venerdì 30 maggio 2014

l’Unità 30.5.14
Dalla lotta per i beni comuni può nascere un partito?
Dietro questa battaglia un mondo di associazioni e gruppi di cittadini che cercano ancora rappresentanza politica adeguata
di Govanni Maria Bellu

direttore di LEFT

Qualcuno forse storcerà il naso vedendo la copertina del prossimo numero di left. Quel «la proprietà privata è un furto» scritto a caratteri cubitali in effetti può suonare come una civetteria un po’ retrò se non si nota subito la piccola foto sottostante. Non ritrae Pierre-Joseph Proudhon, ma Paolo Maddalena. Un vicepresidente emerito della Corte costituzionale, non un filosofo anarchico.
Il citare quella frase «antica» - e tanto apprezzata da Karl Marx - ci è parso un modo efficace per comunicare un’idea vecchissima e nuovissima allo stesso tempo: che la sacrosanta proprietà privata deve incontrare dei limiti. E che di conseguenza - come dice la Costituzione - la proprietà pubblica e collettiva del territorio prevale su tutto il resto.
Un’ovvietà, per certi aspetti. Ma una ovvietà largamente disapplicata. Al punto tale che Paolo Maddalena - uno storico del diritto che ricava la prevalenza della proprietà pubblica dalla tradizione romanistica - definisce «una bomba» la delibera (da lui ispirata) del comune di Napoli che prevede che un terreno abbandonato torni alla collettività se entro 150 giorni dalla ricezione di una specifica diffida, il proprietario non risponde. Mail tema dei «beni comuni» - così si chiama - non è materia esclusiva di giuristi e amministratori. Come raccontano Paolo Berdini e Paolo Cacciari è un mondo di associazioni e gruppi di cittadini. Un pacifico movimento rivoluzionario che ha le sue date storiche (il «referendum per l’acqua» del giugno 2011) e il suo Pantheon di ideologi e ispiratori. Oltre a Paolo Maddalena, Stefano Rodotà, Salvatore Settis, Alberto Lucarelli, Ugo Mattei. La domanda che left lancia in questo numero è se da questo movimento potrà nascere qualcosa di più: un’organizzazione, un partito. Che, tra l’altro, sarebbe anche molto democratico.
L’analisi del voto alle Europee è di Andrea Ranieri il quale risponde alla domanda: e ora la sinistra cosa deve fare? La stessa domanda che abbiamo posto a Pippo Civati e agli europarlamentari della Lista Tsipras. Ranieri sottolinea che il successo elettorale affida al Partito democratico l’arduo compito di essere l’elemento centrale di un processo di rigenerazione del malconcio Partito socialista europeo. «Ma ripensare a una politica del Mediterraneo e dell’Europa - scrive Ranieri - è difficile se non si apre un discorso con quella variegata - qualcuno di ostina a chiamarla “radicale” ma è verde, laburista, antiautoritaria - che ha ritrovato un queste elezioni una positiva unità».
E, forse, il modo per consolidare il risultato elettorale è anche aprire un canale che metta in comunicazione le istituzioni della politica con le decine di migliaia di cittadini che già lavorano per migliorare e difendere le cose che appartengono a tutti.

il Sole 30.5.14
L'Unità celebra 90 anni con Berlinguer

Il 3 giugno in edicola un inserto speciale a 30 anni dalla morte del leader Pci
(...) Un'iniziativa che nasce nonostante il difficile presente che sta vivendo L'Unità e che Bianca Di Giovanni del Cdr spiega in poche parole. «La nostra non è una semplice vertenza sindacale ma politica. Non vogliamo che il Pd sia il bancomat del giornale ma chiediamo una risposta: se il giornale abbia ancora un senso oppure no. La questione non è avere il contributo pubblico, che peraltro hanno tutti i giornali, la questione è avere un editore e un'azienda che sappiano stare sul mercato».
Li. P.

il Fatto 30.5.14
Stefano Rodotà Il professore e la Costituzione
“La Carta esiste, Renzi non è un Principe”
intervista di Silvia Truzzi


L’anno scorso incombeva la minaccia di scardinare l’articolo architrave, il 138 della Costituzione. Oggi il pericolo arriva dal combinato disposto di Italicum più riforma del Senato: Libertà e Giustizia organizza anche quest’anno una manifestazione in difesa della Carta, il 2 giugno a Modena. Tra i “professoroni” che parteciperanno c’è anche Stefano Rodotà: “L’anno scorso, dopo la festa della Repubblica, prese avvio un lavoro sfociato nella manifestazione del 12 ottobre, La via maestra. In quei mesi si era diffuso un orientamento, largamente condiviso, contro la modifica del 138. Quell’ipotesi poi cadde: dunque non è stato un lavoro inutile”.
E oggi?
L’attacco ai ‘professoroni’ ha prodotto una discussione ricca, sfociata in audizioni parlamentari, che ha prodotto proposte puntuali. I progetti del governo sono stati sottoposti a valutazioni che dovrebbero essere considerate contributi da cui non si può prescindere. Approvare un testo di riforma del Senato senza tener conto di modalità di elezione e competenze della Camera è un modo improprio e pericoloso di affrontare il problema. L’Italicum va verso una democrazia d’investitura – “la sera delle elezioni deve essere chiaro chi governerà” – e una democrazia di ratifica, in cui il Parlamento
semplicemente prende atto delle volontà del governo. Il combinarsi di questi due elementi, democrazia d’investitura e di ratifica, cambia radicalmente il nostro sistema: si esce dalla logica della democrazia rappresentativa, su cui si basa la sentenza con cui la Consulta ha dichiarato illegittimo il Porcellum. L’Italicum riprende la logica del Porcellum: ed è una logica conservatrice che tende a concentrare nelle mani del governo un potere assoluto, con una Camera non più in grado di controllare. La democrazia rappresentativa va salvaguardata, garantendo equilibri costituzionali adeguati.
Il successo elettorale sembra esser diventato una legittimazione universale. L’idea, berlusconiana, del voto-lavacro ...
Certamente. Berlusconi diceva: se i cittadini mi hanno votato pur sapendo che sono indagato, significa che a loro non importa. Dire “i cittadini conoscevano la linea del governo quindi l’hanno legittimata con il voto” è un’assoluta forzatura. In ballo c’è la legalità costituzionale da due punti di vista, il rispetto della democrazia rappresentativa e degli equilibri costituzionali. Che non sono materia disponibile e non dipendono da alcun eventuale plebiscito.
Pensare che il vincitore delle elezioni abbia carta bianca su tutto è poco rispettoso di un sistema che si basa anche sulla tutela delle minoranze e quindi sul pluralismo.
Non sono tra quelli che sottovalutano il risultato delle urne, e nemmeno tra quelli che lo interpretano attraverso improbabili confronti con il passato. Il risultato è stato importante, ma non significa che ora Renzi sia un Principe sciolto da ogni vincolo rispetto alle regole costituzionali!
Anche ieri il premier ha ribadito: riforme subito, entro l’estate.
Le riforme della Pa e della giustizia, che ora il governo intende affrontare, possono anche essere accompagnate da accelerazioni politiche. Ma una riforma costituzionale è cosa diversa perché riscrive il patto con i cittadini. Il patto con i cittadini non può uscire dalla logica della democrazia parlamentare rappresentativa. Non è accettabile sentire il premier dire “dopo di me il diluvio” a proposito delle riforme costituzionali.
Si sa assai poco del patto del Nazareno.
Quando Renzi annunciò la volontà di levare il segreto di Stato, dissi che il primo segreto che doveva togliere era sul patto con Berlusconi, di cui non conosciamo i contenuti. Adesso il voto europeo è usato per esaltare il premier, ma si fa finta di non vedere la sconfitta dell’altro contraente di quel patto. O si dice che il risultato è indifferente per tutti, ma se è un voto pesante si deve ridimensionare il ruolo di Berlusconi. Sono possibili maggioranze diverse se si è disponibili a vedere nel Senato non una camera irrilevante, ma un’istituzione fondamentale negli equilibri democratici.
Che pensa della mediazione maturata nel Pd sul “Senato alla francese”, cioè eletto indirettamente?
Il problema, sulla Camera alta, non è solo quale legge elettorale, ma anche quali funzioni. Avrà competenza su materie costituzionali, diritti fondamentali, commissioni parlamentari? Si possono anche considerare modalità di elezione diverse da un sistema diretto e proporzionale che a mio avviso sarebbe il migliore, ma a patto di garantire gli equilibri costituzionali complessivi.

l’Unità 30.5.14
Segreteria e presidente, si avvicina la gestione unitaria
Civati si tira fuori


Il percorso è appena avviato, Lorenzo Guerini dovrà incontrare nei prossimi giorni i rappresentanti della minoranza del Pd per fare il punto sulla ridefinizione degli organi del partito, dalla presidenza alla segreteria. «Matteo Renzi ha detto una cosa che sento di condividere - dice Alfredo D’Attorre di Area riformista -: la segreteria non deve essere completata con la logica correntizia, bisogna seguire il criterio delle competenze a seconda dei ruoli che si devono rivestire». Anche sulla presidenza del Pd, secondo D’Attorre, la scelta dovrebbe ricadere su un nome di garanzia e quindi «non importa se al congresso ha votato Renzi oppure no». La gestione unitaria non è messa in discussione da alcuno, a parte Pippo Civati che dice che il carro del vincitore è così pieno che lui preferisce restare a terra, ma è pur vero che in segreteria fin dal primo momento è entrato uno dei suoi ex fedelissimi, Filippo Taddei. Anche un fiero avversario di Renzi, quale è Stefano Fassina, ammette davanti al risultato elettorale che il premier è «l’uomo giusto al posto giusto». «Essere leali non vuole salire sul carro del vincitore, avere l’onestà politica e intellettuale di riconoscere che il merito di questo risultato elettorale non vuole dire rinunciare alle proprie idee che io continuerò a difendere», continua D’Attorre. Insomma, la minoranza ha sepolto l’ascia di guerra, «ma è chiaro a tutti che il Pd non è una caserma e quindi continueremo a discutere e confrontarci», dice il deputato bersaniano. Renzi ieri ha detto chiaramente che intende arrivare all’Assemblea nazionale del 14 giugno con un quadro completo, «e le persone che vorranno starci ci staranno», non nella logica che si è seguita in passato, il bilancino correntizio, ma con un nuovo spirito, questo l’auspicio. Di fatto per le nuove nomine in segreteria, dopo che praticamente metà dei membri si è spostato al governo, è soprattutto nella minoranza che Guerini intende pescare, a parte un possibile ingresso di Michele Emiliano per occuparsi del partito al Sud. Per il ruolo della presidenza, che è stato di Gianni Cuperlo, è probabile che il vicesegretario si rivolga proprio all’ex sfidante di Renzi al congresso per chiedere se ha proposte da avanzare anche se in questi giorni uno dei nomi che circola con maggiore insistenza è quello di Paola De Micheli, lettiana, che oggi riveste il ruolo di vicecapogruppo alla Camera. Se andasse lei al Nazareno si libererebbe la casella che i renziani vorrebbero occupare con un loro deputato, per esempio Matteo Richetti anche in vista dei futuri voti sulle riforme, ma lo stesso Richetti viene dato in buona posizione anche al governo nel caso in cui Lupi o Giannini lasciassero. Altro nome che si fa per la presidenza è quello della ministra Roberta Pinotti, ma allo stato attuale la pratica è ancora all’inizio, «molti dei nomi che circolano - dicono dal Nazareno - possono anche essere più frutto dei desiderata di qualcuno che il reale stato delle cose». Renzi ieri ha lasciato intuire che l’impronta che intende dare alla segreteria unitaria sia soprattutto tematica, non a caso ha fatto riferimento ai temi di cui il partito dovrà occuparsi per trasformarle in proposte concrete, a partire dall’energia. Se così fosse e se tra le deleghe quella degli esteri dovesse andare alla minoranza è quasi certo che ad occuparsene potrebbe essere il dalemiano Enzo Amendola. Intanto ieri durante la riunione di Renzi con i neoeletti a Bruxelles il Pd ha confermato di David Sassoli a capodelegazione dei democratici. E se non c’è tempo per i festeggiamenti, il segretario ha trovato almeno quello per qualche risata. Durante la direzione ha rivelato un piccolo retroscena andato in onda la notte dello spoglio tra Stefano Bonaccini e Lorenzo Guerini, un vero e proprio derby storico giocato sul filo delle origini, uno con le radici nei Ds, l’altro con la Dc prima e i popolari poi. La premessa del segretario è che tanto «siamo in famiglia», non fosse per la diretta streaming rilanciata da tutti i media sarebbe anche vero, ma fa niente. «Bonaccini, forte della sua militanza emiliana e con tutti i suoi sondaggi, su Budrio (Comune del bolognese, che non andava al voto in queste amministrative, ndr) e altri, diceva: se arriviamo al 34% facciamo il record di tutti i tempi- racconta Renzi e Guerini gli ha risposto: Che dici? Con Alcide (De Gasperi, ndr) siamo arrivati anche al 48%». Ma anche Guerini nelle sue previsioni più rosee nei giorni precedenti al voto si era sbilanciato fino al 37%. Fino al 40 no, non aveva osato.

