martedì 27 maggio 2014

l’Unità 27.5.14
Ai lettori

L’Unità è un giornale politico che vive del rapporto con la comunità dei suoi lettori. Il recente risultato delle elezioni europee ha il valore di una rivoluzione di cui il nostro giornale si sente parte attiva, come testimoniato tra l’altro dalle sue battaglie «contro tutti i grillismi». Interrompere oggi la comunicazione sarebbe una ferita profonda. Per questo il Cdr ha deciso di sospendere la giornata di sciopero inizialmente prevista per oggi. Non senza, tuttavia, chiedere un primo segnale all’azienda sul fronte delle retribuzioni, che è arrivato anche se in forme ancora insufficienti.
Restiamo nelle edicole ma manteniamo alta la guardia sulla nostra vertenza, la cui gravità non è certo cambiata. Lo sciopero delle firme proseguirà fino al 5 giugno, data in cui i soci della società che edita il giornale dovranno decidere sul futuro. Se da quella sede non arriveranno risposte che garantiscono la vita della testata e i livelli occupazionali attuali, il Cdr annuncia fin da ora due giornate di sciopero da effettuarsi il 6 e il 7 giugno.

il Fatto  27.5.14
Visto da Civati: Ha vinto il collettivo

“È certamente una vittoria di Renzi - ammette Pippo Civati – ma ha in sé anche le singole vittorie di chi ha fatto un ottimo risultato essendosi candidato nella propria libertà". Al Parlamento europeo vanno 4 candidati della sua area: Renata Briano, Daniele Viotti, Elly Schlein ed Elena Gentile.

il Fatto  27.5.14
Oltre 21 milioni disertano le urne

Gli astenuti dal voto sono un partito immenso che supera i 21 milioni di persone. Stavolta la percentuale dei votanti si è fermata al 57,22%. Alle scorse Europee era del 65,05% con 32.749.004 votanti. Meglio alle Politiche quando alle urne andarono in 35.270.926 per il 75,2% degli aventi diritto. Stavolta sono andati solo in 28.991.258 a cui bisogna aggiungere 579 mila schede nulle e 395 mila bianche.

La Stampa 27.5.14
Morale, di Jena

Per far vincere la sinistra ci voleva uno di destra.

Il Sole 27.5.14
Piazza Affari la migliore d'Europa

Piazza Affari , in netto rimbalzo (+3,6%) all'esito elettorale in Italia: la Borsa milanese è stata la migliore in Europa, mentre lo spread italiano è rientrato con decisione a 156
Dimezzato il gap con Spagna e Portogallo

Repubblica 27.5.14
Festeggia la Borsa Milano sale del 3,6%
Lo spread in ritirata cala di venti punti


ROMA. I risultati elettorali piacciono ai mercati. Gli operatori pensano che porteranno stabilità e riforme in Italia e che finiranno per allontanare le spinte anti-europee. Così, la Borsa di Milano, trainata anche dai bancari, saluta la vittoria di Matteo Renzi con un rialzo del 3,6%, il massimo della giornata, che rende Piazza Affari la migliore d’Europa.
Lo spread festeggia l’esito del voto con un ribasso netto di quasi 20 punti, fino a quota 156; il rendimento del Btp scende sotto il 3% (2,97). Sono segnali incoraggianti anche per le prossime aste: già oggi saranno emessi Ctz e Btp per 4 miliardi di euro, l’indomani toccherà a oltre 6 miliardi di Bot e, giovedì ai Btp decennali.
Il responso dei mercati italiani al voto europeo è il più netto. Ma in generale tutta l’Europa plaude alle elezioni, trascinata anche dall’attesa per le prossime mosse della Bce.
Francoforte avanza dell’1,28% dopo l’affermazione di Angela Merkel. La Borsa di Atene cresce del 2,43% con il successo di Syriza. Tiene Parigi che archivia il lunedì post-elettorale con un rialzo dello 0,75% dopo la vittoria del Front National, il movimento di destra guidato da Marine Le Pen.

Repubblica 27.5.14
Un milione e mezzo di elettori dal centrodestra al Pd
di Silvio Buzzanca


ROMA. L’effetto Renzi ha trascinato il Pd ad una vittoria travolgente. Con il segretario del Pd capace di allargare la base elettorale del partito, drenando voti da aree tradizionalmente lontane. Come dimostra una prima analisi dei flussi elettorali elaborata da Swg per Sky Tg24. Il Pd, infatti, avrebbe conservato ben 6,6 milioni degli 8 milioni di voti conquistati da Bersani nel 2013. E ne ha aggiunto 4. 570 mila di nuovi. In particolare avrebbe avuto 1.270 mila consensi da Scelta civica, 750 mila riconquistati ai grillini e 450 mila dal Pdl. Il resto sarebbe stato pescato nell’astensione, compensando i due milioni di voti persi. Con solo 230 mila voti migrati verso la lista Tsipras.
Il salasso di Forza Italia ha invece regalato 1.750 mila eletttori all’astensionismo, mentre 430 mila hanno scelto Alfano. Berlusconi ha ceduto anche 410 mila elettori a Grillo e 340 mila alla Lega. La maggior parte dei voti persi dai grillini, oltre due milioni, finiscono nell’area dell’astensione.
Una ricerca dell’Istituto Cattaneo mostra invece il ruolo di Renzi nella vittoria e come il Pd sia andato avanti in tutto il paese: rispetto a quattro anni fa cresce di 3 milioni 183 mila 262 voti, cioè del 40 per cento. Il saldo è positivo anche rispetto al 2013. Il partito di Renzi incassa 2 milioni 513 mila 716 voti, che rappresentano un incremento del 29 per cento. Il Cattaneo spiega che il Pd, rispetto al 2013, è cresciuto del 35 per cento nel Nord Ovest e del 30 nel Nord Est. L’incremento è minore nel Centro, il 25,8, zone dove il partito era già molto for- te.
Un po’ a sorpresa arriva anche una crescita del 28,6 nel Sud e del 13,3 per cento nelle Isole. Frutto di un’avanzata del 22 per cento in Sicilia e di un meno 6,1 per cento in Sardegna. E questo è l’unico dato negativo. Per completare il quadro del trionfo, i ricercatori del Cattaneo ricordano come il Pd sia in testa in tutte le province italiane: con la sola eccezione di Bolzano, Sondrio e Isernia. Il successo del Pd si riflette nel tracollo dei grillini. Il movimento lascia sul terreno 2 milioni 909 mila 996 voti: questo vuol dire che Grillo e Casaleggio perdono il 33,4 per cento del bottino del 2013.

Corriere 27.5.14
Un voto pd su 10 viene da Grillo
M5S tradito da quasi metà elettori
di Luca Comodo

Direttore Dipartimento politico-sociale Ipsos

La consultazione europea ha avuto l’effetto di un terremoto che ha modificato il panorama politico in profondità. La nettissima vittoria del Partito democratico, per la prima volta su tutto il territorio nazionale (è infatti il primo partito in tutte le province italiane con le eccezioni di Isernia, Sondrio e Bolzano), è una assoluta novità. Va però ricordato che la partecipazione è stata bassa (58,7%) e che mancano circa 7 milioni di voti che si erano espressi alle Politiche 2013 e che non si sono presentati alle Europee di domenica. Di questo bisogna tener conto: si tratta di un segnale di grande forza che va però consolidato nel voto politico. In valori assoluti il Pd guadagna circa 2,5 milioni di voti, dato tanto più rilevante se si considera la bassa partecipazione attuale. In termini assoluti, il dato del partito guidato da Matteo Renzi (11.172.861 voti) resta inferiore a quello ottenuto da Walter Veltroni (12.095.306 voti) alle Politiche del 2008. Il Pd non è poi l’unico partito che fa crescere i propri elettori rispetto alle scorse elezioni politiche. Fratelli d’Italia, pur non riuscendo a superare la soglia, ottiene un ottimo risultato, conquistando circa 340.000 elettori in più; una buona performance è ottenuta anche dalla Lega, i cui elettori crescono di circa 270.000.
Le perdite. In valori assoluti Scelta Europea paga uno scotto pesantissimo: aveva (considerando anche Fare e Centro democratico) circa 3.372.000 voti, ne perde più di tre milioni. Grosso modo altrettanti ne perde il Movimento 5 Stelle. Infine Forza Italia, per la quale i raffronti sono più difficili. Dovremmo infatti considerare l’area vasta di Pdl, Fle e Udc confrontata con i dati di Forza Italia e del Nuovo Centrodestra-Udc. I voti persi in questo caso sono circa 2.300.000, con una Forza Italia ridotta ai minimi termini e l’area di centrodestra che non riesce a mantenere i voti ottenuti dalla sola Udc alle Europee del 2009.
Ma quali sono gli spostamenti di voto rispetto alle scorse Politiche? Analizziamoli sulla base di circa 9000 interviste pesate in base ai risultati effettivi del voto. Il Pd gode di un elevato tasso di fedeltà: quasi 80% di chi lo aveva votato nel 2013 conferma il proprio voto alle europee. Pochi i flussi in uscita: prevalentemente verso l’astensione, qualcosa verso sinistra e verso il M5S. Il Pd ottiene inoltre voti dal centro (Scelta Civica e Udc+Fli), dal Movimento 5 Stelle e da sinistra mentre più contenuti sono i flussi che provengono dal Pdl. In sostanza Renzi svuota il centro e recupera parte importante del voto che nel 2013 era transitato verso Grillo. Il Movimento 5 Stelle ha un basso indice di fedeltà: solo poco più della metà degli elettori 2013 conferma il proprio voto alle europee. Forti le uscite verso l’astensione e verso il Pd. La scelta di replicare una campagna contro tutti non paga. Il recupero di Renzi su questo elettorato è dovuto ad almeno tre aspetti: la capacità di presidiare alcuni dei principali temi simbolici di Grillo (costi della politica, peso della burocrazia, rinnovamento della macchina amministrativa); la proposta di governo e di rapporto con l’Europa (riforme a tambur battente senza subalternità alla Commissione Europea) e il coraggio personale. Forza Italia ha una fedeltà bassissima; più di un quarto degli elettori 2013 si rifugia nell’astensione, alcuni scelgono il Pd, poco più del 10% gli altri partiti di area (Ncd, Fdi, Lega). La coalizione Ncd-Udc Ppe fatica a convincere i propri elettori potenziali: poco arriva dal Pdl e anche i flussi da Udc e FLI sono contenuti mentre lo stesso si può dire di quelli che arrivano da Scelta Civica. In sostanza il superamento della soglia avviene grazie alla tenuta di una parte limitata dell’elettorato senza capacità di conquista apprezzabile. La Lega ottiene il proprio ottimo risultato grazie innanzitutto alla fedeltà dei propri elettori, che per il 70% confermano il proprio voto da un’elezione all’altra, e alla capacità di conquistare voti dal Pdl e in parte dal M5S. Salvini ha quindi convinto il proprio elettorato e ha saputo convogliare parte dei delusi di Grillo e degli sfiduciati verso Berlusconi. Infine la lista Tsipras che supera la soglia di sbarramento grazie agli afflussi di voto dalla sinistra del 2013 ma anche da fuoruscite dal Pd e dal Movimento 5 Stelle.
Infine vale la pena di analizzare la composizione degli elettorati dei principali partiti, perché qui scopriamo alcune sorprese. Limitiamo l’analisi a tre aspetti: l’età, la condizione professionale e il rapporto con la religione. Nelle fasce d’età più giovani il Pd diventa il primo partito, cambiando profondamente il profilo che avevamo visto. Anche se è insidiato ancora dal M5S, che supera il Pd nella fascia dai 35 ai 44. Quindi Renzi è riuscito a conquistare un voto critico come quello dei più giovani a scapito di Grillo. Per le professioni il Pd conferma il proprio appeal su ceti medi, pensionati e studenti, ma conquista anche le casalinghe e i ceti elevati. Il suo primato è insidiato nelle fasce sociali dove la crisi morde in maniera più evidente e più forte è il disagio: tra i lavoratori autonomi e i disoccupati il Movimento 5stelle è il primo partito, sia pur di misura. Forza Italia conferma le proprie difficoltà: tra ceti elevati e lavoratori autonomi il consenso è basso, le punte di attrazione maggiore si hanno tra le casalinghe e i pensionati (dove Forza Italia è al secondo posto) e tra i disoccupati.
Infine il voto cattolico. Il Pd ottiene la percentuale più elevata tra i fedeli che frequentano assiduamente le funzioni religiose, il punto più basso tra chi invece a messa non ci va mai. Il contrario di quanto storicamente avveniva storicamente per i partiti della sinistra. Il Movimento 5stelle ha i suoi punti di forza tra i non cattolici e il suo punto più basso tra i fedeli assidui. Gli altri dati sono più prevedibili: Forza Italia meglio posizionata tra i cattolici che frequentano solo mensilmente le funzioni, Ncd e Lega più votati dai cattolici fedeli, Tsipras dai non cattolici.
Il voto europeo manifesta quindi un’elevata trasversalità del Pd sia in termini politici che in termini sociali. Si è aperta una nuova fase che si presenta molto fluida. Ma il consenso degli elettori «liquidi» va conquistato e riconquistato ad ogni consultazione.

il Fatto 27.5.14
A urne chiuse. Riflussi
L’esercito del voto viene e va nell’Italia incerta
di Antonello Caporale


Sono comparsi dal nulla circa due milioni e mezzo di elettori. Nessuno si era accorto di loro. Non i sondaggisti che per mestiere hanno il compito di individuarli, segnalarli, suddividerli, catalogarli. Non i giornalisti, incapaci di avanzare anche il sospetto che all’orizzonte una moltitudine si stava dirigendo al seggio elettorale e indicare con una croce la preferenza allo stesso partito, anzi allo stesso uomo. E stavano decretando la nascita di un fenomeno, somigliante per la vastità dei consensi raccolti alla formazione politica che ha dominato la scena italiana dal dopoguerra fino alla stagione di Mani pulite.
NEMMENO IL BENEFICIARIO, l’erede testamentario di questo larghissimo voto di fiducia, di questo dono così generoso e impegnativo ha percepito alla vigilia del voto - secondo testimonianze diverse, tutte però coincidenti e concludenti - di essere stato promosso a salvatore della Patria, a condottiero invincibile: premier e segretario del partito unico, leader della speranza, titolato a rottamare, deviare, trasformare un’intera classe politica.
È comparsa all’improvviso un’Italia nascosta a noi stessi, della quale nessuno parla perchè, purtroppo, nessuno sa di essa. Tra i molti meriti di una tornata elettorale c’è quello di denunciare i limiti di chi deve raccontarla, la nostra incapacità, il senso assoluto dell’inadeguatezza delle analisi, della parzialità di ciò che vediamo, di come vediamo le cose, di come persino le illustriamo. Certo, la fluidità dell’opinione pubblica, la fine del voto di appartenenza, la mobilità dell’elettorato da un simbolo all’altro della scheda (e da oggi i flussi elettorali indicheranno nel dettaglio i movimenti, le sue aggregazioni, le trasmigrazioni, i vuoti e i pieni), rende possibile questo nascondi-mento di massa. Si passa da sinistra a destra, si cambia marcia e direzione nel volgere di pochi mesi, se non di poche settimane. Oggi sembrerebbe sia bastata la
della rabbia grillina, di un vocabolario così denso di annunci definitivi, di un’anima che è parsa distruttiva più che includente, finanche ritorsiva, a far incamminare quasi tre milioni di italiani verso il partito di Matteo Renzi. Una voglia di normalità, un approdo che è parso più sicuro, una possibilità che per tanti vuole dire aperta al cambiamento, un’illusione ancora tenace. E per altrettanti la scelta di utilizzare una sorta di usato sicuro, un partito istituzionale e di governo, capace di tutelare la conservazione dei rapporti di forza, le regole in campo, il potere dove esso abita e continuerà ad abitare.
Eppure non basta questa considerazione - naturalmente del giorno dopo - a rispondere a una domanda semplice: era impossibile scrutare prima di ieri questo possente movimento d’opinione in cammino da una sponda all’altra dell’emiciclo? Forse c’entra qualcosa internet? Il circuito di una comunicazione massiva ma interdetta a chi non vi partecipa, che esclude, rendendoli ininfluenti, coloro che scelgono per ragioni d’anagrafe o per decisione convinta, di non prenderne parte, di non condividere il flusso delle notizie catalogate e ristrette per temi, ricondotte nelle forme del tweet a un pensiero breve e istantaneo, a una prosa mediamente briosa ma mediamente asfittica: nasce e muore lì. Il tweet e le altre forme di interazione elettronica conettono mondi distanti ma riducono la capacità di argomentazione e restringono la visione di insieme, il punto di osservazione, annientando ogni complicazione, spalancando le porte ai nostri esclusivi convincimenti. Abbiamo visto piazza del Popolo per metà deserta, e lì era il comizio di Renzi, e piazza San Giovanni, dove parlava Grillo, zeppa di gente. Due istantanee e una sola verità apparente. Chi guadagna terreno e chi ne perde, chi sta per prendere il potere e chi lo sta per perdere. È bastata una foto a segnare la direzione finale, a indicare il pericolo o l’opportunità, a seconda dei punti di vista. Tutto ciò che non si vede in tv non esiste, e tutto quello che non circola in internet è un falso oggettivo. Riducendo l’Italia in questo imbuto abbiamo fatto prevalere la nostra considerazione sulla realtà, rendendo inutile ogni periferia del Paese sulle ragioni del centro. Adesso l’improvviso big bang.
MILIONI DI VOTI COMPAIONO e altri milioni, più del doppio in cifra assoluta, scompaiono dalla disputa tra i partiti. Il differenziale tra gli astenuti alle scorse politiche e coloro i quali hanno evitato di fare la fila ai seggi elettorali di domenica scorsa equivale alla popolazione di un paese grande quanto la Danimarca. Anche qui, anche in questo caso, nulla quaestio: sembra tutto naturale, possibile, perfino fisiologico. Solo il Movimento 5 Stelle ha perso per strada circa tre milioni di voti in poco più di un anno (due milioni e ottocentomila) e il partito dell’astensione è il primo in assoluto. Sarà colpa anche della cattiva reputazione della politica se da una tornata elettorale all’altra, in questo caso valutata per elezioni omogenee (europee su europee) l’8 per cento dei votanti sceglie di non esserci più, di scomparire, di non aderire a nessun appello, non tributare alcun segno di fiducia? È questione che attiene alla vita e alla qualità della nostra democrazia, alla sua capacità di essere espansiva, di coinvolgere il più alto numero di cittadini nella formazione della classe dirigente, questo dileguamento di massa, questo rifiuto di prendere parte e sentirsi parte?

