giovedì 29 maggio 2014

Repubblica 29.5.14
Non cercate la Storia leggendo la Bibbia
di Guido Ceronetti



UN MIO carissimo amico, Gino Girolomoni, perso pochi anni fa, creatore del marchio Alce Nero (oggi Coop), rifondatore di un antico monastero tra le Cesane di Urbino, adattato ad abitazione e agriturismo, ad ogni primavera, all’incirca nel mese di Aviv, andava nel Néghev di Israele, a vivere in tenda e a raccogliere cocci di anonimi insediamenti umani insieme alla missione archeologica di Emanuele Anati, italiana, e non so quanto ben vista dai colleghi israeliani. L’idea fissa di Anati, adottata con entusiasmo da Girolomoni, era che in quel luogo, detto Har Harkòm, fosse da collocare il cuore geografico e mistico della rivelazione biblica: il vero Sinai, la collina in cui Mosè parlava con Dio, da cui discese con le tavole della primitiva Legge, dove il popolo dell’Esodo accampato si faceva il fuoco per arrostire cavallette grosse come pagnottine. Per Gino e Anati il lavoro scientifico era il sostegno obbligato e la prova certa del racconto scritturale dell’Esodo.
Facendo vitaccia per qualche settimana nel deserto, col pensiero che in quei sassi, sabbie, reperti millenari c’era il ricordo di un contatto ineffabile tra uomo e divinità.
NON solo presentita, ma presente come autonominarsi di tutto ciò che è Essere (il Tetragramma del Sinai è una torsione impronunciabile del verbo essere stesso), Gino era felice. Accidenti, vi sembra poco? Io annuivo, non gli opponevo il mio scetticismo: lo sapevo, lo so a sazietà che fuori della pura illusione è inutile cercare la felicità, e quando soffiamo su un’illusione (nella scuola la sega elettrica antillusioni è al lavoro per tutto l’orario, e poi non lamentiamoci) reiteriamo un delitto. Tuttavia avrei voluto dirgli: è in te che Dio si nasconde, nelle pietraie del Néghev non lo troverai.
Spinoza, per amore dell’ arido vero ( meglio: per la sua caccia all’Essere fin nei costrutti grammaticali) subì la maledizione della Sinagoga, visse da reietto, un fanatico tentò di ucciderlo. Ma comincia da lui, a metà Seicento, il lungo, fatato, e a rischio di roghi, cammino della filologia biblica critica, una delle grandi avventure umane.
Ho camminato per una cinquantina d’anni lungo le vie segnate, come chiodi di alpinisti nelle pareti di roccia, da quei prodigiosi semitologi, che hanno decifrato il cuneiforme, rintracciato l’ugaritico, riparato infiniti errori testuali, scoperto fonti, liberato la Scrittura dai grovigli di scrupoli e trucchi massoretici - ma, di generazione in generazione, da un secolo all’altro, finirà che di parola sacra, di lingua profetante, non ne resterà più niente. Perché demolire sacro per risacralizzarlo nella verità è un conto: demolire per non lasciare che il deserto, un altro. E sul versante archeologico, a quanto pare, il deserto si è allargato molto. Il titolo, vistoso e illustrato, sulla Repubblica del 29 aprile scorso, mi ha fatto sussultare; diceva, categorico: “Da Gerico a Re Salomone la Bibbia smentita dagli archeologi israeliani”. Non c’è da goderne affatto.
La decostruzione veterotestamentaria, come la chiama Vanna Vannuccini, in realtà può essere fatta cominciare da Abramo, altro bel tipo di nomade, dalle lenticchie di Esaù, dalla capanna di Caino e altri Har Harkòm Girolomoni ignoti a Wellhausen. A rigore, cancellando tutto, in base a quanto dice il prof. Herzog dell’Università Ebraica, neppure il nome Israele è legittimo. Il nome presuppone che sia vero o creduto vero lo scontro fisico violentissimo narrato nel trentaduesimo Genesi tra il nomade Giacobbe e uno Sconosciuto che si palesa essere ben più di un angelo, addirittura Dio stesso. Lo sconosciuto, dopo un Catch senza testimoni che dura una intera notte, dice all’intrepido antagonista: «Da oggi in poi ti chiamerai Israele!» e lo azzoppa con un colpo nel nervo sciatico. Sparito, non ricomparirà. Israel significa “uno che lotta con Dio”, ed è la caratteristica eterna di Israele: la non rassegnazione, la polemica, il contrasto con la Divinità ignota, che lo rende zoppo tra le nazioni, forzato a essere diverso e maltollerato, fino e oltre la Shoàh, sempre. Israele, come realtà simbolica, è metareligioso e metastorico. La nostra, mi diceva il rabbino che mi impartiva ebraico, è una fede che nessuno capisce. E un filologo tedesco si domandava: come può, una parola così povera, che nega ogni cultura, produrre la più alta cultura? Mentre gli archeologi israeliani concludono con la negazione radicale della storia biblica, in specie dell’Esodo e del regno davidico (spero non tutti, a Gerusalemme, concordino col negazionismo dell’intervistato), la verità simbolica di quelle storie mute agli scavatori vola aldisopra di tutte le storie del mondo, marcando a fuoco la vicenda di Israele.
Se l’archeologo mi avverte, davanti al Muro Occidentale (celebre nelle nostre lingue come Muro del Pianto) che tutte quelle lacrime di mezzo mondo, preghiere, talismani non valgono un fico perché quel muraglione superstite, creduto avanzo del Secondo Tempio, su cui gettò la torcia incendiaria il legionario romano nel 70 e. v., non è che una pia ipotesi senza fondamento, certamente io caccio via il dotto come un tafano molesto. L’identità ebraica è un valore costruito da qualche millennio; l’identità israeliana, nata ebraica tra Vienna e Londra un po’ più di cento anni fa, salutata messianica nel giugno 1967, dalla guerra permanente è tenuta in vita: nella pace che tutti si augurano si perderebbe.

Repubblica 29.5.14
Stefano Fassina
“Su Matteo ho sbagliato, è l’uomo giusto al posto giusto”
intervista di Concetto Vecchio



ROMA . Montecitorio sul far della sera. Sprofondato in una stanchezza metafisica Stefano Fassina a un certo punto bisbiglia: «Renzi l’avevo sottovalutato».
Cosa ha pensato quando ha visto lampeggiare quel 40 per cento?
«Un’apparizione! Un sentimento di stupore, d’incredulità. Ci siamo attaccati ai telefonini e il dato era uniforme in tutte le sezioni. Vedere quel 4...dopo il simbolo del Pd...».
Quindi Renzi si è rivelato più bravo di voi bersaniani?
«Ha dimostrato grandi qualità: è l’uomo giusto al posto giusto».
Lei è stato un avversario del segretario,
perché è finito nella foto dei vincitori?
«Ci sono, ma avrà notato che sono molto defilato, del tutto nascosto: in un angolino ».
Era in imbarazzo?
«No, ma a mettermi in mostra mi sarei sentito stupido, infantile».
Come mai Stumpo e D’Attorre si riconoscono distintamente?
«Ognuno ha la sua sensibilità. Questa vittoria non è la mia, sono un dirigente del Pd, ma non sono stato in prima linea in tutta la campagna per le Europee».
Adesso anche lei tesse grandi elogi del premier: possiamo definirla renziano?
«Questi sono divertimenti di voi giornalisti ».
E allora cos’è?
«Fassiniano».
Fonda una sua corrente?
«Resto me stesso. Non salgo su nessun carro del vincitore, non voglio poltrone. E ragiono con la mia testa. Continuo, ad esempio, a pensare che puntare consolidare il 40 per cento con la Terza via di Blair vorrebbe dire andare a sbattere».
Fassina, lei definiva Renzi «il portaborse di Pistelli che ripete a pappagallo le ricette della destra».
«Ricordo perfettamente, ma lui aveva detto che io non prendevo nemmeno i voti del mio condominio. Comunque è roba vecchia».
E infatti ora dice: «Renzi è stato il nostro valore aggiunto».
«Le dirò di più: Matteo ha capito più e meglio di noi che la fine di una stagione, intuendo che stava avvenendo un passaggio d’epoca: è un grande merito. Glielo riconosco ».
Bersani invece?
«Nel 2013 l’errore è stato quello di ritenere che la gente ci avrebbe premiati per l’appoggio al governo Monti. Alcuni dei dirigenti di allora propugnavano apertamente “l’agenda Monti” mentre nel Paese ribolliva il disagio sociale, la protesta dei senza lavoro, l’antipolitica ».
Perché Renzi ha preso voti anche a destra?
«È stato percepito come estraneo al circuito consolidato che aveva dato vita al Pd, e poi ci metta che Berlusconi non ha più nulla da dire e Grillo è un avventuriero ».
E’ un bene prendere finalmente i voti dell’altro campo?
«Lo trovo positivo. Matteo dimostra una capacità drastica di cogliere i problemi: l’altra sera da Vespa l’ho visto proporre ricette keynesiane. Mi è piaciuto ».
Dopo «il Fassina chi?» vi siete più parlati?
«Qualche messaggino ogni tanto: ma quella resta una critica politica, infatti io mi dimisi dal governo».
Ma che spazio potrà avere uno come lei nel Pd?
«Abbiamo preso il 40 per cento anche perché è rimasta un’anima di sinistra».
Quindi in fondo è anche merito vostro?
«Il Pd potrà rimanere così forte se rimane un partito plurale e non schiacciato su un’unica posizione e io continuerò a battermi per le idee nelle quali credo, ma onore a Matteo: ha reso credibile una proposta di vero cambiamento».

l’Unità 29.5.14
Gianni Cuperlo
«Gestione unitaria? Nei prossimi giorni dovremo concorrere tutti a trovare le soluzioni più utili al bene del governo e del nostro partito»
«Ma quale carro del vincitore, tutto il Pd si è battuto per salvare l’Italia dal caos»


Onorevole Gianni Cuperolo, è l’effetto Renzi ad aver determinato questo risultato alle elezioni europee?
«Il suo impatto è stato decisivo. Riconoscerlo è un atto di onestà. Vedo che si fa dell’ironia sul famoso carro del vincitore dove tutti si affannerebbero a salire. Mi pare una caricatura, se posso dirlo anche ingenerosa. La verità è che l’intero partito, il suo gruppo dirigente, si è mosso con la convinzione che il traguardo davanti a noi fosse decisivo e i rischi di tenuta del nostro ordinamento una incognita vera. Nessuno si è tirato indietro e ciascuno ha fatto la sua parte. Detto ciò ame colpisce un altro aspetto. Ed è che l’Italia di fronte alla scelta tra l’avventura e la scommessa delle riforme ha scelto la seconda via. In questo la chiave della speranza ha davvero vinto sulla rabbia. Poi certo, il voto non era un referendum su Palazzo Chigi, ma dalle urne il governo è uscito rafforzato e adesso l’Italia è più autorevole, prima di tutto in Europa».
L’altra sera al Nazareno c’erano le nuove leve del Pd, nessun vecchio big. È passata anche attraverso questo cambiamento profondo la vittoria?
«Si è vinto per tante ragioni, e anche per questo messaggio di novità che ha riguardato la più marcata staffetta del potere che il Paese abbia conosciuto negli ultimi decenni. Personalmente il termine rottamazione, se applicato agli umani, l’ho sempre trovato sguaiato e non ho mutato opinione. Credo, invece, nel ricambio e rinnovamento, tanto più in un Paese segnato da conservatorismi, burocrazie e rendite insopportabili. La politica ha iniziato una rivoluzione. Altri meno. Sa cosa mi ha colpito in questi giorni? Che mentre erano nuovi molti dei protagonisti, nel governo e nei partiti, su un altro piano conduttori, commentatori, analisti erano e sono gli stessi da trent’anni a questa parte. Sono quelli che ci hanno spiegato cosa dovevamo pensare di Craxi, Berlusconi, Prodi, e oggi, con la stessa baldanza, ce lo spiegano di Grillo e Renzi. E potremmo continuare con economia, finanza, professioni... Una riflessione seria sulle élite di questo Paese prima o dopo sarà giusto farla per vedere dove albergano davvero le “caste”».
Renzi chiede la gestione unitaria del Partito, lei come intende contribuire a questo nuovo processo. Entrerà in segreteria?
«Ho affrontato una battaglia al congresso, l’ho persa, ho riconosciuto la legittimità piena di Renzi un minuto dopo e tanto più la riconosco oggi alla luce di questo risultato. Penso però che il modo migliore di aiutare lui e il Pd a fare le riforme giuste sia di esprimere le proprie convinzioni, con lealtà e in autonomia. In fondo il discrimine tra i partiti carismatici e gli altri passa da qui. Nei primi può capitare che gli accidenti e l’abilità di un capo scatenino un plebiscito. Nei secondi contano molto di più il pluralismo delle idee e un radicamento sociale destinato a irrobustirsi nel tempo: noi siamo questo e dopo domenica abbiamo tutti una grande responsabilità. In altre parole quel 40% carica Palazzo Chigi di un dovere enorme, ma insieme ci restituisce per intero la questione del partito che immaginiamo, del suo profilo e funzionamento, della prassi che si coltiva nella sua direzione e nella vitalità del suo pluralismo. Io leggo la gestione unitaria della nuova fase come la scelta di condividere questo bisogno. Se è così non solo sono favorevole, ma credo che nei prossimi giorni dovremo concorrere tutti a trovare le soluzioni e l’equilibrio più utili al bene del governo e del nostro partito. Questo vuol dire promuovere persone di qualità, anche dai territori e fuori dalle filiere di corrente».
Come si cambia la politica Ue, alla luce di questi nuovi scenari politici econ l’avanzata degli euroscettici?
«Il voto di Parigi è una ferita nel cuore del continente. Una formazione euro- fobica coi trascorsi del Front National si inerpica su tutte le altre mentre i socialisti arrancano sulla soglia del 15%. All’Spd è andata meglio, e meglio ancora a Tsipras in una Grecia che la crisi e la troika hanno violentato nella sua dignità di popolo e di nazione. Nell’insieme le forze e i movimenti anti europei occuperanno un quinto degli scranni di Strasburgo. Non è lo sfondamento temuto da alcuni, ma neppure un dato che si può tacere. Tutto questo restituisce centralità alla ricetta che è stata il cuore della nostra campagna. Non meno Europa, ma un’Europa radicalmente diversa. Come ha detto il capo del governo, un’Europa che non si limiti a salvare le banche ma senta il dovere morale di salvare migliaia di vite dalle onde del Mediterraneo, che si e ci da a sanzionare anche i governi che calpestano i diritti dei lavoratori o le tutele sociali fondamentali, che passi finalmente ad una vera unione bancaria e fiscale. Che faccia dei diritti umani, a cominciare da quelli delle donne, la bandiera non di una politica ma di una civiltà. Che liberi risorse prendendo atto che senza una diversa politica monetaria e un piano di investimenti pubblici esterni al patto di stabilità l’economia è come una Mercedes a secco di benzina».
Qui, in Italia, ci sono le condizioni per accelerare sulle riforme o c’è il rischio di continui stop and go?
«Credo e spero di sì. Non ci sono più alibi e il mandato democratico delle urne lo ha certificato in quella percentuale da ebbrezza. Riforma costituzionale e nuova legge elettorale camminano assieme. Sulla seconda conservo le mie riserve. Credo vada migliorata sulle soglie e la doppia preferenza di genere se non vogliamo incorrere nuovamente nella scure della Consulta. Sul Senato si parta dal testo base e si correggano i limiti che ancora ci sono. Stiamo parlando della nuova architettura dello Stato, dei contrappesi necessari, del sistema delle garanzie costituzionali. La medaglia non la vince chi fa spendere meno, ma chi rende la democrazia più forte e credibile. Comunque ce la faremo, sì. Ne sono certo».
Sull’intervista di Migliore che pensa ad un unico partito della sinistra?
«Penso che il PD debba aprirsi e debba farlo su più fronti. La conquista di una quota del voto moderato, dell’elettorato di Sc, del popolo delle partite Iva è importante. Ma è decisivo allargare il campo alla nostra sinistra, soprattutto in vista del voto politico che non sarà la fotocopia dell’oggi. E allora bene la riflessione che si apre dentro SeL, ma bene guardare anche al tanto di buono che è fuori da noi, associazioni, movimenti, forze del civismo, della legalità. Vedo anche in tutto ciò lo spazio di una sinistra interamente da ripensare dentro questo nuovo inizio».

Corriere 29.5.14
Renzi, l’idea di un partito «più grande»: così nessuno potrà ostacolare le riforme
Il progetto del leader di ampliare i confini prima di nuove elezioni
«Cominciamo a essere una formazione che parla alla società e all’Italia»
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Ora cominciamo finalmente a essere il partito che sognavo io. Il partito degli elettori che parla alla società e all’Italia»: alla vigilia della Direzione del Pd Matteo Renzi è felice e non sembra dare troppo peso alle piccole conventicole che tornano a riunirsi e alle ambizioni personali dei singoli parlamentari che vorrebbero mettere la firma su qualche emendamento della riforma del Senato. «Basta con i giochini di palazzo, hanno stufato», sbuffa quando gli raccontano dei mormorii che attraversano i corridoi del Parlamento.
Non gli sembra vero di aver realizzato il sogno di cui parlava con gli amici alla vigilia delle primarie che lo hanno poi eletto segretario: «Dobbiamo immaginare una forza politica che abbia un vera vocazione maggioritaria, una forza politica che superi il 40%, altrimenti che senso ha?». Ora un senso ce l’ha. Tanto più che a sinistra più di qualcosa si muove. Alla Camera quasi mezza Sel è disposta a formare un gruppo a parte se non cambieranno i rapporti con il Pd. Al Senato c’è una pattuglia meno folta, più importante, però meno disposta a staccare la spina con la casa madre. Ma è disposta a votare per il decreto sugli 80 euro, come l’ala più morbida dei colleghi deputati di Sel. Il compromesso per evitare la spaccatura potrebbe essere l’astensione.
I vertici di Sel ne hanno parlato con Lorenzo Guerini. Mentre è stato direttamente il premier a discutere con i vertici di Scelta civica della possibilità della formazione di un intergruppo in Parlamento federato con il Pd che a tempo debito, entrerà nel Partito democratico. Insomma, per farla breve, quando sarà, nel 2018, «se tutto va avanti secondo programma», oppure prima, se qualcuno «pensa di ostacolare le riforme», Renzi ha già pronto un partito più grande da far debuttare alle prossime elezioni. «Elezioni di cui non ho paura», continua a ripetere il premier a tutti i suoi interlocutori, aggiungendo però una frase chiave: «Ma ci sono le condizioni perché questa sia una legislatura costituente e riformatrice». L’inquilino di Palazzo Chigi ne è convinto davvero. Tant’è che oggi, in Direzione, chiederà senza troppi giri di parole o furbizie diplomatiche di impegnarsi per le riforme. Tutte: «È questo il mandato pieno che ci hanno dato gli elettori». E ancora: «Io volevo rompere l’incantesimo dell’immobilismo italiano e i cittadini hanno capito. Come hanno compreso che non c’è più spazio per manovre di palazzo. O per le liti che nascono dalle differenze tra di noi. Ora abbiamo messo una definitiva pietra sopra le divisioni culturali e di tradizione politica che derivano dal nostro passato: ora abbiamo davanti solo il nostro futuro, senza più alibi».
Una responsabilità, che si esplicita subito in temi concreti, come quello che riguarda il tema del mercato del lavoro: «Che va affrontato senza barriere ideologiche». E non è un caso che ieri Guerini sia giunto a Montecitorio per parlare con il presidente della Commissione Lavoro Cesare Damiano, scuola Cgil. Non sarà facile: «Ma chi la dura la vince», sottolinea Renzi, che ama ripetere questo motto. È il suo mantra dall’8 dicembre del 2013, da quando è stato eletto. E da allora gli ha portato fortuna.
E poi c’è la questione della Pubblica amministrazione, della burocrazia. Una svolta vera e propria è prevista per il 13 giugno o giù di lì. «Questo è un problema che la gente sente molto — spiega il premier ai suoi — perché la burocrazia strangola cittadini e imprese con regole oppressive». E allora? «E allora — sono le parole d’ordine a cui il premier non intende rinunciare — da adesso in poi non possiamo più scherzare. Ora si cambia sul serio. Non possiamo dire agli italiani che ci hanno votato anche per quello che abbiamo promesso loro: scusate, non è vero niente, vi abbiamo preso in giro. Anche perché Grillo ha perso ma ha pur sempre un suo pacchetto di voti. E sono i voti degli scontenti, di chi ha paura e di chi non si fida. E chi si sentisse tradito da noi potrebbe votare di nuovo, o per la prima volta, per lui».