l’Unità 30.5.14
Il Pd e l’unità del partito plurale
di Claudio Sardo


Quel 40 per cento segna un passaggio. Una linea di discrimine. Nulla sarà più come prima, per Renzi e per l’intero Pd. Si discuterà ancora se la nuova stagione abbia avuto inizio con le primarie che hanno lanciato Renzi senza però vederlo vincitore, o successivamente con il plebiscito a favore del «cambiare verso», o ancora con l’azzardo della sostituzione di Letta. Ma la verità è che dopo le europee inizia un tempo nuovo anche per il governo.
Un capitolo è finito e un altro è stato cominciato dagli elettori. Gran parte degli italiani hanno fatto un investimento, hanno «legittimato» Renzi per una via traversa e lo hanno fatto attribuendogli una forza politica che forse mai era stata concessa ad altri leader nella seconda Repubblica (a dispetto della bolsa retorica sull’elezione diretta del premier).
Stando alle cose che ha detto nella conferenza stampa di lunedì e nella direzione Pd di ieri, il premier è ben consapevole delle speranze che ha suscitato e del valore aggiunto che ha portato al suo partito, aprendolo a ceti sociali tradizionalmente diffidenti, se non ostili, verso la sinistra. Ma è anche cosciente che senza il retroterra del Pd, senza i valori e le culture su cui è stato costruito, non si sarebbe creato l’argine contro lo sfascismo grillino. E la paura delle macerie ha contato, eccome, sull’esito del voto. Il Pd è diventato «partito della nazione» perché ha messo insieme questi due elementi: una leadership capace di indicare un percorso di cambiamento - e credibile anche perché non nasconde i difetti del proprio campo - e una comunità più ampia di persone che è in grado di garantire la tenuta delle istituzioni e di resistere a chi vuole solo distruggere. Non da oggi Renzi ha ripreso a tessere il filo dell’unità interna: lo ha fatto almeno dal giorno in cui si è gettato a capofitto nella campagna elettorale, rispondendo colpo su colpo agli attacchi di Grillo. E nei suoi comizi nelle piazze italiane è stato esplicito nel proporre un’alleanza generazionale, un patto tra i quarantenni oltre lo scontro del congresso, ormai così lontano negli argomenti da apparire preistoria. Il gruppo Pd dell’Europarlamento è il segno tangibile di un partito plurale, così voluto dagli stessi elettori. E non è privo di significato che Renzi abbia deciso di chiamare Roberto Gualtieri - eurodeputato che non votò per lui alle primarie, ma che a Strasburgo si è distinto per meriti e per il credito conquistato nel Pse - ad affiancarlo nella primissima fase delle difficile trattative a Bruxelles.
Si apre una stagione nuova di responsabilità nazionale per tutto il Pd. Anche per quelle aree e quei dirigenti che il congresso ha reso minoranze. Si è discusso fin qui il se, il come, le condizioni di una composizione unitaria degli organismi. Discussioni sofferte e non banali. Ma ora quel 40 per cento è scossa. Tutti i giovani dirigenti del Pd, ovunque fossero al congresso, sono proiettati di colpo in un’Italia e in un’Europa dove saranno guardati con occhi diversi dal passato. Che sia stato un accidente o un destino poco importa: sta di fatto che oggi il Pd è il «partito della nazione». Sulle sue spalle c’è la domanda incalzante di un Paese che chiede di risalire, di liberarsi delle zavorre, di ricreare lavoro, di fare riforme utili (non quelle che ci hanno spinto verso il declino), di dare continuità alla speranza e alla fiducia espresse nel voto. Attorno al Pd c’è da un lato una destra divisa, che cerca di riunirsi mettendo da parte qualunque contenuto, e dall’altro un Grillo senza bussola (che si appresta al matrimonio con l’ultradestra inglese di Farage). Il Pd deve consolidare il suo 40 per cento se vuole rendere il suo servizio all’Italia di oggi. È anche il solo modo per contare in Europa e per dare seguito ai cambiamenti promessi. Lasciamo perdere i nostalgici del bipolarismo coatto: tanto saranno gli italiani, nella loro libertà, a decidere se essere bipolari, tripolari o quant’altro. Il Pd deve soprattutto rafforzare la sua visione, radicarsi meglio nella società, sostenere il governo nelle scelte giuste e innovative, aiutarlo a correggersi dove sbaglierà. Più coraggio politico, meno politologia: talvolta il pragmatismo può essere una virtù.
L’unità necessaria attorno a questi obiettivi non vuol dire che il Pd debba ridursi a platea plaudente di un leader. Questo sarebbe un errore. Peggio, sarebbe una diserzione. Un partito della nazione deve essere un partito plurale. Che cerca anzitutto di animare la società, e rappresentarne il meglio. Che non dubita della volontà unitaria - pur davanti a un disaccordo - perché è chiara a tutti la responsabilità comune verso il Paese. Due vizi vanno combattuti. Il primo è concepire una funzione critica all’interno del Pd al solo scopo di spostare di qualche grado l’asse del partito, come se la sintesi fosse un abito di gesso, un monolite tendenzialmente chiuso a ciò che di nuovo emerge al di fuori. Il secondo è delegare l’articolazione del Pd a filiere personali, a catene di notabili, che si vestono da correnti senza avere delle idee. Partito plurale vuol dire partito-società. E autonomia delle istituzioni. Vuol dire più capacità di iniziativa al governo, purché riconosca al Parlamento e al partito un valore irrinunciabile per trainare la società verso una modernità migliore. Questa è la sfida.
Ed è bene che si torni a parlare di partito e di formazione, proprio mentre il governo affronta le sue enormi responsabilità.

l’Unità 30.5.14
Ora Renzi deve allargare il campo democratico
C’è un’area socialista, laica, cattolica democatica, di sinistra radicale che cerca casa
di Goffredo Bettini


UNA VOLTA TANTO, LA PAROLA STORICO NON SEMBRA UN’ESASPERAZIONE. LA VITTORIA DEL PD E DI RENZI È STORICA. NEL SENSO CHE chiude una storia e ne apre un’altra. Risolve per via democratica e non con le manette il tema di Berlusconi. Trasforma Grillo, che per mesi è stato un vero pericolo per la Repubblica, in una sorta di tigre di carta.
Le ragioni di questo successo sono tante. E riguardano anche il talento personale del segretario. Ma tra tutte una a me sembra decisiva. Con Renzi, piaccia o no, è tornata la decisione, il coraggio, la responsabilità della politica. Egli ha interrotto la lunga serie dei governi tecnici, obbligati, vincolati dall’esterno, prudenti e inevitabilmente compromissori. Ha interrotto l’idea di una politica senza speranza, senza sovranità e senza popolo. Ha colto che la spaventosa crisi democratica e la lontananza tra i cittadini e il potere e le istituzioni, non compresa nella lettura dell’ultimo voto politico (ricordate la «mezza vittoria»?), non si supera con il galleggiamento del governo e con la riproposizione stanca di un partito, che di pesante ha avuto per anni solo le correnti e le ambizioni personali. Si recupera con un «surplus» di politica, che il leader deve mettere in campo in modo «eccezionale» perché è lo stato di emergenza che lo chiede. Rischiando, esponendo se stesso, scontando incomprensioni.
Per questo è stata importante l’accelerazione sul governo. Letta è stato un ottimo premier e è una persona di primissimo ordine. Ma era incolpevolmente chiuso in uno schema logoro, che andava spezzato. Renzi ha trasformato l’alleanza di governo, che formalmente è rimasta uguale, in un’altra cosa. In una sfida politica contro tutte le rendite e tutti i conservatorismi. Anche quelli del nostro campo.
Ora si presentano due problemi.
Il primo: si fanno congetture su quanto durerà il governo. Per me la risposta è semplice. In linea con la strada maestra che il Pd ha imboccato, il governo durerà finché sarà in grado di innovare l’Italia e di non deludere ma interpretare e accrescere le aspettative e la fiducia che i cittadini hanno voluto darci. Non sono solo in gioco i singoli provvedimenti che Renzi ha proposto o proporrà, è in gioco quel filo d’intesa e dialogo democratico che si è miracolosamente rinsaldato. Se questo filo si lacera, la Repubblica torna in alto mare. E rispunterà Grillo o chi per lui.
Secondo: il consenso è stato dato a Renzi. C’è poco da discutere. Tant’è che in non pochi casi il voto amministrativo fatica. Niente di male. Anzi l’ondata positiva non poteva che manifestarsi così. Ma ora occorre mettere mano al partito. Non si tratta di «renzizzare» il nostro soggetto politico, le sue strutture, i suoi centri di comando. Si tratta di prendere atto che questo voto non può essere tradotto nei territori in un ginepraio di correnti e di partiti personali; di aggregati spuri che mettono insieme chi si è dichiarato contro la nostra entrata nel Pse con i cosiddetti riformisti favorevoli ad un partito più di sinistra e socialdemocratico puro.
Non si può tradurre in potere di assessorati, postazione di potere nelle istituzioni e nelle aziende sulla base del proprio potere nel tesseramento o nella capacità di fornire preferenze. No. Occorre destrutturare questa intercapedine e liberare le tante energie dei democratici. Occorre costruire un campo democratico largo, inclusivo, plurale che costruisca nella società e in modo permanente la vastità del consenso che Renzi ha ottenuto nel voto.
Le condizioni ci sono. C’è un sentimento socialista, laico, cattolico democratico, di sinistra radicale (basti vedere l’intervista di Gennaro Migliore di due giorni fa) che cerca una casa. Non per essere annesso. Ma può contribuire ad un’impresa comune che metta al centro, invece che le sigle divisive del vecchio panorama politico, le persone nell’esercizio della responsabilità individuale e di decisione. Questo è il Pd a vocazione maggioritaria che ho sempre sognato.