La Stampa 27.5.14
Come rubare i voti agli avversari
di Massimo Gramellini

qui

Corriere 27.5.14
Come la Dc di Fanfani del 1958
Ma il Partito corre un rischio
di Antonio Polito


Per la prima volta il maggior partito della sinistra sfonda i confini dell’«altra Italia» fatta di progressisti, lavoratori dipendenti, intellettuali. E ci riesce perché finalmente possono votarlo anche quelli dell’Italia normale, i ceti medi, i lavoratori autonomi, la gente del Nord, che vive in provincia.
È come se si fosse sciolta una montagna di ghiaccio, e l’acqua avesse preso finalmente a fluire tra un mare elettorale e l’altro. Era il Santo Graal della Seconda Repubblica, la chiave sempre cercata e mai trovata per un bipolarismo maturo e non più rusticano. Seppure in circostanze del tutto eccezionali, e vedremo quanto ripetibili, Matteo Renzi l’ha trovata.
Per la prima volta il maggior partito della sinistra sfonda i suoi confini tradizionali, quelli dell’«altra Italia», un mondo fatto di progressisti, di lavoratori dipendenti, di intellettuali, di ceti urbani, di Raitre, in cui era stato sempre rinchiuso anche al massimo della sua capacità di espansione. E ci riesce perché finalmente possono votarlo anche quelli dell’Italia senza aggettivi, il Paese normale, i ceti medi, i lavoratori autonomi, la gente del Nord, quella che vive in provincia e guarda Raiuno. L’altra Italia, al suo meglio, erano dodici milioni di voti, mai di più. Il Pd di Renzi ieri ne ha presi undici, e seppure niente ci possa assicurare che con un’affluenza più alta sia capace di raggiungere ugualmente il 40%, si può ragionevolmente dire che lo sfondamento del muro è ormai avvenuto, e che se ieri si fosse votato per le politiche l’avremmo contato anche in voti assoluti. Tutti i militanti di mezza età che ieri ripetevano estasiati «per la prima volta dopo trent’anni ho vinto le elezioni», avevano dunque ragione alla lettera. Trent’anni esatti infatti ci dividono dallo sfondamento elettorale di Berlinguer nel 1984. Con la differenza che quello di oggi non avviene alla fine di una storia, come risarcimento morale a un leader che non c’è più, ma all’inizio di una storia e di una leadership.
Ne viene fuori un partito completamente differente da tutti quelli che l’hanno preceduto nella lunga catena genetica della sinistra. Favorito dalle circostanze, Renzi ha giocato la carta della «triangolazione», che fu l’invenzione strategica di Clinton: contro il vecchio populismo di destra (Berlusconi) e contro il nuovo populismo di sinistra (Grillo), per un nuovo centro. «Nuovo centro» è come Schroeder chiamava la sua Spd. «Center of left», centro della sinistra, è come Blair chiamava il suo Labour.
È successo, sorprendentemente per molti, di sicuro per chi scrive, che il partito della sinistra ha occupato il centro dell’elettorato. E questo potrebbe essere un vero e proprio «riallineamento», e cioè uno di quei cambiamenti sismici nella geografia elettorale di un Paese che sono destinati a durare a lungo. Il Pd è diventato, almeno per una notte, ciò che Beniamino Andreatta definiva «il partito del Paese». Un partito che è votabile anche da chi non solo non è di sinistra, ma è anche contro la sinistra (o il sindacato). Basti il fatto che sia andato meglio nel Nord delle partite Iva e dei padroncini che nel Sud statalista: ha raggiunto elettori che non avrebbero mai votato non solo D’Alema, ma neanche Veltroni, e forse nemmeno Prodi. Qualcuno ha fatto paragoni con la Dc di Fanfani, in quanto a dimensioni del successo elettorale: l’accostamento non sembri blasfemo anche dal punto di vista sociologico. Il Pd è ormai un partito che dal centro guarda a sinistra, proprio come la Dc ai suoi inizi; è un partito modernizzatore e rottamatore della vecchia classe dirigente, come fu nel trionfo di un altro 25 maggio, quello del ‘58, la Dc con Fanfani; ed è il centro di gravità di un sistema politico frammentato nel quale la seconda forza, Grillo, non è in grado di coalizzarsi per vincere, esattamente come succedeva al Pci ai tempi della Dc.
Come c’è riuscito Renzi? Ci sono mille spiegazioni plausibili. La più forte delle quali è però banale: il Pd di Renzi si è tolto di dosso la maledizione fiscale. Oggi votare a sinistra non comporta più la sicurezza assoluta che aumenteranno le tasse.
Questa nuova sinistra-centro durerà? Dipenderà dai successi del governo, ma soprattutto dipenderà da quanto il «New Pd» diventerà un partito o invece resterà un one-man-show . Questo è, anche dopo il trionfo, il tallone d’Achille dell’esperimento politico in corso, e un elettorato diventato molto mobile potrebbe sanzionare molto rapidamente una promessa di cambiamento che si rivelasse velleità.
È fuor di dubbio, in ogni caso, che ora il Pd di Renzi diventa un modello per la sinistra europea, e che verrà certamente corteggiato e imitato. In un’Europa in cui la sinistra di governo (forse con l’eccezione della Spd) è stata considerata parte del problema piuttosto che una possibile soluzione, un leader di sinistra che stravince le elezioni stando al governo, seppur da poco, è una specie di Superman. Renzi potrebbe trarne vantaggio nel semestre europeo, speriamo a favore dell’Italia.

La Stampa 27.5.14
“Democrazia Renziana”
Nelle urne le tracce della vecchia balena bianca
di Marcello Sorgi


Un partito vicino 41 per cento. Con il principale avversario che vale più o meno la metà. Un mezzo alleato, o mezzo avversario, che galleggia sul 17. E un paio di satelliti, sul 4, obbligati ad allearsi, se non vogliono fare la fine di tutti gli altri, nel frattempo spariti. Non c’è neppure bisogno di chiedersi chi ci ricorda. È la Dc, ma non quella degli ultimi anni della Prima Repubblica, insidiata dalla collaborazione-competizione con Craxi e indebolita dalla fine del compromesso con il Pci. Piuttosto, quella fanfaniana del ’58, con l’allora potente aretino segretario dello Scudocrociato, presidente del consiglio e a interim ministro degli Esteri; o addirittura quella quarantottesca di De Gasperi e della sconfitta del Fronte popolare.
Certo, è tutto da vedere che il Pd di Renzi, o la «Democrazia renziana», com’è già stata ribattezzata nella lunga notte della vittoria, possa reggere il confronto con il gigante che per più di quarant’anni aveva governato l’Italia nel secolo scorso, dal dopoguerra e dalla nascita della Repubblica, alla sua caduta sotto i colpi di Tangentopoli. Ma l’imprevedibile affermazione alle europee qualche paragone arrischiato lo autorizza. Inconsciamente o no, è stato lo stesso Renzi - a sorpresa pacato, prudente, controllato, nella conferenza stampa di ieri mattina a Palazzo Chigi, in cui tuttavia ha ribadito punto per punto il suo programma, dalla rottamazione alle riforme - ad avvalorare l’impressione nata all’ombra del risultato inatteso che ha portato il Pd a superare il quaranta per cento. Grazie al quale, Renzi ha riacquistato il ruolo di «architrave» di ogni equilibrio politico, quella «centralità», impossibile da sfidare, che i suoi trisavoli democristiani avevano saputo difendere per quasi mezzo secolo.
Più che azzardato, suona fin troppo impietoso il confronto tra il Pci, l’eterno avversario della Dc, e il Movimento 5 stelle che Renzi ha bastonato, dopo averlo sfidato, a differenza di quanto aveva fatto il suo predecessore Bersani, con il tentativo fallito di costruire un governo Pd-M5s. È evidente che rimane un abisso tra le ragioni di carattere internazionale - la guerra fredda, il mondo diviso in blocchi - che impedivano ai comunisti di andare al governo, e gli slogan con cui l’ex-comico s’è rinchiuso via via in una sorta di dorato isolamento. Ma ciò che avvicina lo storico, novecentesco, grande partito d’opposizione di Togliatti-Longo-Berlinguer, con il movimento di protesta che inaspettatamente aveva conquistato il primo posto nelle elezioni politiche dell’anno scorso, è che in fondo, sia i leader togati del Bottegone, sia lo scombinato capo dei grillini, dicevano di voler andare al governo e cacciare la Dc (o il Pd), ma sotto sotto non ne avevano alcuna intenzione: non volendo, o non essendo in grado, di misurarsi con i complessi problemi del Paese. E se i democristiani, sulla «diga anticomunista», ci camparono per decenni, salvo poi fare in Parlamento i migliori accordi con il Pci, l’intuizione di Renzi, di sfidare Grillo invece di blandirlo, è stata la chiave della mobilitazione di un elettorato dai confini mai così larghi e della sua straordinaria vittoria.
Un partito del 40 o 41 per cento viene votato in tutto il territorio, dal Veneto alla Sicilia, e dai più svariati tipi di elettori: anche questo, dall’altro ieri, accomuna Dc e Pd, sebbene in quest’ultimo sia ancora da costruire lo speciale amalgama democristiano che consentiva di militare insieme nella stessa organizzazione a capi partigiani, o più di recente a semi-fiancheggiatori delle Brigate rosse, ed ex-fascisti, o a modesti peones che dormivano nei conventi e ricchi industriali sposati con principesse.
Inoltre, a contribuire alla suggestione della rinascita democristiana sono le origini, più che la stessa natura, di Renzi. Che non è, non può essere Dc, per ragioni di età, ma è cresciuto in quell’humus, ha un padre, e si circonda di amici e collaboratori, come Lorenzo Guerini, Graziano Del Rio e Luca Lotti, che quel metodo e quell’ispirazione ce l’hanno scritta in viso. Cattoliche, se non proprio democristiane, sono anche la giovane ministra delle Riforme Maria Elena Boschi, figlia di un dirigente della Coldiretti, indispensabile pilastro del sistema Dc, e Simona Bonafè, coordinatrice della campagna delle primarie del 2012, candidata eletta a Strasburgo e più votata nella circoscrizione di Centro. Niente a che vedere, è ovvio, con vecchie signore come Tina Anselmi e Franca Falcucci, e neppure con Rosy Bindi. Ma la scuola è la stessa.
Qui però finiscono i punti di contatto tra due storie politiche di epoche assai diverse - una finita da vent’anni, l’altra appena cominciata. Benché toscano come Fanfani, che tra l’altro era famoso per le sue intemerate, a Renzi, per essere fino in fondo democristiano, mancano le due principali virtù Dc: pazienza e lentezza. Manca ancora l’arte dei rinvii tipica di Moro, e la capacità, che non era solo dei «cavalli di razza», di imprigionare gli alleati in un’inestricabile rete di compromessi, che alla fine svuotavano ogni pretesa innovativa e ogni riforma. Infine è del tutto assente la maestria di Andreotti nello spezzettamento di qualsiasi questione controversa in lunghe serie di sub-questioni, così difficili da ricollegare l’una all’altra, che in conclusione diventava obbligato accordarsi con lui, perché era impossibile ricostruire la vera ragione del contendere.
Renzi, al contrario, è tutto velocità, scatti, scommesse. «Ci metto la faccia», «mi rompo l’osso del collo»: ha un fraseggio pieno di battute e qualche volta perfino di piccole scurrilità; non è mai impassibile, com’erano sempre, invece, i vecchi capicorrente, specie quando si trattava di disarcionare uno di loro, segretario o presidente del consiglio che fosse.
Al dunque, l’unico vero merito, che rischia di aprire le porte del Pantheon Dc al giovane premier, segretario ed ex- sindaco, è tutto politico: perché, diversamente da quel che i suoi maggiori avevano promesso e predicato per tanti anni a Piazza del Gesù, lui i comunisti, in quattro e quattr’otto, li ha sconfitti per davvero.

il Fatto 27.5.14
Uguali e diversi
Amintore, Matteo e l’equivoco Dc
di Fabrizio d’Esposito


Quando si dice la storia, o il destino. Era il 25 maggio anche nel 1958. La Democrazia cristiana di Amintore Fanfani sfondò il muro del quaranta per cento, per la terza volta dalla nascita della Repubblica. Prese più di 12 milioni di voti e una percentuale del 42,35 per cento. L’affluenza alle elezioni politiche fu paurosa: il 93,83 per cento. Secondo il Pci di Palmiro Togliatti, a venti punti: 6 milioni e 700 mila voti e il 22,68 per cento. Poi il Psi, fermo al 14,23 e 4 milioni e 200 mila voti. Fanfani era toscano e assommò il doppio incarico più pesante nella storia politica del Paese: segretario della Dc e presidente del Consiglio. Cadde di lì a un anno per mano della congiura dei dorotei, nati nell’omonimo convento romano, ma questa è un’altra storia.
Insomma le analogie tra il Fanfani del ‘58, vecchio secolo, e il Renzi del ‘14, nuovo millennio, sono tante e impressionanti (lo ha ricordato ieri Mario Ajello sul Messaggero).
Oggi come allora c’è un partito, il Pd, al 40,81 per cento e poco più di undici milioni di voti, che distanzia di venti punti il Movimento 5 Stelle, a quota 21,16 e 5 milioni e 700 mila voti. E la percentuale del disastro berlusconiano è più o meno la stessa dei socialisti dell’epoca: 16,82 e 4 milioni e 600 mila voti. Il Pd renziano uguale alla Dc fanfaniana e i grillini al posto dei comunisti. Si realizza il pronostico di Angelo Panebianco di qualche settimana fa sul Corriere della Sera: il ritorno del bipartitismo imperfetto con il Pd e il Pci che però occupano posti diversi da quelli che si potrebbe immaginare: il primo si demo-cristianizza come collocazione mentre l’opposizione del secondo è rappresentata dai grillini. Lo scambio di ruoli e sigle e la sovrapposizione di epoche però non è uguaglianza tout court. Dire, come ha fatto Daniela Santanchè di Forza Italia, che il Pd di Renzi è la nuova Dc è un’affermazione rozza e che semplifica troppo. L’analisi dei flussi del voto ci dirà chi ha rubato da chi, ma è evidente che le urne europee hanno realizzato con sette anni di ritardo quella vocazione maggioritaria che fece nascere il Pd di Walter Veltroni dalla fusione di Ds e Margherita. Una fusione che allora fu giudicata fredda, senza passione. Forse mancava l’interprete giusto, il leader giovane mai comunista in grado di rompere la ferrea logica del bipolarismo ideologico e muscolare tra B. e la sinistra: pur di non votare il migliore dei tuoi io voto il peggiore dei miei.
QUELLA LOGICA adesso è saltata e anche se il Pd è un partito che senza dubbio tende al centro, i dati delle città rosse, lo sfondamento al nord (araba fenice di due decenni di sterili dibattiti riformisti), la marginalità di Tsipras (un decimo esatto dei voti del Pd) dimostrano che Renzi ha messo insieme l’elettore di sinistra fedele al Pci e il moderato berlusconiano che ha tradito B. per paura di Grillo, nel nome del voto utile. Altrimenti non si spiegherebbe il successo clamoroso di un partito con radici di sinistra che supera di slancio la soglia fisiologica del 35 per cento, a suo tempo barriera insormontabile del Pci berlingueriano. Resta la similitudine, già evocata mesi fa, tra i due toscani: Fanfani e Renzi. Il maggior tratto comune, facile dirlo, è il loro autoritarismo. Fanfani lo pagò con la nascita della corrente do-rotea, che poi consegnò la Dc ad Aldo Moro. Ma oggi nel Pd non si vede alcun Moro all’orizzonte, tanto per dirne una. Renzi è solo al comando nel deserto di una classe dirigente che non esprime leader alternativi. Semmai, il pericolo che corre è lo stesso che ha logorato e distrutto Berlusconi: la smania di includere tutto e tutti.

