza del centro-destra diviso, le vicissitudini di Berlusconi, il clima politico, le ripetute notizie di scandali. È lui che meglio di altri può sfruttare questo contesto favorevole per cogliere un successo addirittura superiore a quello già straordinario delle scorse politiche. Allora il M5s risultò il partito più votato alla Camera con il 25,6% dei voti. Questa è l'asticella da superare. Il «vinciamo noi» con cui Grillo e i suoi hanno fatto la campagna elettorale è lo slogan con cui arrivare a superare la soglia del 30%. Solo così il M5s può essere certo di restare il primo partito. Ma non sarà facile. Il Pd di Renzi non è quello di Bersani. Il 33,2% ottenuto dal Pd di Veltroni alle politiche del 2008 è un obiettivo difficile da raggiungere, ma è probabile che Renzi possa andare oltre il 26,1 % delle europee del 2009 e il 25,4 % delle politiche del 2013. Nelle condizioni attuali sarebbe comunque un ottimo risultato. Ma tutto è ancora in forse. L'unica cosa certa è che queste elezioni rappresentano un'altra tappa di una lunga e faticosa transizione verso un sistema partitico più funzionale e più europeo.

Il Sole 25.5.14
Europa verso una grande coalizione
All'Europarlamento si profila un patto popolari-socialisti come argine agli euroscettici
di Beda Romano


BRUXELLES. L'atteso buon risultato dei partiti più radicali, così come il probabile limitato tasso di affluenza alle urne, fanno pensare che il prossimo Parlamento europeo sarà governato da una grande coalizione di socialisti e popolari. I due principali partiti saranno chiamati a mettere mano a una serie di dossier: dal ruolo internazionale dell'Unione ai nuovi obiettivi climatici, dalla gestione dell'immigrazione a una eventuale nuova integrazione della zona euro.
Dopo la Gran Bretagna, l'Irlanda, l'Olanda, la Repubblica ceca, Malta, la Lettonia e la Slovacchia, altri 21 Paesi si recano alle urne oggi per rinnovare l'assemblea di Strasburgo. Gli ultimi sondaggi lasciano prevedere un testa a testa tra socialisti e popolari, mentre i partiti più radicali rischiano di fare bene in molti Paesi. Il centro-sinistra dovrebbe aumentare il numero dei suoi deputati, mentre il centro-destra dovrebbe registrare una leggera flessione. Nessuno dei due strapperà una maggioranza assoluta.
Simon Hix e Kevin Cunningham, analisti di PollWatch 2014, sostengono che stretti tra gli estremi della scena politica «popolari e socialisti saranno costretti a lavorare insieme se vogliono ottenere qualcosa». Risolta la questione della nomina del presidente della Commissione, che i parlamentari vogliono sia affidata al risultato elettorale, mentre i governi sostengono sia una loro prerogativa, il nuovo Parlamento europeo avrà parecchi dossier da affrontare.
Da metà 2013, la Commissione sta negoziando un difficile trattato di libero scambio con gli Stati Uniti. Il tema è controverso. In alcuni Paesi, molti elettori temono che l'Europa sarà costretta a modificare al ribasso le sue norme sanitarie, ambientali, sociali. Il Parlamento europeo sarà chiamato ad approvare la bozza di accordo, ma anche durante i negoziati farà sentire la sua voce, in un contesto in cui la crisi ucraina ha mostrato la debolezza della politica estera di Bruxelles.
Mentre i 18 Paesi membri della zona euro - presto 19 con l'ingresso della Lituania il 1° gennaio 2015 - dovranno pensare a come rafforzare ulteriormente l'unione monetaria, sul fronte dell'immigrazione l'Unione dovrà decidere se e come modificare - come chiede l'Italia - il principio di Dublino, che impone al Paese di primo sbarco di gestire gli immigrati clandestini. La questione accende gli animi, creando malumori tra Nord e Sud. Tra i 28, prevarrà la collaborazione o la rivalità?
Sempre sul fronte sociale, sul tavolo c'è anche la lotta alla disoccupazione e l'idea di un salario minimo europeo, finora respinto anche perché le politiche occupazionali sono prerogativa degli stati. Un altro tema scottante è quello della protezione dei dati personali su Internet. All'inizio del 2012, la Commissione ha presentato un progetto di riforma. Il nodo è l'uso dei dati da parte di imprese straniere presenti sul territorio europeo e il loro eventuale trasferimento verso Paesi terzi, in particolare gli Usa. 
Sul versante della lotta all'inquinamento, in ballo ci sono i nuovi obiettivi per il 2030 proposti all'inizio dell'anno dall'esecutivo comunitario. Troppo ambiziosi per alcuni, troppo modesti per altri. Bruxelles vorrebbe ridurre le emissioni nocive del 40%, rispetto ai livelli del 1990. Il braccio di ferro è tra ambientalisti e industriali, in un momento in cui la crisi economica sta mettendo l'accento sulla politica energetica europea e sulla capacità dell'Unione di essere autonoma.
Più in generale, anche il Parlamento europeo sarà chiamato a dire la sua nei prossimi mesi e anni nel dibattito sul futuro equilibrio di competenze tra centro e periferia. La Gran Bretagna, insieme ad altri Paesi dell'Unione, vuole rimpatriare prerogative e diritti. Il tema è tecnicamente complesso e politicamente controverso, tanto più che in alcuni stati membri ci sono spinte secessioniste: la Scozia nel Regno Unito, la Catalogna in Spagna, le Fiandre in Belgio.

Il Sole 25.5.14
Europa
Alla ricerca dell'identità perduta
di Adriana Cerretelli


Oggi in Europa si tengono le elezioni più importanti da quando il suo Parlamento viene eletto a suffragio universale. E non è un'esagerazione.
Cinque anni di crisi hanno massacrato l'Europa nella testa dei suoi cittadini. Le hanno sottratto consenso con la distribuzione di sacrifici eccessivi, troppo poca crescita economica, 27 milioni di disoccupati, solidarietà ai minimi. Speranze e sicurezze sul futuro sempre più sottili e incerte.
I limiti dell'Europa, i suoi egoismi nazionali, la frattura Nord-Sud sono innegabili e troppo noti per dilungarcisi sopra. Per questo euroscetticismo, estremismi e nazionalismi di ogni colore hanno gioco facile dovunque. Per questo queste non sono elezioni "normali" ma un plebiscito pro o contro l'Europa, pro o contro l'euro. Volenti o nolenti, saranno un punto di svolta: in quale direzione dipenderà da voto e tasso di astensione lanciato verso nuovi record. 
Non è facile amare l'Europa in questi tempi grami, che tendono a far dimenticare i suoi molti pregi: pace, democrazia, diritti, garanzie e anche relativo benessere, sia pure smagrito per molti cittadini e in molti Paesi. Ma proprio chi è deluso, disincantato e anche arrabbiato deve scomodarsi per dire la sua: è il solo modo per non subirla, questa Europa, ma per cambiarla. 
Anche lo schiaffo può essere salutare, purché l'intenzione sia costruire e non distruggere, riedificare meglio e non spargere sale sulle rovine. E, soprattutto, purché nessuno dimentichi che oggi l'Europa non è un'opzione da prendere o lasciare alla leggera ma una necessità assoluta e, se mai, una rinuncia costosissima. Per convincersene basta un'occhiata in giro, anche limitandosi alla cronaca. 
Con una mano la Russia di Putin firma con Gazprom l'accordo con la Cina per la fornitura trentennale di gas. Con l'altra fa ballare l'Europa al ritmo del ricatto energetico, della destabilizzazione dell'Ucraina ai confini orientali, di Siria, Medio Oriente e Nordafrica alle frontiere meridionali. L'America di Barack Obama, debole e disorientata, flirta a intermittenza con l'isolazionismo: di sicuro pretende un impegno europeo più adulto e attivo (soprattutto in termini di spesa) nell'ambito della Nato, il patto transatlantico di mutua difesa che ora vorrebbe corroborato da un nuovo patto economico-commerciale, il Ttip, per meglio tener testa insieme alla concorrenza di Cina e paesi emergenti. 
L'economia globale costringe infatti al confronto tra colossi regionali. Se già non ci fosse, quindi, oggi l'Europa andrebbe inventata per competere difendendone la cultura, il modello di società e di sviluppo. L'unità di misura degli Stati nazionali, per quanto grandi, è troppo piccola. Solo uniti è possibile farcela. 
Mercato e moneta unica sono i due strumenti minimi indispensabili per sopravvivere alla sfida globale. Sono imperfetti, squilibrati, non ci piacciono così come sono? No, non ci piacciono: devono anche servire a favorire la ripresa dell'economia e del lavoro e non rispondere solo alla legge del più forte ignorando le istanze del resto della famiglia.
Non è l'Europa da buttare. Sono i suoi errori da correggere. L'Italia, che alla vigilia del suo semestre di presidenza, ha manifestato ambizioni alte e la volontà di riplasmarla, avrebbe fatto meglio a prepararsi con una campagna elettorale diversa da quella dei partner: concentrata sui temi europei, non sulle solite risse dentro i soliti steccati nazionali. Ma ora nel nostro Paese, che nell'Unione è passato dal massimo dell'europeismo acritico, fideistico, all'attuale esplosione di un euroscetticismo altrettanto inconsapevole, almeno il voto va preso sul serio. Più che altrove. 
L'Italia non può predicare agli altri più Europa e un'Europa migliore, se è la prima a snobbarla o a sabotarla nell'urna. Magari anche inviando a Strasburgo tanti deputati per caso, spesso assenti e/o incompetenti, dimenticando che l'Europarlamento legifera in casa nostra, visto che quasi tutte le leggi nazionali sono ormai di matrice europea nell'Ue.
Certo, non sarà la sola. Ma per chi vuole risalire la china della perduta credibilità rientrando nel direttorio Ue che plasmerà la nuova Europa, non votare oggi o votare contro a prescindere equivarrà a farsi male da soli.

Repubblica 25.5.14
Incognita astensione il partito del non voto tra i 15 e i 20 milioni
A livelli record la quota di chi è tentato di disertare
D’Alimonte: stavolta faranno la differenza nei risultati
di Giovanna Casadio


ROMA. Dudù, gli insulti, la gaffe di Berlusconi che definisce «campagna pubblicitaria» l’ultimo scorcio di campagna elettorale, non hanno aiutato. Se i toni da rissa dovevano servire a mobilitare, a convincere, a scuotere, a calamitare l’attenzione, secondo le rilevazioni di sondaggisti e analisti non è questo il risultato. La fetta di incerti e astensionisti è in netta avanzata. Il voto-di-chi-non-vota, come ormai viene definito, ha un peso sempre più grande, e parla di indifferenza, rifiuto, euroscetticismo. In Italia il non-voto potrebbe riguardare tra i 15 e i 20 milioni di elettori. Per la prima volta verrebbe stracciata l’abitudine italiana di andare alle urne: c’è sempre stata un’affluenza più alta che negli altri paesi europei.
«Non saremo mai l’Olanda o la Gran Bretagna, nel panorama europeo restiamo forse i più affezionati al voto», spiega il politologo Roberto D’Alimonte. Cita i dati del 2009 che hanno visto crolli veri e propri in Olanda, in Gran Bretagna, il 20% soltanto di affluenza alle urne in Slovacchia. Noi italiani siamo reduci da un 66% di cinque anni fa, ma nel frattempo abbiamo attraverso una deriva di disaffezione. «Ritengo certo che almeno 15 milioni di elettori non vadano alle urne, ma non escludo che si arrivi a 20 milioni di astenuti». È la stima di D’Alimonte. A mitigare la previsione potrebbe però esserci il voto per il rinnovo di 4 mila consigli comunali e di due Regioni, Piemonte e Abruzzo. Saranno un po’ trainer.
La quota di astensionismo farà la differenza nei risultati. «Nella Seconda Repubblica c’è stata una costante — osserva D’Alimonte — e cioè che meno votanti afflosciano i voti del centrodestra». Grillo galvanizza, il Pd può contare sul suo zoccolo duro. Gaetano Quagliariello, coordinatore del Nuovo centrodestra, è convinto che i toni alti abbiano disgustato gli elettori moderati: «Per questo noi abbiamo puntato sulla ragionevolezza e le cose concrete, per evitare la deriva astensionista ». Dalla lista Tsipras al Pd è sui social network che si gioca l’ultima offensiva contro l’astensione. I dem hanno lanciato l’hashtag #unoxuno, e la parola d’ordine è stata portane almeno 5 al voto. In 3 giorni 25 mila tweet con questo hashtag: calcola Francesco Nicodemo. E Lorenzo Guerini, il vice segretario Pd, è sicuro che l’affluenza andrà meglio delle previsioni.
È un voto “last minute”. Non c’è dubbio per i sondaggisti. Avvertono: «C’è chi ancora non sa del voto per le europee e chi pensa si voti anche lunedì». Alla fine si deciderà nel seggio. «Sorprendente che non ci sia stata campagna elettorale dei candidati — osserva Antonio Noto di Ipr Marketing —. Addirittura molti degli spazi elettorali messi a disposizione dai Comuni sono rimasti vuoti, tutto lascia immaginare che non ci sarà una grande performance in fatto di affluenza». Una campagna elettorale tutta giocata in chiave di politica domestica e non europea, su cui ieri è piombato l’attentato di Bruxelles.

Repubblica 25.5.14
Sicilia, l’esercito dei candidati “Molti cercano uno stipendio”
di Antonio Fraschilla



PALERMO. Cugini contro cugini, nipoti contro zii, amici contro amici. In Sicilia le amministrative si stanno trasformando in una grande lotta fratricida, con un esercito di candidati come mai era accaduto prima. Tutti in corsa per uno posto da consigliere comunale: «Più che un’elezione sembra un concorso pubblico», dicono i responsabili dei partiti dell’isola. Da Acireale a Termini Imerese, da Mazzarino a Caltanissetta, tra i 37 Comuni al voto si stanno stracciando tutti i record per numero di aspiranti consiglieri. In campo centinaia di disoccupati, ma anche molti dipendenti pubblici ed esponenti delle forze dell’ordine, che oltre ai permessi retribuiti ambiscono a diventare consiglieri per poter chiedere magari il trasferimento di sede. E tanti, tantissimi candidati sono così alla prima esperienza politica.
Ad Acireale, centro alle porte di Catania con 45 mila elettori, presentate ben venti liste con 600 nomi in lizza: quasi duecento in più rispetto alle ultime amministrative. Un candidato ogni 74 votanti, una corsa senza pari che vede anche due cugini ambire alla poltrona di sindaco: Michele Di Re, lanciato da Forza Italia, e Michele Alì, che guida una lista civica sostenuta dalla sinistra autonoma. Ma perché questa corsa ad uno scranno in consiglio comunale? Voglia di fare politica, certo, per alcuni il miraggio di uno stipendio e per altri dipendenti pubblici la possibilità di poter usufruire di permessi retribuiti: «Un finanziere è venuto a trovarmi nella mia segreteria chiedendo di essere candidato a tutti i costi, anche perché da anni cerca di farsi trasferire ad Acireale e non ci riesce», racconta un politico di lungo corso che nel Catanese raccoglie messe di voti. Ma c’è dell’altro che potrebbe spiegare l’esercito di candidati: «È colpa della frammentazione politica», dice Nicola D’Agostino, deputato regionale dell’Udc. «La verità è che molti pensano attraverso liste civiche di poter fare il colpaccio sfruttando il vento dell’antipolitica», aggiunge il segretario provinciale del Pd, Enzo Napoli.
Anche a Caltanissetta è boom di aspiranti consiglieri, 500 contro i 470 delle scorse amministrative: «È vero — dice l’ex sindaco Idv Salvatore Messana — c’è un proliferare di candidati senza precedenti, per molti forse l’unica motivazione è la speranza di avere un piccolo stipendio». A Termini Imerese c’è un candidato ogni 74 aventi diritto al voto, in tutto 312 in corsa per il consiglio comunale contro i 212 delle ultime amministrative. Anche qui con famiglie divise al loro interno: «Tra i candidati ho mia nipote con i 5 Stelle e mia sorella in una lista civica — dice Roberto Mastrosimone, segretario regionale della Fiom da sempre in campo per le tute blu dell’ex Fiat — a Termini così tanti candidati non si erano mai visti. Penso che ormai per molti essere eletti significa solo avere un posto di lavoro».
Una tornata da record è quel- la che si sta registrando a Motta Sant’Anastasia, piccolo Comune alle falde dell’Etna. Oltre 350 candidati su una popolazione di appena 9 mila votanti: uno ogni 30 elettori. Nelle scorse amministrative a correre per uno scranno in consiglio comunale erano poco meno di trecento. Nessun simbolo di partito, in campo diciassette liste civiche a sostegno di sette candidati a sindaco: «Qui ognuno è convinto di essere più bravo dell’altro, tutti emuli dei grillini ma senza Grillo», dice Mario Brancato, ex consigliere comunale del Pd. Insomma, in Sicilia sembra davvero che per molti non si tratti di elezioni ma di un grande concorso pubblico.

Repubblica 25.5.14
Non amo Renzi ma oggi lo voterò e vi spiego il perché
di Eugenio Scalfari



OGGI si vota per il Parlamento europeo ed anche per due Regioni (Piemonte e Abruzzo) e alcune migliaia di Comuni sparsi in tutta Italia, tra i quali molti capoluoghi e molte città che superano i centomila abitanti.
Di queste elezioni amministrative si è parlato poco, trascurando di valutare i possibili effetti che sicuramente avranno sulle elezioni europee e in particolare sui potenziali elettori del Movimento 5 Stelle. È noto infatti che i seguaci di Grillo finora si sono assai poco manifestati nelle elezioni comunali e regionali che si sono svolte nel 2013, dopo le politiche di febbraio. Questa volta però non solo il numero degli Enti locali da rinnovare è assai maggiore ma c’è l’abbinamento con le europee. Sicché le ipotesi che si possono formulare sono tre: gli elettori decidono di andare alle urne e votare soltanto per le comunali e regionali rifiutando la scheda per le europee; oppure, se sono elettori grillini, estendono il loro voto ai Cinque Stelle qualora fossero candidati in quel Comune e in quella Regione e in tal caso la loro presenza nel governo degli enti locali si estenderebbe molto; oppure ancora privilegiano la scelta locale e conformano ad essa anche il voto europeo penalizzando i Cinque Stelle qualora avessero votato per loro alle politiche di un anno fa.
Gli effetti dell’abbinamento possono dunque essere notevoli. Non si ha notizia di sondaggi in proposito. Personalmente credo sia abbastanza improbabile che l’elettore deciso ad andare alle urne rifiuti una delle schede che gli vengono offerte là dove ci sia l’abbinamento.
RESTANO dunque in campo solo due delle tre ipotesi sopra indicate: le locali favoriranno Grillo o al contrario lo penalizzeranno. Propendo piuttosto per la seconda ipotesi perché il candidato locale è più conosciuto e quindi è quello che tira di più. Lo sapremo domani quando tutte le votazioni europee ed amministrative di oggi saranno state scrutinate.
Ed ora veniamo al tema più generale che è quello del confronto tra le principali forze politiche in Italia e in Europa. Se ne è parlato molto in questi giorni ma c’è ancora l’opportunità di parlarne oggi mentre gli elettori stanno per recarsi alle cabine elettorali.
*** La prima domanda è questa: quanti ci andranno e quanti invece festeggeranno la domenica andando in gita o restandosene tranquillamente a casa? La seconda domanda è invece la previsione dell’esito elettorale italiano e di quello europeo e delle conseguenze politiche ed economiche di tale esito in Italia e in Europa.
Queste tre domande che l’attualità ci suggerisce di considerare ne presuppongono altre due di natura preliminare: che cos’è il nostro Paese e che cos’è l’Europa? E con queste siamo al centro del problema di cui il voto odierno favorirà la reale testimonianza.
Si dice che il nostro sia un Paese arrabbiato a causa dei sacrifici economici che gli sono stati imposti da una crisi che dura ormai da sei anni ed ha carattere mondiale. Non è nata in Italia né in Europa. È nata in America ma si è immediatamente propagata ed è qui, in Europa e in Italia, che ha trovato condizioni di fragilità diffusa sia in campo economico sia sociale e generazionale. Altrove è già passata o sta passando; qui da noi si incrudelisce col passar del tempo e la rabbia produce effetti politici destabilizzanti.
Questi effetti hanno due distinte direzioni: guidano la rabbia contro la tecnocrazia europea e contro la Germania che palesemente la domina; oppure la indirizzano contro la classe dirigente del proprio paese. Qui in Italia è questo il bersaglio primario della rabbia, anche se la Germania della Merkel costituisce l’altro bersaglio da colpire, ma dopo. Prima di tutto occorre mettere sotto processo la classe dirigente nazionale, quella politica soprattutto; bisogna rottamarla totalmente senza eccezioni di sorta. E sostituirla. Per fare che cosa? Per abbattere tutte le istituzioni e sostituirle. Con che cosa? Si vedrà. Intanto è il concetto distruttivo ad occupare la scena e a dare sfogo alla rabbia.
Questo è Grillo, e più moderatamente ma arrivando alle medesime conclusioni, i parlamentari del Movimento. Bisogna aver ascoltato il Crozza di venerdì sera per capir bene quanto stia accadendo nell’animo di molti italiani. Talvolta la satira e la comicità hanno una capacità conoscitiva molto più efficace di tanti discorsi eloquenti ma retorici e interessati. La satira no, quando coglie la realtà la sua efficacia non ha confronti. Ricordate il Benigni del “Giudizio universale”? E Arbore di “Quelli della notte”? Del resto la satira dell’antica Grecia e quella di Roma non furono da meno per rivelare al popolo la verità.
Il nostro è un Paese che soffre e ha perso la speranza. I giovani hanno perso la speranza del futuro, i vecchi quella che i loro figli e nipoti quel futuro sappiano costruirlo. Poi c’è la demagogia di chi manipola questa duplice disperazione e la utilizza a proprio vantaggio. Con quale obiettivo? Conquistare il potere. Per farne che cosa? Per toglierlo a chi ce l’ha. E poi? Il poi è avvolto nella nebbia più fitta. «È la guerra, la guerra, la guerra» urla Grillo nelle piazze.
C’è un’alternativa a quelle urla? L’alternativa è purtroppo l’indifferenza, cioè l’astensione dal voto. Gli ultimi sondaggi segnalano circa il 40 per cento di probabili astenuti. Sommati ai voti che presuntivamente prenderanno i Cinque Stelle si arriva al 60 per cento. E sommati al populismo di Berlusconi, che do- po vent’anni di malgoverno spera ancora in un 20 per cento di allocchi che lo votino, siamo all’80 per cento del popolo sovrano che, se abboccherà a queste manipolazioni, rinuncerà ad utilizzare la propria sovranità. Sarà questo il risultato delle votazioni di oggi? *** Resta, tra le forze politiche italiane maggiori, il Partito democratico guidato da Matteo Renzi. Nell’articolo di domenica scorsa ho fatto un lungo elenco dei pregi e difetti dell’attuale presidente del Consiglio, ed anche dei pregi e difetti di quel partito prima ancora che Renzi ne prendesse la guida. Ma arrivai alla conclusione che resta, nonostante tutto, la sola formazione politica che abbia una storia, un nucleo di giovani leve con capacità di rinnovamento e un gruppo incontaminato che rappresenta un punto valido di riferimento.
Non vedo, in un momento così delicato e complesso di un’Italia fragile e smarrita, altra soluzione per il voto di oggi che optare per quel partito. So anche che è abitudine dei giornali non dare indicazioni di voto. Un’abitudine che tuttavia non fa parte della deontologia giornalistica e non impedisce ad un singolo collaboratore di dire come voterà lui. Io perciò lo dico e credo di averne spiegato le ragioni.
Renzi ha dichiarato che l’esito del voto di oggi non riguarda il governo che resterà comunque al suo posto. Ha ragione, si vota per l’Europa e per molti Enti locali, Comuni e Regioni. Il governo non è in discussione. Ma poi, ha aggiunto Renzi, se le riforme che ha già annunciato, a cominciare da quella elettorale e dalla riforma del Senato, gli saranno impedite allora lui se ne andrà a casa.
Nessuno ovviamente può impedirglielo, ma questo non lo autorizza a mettere il bavaglio a chi nel suo partito vede alcune delle riforme da lui caldeggiate come sbagliate e meritevoli di importanti modifiche. Soprattutto quella del Senato.
Abbiamo più volte spiegato il perché e non starò a riproporre oggi la questione. Del resto nel suo partito sono in molti a condividere quelle critiche. Renzi può indicare una linea ma non può dare ultimatum ai dissenzienti e non ascoltare e non vedere gli errori cercando di evitarli.
***
E l’Europa? I protagonisti della campagna elettorale ne hanno parlato pochissimo. I giornali no, il nostro ne ha parlato molto ed ha esaminato attentamente le questioni che si pongono. In particolare ne hanno parlato Bernardo Valli, Andrea Bonanni, Lucio Caracciolo, Andrea Manzella e ne scordo parecchi altri. Ma anche 2-4ore, il Corsera, la Stampa.
Il problema europeo non è soltanto quello di allentare l’austerità e consentire maggiore libertà di finanziare investimenti, lavoro, redditi insufficienti, consumi. Sono certamente questioni di grande importanza ma non esauriscono il problema Europa. L’obiettivo che ci si deve proporre è quello di costruire uno Stato federale europeo, dotato di piena sovranità in alcuni settori altamente sensibili in una società globale. Una politica di bilancio comune, una comune politica estera, una comune difesa, una politica dell’immigrazione e quindi, in questi ed altri settori che man mano si pongano, altrettante cessioni di sovranità degli Stati nazionali.
L’Europa è già in parte ma non completamente depositaria dei diritti dell’uomo e del cittadino, ma questa titolarità va tutelata ed estesa. I diritti e i conseguenti doveri. Occorre fare del Parlamento europeo una sede di democrazia legislativa e di controllo d’un potere esecutivo da affidare alla Commissione della Ue. Deve spettare al Parlamento la nomina dei membri della Commissione ed anche del presidente dell’Unione o affidarla all’elezione diretta dei cittadini europei. Gli Stati Uniti d’Europa sono l’obiettivo da raggiungere, con gradualità ma con tenacia.
La cultura europea, la scienza e la tecnologia europee, l’equilibrio sociale e la diminuzione delle diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza vanno perseguiti non solo dai singoli governi nazionali ma da quello europeo.
Se questi sono gli obiettivi, il Parlamento europeo diverrà un organismo fondamentale e così la Commissione e così la Banca centrale i cui poteri d’intervento vanno estesi e rafforzati.
Per questi obiettivi gli elettori responsabili voteranno oggi. Di irresponsabili ce ne sono molti e dovunque. Speriamo vivamente che non prevalgano.

Corriere 25.5.14
Renzi L’ansia per i voti al Pd e agli alleati
L’obiettivo è legittimare il governo
di Marco Galluzzo


ROMA — A dispetto dei numeri o delle rassicurazioni degli ultimi sondaggi, della convinzione che Grillo e con lui gli altri gruppi di euroscettici «saranno comunque ininfluenti» nel Parlamento di Bruxelles, della speranza di avere un bottino di voti che sommato a quello degli alleati rilanci la legittimazione del governo, Renzi ha trascorso ieri una giornata di riposo in famiglia non priva di timori.
Oggi, dopo aver votato, tornerà a Roma, seguirà lo spoglio dal suo ufficio, magari farà una puntata anche al Nazareno, ma sino a quando non sarà chiaro il risultato in lui come nel suo staff serpeggerà lo spettro di un exploit dell’ex comico genovese. Il distacco ottimale dovrebbe aggirarsi sui cinque punti, ovviamente a favore del Pd, ma nessuno ieri era disposto a scommetterci, sia nel governo sia ai piani del Partito democratico. È possibile un testa a testa, persino un sorpasso, entrambe le ipotesi non vengono scartate a priori, anche se sottovoce. Renzi è comunque soddisfatto, ha fatto tutto quello che poteva, non si è risparmiato nelle piazze, ha girato come una trottola dal Nord al Sud, si è concesso in decine di interviste radiofoniche e televisive, visitato presidi industriali. Ha persino spiazzato, più di una volta, gli uffici della presidenza del Consiglio, spesso all’oscuro di decisioni prese all’ultimo istante. Ci ha messo la faccia ed è convinto di aver fatto benissimo.
Conteranno anche i voti degli alleati di governo, il partito di Alfano, Scelta civica: un Pd sopra il 30% può essere un buon risultato, ma a seconda di quanti voti prenderanno gli altri due partiti potrà essere più o meno lusinghiero. La variabile non è solo Grillo. La soglia del 40%, come area di consenso della maggioranza, viene considerata a Palazzo Chigi significativa, a portata di mano, capace di rafforzare la legittimità di questa coalizione e la necessità delle riforme che porta avanti. L’altra variabile saranno i voti dell’ex Cavaliere, se fossero meno del previsto, meno di quanto scritto e pronosticato sino ad oggi, potrebbero innescare un circuito vizioso che avrebbe come prima vittima il patto sulle riforme del Nazareno.
Timori, argomenti e variabili di cui Renzi nelle ultime ore ha discusso con i suoi principali collaboratori, nella speranza che stanotte si dissolvano, lasciando spazio a scenari senza grandi sorprese. Facendo i conti sul Parlamento europeo, che poi dovrebbero essere gli unici a pesare, sono almeno due gli obiettivi del presidente del Consiglio: sperare che sia la famiglia del Pse a prevalere sui popolari del Ppe, e in questo caso arrivare ad un risultato che per il Pd sarebbe in qualche modo storico, rappresentare il gruppo nazionale prevalente fra i socialisti eletti a Strasburgo e Bruxelles.
Se così fosse l’Italia, dunque Renzi, potrebbe avere più forza per le nomine nelle istituzioni della Ue, anche per il presidente del Parlamento. L’irrilevanza politica del voto euroscettico sarebbe invece determinata dalle regole europee: per fare un gruppo ci vogliono almeno 25 parlamentari, ma soprattutto il gruppo deve accogliere rappresentanti di almeno 7 Paesi della Ue. Che Grillo o Marine Le Pen facciano un accordo fra loro o con altri sei partiti viene ritenuto altamente improbabile.
C’è poi una possibile consolazione, anche del voto euroscettico, e anche di questo Renzi ha discusso con i suoi: le istanze di riforma della Ue che il governo italiano porterà avanti durante il semestre di presidenza, da un ruolo diverso della Bce ad una costruzione politica più completa, da un Patto sociale che affianchi quelli finanziari allo scorporo di alcuni investimenti dalle regole di bilancio, saranno «tanto più forti quanto meno si potrà fare finta di niente dopo il voto», dicono a Palazzo Chigi. Il voto euroscettico, agli occhi di Renzi, può anche essere, per paradosso, un’opportunità.

