mercoledì 28 maggio 2014

l’Unità 28.5.14
Ai lettori

I giornalisti proseguono lo sciopero delle firme per sostenere la loro battaglia in difesa della testata. Il 5 giugno è convocata un’assemblea dei soci che dovrà decidere sul destino del giornale. Il sindacato non ha ancora ricevuto informazioni sugli orientamenti dell’editore: per ora c’è solo silenzio.

Repubblica 28.5.14
Nell’Italia dove la cultura vale zero euro
In un decennio sono crollati investimenti e consumi
E in Europa siamo all’ultimo posto per la cura del patrimonio
di Slvatore Settis



Ultimi della classe in Europa. Questa l’impietosa conclusione di un’accurata analisi delle spese in cultura nel periodo 2000-2011 condotta dal Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione Economica della Presidenza del Consiglio, che sarà presentata a Roma domani. La cruda eloquenza dei numeri ci dice che l’Italia, che fino al 2009 spendeva in cultura lo 0,9 % del Pil, è calata allo 0,6% nel 2011, finendo così all’ultimo posto fra i 27 Paesi dell’Unione. Il 2012 conferma questo dato terrificante.
Lieve incremento nelle regioni del Nord, quelle del Centro stabili sugli stessi valori, ma al Sud un ulteriore, drammatico calo. In Europa l’Italia evidenzia il più alto disinvestimento nel decennio (meno 33,3%), più del doppio rispetto alla Grecia (meno 14,3%). Intanto altri Paesi, dall’Olanda all’Ungheria, dalla Danimarca alla Slovenia, investono nel settore oltre l’1,5% del Pil, e quasi tutti gli altri Paesi europei oscillano tra l’1 e l’1,5%. Tutt’altro che consolante la spesa in consumi culturali delle famiglie italiane, uno striminzito 7,2%, nettamente inferiore alla media europea (8,9%). Secondo dati del 2013, l’Italia è in fondo alla classifica per livello di partecipazione dei cittadini ad attività culturali: 8%, un dato davvero imbarazzante a petto del 43% della Svezia, 36% in Danimarca, 34% in Olanda, e così via.
La contrazione della spesa in questo settore è stata più pesante che in qualsiasi altro (siamo passati da 51,62 euro pro capite nel 2000 a 30,52 nel 2011), ma si è distribuita nelle diverse aree del Paese in modo non uniforme. Val d’Aosta, Friuli, Lazio e Sardegna fanno eccezione, ma tutte le altre regioni sono penalizzate da un disinvestimento rilevante, che colpisce specialmente le regioni del Sud, accentuando il divario storico dal centronord. Le risorse aggiuntive (fondi strutturali e fondi comunitari), che privilegiano il Sud, sono tuttavia lontanissime dal colmare l’enorme gap che lo separa dal Nord, senza contare che in alcune regioni (come Puglia e Sicilia) si è registrato dopo il 2009 un forte crollo della spesa aggiuntiva. «Un ulteriore fattore di differenziazione territoriale – scrive il Rapporto – è il ruolo assunto dalle Imprese Pubbliche Territoriali», a cominciare dalle Fondazioni: il loro peso «è fortemente cresciuto nel decennio, nell’ambito del calo della spesa pubblica e di una maggiore articolazione della governance », ma con scarsissimo beneficio per l’intero Mezzogiorno (con la parziale eccezione della Campania), e una forte concentrazione nel Centro-Nord. Nel 2011, il contributo delle Imprese Pubbliche Territoriali alla spesa totale nel settore cultura è pari al 22% nel Nord, al 18 % al Centro, all’8 % al Sud: percentuale bassissima su una spesa complessiva già assai ridotta, con effetti devastanti sul già endemico squilibrio Nord-Sud.
«La cultura è tradizionalmente un asse strategico nelle dichiarazioni degli amministratori e dei politici – conclude il Rapporto – ma è al tempo stesso il primo oggetto di taglio di risorse in tutte le fasi di restrizione della finanza pubblica». L’analisi delle dinamiche di investimento e di spesa evidenzia che «lo sviluppo del settore necessita un’offerta pubblica in grado di stimolare la domanda, e ciò soprattutto nei territori caratterizzati da un grado inferiore di sviluppo sociale ed economico». E invece prevale «una visione del settore culturale come lusso per tempi felici, effimero rispetto ad altre esigenze». Il Rapporto raccomanda «un solido miglioramento del contesto intersettoriale, dai trasporti alla sicurezza, dalla comunicazione alla semplificazione amministrati- va»; «una chiara e lungimirante politica nazionale nell’ambito di una governance unitaria»; l’accorta gestione delle politiche di coesione «non solo per le risorse aggiuntive che garantiscono, ma per la capacità progettuale che richiedono»; infine, l’integrazione di risorse pubbliche e private, anche con strumenti di agevolazione fiscale.
A quest’ultimo obiettivo risponde, nel decreto Franceschini recentemente varato, la nuova normativa sul mecenatismo, un passo avanti che però resterà lettera morta se non accompagnato da una forte e consapevole politica di nuovi investimenti che capovolga la perversa tendenza alla carestia perpetua, evidenziata dai dati ora emersi. È vano fare la ruota elogiando qualità e quantità del nostro patrimonio culturale, sbandierando stolte vanterie (come la pseudostatistica, stancamente ripetuta da finti esperti d’ogni colore, secondo cui l’Italia avrebbe il 50, 60, 70% dei beni culturali del mondo), se poi continuiamo a disinvestire e chiudiamo gli occhi per non accorgercene. È vano sognare miracolosi interventi di privati, se non facciamo nulla per rilanciare le strutture pubbliche della tutela: che non sono, come talora si blatera, passive strutture di mera conservazione, ma enti di ricerca e conoscenza territoriale, fase necessaria per qualsivoglia “valorizzazione” che non sia vuota retorica e flatus vocis. Il Ministero dei Beni Culturali ha bisogno di riavere con estrema urgenza le risorse di cui è stato borseggiato dalla banda del buco Tremonti- Bondi nel 2008; ha bisogno di massicce nuove assunzioni di giovani preparati, in deroga a qualsiasi retorica del blocco della spesa pubblica; ha bisogno di nuove idee, e prima di tutto della coscienza condivisa che l’investimento nel settore, conforme alla Costituzione, non è un optional ma ingranaggio essenziale dell’orizzonte dei diritti, della costruzione dell’eguaglianza e della dignità della persona.
Il ministro Franceschini ha saggiamente ripudiato la volgare metafora del patrimonio culturale come “petrolio” d’Italia, e giustamente insiste sulle sue potenzialità. Ma per dispiegarle non occorrono né commissari né manager , genericissima qualifica che fino ad ora nulla ha prodotto nel settore se non sprechi e rovine, e che invece il decreto addita come soluzione salvifica, senza il minimo sforzo di spiegare perché. A fronte di risorse in calo, nessun manager di qualità sarà mai interessato a lavorare nel settore; e se uno ve ne fosse, non potrà che fallire. Quando, invece che stracciarsi le vesti sulla cronica mancanze di risorse e inventare palliativi, il governo getterà sul tappeto il tema, perpetuamente rimosso, della gigantesca evasione fiscale che affligge il Paese, terzo al mondo per evasione dopo Messico e Turchia? Basterebbe recuperare un decimo dei 154 miliardi di euro l’anno di tasse non pagate, e come per incanto la scuola, i beni culturali, i servizi sociali potrebbero rifiorire.

Repubblica 28.5.14
L’amaca
di Michele Serra

C’ERA una sottile perfidia nella trionfale apertura di Huffington Post ieri pomeriggio: il Gotha del capitalismo italiano (Marchionne, Tronchetti, Barilla, Abete, Elkann, Ghizzoni, tutti con fotina) che esulta per la vittoria di Renzi. È solo un pezzo della verità: ma sottolinearlo avvalora una tesi molto detta e cliccata in queste ore, il Pd come “nuova Dc”, nuovo partito padrone e per osmosi nuovo partito dei padroni. Su questo tasto batterà certamente la vulgata grillina, e dalle due estreme (Libero e il Fatto, per intenderci, Lega e NoTav) tireranno a palle incrociate contro il bersaglione renziano: innegabilmente un pachiderma molto composito, per dirla con eleganza un partito “postideologico”.
Non è un argomento polemico senza peso. Ma se Renzi e i suoi giovanotti e giovanotte fiutano l’aria, la puzza di bruciato possono sentirla da subito. E basterebbe mantenere la promessa “più equità”, come hanno fatto, e rastrellare quattrini nelle rendite finanziarie e nei grandi patrimoni, non più spremendo le buste paga come limoni, per smorzare l’esultanza di quei signori e levare qualche argomento a chi annuncia “la nuova Dc”. Che per altro, e per dirla tutta, qualche riforma filopopolare la fece.

Gianni Cuperlo rilascia interviste in cui si dice ammirato dall’«energia» impressa da Renzi
Massimo D’Alema aspetta la decisione del segretario su un possibile incarico per lui alla Commissione europea e riconosce a Renzi il merito della vittoria
Nichi Vendola, che ai tempi del conflitto delle primarie del 2012 considerava Renzi come l’orrenda «incarnazione dell’inciucio sublime tra sinistra e liberismo» oggi loda in Renzi colui che «catalizza una speranza di cambiamento» e che può autorevolmente fronteggiare le politiche di «austerity» in Europa
Corriere 28.5.14
Quelli che si convertono dopo il Boom
Dalla corsa alla foto ai commenti entusiastici
Ora gli oppositori sono diventati renziani
di Pierluigi Battista


Stanno cambiando verso davvero molto in fretta. Domenica notte, quando le prime proiezioni centellinavano percentuali da trionfo, numeri da apoteosi, 40 per cento, un «record storico», nel Pd di minoranza i refrattari della penultima ora (prima del voto) già si erano per incanto trasformati negli entusiasti della primissima ora (dopo il voto). Una fotografia li immortalò: il giovane gruppo dirigente forgiato da Matteo Renzi che, insieme a «nonno Zanda», esulta soddisfatto per il successo smisurato del leader provvidenzialmente assente per non rubare tutta la scena. Ma nella foto di quel giovane gruppo dirigente, nota l’ostile Fatto quotidiano , c’è qualche «intruso», non proprio un renziano antemarcia, diciamo: Stefano Fassina («Fassina chi?»); un altro Matteo, ma Orfini; Alfredo D’Attorre, proprio il «bersaniano» che lanciò la fatwa contro il neosegretario del Pd, colpevole di aver profanato la sede del Nazareno con l’orrido Berlusconi; Roberto Speranza; persino Nico Stumpo, l’uomo che alle primarie del 2012 architettò pro-Bersani un farraginoso percorso a ostacoli (le «regole») per impedire al massimo numero di presunti «renziani» non iscritti al Pd di entrare nei gazebo del partito. #Cambiaverso, recita l’hashtag . E loro hanno cambiato.
Su Twitter, del resto, che era già il regno del giornalismo veloce, giovane, arrembante, moderno con Renzi protagonista indiscusso, è tutto un concedersi e rimpallarsi visibilissimi endorsement via hashtag in cui l’ammiccamento si sposa l’appartenenza, la strizzatina d’occhio si annida tra i militanti della Causa mimetizzato in followers . Spuntano come funghi dopo la scalata al vertiginoso 40 per cento frizzanti #lasvoltabuona, perentori #unoperuno, imperiosi #cambiaverso. Prima di domenica, insomma, bisognava contenersi. Dopo il 40 per cento, possono cadere freni e remore. I freni e le remore distrutti quando, durante una conferenza stampa, forse per la prima volta nella storia del giornalismo politico dell’Italia repubblicana, un applauso è partito lunedì dalla platea di cronisti all’indirizzo del presidente del Consiglio vincitore assoluto delle elezioni. Forse, non è detto che sia la prima volta, ma gli annali e gli archivi non riportano precedenti. Mentre è certo che al termine della conferenza stampa siano fioccati commenti sui social network in cui i giudizi più misurati e sobri hanno indicato nel discorso di Matteo Renzi i segni di uno «statista», se non di un «grande statista». Ed è altresì certo che si è arrivati, dopo il trionfo elettorale, a chiedere pubblicamente su Twitter le «scuse» a Pina Picierno per le improvvide critiche che le erano piovute sul capo dopo le dichiarazioni sulla spesa di 80 euro al supermercato.
Succede sempre così: la salita un po’ precipitosa sul carro del vincitore. E Matteo Renzi, che è persona spiritosa e accorta, lo sa bene. A pochissimi minuti dalle fantastiche proiezioni elettorali, Andrea Salerno, uno degli autori di Gazebo, un’oasi di ironia e autoironia nella seriosità del talk-show nazionale, ha scritto: «Partita la gara a chi conosce Matteo da prima. Qualcuno twitta: ecografia prenatale». Ma è un costume abbastanza frequente, all’indomani di elezioni che consacrano un grande vincitore. Quello che invece non è così frequente è che non commentatori e giornalisti, ma politici un tempo ostili al vincitore si mettano in posa per dichiararsi super-renziani che più renziani non si può. La minoranza del Pd, quella che doveva essere la Vandea anti-renziana, l’«apparato» che remava contro, i parlamentari in «quota Bersani» che facevano silenziosamente gli ostruzionisti pronti ad avventarsi sulla preda se le elezioni non fossero andate brillantemente: ecco il nuovo mondo di chi ha cambiato subito verso. Gianni Cuperlo rilascia interviste in cui si dice ammirato dall’«energia» impressa da Renzi. Rosy Bindi, uno dei bersagli del rottamatore ricambiato da un’ostilità dichiarata, toscanamente schietta, in un’altra intervista si mostra quasi orgogliosa di un leader che ha saputo parlare così bene agli elettori. Nichi Vendola, che ai tempi del conflitto delle primarie del 2012 considerava Renzi come l’orrenda «incarnazione dell’inciucio sublime tra sinistra e liberismo» oggi loda in Renzi colui che «catalizza una speranza di cambiamento» e che può autorevolmente fronteggiare le politiche di «austerity» in Europa. Stefano Fassina gioisce e non considera più una «vergogna» l’incontro di Berlusconi nella sede del partito che ha stravinto le elezioni. Non cambia la propensione ad omaggiare chi vince. #Cambiaverso , ma non questo.

Anche Civati è pronto al grande salto di una gestione collegiale maggioranza-opposizioni. «Ora tutti salgono alla corte di Renzi, ma io prima voglio capire se questo risultato porta verso un progetto politico di centrosinistra o se Alfano vorrà fare il centro con Renzi», dice Pippo. L’antagonista per antonomasia Stefano Fassina rende «onore al merito di Renzi per la grande vittoria»
La Stampa 28.5.14
Renzi apre alla minoranza dopo la foto con i “convertiti”
Per la presidenza spuntano Micaela Campana e Paola De Micheli
di Carlo Bertini


Sfoderano i sorrisi di chi fa buon viso a cattivo gioco, contenti a parole che la “ditta” abbia sfondato il muro del suono, storditi che il «colpaccio» lo abbia fatto proprio Renzi. Sono quelli che vollero le primarie aperte ma non troppo per non spalancare i gazebo ai delusi del Cavaliere, che ora fanno la foto di gruppo insieme ai renziani e che plaudono a questi voti piovuti come manna nelle urne. Alla buvette Roberto Giachetti lo rinfaccia a Stumpo, «se fossero state primarie davvero aperte avrebbe vinto Renzi», ma con tono cordiale e pacche sulle spalle.
Arrivano alla spicciolata alla Camera nel day after dell’exploit di Renzi. Alcuni sono gli stessi immortalati all’una di notte al Nazareno, Stefano Fassina e Nico Stumpo, i «giovani turchi» come Orfini sono i più soddisfatti, «grazie ormai sono organici», commentano taglienti i dalemiani. Tutti sanno che il leader apre le porte alle minoranze, la presidenza dell’assemblea nazionale tocca a loro: il nome di Bersani rilanciato dal renziano Federico Gelli non è sugli scudi, i suoi sodali pensano a giovani candidature come quella di Micaela Campana o Paola De Micheli (perché dicono che Renzi vorrebbe una figura femminile di nuovo conio). Le candidature fioccano e anche Pippo Civati sarebbe in corsa per la presidenza di garanzia, ma nessuno si fa soverchie illusioni di poter entrare nelle stanze dei bottoni. Tradotto, i ruoli di potere nella segreteria del Pd pacificato, quelle dell’organizzazione e degli enti locali, resteranno saldamente in mano al leader. La prima se la intesterà il suo vice Guerini, la seconda sarà lasciata a Stefano Bonaccini. «A noi magari daranno gli Esteri», sorride Zoggia rivolto a Stumpo nel cortile della Camera. «Magari ci offrirà il Lavoro per metterci in mora», scherza Stumpo. Tutti sono consapevoli «che ora si corre con le riforme e il primo che fiata si va a votare», per usare un’iperbole di Richetti, candidato al ruolo di vicecapogruppo. E tutti si aspettano che in Direzione Renzi suonerà la carica, entro luglio il primo giro di boa dell’abolizione del Senato e nessuno si sogni di mettersi di traverso o di frenare.
La prima analisi di cosa sia successo domenica viene fatta dai bersanian-dalemiani a un pranzo riservato per pochi eletti all’ultimo piano del palazzo delle Esposizioni. Sono una dozzina, Epifani e Speranza, Zoggia, Stumpo, Fassina e D’Attorre, Danilo Leva, Enzo Amendola e Andrea Manciulli, Roberta Agostini e Micaela Campana, lo stato maggiore della nuova corrente «Area riformista». Non è lì che si sfoglia la rosa di nomi per la presidenza (che previo accordo tra le parti sarà votata a scrutinio segreto sabato 14 giugno dall’assemblea nazionale insieme ai due vicesegretari), «ma tra di noi il nome di Micaela va forte», ammette uno dei presenti al pranzo.
Pure se i gangli nodali della segreteria resteranno in capo ai renziani, ci sono anche altre cariche in ballo da dividersi con i «turchi». «Questo voto supera il nostro perimetro tradizionale e ci consente finalmente di avviare quella riforma della giustizia con profilo garantista che finora il nostro campo non riusciva a sostenere», dice ad esempio Danilo Leva, ex responsabile giustizia con Epifani.
Anche Civati è pronto al grande salto di una gestione collegiale maggioranza-opposizioni. «Ora tutti salgono alla corte di Renzi, ma io prima voglio capire se questo risultato porta verso un progetto politico di centrosinistra o se Alfano vorrà fare il centro con Renzi», dice Pippo. E nel giorno in cui la nuova unità del Pd rende superflua critica e autocritica, alla vigilia di un possibile ingresso in segreteria di Stumpo, D’Attorre, Amendola o Manciulli, l’antagonista per antonomasia Stefano Fassina rende «onore al merito di Renzi per la grande vittoria».