Corriere 29.5.14
Pd, in campo i «facilitatori» E Fitch promuove il voto
Oggi la direzione. Trattative per un’intesa sul Senato
di Dino Martirano


ROMA — Giugno, per il governo, sarà il mese delle riforme. Venerdì 13 arriva in Consiglio dei ministri quella della Pubblica amministrazione che dovrebbe ricondurre a criteri di efficienza e di meritocrazia la burocrazia di alto e basso livello. Mancano due settimane ma il premier ha già voluto anticipare i suggerimenti ricevuti dai cittadini: il ministro «Marianna Madia mi ha portato il report sulla consultazione della Pa: 34.674 email di proposte. Ci siamo...». Sempre per giugno, poi, è in cantiere la «riforma della giustizia» che fino ad ora ha avuto una gestazione difficile: il ddl Orlando (gestione giudiziaria delle aziende confiscate, pene più severe per i reati di mafia, misure di prevenzione più efficaci) è fermo da un mese a Palazzo Chigi e ha perso pure un pezzo dopo che il reato di autoriciclaggio è stato stralciato e presentato al Senato dal sottosegretario Cosimo Ferri come emendamento del governo al ddl anticorruzione (in aula il 10 giugno). A questo punto, però, si ha l’impressione che la riforma della Pubblica amministrazione sorpassi quella della giustizia cui sono agganciati il decreto legge sull’Expo (più poteri al commissario Raffaele Cantone) e un testo sulla giustizia civile ancora da perfezionare. C’è infine anche la riforma della prescrizione (la Consulta ha dato un’altra botta alla legge Cirielli varata dal centrodestra) avviata dalla commissione Giustizia della Camera presieduta da Donatella Ferranti.
Ma giugno sarà anche il mese dei primi risultati portati a casa dal governo sulla riforma costituzionale che cancella il bicameralismo paritario, riforma in senso centralista il federalismo e abolisce il Consiglio dell’economia e del lavoro (ieri nella sede del Cnel di Villa Lubin, tanto per stare al passo con i tempi, c’erano impalcature per rifare il «look» al Palazzo di un ente in via di estinzione).
Renzi — che ha incassato anche i complimenti dell’agenzia di rating Fitch («La chiara vittoria elettorale rafforza il suo mandato ed è positiva per il profilo del credito») — oggi riunirà la direzione del Pd chiedendo al partito uno sforzo unitario proprio sulle riforme e forse annuncerà che la presidenza del partito andrà alla minoranza. Al Senato stasera scade il termine per gli emendamenti sul bicameralismo in commissione e sono all’opera (con una marcia in più dopo il trionfo alle Europee) i «facilitatori» del Pd che stanno dialogando con la minoranza interna guidata da Vannino Chiti. Il compito di neutralizzare il fronte trasversale che non recede sull’elezione diretta di 100 senatori e sul contestuale dimezzamento dei deputati (una ventina di senatori del Pd, i transfughi grillini, Sel, il M5S e 37 senatori di FI guidati da Augusto Minzolini) è affidato ai relatori, Anna Finocchiaro (Pd) e Roberto Calderoli (Lega): «Spero che i nostri emendamenti siano tutti a doppia firma», precisa la presidente della I commissione lasciando intendere che oggi ci saranno contatti con il ministro Boschi per concordare gli inevitabili aggiustamenti al testo del governo. Altri «facilitatori» sono guidati da Francesco Russo (Pd) che sta mettendo sul piatto una soluzione di mediazione e c’è anche il bersaniano Miguel Gotor che insiste sul modello francese (senatori eletti da una platea di 16.800 amministratori locali). Il capogruppo Nicola Morra (M5S) dice che l’impianto del governo è inaccettabile e che gli emendamenti grillini non saranno meno di cento. Grande agitazione nel Ncd che oggi schiera Quagliariello per presentare un pacchetto di emendamenti. Poi, finite le schermaglie, martedì 3 giugno al Senato si inizia votare sul serio.

il Fatto 29.5.14Turbopremier
I miracoli di Matteo “Bergoglio” Renzi e di Maria Elena “Angelina Jolie” Boschi
di Daniela Ranieri


Renzi è come Bergoglio”. Copyright di Brunello Cucinelli, re del cachemire, avvolto dall’aura neutra del soffice filo nello studio di Otto e mezzo, all’epoca dell’auto-incoronazione di Matteo. Ciò che parve megalomania si rivela oggi profezia accorta, forse suggerita da quegli sciamani della Mongolia che da secoli allevano le capre “hircus” dal pregiato vello d’oro. Essì, perché dopo il miracolo di portare il Pd sulle vette emotive del tantissimo% pari a 11 milioni di italiani (più o meno gli spettatori dell’ultimo Sanremo durante la performance di Cat Stevens), Renzi infila due-tre prodigi uno dietro l’altro, frutto del mix specialissimo di carisma e polso che ormai fa la sua persona agli occhi del mondo.
DI PRIMA mattina riesce nell’impresa, preannunciata su Twitter poche ore dopo il trionfo alle Europee, di portare in Italia 31 bambini congolesi adottati da famiglie italiane e bloccati nel loro Paese da un’odiosa burocrazia. A prenderli ha mandato la ministra Boschi, e in effetti chi più di un ministro per le Riforme e i rapporti con il Parlamento è adatto per una missione simile. Non quello degli Esteri o degli Interni, né della Semplificazione. Certo: il terzo settore. Certo: la riforma delle adozioni. Ma a farne la scelta vincente è l’immagine di lei, bianca tra putti neri come una Madonna di Guido Reni, che scende dall’aereo mica così, ma “tenendo per mano due tra i più piccoli adottati”, poi prendendone in braccio uno che camminava da solo lo porge alla mamma (fa niente che fosse lì a due passi). E possiamo solo immaginare in che cieli di gioia si sia svolta la festa a bordo, se il ministro narra di una treccina fattale in volo da una bimba (è vero, c’è la foto), e quando si volta la stessa treccina compare davvero sulla capigliatura di grano, come vorremmo comparissero monete d’oro dopo i più radiosi sogni.
D’intorno, colori pastello e sahariane stile Meryl Streep in La mia Africa, abbracci e lacrime di neomamme radiose ora fiere del Paese che le aveva deluse. Altro che l’atroce ricordo di Alfredino rievocato da Veltroni: il Paese redento dal nuovo Pd guarda i pupi tratti in salvo, tira un sospiro di sollievo e nota che la Boschi indossa delle ballerine. Ed ecco loro, i nuovi cittadini italiani: impareranno presto la lingua per cantare canzoni; siederanno a scuola vicino a compagni figli di immigrati, declassati ad apolidi dall’ancora vigente ius sanguinis. Su web e tv prorompe dai cuori l’encomio per il fatto che il governo non ha usato il ricongiungimento come arma elettorale; vero: lo fa scaturire dalla fiducia ricevuta, e la buona diplomazia ad alto tasso emotivo fila liscia con l’esattezza di un quod erat demonstrandum, elargita come un premio, ritirato su Twitter da Fabio Fazio a nome di tutti noi. Il Presidente evocato e ringraziato partecipa in absentia alla foto che presto campeggerà su tutti gli sfondi di smartphone e pc, al posto del salvaschermo di Angelina Jolie e Brad Pitt che portano a casa la piccola Zahara.
INTANTO, sempre su Twitter, viene riportato a casa Federico Motka, rapito in Siria un anno fa. Per la precisione, viene ridato alla mamma, Giovanna. Il tempo di togliere di mezzo l’aereo dal Congo sulla pista di Ciampino, e sarà di nuovo tra noi. Donne e mamme (le Laure, le Francesche delle primarie) partecipano a un gioco di ruolo più vero del vero, in una specie di città del Sole dove vigono Liberalità, Magnanimità, Fortezza, Giustizia, Operosità, Verità. Un film italiano a Cannes. Altro che Dc. E altro pure che Bergoglio, che a quanto ne sappiamo può contare sull’aiuto di Dio.
Pare che il voto sia sceso come lo Spirito Santo su una politica seccata da anni di cinico avventurismo, tecnicismi balzani, harakiri sinistrati. Piovono come un balsamo progressismo e bontà, orgoglio e pragmatismo da scout. Il governo del fare si placca d’oro, si bagna nell’olio santo, se persino Bersani, visto l’ultima volta blandamente applaudito da Matteo durante l’abbraccio-schiaffo morale con Letta, rivela a Cazzullo: “Questo Matteo mi ha ridato la salute”.
È bello, è liberatorio. In tanto tripudio, un’allegoria della prudenza: Renzi twitta la foto di un bambino congolese che legge in volo la brochure dell’aviazione militare tedesca. Per la gioia bipartisan, aspettiamo adesso “i nostri marò”.

il Fatto 29.5.14
Le agenzie di rating aprono a Matteo E lo spread scende


LE AGENZIE di rating aprono al premier Matteo Renzi dopo il risultato alle Europee che rafforza la stabilità politica e le prospettive di riforma. E, complice la Bce, sui mercati torna la calma, con lo spread sotto i 160 punti base dopo aver sfiorato 200 punti base solo la settimana scorsa. I mercati sono ormai convinti che al consiglio di giovedì prossimo il presidente Mario Draghi tirerà fuori qualcosa di più di un taglio dei tassi. Ma a giocare un ruolo è anche lo scampato pericolo, per gli investitori, di un’affermazione degli euroscettici. Renzi incassa una promozione dall’agenzia di rating Fitch: “La chiara vittoria del Partito democratico sul Movimento 5 Stelle e Forza Italia rafforza il mandato di Renzi. È positivo per il profilo di credito, perché dovrebbe dare a Renzi ulteriore spinta per l’agenda di riforme economiche". Anche la cinese DFagong apre: "È un segno positivo che Renzi abbia avuto l’appoggio degli elettori", afferma il direttore generale Ulrich Bierbaum, ricordando che prima del voto c'era solo "l'incarico dato dal presidente". Gli occhi sono puntati sulla decisione di Standard & Poor's, in arrivo il 6 giugno. E a rassicurare gli investitori c'è la Bce: anche se pare lontano il quantitative easing della Bce che darebbe il via libera ad acquisti in massa sui titoli di Stato di Paesi come l’Italia, Draghi sembra averli convinti che anche contro il rischio di deflazione la Bce è pronta a usare tutto il suo arsenale. Se l’obiettivo è sostenere la ripresa disinnescando il rischio di una spirale deflazionistica, tuttavia, per il momento a giovarsene sono i mercati. Milano e Madrid che guidano i rialzi delle principali Borse europee, segnando rispettivamente +0,85% e +0,40%.

l’Unità 29.5.14
Con i Democratici o con Tsipras? Aria di guerra in Sel
Il capogruppo Migliore: «Partito unico col Pd», Fratoianni: grave errore
Vendola cerca una sintesi: «Prima vediamo se Renzi ribalta l’agenda europea»


Nonostante il quorum superato dalla lista Tsipras, per Sel questo dopo elezioni ha un sapore particolarmente amaro. Domani si riunirà la direzione, e si annuncia battaglia tra le due anime che si combattono, più o meno sotterraneamente da mesi, da quando è nato il governo Renzi.
L’anima “governista” è guidata dal capogruppo alla Camera Gennaro Migliore, critico con la scelta della lista Tsipras e più propenso aun ritorno al dialogo col Pd. Ieri in un’intervista ha proposto di costruire un «soggetto unitario di sinistra», che metta insieme Sel e i democratici. Per Migliore, insomma, l’epoca dell’opposizione al governo sembra tramontata. «Su molte battaglie di Renzi c’è l’impronta delle nostre battaglie, ad esempio contro l’austerity. Dobbiamo togliere gli alibi a chi vuole escluderci ». Per Migliore, infatti, dopo il crollo di Scelta civica e il magro risultato di Ncd «è possibile passare dalle “piccole intese” a un governo davvero politico». Una linea che, evidentemente, non convince chi ha puntato sulla lista Tsipras come embrione di un nuovo soggetto di sinistra, sull’esempio di Syriza e della Linke tedesca. Tra i promotori della lista, infatti, c’è chi come Barbara Spinelli ha un giudizio molto duro sul Pd renziano, definito «una nuova Dc», rispetto a cui la sinistra deve essere fieramente alternativa, in Italia e in Europa.
Il bivio è cruciale e riguarda la natura stessa di Sel, le sue prospettive, la sua stessa sopravvivenza. Con Migliore ci sono 15-16 deputati su un totale di 40. Ma c’è chi porta l’asticella fino a 19. Insomma, un gruppo diviso praticamente a metà. Che rischia molto, se anche un giornale amico come il manifesto parla esplicitamente di «aria di divorzio». Domani ci sarà una prima discussione, non sono previsti strappi a brevissimo termine e certamente non li vuole Nichi Vendola, che si sta battendo per tenere tutti insieme, e trovare una sintesi. «Non vogliamo una sinistra di testimonianza, ma non firmiamo neppure cambiali in bianco», spiegano fonti vicine al governatore pugliese. L’intervista di Migliore viene giudicata «intempestiva», e anche rischiosa. «Non si può immaginare una resa della sinistra al governo. Renzi ha detto cose giuste contro l’austerity, vediamo se riesce a cambiare l’agenda europea, senza fughe in avanti». Il risultato della lista nelle grandi città, col 10% a Firenze e il 9%a Bologna viene interpretato come promettente. E dunque quell’esperienza non può essere archiviata con un tratto di penna. «Ora bisogna analizzare i risultati, discutere tra noi, senza fretta». «Se Renzi ribalterà l’agenda di governo europeo, trasformeremo i nostri dissensi in consensi», dice Vendola ai microfoni, ed è ancheun modo per prendere tempo, per allontanare lo spettro di una discussione fratricida trai suoi parlamentari. Il coordinatore di Sel Nicola Fratoianni non usa giri di parole: «Non condivido l’idea di Migliore di un partito unico col Pd. Dobbiamo avanzare una proposta politica a tutti quelli che hanno guardato alla proposta di Tsipras per dare corpo ad una sinistra forte e innovativa, non settaria e non minoritaria».
Con lui c’è l’altra metà del gruppo parlamentare, con personalità come l’ex leader Fiom Giorgio Airaudo e il gruppo dei deputati pugliesi. Sul tavolo c’è anche la collocazione europea. Mesi fa Sel chiese l’adesione al Pse, poi c’è stata la scelta di Tsipras validata dal congresso. Ora la questione si riapre. Spinelli insiste per l’adesione al gruppo di sinistra del Gue, e Fratoianni conferma questa opzione, «non possiamo certo partecipare in Europa alle larghe intese tra Pse e Ppe». Ma in molti non ne cogliono neppure sentir parlare. Il voto sul decreto degli 80 euro, nei prossimi giorni, potrebbe essere un primo spartiacque decisivo. Tra i 7 senatori di Sel c’è chi vorrebbe dare un segnale subito, votando sì a un provvedimento che convince perché «dà dei segnali nel segno della redistribuzione». Anche alla Camera, dopo il provvedimento arriverà successivamente, c’è chi non vuole votare no. Come Ileana Piazzoni, che viene dai Ds e l’ipotesi di un nuovo soggetto della sinistra radicale lo vede come fumo negli occhi: «Se ci sarà una costituente con gli altri partner della lista Tsipras io non ci sarò. Mi spiace, ho già dato con la Sinistra Arcobaleno. E poi io sono stata eletta con “Italia bene comune”, una coalizione che vedeva insieme Pd e Sel per una sinistra di governo». Per Piazzoni, tuttavia, una marcia indietro non è facile: «C’è stata una campagna elettorale nel segno di Tsipras, molti militanti si sono mobilitati con entusiasmo. Come si fa a dire “abbiamo scherzato”?».
Una delle soluzioni all’orizzonte è la scissione di una fetta di deputati e la nascita di un nuovo gruppo che entri nel solco della maggioranza. Magari con l’apporto di alcuni ex M5s come Adriano Zaccagnini. In Transatlantico se ne parla già. Il giovane deputato Arturo Scotto, insieme a Ciccio Ferrara, s’iscrive tra i pontieri. E spiega a l’Unità: «Nonci saranno scissioni. Dobbiamo costruire una sinistra nuova e con un orizzonte di governo, autonoma dal Pd ma dentro il socialismo europeo. Il Gue sarebbe una vecchia ridotta radicale, ma non ha senso parlare di fusione col Pd: dobbiamo incalzare Renzi sui contenuti con pazienza. Vendola ha ragione».

il manifesto 28.5.14
Sel, sui dissidenti cala il gelo.  Il nodo del rapporto con il governo
Con Renzi o con la costituente della lista Tsipras?
Migliore guasta la festa dell’Altra Europa: «Ora un soggetto unitario con il Pd»
Il movimento di Vendola verso la rottura. Bocche cucite fino alla riunione di presidenza «No comment» degli altri. Il casus belli sarà il voto sugli 80 euro
di Daniela Preziosi