Repubblica 30.5.14
Renzi: “Partito nazione”: è pronto ad accogliere i naufraghi
E dentro Scelta civica e Sel scatta il progetto fusione
Sel e Scelta civica nella rete di Matteo
di Francesco Bei e Giovanna Casadio


ROMA. Molto c’è da festeggiare per il Pd. Ma Matteo Renzi, scusandosi con “la volontaria dei tortellini di Modena” - che ha tutto il diritto di voler far festa per una vittoria storica del partito alle europee - elenca subito le sfide da vincere e non c’è tempo da perdere. L’obiettivo è «cambiare l’Italia, cambiare la Ue: l’Europa o cambia o non si salva». Il primo passo però è affrontare «la madre di tutte le battaglie», cioè quella sul lavoro. Partire anche con una politica industriale di rilancio.
Elenca poi il timing delle riforme: il 13 quella della Pubblica amministrazione, il 20 sulla competitività, quindi la delega fiscale.
Giugno sarà un mese cruciale per la riforma del Senato, per quella della giustizia e entro l’estate la nuova legge elettorale dovrà essere stata incassata. Colpo di acceleratore su tutto anche sul partito che avrà il 14 giugno, data dell’Assemblea nazionale, una nuova segreteria unitaria e il nuovo presidente.
Se qualcuno aveva pensato a una direzione di pacche sulle spalle, complimenti e rinvii, aveva sbagliato. Il premier-segretario striglia: «Chiediamoci se il 40% è un accidente della storia, un colpo di fortuna o un obiettivo stabile». Per Renzi deve essere «casa nostra, dobbiamo metterci la residenza».
Mostrare di essere a tutti gli effetti ciò che il voto delle europee ha indicato, cioè un «partito della nazione, dell’Italia, della speranza».
Per questo partito hanno votato oltre 11 milioni di italiani e bisogna esserne all’altezza. Quindi le stoccate a Grillo. Innanzitutto sul punto più basso raggiunto in campagna elettorale: la canzone contro Napolitano sul palco grillino.
Rincara: «Si fa lo streaming quando si fanno i dibattiti, ma quando si vanno a trovare i populisti inglesi ci si va di nascosto. M5Stelle sapevano da prima con chi sarebbero stati in Europa». Comunque il Pd di Renzi è il partito della “volontaria dei tortellini di Modena” e dell’artigiano del Nord est. E qui Renzi racconta un retroscena su Bonaccini e Guerini che nella notte del trionfo elettorale hanno evocato Berlinguer e De Gasperi, la storia dell’orgoglio dem.
RENZI è pronto ad accogliere i naufraghi. In direzione è stato chiaro: «Non facciamo campagna acquisti ma dobbiamo essere disponibili a riflettere immaginando che l’orizzonte della legislatura sia quello del 2018». D’altra parte se l’obiettivo è quello di «fissare la residenza» allo straordinario risultato del 40,8% delle europee, il Pd deve allargarsi ad altri mondi e consolidarsi come il vero «partito della nazione».
Un processo di cui l’incorporazione di Scelta civica, e degli altri centristi che ci staranno, costituisce solo uno dei passaggi. Lo stesso Mario Monti, dando implicitamente luce verde all’operazione, ha ammesso che «se Renzi avesse vinto contro Bersani, Scelta civica non sarebbe nata». E ora «l’agenda Renzi è l’agenda Monti». Fosse solo per l’ex premier sarebbe cosa fatta. Ma nelle stanze dei montiani l’opzione di una resa incondizionata crea divisioni. Per questo è stato affidato a un comitato di quattro saggi il compito di trovare una via d’uscita, coinvolgendo anche le assemblee locali del movimento. I più determinati nel percorso di avvicinamento al Nazareno sono Andrea Romano, Irene Tinagli,
Linda Lanzillotta e Pietro Ichino. Proprio dalla Lanzillotta, ex dem, vice presidente del Senato, arriva l’endorsement più netto: «Il Pd di Renzi è quello che avrei voluto quando l’ho lasciato nel 2009». Sul fronte opposto invece stanno l’ex presidente del partito Alberto Bombassei, Andrea Causin, Gianfranco Librandi, che veleggerebbero verso il Nuovo centrodestra di Alfano. Quanto al ministro Stefania Giannini, segretario dimissionario, fa premio il rapporto personale con Renzi. Non si diluiranno subito nel gruppo democratico ma il primo passo sarà un nuovo nome che richiami l’obiettivo della “unità democratica”. Un modo che consentirebbe ai parlamentari mantenere gli uffici che hanno attualmente.
Il Pd allargato a cui pensa Renzi non può guardare solo ai centristi. La sinistra dem pretende
uguale capacità attrattiva anche nei confronti di Sel e dei fuoriusciti 5Stelle. Quella che Pippo Civati definisce «l’area del nuovo centrosinistra». E molti civatiani stanno insistendo con il vice segretario Lorenzo Guerini perché lo stesso Civati entri nella segreteria unitaria che partirà a metà giugno. La pax renziana si estende anche alle riforme. E proprio per trovare un compromesso la
presidente Anna Finocchiaro ieri ha spostato alla prossima settimana il termine per la presentazione degli emendamenti al nuovo bicameralismo. Il «terreno d’atterraggio» studiato da Finocchiaro — anche per venire incontro alle richieste di Ncd, Lega e Forza Italia, che insistono per un Senato elettivo — è quello di un’elezione alla francese, di secondo grado, da parte di una vasta
platea di amministratori locali: consiglieri comunali, regionali e deputati del territorio. Sarebbero loro a scegliere i futuri senatori. Una proposta identica a quelle presentate ieri dal renziano Andrea Marcucci, dal rappresentante dei senatori franceschiniani Franco Mirabelli e dal bersaniano Miguel Gotor. Ma se il “lodo francese”, benedetto anche dal ministro Boschi, riunifica le varie anime
del Pd, Forza Italia sembra andare in direzione opposta.
Del resto l’avvicinamento di Berlusconi alla Lega e Fratelli d’Italia è sotto gli occhi: la carta su cui è stato scritto il patto del Nazareno appare sempre più ingiallita. «Per noi — ragiona il capogruppo forzista Paolo Romani — un Senato alla francese è inaccettabile. Parliamo di 140-150 mila amministratori, in gran parte di sinistra. Allora
tanto vale far votare tutti gli italiani». Quanto al patto del Nazareno, che pure prevedeva un Senato non elettivo, per Romani «rischia di essere ormai una gabbia. Queste elezioni hanno dimostrato che è difficile far capire alla nostra gente che siamo all’opposizione di Renzi ma collaboriamo sulle riforme. Nei prossimi giorni andrà fatta una riflessione».

il manifesto 29.5.14
Smeriglio: «Nessuna scissione in Sel»
intervista di Daniela Preziosi


Sinistre. Intervista a Massimiliano Smeriglio: «Discuteremo, ma oggi entrare nel Pd o governare con Alfano sarebbe folle». «Abbiamo proposto un campo largo con il Pd, oggi c’è ma non è il nostro». Renzi? «Gli riconosco uno straordinario risultato. Tsipras proverà un dialogo con lui e con il Pse»

Vice­pre­si­dente Mas­si­mi­liano Sme­ri­glio, oggi Sel riu­ni­sce la sua pre­si­denza e affronta una discus­sione sul voto. È in corso un divor­zio nel vostro partito?
Spero di no. C’è, una discus­sione, è evi­dente. E ora serve matu­rità per fare que­sta discus­sione senza rien­trare negli sche­ma­ti­smi e nelle lotte fra­tri­cide che hanno caratteriz­zato gli ultimi vent’anni a sinistra.
Fra voi però ci sono posi­zioni molto distanti. C’è chi chiede un par­tito unico con il Pd.
Tutte le posi­zioni sono legit­time. In Sel alcuni impor­tanti diri­genti e altre per­so­na­lità per­lo ­più del gruppo par­la­men­tare hanno avan­zato una pro­po­sta, soprat­tutto rispetto al governo. L’ho letta sui gior­nali. Siamo pronti a discu­terne. E però voglio dire che Sel ha messo anima e corpo nella lista Tsi­pras, abbiamo dato un grande con­tri­buto al risul­tato, abbiamo vinto e per una volta pote­vamo per­sino con­ce­derci il lusso di essere felici. Affron­tare que­sta discus­sione quasi a pre­scin­dere dal risul­tato, ammet­tia­molo, è un po’ una follia.
Siete ’pronti a discu­terne’ vuol dire che potre­ste fare un’apertura di cre­dito al governo Renzi?
Non credo che Sel farà un’apertura di cre­dito a Renzi. Sel è nata sull’idea che si può costruire un’alternativa di governo e sull’idea di un rap­porto costante e dia­let­tico con il Pd. Oggi rico­no­sciamo il suc­cesso straor­di­na­rio del Pd di Renzi. Non so cosa diven­terà, ma quello che è stato pos­siamo dirlo: un argine demo­cra­tico ai pro­cessi som­mari e al ran­core pro­dotto da Grillo. Ma il governo Renzi per noi resta quello del decreto Poletti, né è imma­gi­na­bile gover­nare con Gio­va­nardi e Alfano. Se Renzi non se ne libera, su que­sto governo c’è poco da discu­tere. Poi quando arri­verà la legge sul divor­zio breve la vote­remo. E per il resto, come sem­pre, vedremo di volta in volta.
Il decreto sugli 80 euro?
Se non sarà un voto di fidu­cia e se gli 80 euro non saranno sot­tratti ai ser­vizi dei comuni, sì. Nes­suna inten­zione di chiu­dere le porte a qual­siasi rela­zione con il Pd. Quest’ipotesi non esi­ste: per dire, io nel Lazio sono vice­pre­si­dente di un demo­cra­tico. Sel deve fare una bat­ta­glia a viso aperto sull’alternativa di governo quando parla con il Pd, ma anche nelle sedi della lista Tsi­pras. Non ci ha mai con­vinto l’occhiolino a Grillo. Tanto più in Europa, e dopo l’incontro con l’Ukip di Farage.
Nes­suna col­la­bo­ra­zione con Grillo a Strasburgo?
Mi pare non sia nelle cose. Spero che nella Lista Tsi­pras si apra un con­fronto vero, in luoghi demo­cra­tici e par­te­ci­pa­tivi, su que­sto e su come darsi con­ti­nuità. Quest’accumulo di forze per noi non è resi­duale né di testi­mo­nianza. Né la nostra let­tura relega il Pd a una Dc 2.0.
Se nascerà una costi­tuente a sini­stra, Sel ne farà parte?
Sel deve con­tri­buire all’avvio di un pro­cesso vero, che non sia una som­ma­to­ria eli­ta­ria dei gruppi diri­genti, e che non si risolva in un’assemblea nazio­nale. Un pro­cesso democra­tico e ter­ri­to­riale. For­tu­na­ta­mente non abbiamo ele­zioni all’orizzonte: prendiamoci i nostri tempi per veri­fi­care se si può allar­gare il campo e se a sini­stra del Pd può nascere qual­cosa di più grande di Sel, che non sia un ritorno al vec­chio Prc, che sia capace di dia­lo­gare con il Pd e si ponga l’ambizione dell’alternativa di governo. Non serve spie­gare al popolo quanto sta male. Lo sa già.
Renzi dice che in par­la­mento non farà «cam­pa­gna acqui­sti», ma fa capire che non gli dispia­ce­rebbe arruo­lare par­la­men­tari. Qual­cuno di voi è ten­tato di pas­sare dalla sua parte?
In cam­pa­gna elet­to­rale ho girato il par­tito, e chi lo fa si rende conto che ipo­tesi di scissione non esi­stono. La que­stione riguarda, lo ripeto, alcuni diri­genti auto­re­voli e alcuni parlamentari.
Lei dice no al «con­te­ni­tore unico con il Pd». Ma qual­che mese fa lei e Ven­dola proponevate un «campo largo» con il Pd.
Il campo largo oggi nei fatti c’è: cos’altro è un par­tito al 41 per cento? Ma non è il nostro campo, non è la con­ta­mi­na­zione di cul­ture diverse. E poi ci vuole senso del limite: non si può imporre dal nostro 4 per cento una rifles­sione al Pd, che sta al 41. Per costruire un nuovo campo dob­biamo avere la forza di costruire un sog­getto a sini­stra che sap­pia anche dia­lo­gare con il Pd. Di certo non dob­biamo scio­glierci nel Pd.
Renzi potrebbe tor­nare ad essere un alleato, in un futuro?
Il Pd è un alleato in pro­spet­tiva ma soprat­tutto lo è già oggi in tre quarti d’Italia, nelle ammi­ni­stra­zioni. Quanto a Renzi lo spero, ma dovrebbe esserci un cam­bio di natura del suo governo, che non è all’orizzonte. Certo se gover­nerà con Alfano per tre anni, biso­gnerà pren­derne atto. L’altro punto diri­mente è come si affron­te­ranno le pros­sime riforme, per esem­pio la legge elet­to­rale. Pen­sare di risol­vere il tema della demo­cra­zia deci­dente eli­mi­nando di fatto il suf­fra­gio uni­ver­sale non è accet­ta­bile. Vedremo anche se Renzi uti­liz­zerà la forza che oggi ha nel Pse per cam­biare le poli­ti­che dell’austerità e per cam­biare il fiscal com­pact: anche le sue scelte in Europa saranno diri­menti per noi.
La pensa così anche il vostro can­di­dato pre­si­dente Tsipras?
Fra Ita­lia e Gre­cia per for­tuna nostra ci sono alcune dif­fe­renze nel livello a cui è arri­vata la crisi. Tsi­pras è duris­simo con il Pasok, che ormai in Gre­cia si è estinto sia per le respon­sa­bi­lità che ha avuto nella crisi che per la cor­ru­zione. In ogni caso siamo siamo certi che Tsi­pras quanto prima dia­lo­gherà con i ver­tici del Pse e diret­ta­mente con Mat­teo Renzi. Sarà il momento della veri­fica della sua volontà di cam­biare dav­vero l’Europa. Renzi batta un colpo, sarebbe una bella novità.