Corriere 28.5.14
Bersani: «A Renzi serve umiltà. Ma lo ha capito»
L’ex segretario del Pd: « Grato a Matteo, con la campagna elettorale mi ha ridato la salute. E ha mandato un messaggio di cambiamento senza avventura»
intervista di Aldo Cazzullo

qui

«Intanto Civati dice che “con la vittoria del Pd di Renzi, si apre una fase politica nuova, ma per aver un nuovo corso bisogna fare le elezioni. Insisto, non cambio idea, penso che non è con l'azzardo e con le scorciatoie che si ottengono i cambiamenti, spiega si faccia la legge elettorale e si torni a votare, se si votava a giugno avremmo ora un grande Parlamento di centrosinistra”. E se c’è chi definisce questo Pd la nuova Dc, per Civati “il partito democratico è diventato un partito delle larghe intese, politicamente parlando. Renzi ha avuto i voti di Scelta Civica, i voti moderati del centrodestra”. Per il resto si dice “a disposizione di Renzi per un ragionamento, ma con le nostre convinzioni”».
l’Unità 28.5.14
Verso la gestione unitaria: presidenza alla minoranza
Ipotesi Paola De Micheli al vertice
Si lavora all’allargamento della segreteria coinvolgendo i Giovani turchi e l’area Speranza
Civati: «Con la vittoria del Pd di Renzi si apre una fase nuova»


«Di fronte a una vittoria di questa portata, diciamoci la verità, come minoranza interna puoi pensare di portare avanti dei temi tuoi, non certo di metterti a fare il controcanto al segretario del partito ». L’amara sintesi la fa un esponente del correntone di Roberto Speranza, in un Transatlantico che a mezzogiorno è semideserto in attesa della seduta d’Aula pomeridiana. Quest’altra amara considerazione la fa invece, un esponente della maggioranza, renziano della prima ora: «Alla luce dei risultati elettorali questi della minoranza sono pronti a fare qualunque cosa pur di entrare in segreteria». Poi, c’è anche chi ragiona sui tempi. Un errore, secondo un altro bersaniano doc, aver aspettato le elezioni per entrare nella segreteria Pd. Ma, al netto delle amarezze singolari o correntizie il sentimento più diffuso tra le nuove leve Pd, di qualunque area di minoranza siano parte, è che adesso inizia una fase nuova. Si va verso una gestione unitaria del partito (alla quale non ha intenzione di partecipare Pippo Civati), una segreteria allargata, che Lorenzo Guerini dice essere stata chiesta dalla stessa minoranza, perché questo dato elettorale mette sulle spalle del Pd una responsabilità enorme: è un credito aperto degli italiani ai democratici che adesso sono chiamati alla prova. Dire che le correnti sono superate è assolutamente esagerato, diciamo che sono indebolite, ma consapevoli che la stagione dei coltelli sempre affilati «è chiusa, archiviata con il 25 maggio». Adesso la partita della segreteria è nelle mani di Lorenzo Guerini, il vice di Renzi che fino ad oggi è riuscito a fare sintesi dentro il partito. Di tempo ce n’è ancora, l’Assemblea nazionale che dovrà eleggere il nuovo presidente e ratificare la segreteria, dovrebbe essere convocata il 14 giugno, ma i primi accostamenti sono già in corso e sarà proprio il capogruppo Speranza l’interlocutore di Guerini, mentre per i Giovani turchi sarà Matteo Orfini a gestire la formazione delle new entry. Renzi alla presidenza vuole una donna, espressione della minoranza, e il nome che circola è quello di Paola De Micheli, lettiana, attuale vicecapogruppo vicario alla Camera. Questo consentirebbe di lasciare la casella libera per un renziano doc, Matteo Richetti per esempio, mentre l’ipotesi avanzata da qualche quotidiano secondo cui in corsa per la presidenza ci sarebbe stato Roberto Speranza è assolutamente fuori discussione. Speranza, che ha già rifiutato una proposta per entrare al governo quando Renzi si è insediato a Palazzo Chigi, per il momento intende restare al suo posto, sapendo però che dopo il terremoto delle primarie e ancor più dopo la vittoria del premier alle europee, il segretario vuole che al gruppo di sia anche uno dei suoi. Gianni Cuperlo risponde che non si sta occupando di questa partita, «parlerò con Guerini, poi vedremo».
Intanto Civati dice che «con la vittoria del Pd di Renzi, si apre una fase politica nuova, ma per aver un nuovo corso bisogna fare le elezioni. Insisto, non cambio idea, penso che non è con l'azzardo e con le scorciatoie che si ottengono i cambiamenti, - spiega - si faccia la legge elettorale e si torni a votare, se si votava a giugno avremmo ora un grande Parlamento di centrosinistra». E se c’è chi definisce questo Pd la nuova Dc, per Civati «il partito democratico è diventato un partito delle larghe intese, politicamente parlando. Renzi ha avuto i voti di Scelta Civica, i voti moderati del centrodestra». Per il resto si dice «disposizione di Renzi per un ragionamento, ma con le nostre convinzioni».
Stefano Fassina, dal canto suo riconosce che questa vittoria è soprattutto di Renzi, ma, aggiunge, «Ha vinto Renzi, alla guida di un partito che c’è stato, con una squadra sui territori, e si è visto anche con tante candidature che sono andate bene, anche se non strettamente riconducibili a Matteo Renzi».

Repubblica 28.5.14
Arriva la pax renziana minoranza in segreteria una donna presidente
In corsa De Micheli e Pinotti. Domani la discussione sulla gestione unitaria
D’Alema: complimenti a Renzi
di Giovanna Casadio



ROMA. Persino Stefano Fassina sembra domato. Dice: «Renzi è stato il valore aggiunto, è miope non ammetterlo». Fino a poco tempo fa chiamava Matteo Renzi «il portaborse di Pistelli». Ne veniva d’altra parte ricambiato con il famoso: «Fassina chi?» che Matteo, appena eletto segretario del Pd cinque mesi fa, gli lanciò. Ma l’ultima su Renzi e Fassina risale alla sera della stravittoria democratica e la dice lunga su quel che sta accadendo tra i Dem. È stato proprio il premier, raggiunto il partito al Nazareno, a sollecitare tutti, a cominciare da Fassina, Stumpo, D’Attorre, Verducci, Speranza - cioè bersaniani, cuperliani, dalemiani - ad andare in sala conferenze con i vice segretari Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani e con gli altri renziani per fare la foto di squadra. «Ci ha detto “dovete salire anche voi, andate”. Altro che imbucati...», racconta Francesco Verducci, “giovane turco”, ex anti renziano, probabile nuovo membro della segreteria. Questa è la vera storia - racconta - della foto di squadra.
Domani la direzione dem potrebbe indicare come sarà il nuovo Pd, forte del 40,8% di consensi, con una leadership fortissima e un compito: essere all’altezza della situazione. Renzi stesso ha chiesto alle correnti: «Datemi dei nomi per una gestione unitaria». Il Pd renziano, detto ironicamente PdR, chiama tutti a raccolta. I “giovani turchi”, già convertiti al renzismo in nome del patto generazionale, commentano: «Nessuno vuole rimanere fuori, nel partito dobbiamo darci da fare tutti». E Fassina: «Non è che diventiamo tutti renziani, ma siamo tutti sul fronte». La novità è che alla presidenza del partito potrebbe essere indicata Paola De Micheli, lettiana doc. Quel posto con la segreteria Bersani era stato di Rosy Bindi. Poi con Renzi era stato acclamato Gianni Cuperlo, leader della minoranza, ma aveva retto pochissimo. Dopo uno scontro con il segretario, si era dimesso. Presidenza vacante. Gli altri nomi papabili sempre femminili sono: Roberta Pinotti, ministra della Difesa e renziana della prima ora. Oppure Maria Chiara Carrozza, che potrebbe se no entrare in segreteria. La casella sarà riempita il 14 giugno, data dell’Assemblea nazionale. Mentre Matteo Richetti, renziano, potrebbe diventare vice presidente del gruppo dem a Montecitorio al posto di De Micheli. Laura Puppato potrebbe essere vice capogruppo al Senato o entrare in segreteria.
Sulla nuova segreteria si saprà già domani, anche se non tutti i nomi. Si fanno quelli di Alessia Rotta, renziana; di Lia Quartapelle che potrebbe avere la responsabilità degli Affari internazionali che era stata di Federica Mogherini, prima che diventasse ministro degli Esteri. Stefano Bonaccini, a cui sono stati finora affidati gli Enti locali e che si è mostrato una macchina da guerra, potrebbe passare all’organizzazione. Oggi è affidata a Luca Lotti, il sottosegretario all’Editoria, che si deve fare in quattro. Giuseppe Lupo potrebbe essere cooptato per il Mezzogiorno.
«Il Pd è diventato davvero un country party, un partito della nazione: noi dobbiamo essere all’altezza della sfida», conferma Alfredo D’Attorre. Disposto ad entrare in segreteria? Risposta: «Vediamo come sarà riorganizzata, se come un esecutivo quindi con le varie competenze oppure come una task force politica». Cioè una gestione più collegiale. Davide Faraone, renziano, osserva l’alto tasso di benevolenza verso Matteo ora che ha portato un Pd, che sembrava spacciato, alle stelle. Nel rimescolamento di carte interne, sono giorni di precisazioni e allineamenti. Guglielmo Epifani, l’ex segretario, avverte: «Illogico paragonare il Pd alla Dc, questo è un risultato storico, è il partito a vocazione maggioritaria ». Gongola Walter Veltroni, padre fondatore del Pd che voleva appunto un partito a vocazione maggioritaria e interclassista, ma non fu creduto. Anche Massimo D’Alema è euforico. Confessa non solo di avere fatto i complimenti a Matteo, ma che si sentono spesso mandandosi i messaggini «come fanno i ragazzi », perché Renzi «in questo è un uomo molto avvicinabile, semplice, simpatico». E narra di quando si sono commossi insieme lui e Veltroni.

Repubblica 28.5.14
Gennaro Migliore
“Facciamo un partito unico a sinistra”
intervista di Tommaso Ciriaco


ROMA. «C’è stato un terremoto che ha sconvolto la geografia politica italiana ed europea. Di fronte a questo scenario, una sinistra di governo – e Sel nasce così – non può ragionare con un complesso di inferiorità, ma deve assumere un ruolo centrale». Il capogruppo di Sel Gennaro Migliore è convinto che dopo le Europee nulla sarà più come prima. E spiega perché.
Qual è la prospettiva di Sel, presidente?
«Tanto l’esperienza di Tsipras, quanto l’esplosione del Pd e della leadership di Renzi impongono alle forze a sinistra del Pd di interrogarsi - assieme ai dem - su come costruire un campo in cui ciascuno faccia vivere la propria cultura politica. Dobbiamo stare nel “gorgo”, senza complessi e attendismi ».
Con una federazione con il Pd?
«Non è quello a cui penso. La sfida è costruire in Italia un soggetto unitario di sinistra - regolato dalla democrazia interna - che possa far vivere le aspettative di cambiamento. Senza restare ciascuno - Pd e Sel - nel proprio contenitore ».
Piccolo problema, presidente: siete all’opposizione.
«Sel, in questo processo, deve fare valere i contenuti: su molte battaglie di Renzi c’è l’impronta di nostre battaglie. Contro l’au- sterity, ad esempio».
Ma come si fa, restando all’opposizione?
«E infatti dovremo valutare la nostra collocazione politica volta per volta, per costruire questa interlocuzione e togliere l’alibi a chi invece vuole escluderci. Con il crollo di Sc e il ridimensionamento di Ncd, inoltre, è possibile passare dalle formule delle piccole intese a un governo che sia davvero politico, da discutere con gli alleati naturali: chi sta a sinistra».
Su quale terreno si può partire?
«Da quello che si decide in Parlamento. Sulle riforme, ad esempio, è bene stare dentro. Perché non avviamo subito un processo di collaborazione?».
Come è stata l’esperienza con Tsipras?
«Abbiamo ottenuto un risultato che scaccia il fantasma dello sbarramento. Adesso si deve spostare a sinistra l’Europa, facendo eleggere con il Pse il presidente della commissione Ue».
E Renzi? Ha ottenuto un innegabile successo.
«Non sono d’accordo con Veltroni, non è il compimento del suo sogno. Finora quel che ha caratterizzato il Pd è stata l’unificazione tra due culture politiche distinte. Ora invece è diventato un partit

il Fatto 28.5.14
Gli ex nemici smacchiati: “È uno di noi, di sinistra”
Nel partito sono quasi tutti d’accordo
Ma di “rosso” resta il 4% di Tsipras
Pippo Civati: ”Vedremo se continuerà con le larghe intese o se comincerà a guardare verso Sel e i 5 stelle”
di Wanda Marra


Il Pci? L’hanno sciolto nel 1991”. Matteo Orfini, che il senso dell’umorismo non lo perde mai, con una battuta ricorda a chi dovesse avere tentazioni nostalgiche che il Partito comunista, quello di Berlinguer, in Italia non c’è più da decenni. E lui, di certo, è uno di sinistra. Ma con il 40,81% del Pd di Matteo Renzi che fine ha fatto la sinistra in Italia? È rappresentata dal 4,03% della lista Tsipras? Ancora Orfini: “Renzi in questi mesi ha fatto una politica economica di ridistribuzione. Ora è arrivato anche a citare Keynes”.
LUI, IL LEADER incoronato da percentuali che non si vedevano dalla Dc del ’58, non si è mai troppo preoccupato di entrare in dispute su cosa sia la destra e cosa sia la sinistra. Che nasca come dirigente del Partito popolare prima e della Margherita poi non è un mistero. Come non lo è la sua ammirazione per Tony Blair. Ma definire precisi steccati ideologici non è mai stata una sua esigenza. Anzi. Lunedì commentando il voto ci ha tenuto a dire che “superare il 40% è un risultato tecnicamente straordinario, particolarmente se consideriamo che avviene in un partito di centrosinistra”. Centrosinistra, appunto. In queste ultime settimane ha ripetuto spesso un concetto tradizionalmente di sinistra “giustizia sociale”. E nelle fasi finali della campagna elettorale si è lasciato andare a qualche richiamo a Berlinguer: ha fatto montare il palco di piazza della Signoria a Firenze come per l’ultimo comizio del leader comunista. E ai Cinque Stelle che hanno cercato di appropriarsi della sua eredità ha urlato: “Sciacquatevi la bocca”. Ma “Matteo” non ha mai fatto mistero di voler allargare gli steccati della sinistra tradizionale. Uno per tutti, il discorso della discesa in campo contro Bersani, nelle primarie del 2012, a Verona: “Non ho paura di chiedere i voti, alle elezioni, di chi ha votato centrodestra” . Perché, “noi del centrosinistra le elezioni le vogliamo vincere”. Non mancò un riferimento “alla sinistra che non governerà mai”. Quella che allora - era il settembre del 2012 - aveva presentato i quesiti referendari per abrogare la riforma dell’articolo 18 (promotori, tra gli altri, Vendola, Ferrero e Di Pietro). Lo stesso Renzi durante quelle primarie dichiarava: “Il mio Pd può arrivare al 40%, quello di Bersani al massimo al 25”. Non a caso Franco Vazio, deputato renziano ligure, definisce il voto di domenica “post-ideologico”.
E GLI ALTRI? Quelli che Renzi l’hanno combattuto anche nel nome della tradizione “rossa”? Dice Enzo Amendola, deputato dalemiano, ex segretario del Pd Campania: “Renzi sta facendo una politica di ridistribuzione di sinistra. E poi, è lui o no, che ha portato il Pd nel Pse?”. Accanto a lui, Lia Quartapelle, che si definisce “nativa” democratica ci tiene a chiarire un punto: “Uno che crede nel futuro come Renzi non può che essere un grande leader progressista”. Il giorno dopo la sbornia elettorale non c’è nessuno che non riconosca al segretario almeno qualche globulo rosso. “La sinistra esiste in natura. Ed è incarnata dal Pd. Renzi si è sempre richiamato ad alcuni valori di sinistra”, per dirla con Gianni Cuperlo. E Nico Stumpo: “Ma che vogliamo ancora parlare della cosiddetta sinistra radicale? Renzi è un grande leader progressista europeo”. Fa una certa impressione sentire colui che organizzò le primarie di Bersani (e le blindò con le “regole” imprigione-Matteo) parlare quasi come LeMonde, che ieri la metteva così: il Pd è “un esempio” per la sinistra in Europa e Matteo Renzi un “salvagente”. Usa un’inconsueta cautela Stefano Fassina: “Abbiamo contato in questo risultato. E adesso, cos’è Renzi lo valuteremo sulle cose che farà”.
DARIO PARRINI, segretario del Pd Toscana, renziano della prima ora, di ragioni per cui Renzi incarna la “nuova” sinistra ne snocciola più d’una: “Renzi ha detassato i lavoratori che hanno meno e tassato le rendite finanziarie. E poi ha sferrato l’attacco alle corporazioni. Il Pd di Veltroni lanciò nel 2007 l’idea del partito a vocazione maggioritaria. L’arrivo di Bersani significò l’abbandono di quel modello. Ora con Renzi l’idea di Veltroni ha trovato un interprete di prim’ordine”. E Civati? A questo punto si limita a rivendicare il primato: “Sono più di sinistra io, è chiaro. Ma in queste elezioni c’erano tanti candidati di sinistra”. E Renzi? “Vedremo se continuerà con la logica delle larghe intese e loro affini, o se guarderà verso Sel e i Cinque Stelle”.

il Fatto 28.5.14
La guerra del Senato da Chiti al Movimento
24 ora in più per gli emendamenti, oggi a Palazzo Madama si comincia
Il parlamentare insiste sul dimezzamento dei seggi
per le Camere, ma con l’elezione diretta. Il premier propone un’assemblea delle autonomie. Ma deve riunire il partito
Civati: “Il nostro Ddl è migliore, speriamo che Renzi lo capisca”
di Chiara Paolin


Ieri il senatore Vannino Chiti ha passato tutto il pomeriggio (e la serata) chiuso in riunione coi suoi: la riforma numero uno su cui punta Renzi è quella del Senato, e Chiti è il primo guaio serio che il Pd non può permettersi.
Dopo la grande vittoria popolare, ora il partito deve assolutamente dimostrare che riesce a cambiare l’Italia senza litigare e spaccarsi come ai vecchi tempi. Eppure la narrazione politica è rimasta ferma lì, ai giorni isterici del pre-voto, quando Grillo faceva paura e bastava un ordine del giorno a firma Calderoli per mandar sotto la maggioranza - e in panico il Pd. Venti giorni fa il relatore leghista riuscì a imporre l’argomento più scottante alla riapertura dei lavori, cioè il tema dell’eleggibilità diretta per i futuri senatori. Al contrario, il testo depositato dal governo resiste sul punto cardine renziano: l’aula ospiterà gli eletti delle amministrazioni locali, integrati al massimo da seggi creati durante le elezioni regionali (più i prescelti dal presidente della Repubblica).
QUESTA DEI SEGGI regionalizzati era un tentativo di mediazione offerta da Renzi a Chiti prima del voto, per rintuzzare la vis separatista del senatore attorno al quale si sono coagulati i difensori del principio costituzionale della rappresentanza democratica. Secondo gli ortodossi, è giusto dimezzare le poltrone di Camera e Senato, aumentare i poteri decisionali dei deputati, ma non si può trasformare l’assemblea delle Autonomie in un parcheggio di sindaci e assessori in trasferta.
Ora che Renzi ha stravinto, potrebbe schiacciare i ribelli chitiani (da Felice Casson a Corradino Mineo i coriacei non mancano). Ma più interessante assai sarebbe per il premier recuperare i rapporti con le opposizioni interne partendo proprio da un simbolo della rottamazione, cioè la riduzione di spesa per le istituzioni. Come fare? Si studia, si tratta. I tempi per la presentazione degli emendamenti al disegno di legge depositato dal governo sono stati allungati fino a domani pomeriggio, ovvero 24 ore più del previsto per limare spigoli e distanze. “Speriamo che gli emendamenti siano pochi, così potremo chiudere per giugno: ma potrei essere smentita” ha detto ieri la relatrice Anna Finocchiaro.
E se Forza Italia già comincia a scalpitare (Minzolini ieri twittava “Senato o abolito del tutto, o eletto”), è altrove che bisogna cercare nuovi punti d’appoggio.
PER ESEMPIO SI PUÒ GUARDARE con simpatia ai dodici fuoriusciti del Movimento 5 Stelle pronti a formare il gruppo Democrazia Attiva, e istintivamente vicini al sentimento di Civati, Chiti e compagnia. Un ponte tibetano che, con un po’ di fortuna, potrebbe agganciare persino i grillini ufficiali, già schierati a suo tempo con la proposta bis. “Noi non cambiamo idea: il nostro progetto di riforma rispetta la Costituzione e nemmeno il 40 per cento dei voti può cambiare le cose” dice Pippo Civati. Aggiungendo: “Bisogna capire se Renzi intende tenere in piedi il patto con Berlusconi o se vuole davvero unire il Pd rispettando le idee di tutti. Credo gli converrebbe molto avvicinarsi alla nostra proposta, perchè consente un risparmio maggiore mantenendo i valori democratici: aspettiamo un segnale, e speriamo bene”.

Corriere 28.5.14
I «ribelli» di Chiti (e Forza Italia) insistono: andiamo avanti


...
Ora più che mai il presidente del Consiglio e il ministro Maria Elena Boschi non sono disposti a cedere sul punto qualificante della riforma costituzionale: ovvero sul meccanismo di selezione dei futuri senatori regionali che, stando alla «bozza Boschi», non saranno più eletti a suffragio universale. Su tutto il resto si può ragionare ma sul Senato dei non eletti (che non voterà più la fiducia al governo e la legge di bilancio) c’è poco margine di manovra. E ora la minoranza del Pd guidata da Vannino Chiti, che invece sostiene l’elezione diretta dei senatori, appare non più supportata dai potenziali fiancheggiatori interni al partito: «Noi presenteremo i nostri emendamenti, andiamo avanti», annuncia Paolo Corsini che conta 35 firmatari «tra i senatori del Pd e quelli fuoriusciti dal M5S». Corsini comunque si appella a Renzi: «Come fece De Gasperi, dovrebbe dialogare con tutti proprio adesso che ha vinto...». E anche l’ala dura di Forza Italia si prepara alla battaglia: «In commissione contiamo poco ma in aula il mio emendamento sull’elezione diretta può contare su 37 senatori di Forza Italia. Quindi, andiamo avanti ora più che mai», attacca Augusto Minzolini. E non abbassa la guardia neanche il relatore Roberto Calderoli (Lega): «Le riforme si faranno a patto che il ministro Boschi venga trattenuta in Congo... (dove è volata in missione per il trasferimento a Roma con un aereo militare per i bambini adottati dalle famiglie italiane, ndr )».
...