Capan­nelli dei depu­tati di Sel si rag­gru­mano, si scom­pon­gono, si ricom­pon­gono in un Tran­sa­tlan­tico ancora sotto l’effetto del Renzi-boom, il 40,8 per cento del Pd che sta già «ren­ziz­zando» l’emiciclo, una forza cen­tri­peta che attira ogni cosa verso il pre­mier. Non siamo alla scis­sione, anzi la scis­sione guai a nomi­narla, è una «pro­fe­zia inte­res­sata», «un’entrata a gamba tesa nel nostro dibat­tito interno» da parte dei cro­ni­sti. E allora è almeno un divor­zio, quello che già si vede all’orizzonte nel movi­mento di Ven­dola. E per una volta viene dopo una vit­to­ria, quella della Lista Tsi­pras, che con­tro tutti i pro­no­stici dome­nica ha acciuf­fato il 4, 03 per cento. La rot­tura non è con­su­mata, ma ormai non sem­bra evi­ta­bile. Per­ché se ieri su Repub­blica il capo­gruppo di Sel alla camera Gen­naro Migliore pro­po­neva di «costruire in Ita­lia un sog­getto uni­ta­rio di sini­stra, rego­lato dalla demo­cra­zia interna, che possa far vivere le aspet­ta­tive di cam­bia­mento. Senza restare cia­scuno, Pd e Sel, nel pro­prio con­te­ni­tore», sul mani­fe­sto la depu­tata Ileana Piaz­zone andava oltre: «Vogliono fare un nuovo sog­getto a sini­stra: io non ci sto, ma non voglio fare nean­che la parte di quella che si mette di tra­verso». In entrambi i casi sono pro­po­ste in rotta di col­li­sione con il co-working delle sini­stre unite nella lista Tsipras.
Il dis­senso era ampia­mente annun­ciato, si era già con­tato al con­gresso nello scon­tro fra pro-Schulz e pro-Tsipras, e poi in una suc­ces­siva dire­zione del feb­braio scorso. Poi i dis­si­denti, sareb­bero una quin­di­cina di depu­tati, ave­vano tenuto disci­pli­na­ta­mente le boc­che cucite durante la cam­pa­gna elet­to­rale, per evi­tare l’accusa di sabo­tag­gio. Ma ora la casa ven­do­liana va in fibril­la­zione. «Dichia­ra­zioni intem­pe­stive, a bal­lot­taggi in corso in mezza Ita­lia», è una delle obie­zioni dei con­trari. I favo­re­voli invece: «Non si può non ren­dersi conto che dopo il 40,8 per cento è cam­biato tutto», rigo­ro­sa­mente a tac­cuino chiuso. «Quello che dice Gen­naro non è pere­grino, stanno cam­biando la linea del con­gresso con pic­cole suc­ces­sive furbizie».
Ileana Piaz­zoni, ’miglio­ri­sta’ dichia­rata: «Non capi­sco la linea di Sel: se dopo la lista Tsi­pras non si fa una costi­tuente di sini­stra, che l’abbiamo fatta a fare la lista uni­ta­ria? Per eleg­gere tre euro­de­pu­tati? Ma se si fa, sarebbe il cam­bio di linea rispetto al con­gresso». Quindi chie­dete un con­gresso? «Nean­che per sogno. Sta a loro fare una pro­po­sta sul futuro». State trat­tando con il Pd? «Par­liamo con tutti i dem, ma il pro­blema non è il Pd ma la col­lo­ca­zione rispetto al governo. Non si può non rico­no­scere un ten­ta­tivo rifor­ma­tore in Renzi». Nicola Fra­to­ianni, coor­di­na­tore di Sel e ultrà dell’operazione Tsi­pras sil­laba un «no com­ment, ci con­fron­te­remo alla riu­nione di pre­si­denza di venerdì». Dalla sua parte vige la con­se­gna del silen­zio. Ma tira aria gelida. E c’è chi vede in que­sto silen­zio per­sino un invito ai dis­si­denti di levare il disturbo.
Anche Nichi Ven­dola non com­menta. Lui che a con­gresso si era bat­tuto come un leone per evi­tare la rot­tura fra i suoi, cerca anche sta­volta quella che nei par­titi si chiama «la sin­tesi». «Se Renzi riu­scirà a ribal­tare l’agenda di governo dell’Europa tra­sfor­me­remo le nostre cri­ti­che e i nostri dis­sensi in con­senso». Non sono pre­ci­sa­mente i toni che i garanti della lista usano nei con­fronti del pre­mier («Il Pd è una nuova Dc», ha detto lunedì Bar­bara Spi­nelli), ma lo si potrà misu­rare meglio sabato pros­simo, all’assemblea dei can­di­dati della lista, dove sarà lan­ciata la pro­po­sta di «andare avanti»: ma i modi di que­sto «andare avanti» sono tutto per Sel. Cele­ste Costan­tino, che pure non era fra gli entu­sia­sti di Tsi­pras chiede «calma, discu­stiamo, è chiaro che la stra-vittoria di Renzi cam­bia tutto, ma io non voglio restare schiac­ciata fra due posi­zioni pre­sunte. Nes­suno sta chie­dendo lo scio­gli­mento di Sel. Abbiamo fatto l’esperienza della lista, abbiamo vinto, pos­siamo vedere que­sto pro­cesso dove porta prima di dichia­rarlo chiuso?».
Ma il ciclone Renzi non può non porre dei pro­blemi, nei capan­nelli si ragiona «nei col­legi i nostri com­pa­gni sono con­fusi, non si può soste­nere che in quel 40,8 per cento non ci sia anche un po’ della nostra sini­stra». La replica è «ma ora che Grillo è in crisi dob­biamo essere un rife­ri­mento per quelli che lo abban­do­nano. Alleanze con il Pd? Ripar­lia­mone nel 2018».
Venerdì, alla riu­nione della pre­si­denza, ci sarà il primo round del con­fronto. Il 14 giu­gno l’assemblea nazio­nale, che però è com­po­sta a stra­grande mag­gio­ranza da pro-Tsipras, qual­siasi cosa oggi voglia dire: tutti i pro-Tsipras esclu­dono «un ritorno alla vec­chia Rifon­da­zione e alla sini­stra identitaria».
L’ora della verità però potrebbe arri­vare anche prima sul decreto degli 80 euro, che scade il 23 giu­gno. Pre­sto andrà al voto del senato, dove però dei sette sena­tori nes­suno al momento sarebbe sulla linea di Migliore. Poi alla camera, dove invece sareb­bero una quin­di­cina quelli che dichia­rano di non essere dispo­ni­bili a votare no. La media­zione potrebbe essere la scelta dell’astensione. Ma non è nean­che detto che i ’miglio­ri­sti’ siano dispo­ni­bili ad accettarla.

il Fatto 29.5.14
Sel pensa di entrare in maggioranza (in vista di un partito unico)


di Wanda Marra

... In Parlamento è tutto un movimento. Se è per Sel, Gennaro Migliore in un’intervista a Repubblica ha annunciato che “la sfida è costruire in Italia un soggetto unitario di sinistra”. Insieme al Pd. Che è pronto ad accoglierli, tanto è vero che al Nazareno erano già a conoscenza del fatto che il capogruppo avrebbe fatto questa uscita pubblica. Così, una forza all’opposizione entrerebbe in maggioranza. Perché inglobare, depotenziare è meglio che asfaltare...

Corriere 29.5.14
Il dibattito interno che divide Sel: c’è chi vuole entrare in maggioranza

Finita la campagna elettorale a sostegno della lista Tsipras si è riaperto il dibattito interno a Sinistra e libertà: una parte pensa a rientrare nella maggioranza di governo fino all’ipotesi di fare un partito unico con il Pd. Guida la fronda il capogruppo alla Camera Gennaro Migliore: «Ora è possibile un governo più politico»

Corriere 29.5.14
Dagli ex 5 Stelle a Sel Grandi manovre al Senato
La tentazione di gruppi a sostegno della maggioranza
di Monica Guerzoni


ROMA — La sirena del 40 per cento è una grande seduttrice e a Palazzo Madama sono diversi i senatori disposti ad ascoltarne il canto. Grillini dissidenti, «sinistri» di Sel e anche qualche esponente senza casacca non fanno mistero di essere rimasti impressionati dalla performance elettorale di Matteo Renzi e stanno meditando piccoli o grandi passi verso i lidi di maggioranza. Prima del 25 maggio l’alleanza di governo aveva numeri risicati al Senato, sette voti appena. Ma dopo la valanga di consensi filogovernativi espressi dagli italiani, lo scenario sta rapidamente cambiando.
Un gruppo di nuovi responsabili vedrà presto la luce. Il pallottoliere conta quattordici senatori fuoriusciti o espulsi dal M5S, guidati da Orellana e Campanella. Il cantiere è aperto da settimane e il trionfo elettorale di Renzi ha accelerato le pratiche. Si chiamerà «Democrazia attiva» oppure «Italia lavori in corso», anche se alla moglie di Campanella questo secondo nome non piace: «Dice che le ricorda la Salerno-Reggio Calabria» racconta il senatore, che nel ‘99 si iscrisse al Pds e per il quale il premier «si è mosso in maniera magistrale». Del leader democratico non gli piace «l’atteggiamento giovanilistico» e neppure l’inclinazione al blairismo. Nonostante questo spera che il governo metta in campo proposte tali da poter essere condivise: «Ascoltiamo, parliamo... E se l’atteggiamento del Pd sarà positivo si potranno fare pezzi di strada insieme». L’idea non è quella di un «supporto organico», ma di una «interlocuzione costruttiva sui provvedimenti che ci piacciono». Dal Pd vi ha cercato qualcuno? «Si, ci cercano tutti».
Orellana è in contatto costante con il capogruppo del Pd, Luigi Zanda. È lui che tiene le relazioni con i volenterosi, quei senatori delle opposizioni che fortissimamente vogliono dare una mano per la stabilità. Manovre soft, senza grande pathos. «Chi è quel pazzo che oggi si mette a ostacolare le riforme? — sorride il democratico Nicola Latorre — Transfughi? Qui non arriva nessuno. O meglio, arrivano tutti...». Renzi, insomma, può dormire tra due guanciali. Corradino Mineo conferma: «I grillini dissidenti? Come operazione trasformistica non la conosco, ma come operazione politica va avanti da un paio di mesi».
Anche a destra qualcosa si muove, prova ne sia l’uscita con cui Paolo Naccarato, Ncd, chiede ad Alfano e a Lupi «un gesto di grande generosità». E cioè il passo indietro di uno dei due rispetto al governo, perché al partito serve «un leader a tempo pieno». Per lui Renzi è «il grande vincitore», resterà a lungo a Palazzo Chigi e sarà «il seme decisivo di un nuovo centrodestra totalmente da reinventare». Parole che dentro Forza Italia qualcuno ha letto come l’annuncio di una uscita imminente di Naccarato da Ncd, per creare un gruppo-cuscinetto che possa attrarre eventuali senatori azzurri attratti dai lidi di maggioranza.
«I grillini arriveranno, ma per ora in Forza Italia chi si muove è morto — prevede Riccardo Villari, grande esperto di passaggi di campo — Ncd, Udc e Scelta civica hanno cinque ministri, prima o poi Renzi si accorgerà che sono troppi». Per adesso è una suggestione, ma a Palazzo Madama c’è chi spera che un giorno il centrodestra possa essere sostituito con Sel e pezzi di Cinquestelle. A sinistra i movimenti sono vorticosi. Gennaro Migliore vuole «stare nel gorgo» e a Repubblica ha spiegato l’idea di un partito unico con il Pd: «Con il crollo di Scelta civica e il ridimensionamento di Ncd è possibile passare dalle piccole intese a un governo che sia davvero politico...».
Scissione in vista? Domani in direzione Sel potrebbe spaccarsi. L’onorevole Ileana Piazzoni è pronta a uscire dal gruppo al seguito di Migliore e non è l’unico fra i deputati. Al Senato i sette vendoliani sono più compatti eppure c’è chi sottolinea il profilo molto istituzionale di Dario Stefàno e la gran voglia di Luciano Uras di «lavorare per il bene degli italiani». Il senatore sardo smentisce che sia in atto una operazione speculare a quella della Camera: «Io non la conosco e non intendo partecipare». Ma accetta volentieri di ragionare sul futuro: «Noi e il Pd siamo vicini, ma hanno scelto di governare con Giovanardi e Alfano... Se ci fossero cambiamenti rilevanti sotto il profilo politico discuteremo e decideremo assieme».

il Fatto 29.5.14
La sinistra? “Podemos” ancora
Il fenomeno spagnolo e gli altri partiti ‘rossi’ che resistono nel continente
di Al. Sch.


Il suo linguaggio attinge un po’ da Barack Obama, con il suo “Yes we can”, e un po’ dalle invettive anti-casta di Beppe Grillo. Il repertorio ideologico è quello della sinistra movimentista che dal popolo di Seattle arriva al movimento degli Indignados. La colonna sonora è quella storica della sinistra comunista spagnola: i canti antifranchisti che accompagnavano le notti in trincea sul Fronte dell’Ebro. Chi non crede che da questo guazzabuglio possa uscire qualcosa di buono, vada a ripassare il risultato delle Europee in Spagna. Pablo Iglesias con il suo movimento Podemos (Yes, we can in versione spagnola), nato solo quattro mesi fa, ha sbancato il Partito socialista - il cui segretario Alfredo Pérez Rubalcaba si è dimesso il giorno dopo gli scrutini - e ha portato a Bruxelles cinque deputati. Entreranno nell’eurogruppo Sinistra unitaria europea insieme ai sei di Izquierda plural, una sorta di Rifondazione comunista iberica. Madrid, che alle politiche di tre anni fa aveva consegnato le chiavi del Paese, peraltro con un risultato plebiscitario, a Mariano Rajoy, si è riscoperta rossa.
Merito anche di questo ragazzo di soli 36 anni con il destino scritto nel nome: Pablo Iglesias è stato il sindacalista che il 2 maggio 1879 ha fondato il Partito socialista operaio spagnolo. Il nuovo Iglesias non passa inosservato: nel Paese della disoccupazione al 25 per cento, fa cinque lavori: professore universitario, editorialista, scrittore, giornalista tv (per un’emittente spagnola che trasmette solo in Iran) e, ora, politico rampante. Uno con un curriculum così, non passa inosservato. Non è nemmeno quello che cerca: per questo ha personalizzato la campagna elettorale più del Berlusconi dei tempi d’oro, mettendo perfino la propria faccia nel simbolo elettorale. Anche grazie a Iglesias la Spagna è diventata, con undici europarlamentari, il primo azionista dell’gruppo di sinistra a Bruxelles. Ma non è sola. L’austerità è stata una boccata ossigeno per le formazioni di sinistra radicale. Ben 27 dei 51 europarlamentari di Sinistra Unitaria (erano 35 nel 2009) vengono dai Piigs, cioé il quintetto di Paesi sottoposto alle cure draconiane imposte dalla Troika: Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna. Cinque anni fa, ne avevano eletti solamente dieci. Lo scenario varia da paese a paese, ma la tendenza generale è evidente. A fare da traino è stata la Grecia. Come dimostrato dalla lista italiana, Alexis Tsipras è diventato un volto riconoscibile, un leader europeo, un’alternativa all’Europa a guida tedesca. Il suo Syriza è oggi il primo partito in Grecia e porterà a Bruxelles 6 deputati, accompagnati dai due eletti nelle file del partito comunista tradizionale. Anche in Portogallo la sinistra fa riferimento a due partiti: Bloco de Esquerda e un cartello elettorale formato da comunisti e verdi. Dell’Italia già sappiamo: anche grazie al volto del compagno greco, la sinistra radicale è tornata a costruire sulle macerie lasciate dal crollo del 2008. Il Sinn Féin è uscito dai confini dell’Ulster, in cui era finito relegato durante gli anni del boom irlandese. Con la crisi è tornato protagonista anche a Dublino, dove domenica ha conquistato tre seggi. Il leader, Gerry Adams, dopo le elezioni ha promesso che entro due anni governerà sia a Belfast che a Dublino.

il Fatto 29.5.
Sandra Bonsanti Presidente di Libertà e Giustizia
“Il nostro 2 giugno, contro la svolta autoritaria”
di Silvia Truzzi


Settant’anni (per quasi tutta l’Italia) di libertà dal regime fascista. E ora? “Il Paese di oggi sembra aver tradito il grande sogno democratico dei padri fondatori: un paese devastato da corruzione e disuguaglianze insopportabili, mentre prolifera un meccanismo oligarchico che crea consenso e chiede fedeltà”: recita così l’invito di Libertà e giustizia alla manifestazione indetta per lunedì 2 giugno a Modena (piazza XX settembre, dalle 14 alle 17:30). Ci saranno, tra gli altri, Sandra Bonsanti, Stefano Rodotà, Lorenza Carlassare, Carlo Smuraglia, Marco Travaglio, Elisabetta Rubini, Gian Carlo Caselli, Alberto Vannucci, Maurizio Landini e Gustavo Zagrebelsky. Che avverte: “Questo sistema è destinato presto a incepparsi verso una soluzione autoritaria oppure a risollevarsi con una ripresa democratica grazie alla reazione degli esclusi”. Il 2 giugno è il compleanno della Repubblica: un’occasione per festeggiare la Carta che ci hanno dato i padri costituenti. “Possiamo discutere, certo, di come vada migliorata”, spiega Sandra Bonsanti, presidente di Libertà e giustizia. “Ma certo non si può pensare di fare una riforma tanto insensata come quella che ci viene proposta dal governo . Ricordiamoci sempre questa anomalia: il progetto di cui si sta discutendo è il progetto dell’esecutivo”.
Se c’è una materia di competenza parlamentare è quella delle riforme costituzionali...
Naturalmente. Non dimentichiamo anche il vizio originario: questa riforma fa parte di un patto, abbastanza oscuro, siglato al Nazareno tra il presidente del Consiglio e quello che era il capo dell’opposizione. Se ne sa molto, troppo, poco: si sa che ci sono alcuni paletti che non si possono superare, altrimenti il premier si dimetterà. Anche questa è una situazione anomala: non s’è mai fatta una riforma costituzionale con una minaccia di questo genere. O passa o me ne vado.
Ci sono state proposte di modifica anche da parte di parlamentari del Pd.
Io credo che Renzi dovrà accettare come minimo l’idea del Senato elettivo. E poi: un Senato come quello voluto dal governo sarebbe un grande carrozzone che non serve a nulla. Ma Berlusconi sarebbe comunque pazzo ad accettare l’idea di una Camera alta composta da amministratori locali, proprio ora che il Pd vince dappertutto!
Perché il bicameralismo perfetto non è mai stato modificato?
Perché ogni volta qualcuno ne approfitta per dire “vogliamo anche questo”, “vogliamo anche quello”. E allora si va verso la Repubblica presidenziale, con il facile slogan “gli italiani possono scegliere il loro Presidente”.
Riforma del Senato e Italicum vanno a braccetto.
È proprio l’accoppiata delle due riforme ad aver originato il manifesto “Verso la svolta autoritaria”, quello dei “professoroni” per intenderci. La cosa peggiore di questa fase politica è la mancanza di rispetto per le minoranze.
Il risultato delle Europee è anche una legittimazione ad accelerare sulle riforme?
Credo di sì. C’è un’apparenza di democrazia - vedi le primarie - in realtà tutto è tenuto sotto controllo da un potere monolitico. Va di moda il paragone con la Dc: ma in quel partito c’era rispetto per le minoranze. Qualche giorno fa, a Pistoia, il professor Zagrebelsky ha citato una frase di Tocqueville che è davvero perfetta per questo momento politico: “La maggioranza vive in una perpetua adorazione di se stessa”.