il Fatto 27.5.14
L’uomo della provvidenza
di Antonio Padellaro


Quel quaranta per cento a Renzi non lo aveva previsto proprio nessuno, compresi noi che invece di prendere nota di ciò che sentivamo mormorare (perfino da amici e familiari) siamo cascati nel giochino fasullo dei sondaggi testa-a-testa che hanno solo confuso le acque. Se avessimo dato retta ai discorsi da bar o da treno avremmo capito che con la sua teatralità paradossale nel preannunciare tribunali del popolo alla Pol Pot 2.0 o quando (épater le bourgeois) si definiva “oltre Hitler”, Grillo era diventato il miglior nemico di Renzi perché improvvisamente faceva paura e fare paura agli italiani può diventare un grosso problema. Come del resto predicare inutilmente la rivoluzione, che tanto è impossibile come diceva Missiroli perché ci conosciamo tutti. Il Renzi machiavellico, più volpe che leone, ha usato Grillo passando astutamente da vittima fin da quando si fece insolentire nel famoso incontro in streaming sulle riforme e da quel momento ogni urlata del comico e ogni anatema era un chiodo con cui crocifiggerlo alla sconfitta. Ora che Beppe vaga per il blog come un pugile suonato, la volpe medita di entrare nel pollaio Cinque Stelle per far man bassa di senatori. E quando, indulgente nella marcia trionfale nella sala stampa di Palazzo Chigi, il premier invita i grillini a mostrare “buona volontà” e “a partecipare al tavolo delle riforme”, egli fa in modo che non gli esca mai di bocca una parola che non sia piena delle cinque qualità che il bravo Principe deve far credere di avere: “Clemente , degno di fede, umano, onesto e religioso”. Ed ecco allora che questo quaranta per cento (dove c’è un sovrappiù derivato dalla fulminante scomparsa di Monti e del suo loden) sarà pure straordinario, ma non imprevedibile, perché tutto era previsto e tutto infatti è stato costruito grosso modo in tre capitoli. Giovane rottamatore: dove si narra di come l’intrepido della Leopolda sgominò le vecchie cariatidi della sinistra. Ultima spiaggia delle Primarie: dove si consolidò la leggenda che dopo Matteo ci fossero soltanto il diluvio e le cavallette. Uomo della Provvidenza, e qui siamo appena agli inizi. Nel rappresentare l’interclassismo e il coacervo d’interessi moderati che prima con la Dc e poi con Berlusconi hanno per circa settant’anni formato in Italia il blocco sociale-elettorale egemone, Renzi rappresenta indubbiamente l’evoluzione della specie. Gli ingredienti sono i soliti: chiudere un occhio sull’evasione fiscale, chiuderne due sull’economia in nero, il precariato come panacea contro la disoccupazione, guerra al sindacato che per un partito un tempo di sinistra non è male. Più gli ottanta euro in busta paga, puro voto di scambio, una trovata sublime. Ditemi voi, Grillo cosa poteva offrire? Legalità, buon esempio (i milioni del finanziamento pubblico rifiutati), con un pizzico di Berlinguer. Più urla e anatemi. Alla fine non c’è stata partita. Un po’ come l’Atletico contro il Real Madrid.

La Stampa 27.5.14
Il socialismo versione scout
Un modello per i leader Ue
Anche se la figura più carismatica risulta Schulz, guardano a Renzi
di Federico Geremicca


Matteo Renzi non è il Partito democratico. Diciamo la verità, non lo è mai stato: e a maggior ragione - paradossalmente - non lo è adesso, a trionfo avvenuto. Un motivo in più, per il Pd - soprattutto per quella parte legata alla tradizione e che ha cercato di resistere agli eventi che l’hanno scioccata: la caduta di Bersani, l’avvento di Renzi e la defenestrazione di Enrico Letta - un motivo in più, dicevamo, per rispondere ad una domanda non più eludibile: perchè raggiungere consensi mai nemmeno sfiorati, è stato possibile solo e proprio con Matteo Renzi?
La “foto di famiglia” che è stata scattata domenica sera nel quartier generale del Pd che festeggiava, è di quelle che possono fare un po’ impressione ma forse aiutano a capire: una squadra di 30-40enni, volti nuovi, molte donne, nessuno - dicasi nessuno - dei gruppi dirigenti che hanno accompagnato gli ultimi segretari, da Veltroni a Franceschini, da Bersani fino a Epifani. O un gruppo di infiltrati che, agli ordini di Renzi, ha conquistato il vertice del Pd (e c’è chi lo pensa, tra i vecchi democrats) o davvero una nuova leva di dirigenti. Il post-rottamazione, insomma; il “mondo nuovo” che è venuto dopo: e il mondo che ha vinto, dunque, come mai nessuno prima.
Dopo tante colte e vane Gargonza, e dopo fiumi di sottili ma cupe riflessioni intellettuali per analizzare questa o quella sconfitta - e più di recente anche qualche mancata vittoria - un onesto confronto sul fenomeno-Renzi non farebbe male al Pd, quello vecchio e quello nuovo. La condizione, naturalmente, dovrebbe esser il partire da una solida constatazione: che il messaggio lanciato dal segretario-premier nei suoi tre mesi di governo - un guazzabuglio un po’ demagogo e un po’ populista, secondo molti esponenti dello stesso vecchio Pd - ha convinto il 40% degli italiani, resistendo perfino alla tempesta che poteva sommergerlo: e cioè, una campagna elettorale cupa, cattiva, perfino autolesionista.
Che diceva quel messaggio? Incitava l’Italia ad esser ottimista ogni oltre ragione, a sperare e a tener duro; si era nutrito di slides e autoblu all’asta, di stipendi ridotti ai manager e di 80 euro ad altri; ed aveva creato - perfino artificiosamente, se si vuole - un clima elettrico, d’ansiosa attesa, una cosa del tipo “è difficile ma proviamoci, che ce la possiamo fare”. Senza retorica: una curiosità che si avvertiva in giro, la voglia di crederci (magari per l’ultima volta) e di sperare “perchè ha ragione Matteo, per la miseria, siamo l’Italia, noi, mica la Grecia...”.
Cose semplici, fattibili: da “populista raffinato”, come vuole l’ultima, velenosa definizione partorita in casa Pd. Poi su tutto questo - si stava discutendo di Pubblica amministrazione e nuove regole per il lavoro, di coperture poco credibili e di come stare in Europa - si è abbattuta l’onda anomala di una campagna condotta a colpi di “assassino” e “abatino”, di Hitler e pover’uomo, e poi di retate, scandali e complotti nelle Procure. Il solito caos volgare e inestricabile, sigillato dall’anatema finale: “O noi o loro”.
Eppure quel messaggio ha resistito, e Renzi ha convinto 40 italiani su 100. Ci è riuscito perchè la sua promessa di un’Italia meno rassegnata e più ottimista, accompagnata da un attivismo frenetico e contagioso - il primo tweet alle sette di mattina, l’ultimo a notte fonda - ecco, quella promessa, quell’idea di Italia alla riscossa deve essere rispuntata come un fiume carsico nel silenzio elettorale che ha preceduto il voto. Rispuntata al di là delle urla di Piazza San Giovanni e delle telenovelas sui vecchietti di Cesano Boscone. Rispuntata alla faccia degli annunci di declino e di sventura.Perchè l’invito a crederci e a sperare sarà pure “populismo raffinato”: ma in 40 su 100 non hanno avuto dubbi, meglio sperare che gufare...
Un messaggio semplice, popolare: e va bene, demagogo appena un po’. Ne può trarre qualche motivo di riflessione il Pd più old style, quello della “ditta”, diciamo così? O è troppo poco fine (e perfino berlusconiano) promettere miglioramenti invece che sacrifici, invocare speranza invece che annunciare rassegnazione? Vedremo di che discuteranno i democrats: ma intanto se ne comincia a parlare in una Europa che, flagellata da populismi e sconfitte dei partiti al governo, inizia a chiedersi chi diavolo è questo giovane premier che in tre mesi straccia i competitors e guadagna 15 punti percentuali. «Renzi campione d’Europa», titola Le Monde. «La sua vittoria dimostra l’importanza della leadership e di una visione giusta per il XXI secolo», annota Tony Blair.
Con l’aria che tira dalle parti del socialismo europeo - dove la figura più carismatica dovrebbe esser quella di Martin Schulz... - Matteo Renzi rischia di diventare un modello da studiare e imitare. Copertine e reportage. Il nemico dell’antipolitica. Il socialismo versione scout... Qualcosa di totalmente diverso dal fenomeno Blair e dalla parabola di Zapatero: meno politica, più empatia. Un socialismo dal volto raffinatamente populista, direbbero dalle nostre, austere parti. Eppure in Francia e in Gran Bretagna oggi pagherebbero per un leader così. E state certi che, se fosse proposto, lo scambio Renzi-Hollande molti leader del vecchio Pd lo farebbero di corsa...

La Stampa 27.5.14
Napolitano soddisfatto per il nuovo slancio che avranno le riforme
di Antonella Rampino


Nella perfetta volatilità del voto,l’Italia ha invece espresso stabilità e fiducia nell’Europa. La telefonata di rito arriva al mattino, ed è lo stesso premier Renzi a raccontarla, mentre annuncia in conferenza stampa che si va avanti con le riforme, e tira le orecchie ai giornalisti che cercano di fargli dire qualcosa su eventuali elezioni anticipate. Non se ne parla proprio, ovviamente, ed è esattamente nel colloquio col capo dello Stato che rispunta invece una parola che va in direzione perfettamente opposta:«riforme». A spianare la strada, la stabilità consolidata dal risultato del Pd assai positivo (e non previsto nemmeno, a quanto pare, nei sondaggi riservati che circolavano al Colle), e dal fatto che gli alfaniani han superato la soglia di sbarramento e di sopravvivenza. Adesso, il Pd è anche l’azionista di maggioranza del Pse, e il più diretto interlocutore di Angela Merkel. Ci sono le basi politiche, e di solidità dell’esecutivo, per puntare a cambiare la politica economica della Ue, centrandola su crescita e lavoro, ovvero lotta alla disoccupazione a cominciare da quella giovanile tante volte richiamata nei messaggi e nei moniti presidenziali. E il governo Renzi, atteso già stasera alla «prova» della cena tra i capi di Stato e di governo che fa da abbrivio al Consiglio, deve subito mettersi all’opera sui dossier per il semestre a guida italiana della Ue. Temi che, com’è ovvio, Napolitano segue con occhio vigile sapendo bene che adesso si gioca una partita decisiva, qual è quella europea. Alla quale davvero va cambiato verso.
E tuttavia è ormai chiaro che il presidente si tiene di profilo. I contatti riservati non mancano, naturalmente, e sono a tutto campo anche con Renzi. Ma gli interventi pubblici di Napolitano sono centellinati. Nonostante l’appello al voto per l’Europa, scritto e firmato con gli omologhi tedesco e polacco, e nonostante alla fine i risultati facciano onore all’Italia paese fondatore della Ue, al Quirinale si decide di non diramare alcuna nota ufficiale. E anzi si nega ogni commento. Eppure, sarà vero che i punti persi di partecipazione al voto sono ben 8, ma il Belpaese resta primo nell’intera Europa per affluenza al voto. E soprattutto ha mostrato di votare, in un panorama continentale letteralmente squassato da euroscettici ed eurofobici, per e non contro Bruxelles.
Dal Colle infatti, nonostante ieri si sia ovviamente tenuta una riunione di analisi del voto, non trapela nulla: il profilo che Giorgio Napolitano ha tenuto lungo tutta una delle peggiori campagne elettorali che si siano mai viste è stato di assoluto distacco, non solo senza mai polemizzare con i continui (e piuttosto volgari) attacchi grillini, ma anche senza mai nemmeno ripetere quel che più volte nel suo lungo mandato presidenziale ha scandito in occasioni analoghe, ovverosia che questa o quella elezione non politica -europee, amministrative- non comportano la messa in questione di un governo in carica. Stavolta, Napolitano ha sempre taciuto, respingendo ogni «assalto» dei giornalisti, e limitandosi solo pochi giorni fa a un «sapete come la penso», e a un «c’è diritto di parola», quando gli si faceva presente che Grillo pretendeva per il dopo-voto le dimissioni di Renzi (oltre a quelle di Napolitano stesso).
Un profilo di pieno understatement, che è un tratto del carattere presidenziale, ma che aveva le sue radici in una attenta analisi, e nella convinzione che dopo l’appello «libertà e prosperità, pace e diritti umani: questo è l’Europa» la parola spettasse ai cittadini. Che, almeno in Italia, hanno risposto.

Il Sole 27.5.14
Tiene l'asse Renzi-Berlusconi
L'input del Pd: entro il 10 giugno il nuovo Senato
di Emilia Patta


ROMA Non perdere neanche un minuto, e andare ancora più veloci con le riforme istituzionali e la legge elettorale. Oggi la commissione Affari costituzionali del Senato, dove è all'esame la riforma delle riforme che abolisce il Senato elettivo e riscrive il Titolo V, riprende i lavori a pieno ritmo. Il termine per la presentazione degli emendamenti al testo base del governo scade domani, 28 maggio. E il capogruppo Luigi Zanda e la presidente della commissione Anna Finocchiaro dovranno mettere in pratica l'input che viene da Largo del Nazareno: accelerare, con l'obiettivo di arrivare al primo sì dell'Aula entro il 10 giugno. «Prima del'estate dobbiamo approvare in prima lettura la riforma del Senato e l'Italicum», avverte Zanda.
Già, perché Matteo Renzi è convinto che le riforme istituzionali siano ancora più importanti di quelle economiche per presentarsi in Europa con la credibilità di chi vuole «cambiare verso». È dunque indispensabile arrivare al 1° luglio, data di inizio del semestre di guida italiana della Ue, con segnali forti in tal senso. Il risultato delle urne, con il Pd oltre quota 40 e a venti punti di scarto dal secondo partito, rafforza definitivamente Renzi nel partito e nella maggioranza. E il patto del Nazareno con Silvio Berlusconi esce rafforzato dalle urne, come dimostra la nota di ieri con cui l'ex Cavaliere ha "blindato" il suo posto al tavolo delle trattative: «Noi siamo opposizione intransigente, ma responsabile – detta un Berlusconi ridimensionato al 16,8% – e siamo al tempo stesso i partner decisivi senza i quali in Parlamento non ci sono numeri per fare riforme vere». Una fedeltà al patto del Nazareno che Berlusconi ha ribadito di persona a Renzi in una telefonata di congratulazioni per il voto. In realtà Renzi i numeri per le riforme li avrebbe lo stesso, magari guardando a grillini e vendoliani in sofferenza (già la prossima settimana 12 ex del M5S creeranno il gruppo "Democrazia Attiva"). Ma la scelta di non fare le riforme a maggioranza non era tattica, e resta tale. E naturalmente Berlusconi ha bisogno di restare aggrappato alla zattera renziana per non scomparire nell'irrilevanza politica. Dunque la riforma costituzionale verrà approvata anche con i voti di Fi. E c'è da credere che Renzi e la ministra per le Riforme Maria Elena Boschi limiteranno al minimo le modifiche: gli argomenti di chi, nella maggioranza e in Fi, vorrebbe mantenere l'elettività dei senatori riemergono spuntati dalle urne.
Più delicato il discorso sull'Italicum, dal momento che è difficile continuare a parlare di bipolarismo e anche di tripolarismo quando il Pd svetta in cima, a venti punti di distacco dagli inseguitori. Ma Renzi sa benissimo che il risultato di domenica è frutto di circostanze forse irripetibili, e resta fermamente ancorato all'idea che occorra il ballottaggio nazionale per assicurare all'Italia stabilità. L'Italicum approvato dalla Camera prevede una soglia del 37% per far scattare il ballottaggio. Soglia che fu imposta dallo stesso Berlusconi in un momento in cui pensava ancora che la futura coalizione di centrodestra potesse superarla. Ora, dopo domenica, è la stessa Fi a ragionare sull'opportunità di alzare quella soglia al 40% come chiedono da tempo Ncd e minoranza Pd: solo così, con il ballottaggio, gli azzurri resterebbero in campo.