Corriere 28.5.14
Il pragmatico Squinzi, Cgil in Trincea
di Dario Di Vico


Incassato il successo delle urne per il premier Matteo Renzi si riapre il capitolo del rapporto con le forze sociali. La linea dura orientata a disintermediare il rapporto politica-cittadini esce rafforzata, gli italiani non paiono angosciati dalla fine della concertazione. Anzi. Il primo test post-elettorale sarà comunque rappresentato dall’assemblea di Confindustria domani a Roma. Gli imprenditori hanno accolto con sollievo il successo di Renzi, qualcuno più coraggioso come il presidente del Veneto Roberto Zuccato l’aveva auspicato nei giorni precedenti il fatidico 25. La relazione di Giorgio Squinzi asseconderà gli umori della base e dovrebbe adottare come leit motiv un pragmatico «non ci interessano i contenitori ma i contenuti». Gli industriali non hanno nessuna voglia di passare per inconsolabili vedovi della concertazione e se chiedono al governo di essere ascoltati è per apportare competenze. Dal vincitore del 25 maggio si aspettano una forte accelerazione sulle grandi riforme, una spinta alla delega fiscale e hanno già messo nero su bianco i suggerimenti per il Jobs act. Alla kermesse romana Renzi è stato invitato ma non si sa se parteciperà o meno, di sicuro però andrà in Veneto per l’assemblea degli industriali di Verona e Vicenza prevista per il 16 giugno. E comunque in campagna elettorale si è visto come il premier si sia intestato tutti i passaggi decisivi relativi a nuovi investimenti (la Merck di Bari) o soluzioni di crisi aziendali (Electrolux).
Più articolato è il quadro del rapporto con la Cgil. Se i vertici del sindacato avevano snobbato la mossa degli 80 euro gli elettori in possesso di una tuta blu l’hanno invece apprezzata. Il lavoro dipendente è stato con Renzi, l’ha votato e la circostanza è destinata a pesare negli orientamenti sindacali. In più il peso della minoranza Pd e degli uomini più legati alla Cgil (Stefano Fassina, Cesare Damiano e Guglielmo Epifani) non pare destinato a crescere e a Susanna Camusso mancherà una sponda di primordine. Per completare la rassegna delle pedine in campo vale la pena ricordare che Renzi non ha mai smesso di dialogare con Maurizio Landini, il fiero oppositore di Camusso che non aveva esitato a sottolineare il valore degli 80 euro in più in busta paga. A breve non sono possibili mutamenti di rilievo nella Cgil perché il gruppo dirigente ha appena vinto con larghissima maggioranza il congresso di Rimini e quindi si è blindato. Le primarie sono una suggestione affascinante ma non una scelta all’ordine del giorno. Lo scenario più probabile è quello di una guerra di posizione tra Renzi e la Cgil che si giocherà su due terreni, la riforma della pubblica amministrazione e il Jobs act. I sindacati del pubblico impiego proprio ieri hanno fatto sapere di essere pronti a misurarsi sull’innovazione. Tradotto dal sindacalese vuol dire niente scioperi preventivi né richiesta di rinnovare subito i contratti ma nel merito le posizioni restano parecchio distanti. Sul Jobs act Camusso prima del congresso aveva aperto al contratto a tutele crescenti ma a Rimini ha evitato di approfondire il tema e ha preferito sparare bordate sul ministro Giuliano Poletti. Che paziente come Giobbe ha preferito non replicare.

il Fatto 28.5.14
C’era una volta...
Dalla svolta di Occhetto alla democrazia renziana
Il simbolo di questo epilogo è il titolo della pagina romana di “Repubblica”: “Trieste-Parioli, il quartiere più rosso”
di Salvatore Cannavò


Se lo chiedi ad Achille Occhetto ti risponde sicuramente che “la svolta” non doveva finire così. L’idea di sciogliere il Pci doveva far maturare una sinistra di tipo nuovo, riformista e radicale allo stesso tempo. Dopo venti anni, però, l’esito è stato questo: la nascita di un nuovo partito, il Pd di Renzi, che segna la fine della gauche all’italiana.
SIMBOLO DELL’EPILOGO è il titolo che si poteva leggere ieri, sulla prima pagina romana di Repubblica: “Parioli-Trieste, il quartiere più rosso”. Stiamo parlando dei quartieri-bene della Capitale, una volta regno della Dc più conservatrice o del voto Msi. Ora questi quartieri premiano il Pd di Renzi che invece è sfidato dal M5S in quelli “proletari” come Tor Bella Monaca o Torpignattara. Era accaduto anche ai socialisti francesi, a inizio degli anni 2000, quando conquistavano Parigi con i quartieri borghesi popolati dai “bo-bo”, l’intelligentsia benestante della Francia progressista. In Italia la tramutazione è meno illuminata e mescola le propensioni progressiste al perbenismo cattolico, alla furbizia dei piccoli imprenditori o alla pacatezza ministeriale del lavoro pubblico.
La svolta di Occhetto ha aperto un periodo convulso ben rappresentato dalle oscillazioni elettorali. Nel 1992 il nuovo Pds, nato dalle ceneri del Pci, ottiene uno striminzito 16% mentre la scissione di Rifondazione comunista (Prc) raggiunge il 5,6. Molto al di sotto del 26,5% raggiunto dal Pci alle ultime politiche del 1987. Il nuovo corso parte a fatica e solo nel 1994 otterrà un più incoraggiante 26,4%. Per dare fiato alla sinistra, però, serve lo spauracchio di Berlusconi al governo e così, nel 1996, con il primo esperimento ulivista di Romano Prodi, l’obiettivo di battere le destre permette al Pds di Massimo D’Alema di superare il 21% mentre Rifondazione comunista tocca il massimo storico, l’8,5%. Sarà la prova, fallimentare, di governo a invertire la tendenza elettorale trascinando di nuovo le “due sinistre”, come ebbe a definirle Fausto Bertinotti, al 23,2%. Nel frattempo c’è stata una mini-scissione del Prc, con la nascita del Pdci, nasce la Margherita di Francesco Rutelli (e di Renzi) e il duello tra D’Alema e Veltroni domina la scena. Tutto questo non impedisce di rimettere insieme i vari cocci per battere nuovamente Silvio Berlusconi. Alle Politiche del 2006 i Ds sono fermi al 17,5% (dato del Senato mentre alla Camera si presenta l’Ulivo che raggiunge il 31,2%), Rifondazione al 5,8% e il Pdci al 2,3. La crisi strisciante del governo Prodi accelera la formazione del nuovo partito, il Pd che nasce con la primarie del 2007. Veltroni è eletto con il 75% dei consensi e, di fronte all’impasse pro-diana, decide di non ostacolare le elezioni anticipate. Le perderà ma porterà il Pd al 33,1% annullando la sinistra radicale che con l’Arcobaleno sprofonda al 3,1% (a cui aggiungere l’1,1% dei gruppi del Pcl e di Sinistra critica). Le avvisaglie per cui il mega-contenitore democratico si accinge a uccidere la sinistra storica ci sono tutte. C’è però il tempo per un’ulteriore inversione, rappresentata dall’avvento di Pier Luigi Bersani alla segreteria del partito. La sua leadership è così dipinta come svolta a sinistra che Francesco Rutelli decide di fondare l’Api (e sarà un disastro). Bersani, si vedrà bene, è uomo dalle salde relazioni con il mondo imprenditoriale ma è anche colui che dà sponda alla Cgil e costruirà di nuovo una coalizione di centrosinistra, Italia Bene Comune. Finirà male.
IL PD RACCOGLIE un misero 25,5% alle Politiche del 2013 e viene superato da Beppe Grillo. La sua sconfitta apre le porte all’avvento di Matteo Renzi, il “salvatore” del partito, santificato alle primarie di dicembre e, poi, alle Europee del 25 maggio. Il 40,8% è un risultato storico che comprime la sinistra radicale al 4%. La capacità di Renzi di presentarsi come compiutamente interclassista, come la Dc ha fatto nella sua lunga storia, prepara per il Pd una storia diversa. Gli attacchi al sindacato, del resto, ne sono stati l’antipasto. A sinistra sembra rimanere solo lo spazio occupato dalla lista Tsipras i cui voti, però, sono addirittura inferiori a quelli del disastro del 2008 e in cui si riaffaccia, tramite Sel, la volontà di riallacciare i rapporti con Renzi. Per rappresentare la sinistra, non è molto.

il Fatto 28.5.14
L’analisi post elettorale, un esercizio di umana pietà
di Alessandro Robecchi

Naturalmente bisognerebbe tentare un’analisi del voto europeo, ma come si fa? Troppi impegni, troppe seccature. Per esempio, bisogna andare al funerale di Scelta Civica e dei montiani, estinti come le civiltà precolombiane senza nemmeno il bisogno che arrivasse Cortez a sterminarli. Un funerale triste: se anche ci andassero tutti i loro elettori la chiesa rimarrebbe desolatamente vuota. E pensare che solo due-tre anni fa si pensava che fosse quella lì la soluzione per l’Italia, un signore in loden circondato da professori integerrimi (bè, forse non tutti). Ecco, una prece, che precede una domanda: e ora che ci fa al governo in un posto importante come l’Istruzione un esponente e nemmeno dei più geniali, diciamo, la ministra Giannini, di un partito che non esiste?
Poi, altra incombenza sgradevole, bisognerebbe occuparsi della famosa destra italiana, quella che si è persa tra cagnolini e dentiere, sì, raggiungendo toni lirici di malinconia estrema. Ma anche di quella post (post?) fascista della signorina Meloni e camerati sparsi. Ma anche di quella “responsabile e di governo” che porta a casa un risultato scarno e triste e continua a dire di essere “il pilastro della destra nel governo”, come certi cespuglietti che si svegliano ogni mattina cercando di convincersi di essere sequoie. Auguri.
E fin qui si tratta di esercizi di umana pietà. E poi, a dirla tutta, un po’ di umana pietà andrebbe devoluta anche a Grillo e ai grillini, alle fesserie sui tribunali del popolo e sui “processi sul web”, allo splendido isolamento del “noi contro tutti”, ma noi per fare cosa – a parte un grande disegno teorico dai confini immaginifici – non si è saputo mai. La grandezza immensa di Mohammad Ali quando diceva dell’avversario “quello è un verme, lo distruggo, lo abbatto alla seconda ripresa” stava nel fatto che sì, lo distruggeva davvero, e sul serio lo abbatteva alla seconda ripresa. E questo è un Paese dove l’arroganza viene rispettata e servita e riverita, ma deve vincere però, perché l’arroganza che perde fa solo un po’ ridere.
L’esercizio più complesso nei prossimi mesi (e anni) sarà invece analizzare il dna del nuovo Pd renziano. Perché non basta essere e dirsi post-ideologici per eliminare il discorso sull’ideologia. Ciò che ti forma, alla fine, è quello che sei, e i flussi elettorali dicono che lì dentro le anime cominciano a essere numerose. C’è il “vecchio” Pd, c’è il “nuovo Pd”, ci sono gli elettori di Scelta Civica (tutti quanti), c’è un milione e mezzo di voti provenienti da destra (secondo Swg), parecchi 5stelle rinati, c’è ancora sicuramente qualche elettore di sinistra, perché quelli che hanno creduto alla lista Tsipras non sono poi tantissimi, anche se quel quattro per cento è una specie di miracolo.
La scorciatoia nota e facile è sempre quella: parlare di nuova Dc, ma non è così semplice né così vero. Prima di tutto perché la Dc aveva nel 40 per cento il suo massimo orizzonte di gloria e invece il Pd renziano può crescere ancora (per dire: ha preso un milione di voti in meno di quando Veltroni segnò il suo 34 per cento). E poi perché le differenze al suo interno sono persino di più. Anche in Europa, ora, si faranno le larghe intese, ma il più clamoroso esempio di larghe intese è proprio il Pd renziano, che contiene un arco che va dal’ex elettore di Forza Italia al vecchio militante del Pci, passando per il modernismo fighetto e il boy-scout-pensiero. Un blocco politico che non è un blocco sociale, insomma, e che sarà divertente osservare.

Repubblica 28.5.14
La moglie del premier alla finalissima di Amici


TRA gli ospiti della finalissima di “Amici” ieri sera c’era Agnese Landini, moglie del premier. L’anno scorso fu lo stesso Matteo Renzi a partecipare al talent show di Maria De Filippi su Canale5. Alcune settimane fa il premier aveva rinunciato al bis, nonostante l’invito, per evitare polemiche e accuse di sovraesposizione televisiva

Repubblica 28.5.14
Forza Italia “spinge” la legge pd che può aiutare Silvio a rifare il processo


ROMA Pressing forzista per accelerare una proposta di legge del Pd che potrebbe aiutare Berlusconi a far riaprire il processo per i diritti Tv Mediaset che l’ha visto condannato in via definitiva per frode fiscale.
È il deputato Luca D’Alessandro, esponente appunto di Fi, a chiedere che sia calendarizzato oggi in commissione il testo presentato nel settembre 2013 da Sandro Gozi (Pd) che punta a considerare la pronuncia della Corte di giustizia Europea contro una sentenza italiana come motivo di impugnazione valido per riaprire il processo. Nel provvedimento, tra le varie misure, si inserisce il nuovo articolo nel codice di procedura penale: il 647-bis che introduce l’istituto straordinario del ”riesame” della sentenza di condanna nel caso in cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo abbia accertato, in maniera definitiva, la violazione di alcune disposizioni contenute nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo a proposito del diritto a un equo processo.

La Stampa 28.5.14
Il premier e la sorpresa dei 4 forni
di Marcello Sorgi


Matteo Renzi, fino a prima delle elezioni, veniva accreditato (e criticato) per l’uso disinvolto di due forni politici, come ai tempi di Andreotti e delle sue alleanze a corrente alternata con socialisti e comunisti. Ma dopo la stra-vittoria di domenica, i forni, a sorpresa, sono diventati quattro, e quello che sta succedendo al loro interno si può considerare la prima e più visibile conseguenza del voto del 25 maggio.
Il primo forno era e rimane quello di Alfano e del Nuovo centrodestra. Ncd è l’unico alleato di governo sopravvissuto al grande tornado delle europee. Grazie all’alleanza dell’ultimora con Cesa e l’Udc, ha superato la soglia del 4 per cento, mentre gli altri componenti della maggioranza, a cominciare da Scelta civica, si sono liquefatti. Ma adesso, all’interno del partito del ministro dell’Interno, s’è aperto un dibattito: dobbiamo insistere a rappresentare un’alternativa a Forza Italia, anche se gli elettori al momento non ci hanno premiato, o scegliere di diventare la costola di destra del centrosinistra? L’iniziativa l’ha presa il senatore Naccarato, un democristiano amico di Cossiga, cresciuto alla scuola di Gava, che sostiene che dalle urne è venuta una forte spinta a serrare al centro. Per Alfano, che punta appena possibile a sostituire Berlusconi, è una prospettiva inaccettabile. Ma pare che all’interno del Ncd i ministri Lupi e Lorenzin non la pensino allo stesso modo.
Il secondo forno resta quello di Berlusconi. È il più largo e Renzi da sempre lo considera il più affidabile, complice l’amicizia fiorentina con Verdini, e a dispetto delle inevitabili polemiche che i due leader si sono dovuti scambiare in campagna elettorale. Non appena incassata la sconfitta, il Cavaliere in persona ha ribadito la sua offerta di collaborazione al presidente del Consiglio, ricordandogli che senza i voti di Forza Italia le riforme in Parlamento non passeranno. Il modesto 16,8 per cento racimolato nelle urne ha lasciato dentro Forza Italia molti scontenti (oltre che trombati sul campo) e ha aperto una discussione che come altre volte rischia di degenerare. Ma siccome è stato Silvio a rivolgersi direttamente a Matteo, almeno su questo punto nessuno ha fiatato. Il forno, così, è rimasto aperto, malgrado gli effetti letali dell’«abbraccio mortale» (come lo chiamarono Toti e Gelmini) con il leader del Pd.
Con il terzo forno, definibile il «forno Tsipras», cominciano le novità. La lista intitolata al vincitore delle elezioni greche contiene diverse anime, ma due sono le principali: il gruppo di intellettuali europeisti schieratisi contro la Merkel e il suo «Fiscal Kompact», tra cui i primi eletti Barbara Spinelli e Moni Ovadia, e un gruppetto di Sel, che da sola non ce l’avrebbe mai fatta a superare lo sbarramento, ed è salita sul taxi Tsipras per avere una rappresentanza a Strasburgo. A spingere per questa soluzione, festeggiata l’altra sera in tv da Vendola, è stato il capogruppo alla Camera Migliore, fautore da sempre di un riavvicinamento della sinistra radicale a Renzi e al governo. Ed è lui adesso, in vista del semestre italiano di presidenza europea, a premere perché la Tsipras italiana dialoghi con il presidente del Consiglio e lo stimoli a sfruttare un’occasione così importante per mutare l’indirizzo della politica economica a Bruxelles. Un approccio così alto, che da Palazzo Chigi, va detto, non ha ricevuto alcun segno di assenso, e dentro Sel non da tutti è condiviso, non escluderebbe poi intese diverse anche nel Parlamento nazionale e in vista delle scadenze impegnative dei prossimi mesi.
Il quarto forno è il più clandestino e, viste le espulsioni fioccate nei mesi scorsi contro tutti quelli che hanno dissentito dalla linea ufficiale, all’interno del Movimento 5 stelle nessuno è disposto a intestarselo dichiaratamente. Ma i rumors che vengono dai parlamentari, a cui è stato impedito di commentare in qualsiasi modo il flop di tre giorni fa, dicono che non tutti sono convinti che Grillo possa cavarsela con una pillola di Maalox e quelle battute sul popolo dei pensionati con cui ha spiegato la sconfitta sul suo blog. La questione che s’è riaperta, e di cui si discute già sulla rete e sui giornali più vicini al movimento, è se non sia stato un errore trattare Renzi esattamente come erano stati trattati Bersani e Letta, se invece per il futuro non sia meglio distinguere tra le riforme da rigettare totalmente e quelle da emendare, riconoscendone implicitamente il valore, e se infine non si debba valutare un comportamento parlamentare che potrebbe essere modulato, invece che ridotto quasi esclusivamente all’ostruzionismo e a spettacolari manifestazioni di protesta. A spingere in questo senso sono anche i senatori ex M5s espulsi e riuniti nel gruppo parlamentare di «Democrazia attiva», che potrebbe presto ingrossare le sue file, e caratterizzarsi, su certi temi con aperture al governo. Diventando, appunto, il quarto forno di Renzi.