Corriere 25.5.14
Matteo Renzi, la sfida

Asticella oltre il 30% per blindarsi e tenere a bada la minoranza pd Il voto deve dare una forte legittimazione elettorale all’irresistibile ascesa dell’attuale premier, dopo la spietata defenestrazione di Enrico Letta. Non sarà difficile «schiodare» il suo partito dallo striminzito 25% ottenuto nelle elezioni di un anno fa a guida Bersani. Ma l’unico risultato veramente e inequivocabilmente positivo può essere il raggiungimento di una distanza numerica molto netta con Grillo, per dimostrare che il «nuovo» Pd è in grado di bloccare l’emorragia verso i Cinque Stelle. Renzi è partito a velocità supersonica e l’inizio di una campagna elettorale brillante ha coinciso con una conferenza stampa tambureggiante di slide e 80 euro in busta paga. Negli ultimi giorni, Renzi sembra invece essersi avviato all’inseguimento dell’insultante rivale. Bloccarsi al 30%, risultato eccellente in sé, non garantirebbe la tenuta del governo.
E del partito che, oggi silente a apparentemente disciplinato, ricomincerebbe a mormorare e a rumoreggiare.

Corriere 25.5.14
La partita europea delle elezioni in tv
di Aldo Grasso

in collaborazione con Massimo Scaglioni, elaborazione Geca Italia su dati Auditel

Berlusconi, Grillo, Renzi. I tre leader hanno monopolizzato la campagna elettorale per le Europee con la loro presenza sul piccolo schermo. La partita della campagna elettorale, appena conclusa, ha un vincitore: è il presidente del Consiglio Matteo Renzi che totalizza — anche in virtù del proprio ruolo istituzionale — oltre 80 ore e 50 minuti di presenza (tempo di parola e di notizia) nei Tg nazionali, e oltre 20 ore nelle trasmissioni extra-tg, durante l’ultimo mese. Al secondo posto arriva Silvio Berlusconi, con 65 ore e 46 minuti nei Tg, e 26 ore e 43 minuti nelle trasmissioni extra-tg. Terzo classificato è Beppe Grillo, con 39 ore e 51 minuti nei Tg e 13 ore e 55 minuti nei programmi extra-tg.
Se Renzi domina soprattutto nei telegiornali, Berlusconi, come si vede, è il campione delle trasmissioni diverse dai notiziari. Attraverso i talk ma anche l’infotainment i leader hanno cercato di parlare a pubblici diversi dai loro più fedeli. Ha cominciato proprio Berlusconi, ospite di Lucia Annunziata il 4 maggio: allora ha raccolto però solo 937.000 spettatori (5,7% di share), soprattutto fra persone anziane (quasi 9% fra gli ultra 65enni) e laureate (11,8%).
È andata decisamente meglio a Beppe Grillo, anche lui sceso in campo per parlare a un pubblico distante: a «Porta a Porta» si è rivolto a oltre 4 milioni e 200 mila spettatori, ancora piuttosto anziani (31% di share fra gli ultra65enni), e bene istruiti (37% fra i laureati). A «Pomeriggio 5», il 20 maggio, Matteo Renzi ha dialogato con Barbara D’Urso davanti a 1.961.00 spettatori, in questo caso un pubblico molto femminile (23% di share), piuttosto giovane e molto popolare. Le urne ci diranno a breve se questa strategia del contendersi consenso in tv ha funzionato, e a chi ha giovato di più.

il Fatto 25.5.14
Un voto per l’Europa contro le frontiere di morte
di Furio Colombo


Prima dell’Europa c’è una continua celebrazione dei confini, con bandiere che sventolano sui morti. Immaginate un mondo dove chiudere è la parola d’ordine, dove frontiera è l’ideale più alto, dove chi abita nel Paese accanto può soltanto sottomettersi o morire. Prima dell’Europa ogni inno nazionale sostiene tre cose: che per il proprio Paese si deve morire, che anche l’altro deve morire, e che nessuno, proprio nessuno è più grande di noi (indicare il nome del Paese in cui sei nato e sei cittadino, indottrinato a fare parte, di tanto in tanto, di un cumulo di cadaveri). Prima dell’Europa la crisi si chiama guerra e ogni periodo difficile si risolve con una strage del tipo che si usava allora: uniformi, bandiere, gradi altisonanti, governanti cinici e incapaci come adesso, che però disponevano di una via d’uscita in più per i loro errori e malefatte: con la benedizione di Dio, ti mandavano a uccidere e farti uccidere per alcuni anni. C’erano Stati liberali e benevoli al loro interno, altri crudeli con i propri cittadini.
TUTTI PERÒ erano diffidenti e severi con i cittadini degli altri, che dovevano subire verifiche accurate e pagare dazi prima di uscire e di entrare, ogni poche decine di chilometri, sempre con il rischio di essere stranieri sotto bandiera straniera. Un simbolo avventuroso di quella Europa era una celebre unità militare francese detta “Legione Straniera”. Doveva ubbidire in tutto e subire tutto ed essere disposto a tutto perché era composta di “non francesi”, dunque il peggio. Ma al di fuori dell’alone romantico e di malavita di quella “Legione”, ogni esercito europeo era Legione Straniera: infatti ogni tanti anni un popolo veniva “chiamato alle armi” e mandato a una vita e a una morte spaventosa fra caverne, trincee, deserti e gas asfissianti, in cui non tanti tornavano vivi e solo “i ragazzi” delle classi alte prendevano medaglie, da vivi e da morti. Morire ammazzati in guerra, prima dell’Europa, era così importante che ogni Paese che oggi fa parte dell’Unione, aveva e ha ancora il monumento più grande dedicato ai “Caduti”, che sono i francesi che hanno ucciso i tedeschi, gli italiani che hanno fatto strage di greci e di russi e non sono tornati, gli inglesi, colpiti dai missili tedeschi per due anni giorno e notte, e si sono vendicati cancellando intere città tedesche, come nel bombardamento di Dresda.
Prima dell’Europa c’è il fascismo, una malattia di nazionalismo e di frontiera, di superiorità e di folle innamoramento di se stessi che richiede la sottomissione e distruzione dei nemici. I nemici sono quelli che, in casa, non credono all’ossessione della superiorità , garantita dalla frontiera, e coloro che, da fuori, insidiano la tua grandezza e minacciano la tua frontiera per il solo fatto di esistere, anche se non muovono un dito. Gli antifascisti sono sempre agenti del nemico che vogliono aprire le porte e parlare con gli altri. Bisogna impedirlo e per questo ci sono le prigioni e il confino, che vuol dire separati, isolati, lontano. Alcuni italiani, dal confino fascista che dovrebbe farli tacere, scrivono insieme il “Manifesto di Ventotene” (il nome dal luogo in cui erano confinati), e da quel manifesto nasce la prima idea di vivere insieme, in pace, in una Europa senza frontiere. E quando si scatena la Shoah, progetto perfetto di sterminio di un popolo che è da sempre parte dell’Europa e che avviene nelle dimensioni di un’Europa unita dal terrore, subito si accendono dovunque i fuochi delle Resistenze che attraversano nazioni e frontiere per opporsi, da europei liberi, allo stesso nemico, e vincono. L’Europa, dunque, ha un solo nemico, il fascismo, e due padri, il “Manifesto di Ventotene” e i combattenti di tante lingue e di tanti luoghi nel grande impegno di riscatto detto “La Resistenza”. Ora una cosa è certa, combattere l’Europa vuol dire combattere la Storia che ci ha formati. Smontare l’Europa vuol dire tornare all’ossario di caduti e di perseguitati, di sterminio organizzato e di distruzione chiamata “guerra”. Vuol dire vendicarsi di alcuni errori non lavorando a cancellarli, ma perdendo tre quarti di secolo di storia e un intero percorso di salvezza. Quelli di noi che erano bambini ai tempi delle persecuzioni e della guerra – massacro che ha sventrato l’intera Europa – possono dirvi che cosa sognavano.
SOGNAVANO un’Europa senza frontiere e senza soldati, senza baionette e senza rastrellamenti, senza l’ossessione delle razze superiori e dei nazionalismi che chiedono continuamente sacrifici umani. Sognavano un’Europa dove non si cacciano coloro che cercano lavoro perché sono i nuovi figli che l’Europa non ha, non si cacciano coloro che chiedono asilo politico, perché migliorano la società che li accoglie, non si cacciano coloro che fuggono da guerre e persecuzioni perché l’Europa ricorda ciò che è stata (luogo di guerre e persecuzioni) fin quando è stata divisa. Adesso potremo essere nuovi e grandi, grandi nel senso di generosi ma anche nella capacità, con tanta forza unita, di produrre benessere.
Oppure, seguendo personaggi come Borghezio, distruggere tutto. Attenzione, però. Si può essere Borghezio con qualche travestimento e qualche gesto apparentemente moderno. Guardatevi dallo squallido originale. Ma guardatevi anche dai processi di strada. L’Europa è tutto quello che abbiamo. Dietro c’è un passato di morte. Non voltatevi.

il Fatto 25.5.14
Quanto contano le elezioni
di Antonio Padellaro


Non è soltanto un’offesa all’intelligenza dei lettori scrivere che bisogna votare questo o quello come abbiamo letto, ma soprattutto un modo per farsi ridere dietro perché, a poche ore dall’apertura dei seggi, chi ha deciso ha deciso (anche di non decidere) e non sarà certo qualche pomposa articolessa a cambiare il corso degli eventi. I giornalisti non dovrebbero fare gli agit prop, ma per esempio raccontare cosa c’è di vero e di falso dietro le gigantografie dei leader o nei retrobottega di una campagna elettorale giudicata “vergognosa” tra “Europa dimenticata e liti da cortile” (Corriere della sera), ma proprio per questo quanto mai spumeggiante. Certo che si vota per il Parlamento europeo e sarebbe cosa buona e giusta che agli elettori fosse concesso il potere di modificare i vizi capitali dell’Unione, dalla costosissima macchina eurocratica (con annesse prebende) alle cosiddette politiche di rigore che, come è certificato, hanno impoverito chi già povero era rinsanguando i caveau delle banche. Dire alla gente che domani potrà cambiare con un semplice segno sulla scheda l’andazzo è disonesto prima che falso. Le cose a Bruxelles resteranno più o meno come prima e, se il nuovo presidente della Commissione europea sarà il socialista Schulz, i più informati penseranno: ah è quello che Berlusconi definì un “kapò”. Quanto alla popolarità del Popolare Juncker verrebbe da dire: Juncker chi? Anche la disputa su euro sì euro no è roba da comizianti, visto che perfino le procedure per tornare alla vecchia liretta, se anche si volesse, restano un mistero. Sulle liti da cortile, poi, il nostro Fabrizio d’Esposito ha compilato ieri una gustosissima antologia di culi, manette, banane e lupare, con annessi Hitler e Stalin che hanno avuto almeno il merito di concentrare sui talk show masse di curiosi attirati dagli alterchi tra Grillo e Renzi più che dalle questioni, del resto inesistenti, di alta politica. Via, non scherziamo, la sacralità delle elezioni si è dissolta da quel dì, da quando il cosiddetto responso delle urne è stato stravolto dai maneggi dei partiti che poi i governi se li sono fatti pret-à-porter, senza neppure scomodare l’elettorato (Monti, Letta, Renzi) e sotto l’alto patrocinio del Quirinale. Domani, come sempre, avranno vinto tutti. Ma se Grillo avrà vinto un po’ di più saranno guai per Renzi, che in ogni caso non intende sloggiare da palazzo Chigi (magari con l’affettuoso appoggio del malconcio Caimano). Queste in fondo sono le semifinali di una partita la cui finalissima si giocherà alle politiche, che molti vedono dietro l’angolo: e lì chi vince si prende tutto il piatto. Personalmente spero che lista Tsipras superi lo sbarramento del 4 per cento per portare a Strasburgo qualcosa di sinistra, ma per le ragioni esposte non mi sento di biasimare chi se ne resterà a casa. Cattivi pensieri che non impediranno al Fatto, giornale che ha come linea politica la Costituzione, di rispettarne l’articolo 48: “L’esercizio del voto è dovere civico”. Auguri.

il Fatto 25.5.14
La campagna aerea di Renzi
Ha unito impegni istituzionali e comizi
Anche a Napoli è andato con un volo di Stato. Sempre insieme al suo staff
di Emiliano Liuzzi


La notizia l’ha data Libero, ma la conferma arriva dall’ufficio voli della presidenza del Consiglio dei ministri: è vero, alcune tappe della campagna elettorale di Matteo Renzi sono state raggiunte con un aereo di Stato, a spese dello Stato e dei contribuenti. In contemporanea al comizio Renzi aveva impegni istituzionali per i quali l’uso dell’aereo è legittimato e previsto dal regolamento. La polemica, però, resta, soprattutto perché il presidente del consiglio è anche il segretario del Partito democratico. Era così anche per Silvio Berlusconi, premier e - in quel caso - addirittura proprietario di un partito, ma appunto era Berlusconi, uno che in tutto quello che è il conflitto d’interessi si è sempre trovato a suo agio, consapevolmente.
Senza contare che la polemica arriva al termine di una campagna elettorale senza esclusione di colpi, Renzi Grillo e Grillo Renzi è stato un continuo duello-insulto a distanza. E a due giorni dal voto la grana sui voli di Stato poteva essere evitata. In tempi di spending review il mancato risparmio è sempre sul piatto. I suoi detrattori lo accusano di essere quello che mette all’asta le auto blu e poi di spendere inutilmente per i suoi spostamenti cifre da capogiro. La documentazione è chiara: il presidente del consiglio ha usato l’aereo in almeno quattro occasioni dove, dopo l’impegno istituzionale, si è trattenuto per fare campagna elettorale per il suo partito.
LUI NON SE NE FA un grosso problema, anche perché aveva raggiunto Napoli, Reggio Calabria, Palermo e Pescara, per impegni istituzionali. E questo è vero, tutto documentato. C’è un però: l’impegno istituzionale è creato per la campagna elettorale o viceversa? Domande legittime, alle quali Renzi stesso dovrebbe dare una risposta.
L’ufficio voli di Stato, regolamentato da Berlusconi dopo essere stato cannibalizzato da Berlusconi stesso (nani, ballerine e Apicella vari) prevede che l’aereo sia a disposizione se per raggiungere la località non ci sia altro mezzo disponibile. Fu anche una delle prime cose annunciate dal governo dei tecnici guidati da Mario Monti, anche se sembra preistoria: “Tagliati del 92 per cento i voli di Stato”. E Catricalà, allora potentissimo sottosegretario di Monti, aggiunse: “Ministri viaggeranno in treno, l’aereo verrà usato soltanto per le destinazioni irraggiungibili con altri mezzi, come il treno o l’auto o per destinazioni come Madrid e Bruxelles, coperte dalle compagnie”.
Nessuno vuole mandare Renzi in treno fino a Palermo, ma a Napoli avrebbe potuto benissimo arrivare con il Frecciarossa, tempo di percorrenza 1 ora e cinque minuti, biglietto al costo di 43 euro per la seconda classe, 53 invece in business. Non certo l’aereo che, come minimo, costa diecimila euro anche per un viaggio così breve.
ALTRO PICCOLO particolare: da quando il governo Renzi si è insediato non sono stati più pubblicati sul sito della presidenza del consiglio gli spostamenti dei ministri. L’ufficio voli su questo non è tenuto a rispondere, l’ufficio stampa è difficilmente raggiungibile un sabato normale, figuriamoci quello alla vigilia delle elezioni europee.
C’è un piccolo dubbio che rimane: l’aereo è un lusso indispensabile per il presidente e i suoi ministri o può essere coperto dai mezzi di linea? È utile una flotta che potrebbe far concorrenza a una piccola compagnia commerciale? Anche perché oltre ai dieci jet extralusso del 31° stormo (3 Airbus e 7 Falcon), vengono destinati ai voli dei sottosegretari e dei ministri quasi venti Piaggio P180, le “Ferrari dei cieli” con motori a turboelica, considerati gioielli di tecnica, meccanica e comfort.

il Fatto 25.5.14
“Vi racconto come si comprano le preferenze”
In una competizioni in cui per vincere occorrono migliaia di voti
I gruppi organizzati “vendono” i pacchetti per correre l’ultimo miglio
di Enrico Fierro


C’è chi lo fa in modo sfacciato e chi, invece, usa metodi più sofisticati e moderni, ma il mercato della compravendita dei voti è più fiorente che mai. In Sicilia c’è un intero patrimonio di consensi in libera uscita, quello di Francantonio Genovese, il ras messinese del pd agli arresti per lo scandalo dei fondi della formazione professionale. Chi se lo accaparra fa la sua fortuna.
Ma a proposito di sfacciati, in Sardegna ancora ricordano quel signore che alle ultime elezioni regionali si presentò dalla candidata Michela Murgia con un cesto. Non conteneva frutta, ma un migliaio di certificati elettorali. Poche parole: “Siamo elettori di G.O. , e siamo delusi… Se lei riesce a convincerci…”. Quei voti sono a sua disposizione. Discorso allusivo, non esplicito fino in fondo, ma chiaro. La scrittrice, ovviamente, rifiutò sdegnata. E quel cesto fece il giro di altri candidati. “Queste sono guapperie inutili, smargiassate che non servono e rovinano la piazza. Il lavoro va fatto in silenzio…”. Il signore che accetta di parlarci lo abbiamo incontrato in una città del Sud, la condizione è ferrea: nessun riferimento né a luoghi, meno che mai a nomi. Inizia il nostro viaggio dentro i meandri del discount della preferenza. “La situazione non è più come una volta, al tempo bello delle schede lenzuolo e delle preferenze espresse a numero”. Prima Repubblica, lotta feroce all’ultimo voto tra partiti e dentro i partiti. “Il meccanismo era semplice, metti un collegio dove si esprimevano tre preferenze. All’epoca ero un giovane galoppino, non c’erano i computer ma le calcolatrici tascabili. Il capo aveva gli elenchi degli elettori seggio per seggio, li comprava dagli impiegati al Comune e valevano oro, soprattutto nelle sezioni elettorali più piccole. Era un gioco semplicissimo, in una lista con trenta candidati avevi una possibilità quasi infinita di combinazioni da assegnare. Mettiamo che portavi il numero 1, indicavi a Tizio il voto 1 e 2, a Caio 1 e 30, a Sempronio 1 e 27, e così via, invertendo i numeri assegnati. A chiusura dello spoglio, tu sapevi esattamente come aveva votato l’elettore, se ti aveva tradito. Con la preferenza unica e poi con i deputati nominati, tutto si è fatto più difficile”. Però il controllo del voto funziona ancora, con i cellulari e le schede fotografate. “Roba da dilettanti…”. Oppure con la “scheda ballerina”. In sintesi, fuori dal seggio c’è un rappresentante del “sistema” che consegna una scheda già votata, l’elettore la ripone nell’urna, si infila in tasca la scheda vergine che gli scrutatori gli hanno dato, va fuori e la consegna all’addetto di cui sopra. Metodo efficace, “ma si finisce in galera”, chiarisce il nostro uomo.
E ALLORA? “Allora bisogna essere scientifici, sapere qual è il bacino cui attingere. La campagna elettorale per le europee è stata feroce ed è difficile smuovere chi ha già deciso per Grillo o per il Pd o per Berlusconi, io devo rivolgermi a chi non vota, agli astenuti, a quelli che non hanno alcuna ragione per infilare una scheda nell’urna, a chi è schifato dalla politica che non gli offre più un motivo per votare. Io gliene offro uno e concreto assai: i soldi”. Quanti? Quanto costa una preferenza per le europee? “Da un minimo di venti a un massimo di cinquanta euro. Non è poco, mi creda”. Ma come si fa? Con collegi così ampi ci vogliono decine di migliaia di voti. Faccio qualche esempio: alle ultime europee un candidato outsider come Sonia Alfano ha rastrellato 28mila preferenze, un padrone dei voti nel Sud, il calabrese Mario Pirillo, Pd, ne ha portati a casa 110451, quanti soldi deve spendere un candidato? “Tanti, ma non compra tutti i voti da noi, nei collegi ampi ti puoi giocare l’elezione per poche migliaia di voti, noi puntiamo a quelli, offriamo l’ultimo litro di benzina che serve a fare il pieno e stare sicuri”. Il candidato paga, 50 o 100mila euro, e voi, l’organizzazione, cosa ricevete in cambio? “Non soldi, a quelli puntano i pezzenti del mestiere, ma relazioni. Farsi amico un deputato europeo che ti è grato per l’elezione, significa entrare nel gioco dei contributi, soprattutto nel Sud. Da lui puoi portare l’imprenditore che vuole investire, il sindaco alla ricerca di un sostegno per sbloccare una pratica. Insomma, le relazioni sono oro”. Sì, ma come si fa a essere certi della fedeltà del lettore… E qui ritorna il meccanismo delle vecchie preferenze negli anni d’oro della Prima Repubblica. “Sulla scheda puoi scrivere tre nomi, due maschi e una donna o viceversa. Puoi indicare solo il cognome o il nome e il cognome, quindi li puoi invertire, prima il cognome poi il nome di battesimo. Su 17 candidati, penso alla circoscrizione Sud, puoi mettere insieme una infinità di combinazioni. È complicato, ma oggi ci sono i computer, basta avere gli elenchi degli elettori e il gioco è fatto”. Il mercato? “Quello dei piccoli partiti, quelli che devono superare a ogni costo lo sbarramento, e i candidati che vengono da regioni piccole. Pensate a uno del Molise che deve raccogliere voti in metropoli tipo Napoli, in città lontane dalla sua realtà come Reggio Calabria. Per loro è una corsa difficile. Ma per fortuna ci siamo noi”.

il Fatto 25.5.14
Pareggio, il 30%, la quota salvezza cosa succede dopo il voto se…
Renzi vince se stacca Grillo. Se il M5S pareggi o giù di lì il premier è finito
Destini incrociati Grillo deve tenersi almeno il 25%, Alfano arrivare sopra il 5% per attrarre i profughi di Silvio, che deve restare vicino al 20%
di Marco Palombi


Oggi si vota, si sa. Domani si faranno i conti con gli effetti del voto. E anche questa è un’ovvietà. Ma quando si può dire che uno ha vinto, ha perso, ha chiuso la sua avventura politica? Tentiamo di spiegarvelo nelle righe che seguono.
RENZI VINCE/STRAVINCE
Perché il premier dichiari piena vittoria devono ricorrere due condizioni: il Pd deve prendere più del 30% dei voti e distanziare con qualche nettezza il Movimento 5 Stelle. Sopra la “quota Veltroni” - ovvero il 33 e dispari per cento - cioè il risultato più alto di sempre del Partito democratico sarà un successo personale, se Grillo e i suoi saranno distanziati di cinque o più punti (avranno cioè, all’ingrosso, la stessa percentuale delle politiche o poco di più) Matteo Renzi potrà incoronarsi imperatore o almeno cardinale.
RENZI PERDE O È MORTO
Se i democratici non sfondano quota 30 per cento il risultato non sarà comunque positivo. Se, contemporaneamente, si ritrovano il M5S a tre punti o anche meno si tratta di una secca sconfitta e della “normalizzazione” del fenomeno Renzi: i suoi oppositori interni, come pure gli altri partiti che reggono il suo governo, tornerebbero ad alzare la testa, i media che l’hanno così sostenuto comincerebbero a riposizionarsi, una certa quota di “renziani” si guarderà attorno in cerca di un salvagente. Ovviamente, se Grillo prende più voti del Pd, il premier è finito: potrà reggere a palazzo Chigi, forse, ma non avrà alcun futuro politico e tutti lo tratteranno come un’anatra zoppa. Non è escluso, però, che si dimetta senza tirarla per le lunghe.
LA SALVEZZA DEL M5S
Al Movimento per non essere costretto ad ammettere una sconfitta è sufficiente non allontanarsi troppo dal risultato delle Politiche dell’anno scorso, vale a dire il 25,56%. Ogni punto in più, invece, basterà alla creatura di Grillo e Casaleggio per cantare vittoria. Si dice che l’elettorato 5 Stelle sia più motivato degli altri: così fosse, oggi gli basterà probabilmente confermare gli 8,7 milioni di voti incassati nel 2013 per superare il Pd e stravincere.
SILVIO E L’OSTACOLO 20%
Forza Italia corre per arrivare terza. È un risultato già scritto. Il punto è come. L’asticella per il partito di Silvio Berlusconi è il 20%: se sarà sopra questa cifra o comunque vicino sarà ancora in gioco, se invece veleggerà più sui lidi del 15% (come affermano alcuni sondaggi) allora verrà spazzata via in poco tempo. Il risultato di Silvio Berlusconi, peraltro, è strettamente connesso col destino delle riforme costituzionali di Renzi: se FI vince o perde troppo l’accordo del Nazareno diventa storia e si dovrà ricominciare da capo.
ALFANO, PRIMUM VIVERE
Il Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano deve solo rimanere vivo. Per farlo deve in primo luogo superare la soglia di sbarramento del 4%. Per intestarsi il dopo Berlusconi, invece, deve fare qualcosa di più: l’obiettivo è arrivare attorno al 6%, divenendo contemporaneamente un porto sicuro per profughi forzitalioti con qualche peso territoriale (leggi: un pacchetto di voti) e, soprattutto, senatori della Repubblica. A palazzo Madama, infatti, si gioca tutta la partita delle “strette intese”: più il partito di Alfano andrà bene alle elezioni contro l’ex padrone di Arcore, più aumenterà il suo potere di attrazione in Parlamento (e, conseguentemente, di ricatto rispetto a Renzi).
ODE SU UN’URNA GRECA
Il titolo della celebre poesia di John Keats descrive bene la situazione della sinistra italiana racchiusa nella lista Tsipras: il suo destino, a stare ai sondaggi, è funerario. L’unico modo per sfangarla è superare l’asticella del 4%, ma al momento pare una cosa parecchio complicata. Questo significa anche un’altra cosa: il centrosinistra ormai coincide quasi esattamente col Pd.
COSA RESTA DEL PDL?
Sarà interessante, domenica notte, capire quanto vale il mercato elettorale no-euro (il M5S è più ambiguo sul tema), che poi s’incrocia in larga parte col destino del vecchio centrodestra alle elezioni nazionali. Checchè dicano ora, infatti, se lo scenario politico sarà la stesso di oggi Lega Nord e Fratelli d’Italia alle prossime Politiche saranno coalizzate con Forza Italia e - probabilmente - col Nuovo Centrodestra di Alfano.
Se il voto di Berlusconi tiene, Ncd va come deve e Salvini e Meloni conquistano una buona fetta di elettorato (il primo è dato oltre la soglia di sbarramento, la seconda no di poco) il centrodestra si conferma la maggioranza dell’elettorato: non è un fatto di poco conto per la sopravvivenza del dimenticato Italicum (che prevede il ballottaggio tra i due partiti/coalizioni più forti).

il Fatto 25.5.14
Rapporti a sinistra: rissa e testate tra candidati Pdci e Sel


NICHELINO Non è un buon presagio per la sinistra della sinistra quanto acceduto ieri in Piemonte. Una discussione tra un esponente dei Comunisti Italiani e uno di Sel, infatti, all’interno di una scuola di Nichelino, alle porte di Torino, dove si stava allestendo un seggio elettorale, è finita con una rissa pesante. Renato Marando, capolista dei Comunisti Italiani nella coalizione per Riggio sindaco, ha colpito con una testata Marco Brandolini, candidato alle elezioni comunali di Nichelino nella lista di Sel. Trasportato in ospedale, dove lo stanno medicando, Brando-lini ha una sospetta frattura del setto nasale.
L’aggressione è avvenuta davanti alle forze dell’ordine, presso un seggio della scuola Papa Giovanni XXIII, in via Boccaccio. Un po’ roboante il comunicato di Sel che “esprime vicinanza e solidarietà a Marco” e si spinge a chiedere “una ferma e netta condanna da parte di tutte le forze democratiche". Solidarietà al candidato aggredito anche dal candidato sindaco della coalizione di centrosinistra, Santo Cistaro. "La democrazia non è violenza - dice - ma dialogo".