La Stampa 29.5.14
Di nuovo emigranti:  più italiani in fuga  che stranieri in arrivo
A partire sono soprattutto 40enni laureati o diplomati.
La svolta nel 2014: dopo decenni bilancio migratorio negativo
di Andrea Rossi

qui

l’Unità 29.5.14
I giovani se ne vanno e la povertà si allarga
Rapporto Istat: recessione finita, ma lascia segni profondi nella società
Natalità ai minimi storici. Le donne sopportano il peso della crisi


Milano. Un Paese in stallo, dove la recessione lascia sul tappeto 6,3 milioni di persone senza lavoro. Il Rapporto Istat 2014, presentato dal presidente Antonio Golini, fotografa un Paese che ancora non riesce a ripartire, ed è sempre più frammentato: il Sud aumenta ulteriormente la distanza dal resto del Paese, la disuguaglianza rimane consistente, la povertà aumenta, solo il 30% delle imprese negli ultimi due anni ha migliorato occupazione e fatturato, l’occupazione femminile migliora, ma solo perché servono più baby sitter e badanti per supplire alla cronica inadeguatezza dei servizi sociali. E l’Istat informa che ci vorrebbero 15 miliardi per ridurre la povertà.
Dall’inizio della crisi, l’occupazione ha conosciuto solo il segno meno, e nell’ultimo anno il calo è stato ancor più marcato: nel 2013 l’occupazione è diminuita del 2,1% (-478mila). In 2,3 milioni di famiglie lavorano solo le donne. Tra disoccupati (3 milioni e 113mila) e persone che sarebbero disposte a lavorare (3 milioni e 205mila) nel 2013 si contano 6,3 milioni di «potenzialmente impiegabili», uno spreco di risorse colossale che riguarda soprattutto i giovani. Tra il 2008 e il 2013 sono usciti dal mercato del lavoro 1.803.000 giovani tra i 15 e i 34 anni: il loro tasso di occupazione corrispondente è sceso di 10 punti, dal 50,4% all’attuale 40,2%. Nel 2013 i giovani che non lavorano né studiano (Neet) sono arrivati a 2,4 milioni, oltre mezzo milione in più rispetto al 2012. Come diretta conseguenza, nel 2012 sono stati oltre 26mila i giovani che hanno lasciato l’Italia, 10mila in più rispetto al 2008. In totale, ad andarsene negli ultimi cinque anni sono stati 94mila. Vanno nel Regno Unito, in Germania e in Svizzera, oppure, fuori dall’Europa, negli Stati Uniti e in Brasile. Se ne vanno anche gli over 34enni: nel 2012, 68mila persone, il numero più alto degli ultimi dieci anni, cresciuto del 35,8% rispetto al 2011. E nel frattempo la natalità è ai minimi storici: nel 2013 le nascite sono state poco più di 500mila. Tra l’altro, anche i migranti preferiscono altre mete: tra il 2007 e il 2012 i loro arrivi sono calati del 27%. Le prospettive non appaiono rosee: secondo l’Istat, il Pil tornerà a crescere dello 0,6% quest’anno e dell’1% nel 2015. Il governo cercherà di arginare la tendenza. Come dice il ministro all’Economia Pier Carlo Padoan: «Stiamo prendendo misure che produrranno lavoro in maniera crescente nei prossimi trimestri - L’occupazione è l’attuale priorità del governo. Purtroppo la crescita stenta ma si rafforzerà e quindi una combinazione di crescita più sostenuta e misure di riforma strutturale del mercato del lavoro produrranno più posti di lavoro».
Il fatto è che la mancata crescita limita molto anche gli effetti delle manovre di contenimento del debito pubblico. Ed è a sua volta causata anche da una scarsa produttività. Le due cose insieme hanno controbilanciato negativamente gli effetti delle manovre fiscali da 182 miliardi attuate dai governi negli ultimi tre anni, e su cui si sono concentrate le poche risorse disponibili: «Il nostro è stato l’unico Paese della Ue a non aver attuato nel complesso politiche espansive», scrive l’Istat.
Ormai spendono solo i pensionati. La contrazione dei livelli di consumo delle famiglie si è verificata nonostante l’ulteriore diminuzione della propensione al risparmio (11,5%) e il crescente ricorso all’indebitamento: nel 2012 le famiglie indebitate superavano quota 7%. Tra il 2007 e il 2013 il potere d’acquisto è sceso del 10,4%, nel 2013 però la caduta è solo dell’1,1%, grazie a un modesto aumento dello 0,3% del reddito disponibile. Ma il 2013 potrebbe essere un anno di svolta, in cui la riduzione dei consumi risulta superiore a quella del reddito. Tra il 2007 e il 2012, rileva l’Istat, solo i pensionati hanno conservato livelli medi di consumo mensile positivi, «grazie alla sicurezza fornita dai redditi da pensione».
La crisi ha accresciuto anche i divari territoriali. Il Sud è diventato sempre più povero, per la cronica mancanza di lavoro. Infatti il tasso di occupazione maschile è sceso al 53,7%, oltre 10 punti più basso della media nazionale. Quanto alle donne, lavora una su tre. Campania, Calabria, Puglia e Sicilia presentano valori del tasso di occupazione femminile pari a meno della metà di quello della Provincia di Bolzano. Le famiglie in cui non è presente alcun occupato al Sud sono passate dal 14,5% del 2008 al 19,1% del 2013. Non solo il rischio di povertà è molto più alto che nel resto dell’Italia, ma la mancanza di prospettive per i giovani ne favorisce l’esodo, per cui il Mezzogiorno sta anche invecchiando più rapidamente del resto d’Italia.

il Fatto 29.5.14
L’ISTAT e l’esodo dall’Italia
L’81% dei giovani non sperano più: “Trovi lavoro solo da raccomandato”
Giovani rassegnati: 4 su 5 cercano la raccomandazione
Rapporto ISTAT: paese vecchio e statico. Dai 15 ai 34 anni chi è senza occupazione si rivolge a conoscenti o parenti e, in cinque anni, sono emigrati in 100.000
di Giulia Merlo


Negli ultimi 5 anni, 100 mila ragazzi sono emigrati all’estero. E, pur di ottenere un’occupazione, i laureati sono ormai disposti a tutto, anche a “demansionarsi”.
L’Italia prova a ripartire ma il mercato del lavoro stagna e a stare peggio sono i giovani: disoccupati, in cerca di raccomandazioni e in fuga per l’estero. È questo il ritratto del Paese secondo il rapporto annuale dell’Istat: trovare impiego è difficile, quando ci si riesce è grazie a conoscenze e se nemmeno queste bastano l’unica soluzione è l’emigrazione.
Negli ultimi 5 anni sono stati 1,8 milioni i giovani espulsi dal mercato del lavoro e il tasso di occupazione per gli under 35 è sceso al 40,2%, 10 punti in meno rispetto al 2012. Rimane forte il divario tra uomini (trova lavoro il 45,5%) e donne (34,7%), ma anche tra nord (50%) e sud (27,6%). In aumento sono anche i cosiddetti Neet (not in education, employment or training), i giovani che non studiano nè lavorano, che in Italia sono 2,4 milioni, di cui 500mila solo nel 2013.
LA CRISI ha allungato anche i tempi di ricerca, per chi il lavoro lo sta cercando: dai 17,7 mesi del 2008 oggi un giovane impiega 19 mesi per trovare un impiego. Tra i fortunati che il lavoro riescono a trovarlo, però, i dati fotografano una situazione tutt’altro che rosea: l’81,9%, infatti, dichiara che per trovare un posto si è rivolto a reti di conoscenza informale di parenti e conoscenti, e un terzo dei giovani neo-occupati riconosce l’importanza di questi contatti per ottenere l’agognata busta paga. Non solo, chi viene assunto deve accontentarsi di un ruolo inferiore rispetto alla propria qualifica professionale e anche i laureati
- che pure risentono meno della crisi - devono accettare il demansionamento. La cosiddetta “sovraistruzione” riguarda il 34,2% degli under 35, e i più penalizzati sono i dottori in scienze sociali e umanistiche, anche se la crisi ha colpito anche ingegneri e medici, sempre considerate categorie ad impiego sicuro.
Dati, questi, che ci allontanano sempre di più dagli obiettivi europei, che fissano per il 2020 il raggiungimento dell’82% di occupazione per i giovani tra i 20 e i 34 anni, che hanno concluso il loro percorso di formazione. In Italia si parla di circa un milione di ragazzi, il cui tasso di occupazione è sceso al 48,8%, lontanissimo dall’obiettivo e 27 punti in meno rispetto alla media europea.
NON SORPRENDE, quindi, l’impennata dell’emigrazione giovanile: negli ultimi cinque anni hanno detto addio all’Italia 94mila ragazzi, 26mila solo nel 2012. Una perdita netta di 18mila giovani, di cui ben 4mila laureati, che preferiscono cercare fortuna lavorativa in Regno Unito, Germania, Svizzera e Stati Uniti. L’esodo però non è solo verso oltreconfine: la crisi ha aggravato il divario tra nord e sud Italia, che sta diventando sempre più vecchia perchè i giovani risalgono la penisola in cerca di lavoro. Il tasso di occupazione nelle regioni meridionali, infatti, è sceso al 42%, contro il 64,9% del nord-est e 14 punti in meno rispetto al dato nazionale, con Sicilia, Calabria e Campania fanalino di coda.
I giovani sono la categoria più maltrattata, ma ad essere bloccato è l’intero mercato del lavoro. I disoccupati nel 2013 sono poco più di 3 milioni, ma il numero più che raddoppia se si calcolano anche le forze di lavoro potenziali ma inattive: 6,3 milioni di senza lavoro, e i dati più preoccupati si registrano nelle regioni del sud. Se in Italia il tasso di disoccupazione è del 12,2% - quasi il doppio rispetto al 2008 - nel sud Italia si arriva al 19,7%, meglio solo di Grecia e Spagna. Un divario evidente anche nel reddito medio, che in Campania è di 15.600 euro - pari a quello della Polonia - contro i 19.600 euro di media nazionale.
La recessione ha fatto aumentare anche il numero delle famiglie monoreddito: nel 2013 sono 7,3 milioni, l’11,7% in più in 5 anni. In questi casi, sono in aumento le donne “capofamiglia”, oggi il 12,2% e cresciute del 34,5% in 5 anni, contro il 26,5% in cui a guadagnare è solo l’uomo. Il fenomeno è diffuso soprattutto al sud, dove le mogli “breadwinner” sono aumentate del 10%, spesso per sopperire alla perdita di lavoro del partner.
Non solo fughe all’estero e disoccupazione giovanile, però. La recessione ha fatto registrare un nuovo minimo storico per le nascite. All’anagrafe sono stati iscritti 515mila bambini, 12mila in meno rispetto al minimo storico del 1995.

Repubblica 29.5.14
Autoritratto di un’emergenza
Un reddito di sostegno di 800 euro al mese in ciascuno dei tre milioni di nuclei familiari in difficoltà costerebbe l’1% del Pil
Un Paese senza nuovi nati può solo invecchiare e sviluppare costi del welfare e tasse più alte. È una spirale da spezzare prima che sia tardi
di Federico Fubini



SE SIAMO di nuovo al 1929, non è perché un altro panico di borsa sembri alle porte o si profili un’altra Grande depressione dopo la traversata del deserto di questi anni. No, è più semplice di così. Vale oggi ciò che disse allora John Maynard Keynes dopo una tornata elettorale segnata da più del 10 per cento di disoccupazione.
CON questi tassi di povertà, non si può sprecare neanche un penny di denaro pubblico che deve raggiungere chi più ne ha bisogno. Allora aveva votato la Gran Bretagna, domenica scorsa lo hanno fatto l’Europa e l’Italia. Ma le parole di Keynes devono suonare attualissime al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan o a quello del Lavoro, Giuliano Poletti, quando ricordano che un Paese in emergenza sociale ha bisogno di usare al meglio tutte le risorse che ha. Ieri l’Istat ha spiegato perché: tre milioni di famiglie in condizioni di povertà, nascite ai minimi da vent’anni, centomila giovani emigrati dall’Italia in cinque anni sono peggio che una situazione intollerabile. Sono la promessa che essa proseguirà: un Paese senza nuovi nati può solo invecchiare e sviluppare costi del welfare e tasse sempre più alte; un Paese che si specializza nell’esportazione dei suoi giovani più dinamici è destinato a rallentare ancora di più; e lasciare tre milioni di capifamiglia uomini o donne nella povertà, è la garanzia che neanche i loro figli studieranno, né creeranno abbastanza reddito o consumi di beni Made in Italy e anche i figli dei figli rischiano di restare in trappola.
È una spirale da spezzare prima che sia tardi. Ieri l’Istat ha provato ha proporre un difficile, non impossibile, modo di farlo: un reddito di sostegno di 800 euro al mese in ciascuno dei tre milioni di nuclei familiari che si trovano sul fondo della scala sociale. Costerebbe al bilancio 15,5 miliardi l’anno - circa l’1% del Pil - con la certezza che ciascuno di quegli euro non sarebbe risparmiato, ma speso in beni essenziali che sostengono i consumi e dunque la produzione (anche) delle imprese italiane.
Questa idea non può funzionare se porta ad aumenti del deficit, perché salirebbero i tassi d’interesse e nuove imprese indebitate chiuderebbero, creando nuovi disoccupati. Avrebbe senso invece se la spending review da anni in cantiere si rivelasse, come spera Padoan, una cosa seria. E funzionerebbe meglio ancora se rientrasse in una revisione ben fatta degli strumenti di sostegno a chi ha perso il reddito da lavoro, come annuncia Poletti. Questo però è il punto su cui Keynes, al solito caustico, polemizzava nel ‘29: mostrò che con il mezzo miliardo di sterline versate ai disoccupati «si sarebbe potuto costruire un milione di case, un terzo delle strade di questo Paese o si poteva dare un’auto a una famiglia su tre». Ma la perdita peggiore, aggiunse, è per «in forza e morale» dei disoccupati stessi, perché vengono pagati per non fare nulla.
Non suona molto diverso da noi, 85 anni dopo. Nell’ultimo quinquennio l’Inps ha versato oltre cento miliardi di euro in cassa integrazione, mobilità e assegni di disoccupazione per tenere milioni di persone fuori gioco: o nel lavoro illegale o immobili a casa a perdere competenze e motivazione. Non è neppure il caso di aggiungere che, stima l’Anas, con quella cifra si sarebbe aumentata di metà la rete di strade e autostrade. O che si sarebbe portata l’alta velocità ferroviaria in molte città del Sud. Il punto è un altro: con cento miliardi si sarebbero potuti offrire sussidi e percorsi di formazione a quegli stessi milioni di senza lavoro. La stessa offerta di sostegno al reddito proposta dall’Istat può vincolare metà dell’aiuto a un vero, efficace tirocinio: è il modello di Bolsa Familia inaugurata nel Brasile di Lula. In un momento in cui la povertà diventa un’emergenza del Paese, ignorare i modelli che hanno funzionato altrove sarebbe un lusso eccessivo.
Il tutto richiede, certo, di strappare anche i meccanismi della formazione al solito clientelismo e agli sprechi della politica locale. Ma l’Italia deve cambiare. E il momento è adesso.

il Fatto 29.5.14
La sociologa Chiara Saraceno
“Effetto scandali, ma la spintarella salva i più forti”
di Carlo Di Foggia


È una percentuale che fa impressione”. Nel profluvio di numeri drammatici diffusi ieri dall’Istat, il dato rischiava di passare in sordina: quasi l’82 per cento dei 15-34enni cerca lavoro ricorrendo alle “conoscenze”, una “rete informale” fatta di parenti e amici che sostituisce i canali pubblici. “È il frutto di un mix tra la mentalità tipicamente italiana e la realtà sconsolante del lavoro nel nostro Paese - spiega Chiara Saraceno, sociologa di fama internazionale e membro onorario del collegio Carlo Alberto di Torino - È un sistema che spinge tutti, non solo i giovani, a cercare strade alternative”.
Perché?
C’è la netta sensazione che siano più efficaci.
A torto o a ragione?
In parte è vero, ma vale solo per i ricchi. Le fasce di reddito elevate hanno reti informali forti - le uniche che in tempo di crisi funzionano - quelle basse no, al massimo trovano lavori poco qualificati. Per loro la raccomandazione non basta.
Esiste anche un problema di mentalità?
Gli scandali dei concorsi truccati si ripetono giorno dopo giorno, e si ha l’idea che tutto funzioni così: vincono solo i fortunati, i figli di papà e chi ha le conoscenze giuste. Un messaggio veicolato anche dalle famiglie.
Il mercato del lavoro dà un messaggio diverso?
Purtroppo no. Le aziende non rispondono quasi mai a chi invia il curriculum, a meno che non ci sia qualcuno che lo segnali. Gli uffici di collocamento, poi, non hanno dato una grande prova di sé. In Germania, le riforme iniziate nel 2002, hanno potenziato queste strutture e il risultato è sotto l’occhio di tutti. Da noi sono solo degli sportelli per lavori poco qualificati, e se il sistema pubblico non funziona è normale che ci si affidi alle conoscenze.
Il problema quindi non è solo nell’offerta di lavoro.
Al contrario, il problema è che non esiste la domanda. È un dato drammatico che alimenta questo sistema. Secondo l’Istat solo il 30 per cento delle aziende crea domanda di lavoro. Abbiamo imprese che non hanno investito in ricerca, e questo ben prima del 2008. Avevamo un’occupazione senza sviluppo, eppure ci sentivamo tranquilli. La crisi ha spazzato via questa illusione.