l’Unità 28.5.14
La sfida del partito della nazione
di Alfredo Reichlin


NON C’È NESSUNA ESAGERAZIONE NEL DIRE CHE IL RISULTATO DEL 25 MAGGIO È UN EVENTO di grande portata che oltrepassa i limiti della cronaca politica. Esso fa molto riflettere su questo passaggio cruciale della vicenda italiana ed europea. Ci obbliga finalmente ad alzare il livello del dibattito politico e culturale uscendo da un pesante clima di sfiducia, dalla stupidità delle risse televisive e da quel micidiale senso di rassegnazione secondo cui la politica è solo un gioco di potere per cui le idee non servono a niente. Non è vero. Il voto ci dice un’altra cosa, rivela la vitalità di un Paese che non si rassegna ma soprattutto rende molto chiara la grandezza della posta in gioco.
Ragioniamo un momento: che cos’è un voto che in certe zone, soprattutto le più avanzate, supera il 40 per cento e si avvicina alla maggioranza assoluta? Di questo si è trattato. Di qualcosa che va oltre il voto per un determinato partito ma che non può nemmeno essere assimilato a certi plebisciti per un uomo solo al comando. A me è sembrato il voto per una forza che è apparsa agli occhi di tanti italiani (anche non di sinistra) come un argine, una garanzia. Contro che cosa? Ecco ciò che ha commosso e colpito un vecchio militante della sinistra come io sono. L’aver sentito che il Partito democratico veniva percepito come la garanzia che il Paese resti in piedi, che non si sfasci, che abbia la forza e la possibilità di cambiare se stesso cambiando il mondo. Un Paese che si europeizza ponendosi il grande compito di cambiare l’Europa. Si è trattato di una parola d’ordine molto alta e molto difficile che è gran merito di Renzi aver posto con tanta semplicità e chiarezza. Una scelta molto grossa, davvero cruciale. Non restare sulla difensiva e respingere l’assalto sovversivo contro l’organismo nazionale e contro uno Stato (sia pure pessimo) ma che rappresenta tuttora un «ordine» (leggi, istituzioni, rapporti internazionali) che non può essere travolto da una folla inferocita senza finire nel nulla e senza travolgere gli interessi anche immediati dei lavoratori.
Grillo rappresentava questa minaccia. La protesta va capita e rispettata ma quella di Grillo non era solo un movimento antieuropeo di protesta come quella di tanti altri Paesi. Non era nemmeno come la signora Le Pen (il peggio di quella vecchia cosa che è lo sciovinismo francese). Esprimeva un oscuro sentimento di odio per la democrazia che in Italia ha radici profonde, il rifiuto dell’ordine civile, la rabbia contro tutto e tutti. Era un attentato allo stare insieme pacifico degli italiani.
Io ho sentito molto questa minaccia, forse perché sento molto la fragilità dello Stato e ormai anche della nazione italiana. Sentivo che se Grillo si permetteva questo modo di essere e di parlare non era per caso. Era perché la crisi italiana era giunta a un punto estremo. Non era solo una crisi economica e sociale. Era diventata una crisi morale, di tenuta della democrazia repubblicana e parlamentare. Questo era il tema delle elezioni. E qui io ho misurato il grande merito di Matteo Renzi. Non è vero che faceva il gioco di Grillo scendendo sul suo terreno, come qualcuno mi diceva. Egli ha avuto l’intelligenza e la forza di affrontare quella che non era affatto una sfida sui «media» e nel salotto di Vespa. Era il dilemma reale tra speranza o sfascio. Certo, ha contato moltissimo anche la singolare figura di quest’uomo di cui non spetta a me fare l’elogio. Dico però che il suo straordinario successo personale non è separabile dal fatto che Renzi si è presentato come il segretario di quel «partito della nazione» di cui discutemmo a lungo ma senza successo anni fa con Pietro Scoppola al momento della fondazione del Pd.
Il problema di adesso è che allo straordinario successo deve corrispondere la consapevolezza delle responsabilità enormi che pesano sul Pd e in particolare sulle spalle di Renzi il quale - tra l’altro - è diventato, di fatto, il leader della sinistra europea. Renzi lo sa. Egli stesso ha detto che adesso non ci sono più alibi per non fare le riforme. Ma bisogna smetterla con la vergogna di chiamare «riforme» l’austerità e il massacro dei diritti del lavoro. È il modo di essere della società italiana che va messa su nuove basi, anche sociali. Si tratta davvero di dar vita a un «nuovo inizio». So benissimo che i margini sono strettissimi e certi vincoli vanno rispettati. Ma un nuovo inizio (lo dico anche a certi amici del Partito democratico) è reso necessario dal fatto che è finita l’epoca dell’economia del debito e del mercato senza regole. Anche per l’Europa.
Il cuore della questione sta qui, sta nel fatto che la partita, oggi, si deve giocare attorno alla capacità dei sistemi socio-economici di integrare la crescita economica con un nuovo sviluppo sociale e umano. Io penso che sta qui il banco di prova dei nuovi dirigenti del Pd. Sta nella necessità di costruire un partito e non solo una organizzazione elettorale, un partito-società, un luogo dove si forma una nuova classe dirigente e dove si possa elaborare un disegno etico e ideale. Senza di che ce le scordiamo le riforme.
Io ho vissuto la catastrofe dell’8 settembre del 1943. Ho visto come allora un gruppo di politici giovani (meno di 40 anni) si rivolsero a un popolo che allora era ridotto a una massa di profughi in fuga dalla guerra e dal collasso dello Stato. Quei giovani riuscirono a unire quel popolo sotto grandi bandiere, bandiere politiche e ideali, non tecnocratiche. So bene che tutto è cambiato da allora. Ma l’Italia di oggi è ancora uno dei Paesi più ricchi del mondo e al governo ci siamo noi. Non basta sostenere il governo in Parlamento.
Occorre spingerlo verso nuove scelte di fondo partendo dal paese, dai bisogni e dalle sofferenze della gente. La prudenza, il realismo vanno benissimo, sono virtù che servono anche nelle situazioni «eccezionali ». Ma non bastano. L’Italia è in un pericoloso stato di «eccezione». Il voto di domenica è consolante ma esso ci chiede un messaggio forte che dia un senso ai sacrifici e al rigore. Stiamo attenti. La crisi sta intaccando il tessuto stesso della nazione, e io uso questa grande parola quale è «nazione » perché è di questo che si tratta. Non solo dell’economia e nemmeno solo delle Istituzioni. Si tratta di un oscuramento delle ragioni dello stare insieme. Sono troppi, non solo tra i giovani, quelli che vogliono andare a vivere all’estero.
È una crisi «morale», di sfiducia nel Paese, aggravata dalla latitanza delle elite e dalla pochezza delle classi dirigenti politiche. Tutta la questione del Pd e di chi lo guiderà ruota intorno alla capacità o meno di dare una risposta a una crisi di questa gravita.

l’Unità 28.5.14
Serve un nuovo bipolarismo
di Michele Ciliberto


È stato detto, giustamente, che le elezioni europee avrebbero potuto essere uno spartiacque per il nostro Paese, e resta vero, in linea di principio. Ora si tratta di vedere se esse riescono ad esserlo effettivamente, e per capirlo occorre comprendere in via preliminare se la «materia» - direbbe Machiavelli - è ormai troppo «disordinata».
Oppure se esistono ancora le condizioni per avviare un’opera di effettiva riforma e rinnovamento della nazione. A mio giudizio, il risultato delle elezioni - e anche la partecipazione dei cittadini in un momento così difficile - dimostrano che ci sono ancora le possibilità per evitare che l’Italia precipiti nella «barbarie» e continui ad essere un’importante protagonista della storia. Mi induce a pensarlo la «speranza» che in questo voto si è espressa con chiarezza, prevalendo sul «risentimento» che si era impadronito di larghi strati della società italiana nel pieno di una crisi senza precedenti. Credo perciò che abbia ragione il direttore de Il Sole24ore il quale, in un recente libro, ha sostenuto che il nostro è un Paese che, per quanto ferito, non ha smesso però di sperare. Al fondo, si potrebbe dire che queste elezioni sono state proprio uno scontro campale tra risentimento e speranza, e che è stata questa ultima, in fine, a prevalere, pur in un momento così difficile: spes contra spem, direbbe l’apostolo.
Ma la speranza in un forte rinnovamento della nazione non basta, se essa non trova interpreti in grado di trasformarla in gesti concreti, in politiche effettive. Anzi, rischia di ripiegarsi su se stessa, e di rafforzare, ed acuire il «risentimento» politico e sociale se non si trasforma in scelte capaci di girare pagina e di inaugurare una nuova stagione della Repubblica. Perciò, oggi, le responsabilità delle forze politiche e, in generale, delle classi dirigenti sono veramente eccezionali, ed è bene che se ne rendano conto per avviare un’opera riformatrice che deve toccare aspetti centrali della vita della nazione.
La domanda che si pone è dunque questa: quali sono i luoghi principali nei quali si deve esprimere questa politica riformatrice, coinvolgendo nella sua opera - se vuole riuscire - le forze migliori del Paese, ristabilendo nuove forme di rapporto tra «mondi della vita» e politica? A mio parere sono essenzialmente due: la «questione sociale », arrivata ormai a punti di rottura; la riforma del sistema politico - questione altrettanto importante, e sulla quale qui vorrei soffermarmi.
È almeno dalla fine degli anni settanta del secolo scorso che nel nostro Paese è aperta una questione democratica nel senso pieno della parola, caratterizzata da una separazione e poi da una vera e propria scissione fra governanti e governati, tra dirigenti e diretti, tra popolo e classe politica. Di essa sono state cause ed effetto la crisi profonda della tradizionale democrazia rappresentativa, alla quale sono state date varie, e anche contrastanti, risposte: un ruolo di carattere «generale» della magistratura, lo sviluppo di nuove forme di leaderismo, l’espansione in forme mai viste prima delle tematiche proprie della democrazia diretta - fenomeno, quest’ultimo, non riducibile, peraltro, solo alla esperienza italiana.
Quella crisi è sempre e ancora aperta, e aspetta ancora di essere risolta, anzi si è ulteriormente acuita: lo confermano, perfino, i fallimenti dei sondaggi fatti anche in occasione di queste elezioni: la «società» si è così profondamente separata dai luoghi ordinari della vita pubblica da essere diventata indecifrabile e incomprensibile anche da parte degli strumenti più sofisticati. Problema, ovviamente, di ordine politico, non tecnico, sul quale, senza scandalizzarsi, varrebbe la pena di fare una adeguata riflessione. È come se il Paese procedesse ormai a due livelli reciprocamente incomunicabili, nonostante l’invasione dei talk -show politici: esso parlano a un vento che soffia altrove.
Da questa crisi non si esce, e non si può uscire, se non rimettendo in comunicazione governanti e governati, ed è impossibile farlo se non si procede anche a una riforma profonda del sistema politico. Da questo punto di vista le elezioni di domenica sono importanti perché presentano un quadro interessante, gravido di sviluppo positivi, se adeguatamente interpretati. Era chiaro, già prima, che esse sarebbero state una battaglia campale tra Pd e M5s nella prospettiva di un nuovo bipolarismo. Dalle urne è infatti uscita, nel complesso, confermata una dinamica di carattere essenzialmente bipolare, costituita da un lato dal Pd, dall’altro dal M5s. Sia pure con una forte disparità di forze (il Pd ha avuto il doppio dei voti di Grillo), sono risultate queste le due forze più rilevanti sul piano elettorale. Questo non vuol dire che le destre non possano svolgere ancora un ruolo; ma di tipo subalterno, come accade in effetti già ora con il governo attuale, una realistica presa d’atto della situazione. Basta citare i numeri: Forza Italia è al 16,8%; il Ncd , che raccoglieva anche Udc , ha superato a stento la soglia minima del 4%: per un partito che si proponeva di diventare il punto di riferimento della destra italiana italiana, dopo la crisi del berlusconismo, è, si sarebbe detto una volta una «dura replica della storia»: i voti dei moderati italiani stanno prendendo, in buona parte, altre strade, che possono rinsaldare, e non ostacolare, la costruzione nel nostro Paese di un nuovo bipolarismo, capace di porre su solide basi l’alternanza delle forze politiche nel governo del Paese, «compiendo» finalmente la democrazia nel nostro Paese. Il bipolarismo non è però, in quanto tale, il «farmaco » ordinato dal medico per curare la nostra democrazia: la pietra di paragone sono il rapporto tra governanti e governati, tra classi dirigenti ed opinione pubblica democratica, e il contributo che esso oggi può dare per superare la crisi della nostra democrazia rappresentativa.
A questo proposito vanno sottolineati, con nettezza, due punti. Anzitutto ho usato volutamente il termine «nuovo» parlando del bipolarismo che può nascere ora in Italia: in effetti, una dinamica bipolare c’è stata nel nostro Paese, durante il ventennio berlusconiano; ma è stata di tipo «belluino », puramente contrappositivo; espressione di «forza», non di «consenso», come è tipico delle nostre classi proprietarie, quando prevalgono le forze estremiste; in generale, sarebbe poi più corretto, sul piano storico, parlare del trasformismo tipico della storia nazionale italiana, quando si giudica il berlusconismo. In secondo luogo, una dinamica bipolare, per non risolversi, come è possibile, in un restringimento delle basi del potere e in sua curvatura autoritaria ha bisogno di poggiare su un forte sviluppo dei corpi intermedi e, in primo luogo, dei partiti. Se infatti si coniugassero bipolarismo e leaderismo si andrebbe in una direzione opposta a quella che occorre seguire. In democrazia il problema non è solo decidere; ma come, e con chi, decidere: la condivisione è la norma, non l ’eccezione. Da noi, negli ultimi mesi, è tornata la politica ed è un bene; ma non sono tornati con la forza e l ’autorità necessaria i partiti. Sarebbe bene che essi cominciassero ad occupare sulla scena il posto che loro tocca - certo sapendo bene che le forme partitiche novecentesche sono definitivamente tramontate.

il Fatto 28.5.14
Libertà e Giustizia a Renzi: “Legalità sia prioritaria”


L’APPUNTAMENTO è per il 2 giugno a Modena, dove Libertà e Giustizia terrà la sua kermesse: “Le elezioni europee dicono che in Italia è nato un grande partito democratico e che alla sua formazione hanno contribuito molte forze di diversa origine, compresa una quota significativa di elettori che in passato hanno sempre votato a destra. Questo dato può indubbiamente essere positivo - scrive LeG - , purché non porti con sé l’accettazione degli aspetti più deteriori della cultura che ha caratterizzato gli anni dei governi berlusconiani, e che tuttora infestano il nostro paese: l’illegalità, la corruzione, l’uso della cosa pubblica a fini privati, la soggezione dei mezzi di informazione ai diktat dei partiti. Compito di Libertà e Giustizia è sempre stato denunciare e combattere questi fattori di degrado politico e sociale e continuerà a farlo. Il nostro impegno sarà particolarmente vigile sui progetti di riforma istituzionale, elettorale, della giustizia, della libertà di informazione. Ci auguriamo inoltre che tra le priorità del nuovo Pd, insieme ai provvedimenti per il lavoro, ci sia al più presto una legge seria sul conflitto di interessi, tuttora indicato tra le cause principali della tragica corruzione che caratterizza il nostro paese”.

l’Unità 28.5.14
Carceri, l’Italia rimpatria 3.600 detenuti romeni
Scade l’ultimatum per mettere in regola il sistema Attesa per il verdetto
di Strasburgo. Rischiamo 100 milioni di multa
Che possono triplicare


Il tempo scade oggi. Ora si può solo attendere il verdetto di Strasburgo e del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa. Basta correzioni, interventi, proposte. Quello che è fatto, è fatto. Per sapere se è sufficiente per evitare oltre cento milioni di euro di multa - che potrebbero lievitare in poco tempo visto che ci sono circa settemila ricorsi pendenti - bisogna probabilmente aspettare i primi giorni della prossima settimana. La Corte, infatti, è previsto che si riunisca lunedì prossimo. Da allora ogni momento è buono per sapere se l’Italia ha superato l’esame di civiltà per cui è finita sotto processo davanti al Tribunale dei diritti dell’uomo e che ci accusa di sottoporre a tortura i detenuti ristretti nella nostre carceri. Sarà, questo verdetto, anche il primo test ufficiale e concreto del governo davanti alla nuova Europa. E alla vigilia dell’assunzione dell’Italia della presidenza del semestre europeo.
Il 21 e il 22 maggio il ministro Guardasigilli Andrea Orlando è volato per l’ultima volta utile e Strasburgo. Al presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo Dean Spielmann ha consegnato il dossier che dovrebbe dimostrare che la situazione nelle carceri in Italia non è eccellente ma certamente assai migliore rispetto al gennaio 2013 quando Strasburgo accusò (sentenza Torregiani) il governo di tortura intimando un intervento immediato pena una salatissima multa.
Oggi sono 59.683 i detenuti nelle carceri italiane: significa che qualche passo avanti è stato fatto visto che al 30 giugno 2013 erano ristrette 66.028 persone. Seimila detenuti in meno, è vero, ma ce sono ancora 15 mila in più rispetto ai posti regolari che sono 49 091 da cui però vanno sottratti almeno quattromila posti letto perchè «non disponibili » in quanto fatiscenti. Antigone, l’associazione che da anni si occupa dei detenuti, stima che «il tasso di affollamento italiano è del 134.6%, significa 134,6 detenuti per 100 posti letto». Prima dell'inizio della procedura europea, ha spiegato il presidente Patrizio Gonnella, «eravamo secondi per sovraffollamento solo alla Serbia che aveva un tasso del 159,3%. Con il dato di oggi siamo stati superati anche da Cipro e Ungheria. Restiamo lontani dalla media europea, che è del 97,8%».
Una situazione non omogena in cui alcune regioni sono piu virtuose e altre meno. In Puglia il tasso di sovraffollamento è del 148,4%, in Lombardia e' del 136,7%, nel Lazio del 133,7%. Fino al caso limite, Secondigliano (Napoli), dove in aprile c’erano 1.357 detenuti per 650 posti (circa il 200 per cento).
Il Guardasigilli ha spiegato gli interventi che stanno piano piano liberando le celle senza per questo far venire meno i criteri di sicurezza. Oltre ad alcune leggi approvate dal Parlamento (messa alla prova, detenzione domiciliare, custodia cautelare) per cui il ricorso al carcere preventivo (circa il quaranta per cento è in attesa di giudizio) viene fortemente limitato, Orlando ha documentato gli accordi internazionali per cui l’Italia potrà rimpatriare i detenuti comunitari. Tremila e seicento sono quelli romeni e pochi giorni fa il ministro della Giustizia ha incontrato il collega romeno per sveltire i passaggi burocratici. Accordo analogo è stato sottoscritto con il Marocco (la seconda comunità straniera detenuta in Italia). Trattandosi di un paese extracomunitario, ciascun detenuto dovrà prima accordare la propria disponibilità al rimpatrio. Non saranno molti, ma sarà sempre qualcosa.
Nello stesso dossier di via Arenula, anche gli accordi con le regioni per affidare i detenuti tossicodipendenti ai Centri specializzati. Sono circa 25 mila i detenuti per reati di droga e l’incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi consente nel tempo ampi spazi di manovra anche su questa categoria di detenuti.
Palazzo Chigi incrocia le dita, non sarebbe un bel segnale iniziare il semestre di Presidenza con una multa della Cedu. Meno che mai avere appiccicata addosso la patente del paese incivile perchè non sa rispettare i diritti dei propri detenuti. Parliamo di ora d’aria, spesso negata, e di spazi fisici (neppure 3 mq a persona).
Nel dossier di via Arenula si fa cenno anche alle «misure compensative» previste per evitare che migliaia di ricorsi sommergano Strasburgo. Non ci sono molte alternative: sconti pena per chi è ancora detenuto; soldi per chi è già uscito. In ogni caso, una sconfitta.

l’Unità 28.5.14
Roma, separati in casa niente pace fra Marino e Pd
Successo alle Europee, nella capitale democratici al 43%
Per il rimpasto il sindaco punta su Silvia Scozzese
Attacco di Gasbarra al quartier generale


«Con quel sorriso può dire ciò che vuole », si incantava a Carosello Enzo Garinei, ammaliato dalla bocca perfetta di Virna Lisi (copyright Marcello Marchesi, 1958). Parafrasando la pubblicità Chlorodont: con «quel risultato» il caratteristico sorriso del sindaco di Roma Ignazio Marino può continuare a risplendere.
Il Partito democratico ha ottenuto a Roma, alle europee, uno storico 43 per cento, lasciando al palo del 25 i grillini che avevano già sofferto, nel 2013, lo stacco imposto da Nicola Zingaretti nella corsa per la Regione. Effetto Renzi anche sulla capitale; lavoro di un partito che, nonostante le risse correntizie, sul territorio si fa sentire; apertura di credito ancora attiva verso il sindaco, eletto solo un anno fa. Quali che siano le ragioni del successo, i rumors dei mesi scorsi su una imminente resa dei conti si sono placati, ma restano molti problemi. Il sindaco accelera sul rimpasto in giunta, dove sono rimaste vuote due caselle fondamentali: bilancio e cultura. Ma il rimpasto di giunta si intreccia con le tensioni fra Campidoglio e Pd cittadino: ieri il Pd romano ha festeggiato a piazza Farnese la vittoria alle europee, con Simona Bonafè, capolista nella circoscrizione centro, e con il capogruppo al Senato Luigi Zanda, con il segretario romano Lionello Cosentino, ma senza il sindaco e senza presidente di Regione. Intanto sono partiti gli strali di Enrico Gasbarra, che alle Europee ha battuto Goffredo Bettini nella conta sulle preferenze, contro i quartieri generali di Campidoglio, Regione e partito.
È stata la decisione di Flavia Barca a far accelerare sul rimpasto di giunta. L’ex assessore alla cultura era al comizio di Matteo Renzi a piazza del Popolo, giovedì scorso, e aveva già deciso: un minuto dopo i risultati elettorali ha fatto il passo indietro. Negli ultimi giorni erano stati pubblicati alcuni nomi sulla successione, Flavia Barca ha chiesto un incontro con il sindaco, l’incontro non c’è stato e lei ha preso la sua decisione. Nel totonomine, per ora, sono entrate Giovanna Marinelli, capodipartimento alla cultura nella scorsa consigliatura, e Monique Veaute, presidente di Romaeuropa festival, lanciata dagli ambienti dell’arte contemporanea del Macro e del MAXXI.
Più vicina la soluzione per il bilancio. Ignazio Marino spera in Silvia Scozzese, considerata un eccellente candidato anche nel Pd romano. Ma non è detto che sia d’accordo Piero Fassino, presidente dell’Anci, dove Silvia Scozzese dirige il settore finanza e sta lavorando al piano di rientro del Campidoglio. Il sindaco ha incontrato ieri mattina Lorenzo Guerini ma il vicesegretario del Pd smentisce che si sia parlato di rimpasto. Così come, «smentisco», dice Guerini, che il sindaco parli con il Pd nazionale bypassando il segretario romano e il gruppo consiliare del Pd. «Roma è importante, è normale e ha un significato politico - spiega Guerini - incontrarsi, in un quadro di collaborazione in cui si tratta di aiutare il percorso di risanamento finanziario», «vicinanza e attenzione sono nel rispetto dell’autonomia dell’amministrazione e del livello territoriale del Pd».
Il rimpasto? «Mi interessa il giusto», risponde il segretario romano Lionello Cosentino, «le nomine spettano al sindaco. Al Pd interessa il confronto del sindaco con la città, che aspetta il cambiamento » Quali sono i problemi? «È sporca, sul piano di rientro, da presentare entro 15 giorni, è importante capire su quali linee avverrà. C’è una certa inefficienza della macchina, come si è visto con la vicenda delle tessere elettorali esaurite». Oggi è programmato l’incontro fra i due, «un inizio di dialogo».
Nelle urne i romani hanno votato per l’Europa ma le preferenze alle europee fanno irruzione nel dibattito locale. L’area che si richiama a Goffredo Bettini è rimasta sconcertata dalla «irrituale » conferenza stampa di Enrico Gasbarra che, riferendosi a Comune e Regione ha dichiarato: «Le istituzioni devono allinearsi al fuso orario di Palazzo Chigi, alla sua velocità». Risponde il deputato Roberto Morassut: «Mi auguro che non si sviluppi ilmiope gioco di usare il risultato delle europee per diatribe meschine di micro apparato». Tradotto nel contesto del rimpasto, il segretario romano vorrebbe dei nomi di peso in giunta. L’area che si richiama a Gasbarra vorrebbe l’ingresso di Mirko Coratti, ora presidente del consiglio comunale, ai lavori pubblici. Umberto Marroni, alleato di Gasbarra, ne fa una questione di «metodo renziano» anche rispetto al partito: «Ci sono troppe vecchie glorie».