Il Sole 27.5.14
Contratti e sussidi, il Jobs act accelera
di Giorgio Pogliotti e Claudio Tucci


ROMA Estensione dell'Aspi anche ai collaboratori coordinati e continuativi (con l'esclusione di amministratori e sindaci) all'interno di un complessivo riordino degli ammortizzatori sociali per assicurare tutele uniformi e legate ai versamenti contributivi dei lavoratori. Riforma delle politiche attive, con la costituzione di una "agenzia nazionale" per l'occupazione. Semplificazione degli adempimenti in materia di lavoro (a carico delle imprese). Riordino delle forme contrattuali, con la sperimentazione di un rapporto di impiego che preveda una fase di inserimento a tutele crescenti. Rafforzamento delle misure di sostegno alla maternità e alla conciliazione vita-lavoro.
Riprende oggi in commissione Lavoro del Senato l'esame del Ddl delega sul Jobs act. Il premier Renzi ha chiesto di accelerare: «Su questa riforma giochiamo larga parte della nostra credibilità internazionale», ha detto ieri il presidente del Consiglio in conferenza stampa commentando i risultati elettorali.
L'obiettivo dell'esecutivo è chiudere l'esame del provvedimento al Senato prima della pausa di agosto e arrivare all'ok definitivo per fine anno. Obiettivo confermato dal relatore, il presidente della commissione Lavoro di Palazzo Madama, Maurizio Sacconi (Ncd): «Abbiamo sempre pensato di procedere in maniera spedita per consegnare il Ddl alla Camera entro luglio». Completato poi l'iter parlamentare, entro i sei mesi successivi bisognerà adottare i relativi decreti delegati (il Ddl contiene cinque deleghe) che dovranno passare al vaglio delle competenti commissioni di Camera e Senato ed essere deliberati dal governo. Stando alle statistiche parlamentari tuttavia un Ddl delega non ha mai visto la luce finale della Gazzetta Ufficiale prima di un anno, un anno e mezzo dalla sua presentazione da parte del governo.
L'intera partita si preannuncia quindi complessa, vista anche l'ampiezza e l'eterogeneità delle materie su cui il Jobs act punta a intervenire. E peraltro dall'attuazione delle deleghe, è scritto nel provvedimento, non dovranno derivare nuovi o maggiori oneri per lo Stato. Ma l'obiettivo espresso dal premier di completare la riforma del mercato del lavoro, senza rinvii rispetto al timing indicato, sembra più a portata di mano, alla luce del risultato uscito dalle urne.
Oggi in commissione Lavoro saranno ascoltati i rappresentanti delle aziende (Confindustria, Rete Imprese Italia e Alleanza delle cooperative).
Uno dei nodi su cui la maggioranza dovrà trovare un'intesa è quello dell'eventuale introduzione, in via sperimentale, del contratto a tempo indeterminato a tutele progressive (un impegno inserito nel preambolo del Dl Poletti che ha liberalizzato i contratti a termine e parzialmente semplificato l'apprendistato). La sperimentazione di questo contratto poggia sulla sterilizzazione, per un primo periodo di tempo, della tutela reale per i licenziamenti assicurata dall'articolo 18 (sostituita dal pagamento di un indennizzo). Ma il presidente della commissione della Camera, Cesare Damiano (Pd), frena: «Non venisse in mente al centrodestra di riaprire il capitolo articolo 18. Se c'è qualcosa da cancellare – ha aggiunto – è la riforma delle pensioni targata Fornero».
Tra le altre novità contenute nel Ddl c'è la sperimentazione del compenso orario minimo (per il lavoro subordinato) previa consultazione delle parti sociali e la razionalizzazione degli incentivi per l'autoimpiego e l'autoimprenditorialità. Sulla riforma delle politiche attive le regioni hanno già manifestato perplessità (chiedono il salvataggio delle 21 agenzie regionali per il lavoro). Ed è ancora da verificare come conciliare il riordino degli ammortizzatori sociali in chiave universalistica con l'esigenza di non pesare sulle casse dell'Erario.

l’Unità 27.5.14
Al Nazareno
E Renzi sigla la pace nella sua stanza
Nella notte il segretario convoca esponenti
di tutte le correnti per rinsaldare l’unità interna con la benedizione di quel mare di voti


Li ha chiamati tutti nella sua stanza al Nazareno, l’altra notte. Matteo Renzi li ha voluti tutti con lui a seguire i risultati elettorali. Tutti i parlamentari, i ministri e i dirigenti presenti. Di tutte le aree del Pd, accomunati dall’incredulità felice per una vittoria «strepitosa », «eccezionale», «inimmaginabile», per dirla con i termini usati dai presenti a quella riunione. Sono loro, la nuova classe dirigente, i trenta-quarantenni che si sono presi in mano il partito e le sue anime e correnti che l’altra notte sembravano dissolte in quel mare di voti arrivati dal Nord al Sud, a godersi con il segretario-premier la diretta che nessuno dimenticherà. «Eravamo lì che commentavano gli exit poll e dicevamo che il 33% era un buon risultato, poi quando sono arrivate le proiezioni ci siamo guardati. Eravamo senza parole, il 40% era una risultato che ci sembrava impossibile da raggiungere », racconta il Giovane Turco Francesco Verducci.
Quella foto, voluta dal vicesegretario Pd, Lorenzo Guerini (ma caldeggiata da Matteo Renzi rimasto al secondo piano del Nazareno) che li ritrae sorridenti nella sala stampa del Nazareno, racconta questo pezzo della storia che finirà nella storia politica di questo Paese. Chi c’era racconta che Renzi non si è mai lasciato prendere da facili entusiasmi, «è stato tutto il tempo a parlare dell’agenda di governo e di quella dell’Europa. Non si è rilassato un momento e ci ha invitato a lavorare ancora più duramente perché adesso la nostra responsabilità è ancora maggiore », racconta un bersaniano presente. C’erano Nico Stumpo, Alfredo D’Attorre, Roberto Speranza, Matteo Orfini, Francesco Verducci, Francesco Nicodemo, Francesco Bonifazi, Lorenzo Guerini, Debora Serracchiani, Ettore Rosato, i suoi fedelissimi di sempre, i ministri e le ministre.
Matteo Renzi vuole che il Pd ritrovi la sua unità, la stessa che ha contraddistinto questa campagna elettorale, per questo Guerini ha annunciato una direzione già giovedì prossimo e poi l’Assemblea nazionale subito dopo i ballottaggi che dovrà ratificare la nomina del nuovo presidente Pd e dei membri della segreteria ancora mancanti.
Già durante la campagna elettorale ha spinto molto su questo tasto il segretario, su questa comunità, la sua, «dove discutiamo ma poi chi perde non viene cacciato. Quando io ho perso Bersani non mi ha cacciato», come ha detto durante i suoi comizi in Emilia. Ieri durante la conferenza stampa è tornato con forza sul messaggio: «Non ho vinto io, ha vinto una squadra». Da qui vuole ripartire Renzi. E stavolta non trova nessuno contro. «Ci sono tutte le condizioni per ragionare seriamente sulla gestione unitaria - dice infatti Alfredo D’Attorre, di Area riformista -. Queste elezioni ci hanno dato un risultato eccezionale, frutto della leadership di Matteo e dell’unità di tutto il partito, Adesso sta a tutti noi costruire un partito all’altezza della forza della leadership. Gli italiani hanno saputo riconoscere il valore aggiunto del nostro partito, dove discutiamo ma poi non si fanno liste di proscrizione e si cerca la sintesi». D’Attorre dice anche che decidere chi dovrà entrare in segreteria «sarà questione di cinque minuti al nostro interno. Se Renzi decide per un organismo più politico andranno alcuni di noi, se invece deciderà per un organismo più tematico andranno altri».
Stesso atteggiamento dai Giovani turchi, con Francesco Verducci, che spiega: «Noi non abbiamo mai messo in dubbio la nostra disponibilità a entrare in segreteria e adesso più che mai dobbiamo fare tutti uno sforzo nella stessa direzione, abbiamo una responsabilità enorme sulle nostre spalle: la grandissima fiducia che gli italiani hanno in noi». Insomma, la parola d’ordine è vietato sbagliare, «dobbiamo lasciarci alle spalle il passato», per dirla con D’Attorre. E anche Gianni Cuperlo, che alle primarie ha sfidato l’attuale segretario, riconosce la grande vittoria del partito democratico, dice che chiunque è di sinistra oggi deve essere contento. È chiaro che ora si apre la partita della presidenza del Pd, ma sarà Renzi a decidere. «Sarà relativamente giovane e molto probabilmente donna», racconta una fonte attendibile del Nazareno.
Per ora sembrano lontani i tempi delle guerre tra i big a cui il partito non era riuscito a sottrarsi. Oggi sono le nuove leve a dare le carte e di fronte a questa vittoria sembra vogliano lasciarsi alle spalle quella stagione. E a chi chiede come mai di fronte al risultato storico del Pd non si sia festeggiato in piazza - l’ultima volta accadde con Romano Prodi - è lo stesso Renzi a rispondere che le feste le faranno gli amministratori locali perché il Pd deve rimboccarsi le maniche e non perdere tempo. Solo Coca Cola e birra in un bar trovato aperto per miracolo l’altra notte a Roma a Fontana di Trevi : niente altro che questo. A brindare c’erano Alessia Morani, Guerini, Faraone, Chiara Braga, Nicodemo, la Malpezzi, Alessia Rotta. La ministra Marianna Madia era andata a casa, mentre Maria Elena Boschi era la partito impegnata nell’interminabile diretta di Mentana.

Il Sole 27.5.14
Dopo la vittoria di Renzi. Possibili ingressi nella squadra di vertice di esponenti dell'Area riformista
Pd, la minoranza s'«inchina» Presto new entry in segreteria
di Em. Pa.


ROMA «Un risultato oltre ogni aspettativa, spalmato su tutto il Paese in modo omogeneo. Con un 35% al Sud e nelle Isole che sta lì a testimoniare che il Pd è finalmente partito nazionale plasmato con il Paese, dentro il Paese in modo profondo. Gli italiani hanno dato il voto a Matteo Renzi, prima ancora che al Pd, non certo per protesta ma per tirare fuori l'Italia dal guado. È un voto per le riforme: governate l'Italia e fatelo negli interessi degli italiani. D'altra parte il Pd è nato proprio con questa vocazione maggioritaria, è nato come partito di governo». Fa un po' impressione sentire questa valutazione del risultato elettorale di domenica da parte di Nico Stumpo, responsabile organizzazione nella segreteria che fu di Pier Luigi Bersani e che non a caso nella notte elettorale era a Largo del Nazareno accanto allo stesso Renzi e ai suoi fedelissimi. Perché il risultato del Pd di Renzi ha prodotto come primo effetto proprio questo: la fine dell'opposizione all'interno del partito. «Non esistono più aree – ragiona ancora Stumpo – bensì punti di vista originali che devono confluire nell'azione comune del Pd a sostegno del governo e della sua azione riformatrice». E la vecchia richiesta della minoranza di eleggere un nuovo segretario in omaggio all'autonomia del partito ora che Renzi è a Palazzo Chigi? Manco a parlarne. «La coincidenza delle figure di segretario e premier è scritta a chiare lettere nello statuto del Pd – dice Stumpo – ed è stata confermata dal voto popolare delle primarie...».
Ci sono tutte le condizioni ormai perché l'Area riformista – nata circa un mese fa per iniziativa del capogruppo alla Camera Roberto Speranza dalle vecchie correnti di minoranza – entri in segreteria per una gestione "unitaria" e "collegiale". Vanno sostituiti i membri della segreteria finiti al governo o eletti a Strasburgo e va scelto il presidente dell'assemblea del partito dopo il passo indietro di Gianni Cuperlo. La questione era stata volutamente congelata da Renzi per affrontare la campagna elettorale. Ora la riorganizzazione del partito sarà al centro della direzione convocata per giovedì e le nuove nomine saranno ufficializzate da un'assemblea dopo i ballottaggi. Si fanno i nomi dello stesso Stumpo, di Alfredo D'Attorre, di Danilo Leva e del dalemiano Vincenzo Amendola. Oltre a quello di Matteo Orfini per i "giovani turchi", anche se lui mette le mani avanti dicendosi poco interessato. Tutti quarantenni. Per la presidenza del partito si fanno invece i nomi di Guglielmo Epifani o di Michele Emiliano, che quarentenni non sono più. Ma la cautela è d'obbligo, avvertono renziani e non, dal momento che Renzi ha abituato tutti alle sorprese in materia di nomine interne. A Montecitorio continua intanto a circolare la voce di una sostituzione concordata di Roberto Speranza alla presidenza del gruppo (Speranza dovrebbe in questo schema andare in segreteria). Il renziano della prima ora Matteo Richetti sembra in questo caso il candidato più naturale a guidare i deputati. Ma è più probabile che Speranza resti, almeno per ora, al suo posto. Richetti è comunque in pole come vicecapogruppo alla Camera.

La Stampa 27.5.14
Il Pd dimentica le divisioni interne
Spariti tutti i gufi
Dalla Cgil al vecchio apparato del partito dopo le critiche salgono sul carro del vincitore
di Roberto Giovannini


I gufi si stanno estinguendo, chiamate il Wwf. Anzi, non ci sono proprio mai stati. Parliamo di «gufi» politici, quelli che a volte Matteo Renzi ha chiamato «rosiconi» o «sciacalli»: chi, neanche troppo di nascosto, sperava che le elezioni europee assestassero una bella botta all’ego strabordante del premier. La sorpresa - ma neanche poi tanto - è che all’indomani del trionfo elettorale nessuno ammette di essersi seduto sul trespolo. Non solo non gufava nessuno; ma appunto, tutti, sono felicissimi del successo del Pd e del presidente del Consiglio.
Renzi a dire il vero i «gufi» non li ha mai indicati per nome e cognome. Ma a Palazzo Chigi si sa bene di chi stiamo parlando: i sindacalisti di Cgil-Cisl-Uil, a cominciare da Susanna Camusso e Raffaele Bonanni. La sinistra del Pd che ha addirittura accarezzato l’idea della scissione e ha definito «scellerate» le progettate riforme istituzionali. La Confindustria di Giorgio Squinzi, che specie all’inizio ha sparato a zero. I grandi e piccoli poteri colpiti dalle riforme o dall’effetto rottamazione: le Camere di Commercio, i grandi dirigenti della pubblica amministrazione considerati ferrivecchi, i boiardi delle partecipate pubbliche segati impietosamente, le banche castigate per finanziare gli 80 euro.
Nel day after però di gufi (se a questo punto ce n’erano) davvero non c’è traccia. «È un risultato strabiliante, siamo contenti e soddisfatti», dice Massimo Gibelli, uno dei più stretti collaboratori di Susanna Camusso. «Ma vi pare - afferma - che noi potessimo tifare per Grillo, Forza Italia o Sacconi? Ha vinto una sinistra riformista, che fa riferimento al socialismo europeo, che ha fatto una politica redistributiva che condividiamo e abbozzato riforme importanti». E la scelta di fare assemblee contro la riforma del pubblico impiego proprio venerdì scorso? «Un caso». E Renzi che distorce la democrazia? «Su alcune cose c’è dissenso - è la replica - così come sulla necessità di ascoltare le parti sociali». Nessun problema anche dalla Cisl, a sentire lo staff di Raffaele Bonanni: «quello è un problema della Cgil - dice il suo uomo comunicazione Salvo Guglielmino - noi siamo stati come al solito alla finestra. Gli iscritti al sindacato avranno votato in massa Pd, magari turandosi il naso: ma si poteva far finta di niente di fronte al rischio Grillo?».
Nel Pd fa un po’ impressione il silenzio dei potenti d’antan, da Massimo D’Alema a Rosy Bindi a Franco Marini. Pierluigi Bersani e Gianni Cuperlo plaudono alla vittoria con entusiasmo. «Non ho mai fatto parte della categoria dei gufi - dice Cesare Damiano, un autorevole esponente della sinistra - non condivido alcune delle scelte e delle proposte di Renzi, ma noi appoggiamo lui e il governo in modo leale e critico quando serve». Per Damiano nel Pd nessuno ha remato contro: «sarebbe stato folle».
Ma non troviamo «gufi» neanche nel mondo dell’impresa. Le banche furiose per la tassazione extra? «A nessuno fa piacere pagare più tasse - dicono i collaboratori del presidente Abi Antonio Patuelli - specie in un anno difficile. Detto questo, le banche per definizione sono per la stabilità e contro le avventure». E la Confindustria di Giorgio Squinzi, che specie all’inizio dell’avventura di Renzi non lesinò mazzate e critiche? «Nessuna freddezza - dice Fabio Minoli, il portavoce del presidente e patron Mapei - e alcune storie iniziali sono state esagerate dai giornali. Abbiamo accolto molto positivamente il decreto lavoro e constatiamo che importanti processi di riforma si sono messi in moto. Il fatto è che dopo il voto il governo Renzi ha una forte legittimazione. E che noi non stavamo nella lista dei gufi».

il Fatto 27.5.14
La Fotografia Ritratto di famiglia
Sul carro del vincitore: trova gli intrusi


   1. ROBERTO SPERANZA È il giovane capogruppo del Pd alla Camera. Inventato da Bersani, è stato il pugnalatore principe del governo Letta. Renzi non si riferiva a lui nel derby tra rabbia e speranza.
   2. NICO STUMPO È l’intruso più surreale della compagnia. Per Bersani ha costruito le primarie più astruse della storia con il solo obiettivo di fermare Renzi. Almeno ha il buon gusto di nascondersi.
   3. ROBERTO GUALTIERI Dalemiano d’apparato, milita nella corrente che è stata più ostica alla stella blairiana di Firenze. Sorride anche lui nella notte galattica del 25 maggio.
   4. ALFREDO D’ATTORRE Ha incarnato il bersanismo nella fase buia del governo Letta. Ha criticato ogni mossa di Renzi e detesta l’Italicum. Come Stumpo, si mimetizza in seconda fila.
   5. MATTEO ORFINI Ha propugnato svolte socialdemocratiche e laburiste, minacciando scioperi al fianco dei sindacati. Dalemiano, bersaniano, giovane turco in proprio. La sua barba ora è renziana.
   6. STEFANO FASSINA Coperto da Orfini, è l’economista più antirenziano del mondo. Negli ultimi mesi è andato per conto suo alla ricerca di una nuova luce. Ha trovato il sole renziano.
   7. FRANCESCO VERDUCCI Ex giovane turco che chiude la fila degli intrusi. Nella fase confusa e autistica del preincarico a Bersani si è esibito in interviste antirenziane, altrettanto confuse.

il Fatto 27.5.14
Lista Tsipras
Sono 3 gli eletti all’Europarlamento

Curzio Maltese, Marco Furfaro ed Eleonora Forenza saranno, probabilmente, i tre eurodeputati votati con la Lista Tsipras. Due degli eletti subentreranno a Barbara Spinnelli e Moni Ovadia che avevano annunciato a inizio campagna elettorale di voler rinunciare all’eventuale elezione.