Corriere 29.5.14
«È la difesa dalla mancanza di lavoro e prospettive»
Il demografo: si comincia prolungando la permanenza a casa
Poi si rinviano i passi fondamentali
Massimo Livi Bacci, è professore di Demografia presso la facoltà di Scienze Politiche «Cesare Alfieri» dell’Università di Firenze. È stato senatore nel 2006 e nel 2008 per il centrosinistra
intervista di A. Ar.


ROMA — «Il record minimo di natalità in Italia?». Massimo Livi Bacci, docente di Demografia dell’Università di Firenze e accademico dei Lincei, si gira la domanda fra i pensieri, prima di rispondere.
Sì professore, c’è un record negativo di natalità. Nel 2013 sono nati appena 515 mila bambini, 12 mila in meno di quello che si credeva essere il record negativo storico, nel 1995. Che sta succedendo?
«Beh, la crisi economica è entrata nel suo settimo anno e colpisce principalmente giovani donne e giovani uomini. Dunque si traduce in meno lavoro, meno reddito, meno prospettive. È normale che si mettano in atto strategie difensive».
Ci si difende dalla crisi mettendo al mondo meno figli?
«Anche, ovviamente. Le strategie difensive del resto sono semplici: si comincia con il prolungare la convivenza con la famiglia dei genitori, si rinviano decisioni di consumo, si ridimensionano le aspettative. Ma si rinviano anche alcune decisioni fondamentali ed impegnative: la convivenza, il matrimonio, la nascita dei figli».
Vuole che dire che a causa della crisi economica si arriva addirittura a rinunciare a mettere al mondo dei figli?
«In realtà davanti ad una crisi economica le strategie difensive vengono modulate sulla durata. Quando le crisi sono brevi i programmi vengono aggiornati di volta in volta: si rinvia la scelta di una gravidanza, ma si recupera quando torna il sereno. Ovvero le nascite che non avvengono oggi avverranno domani».
E quando la crisi non è di breve durata?
«Dopo sette anni di vacche magre, come nel nostro caso, c’è il rischio concreto che molti programmi riproduttivi anziché essere rinviati vengano abbandonati definitivamente».
Con quale conseguenza?
«Quello che sta succedendo da noi: l’indebolimento progressivo della demografia del Paese».
Nel nostro Paese sempre più vecchio anche gli stranieri stanno abba ndonando le postazioni....
«Questo non deve essere visto necessariamente come una cosa negativa».
Perché?
«La popolazione straniera è stata in crescita anche in tempo di crisi e il saldo tra arrivi e partenze continua ancora oggi ad essere positivo. Certo è assai minore di quello del primo decennio del secolo, ma dobbiamo considerare che quello era un tasso di crescita per noi insostenibile. I dati dell’immigrazione, tuttavia, sono inadeguati a comprendere la vera dinamica del fenomeno, visto che una parte degli stranieri esce dall’Italia per un ritorno definitivo al Paese d’origine e un’altra parte, invece, rientra in patria con l’intento di tornare ai primi sintomi di ripresa».
Nell’Italia in crisi economica vanno via anche i giovani: l’Istat ci dice che sono andati all’estero 100 mila giovani in cinque anni.
«Non ci dobbiamo allarmare per questo».
No?
«No, è un fatto positivo che aumenti la mobilità internazionale che è soprattutto intraeuropea. I numeri, del resto, sono relativamente esigui, una piccola frazione rispetto all’emorragia verso l’estero degli Anni 50 e 60 del secolo scorso. E soprattutto più che compensata dagli arrivi dall’estero dei giovani migranti».

Corriere 29.5.14
La Francia dà 7 mila euro ai genitori con due bimbi
di Simona Ravizza


Altro che Italia. Il secondo figlio è nato da un mese appena e a casa già arriva un assegno mensile da 124 euro. Succede in Francia, unico Paese al mondo — certifica uno studio dell’Institut national etudes démographiques (Ined) — ad avere un tasso di fecondità costante da 40 anni: qui il numero di figli per donna è di 2 dal 1973 (contro l’1,42 dell’Italia, dati Istat). Miracoli del welfare. Per il demografo Gilles Pison il baby boom in Francia non è mai finito per merito della politica familiare messa in campo dallo Stato, che investe nel sostegno alla maternità il 5% del Pil. Al compimento del 14esimo anno di ogni figlio (e fino al 20esimo) l’assegno aumenta di 62 euro. Indipendentemente dal reddito. Per il 90% delle famiglie (tutte tranne le più abbienti) è previsto un bonus bebè da 923 euro che scatta al settimo mese di gravidanza. E fino al terzo anno di vita del bimbo, sempre per il 90% delle famiglie, c’è un assegno mensile di altri 186 euro. In sintesi: una famiglia del ceto medio con un neonato e un bimbo all’asilo nido in un anno può mettersi in tasca quasi settemila euro.
Tutti i dati — e per tutta Europa — li mette in fila un dossier dell’assessorato al Welfare della Regione Lombardia, guidato da Cristina Cantù (Lega). Lo scopo? Capire quali sono le migliori politiche di sostegno alla maternità (per ricavarne proposte di intervento). Così emerge che nel resto d’Europa ci sono principalmente tre misure con cui si aiutano le donne a fare figli: soldi in tasca alle famiglie (assegni legati alla maternità), cura dei bambini (dagli asili nido alle babysitter di famiglia), benefit vari (spesso a sostegno dei redditi più bassi). Sono tutti provvedimenti che mettono in evidenza come l’Italia sia ancora all’Anno Zero. Difficile meravigliarsi se una donna italiana su quattro giunge al termine dell’età fertile senza avere bambini (contro l’una su dieci della Francia). Un trend confermato dagli ultimi dati Istat. Da noi non c’è praticamente nessun aiuto a livello statale, tranne le detrazioni fiscali (tra i 950 e i 1.220 euro l’anno). E le iniziative regionali si contano sulle dita di una mano (Toscana, Piemonte, Emilia Romagna e Umbria, oltre alla Lombardia dov’è allo studio un potenziamento degli aiuti alla maternità).
Meglio guardare all’estero. In Gran Bretagna, per la solita famiglia del ceto medio con due bimbi, arrivano nel portafoglio 3.168 euro l’anno (il tasso di fecondità è di 1,92 figli per donna): i genitori ricevono un contributo mensile di 100 euro per il primo figlio e di 164 euro dal secondo in avanti. In Svezia sono 3.012 euro all’anno (il tasso di fecondità è di 1,91): per chi ha due bambini il sussidio familiare è di 251 euro mensili. In Germania le cifre in gioco sono ancora più alte: 4.416 euro all’anno, per il primo e il secondo figlio l’importo è pari a 184 euro. In questo caso, però — come sottolineato dal demografo Gilles Pison — il tasso di fecondità rimane tra i più bassi d’Europa (1,38): una mancanza d’entusiasmo che si spiega, forse, con la radicata convinzione che una donna con un figlio piccolo non debba lavorare.
Oltre agli assegni familiari, che di solito valgono fino al 16°/18° anno di età, gli aiuti per la cura dei figli sono l’altro pilastro fondamentale adottato nell’Europa che sostiene la maternità. In Francia, fino al 66% delle rette per i nidi e gli asili è coperta da fondi pubblici. In Gran Bretagna, per le famiglie con un reddito inferiore a 32 mila euro, c’è la childcare tax credit , un credito d’imposta a copertura parziale delle spese di assunzione della tata. In Svezia i Comuni sono obbligati a offrire ai bimbi fino a 12 anni una rete di servizi tra cui la babysitter di famiglia (il Comune raccoglie le richieste e smista tra le famiglie le educatrici). Mentre in Germania, dall’estate del 2013, ogni famiglia può ottenere per legge un posto all’asilo nido; chi, invece, preferisce accudire a casa il bimbo riceve 150 euro mensili (per 22 mesi).
Una famiglia numerosa? Con il Paris pass family scattano sconti per piscine, mostre e musei. Per chi risiede in Baviera ci sono contributi pubblici che aiutano le famiglie meno abbienti a portare i figli in villeggiatura (per ciascun minore è garantito un contributo di 13 euro al giorno in posti di soggiorno convenzionati con lo Stato). Trentamila negozi della Gran Bretagna sono a disposizione delle neomamme squattrinate che possono acquistare con voucher latte, frutta, verdura e vitamine. E la Svezia aiuta le famiglie con figli perfino a pagare l’affitto.

La Stampa 29.5.14
Brescia, la Leonessa della memoria
Sono le 10 e 12 minuti e piazza della Loggia è stracolma di gente raccolta in un sacro silenzio
Si sentono solo, da ogni parte della città, le campane a morto fatte suonare da tutte le parrocchie:
otto rintocchi, tanti quanti furono i morti quella mattina del 28 maggio 1974
di Michele Brambilla


In piazza ci sono anche Giuliano Pisapia e Flavio Merola, sindaci di Milano e Bologna, altre due città colpite dalle bombe: così questo è un momento che diventa memoria non solo per Brescia, ma per tutta Italia. Sono passati esattamente quarant’anni: l’attuale presidente del Consiglio non era ancora nato. Era un’altra Italia: ma non bisogna dimenticare. 
L’altoparlante trasmette la registrazione del discorso che stava tenendo il sindacalista Franco Castrezzati. Si sente: «La nostra Costituzione vieta sotto qualsiasi forma la ricostituzione del disciolto partito fascista...». A un certo punto ecco una frase che comincia così: «A Milano...». Chissà che cosa voleva dire Castrezzati: forse qualcosa sulla strage di piazza Fontana. Ma la frase è interrotta da uno scoppio. Risentiamo, tutti insieme, quel boato. Poi le parole concitate: «Una bomba! Compagni! State fermi!». Ecco, ora la registrazione si interrompe, la piazza applaude. Siamo tornati nel 2014.
Le commemorazioni sono considerate, anche da noi dei giornali, come qualcosa di un po’ noioso, notizie che non meritano molto spazio. Ma essere qui a Brescia in questa occasione fa capire come la memoria sia imprescindibile per un Paese che vuole avere un futuro. Non è facile, tenerla viva. Una ricerca del Censis in tutte le scuole di Brescia e provincia ha fornito risultati sconfortanti: per la maggioranza degli studenti – il 37 per cento – fu la mafia a mettere quella bomba. Il secondo gruppo più numeroso, 28 per cento, dice «le Brigate Rosse». Solo per il 26 per cento fu una strage compiuta da estremisti di destra. Ma bisogna guardare anche il lato positivo: il 91 per cento degli studenti dice che la memoria è decisiva.
E forse nessuna città in Italia crede alla memoria come Brescia. Girando la città si avverte ovunque un senso di grande partecipazione, e un lutto ancora vivo. In piazza Rovetta la signora Rosanna Zanetti ha attaccato a una parete della sua edicola le prime pagine, originali, dei quotidiani di allora: allora si facevano le «edizioni straordinarie». Seduto a un tavolino all’ingresso della piazza c’è un anziano sacerdote, don Piero Lanzi, che da quarant’anni annuncia l’arrivo in piazza delle varie delegazioni. Il pomeriggio arriveranno don Luigi Ciotti e Moni Ovadia; la mattina presto c’è stata una messa e la sera ci sarà un concerto. La Flc Cgil nel pomeriggio presenta le biografie di due delle vittime, Livia Bottardi e Giulietta Banzi Bazoli. Nella sala San Barnaba i tre sindaci (c’è ovviamente anche quello di Brescia, Emilio Del Bono, insieme con Pisapia e Merola) incontrano gli studenti e rispondono alle loro domande. C’è anche Luca Tarantelli, che aveva 13 anni quando le Brigate Rosse gli uccisero il papà Ezio, economista: viene applaudito quando richiama alla responsabilità i tanti intellettuali che, ancora oggi, distinguono fra un terrorismo cattivo e uno buono, o quantomeno nobile.
Insomma in tutta la città e la provincia è un fiorire di iniziative, e non solo per oggi. Brescia è Leonessa anche nella memoria. Non ha ancora avuto giustizia, però. Ci sono state cinque istruttorie che hanno dato origine a tredici processi. Il quadro generale è chiaro: estremisti neofascisti e servizi segreti deviati. Ma non si è arrivati ad alcuna condanna. 
Tuttavia la speranza non muore. A un certo punto sul palco sale Arnaldo Trebeschi, che il 28 maggio 1974 perse il fratello Alberto e la cognata Clementina Calzari. È l’uomo che piange, inginocchiato, la mano sinistra sulla fronte, in una celebre foto in bianco e nero. «Non ho mai voluto parlare per quarant’anni», dice: «Lo faccio oggi perché ho un motivo nuovo per sperare nella verità e nella giustizia». Si riferisce alla sentenza della Cassazione che ha bocciato due delle ultime assoluzioni e ha rimandato a processo Carlo Maria Maggi, ex capo di Ordine nuovo, e Maurizio Tramonte, la «fonte Tritone» che avvertì i servizi segreti della strage imminente.
La lezione di Brescia è anche e soprattutto la lezione di un uomo. Si chiama Manlio Milani ed è il presidente della Casa della Memoria. Quella mattina perse la moglie e ha dedicato tutta la vita ad aiutare l’Italia a non dimenticare. Mai con odio, però. Era un sindacalista del Pci ed è tuttora un uomo di sinistra. Ma si è sempre battuto per dire che «i morti sono di tutti» e ha voluto dedicare il quarantesimo anniversario ad Andrea Arcai, un ragazzo missino, figlio di un magistrato, che fu ingiustamente arrestato per la strage. La speranza di un Paese è fatta anche di uomini così.

Repubblica 29.5.14
Franceschini: “Non sparate sul marketing della cultura torneremo ad assumere”
Il ministro spiega il suo decreto: “Il credito di imposta per chi fa donazioni è rivoluzionario. Ma i privati non devono mai sostituire lo Stato”
intervista di Francesco Erbani



È appena un varco. Nel decreto cultura varato dal Consiglio dei ministri, che è in attesa degli ultimi passaggi formali, spunta una norma che consente a musei, biblioteche, archivi di assumere a tempo determinato giovani laureati in storia dell’arte e in altre discipline. E ciò in deroga ai limiti imposti alle amministrazioni diverse dai beni culturali. Niente più che uno spiraglio di luce, occorre aspettare per capire quanto grande, in strutture che però già impiegano tanti precari, dove il personale è scarsissimo e quello che c’è supera, in media, i 55 anni. È comunque una misura che il ministro Dario Franceschini inserisce in quelle che vorrebbe riportassero la cultura al centro di una politica assolutamente distratta. «Quando ha governato il centrodestra, lo slogan era “con la cultura non si mangia”, ma anche il centrosinistra ha responsabilità. Io ho voluto occuparmi di questo ministero perché credo che i beni culturali siano ossigeno per le menti, l’anima e anche per l’economia».
Di nuovo l’analogia con il petrolio?
«Ho detto ossigeno. Il petrolio è una risorsa che si consuma».
Ma da dove parte per invertire la rotta?
«Intanto abbiamo rotto la barriera pubblico-privato. Il credito d’imposta al 65 per cento per chi elargisce donazioni è rivoluzionario. Il modello è quello avviato a Ercolano con la fondazione di David Packard. Ma l’intervento privato non sostituisce quello pubblico».
Tagliare ancora sarebbe esiziale.
«Nel decreto reintroduciamo l’obbligo di destinare ai beni culturali il 3 per cento dei fondi per le infrastrutture. Affideremo 3 milioni ai comuni che organizzano iniziative culturali in periferia: se le fanno nel centro storico se le pagheranno da loro. E poi strumenti ai sindaci per allontanare le bancarelle dai siti monumentali. Non è solo un problema di risorse».
E dunque?
«Con la ministra Giannini reintrodurremo la storia dell’arte dov’era stata soppressa e la incrementeremo dov’era stata ridotta. Inviteremo le scuole ad adottare ognuna un monumento. Sosterremo l’insegnamento della musica e l’educazione alla lettura».
lontanerebbe dalla lettura?
«A quella mia battuta molti hanno replicato indicando le trasmissioni che parlano di libri. Ma queste si rivolgono a chi legge già. Io vorrei che la tv contribuisse a far amare la lettura al grande pubblico che non legge».
Pompei. Lei ha attribuito maggiori poteri al generale Giovanni Nistri. Non teme che, a prescindere da Nistri, apprezzato da tutti, si riprecipiti nella stagione dei commissari, infausta per quel sito?
«A Pompei ho lavorato sulla struttura che ho trovato, il soprintendente e il direttore generale. Ho solo varato misure per accelerare le procedure e per assicurare a Nistri una propria struttura ».
Un commissario, però, è spuntato alla Reggia di Caserta.
«Ha un incarico di sei mesi e de- ve solo fare in modo che la Reggia, occupata per oltre il settanta per cento da uffici impropri come l’Aeronautica militare e altri ancora, sia restituita integralmente alle sue funzioni».
Il decreto prevede Grandi progetti nazionali. Vi concentrerete sulle eccellenze. Non si rischia di snaturare la caratteristica primaria del nostro patrimonio, quella di essere distribuito come la trama di un tessuto su tutto il territorio?
«Impiegare 5 milioni nel 2014, 30 nel 2015 e 50 nel 2016 per singole strutture non significa trascurare il patrimonio diffuso. Per me un sito archeologico che fa tremila visitatori l’anno, dal punto di vista scientifico e della tutela, non è inferiore a quello che ne fa 500 mila. Ma, tornando alla Reggia di Caserta, devo pur progettare un uso degli spazi che si libereranno: questo potrebbe essere uno dei Grandi progetti».
Grandi progetti, grandi musei. In questi ultimi lei vuole i manager. I direttori, i soprintendenti non sono adatti alla promozione culturale?
«Ma perché ci si irrita tanto se, accanto a chi esercita la tutela, c’è qualcuno che si occupa di marketing? Direttori e soprintendenti non avranno ridotte le loro funzioni. È che non sono formati per quelle attività che producono risorse utilizzabili solo per migliorare la tutela».
Ammetterà che le soprintendenze sono oggetto di vituperi. Il presidente del Consiglio ha spesso accenti sprezzanti.
«Le soprintendenze svolgono un compito fissato dall’articolo 9 della Costituzione. Ma come in tutti gli uffici, anche lì ci sono funzionari ottimi e funzionari inefficienti. Non essendoci organi d’appello alle loro decisioni, credo che l’eccessiva discrezionalità sia un problema».
Vuole indirizzarle a un maggior rigore o ad allentare i controlli?
«I controlli non vanno allentati. Ma non sono obbligatoriamente d’ostacolo all’innovazione».