il Fatto 28.5.14
Enrico Rossi
Pisa porta in tribunale il governatore che svende l’aeroporto
di Giorgio Meletti


Per il governatore della Toscana Enrico Rossi il tentativo di privatizzare sottobanco l’aeroporto di Pisa si sta rivelando più complicato del previsto. Quando credeva di aver risolto tutto con un colpo di mano, revocando la delibera proposta al consiglio regionale e decidendo tutto in giunta con una forzatura dei regolamenti, è arrivata l’offensiva giudiziaria. Ieri il presidente dell’Adusbef Elio Lannutti ha presentato attraverso l’avvocato Lucio Golino un esposto alla Procura di Pisa, a quella di Firenze e alla Corte dei conti, chiedendo che siano verificate le ipotesi di reati quali peculato, corruzione, concussione o abuso d’ufficio. L’imprenditore argentino Eduardo Eurnekian ha lanciato un’offerta pubblica di acquisto sulla Sat, la società che gestisce lo scalo pisano, attualmente controllata da un patto di sindacato tra enti pubblici. La decisione di Rossi di cedere il suo 17 per cento, rompendo il patto di sindacato, da una parte è decisiva per il successo di Eurnekian, cioè per una privatizzazione mai decisa nè discussa, dall’altra mette le Regione a rischio di pagare agli altri membri del patto una penale superiore al ricavato. Lannutti chiede ai magistrati di controllare se per caso la determinazione di Rossi a vendere “non debba ascriversi a accordi di dubbia natura malcelanti interessi di cordate politico-affaristiche integranti fattispecie penalmente rilevanti”.
Ma il colpo più duro per Rossi è la reazione del sindaco di Pisa Marco Filippeschi, suo coetaneo e amico dai tempi della comune militanza nel Pci pisano, che ha presentato un ricorso d’urgenza al tribunale di Firenze (il cosiddetto articolo 700). Gli avvocati Antonio Calamia e Susanna Caponi chiedono ai giudici di sequestrare le azioni in mano alla Regione, per impedirne cautelarmente la vendita. La giunta regionale ha già deliberato l’adesione all’Opa che scade il 3 giugno, ed entro quella data dovrebbe intervenire l’eventuale sequestro. Improbabile invece una marcia indietro di Rossi. L’operazione Eurnekian è pesantemente sponsorizzata del potere renziano di Firenze, e Rossi, ex dalemiano sconfitto, affida a questo atto di obbedienza le sue residue speranze di durare come governatore nella regione del premier.

Repubblica 28.5.14
La beffa dei ticket da Napoli a Venezia così triplica il prezzo di un test
Lo studio: da nord a sud costi diversi per i pazienti
Da 13 a 45 euro per gli stessi esami del sangue
di Caterina Pasolini


ROMA. Gli italiani saranno forse tutti uguali davanti alla legge, ma per quanto riguarda il diritto alla salute non sembra proprio. Tra i costi degli esami e tempo necessario per avere un appuntamento col medico, il nostro paese sembra una giungla in cui perdersi. Perché tutto cambia a seconda del reddito e soprattutto in base a dove vivi. Basta fare qualche decina di chilometri e gli stessi identici test clinici possono costare anche il triplo e la lista di attesa allungarsi a dismisura. Così per farsi visitare da uno specialista in Valle d’Aosta il 35 per cento dei pazienti aspetta una settimana, nel Lazio questa fortuna capita solo al 14 per cento di loro.
A fotografare il rapporto degli italiani col sistema sanitario, nell’anno in cui per la crisi economica il 13 per cento ha rinunciato a farsi curare, è Altroconsumo. L’associazione, ha messo a confronto quanto si paga per lo stesso servizio da nord a sud, raccontando con un questionario distribuito a 5000 persone come gli italiani boccino la loro sanità regionale. Su una votazione da 1 a 100 punti ne hanno dati in media solo 57.
Partiamo dai costi. Con la stangata del superticket, introdotto nel 2011 su ogni ricetta o prestazione del valore di oltre 10 euro, i prezzi sono diventati geograficamente ondivaghi. Una prima visita specialistica costa dai 18 euro in Basilicata ai 28 in Lombardia per finire al record di 39 euro del Friuli, ovvero più del doppio che a Potenza. Stesso discorso per gli esami del sangue di routine che possono più che triplicare, passando dai 13,20 di Trento ai 35 delle Marche oppure variano tra i 14 e 44 euro nella stessa Toscana. A parità di prestazioni, quindi, costi molto diversi. Questo perché quattro regioni non applicano il superticket (Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Basilicata e Sardegna), nove lo applicano nella misura dei dieci euro fissi a ricetta, quattro invece, come la Toscana e l’Umbria, lo differenziato a seconda del reddito e altre tre in base al valore della ricetta.
Per dimostrare il peso del superticket sulle nostre tasche, Altroconsumo ha preso in considerazione casi comuni. Il primo è un sospetto di calcoli renali per i quali il medico di base ha chiesto un esame delle urine, una visita dal nefrologo, una radiografia e un’ecografia. Dove non si applica il superticket il costo totale è sui 90 euro, ma balza a 160 dove c’è come in Piemonte, mentre in Toscana, dove questo è calcolato in base al reddito al paziente può costare dai 92 ai 212 euro.
Stessa storia per sospetti noduli alla tiroide che prevedono visita dall’endocrinologo, esami del sangue, e un ago aspirato. Per un costo minimo in Basilicata di 118 euro, in Friuli di 177 euro e un’oscillazione tra questi due estremi in alcune regioni come l’Umbria dove il superticket viene calcolato in base al reddito.
Variabili anche i tariffari regionali, che sono quanto versa la regione alla struttura che fa il test o la visita, e a quali bisogna aggiungere il superticket per capire quanto poi alla fine paga il cittadino. Così in Abruzzo il tariffario prevede per una radiografia al torace 15,49 euro mentre in Friuli per la stessa prestazione è previsto quasi il doppio: 27,90. Una radiografia al polso in Campania è valutata 14,20 euro mentre nel Veneto ben 27,90. In Puglia un elettrocardiogramma è messo in tariffario a 10,81 euro contro i 15 euro del Friuli. Per un esame delle urine il costo nella provincia autonoma di Trento è di 1,85 euro, quasi tre volte tanto in Piemonte.
Il superticket, secondo l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, ha fatto diminuire del 17-20 per cento in un anno le prestazioni. «E a guardare questi dati è comprensibile, perché è palese la disparità dei cittadini sulla salute, che è legata alla regione in cui vivono e al reddito. Il tutto a dispetto dall’uguaglianza sancita dalla Costituzione », commenta Paolo Martinello, presidente di Altroconsumo.

Repubblica 28.5.14
Le due lezioni del caso Uber
di Alessandro De Nicola


NELLA ormai famosa vicenda Uber torti e ragioni, privilegi e diritti, si intersecano in un modo che rende problematica qualsiasi soluzione. I fatti principali sono noti: Uber, azienda multinazionale partecipata anche da Google, ha sviluppato una applicazione che permette di prenotare un’ auto a noleggio anche con scarso preavviso. La centrale operativa riceve la richiesta dal cliente, la diffonde agli autisti in circolazione e chi è in grado di meglio soddisfarla lo segnala. Le auto sono tutte di ottima qualità, si paga direttamente con addebito sulla carta di credito che si registra sul sito, il prezzo è in media superiore del 20% a quello dei taxi ma i consumatori sembrano non curarsene e aumentano costantemente. Soprattutto per i viaggiatori internazionali, avere un’unica compagnia che assicura il servizio in diverse città con gli stessi standard e modalità risulta
molto attraente.
Qui scatta la rivolta dei tassisti, che accusano Uber di concorrenza sleale in quanto, secondo loro, la normativa imporrebbe alle compagnie di auto a noleggio di non occupare pubblici spazi (quindi impossibilità di sosta), avere tariffe prefissate (invece grazie al Gps si ha istantaneamente il calcolo del prezzo del trasporto) e soprattutto passare per l’autorimessa alla conclusione di ogni viaggio e attendere colà il cliente. Peggio ancora è stata giudicata l’app Uberpop, che permette una sorta di servizio svolto da privati cittadini che danno la disponibilità della propria vettura e si improvvisano tassisti on-demand.
Il Tar Lombardia ha dato però torto sia ai tassisti che al Comune di Milano, il quale, con una delibera dell’anno scorso, aveva cercato di ricondurre l’attività di Uber entro l’interpretazione rigida della normativa, ribadendo il divieto per chi aveva una licenza «fuori porta» ed era sprovvisto di rimessa all’interno della città di procurarsi il cliente entro i confini del capoluogo lombardo. I giudici amministrativi, infatti, hanno considerato che apparivano dubbi sul piano costituzionale e comunitario sia il divieto per i vettori con autorizzazione rilasciata da altri comuni di procurarsi un servizio da svolgere nel territorio comunale sia l’obbligo che il servizio debba essere effettuato con partenza dal territorio del Comune che ha rilasciato la licenza. In più il Tar esprimeva a chiare lettere l’opinione che sia irrazionale alla luce del progresso della tecnica che, dopo la conclusione di una corsa, il conducente, ricevuta immediatamente dopo in via telematica altra richiesta, debba necessariamente fare ritorno alla propria rimessa anziché raggiungere direttamente il cliente in attesa, fermo restando il divieto di stazionamento sulle aree pubbliche.
Dopo le ultime agitazioni, durante le quali ci sono state minacce e violenze e interruzioni di un pubblico servizio totalmente inaccettabili, il ministro Lupi e il governatore Maroni hanno un po’ stabilito l’ovvio e cioè che la legge va rispettata (ci mancherebbe) e in particolare non è possibile a ciascun cittadino di improvvisarsi tassista senza alcuna licenza o autorizzazione (cosa ragionevole, in quanto è bene che le persone cui affidiamo le nostre vite facendoci trasportare in auto possiedano alcuni requisiti di capacità e sanità mentale).
Sulla questione cruciale decisa dal Tar, invece, silenzio e farfugliamenti e non poteva essere che così in attesa di una legge più chiara.
Perché qui le scelte sono drammatiche? Perché non si può ignorare il disagio dei conducenti di taxi che magari si sono comprati la licenza per 200.000 euro e oggi tra la crisi economica e la caduta delle barriere all’entrata vedono ridursi i loro guadagni ed il valore stesso della licenza che finora serviva loro come una sorta di Tfr. D’altra parte non è ammissibile né arrestare il progresso tecnologico, né soffocare la concorrenza e l’efficienza soprattutto in un momento in cui il paese é attraversato da una profonda crisi economica.
La lezione é duplice. Quando l’Autorità Antitrust propose non molto tempo fa una soluzione ragionevole, vale a dire regalare una licenza in più a tutti gli attuali possessori che poi avrebbero potuto monetizzarla vendendola a un nuovo entrante, la categoria si oppose ferocemente: era più comoda l’esclusiva. L’arrocco, però, nel mondo globale funziona sempre meno: i consumatori sono più consapevoli e la tecnologia è impossibile da fermare. É necessario adattarsi in tempo e competere.
La seconda lezione é che non è più accettabile la politica del rinvio e dello struzzo, fatta di norme incomprensibili, che rimandano a decreti da attuare e non decidono un percorso serio e, quando lo abbozzano, si assiste poi a una precipitosa ritirata al primo strepito dei parlamentari che rappresentano le lobby. La politica dovrebbe stare fuori dall’economia ed adempiere la sua funzione più nobile cercando soluzioni che aumentino la libertà di scelta, l’innovazione e il benessere generale, dando il tempo sufficiente a chi ha posizioni di rendita di adattarsi al cambiamento. In Italia questo non succede mai, anche se Renzi ha detto di trovare Uber «straordinaria». Staremo a vedere.

il Fatto 28.5.14
L’Uber-potere contro il monopolio dei taxi
La rivolta a Milano contro la app che fa concorrenza ai tassisti dimostra l’urgenza di cambiare le regole del settore
La tecnologia fa crollare i monopoli
di Marco Ponti


Il settore dei taxi e quello, simile, del “noleggio con conducente” (NCC) ha un rilevante ruolo economico nei paesi sviluppati: si pensi che in una città con molta domanda d'affari come Milano, si stima che il fatturato del settore non sia inferiore a quello del trasporto pubblico (in area urbana), cioè dell'ordine dei 300 milioni di euro annui. Una ricerca dell'Automobil Club ha dimostrato che la domanda per questo servizio è molto elastica: una riduzione delle tariffe vedrebbe un più che proporzionale aumento dell'utenza e tale utenza non è affatto limitata agli alti redditi, come si potrebbe pensare. Per spostamenti occasionali di persone o famiglie prive di automobile il taxi è spesso indispensabile. Ma il settore è caratterizzato in Italia (e non solo) da una ridotta governabilità e un alto grado di monopolio, composto solo da artigiani individuali proprietari del veicolo (le imprese con molti veicoli e personale dipendente non sono consentite!) e non prevede alcuna competizione tariffaria. I vincoli normativi imposti dai tassisti al NCC limitano a una nicchia poco rilevante questo tipo di servizio, che ha l'obbligo di rimanere in autorimessa fino a che l'utente non telefona e spesso può operare solo nel Comune di residenza. Anche l'aumento del numero di licenze, spesso vistosamente insufficienti, è osteggiato dalla categoria. Le licenze infatti hanno raggiunto valori rilevanti nel “mercato secondario”, che è consentito. Tale valore è espressione diretta della rendita di monopolio che si genera nel settore. I titolari delle licenze giustificano questi valori come “alternativa alle pensioni di cui non godono”; concetto peculiare.
Verso l’auto ”peer to peer”
Un monopolio perfetto, capace di paralizzare grandi città e condizionare con una massa compatta di voti il consenso locale. I tentativi di riforma già falliti: ci provò l'assessore Walter Tocci a Roma, che propose di estendere le licenze regalando quelle nuove ai titolari precedenti, al fine che la diminuzione di valore non danneggiasse chi le avesse acquistate. L'iniziativa fu fatta fallire, e Tocci fu “dimissionato” dal suo stesso partito, il Pd. Poi ci provò il governo Monti, a introdurre elementi di liberalizzazione, che furono via via ammorbiditi fino a svanire. Anche la nuova Autorità indipendente dei trasporti sembra sia stata esautorata dall'occuparsi del settore.
Recentemente abbiamo assistito a una clamorosa conferma della difficoltà di aprire il settore all'innovazione, con le proteste contro l'amministrazione milanese che non avrebbe imposto vincoli sufficienti a un nuovo soggetto, UBER, che ha tentato di entrare nel mercato (con successo). Vincoli richiesti dai tassisti stessi, con metodi anche al limite della legalità, ma comunque appoggiati alla normativa esistente che impedisce ogni concorrenza, che in questo caso non è neppure diretta. Si tratta infatti di un servizio a chiamata (mediante una app) che offre al cliente la disponibilità della macchina più prossima, ma con tariffe mediamente più alte di quelle dei taxi (e macchine più lussuose). Certo, trattandosi di autonoleggio, il sistema non obbliga il veicolo a sostare in garage, come prevede l'assurda norma attuale. UBER è una impresa nata negli Stati Uniti, dove il servizio è consolidato e da tempo, e si rivolge soprattutto a una clientela d'affari.
Si tratta dunque di una concorrenza sulla qualità, non sui prezzi.
Quest’ultima forma di concorrenza, certamente possibile abbassando un po’ l’alto standard dei veicoli di UBER, sarebbe assai più devastante per gli interessi dei tassisti, e benefica per gli utenti. UBER opera un servizio informatico per i noleggi con conducente quasi peer to peer, per mettere in contatto chi è disposto a offrire e guidare la propria auto anche occasionalmente, a chi ne ha bisogno. Il tutto in un quadro “di club”, cioè di garanzie assicurate dalla società che fornisce il servizio. Prima di UBER, Google negli Stati Uniti ha avviato con successo un servizio peer to peer di noleggio temporaneo di auto di privati (senza conducente), che verosimilmente arriverà anche in Italia.
Ma la corporazione dei tassisti, come tutti i monopolisti, si oppone al principio stesso della concorrenza.
Che hanno fatto i tre moschettieri politici preposti al settore, cioè Maurizio Lupi come ministro dei Trasporti, Roberto Maroni per la Regione Lombardia, Giuliano Pisapia per il Comune di Milano? Prima hanno dichiarato di non essere contro l’innovazione e la concorrenza, poi hanno subito aggiunto che il monopolio dei tassisti non si tocca.
Che occorra cambiare la normativa, visto il mutare del contesto tecnologico e dell’interesse pubblico, neanche a parlarne. La politica deve proteggere i voti sicuri dei monopolisti, soprattutto se molto “vocali”, e non certo quelli, assai meno controllabili, degli utenti. Sul piano pratico l’innovazione normativa, come scrive anche Franco Morganti sul Corriere, è quella di accelerare la transizione a sistemi tipo UBER, cioè di contatto diretto utenti-taxisti, NCC, e, con adeguate garanzie, anche privati, ponendo fine alle assurde distinzioni di oggi. Come minimo si doveva dare un robusto annuncio all’opinione pubblica in questa direzione. Ma forse è meglio non insinuare nei cittadini il dubbio che si possa migliorare la loro mobilità con pericolose innovazioni tecnologiche o gestionali.

l’Unità 28.5.14
L’anniversario
Un boato lungo 40 anni
La strage di Piazza della Loggia, 8 morti senza colpevoli: tutti assolti o prescritti