Corriere 30.5.14
Sel, cresce la fronda di chi vuole entrare in maggioranza (tra dibattiti e liti)
di Alessandro Capponi


ROMA — La «pulsione governativa», la chiama qualcuno. Perché va bene il 4% in Europa, naturalmente, ma l’obiettivo è contare di più in Italia. E però, sul come fare — dopo il risultato al voto della lista Tsipras — Sel discute, si divide, s’interroga (e litiga): «Ma non ci sarà alcuna scissione», garantiscono più o meno tutti al termine della segreteria nazionale. Anche se poi è innegabile che, soprattutto alla Camera, «una manciata di parlamentari attratti dalla prospettiva di governo c’è, sì».
La «riflessione» è avviata e oggi, alla direzione convocata da Nichi Vendola, non mancherà l’occasione di un confronto, anche aspro. Allo stato, all’interno di Sel esistono posizioni molto diverse: quella di Gennaro Migliore (sui social network bersaglio di critiche feroci dei militanti, «poltronista», «venduto») che punta a «un partito unico a sinistra», quella registrata ieri nella segreteria per la quale «noi rimaniamo all’opposizione, almeno finché il Pd farà il governo con il centrodestra». E altre, con sfumature diverse: dal «Pd uguale alla Dc» fino al riconoscimento, come sostiene il vicepresidente del Lazio, Massimiliano Smeriglio, «del ruolo avuto dal Pd di argine democratico; noi manteniamo un dialogo forte con il partito ma, allo stato, il governo non ci convince. Valuteremo i provvedimenti di volta in volta». E gli 80 euro in busta paga? «Se non vengono tolti agli enti locali diremo bravo a Renzi». La posizione espressa da Vendola nella riunione è chiara: «Il Pd è tutto da interpretare, verifichiamo passo passo. Ma il rapporto col Pd è diverso da quello col governo...». Gennaro Migliore critica la ministra Guidi e dice a Renzi: «Tragga conclusioni sui centristi ormai privi del consenso elettorale. A me interessa dialogare con chi, nel Pd, vuole fare la strada a sinistra». E gli insulti su Facebook? «Non li cancello, e ribadisco la mia idea: il soggetto unico è una soluzione importante, e non immediata, per ricostruire il centrosinistra». La parlamentare Celeste Costantino: «Le fascinazioni facili stanno compromettendo tutto quello che abbiamo costruito». Ileana Piazzoni sorride a chi gli chiede se sia già passata col Pd: «No, macché. Però il nodo è la lettura della realtà: dire che il Pd è uguale alla vecchia Dc fa ridere, no?».

«Chiti insiste sulla riduzione numerica di entrambe le Camere: i senatori sarebbero 106 e i deputati 315. A favore, anche, della proposta Chiti ieri 31 intellettuali e costituzionalisti, da Asor Rosa a Alfiero Grandi, hanno firmato un appello per fermare sia il ddl del governo che l’Italicum»
l’Unità 30.5.14
L’Excalibur del governo Mediazione sul Senato
Ok dei bersaniani, Chiti insiste


Se le riforme sono, dice il premier, «la madre di tutte le battaglie», per vincerle è necessaria un’arma segreta. Utile, ad esempio, a trovare una sintesi tra le migliaia di emendamenti (3550 solo del Carroccio) alla riforma del Senato e del Titolo V piovuti sul tavolo della Commissione Affari costituzionali del Senato dove ieri scadeva il termine per presentarli. Tanto per cominciare i due relatori, la presidente Anna Finocchiaro e il leghista Roberto Calderoli hanno trovato un accordo per rinviare il termine alle ore 18 di martedì 3 giugno. Secondo il cronoprogramma del governo entro luglio, prima della pausa estiva, la riforma del Senato che sancisce la fine del bicameralismo perfetto deve aver passato il primo dei quattro voti previsti. Entro la stessa data deve essere legge la riforma del sistema elettorale (Italicum).
Ma la vera Excalibur per la madre di tutte le battaglie si presenta a palazzo Madama nel primo pomeriggio, proprio mentre Renzi sta parlando nella direzione del partito, sotto le mentite spoglie di un emendamento a doppia firma di Andrea Marcucci e Franco Mirabelli. Corregge l’articolo 2 del testo del governo e propone «il Senato eletto, sul modello della Camera Alta francese, da un collegio formato dai componenti dei consigli regionali, dei consigli comunali e dai deputati del territorio». Sancisce di fatto l'elezione indiretta dei componenti del Senato delle Autonomie e introduce anche «una modifica che assicura una rappresentanza delle regioni proporzionale alla popolazione residente». Un secondo emendamento, sempre a firma Marcucci e Mirabelli, propone la diminuzione dei senatori a vita «da 21 come previsto dal governo a 5».
Molti leggono negli emendamenti Marcucci-Mirabelli la mano del premier. Anzi, al Senato si dice esplicitamente che «il testo è stato concordato con Renzi e con il ministro Boschi». Di certo è la prima apertura di palazzo Chigi dopo mesi di muro contro muro. Da qui la sensazione che sia il «punto di mediazione » che potrebbe mettere d’accordo le diverse anime del Pd ma anche del governo e di Forza Italia. L’unica sintesi possibile tra chi - i renziani - non retrocede da un Senato delle autonomie formato da senatori eletti con votazioni di secondo grado (cioè da soggetti già eletti ad altri incarichi amministrativi come consiglieri comunali e regionali e deputati). E chi invece, ferma restando la fine del bicameralismo perfetto, vorrebbe un’elezione di primo grado (dei cittadini) o una via di mezzo: i cittadini che quando eleggono i consiglieri comunali e regionali, indicano anche la loro preferenza per chi andrà a fare anche il senatore.
La via d'uscita dal muro contro muro dello scorse settimane sarebbe appunto l'elezione indiretta dei senatori, su un modello mutuato dal sistema francese. Inoltre, si spiega dal fronte renziano, l'emendamento garantisce anche «la rappresentanza in quanto i senatori vengano eletti in modo proporzionale in base alla popolazione residente in ogni singola Regione. Speriamo così di mettere tutti d'accordo tutti».
Di certo la proposta piace al senatore Miguel Gotor e ai bersaniani. «Bene le aperture alla riforma di un Senato alla francese, lanciato nei mesi scorsi dai riformisti del Pd» ha commentato ieri dopo aver letto il testo Marcuci-Mirabelli. Gotor, che ricorda di aver fatto questa proposta il 22 aprile, chiede di fare uno sforzo in più in direzione del bilanciamento dei poteri e di aprire a «più strumenti di democrazia diretta, con maggior spazi per le leggi di iniziativa popolare, l'introduzione del referendum propositivo e la cancellazione del quorum ».
Alla mediazione resta per il momento sordo l’ex vicepresidente del Senato Vannino Chiti che ha presentato circa 20 emendamenti al ddl costituzionale del governo. Modifiche che insistono nella battaglia per un Senato eletto e che sono state firmate anche da una ventina di senatori del Pd, exM5S e Sel: il Senato è eletto a suffragio universale, su base regionale; le competenze legislative sono incrementate rispetto al testo del governo (sui diritti civili e sull' Ue). Ma soprattutto Chiti insiste sulla riduzione numerica di entrambe le Camere: i senatori sarebbero 106 e i deputati 315.A favore, anche, della proposta Chiti ieri 31 intellettuali e costituzionalisti, da Asor Rosa a Alfiero Grandi, hanno firmato un appello per fermare sia il ddl del governo che l’Italicum. Che il voto delle Europee potrebbe limare nelle soglie e negli sbarramenti senza però toccare il sistema delle coalizioni che continua a premiare il centrodestra rispetto ai Cinque stelle.
Anche le posizioni dei facilitatori guidati dal lettiano Francesco Russo, un’altra frangia ribella nel Pd, possono trovare risposte nel testo governo-Marcucci. Ncdresta collaborativa: 13emendamenti per l’elezione diretta dei senatori con un listino ad hoc e la richiesta di ipotizzare l’elezione diretta del premier. Forza Italia ne ha presentati 37: elezione diretta e presidenzialismo. Sembrano più bandiere di posizione che questioni irrinunciabili. Fondamentale invece l’emendamento di Andrea Giorgis che obbliga al via libera della Consulta prima che ogni tipo di riforma costituzionale venga approvata. Per evitare poi infiniti ed estenuanti ricorsi.
Queste le carte in tavola. Resta da capire che farà la Lega e i suoi 3.550 emendamenti. «Il governo ci ascolti o sarà un Vietnam» dice Calderoli. Ma sono cose che si dicono.

il manifesto 29.5.14
Francesellum, Senato stile Anci
di Andrea Fabozzi


Riforme. Renzi assicura: nessun rinvio. Ma la commissione affari costituzionali rinvia di cinque giorni. E' caos emendamenti, come soluzione avanza un finto modello francese che rimette al centro i comuni

Men­tre Mat­teo Renzi infor­mava la dire­zione del Pd che non ci sarà «nes­sun rin­vio» sulle riforme, e che il mese di giu­gno sarà «cru­ciale» per appro­vare il dise­gno di legge costi­tu­zio­nale sul bica­me­ra­li­smo e a ruota — «comun­que entro l’estate» — la seconda let­tura della legge elet­to­rale, la com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali del senato deci­deva, appunto, un rin­vio. Breve: il ter­mine per la pre­sen­ta­zione degli emen­da­menti al testo del governo doveva sca­dere ieri pome­rig­gio, e invece sca­drà mar­tedì pros­simo. Si comin­cerà allora a votare e, se andrà bene, si potrebbe con­clu­dere in com­mis­sione per quella data, il 10 giu­gno, sulla quale era già ripie­gato Renzi come sca­denza ultima per il via libera dell’aula del senato. Nella sua sfida con i sena­tori adesso Renzi ha l’energia in più del suc­cesso alle euro­pee, ma il senato è Rodi ed è qui che deve saltare.
La con­trad­di­zione è quella lasciata irri­solta prima delle ele­zioni. La mag­gio­ranza dei sena­tori, ben rap­pre­sen­tata dai com­mis­sari della affari costi­tu­zio­nali, è per una forma di ele­zione dei nuovi com­po­nenti della camera alta. Con una pre­fe­renza per l’elezione diretta. Il governo pensa l’opposto: di prin­ci­pio voleva quasi solo sin­daci nel senato, poi metà sin­daci e metà con­si­glieri regio­nali. La situa­zione schi­zo­fre­nica ha por­tato all’approvazione di un ordine del giorno Cal­de­roli che rac­co­manda l’elezione diretta, e del testo base Renzi-Boschi che pre­vede l’opposto. La parola dun­que agli emen­da­menti (ma sul pastic­cio pro­ce­du­rale dovrà prima o poi pro­nun­ciarsi la giunta per il regolamento).
A otte­nere lo slit­ta­mento di cin­que giorni del ter­mine è stato il sena­tore Cal­de­roli, cor­re­la­tore, con la minac­cia di pre­sen­tare altri­menti oltre tre­mila emen­da­menti leghi­sti. Restano un cen­ti­naio di emen­da­menti dei 5 stelle, una qua­ran­tina di Forza Ita­lia, tre­dici del Nuovo cen­tro­de­stra, una ven­tina della (ex) mino­ranza Pd, quelli di Sel fir­mati anche dagli ex gril­lini… Ci sono gli emen­da­menti del sena­tore Russo del Pd, che si è asse­gnato il ruolo di «faci­li­ta­tore» delle riforme, e che rece­pi­sce le inten­zioni del governo sulla ridu­zione dei sena­tori di nomina pre­si­den­ziale (da 21 a 5) e sul rap­porto pro­por­zio­nale tra sena­tori e popo­la­zione della regione. In più c’è la pro­po­sta di alzare il quo­rum per le modi­fi­che costi­tu­zio­nali, da 2/3 a 3/5, una neces­sità che deriva dall’opzione per il maggio­ri­ta­rio. Lo schie­ra­mento favo­re­vole all’elezione diretta è sem­pre ampio, va da Sel ai gril­lini ed ex gril­lini, abbrac­cia il Nuovo cen­tro­de­stra e una parte dei sena­tori Pd che ave­vano con­di­viso la pro­po­sta alter­na­tiva di cui era primo fir­ma­ta­rio Van­nino Chiti. C’è anche il sena­tore di Forza Ita­lia Min­zo­lini (che pari­menti insi­ste con il presidenzialismo).
Il richiamo all’ordine della mag­gio­ranza arri­verà entro mar­tedì sotto forma degli emen­damenti della rela­trice Finoc­chiaro. La via d’uscita la indica l’emendamento dei sena­tori iper ren­ziani Mar­cucci e Mira­belli che pro­pone una forma ori­gi­nale di ele­zione indi­retta. L’elettorato attivo del nuovo senato viene riser­vato, in ogni regione, ai con­si­glieri regionali, ai con­si­glieri comu­nali di tutti i comuni grandi e pic­coli e ai depu­tati eletti nella regione. L’elettorato pas­sivo quasi coin­cide: con­si­glieri comu­nali o regio­nali. I comu­nali sono natu­ral­mente la grande mag­gio­ranza, tanto che si pre­vede che almeno un terzo degli eletti deb­bano essere con­si­glieri regio­nali. La pro­po­sta viene offerta come mediazione ma somi­glia tanto al ritorno in forze del senato dei sin­daci e alla rivin­cita dell’Anci, l’associazione dei comuni così ascol­tata dal pre­mier Renzi e dal sot­to­se­gre­ta­rio Del­rio.
Viene pre­sen­tata anche come «modello fran­cese», e in que­sta chiava piace anche al sena­tore ber­sa­niano Gotor. Ma di fran­cese ha poco, posto che Oltralpe l’elettorato pas­sivo è di tutti i cit­ta­dini sopra i 24 anni. A Parigi i sena­tori sono rap­pre­sen­tanti dei par­titi a tutti gli effetti, ven­gono scelti con legge pro­por­zio­nale (in mag­gio­ranza), ven­gono pagati qual­cosa più di 11mila euro al mese e, molto pre­sto, non potranno essere sindaci.