Il Sole 29.5.14
l carcere «aperto» aiuta la sicurezza e la crescita
Ricerca Università di Essex-Ente Einaudi: meno recidiva e più crescita economica e di legalità
di Donatella Stasio e Daniele Terlizzese


Troppo spesso il dettato costituzionale in materia di pena è considerato un ideale utopistico da sacrificare sull'altare della sicurezza. È vero invece l'esatto contrario: il rispetto della Costituzione può essere la chiave di volta di una significativa riduzione della recidiva (fino a 9 punti percentuali), trasformando il carcere in una fabbrica di libertà, e non del crimine, nonché in un volano per la crescita economica del Paese. È quanto emerge dalla ricerca di due economisti, Giovanni Matrobuoni dell'Università di Essex e Daniele Terlizzese dell'Einaudi Institute for Economics Finance, avviata nel 2012 su impulso del Sole 24 Ore e con la collaborazione dell'ex ministro della Giustizia Paola Severino. La prima in Italia che, su basi scientifiche, misura il rapporto di causalità tra modalità di esecuzione della pena e recidiva.

A parità di pena da scontare nelle patrie galere, chi ha avuto la "fortuna" di trascorrere più tempo in un carcere "aperto" ha una recidiva inferiore di chi invece è stato detenuto più a lungo in un tradizionale carcere "chiuso". Per ogni anno passato nel primo tipo di carcere, invece che nel secondo, la recidiva si riduce di circa 9 punti percentuali. Un abbattimento rilevante, con conseguenze importantissime in termini di risparmi, di miglioramento della sicurezza sociale e di riduzione del sovraffollamento carcerario. Poiché, infatti, ogni anno entrano in carcere 9mila persone e di queste una quota rilevante ha già alle spalle una precedente condanna, se la recidiva calasse in media di 9 punti percentuali gli ingressi diminuirebbero ogni anno di circa 800 detenuti.
È quanto si ricava dalla ricerca di Giovanni Mastrobuoni, dell'Università di Essex, e di Daniele Terlizzese, dell'Einaudi Institute for Economics Finance, avviata a settembre 2012 su impulso del Sole 24 Ore e con la collaborazione del Ministero della Giustizia che, con l'allora guardasigilli Paola Severino, ha aperto gli archivi del Dap (Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria) per consentire l'accesso alle informazioni necessarie a misurare - per la prima volta in Italia su basi scientifiche - il rapporto di causalità tra modalità di esecuzione della pena e recidiva. Le conclusioni di M&T mostrano che il carcere "chiuso" - cioè la pena scontata interamente "dentro" a doppia mandata, in ozio, in condizioni di promiscuità e insalubrità - non produce maggiore sicurezza sociale, contraddicendo gli slogan e le scelte di politica securitaria degli ultimi decenni. I due economisti dimostrano che un carcere "aperto", che incarni il mandato costituzionale della rieducazione del detenuto rispettandone la dignità e i diritti fondamentali, è in grado di ridurre la recidiva e, per questa via, la popolazione carceraria, contenendo i costi e aumentando la sicurezza dei cittadini. Di qui un'ulteriore conseguenza: investire sul carcere "aperto" significa investire sulla crescita economica di un Paese, poiché a una maggiore sicurezza sociale corrisponde un clima più favorevole agli investimenti, sia italiani che esteri.
Se poi tutto questo non bastasse, a spingerci nella stessa direzione è il richiamo del Consiglio d'Europa, dopo la condanna della Corte di Strasburgo per trattamenti inumani e degradanti anche a causa del sovraffollamento carcerario e di una politica penitenziaria inidonea a garantire il rispetto della dignità dei detenuti. Una condanna pesante, anche in termini economici, poiché i ricorsi pendenti a Strasburgo - congelati in attesa di misure strutturali - sono circa 4000 e, se accolti, si tradurranno in risarcimenti per decine di milioni di euro. Il 3-4 giugno è atteso il verdetto del Comitato dei ministri che da un anno e mezzo ci tiene "sotto osservazione".
Lo studio di M&T si è concentrato sul carcere di Milano Bollate, avanguardia assoluta di carcere interamente "aperto" inaugurato nel 2000: celle aperte tutto il giorno, nessun sovraffollamento, giornate operose fatte di lavoro, studio, formazione professionale, attività ricreative e sportive, affettività e progressivo reinserimento nella società attraverso il ricorso ai benefici carcerari e alle misure alternative. Un carcere dove si cerca di applicare la legge e la Costituzione; dove tutti i detenuti sono chiamati alla responsabilità e all'autodeterminazione; dove la qualità della vita non è paragonabile alla stragrande maggioranza delle carceri italiane; dove, a fronte di 1.230 detenuti, si contano solo 430 poliziotti, poiché la sorveglianza non è concepita in modo tradizionale (monopolio esclusivo della polizia penitenziaria con conseguente marcamento a uomo: un poliziotto per ogni detenuto) ma in modo "integrato", essendo condivisa con tutti gli operatori delle altre aree (educatori, volontari, operatori di rete, persone che partecipano ai progetti scolastici e di lavoro).
Per molti anni il "modello Bollate" è stato considerato una sperimentazione, se non addirittura una vetrina, e soltanto di recente l'Amministrazione ha cominciato a estenderlo ad altre realtà detentive nel loro complesso.
Se per ridurre il sovraffollamento occorre soprattutto abbandonare la cultura carcerocentrica della pena e puntare alle misure alternative, un contributo non secondario può venire dal trasformare il carcere - là dove è ritenuto sanzione necessaria - da luogo che produce recidiva (quindi criminalità) in luogo operoso e rispettoso della dignità umana, che produce libertà e sicurezza collettiva. culturale.
L'emergenza sovraffollamento e la minaccia dell'apertura di una procedura di infrazione hanno spinto nella prima direzione, anche con i decreti svuota-carceri dei due precedenti governi e con l'approvazione della legge delega sulle sanzioni sostitutive (ancora però da attuare). Pur lentamente, qualche passo avanti si sta facendo anche nella seconda direzione ma populismi e demagogie sono sempre in agguato e rischiano di frenare il cammino. Inoltre, se l'emergenza è stata la molla per imboccare questa strada, la fine o l'attenuarsi dell'emergenza (intesa come sovraffollamento) rischiano di far abbassare la guardia. Perciò un'analisi rigorosa delle misure più efficaci è indispensabile per portare avanti il cambiamento e toglie qualunque alibi a tentazioni di retromarce.
Dal carcere di Bollate, quindi, si è partiti per misurare la recidiva dei suoi "ospiti". Consapevoli della selezione operata all'ingresso, che rende il detenuto medio di Bollate non rappresentativo del detenuto medio di un altro carcere italiano, si è identificato l'effetto causale del "trattamento Bollate" sfruttando la variabilità, pressoché casuale, della durata della pena residua al momento del trasferimento in quel carcere: in sostanza, succede spesso che detenuti condannati alla stessa pena complessiva e ammessi a Bollate finiscano per scontarne lì una frazione diversa per ragioni legate ai tempi del loro trasferimento. Pertanto, osservando la diversa recidiva di quei detenuti, si può capire quale sia l'effetto di un "trattamento Bollate" più o meno protratto nel tempo. Un po' quello che accadrebbe se a diversi pazienti con la stessa malattia e analoghe condizioni generali di salute venissero somministrate dosi diverse della medesima medicina e se ne misurasse poi l'effetto.
Questo tipo di analisi, utilizzando appropriate tecniche statistiche, porta a misurare la riduzione della recidiva associata alla durata, più o meno lunga, del periodo trascorso a Bollate, a parità di pena da scontare. Il risultato - una riduzione di circa 9 punti percentuali per ogni anno in più di permanenza a Bollate (e quindi in meno in un altro carcere) - dimostra appunto che un carcere rispettoso della dignità della persona e impostato sulla rieducazione del condannato consente di ridurre sensibilmente la recidiva e dunque contribuisce alla crescita del Paese in termini di legalità, sicurezza, risparmi e competitività.
Un'obiezione possibile è che la riduzione osservata, pur essendo una buona misura della risposta al "trattamento" degli ospiti di Bollate, non è altrettanto idonea a misurare la risposta al medesimo trattamento di un detenuto meno selezionato di quello che normalmente finisce a Bollate. Per rispondere a questa obiezione si è ripetuta l'analisi su un sottoinsieme dei detenuti di Bollate, i cosiddetti "sfollati", ospiti occasionali lì trasferiti per ovviare temporaneamente al sovraffollamento di carceri limitrofe. Detenuti né scelti né selezionati (semmai, è possibile che la selezione avvenga in senso opposto, per la tendenza a sfollare le persone più problematiche), che in genere si fermano per periodi più brevi degli altri.
Ebbene, sfruttando di nuovo la variabilità casuale della durata della loro permanenza a Bollate, si è misurata la riduzione della loro recidiva, ottenendo un risultato per certi versi sorprendente: per ogni anno in più di pena scontato a Bollate (e in meno in un altro carcere) la recidiva si riduce di circa 14 punti percentuali. Trattandosi di un campione meno numeroso i risultati sono stimati con minore precisione, ma è significativo e interessante che l'effetto positivo del carcere "aperto" si manifesti addirittura in misura maggiore per detenuti considerati a priori meno promettenti (non essendo selezionati) e che, anche per la ridotta permanenza a Bollate, sono meno coinvolti negli aspetti più qualificanti del trattamento (formazione professionale, avviamento al lavoro, studio...). Sembra dunque di poter concludere che anche il solo fatto di garantire ai detenuti condizioni dignitose e un contesto responsabilizzante inneschi un processo riabilitativo. A ciò contribuisce anche - in una misura che si sta ancora cercando di verificare con maggiore precisione - l'esempio e il contatto con i detenuti "migliori", considerati a priori meno propensi a recidivare, vale a dire l'influenza positiva sui detenuti più "cattivi" di un ambiente "più sano".
Troppo spesso, nel nostro Paese, il dettato della Costituzione in materia di pena carceraria è visto come un ideale utopistico da sacrificare sull'altare della sicurezza. I risultati di questa ricerca dimostrano che è vero l'esatto contrario: proprio il rispetto della Costituzione può essere la chiave di volta di una significativa riduzione della recidiva, trasformando il carcere in una fabbrica di libertà e non del crimine.

Il Sole 29.5.14
Le misure alternative
#ilcarcerecambiaverso Si deve e conviene
di D. St.


#ilcarcerecambiaverso. È l'hashtag che ci aspettiamo presto da Matteo Renzi per riabilitare l'Italia dopo la mortificante condanna di Strasburgo per trattamenti inumani e degradanti. Non misure spot né operazioni di immagine. Cambiare verso significa proseguire sul cammino avviato ma impegnandosi soprattutto in una battaglia culturale che ha al centro la Costituzione e i suoi valori, rendendoli "vivi", come auspicato più volte dal Quirinale. Il contrario, insomma, della demagogia che ha ispirato decenni di politiche securitarie. Significa applicare con determinazione il dettato costituzionale, investendo su pene e misure alternative. Ma anche sulla qualità della vita in carcere. Investire sul carcere "aperto" - facendone un luogo operoso di lavoro, studio, attività ricreative, di rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti - significa infatti investire sulla sicurezza sociale e sulla legalità e quindi creare un clima più favorevole agli investimenti italiani e esteri.
Non è un cammino in discesa, ma da oggi il governo ha un elemento in più da sfruttare: la ricerca degli economisti Mastrobuoni e Terlizzese che misura - per la prima volta in Italia su basi scientifiche - il rapporto di causalità tra modalità di esecuzione della pena e recidiva (si veda articolo a pag. 23). Il risultato - riduzione di 9 punti percentuali della recidiva per chi trascorre più tempo in un carcere "aperto" e meno in un carcere "chiuso" - toglie alibi a omissioni e incertezze ed è uno straordinario contributo ad una svolta culturale. Il contributo del Sole 24 Ore per far cambiare verso al carcere. (D.St)

Corriere 29.5.14
Sicilia, bocciato lo stop al vitalizio per Cuffaro


Duro scontro all’Assemblea regionale siciliana fra il presidente del Parlamento, Giovanni Ardizzone, e i 5 Stelle. Tutto è nato dalla proposta del deputato regionale grillino Giancarlo Cancelleri di inserire nella norma del governo Crocetta che fissa il tetto massimo delle retribuzioni dei dipendenti pubblici della Regione e degli enti controllati a 160 mila euro lordi — poi approvata — un emendamento per tagliare il vitalizio ai parlamentari regionali condannati per reati di mafia. Immediata la replica di Ardizzone: «Mi svesto dalle vesti istituzionali e le ricordo che questa è materia penale, l’Ars non ha competenza. Anche se lei non ha studiato Legge dovrebbe saperlo. Avete fatto diventare il “caso-Cuffaro” un caso nazionale, siete andati nelle tv nazionali a parlare male delle istituzioni che voi stessi rappresentate».
Il riferimento era alle ripetute denunce dei pentastellati sulla pensione da 6mila euro lordi al mese che l’ex governatore Totò Cuffaro, in carcere per mafia, continua a percepire. I 5 Stelle hanno chiesto le dimissioni di Ardizzone, ma alla fine l’emendamento è stato bocciato.

Corriere 29.5.14
Hebron, quelle bimbe arrestate sulla collina dei ciliegi
Palestinesi, trattenute per 7 ore per aver preso della frutta
«La più piccola ha 11 anni»
di Davide Frattini


GERUSALEMME — È la strada sabbiosa che percorrono per andare e tornare da scuola. Ogni giorno degli ultimi dieci anni hanno camminato sotto la scorta dei soldati israeliani che dovrebbero proteggerli da altri israeliani. I coloni dell’avamposto di Maon non vogliono che i bambini e le bambine palestinesi passino da quelle parti, a fianco dei loro campi coltivati sulle colline a sud di Hebron. Si schierano, mascherati, aspettano il piccolo convoglio pronti ad attaccare, lanciano pietre e blocchi di cemento, contro gli studenti e contro i militari.
Due giorni fa hanno scelto un’altra tattica intimidatoria: accusare quattro ragazzine di aver colto qualche ciliegia da un podere recintato. Le hanno bloccate, hanno aspettato il blindato dell’esercito. «Furto» hanno detto ai soldati che le accompagnavano e «furto» hanno ripetuto loro nella radio della jeep alla polizia. Che è arrivata e ha portato Inshira, 11 anni, Randa (12), Noor (13), Dalal (15) nella caserma di Kiryat Arba. Sono stage rilasciate solo nel pomeriggio, dopo quasi sette ore, dopo le telefonate e gli avvertimenti degli attivisti di B’Tselem, organizzazione israeliana per i diritti civili. «La più piccola — spiega l’avvocata Gaby Lasky — non poteva essere interrogata, è illegale anche per i territori occupati. Dalal, la più grande, è sordomuta».
Randa e Noor vivono dentro una grotta, come la maggior parte delle quindici famiglie dei villaggi di Tuba e Maghayer al Abeed. Il padre, Shehadeh, è pastore, in questi anni è stato attaccato dai coloni, l’acqua del suo pozzo avvelenata, le pecore ammazzate. «Le hanno lasciate senza cibo per tutto il giorno — dice —. Anche i poliziotti palestinesi ai quali sono state consegnate verso sera le hanno prese in giro, hanno promesso un pollo arrostito ma era una battuta. L’Autorità di Ramallah ci ha abbandonati, ci aiutano solo i volontari israeliani, americani e italiani».
Le violenze degli estremisti ebrei hanno spinto nel 2004 il parlamento israeliano a intervenire per tentare di dare un minimo di protezione almeno agli scolari. «Non è sufficiente se poi i soldati obbediscono agli ordini dei coloni — scrive Zahava Gal-On, deputata di Meretz, sulla sua pagina Facebook —. Trattengono quattro bambine per un pugno di ciliegie e non arrestano i prepotenti che le attaccano».
Le colline a sud di Hebron — la città è sacra agli ebrei perché qui si trova la Grotta dei Patriarchi — restano una delle aree più complicate in Cisgiordania. Sei settimane fa alcune ragazze palestinesi erano state picchiate dai coloni sulla stessa strada senza che i militari intervenissero.
Nel 2006 trenta artisti e intellettuali israeliani avevano lanciato un appello all’allora premier Ehud Olmert perché fermasse gli aggressori. I romanzieri Amos Oz, David Grossman, Saed Kashua, Meir Shalev, il filosofo Avishai Margalit, l’attrice Gila Almagor e il musicista Ehud Banai scrivevano: «Il diritto all’educazione è un diritto umano fondamentale che lo Stato d’Israele ha la responsabilità di tutelare. Le autorità devono applicare la legge contro i coloni di Maon».