«AMICI E COMPAGNI, LAVORATORI E STUDENTI, SIAMO IN PIAZZA PERCHÉ  IN QUESTI ULTIMI TEMPI UNA SERIE DI ATTENTATI DI MARCA FASCISTA HA POSTO LA NOSTRA CITTÀ E LA NOSTRA PROVINCIA ALL’ATTENZIONE PREOCCUPATA DELLE FORZE ANTIFASCISTE…». Bombe esplose, bombe ritrovate dentro una chiesa, in un parco pubblico, una bomba che sventra una macelleria, colpi di pistola contro un mercato della Coop, attentati sventati con un obiettivo: i sindacati, un giovane «camerata» di Ordine Nuovo, Silvio Ferrari, dilaniato dal chilo di tritolo che portava con sé.
In Piazza della Loggia, a Brescia, dalle dieci del mattino, un mattino, grigio, piovoso, si sono raccolte migliaia di persone. Molti cercano riparo sotto i portici. Molti sono studenti. Molti sono insegnanti. Franco Castrezzati, sindacalista della Cisl, continua nel suo discorso. Cita Almirante, il segretario del Msi, il repubblichino di Salò, fucilatore di partigiani. Denuncia le disattenzioni o le connivenze dei corpi dello Stato, che dovrebbero vigilare, impedire, reprimere quella violenza, quel terrore neofascisti. Dice: «A Milano…». Forse avrebbe voluto ricordare Piazza Fontana. Ma in piazza si ascolta solo un boato. Si sente ancora Castrezzati: «Compagni, amici, state fermi, state calmi, state all’interno della piazza, il servizio d’ordine faccia cordone attorno alla piazza…».
Sono le dieci e dodici minuti del 28 maggio 1974: a terra sono rimaste decine e decine di persone, sangue sul selciato, la bandiera che copre un cadavere. Pochi istanti dopo ininterrotto si udirà solo il sibilo delle sirene delle ambulanze. Poco più di un’ora dopo i vigili del fuoco avranno l’ordine di ripulire la piazza con gli idranti. Il sangue verrà cancellato e con il sangue verrà cancellata ogni traccia della bomba. Alla fine i morti saranno otto, i feriti un centinaio.
La bomba fascista occultata in un cestino dei rifiuti uccise Giulietta Banzi Bazoli, anni 34, insegnante; Livia Bottardi Milani, anni 32, insegnante; Euplo Natali, anni 69, pensionato; Luigi Pinto, anni 25, insegnante; Bartolomeo Talenti, anni 56, operaio; Alberto Trebeschi, anni 37, insegnante; Clementina Calzari Trebeschi, anni 31, insegnante; Vittorio Zambarda, anni 60, operaio.
La strage di Brescia è una strage in diretta audio: non si vede, saranno poi le foto a raccontare il luogo, ma si può ascoltare. Riascoltare quarant’anni dopo il sindacalista della Cisl dalla tribuna, il boato, le urla della gente muove un’emozione profonda, l’angoscia e l’orrore, nel ricordo di morti, di strategie eversive, di paure profonde, di una democrazia in bilico, sotto i colpi della «strategia della tensione».
Dopo Brescia, sarà in agosto l’attentato all’Italicus. Un ministro degli interni, democristiano, ex partigiano cattolico, Paolo Emilio Taviani, annotò su suo diario: «Certo il clima è pesante. Assomiglia a quello del Cile prima dell’avvento di Pinochet». Le cronache raccontano del «golpe bianco» di Edgardo Sogno, del golpe di Junio Valerio Borghese, dell’arresto del generale Vito Miceli, capo del Sid, servizio investigativo, con l’accusa di cospirazione contro lo stato. In agosto, dopo l’Italicus, sotto il titolo Due mesi dopo Brescia, il Corriere della Sera scriverà: «Lo stato esita a punire i servitori infedeli, i capi intriganti, gli organismi malati… Sono note le colpe, le debolezze e gli atti concreti che hanno favorito le organizzazioni del terrorismo nero». Lo scriverà anche Pier Paolo Pasolini, in uno dei suoi più letti e ricordati articoli: «Cos’è questo golpe? Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe…». In quei mesi, dal Cile in avanti, Berlinguer e il Pci disegneranno la strategia del compromesso storico e dell’alternativa democratica. Seguiranno gli «anni di piombo».
Attorno a Piazza della Loggia si consumarono indagini, istruttorie, processi sentenze. Quarant’anni per capire quello che subito si era capito, cioè l’origine fascista della strage e la compromissione di organismi dello stato, dei servizi segreti, quarant’anni che non sono stati sufficienti però ad accertare la verità giudiziaria. La prima istruttoria si concluse nel 1979 e condusse alla condanna di alcuni esponenti della destra bresciana. Tra di essi, Ermanno Buzzi, che, in carcere in attesa d’appello, fu strangolato da Pierluigi Concutelli e Mario Tuti. In appello vennero tutti assolti e la Cassazione confermò le assoluzioni. L’ultima istruttoria terminò nel 2008 con il rinvio a giudizio di Delfo Zorzi, dal 1989 cittadino giapponese (grazie al suo matrimonio con una ricca signora di Okinawa), Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte (fascista e insieme agente del Sid, in piazza della Loggia quel giorno), Pino Rauti, Francesco Delfino ex generale dei carabinieri), Giovanni Maifredi (collaboratore del ministero degli interni). L’accusa fu di concorso in strage per tutti gli imputati, ad eccezione di Rauti, per il quale venne chiesta l’assoluzione «per non aver commesso il fatto», malgrado la responsabilità morale e politica. Tutti assolti o prescritti in primo grado, in appello il giudizio venne confermato. Le parti civili vennero invece condannate al rimborso delle spese processuali. Il 21 febbraio 2014 la Corte di Cassazione annullò le assoluzioni di Maggi e Tramonte, confermando quelle di Zorzi e Delfino.
Grazie alla direttiva del 22 aprile scorso, i fascicoli relativi alla strage di Piazza della Loggia non sono più coperti dal segreto di Stato

Repubblica 28.5.14
“Ora il rischio è un golpe populista”
Il sociologo Alain Touraine “Situazione tragica, serve un sussulto democratico”
di Anais Ginori


PARIGI. «SENZA un sussulto repubblicano, ci sarà un colpo di Stato democratico e populista ». Non è sorpreso Alain Touraine. «Il terremoto di domenica - dice il sociologo - è tutt’altro che inatteso. Solo una classe politica mediocre e scollegata dalla realtà è riuscita a non accorgersi di quel che
stava covando in Francia».
La scalata di Marine Le Pen non è stata presa sul serio?
«La situazione non è seria. Ètragica. Un francese su quattro ha votato per il Front National. Possiamo farci velo con l’astensione o con la particolarità di questo scrutinio europeo, che interessa poco alla gente. La verità è invece che c’è un movimento di massa che ha sfiduciato i cosiddetti partiti tradizionali: destra o di sinistra non fa differenza».
Dove nasce la svolta di questo partito nato nel 1972?
«Non c’è dubbio: nel 2011, quando è arrivata una Presidente giovane e donna, con una forte capacità di connettersi alla pancia della gente. Anche Ségolène Royal era così. Sapeva captare gli umori, le paure del popolo. Sono convinto che il ventunesimo secolo appartiene alle donne, ne ho scritto in un libro. Purtroppo non immaginavo che Royal sarebbe stata sconfitta e che sarebbe stata una Le Pen la prima donna ad avvicinarsi così tanto all’Eliseo».
Èdavvero una minaccia?
«Se non ci sarà una reazione forte e coesa da parte della classe politica, è quel che potrebbe accadere alle presidenziali del 2017. Sarà un putsch democratico perché il Fn si rivolge non ai cittadini ma agli individui in quanto consumatori. È un approccio populista che annienta il nostro sistema di valori, il legame repubblicano del vivere insieme».
Si tratta solo di un voto di protesta o c’è qualcosa di più?
«Il Front National si sta costruendo sulle macerie della società industriale. Molti analisti sostengono che ha preso i voti operai. Ma la classe operaia non esiste più e il Fn è un partito postindustriale, che aggrega gli esclusi dei territori perduti. Sono gli elettori che non abitano nelle città-mondo, come dice Saskia Sassen. Il vero partito popolare oggi non è più la sinistra, che ormai rappresenta solo la classe media».
Il Front National è davvero nazionale perché si è diffuso in tutto il paese?
«Per un lungo periodo, è rimasto confinato soprattutto al sud, tra commercianti e classe media. Con il suo discorso sociale, Le Pen è riuscita a conquistare consensi nel nord est deindustrializzato. Ora, alle europee ha anche preso molti voti nell’ovest, in regioni un tempo democristiane e moderate ».
Il paese si è assuefatto al discorso xenofobo e sciovinista del Fn, come sostiene Libération?
«La Francia è un paese particolare in cui ci sono sempre stati intellettuali impegnati. La nostra modernità si sviluppata attraverso un acceso dibat- tito intellettuale. Questa ‘Repubblica delle Idee’ è scomparsa. La maggior parte dei francesi ragiona secondo logiche della società consumista, in cui i valori economici sostituiscono quelli morali, filosofici».
Hollande dovrebbe sciogliere l’Assemblée Nationale come chiede Le Pen?
«In una democrazia sana avrebbe senso. Il socialisti hanno avuto il 14% dei voti. Tenendo conto dell’astensione significa che rappresenta meno del 6% del paese. Hollande è il Presidente più impopolare da quando esistono i sondaggi. Come può portare avanti le difficili riforme di cui la Francia ha bisogno? Detto questo, convocare oggi nuove elezioni significherebbe consegnare il paese a Le Pen, con un rischio di guerra civile, perché una parte dei francesi non accetterebbe l’estrema destra al governo».
Cosa dovrebbe fare Hollande?
«L’unica strada è dare più poteri al primo ministro Manuel Valls, che gode di una sua popolarità. Ma il sistema presidenziale francese non lo permette. Valls è l’uomo giusto nel posto sbagliato. Non riesco a immaginare come Hollande potrà durare ancora tre anni in questa situazione esplosiva. Siamo andando contro un muro. Con gli occhi bendati».

Repubblica 28.5.14
Parigi, lo spettro della decadenza
di Marc Lazar


LO SPETTACOLARE successo del Fn di Marine le Pen, divenuto il primo partito con quasi il 25%, ha sbalordito l’Ue. Secondo alcuni osservatori la Francia è ormai il nuovo malato d’Europa, colpito da una sindrome di declino storico.
EDè proprio questa sensazione di decadenza, largamente diffusa, a far progredire un partito come il Front national, che ne attribuisce la responsabilità all’Europa, ai partiti di governo e agli immigrati, facendo appello a una riscossa nazionale - che di fatto ha però il significato di un ripiegamento nazionale.
Non è la prima volta che la Francia attraversa una fase delicata. Per limitarci al XX secolo, nel periodo tra le due guerre è stata scossa dalle conseguenze economiche e sociali della Grande Depressione e da una profonda crisi di rappresentanza politica, caratterizzata dall’instabilità dei governi, dal dilagare della corruzione, dalla paralisi parlamentare, dalla mancanza di coraggio di gran parte delle élite e dalle lacerazioni della società francese. Nel maggio-giugno 1940 la sconfitta subita ad opera delle truppe naziste fu un trauma e un’umiliazione spaventosa, che lasciò un segno durevole negli animi, anche se cinque anni dopo la Francia si ritrovò a fianco dei vincitori. La IV Re- pubblica, nata nel 1946, assicurò la ricostruzione e quindi lo sviluppo economico, lanciando un processo di modernizzazione della società, e partecipò alla costruzione europea. Ma a partire dal 1954 fu corrosa dal cancro della guerra d’Algeria. I francesi si indignavano allora per le ricorrenti crisi di governo e per la mediocrità - tranne qualche rara eccezione - del personale politico. Perciò nel 1958 il generale de Gaulle apparve come un salvatore, e la V Repubblica fu plebiscitata.
Ai nostri giorni la Francia soffre sia sul piano economico che su quello sociale. Il deficit pubblico è del 4,3% del Pil, il debito pubblico del 93,5%. La competitività delle imprese sta crollando, l’attrattività del Paese è in calo. Nel 2013 gli investimenti esteri diretti sono precipitati in Francia del 77%, mentre nell’insieme dell’Unione europea hanno fatto registrare un aumento del 37,7%. Parigi, che nel 2012 era classificata come la quarta città più attraente del mondo, quest’anno è re- trocessa al sesto posto. L’uso del francese regredisce nel mondo, e l’influenza intellettuale e culturale della Francia si è appannata. Il tasso di disoccupazione ha superato il 10%, mentre crescono le disuguaglianze sociali, generazionali, territoriali e di genere, così come quelle tra francesi e immigrati. Il modello di integrazione degli immigrati traballa, provocando tensioni e ripiegamenti comunitari. La convivenza, il « vivre ensemble » francese appare in via di disgregazione. Rimasta senza bussola e senza un progetto, la Francia non è più il grande Stato-nazione che è stata, e fatica a ridefinire il suo posto in Europa. Ciò contribuisce, insieme ad altri fattori, ad alimentare la contestazione della costruzione europea. Oggi però, a differenza degli anni Trenta o del periodo della IV Repubblica, le istituzioni politiche non vengono messe in discussione, se non da alcune voci isolate che postulano una VI Repubblica. Quello che non funziona più è il sistema dei partiti. Le due grandi formazioni, il Partito Socialista e l’Ump (Union pour un mouvement populaire) di centro-destra, sono profondamente destabilizzati. L’insuccesso dei socialisti al governo non va automaticamente a vantaggio dell’Ump, scosso da episodi di corruzione, incerto sulla strategia da adottare e diviso sulla scelta del suo candidato alle presidenziali del 2017. Le elezioni europee stanno forse facendo emergere una novità: il passaggio a un sistema di tripartitismo squilibrato, a vantaggio della destra e dell’estrema destra. Quanto ai responsabili politici, hanno perduto gran parte della loro legittimazione e credibilità.
La Francia allora è condannata al tracollo? Le sue risorse sono innegabili. È la seconda potenza economica dell’Unione europea, possiede grandi gruppi industriali e di servizi competitivi, sviluppa settori di alta tecnologia, dispone di manodopera qualificata ad alto tasso di produttività, vanta prestigiosi istituti universitari e di ricerca, è demograficamente dinamica, può contare su infrastrutture di qualità e su un’amministrazione ancora efficiente, nonostante alcune disfunzioni. Infine, grazie al suo ricco patrimonio artistico e storico, è la prima destinazione turistica mondiale.
La responsabilità di valorizzare al meglio queste risorse spetta storicamente alle élite dirigenti del Paese, che devono rinnovarsi profondamente. Nell’interesse della Francia, ma anche di tutta l’Europa. (Traduzione di Elisabetta Horvat)

Repubblica 28.5.14
Cina. Contrordine compagni “L’arte non si copia”
A Shijiazhuang svetta una replica perfetta della Sfinge di Giza. Dopo l’ira dell’Egitto, il dragone fa dietrofront: “La distruggeremo”
di Giampaolo Visetti


PECHINO. MALEDIZIONE d’Egitto. Per la Cina i rapporti con i faraoni si confermano difficili. Lo scorso anno Pechino scoprì di essere diventata incubo e barzelletta del vacanzificio globale: un quindicenne, commosso da Luxor, ritenne il muro del tempio, salvo per millenni, meritevole di esibire ai posteri gli ideogrammi del suo nome, scolpito al coltello: «Ding Jiahao è stato qui».
Ora tocca alla sfinge di Giza. Una copia a grandezza naturale, retta da uno scheletro in cemento e acciaio, è comparsa nel parco dei divertimenti di Shijiazhuang, regione dell’Hebei. L’originale, risalente al Duemila avanti Cristo, fu eretto da generazioni di schiavi. Per la replica, dotata di amputazione nasale d’epoca, sono bastati quattro artigiani, una ruspa, due mesi e 1,5 milioni di dollari. Problema: il simbolo dell’Egitto è patrimonio tutelato dall’Unesco, e agli egiziani non garba farsi scippare gioielli che continuano a valere una fortuna. Se milioni di cinesi all’anno, invece di staccare il biglietto per Giza, ripiegano più modestamente su Shijiazhuang, anche le mummie di rivoltano nei sarcofaghi.
Il Cairo questa volta non si è limitato a disperarsi. Il ministro per l’Antichità, Mohamed Ibrahim, ha annunciato una denuncia internazionale, con richiesta di danni: violazione di copyright faraonico. Per assuefazione la Cina non usa reagire a chi l’accusa di copiare, dalla scarpa all’aeroplano. Con l’Egitto però, ambasciatore dell’Africa che il capitalismo cinese ambisce colonizzare, non si scherza. Per la prima volta Pechino è stata costretta a porgere pubbliche scuse e ha promesso che la simil-sfinge verrà distrutta. Il governatore dell’Hebei si è spinto ad assicurare che «d’ora in poi i simboli universali della cultura e dell’arte saranno rispettati anche in Cina». Come dire: se è proibito copiare una borsetta, è comprensibile vietare anche la produzione industriale del Colosseo. Questione di business, che i maestri del falso monumento hanno nobilmente battezzato “duplitecture”.
I mecenati asiatici della falsa sfinge, 80 metri per 30, hanno abbozzato che si trattava solo di una scenografia per il cinema, da tenere in vita giusto il tempo delle riprese. Peccato che il film fosse nelle sale tre anni fa e che l’opera, per i tour low cost della nuova classe media cinese, si sia nel frattempo trasformata in una celebrità. Dépliant di un colosso delle agenzie viaggio di Stato, su sfondo di piramidi: «Tra sfingi e mummie dell’Hebei ». In palio, l’esercito dei turisti del secolo. Lo scorso anno i cinesi hanno superato americani, giapponesi e germanici, diventando la prima potenza del settore. Viaggiano all’estero, fedeli all’ordine di «sogno cinese » del presidente Xi Jinping, ma pure in patria. E se a tiro di pullman possono farsi fotografare davanti all’icona altrimenti reperibile in Europa, risparmiare l’intercontinentale è percepito come una virtù.
L’altra Giza è del resto la punta dell’iceberg. Il “made in China” della bellezza altrui ha partorito centinaia di pezzi e il Paese, orgoglioso per la distruzione sistematica del proprio passato, pullula di Archi di Trionfo, torri di Pisa, Venezie, Tower Bridge londinesi, Versailles, torri Eiffel, Opera House, partenoni, David di Michelangelo e perfino di busti dei presidenti Usa scavati nella roccia. L’idea è che arte antica e atmosfera occidentale scatenino lo shopping, più di profumo e aria condizionata: un tycoon delle costruzioni di Shanghai, per valorizzare il metro quadro, ha riprodotto un villaggio austriaco e uno svizzero, vendendo le Alpi lungo il Fiume delle Perle. Subalternità imitative di ieri. Perché oggi la Cina, quasi prima economia del pianeta, non può più permettersi le brutte figure del “fai da te” all’europea. Gli ex compagni pagano e pretendono l’originale, addosso e pure in ferie. Così, tante scuse all’Egitto: ma anche il sosia di Mao è stato messo, rispettosamente, a riposo.

La Stampa 28.5.14
I giovani di Tharir spaccati dal voto
Egitto al voto: una minoranza dei giovani protagonisti della Primavera
si schiera con Al Sisi. Altri con l’avversario Sabbahi e molti astenuti
di Francesca Paci

qui

Corriere 28.5.14
Il legame tra Europa e Asia che fu spezzato da Lutero
La Riforma spostò l’asse dell’Occidente sull’Atlantico
di Paolo Mieli