Repubblica 27.5.14
La sinistra con Tsipras
Spinelli: “A Strasburgo dialogo con i 5 Stelle”
di Alberto Custodero


ROMA. Aderiranno al gruppo della sinistra europea Gue, ma saranno possibili «convergenze con i grillini». Accusano Renzi di aver abbandonato «parole di sinistra come uguaglianza e rappresentatività », di aver «divorato l’elettorato di destra». E di aver trasformato il Pd «in qualcosa che somiglia alla vecchia Dc». Insomma, i tsiprasiani italiani, capeggiati da un’agguerrita Barbara Spinelli, si definiscono sì «una sinistra radicale». Ma si considerano molto di più: «Direi - sentenzia Spinelli - che la lista Tsipras è la sinistra italiana». Invocano il miracolo per aver superato lo sbarramento del 4 per cento per una manciata di voti, circa 8 mila, appena lo 0,3 per cento.
I più votati sono risultati, paradossalmente, i due candidati che non avevano chiesto i voti (perché avevano detto di non essere interessati al seggio europarlamentare), Moni Ovadia - circoscrizione Nord-Ovest - e Barbara Spinelli - al Centro e al Sud. I due, come annunciato in campagna elettorale, si dimetteranno per lasciare il posto ai tre primi esclusi, Curzio Maltese, Marco Furfaro ed Eleonora Forenza Maltese.
«Non so ancora dove andrà Grillo nel parlamento europeo - commenta Spinelli - e quale sarà il peso reale dei suoi candidati, ma credo che i parlamentari del M5S hanno molta voglia di imparare e agire democraticamente con un’opposizione ben fatta. Su alcuni punti discussi a Bruxelles saranno possibili convergenze ».
Ma è ancora l’intellettuale a smarcare in Italia la sinistra radicale europea di Tsipras da quella riformista di Renzi. «Renzi - spiega - è a capo di un partito in piena mutazione antropologica: ha divorato l’elettorato di destra. Ma il Pd somiglia molto alla Democrazia cristiana. Renzi ama paragonarsi a Blair, ma il premier inglese ha salvaguardato lo Stato sociale. Ho molti dubbi che presidente italiano lo farà».
Spinelli attacca al cuore Renzi, sul piano ideologico. «La linea vincente del Pd decisa nelle stanze dei dirigenti ha abbandonato una seria di parole tipiche della sinistra, e dietro le parole ci sono sempre dei concetti, una lunga storia, un impegno. Sono scomparse parole come uguaglianza e rappresentatività, relativa al tema della legge elettorale». Incalzata dalle domande, precisa: «Questo non significa che non ci siano forze di sinistra nel Pd, come il gruppo di parlamentari contro la legge di riforma del Senato. E il gruppo di Civati».
Per il leader di Sel Vendola, «il voto ha espresso una straordinaria domanda di cambiamento che si è riversata su Renzi. Il segretario Pd la deve giocare per cambiare davvero le politiche in Europa, altrimenti non si potrà pensare di aver cambiato musica davvero». Fra gli esclusi, l’ex leader dei “disobbedienti” Luca Casarini, Giuliana Sgrena, la giornalista del Manifesto rapita in Iraq e liberata a costo della vita dal funzionario del Sismi Nicola Calipari. E la candidata altoatesina Oktavia Brugger.

La Stampa 27.5.14
Nuova sinistra, primi duelli tra gli intellettuali e i partiti
Alleanze, un pezzo di Sel guarda al Pd. Revelli: “Mai”
di Giuseppe Salvaggiulo


Due mesi fa, aver raccolto 150 mila firme per presentarsi alle elezioni era già sembrato un mezzo miracolo. Ieri, alle sette del mattino dopo una notte d’ansia danzando sul filo del quorum, la certezza di aver superato per 8 mila voti lo sbarramento del 4% è stata salutata come un miracolo pieno. In valori assoluti, i 1.103.203 voti della lista «L’altra Europa con Tsipras» (che riuniva Sel, Rifondazione, pezzi di Rivoluzione civile e centinaia di associazioni impegnati contro l’austerity e la privatizzazione dei beni comuni) non sono trionfali. L’anno scorso Vendola ne aveva presi altrettanti e 765 mila la lista Ingroia: per entrambi si era gridato alla débâcle. Nel 2008 la famigerata Sinistra Arcobaleno ne aveva raccolti 120 mila in più e fu trattata come il generale Cadorna dopo Caporetto.
Oggi con meno voti la lista Tsipras festeggia tre eurodeputati (nel Nord Ovest Moni Ovadia farà posto a Curzio Maltese, al Centro e al Sud Barbara Spinelli dovrebbe far subentrare due esponenti di Sel e Rifondazione). La differenza non la fa solo la bassa affluenza alle urne che gonfia le percentuali. È questione di contesto: la lista è nata in modo improvvisato a ridosso della campagna elettorale, non senza contrasti tra, nei e con i partiti. Nel simbolo non compariva la parola «sinistra» ma il riferimento al leader greco Alexis Tsipras, pressoché sconosciuto in Italia. Pochi soldi: 220 mila euro, in gran parte raccolti sul web, in minima messi dai partiti. Un’impostazione programmatica alta, in una corrida segnata da toreri populisti. Scarsa visibilità ed efficacia mediatica. Marco Revelli, uno dei garanti, rivendica «uno straordinario successo nelle città: 9 per cento a Firenze e Bologna, 6 a Milano e Torino, 7 a Roma con punte superiori al 10 in alcuni quartieri. Sono i luoghi dove si concentra il ceto medio riflessivo, un’opinione pubblica molto informata perché bisognava avere molta voglia di informarsi per conoscere la nostra lista».
E ora, che fare? A livello europeo, i tre eletti entreranno nel gruppo che fa capo a Tsipras per «provare a scomporre le larghe intese Ppe-Pse». Più problematico il futuro italiano. «Negli incontri - racconta Revelli - l’applauso scattava quando dicevamo “non finiremo il 25 maggio”. Bisogna trovare una dimensione comune e permanente».
I garanti hanno esaurito il loro ruolo. Ma prima di congedarsi, lanceranno un appello ai cento comitati promotori della lista, per organizzare un’assemblea «fondativa» entro un mese da cui uscire con una struttura leggera ma non evanescente: un coordinamento nazionale e una rete che tenga uniti i fili locali. «Il modello Syriza è interessante - spiega Revelli -. La sinistra in Grecia una decina di anni fa era ridotta come quella italiana: piccole formazioni litigiose, inconcludenti, dogmatiche. Syriza nacque come una confederazione plurale, rompendo i recinti tradizionali. Poi c’è stata un’immersione sociale: i militanti fanno interventi capillari nei quartieri di Atene: elettricisti, idraulici, muratori in sostegno della popolazione impoverita. Alla prima prova nel 2004 Syriza prese il 3,3%, due anni dopo il 5, ora è primo partito».
Poi c’è il problema della linea politica. Una parte di Sel guarda a Renzi, Cuperlo lancia segnali di pace. Per Revelli si tratta di «un’impresa disperata, da ceto politico. Mai con questo Pd». L’anno prossimo si vota in dieci Regioni: rifare liste Tsipras autonome? Discutere col Pd? Liberi tutti? «Questo è un tema aperto - dice Guido Viale, un altro garante - con contraddizioni al nostro interno ma anche nei partiti. L’amalgama è lontano». E fa l’esempio del Piemonte: alle regionali Sel con Chiamparino, Rifondazione e i No Tav contro; alle europee tutti insieme.
Il caso è illuminante. A Torino, in provincia e in tutta la Regione il risultato è omogeneo: lista Tsipras molto meglio della somma dei partitini divisi. Teme «una vandea partitica» il giurista Ugo Mattei, promotore dell’appello con Rodotà e Zagrebelsky, a posteriori risultato decisivo. «Da soli, Sel e Rifondazione non avrebbero mai fatto il quorum. Se Barbara Spinelli si dimettesse, i partiti con due eletti su tre risulterebbero i principali beneficiari del nostro sforzo di rendere votabile una sinistra che non lo era più. Syriza è cresciuta perché non aveva il tappo della nomenclatura politica. Renzi si è sbarazzato della sua, e noi?».
Nei prossimi giorni il telefono di Barbara Spinelli squillerà molto, per chiederle di non defilarsi. Lei non ha sciolto tutti i dubbi, se alla domanda sulla rinuncia al seggio risponde così: «Penso di sì, ma aspetto la proclamazione».

La Stampa 27.5.14
La verità dello “007 verde”:
“Tutta l’Italia è diventata un’immensa discarica”
Il bilancio del viaggio dal Nord al Sud svela l’emergenza ambientale
di Guido Ruotolo


«Scovarli non è facile. Devi saper fare le domande giuste e sperare di avere di fronte un interlocutore non molto spregiudicato». Ha l’aspetto di un ragazzo che fa sport, anche se i cinquanta li ha passati da un po’. Scarpe da ginnastica tipo Superga e felpa bianca. È il fiore all’occhiello della Forestale e di quella categoria di “sbirri” che si occupano dell’ambiente.
Lui ha iniziato a indagare sui traffici di rifiuti sin dalla preistoria, avendo oltre 30 anni di inchieste alle spalle. E mica è in pensione: da Reggio Calabria a Brescia, Milano, Torino e alla Procura nazionale antimafia ha il polso della situazione delle indagini, o meglio di quei traffici criminali che continuano ad ammorbare e a inquinare, per dirla con lui, «il sistema economico del nostro Paese». E ai nuovi trafficanti, «gli imprenditori eco-criminali», ha dichiarato guerra.
A sentire il suo racconto, quelle poche certezze che sembravano acquisite si sbriciolano in pochi secondi. Per esempio, è vero che oramai i 57 «Sin» (Siti di interesse nazionale da bonificare, 3% del territorio nazionale), individuati a partire dal Decreto Ronchi del ’97, ricordano tante Vie Crucis che hanno segnato il cammino dello sviluppo industriale nel nostro Paese. Sono lì, esistono, ci ricordano le emergenze ambientali sedimentate negli anni.
Ma oggi, commenta il nostro investigatore, «sono diventate un alibi, santuari del disastro ambientale legalizzato». Non solo: «Con la crisi e la chiusura di impianti industriali, noi dovremmo aggiornare l’elenco dei siti da bonificare perché non sappiamo cosa si nasconde nel terreno di quelle nuove aree industriali dismesse».
Da valore negativo a simbolo di una realtà immodificabile. Poi succedono Pescara con l’acquedotto inquinato dalla discarica. O il quartiere Ferrovia di Avellino, contaminato dall’amianto che l’Isochimica grattava dalle carrozze ferroviarie. Fabbrica chiusa ormai da un quarto di secolo.
Ma invece di provocare sommosse indignate della popolazione, questi disastri ambientali finiscono con l’alimentare l’economia della catastrofe. E può succedere che gli «inquinatori» si trasformino in «bonificatori».
Ma l’aspetto più preoccupante (e sottovalutato) dell’imprenditore eco-criminale è la sua capacità di «intrecciarsi con l’economia illegale». Un generale della Forestale sintetizza: «Ridurre i costi dello smaltimento di rifiuti pericolosi affidandoli ieri agli spazzini della camorra e oggi a quelli della ’ndrangheta, significa anche alimentare la provvista di fondi neri per finanziare la corruzione politica e nuovi investimenti non sempre in attività lecite».
Si determina così una violazione delle regole del mercato: «Prendiamo i lavori della nuova autostrada BreBeMi, Brescia-Bergamo-Milano. Il sottofondo era composto da scorie delle fonderie bresciane. L’impresa ha vinto la gara con un forte ribasso perché sapeva dove avrebbe risparmiato e anzi avrebbe guadagnato al nero. C’è di più: quell’ impresa ha inquinato il sito di contaminanti di scorie di acciaierie».
E uno pensa che la Terra dei fuochi sia un prodotto dell’editoria, un accidenti di Gomorra. In realtà l’Italia è un’immensa Terra dei fuochi: «La vera emergenza è questa. È un territorio avvelenato. I lavori dell’Alta velocità Milano-Venezia hanno fatto scoprire che accanto al letto del fiume Vella c’erano altissime concentrazioni di pcb e cianuri».
L’immagine che ci propone l’investigatore della Forestale può sembrare troppo tagliata con l’accetta, assurda addirittura. Ma prima di cestinarla bisogna rifletterci sopra. E dunque: «Ogni scavo di terra nei cantieri di grandi opere come di complessi abitativi è uno scavo di terra inquinata. Non c’è più il fusto “tombato” di cui aver paura, oggi l’inquinamento e l’avvelenamento sono diffusi nei terreni».
Ma quando è iniziata questa storia? «Con la Cooperazione internazionale, all’inizio degli Anni 80. Partivano navi per Haiti e il Centro America cariche di rifiuti tossici e nocivi sottoforma di vernici e materiali per l’edilizia. Quando arrivavano a destinazione non finivano mai nei cantieri delle grandi opere ma venivano interrati prima».
«Non c’era la consapevolezza che certi rifiuti o scorie delle produzioni industriali fossero così nocivi. Quegli erano gli anni della vigilia di Mani Pulite. E quando esplose l’emergenza rifiuti urbani al Nord, ricordo in particolare Lecco, avemmo la percezione che politica e camorra si erano candidate a gestire il business del trasporto dei rifiuti».
Parla con cognizione di causa, l’ispettore della Forestale: «In Lombardia ogni autorizzazione per l’apertura di impianti per il trattamento e lo stoccaggio dei rifiuti sottostava a un tariffario regionale, che equivaleva a una tangente del 3%. Con l’emergenza se non ricordo male del ’92-93 partirono i rifiuti per il sud, per la Campania. Allora che non c’era la differenziata erano rifiuti misti, dalle pile alle batterie agli alimentari. E i rifiuti si perdevano nel viaggio. Così abbiamo conosciuto la camorra».
I traffici illeciti, illegali, sono come una autostrada. Ogni auto, camion, tir deve entrare da un casello e pagare. I casellanti sono i trafficanti una volta di armi, un’altra di droga fino ai rifiuti. E cosa ci riserva il futuro? «La scommessa dei professionisti del traffico dei rifiuti pericolosi è la loro declassificazione a un sottoprodotto. Nella metà degli anni Novanta, la Germania ci mandava la plastica della sua raccolta differenziata perché in quel Paese non c’erano impianti di trattamento. Non che nel nostro ce ne fossero. Qui c’erano gli imprenditori imbroglioni che quella plastica da smaltire la spedivano a loro volta in Egitto».
E oggi che succede? Nel Centro Italia è la ’ndrangheta che gestisce il movimento terra (avvelenata), con tutto quello che comporta. E poi? «Oggi la nuova frontiera dei rifiuti speciali è il traffico dei nuovi prodotti merceologici, computer, cellulari, plastiche. I cosiddetti Rae, rifiuti apparecchiature elettroniche. Ieri i sinti e i rom gestivano i roghi dei copertoni, oggi il materiale ferroso pregiato. Le nuove industrie che producono veleni sono i centri commerciali delle periferie metropolitane che vendono televisori, computer e cellulari. I nuovi spazzini sono gli immigrati. L’anno scorso una indagine della Procura di Reggio Emilia svelò questo nuovo mondo. C’erano italiani, ma soprattutto extracomunitari in quella che sembrava una organizzazione internazionale. Quei grandi centri commerciali ricordano le discariche e gli abitanti delle tante Soweto che esistono sul pianeta».