La Stampa 25.5.14
Il paradosso delle periferie arrabbiate
Fra gli arabi delle banlieue che votano Marine Le Pen: “Noi stufi di immigrati”
di Alberto Mattioli

qui

La Stampa 25.5.14
Lo scrittore al-Aswani: andrò al seggio, il generale ora mi fa paura
“Contro Al Sisi per difendere l’eredità di piazza Tharir”
intervista di Francesca Paci

qui

l’Unità 25.5.14
Il caso Nigeria: se le ragazze che studiano fanno paura


«FAREMO TUTTO IL POSSIBILE» PER RIPORTARE LE RAGAZZE A CASA. Ecco come David Cameron, premier britannico, ha echeggiato gli sforzi della campagna internazionale per la liberazione delle 223 liceali sequestrate il mese scorso dal gruppo estremista Boko Haram in Nigeria. Il numero totale delle ragazze rapite era 276 ma una parte è riuscita a fuggire. Perché rapire giovani donne da una scuola? Sembra che i leader di Boko Haram volessero inizialmente vendere le ragazze ma poi hanno annunciato di volerle scambiare per liberare alcuni dei loro collaboratori attualmente in prigione in Nigeria.
Al di là del messaggio «pratico» del crimine un secondo ne viene fuori come ha scritto recentemente Nicholas Kristof, autorevole opinionista del New York Times. Secondo Kristof le donne che studiano causano la più grande paura ai gruppi estremisti perché questi gruppi hanno bisogno di ignoranza per mantenere il loro potere. Lo si è visto ovviamente con Osama bin Laden il quale era riuscito a creare un governo dentro il governo in Afghanistan, Paese poverissimo dove le donne si trovavano - e per certi versi continuano ancora a trovarsi - in una situazione deplorevole.
Quando le donne cominciano a studiare in Paesi poveri gli uomini che vogliono mantenerle in soggezione si preoccupano forse più delle bombe che gli possono cadere addosso lanciate dai droni. Ecco perché Malala Yousafzai è stata attaccata dai talebani in Pakistan perché ha rivendicato il diritto delle donne di andare a scuola. Per i talebani Malala era divenuta il «simbolo degli infedeli e l’oscenità» perché voleva semplicemente l’opportunità di studiare. Ecco perché i talebani in Afghanistan spesso gettano acido sulla faccia di ragazze che vogliono andare a scuola.
Il rapporto fra l’istruzione ed il progresso delle donne diventa sempre più apparente, come insiste Kristof. A un aumento dell’istruzione delle donne corrisponde una diminuzione della fertilità e quindi la popolazione si riduce. L’economia dei Paesi con donne istruite allo stesso livello degli uomini è molto più solida di quella in cui solo i maschi hanno l’opportunità di studiare.
Lo si vede particolarmente nell’Occidente ma persino in Paesi sottosviluppati come Bangladesh e Oman, i quali fino agli anni Sessanta non offrivano opportunità scolastiche alle ragazze. Con il cambiamento si sono ottenuti miglioramenti economici e sociali dato che la partecipazione delle donne raddoppia la forza lavorativa del Paese. L’Oman, per esempio, si trova in una situazione migliore economicamente del suo vicino Yemen dove le donne si trovano ancora completamente assoggettate. In sintesi la pubblica istruzione quando include ambedue i sessi trasforma la società.
Più povertà e mancanza di scuole per le donne equivale all’esplosione della popolazione che eventualmente spinge la gente a spostarsi a luoghi più promettenti. Lo si vede chiaramente in America dove molti dei poveri al sud della frontiera si sono trasferiti al nord in cerca di lavoro. Adesso l’immigrazione clandestina dal Messico si è ridotta in parte per il miglioramento economico ma anche per il calo della natalità.
In Italia si sta parlando in toni stridenti dell’immigrazione clandestina proveniente dall’Africa ma anche dall’Asia. Una parte di questi immigrati sfugge a guerre ma altri cercano di abbandonare la povertà in cui sono nati. In linee generali si tratta di Paesi in cui le donne hanno poche opportunità e spesso vivono in semi schiavitù.
È in questo clima sociale che gruppi come Boko Haram fioriscono. Non a caso la parte della Nigeria dove questo gruppo estremista opera consiste di una delle zone più povere del Paese dove le ragazze usufruiscono di poche opportunità educative.
I Paesi industrializzati, gli Stati Uniti in primis, spendono centinaia di miliardi di dollari per combattere il terrorismo. Si fa troppo poco con investimenti per l’istruzione, specialmente delle ragazze. Eliminare i terroristi dalla scena mondiale non sarà mai facile ma invece di mandare droni nei Paesi dove si nascondono i terroristi forse bisognerebbe bombardarli con libri. Si otterrebbero frutti a lungo termine ma si otterrebbe anche giustizia morale

l’Unità 25.5.14
Spari al museo ebraico Bruxelles: «Atto antisemita»


Non era mai accaduto. Dalla fine della seconda guerra mondiale non era mai accaduto un attacco antisemita così grave come la sparatoria di ieri al museo ebraico di Bruxelles, in cui hanno perso la vita tre persone e una quarta è rimasta gravemente ferita. Il Belgio andrà alle urne sotto choc oggi, giorno di voto per le elezioni europee, nazionali e locali. Secondo le prime ricostruzioni alle 15.48 di ieri un Audi scura si è fermata in doppia fila davanti al museo ebraico della capitale belga, vicino alla sinagoga, e dalla macchina è sceso un uomo con una sacca. La sparatoria sarebbe avvenuta davanti e anche all’interno del museo, secondo alcuni testimoni. Una serie di colpi, in pochi secondi. Poi l’uomo è risalito in macchina ed è fuggito, qualcuno è riuscito a segnare il numero di targa. Per due donne e un uomo rimasti a terra la corsa in ospedale è stata inutile, gravissima una quarta persona. Secondo testimoni l’assassino sarebbe stato aiutato da un secondo uomo che guidava la macchina. La polizia avrebbe fermato un sospetto e dà la caccia ad una seconda persona.
L’elegante quartiere Sablon, dove è avvenuta la sparatoria, era affollato per la Bruxelles Jazz Marathon che è stata immediatamente sospesa. Il ministro degli esteri belga, Didier Reynders, che si trovava nei paraggi è stato il primo a commentare su Twitter: «Sono scioccato dalla notizia dei morti al museo ebraico. Un pensiero alle vittime che ho visto sul posto e alle loro famiglie». Più tardi la ministra dell’Interno Joëlle Milquet ha spiegato alla stampa che «un uomo è entrato nel museo e ha sparato in fretta. Tutto porta a credere che si tratti di un attentato antisemita». Anche per il sindaco di Bruxelles, Yvan Mayeur, la sparatoria al museo ebraico di Bruxelles «è probabilmente un atto terroristico». Il premier, il socialista di origini italiane Elio Di Rupo su Twitter si dice «molto scioccato». Matteo Renzi gli esprime la solidarietà del governo italiano, l’attentato dice è «una ferita aperta per noi europei, un monito a tenere alta la guardia».
L’episodio ricorda gli attentati antisemiti avvenuti nelle cittadine francesi di Tolosa e Montauban nel 2012, in cui hanno perso la vita tre militari e quattro civili di religione ebraica. Per il presidente della Lega belga contro l’antisemitismo (Lbca), Joel Rubinfeld, la verità è che oramai «c’è stata una liberalizzazione del verbo antisemita e questo è l’inevitabile risultato di un clima che distilla l’odio». Per Philippe Mankiewicz, ex presidente di un’altra associazione ebraica belga (Ccojb), «non è solo la comunità ebraica ad essere colpita, ma tutta la democrazia belga».
FEBBRE EUROPEA
A novembre dell’anno scorso l’Agenzia europea per i diritti fondamentali aveva pubblicato un sondaggio condotto tra le comunità ebraiche di otto Paesi d’Europa. L’88% degli intervistati in Belgio ha affermato che negli ultimi anni l’antisemitismo è aumentato nel Paese. Delle percentuali più alte sono state riscontrate solo tra le comunità ebraiche di Francia e Ungheria. Il 77% degli ebrei belgi ha detto di ritenere l’antisemitismo «un problema grave» e dal 2008 il 10% è stato vittima di violenze fisiche o di minacce antisemite.
Segnali preoccupanti, tanto più quando in Paesi come Francia e Ungheria i sondaggi delle europee prevedono una vittoria dell’estrema destra. Sia il Front National francese che il partito Jobbik ungherese sono apertamente antisemiti. L’anno scorso ha fatto scalpore il caso di un europarlamentare dello Jobbik, Csanad Szegedi, che si è scoperto di origini ebraiche, si è convertito all’ebraismo e per questo ha lasciato il partito.
Nonostante il clima pesante oggi i cittadini del Belgio devono votare anche per rinnovare il parlamento nazionale e le assemblee regionali. Le ultime elezioni nazionali risalgono al 2010 e hanno visto il trionfo del partito indipendentista fiammingo N-Va guidato da Bart De Wever. Ne è seguita la più lunga crisi politica del Paese con un estenuante negoziato di 541 giorni per formare una coalizione di governo senza la N-Va.

l’Unità 25.5.14
Amos Luzzatto
«Nulla è casuale, il sangue versato è contro l’Europa»
«Il virus dell’odio razziale e antisemita non è stato debellato Le forze democratiche fermino la barbarie»


La sua voce è incrinata dalla commozione e dal dolore. Le sue parole danno corpo ad un accorato quanto lucido grido d’allarme: «Quel sangue versato a Bruxelles è contro l’Europa. E contro il messaggio di pace di cui Papa Francesco si sta facendo portatore nel suo viaggio in Terra Santa. L’odio antisemita è passato dalle parole ai fatti. Tutte le forze democratiche europee devono unire i loro sforzi per fermare questa barbarie. La storia deve servire da lezione. Il virus dell’odio razziale e antisemita non è stato debellato. Esso continua a minacciare l’Europa». A parlare è una delle figure più rappresentative dell’ebraismo italiano ed europeo: Amos Luzzatto, già presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei).
Professor Luzzatto, il Belgio, e non solo esso, è sotto shock per il sanguinoso attentato al museo ebraico di Bruxelles.
«Spero davvero che lo shock non sia solo confinato al Belgio. Perché ciò che è avvenuto oggi (ieri per chi legge, ndr) a Bruxelles deve suonare come un campanello d’allarme per l’Europa intera, per le sue forze democratiche, per l’opinione pubblica. Siamo tornati a un livello di razzismo antisemita che non è fatto più solo di parole o opinioni, ma questo razzismo adopera l’assassinio come strumento con cui si manifesta. Le indagini in corso diranno se l’attentatore ha agito da solo, certo è, però, che ad armare questo assassino sono idee, pregiudizi, stereotipi che oggi si ritrovano nell’agire di gruppi e movimenti che scuotono l’Europa, da Est a Ovest. Ma c’è una cosa che mi ha sconvolto, assieme al pensiero per quelle vite spezzate...».
Vale a dire?
«La tempistica di questo attentato. Il momento scelto, e assieme, la città e il luogo scelti. Nulla è casuale. Si è scelto di colpire Bruxelles proprio nel momento in cui stiamo rinnovando il Parlamento europeo. Si è utilizzata l’arma del razzismo antisemita per compiere un’azione criminale contro l’Unione europea, intesa non solo e tanto come istituzione, quanto come opzione ideale, come luogo di convivenza. La barbarie ha colpito nel cuore dell’Europa. Ma il momento scelto non riguarda solo l’appuntamento elettorale...».
E cos’altro, professor Luzzatto?
«L’attentato è avvenuto mentre il Papa si trova in Terra Santa, mentre si fa portatore di un invito alla pace e alla comprensione reciproca. Con questo attentato, con il luogo scelto per colpire, s’intende dare un messaggio opposto a quello di Bergoglio: un messaggio di odio, di imbarbarimento, di caccia a chi è visto come “diverso”, irriducibilmente ostile, incarnazione del Male: l’Ebreo. Da questo punto di vista, anche il luogo scelto ha una forte valenza simbolica».
Il museo ebraico...
«La scelta del museo è il tentativo di combattere violentemente contro la memoria, di cancellarla con la forza. La memoria fa paura ai seminatori di odio. Perché senza memoria non c’è futuro per comunità e nazioni che si vogliono democratiche. Vede, nei musei ebraici c’è certamente il ricordo della cultura ebraica, così come si è sviluppata nel corso dei secoli. anche in Europa. Questa memoria è sopravvissuta alla più immane tragedia che la storia ha conosciuto: l’Olocausto. I musei ebraici sono la testimonianza vivente di una identità che i nazifascisti volevano cancellare definitivamente, assieme al popolo che ne era portatore. Questa memoria è sopravvissuta alla soluzione finale. Ma c’è chi non si è scoraggiato, e prova ancora a cancellarla. Nel sangue. Guai a sottovalutare il pericolo antisemita. Guai ad abbassare la guardia, o a parlare di “gesti isolati” o di “sparute minoranze”.
L’attentato al museo ebraico di Bruxelles ci dice che stiamo superando il livello di guardia. È importante che tutte le forze democratiche europee dichiarino alto e forte, e in maniera unitaria, che ogni forma di razzismo è in compatibile con la democrazia. Che ogni forma di razzismo è una minaccia per la democrazia. Una minaccia mortale. In secondo luogo, occorre dimostrare che esistono in Europa forze sufficienti per impedire un ritorno al buio della lunga notte vissuta nella Seconda guerra mondiale. Ciò significa che non ci si deve abbandonare alla disperazione, al pessimismo o alla rassegnazione, come se l’odio razziale e antisemita fosse qualcosa di incontrastabile. Al contrario, è indispensabile che proprio in questo momento le forze democratiche d’Europa dichiarino la loro ferma volontà di difendere il Continente da qualsiasi risveglio persecutorio costellato di attentati e di azioni violente. In questo momento difendere la sicurezza e la dignità del mondo ebraico in Europa significa difendere consapevolmente l’Europa stessa dall’imbarbarimento e dall’esaltazione di una violenza che credevamo fosse stata bandita definitivamente dai nostri confini».
È solo un problema di repressione?
«No, è anche questo ma non solo questo. È anche un fatto di educazione, di una iniziativa culturale che deve cominciare dalle scuole. È una battaglia ideale. È la trasmissione di valori che non può essere affidata solo a coloro, sempre di meno, che hanno conosciuto l’orrore dei lager nazisti o che, in Italia, hanno vissuto sulla propria pelle l’infamia delle leggi razziali. Difendere quei valori di civiltà, preservare la memoria della Shoah, non è onorare milioni di ebrei morti nei lager. È un investimento sul futuro».

Repubblica 25.5.14
Il cacciatore di nazisti Efraim Zuroff “La destra violenta è come un virus”
“Siamo stati colpiti al cuore ora l’Ue reagisca all’antisemitismo”
di Andrea Tarquini


BERLINO «UNA strage di ebrei nel cuore d’Europa, nella città che è capitale dell’Unione europea e quartier generale della Nato. Il messaggio dei criminali non potrebbe essere più agghiacciante, spero che gli europei che devono ancora votare riflettano bene sul populismo di destra. In questo clima, in alcuni Paesi europei gli ebrei tornano alla sensazione che vivere là sia pericoloso». Ecco il commento a caldo dello “sceriffo della giustizia e della memoria”, dottor Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal per la caccia ai
criminali nazisti.
Come si è sentito, apprendendo delle notizie da Bruxelles?
«Notizie scioccanti, inorridiscono, tanto più nei giorni del voto in Europa. Inorridisce il semplice fatto che un simile crimine sia possibile proprio a Bruxelles».
Messaggio antisemita brutale agli elettori europei?
«È una possibile spiegazione. Certo, le elezioni sono in corso da giovedì, alcuni Paesi hanno già votato, si continuerà a votare fino a domenica sera. È probabile che i terroristi assassini abbiano voluto inviare un messaggio non solo a Bruxelles bensì a tutta l’Unione europea. E al resto di noi, a tutti gli ebrei. Anche quelli che vivono fuori dell’Europa, alla comunità ebraica mondiale, e al resto del mondo. Il messaggio nel weekend elettorale è chiaro: morte agli ebrei. Al momento non sappiamo ancora chi siano i responsabili, eppure il messaggio è chiarissimo».
Nelle stesse ore in cui partiti populisti di destra, molti dei quali antisemiti, volano nei sondaggi per le europee, l’Europa torna il luogo pericoloso che cerca negli ebrei il capro espiatorio?
«Questi problemi dovrebbero essere all’ordine del giorno per gli elettori europei: quali diritti per le minoranze, quali diritti per gli antisemiti e i neofascisti, quale posizione verso l’antisemitismo. Non so chi siano i responsabili. Se sono neonazisti il massacro è una scelta direttamente collegata alle elezioni. Se sono terroristi islamisti è una storia diversa. Ma in entrambi i casi è l’orrore».
I populisti di destra potrebbero avere un terzo dei seggi al Parlamento europeo, molti di loro hanno ottime relazioni con movimenti integralisti islamici o con l’Iran. Come si aspetta che l’Europa voterà?
«Ecco una grande questione aperta. Molti elettori europei hanno già votato prima del massacro di Bruxelles. Non è chiaro, e preoccupa molto, quanto questa tragedia peserà sul voto. Paesi grandi votano tra poche ore. Un tema decisivo è quali libertà concedere o no a neofascisti e antisemiti ».
Allora l’Europa torna un luogo pericoloso per gli ebrei?
«Dipende da un luogo d’Europa all’altro. Non ogni luogo europeo è pericoloso, ma alcuni sì. Prenda la Francia per esempio, un paese-chiave, importante. L’esodo dalla Francia verso Israele di ebrei francesi e di altri paesi europei aumenta. In Europa occidentale l’antisemitismo è soprattutto antisionismo legato al Medio Oriente. All’Est è l’antisemitismo storico che accusa gli ebrei di controllare il mondo, l’economia, i media. Stiamo attenti però a dare pagelle ai paesi».
Dov’è il confine tra populismo generale e populismo antisemita?
«Lo spartiacque è tra chi dice sì alla violenza antisemita e chi la rifiuta. Ma l’Europa che sta votando è chiamata a prevenire ogni violenza antisemita prima che accada. Ecco la difficoltà. Purtroppo ci sono stati attacchi antisemiti anche contro il memoriale dell’Olocausto a Washington, questo è il mondo. Il virus è ovunque, da millenni. Lo sfondo è l’incapacità dell’Europa di costruire un vero muro contro l’antisemitismo nella sua anima collettiva».
I democratici europei sottovalutano la minaccia?
«È parte del problema: sottovalutazione dell’antisemitismo. Troppo spesso quando ricorda la Shoah l’Europa ha voglia forte di essere assolta dalle sue responsabilità: cancellare la Memoria».

Il Sole Domenica 25.5.14
La radice dell'antisemitismo
Per secoli il venerdì santo si pregava per i «perfidi» ebrei. La parola indicava gli infedeli, ma fece comodo l'ambiguità
di Sergio Luzzatto


Germania, agosto 1935. Entro l'idilliaco paesaggio alto-danubiano di Beuron, nel Baden, un oscuro professore di teologia sta profittando delle vacanze estive per studiare nella ricca biblioteca della locale abbazia benedettina. Erik Peterson (questo il nome del teologo) si era recentemente convertito dall'evangelismo al cattolicesimo e si era trasferito a Roma, dove tuttavia faticava a mantenere la famiglia. Per arrotondare il bilancio, proprio alla biblioteca dei benedettini tedeschi il professore esperto di patristica aveva accettato di vendere una parte dei suoi libri. E adesso - mentre il Reich hitleriano si prepara a promulgare le leggi antisemite di Norimberga - Peterson sta studiando un tema altrettanto erudito che attuale: il tema della «giudaica perfidia» nella liturgia cristiana del Venerdì Santo.
Da più di mille anni il programma liturgico della settimana pasquale comprendeva l'orazione Pro perfidis Judaeis. E da almeno cento anni la stigmatizzazione cristiana del popolo ebraico si era caricata, oltreché dell'antica sua connotazione teologica (il popolo ebraico come popolo eretico, perché incapace di riconoscere l'avvento del Messia), di moderne connotazioni morali, politiche, sociali: il popolo ebraico come popolo pericoloso, perché corrotto dal vile denaro e impaziente di dominio mondiale. Di contro a una deriva antisemita che precisamente nella Germania del Terzo Reich si va rivelando esplosiva, Erik Peterson non può maneggiare altro che le piccole armi della filologia storica per cercare, in qualche modo, di evitare l'irreparabile.
Da quella stessa abbazia benedettina di Beuron era partita verso il Vaticano, due anni prima, una forte lettera di denuncia dell'antisemitismo nazista. L'aveva scritta un'insegnante tedesca coetanea di Peterson che dall'ebraismo si era convertita al cattolicesimo, ma che non per questo sarebbe stata risparmiata dalla Soluzione finale: Edith Stein, futura suora carmelitana e futura santa. Per parte sua, il professor Peterson getta nella biblioteca di Beuron le basi di una ricerca, Perfidia judaica, che pubblicherà sulla rivista «Ephemerides liturgicae» nel 1936 e che finirà per pesare significativamente - ma soltanto dopo la distruzione degli ebrei d'Europa - nella storia della liturgia del Venerdì Santo.
Muovendo da un'ampia raccolta di testi antichi e medievali, Peterson argomentava come l'aggettivo latino perfidus fosse stato erroneamente interpretato, per secoli e secoli, nell'accezione di «perfido», mentre avrebbe dovuto essere tradotto nell'accezione di «infedele». Con l'orazione Pro perfidis Judaeis i cristiani del Medioevo non avevano inteso accusare gli ebrei di tralignamento morale: avevano inteso sottolinearne, semplicemente, la mancanza di fede (tanto è vero che il termine latino perfidia era stato da loro applicato anche a pagani, eretici, scismatici). Per il Peterson del 1935 si trattava dunque di incoraggiare la Chiesa affinché nei cosiddetti messalini, i libretti diffusi tra i fedeli e contenenti la traduzione dei testi liturgici nelle diverse lingue volgari, non si pregasse più per gli ebrei «perfidi» ma semmai per gli ebrei «increduli».
Italia, agosto 1935. Entro l'idilliaco paesaggio appenninico di Pieve S. Stefano, nell'Aretino, il più celebrato fra gli scrittori cattolici italiani - Giovanni Papini, autore nel 1921, da neo-convertito, della fragorosa Storia di Cristo - congeda il manoscritto di un racconto da pubblicare sulla rivista fiorentina «Il Frontespizio». Racconto intitolato La leggenda del gran rabbino e fondato sul dialogo tra un immaginario gran rabbino della diaspora, Sabbatai ben Shalom, e un altrettanto immaginario papa Celestino VI. Dove il rabbino offre al papa una conversione di massa degli ebrei al cattolicesimo, ma in cambio gli chiede la cancellazione dalla liturgia della Pasqua di qualunque riferimento al popolo ebraico come al popolo deicida. E dove, dietro il rifiuto del papa, il rabbino propone un nuovo, inaccettabile patto: in cambio della riforma del rito pasquale, il versamento alla Santa Sede di tutte le ricchezze accumulate nel mondo dagli ebrei...
Il racconto di Papini era impregnato degli stereotipi antisemiti che già avevano riempito, nel 1921, le pagine del bestseller Storia di Cristo. Né gli anni intercorsi dal momento della conversione né i drammatici effetti dell'avvento di Hitler al potere in Germania avevano placato i furori del neofita. Evidentemente, Papini si riconosceva ancora nella rappresentazione degli ebrei sul Golgota da lui consegnata alla Storia di Cristo: «Guardateli dunque, ancora una volta, quelli che ridono intorno alla croce dove Cristo è morso dai dolori!». «Vedete come protendono i musi annusanti, i colli nodosi, i nasi gobbi e uncinati, gli occhi predaci che sbucano dai sopraccigli setolosi. Osservateli quanto sono orridi in quelle pose spontanee d'implacata cainità. Contateli bene che ci son tutti, eguali a quelli che conosciamo, fratelli di quelli che incontriamo ogni giorno sulle nostre strade. Non manca nessuno».
Simultanee nel tempo, antinomiche nello spirito, queste due esperienze intellettuali - la ricerca filologica di Peterson sui testi liturgici, le variazioni letterarie di Papini sulla corruttela giudaica - contengono l'alfa e l'omega della vicenda ricostruita da Daniele Menozzi in un libro pubblicato ora dal Mulino. «Giudaica perfidia» (Uno stereotipo antisemita fra liturgia e storia, pagg. 248, € 22,00) è il primo tentativo sistematico di rendere conto delle fortune e sfortune del sintagma lungo cinque secoli di storia: dal Cinquecento ai giorni nostri, dalla riforma del messale romano promulgata da Pio V all'indomani del concilio di Trento alle misure di recupero di quello stesso messale emanate da Benedetto XVI nel 2007.
Il libro di Menozzi documenta, per l'appunto, la lunga durata di una polarità nella vicenda storica del cattolicesimo moderno e contemporaneo. Da un lato, i progressi di una sensibilità filosemita riconoscibile in certi ambienti dell'Europa cattolica già alla fine del Settecento, nell'età dei Lumi e della Rivoluzione. Dall'altro lato, la resistenza di una sensibilità antisemita che a tutt'oggi dimora negli ambienti integralisti e che percorre, su internet, le autostrade digitali dell'odio.
Il seme gettato da Erik Peterson a partire dalle sue ricerche nella biblioteca benedettina di Beuron fu raccolto dalla Chiesa soltanto dopo la tragedia della Shoah. Nel 1948, un vecchio amico di Peterson che riusciva ascoltato nei Palazzi Apostolici - Jacques Maritain, ambasciatore francese presso la Santa Sede - trasmise il saggio pubblicato dal teologo tedesco nel 1936 al sostituto alla Segreteria di Stato, Giovanni Battista Montini, richiamando la sua attenzione sul «vero senso della parola perfidus nella liturgia». E fu anche così che nel corso stesso del '48 Pio XII si risolse ad accogliere una delibera della Congregazione dei Riti secondo cui «non si disapprovava» la traduzione di perfidus come «infedele». Il che schiuse la via alle decisioni del successore di Pio XII sul trono petrino, Giovanni XXIII. Fin dal primo suo Venerdì Santo quale pontefice, il 27 marzo 1959, papa Roncalli ripulì la liturgia pasquale sia dall'aggettivo «perfidi» che dal sostantivo «perfidia». Dopodiché, la riforma ufficiale del messale latino venne formalmente sancita nel 1962.
Ma anche la pianta annaffiata dalla sensibilità di cattolici come Papini avrebbe trovato il modo di restare in vita nel secondo Novecento, e fin dentro il terzo millennio. Ad esempio presso i seguaci dell'arcivescovo tradizionalista francese Marcel Lefebvre, per dialogare con i quali papa Ratzinger ha compiuto il gesto, nel 2007, di riaprire le porte della Chiesa al messale tridentino di Pio V: sia pure in una versione depurata, senza più traccia di accuse esplicite contro i «perfidi giudei».

La Stampa 25.4.14
Il 15 maggio Vladimir Medinsky, ministro della Cultura russo, ha ricevuto il titolo di professore onorario dell’università Ca’ Foscari
Dopo la cerimonia Medinsky ha dichiarato che la procedura è stata una «sfida alle sanzioni»
«Con lui la cultura è serva della politica»
di Nadia Tolokonnikova

esponente del gruppo punk Pussy Riot

Non credo che l’università italiana si renda pienamente conto di cosa rappresenti Medinsky. Nulla di strano, è difficile conoscere perfettamente la situazione politica in tutti i Paesi del mondo. Innanzitutto, Medinsky è noto per la sua idea che «la Russia non è l’Europa». Come ministro è responsabile per lo spostamento della politica culturale russa verso il fondamentalismo nazionalista e clericale. Recentemente sono state pubblicate le «Basi della politica culturale statale», prodotte dal ministero della Cultura su ordine di Putin.
Questo documento è la giustificazione ideologica della politica di isolazionismo e del ritorno ai discorsi della Guerra fredda. La cultura viene interpretata in chiave conservatrice, la cultura è tradizione. Le sue funzioni di critica e riflessione non vengono riconosciute. Medinsky cita e parafrasa Mao Zedong: «Che fioriscano cento fiori, ma noi innaffieremo solo quelli che ci sono utili». Difende posizioni ultraconservatrici e antioccidentali. È asservito all’idea putiniana di promuovere l’immagine della Russia come impero senza colpe, che possiede a priori un prestigio morale e una superiorità spirituale rispetto a tutti gli altri Paesi.
Secondo: non è imbarazzante per l’Italia concedere un titolo a un uomo che in un’intervista accusa gli italiani di aver portato in Russia la vodka e le malattie veneree? A cosa serve a Medinsky il titolo di un Paese che ritiene amorale?
Terzo, si comporta come un omofobo. È di dominio pubblico il suo tentativo di «salvare l’onore» di Chaikovsky dichiarando che «non c’è alcuna prova che fosse omosessuale». Riguardo alla vittoria di Conchita Wurst all’Eurovisione (che io ritengo un successo importantissimo della performance di genere) ha detto: «Non so come spiegarlo ai bambini che hanno guardato il concorso. Cosa gli devo dire?».
Quarto, Medinsky è il responsabile del licenziamento del critico di architettura Grigory Revzin, uno dei primi intellettuali russi ad aver protestato contro la politica di Putin in Ucraina, da commissario del padiglione russo alla Biennale di Architettura.
Quinto, è autore di una serie di libri di propaganda sulla storia russa, nei quali sviluppa l’idea di Stalin come «manager efficiente», che vengono pubblicizzati e diffusi grazie a pressioni amministrative.
Sesto, la tesi di dottorato di Medinsky suscita troppi sospetti di plagio per essere considerata valida. Lo stesso Medinsky non nasconde che un approccio scientifico non fa per lui: «Dovunque si trovano divergenze storiche, e io prendo sempre il punto di vista che funziona meglio per il libro».
Ricapitoliamo. Medinsky è responsabile per aver trasformato la cultura russa in serva della politica, caratteristica propria dei regimi politici di stampo fascista. Vorrei esprimere la mia profonda riconoscenza agli attivisti e ai docenti italiani che si sono espressi contro il titolo di professore onorario per il ministro. Grazie per la vostra solidarietà e la capacità di accettare i problemi russi come se fossero vostri.