il Fatto 30.5.14
“Zitti tutti”, il 40% del premier rottama il dissenso interno
Direzione democratics senza che voli un fiato
Tutti gli oppositori ringraziano il segretario vincente
Accordo in vista anche su Italicum e riforma del Senato
di Wanda Marra


E adesso ci sono gli iscritti a parlare...”. Sandra Zampa, che siede ai banchi della presidenza della direzione del Pd, dopo l’intervento di Matteo Renzi, prova a dar vita alla discussione. “Nooooo”, l’ululato sorge spontaneo dalla platea. Dopo l’intervento del leader-trionfatore, che in una mezz’oretta o poco più, ha commentato il voto, dato le linee guida del futuro, abbracciato tipo grande padre il passato del partito e gli ormai ex dissidenti interni, in effetti c’è poco da dire. Il 40,8% parla chiaro. E Renzi lo sa così bene che mantiene l’atteggiamento che ha scelto da domenica notte, quando ha mandato davanti alle telecamere “il gruppo dirigente” (così lo chiama anche ieri), senza neanche apparire in prima persona.
LUI ORMAI non ha bisogno di provocare, rottamare, asfaltare. Gli basta limitarsi ad accogliere magnanimamente quelli che vogliono andare a lui. “Trovo allucinanti le polemiche per la foto di gruppo: non c’è nessun salto sul carro, ma un partito che è convinto di poter discutere al proprio interno con serenità”, dice. Toni di questo tipo nel Pd, quello che ha consumato le sue faide interne durante le elezioni del presidente della Repubblica, bruciando pure Prodi, il padre fondatore, non s’erano mai sentiti. Né s’erano mai sentiti toni come quelli usati in questi giorni da coloro che furono di Renzi gli acerrimi nemici. Se è per “Fassina chi?” (citazione Renzi) così parlava ieri a Repubblica: “Renzi l’avevo sottovalutato”. Perché “è l’uomo giusto al posto giusto”. Se è per Paola De Miche-li, tra le fedelissime di Letta, sempre la prima a dar voce alle peggiori accuse nei confronti dell’allora pericolo numero uno, così la metteva con il Messaggero: “Un partito del 40% non può essere fondato sulle correnti”. Sarà un caso ma è tra le favorite nella corsa alla presidenza dell’Assemblea. E Gianni Cuperlo, lo sfidante all’ultimo congresso, che dopo una direzione in cui gli si ricordava di non aver fatto le primarie per diventare parlamentare, da Presidente si dimise? “L’impatto di Renzi su questo risultato è stato decisivo. Riconoscerlo è un atto di umiltà. Ma ora tutto il partito deve marciare unito”, diceva all’Unità. La fine del dissenso interno si consuma sui giornali, perché in direzione si dà già per assodato. Tant’è vero che il segretario-premier annuncia per l’Assemblea del 14 giugno la nuova segreteria indicando la linea della “gestione unitaria”. In passato, le minoranze avevano chiesto garanzie sul loro eventuale ruolo e il loro peso. Ieri il fu bersaniano Davide Zoggia semplicemente annunciava: “Entreremo in segreteria”. Se qualcuno ha dei dubbi sulle magnifiche sorti progressive del renzismo se li tiene rigorosamente per sé o li esprime a bassa voce, per lo più secondo la formula: “Però, ci siamo anche noi”.
Renzi racconta quello che ha intenzione di fare. Prima di tutto, il lavoro che “è la madre di tutte le battaglie”. Il lavoro secondo Poletti, è chiaro. Poi, ci sono le riforme. Il premier sia sulle riforme costituzionali, che sull’Italicum, è pronto a concedere qualche modifica. La presentazione degli emendamenti in Senato è stata spostata a martedì: si lavora a un accordo. E l’Italicum “va approvato prima dell’estate, ma non per andare a votare”. Quel 40,8% serve al premier per capitalizzare sulle riforme, ma se qualcosa andasse storto, Renzi è pronto al voto. Tra i fedelissimi c’è chi giura che potrebbe arrivare al 50%.
Non mancano i progetti per il partito, come le scuole di formazione, dove bisognerà studiare anche le serie tv americane perchè “imparare un racconto è importante”. E “Matteo” lo sa bene che la politica ai giorni nostri è prima di tutto la costruzione di un racconto avvincente e convincente. Un romanzo, al quale casomai i fatti si agganciano. “Il 40% è un accidente della storia o un obiettivo stabile?”. Una “domanda retorica”. Perché deve diventare “casa” per i dem. Perché, citando il “mitico Mike, non è il momento di lasciare ma raddoppiare”. Anche questo un omaggio non casuale: un allora occhialuto e giovanissimo Renzi partecipò alla Ruota della fortuna, sbaragliando i concorrenti. Esperienze che formano.
E allora, per dirla tutta, altro che raddoppio: “Siamo il partito della nazione”. E altro che dibattito: dopo il leader ci sono 4 o 5 interventi perlopiù di giovani sconosciuti. Bersani, Veltroni e D’Alema se ne vanno alla chetichella. I delegati chiacchierano. Non c’è più nulla da dire. Almeno per ora.

MicroMega 28.5.14
San Matteo
di Carlo Cornaglia

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MicroMega 28.5.14
Carta bianca a Renzi
di Lorenzo Guadagnucci

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il Fatto 30.5.14
Scusaci principino

FASSINA SÌ CHE SE NE INTENDE: “Renzi l’avevo sottovalutato Ha dimostrato grandi qualità: è l’uomo giusto al posto giusto”
CUPERLO E IL CARRO DEL VINCITORE: “L’impatto di Renzi è stato decisivo, riconoscerlo è un atto di onestà. Dovremo concorrere tutti a trovare le soluzioni”
DE MICHELI, LETTIANA IN INCOGNITO: “Non c’è più spazio per vendette, rancori, beghe personali. Un partito al 40% non può essere fondato sulle correnti”

l’Unità 30.5.14
Da Frattocchie alle serie televisive. A far scuola è il compagno Ercoli
Sulla formazione politica Renzi rilancia un’idea teorizzata e praticata da Togliatti dal ’44
Per il Pci in ogni sezione ci doveva essere una biblioteca


Non è facile dire come si studia. Più facile osservare che la maggioranza dei nostri compagni, anche dotati di una buona qualifica, non sanno studiare. Non studiano nel senso vero e proprio della parola anche quando credono di studiare…». Forse Matteo Renzi, mentre giustamente raccomandava che s’avviasse «una campagna di formazione politica» con gli strumenti tradizionali ma anche con le serie tv americane, non si rendeva conto d’esser sulla strada del compagno Ercoli, cioè di Palmiro Togliatti, che il chiodo dello studio l’aveva fisso, obiettivo politico prima di tutto, costruire un ceto dirigente solido, preparato, orientato. Così il Pci creò la scuola di partito delle Frattocchie, in una villa, e si era solo nel 1944 quando mezza Italia a nord di Roma viveva e moriva nel terrore nazifascista. Visti gli anni, non c’è da stupirsi se la intitolarono a Andrej Aleksandrovic Zdanov, integerrimo regista di ogni forma di espressione culturale nell’Unione sovietica di Stalin, fino alla morte, nel 1948, tra i teorici del «realismo socialista », divulgatore di quella bella metafora che affidava agli artisti il ruolo di ingegneri delle anime, con il compito di raffigurare il popolo nella realtà del divenire socialista. Nel 1950 Zdanov venne accantonato e Frattocchie divenne prima «Istituto Togliatti», quindi Istituto di studi comunisti e «Istituto di studi comunisti Palmiro Togliatti», fino ai primi anni novanta, fino insomma alla chiusura. Vi insegnarono uomini della vecchia guardia come Secchia, Sereni, Robotti, Gensini, Gruppi, ma anche intellettuali di formazione e di orizzonti assai nuovi (come Mario Spinella) e vi passò pure Enrico Berlinguer… Materie d’insegnamento dalla politica all’economia alla letteratura, l’impronta ideologica era netta. Vi studiarono ragazze e ragazzi di tutta Italia, operai e contadini, avvocati e insegnanti. Ne uscirono istruiti o scettici, felici o confusi. In una intervista televisiva di anni fa Massimo D’Alema ricordò Frattocchie, riconoscendone insieme con i difetti il valore pedagogico per quanti nei campi o nelle officine di libri ne avevan visti assai pochi, ribattendo alle accuse pesanti di indottrinamento a senso unico. Alle Frattocchie si studiava tantissimo: poi dipendeva dall’intelligenza e dalla sensibilità di ciascuno profittare al meglio di tanto studio.
La scuola del Pci non finiva, però, alle porte di Roma, perché altre scuole sorsero altrove (quella di Faggeto Lario, ad esempio), e soprattutto ovunque fu un gran fervore di iniziative. C’è chi ha fatto i conti e sostiene che tra il 1951 e il 1956 si svolsero sedicimila corsi di formazione: federazioni e sezioni e cellule mobilitate in quella che si può ben definire la Nep della cultura italiana, una impressionante campagna di alfabetizzazione.
Il Pci d’allora, anni cinquanta sessanta e oltre, si preoccupò pure che ogni sezione disponesse di una biblioteca e diventasse oltre che un luogo di discussione politica più o meno democraticamente esperita anche una sede di lettura, classici e saggistica contemporanea. In questo caso si dovrebbero rileggere le carte della casa editrice Einaudi (fondamentale il saggio di Luisa Mangoni, storica, scomparsa nel gennaio scorso, saggio pubblicato da Bollati Boringhieri, titolo: «Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta »). Il confronto tra Giulio Einaudi, i suoi collaboratori, da Cantimori a Muscetta, da Solmi a Venturi, da Vittorini a Bollati a Panzieri, e varie voci del Pci, con ovvie ripercussioni nella scrittura del catalogo einaudiano, influì anche nella costruzione (in virtù di un vero e proprio rapporto economico) delle più modeste biblioteche di sezione, vitali almeno per un paio di decenni nella educazione di migliaia di militanti. I quali peraltro, quando militanti e comunisti lo erano per profonda convinzione, avvertivano per conto proprio la cultura come momento fondamentale per la loro emancipazione e per l’emancipazione della classe operaia: studiare per essere più forti nella lotta. Altri tempi. Ho conosciuto tanti comunisti (e tanti giornalisti de l’Unità) operai e tramvieri, fermi alle scuole d’avviamento al lavoro (le medie inferiori di mezzo secolo fa), meccanici nelle grandi fabbriche, dalla Breda all’Ansaldo, fabbri e battitori di lamiere, vivi però di infinite letture e di un sapere storico e letterario, che nessun neolaureato d’oggi potrebbe vantare.
Nell’Italia del dopoguerra non ci furono solo le Frattocchie o le sezioni del Pci. Per non far torto al segretario Renzi e alla sua storia, non si può dimenticare il mondo cattolico: non tanto quello degli oratori e delle censure cinematografiche, quanto quello della scuola di Barbiana e di don Milani, che nel 1954, in alcune pagine delle sue «Esperienze pastorali », a proposito di oratori (li chiamava «ricreatori») citando l’arrivo del «televisore » anche nella «casa del prete», scriveva: «Aprirgli la porta significa accettare il tono della società in cui viviamo… Tono di cui abbiamo notato la vuotezza. Di cui potremmo notare la forza di standardizzazione, cioè la capacità di render tutti gli uomini somiglianti, impersonali, stampati…». Nel 1954. In vista della promessa riforma della Rai.