Corriere 27.5.14
«Risultato avvelenato Un’Europa instabile e destinata alla crisi»
Joschka Fischer: voto anti austerità
«L’esito delle elezioni europee è un risultato avvelenato. Quella che emerge è un’Europa destinata a proseguire nella crisi molto più di quanto la gente sia indotta a pensare. È un’Europa instabile, politicamente e socialmente».
di Paolo Valentino


Joschka Fischer volge al pessimismo, mentre al telefono ricapitoliamo Paese per Paese i dati del voto per il Parlamento europeo.
L’ex ministro degli Esteri tedesco è pieno di curiosità per la sorpresa italiana, anche se neppure quella riesce a tranquillizzarlo del tutto. Infila domande una dietro l’altra: «Com’è possibile che Berlusconi prenda ancora tanti voti?». «E Grillo? Perché tanto sollievo, di fronte a una percentuale che mi pare ancora altissima?». Definisce «ottimo» il risultato di Renzi, anche se non elimina le sue preoccupazioni: «Bisognerà vedere come il premier italiano gestirà il successo, con una pressione politica interna che rimane molto alta per lui».
Matteo Renzi appare deciso, sull’onda di questo voto, a rivendicare in Europa con più forza e autorevolezza una politica per la crescita. Quante chance ha di riuscirci?
«Quello della crescita è un punto decisivo e fa bene Renzi a porlo. Ma il risultato elettorale è pieno di rischi per l’Europa. Quello di domenica è stato anche un voto contro la politica dell’austerità. Ma le situazioni nazionali raccontano storie diverse fra di loro. In Grecia il centrosinistra non esiste più, soltanto macerie. Ci sono i fascisti, c’è Tsipras. Una catastrofe. Non parlo di Danimarca, Svezia, men che meno della Gran Bretagna. Ma in Francia il risultato è un vero disastro».
Perché non parla dell’Inghilterra?
«Cameron è il grande perdente della partita inglese. Dovrà fare il referendum sull’adesione, ma la sua capacità di influenzarlo è ora inesistente».
E in Germania?
«In Germania la Csu bavarese ha fatto male, mentre gli anti euro di Alternative für Deutschland sono andati bene, con una percentuale superiore al 7%. Questo significa che le possibilità di compromesso per la cancelliera Merkel e la sua Cdu si sono ristrette. Né basterà a fare da contrappeso il risultato positivo della Spd. Ho parlato di risultato avvelenato. Un effetto probabile sarà per esempio quello di aumentare la pressione su Mario Draghi e la Banca centrale europea. Questo significa che l’eurozona, priva di una direzione politica, è destinata a nuove fasi tempestose».
Quali sono le conseguenze per la legittimazione del Parlamento europeo? Lei ha sempre detto che la legittimazione è piuttosto nei Parlamenti nazionali. Cambia qualcosa questo risultato?
«La legittimità del Parlamento è aumentata. Sicuramente lo è dal punto di vista tedesco, attraverso le candidature. Lo dimostra anche l’aumento della partecipazione popolare. Ma ora sarà decisivo capire in che modo si risolverà il confronto istituzionale tra Consiglio e Parlamento, che probabilmente si farà più duro».
Sarà Juncker il nuovo presidente?
«Sulla carta dovrebbe farcela ad avere una maggioranza. Ma bisognerà vedere, potrebbe anche saltar fuori un nome di compromesso. D’altra parte, quanto al tentativo annunciato da Schultz, non mi pare sia una buona idea avere in questa fase un presidente della Commissione tedesco. Sarebbe un po’ troppo».
E la presenza a Strasburgo di un 25% di deputati antieuropei o euroscettici?
«Renderà più difficile, ma non impossibile la composizione di maggioranze europeiste. Andremo verso una nuova Grande Coalizione di fatto all’interno dell'Europarlamento».
Che ne sarà di ogni progetto di riforma?
«Quale progetto di riforma?»
Quello dell’Europa. Una volta lei avrebbe detto la questione delle finalità, la riforma dei Trattati, la Costituzione.
«Possiamo dimenticarlo. Non prevedo alcun movimento in quella direzione».
Riassumendo, ci sarà meno austerità o no?
«Forse ci sarà meno austerità, ma il prezzo sarà molto alto. Il problema di fondo, che purtroppo in questa campagna elettorale non ha giocato alcun ruolo, è che l’eurozona si trova dentro un massiccio conflitto Nord-Sud per la redistribuzione. Il Nord pensa che il Sud sia sprofondato in una crisi permanente dalla quale non riuscirà a risollevarsi. Il Sud vede nei Paesi settentrionali solo egoismo nazionale. Questa della redistribuzione è la grande conversazione che non possiamo più evitare e che rischia di lacerare definitivamente l’Europa. È lo stesso dibattito sulle eccessive disparità sociali che passa all’interno delle società nazionali, ma trasferito a livello europeo tra Paesi del Nord e Paesi del Sud. Ed è un dibattito nel quale la posizione tedesca gioca un ruolo centrale, ma ripeto i margini di manovra della cancelliera Merkel non sono diventati più grandi dopo il voto. Anzi».

Il Sole 27.5.14
Debolezze degli avversari, programma senza ambiguità
Ecco le cinque ragioni della vittoria di Marine
di Marco Moussanet


PARIGI. Dopo settimane di sondaggi che assegnavano una vittoria al Front National - o quantomeno un testa a testa con l'Ump, il partito conservatore - nessuno si è stupito che il movimento nazional-populista sia diventato il primo partito francese. Ha stupito invece, e scioccato, la dimensione di un successo dovuto in parte all'eccellente lavoro fatto in questi anni da Marine Le Pen e in parte a fattori esterni, a partire dall'inconsistenza dei suoi avversari.
1
L'impatto della crisi economica
La Francia è arrivata quasi disarmata alla crisi del 2008. Basti ricordare che all'inizio degli anni duemila, mentre la Germania avviava delle difficili riforme strutturali, Parigi riduceva l'orario di lavoro settimanale a 35 ore (a parità di retribuzione). La sua industria si è quindi trovata a sopportare un costo del lavoro molto alto, a fronte di una produzione di qualità media e medio-bassa. Con grandi rigidità sul mercato del lavoro dovute a uno strapotere sindacale. La conseguenza è una disoccupazione record, con il 25% dei giovani senza lavoro, nonostante le decine di migliaia di posti assistiti. A questo si è aggiunto l'inasprimento fiscale degli ultimi quattro anni. Impoverimento della classe media e precarietà lavorativa hanno alimentato il voto di protesta. Come peraltro dicono chiaramente i dati sui flussi elettorali: hanno votato per il Fn il 30% dei giovani, il 43% degli operai e il 37% dei disoccupati.
2
La debolezza del presidente
François Hollande si è palesemente dimostrato non all'altezza del ruolo, che in Francia assomiglia molto a quello di un monarca assoluto. Dopo aver promesso la bocciatura del patto di stabilità, lo ha di fatto accettato. Ha sottovalutato l'entità della crisi e deciso nuove tasse per circa 30 miliardi. Salvo poi rendersi conto che il Paese non era in grado di sopportarle e annunciare riduzioni fiscali pressoché equivalenti. L'opinione pubblica non ha capito nulla e si è convinta, non a torto, che manchi una strategia chiara. La guida del Governo è stata affidata a un premier grigio, Jean-Marc Ayrault, e di scarsa presa sull'opinione pubblica. Solo dopo il disastro delle comunali, due mesi fa, Hollande si è deciso a cambiarlo. Lo stesso vale per il partito socialista. A questi problemi di fondo si è aggiunto lo scandalo dell'ex ministro del Bilancio Cahuzac, che aveva un conto in Svizzera ed è stato a lungo difeso. Il risultato è che Hollande è il presidente più impopolare di sempre e i socialisti non sono mai scesi così in basso.
3
Le divisioni nel centro-destra
Dalla sconfitta alle presidenziali (e la parziale uscita di scena di Nicolas Sarkozy), il partito fa più notizia per le guerre intestine che per le sue iniziative politiche. Grazie alla crisi dei socialisti e al cosiddetto "fronte repubblicano" anti-Fn, ha vinto le elezioni municipali, dove prevalgono considerazioni locali. Ma alle europee ha pagato l'assenza di una leadership forte e chiara. Anche in questo caso aggravata dal profumo di scandalo che coinvolge il segretario Copé in una squallida vicenda di fatture false e utilizzo illegale dei fondi del partito.
4
L'euroscetticismo dei francesi
I francesi sono tradizionalmente eurocritici, per non dire euroscettici. Come dimostra la vittoria del "no" alla costituzione europea nel referendum del 2005. O il recente sondaggio di Le Monde dal quale risulta che la grande maggioranza della popolazione si sente «solo francese» o comunque «più francese che europea». La Le Pen ha quindi avuto gioco facile nello sparare a zero su Bruxelles. Tanto più che da anni quasi tutti i politici francesi - di destra e di sinistra - hanno trasmesso l'idea che quando una cosa funziona è merito loro e quando non funziona è colpa dell'Europa. E le vere e proprie campagne contro l'euro forte, contro i divieti agli aiuti di Stato, contro l'apertura dei mercati (cui viene imputato l'andamento in profondo rosso della bilancia commerciale) hanno contribuito a stendere un vero tappeto rosso alla signora del Front National.
5
La metamorfosi
del Fronte nazionale
Arrivata poco più di tre anni fa alla guida del partito fondato da suo padre nel 1972, ne ha completamente cambiato l'immagine. E in parte la sostanza. Ha cacciato, o marginalizzato, estremisti e nostalgici. Ha dato spazio a una nuova generazione di quadri, moderni e convincenti. Ha fatto in modo che il partito si radicasse sul territorio, dando grande attenzione ai temi locali (basti citare la difesa del commercio al dettaglio contro la grande distribuzione). Ma soprattutto ha privilegiato i temi sociali ed economici rispetto a quelli tradizionali dell'immigrazione e della sicurezza (pur senza accantonarli). Una strategia vincente, visto che i consensi al Fn salgono in parallelo con le percentuali di disoccupazione. In questa campagna elettorale ha giocato abilmente le carte della sovranità, della difesa degli interessi nazionali, del patriottismo economico e della protezione in tutte le sue declinazioni: delle impr*ese, dei consumatori, dell'agricoltura, delle frontiere, dell'identità, dei servizi pubblici. Un messaggio spesso demagogico e poco credibile, ma è quello che la gente voleva sentirsi dire.

il Fatto 27.5.14
Noi e loro
Ha vinto l’Europa dei piccoli razzisti
di Maurizio Chierici


CON GLI OCCHI sul derby Renzi-Cinque Stelle abbiamo trascurato il sentimento che accompagnava una parte degli elettori. Razzismo suona sgradevole: nessuno si impantana. Lo si trasforma nella difesa dei posti di lavoro che gli orribili emigrati (spazzini, muratori a mezza paga, braccia che raccolgono pomodori) rubano ai nostri ragazzi disperati per la crisi che taglia la vita. Solo la rabbia delle madri leghiste di Pontida ha vuotato il sacco nel quale frugano i sondaggi della Pew Research e European Network Against impensierite dalle minacce di certi partiti. Piazze isteriche: Polonia, Francia, Inghilterra, Italia al quarto posto con un trend impazzito nelle ultime settimane. Macchine dell’odio contro musulmani e rom che riaccendono l’antisemitismo. Si inventano nemici sui quali scaricare gli intrighi delle nostre buone famiglie: dagli untori della Milano dei Promessi Sposi agli ebrei di Hitler che “strangolavano il mondo”. Sigillo finale, l’orgoglio di Matteo Salvini: annuncia come un regalo l’incontro con Marine Le Pen. Assieme cambieranno il continente. Il Fronte Nazionale di Marine è un partito familiare. Bastone di comando da padre a figlia che l’ha diviso con due mariti: il terzo compagno addirittura vicepresidente del partito. L’estrema destra di Jean Marie Le Pen è cresciuta a braccetto con l’Ordine Nouveau ispirato dall’Ordine Nuovo di Pino Rauti, avanguardisti duri e puri, bombe nella stagione delle stragi. Ma il Le Pen capofamiglia adorava Fuerza Nueva, “Dios, Patria y Justicia“ di Blas Pilar ombra del dittatore Franco. Senza contare i trasporti per Giorgo Almirante che gli presta il simbolo del Msi: fiamma bianco, rosso e verde a Roma, fiamma bianco rosso e blu a Parigi.
I COMANDAMENTI non cambiano: nazionalismo, integralismo, lotta agli stranieri che inquinano noi ariani con matrimoni misti e l’arrembaggio degli sbarchi. Negli anni del duce, Almirante era vicedirettore del “Giornale della Razza“, volano dei campi di sterminio. Orgoglio bianco aggiornato ai nostri giorni dalle patrie da autodisegnare : Carinzia senza Austria, Barcellona senza Madrid, Lombardo Veneto senza Roma. Mentre papa Francesco si appoggiava al muro che divide Betlemme e confessava “la vergogna“ per i bambini annegati nei nostri mari durante la fuga dagli orrori della Siria, un paginone domenicale de la Padania proclamava che “clandestino è reato“. Votate per noi che li rimandiamo a casa. Nessuno nasce clandestino, ripete Francesco a Gerusalemme dove prega con un rabbino e un imam. A proposito di preghiere. Con quale intenzione si inginocchia davanti agli altari il Veneto devoto, dove più o meno il 20 per cento dei fedeli ha votato per Salvini-Le Pen? Vocazione ripetuta nella Bergamo di papa Giovanni. In ginocchio magari col dubbio nella scelta tra Francesco o il Salvini che adesso può cantare “le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera“. Vent’anni fa, Bossi spiegava di essersi politicizzato per gli insegnamenti di un vecchio partigiano comunista: gli aveva fatto capire il dovere di aver preso le armi contro la violenza delle squadre nere. Raccontava nell’ascensore della palazzina dei gruppi parlamentari attorno a Montecitorio. Sale Alessandra Mussolini. Viaggio di 3 minuti fra insulti e parolacce. Vent’anni dopo, la signora Le Pen affascina il nuovo segretario. Ironia di Giuseppe L, lettore di Desenzano: perché la Lega ha fatto bingo? Questa volta, nel segreto dell’urna, dio non guardava ma la furbizia sì.

La Stampa 27.5.14
Presidenziali in Ucraina, vince Poroshenko
Trionfa il re del cioccolato: “I russi? Indispensabili per la sicurezza”
Ma nell’Est squassato dalla guerra civile apre solo un seggio su tre
di Lucia Sgueglia

qui

La Stampa 27.5.14
Palazzoni e grattacieli di lusso
Il nuovo Iran racchiuso in una strada
Viaggio nei 19 chilometri del viale Vali Asr a Teheran: che cosa cambia nell’era Rohani
di Guido Olimpio