Corriere 25.5.14
Il video, poi il figlio del regista fa strage dalla Bmw nera
«Sono vergine, vi annienterò». Sei vittime in strada
di Guido Olimpio


WASHINGTON — Come altri sparatori folli, il giovane ha pianificato l’attacco e lo ha annunciato su YouTube con un video-manifesto. Un documento gonfio di rabbia contro le donne: lui chiedeva amore e sesso, ma le ragazze lo hanno «sempre respinto». Allora ha organizzato la sua «vendetta» uccidendo 6 persone e ferendone altre 7 a Isla Vista, località adiacente a Santa Barbara, in California. Infine l’ultimo atto. Lo scontro con la polizia, chiusosi con la morte del killer. Suicidio o forse un proiettile degli agenti. Con un risvolto che potrebbe provocare polemiche. La famiglia sostiene di aver avvisato le autorità su possibili atti violenti da parte del ragazzo.
Protagonista di questa pagina nera sarebbe Elliot Rodger. Figlio di Peter, aiuto regista di «The Hunger Games», studente universitario di 22 anni, benestante, con viaggi e vacanze costose, il ragazzo è preda della solitudine e di un malessere interiore. Lo si capisce da quanto scrive sul suo blog, ossessionato dalla mancanza di una ragazza e arrabbiato con il mondo. «Ho provato a inserirmi nella vita sociale — posta sul sito — Ma ultimamente non sono riuscito a farlo... Troppe persone hanno rovinato la mia vita». E, ripetendo il copione dei killer di massa, individua l’avversario nel prossimo. Sono gli altri — giura — la causa dei suoi problemi. E per questo devono pagare. Indiscrezioni ipotizzano anche che l’omicida avesse simpatie per un gruppo misogino estremista, ma è un aspetto sul quale non vi sono certezze.
Alla vigilia dell’attacco, Elliot piazza su YouTube un filmato terribile. È la spiegazione di quello che avverrà qualche ora dopo. «Questo è il mio ultimo video — dice seduto sull'auto con il volto che guarda il sole che tramonta — Domani è il giorno della punizione. Il giorno nel quale avrò la mia vendetta contro l’umanità, contro tutti voi». E indica il nemico nelle ragazze che «concedono affetto e sesso agli altri uomini ma non a me... Dopo 2 anni e mezzo di college sono ancora vergine e non ho mai ricevuto un bacio». Minacce accompagnate da sorrisi stonati e giudizi dove emerge l’ego dell’omicida che si definisce «Dio e gentiluomo eccezionale». Fissando il telefonino emette la sentenza: «Siete degli animali e come animali sarete sgozzati. Voi non avete mostrato compassione con me e io non la mostrerò con voi, vi annienterò». Parole non vuote, purtroppo.
Alle 21.27 di venerdì sera, Elliot scatena la guerra dove nessuno se lo aspetta. Sale sulla sua Bmw nera e percorre le strade di Isla Vista a velocità sostenuta. Poi inizia a sparare senza mai scendere dall’auto. Nella linea di tiro i ragazzi che affollano i molti ristoranti della zona. «Ho sentito i primi tre colpi — ci racconta al telefono Antonio Gerli, proprietario di Sorriso Italiano, un locale della zona — Quindi ho visto la gente scappare. Poi è spuntato un agente che mi ha detto di tornare al coperto». Il killer continua nella sua marcia di morte prendendo di mira chi vede sul marciapiede o dentro un bar. Forse investe anche dei passanti. E continua per quasi dieci minuti spargendo il panico in una classica «college town», cittadina che vive attorno al campus.
Alle 21.33 la storia ha il suo epilogo. Diverse pattuglie dello Sceriffo intervengono per fermare l’omicida. C’è un primo conflitto a fuoco, Elliot però riesce a sottrarsi alla cattura. Poi un breve inseguimento e la Bmw finisce contro una vettura parcheggiata. Circondato, il giovane spara di nuovo provocando la reazione degli agenti. Pochi istanti e tutto è finito. Lo studente giace privo di vita, ha una ferita letale alla testa.
La zona è transennata mentre gli investigatori si dedicano al profilo dell’omicida trovando il video su YouTube: «Riteniamo che sia collegato a quanto è avvenuto nelle strade di Isla Vista», è il primo commento dello Sceriffo, subito assistito dall’Fbi. Una prudenza nell’identificare l’assassino legata agli accertamenti di rito. Pochi dubbi, invece, sulla premeditazione: «Si tratta di una strage preparata».
Ora arriva il momento degli interrogativi. La famiglia Rodger — secondo il suo legale — aveva avvisato qualche settimana fa la polizia dopo aver scoperto video allarmanti dove Elliot parlava di suicidio e uccisioni. Gli agenti avrebbero fatto delle verifiche ma senza trovare riscontri. Bizzarra la spiegazione: «Non c’era storia di armi». L’altro elemento è l’emulazione. Il video di Elliot può diventare fonte di ispirazione per altri potenziali assassini.

Il Sole 25.5.14
L'economia non perde (quasi) mai la guerra
Dai conflitti non solo tragici effetti: ecco cosa le armi non distruggono
di Fabrizio Galimberti




La volta scorsa abbiamo parlato della terrificante peste nera del Trecento e dei suoi effetti sull'economia. Questa volta insistiamo sul filone catastrofico e parliamo dell'impatto economico delle guerre. Come nel caso della peste, non c'è bisogno di insistere sugli aspetti non economici: il carico di sofferenze, fisiche e psicologiche, di morti e di distruzioni è evidente e lascia cicatrici che non si rimarginano negli individui e nelle nazioni. Ma cosa dire degli effetti economici?
Il primo effetto è quello sui prezzi. L'offerta dei beni e servizi per i consumi quotidiani diminuisce. Anche prescindendo dalle distruzioni di capacità produttiva - fattorie e fabbriche - la partenza per il fronte dei soldati sottrae braccia e cervelli al processo produttivo. Derrate e altri beni si fanno più scarsi e i prezzi salgono. Il famoso generale e filosofo Sun Tzu, vissuto fra il VI e il V secolo a.C., scrisse ne L'arte della guerra: «Dove c'è l'esercito, i prezzi sono alti; dove i prezzi salgono, la ricchezza della gente diminuisce». L'inflazione, insomma, agisce come una tassa per pagare la guerra: sottrae potere d'acquisto alla gente e le risorse rese disponibili vengono dirottate a scopi bellici.
Ma allora, direte, gli effetti sull'economia non sono solo negativi. I soldi vanno a pagare gli stipendi ai soldati e questi, invece di guadagnare nei campi o nelle fabbriche avranno il soldo dei militari; e l'economia invece di produrre burro produrrà cannoni.
Vediamo il primo effetto. Il processo economico è un processo circolare: uno guadagna e spende, quello che spende diventa un incasso per il negoziante o il barbiere o per le imprese che producono la miriade di beni e servizi scambiati sul mercato, dai biglietti aerei agli affitti. Questi incassi a loro volta vengono spesi per produrre e il cerchio si chiude e comincia un nuovo giro. Ma perché tutto questo succeda e l'economia cammini bisogna, appunto, che i soldi vengano spesi: se sono messi sotto il materasso il circolo si interrompe e l'economia inciampa. Ora, capirete che il soldo dei militari non ha molte probabilità di essere interamente speso: questi sono troppo occupati a schivare pallottole per pensare ad andare al cinema o a comprare una giacca. Quindi gli effetti sull'economia sono negativi.
Veniamo al secondo punto. É vero, invece di produrre burro si producono cannoni. Ma il burro si può mangiare, i cannoni no. Soprattutto, i cannoni o le navi da guerra o i carri armati non sono beni produttivi. Un tornio può essere usato per fabbricare altre cose, ma i cannoni non fabbricano niente: sparano e seminano morte e distruzione. Distogliere risorse per fabbricare beni utili alla guerra non aggiunge niente alla capacità produttiva dell'economia: se quelle risorse fossero invece destinate a scuole, fabbriche, case, ospedali, sarebbe meglio per tutti.
E poi c'è la questione delle distruzioni: qui soccorre l'apologo della "finestra rotta" di Frédéric Bastiat (ne abbiamo già parlato nel Sole Junior del 1º aprile 2013). Quel geniale economista francese dell'Ottocento smontò gli argomenti di quanti dicevano che i vetrai devono pur vivere e che se qualcuno lancia un sasso nella vetrina del negoziante, pazienza: la perdita del negoziante sarà il guadagno del vetraio che deve riparare la finestra.
Questo argomento è sbagliato due volte. Primo, perché il negoziante che deve spendere per riparare la finestra avrà meno soldi per comprare altre cose – mettiamo, una camicia – e quindi ne soffrirà il venditore di camicie. Secondo, il Pil – Prodotto interno lordo, la misura del reddito di un Paese – viene calcolato al "lordo" degli ammortamenti, cioè della perdita di valore dei beni capitali (dai torni alle case), che si logorano con l'uso. Se una fabbrica viene distrutta d'un botto (un "ammortamento super-accelerato"), questa perdita, che è una vera perdita, non viene registrata dal Pil.
Allora, ci sono solo effetti negativi dalle guerre? Non è detto. Sapete che negli anni Trenta ci fu una "Grande depressione" che colpì sia l'America (in primis) che l'Europa. Ebbene, si dice spesso che l'economia americana uscì dalla Depressione solo con la Seconda guerra mondiale: le spese belliche iniettarono soldi nel sistema economico. In effetti, quando ci sono risorse inutilizzate – disoccupati e macchinari fermi – una iniezione di spesa pubblica è utile. Tornando all'esempio di prima, il negoziante dà lavoro al vetraio per la finestra rotta e compra lo stesso la camicia. E, naturalmente, aiutò molto il fatto che, anche se l'America combatté e molti soldati americani morirono (circa 400mila), il suolo americano non fu mai toccato dal conflitto.
Un altro effetto positivo sta nel rimbalzo. In Paesi toccati dalle devastazioni della guerra la fine delle sofferenze fa scattare una voglia di riscatto, uno slancio vitale che inaugura una nuova stagione di crescita. Intanto, le bombe hanno anche distrutto fabbriche e infrastrutture obsolete, e le ricostruzioni danno l'opportunità di ammodernare il tessuto produttivo e infrastrutturale.
Era il 1945, la Seconda guerra volgeva al termine, con la vittoria degli alleati, e Keynes, il grande economista, un anno prima di morire (è quasi un testamento...) scrisse: «Se per qualche sprovveduto equivoco geografico le forze aeree americane – è ormai troppo tardi per sperare qualcosa dai tedeschi – potessero distruggere ogni fabbrica nella costa del Nord-Est e nel Lancashire (in un'ora in cui dentro ci sono solo i manager e nessun altro), non avremmo niente da temere. Non vedo come potremmo altrimenti riguadagnare quella esuberante inesperienza che è necessaria, sembra, per aver successo...». Keynes disperava dell'industria inglese e vedeva salvezza e rinascita solo in questo fuoco purificatore!
Certo, i malefici della guerra sono di gran lunga superiori ai benefici, ma anche in questo caso è vero che non tutto il male viene per nuocere...

il Fatto 25.5.14
Berlinguer, ti voglio bene. Anche troppo
La contesa su leader del PCI. Occhetto: “una disputa sbagliata”
Grande dibattito in rete e tra i militanti
di Salvatore Cannavò


Enrico Berlinguer non ha mai avuto tanto “affetto” attorno come in questa campagna elettorale. Matteo Renzi e Beppe Grillo si sono urlati a vicenda insulti e sberleffi invitandosi reciprocamente a “sciacquarsi la bocca” nel pronunciare il nome del più amato segretario del Pci. Una sfida in nome dell’onestà e delle tradizioni con l’obiettivo di conquistare i voti dei delusi della sinistra. Emblema dello scontro, quel grido di decine di migliaia di persone che in piazza San Giovanni hanno scandito il nome dell’ex segretario comunista durante l’intervento di Gianroberto Casaleggio.
IERI MATTINA, su Twitter, termometro della “rete”, l’hastag dedicato a “Berlinguer” è stato tra i primi della giornata e i commenti si sono susseguiti in un rimpallo di rinfacci e insulti, tra piddini e pentastellati: “Non c’entra niente con voi, lui era un’altra storia”; “non basta prendere in braccio un buffone per ereditare Berlinguer”. O, ancora: “Grillo e Berlinguer? Come se Moana Pozzi si rifacesse a Maria Goretti”. Altrettanto sferzanti le risposte: “Inneggiano a Berlinguer e attaccano l’Unità”; Sciacquatevi la bocca con la candeggina” fino al bipartisan: “Giù le mani da Berlinguer”.
Al gioco di Twitter hanno partecipato anche personaggi più noti, come l’editorialista di Repubblica, Vittorio Zucconi: “Casaleggio erede di Berlinguer? Come se Salvini fosse l’erede di Martin Luther King”. Oppure Erri De Luca che, riferendosi alla piazza di San Giovanni l’ha equiparata a una “seduta spiritica”. Paolo Flores d’Arcais in un tweet di Micromega, sottolinea invece che “una sola piazza ha scandito ‘Berlinguer, Berlinguer’, assumendo la questione morale come propria bandiera”. Chi era in quella piazza l’altra sera e si è “emozionato moltissimo” è Giuseppe Zupo, berlingueriano convinto, responsabile Giustizia del Pci ai tempi del caso Moro, “comunista di formazione marxista e gramsciana”. E oggi “grillino”, convinto che ci sia “una continuità ideale fortissima” tra Berlinguer e il Movimento Cinque Stelle. Non solo per il richiamo all’onestà e alla moralizzazione della politica ma anche perché, spiega al Fatto, “il M5S raccoglie il testimone di quella prospettiva socialdemocratica cui guardava Berlinguer. Una socialdemocrazia basata sulle esigenze e la rabbia popolare”. Zupo ha rilasciato un’intervista a Micromega in cui, per primo, ha lanciato questo parallelo, scandalizzando il mondo dell’ex Pci. Ora continua a difenderlo, utilizzando un’immagine efficace: “Se, per miracolo, Berlinguer potesse tornare, magari sotto mentite spoglie, irriconoscibile come Ulisse e volesse fare politica partendo da zero, non se lo filerebbe nessuno”. Difficile dargli torto ma, colui che di Berlinguer, è stato il vice per poi divenire segretario del Pci, Achille Occhetto, propone un giudizio più equilibrato e politico. “Questo modo di stiracchiare la figura di Berlinguer non fa onore né a Renzi né a Grillo”. Per Occhetto “Berlinguer non può essere ridotto, come fa Grillo, giustamente, alla sola volontà moralizzatrice” mentre “il tentativo di Renzi di paragonare il ‘compromesso storico’ alle attuali larghe intese “grida vendetta”. Insomma, “i due tentativi sono entrambi sbagliati” e per quanto “ascoltare una piazza che inneggia a Berlinguer al grido di ‘onestà’ lasci senz’altro un’impressione positiva”, Occhetto non pensa che la cultura berlingueriana abbia mai potuto sfociare nella scelta grillina. “Berlinguer non era solo protesta ma anche progettualità” e in questo l’autore della “svolta” riscontra “due visioni diverse”. Zupo, dal canto suo, rivendicando la propria formazione comunista, invita “a non farsi sotterrare dai morti” e a guardare al “nuovo”: “Grillo ha aperto una porta, sta anche a noi utilizzarla. Per Occhetto invece, Grillo continua a essere “la febbre” di un sistema malato che andrebbe ricostruito. Ma su altre basi. E Berlinguer, sarebbe meglio lasciarlo riposare in pace.

Repubblica 25.5.14
Achille Occhetto
“Bene le piazze piene, ma mancano i pensieri lunghi”
di Goffredo De Marchis


ROMA. Anche Achille Occhetto è attivo sui social media. Posta le sue riflessioni politiche su Facebook e Twitter alternandole a pensieri più privati. Ieri per esempio ha scaricato la foto del suo micio usandola come scherzosa dichiarazione di voto: «Oltre i quattro gatti di Tsipras». Ma l’ultimo segretario del Pci, il primo del Pds, l’autore della Svolta, meglio del web, conosce le piazze, tornate centrali in questa campagna elettorale. «Non esisteranno mai campagne elettorali senza la partecipazione diretta della gente. Il fatto che i cittadini si riuniscano, organizzino assemblee o ascoltino comizi ha un valore positivo. Però la piazza va usata meglio di così».
Non è sempre stata un luogo di toni alti, a volte violenti? «No, non così. Era molto diversa. Per me questa è stata la peggiore campagna elettorale della storia della repubblica, tutta fondata sullo scontro personale e sull’insulto che ha messo totalmente in secondo piano l’oggetto fondamentale per cui si va a votare, l’Europa. I tre partiti principali l’hanno interpretata in questo modo. Paradossalmente, le forze più piccole hanno invece rifiutato il teatrino del dileggio concentrandosi sul tema vero. Con posizione giuste o totalmente sbagliate, Tsipras, la Meloni, la stessa Lega e persino l’Ncd hanno parlato dei problemi europei, che ormai sono entrati nella vita di tutti i giorni».
E gli slogan pesanti della propaganda elettorale nella Prima repubblica? Gli scontri epici tra Dc e Pci?
«Nei comizi io ricordo al massimo delle battute, il più delle volte scherzose nei confronti dell’avversario politico. Quelli della mia età si ricordano la verve di Pajetta. Bene, non l’ho mai sentito usare la parola «assassino» o «Hitler» o «burattino». Nemmeno i democristiani avevano questi toni contro di noi. E in caso di eccezioni, non diventavano il centro delle Sul web va peggio, lo sa? Lì gli insulti sono all’ordine del giorno.
campagne elettorali».
«Infatti considero la piazza di Grillo una proiezione del web. E del suo linguaggio. Non è la folla che lo spinge all’insulto, nel caso del comico è diventato un modo studiato di affrontare l’avversario. Il problema è che Renzi ha tentato di competere con Grillo. Sul piano numerico con un certo successo, anche le sue piazze erano piene. Hanno occupato la scena mediaticamente con il loro duello e questo è servito da richiamo per le folle. La proiezione delle piazze democristiane e comuniste era molto diversa. Venivano lubrificate da organizzazioni preparate, da dibattiti preparatori».
Rimpianti?
«No. Non hanno senso. Ci troviamo di fronte a una società profondamente cambiata, liquida, che non si forma più intorno a famiglia, fabbrica e chiesa. Non mi spaventa il cambiamento delle forme della politica ma l’abbassamento dei contenuti. Le piazze di Berlinguer e anche le mie erano molto grandi, maggiori di quelle che ho visto in televisione, ma Berlinguer faceva delle grandi lezioni al popolo che lo ascoltava in silenzio. Lo stesso si può dire di Aldo Moro. Di certi pensieri lunghi, ecco sì ho una certa nostalgia».

La Stampa 25.4.14
L’eredità di Berlinguer e la superiorità etica nella sfida Renzi-Grillo
di Fabio Martini


Beppe Grillo se lo è annesso e Matteo Renzi gli ha risposto che prima di parlare di Enrico Berlinguer «dovrebbe sciacquarsi la bocca»: una diatriba in gran parte comprensibile se si pensa che il leader comunista resta un’icona nell’immaginario di gran parte dell’opinione pubblica di sinistra. Icona rinfrescata dal recente anniversario dei trenta anni dalla morte di Berlinguer, occasione per celebrazioni in gran parte acritiche, se non agiografiche, a cominciare dal film di Walter Veltroni, che peraltro ha ottenuto un buon risultato al botteghino, ottimo per un documentario.
Un mito che però già qualche anno è stato rivisitato con accenti fortemente critici proprio da parte di studiosi di cultura comunista, che hanno rimproverato all’ultimo Berlinguer una responsabilità politica rilevante. Quella di aver trasformato la sacrosanta denuncia della questione morale in qualcosa di ben diverso: l’affermazione di una presunta diversità e superiorità morale dei comunisti, non soltanto rispetto agli avversari politici ma anche rispetto ai loro elettori. Una presunzione di superiorità rivendicata, in forme diverse, dai tanti eredi di Berlinguer, la generazione di D’Alema, Occhetto, Veltroni e Bersani.
Ma ora quel processo di rivisitazione storica ha trovato una sistemazione critica in un saggio scritto da Claudia Mancina, «Berlinguer in questione», pubblicato dall’editore Laterza. Docente di Etica alla Sapienza di Roma, Mancina (che fa parte della Direzione del Pd), racconta come Berlinguer sia stato un «leader carismatico, dotato di un’autorità oggi impensabile» e che fu un capo diverso dai suoi predecessori nel Pci perché «capace di ricavarsi un profilo incomparabilmente più umano, più comunicativo, che lo rese accetto anche a chi non avrebbe votato comunista». Dopo la vittoria elettorale del 1976, Berlinguer realizzò un accordo con la Dc, un accordo che nella concezione del compromesso storico, non immaginava come «transitorio», ma invece «organico», facendo leva su una impossibile «terza via», incarnata da un eurocomunismo «anticapitalistico e democratico».
Il governo della solidarietà nazionale però finisce male, la base comunista non lo digerisce e per giustificare un drastico cambio di linea politica, Berlinguer «scarta sull’etica»: punta sull’«austerità» come lotta «all’individualismo e al consumismo», in una «assurda demonizzazione» di consumi elementari che avevano indotto il «severo Giorgio Amendola» a vedere nella Seicento, nella lavatrice e nel frigorifero «gli emblemi della espansione monopolistica». E nel 1981, «provando a spezzare un doppio isolamento, nel partito e nel sistema politico», Berlinguer indica come prioritaria la «questione morale», affermando la «diversità» dei comunisti, ma così ignorando che quella stortura non era una «degenerazione», ma un «problema strutturale del sistema politico», dal quale non può essere indenne nessun partito, come dimostreranno gli anni successivi. Scrive Mancina: «La drammatica morte sul palco di un comizio salvò Berlinguer da un triste declino e lo consegnò al mito», anche se la generazione successiva, da Occhetto a Bersani, «ha trovato nella denuncia morale un comodo surrogato all’azione politica». Claudia Mancina ha ripreso una lunga elaborazione critica alla quale hanno dato il loro contributo intellettuali (Silvio Pons, Miriam Mafai, Andrea Romano) e politici (Iginio Ariemma, Piero Fassino, Antonio Funiciello), un solco che per ora non ha fatto breccia neppure nel Pd di Matteo Renzi, che di Berlinguer in queste ore ha rivendicato il lascito universale (la denuncia della questione morale), per ora glissando sull’eredità più controversa, quella della superiorità etica della sinistra.
Beppe Grillo se lo è annesso e Matteo Renzi gli ha risposto che prima di parlare di Enrico Berlinguer «dovrebbe sciacquarsi la bocca»: una diatriba in gran parte comprensibile se si pensa che il leader comunista resta un’icona nell’immaginario di gran parte dell’opinione pubblica di sinistra. Icona rinfrescata dal recente anniversario dei trenta anni dalla morte di Berlinguer, occasione per celebrazioni in gran parte acritiche, se non agiografiche, a cominciare dal film di Walter Veltroni, che peraltro ha ottenuto un buon risultato al botteghino, ottimo per un documentario.
Un mito che però già qualche anno è stato rivisitato con accenti fortemente critici proprio da parte di studiosi di cultura comunista, che hanno rimproverato all’ultimo Berlinguer una responsabilità politica rilevante. Quella di aver trasformato la sacrosanta denuncia della questione morale in qualcosa di ben diverso: l’affermazione di una presunta diversità e superiorità morale dei comunisti, non soltanto rispetto agli avversari politici ma anche rispetto ai loro elettori. Una presunzione di superiorità rivendicata, in forme diverse, dai tanti eredi di Berlinguer, la generazione di D’Alema, Occhetto, Veltroni e Bersani.
Ma ora quel processo di rivisitazione storica ha trovato una sistemazione critica in un saggio scritto da Claudia Mancina, «Berlinguer in questione», pubblicato dall’editore Laterza. Docente di Etica alla Sapienza di Roma, Mancina (che fa parte della Direzione del Pd), racconta come Berlinguer sia stato un «leader carismatico, dotato di un’autorità oggi impensabile» e che fu un capo diverso dai suoi predecessori nel Pci perché «capace di ricavarsi un profilo incomparabilmente più umano, più comunicativo, che lo rese accetto anche a chi non avrebbe votato comunista». Dopo la vittoria elettorale del 1976, Berlinguer realizzò un accordo con la Dc, un accordo che nella concezione del compromesso storico, non immaginava come «transitorio», ma invece «organico», facendo leva su una impossibile «terza via», incarnata da un eurocomunismo «anticapitalistico e democratico».
Il governo della solidarietà nazionale però finisce male, la base comunista non lo digerisce e per giustificare un drastico cambio di linea politica, Berlinguer «scarta sull’etica»: punta sull’«austerità» come lotta «all’individualismo e al consumismo», in una «assurda demonizzazione» di consumi elementari che avevano indotto il «severo Giorgio Amendola» a vedere nella Seicento, nella lavatrice e nel frigorifero «gli emblemi della espansione monopolistica». E nel 1981, «provando a spezzare un doppio isolamento, nel partito e nel sistema politico», Berlinguer indica come prioritaria la «questione morale», affermando la «diversità» dei comunisti, ma così ignorando che quella stortura non era una «degenerazione», ma un «problema strutturale del sistema politico», dal quale non può essere indenne nessun partito, come dimostreranno gli anni successivi. Scrive Mancina: «La drammatica morte sul palco di un comizio salvò Berlinguer da un triste declino e lo consegnò al mito», anche se la generazione successiva, da Occhetto a Bersani, «ha trovato nella denuncia morale un comodo surrogato all’azione politica». Claudia Mancina ha ripreso una lunga elaborazione critica alla quale hanno dato il loro contributo intellettuali (Silvio Pons, Miriam Mafai, Andrea Romano) e politici (Iginio Ariemma, Piero Fassino, Antonio Funiciello), un solco che per ora non ha fatto breccia neppure nel Pd di Matteo Renzi, che di Berlinguer in queste ore ha rivendicato il lascito universale (la denuncia della questione morale), per ora glissando sull’eredità più controversa, quella della superiorità etica della sinistra.

l’Unità 25.5.14
La guerra nascosta delle donne
Il ruolo delle partigiane non è stato ancora definito nella sua interezza
Nel ‘45 Togliatti disse: meglio che le donne non sfilino alla manifestazione perché il popolo non capirebbe
di Lidia Menapace


NON È UN RAGIONAMENTO PARTICOLARMENTE RAFFINATO O SOTTILE, MA IN COMPENSO APPARTIENE ALL’ESPERIENZAVISSUTACONGRANDEADERENZA: POICHÉLEDONNESONOSEMPRELEMADRILEMOGLI LE FIGLIE LE SORELLE LE NONNE LE CUGINE DI TUTTI QUELLI CHE NELLE GUERRE MUOIONO DI UNA MORTE DATA CONLA VOLONTÀ DI UCCIDERE ATTRAVERSO STRUMENTI FABBRICATI APPOSTA PER QUEL FINE, e le donne d’altra parte mettono al mondo quei padri mariti figli fratelli nipoti cugini che nelle guerre vengono in gran copia uccisi, la relazione delle donne con le guerre non può mai essere «tranquilla», «indifferente», «comprensiva», «giustificativa».
Tuttavia questa contraddizione non sanabile, poco si è espressa, poca voce ha avuto, poca parola ha chiesto.
Le guerre non solo hanno sempre distrutto vite affetti memorie case città relazioni: esse hanno addirittura modificato i territori e la loro organizzazione, hanno sradicato le popolazioni dal luogo in cui vivevano e così via elencando.
Sicché particolarmente ipocrita sembra la definizione che gli antichi romani ne davano, quella per cui i soldati al fronte salvavano i segni della religione e i focolari delle famiglie: combattevano infatti «pro aris et focis».
Questa miserabile scusa perde addirittura senso, diventa sfacciata senza mediazioni possibili, quando viene dichiarato nella metà del secolo scorso che la guerra deve essere totale, cioè coinvolgere direttamente anche l’intera popolazione civile e i suoi insediamenti.
È una delle affermazioni seguita da pratiche incessanti che durante la guerra di Spagna la Luftwaffe di Hitler sperimenta sul comune basco di Guernica: una ondata di orrore coglie l’Europa - a parte Italia e Germania che non possono esprimere niente: e Picasso rappresenta la tristezza la miseria la disumanità di quel bombardamento, che resta per sempre legato al cavallo impaurito, alla lampadina pendente, alle miserabili care cose distrutte: non c’è più casa, non si può più morire «pro focis». Anche le donne, le loro case, le loro cose, sono direttamente esposte alla violenza della guerra dal cielo.
È il primo bombardamento aereo sulla popolazione civile in Europa. Precedenti esperimenti di quel tipo erano stati fatti nelle guerre coloniali (anche in Libia) e sembra che non abbiano suscitato simili reazioni, dato che le popolazioni delle colonie erano considerate inferiori.
Così l’orrore della guerra si mescola a quello dell’incipiente razzismo che spopolerà l’Europa della seconda guerra mondiale.
E diventa infettivo: si bombardano selvaggiamente le città europee, Londra viene «coventrizzata» dagli aerei dell’Asse, ma Dresda viene distrutta dalle Fortezze volanti statunitensi e inglesi. La disumanità diventa infettiva e alla fine le due prime atomiche vengono scaricate sul Giappone già vinto.
Da allora nella storia e nelle coscienze si annida il rischio della distruzione del mondo. Uno dei pochi segni di speranza sta nel secondo comma dell’articolo 11 della nostra Costituzione, là dove si afferma che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali», cioè anche in caso di controversie nelle quali avessimo ragione.
E non è certo un caso che questa affermazione che fa onore alla legge italiana usi un verbo inusuale nei testi giuridici, «ripudiare»: le donne sanno bene il carico di disprezzo disgusto ripulsa che il ripudio comporta.
Ero staffetta, durante la Resistenza, figlia di un prigioniero politico, compagna di scuola di ragazzi che combattevano il Fascismo, sorella di un bimbetto che cresceva sotto i bombardamenti. Tra le varie cose che trasportavo per chilometri a bordo della mia scassata bicicletta, c’erano i fogli della stampa clandestina: informare, far conoscere, far circolare le idee «altre».
È un po’ quello che, seppur fortunatamente in condizioni di libertà e democrazia, fanno oggi i piccoli editori indipendenti. Quelli che pubblicano i libri di cui magari poco si parla in tv o sulla stampa, che magari con difficoltà si trovano in libreria, che non appartengono ai grandi gruppi i quali detengono marchi editoriali, catene di librerie, società di distribuzione, giornali, televisioni assicurazioni e qualcos’altro ancora; grandi gruppi i quali da tale posizione di privilegio distorcono il mercato - occupandolo «manu militari», verrebbe da dire - e impongono le loro condizioni finanziarie.
I piccoli editori sono portatori di punta di vista «altri», siano versi di poesia, o filosofie, o storie non convenzionali. Sono imprenditori, certo, e devono far quadrare i bilanci come in qualsiasi impresa; ma possono fare investimenti culturali senza dover dare conto a manager che si occupano dei libri come se fossero saponette. Possono provare a resistere, a non dimenticare il valore politico del loro lavoro.
Sono questi gli editori che a dicembre, da oramai 12 anni, si ritrovano a Più Libri Più Liberi a Roma, la fiera dell’editoria indipendente che riunisce oltre 400 case editrici e la quale è diventata così importante, significativa, tra i maggiori appuntamenti culturali italiani, che ora ha voglia di crescere, di camminare, di andare a zonzo per l’Italia. Ed è arrivata a Gorizia, dove si parla di Storia nel Festival è Storia, e Più Libri Più Liberi è diventata Circus, per raccontare le sue storie, quelle che forse sono più difficili da trovare.
Facevo la staffetta, durante la Resistenza, insieme con tante altre: a portare messaggi, a trasportare armi ed esplosivo, a distribuire stampa clandestina, o anche col mitra alla macchia. Una questione non risolta nella Resistenza e nella sua storiografia è quella del posto e del riconoscimento delle donne.
Certo ancor più mi disturba e mi disturbava già allora l’imbarazzo e i giudizi della dirigenza resistenziale. Si sa che quando si organizzò la grande manifestazione a Milano dopo la Liberazione, Togliatti disse che era meglio che le donne non sfilassero «perché il popolo non avrebbe capito»: andava bene che le donne sopportassero come e più degli uomini la guerra, ma… con discrezione.