il Fatto 30.5.14
Fiction politica, Renzi consiglia House of Cards
Se il Pd si ispirasse alle serie Usa
di Stefano Feltri


Il vero Francis Underwood, il protagonista di House of Cards, non avrebbe mai citato come fonte di ispirazione per capire la politica una serie tv. Al massimo Sun Tzu, William Shakespeare, o meglio ancora Tucidide. Ma nella metapolitica pop di Renzi, il protagonista sollecita il filtro della fiction per raccontare il presente (la fiction deve essere credibile, la realtà può permettersi una certa assenza di logica e di verosimiglianza).
Nella direzione del Pd sul risultato elettorale, il premier suggerisce di alternare gli “strumenti tradizionali di formazione politica” con “le serie tv americane, so che qualcuno si mette le mani nei capelli, ma imparare anche un racconto è importante”. Lui non ne ha bisogno, perché la narrazione di se stesso l’ha già costruita, ma a Stefano Fassina o Gianni Cuperlo un po’ di House of Cards farebbe bene. Capirebbero meglio il renzismo studiando la lezione fondamentale del serial con Kevin Spacey: inutile farsi scrupoli in politica, l’unico risultato che si ottiene è di lasciar andare al potere chi ha meno scrupoli di te, tipo Berlusconi. E a Ignazio Marino potrebbe essere utile studiare il personaggio di Tom Kane, il sindaco che in Boss governa Chicago con sicari, sotterfugi (e con un po’ di visioni dovute a una malattia terminale al cervello) che potrebbero offrire spunti utili al sindaco di Roma così a corto di risultati. Renzi era troppo giovane quando West Wing raccontava di un presidente saggio alla Casa Bianca, un Bill Clinton senza sesso e con pochi scandali, e infatti quel tipo di serie può aver al massimo ispirato Walter Veltroni, troppo buonista per il renzismo. Qualcuno del giro del premier sicuramente apprezza più la politica stile 24 (uno come Francesco Nicodemo si capisce che si immedesima più in Jack Bauer che in Toby Ziegler di West Wing (e chi non ha visto le serie in questione perdonerà il riferimento un po’ nerd). Però Renzi deve stare attento: House of Cards è la storia di un politico ambizioso e di seconda fila che si sente tradito e poi passa le prime due stagioni a organizzare una vendetta che lo porterà al potere, distruggendo, anche fisicamente, i suoi avversari. Forse i renziani ora sono troppo impegnati per stare aggiornati con le nuove serie Usa. Ma Enrico Letta ha un sacco di tempo libero.

La Stampa 30.5.14
Dal Pd segnali di sfratto a Marino
Per il futuro si pensa alla Madia
Il ministro: “Serve cambiamento”. Lui: il partito romano è il peggiore
di Amedeo La Mattina


L’ultimo schiaffo a Ignazio Marino lo ha dato Dario Franceschini. «Matrimoni civili al Colosseo? Mi sembra un’idea bizzarra e stravagante». Il penultimo Marianna Madia in un’intervista alla Repubblica di Roma: «Il vento del cambiamento non è ancora arrivato in Comune». Il gelo con il Pd, volato in città al 43%, sta complicando la vita al sindaco di Roma. Marino è partito per Boston. Parteciperà ad un convegno sulla mobilità sostenibile nella speranza (per i romani) che possa riportare utili consigli per una città dove il traffico è insostenibile.
L’inquilino del Campidoglio è assediato da una quantità spaventosa di problemi, quello finanziario in testa. Eppure ha tenuto vacante per mesi la poltrona dell’assessore al Bilancio. Solo ieri ha annunciato che in questa poltrona siederà Silvia Scozzese, responsabile finanze locali dell’Anci. I piano di rientro arriverà a metà giugno. Il rimpasto, croce e delizia del Pd, non prima di luglio. E il partito famelico non l’ha presa bene. «Ci sono troppi appetiti, troppe faide, io sono veloce come Renzi, la mia maggioranza no: cambi ritmo», dice il sindaco prima di mettere piede sulla scaletta dell’aereo.
Sembra o meglio fa di tutto per non apparire preoccupato della sua sopravvivenza. Il Pd non lo ama. Il gelo è ricambiato da Marino, che considera il partito romano il «peggiore in tutta Italia» in termini di lotte intestine (dimenticando forse quello siciliano). Un’altra musica sarebbe invece il Pd di Renzi. Ma con il primo cittadino della Capitale non è mai scattata la scintilla, né al Campidoglio né a Palazzo Chigi. Lui non lo nega nel primo caso. Dice invece di avere un canale preferenziale con il premier, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Delrio, il vicesegretario Guerini. «Parlo con loro regolarmente e c’è grande sintonia. A quel livello non mi sento isolato». A livello cittadino l’isolamento è palpabile. Marino (non romano) viene considerato incompetente, arrogante, marziano, incapace di mettere in moto una giunta all’altezza della situazione.
Magari è il sindaco che non ha brillato, ma gli appetiti delle correnti sono forti. Non tutte le colpe possono essere addebitate a lui: in città il Pd è un accampamento di tribù in guerra. C’è una sola cosa che li mette tutti d’accordo: Marino deve sloggiare e fare posto a qualcun altro. Ignazio non ha alcuna intenzione di togliere il disturbo. E poi, per lasciare campo libero a chi? A Gasbarra, potente capo bastone pieno di voti (e si è visto anche alle Europee)? O alla rampante Madia, ministro della Pubblica Amministrazione? Viene letto come un avviso di sfratto l’intervista del ministro, che tra l’altro nega la circostanza del canale preferenziale di Marino con il premier. «Per come lo conosco, Renzi non ha canali preferenziali». Gli uomini di Marino minimizzano. Dicono che il titolo dell’intervista è forzato, che Marianna ha voluto anzi prendersela con il partito troppo litigioso, suggerendo al sindaco di rafforzare la squadra senza «rispondere ai capi delle correnti».

l’Unità 30.5.14
Camusso: da noi il festival della precarietà


Sarebbe utile che la Confindustria si accorgesse che descriveun mercato del lavoro che non c'è, non affronta il tema della precarietà ». Parole come pietre quelle di Susanna Camusso sull’intervento del presidente Giorgio Squinzi in assemblea. Il tema dell’occupazione torna al centro dell’agenda politica, dopo il lungo intervallo di campagna elettorale. Lo stesso premier lo ricorda parlando alla direzione del Pd. Il lavoro «è la madre di tutte le battaglie- dice Matteo Renzi - Faremo un passo avanti sul ddl delega. Su questo tema saremo giudicati più che dai mercati internazionali, da potenziali investitori. Mai come ora c'è uno sguardo di attenzione verso l'Italia». Tutti ne parlano, ma sulla strada da adottare non c’è uniformirtà di vedute. Nemmeno tra due leader, Camusso e Squinzi, che finora si sono ritrovati alleati su diversi fronti.
Sul tavolo ci sono i diritti dei lavoratori, che in questi giorni hanno subito parecchie revisioni prima con il decreto Poletti, poi con il disegno di legge oggi ancora all’esame del Parlamento. «Non si può immaginare un sistema competitivo se non si torna ad avere un ruolo di certezza nel mercato del lavoro - aggiunge Camusso - È sbagliata la chiusura che Confindustria fa alla costituzione di un contratto unico perché vuol dire far finta che non ci sia il tema della precarietà».
IL CONTRATTO
Squinzi aveva da poco bocciato l’ipotesi di un contratto unico a tutele crescenti contenuta nel disegno di legge. Per «abbiamo bisogno di semplificare e migliorare la disciplina di quello a tempo indeterminato, rendendolo più conveniente e attrattivo per le imprese, lasciandole più libere di organizzare in maniera flessibile i processi di produzione e rimuovendo gli ostacoli che scoraggiano le assunzioni». Ancora ostacoli, anche dopo aver ridimensionato l’articolo 18 con la riforma Fornero, e dopo aver consentito alle imprese di assumere a termine senza causale con contratti fino a 3 anni. Cosa sarebbe d’ostacolo non si comprende proprio. Quanto alla flessibilità oraria, basta chiedere a qualsiasi lavoratore dipendente per scoprire che in sostanza tutti i «paletti » sono ormai saltati. Altro che cultura anti-impresa, come declama Federica Guidi dallo stesso palco di Confindustria. E la Cgil va all’affondo. «Sollecitiamo soprattutto un salto di qualità sulla partecipazione, invece ho letto nella relazione di Squinzi un orgoglio di autosufficienza delle imprese - così il segretario Camusso - L'omissione di partenza è che si pensa che il mercato del lavoro sia quello regolato dalle leggi e non quello che è diventato un vero e proprio festival della precarietà e delle mille forme contrattuali. Questo continua ad essere un elemento di dumping sul lavoro, abbiamo invece bisogno di costruire un sistema di certezze che è quello che permette di investire sui lavoratori».
Squinzi avanza poi le sue richieste di nuove tutele del lavoro. «Un’azione forte sulle politiche attive», con un cambiamento radicale dei i meccanismi che si occupano di far incontrare domanda e offerta. «Non bastano le politiche di sostegno al reddito dei lavoratori - spiega - le uniche su cui l’Italia ha finora messo risorse. Perché il mercato sia dinamico bisogna assicurare azioni efficaci per la formazione e il ricollocamento dei lavoratori». Ma subito dopo il presidente mantiene il punto su uno strumento tradizionale del sistema italiano. «Abbiamo bisogno di due strumenti - spiega - la cassa integrazione per rispondere alle crisi in cui si possa prevedere un recupero di attività, e l’assicurazione sociale per l’impiego per chi cerca in modo realmente attivo una nuova occupazione».

Il Sole 30.5.14
Il ministro Guidi: stop alla cultura anti-imprenditoriale
«Basta criminalizzare il profitto»


«Basta alla dilagante cultura anti-imprenditoriale. Basta alla criminalizzazione del profitto». È uno dei passaggi dell'intervento del ministro dello Sviluppo economico del governo Renzi, Federica Guidi, al suo esordio all'assemblea annuale di Confindustria con un ruolo di governo e non di imprenditrice. «Serve che le imprese investano e che il governo faccia la sua parte», ha aggiunto Guidi che ha ribadito l'impegno per imprese e made in Italy.
Non c'è il premier, Matteo Renzi, ma il ministro assicura di far propria la linea dell'intero esecutivo nel ricordare la riflessione di Luigi Einaudi sul «ruolo morale dell'impresa».