Percorrere i diciannove chilometri di Vali Asr, il viale che solca Teheran in verticale, è come camminare dentro una metafora della società iraniana: dalla stazione ferroviaria di piazza Rahahan al Sud, dove le case sono anguste e malandate, a piazza Tajrish, attraverso i grattacieli di vetro e i negozi scintillanti. Dal sud plebeo aggrappato alle politiche assistenzialistiche nate dalla Rivoluzione islamica del 1979, al nord opulento che sogna improbabili svolte liberali in un paese dove il 70 per cento delle imprese sono statali. Ricchi e poveri insieme nella stessa barca squassata della crisi e dalle sanzioni che strozzano il paese, ma in cabine di classe diversa ovviamente. Senza contare i trafficoni che con l’embargo hanno fatto fortuna e adesso girano in Porsche.
Le botteghe gastronomiche ai lati della piazza. di fronte alla stazione dei treni, sembrano le stanze di una stessa casa. Gli odori si mescolano inaspettatamente: meglio un centrifugato di carota o una testa di Pecora cotta nelle entraglie assieme alle gambe? Qui votavano in massa per Ahmadinejad, anche se adesso non sono più così convinti, anche perché dal 2009 quando l’impresentabile capo dello stato fu rieletto per la seconda volta, la benzina costava circa 4 centesimi e mezzo di euro il litro e adesso è arrivata a 25. Spinta dalle sanzioni che hanno paralizzato il commercio estero, dal petrolio, alle banche, alle assicurazioni navali, e dagli effetti della politica economica suicida di Ahmadinejad, l’inflazione ufficiale (pur in discesa) è al 32,5 per cento Il nuovo presidente Hassan Rohani è stato chiamato dalla guida suprema Ali Khamenei a rimettere insieme i cocci del paese: una sfida tremenda sui cui esisti pesa la trattativa nucleare, legata com’è al destino delle sanzioni. In questa emergenza, la democrazia è l’ultima delle sue preoccupazioni, anche se qualche tentativo lo ha fatto, come quando ha detto che Internet non dovrebbe essere censurato, ma la verità è che non decide lui. Alcuni poteri statali, ad esempio quello giudiziario, sembrano avere come unico obiettivo quello di limitare l’azione del governo.
I primi risultati della sua cura cominciano a vedersi nei numeri. Quest’anno il Pil dovrebbe salire del 1,5 per cento, dopo essere precipitato del - 5,6 per cento nel 2012 e del - 1,7 lo scorso anno. Progressi che si colgono nelle statistiche ma non arrivano al cuore della gente.
«Per me non è cambiato niente», dice Karim sogghignando amaramente sotto i baffoni bianchi. Regge una busta di plastica con del pane e un succo di frutta. Contadino turcomanno, 60 anni, arriva dal Golestan, a Nord. A Teheran è solo di passaggio. «Basta con queste maledette sanzioni, lasciateci respirare», urla mentre si getta sulle strisce pedonali che sciami di auto puzzolenti ostentatamente ignorano, ogni volta un’ordalia.
Davanti a un negozio, tre uomini conversano e fumano seduti davanti a una drogheria. Jalal, 57 anni, carnagione scura baffi neri, parla per gli altri: «Ahmadinejad, Rouhani, tutti uguali. Sono impreparati e noi affondiamo. Le sanzioni? Certo se le togliessero...Ma non lo faranno e sarà peggio di prima», dice espirando fumo e pessimismo.
Zahra, 34 anni, esce truccatissima dal centro commerciale Vali-ye Asr con un soprabito grigio attillato: «Non vedo nessuna differenza. Tutto aumenta: la luce più 25 per cento, l’acqua più 30 e adesso hanno pure raddoppiato il prezzo dell’autobus. Non credo in un accordo con Obama, le pretese americane non hanno mai fine, vogliono solo umiliarci». «Il nostro problema sono i preti - s’intromette parlando in inglese Saina, 28 anni, capelli bruni che scappano da sotto il velo -. Finché governano loro siamo fottuti». E ride con l’aria di chi l’ha detta grossa.
Poco prima della lunga muraglia del palazzo dei re Qajar, dove c’è il trono di marmo, due ragazzini si arrampicano su un gelso a mangiare le bacche nere. Avanti c’è il grande teatro cittadino e sulla piazza la fermata in vetro e acciaio della linea 4 del metrò. Siamo più o meno a metà Vali Asr, il confine immaginario tra la città ricca e quella povera. Sotto il sindaco Ghalibaf la metropoli di 8 milioni di abitanti (quasi 14 con la cintura) è migliorata. Le linee della metropolitana, realizzata dai cinesi, sono passate da due a quattro, finalmente funziona la grande tangenziale, sono stati costruiti ponti, sottopassi e nuove fermate degli autobus. Solo lo spaventoso inquinamento sembra una piaga invincibile.
Due ragazzi escono dalle scale mobili: Nima, 22, anni e Pouya, 23. «Il clima qui è migliorato - spiega Nima - la polizia della moralità non rompe più le scatole, i turisti sono tornati. Ma noi siamo di Isfahan, a casa nostra tutto è rimasto fermo». Falchi, conservatori e Pasdaran guardano gli sforzi di Rohani gufando in silenzio (anche se qualche obliquo attacco non manca), pronti a rialzare la voce in caso di fallimento.
Salendo a Nord i negozi diventano più lussuosi, le case più grandi e moderne, i prezzi raddoppiano, triplicano. Mohammed, 50 anni, è vestito da businessman. Sta attraversando piazza Vanak, all’altezza del tribunale dove si divorzia. Dice: «Rohani non può fare miracoli, ha ereditato una situazione disastrosa. Si dice che Ahmadinejad abbia bruciato 100 miliardi di dollari di riserve in valuta. Certo, se togliessero le sanzioni tutto ripartirebbe, ma non so. Ho poca fiducia nella buona fede degli americani».
Marjane, 44 anni, bella, elegante, ray-ban neri, sta salendo su un’enorme fuoristrada Toyota bianco con l’incuranza di chi non teme il domani. Neppure lei è contenta: «Non cambia niente - dice - Rohani non può fare granché. Gli americani? Ah, quelli non vogliono nessun accordo, fanno solo ciò che dice Israele».
Una volta chiamavano Teheran la città dei platani: la parte settentrionale di Vali Asr è racchiusa in due file di platani che si piegano verso il centro, coprendo a tratti il cielo con un tetto di fronde verdi. Più in su del grande parco Mellat, Piazza Tajrish è appoggiata ai monti Alborz che salgono diritti a dividere Teheran dal mar Caspio: Vali Asr, già Pahlavi Street, finisce qui. «Teheran Times» scrive che i turisti europei sono aumentati del 450 per cento. I grandi alberghi sono pieni di uomini d’affari stranieri, che aspettano nervosi ai blocchi di partenza il riavvio dell’economia di un paese di oltre 83 milioni di abitanti. Il futuro dell’Iran passa per la trattativa sul nucleare a Vienna. Tutti diffidano di tutti ma alle fine le alternative sono più insidiose e irragionevoli di qualunque accordo. La gente di Teheran però viene da lontano e sa benissimo che la ragionevolezza raramente riesce a vincere.

La Stampa 27.5.14
Gli scatti di Terzani nell’abisso del male
La Fondazione Cini espone a Venezia le foto dal regno del terrore dei Khmer rossi
di Domenico Quirico

qui

ll’Unità 27.5.14
Il documento
Caro Palmiro
La lettera inedita che il padre di Berlinguer scrisse a Togliatti sulla salute del giovane Enrico


Roma, 13 febbraio 1948
Caro Palmiro,
vorrei chiederti, ancora una volta, un intervento paterno per il mio Enrico.
In quest’ultimo periodo è molto sciupato; non dorme più di quattro o cinque ore al giorno ed ha spesso allarmanti fenomeni di esaurimento nervoso. Penso, tra l’altro, che anche la sua azione politica possa risentirne nella efficienza. Non potresti consigliargli di riposare un po’ di più per qualche giorno almeno?
Mi rivolgo a te non soltanto per la nostra antica amicizia, ma anche perché anche tu sei papà. Ti prego però vivamente di non dire ad Enrico che io sono intervenuto; penso che ne sarebbe seccato.
E grazie! Credimi sempre
Aff. Mario Berlinguer

NELLA LETTERA CHE QUI PROPONIAMO, MARIO BERLINGUER, COMPAGNO di scuola di Togliatti ai tempi del liceo frequentato a Sassari, si rivolge al segretario comunista sullo stato di salute del figlio Enrico, all’epoca già membro del gruppo dirigente nazionale del partito, nonostante la giovane età. Togliatti lo aveva conosciuto durante il governo di Salerno rimanendone favorevolmente colpito e, dopo avergli affidato incarichi di responsabilità, lo aveva voluto a Roma. A proposito del primo incontro fra i due, Chiara Valentini ha scritto che «Ercoli si limita a stringere la mano al giovane compagno sardo, a buttar lì qualche frase di circostanza. Nei giorni seguenti c’è qualche altro breve colloquio. Enrico non appartiene a quel tipo di giovani, brillanti ed estroversi, di cui Togliatti con qualche civetteria ama circondarsi, e che raccoglie attorno a “Rinascita” (....) Il giovane Berlinguer è di un’altra razza, quella dei lavoratori tenaci, testardi, che hanno esaurito in fretta la fiammata protestataria e che sono pronti a identificarsi in pieno con l’organizzazione. Il compagno sardo è anche un alto borghese, sia pur chiuso e spaesato. Sono qualità che agli occhi di Togliatti ne fanno comunque un personaggio giusto per il nuovo apparato, che deve ricostruire il Pci». Umberto Terracini, a proposito della nomina di Berlinguer a segretario del Pci, avrebbe osservato che egli «è sempre stato accanto a Togliatti; Togliatti lo apprezzava per la sua capacità, la sua serietà, la sua condotta personale, e quindi lui è sempre stato lì assorbendo da vent’anni tutto il succo di ciò che si faceva o si pensava nel partito».
La lettera era stata selezionata ma poi non pubblicata sul volume Palmiro Togliatti, La guerra di posizione in Italia. Epistolario 1944-1964, a cura di Gianluca Fiocco e Maria Luisa Righi in uscita in questi giorni per Einaudi.

Repubblica 27.5.14
La Maria del Profeta che ci lega all’Islam
Per i cattolici maggio è il mese della Madonna. Ma anche il Corano celebra questa grande figura femminile. Con riti diffusi in vari paesi
di Pietrangelo Buttafuoco



Ragazze di nome Maria ce ne sono molte più in Palestina che in Italia. Ma è così anche in Turchia, in Bosnia e in Iran, dove il nome della Vergine, madre di Isa, ossia Gesù - “Spirito di Allah” - oltre a essere richiesto nell’anagrafe è tema di Almizan fitafsir’l-Quran, un imponente commentario coranico sulla Madonna. Maria è La Prescelta, il soggetto di un popolare prodotto cinematografico e televisivo.
Un film di Sharhyyar Baharani proiettato a Teheran anche nella solennità cattolica dell’Immacolata - immagine non estranea alla visione islamica, se Muhammad, il Profeta, in un hadith dice: «Ogni bambino quando nasce è toccato da Satana, a eccezione di Maria e di Suo Figlio».
Maria, infatti, già preservata dal male nel seno di sua madre Anna, moglie di Imran, è «un segno di Dio per i mondi». Così recita il Corano, che fa della Madonna il personaggio femminile più evocato in tutto il testo sacro dei musulmani, unica a essere menzionata per nome insieme a Gesù che - nella lingua araba, dove tutti sono identificati come «figlio di» un uomo, mai di una donna - è ibn Maryam, cioè «il figlio di Maria». La Vergine, nella tradizione islamica, non ha con sé uno sposo. Non c’è ricordo di Giuseppe, padre adottivo di Gesù. L’unico uomo presente nel racconto della Madonna, a parte il figlio, è Zaccaria, il sacerdote cui Maria venne affidata appena nata affinché nel tempio trovasse dimora, servizio e destino. Protetta dal velo, intenta al culto divino, Maria - ancora bambina - aveva intorno a sé sempre frutta e fiori. E così, sempre presso di sé, aveva le rose che adornano la mezzaluna. «Da dove proviene tutto questo?» chiedeva Zaccaria. E lei rispondeva: «Mi viene da Dio». Chiamata all’Annuncio e concependo il Cristo, al momento del parto - rinnegata dalla propria gente - Maria si reca in un luogo remoto. Si rattrista della propria condizione, si sente ghermire dalla solitudine, e, raccolta ai piedi di un albero secco, sospira: «Oh, fossi già morta e dimenticata ». Ma davanti a lei appare un ruscello, e dai morti rami dell’albero piovono datteri che subito si trasformano in una palma; e la voce della Misericordia, in quel prodigio, la conforta: «Non essere triste». Il Bimbo le parla: «Sono fonte di benedizione ovunque io sia, sono Elemosina al servizio del popolo di Dio, sono amorevolezza verso mia madre».
Maria Vergine e Miryam, sorella di Mosè e di Aronne, nell’Islam sono fuse in una sola persona; ma è questa evidente illogicità a collocare Gesù nella continuità di rivelazioni anteriori, e conferma nella Madonna ciò che nella sura mariana è indicato come «il Se- greto di Dio». Come a Mosè venne data la Legge scolpita nella pietra, così all’umanità - emancipata dalla Rivelazione - è stato donato il Cristo, soffiato nella viva carne femmina del Ventre, l’istmo che unisce la fragilità terrena e l’Assoluto.
La Festa dell’Annunciazione, in Libano, è da quattro anni festa comune per cristiani e musulmani. La “dormizione” poi - l’occultarsi della Vergine dalla terra, quella che per i cattolici è l’Ascensione al cielo - appartiene alla memoria degli ortodossi slavi e della letteratura islamica, in cui Maria e il proprio Figlio - cui Allah ha impedito la crocifissione - sono le creature che non conosceranno mai tomba. Nel Corano sono ben due i racconti dell’Annunzio di Dio a Maria. La sura a lei dedicata è tra le più solenni e struggenti; e per le genti d’Islam Maria è un segno così forte che nel suo esempio «s’innalza il luogo elevatissimo intorno a cui gira la macina del mondo delle sfere celesti ». A commentare con questa immagine del cosmo la sura di Maria è Ibn Arabi, il doctor maximus damasceno, ispiratore di Dante e di Giovanni della Croce. E «si dà luogo e rango alla poesia», per dirla con Ibn Arabi, se all’inaugurazione della Fiera campionaria di Tripoli, il 21 aprile 1932, la presentazione della Divina Commedia , tradotta in arabo da Abbud Abu Rashid, ebbe a culminare con il XXXIII Canto del Paradiso, come riferisce una corrispondenza de La Domenica del Corriere , a firma di Pietro Caporilli. Nel racconto del cronista, l’invocazione a Maria («Tu se’ colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ‘l suo Fattore non disdegnò di farsi sua fattura») è salmodiata secondo l’impostazione di diaframma dei muezzin e non con l’enfasi dell’accademia. Una dotta Lectio su Maria - la Prescelta - è rimasta agli atti ed è quella tenuta dall’ayatollah Ali Akabr Naseri nel Convento dei Benedettini - sede della Facoltà di Lettere dell’Università di Catania - l’8 dicembre 2009, in occasione della festa dell’Immacolata. Nel rivolgere il saluto, lo studioso di Qom dice: «Permettetemi di dirvi che una delle mie figliole, con mio grande onore, si chiama proprio Mariam».
L’Insigne tra le donne, la Casta, l’Interlocutrice degli Angeli, la Ricevitrice della Buona Novella, l’Immacolata: questi e i molti altri appellativi riservati dai musulmani alla Madonna sono rivelatori di una posizione teologica “al femminile” della tradizione islamica. Imran e Anna desideravano un figlio da affidare al Tempio ed ebbero una bimba, Maria. E così Muhammad: vide morire i tre figli maschi ed ebbe assicurata la progenie dalla figlia Fatima, il cui titolo è Dono di Dio. Fatima e Maria sono il pilastro d’amore nella sensibilità di cristiani e di musulmani. Molti sono i santuari dove pellegrini dell’una e dell’altra fede - gli uni senza cedere ai richiami occidentalisti dello scontro di civiltà, gli altri aborrendo il fondamentalismo assassino - si ritrovano accomunati dal desiderio tutto spirituale di procedere verso l’essenza. Il pellegrinaggio, per i musulmani, è solo l’hajj, a Mecca. A Fatima, in Portogallo - dove la Madonna porta al modo di un predicato il nome della figlia di Muhamad, sposa di Ali ibn Abi Talib - atterrano aerei provenienti dall’Iran: i passeggeri sono prevalentemente donne, e scelgono il maggio. Non è certo semplice turismo: piuttosto una catena dove ogni anello è un petalo di rosa che si dischiude in un legame il cui segreto è sempre il Ventre, viva carne di femmina.

Repubblica 27.5.14
Contro l’espansione illimitata i nuovi progetti recuperano spazi edificati
Da Corviale a Scampia
Basta costruire gli architetti ora rigenerano
di Francesco Erbani