La Stampa 25.5.14
Salvate Nobile, lo ordina l’assicurazione
Perché l’esploratore italiano fu soccorso per primo, nel giugno del 1928,
tra i ghiacci del Polo Nord: la verità emerge da un museo delle isole Svalbard
di Vittorio Sabadin

qui

Repubblica 25.5.14
Leadership e audience
Democrazia a rischio con Internet
di Nadia Urbianti


L’invenzione di Internet e la sua economicità e facilità d’uso cambiano la fisionomia della democrazia rappresentativa, una forma di governo per mezzo del consenso elettorale e dell’opinione organizzata mediante partiti e media. Questa rivoluzione accade in un tempo di altre trasformazioni epocali: quelle relative alle società di mercato e capitalistiche, insofferenti dei lacci imposti dal governo della maggioranza, e sempre meno disposte ad accettare di moderare le diseguaglianze consentendo politiche redistributive e una tassazione progressiva. Assistiamo oggi a un’inasprimento delle diseguaglianze di classe al punto che gli stessi economisti riconoscono come la ricchezza tenda a concentrarsi in pochissimi e a non produrre più sviluppo per i molti.
Le nostre società oscillano tra il rischio di trasformazione oligarchica e autoritaria delle sue leadership e la non volontà di garantire a tutti i cittadini lo stesso diritto di contare e di essere rappresentati e, dall’altro, la convinzione di molti cittadini che Internet offra la possibilità di risolvere questi problemi e combattere il privilegio come ormai i partiti non fanno più. In Islanda, il Paese dal quale la crisi del 2008 è partita, i cittadini hanno cercato di riscrivere la costituzione servendosi della partecipazione via Facebook e Twitter, aggirando i partiti, diventati parte del problema perchè essi stessi oligarchici. Il successo di Matteo Renzi si è consumato e si consolida sui social network. Ma l’esempio più dirompente viene dal Movimento 5 Stelle, un partito-non-partito, o webparty, che ha contestato alla radice i due corpi intermedi sui quali si è costruita la democrazia rappresentativa: il partito politico strutturato e il giornalismo professionale.
Internet sembra dunque consentire una selezione della leadership fuori dalla mediazione dei partiti. Ma ci sono almeno due problemi: la democrazia dei cittadini rischia di essere soppiantata da quella dell’audience, un’entità indistinta e generata da chi la muove, la provoca e la cerca, ovvero da chi ha l’ambizione della leadership; il leader che incontra il pubblico di Internet non deve rendere conto al partito ma al pubblico che egli stesso alimenta fino al punto di essere egli stesso il popolo che crea via Twitter. Inoltre, Internet è aperta a tutti, ma il suo popolo è comunque una minoranza, non meno di quella che formava i partiti. La democrazia via Internet sembra annullare la distanza tra cittadini e istituzioni e rilanciare la cittadinanza diretta e invece genera nuovi livelli di mediazione e di potere, per ora meno controllabili di quelli in uso nei partiti perché senza statuti, organi dirigenti eletti e regole di partecipazione e decisione. I due problemi sono sintomatici di una trasformazione della democrazia rappresentativa in plebiscito permanente via-rete che non necessariamente premia l’inclusione di tutti né distribuisce il potere della voce più equamente, come promette di fare.

Repubblica 25.5.14
Eugenio Borgna
“L’anima non guarisce mai del tutto le resta sempre accanto un’ombra”
Dagli studi universitari all’interesse per quei malati un tempo tenuti ai margini lo psichiatra racconta come è cambiata la disciplina
“Dal dolore occorre uscire, ma guai a non conoscerlo”
intervista di Antonio Gnoli



LA PRIMA cosa che viene in mente osservando Eugenio Borgna, mentre è ad attendermi alla stazione di Novara, è il suo spiccato senso di gentilezza. Nelle movenze dinoccolate di quest’uomo alto e asciutto, che flette lieve verso l’altro come un giunco, si coglie la disponibilità rara dell’ascolto. Ci fermiamo, vista l’ora di pranzo, a un ristorante gradevole e semivuoto: «Qui veniva Scalfaro», ricorda Borgna. E ho l’impressione di un altro tempo. Che è la medesima sensazione che provo nella casa di questo grande psichiatra: vasta, spoglia, ma anche sovraccarica di libri. Come congelata in un altro tempo. Forse più prezioso. Più intimo. Certamente meno duro e perfino più fragile. Proprio al tema della fragilità Borgna ha dedicato un libretto ( La fragilità che è in noi, edito da Einaudi) ricco di considerazioni tenui. Intonate al pastello più che all’acido; alle sfumature più che ai tratti decisi. Ho l’impressione che il pensiero di quest’uomo si svuoti dell’aggressività necessaria in una società votata all’urlo e alla chiacchiera.
Cosa rappresentano le parole per un medico come lei?
«Le parole hanno un immenso potere. Ci sono parole troppo dure e violente. Troppo inumane. Che i medici, non tutti per fortuna, rivolgono al malato. E ci sono parole in grado di aiutare l’altro. Le mie parole sono state anche domande a me stesso e agli altri. Sono i dubbi e le incertezze che ho seminato lungo la mia lunga vita».
Che ha avuto inizio dove?
«A Borgomanero, a una trentina di chilometri da qui. Vi ho trascorso la mia infanzia e poi l’adolescenza. Interrotta bruscamente quando i tedeschi nel 1943 occuparono la nostra casa. Mio padre, avvocato, faceva parte della Resistenza. E noi, sei figli, con mia madre che teneva in braccio l’ultimo nato, ci avviammo a piedi verso la collina dove protetti da un parroco ci nascondemmo».
Quanto durò?
«Sei mesi. Tornammo per constatare che la casa era stata distrutta. A poco a poco la vita riprese. La scuola, poi il liceo, infine l’Università a Torino e la specializzazione a Milano nella prima clinica per le malattie nervose».
Perché quel tipo di scelta?
«Sulle orme paterne avrei potuto fare l’avvocato. O magari il letterato avendo divorato i libri della biblioteca di mio padre. Ma compresi, grazie anche alla letteratura e alla poesia, che occuparsi delle persone che stavano male poteva dare un senso più autentico alla mia esistenza».
Essere autentici è un dovere?
«Diciamo che avvertivo il desiderio di una verità più grande di quella che di solito osserviamo».
Mi faccia capire.
«Dopo un po’ che frequentavo la Prima clinica mi accorsi che esistevano due tipi di pazienti, ben distinti: neurologici e psichiatrici. Questi ultimi erano ignorati».
Perché?
«Si pensava che solo le malattie del cervello meritassero attenzione. Mentre a me interessava relativamente quel tipo di indagine. E fu attraverso quei pochi pazienti psichiatrici, tenuti ai margini, che scoprii un mondo di dolore e di sofferenza che mi parve più autentico di quello biologico e organicistico».
Non le bastava la verità clinica?
«No, desideravo toccare una verità più esistenziale. Non volevo l’oggettività del neurologo. Ero portato ad ascoltare la sofferenza e l’angoscia come aspetti di una soggettività più complessa. Avevo 32 anni e una libera docenza che mi dischiudeva le porte per una grande carriera milanese».
E invece?
«Decisi — tra lo sconcerto dei colleghi, dei superiori e degli amici — di accettare il posto di direttore del reparto femminile dell’ospedale psichiatrico di Novara. Quando entrai vidi all’esterno degli enormi giardini. Mi accompagnava un silenzio assoluto. E malgrado fosse inverno le finestre dell’ospedale erano spalancate. Con i pazienti che guardavano fuori».
Una scena irreale?
«Sembravano le marionette di un teatro dell’assurdo. Ma era niente rispetto alla situazione che trovai all’interno. Quello che vidi fu raccapricciante: i pazienti legati o rinchiusi in spazi asfissianti. Le urla e i lamenti. Era agghiacciante. Sembrava di essere in un carcere crudele e senza senso. So bene che oggi la situazione è cambiata, ma allora, nei primi anni Sessanta, fu sconvolgente constatare che c’erano esseri umani cui era stata tolta la dignità del vivere».
Come reagì?
«Provai una profonda vergogna. E al tempo stesso capii che avevo fatto la scelta giusta. Provai a cambiare la situazione. Aprii le porte e vietai l’uso dei letti di contenzione. Nessun paziente poteva più essere legato. Chiamai da Milano alcuni assistenti con i quali avevo lavorato e che avevano, come me, combattuto contro certi metodi».
Metodi comunque fondati su una lunga tradizione clinica.
«Certo. In quelle decisioni non c’era malvagità, ma tanto pregiudizio. Meglio: l’incapacità di capire veramente cosa si nasconde nella follia».
Non è facile trovare un varco per la comprensione.
«Non lo è finché ci si rifiuta di pensare alla schizofrenia come a una forma di esistenza. Certo diversa dalla nostra normalità, ammesso che esista, ma pur sempre esistenza vitale».
Lei dice: la schizofrenia è un mondo vitale. Cosa ha trovato in quel mondo?
«La schizofrenia è una delle forme di sofferenza più enigmatiche e strazianti che si conoscano. Si radica, per lo più, nella crisi esistenziale segnata dal passaggio dall’adolescenza alla giovinezza».
Si insinua nel mutamento degli orizzonti di vita?
«Esattamente. E può essere vista come un’anarchica e totale perdita di senso, oppure essere riconosciuta, compresa e utilizzata solo se si riesce a guardarla con un forte atteggiamento interiore».
Intende dire che ci si deve porre alla stessa altezza della malattia?
«Intendo dire che le radici della malattia sono esistenziali e non cliniche. E questa convinzione fa venir meno il rapporto asimmetrico tra medico e paziente».
Ma è pur sempre il medico che decide per l’eguaglianza. Non il paziente.
«È vero. Ma con quella decisione è il medico a mettersi in discussione. Negli anni della mia professione ho capito che o si tenta di rivivere le cause del dolore e dell’angoscia degli altri, con tutte le risonanze e i rischi personali, oppure si è destinati al fallimento».
C’è un modo certo per registrare questo fallimento?
«La nostra maschera portata davanti a chi vive immerso in una condizione schizofrenica è immediatamente percepita nella sua insopportabile finzione e lontananza».
Cos’è per lei la guarigione?
«Parlando di guarigione in psichiatria c’è il rischio di sconfinare in una segreta violenza».
Cioè?
«Intesa in senso dogmatico la guarigione vorrebbe sanare tutto; risolvere ogni problema legato alla malattia».
E invece?
«La guarigione assoluta, in psichiatria, è solo un gesto totalitario. L’altra faccia, se vuole, del modo in cui la scienza dell’anima si è lungamente accanita sul corpo del malato. Senza pudore né dignità. Personalmente sono convinto che la guarigione avvenga anche quando i sintomi della malattia continuano a manifestarsi. Si può guarire continuando ad avere accanto quest’ombra».
Non ha mai temuto di essere lei stesso avvolto o sfiorato da quell’ombra?
«Mi sta chiedendo se il peso di ciò che ho sostenuto in questi lunghi anni mi abbia in qualche modo coinvolto più del dovuto?».
Sì. Nel senso che se si fa propria la sofferenza del paziente cade ogni distinzione.
«Viene meno la distanza e con essa ci si apre alla sofferenza dell’altro. Penso anche che la sofferenza sia una condizione necessaria alla via della conoscenza» .
Ma è una domanda più diretta che vorrei farle e che spieghi la sua “posizione scomoda”: ha mai sofferto di depressione?
«Sì, è un universo che in alcune fasi della mia vita mi ha inghiottito».
E cosa si prova?
«Nella depressione si vive come sprofondati nel passato. Non si vede più il futuro né la speranza. Si blocca la percezione del cambiamento; si sprofonda nelle cose avvenute che non mutano mai. E poi affiora l’esperienza fiammeggiante della colpa: una delle ragioni del nostro strazio. Ma nei miei quarant’anni di manicomio ho imparato che ci sono tante forme di depressione a seconda dei nostri caratteri e delle nostre emozioni. Teresa di Lisieux vedeva nella malinconia il sentiero per conoscere Dio».
C’è un nesso tra psichiatria e misticismo?
«Ovviamente no se si considera la psichiatria solo una scienza positiva. Ma le esperienze mistiche ci inducono a riflettere sugli abissi dell’anima, sulle sue lacerazioni. E non può immaginare quante volte mi sia trovato davanti alle oscure notti dell’anima».
Si nota quasi un desiderio di ricorrere alla religione.
«Non alla religione in quanto tale. Ma a certe sue pratiche: voler camminare con l’altro, immedesimarsi nell’altro. Si parla tanto di etica. Dove pensa debba stare tra il cuore di ghiaccio e il cuore segnato dal dolore? Dalla sofferenza occorre uscire. Ma guai non averla mai provata in vita».
Crede in Dio?
«Credo in senso pascaliano all’idea del mistero. Non credo a un Dio razionale che ordina il mondo. Oltretutto, visti i risultati, sarebbe stato un pessimo architetto. Ciascuno deve fare bene il proprio lavoro».
E il suo, ora che non ha più l’ospedale?
«Continuo a dedicare parte del mio tempo ai pazienti. Senza di loro mi sarei trasformato in un piccolo funzionario. Decida lei se del bene o del male».
E il resto della giornata che fa?
«Leggo e scrivo i miei libri. È un’altra maniera di raccontare il dolore e le fragilità umane. A volte per mesi non riesco a scrivere. È come se il buio calasse in me. Durò a lungo dopo la scomparsa di mia moglie».
Cosa accadde?
«Soffriva di una malattia autoimmune. Se la trascinò per buona parte della vita. E provai spesso dolore e disperazione. Morì 14 anni fa. Era una psichiatra infantile. Con un carattere molto dolce. Ancora oggi ne avverto il vuoto».
Cos’è la mancanza?
«Qualcosa che ci accompagna per sempre e che cerchiamo disperatamente di mettere tra parentesi. Ma si può ingabbiare ciò che non avremo mai più?».
Le cose passano. Destinate come sono a finire. Soprattutto nell’orizzonte della vecchiaia.
«Muta la luce, non necessariamente la materia».
E la vecchiaia di uno psichiatra?
«Perché dovrebbe essere diversa da quella di un fabbro o di un insegnante di matematica? Conta molto il destino di come è stata la propria vita».
Destino è una parola impalpabile.
«Sono le migliori. Le meno usurate. Il destino non lo intendo come la macchina inesorabile del fato. È sapere ancora una volta leggere dentro di sé. Riconoscersi. Freud lo fece da giovane e da vecchio. Fino a quando le forze lo sorressero continuò a lavorare. L’importante è non farsi divorare dall’ homo faber. Solo così si ha più tempo per ascoltare».
Non teme il tempo della clessidra?
«Lo temo oggi come lo temevo da giovane. Ho sempre avuto la percezione acutissima dell’imprevedibile. Il morire era per me una possibilità immanente a trent’anni e adesso».
Citava Freud. Che rapporto ha con la psicoanalisi?
«Nessuno in particolare. È una grande esperienza culturale. Abbastanza inservibile per la schizofrenia».
Perché?
«Gli schizofrenici non possono raccontare i loro sogni perché non sognano. Servono altre strade. Altre parole. Starei per dire altri dolori. Sa una cosa che vorrei?».
Dica.
«Vorrei che non ci fossero più giorni muti e senza parole. Vorrei che anche quando il silenzio avvolgesse le nostre vite esso avesse la forma della dignità e non dell’indifferenza ».

Repubblica 25.5.14
La fabbrica dei Guru
All’influenza degli intellettuali si va ormai sostituendo quella di pensatori carismatici come se esercitassero una forma di sacerdozio
Lo dimostra il diffondersi di classifiche che misurano la popolarità all’interno di uno star system. Ma quanto contano davvero queste graduatorie?
Fanno vendere più libri. Assicurano premi e inviti. Ma non è certo che garantiscano la diffusione delle idee
di Stefano Bartezzaghi


C‘ERANO una volta i maîtres- à-penser. Ora a vivere felici e contenti sono invece i guru. Il significato letterale delle due espressioni basta a spiegarne la profonda differenza: dal magistero intellettuale si è passati a una forma di sacerdozio esotico: «guru», in indostano, significa prete o anche maestro, ma in senso spirituale. Il modello a cui si rifacevano gli intellettuali era quello del leader politico, con la firma degli appelli di protesta come forma di espressione dell’ engagement. Oggi invece gli intellettuali sono visti come figure carismatiche in termini pressoché religiosi: la loro parola deve avvincere, prima che convincere.
Potrebbe essere considerata allora una profanazione l’usanza di stilare liste di «pensatori influenti». Al referendum annuale del mensile britannico Prospect nel 2014 hanno partecipato settemila votanti e hanno indicato in maggioranza Amartya Sen, premio Nobel per l’economia e conosciuto nella natia India come «La Madre Teresa degli economisti». Assieme alla presenza di papa Francesco (al quinto posto) ciò non fa che confermare il sospetto che piuttosto che di pensatori di riferimento il mondo sia in cerca di guide spirituali. Ai primi tre posti, tre indiani, al quarto il cinese Mao Yushi. Europa quasi scomparsa, prevalenza netta di economisti (l’unico nome italiano presente fra i primi 50 è quello della fisica italiana Fabiola Gianotti). Amartya Sen primeggia anche nella classifica dei venticinque «pensatori del nuovo secolo del Nouvel Observateur , davanti a un variegato gruppo di filosofi (Judith Butler, Peter Sloterdijk, Alain Badiou). La differenza fra le due classifiche è che la prima è derivata da un referendum e non da una selezione redazionale e quindi manifesta con chiarezza il fenomeno per cui l’autorevolezza è oggi in funzione della notorietà. Prima era l’inverso ed è stato come passare dalla trazione anteriore alla posteriore.
Se Roland Barthes fosse stato un guru, lo avrebbero riconosciuto subito quando ebbe l’incidente stradale che poi gli costò la vita. Fu ricoverato in stato di incoscienza, non aveva documenti con sé, al personale dell’ospedale la sua faccia non diceva nulla: eppure era uno degli intellettuali francesi più noti al mondo. Il critico e scrittore Maurice Blanchot non era meno presente nel dibattito e nella formazione dell’opinione colta francese europea: eppure viveva ritirato, vedeva solo due o tre amici, stava chiuso in casa ad ascoltare lieder di Schubert e a cesellare scritti frammentari su silenzio e assenza e invisibilità. Nell’epoca della visibilità, sarebbe probabilmente del tutto sconosciuto. Oppure, chissà, accetterebbe di farsi applaudire al Festival della Letteratura di Mantova.
A inizio di maggio, infatti, il non indulgente filosofo Emanuele Severino ha partecipato a una puntata di Otto e mezzo di Lilli Gruber assieme al guru di Dagospia Roberto D’Agostino e non ci si è stupiti più di tanto. Ci va sempre anche Massimo Cacciari, del resto. Cantanti carismatici come Francesco De Gregori o Ivano Fossati untempo facevano impazzire gli autori televisivi perché non accettavano mai di essere ospitati in tv o imponevano condizioni ardue (non dire nemmeno una parola, cantare solo canzoni nuove e non i loro successi storici): hanno poi cambiato atteggiamento.
Il processo di produzione intellettuale ha pure invertito la sua filiera. Le idee venivano in biblioteca, si esprimevano all’università, si depositavano in articoli e libri e viaggiavano in forma scritta. Ora vengono quando si scrive e si trasmettono poi per via orale, in festival e interviste tv, con rilanci frammentari tramite social network. La parola dei guru del pensiero non è quasi più separata dalla loro immagine e gli eventuali meriti scientifici si disperdono nel blob dello star system mondiale: fra le cento persone più influenti su scala mondiale, in un elenco stilato da Time magazine , spiccano innanzitutto nomi come quelli di Beyoncé, Serena Williams e Robert Redford.
Ci aveva insomma visto giusto l’artista Alighiero Boetti. Era ancora il 1968 e lui presentò una propria mostra sotto l’insegna: « shaman/ showman». Il gioco di parole saldava il magico carisma dello sciamano all’attrazione del funambolo. E questo spiega perché, malgrado le apparenze, queste classifiche e liste (certamente un po’ deprimenti) non profanino proprio nulla: svelano anzi quanto indissolubile sia il legame tra carisma intellettuale e notorietà. La doppia platea dei maître à penser era costituita dal cerchio stretto degli studenti e da quello più ampio della parte colta della società: lettori di riviste culturali, frequentatori di librerie e biblioteche. Questo secondo cerchio oggi risulta schiacciato da quello, esterno e immenso, della cultura di massa, che applica codici di ricezione completamente diversi e privilegia l’intrattenimento sulla profondità, lo storytelling sull’originalità, l’emozione sull’analisi. A cinquant’anni esatti dalla pubblicazione dell’attualissimo Apocalittici e integrati (1964) di Umberto Eco si potrebbe allora pensare che l’integrazione ab- bia stravinto, che nessuno possa più sottrarsi all’imperativo della visibilità (proprio mentre i segni dell’Apocalisse, peraltro, si moltiplicano). Ma poi è apparenza illusoria anche questa. Occorre infatti chiedersi quanto queste classifiche delle persone più influenti siano influenti a loro volta. Moltiplicano le vendite dei libri di quegli autori e quelle autrici, procurano loro ulteriori premi e inviti in occasioni ed enti di prestigio, elevano a potenza la loro visibilità, questo è certo. È più dubbio, invece, che la circolazione effettiva delle idee si svolga esclusivamente per i canali del mass marketing e che la loro penetrazione sia misurabile a colpi di sondaggio. Tra l’applauso al guru e la frustrazione dei professorini continua a esserci uno spazio di ricerca critica, un pubblico più selettivo, una possibilità di elaborazione che non sente un bisogno primario di visibilità. Da classifiche e valutazioni quantitative magari non appare. Però c’è.

l’Unità 25.5.14
Proteina dei ricordi
L’altra faccia dei prioni scoperta da Eric Kandel

Nobel per la medicina

«CREDETE VERAMENTECHE DIO ABBIACREATOI PRIONI PER UCCIDERE?». Una domanda provocatoria quella formulata qualche tempo fa da Eric Kandel, neuroscienziato, psichiatra e vincitore del premio Nobel per la medicina nel 2000. E, in effetti, è stato proprio Kandel a trovare un’altra funzione, oltre a quella di killer, a questi strani «oggetti» della biologia che non sono organismi viventi - perché non hanno né Dna né Rna -ma che sono però da considerare a tutti gli effetti agenti infettivi. I prioni sono proteine ripiegate in un modo «sbagliato» che hanno la capacità di indurre le altre proteine con cui vengono in contatto ad assumere la loro strana forma e che possono essere trasmessi da un individuo malato a uno sano. Sono conosciuti soprattutto come la causa di encefalopatie molto gravi, la più famosa delle quali è la malattia di Creutfeldt Jakob e la sua variante più nota come «morbo della mucca pazza». Ma Kandel ha scoperto che queste strane proteine hanno anche una funzione positiva e fondamentale, quella di aiutarci a conservare i ricordi.
Professor Kandel, insieme ad altri ricercatori lei ha mostrato che i prioni giocano un ruolo importante nella formazione della memoria a lungo termine. Ci può spiegare come?
«Io e i miei colleghi abbiamo trovato che oltre ai prioni patogeni, i killer che Stanley Prusiner ha descritto per primo, esistono nel cervello dei prioni “funzionali” che aiutano le normali funzioni fisiologiche delle cellule nervose. Questi prioni non si modificano spontaneamente come fanno i prioni patogeni, ma lo fanno in risposta a segnali fisici. I primi prioni di questo tipo sono stati trovati nelle sinapsi (le connessioni tra una cellula nervosa e l’altra, ndr) dove controllano la sintesi locale delle proteine e servono a mantenere attive alcune connessioni sinaptiche che consentono la memoria a lungo termine».
Di che cosa parlerà nel suo intervento al congresso sui prioni di Trieste?
«Descriverò questa prima classe di prioni funzionali che abbiamo trovato nella lumaca, nel moscerino e nel topo e che sono chiamati CPEB (cAMP response element-binding protein). Inoltre, parlerò di una nuova classe di prioni funzionali, chiamati TIA, che sono coinvolti nel disturbo da stress post-traumatico».
Comprendere la mente umana è una sfida che ancora non abbiamo vinto. Benché siano stati fatti molti progressi, ancora molte questioni restano aperte: cos’è l’emozione? E la creatività? E l’intuizione?
«Sì è proprio così: la mente umana è un’enorme sfida per la biologia e la maggior parte delle domande che ci poniamo sono ancora senza risposta. Tuttavia, non ho ragione di credere che un giorno, tra decine di anni, non saremo in grado di rispondere a queste domande, magari con gradi diversi di successo»
Memoria, mente, cervello sono temi da sempre al centro della sua attenzione. Ma nel suo nuovo libro, «L’età dell’inconscio. Arte, mente e cervello dalla grande Vienna ai giorni nostri», lei si spinge oltre e ci fa scoprire dei punti di contatto tra la scienza della mente e l’arte sorti proprio nell’Austria dei primi del Novecento. È un dialogo tra le cosiddette due culture, quella scientifica e quella umanistica, che lei ritiene debba essere mantenuto vivo. Perché?
«Credo che il grande interesse suscitato dalle scienze del cervello non derivi solo dal fatto che ci permettono di intuire in modo diverso quello che siamo, quello che pensiamo, crediamo o ricordiamo, ma dal fatto che la nuova scienza della mente è capace di iniziare a dialogare con molte altre aree del sapere come l’arte, la musica, il processo decisionale. Ognuna di queste aree può essere arricchita dalla discussione con le scienze del cervello e, viceversa, le scienze del cervello si arricchiscono attraverso l’esplorazione di queste nuove aree. Questi dialoghi possono aiutarci ad indagare i meccanismi cerebrali che rendono possibili la percezione e la creatività nell’arte, nelle scienze e nella letteratura come nella vita quotidiana».
Nel libro lei prende posizione a favore del riduzionismo sostenendo che «può espandere la nostra visione e fornire nuove intuizioni sulla natura e sulla creatività dell’arte».
È un’affermazione coraggiosa in un momento in cui il riduzionismo non gode di buona fama. Quali sono i vantaggi di una scienza riduzionista?
«La scienza riduzionista ha il vantaggio di focalizzare l’attenzione su un problema e cercare di capirlo nel modo più chiaro e completo possibile. Ma una volta che alcuni problemi elementari di un’area sono stati risolti con successo, abbiamo bisogno di combinare la scienza riduzionista con la scienza sintetica (o scienza della complessità, ndr) in modo da poter apprezzare le questioni e i problemi più ampi».
L’inizio del XX secolo è stata l’era dell’inconscio. Che era è quella in cui viviamo?
«Direi che viviamo in un’epoca nella quale la sfida più grande riguarda la nuova scienza della mente: capire i processi mentali, sia quelli consci che quelli inconsci».