Da alcuni anni gli storici si sono convinti che sia un errore studiare il passato considerando l’Europa come il centro del mondo, nonché la storia di tutte le altre aree geografiche alla stregua di un’appendice di quella del nostro continente. Ma nei fatti, in un modo o nell’altro, fino a poco tempo fa non sono riusciti a produrre una storiografia non eurocentrica. In qualche caso hanno manifestato una maggiore attenzione al resto del mondo, ma pur sempre riconducendo il tutto alle leggi ferree dell’eurocentrismo. Adesso un professore indiano, Sanjay Subrahmanyam, formatosi nel suo Paese con una tesi sulla storia del mercato e dei traffici commerciali nell’India meridionale e nel golfo del Bengala, chiamato poi a insegnare a Parigi, Oxford e a Los Angeles, è riuscito a scrivere un vero trattato di storia globale (Mondi connessi. La storia oltre l’eurocentrismo, secoli XVI-XVIII , edito da Carocci) in cui l’Europa ha un ruolo adeguato ma senza farla più da padrona. La «storia globale», scrive nell’introduzione Giuseppe Marcocci, «non va intesa come una scelta di campo, ma come una possibilità in più a disposizione degli storici che possono ricavarne nuove chiavi di lettura e interpretazioni interrogando il passato in forma diversa, proponendo rapporti inesplorati tra episodi e fenomeni che si sono dispiegati su una scala maggiore di quella locale o regionale e, soprattutto, cercando risposte generali a partire dallo studio di casi particolari».
Punto d’avvio di questo genere di ricerche è il Marc Bloch che alla fine degli anni Venti scrisse Per una storia comparata delle società europee (Einaudi). E, dopo di lui, tutti quegli autori che hanno successivamente allargato l’ambito della «storia comparata». Tra i quali Victor Lieberman, che ha dedicato ampi studi ai parallelismi fra regioni costiere e interne sia dell’Asia che dell’Europa corrispondenti a moderni Stati nazionali (Birmania, Siam, Vietnam, Francia, Russia, Giappone). Ma proprio in polemica con Lieberman, Subrahmanyam sferra «un decisivo attacco alla storia comparata tradizionale, giudicata troppo astratta e debitrice del paradigma dello Stato nazionale, esortando piuttosto allo studio di interazioni e integrazioni fra località diverse e distanti collegate da un filo di storie connesse» (Marcocci). Il suo è un invito a mettere da parte una comparazione storica tra oggetti assunti come nettamente separati tra loro, per «osservare fenomeni che mettono in relazione storie superando le barriere del tradizionale modo di pensare… Può avere a che fare con la globalizzazione, ma non necessariamente». All’«uso corrente» di «riservare quasi esclusivamente il nome di storia comparata al confronto tra fenomeni che si sono svolti da una parte e dall’altra di una frontiera di Stato o di nazione», Subrahmanyam oppone «un’altra applicazione del procedimento di comparazione: studiare parallelamente società al tempo stesso vicine e contemporanee, influenzate senza interruzione le une dalle altre, soggette nel loro sviluppo, proprio in ragione della loro vicinanza e del loro sincronismo, all’azione delle stesse grandi cause, e risalenti, almeno parzialmente, a una comune origine», sottolineando come un simile approccio consenta di «discernere le influenze esercitate reciprocamente». E le «correnti di prestiti finora messe in luce in modo imperfetto». Nonché di «mantenere la percezione delle differenze, che siano originarie o che siano il risultato di percorsi divergenti, tratto da uno stesso punto di partenza».
Ne viene fuori una storia del continente eurasiatico, dalla morte di Tamerlano (1405) in poi, nella quale è esplicito il tentativo di «slegare la nozione di “modernità” da una precisa traiettoria europea», dove i viaggi, le scoperte, un «nuovo senso dei confini del mondo abitati» e financo la tratta degli schiavi vengono individuati come caratteristiche comuni dell’intera area geografica.
Grande è il debito di Subrahmanyam con Serge Gruzinski, il quale prima di lui aveva messo in luce quanto il millenarismo del Cinquecento «avesse favorito l’esistenza di una comune atmosfera di attese, dalla corte del re Emanuele I del Portogallo a quella dell’imperatore Mughal Akbar, passando per il Marocco saadita, il grande sultano ottomano Süleyman il magnifico, la Persia safavide degli shah. Con l’aggiunta delle contaminazioni tra credenze islamiche e hindu attestate in alcune opere indiane». Gruzinski evocava l’immagine dello «storico elettricista», «capace di ristabilire le connessioni continentali e intercontinentali che le storiografie nazionali si sono a lungo ingegnate di scollegare o celare, rendendo impermeabili le loro frontiere», individuando l’avvio della «mondializzazione» nella proiezione planetaria della monarchia cattolica nel corso dell’unione dinastica tra Spagna e Portogallo (1580-1640). Modello d’analisi che, secondo Marcocci, «poggia sull’idea di un impero globale capace di essere un contenitore unitario per una simultaneità di “storie multiple”, rese possibili dalla straordinaria mobilità e mescolanza di uomini, oggetti e culture che caratterizzò il mondo iberico in età moderna».
Anche Jane Burbank e Frederick Cooper hanno interpretato gli imperi «come entità con una struttura plurale e in costante evoluzione, al cui interno si registravano interazioni fra storie locali e storie sovraregionali, ma anche forme di integrazione fra componenti culturali e territoriali differenti, riproducendo su scala minore i processi della storia globale». Così, nota Marcocci, «si arriva a mettere in discussione un’idea di storia del mondo moderno come mero predominio dell’Occidente e come semplice trasmissione di conoscenze, tecniche e stili di vita dall’Europa al resto del pianeta, per una via alternativa agli studi post coloniali che insistono, non senza rigidità, sul portato epistemologico della denuncia delle profonde permanenze del discorso coloniale e della relazione colonizzatore/colonizzato in ambito scientifico». Prima di ora si tendeva a negare che esistesse una coscienza storica dell’India meridionale prima della conquista inglese nei decenni finali del Settecento. Non che mancasse una storia dei secoli precedenti, ovviamente. Ma nessuno in loco l’avrebbe mai percepita, appunto, come storia. La storiografia era stato un «prodotto d’importazione» e da allora — fine Settecento, inizio Ottocento — anche l’India aveva imparato a raccontare la propria storia.
Subrahmanyam dimostra invece che «ogni comunità scrive storia nel registro discorsivo dominante nella sua pratica letteraria». Sicché è da respingere o comunque da considerare non valida in generale l’idea diffusa in Europa, secondo cui «la storiografia corrisponderebbe a uno specifico genere letterario, scritto in prosa e con regole proprie». E con uno straordinario lavoro di connessione tra racconti in versi e non delle diverse culture indiane (telugu, tamil, sanscrito, marathi e persiano) viene fuori un affresco storico dell’India precoloniale tra Cinque e Settecento davvero affascinante. Ad un tempo però Subrahmanyam si sente in dovere di combattere gli studiosi influenzati da Ashis Nandy con la loro «visione idealizzata di una cultura incorrotta e fondamentalmente astorica» che avrebbe caratterizzato l’India prima della dominazione inglese, la felicità di un tempo mitico cui far ritorno, liberandosi delle maledizioni dell’incontro con l’Occidente. Anch’essa, rappresentata da storici come Ranajit Guha, Gyan Prakash, Dipesh Chakrabarty, sarebbe subalterna a quella occidentale. Tali studiosi «sostengono», secondo l’autore di Mondi connessi , «pur con le loro differenze», che il senso storico sia un’importazione post-illuminista degli europei e relegano in un passato mitico i secoli precoloniali dell’India, ma poi non fanno nulla per riscattarli da tale condizione, poiché il loro studio «dal basso» delle società coloniali o post-coloniali porta a interessarsi del non-Occidente solo in rapporto all’Occidente, ossia a lavorare sempre su epoche posteriori all’Ottocento. Così, proprio mentre tentano di «provincializzare l’Europa», per stare al titolo di un libro di Chakrabarty, ne diventano nuovamente prigionieri. E invece quella storia dell’India precedente al 1800 va ricostruita e studiata a sé, provando a vedere se per caso, assieme ad altre storie della stessa epoca, non irradiò un fascio di luce che illuminò l’Europa. Ciò che effettivamente accadde. Ed è questa la scoperta di Subrahmanyam.
Tutto ha origine con l’Orda d’oro, cioè l’invasione mongola di un nipote di Gengis Khan che a metà del Duecento riuscì a conquistare metà dell’Europa e ad arrivare quasi fino a Vienna. Bulgaria, Ungheria, Polonia e i principati russi tutti (eccezion fatta per quello di Novgorod governato da Aleksandr Nevskij) confluirono in un regno turco-m0ngolo: un evento che ebbe l’effetto di mandare in pezzi le barriere tra Occidente e Oriente. Poi, a un certo punto, questo regno andò a sua volta in frantumi, ma ormai il mondo conosciuto era, per così dire, globalizzato e, a partire dal Cinquecento, si disponeva, sulla spinta dei mercati, a eliminare barriere e frontiere.
Furono la Riforma protestante, le guerre di religione e poi la lunga stagione dei nazionalismi a ricacciare indietro questo processo. O, meglio, a far prendere all’Occidente un’altra strada, quella che avrebbe avuto il proprio baricentro nell’Oceano Atlantico. Ma nel 1513, quando il governatore portoghese dell’India, Afonso de Albuquerque, penetrò con la sua flotta nel Mar Rosso, parve che le cose sarebbero andate in modo diverso. Al largo della costa occidentale dello Yemen, vicino all’isola di Kamaran, Albuquerque sostenne di aver ricevuto un segnale dal cielo che lo confermava nel perseguimento dei suoi obiettivi: attaccare e distruggere le città sante musulmane della Mecca e Medina; stringere l’alleanza con il leggendario Prete Gianni, sovrano dell’Etiopia; cercare conferma al destino del Portogallo di creare un impero universale esteso fino all’Oceano Indiano. Circa trent’anni dopo, nel 1540, un emissario veneziano, Michele Membrè, poté constatare che idee del genere erano coltivate nell’Iran safavide alla corte itinerante di Shah Tahmasp. Tahmasp prendeva molto sul serio credenze sciite sull’imminente ritorno dell’imam Mahdi, «colui che era stato atteso a lungo e che avrebbe annunciato la fine dei tempi e il giorno del giudizio». Nel corso di una campagna in Afghanistan alla metà del 1581 — cioè nell’anno 989 del calendario dell’Egira, seguito dalla maggior parte dei musulmani del mondo — il sovrano Mughal Jalal al-Din Muhammad Akbar prese a interrogare il gesuita catalano Antonio Monserrate (in missione presso la sua corte) su questioni relative al millennio, ossia sul «giudizio finale», se Cristo avrebbe dovuto essere il giudice e quando avrebbe dovuto verificarsi.
Ecco cosa sono le «storie connesse», una «via per collegare tra loro fenomeni del passato che troppo spesso la storiografia ha tenuto separati in modo artificiale». Stiamo parlando dei grandi fenomeni «che unificarono il pianeta nella prima età moderna e permisero a chi viveva nelle diverse parti del mondo di pensare già allora, seppure in modo differenziato, l’esistenza di processi su una scala veramente globale». Fenomeni — già studiati — che fanno riferimento ai microbi che si sparsero per tutta l’Eurasia a ridosso dell’invasione mongola (1236) e in seguito provocarono epidemie di peste sia in Europa che in Asia. O all’argento che, dopo la scoperta delle apparentemente inesauribili vene boliviane di Potosì, provocò, dalla seconda metà del Cinquecento, un vasto processo inflattivo che mise in ginocchio un’intera fascia continentale che andava dalla Spagna al Giappone. E anche all’entrata in scena, dopo la scoperta delle Americhe, di piante e animali che offrirono grandi opportunità di espansione agricola e di allevamento del bestiame, ma causarono altresì il crollo di stili di vita che erano rimasti più o meno gli stessi per migliaia di anni.
In questo contesto, ciò di cui si occupa nello specifico Subrahmanyam sono i movimenti politici millenaristici già messi in evidenza alla fine degli anni Cinquanta da Norman Cohn nel saggio I fanatici dell’Apocalisse (Edizioni di Comunità). «Tra la fine dell’XI secolo e la prima metà del XVI», scriveva Cohn, «in Europa avvenne ripetutamente che il desiderio dei poveri di migliorare le proprie condizioni materiali di vita fosse pervaso da fantasie di un nuovo paradiso in terra». L’autore prende come bandolo della matassa il millenarismo musulmano, ricordando che il 1591 dell’era cristiana corrispondeva all’anno Mille dell’egira: il decimo secolo per i musulmani era iniziato nel 1495 (901 dell’egira) e i cento anni che seguirono furono vissuti dal mondo islamico «con un’intensità di aspirazioni chiliastiche pari, se non superiore, a quella che aveva caratterizzato l’ultima fase del millennio cristiano». Sulla scia degli studi di Cornell Fleischer e di Richard Kagan, Subrahmanyam individua nella Spagna di Carlo V (regnante dal 1519 al 1556) e di Filippo II (sul trono dal 1556 al 1598) il centro propulsore di una rinnovata onda di millenarismo cristiano che riuscì a intercettare quella islamica. Ma «se gli storici dell’Europa medievale hanno riservato grande attenzione al valore di ogni sfumatura relativa al millennio, gli studiosi del mondo islamico sono rimasti molto più indietro». E cosa c’è da mettere meglio a fuoco? Verso l’anno Mille dell’Egira, le attese nelle aree di influenza musulmana non erano tutte apocalittiche allo stesso modo. Quelle più ottimistiche «ruotavano intorno a un possibile riordinamento del mondo conosciuto, per intercessione di un rinnovatore (mujaddid )». L’idea del rinnovatore «corse parallela, pur senza rimpiazzarla, a un’altra idea che aveva radici profonde nella storia islamica, quella dell’imam Mahdi — il Nascosto, o l’Atteso — che si sarebbe manifestato per promuovere una radicale riforma del mondo». E una volta che tutta l’umanità si fosse convertita all’Islam per l’intervento del Mahdi, sarebbe giunto il giorno del giudizio.
Come hanno mostrato Barbara Flemming e il già citato Cornell Fleischer, anche la più sunnita delle formazioni statali — l’Impero ottomano — ebbe una relazione prolungata con il mahadismo nei decenni centrali del Cinquecento, soprattutto all’epoca del sultano Yavuz Selim (1512-1520) e di suo figlio il sultano Süleyman (1520-1566). Ne è venuto fuori un curioso effetto di accoppiamento tra Süleyman e Carlo V che «appaiono, in raffigurazioni dell’epoca, come i due opposti di un gioco a somma zero». Due poli magnetici che «sembrano aver creato una sorta di campo di forza millenaristico nel Mediterraneo tra anni Venti e anni Trenta del Cinquecento, al cui interno altri attori recitarono una parte minore». Ma nella seconda metà del Cinquecento e nella prima del Seicento una parte decisiva la giocò in Iran lo Shah ‘Abbas I, a tal punto calato nell’atmosfera millenaristica che quando l’astrologo di corte gli predisse (nel 1593) che l’imminente congiunzione di Saturno e Giove avrebbe provocato la morte del sovrano regnante, non esitò ad abdicare a favore di un suo nemico. Ma solo per qualche ora e tenendo strette le leve del potere. Dopodiché, trascorsi i giorni funesti secondo gli astri, riprese il trono, fece uccidere l’uomo a vantaggio del quale aveva abdicato (in tal modo la profezia si era avverata) e avviò una lunga stagione di esecuzioni capitali.
Il millenarismo fu nel Cinquecento quello che internet è stato ai tempi nostri. Lungo le direttrici di profezie palingenetiche e catastrofiche fu riproposta in varie chiavi la leggenda di Alessandro Magno (per gli islamici Sikandar) il primo che aveva perseguito un imponente progetto di mondializzazione, basato sull’unificazione del mondo greco e di quello persiano. Sikandar adesso è raffigurato non solo come conquistatore, ma anche come veggente e gli sono attribuiti vari trattati di astrologia. Il suo impegno è quello di proteggere la civiltà euroasiatica contro la barbarie, talché erige un muro di rame ai confini del mondo per difendere la civiltà stessa dalle depredazioni di Gog e Magog (un popolo asiatico e selvaggio, presente nella tradizione biblica, cristiana e musulmana). Sempre nel Cinquecento anche l’India settentrionale, oltre all’Impero ottomano, entra in contatto con le attese millenaristiche islamiche.
L’India, alla fine del decimo secolo dell’Egira, fu segnata dal potente movimento millenaristico dei mahdawi, riconducibile alla figura carismatica di Sayyd Muhammad Jaunpuri (1443-1505) che, dopo essere stato costretto ad abbandonare la città di Jaunpur, divenne asceta e disse di essere il Mahdi. Poi, nei tardi anni Quaranta (del Cinquecento), fu la volta dello scontro, sempre in India, tra un erede di Sayyd Muhammad Jaunpuri, Shaikh «Ala», il sultano e i membri del clero ortodosso. Alcune fonti riportano che Shaikh «Ala», invitato a corte per chiarire le sue posizioni teologiche (si batteva per una forma pura di Islam) sconfisse i religiosi che facevano capo al sultano e rimproverò al sultano stesso l’eccessivo sfarzo esibito. Gli si chiese di dire che non pretendeva di essere il messia e, quando rifiutò di farlo, fu punito con la frusta. Ma la corte si spaventò per una concomitante epidemia di peste e decise di procedere ulteriormente contro il profeta che aveva adesso un vasto seguito: lo fece uccidere, calpestare dagli elefanti e gli rifiutò la sepoltura.
Questa «integrazione epistemologica di tradizioni più antiche in una più nuova appare come un tratto profondo delle ideologie millenaristiche legate all’espansione europea nel Cinquecento… Il millenarismo portoghese condivise certamente caratteri e temi con un’infinità di casi nell’area geografica che va da Istanbul all’India». Tutto questo «si combinò con le attese millenaristiche degli ebrei e produsse talora una miscela potente e inebriante, quale si coglie negli scritti del francescano spagnolo Alonso de Espina (ritenuto, probabilmente a torto, un converso) il quale affermava che vi fossero ebrei nei Carpazi, tra i palazzi di Gog e Magog, in attesa dell’Anticristo». La casa regnante portoghese degli Avis aveva fatto un uso del simbolismo millenaristico sin dall’inizio della sua parabola dinastica, ossia dalla guerra tra portoghesi e castigliani nel 1383-85, che portò all’ascesa al trono di Giovanni I (1385-1433). Questo re, battezzato dal popolo «il messia di Lisbona», «manipolò con abilità una situazione di crisi provocata dalle tensioni e dagli sforzi di una società che a fatica si stava riprendendo da una pesante mortalità causata dalla peste». I suoi successori, Emanuele I e Giovanni II, nel Quattrocento si misero sulla sua scia. E quando alla fine di quel secolo Vasco da Gama, tornando da Calicut (1499), raccontò di aver constatato in India una vasta inclinazione al cristianesimo, partì (1500) una spedizione guidata da Pedro Alvares Cabral con una lettera per il sovrano di Calicut piena di oscuri riferimenti escatologici. E nonostante gli sforzi di Giovanni III di ricondurre il tutto a una dimensione più terrena e politica, con il re Sebastiano, ucciso nel 1578 nel corso di una spedizione in Africa, il vento del millenarismo riprese a soffiare con forza.
Sembrò allora che per effetto di questo vento il mondo sarebbe stato guidato dall’Oriente, con l’Europa in una posizione gregaria. Poi, per effetto delle guerre di religione (e non solo) le cose andarono diversamente. Ma alcuni secoli di rigogliosità politico-culturale avevano gettato semi che in qualche modo hanno germogliato in anni recenti. «Non porta molto lontano la descrizione dei movimenti millenaristici del passato sempre come portatori degli interessi di oppressi che avrebbero impiegato una risorsa all’apparenza irrazionale per fermare la marcia altrimenti inarrestabile dello Stato razionalizzatore», avverte Subrahmanyam. Però ci sono tutti gli elementi per riconsiderare tutta questa storia sotto una luce nuova.

Corriere 28.5.14
I «Monuments men» che hanno salvato i capolavori del Belpaese
di Stefano Bucci


Missione compiuta. Quella di Deane Keller, di Fred Hartt e degli altri Monuments Men cui il generale Eisenhower affidò, alla vigilia dell’invasione alleata, la piu grande caccia al tesoro della storia dell’arte: il recupero dei capolavori sottratti ai musei italiani che nel maggio del 1944 le truppe tedesche in ritirata verso Nord, agli ordini del generale Karl Wolff, stavano cercando di portare entro i confini del Reich.
Un patrimonio incredibile (reperti romani, Michelangelo, Donatello, Caravaggio, Botticelli) che Keller, Hartt e gli altri della task force riuscirono «a strappare al nemico con diplomazia e determinazione». Missione compiuta, però, anche quella di Robert Morse Edsel che dopo aver raccontato con l’epopea di altri Monuments Men impegnati sul fronte europeo (in un libro del 2009 uscito in Italia da Sperling & Kupfer nel 2013, diventato un film hollywoodiano assai glamour con George Clooney, Matt Damon e altre star) ora ha puntato l’obiettivo sui «salvatori» dei capolavori dell’Italia post-bellica. Dal Cenacolo di Leonardo a Milano alla Reggia di Capodimonte a Napoli, passando prima di tutto dagli Uffizi e da Firenze.
Monuments Men: Missione Italia , (Sperling & Kupfer, pp. 432, e 16,90, traduzione Dade Fasic e Andrea Mazza) è appunto il titolo del libro di Edsel presentato ieri a Milano alla Pinacoteca di Brera dall’autore (uomo d’affari texano con la passione dell’arte) con la soprintendente Sandrina Bandera («È un’occasione per ricordare soprintendenti altrettanto eroici»), con il presidente degli Amici di Brera Aldo Bassetti («Ho vissuto di persona quei bombardamenti, si cercava prima di tutto di salvarsi la vita, ma poi c’era il desiderio di mantenere la memoria che l’arte porta sempre con sé»), Carlo Orsi («Ho conosciuto Robert a Firenze, mi ha subito conquistato per l’entusiasmo del suo collezionismo»), Marco Carminati e Philippe Daverio.
«Nessuna opera d’arte vale una vita umana, ma certo merita sempre rispetto e attenzione» ha più volte ripetuto un emozionato Edsel, mentre alle immagini della visita di Hitler agli Uffizi si sovrapponevano quelle del David di Michelangelo ingabbiato dagli artigiani fiorentini e quelle dell’Ultima Cena miracolosamente sopravvissuta ai bombardamenti, e del Ponte Santa Trinita distrutto.
Una storia bellissima e edificante, un plot avventuroso (colpi di scena, castelli abbandonati che nascondono Botticelli) ma anche l’occasione per Edsel per ribadire che, nella guerra di Iraq o per il minareto di Aleppo nel 2013 «questo rispetto le truppe americane non l’hanno più avuto». Una storia che si conclude, però, proprio come una favola: con Keller sepolto («amico tra amici» recita oggi la lapide) tra le mura di quel Camposanto di Pisa che aveva cercato di riportare a nuova vita dopo la guerra. Per lui un’altra missione compiuta.