La Stampa 29.5.14
La «guerra del calcio» in Medio Oriente
E Blatter vola in Israele per mediare
Rischio di una spaccatura a ridosso dei Mondiali. A innescare la crisi è stata la denuncia della federazione palestinese: i nostri giocatori non possono allenarsi
di Maurizio Molinari

qui

La Stampa 29.5.14
Cyber-spionaggio, la risposta cinese
che fa tremare le aziende americane
Pechino respinge le accuse Usa di un coinvolgimento con un gruppo di hacker. Poi penalizza l’IBM, impedendo alle banche di utilizzarne i servizi.
di Ilaria Maria Sala

qui

Corriere 29.5.14
Tensioni tra Pechino e Vietnam ma a essere preoccupata è Washington
di Guido Santevecchi


Dieci giorni fa un’ondata di furia nazionalista si è abbattuta su centinaia di fabbriche cinesi in Vietnam. Ieri lo scontro si è spostato in mare: un peschereccio vietnamita è affondato dopo una collisione con una nave della flotta di Pechino. I due governi comunisti si scambiano accuse: la Cina sostiene che l’imbarcazione vietnamita cercava di disturbare la sua grande piattaforma per ricerche petrolifere ancorata il primo maggio tra le isole Paracel, contese tra i due Paesi; Hanoi risponde che il peschereccio era di legno e la nave cinese d’acciaio e armata. L’unica notizia confortante è che i dieci marinai sono stati salvati. Erano morti invece almeno venti operai e tecnici cinesi e altri cento sono rimasti feriti nell’assalto alle fabbriche in Vietnam.
Hanoi accusa i cinesi di non essere in cerca di petrolio ma di isole da controllare e di usare la piattaforma per piantare la bandiera. Si fanno sentire anche le Filippine: nei giorni scorsi hanno diffuso foto che mostrano lavori cinesi alle Spratly (altre isole contese). Sembra che il genio militare di Pechino stia riempiendo di sabbia una zona di scogli, forse per costruire un campo d’aviazione. Dice il presidente filippino Benigno Aquino: «È la classica politica delle cannoniere, un gioco pericoloso». Stesso ragionamento da Tokyo: domenica aerei da caccia cinesi hanno volato a soli 30 metri da un paio di jet da ricognizione giapponesi intorno alle isole Senkaku/Diaoyu. Il Mar cinese meridionale e quello orientale sono diventati un teatro di giochi di guerra.
Gli Stati Uniti, con la politica «Pivot to Asia» lanciata dal presidente Obama nel 2011, sono in imbarazzo, legati da accordi di difesa con Filippine e Giappone. Gli analisti di Washington si rendono conto con preoccupazione che Pechino sta adottando in un tratto di mare ricco di risorse naturali e cruciale per il passaggio delle merci la «Dottrina di Monroe», proclamata nel 1823 dalla Casa Bianca per mettere fuori dall’emisfero americano le vecchie potenze coloniali europee. La traslitterazione di Monroe in cinese suona «Menluo». Washington e Pechino devono trovare un modo per evitare che la «Dottrina Menluo» incendi la regione asiatica.

il Fatto 29.5.14
Svizzera, no al salario minimo
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, una buona percentuale di cittadini svizzeri, in uno dei loro consueti referendum, hanno detto no a un salario minimo più alto. Come lo interpreti: austerità o guerra (perduta) fra poveri e ricchi ?
Flavio
IN ITALIA ABBIAMO commentato poco questo evento importante (più come testimonianza della cultura di un’epoca che come dato di economia politica) perché eravamo nel mezzo della nostra ossessiva campagna elettorale per elezioni dette “Europee” e, in realtà, rigorosamente italiane. Però l’evento è importante e io credo che sia, come ho detto, una testimonianza culturale dell'epoca che stiamo vivendo. È vero che non c’è mai stata un’epoca degli alti salari. E ricordo bene, avendo lavorato con lui, che Adriano Olivetti era mal sopportato dagli altri imprenditori e non desiderato in Confindustria, proprio per la sua “manìa” (la parola ricorreva spesso) di retribuire bene (o comunque meglio) il lavoro. Certo il referendum svizzero è caduto in piena epoca di lotta al lavoro, che non ha più niente a che fare con la lotta di classe, ma è piuttosto una continua e ripetuta manifestazione di disprezzo e di svalutazione del lavoro umano. Che senso ha? Qualcuno risponderebbe: “è il mercato, bellezza”. È vero ma non nel senso classico del “c’è molta offerta e poca domanda, perciò il lavoro si può pagare poco”. Qui il lavoro si può, si deve pagare poco. Ovvero il mercato viene usato non per ragioni di mercato, ma come pretesto per profittare fino in fondo di una stagione politica. È la stagione in cui i partiti di sinistra (del lavoro) non vogliono essere visti nelle vicinanze dei sindacati. Come dice Renzi, il Pd non è il sindacato. Giusto, ma se non comprende nelle sue file e nella sua militanza il sindacato (ovvero la rappresentanza di chi lavora) che cosa è? La prestazione umana non può scomparire perché non c'è tecnologia che la elimini. Certo la può fiaccare, ma per un periodo. Davvero un leader politico nuovo vuole legare nome, immagine e prestigio a questo periodo? Di un cosa gli sprezzanti antagonisti del lavoro, come naturale e pacifico antagonista contrattuale, sembrano non accorgersi: il lavoro si frantuma ma non se ne va. Torna in forme diverse, con aggressività solitarie e sconosciute, e può anche tornare con divise mai viste. Se non fossero stati così stupidi, elementari e subito disonesti, i leghisti potevano anche farcela nell'apparire come una nuova sinistra. Tutti i populisti tentano o tenteranno di giocare quella carta e a qualcuno può (potrà) riuscire meglio degli altri. Che cosa faranno i “nostri”? Si chiuderanno nel fortino insieme alle loro giovani imprenditrici nominate responsabili un po’ di tutto, un po’ dovunque, per “difendere la democrazia”, in questa nuova formazione? La Svizzera, comunque, ci offre un anticipo del mondo che sta venendo. Primo, spingere indietro il lavoro. Chi non ha, paghi con la fatica, e stia zitto. Dubito che starà zitto.

l’Unità 29.5.14
Un fantasma s’aggira nel mondo odierno. La filosofia hegeliana
Calare il pensiero del «Drago di Jena» nella contemporaneità A Milano studiosi
a convegno
di Giulio Goria e Giacomo Petrarca


«NON SI FA FILOSOFIA COME SI STA IN PIEDI E SI CAMMINA». Cioè: non è da tutti. Senza dubbio oggi a parlare così s’incontra una generale derisione; o almeno l’incomprensione dei più. Giacché si capisce che un’espressione così lapidaria ed urticante stride con le comuni avvertenze adottate nell’agone democratico e liberale, quanto mai attento ad estendere il campo della pubblica discussione. Di ciò non v’è neppure più sorpresa. Quel che invece dovrebbe far nascere qualche sospetto in più è il fatto che il riso si diffonda anche nel cosiddetto circuito accademico; quello stesso circuito che, però, spesso si intesta la padronanza della filosofia. Con una differenza: che lì alla durezza della proposizione citata si accompagnerebbe la conoscenza della penna che l’ha scritta, quella di Hegel.
Ecco allora la tanto rischiosa impresa che ha riunito alcuni filosofi italiani presso l’università San Raffaele di Milano: prendere sul serio la lapidarietà dell’ammonimento hegeliano senza però farne argomento di sola tecnica accademica. Questo l’intento che questa settimana ha animato il convegno dedicato proprio «al drago di Jena», come il contemporaneo Schelling ebbe ad apostrofare Hegel. Due giornate di studi in cui personalità di diversa provenienza ma accomunate tutte da indubbia originalità nel panorama filosofico italiano - Luca Illetterati, Massimo Adinolfi, Adriano Fabris, Gaetano Rametta, Massimo Donà, Vincenzo Vitiello - hanno dialogato con più giovani studiosi, dottorandi, ricercatori. Che sia stato un convegno tra esperti però non spiega affatto che si sia trattato di filosofia; con buona pace di chi vorrebbe ridurre al ristretto specialismo il senso delle parole hegeliane sopra citate.
Dove allora andare a cercarlo l’esercizio della filosofia, senza confonderne il fantasma con il corpo vivente? A sentire gli interventi della due giorni milanese si potrebbe abbozzare una risposta del genere: là dove c’è la fatica del pensiero per darsi collocazione nella realtà; e dunque, proprio nelle forme linguistiche, politiche e religiose che al mondo appartengono. «Prospettive hegeliane - che è il titolo del convegno milanese - allude dunque al modo in cui la filosofia, quella di ieri non più di quella di oggi, deve forse abitare il suo presente: portando la realtà in pensieri non meno che il pensiero nella molteplice e varia realtà; realtà che se risulta a portata di mano - o di quella mano inedita che sono le nostre protesi tecnologiche -, ad un tempo si dilegua e disperde in multiformi e sfuggevoli rivoli; tanti e tanto differenti sono gli alberi da render straordinariamente ardua la vista generale della foresta.
Sa la filosofia rimanere se stessa calandosi in queste impervie vie? Ha ancora uno sguardo sull’intero? Hegel viene in questione oggi perché il mondo sfugge al suo concetto:manon è in questo modo richiesto, se non la si vuol far troppo facile, un pensiero di questo mondo, il che ci riporta nuovamente a Hegel e al suo bisogno di filosofia a partire dalle forme che il mondo assume? O la si mette così o non si fa che vuota retorica accademica rilanciando la domanda: «perché e come Hegel oggi?».
Insomma, né si confanno alla filosofia le prediche edificanti che vorrebbero rivolgersi al mondo appuntandogli una forma che dovrebbe - chissà poi per quale ragione - indossare. Né il discorso filosofico evita il rischio di mutare natura relegandosi alla dimensione accademica, per quanto inappuntabili possano essere i suoi risultati. In entrambi i casi cioè non cambia la sostanza: la filosofia ci farebbe - e troppo spesso oggi ci fa - la stessa figura di generale imbarazzo del bibliofilo protagonista del noto romanzo di Elias Canetti, Autoda fé, quando nel mondo si addentra: mondo senza testa o teste (accademiche) senza mondo? Così le prospettive hegeliane cercate o almeno indicate nel convegno, ben prima di proporsi come un esito o una soluzione, sono la riproposizione di un gesto, di un esercizio, quello filosofico - antico quanto il proprio sorgere, dunque anche sempre nuovo; gesto che ponendo la domanda sul proprio tempo, sul proprio oggi, interroga anzitutto il senso del proprio interrogare, o meglio: la possibilità della propria interrogazione. Via stretta, forse, ma certo percorribile, per porsi in salvo - volendo restare nella metafora canettiana - dal rogo della propria biblioteca. Domanda, dunque, del pensiero sulle cose - anzitutto su quella peculiare cura per il mondo che è la filosofia stessa. Domanda vana, chiacchiera che annoia, e semmai solo insospettisce, la pratica scientifica? Forse sì. Certo è che il convegno si sia svolto in un ateneo - il San Raffaele di Milano - segnato sin nelle viscere dalla vocazione verso le scienze mediche e non solo mediche. Che è un po’ come dire: talvolta alla filosofia riesce di prendere aria pura anche senza il soccorso del respiratore artificiale.

Repubblica 29.5.14
Antoine Compagnon ha portato in onda e al successo i “Saggi”
“Vi racconto Montaigne nuova star della radio”
di Anais Ginori



PARIGI. Antoine Compagnon attraversa una serie di porte blindate con codici di accesso per arrivare nel suo ufficio. La ristrutturazione del Collège de France ha trasformato il piano in cui lavorano i professori in un luogo che assomiglia più a una banca che non a un tempio della ricerca accademica. «L’edificio in apparenza è rimasto uguale, ma dentro è irriconoscibile per chi, come me, lo frequentava da studente». Compagnon, 64 anni, veniva qui a sentire Roland Barthes, di cui poi è diventato amico, Claude Lévi-Strauss, Michel Foucault. Oggi tanti studenti, ma anche semplici curiosi, entrano nell’antica istituzione del quartiere latino per ascoltare lui.
Il ciclo di lezioni intorno a “Guerra e letteratura”, concluso a febbraio, ha riempito l’anfiteatro e altre due sale in cui la lezione veniva trasmessa sul grande schermo; le registrazioni sono state poi scaricate da centinaia di persone sul web. Figlio di un generale, Compagnon ha studiato al Politecnico per diventare ingegnere, prima di convertirsi alla storia della letteratura. Timido e appassionato, insegna per metà dell’anno alla Columbia University. È un accademico che sa sorprendere: in gioventù ha firmato un romanzo erotico ambientato in Italia, Ferragosto , e ha dato voce agli intellettuali conservatori nel saggio Les Antimodernes . Noto come uno dei maggiori specialisti di Proust e Montaigne, ha conquistato un’improvvisa popolarità con un libricino che ha scalato le classifiche in Francia e che ora è pubblicato da Adelphi. Un’estate con Montaigne (traduzione di Giuseppe Girimonti Greco e Lorenza Di Lella) all’inizio era una trasmissione radiofonica in quaranta puntate sui Saggi, l’opera monumentale del filosofo umanista.
Lei ha tentato di sfatare alcune leggende. La prima: Montaigne era un eremita?
«I Saggi vengono scritti in un periodo in cui Montaigne ha deciso di ritirarsi dalla vita pubblica. Ma è importante sapere che, prima e dopo, ha partecipato a molti avvenimenti che hanno marcato la società. È stato magistrato e mediatore tra Enrico III e Enrico di Navarra, futuro Enrico IV, aprendo la strada per l’Editto di Nantes. Montaigne non esprime solo un pensiero contemplativo, ma anche politico. È stato sindaco di Bordeaux. Nella sua esistenza, cambia più volte il rapporto tra l’ otium, l’ozio, allora qualità essenziale, e il negotium, la vita attiva che dal Rinascimento in poi prevale nella scala sociale. Montaigne si trova in uno snodo tra due civiltà».
Perché Montaigne non può essere considerato uno scrittore simbolo dell’epoca moderna, come lei suggerisce nel libro?
«La sua soggettività, il suo Io narrante, è profondamente moderno. Ma dal punto di vista della filosofia della Storia, Montaigne non crede nel Progresso. È convinto che le conquiste tecniche e scientifiche non portino miglioramenti per la società. Nel libro cito anche i suoi primi commenti sulla scoperta dell’America. La decadenza, dice, sarà accelerata sia per il Vecchio che per il Nuovo Mondo. Paradossalmente, il pensiero di Montaigne è forse più in fase con la nostra epoca. Si potrebbe dire che era già postmoderno».
Le guerre civili e di religione ne hanno segnato la riflessione?
«Montaigne ha trascorso l’età adulta circondato da conflitti civili, in cui scompare la differenza tra amici e nemici. Quello che scrive sulla sincerità è provocato dal tradimento della parola data, in un conflitto lacerante tra fede e fiducia. È in questo contesto che nasce anche l’amicizia con Étienne de la Boétie, fondamentale per la sua riflessione. Nei Saggi ci sono diversi capitoli sugli ostaggi, cosa piuttosto rara perché si tratta di un testo per lo più astratto, con pochi episodi reali».
L’aneddoto più famoso è il momento in cui Montaigne cade da cavallo. Cosa rende così importante questo racconto?
«Dopo la caduta, è svenuto per qualche minuto. È un episodio in cui Montaigne indaga già il legame tra anima e corpo, sogno e coscienza. Anticipa la soggettività moderna, per come è stata poi indagata da Descartes e da altri. L’aneddoto è anche uno spunto per parlarci della morte, tema che accompagna i Saggi. Montaigne ha rischiato di morire, ma ha perso conoscenza senza soffrire. La morte può essere dolce, spiega in un altro passaggio, come un vecchio dente che finisce per cadere».
Non è riduttivo proporre in pillole un così grande autore?
«Quando mi hanno proposto di parlare dei Saggi alla radio mi sono trovato di fronte a una doppia difficoltà. Avevo il problema concreto di come scegliere estratti rappresentativi del pensiero di Montaigne, avendo a disposizione solo qualche minuto, e l’obbligo di rivolgermi a migliaia di ascoltatori un po’ distratti, più occupati a prendere il sole in spiaggia che a interrogarsi su questioni filosofiche».
La seconda difficoltà?
«Temevo di cadere in una lettura moralista, dalla quale ho sempre cercato di tenermi a distanza. Montaigne è spesso ridotto in aforismi o in una sorta di breviario della felicità. Alla fine, questa doppia difficoltà mi è sembrata sufficiente a raccogliere la doppia sfida. Offre una lettura aperta a diverse interpretazioni. Ogni capitolo termina con una domanda. C’è una dimensione interrogativa nei Saggi che è la più convincente e attuale. I libri dovrebbero renderci perplessi, farci dubitare, e non fornirci risposte già pronte ».
La sfida era anche leggere alla radio, e poi pubblicare, i Saggi nell’edizione originale: un francese arcaico.
«Insegno Montaigne da quasi quarant’anni e sono convinto che sia preferibile mantenere l’edizione originale senza le traduzioni moderne. La perdita di senso è enorme, così come accade per la Divina Commedia. Montaigne era di madrelingua latino. Ha scelto di scrivere i Saggi in francese per rivolgersi a un vasto pubblico, soprattutto alle donne. Non voleva avere solo lettori eruditi. E a giudicare dal successo del mio libro, l’intenzione resta valida sei secoli dopo».
La sua attività accademica si divide principalmente tra Montaigne e Proust. Cos’hanno in comune?
«Sono uomini di un solo libro, i Saggi per Montaigne, la Recherche per Proust. Hanno lavorato alla loro opera omnia fino alla morte, senza poter mai mettere un punto finale. Entrambi hanno creato un genere a sé. Montaigne ha battezzato la saggistica, che si chiama così proprio per i suoi Saggi.
Proust ha mischiato per la prima volta romanzo, filosofia, saggio, creando un oggetto letterario unico. Le loro opere sono la somma della cultura di un momento storico, lo specchio di un’epoca. Volendo rintracciare degli elementi biografici, sia Montaigne che Proust avevano una madre ebrea. Alla fine, ho passato la mia vita tra due autori molto più simili di quel che si potrebbe credere».
(Il libro: Un’estate con Montaigne di Antoine Compagnon, Adelphi, pagg. 140 euro 12)

Repubblica 29.5.14
L’anima black dei poeti uniti d’America
Dai collettivi anni ’80 al boom di oggi: la letteratura nera in versi esce dal ghetto e diventa globale
di Jeff Gordinier