Il Sole 30.5.14
Il test di riformismo e la sfida ai sindacati
Ha ragione Matteo Renzi quando parla del lavoro come della «madre di tutte le battaglie»
di Alberto Orioli


Ha ragione Matteo Renzi quando parla del lavoro come della «madre di tutte le battaglie». Perché è il lavoro il tema che più definisce il profilo riformista di un governo. Soprattutto perché è venuto il tempo di uscire dall'astrattezza – tutta ad uso politico – del considerarlo come una nuvola di diritti, garanzie e procedure astratti e non come un'attività di persone in carne e ossa che dal lavoro devono trarre identità sociale e reddito.

La priorità dev'essere la creazione del lavoro di cui oggi c'è scarsità e la sua remunerazione. Non la regolazione dei rapporti di lavoro, che è questione successiva ed è stata per troppo tempo una coltre soffocante e ingannatrice sulle reali priorità. Vedremo se lo slogan di Renzi troverà una prima applicazione razionale nel Ddl delega per il riordino degli ammortizzatori sociali, per la creazione dell'Agenzia nazionale per l'impiego e per l'introduzione del contratto unico a tutele crescenti e per la sperimentazione del salario minimo orario stabilito per legge.
Non sono le regole a fare il lavoro ma – come ha detto ieri il presidente della Confindustria Giorgio Squinzi – «con regole sbagliate lo si può distruggere». Oggi serve lavoro in grado di valorizzare al massimo il capitale umano dell'Italia, anche perché la concorrenza della conoscenza sta arrivando, oltre che dai Paesi tradizionalmente competitor del nostro, anche dai Paesi emergenti ormai in grado di offrire lavori anche molto qualificati a costi imbattibili (ma a remunerazione vicina agli standard del mercato). Flessibilità e qualità del lavoro sono dunque prioritari: l'opera di semplificazione e di allungamento dei contratti a termine senza causale svolta dal decreto Poletti è stata meritoria e, ancora ieri all'assemblea annuale degli industriali, è stata salutata come un grande passo riformista. Ci si aspetta che "restituisca" al mercato molti nuovi posti di lavoro certo non ascrivibili alla cosiddetta area della precarietà. Con quella norma ha perso di senso – perché superata – anche la discussione sul contratto unico a tutele crescenti.
Il lavoro è stato per troppo tempo disegnato sui "faticatori ottocenteschi" – come diceva sempre anche Gino Giugni – archetipo utile alle ideologie comuniste o socialiste centrate su un'idea di giustizia sociale, di contenimento del sopruso, di divisibilità del lavoro che, col tempo, realizzati alcuni grandi e nobili traguardi, hanno sviato negli ultimi decenni la discussione dai ritmi e dai temi del progresso tumultuoso delle tecnologie. Che, tra l'altro, hanno trasformato sempre più il lavoro da subordinato ad autonomo fino a farlo diventare esso stesso impresa (come accade per i cosiddetti makers della "generazione start up"). Una tendenza che, nel medio periodo, porrà anche un serio problema di rappresentanza sociale.
Cosa debba essere l'Italia del lavoro tra cinque o dieci anni coincide con cosa si vuole che sia l'Italia dell'industria alla stessa altezza di tempo: i due temi sono uno solo anche perché – come hanno detto ieri sia Squinzi sia il ministro Federica Guidi – «l'occupazione la fanno le aziende, le fabbriche». Quindi è fondamentale azionare le politiche dei fattori (dal fisco all'energia, dal credito alla ricerca scientifica e al trasferimento tecnologico) in modo che siano tutte orientate all'innovazione, agli investimenti e allo sviluppo imprenditoriale.
Non è solo questione di rendere più semplici i licenziamenti per superare l'antico timore dell'imprenditore che non vuole rischiare il "matrimonio a vita" con i propri dipendenti; né è solo questione di incentivare questa o quella modalità di assunzione. «Non ho mai visto un imprenditore fare un'assunzione solo sulla base di un incentivo. Né ho mai visto imprenditori ansiosi di poter licenziare i propri dipendenti per capriccio» ha detto Guidi.
Il presidente della Confindustria aveva poco prima spiegato con chiarezza che «il capitale umano è la ricchezza più grande che noi imprenditori abbiamo». Se il lavoro è il mezzo con cui si massimizza il capitale umano ciò mette in gioco le politiche di istruzione e formazione, ma naturalmente anche quella della corretta remunerazione di quel capitale. Per questa strada si arriva all'urgenza di ridurre ancora di più il peso del cuneo fiscale e parafiscale sul lavoro italiano a tempo indeterminato (perché come è oggi risulta spiazzato dai costi dei concorrenti, se è di 10 punti sopra la media Ue e di 17 su quella dei Paesi Ocse) e alla necessità di ancorare con maggiore precisione le retribuzioni alla produttività e al merito. La prima condizione è appannaggio delle politiche fiscali del Governo, la seconda è propria della dialettica tra le parti sociali sottesa alla contrattazione.
Dalla relazione del presidente della Confindustria è uscita una sfida aperta e positiva al mondo sindacale per un drastico cambio di agenda, secondo i ritmi che ormai sono i ritmi (incalzanti) del mondo intero: non liturgie negoziali, ma una diffusione veloce di intese di secondo livello sul salario di produttività.
La concertazione è pratica che il Governo ha archiviato e, anzi, nell'impeto di disintermediazione della società, l'Esecutivo rischia di gettare oltre all'acqua sporca dei veti paralizzanti, anche il bambino della coesione sociale.
Lo spazio per il dialogo tra imprese e sindacati non può che essere quello di una contrattazione baricentrata sui luoghi di lavoro, più moderna, più "liberale" e meno massimalista. Altrimenti toccherà al Governo stabilire forme di incentivazione del salario di merito che finirà con l'essere elargito unilateramente dall'impresa. Sarà anche questo un modo per disintermediare la società. L'altro potrebbe essere il salario minimo orario definito per legge, ma non a caso di questo non hanno parlato né Squinzi, né Guidi. Sarebbe un modo per superare di fatto i contratti nazionali, forse un passaggio ancora un po' troppo prematuro (anche perché lascerebbe all'attore politico uno spazio di discrezionalità molto ampio).

il Fatto 30.5.14
Dopo le europee
M5S, la sindrome tutti contro tutti
di Andrea Scanzi


Il risultato delle elezioni europee ha fatto scoprire al Movimento 5 Stelle una dimensione inedita: la sconfitta. Di fronte a una novità, stanno reagendo esattamente come tutti quelli che ci sono passati prima di loro. Scontri, psicodrammi, autoanalisi. Elaborare una delusione, anche in politica, non è mai stato facile. Ingrediente primo dovrebbe essere una seria autocritica, che però al momento si palesa a fasi alterne. C’era nel video di Grillo in cui prendeva un Maalox, non c’è nel mirror climbing del “tutto sommato abbiamo vinto”, “è colpa di giornalisti e pensionati”. O, peggio ancora, nella teoria dei brogli e del complotto.
È vero, come scriveva ieri Di Battista, che in Italia quasi 6 milioni di voti alle Europee sono “un trionfo” per un movimento giovane e anomalo. Il problema è che, dopo mesi di “vinciamo noi”, sarebbe parso deludente anche un 28%. La comunicazione resta un tallone d’Achille per M5S ed è proprio questo aspetto a rivelarsi nuovamente critico nella elaborazione della sconfitta. È di ieri la faida tra i “responsabili della comunicazione” e il tandem Grillo-Casa-leggio. Primo aspetto: Biondo, Messora e Casalino hanno fatto molti errori, ma a metterli lì sono stati proprio Grillo e (più che altro) Casaleggio. In un primo momento c’era pure Martinelli, che durò meno di Tabarez al Milan e fu cacciato dai deputati stessi del Movimento (oggi Martinelli sverna a Matrix ed è bravissimo a desertificare il consenso. Persino più di Becchi). Secondo aspetto: i responsabili della comunicazione, nel merito, hanno ragione. Nel dossier scrivono: “Abbiamo trasmesso energia distruttiva”; “L’hashtag #vinciamonoi scelta paradossale con effetto perverso”; “Parlamentari percepiti come saccenti”; “Bisogna prendersi le piazze mediatiche degli altri”. Condivisibile anche Silvia Virgulti, Tv-coach esterna allo staff che – riferiscono fonti parlamentari – ha criticato la comunicazione “negativa” di Grillo e il messaggio “inquietante e non rassicurante” di Casaleggio.
LA VIRGULTI ha ragione anche quando afferma che i voti sarebbero stati molti di meno se i parlamentari più bravi non fossero andati in piazze e tivù. Casaleggio e Grillo non hanno gradito, ed è un eufemismo, sia per il contenuto (e qui hanno torto) sia per il modo (e qui non hanno torto). La disillusione ha sdoganato il protagonismo a tutti i costi, tramutando chiunque in eroe che conosce la cura. Se poi Biondo e Casalino paiono avere le idee chiare, non le hanno sempre avute in passato, ora mandando parlamentari allo sbaraglio mediatico (Carla Ruocco a Otto e mezzo) e ora impedendogli di frequentare determinati talk-show.
Quel dossier doveva restare interno, ma è diventato una mannaia pubblica che erotizza gli avversari. E se i responsabili della comunicazione sbagliano la comunicazione, ricevendo strali anzitutto da chi gli ha dato quel ruolo, il cortocircuito è totale. Nel delirio generale è rispuntata fuori anche Roberta Lombardi. Ieri, dopo aver tuonato per la millesima volta contro i dissidenti brutti, sporchi e cattivi, ha oltrepassato la leggenda: “Sui palchi o in tv ci vanno Di Battista, Morra, Di Maio o la sottoscritta semplicemente perché siamo più bravi”. Lombardi ha citato nomi effettivamente bravi, eccezion fatta chiaramente per il suo: se tutti i parlamentari fossero come lei, M5S prenderebbe il 2%. A inizio legislatura ha fatto più danni della grandine e la sua boria esibita in streaming resterà negli annali, eppure non l’ha ancora capito: qualcuno abbia il buon cuore di dirglielo (magari la Virgulti).
IL MOVIMENTO 5 Stelle è in difficoltà ed è naturale. Tutto è risolvibile, tranne forse una cosa: l’alleanza con un figuro improponibile come Farage. Un’idea poco meno che allucinante. Per ora Grillo parla solo di “sondare il terreno”, ma con uno come Farage ci si dovrebbe fermare assai prima: cosa vuoi sondare con uno come Farage? La deputata 5 Stelle Giulia Sarti, che forse adesso verrà inserita tra i “dissidenti” dalle talebane-tafazzi tipo Lombardi, ha detto: “Appena ho saputo dell’incontro, ho pensato: perché l’Ukip? La sua campagna elettorale l’ho schifata più ancora di quella della Le Pen. Poi se il Movimento facesse un gruppo con l’Ukip, saremmo anche costretti, noi qui in Italia, a votare contro le loro posizioni in Europa, ad esempio sull’immigrazione. M5S non ha nulla in comune con Farage”. Parole condivisibili e inattaccabili. Da scolpire sulla pietra. Chissà se Grillo e Casaleggio, per una volta, ammetteranno in tempo lo sbaglio.