Repubblica 25.5.14
Unisex
Salutate Adamo ed Eva maschio e femmina saranno sempre meno diversi
di Arnaldo D’Amico



C’ERA UNA VOLTA il maschio e c’era una volta la femmina, distinti, anzi opposti, titolari di un elenco di caratteri contrari ed esclusivi che ne permetteva l’immediato riconoscimento. Come i buoni e i cattivi delle favole. Da qualche decennio non è più così. I caratteri dei due sessi sono sempre meno opposti e si avvicinano lentamente. O si scambiano. E se l’omosessualità è stata cancellata dall’elenco delle “malattie” dell’Organizzazione mondiale della sanità, un nuovo genere sessuale, intermedio tra il maschile e il femminile, ottiene una identità giuridica: prima la Germania, poi l’Australia e di recente l’India hanno riconosciuto, anche se in modi diversi, “l’intersessualità”, l’indicazione di un “terzo sesso” valido sia per l’anagrafe che sui documenti di identità.
Dal punto di vista biologico c’è poco da stupirsi. Le numerose forme di transizione tra i due sessi ricordano che la normalità in medicina è solo una questione di numeri. L’uomo e la donna ai due estremi del disegno pubblicato in queste pagine sono la stragrande maggioranza degli esseri umani, con quelle combinazioni di cromosomi (XY per lui e XX per lei) e di “squilibrio endocrino” (prevalenza di androgeni per lui e di estrogeni per lei). Ma qualsiasi altra combinazione, pur se poco probabile, è possibile in ossequio all’antica legge universale natura non facit saltus.
E le figure stilizzate che qui pubblichiamo sono solo alcune di quelle combinazioni. «Dal punto di vista biologico sono quelle figure intermedie gli unici veri transessuali — spiega Andrea Lenzi, ordinario di endocrinologia all’università la Sapienza —: persone in cui i meccanismi genetici ed endocrini hanno preso strade diverse sin dalla fase fetale. Ma sono casi rarissimi. Mentre omosessuali, bisex, trans e transessuali hanno quasi sempre cromosomi e ormoni in sintonia tra loro, come maschi e femmine ordinari».
Ovviamente la biologia da sola non spiega tutto. «I cambiamenti ci sono nei comportamenti — osserva Roberta Giommi, fondatrice dell’Istituto internazionale di sessuologia di Firenze — almeno a partire dal cosiddetto ‘68 che, se da una parte sostenne una parità tra i sessi rimasta irrealizzata, ruppe con la contraccezione l’identificazione tra donna e madre, spianando la strada all’affermazione sul lavoro della donna, sostenuta da un nuovo “maschio gentile” e collaborativo. Da allola ra, siamo arrivati a una Babele dei significati di maschile e femminile, anche nella sfera sessuale».
E proprio dal punto di vista della sessualità biologica è vero che il maschio si sta femminilizzando, nel senso che il suo squilibrio ormonale a favore degli androgeni si sta perdendo. «Da alcuni decenni registriamo nei maschi neonati e adolescenti un lento ma progressivo aumento di alcune malformazioni dei genitali, infertilità, diminuzione della peluria e un rapporto tra lunghezza del tronco e quella degli arti di tipo femminile, con una crescita dell’altezza complessiva. Sotravestiti, no tutti eventi indicativi di un’esposizione anormale degli uomini agli estrogeni» spiega Lenzi. «Il maschio subisce l’azione anti-androgena degli ormoni femminili solo nella vita intrauterina, quando gli arrivano dal sangue della madre e a cui reagisce aumentando molto la produzione di ormoni maschili. Il che gli permette di svolgere correttamente il programma genetico contenuto nei suoi XY e di nascere con genitali maschili normali. Il programma genetico poi si rimette in moto alla pubertà. Invece, come confermano le numerose ricerche pubblicate, l’essere umano è ormai immerso per tutta la vita in un “bagno” continuo di sostanze chimiche che agiscono come gli estrogeni, i cosiddetti xeno-estrogeni». Si tratta di additivi, fitofarmaci, insetticidi, coloranti, conservanti che da alimenti, saponi o plastiche finiscono nel sangue attraverso l’intestino e la pelle, circa diecimila sostanze diverse sparse in prodotti di uso comune. «Per esempio — continua Lenzi — il 4exilresorcinolo, che permette di ottenere e conservare gamberetti color rosso vivo, è stato correlato a un’azione simil-estrogenica e alla comparsa di problemi di fertilità negli animali e si pensa che possa avere effetti simili anche nell’uomo. Anche l’insalata in busta comporta rischi: per i bisphenoli o ftalati rilasciati gradualmente dalla plastica sull’alimento e per l’insalata stessa, che, al pari di molte verdure confezionate, potrebbe essere contaminata da pesticidi organolettici. Infine, shampoo, bagnoschiuma creme idratanti e solari, deodoranti, articoli per l’igiene dei bambini e ammorbidenti, spesso anche i dentifrici, contengono parabeni, ovvero conservanti anch’essi xeno-estrogeni. Insomma, l’adozione di misure mirate per contenere il danno ambientale non sembra più rimandabile ». Soprattutto se vogliamo che il futuro unisex nasca sano, non malato.

Il Sole Domenica 25.5.14
L’esercizio del potere
Devoti al capo carismatico
In Italia c'è oggi un abuso del concetto: i leader di massa seguiti con dedizione furono il duce e Togliatti. E, in potenza, Nenni
di Emilio Gentile


Circa un secolo fa, il sociologo Max Weber coniò il concetto di carisma per definire una peculiare forma di potere politico, il potere carismatico, che ha origine da una persona ritenuta in possesso di doti straordinarie da parte di coloro che lo scelgono come capo, e lo seguono con entusiasmo e dedizione perché lo considerano investito di una missione. 
Carisma in greco significa 'grazia'. Se consideriamo la frequenza con la quale questo termine è stato attribuito a vari politici italiani nell'ultimo ventennio - da Di Pietro a Berlusconi, da Bossi a Grillo, da D'Alema a Renzi - si dovrebbe concludere che l'Italia è un Paese pieno di grazia carismatica. Che ci siano tanti capi carismatici può essere una conseguenza della personalizzazione della politica italiana, derivata dallo sbriciolamento dei partiti di massa, sostituiti da partiti personali o padronali. In realtà, la personalizzazione della politica è stata costante nella storia dell'Italia unita, ma nel secolo scorso i leader carismatici non erano frequenti. Basti pensare ai presidenti del Consiglio che hanno governato più a lungo nell'Italia monarchica, come Depretis, Crispi, Giolitti: nessuno, tranne forse Crispi per qualche tempo, fu considerato un leader carismatico.
Poi ci fu per un ventennio il dominio carismatico di Mussolini, che ebbe origine da peculiari doti personali di oratore e di giornalista, e fu istituzionalizzato nel regime totalitario fascista con il culto del duce. Nella storia del ventesimo secolo, il carisma mussoliniano è stato un fenomeno singolare e per certi aspetti unico. Infatti, a Mussolini furono attribuite doti di leader carismatico molto prima del fascismo, fin dal 1912, quando a ventinove anni balzò sulla scena nazionale come leader del partito socialista. Il Mussolini socialista perse il carisma nel 1914 perché, convertito all'interventismo, fu considerato un traditore dalle masse socialiste. Dopo la Grande Guerra, Mussolini dovette faticare anche nel movimento dei Fasci, da lui fondato nel 1919, per essere riconosciuto leader carismatico: infatti, nell'estate del 1921 i capi dello squadrismo si ribellarono contro di lui perché aveva fatto la pace con i socialisti e voleva smilitarizzare il fascismo. Il carisma del Mussolini duce fu accettato definitivamente solo dopo l'instaurazione del regime a partito unico nel 1926. 
Da allora, fino alla vigilia del 25 luglio 1943, Mussolini fu esaltato come duce supremo, che incarnava la missione fascista di creare un'Italia imperiale e una nuova civiltà. Il culto del duce divenne un modello per esperienze analoghe non solo nei regimi fascisti o parafascisti, ma anche nella Russia sovietica, dove l'istituzione del culto di Stalin avvenne nel 1929, affiancandosi al culto di Lenin, istituito nel 1924 dopo la morte del leader carismatico del bolscevismo.
Caduto il fascismo e abolita la monarchia, nell'Italia repubblicana i partiti antifascisti esorcizzarono il mito del carisma mussoliniano, ma i nuovi partiti di massa, la Democrazia cristiana, il Partito socialista e il Partito comunista, non si sottrassero all'influenza dell'esperienza carismatica come fenomeno di aggregazione e di mobilitazione collettiva. Tuttavia, non tutti i leader dei tre partiti furono carismatici. Non lo fu De Gasperi, anche se per un decennio fu il leader della Democrazia cristiana e per sei anni ebbe autorevolmente la guida del governo italiano nella fase più ardua della ricostruzione dell'Italia. Del resto, difficilmente poteva diventare carismatico il leader di un partito che aveva già una suprema guida carismatica nella figura del pontefice. E poco di carismatico aveva la personalità di De Gasperi, un «uomo vestito di grigio, con i suoi occhi grigi così poco cesarei, col suo volto di pietra, grigio anch'esso», come lo descrisse Montanelli nel 1949. De Gasperi era un leader che suscitava rispetto ma non entusiasmo e dedizione carismatica negli altri dirigenti e nella massa democristiana. 
Il leader socialista Nenni aveva doti potenzialmente carismatiche, come la fede nella missione rivoluzionaria del socialismo, il fascino oratorio, l'efficace stile giornalistico che suscitavano entusiasmo nelle masse, ma non riuscì a unire nella dedizione alla sua persona un partito afflitto da scissione cronica. Solo Palmiro Togliatti, leader del Partito comunista fin dal suo rientro in Italia dalla Russia nel 1944, divenne un capo carismatico per la massa dei militanti del suo partito, anche se non tutti gli altri dirigenti comunisti accettarono senza discussione la sua leadership. Alla costruzione del carisma di Togliatti contribuirono il mito di Stalin, dell'Unione sovietica e della rivoluzione bolscevica, la struttura rigidamente unitaria e centralizzata del partito comunista, e la trasfigurazione mitica di Antonio Gramsci come "grande italiano", avvenuta nel 1947, nel decennale della sua morte. Nei manifesti del Pci, l'immagine di Gramsci appariva accanto a quella di Togliatti, anch'egli "grande italiano", il compagno fedele e il migliore erede del leader sardo, morto prigioniero del fascismo. 
Il carisma di Togliatti fu consacrato con un culto della personalità iniziato fin dal 1945 e intensificato dopo l'attentato da lui subito nel 1948, soprattutto con la celebrazione del suo sessantesimo compleanno nel 1953, anno della morte di Stalin. In quello stesso anno, tramontò definitivamente la leadership di partito e di governo di De Gasperi, "uomo solo", che moriva l'anno dopo. Intanto Nenni continuava a essere il leader prestigioso di un partito che, oscillando fra riformismo e massimalismo, non riusciva a scegliere la strada per compiere la sua missione, rimanendo vincolato al patto di unità d'azione col più forte e carismatico Partito comunista.
A metà degli anni cinquanta, l'Italia entrava in una nuova fase del suo travagliato cammino verso la realizzazione di una democrazia di cittadini liberi e eguali davanti alla legge, dotati tutti di pari dignità, che scelgono liberamente il loro destino senza lasciarlo decidere ai capi carismatici.

Il Sole Domenica 25.5.14
Storia del Psiup
Caducità d'un partito
di David Bidussa



Aldo Agosti riprende il titolo di questa sua storia del Partito socialista di Unità proletaria dal giudizio che esprime lo storico socialista Gaetano Arfè all'indomani del II congresso del Psiup (Napoli 18-21 dicembre 1968): Partito provvisorio è espressione che nel gergo partitico non ha significato negativo. Nel dicembre 1968 a Napoli, la usa Lelio Basso, che molti consideravano il padre nobile del partito, intendendo il fatto che il Psiup sarebbe provvisorio non per incapacità, ma per volontà perché «destinato a bruciarsi in un glorioso rogo nel momento in cui avrà assolto la sua funzione di unificare il movimento operaio italiano». Ma in quelle giornate, nota Arfé, quella parola - "provvisorio" - più che dare l'orgoglio della propria missione ha significato «il riconoscimento della propria caducità e della superfluità, di un partito che non è riuscito a darsi una funzione, neanche di stimolo nella tormentata vicenda del socialismo italiano».
In queste parole dure c'è molta verità, a cominciare dalla vicenda di Lelio Basso, che avrebbe abbandonato il Psiup nel 1971, 18 mesi prima del suo scioglimento formale, avvenuto alla fine del 1972.
Sullo Psiup mancava fino ad oggi una storia. Aldo Agosti con questo suo libro consente di riempire un vuoto. Il Psiup nella storia italiana è il partito la cui parabola è stata tra le più veloci. Non perché privo di fondamento (gran parte del suo profilo - politico, culturale, sociale, lessicale, - corrisponde a un sentimento lungo e profondo), ma perché si consuma rapidamente.
Nato nel gennaio 1964 come costola della sinistra del Psi che raduna tutti coloro che rifiutano il governo di centrosinistra, il Psiup si scioglie nel 1972, all'indomani delle elezioni politiche che lo vedono in alleanza con il Pci, ma di fatto in posizione subordinata, dopo aver ottenuto risultati ragguardevoli (intorno al 4,5% sul territorio nazionale alle elezioni del maggio 1968) e, soprattutto, aver attratto il voto giovanile.
Ma questo non lo fa essere un "partito nuovo" per davvero.
Per esempio la tipologia, la composizione sociale e la distribuzione geografica dei suoi iscritti, 152mila nel 1965: di questi il 33% sono al Nord, il 26,4 % al centro e circa 40% al sud. Il Psiup è un partito forte nelle realtà delle città provinciali ma che stenta a crescere nelle grandi città industriali (Torino, Genova). Un partito che dichiara il 35% di operai tra i suoi iscritti, anche se questo è un termine molto incerto perché spesso vi sono inclusi funzionari sindacali; un partito fortemente "maschile" dove la presenza delle donne è sporadica (un dato che è vero per tutta la sua durata e che significativamente si conferma anche dopo il 1968).
Il Psiup è stato molte cose: il luogo di incontro di molte anime politiche che saranno protagoniste della stagione dei movimenti a partire dal '68; l'esperienza rapidamente entrata in crisi di una forza politica di matrice non comunista che prova a rinnovare la cultura della sinistra socialista in Italia; il terreno di confronto tra molte figure di rinnovatori della sinistra italiana che poi abbandoneranno la politica oppure sceglieranno strade diverse, spesso tra loro molto lontane (dentro coabitano figure come Giuliano Amato, Fausto Bertinotti, Vittorio Foa, Pietro Ichino, Sergio Chiamparino, Peppino Impastato, Lelio Basso); il partito che rinnova completamente lo stile della grafica che ancora permarrà negli anni '70, abbandonando le linee vignettistiche della propaganda degli anni '50 spesso "didattiche" proprie dei partiti popolari negli anni '50 (non solo il Pci o la Dc, ma anche il Psi) che presumono una società poco alfabetizzata, e adottando invece una comunicazione, anche nella rappresentazione grafica più moderna, concettuale, innovativa nei colori, nei simboli, nelle parole, nella scrittura. Un aspetto quest'ultimo, su cui Agosti non insiste, ma che costituisce un tratto non marginale nella modernizzazione della politica in Italia a partire dagli anni 60 e a cui il Psiup contribuisce in maniera rilevante.
Accanto a questi, stanno anche quelli del rapido declino. Per esempio, ed è un punto non marginale su cui Agosti insiste molto, i bilanci amministrativi. Un partito che inizia dichiarando la propria autonomia, e finisce avendo un bilancio in gran parte condizionato dai finanziamenti sovietici che ne determinano le scelte, ne restringono la capacità politica, l'autonomia, il profilo culturale. L'episodio più evidente è testimoniato dalla posizione ambigua che il Psiup tiene dopo l'invasione della Cecoslovacchia il 21 agosto 1968 che, a differenza del Pci, non condanna. Non è l'unico episodio. Quell'ambiguità ritornerà anche su altre questioni. Per esempio: rispetto alla crisi e al conflitto cino-sovietico; alle posizioni sostenute sulla crisi mediorientale apertasi con la guerra dei Sei giorni nel giugno 1967, ma diventata più acuta negli anni della diffusione del terrorismo palestinese, non solo in Medio Oriente, ma anche in Europa; intorno all'allargarsi del dissenso in Unione sovietica e ai processi contro i dissidenti a partire dal 1970. Tutti aspetti in cui l'ortodossia, il dogmatismo dominano a fronte di un partito che si presenta come "eretico", "nuovo", "rinnovatore".
Per molti aspetti una metafora delle molte contraddizioni e ambiguità di una sinistra che, da allora, ha provato molte altre volte a rinnovarsi. Spesso riuscendoci solo a metà.

Il Sole Domenica 25.5.14
Bobbio e la strage di Brescia (28.5.1974)
A ciascuno la sua memoria
di Norberto Bobbio


Vi sono due forme diverse della memoria: quella interiore e quella esterna. La memoria esterna, che si manifesta nelle cerimonie ufficiali, nei discorsi commemorativi, nelle lapidi, nei monumenti, nei libri di storia, nelle testimonianze dei protagonisti, nella riproduzione di immagini dell'evento, ha senso soltanto se serve a mantener viva la memoria interiore. La può sollecitare, ma non la sostituisce. L'una è la memoria morta, l'altra la memoria viva. In un cimitero osserviamo una madre inginocchiata di fronte alla tomba del figlio. La tomba è la memoria esterna; la madre, che ha posato su di essa un mazzo di fiori e prega, rappresenta la memoria interiore. La lapide è, di per se stessa, muta. Quando noi stessi ci soffermiamo per caso di fronte a una tomba perché ci colpiscono le due date di nascita e di morte e il volto di un ragazzo sorridente che le sovrasta e ci vien fatto di riflettere anche per un breve momento su quel destino crudele, compiamo un atto di memoria interiore. È bastato quell'attimo per suscitare una, pur fuggevole, emozione. È in quell'attimo il ragazzo morto rivive in me. Ricordando o anche soltanto immaginando la vita di una persona pur morta da tempo, la facciamo rivivere, e le impediamo di ricadere, anche solo per quell'attimo, nel nulla.
Ma la morte può essere collettiva come quella di cui si parla quando si rievoca una strage? No, nella memoria interiore la morte è sempre individuale. Diciamo per convenzione: una decina, un centinaio di morti. Ma ogni morte è diversa dall'altra, come del resto ogni nascita. Ciascuno muore come singolo e solo, con gli affetti che lo hanno nutrito, con le fantasie che lo hanno aiutato a vivere, con gli incubi che lo hanno tormentato, coi suoi vizi e le sue virtù, con le sue abitudini, il suo modo di parlare, di ridere, di soffrire. La memoria esterna li accomuna, la memoria interna soltanto è capace di restituire a ciascuno la propria vita e quindi anche la propria morte. Rievocando a una a una quelle vittime, e non tutte insieme, la strage appare ancora più orrenda. Dietro ogni vita stroncata c'era un universo di affetti e di progetti che è stato irrimediabilmente distrutto.
La rimembranza è stimolo alla riflessione. Un evento così spaventoso non può non suscitare mille domande cui è difficile dare risposte. Soprattutto due, la cui mancata risposta ci ha lasciato un amaro senso di impotenza: «Perché quel delitto è stato compiuto? Perché dopo vent'anni non sappiamo ancora chi siano stati gli autori?». La prima domanda ci obbliga ad affacciarci al problema del bene e del male, la seconda a quello della verità e della menzogna. Sono domande ultime, perché ne dipende la conoscenza che noi dovremmo avere di noi stessi: sappiamo benissimo che la nostra vita è continuamente minacciata e avvilita dalla mancanza di giustizia e di verità.
Fra tutte le azioni delittuose che gli uomini possono compiere contro altri uomini, la strage è uno di quelli che più si avvicina al male radicale. Di qua la sua eccezionalità, e proprio per questa sua eccezionalità è più difficile da comprendere. Ciascuno di noi è disposto attraverso la propria esperienza quotidiana a capire il delitto passionale, il delitto di chi uccide per essere stato colto in flagrante, il delitto di chi si vendica di un suo nemico, la violenza in guerra, in cui sei costretto ad uccidere chi ritieni o sei indotto a ritenere tuo nemico. Nella normalità dei casi chi uccidi è il tuo nemico vero o presunto, non importa se di lunga durata o occasionale, colpevole per il solo fatto di essere nemico. Lo uccidi talora anche per un pretesto o un futile motivo. Ma la vittima è o deve essere non solo per te, ma anche per altri che conosceranno la tua azione, qualcuno che ha commesso una colpa. L'unica tua giustificazione dell'uccisione è la presenza di un colpevole. Tu non hai né la volontà né il potere di spezzare il rapporto tra delitto e castigo: è un rapporto necessario. Un esempio letterario famoso del male radicale è il delitto gratuito.
Ebbene, la caratteristica della strage è quella di essere, fra tutte le forme di violenza, quella più vicina alla violenza assoluta: è il massimo delitto, l'omicidio, diretto consapevolmente contro degli innocenti. Colui che colloca una bomba micidiale su un treno o nella sala d'aspetto di una stazione sa con certezza che le vittime che il suo gesto produce non hanno, rispetto al fine o ai fini che egli si propone, nessuna colpa. Non colpisce il nemico, vero o presunto, ma a capriccio coloro che si trovano per puro caso su quel treno, in quella sala d'aspetto, su una piazza. Non voglio dire che lo stragista non abbia un nemico da colpire o di cui vendicarsi. Ma il suo nemico è altrove: l'eccidio degli innocenti è soltanto un mezzo per colpire indirettamente un nemico che solo lui sa o deve sapere chi sia e dove sia. Non c'è forse modo più perverso di ridurre l'uomo a mezzo che quello di considerare puro mezzo di un disegno ignoto la sua morte violenta.
Sono sempre stato un po' perplesso di fronte alla formula: strategia della tensione. Anzitutto: c'è davvero una strategia unica che collega una strage all'altra durante un lungo periodo di tempo? Ma basta davvero la tensione, prodotta dal panico, che come tutti i movimenti di folla suscita uno stato d'animo effimero, a provocare effetti duraturi? E se al di là dei fini specifici ci fosse soltanto, o anche, un irresistibile delirio di potenza? Uccidere è un modo per affermare la propria superiorità. Quale maggiore espressione di potenza che uccidere da solo, con un solo atto, non un uomo ma molti uomini insieme? Ucciderli a tuo arbitrio, di nascosto, come un demone terribile e ignoto?

Norberto Bobbio, La strage di Piazza della Loggia, a cura di Mario Bussi, premessa di Emilio Del Bono, Morcelliana, Brescia, pagg. 80, € 8,00. Il volume sarà presentato martedì a Brescia a Palazzo Loggia, alle 18. Con il curatore, interverranno il sindaco Emilio Del Bono e Pietro Polito, Direttore del Centro Studi Piero Gobetti di Torino

Il Sole Domenica 25.5.14
L'amore ai tempi di Krishna
L'India e la passione in un Millennio Einaudi, dagli inni religiosi del «Rigveda», alle storie coniugali epiche, al teatro, ai romanzi
di Giuliano Boccali