Alla fine del 1987, due giovani poeti fecero una bella scarpinata fino a New York per prendere parte al funerale di James Baldwin. Emozionati dalla cerimonia, e addolorati dal fatto di non aver mai incontrato un gigante letterario afroamericano della statura di Baldwin, i poeti Thomas Sayers Ellis e Sharan Strange misero a punto un piano: avrebbero chiamato a raccolta giovani scrittori e artisti neri e offerto loro la possibilità di leggere ad alta voce le loro creazioni, per allacciare rapporti con i giusti mentori e per alimentare quel genere di spirito comunitario che in passato ha dato vita a più di un movimento culturale.
Chiamarono il gruppo Dark Room Collective , Collettivo della camera oscura. Gli studiosi affermano che da lì sbocciò la poesia afroamericana, che quasi certamente nel mondo letterario è tanto significativa quanto la Beat Generation. Influenzato da pionieri come Rita Dove, il lavoro di questo gruppo prese il via dal punto di vista stilistico da buona parte della poesia nera che l’aveva preceduto: più che con le lotte o l’identità razziale ebbe a che vedere con l’immaginazione che spicca il volo. Nelle generazioni precedenti, molti poeti avevano utilizzato il loro lavoro «per combattere contro l’oppressione di vari generi», ha detto Charles Henry Rowell, il curatore dell’antologia del 2013 intitolata Angles of Ascent: A Norton Anthology of Contemporary African American Poetry .
Adesso, ha aggiunto, «c’è un privilegio unificatore, e quel privilegio consiste nello scrivere come considero opportuno scrivere».
Anche se dopo una decina d’anni circa il Dark Room Collective chiuse i battenti, alcuni dei suoi affiliati perseverarono, diventando personalità letterarie di primo piano e ricevendo premi importanti. Forse la più famosa di tutti è Natasha Trethewey, che ha vinto il Premio Pulitzer per il suo libro del 2006 Native Guard , ed è stata insignita anche del titolo di “poeta laureato della Nazione”. Tra gli altri veterani vi furono Tracy K. Smith, che vinse il Pulitzer per Life on Mars nel 2012, e scrittori come Kevin Young, Carl Phillips e Major Jackson, tutte voci autorevoli della poesia americana.
Il collettivo ebbe anche un effetto a cascata. Nel 1996 Cornelius Eady e Toi Derricotte fondarono infatti Cave Canem, organizzazione ch costituì una piattaforma di lancio per molti poeti, tra i quali Adrian Matejka, il cui libro del 2013 The Big Smoke è stato finalista sia per il Pulitzer sia per il National Book Award, e Terrance Hayes, che ha vinto il National Book Award nel 2010 con Lighthead. Anche Nikky Finney, che ha vinto quello stesso premio nel 2011 con il suo Head Off & Split , aveva aderito a tutti gli effetti al gruppo. «Fu un fenomeno del tutto insolito - ha detto la Trethewey - la poesia nera non era mai stata mainstream. Di colpo, invece, non fu una sottospecie della poesia americana, bensì il cuore stesso della poesia americana».
Nelle interviste, molti poeti della nuova guardia parlano della sensazione di liberazione, non hanno più bisogno per aderire a un insieme di norme su ciò che si presume debba essere la poesia nera. La loro arte poetica ha a che vedere con l’identità stessa. Matejka l’ha descritta come il passaggio dalla «modalità “sono un uomo di colore in America ed è dura” all’idea del “sei quel che sei, e quindi ciò farà sempre parte della poesia”», con l’aggiunta di «molto più spazio per una sublime sperimentazione linguistica ». Un’opera può essere tradizionale o sperimentale, apertamente politica o appassionatamente privata, e contenere un vasto assortimento di riferimenti che possono includere Melvin Van Peebles, Jorge Luis Borges, David Bowie. Buona parte della poesia ha un’immediatezza che può risultare quasi cinematografica. Ecco un esempio, tratto da Wind in a Box, (Vento in scatola) di Terrance Hayes: « Questo inchiostro. Questo nome.
Questo sangue. Questo strafalcione. / Questo sangue. Questa perdita. Questo vento malinconico. Questo canyon».
Ma c’è anche uno sforzo preciso, quello di rivendicare e ricontestualizzare episodi storici, famosi o dimenticati. Native Guard di Trethewey include l’angosciante saga di alcuni ex schiavi che combatterono nel reggimento nero Union durante la Guerra civile. The Big Smoke di Matejka illustra la vita del pugile peso massimo Jack Johnson. «Si tratta di personaggi che furono spazzati via dalla narrativa dominante o immessi su un binario morto» ha detto Matejka in un’intervista. Young, professore all’Emory University, ha pubblicato varie antologie di poesia (tra cui raccolte sul cibo e il blues) e ha scritto libri in versi sulla rivolta della nave negriera Amistad (Ardency), sul pittore Jean-Michel Basquiat (To Repel Ghosts ), sulla lussuria, la violenza e il linguaggio dei film noir (Black Maria).
Agli occhi di un poeta e mentore più anziano come Eady, questo senso di assenza totale dei limiti può essere fatto risalire proprio al Dark Room Collective - come pure quel senso di fraternità dei laboratori di Cave Canem. (il mito Dark Room è cresciuto al punto che i suoi membri nel 2012 e nel 2013 si sono messi in viaggio per una rimpatriata.) «È bello vedere che servì da mezzo per far sbocciare le persone » dice Strange, anche se l’idea originaria era semplicemente quella di frequentarsi e stare un po’ insieme, dando vita a una comunità di scrittori che la pensavano nello stesso modo. «L’ambizione era quella di essere creativi. Non ci fu mai il proposito grandioso di partire alla conquista della letteratura americana ».

La Stampa 29.5.14
Maya Angelou, c’era una volta l’America che non amava i neri
L’autobiografia, dai toni marcati, racconta un paese che è passato dall’odio razziale al primo Presidente afroamericano della storia
di Gianni Riotta


Maya Angelou aveva lavorato per il leader radicale nero Malcolm X, a New York, poco prima che venisse ucciso da estremisti musulmani, era stata attrice e cantante di calypso, aveva lavorato in Africa, s’era sposata forse tre volte, ma non teneva il conto «per non sembrar civetta». Scriveva di esperienze come prostituta, finite male, e tenutaria di bordello, stavolta un successo. Per mantenere il figlio aveva fatto la cuoca, la ballerina a ore, la segretaria, la meccanica in un’autofficina, l’autista dei bus, prima donna nera dietro il volante. Dove finisce la narrativa nella sua opera, e dove comincia l’autobiografia non è chiaro, gli spogliarelli in club di periferia, la nonna gentile e solida che la alleva dopo che padre e madre, infermiera lei, gentleman perduto nel Sud razzista lui, si separano. Da bambina diceva di essere stata stuprata dal compagno della madre, poi condannato alla galera, ma ucciso – forse dagli zii di Maya, soprannome d’infanzia che resisterà per sempre. La piccola, per lo choc, non parla più per anni finché la madre non la porta a scuola in California e la timida afroamericana cresciuta tra le piantagioni crudeli di Stamps, in Arkansas, sente che la sua vita di dolore e travagli, a 16 anni ebbe un figlio e restò ragazza madre, deve culminare nella scrittura.
Sarà dunque l’autobiografia il genere letterario di Maya Angelou, il nome limato di uno dei mariti, il marinaio greco Angelos. Il primo volume, tradotto in italiano da Frassinelli come Il canto del silenzio, ha un titolo più seduttivo in inglese I know why the caged bird sings, so perché canta l’uccellino in gabbia, che potrebbe far da sigla ai sei tomi che la scrittrice dedicherà a se stessa. Come, nello spazio di due generazioni, l’America passi dallo stupro sistematico delle donne afroamericane, lo sfruttamento nei campi, l’apartheid sancito dalla Corte Costituzionale e dalle leggi chiamate «Jim Crow», a un presidente, un capo di stato maggiore, un giudice supremo, decine di manager, docenti universitari, sindaci, uomini e donne di sport e spettacolo neri, resta una delle meraviglie del nostro tempo. E rileggere della Angelou che passa attraverso ogni umiliazione, vedendo l’orgoglio della propria gente calpestato, per arrivare al Tony Award per Look away, 1973, ricorda, al di là e prima del valore narrativo, un percorso di dolore. Se Ralph Ellison di L’uomo invisibile, Malcolm X nella sua Autobiografia redatta da Alex Haley e Richard Wright di Ragazzo nero scelgono la sobrietà scabra per narrare il razzismo, non essere notati da nessuno, stirarsi i capelli crespi, agognare affamati un panino alle acciughe, la Angelou è barocca, eccessiva, picaresca, violenta, il suo Inferno ha urla, suoni, passioni, crudeltà senza limiti.
Parecchi critici, non senza ragioni, ne denunceranno i limiti di scrittura, lamentando retorica e grand guignol, commoventi ma artificiosi. Qualunque siano le osservazioni artistiche, il pubblico interpreta la storia di Maya Angelou come il diario di una sopravvissuta, e i talk show tv, da Oprah Winfrey ai telegiornali Cnn, ne faranno testimone quotidiana del razzismo. Sarà però il presidente Bill Clinton, chiedendo alla scrittrice di leggere suoi versi all’inaugurazione del primo mandato, nel 1993 a Washington, a rendere la Angelou volto noto ovunque. La poesia ha scarso valore, «… oggi la Roccia ci richiama, con chiarezza, forte, venite, da me vedrete il vostro distante destino, senza cercare rifugio nella mia ombra, dove non avrete nascondiglio…», ma l’immagine della ragazza usata e gettata via dall’America come uno straccio che, alta un metro e 80, elegante, imponente, eloquente, battezza nella sua gloria il nuovo presidente – così caro alla comunità afroamericana da esser soprannominato «il primo presidente nero» - non verrà mai dimenticata.
Nata a St. Louis, Maya Angelou aveva 86 anni. Più ne studiate la vita incredibile, più emergono incontri unici, Alvin Aley con cui recita in coppia, un musical mancato con Truman Capote, ballerina in Porgy and Bess, cantante al leggendario teatro Apollo di Harlem, attivista con Rustin, il braccio destro di M.L. King, gli anni in Africa, ad Accra e al Cairo, la popolarità con la serie tv Radici, nella parte della nonna del protagonista Kunta Kinte, un’infinita saga, come un libro della Angelou…

Corriere 29.5.14
La studiosa esplora per Adelphi un mondo che ben conosce
E in un testo per il Corriere avverte: insegnate tutte le abilità di base
I bambini del silenzio, artisti che verranno Temple Grandin e la sua infanzia nell’autismo: così sono cresciuta, questi i miei consigli
di Temple Grandin


Il nuovo libro di Temple Grandin, scritto con Richard Panek, va in libreria il 4 giugno (Il cervello autistico. Pensare oltre lo spettro , traduzione di Maria Antonietta Schepisi, Adelphi, pp. 280, e 22). Del 2007, sempre per Adelphi, è La macchina degli abbracci. Parlare con gli animali , (con Catherine Johnson, traduzione di Isabella C. Blum).
In Italia sono usciti anche Pensare in immagini (Centro Studi Erickson, 2006); Gli animali ci rendono umani (Sperling & Kupfer, 2010); Visti da vicino (Centro Studi Erickson, 2014).

Quando avevo tre anni, non parlavo e manifestavo tutti i segni del comportamento autistico tipo dondolarsi, rovesciare le cose e agitare le braccia. Mia madre mi mandò a un corso intensivo di terapia del linguaggio e gioco didattico. Per farmi imparare a rispettare i turni quando giocavo con un altro bambino, veniva utilizzato un gioco da tavolo. Quando la logopedista mi insegnava le parole, mi parlava lentamente, in modo che per me fosse più facile sentirle. La cosa peggiore che si possa fare con un bambino piccolo affetto da autismo è non fare niente. Se non avete a disposizione delle strutture d’appoggio, cercate delle nonne disposte a fare volontariato con i vostri bambini tra i due e i quattro anni. Per apprendere, i piccoli hanno un gran bisogno del rapporto uno-a-uno. Molte nonne che già hanno avuto dei nipoti sapranno come far interagire con il mondo dei bimbi incapaci di linguaggio. Potranno portarli al parco e proporre loro un sacco di attività.
Diagnosi di autismo
Lo spettro autistico comprende una casistica molto vasta, che va dal bambino che non imparerà mai a parlare all’individuo socialmente impacciato ma con piena padronanza del linguaggio. Einstein cominciò a parlare solo a tre anni e oggi forse lo bollerebbero come autistico. Molti tra gli esperti di informatica di Google e Microsoft probabilmente hanno dei lievi tratti autistici. Un pochino di autismo può generare un brillante artista, un musicista, un artigiano o uno scienziato, ma troppo autismo può porre il bambino in una condizione di grave svantaggio e impedirgli una vita autonoma. Negli Stati Uniti la sindrome di Asperger è stata inserita nello Spettro Autistico. In Italia, l’Icd-10 (Decima revisione della Classifica Internazionale delle Malattie e dei Problemi Correlati, a cura dell’Organizzazione mondiale della Sanità) la mantiene ancora come categoria separata. La diagnosi non è precisa e, dal punto di vista del trattamento, autismo ad alto funzionamento e Asperger sono uguali. La terapia è la stessa per i bambini piccoli che però, crescendo, si differenziano in gruppi con diversi livelli di abilità.
Sviluppare i punti di forza
Le mie doti artistiche divennero evidenti quando avevo otto anni. Adoravo disegnare teste di cavalli, ma mia madre e le mie insegnanti mi incoraggiarono a disegnare anche molte altre cose. Se a un bambino piacciono i treni, usate i treni per motivarlo ad affrontare la lettura e la matematica. Dategli dei problemi di matematica che riguardino i treni. Il concetto è quello di allargare i confini della «fissazione» e utilizzarla per stimolare il bambino a fare cose utili. Le mie doti artistiche e la mia bravura nel disegno divennero le basi della mia carriera di progettista di attrezzature per l’allevamento del bestiame. Se un bambino è bravo in matematica, dovete stimolarlo ad affrontare esercizi sempre più difficili.
Nel libro Il cervello autistico analizzo tre diversi tipi di pensiero. Di solito le abilità sono disomogenee. Il bambino fa bene una cosa e ne fa male un’altra.
1. I pensatori visivi fotorealistici in genere hanno difficoltà con la matematica. Queste persone possono fare delle buone carriere nell’ambito di design industriale, fotografia, moda, artigianato e arte. Io penso solo ed esclusivamente per immagini fotorealistiche.
2. I pensatori schematici sono menti matematiche. Pensano per schemi invece che per immagini fotorealistiche. I pensatori schematici sono spesso bravi in programmazione informatica, ingegneria, fisica, musica e matematica. Questi bambini hanno di frequente problemi con la lettura.
3. I pensatori verbali posseggono una quantità di informazioni sugli argomenti che prediligono. Potrebbero eccellere in professioni come giornalista sportivo, contabile, ragioniere, guida o curatore di museo.
Acquisire abilità per la vita
A tutti i bambini, indipendentemente dalle loro prestazioni cognitive, vanno insegnate delle abilità di base come stringere la mano, vestirsi, essere puntuali, fare la spesa, cucinare e così via. Tra i bambini dello spettro autistico ad alto funzionamento e con pieno sviluppo del linguaggio, ne vedo troppi che sono iperprotetti. Nessuno gli ha mai insegnato a stringere la mano o a fare da soli un’ordinazione al ristorante. C’è la tendenza a fare troppo per loro. Molti bambini affetti da autismo severo, che non sono capaci di parlare, sono invece in grado di eseguire numerosi compiti.
Nel mio libro ci sono una quantità di suggerimenti su come gestire i problemi legati all’ipersensibilità sensoriale. A volte il bambino può essere desensibilizzato. Se si rifiuta di infilare le scarpe, provate a massaggiargli prima i piedi. Procurategli inoltre scarpe e calzini morbidi. Se il bambino odia i rumori forti, talvolta lo si può desensibilizzare lasciando che sia lui a scatenare per primo il rumore. Il clacson della macchina è un buon esempio. Il bambino lo tollererà meglio se sarà lui a premerlo e a controllarlo.
Trasmettere abilità per il lavoro
I bambini, che siano normali o nello spettro autistico, hanno bisogno di acquisire il senso della disciplina e della responsabilità derivanti dall’avere un lavoretto fuori casa a partire dai dodici anni. Se cominciano prima, tanto meglio. Anche il volontariato va bene. Alcune buone mansioni, utili per insegnare ai bambini le abilità per il lavoro sono: consegnare i giornali, portare i cani a passeggio, seguire siti web, aiutare in una fattoria o in un negozio. Negli Stati Uniti vedo troppi bambini che non hanno mai appreso delle abilità per il lavoro. Se è una cosa negativa per i normali, lo è ancor di più per i bambini nello spettro autistico.
Bisogna limitare il tempo dedicato ai videogiochi. Vedo troppi bambini in gamba diventare schiavi dei videogiochi al punto da non voler più né studiare né lavorare. Il tempo per i videogiochi non dev’essere più di un’ora al giorno.
In conclusione, l’autismo ha forme molto diversificate che vanno dall’Asperger lieve ai casi più severi. Osservate ciò che è capace di fare vostro figlio. Concentratevi sui suoi punti di forza, anziché sulla disabilità.
(traduzione di Laura Lunardi )

il Fatto 29.5.14
Il peggio della diretta
In treatment: la vera terapia è per il telespettatore
di Nanni Delbecchi


Esistono in natura alcune entità che, per quanti sforzi si facciano in direzione contraria, tendono a riprodurre se stesse all’infinito. Una, in questi giorni di grande attualità, è la Democrazia cristiana; un’altra, sempreverde, è la terapia psicanalitica. Accade nella vita, ma anche la televisione non scherza, come ci dimostra la serie di successo planetario In treatment. Varata nel 2008 dalla HBO come rivisitazione statunitense di una precedente serie israeliana, è stata poi proposta lo scorso anno da Sky in un adattamento per il pubblico italiano, con Sergio Castellitto nel ruolo del fascinoso strizzacervelli che era già stato di David Byrne, e con un formato identico a quello originale. In ogni episodio, della durata di mezz’ora, il terapeuta “tratta” i problemi di un diverso paziente, a seconda del giorno della settimana. E sebbene la cadenza settimanale sia un caposaldo della terapia, mentre è in lavorazione la seconda stagione originale, La7 ripropone la prima in chiaro, forse per non farci andare giù di allenamento, accorpando le diverse sedute in un'unica serata (martedì alle 21). Un autentico effetto maratona per il dottor Giovanni Mari, che debutta con l’anestesista Sara (Kasia Smutniak) in transfert amoroso nei suoi confronti (trovata non delle più originali), prosegue prima con un carabiniere sotto copertura con annessa crisi di identità (Guido Caprino), poi con una studentessa in pieno conflitto generazionale con i genitori (Irene Casa-grande), e approda alla coppia formata da Barbara Bobulova e Adriano Giannini, che non sa se portare avanti la seconda gravidanza. Ma non è finita perché Castellitto, che versa a sua volta in crisi con la moglie interpretata da Valeria Golino - e sfido chiunque, con quei pazienti lì - chiude la serata andando in terapia egli stesso dalla collega Anna (Licia Maglietta), a riprova che c’è almeno una categoria di persone a cui la psicanalisi serve di sicuro, gli psicanalisti.
Come si vede, bastano due ore per abbracciare l’intero arco costituzionale delle nevrosi sociali e individuali, a riprova della grande intuizione produttiva alla base di In treatment. Nessun bisogno di riprodurre drammi e scene madri, con quel che costano le location, non basterebbe il budget di Ben Hur; qui basta evocare tutto con le parole, ovvero con il racconto dei pazienti. Uno studio, un lettino, qualche figaccione di ambo i sessi e il 99 per cento dei costi è coperto per l’eternità o quasi, considerata la durata media di una terapia.
E ANCHE la sceneggiatura è al risparmio, perché i silenzi si sprecano, nel rispetto della scuola freudiana, né possono mancare le crisi di pianto.
Eppure, pur con tutti i suoi limiti e le sue furberie, la visione di In treatment ha davvero qualcosa di terapeutico per il telespettatore, che deriva dallo scarto tra questa operazione e la quasi totalità delle fiction targate Rai o Mediaset. Già il fatto che a riportare la pecorella smarrita sulla retta via non ci sia il Don Matteo di turno, o che l’archetipo familiare con cui fare i conti non sia nonno Libero (con tutto il rispetto per Lino Banfi), è già un passo avanti. Per una fiction malata di provincialismo cronico come la nostra, ben venga questo pronto soccorso. E magari un giorno lontano, come scrive Zeno Cosini al suo psicanalista, si potrà provare a guarire dalla cura.