La parola chiave è rigenerazione. E il luogo dal quale si srotola il racconto di una nuova frontiera per architettura e urbanistica – non occupare altro suolo libero, intervenire sul già costruito restituendo vita a pezzi di città non solo dal punto di vista fisico, ma sociale – è Corviale. Simbolo per molti di sconcerto e quasi di orrore metropolitano, per altrettanti, invece, manufatto fra i pochi significativi del secondo Novecento, il grande edificio lungo un chilometro della periferia ovest di Roma, concepito a metà anni Settanta e che ora ospita 4.500 persone (ne erano previste 8 mila), sta per conoscere una nuova esistenza.
Eses i rigenera Corviale vuol dire che la sfida è alta e rischiosa e rimbalza nelle periferie di altre città, dove, secondo le stime, almeno i nove decimi del costruito sono successivi al dopoguerra. Un costruito affetto da malattie profonde.
Renzo Piano ha invitato al “rammendo”, una metafora che rimanda alla riparazione e non all’aggiunta di nuovo tessuto. E in questo programma ha coinvolto giovani professionisti. Alla imminente Biennale architettura (dove viene esposto il progetto Corviale), il titolo del padiglione italiano curato da Cino Zucchi è “Innesti”, cent’anni di edifici realizzati in ambienti già storici (ma qui si sconfina in un campo assai controverso, quello del moderno nell’antico). A Scampia, periferia napoletana, Vittorio Gregotti costruisce da anni, stop and go permettendo, una sede della facoltà di medicina dove un tempo svettava una delle Vele poi demolita, altra architettura con lo sbrigativo bollino di infamia. A Roma l’assessore Giovanni Caudo – assessore alla Rigenerazione urbana – ha impostato un piano per realizzare, in un’area di caserme dismesse di fronte al Maxxi, un museo della scienza, abitazioni a canone concordato e spazi pubblici, lasciando una parte all’edilizia privata.
Rigenerare è connesso con l’abbandono dell’idea di un’espansione illimitata. La legge urbanistica toscana, promossa dall’assessore Anna Marson, prevede che le aree urbanizzate vengano perimetrate e che si costruisca solo al loro interno, lasciando integro il territorio libero. Un’invalicabile linea rossa intorno ai centri urbani è stata immaginata dall’urbanista Vezio De Lucia nel Piano della provincia di Caserta, la Gomorra massacrata da un’edilizia selvaggia.
Gli esempi italiani potrebbero continuare. Molte università sono impegnate nella ricerca. Si guarda all’Olanda, alla Germania, alla Svezia. Ma intanto Gregotti, che di questi temi ha scritto in Architettura e postmetropoli (Einaudi), mette sull’avviso: «Rigenerare significa ricreare un tessuto urbano, non pensare a un oggetto isolato.
Occorre legare l’intervento all’ambiente che lo contiene, creare una mescolanza fra abitazioni, servizi e altre funzioni che soddisfino i bisogni di quel contesto». Architettura e urbanistica insieme. Un cambio di paradigma: non più oggetti che splendano in solitudine, ma ricuciture nelle slabbrature di una città cresciuta senza regole, che ha invaso terreni agricoli, diradandosi e sprecando suoli pregiati. Esiste però buona rigenerazione e cattiva rigenerazione, non basta dire “stop al consumo di suolo”: è l’avvertenza di Edoardo Salzano, urbanista, animatore del sito eddyburg. it. «Una cosa è proporsi di migliorare le condizioni fisiche di parti della città e la vita delle persone», spiega Salzano, «altro è preoccuparsi di moltiplicare il volume d’affari e i valori immobiliari. La prima strada è rigenerazione, la seconda no». Rigenerazione non solo dell’involucro fisico, ma della qualità del vivere.
I progetti di Corviale li illustra Daniel Modigliani, architetto, commissario dell’Ater, l’azienda regionale per l’edili- zia pubblica proprietaria dell’edificio: «Il primo problema è densificare Corviale. Molto spazio è sprecato. E anche le abitazioni sono troppo grandi per famiglie ridotte a una coppia o anche solo a una persona. Al quarto piano, che l’architetto Mario Fiorentino aveva destinato ai servizi e alle aree collettive, poi occupato da abusivi e ora degradato, Guendalina Salimei ha previsto un centinaio di al- loggi». Per Massimiliano Fuksas, Corviale andrebbe abbattuto. Per altri, spezzettato in una trentina di convenzionali palazzine. «Lo decideremo con il concorso», replica Modigliani. «Io insisto per conservarne l’unitarietà. Abbiamo un progetto per aprire il pian terreno e installarvi servizi e altre attività e per consentire il passaggio dalla strada agli orti che sono alle spalle dell’edificio, così da alimentare le relazioni con il quartiere. Sul tetto sono previsti verde e impianti per la raccolta dell’acqua e il risparmio energetico ». A Corviale il verde è tanto e anche i servizi, compresa una delle migliori biblioteche comunali. Al progetto si è arrivati dopo consultazioni fra le istituzioni, il ministero per i Beni culturali, l’università e, soprattutto, i comitati di cittadini.
La nuova frontiera della rigenerazione in realtà viene rincorsa da una trentina d’anni. Da quando, in Europa e in Italia, si rendono disponibili aree in zone periferiche o semicentrali occupate da industrie e altri impianti. Resta esemplare la storia delle caserme francesi di Tubinga, in Germania: 64 ettari, liberati dai militari dopo la riunificazione, hanno accolto case ad affitto convenzionato per 6 mila abitanti, costruite da cooperative degli stessi futuri residenti, aziende per 2 mila occupati, verde, scuole, servizi comunitari come il car sharing, biciclette a disposizione di tutti. E se si allarga lo sguardo ecco le esperienze, ormai storiche, dell’America Latina, da Curitiba (Brasile) del sindaco-urbanista Jaime Lerner a Medellín in Colombia. Qui, nella capitale del narcotraffico, si è avviata una rigenerazione che – racconta Ma- rio Tancredi, architetto italiano che insegna in Colombia – «ha fronteggiato la segregazione sociale con una rete di trasporto pubblico e una linea di cabinovie che a ogni stazione realizzava uno spazio di convivenza e che si arrampicava su un’altura raggiungendo alcune biblioteche, cinque progettate nel giro di poco tempo, e poi un parco urbano. Tutto questo accompagnato da piazze, strade, scuole, fognature e dalla ristrutturazione di tante abitazioni sorte in maniera incontrollata e in luoghi pericolosi. Gli effetti? Omicidi crollati di decine di punti percentuali e crescita del commercio del 300 per cento».
Se invece di progetti a questa scala si punta a incrementare la rendita – insiste Salzano – la rigenerazione non c’è più: centri commerciali, residenze a prezzi di mercato, speculazione. Occasioni sprecate. Come a Vicenza, dove a poche centinaia di metri dalla Rotonda di Andrea Palladio, nella zona di Borgo Berga, al posto dello storico stabilimento Cotorossi sta sorgendo un quartiere di forme spropositate, realizzato da una società che fa capo a Enrico Maltauro, in carcere per le tangenti Expo 2015, che grava sui due fiumi, il Retrone e il Bacchiglione, esondati due anni fa. «Per queste iniziative è indispensabile la regìa pubblica, senza sottomissioni al volere dei privati», spiega Salzano. «La città non è fatta solo di abitazioni, ma di spazi per stare insieme. La prima cosa che si insegnava a chi studiava urbanistica era di calcolare i fabbisogni. Adesso si calcola la valorizzazione delle aree».

La Stampa 27.5.14
Sassi di Matera
Dc e Pci contro l’utopia di Olivetti
Un volume racconta il recupero urbanistico tentato negli Anni 50 dall’industriale umanista avversato sia dal governo sia dalla sinistra
di Giuseppe Salvaggiulo


Venti domande su due paginette dattiloscritte: dal tipo di casa (grotta, ex cantina, ex stalla...) alla latrina (sì/no, con accesso dall’interno o dall’esterno). In calce, la firma del capofamiglia. È la «scheda di rilevazione delle abitazioni dei Sassi di Matera», per la prima volta pubblicata nel volume Matera e Adriano Olivetti (Fondazione Adriano Olivetti, 274 pp.), curato dai ricercatori Federico Bilò ed Ettore Vadini. Un documento prezioso: da quella scheda, distribuita nel 1950 a 3500 famiglie, originò uno degli esperimenti di urbanistica (nel senso pieno di disciplina umanistica) più interessanti e visionari del dopoguerra, grazie a un irripetibile connubio tra professionisti locali, intellettuali italiani e stranieri e Adriano Olivetti.
Mentre a Ivrea lanciava sul mercato la Lettera 22, Olivetti era anche commissario dell’Unrra-Casas, divisione dell’Onu dedita alla ricostruzione post bellica, e presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica. Fu Carlo Levi, che della «dolente bellezza» dei Sassi aveva lasciato testimonianza in «Cristo si è fermato a Eboli», a suggerirgli di andare a Matera, dove trovò tasso di mortalità infantile oltre il 40 per cento, analfabetismo di massa, condizioni igienico-sanitarie indecenti. Nei Sassi vivevano contadini senza terra: per raggiungere quella che coltivavano per conto terzi, dovevano camminare cinque ore al giorno.
Una mattina del 1949 il giovane antropologo materano Albino Sacco venne convocato al bar Adua, dove trovò «un signore con i capelli bianchi, tutto in blu, con camicia bianca e cravatta bianca». «Lei è Albino Sacco?». «Sì... e lei è Olivetti». «Di cosa si occupa?». «Faccio studi sui Sassi per risolvere la situazione della gente che ci vive». «Sono molto interessato». Arrivarono soldi e collaboratori: l’obiettivo di Olivetti era fare di Matera un laboratorio comunitario in quanto «capitale simbolica» del mondo contadino, «costruendo luoghi per restituire dignità e cittadinanza alle persone».
Attorno a lui si radunò una comunità scientifica poliedrica: progettisti, assistenti sociali, ingegneri, scrittori, filosofi, psicologi, medici, economisti, insegnanti, agronomi. La meglio gioventù materana. Studiosi americani. Bruno Zevi e Paolo Sylos Labini. Manlio Rossi Doria mandava i suoi allievi. Henri Cartier-Bresson girava e fotografava la Basilicata. Utopia e pragmatismo: gli studi sfociarono nel progetto di trasferire 9 mila abitanti dei Sassi in sei nuovi villaggi in un raggio di dieci chilometri da Matera, con le case vicine alle terre assegnate con la riforma agraria. Gli altri 9 mila sarebbero rimasti nelle vecchie case risanate, «per preservare il tessuto urbanistico e sociale».
Nel 1953 le prime cinquanta famiglie entrarono nel nuovo borgo La Martella, finanziato dal piano Marshall. A dispetto dei limiti, fu un esempio (oggi, un miraggio) di architettura partecipata. Quando si poneva un dilemma progettuale - dal mulo in casa alla posizione della stalla - i contadini venivano consultati con referendum.
Dal libro emerge l’ostracismo del potere politico, a cominciare dal rifiuto di pubblicare sei dei nove volumi che raccoglievano gli studi sui Sassi, con un’introduzione scritta da Paolo Volponi. «I democristiani - racconta il sociologo Friedrich Franz Friedmann in una conversazione con Laura Olivetti - crearono tutte le difficoltà che potevano». Avrebbero preferito (in accordo con gli americani) case isolate perché temevano che i borghi a misura di contadino diventassero «cellule comuniste». E si oppose persino ai piccoli orti adiacenti alle abitazioni: soluzione troppo socialista. Nulla di più miope: gli olivettiani erano gobettiani e rosselliani, tanto che il Pci non smise mai di avversarli. «Non eravamo comunisti - scherza Sacco - ma peggio: comunitari». Non piacque nemmeno il piano regolatore redatto dall’urbanista Ludovico Quaroni e finanziato da Olivetti. Per poter dare l’ok del ministero dei Lavori pubblici, imposero l’affiancamento del più «organico» Luigi Piccinato.
Modificando il progetto originario, il ministro Emilio Colombo, ras lucano della Dc, impose di svuotare completamente i Sassi. «In questo modo - ricorda Sacco - si aveva accesso a un enorme bacino elettorale: case nuove gratis per tutti!». Ma poi non tutti ricevettero la terra. E a lungo il borgo rimase senza servizi: posta, asilo nido, strade. Fu necessario occupare la prefettura per attivarli. Per tre mesi, due agenzie governative litigarono sul forno da costruire (a legna o elettrico), costringendo le donne a camminare dieci chilometri al giorno per portare l’impasto del pane in città.
Quando non poteva boicottare, il potere fagocitava. Il ministro dell’Istruzione Guido Gonella lo fece con le scuole dei contadini create dal gruppo di Sacco, trasformandole per legge in «scuole popolari serali» ed emarginando i promotori, che l’autorità di pubblica sicurezza aveva anche arrestato per occupazione abusiva dei terreni su cui si facevano studiare i braccianti. Lo stesso borgo La Martella fu inaugurato da De Gasperi e sbandierato come un successo del governo a ridosso delle elezioni, con migliaia di contadini pagati 1000 lire ciascuno per comparire nei cinegiornali.
Il progetto di rigenerazione contadina di Matera rimase incompiuto. Albino Sacco, che rifiutava di informare in anticipo i notabili locali su quali suoli sarebbero diventati edificabili con il piano regolatore, pagò la sua intransigenza: in un giorno fu promosso e trasferito a centinaia di chilometri. Ma gli olivettiani di Matera, rimasti orfani di Adriano, non si sono persi. Ricorda Sacco: «Noi abbiamo combattuto contro chi è venuto dopo». Contro la Dc, contro il Pci, contro il malaffare. «Olivetti aveva ragione su tutto. Con quelle idee si poteva e si doveva fare un paese civile. Noi avevamo una scuola, si respirava un’aria di cultura tra noi. Questo clima si è mantenuto ovunque siamo andati: anche negli enti dove ci siamo sparsi, i nostri non hanno mai disatteso questa missione».

La Stampa 27.5.14
Il Papa: pedofilia come messe nere
Il Pontefice lascia Gerusalemme e lancia un appello per la “pace tra le religioni”
di Andrea Tornielli


Papa Francesco a ruota libera: nonostante il viaggio massacrante è rimasto e si è sottoposto per un’ora, senza rete, alle domande dei giornalisti che l’hanno accompagnato in Terra Santa.
Gli abusi sui minori
«In questo momento ci sono tre vescovi sotto indagine, di uno, già condannato, si sta studiando la pena. Non ci sono privilegi su questo tema dei minori, non ci saranno “figli di papà”. Un sacerdote che compie un abuso, tradisce il corpo del Signore. Il prete deve portare il bambino o la bambina alla santità. E questo si fida di lui. Invece di portarlo alla santità, lui lo abusa. È gravissimo. E’ come fare una messa nera! Invece di portarlo alla santità lo porti a un problema che avrà per tutta la vita. La prossima settimana ci sarà una messa con alcune persone abusate, a Santa Marta, e le incontrerò. Su questo problema si deve andare avanti con tolleranza zero»
Il summit con Peres e Abu Mazen
«I gesti più autentici sono quelli che non si pensano, dei gesti concreti che ho compiuto nessuno era stato pensato così. Alcune cose, come l’invito ai due presidenti, si era pensato di farlo là, durante il viaggio, ma c’erano tanti problemi logistici, tanti, il territorio dove si doveva fare, non era facile. Alla fine è uscito l’invito e spero che l’incontro in Vaticano riesca bene. Sarà un incontro di preghiera, non per fare una mediazione. Con i due presidenti ci riuniremo solo a pregare. Credo che la preghiera sia importante. Ci sarà un rabbino, un islamico, ci sarò io. Ho chiesto al Custode di Terra Santa di organizzare un po’ le cose pratiche».
Populismo ed elezioni europee
«Ho avuto solo il tempo di pregare qualche Padre Nostro ma non ho avuto notizie sulle elezioni. Il populismo in Europa, la fiducia o la sfiducia, alcune tesi sull’euro.... di questo io non capisco tanto. Ma la disoccupazione è grave: siamo in un sistema economico mondiale dove al centro è il denaro, non è la persona umana. Non è solo in Europa. È un sistema economico disumano basato sullo scarto dei bambini, degli anziani e dei giovani, questo sistema economico uccide».
Il celibato dei preti
«La Chiesa cattolica ha preti sposati, nei riti orientali. Il celibato non è un dogma di fede, è una regola di vita, che io apprezzo tanto e credo che sia un dono per la Chiesa. Non essendo un dogma di fede, c’è sempre la porta aperta»
Rapporto con gli ortodossi
«Con Bartolomeo abbiamo parlato dell’unità, che si fa camminando insieme, non potremo mai farla con un congresso di teologia. Abbiamo parlato perché si faccia qualcosa della data sulla Pasqua. È un po’ ridicolo: dimmi il tuo Cristo quando resuscita? Il mio la settimana prossima. Il mio invece è resuscitato la settimana scorsa! Con Bartolomeo parliamo come fratelli, ci vogliamo bene, ci raccontiamo le difficoltà del nostro governo. Abbiamo parlato abbastanza dell’ecologia, di fare insieme un lavoro congiunto su questo problema»
Il viaggio in Sri Lanka e Filippine
«In Asia ci sono in programma due viaggi, in Sud Corea in agosto, e a gennaio prossimo un viaggio di due giorni in Sri Lanka e poi nelle Filippine, nella zona dove c’è stato lo tsunami».
La libertà religiosa
«Ci sono martiri oggi, martiri cristiani, cattolici e non cattolici. In alcuni posti non puoi portare un crocifisso, avere una Bibbia, o insegnare il catechismo ai bambini. Credo che in questo tempo ci siano più martiri che nei primi tempi della Chiesa. Dobbiamo pregare tanto per queste Chiese che soffrono tanto. Per esempio in un paese è proibito pregare insieme. I cristiani che sono lì vogliono celebrare l’eucarestia, e c’è un signore che fa l’operaio ma è sacerdote: fanno finta di prendere il tè e celebrano l’eucarestia. Se arrivano i poliziotti, nascondono i libi e risulta che stanno prendendo il tè»
La mia (eventuale) rinuncia
«Io farò quello che il Signore vorrà cercando di fare la sua volontà. Benedetto XVI non aveva più le forze, e onestamente, da uomo di fede e umile qual è, ha preso questa decisione. Settant’anni fa i vescovi emeriti non esistevano. Cosa succederà con i Papi emeriti? Dobbiamo guardare a Benedetto XVI come a un’istituzione, ha aperto una porta, quella dei Papi emeriti. La porta è aperta. Ce ne saranno altri o no? Dio solo lo sa. Io credo che un vescovo di Roma se sente che le forze vanno giù deve farsi le stesse domande che si è fatto Benedetto».
I divorziati risposati
«Il Sinodo sarà sulla famiglia, sul problema della famiglia e sulle sue ricchezze e la situazione attuale. A me non è piaciuto che tante persone, anche di Chiesa, abbiano detto dopo la relazione preliminare del cardinale Kasper: il Sinodo è per dare comunione ai divorziati risposati, come se tutto si riducesse a una casistica. Come diceva Papa Benedetto, bisogna studiare le procedure di nullità matrimoniale, studiare la fede con cui una persona va al matrimonio e chiarire che i divorziati non sono scomunicati. Tante volte sono trattati come scomunicati».
Lo Ior e gli scandali finanziari
«Gesù una volta ha detto ai suoi discepoli: è inevitabile che ci siano scandali, siamo tutti peccatori. Il problema è evitare che ce ne siano di più. Nell’amministrazione economica serve onestà e trasparenza. La Segreteria per l’economia diretta dal cardinale Pell porterà avanti le riforme. Ma ci saranno ancora incongruenze, ci saranno sempre, siamo umani. E la riforma deve essere continua. Per esempio nello Ior sono stati chiusi 1600 conti, di persone che non avevano diritto. Io vorrei dire una cosa: la questione di quei 15 milioni (dati alla Lux Vide), è ancora sotto studio, non è ancora chiaro che cosa è accaduto».