Affidata a traduttori di grande esperienza e sensibilità, ciascuno specializzato nel genere dei testi di cui è responsabile, esce ne «I Millenni Einaudi» un'antologia di letteratura indiana d'amore curata da Fabrizia Baldissera; la studiosa, di fama internazionale, mette qui a frutto le sue vaste letture, non solo indiane, e il suo pluridecennale impegno di ricerca. L'introduzione da lei premessa ai testi è ricchissima di elementi culturali e interpretativi, religiosi, sociali, giuridici, scientifici, letterari, critici, davvero preziosi per l'intendimento di quello che il titolo del volume felicemente chiama l'«Universo di Ka-ma». Forse si sottintende che l'universo tout court appartiene a Ka-ma, Amore, più esattamente Desiderio, Cupido come in latino: il suo potere lo ha generato e lo domina con effetti contrastanti, deliziando o tormentando gli esseri senzienti, dèi e dee inclusi, o fornendo loro energie insostituibili nell'itinerario della conoscenza. 
Qui è forse la cifra originale dell'eros in India: l'inimitabile identificazione delle forze che seducono e irretiscono nella fantasmagoria affascinante ma illusoria della manifestazione (e quindi fatalmente del dolore), con quelle che permettono lo sviluppo e la realizzazione più alta, dal piano estetico all'accesso definitivo alla realtà spirituale eterna, oltre ogni forma. 
L'amore investe così e permea tutti gli aspetti della natura, della personalità umana ed evidentemente della cultura, figurativa e letteraria innanzi tutto. Alla prima il Millennio einaudiano dedica le suggestive miniature che lo adornano, mentre i testi scelti da Baldissera spaziano dagli inni religiosi del Rigveda e magici dell'Atharvaveda, alle mitiche storie coniugali dell'epica, al teatro, con la commovente vicenda di una cortigiana di buon cuore, a uno dei più famosi romanzi dell'India classica, inedito in italiano, all'ars amandi in una delle numerose declinazioni, alle vicende allegoriche di Krishna, il "divino amante" dalla carnagione blu scura, che figura nell'immagine qui riprodotta, ma anche alle prescrizioni dei più celebri trattati di medicina, fino alla «gentiliezza amorevole» della tradizione buddhista. Con questa la raccolta si chiude, molto opportunamente a mio parere, alludendo a dimensioni dell'amore feconde, insostituibili per l'India, per le civiltà asiatiche e oggi per l'intera umanità con la diffusione occidentale del Dharma.
Nel "mare dei testi" possibili, l'antologia offre così uno sguardo completo e adeguatamente sfaccettato attraverso il prisma di opere emblematiche. Ne fa parte anche una scelta di strofe singole, tratte a loro volta da un'antica famosissima antologia e tradotte da chi scrive: alcune sono riportate qui e costituiscono un'introduzione diretta ai moduli della lirica. Non troviamo Saffo o Catullo, nulla è più lontano dalla sensibilità indiana antica dell'evocazione della propria esperienza personale dell'amore. Tutti i protagonisti femminili e maschili delle strofe, infatti, non hanno volto, né storia psicologica; la poesia indiana evoca l'amore di un uomo e di una donna astratti, ma lo evoca concretamente attraverso situazioni e indizi esemplari: l'incontro, gli sguardi, l'innamoramento e la timidità della donna, l'oscillazione fra il timore di soffrire e l'attrazione irresistibile, l'abbraccio sensuale, trionfante dell'amore fortunato, «in unione» secondo l'espressione caratteristica della critica coeva. Nelle strofe di Sonnoka, l'amore è ritratto nella posizione con la donna sopra l'uomo: la tradizione indiana la considera quella più piacevole per entrambi i partner, possibile solo se fra loro esistono anche affetto e confidenza senza limiti, ricompensa perfino di buone azioni compiute nelle vite passate... si potrebbero anche oggi trarre da questo "indicatore" elementi sul proprio comportamento in precedenti rinascite? Chissà. Un'altra curiosità poetica: fra gli indizi dei diversi stati della passione e della relazione, figura tra i prediletti il levarsi della pelurie per il desiderio, come nelle strofe di Viryamitra dove rappresenta "il sigillo" di un fascino che irrimediabilmente soggioga. 
© RIPRODUZIONE RISERVATA
L'INNAMORAMENTO
Anonimo
Mettendo la mano sinistra dietro ai fianchi, la vita girata / con grazia, / i seni nell'altro senso e il mento molto vicino alla spalla, lei / ha lanciato verso di me / amorosamente due o tre sguardi furtivi che alleviano / la febbre del desiderio, / fitte collane di perle con uno zaffiro scintillante nel mezzo.
***
Hars.adeva (VII secolo)
Guardata, lascia cadere lo sguardo, non fa conversazione / interpellata, / sul letto se ne sta di spalle, a forza abbracciata trema; / andate le amiche dalla camera nuziale, e come se / desiderasse uscire: / oggi è giunta con la sua ritrosia al culmine dell'amore / la mia sposina diletta.
***
Dharmaki-rti (prima meta del VII secolo)
«Basta incontri con l'amata, per la troppa brevita, perché / assomigliano / a un sogno e a un'illusione, per la mancanza di sapore / alla fine»: / anche se cento volte esamino questo dato di fatto, / pure la mia anima non scorda la fanciulla dagli occhi / di cerbiatta.
***
Bhavabhu-ti (inizi dell'VIII secolo)
Esitanti, incerti, innocenti, umidi, immobili, lenti, / le pupille che si espandono all'infinito, più grandi / per l'intimo stupore, / il mio cuore senza difesa dai maliziosi sguardi della bella / con gli occhi dalle lunghe sopracciglia / è stato catturato, sezionato, inghiottito e del tutto / annientato.
***
Ka-lida-sa (IV-V secolo)
«Il piede ferito da uno stelo di erba darbha» – così pensavo: / la fanciulla dalla vita sottile si è fermata all'improvviso, / poi fatto qualche passo / è rimasta con il viso girato, liberando dai rami degli alberi / la veste da asceta, che pure non si era impigliata.
L'AMORE IN UNIONE
Vikat.anitamba- (poetessa, corpus di Amaru)
Avvicinatosi il mio amore al letto, si è sciolto da solo / il nodo / e la veste, appesa ai lacci della cintura allentata, a malapena / è rimasta intorno ai fianchi; / questo soltanto, amica, io so: nell'abbraccio di nuovo / del suo corpo / a stento riesco a ricordare chi è lui, chi sono io e quale / amore facciamo e come...
***
Sonnoka (fine dell'XI secolo)
Con il gusto dell'ebbrezza dell'amore standogli sopra, / il mormorio dalla gola / che si unisce al dolce suono dei campanellini d'ornamento / agitati all'oscillar delle cosce, / il nodo della chioma sciolto ai sussulti, la collana di fili / di perle gocciolante, / i seni gemelli colorati dai cosmetici che si sollevano / ai respiri affannosi: / l'amante fa felici così quelli davvero fortunati!
***
Vi-ryamitra (fra X e XI secolo)
Morbida e chiara come canna di giunco flessuoso, la guancia / di lei dagli occhi di giovane gazzella, sempre più / affascinante, / soggioga con la perdita nella battaglia d'amore / della decorazione del trucco, / con il segno marcato delle unghie e il sigillo per di più / della pelurie levata.
***
S´ivasva-min (IX secolo)
Con morsi e morsi il suo labbro non avvizzisce, morbido / come un germoglio; / sopporta le ferite delle unghie il suo corpo dalla pelle tenera / come s´iri-s.a; / la liana graziosa delle sue braccia con forti strette / non si affatica: / nelle giovani donne davvero inesplicabile è l'effetto / dell'amore!
LA STAGIONE DELLE PIOGGE
Anonimo
I veli dell'oscurità trapunti di lucciole, le folgori / che lampeggiano abbaglianti, / le grandi masse delle nuvole manifeste ai mormorii soffici /dei tuoni, gli elefanti che barriscono, / i venti da Oriente profumati dalla schiusa dei ketaka, / gli scrosci d'acqua che cadono: / non riesco a capire come potranno essere sopportate / le notti da un uomo diviso dall'amante.
***
Anonimo
Gli occhi un poco languidi dal sonno, stringendosi / fra le braccia all'incontrarsi delle nubi / che ammonticchiano le foglie – le rampicanti salite / sui tetti saldi delle capanne –, / fortunati coloro che la notte, il petto colmo dei seni / delle amanti, ascoltano dormendo / i rombi dei torrenti d'acqua che cadono incessanti / dalle nuvole fonde.
I SEGNI DELL'AMORE COMPIUTO
Daks.a (?)
Con la fila nuova di ferite delle unghie impresse dall'amante / sul seno cosparso di unguento del Kashmir, simili a / un'iscrizione su un piatto di rame, / la giovane dagli occhi di cerbiatta è come promulgasse / l'editto recente di Amore, il sovrano dall'arco di fiori.
***
Mura-ri (IX-X secolo)
Là nel cielo d'Oriente diffonde il gioiello dell'etere / un filo di raggio che a poco a poco incrina la tenebra ormai / vulnerabile; / qui, allontanandosi dal nuovo signore del suo amore, / cancella la donna / il suo petto che portava la figura del makara impressa / con l'unguento di muschio da trucco.
***
Mahodadhi (?)
La notte e quasi andata, mia snella fanciulla, la luna e quasi / tramontata, / il lume, prossimo al desiderio del sonno, tremola; / di fronte alla mia docilità, il tuo orgoglio dovrebbe essere / finito, e invece non smetti la rabbia: / per la vicinanza al seno, il tuo cuore – oh furente – è proprio duro!
***
Ra-jas´ekhara (IX-X secolo)
Indugiando alla fine delle ciglia, rotolando un attimo / sulla superficie delle guance, / scendendo a lanciare luccicanti pulviscoli all'urto / sui seni compatti: / dimmi perché oggi, seducenti come un filo di perle / che stilla dal tuo collo, / cadono scorrendo gocce di liquido pianto?
L'AMORE IN SEPARAZIONE
Siddhoka (?, corpus di Amaru)
Fin dove giunge la vista fissando il sentiero del suo caro, / sconsolata, / nelle strade ormai quiete al declinare del giorno, mentre / il buio avanza / la sposa del viandante fa un passo verso la casa bianca / di calce, poi pensando: «Non arriverà proprio adesso?», girato il collo rapidamente / guarda di nuovo.

Il Sole Domenica 25.5.14
Musei reali & virtuali
Roma antica «reloaded»
di Stefano Simoncini



In occasione del 2767° Natale di Roma, il 21 aprile scorso, è stato presentato di fronte a una platea di 200 persone il progetto Foro di Augusto – 2000 anni dopo, «magia tecnologica» realizzata da Piero Angela e Paco Lanciano nel quadro delle celebrazioni del bimillenario della morte del primo imperatore di Roma, Cesare Ottaviano Augusto. La magnifica rovina del foro di Augusto è tornata per la prima volta ai suoi originari splendori grazie all'integrazione prodotta da ricostruzioni 3D e videomapping – proiezioni che modificano l'aspetto di oggetti e superfici tridimensionali –, accompagnati dall'efficace narrazione audiovisiva di Angela.
L'evento di Angela è in linea con la tradizione "romana", inaugurata da Renato Nicolini, che fa leva sull'intrinseca spettacolarità della città per conferire appeal popolare a contenuti culturali di alto profilo. Parliamo di eventi a vario grado "attinenti" alla scenografia monumentale: si va dal mitico Napoleon di Abel Gance proiettato nel 1981 davanti al Colosseo, al pionieristico videomapping di Peter Greenway con 480 proiettori a piazza del Popolo del 1996, alle celebri edizioni dell'Opera ambientate a Caracalla. «Foro di Augusto» Foro di Augusto si distingue dai precedenti per il fatto che il contenuto coincide con la scenografia, ma anche in parte per la non gratuità. Le tecnologie digitali, ripristinando l'originaria bellezza e funzionalità dei luoghi, trasformano le suggestive rovine in testimonianze integre di un tempo lontano, rivestendole di nuove valenze emotive e conoscitive. 
L'esperienza così significativa induce una riflessione su quali possano essere gli scenari futuri generati dalle tecnologie digitali e dai nuovi media in relazione al patrimonio, sia dal punto di vista della ricerca che da quello della valorizzazione rivolta al grande pubblico. Le ricostruzioni virtuali, puntando sulla spettacolarità di un dato momento storico, confezionano un «prodotto» che rischia di ridurre la storia a un repertorio di forme culturali definite e chiuse in loro stesse. Questo effetto può tuttavia essere «corretto» dallo stesso sviluppo tecnologico che attraverso altri strumenti permette di ricomporre le sparse testimonianze materiali e immateriali sopravvissute. Gli archivi informatici stanno infatti generando un nuovo «sistema di conoscenza» che a partire dalla ricomposizione dell'esistente su un'unica tela consentono di operare ricostruzioni scientifiche molto attendibili che mettono al centro il divenire storico e la stratigrafia delle sue forme culturali. Roma, per quanto sia in ritardo nello sviluppo di questi strumenti, è un terreno di sperimentazione unico al mondo ai fini della loro corretta definizione e utilizzo. Proprio in ragione della quantità e qualità senza pari del suo Patrimonio culturale.
Gli esperimenti gravidi di futuro non mancano. Sul fronte della creazione di sistemi informativi che ricompongano i disiecta membra dell'antico, si stanno muovendo in correlazione il Sitar della Soprintendenza di Stato, diretto da Mirella Serlorenzi, inventario digitale di siti e reperti archiviati su base territoriale, e il Sistema informativo archeologico di Roma antica promosso da Andrea Carandini e Paolo Carafa, che raccoglie le conoscenze disponibili intorno a luoghi e monumenti della topografia storica. Ma si sta procedendo in modo incoraggiante anche sul fronte della ricostruzione dei pezzi mancanti del puzzle. Soprattutto con l'Atlante di Roma antica degli stessi Carandini e Carafa, che tenta l'impresa titanica di una ricostruzione integrale della topografia storica romana nelle sue diverse fasi, ma anche con le imprese tecnologiche di ricostruzione in 3D dell'antica città, dal «Rome reborn» del Politecnico di Milano (con la University of Virginia), al «Virtual Rome 2.0» dell'Itabc (Istituto per le tecnologie applicate ai Beni culturali) del Cnr. Per quanto riguarda gli output di questa filiera, i cosiddetti musei virtuali, la situazione è meno avanzata, se si eccettuano gli esperimenti delle domus romanae «aumentate» da videomapping sotto palazzo Valentini, sempre a cura di Angela e Lanciano, o le ricostruzioni curate dal Cnr Itabc, tra cui la «Villa di Livia reloaded» e il paesaggio di Roma nel Pleistocene al museo di Casal de' Pazzi. In realtà Roma si distingue in questo ambito soprattutto per una «colossale lacuna», come sostiene Andrea Carandini, quella di un «museo della città» che dovrebbe essere «una delle prime ambizioni culturali della capitale». 
I musei della città, che hanno nel mondo grande diffusione e grande successo, si configurano oggi come luoghi dove promuovere, con il contributo delle tecnologie digitali più avanzate, una lettura unitaria del patrimonio e delle trasformazioni urbane prodottesi dalle origini delle città al loro stato presente. E sono spesso anche dei luoghi dove condividere con i cittadini una visione dei problemi e delle possibili evoluzioni future. Questa nuova forma museale, che è un prodotto delle nuove tecnologie, è l'evoluzione della forma originaria di museo della città che era nata a fine Ottocento per documentare vita, costumi e parti di città che andavano scomparendo con la modernizzazione, tra sventramenti e urbanizzazione. A Roma il museo della città ha una storia travagliata che s'intreccia con la storia di un importante edificio, il complesso di 23.000 metri quadrati che sorge in una posizione strategica e unica al mondo, tra il Circo Massimo e la Bocca della Verità, adiacente al Palatino. L'edificio, un ex pastificio che attualmente ospita i laboratori e i magazzini del Teatro dell'Opera e alcuni uffici comunali, è stato in passato un museo della città di prima generazione: dal 1930 al 1939 ha infatti ospitato il Museo dell'Impero, oggi all'Eur con il nome di Museo della Civiltà Romana, e il Museo di Roma, oggi a palazzo Braschi. Tenendo perciò insieme reperti che documentavano la storia della città dalle origini all'Ottocento. Chiaramente aveva la funzione propagandistica di celebrare la continuità storica tra impero e regime, e per questo non è stato ripristinato dopo la Seconda guerra.
Si è però cercato di farlo negli ultimi dieci anni, con una progressiva definizione che si è interrotta soltanto con l'attuale amministrazione. Su impulso soprattutto di Andrea Carandini, e di uno studio pionieristico del Dipartimento delle Politiche economiche di sviluppo del Comune, che sotto la direzione di Luca Lo Bianco già nel 2004 aveva proposto un Virtual Heritage Center che tenesse insieme ricerca, formazione e comunicazione al grande pubblico, tra cittadini e turisti, ha preso forma l'idea di fare di quell'edificio il "portale" dei Fori e dell'intero Patrimonio romano, un hub tecnologico che permettesse, attraverso ricostruzioni virtuali e reperti, una lettura delle stratificazioni e trasformazioni di 3000 anni di storia e vita della città. Dopo la determinazione di una commissione Stato-Comune nel 2008, che disponeva «l'organizzazione del Museo della Civiltà romana, della Città di Roma e degli Antiquaria statale e comunale negli edifici di via dei Cerchi», e una delibera che nel 2012 stabiliva la creazione in 6 anni del «Grande polo museale» dei Cerchi con una spesa di 146 milioni, oggi sembra che tutto si sia fermato.
Solo l'assessora alla cultura Flavia Barca sta cercando insieme alla Sovraintendenza comunale di rilanciarlo nell'ambito di un progetto europeo che finanzierebbe, per 116 milioni complessivi, un pacchetto di interventi di conservazione, soprattutto su siti e monumenti minori e finora trascurati, nonché un «circuito unitario di fruizione» che faccia leva sull'uso delle «tecnologie digitali» e sulla realizzazione del «grande polo museale della città» a via dei Cerchi.
Il museo della città di seconda generazione a via dei Cerchi, restituendo una lettura unitaria di questo immenso oggetto storico che è Roma attraverso ricostruzioni virtuali e testimonianze materiali, sarebbe un museo unico al mondo. Al tempo stesso, tenendo insieme ricerca e comunicazione, consentirebbe di integrare in un unico luogo diverse tecnologie per conferire maggior fondamento scientifico alle ricostruzioni e alle immersioni emotive nel passato. E l'epigrafe del futuro museo potrebbe essere, ancora, una bella frase di Carandini: «Roma, un infinito, che l'informatica quasi cattura».

Il Sole Domenica 25.5.14
Le ribelli di Dio
La Bibbia delle donne
La questione femminile, che papa Francesco affronta nell'esortazione «Evangelii gaudium», è ritornata al centro di una vasta produzione teologica
di Gianfranco Ravasi
s. j.


«Di fatto, una donna, Maria, è più importante dei vescovi». Così Papa Francesco in uno dei due paragrafi della sua esortazione apostolica Evangelii gaudium (nn. 103-104) smitizza una secolare concezione solo clericale della "gerarchia" ecclesiale. È indubbio che la questione femminile è ritornata al centro del campo ove politica, società, cultura e religione si agitano, come è attestato anche dalla vasta produzione teologica dedicata alla donna. Il punto di partenza è naturalmente quella Bibbia la cui pesante storicità appare da frasi come queste: «Come dagli abiti esce fuori la tignola, così la malizia femminile da una donna; meglio la cattiveria di un uomo che la bontà di una donna...». «Amara più della morte è la donna: essa è tutta lacci, una rete il suo cuore, catene le sue braccia. Chi è gradito a Dio la evita, ma chi fallisce ne resta catturato». Così due sapienti biblici, il pur bonario Siracide (42,13-14) e l'acido Qohelet-Ecclesiaste (7,26).
È necessaria una dose massiccia di ermeneutica per sfuggire allo scoglio del fondamentalismo a cui a lungo è rimasta incastrata la barca della tradizione ebraico-cristiana. In realtà in quelle medesime Scritture Sacre ci sono pagine ove le donne primeggiano e riescono a infrangere le catene di un apartheid sociale solidamente codificato: tra le tante figure femminili che affollano la Bibbia dalla primigenia Eva sino alla finale Sposa dell'Agnello dell'Apocalisse, pensiamo soltanto alle matriarche della Genesi, alla "profetessa" Debora che riesce a rendere ridicolo l'inetto comandante militare Barak, alla bellissima Ester che salva un intero popolo da uno dei primi tragici progrom antisemiti, a Giuditta che svela crudamente la fragilità del potere maschile incarnato dal generale Oloferne e così via. Si giunge, per questa via, alla "scandalosa" compagnia femminile che segue Gesù e alla sua delicata attenzione anche quando esse sono precipitate nel baratro della prostituzione, dell'emarginazione, del l'adulterio.
Ebbene, è una teologa e storica di qualità come Adriana Valerio dell'università di Napoli, che ha alle spalle un'importante bibliografia sul tema, a offrire una vivace galleria di «ribelli di Dio», sulla scia dell'elencazione che abbiamo appena fatto. Naturalmente in apertura incombe la premessa ermeneutica: «La parola di Dio è rivolta anche alle donne?... Come liberare la Bibbia delle categorie patriarcali e riconsegnare alle donne la dignità e la radice salvifica del proprio essere al mondo?». Ora, più che ricorrere a frementi asserti femministi che adottano rigidi modelli matriarcali sostituendoli ai paralleli modelli patriarcali tradizionali, la professoressa Valerio sceglie la via dell'evocazione testuale attraverso un decalogo di storie, da Eva fino a quel Paolo che una vulgata popolare vuole cupamente misogino. Sorprendente è, invece, la scoperta – testualmente fondata – di un Apostolo ben diverso anche in quei passi estremi che furono imbracciati come mitraglie antifemminili: «Le donne tacciano in assemblea... La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione: non concedo a nessuna donna di insegnare né di dettare legge all'uomo...» e così via.
 Dal prisma interpretativo di una corretta esegesi che non ignora le coordinate cronologiche e culturali di Paolo, fuoriesce un messaggio che capovolge gli stereotipi e che non vede più l'Apostolo arrancare lontano dalla solarità di Gesù, di sua madre Maria, della Maddalena, «apostola degli apostoli» e del corteo femminile che seguiva il Maestro di Nazaret. Così, anche l'Antico Testamento spesso ridotto a essere lo specchio di un consesso di maschilisti sfrenati lascia salire sulla ribalta quelle donne che sopra abbiamo citato e altre ancora, come le due deliziose Rut e Noemi, nuora e suocera solidali tra loro ma capaci di mostrare quanto forte sia «il potere delle donne che non hanno potere». E quelle stesse pagine ebraiche lasciano sorridere e parlare senza pudori un Dio che «non è né maschio né femmina, ma la cui immagine è impressa nelle donne e negli uomini». Egli, allora, non esita a rivelare il suo «lato femminile», cioè la rûah, lo Spirito profetico e la Sapienza creatrice.
Sempre procedendo sul terreno biblico – ma questa volta guidati da un'altra donna esegeta di qualità, Donatella Scaiola dell'università Urbaniana di Roma – ecco venirci incontro un'anonima ma luminosa figura femminile, «una donna di valore» che chiude il libro biblico dei Proverbi, proposta come una sorta di emblema finale (31,10-31). Ma non si pensi a un'aureolata "Madonna" medievale, a un "femminino" astratto ed eterno alla Goethe, a una Venere affascinante della statuaria greca o a una "Primavera" botticelliana. No, l'obiettivo del poeta biblico si fissa sulle mani di quella donna, sposa e madre: mani che filano lana e lino, che cucinano, che piantano una vigna, che vagliano gli acquisti familiari, che approntano il guardaroba per sé e per marito e figli, senza ignorare l'eleganza (lino e porpora), mani che gestiscono il capitale economico domestico ma che si aprono al povero. E attorno a lei, vera materfamilias, responsabile ultima della gestione familiare, si dispongono figli e marito per intonare una specie di brindisi beneaugurale.
Parlavamo di una folla di donne che occhieggiano dalle Scritture e non sempre in un'atmosfera idilliaca come quella appena rappresentata. C'è anche la crudeltà femminile, che sboccia in situazioni di degrado. Si legga, allora, la terribile storia biblica delle due prostitute che ricorrono al giudizio regale di Salomone per il riconoscimento di maternità di un bambino (1Re 3,16-28). A spiegare tutte le iridescenze umane e spirituali di questa vicenda è un noto esegeta, André Wénin dell'università di Lovanio. Si potrebbe leggere questo racconto commentato ascoltando, ad esempio, l'oratorio Judicium Salomonis di Carissimi o quelli di Charpentier o di Händel oppure ricercandone la ventina di riprese libere letterarie.
Il filo nero, però, potrebbe continuare a dipanarsi nella stessa Bibbia raggiungendo il parossismo nella drammatica esperienza della violenza sulle donne e del femminicidio, un filo che parte da lontano: ad esempio, si legga nella sua brutale nudità la narrazione di uno stupro di gruppo, della morte e del successivo tragico rito che è offerta da un capitolo incandescente, il 21 del libro dei Giudici. Spogliata dall'enfasi dello stile romantico, potremmo allora condividere questa nota del Diario di un poeta di Alfred de Vigny: «Dopo aver riflettuto bene sul destino delle donne di tutti i tempi e in tutti i paesi, ho finito per convincermi che ogni uomo dovrebbe dire a ogni donna, in luogo di "Buongiorno!", un "Perdona!", perché i più forti hanno fatto la legge».

Il Sole Domenica 25.5.14
Arte in guerra
Monuments Men in giro per l'Italia
Il nuovo volume di Robert Edsel sui MFAA, il corpo anglo-americano che salvò le opere d'arte in Europa. Narrati fatti e protagonisti attivi nella penisola italiana dal 1943 al 1945
di Marco Carminati



L'avvincente saga dei Monuments Men continua. Dopo aver raccontato le imprese dell'intraprendente drappello di storici dell'arte, archeologi, bibliotecari e direttori di musei anglo-americani che, attraversando l'Europa dalla Normandia all'Austria al seguito delle truppe alleate, cercarono di salvaguardare le opere d'arte dalla furia delle guerra e dalla bramosia dei nazisti, Robert Edsel torna sull'argomento con un nuovo libro che si concentra sulle azioni dei MFAA (Monuments, Fine Arts, and Archives) in Italia, dallo sbarco in Sicilia nel luglio 1943 alla liberazione del nord nell'aprile-maggio 1945.
Gli eroici Monuments Men attivi nel nostro Paese si chiamavano Deane Keller, Frederick Hartt, Perry Cott, Ernst Theodore De Wald, Mason Hammond e John Bryan-Perkins (per citare solo i principali) e a loro Edsel dedica molto spazio narrandone le imprese durante la campagna d'Italia e facendoli dialogare con altri protagonisti della storia, comandanti militari, funzionari italiani del patrimonio artistico, esponenti della Chiesa cattolica, agenti segreti, partigiani, diplomatici, storici dell'arte tedeschi e ufficiali delle SS.
Come è noto, nell'estate del 1943 in Italia accadde di tutto: lo sbarco in Sicilia degli Alleati, la caduta di Mussolini, l'armistizio dell'8 settembre, la fuga del re a Brindisi. Risultato: il caos. La penisola – subito occupata dal ex alleato tedesco – si trasformò di colpo in un fronte di guerra, con gli Alleati che tentavano di risalirla da sud e le truppe del Terzo Reich che tentavano di sbarrare loro la strada. Il tutto a suon di devastanti cannonate.
Ma, ahinoi, non c'erano solo i cannoni. Per costringere i nazifascisti alla resa, gli Alleati avevano parallelamente deciso un piano di bombardamenti sulle principali città italiane che, almeno nelle intenzioni, dovevano interessare solo obiettivi strategici come snodi ferroviari o fabbriche di produzioni belliche. Churchill voleva far capire «al vecchio Mussolini come ci si sente con il soffitto che ti può cadere in testa da un momento all'altro». E si agì di conseguenza. Le autorità alleate divisero le città italiane «bombardabili» in tre categorie. La categoria "A" comprendeva Roma, Venezia, Firenze e il Torcello: questi luoghi non potevano assolutamente essere colpiti senza autorizzazioni speciali. Nella categoria "B" rientravano invece Ravenna, Assisi, Como e San Gimignano, e nella categoria "C" c'erano Pisa, Siena, Verona, Bologna, Lucca e Padova: i singoli piloti erano autorizzati a colpire queste città senza particolari permessi.
Sappiamo che sui cieli d'Italia gli Alleati ne combinarono di tutti i colori. Ad esempio massacrarono di bombe Milano: il libro di Edsel si apre con il drammatico racconto dalla distruzione di Santa Maria delle Grazie, nella quale solo l'Ultima Cena di Leonardo sopravvisse intatta agli ordigni. Purtroppo, gli anglo-americani commisero anche micidiali errori di puntamento. A Roma, nell'agosto del 1943, insieme alla Stazione di San Lorenzo gli Alleati colpirono anche gli edifici vicini, l'università, l'ospedale, il cimitero e la stessa basilica di San Lorenzo. Morirono circa 2 mila persone e papa Pio XII, che aveva seguito il bombardamento con il binocolo dalle finestre del Vaticano, si precipitò tra le vittime.
Un secondo errore di puntamento sulla stazione ferroviaria di Padova ebbe conseguenze tragiche per il patrimonio artistico italiano: venne centrata in pieno la vicina Chiesa degli Eremitani e gli affreschi di Mantegna andarono irimediabilmente in polvere. Ma le bombe sfiorarono anche la Cappella degli Scrovegni, ammantata di affreschi di Giotto.
Uno dei primi problemi affrontati dai Monuments Men attivi in Italia fu proprio quello di fare in modo che i bombardieri alleati non commettessero troppi errori di mira. In tal senso si operò perché ai piloti fossero consegnate non semplici carte geografiche delle zone da colpire ma precise mappe fotografiche riprese dall'alto. Tali precauzioni diedero talvolta i loro frutti, perché nel raid effettuato contro la stazione ferroviaria di Firenze, ad esempio, nessuna bomba andò a sfiorare la vicinissima basilica di Santa Maria Novella, stracolma di capolavori.
Il grosso del lavoro, però, i Monuments Men lo fecero via terra, percorrendo l'Italia al seguito delle truppe alleate. E si trovarono ad affrontare sostanzialmente quattro problemi. Primo: rimediare i danni provocati dagli stessi bombardamenti alleati costruendo le prime tettoie di fortuna sopra i monumenti colpiti. Secondo: mettere in sicurezza gli edifici storici italiani con i celebri cartelli «off limits» per evitare che le stesse truppe alleate vi si insediassero usandoli come caserme o quartieri generali. Terzo compito (ancor più impegnativo): recuperare e mettere in sicurezza i tesori d'arte allontanati da musei, chiese e collezioni private facendosi aiutare, ove possibile, dai funzionari italiani (attivissimi, in questo senso, furono Pasquale Rotondi, Fernanda Wittgens, Emilio Lavagnino, Giulio Carlo Argan e Palma Bucarelli, Bruno Molajoli e Amedeo Maiuri). Il quarto compito fu il più drammatico: impedire ai tedeschi di depredare il patrimonio italiano deportandolo in Germania o, peggio ancora, distruggerdolo per rappresaglia (come purtroppo era accaduto con le navi romane di Nemi o per l'Archivio Storico di Napoli).
Senz'armi, senza autorità militare e in sella a jeep scalcagnate (spesso rimediate con mezzi non del tutto leciti), i Monuments Men partirono dalla Sicilia. Mason Hammond fece da apripista e poté per fortuna constatare che i danni al patrimonio artistico dell'isola si limitavano a Palermo e a Messina, dove a fare le spese delle bombe alleate erano state soprattutto le chiese. Ma quando gli Alleati riuscirono a conquistare Napoli, i Monuments Men, capitanati da Paul Gardner, si trovarono davanti una situazione desolante: la basilica di Santa Chiara era stata completamente distrutta e gli scavi di Pompei danneggiati. Gli Alleati avevano bombardato Pompei perché convinti che tra gli scavi si celassero postazione tedesche. E lo stesso sarebbe accadduto con l'Abbazia di Montecassino.
«Tutte le strade portano a Roma, ma sono tutte minate» dicevano, scherzando, gli Alleati. Ma gli impavidi Monuments Men le percorsero fino alla Capitale. Da qui – una volta constato il buono stato di conservazione dei moltissimi capolavori del patrimonio artistico italiano ricoverati in Vaticano – i soldati dell'arte puntarono verso nord per affrontare missioni sempre più pericolose e impegnative. Ernest De Wald prese il comando, Deane Keller, Fred Harrt e Perry Cott lo affiancarono. De Wald ispezionò a uno a uno i capolavori del patrimonio italiano ricoverati in Vaticano, mentre Keller fece il possibile per lenire le ferite di Pisa, costruendo un tetto di fortuna sul Camposanto sventrato dalle bombe (per riconoscenza a Keller verà concesso il privilegio di essere sepolto qui).
A bordo della sua jeep «Lacky 13», Fred Harrt compì missioni eroiche per aiutare le autorità italiane a riportare a Firenze i capolavori degli Uffizi e delle collezioni fiorentine sparsi nei rifugi fuori città. Perry Cott, invece, una volta raggiunta Milano, osservò con angoscia lo stato del Cenacolo delle Grazie e operò perché si realizzasse subito una copertura provvisoria al dipinto di Leonardo. Ma poté constatare con sollievo che gli ardimentosi funzionari di Brera erano riusciti, pur tra mille pericoli, a mettere al sicuro i tesori della Pinacoteca ricoverandoli in Valtellina e sull'Isola Bella dei Borromeo.
I Monuments Men lavorarono sodo sino all'ultimo. Nel maggio del 1945, Harrt, Ward Perkins e Keller inseguirono i tedeschi fino al confine dell'Alto Adige e riuscirono strappare loro alcuni dei più inestimabili tesori di Firenze: capolavori di Donatello, Botticelli, Raffaello, Michelangelo e Caravaggio, che le truppe del Reich, ormai allo sbando, avevano sottratto agli Uffizi e a Palazzo Pitti, e stavano disperatamente tentando di portarsi in Germania.