Repubblica 28.5.14
La lingua di Gesù fa discutere il Pontefice e Netanyahu
Per il premier israeliano parlava ebraico “No, aramaico” ha ribattuto Papa Francesco
di Corrado Augias


LA VISITA di Francesco in Israele e Palestina si è chiusa con una piccola, garbata, polemica con il capo del governo israeliano Netanyahu. Sui territori e sulle colonie? No, sulla lingua parlata da Gesù.
Durante l’incontro Benjamin Netanyahu a un certo punto ha detto “Gesù è stato qui, in questa terra, e parlava l’ebraico”. “Aramaico”, ha subito corretto
il Papa.
Pronto a replicare il premier: “Parlava aramaico ma conosceva l’ebraico”. Chi aveva ragione dei due? Secondo l’autorevole linguista Ghil’ad Zuckermann, avevano ragione entrambi. La sua opinione può essere condivisa.
Anche questa breve polemica tra il Papa e il capo del governo rimanda infatti alla complessa situazione che già allora esisteva in Palestina, provincia romana di status imperiale come tutte le terre di confine.
IL legato di Tiberio, Lucio Vitellio, superiore di Pilato, risiedeva ad Antiochia in Siria e disponeva delle legioni acquartierate presso di lui. Il più famoso Ponzio Pilato, suo sottoposto, amministrava la Giudea ed aveva la residenza ufficiale a Cesarea Marittima. Si trasferiva a Gerusalemme quando le circostanze lo richiedevano. Era per esempio nella città santa, per controllare da vicino la situazione, in occasione delle festività di Pesach (Pasqua ebraica) quando Gesù di Nazareth venne arrestato. A Gerusalemme si celebrò infatti il suo processo.
Come in tutti i territori occupati, allora e oggi, era consueta la presenza dei soldati romani la cui parlata ufficiale era il latino anche se molti di loro avevano una diversa lingua madre. Un paragone
linguistico con la Legione straniera francese non è troppo lontano dalla realtà.
Gesù era un ebreo, secondo gli studiosi, è altamente probabile che parlasse il dialetto della sua regione, vale a dire il dialetto aramaico della Galilea. Però i vangeli ci dicono anche che frequentava le sinagoghe ed era in grado di leggere i testi biblici, dunque conosceva certamente anche l’ebraico, lingua nella quale è scritta la Bibbia. Quale diffusione avesse allora l’ebraico è materia di discussione. Alcuni studiosi sostengono che era una lingua corrente. Altri, invece, magari di tendenza antisionista se non proprio antisemita - spesso la politica confonde questi argomenti - tendono a sostenere che l’ebraico non era più una lingua parlata. In un campo dove non è possibile stabilire certezze assolute, è ragionevole immaginare la situazione come diffusamente multilingue, il che fa entrare nel novero delle possibilità linguistiche anche la lingua greca, considerata una certa ellenizzazione del Medio Oriente e della stessa Galilea. In ogni caso alcune tracce che si trovano nei vangeli sembrano indicare che Gesù usasse come lingua quotidiana corrente non l’ebraico, ma l’aramaico- galileo.
Gesù viveva in una situazione multiculturale in un paese occupato, ed era ben consapevole dell’importanza di questo dominio. Se non si tiene presente questo sfondo la sua azione diventa incomprensibile; per esempio la celebre frase che bisogna “dare a Dio ciò che è di Dio e a Cesare ciò che è di Cesare” si spiega solo considerando il peso che aveva l’esosa riscossione delle imposte dovute a Roma da parte dei vituperati “publicani”.
Tra la Giudea, regione di Gerusalemme, e la Galilea, nel nord del Paese ai piedi delle alture di Golan, esisteva una diversità di status. La Giudea si trovava sotto diretta dominazione romana mentre la Galilea aveva un suo re della dinastia degli Erodiani: il famigerato Erode Antipa, popolarmente noto per la danza della sua figliastra Salomè e la conseguente decapitazione del profeta Giovanni detto il Battista.
Al di là delle formali distinzioni di carattere giuridico, la situazione di fatto era di un Paese dominato dalla potenza romana della quale Erode stesso era un docile strumento, come del resto lo era il sommo sacerdote del Tempio (Cohen Gadol) che doveva la sua permanenza nell’incarico alla benevolenza del procuratore romano e, probabilmente, a qualche sotterraneo passaggio di denaro. È curioso notare che il sommo sacerdote Caifa e Pilato vennero dimessi dai rispettivi incarichi nello stesso anno (36 e.v.) Bisogna però anche dire che, quando Gesù era vivo, cioè durante i primi trenta anni del I secolo, non si ebbero episodi di rivolta antiromana come quelli che ci saranno nei quaranta anni successivi culminati, nel 70, con la distruzione di Gerusalemme e del secondo Tempio da parte delle truppe del generale Tito.

l’Unità 28.5.14
Amore fragile e spavaldo
Sentimenti: i nuovi adolescenti non credono al romanticismo
«Narciso innamorato» è uno studio di Charmet e Turuani sui ragazzi di oggi che cercano di proteggersi dal dolore scegliendo di non innamorarsi
In questa pagina ne anticipiamo un brano
di Gustavo Pietropolli Charmet e Laura Turuani


NEL CORSO DEGLI ULTIMI VENT’ANNI ABBIAMO CERCATO DI DESCRIVERE LE NUOVE MODALITÀ con le quali gli adolescenti delle ultime generazioni interpretano il percorso di crescita che li transita dall’infanzia alla vita del giovane adulto. Abbiamo cercato di descrivere il cambiamento avvenuto nelle relazioni familiari, le trasformazioni del ruolo materno e paterno, la nuova gestione del ruolo di studente, l’importanza acquisita dalla vita di gruppo, l’inquietante influenza esercitata dalla sottocultura dei mass-media, dall’universo pubblicitario, dalle suggestioni della realtà virtuale.
Ci è sembrato utile evidenziare l’enigmatica ragione per la quale una frangia di ragazzi soffre e avrebbe bisogno di aiuti educativi competenti e la forma inconsueta con cui manifesta il proprio disagio rispetto al passato.
In Narciso innamorato ci proponiamo di condividere con i lettori le ragioni e le espressioni del nuovo modo di amarsi dei ragazzi. Pensiamo sia una questione importante, sia perché rivela la profondità delle trasformazioni avvenute a livello di educazione sentimentale, sia perché preannuncia i futuri comportamenti della coppia adulta, costituita da mogli e mariti, madri e padri.
Si tratta di capire, per esempio, le ragioni per le quali è stato relegato in un cono d’ombra il rito del «fidanzamento», un tempo celebrato con grande evidenza perché sanciva un passaggio di ruolo sociale e di assunzione di responsabilità.
Si tratta di dare un significato affettivo profondo alla diffusa consuetudine fra i giovani di scegliere spesso precocemente una convivenza caratterizzata da un’ampia reversibilità che, lungi dal preparare al matrimonio, di fatto lo differisce di molti anni.
Anche la drastica diminuzione delle nascite merita di essere riletta alla luce del nuovo contratto affettivo e relazionale instaurato nella coppia amorosa fin dalla sua fondazione agli albori dell’adolescenza.
Gli adolescenti che portano il proprio dolore nel Consultorio Minotauro di Milano presso cui lavoriamo spesso soffrono d’amore. O perché non ce l’hanno, o perché l’hanno perduto, o perché la coppia è in crisi e non sanno cosa decidere.
Dopo molti anni di consultazioni con innamorati delusi, con disamorati e con quelli che non sanno come fare a entrare in partita o a chiuderla bene, ci sembra di avere intercettato un denominatore comune alle loro peripezie. Si tratta di un cambiamento significativo nella trama dell’amore adolescenziale.
I ragazzi si amano in modo diverso da come si amavano un tempo. Danno all’amore un significato nuovo e gli attribuiscono una funzione che sembra essere diventata la regola invece vece che l’eccezione, promuovendo un diverso galateo e nuovi motivi per soffrire: quando la coppia muore anche il dolore non è più quello di una volta.
Era forse inevitabile che succedesse: in famiglia, la scuola dell’amore, nei primi dieci anni di vita i genitori hanno insegnato ai figli ad amare così e a pretendere di essere amati così. Gli adolescenti perciò praticano l’amore sulla base della loro educazione sentimentale.
Quando a un adolescente che «sta insieme» a un partner diciamo «allora lo ami», ci guarda sorpreso e dice di no, non si tratta di questo, «gli vuole bene» e si «trova molto bene» con lui o con lei, non può più farne ameno e pensa quasi sempre a loro due che fanno insieme le cose, quelle del sesso ma anche molte altre, che hanno grande importanza perché se non ci sono quelle è inutile fare la fatica di stare insieme e perdere tempo…
È di fronte a queste risposte che ci siamo accorti di come sia tramontato l’amore di un tempo. I ragazzi non si ammalano più d’amore, sognano ma in modo sobrio, molto vicino alla realtà, e quindi sembrano soffrire molto meno. A volte sono gelosi, ma ne hanno ben donde, a volte hanno paura di perdere l’amore, sia il proprio sia quello dell’altro, ma non è più il terrore di un tempo, è un’eventualità da mettere in conto, da cui ci si può difendere correndo ai ripari fin dall’inizio della relazione. Abbiamo pensato che l’amore di oggi sia un modo di amare in linea con ciò che succede in tanti altri ambiti della crescita e delle relazioni con la realtà, con i coetanei e gli adulti significativi.
Abbiamo definito il nuovo adolescente «fragile e spavaldo», per un cumulo di ottimi motivi, ed è forse ovvio che il suo amore sia fragile e si distingua dal modo di amare delle generazioni precedenti, quello cioè che abbiamo sperimentato noi - genitori, docenti e psicologi -, che oggi siamo impegnati ad aiutarlo a crescere e a dare un nome alle passioni che prova.
L’adolescente di un tempo era disponibile a qualsiasi sacrificio pur di essere ricambiato; se non lo era, la sua adolescenza era rovinata per anni. Succedeva spesso che quasi tutto il seguito della giovinezza, se non della vita, fosse ipotecato dalla primaria delusione d’amore: il primo amore non si scorda mai non quando è andato abbastanza bene, ma quando ha lasciato cicatrici che sanguinano, anche dopo molti anni. Il povero innamorato idealizzava l’amato e quindi subiva un’emorragia di valore personale perché ogni bellezza e ogni fascino finivano sulla sua immagine. Lui rimaneva senza nulla ed era ovvio che temesse di essere scartato per la miseria della sua dotazione a fronte della principesca presenza dell’altro. Quando l’amore terminava, sospettava che fosse colpa sua, perché aveva amato male e non aveva saputo proteggere dalla avidità e stupidità infantili il proprio meraviglioso oggetto d’amore. Di conseguenza, chiedeva perdono in ginocchio e supplicava la grazia senza pretendere nulla, perché in fondo riteneva che l’esilio amoroso fosse la pena da scontare.
In questi anni di lavoro con gli adolescenti, narcisi, fragili e spavaldi, abbiamo cercato di capire i motivi per cui anche loro finiscono per soffrire, esprimendo le ragioni del dolore e le passioni che ne derivano con modalità meno scalmanate ma non per questo meno profonde e più facili da elaborare.
Naturalmente sappiamo che non bisogna generalizzare e che c’è un gran numero di adolescenti ancora disposti a innamorarsi in modo tradizionale, madi questi e delle loro tribolazioni ne hanno già parlato la letteratura, il cinema, le telenovele.
Dell’amore degli adolescenti attuali se ne parla, ma poco e malissimo, più nella cronaca nera che in quella rosa, più nei film porno che in quelli romantici, più per lamentarsi della crisi della coppia che per decantare le innovazioni portate dai ragazzi nel territorio della relazione amorosa.
Gli adolescenti e i giovani adulti che frequentano i consultori, gli spazi d’ascolto, i luoghi d’incontro, gli studi professionali degli psicoterapeuti, sono ovviamente in qualche modo infelici, in difficoltà nella realizzazione del loro percorso evolutivo, sconfitti nella costruzione di nuovi oggetti d’amore, incapaci di inserirsi in una rete di relazioni amicali. Si tratta quindi di un osservatorio particolare, eppure i dati che è possibile raccogliere nel corso delle consultazioni con gli adolescenti in crisi e i loro genitori sono di grande interesse, proprio perché nella relazione psicoterapeutica c’è un convitato di pietra, l’attesa da parte della coppia terapeutica che dalla vita reale «arrivino i nostri». E l’arrivo del salvatore è sempre l’arrivo della fatina o del principe azzurro. Se si tratta di trasformare il rospo in un principe serve il bacio della principessina, mentre se si tratta di svegliare la bella addormentata, spesso piuttosto magra, è necessario che il principe apra il sarcofago narcisistico nel quale si è rinchiusa, la baci e la porti con sé nel castello della sessualità genitale e della relazione oggettuale matura.
Pur essendo un osservatorio particolare, si tratta di un laboratorio all’interno del quale tutto ciò che si pensa, si ricorda e si progetta è finalizzato alla costruzione di una nuova relazione d’amore, attraverso il sostegno da parte del terapeuta nei processi di separazione e di individuazione del ragazzo e attraverso l’elaborazione delle angosce che lo costringono a stare fermo o ad attaccare il corpo o l’oggetto d’amore. Il lavoro psicoterapeutico in adolescenza è sostanzialmente finalizzato a far sì che l’adolescente, maschio o femmina, si prepari all’incontro con il proprio oggetto d’amore. In termini più retorici si potrebbe dire che la psicoterapia dell’adolescente è una sorta di post-educazione che fa seguito a quella familiare, una sorta di sala parto allestita per preparare la seconda nascita, quella sociale e sessuale dei ragazzi, che sono alla ricerca di amici e di una coppia amorosa all’interno della quale esercitare la loro capacità di amare, la nuova facoltà di lasciarsi amare, e ovviamente l’accesso alla sessualità genitale e ai suoi piaceri.

l’Unità 28.5.14
Il vero rottamatore si chiama Mr. Capitale
di Bruno Gravagnuolo


IL PATTO TRA LE GENERAZIONI È INDISPENSABILE. Non solo alla sinistra, ma alla vita e alla civiltà. E ha ragione Zagrebelski, nel suo intervento a Dialoghi sull’uomo, a denunciare i rischi di giovanilismo e rottamazione. Che lacera genitori e figli, innovazione e tradizione. Non si può fare tabula rasa e ricominciare senza pregiudizi e basta: illusione infantile. Che condanna i novatori a rivivere senza saperlo le tragedie del passato: populismo, totalitarismo, mitologie purificatrici di massa. Tragedie che tornano in forma di farsa: vedi il protagonismo comico e distruttivo di Berlusconi e Grillo. Forme di fascismo light. Dove autoritarismo e carnevale si mescolano. I giovani si mangiano il totem dei genitori, diventano peggio di loro, e finiscono manipolati. Sicché il passato va rielaborato e anche superato. Ma scegliendone la parte vitale: che per la sinistra è il riscatto dei subalterni. La speranza tradita, lasciataci da chi non c’è più. Bene, ma oggi chi è il gran giovanilista? Il vero rottamatore che divide vecchi e giovani? Nessuno dei leader a cui pensate. È Monsieur Capitale, come lo chiamava Marx e abita ovunque nel mondo. Compone, scompone, delocalizza, smaterializza. Rende cose e persone fantasmi. È invisibile, irresponsabile, inafferrabile. Vuole gente flessibile e prona. Bilanci all’osso per le persone. E prodighi per finanza creativa e fisco dei ricchi. È onnipotente e austero. E in Europa comanda rigore e fiscal compact: per fare i suoi comodi. Magari alleandosi col populismo per bene delle nazioni più organizzate, tipo Germania. Saprà Renzi, forte del consenso attuale, rilanciare questo tema cruciale e far cambiare verso a Mr. Capitale? Saprà raccogliere il buono del passato, eliminare lo statalismo privato nostrano, e fare davvero un partito di massa e non personale? Ha un’occasione storica davanti. Altrimenti il giovanilismo farà trionfare «di nuovo» i fantasmi distruttivi del passato. E la disillusione sarà cocente.

l’Unità 28.5.14
Quello che oggi ci manca di Enrico
di Ettore Scola


Nella storia dell’umanità alcune epoche sono state particolarmente segnate dal passaggio di un innovatore - profeta, poeta, scienziato, politico - il cui nome, preceduto da un avverbio, prima e dopo, definisce l’epoca nella quale è vissuto: prima e dopo Cristo, prima di Giotto, dopo Colombo, prima di Galilei. Fino ai nostri contemporanei, che sono più vicini a noi, ma spesso restano lontani nella memoria.
Il film Quando c’era Berlinguer - bello per la commozione che suscita e per la discrezione che lo distingue - si apre con una domanda che il regista pone a una decina di studenti scelti in varie città italiane: «Chi era Berlinguer? ».
Il nome sicuramente evoca qualcosa nell’inconscio di quei ragazzi, poco o nulla nella loro conoscenza: era uno scrittore, un uomo politico coreano, uno di destra, uno dell’antimafia… ma la maggior parte si rifugia nella particella nazionale del «boh». Walter Veltroni, il regista, non li sollecita più di tanto, lascia al suo film il compito di parlare dell’eurocomunismo, dello strappo dall’Unione Sovietica, della questione morale come centro dell’intera concezione politica.
Il film mostra anche i milioni di comunisti e di non comunisti che piansero la morte di Berlinguer come la morte di un fratello. E torna in mente quell’oceano di giovani - della stessa età di quelli intervistati oggi da Veltroni - che quel giorno, io e tanti altri registi, interrogammo da via Botteghe Oscure a piazza San Giovanni: tra le migliaia di volti in lacrime ricordo quello di una ragazza che singhiozzando mi disse: «Enrico era uno preciso».
Ecco, la precisione. Quella ragazza piangeva perché sentiva che nel mondo appannato e vago che la aspettava, veniva a mancarle un riferimento preciso, netto e raro.
In quale inceneritore, in quale discarica, in quale mercatino dell’usato finiscono i nostri ideali dismessi, i nostri pensieri smarriti? Quando Orlando perde la ragione per Angelica, Ludovico Ariosto immagina che tutto ciò che l’uomo va perdendo sulla Terra finisca sulla Luna. In attesa che qualche poeta più recente, o uno scienziato più attrezzato, lo scopra e ce lo comunichi, potremmo provvedere personalmente ad apparecchiare una piccola luna di cose buone perdute, da consegnare alla generazione che si trova più sguarnita di altre ad affrontare il futuro.
Ma anche questo andrebbe fatto con precisione.

Nova de Il Sole 24 25.5.14
Giornalismo Evoluzione Tecnologia
Informazioni dal futuro
Dal New York Times filtra un report che traccia l'innovazione nell'editoria A partire dall'integrazione difficile tra carta e web
di Enrico Pedemonte


Questa settimana al New York Times sono accaduti due fatti inattesi: la direttrice Jill Abramson è stata licenziata e un rapporto riservato sul futuro digitale del giornale è filtrato all'esterno. C'è un legame tra i due episodi? Ufficialmente no, ma leggendo le 96 pagine del documento (intitolato: «Innovation») è lecito pensare di sì. Per due motivi. Primo: si tratta di una dura requisitoria contro la cultura conservatrice dei vertici e della redazione. Secondo: il documento è firmato (tra gli altri) da Arthur Gregg Sulzberger, figlio ed erede dell'editore. Non c'è da stupirsi dunque se la Abramson è stata rimossa. Ma il caso supera i confini del Times perché «Innovation» sta facendo il giro del mondo e viene indicato come una pietra miliare nell'impervia e ineluttabile strada verso il giornalismo digitale.
Il Rapporto non mette in discussione l'eccellenza della redazione ma la sua capacità di raggiungere il lettore sul web. Il dito è puntato contro una cultura obsoleta che mette al centro il giornale cartaceo, con i giornalisti convinti che il lavoro sia concluso quando un articolo viene mandato in stampa e i vertici che dedicano troppo tempo a definire una prima pagina sempre meno strategica. Infatti i lettori della versione di carta sono ormai una minoranza: 5 milioni contro i 30 milioni del web (negli Usa) e i 20 milioni del mobile. Ma ci sono segnali preoccupanti: i numeri sono in discesa e la home page è frequentata ormai solo da un terzo degli utenti. I lettori che arrivano dai social network (il 30%) non bastano a compensare il calo.
Incredibilmente giornali digitali assai meno prestigiosi fanno meglio del Times. E non solo un sito aggregatore come l'Huffington Post (90 milioni di utenti al mese nel mondo, il doppio del Times), ma anche BuzzFeed (40 milioni), snobbato per il suo giornalismo pop, le liste, le classifiche, le gallerie di immagini. Succede che quando questi siti pubblicano articoli basati sugli scoop del Times, vengono cliccati molto più del sito originario. Perché sul web la strategia di comunicazione vale almeno quanto la qualità dei contenuti. E il numero degli utenti che arrivano a BuzzFeed dai social network è sei volte quello del Times.
L'allarme lanciato dal Rapporto è affilato come una lama: il New York Times, come tutti i giornali tradizionali, è un gigante dai piedi d'argilla. Non solo si stanno moltiplicando i concorrenti digitali (Upworthy, First Look media, Vox...) ma stanno risorgendo antichi rivali come il Washington Post, grazie agli ingenti investimenti di Jeff Bezos, fondatore di Amazon. E poi ci sono i protagonisti di sempre, il Financial Times e il Wall Street Journal, che nei mesi scorsi hanno annunciato la scelta strategica del "Digital First". Che cosa significa?
Il direttore del Financial Times, Lionel Barber, lo scorso ottobre lo ha spiegato così: l'orario di lavoro dei giornalisti viene anticipato; gli articoli vengono pubblicati al più presto sul web (e sul mobile), meglio se nei momenti di picco di lettura; la sera un piccolo team editoriale decide il menu da mandare in edicola, scegliendo tra quanto già pubblicato online. Un completo rovesciamento di prospettiva: il focus non è più sul giornale come manufatto complesso, ma sui singoli articoli, ciascuno dei quali deve essere promosso in modo adeguato. Perché questa svolta? Perché nell'ottobre 2013 gli abbonamenti digitali del Ft già superavano di centomila le copie vendute su carta.
Una strategia analoga è in via di realizzazione al Wall Street Journal dove, al centro della redazione, sono stati collocati gli esperti di social network e analytics (che seguono i flussi del web). Al contrario al New York Times questi tecnici vengono snobbati in nome dell'antica separazione tra redazione e area business. Verrà anche qui il momento del "Digital First"? Certo, ma non oggi, perché il sorpasso del digitale non c'è ancora stato: gli abbonati alla versione cartacea sono 1,25 milioni, quelli digitali 760mila. Traducendo in fatturato, la carta fornisce il 75% del fatturato pubblicitario (497 milioni su 667) e l'82% di quello da abbonamenti (674 milioni su 824). Ma il tempo stringe, le abitudini dei lettori cambiano in fretta e i concorrenti sono più avanti.
La parola chiave è "sperimentare". Senza troppa paura di sbagliare. Tra le richieste contenute nel Rapporto, la più eversiva è forse quella di far sedere allo stesso tavolo tecnologi e giornalisti. Perché il giornalismo – ormai è chiaro – è diventato una professione tecnologica.