Il Sole Domenica 25.5.14
Diritti & pubblicazioni
Il Met «libera» la sua arte
Il Metropolitan consente la riproduzione gratuita delle immagini di 400mila opere: il loro valore dipende anche dalla conoscenza diffusa
di Roberto Casati


Chiunque si sia trovato a dover pubblicare un testo con immagini di opere d'arte o di oggetti antichi conosce la trafila vessatoria della richiesta di autorizzazione. La regola più diffusa (con alcune varianti) è abbastanza semplice e non lascia scampo. Anche se le opere sono libere da diritti d'autore, le loro riproduzioni non lo sono, o non sono considerate tali nei fatti. Quindi si deve chiedere all'istituzione ospitante un permesso, che in molti casi è pagante (tra i 50 e 100 euro a immagine). In alcuni casi le istituzioni onorano una richiesta di sconto o di abbattimento della tariffa se l'uso dell'immagine è accademico – io allego sempre una cerimoniosissima lettera di motivazioni sperando di incontrare una burocrazia clemente.
Ho una casistica ormai molto forbita: quelli che non rispondono (e in tal caso uno mette una notula a fine libro, giurando di aver fatto di tutto per rintracciare gli aventi diritto, e promettendo di pagare il dovuto); quelli che negoziano all'osso; quelli che non fanno pagare ma ci tengono a che tutta la trafila sia seguita, per ragioni sadico-statistiche, mi dico. In alcune situazioni gli aventi diritto o presunti tali sono società ad hoc create dai musei o studi fotografici, in altre non si sa nemmeno bene chi siano e il lavoro dell'autore assomiglia a quello del detective. In certi casi ho semplicemente rinunciato a pubblicare la fotografia e ho inserito un disegno al tratto fatto da me o da un collega (prendendo spunto da quanto fatto da Arnheim nel suo Arte e percezione visiva).
Paul Taylor, del Warburg Institute a Londra, dice neanche troppo scherzosamente che la metà del lavoro di uno storico d'arte consiste nella richiesta di autorizzazioni. Non va dimenticato che gli editori si lavano ormai santamente le mani della questione: gli autori firmano un contratto nel quale viene specificato che gli oneri per l'acquisizione dei diritti saranno a loro esclusivo carico. Il che significa che gli autori a volte passano ancora altro tempo a stilare domande di finanziamento per coprire gli oneri. In alcuni casi (come nel contesto francese o italiano) questa è una paradossale partita di giro a somma negativa: un ente pubblico paga un ricercatore che usa una parte del suo tempo a scrivere una domanda di finanziamento che verrà sottoposta a un altro ente pubblico, e se il ricercatore ottiene il finanziamento lo verserà a un ulteriore ente pubblico per coprire i diritti di riproduzione. Neanche la fantasia di un Gogol ci sarebbe arrivata.
A questo punto lasciatemi enunciare un assioma. Non c'è patrimonio artistico senza la conoscenza del patrimonio. Se non ci fosse il lavoro di migliaia di studiosi – storici e critici dell'arte, ma non solo – che pubblicano opere sull'arte, ne raccontano le vicende, datano, analizzano, attribuiscono, e interpretano, senza tutto questo il valore di mercato della Gioconda o di un Basquiat sarebbe esattamente pari a zero. È una questione metafisica prima ancora che economica: il valore dell'arte dipende dalla conoscenza dell'arte. Ne segue che il miglior investimento per un Paese con un certo patrimonio da valorizzare – oltre a tenersi stretto il suo sparuto plotone di storici dell'arte – è quello di far sì che si pubblichi molto e bene su questo patrimonio. Ne segue altresì che si dovrebbero togliere tutti gli impedimenti e i lacciuoli per incrementare la possibilità di pubblicare e al tempo stesso per liberare il tempo che i ricercatori sprecano a improvvisarsi agenti editoriali. 
Ci sono delle buone pratiche da cui prendere esempio. La National Gallery di Londra permette la ripubblicazione delle sue immagini previa semplice richiesta. Non si paga nulla se si dichiara di pubblicare un'opera accademica o senza fini di lucro, e ottenuto il permesso viene inviata un'immagine ad alta risoluzione. Meglio ancora ha fatto nei giorni scorsi il Metropolitan Museum a New York, mettendo a disposizione 400mila immagini ad alta risoluzione, ripubblicabili «senza permesso da parte del museo, e gratuitamente» grazie all'iniziativa «Open Access for Scholarly Content». L'etichetta Oasc contraddistingue sul sito del Metropolitan le riproduzioni che possono venir scaricate e ripubblicate. L'idea di fondo è semplice: la soluzione per difetto consiste nel permettere tutto, tranne quello che è espressamente vietato. E poi nel capire perché vietare questo o quello. Se una ditta di profumi o un produttore di birra vogliono usare l'immagine della Venere di Botticelli per la loro pubblicità, continuiamo a farli pagare. Ma non ha senso per l'economia di un Paese che è seduto su un patrimonio come quello italiano, e che ha tutto l'interesse a far vivere questo patrimonio, imporre una tassa a chi cerca di valorizzarlo.

Corriere La Lettura 25.5.14
La finanza è tiranna, riscopriamo Jefferson
Due secoli fa il padre della Dichiarazione d’indipendenza americana chiedeva di fondare la democrazia sui produttori agricoli per limitare lo strapotere speculativo delle banche
di Giulio Giorello


Le banche si sono condannate a morte da sole», scriveva nel 1817 Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti (dal 1801 al 1809), a Thomas Cooper, uno dei più importanti sostenitori americani della fisiocrazia (la dottrina che vede nell’agricoltura il fondamento delle attività economiche). In quell’occasione si dichiarava convinto che l’ammanco di 300 milioni di dollari (di allora) da parte delle banche americane e il loro rifiuto di pagare i creditori potesse segnare la loro scomparsa dalla scena. Ma «grazie alla stupidità dei nostri cittadini e all’acquiescenza dei nostri legislatori», i banchieri avevano letteralmente saccheggiato la giovane nazione, spendendo i soldi del popolo in «case sontuose, eleganti carrozze e cene di lusso».
Il terzo presidente non aveva mai nascosto la sua avversione per un sistema bancario tanto svincolato da qualsiasi forma di pubblico controllo da «minacciare le stesse istituzioni repubblicane». E, già un anno prima della crisi del 1817, a un altro suo corrispondente aveva denunciato «la bolla finanziaria» (suo termine) che affliggeva come una pericolosa malattia i cittadini della nuova America, i quali, «come l’idropico chiede acqua in continuazione», invocavano «banche, banche, banche», in una sorta di «stato febbrile» non troppo diverso da quello che aveva tormentato i Paesi del Vecchio mondo. A questa patologia Jefferson si era da sempre opposto non con semplici denunce morali («come avrebbe fatto Don Chisciotte contro i mulini a vento»), ma con un articolato appello ai farmers , cioè agli agricoltori indipendenti che a suo parere costituivano il nerbo della nazione, non solo dal punto di vista economico ma anche, e soprattutto, da quello politico. La vocazione democratica e repubblicana degli Stati Uniti veniva così indissolubilmente legata all’«industriosità» di tale gruppo sociale, che si sarebbe contraddistinto per la sua capacità di intrapresa economica e di autodeterminazione politica.
Proviamo adesso a sostituire ai farmers jeffersoniani coloro che oggi producono reale ricchezza e conoscenza: imprenditori, lavoratori industriali e agricoli, operatori della cultura, ricercatori tecnico-scientifici e persino artisti capaci di indicare originali forme di espressione. E immaginiamoli alle prese con le bolle e le banche odierne: non occorre eccessivo sforzo, perché è questo lo spettacolo che si para di fronte ai nostri occhi pressoché ogni giorno.
Il mosaico di concezioni filosofiche, politiche ed economiche in cui si inquadra la battaglia di Jefferson viene puntualmente ricostruito da Manuela Albertone, una delle più prestigiose studiose dell’Università di Torino, che da molti anni si dedica a quella complessa «storia atlantica» che guarda all’intreccio del Nuovo e del Vecchio mondo, quasi una sorta di ping-pong in cui ci si scambiano merci, germi, animali, esseri umani e soprattutto idee, progetti e pratiche, talvolta anche ignobili (pensiamo, ovviamente, alla tratta dei neri e alle stesse esitazioni di Jefferson e di molti suoi sostenitori verso le proposte radicali di abolizione del sistema schiavistico, visto come incompatibile con la libera repubblica come loro stessi l’immaginavano).
Prima di raccontare National Identity and the Agrarian Republic , l’ultima fatica di Manuela Albertone, mi pare rilevante notare come questa sia stata pubblicata direttamente in inglese presso l’autorevole collana di storia economica e sociale dell’età moderna dell’editore anglo-americano Ashgate. A dimostrazione che il «commercio delle idee» (per usare il sottotitolo del volume) tra vecchia Europa e giovane America continua tutt’oggi. Tema centrale del libro, infatti, è da una parte il contributo dell’Illuminismo europeo al formarsi della coscienza peculiarmente americana nel quadro di una originale trasposizione dei temi economici cari ai fisiocratici di Francia, poi ripresi e ripensati in chiave politica dai «risoluti ribelli» guidati da Jefferson fin dai tempi della Dichiarazione di indipendenza (1776); dall’altra, il rientro di questi strumenti per pensare il nesso tra economia e politica nell’Europa rivoluzionaria degli anni Novanta del Settecento, a cominciare dai coraggiosi giacobini di Francia e persino d’Inghilterra.
Manuela Albertone si concentra sulle riflessioni intorno ai paradigmi fisiocratici nelle tredici colonie ancora sotto il dominio britannico, prima ancora della Rivoluzione: riflessioni che coinvolgevano non solo il giovane Jefferson ma personaggi del calibro dello scienziato cosmopolita Benjamin Franklin e del quacchero inglese Thomas Paine, figure che, in tempi diversi e situazioni differenti, avevano imparato dalla Francia dei Lumi e dovevano insegnare a loro volta agli europei i modi concreti dell’emancipazione. I temi della fisiocrazia, ampiamente recepiti e discussi dagli americani, in un «commercio» fecondo di libri, lettere e controversie con i loro colleghi francesi e alleati (è bene ricordarlo) nella guerra contro gli inglesi, avrebbero poi costituito una vera e propria impalcatura intellettuale e culturale per l’esperimento democratico realizzato in armi.
«Per Jefferson la pietra di paragone di una repubblica — scrive Manuela Albertone — era una democrazia decentrata, garantita dai poteri degli Stati e dalla partecipazione politica concepita come forma di educazione repubblicana, cui tutti potevano accedere per mezzo di un sistema scolastico nazionale diffuso su tutto il territorio». Per il terzo presidente tale repubblica poteva trovare stabili e solide fondamenta solo nell’autonomia economico-politica di un ceto popolare che faceva del possesso e del lavoro della terra il nucleo di un repubblicanesimo al tempo stesso democratico e individualista. Al progetto doveva dare un contributo anche il più estremista Paine, coniugando tale radice agraria con una maggiore sensibilità per le attività manifatturiere e industriali. «Il radicalismo» di questo singolare quacchero, capace di rinnegare il pacifismo religioso in nome dell’emancipazione, spiega Manuela Albertone, «combinava una forma di egualitarismo democratico, ma non livellatore, con gli sviluppi economici della società di mercato, portando a piena maturazione l’economia politica dei jeffersoniani».
Dunque, per quei pensatori che erano anche uomini d’azione (ma anche per noi, a prescindere dagli stessi esiti delle rivoluzioni americana e francese), indipendenza economica voleva dire libertà nell’accezione più completa del termine. E da qui sono comunque discesi spirito d’intrapresa (per dirla con le parole care a Luigi Einaudi), tolleranza religiosa e civile (intesa come nucleo di un progressivo abbattimento di ogni genere di discriminazione), assenza di qualsiasi potere che si presenti come incontrollabile, per usare un’espressione che Karl Popper ha coniato nella sua polemica contro la televisione, ma che noi oggi vorremmo, proprio come i jeffersoniani, applicare al potere finanziario in tutte le sue forme.

Corriere Salute 25.5.14
La salute mentale fa crescere il Pil
di Claudio Mencacci

Direttore Neuroscienze H, Fatebenefratelli Milano

La salute mentale rappresenta un importante fattore economico della nostra società.
Nei Paesi dell’Unione Europea questo problema provoca, a causa della diminuzione di produttività, un calo del Pil calcolato in almeno il 3-4 per cento. Di fronte a un crescente aumento di disturbi psichici nella popolazione italiana (circa 16 milioni di casi) aggravati dalla crisi economica e dal clima di incertezza e di disoccupazione che riguarda in particolare i giovani, è urgente mettere in atto strategie per affrontare ciò che nel giro di pochi anni sarà la principale causa di disabilità. Fra le persone con disagio mentale i tassi di occupazione sono molto più bassi rispetto a quelli di persone affette da patologie somatiche croniche (diabete, cardiovascolari eccetera), così come maggiore è la difficoltà a inserirsi in ambito lavorativo in particolare la dove vi è un elevato livello di stigmatizzazione. Urgono quindi interventi protettivi, soprattutto verso i pazienti giovani
e con basso livello di istruzione. I servizi di salute mentale non devono subire tagli lineari, devono anzi essere potenziati facilitando l’accesso alle cure anche innovative per tutti e per tutte le patologie psichiatriche. Particolare supporto e attenzione vanno riservati all’inserimento lavorativo di quei giovani in transizione tra scuola e lavoro e alle loro famiglie, va inoltre implementata la partecipazione ad attività’ di gruppo (associazioni sportive, laiche, religiose) come ulteriore fattore di protezione dalle conseguenze della crisi. In aggiunta  è necessaria la lotta al consumo di alcolici, attraverso politiche di prevenzione e di aumento dei prezzi, consentirebbe una riduzione delle morti alcol correlate (si veda anche l’articolo sul referente alcologico negli ospedali a pagina 48). Ridurre lo stigma verso le patologie psichiche è, infine, una priorità in quanto impatta sulla volontà dell’opinione pubblica di investire sulla salute mentale. Una buona e diffusa salute mentale contribuisce alla produttività economica e alla prosperità dell’intera società.

Corriere La Lettura 25.5.14
Il divino ha bisogno dei nostri gesti
La lezione di Kerényi: senza rito non c’è fede
di Giorgio Montefoschi


«Tutto ciò che è religioso — scrive Károly Kerényi (1897–1973) in Rapporto con il divino e altri saggi — presuppone il divino, nessun elemento religioso è concepibile senza la rivelazione di qualcosa di divino». Dio è il prima, l’origine, il Tutto. Ed è impensabile e non rappresentabile. L’uomo, però — ed è questa la verità altrettanto luminosa e innegabile — può entrare in contatto con il divino, addirittura trasformarsi nel divino: e in tal modo superare la tragedia della impensabilità di Dio. Questo è possibile attraverso il rito. Il rito (il sacrificio), è il momento nel quale l’uomo che pensa e annaspa nel pensiero va oltre se stesso ed entra in una dimensione nella quale lo spazio e il tempo scompaiono, perché anche il rito va oltre se stesso: «Verso qualcosa che può contenere allusivamente solo come un frammento o una ripetizione di qualcosa di più grande».
Tutto il resto — l’immenso corpo delle religioni e del mito — è il dopo. È interpretazione. Racconto. Kerényi cita Martin Buber: «Dio parla all’uomo nelle cose e negli esseri che gli invia nella vita, e l’uomo risponde, proprio attraverso la sua azione nei riguardi di queste cose e di questi esseri. Ma c’è un pericolo, che si distacchi qualcosa dal lato umano di questa relazione e lo si renda autonomo, ponendo questo qualcosa al posto della relazione reale». Questo «qualcosa» cui accennano Buber e Kerényi è il «pericolo delle religioni»: il pericolo di una narrazione che si limiti a una rappresentazione gratificante o terrificante, inquietante o consolatoria, distesa nel nostro tempo, umana in defintiva, e dimentichi il «momento vero». Che è fuori del tempo. Nel quale è Dio la «materia».
Fondamentale, per vivere il rapporto con il divino — spiega convintamene Kerényi — è l’atteggiamento interiore di chi si accosta al divino. Di nuovo si può descriverlo solo con parole comprensibili in senso figurato: è il suo porsi immediato davanti all’assoluto. Perché ciò possa accadere, l’uomo deve presentarsi purificato nel suo corpo terreno, e nudo. L’atteggiamento esteriore, spia di quello interiore, è altrettanto importante a quel punto. Nel merito, Kerényi rilegge W.F. Otto: «Il portamento umano è il primo testimone del mito; compare qui non nella parola, ma nell’erigersi proprio del corpo. Il significato religioso di altri comportamenti, in uso da tempo immemorabile, ci è ben noto. È ad esempio il caso dello stare in raccoglimento, del sollevare le braccia e le mani o, all’opposto, del piegarsi fino ad inginocchiarsi o gettarsi a terra, del congiungere le mani e di tanti altri, che non occorre menzionare. Questi comportamenti non dipendono, nella loro natura originaria, da un sapere o da una fede ricompresi in parole, né sono l’espressione di una indicibile commozione: sono il mito rivelato, il mito stesso».
Silenzio, raccoglimento, intonazione del canto, intonazione e intensità della preghiera, misura dei gesti, significato dei gesti e delle parole, luce e buio: la stolta, meccanica, vuota liturgia occidentale ha dimenticato da tempo immemorabile tutto ciò, convinta che la liturgia debba stare al passo con i tempi e, dunque, sia quasi un suo obbligo strizzare l’occhio alle liturgie televisive (così la gente, questa è l’idiozia sovrana, andrà più numerosa in chiesa). Per ritrovare quel «portamento umano» tanto povero e semplice quanto denso di significati, bisogna oggi inerpicarsi nelle montagne, attraversare la neve e il ghiaccio, e raggiungere i conventi benedettini più sperduti e lontani. Oppure, bisogna approdare alle rive incontaminate del Monte Athos, svegliarsi nel cuore della notte e, dai lunghi corridoi dei monasteri ormai semideserti, scendere nella chiesa così oscura che i monaci non si distinguono negli scranni.
«Il sacrificio — scrive Sylvain Lévi in un libro famoso, La dottrina del sacrificio nei Brahmana (Adelphi), dedicato a quanto anticamente avveniva in India e avviene ancora oggi — è un’operazione magica; la fede non è che la fiducia nella virtù dei riti; il passaggio al cielo è una ascensione per gradi; il bene è l’esattezza rituale». Se il bene è l’esattezza rituale, come mai, si domanda Roberto Calasso nella introduzione al volume, molti antropologi moderni (a differenza, diciamo noi, di quanto fa Kerényi nel libro pubblicato da Bompiani) vorrebbero segretamente dimenticare il sacrificio (il rito) ed espellerlo dalla comunità degli studi? Forse — scrive Calasso — lo fanno «per evitare di essere risucchiati nel vortice sacrificale. Forse anche perché obbliga — quel vortice — a pensare troppo. O, avrebbero detto i ritualisti brahmanici, a pensare tutto».

Rapporto con il divino e altri saggi, Bompiani p 712

Corriere La Lettura 25.5.14
Biografie
Brazzà, il buon colonialista. Friulano, francese, amato nel suo Congo
La sua memoria rimane nel nome della capitale Brazzaville dove nel 2006 sono stati portati i resti
Ma ora gli eredi litigano sulle spoglie
di Stefano Montefiori


Nell’Ottocento si poteva esplorare il Congo e fondare colonie a colpi di cannone, come fecero Henry Morton Stanley e il re del Belgio, Leopoldo II, oppure gettare le fondamenta di una città mossi da spirito di avventura e rispetto per gli africani, come accadde — caso eccezionale — a Pietro di Brazzà Savorgnan, nobile friulano nato a Castel Gandolfo nel 1852.
Figlio del conte Ascanio, appartenente a una famiglia di patrizi della Repubblica di Venezia riparata a Roma dopo la cessione della Serenissima all’Austria, il giovane Pietro si arruolò nella marina francese perché credeva negli ideali della Rivoluzione e dei Lumi, nel progresso e soprattutto voleva conoscere il «Regno del Re Macocco», quella grande macchia bianca che corrispondeva al bacino del fiume Congo nella carta geografica regalatagli dal nonno. L’italiano Pietro Savorgnan di Brazzà divenne così il francese Pierre Savorgnan de Brazza, inusuale caso di condottiero disarmato che pose le basi dell’Africa equatoriale francese e fondò Brazzaville, la capitale del Congo francese, unica città al mondo che ancora oggi mantiene il nome del colonizzatore.
Sull’altra riva del fiume, Léopoldville è diventata Kinshasa appena il Congo belga ha conquistato l’indipendenza nel 1960, quando le false pretese filantropiche, i massacri e le torture ordinate da Leopoldo II erano ormai note; Brazzaville ha continuato invece a chiamarsi così, anche dopo la decolonizzazione, perché Pietro di Brazzà è una specie di eroe nazionale congolese. Che ruppe ben presto con i metodi e gli obiettivi imperialisti di Parigi, non molto diversi da quelli della monarchia di Bruxelles. Gli africani lo chiamavano «il padre degli schiavi», perché comprava gli indigeni fatti prigionieri per poi liberarli.
Brazzaville ha anche un posto importante nella storia di Francia: fu da quella città, eletta a capitale della Francia libera (in opposizione alla Francia collaborazionista di Vichy), che il generale de Gaulle cominciò l’opera di riconquista della métropole occupata dai nazisti.
Oggi però la memoria di Brazzà e la Repubblica del Congo vivono un momento difficile: il presidente Denis Sassou-Nguesso, che domina il Congo ex francese dal 1979 (con una pausa dal 1992 al 1997), minaccia di cambiare nome alla capitale e di togliere ogni altro riferimento (per esempio la strada principale) all’esploratore d’origine friulana, perché è attaccato da una parte dei discendenti di Brazzà.
Le delusioni dell’indipendenza, lo strapotere di Sassou-Nguesso sul Paese e il suo petrolio si intrecciano con le beghe di famiglia dei pronipoti italiani di Brazzà: alcuni — come l’ambasciatore Corrado Pirzio-Biroli — preferiscono che le spoglie dell’antenato rimangano nel grande mausoleo inaugurato nel 2006 alle porte di Brazzaville; altri — guidati da Idanna Pucci di Barsento — pretendono di riportare i resti di Brazzà in Italia, perché «Sassou-Nguesso non ha rispettato i patti».
Il destino di Brazzà accompagna la storia dell’Africa e della Francia: nel 1884 firmò, a nome del governo francese, un trattato di protettorato con il suo amico re Makoko a Mbé, capitale del Regno Teké, e dopo il congresso di Berlino del 1885, quando le grandi potenze si spartirono il continente, l’esploratore tornò a Parigi per esortare gli europei a non «imporre bruscamente i nostri modi di fare e di pensare, perché arriveremmo inevitabilmente a una lotta che condurrebbe all’annientamento».
Brazzà fu emarginato dalle grandi società francesi che lo vedevano come un sognatore, e come un ostacolo allo sfruttamento del caucciù e delle altre risorse africane. Venne richiamato in servizio dal governo di Parigi solo nel 1903, per placare l’indignazione dell’opinione pubblica in seguito all’affare Toqué-Gaud, due funzionari francesi che avevano deciso di festeggiare la festa nazionale del 14 luglio impalando un prigioniero congolese con della dinamite fatta poi esplodere. A Brazzà venne ordinato di guidare un’ispezione nella colonia e di redigere un rapporto rassicurante, che avrebbe dovuto rimarcare le differenze tra le atrocità nel vicino Congo belga e la presunta civiltà della colonizzazione francese. Lui rifiutò, e scrisse una relazione durissima — sorta di testamento politico anti-colonialista — che venne insabbiata, ed è stata pubblicata per la prima volta solo il mese scorso, dal piccolo editore Le Passager clandestin.
Brazzà morì a Dakar nel 1905 durante il viaggio di ritorno in Francia, e la moglie Thérèse — convinta che fosse stato avvelenato dai francesi— rifiutò che venisse sepolto nel Panthéon. I famigliari scelsero piuttosto Algeri, dove è rimasto fino al 2006.
«All’inizio degli anni Duemila fummo avvertiti che i resti del nostro antenato stavamo per essere trasferiti nella fossa comune del cimitero di Algeri», racconta a «la Lettura» Corrado Pirzio-Biroli, che dopo una lunga carriera diplomatica alla Commissione europea si divide tra Bruxelles (è a capo della Fondazione Rise per l’agricoltura) e il castello di famiglia in provincia di Udine, dove ha organizzato il «Museo storico Pietro Savorgnan di Brazzà».
«Mio padre Detalmo Pirzio-Biroli pensò allora che fosse più giusto riportarlo in Congo — aggiunge — e le autorità locali furono entusiaste». Detalmo, vestito degli abiti di Brazzà, venne condotto a Mbé, 100 chilometri a nord di Brazzaville, e fatto incontrare con il discendente del re Makoko. Dopo qualche incertezza tra Brazzaville e Mbé, i congolesi decisero infine che le spoglie sarebbero state trasferite nella capitale.
Nel 2006 viene completato a Brazzaville il grande mausoleo in marmo bianco — la prima pietra venne posata dal presidente francese Jacques Chirac — destinato ad accogliere il ritorno di Pietro Savorgnan di Brazzà. Ma poche settimane prima della cerimonia, una quindicina di discendenti si oppongono. «Un tipico caso di lite famigliare: quando qualcuno prende un’iniziativa, gli altri si infastidiscono, anche se non si erano mai interessati prima alla questione», dice Corrado Pirzio-Biroli.
I contrari al trasferimento in Congo sono guidati da Idanna Pucci di Barsento, aristocratica fiorentina nipote dello stilista Emilio Pucci, che denuncia la strumentalizzazione mediatica e propagandistica messa in piedi dal presidente Sassou-Nguesso, uno dei più longevi e corrotti autocrati del continente africano. I pronipoti non vogliono che Brazzà, capace in vita di opporsi allo sfruttamento coloniale, diventi da morto complice inconsapevole del malgoverno congolese.
Alla fine anche i famigliari meno convinti danno il loro assenso alla cerimonia, ma lo condizionano alla firma di un protocollo che obbliga il presidente congolese a prendere misure in favore della popolazione: una strada asfaltata tra Brazzaville e Mbé, la costruzione di un ospedale, la ristrutturazione del liceo che porta il nome di Pierre Savorgnan de Brazza, la tutela della scuola di pittura di Poto-Poto a Brazzaville. Il 3 ottobre 2006, Corrado Pirzio-Biroli prende la parola a nome dei discendenti durante l’inaugurazione solenne, alla presenza del ministro degli Esteri francese Philippe Douste-Blazy e di alcuni capi di Stato africani: «Pietro era un cosmopolita, diverse personalità si sommavano in lui senza disturbarsi: il friulano, il romano, il francese, l’europeo, e anche l’africano. Considerava ogni incontro tra culture differenti come una fonte di progresso, imparò molte lingue locali per capire meglio le popolazioni. (..) Per realizzare il suo grande disegno Pietro era pronto a tutti i sacrifici, compreso quello della sua carriera nella marina francese, del suo patrimonio personale e della sua famiglia, della salute e anche quello della sua stessa vita».
Pochi mesi dopo la cerimonia, i 15 famigliari che avevano preteso la firma dell’accordo a tutela della popolazione locale si sentono traditi da Sassou-Nguesso. Idanna Pucci di Barsento torna in Congo per incontrare il re Makoko e realizzare Africa nera marmo bianco , un documentario diretto da Clemente Bicocchi che denuncia gli sprechi per costruire il mausoleo e la condizioni di estrema povertà degli abitanti di Mbé.
«Niente di quel che Sassou-Nguesso aveva promesso è stato mantenuto», dicono a «la Lettura» i famigliari, che hanno citato in giudizio il presidente congolese ottenendo una importante vittoria nel settembre scorso: il Congo è stato condannato dalla giustizia francese a rendere i resti di Brazzà. Si è aperta una battaglia giudiziaria che è ancora in corso: da un parte i 15 discendenti, che si avvalgono del celebre avvocato parigino William Bourdon, già protagonista dei processi per la confisca dei beni dei dittatori africani in Francia; dall’altra la Repubblica del Congo, che ha fatto ricorso in appello tramite l’avvocato Jean-Pierre Versini-Campinchi, e minaccia per ritorsione di cancellare le tracce di Brazzà nel Paese africano.
Idanna Pucci di Barsento continua la battaglia per togliere le spoglie dell’antenato dal mausoleo di marmo bianco costruito dal dittatore Sassou-Nguesso: è sicura che a Pietro Savorgnan di Brazzà non sarebbe piaciuto.