Corriere 30.5.14
Grillo e il paradosso di Berlinguer
di Goffredo Buccini


L’evocazione di Berlinguer in piazza San Giovanni, a chiusura della campagna elettorale dei Cinque Stelle, ha prodotto un effetto immediato ma, probabilmente, ha anche anticipato una questione più lunga nella partita politica scaturita dal voto del 25 maggio.
Il nome dell’amatissimo segretario comunista scandito dai grillini, su invito di Casaleggio, ha comprensibilmente turbato come un’usurpazione chi, del Pd di oggi, si trovò a militare nel Pci degli anni berlingueriani; anche se è verosimile che non pochi, tra coloro che hanno affollato la San Giovanni di Grillo, condivisero allora quella militanza: e questa è, in fondo, un’altra bizzarria del caso italiano. Ma, soprattutto, il ricorso — più o meno improprio — a quel nome ha messo involontariamente allo scoperto ciò che potrebbe essere il vero rompicapo pentastellato dei mesi a venire, una contraddizione che il berlinguerismo portò con sé senza mai approdare a definitiva soluzione e che Nanni Moretti disegnò più tardi con tratto surreale in Palombella Rossa : il mantra dei «diversi ma uguali». L’idea cioè di essere una specie tutt’affatto nuova, in quanto pura e incontaminata, nel panorama della politica e, tuttavia, di restare abbastanza simili agli altri da non spaventare nessuno (men che meno gli elettori), da non richiedere insomma, per la promessa palingenesi, un cambio di sistema così radicale da sconvolgere il tranquillo Belpaese. Il mito della diversità sempre ha accompagnato orgogliosamente nel fondo dell’animo chi militò nel Pci. Trovò tuttavia il suo più alto momento di definizione nella famosa intervista rilasciata da Berlinguer a Eugenio Scalfari sulla «questione morale». Era il 1981 e il segretario comunista tratteggiava con preveggenza la prossima degenerazione partitica del sistema politico. Ovvio che i grillini , e specie i non pochi che vengono da quella tradizione, ne sentano il richiamo.
Ciò che però non sembrano ricordare è che Berlinguer, pur avendo sempre teorizzato e praticato rigore e sobrietà, si rifugiò nella diversità quando tutto o quasi era perduto. La pur sacrosanta proposizione della questione morale non fu il grido di battaglia del berlinguerismo ma il suo rantolo di agonia. Moro era morto, il compromesso storico sepolto, l’asse tra la Dc andreottiana e il Psi craxiano aveva tagliato fuori il Pci, cinismo ed edonismo s’apprestavano a diventare egemoni. Curiosamente, i grillini non colgono in Berlinguer il pragmatico uomo di Stato che nel 1973, all’indomani del golpe cileno, decide, lui sì, di trattare, e di dare a quella trattativa con un altro grande pezzo d’Italia la dignità culturale e politica dell’incontro con le masse cattoliche. Colgono piuttosto il Berlinguer battuto ai cancelli della Fiat, il sogno berlingueriano al tramonto, sepolto dalla follia terrorista e dalle tante forze che si mossero allora. Se sia un segno del destino o una lucida scelta politica l’aggrapparsi all’icona finale di una nobile sconfitta piuttosto che alla prima razionale visione di un grande leader, si capirà. Berlinguer conosceva bene l’uso della trattativa e dell’ampliamento del consenso. Se c’è qualcosa di blasfemo nell’evocazione del suo nome è che a farla sia chi pensa, o dice di pensare, che le alleanze non sono necessarie, che si può votare persino con il Consultellum (il sistema tutto proporzionale scaturito dalla sentenza della Corte costituzionale) e vincere con il 50,1 per cento. Un miraggio che pare discendere da un altro antico vizio della sinistra, stavolta radicale: la paura di governare. Diversi ma uguali: i discepoli di Grillo dovranno decidere. L’onestà dovrebbe essere precondizione; da sola non basta come programma politico neppure in un Paese di scandali quale il nostro. Intanto molte anime del Movimento Cinque Stelle producono spinte diverse cui forse non per sempre il lavacro del web riuscirà a dare lo stesso colore. Quelli che poche sere fa hanno invocato Berlinguer in piazza si trovano oggi in Europa respinti dal gruppo dei Verdi e nel bel mezzo di una trattativa (doveva restare segreta) con lo xenofobo inglese Farage. L’ultima vulgata è che le elezioni sono state vinte e i giornalisti felloni hanno invece raccontato una sconfitta. Siamo come nella dittatura di Videla, dice senza pensarci troppo il giovane Di Battista. Uno così, per un simile sproposito, a Botteghe Oscure sarebbe stato fermato sul portone, dalla vigilanza.

Repubblica 30.5.14
Perché va studiata la destra europea
di Nadia Urbinati


L’IDEOLOGIA nazionalista ha convinto molti a votare per partiti anti-europeisti. È stata la vincitrice, effettiva o simbolica, di queste elezioni. In Italia, il M5S, che non aveva pilotato le critiche alla Ue verso il nazionalismo, dopo l’esito deludente ha deciso di sterzare a destra.
TRADENDO molti elettori di sinistra che si erano affidati a (e fidati di) Grillo. La vittoria delle destre anti-europeiste anche in paesi importanti come la Francia e l’Inghilterra non è senza ragioni. È stata progressivamente alimentata nel corso di questi anni di crisi dalla caparbia politica dell’austerità che mentre non ha risollevato l’economia ha arrecato grande sofferenza a molti cittadini europei, favorendo la crescita non dei posti di lavoro ma della diseguaglianza, tradendo i principi dell’equità e della giustizia sociale. La campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo ha fatto da miccia e i partiti nazionalisti hanno innescato il detonatore retorico, attingendo al repertorio più trito della destra estrema, a partire dall’ideologia razzista contro gli immigrati fino all’identificazione dell’oligarchia finanziaria con il complotto ebraico contro l’Europa cristiana. Vecchia retorica delle destre populiste in un nuovo contesto, quello sovranazionale. Il partito del “No Europe” ha un peso che non può essere ignorato e rappresenta un pericolo che non deve essere sottova- lutato. Demonizzarlo, però, non serve. Ciò di cui c’è invece bisogno è una coraggiosa ricognizione critica dell’ideologia delle destre e delle responsabilità che pesano su un’Unione Europea che ha delegato a poteri non politici la propria politica comunitaria.
Le destre nazionaliste non dismettono il linguaggio dei diritti, ma lo reinterpretano in modi che sono, purtroppo, accattivanti soprattutto per chi più subisce gli effetti della crisi: i diritti degli eguali, dei connazionali, contro gli altri. Dove gli altri sono, di volta in volta, i cittadini degli altri paesi europei o gli immigrati extra-comunitari, ma anche le minoranze interne ai rispettivi paesi, come i musulmani o gli ebrei. Diritti come possesso privilegiato degli uguali: è questa filosofia identitaria che mette a rischio il progetto europeo, nato per consentire alla politica di oltrepassare gli steccati degli statinazione e diventare progetto continentale di giustizia nel rispetto delle differenze. Sul piano della rappresentazione di sé ai suoi cittadini e al mondo, l’Europa si è proposta come un faro per i “diritti umani inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza e dello Stato di diritto”, come recita il Preambolo del Trattato di Lisbona. Questa è l’Europa contro la quale le destre si mobilitano.
Oggi la frontiera della politica è dunque rappresentata dall’Europa stessa. Europeismo e anti-europeismo sono i due grandi schieramenti usciti dalle elezioni del 25 maggio, una dicotomia tra un progetto liberal- democratico da un lato e un progetto nazional-populista dall’altro, con due modi di intendere la giustizia sociale: per mezzo dei diritti ovvero con attenzione all’universalità di chi contribuisce al bene generale in un caso, come privilegio che spetta solo a chi fa parte della stessa famiglia nazionale in un altro. Politica dei diritti e politica identitaria sono la rappresentazione di due modelli di Europa che si scontrano oggi, dentro i confini degli stati-membri e a livello comunitario. L’Europa che esce dalle urne assomiglia a un campo di battaglia tra due visioni di cittadinanza e di giustizia a dimostrazione di quanto arduo sia tenere insieme sul nostro continente democrazia e declino del benessere. Soprattutto quando e se, come nell’Europa di oggi, il comando della decisione a livello dell’Unione è affidato per metà a una burocrazia invisibile e per l’altra metà alla pratica dei trattati intergovernativi tra governi nazionali. La politica comunitaria è la vera sconfitta. Su queste basi si sono costruiti i successi dei partiti anti-europeisti.
Certo, la burocrazia ha avuto una funzione stabilizzatrice nel corso degli anni di costruzione dell’Unione, contribuendo a migliorare la vita di persone e comunità regionali, introducendo inoltre criteri di monitoraggio e di controllo che si sono rivelati capaci di estendere la pratica dei diritti civili. Ma questa ossatura di regole da sola non basta; anzi è diventata parte del problema perché non ha argomenti per rispondere alla giusta critica di deficit democratico. Spetta agli europeisti la responsabilità di non lasciare che siano gli anti-europeisti a prendere in mano la bandiera della legittimità democratica del governo dell’Unione. Non è di meno Europa che c’è bisogno, ma di un’Europa politica più coraggiosa, più convinta della necessità di mantenere fede alle promesse sottoscritte a partire dal Trattato di Roma del 1957.

l’Unità 30.5.14
Divorzio, se c’è l’accordo si chiede dopo 6 mesi
Via libera della Camera dopo quattro legislature. Per la separazione al massimo passerà un anno anziché tre. «È una conquista di civiltà»


Dopo quattro legislature di tentativi la Camera ieri ha dato il via libera al disegno di legge sul divorzio breve. I «sì» sono stati 381, i «no» 30, gli astenuti 14. Ora sarà all’esame del Senato, ma i tempi di approvazione si profilano molto stretti, a costo, promettono i senatori del Pd, «di fare gli straordinari». Il provvedimento di 4 articoli prevede, tra l'altro, che si possa arrivare allo scioglimento del matrimonio dopo una separazione di soli 12 mesi, oggi è fissata a tre anni. Inoltre, «nelle separazioni consensuali dei coniugi», il termine di 12 mesi scende «a 6 mesi, dalla data di deposito del ricorso ovvero dalla data della notificazione del ricorso, qualora esso sia presentato da uno solo dei coniugi ». Se la separazione è giudiziale, il termine decorre dalla notifica del ricorso. La comunione dei beni si scioglie quando il giudice autorizza i coniugi a vivere separati o al momento di sottoscrivere la separazione consensuale.
La proposta di legge ha l'obiettivo di anticipare il momento di possibile presentazione della domanda di divorzio. Favorevoli tutti i Gruppi tranne Per l'Italia mentre la Lega Nord ha lasciato libertà di coscienza ai propri deputati. Luca Squeri (FI), Eugenia Roccella, Raffaele Calabrò e Alessandro Pagano del Ncd hanno dichiarato il loro voto in dissenso dal gruppo contro il provvedimento. Il testo unificato elaborato dalla commissione Giustizia della Camera modifica la legge sul divorzio del '70 (n. 898) che ora prevede che lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, su richiesta di uno dei coniugi, dopo una sentenza passata in giudicato di separazione giudiziale ovvero se sia stata omologata la separazione consensuale.
Anche se le voci fuori dal coro non mancano: soprattutto quelle di Per l'Italia e di diversi deputati di Forza Italia, con in prima fila Antonio Palmieri, secondo cui il testo «dà una risposta sbagliata. Perchè - è il suo ragionamento - il divorzio non va inteso come un diritto ma come una 'extrema ratiò, l'esito finale di un cammino volto a recuperare la rottura della coppia». Tanto Fi quanto la Lega, i gruppi in cui si sono concentrati quasi tutti i no, hanno comunque lasciato libertà di coscienza ai propri deputati. «Orgoglioso» del suo no è il gruppo di Pi, mentre si astiene, in dissenso dal gruppo del Pd in cui milita, Beppe Fioroni, secondo cui «l’istituto della famiglia ha necessità di essere sostenuto e rafforzato». Il viceministro della Giustizia Enrico Costa auspica ora una riduzione dei tempi di giacenza delle cause di separazione, mentre il sottosegretario Ivan Scalfarotto parla di una «conquista di civiltà che l'Italia attende ormai da troppo tempo».
Molto soddisfatta Alessandra Moretti, uno dei relatori, «è una norma molto equilibrata» e «dobbiamo fare in modo che il Senato adotti lo stesso metodo di ascolto e dialogo e che non ne snaturi il contenuto». A cui rispondono i senatori del Pd Laura Cantini, Nadia Ginetti ed Andrea Marcucci: «Siamo ad un passo da una legge di civiltà, sul divorzio breve il Senato farà gli straordinari per assicurare una rapida approvazione» . «È indicativo che il testo sia passato alla Camera con un'ampia maggioranza - sottolineano i parlamentari - composta anche da Forza Italia e Movimento 5 stelle. Il ddl semplifica la vita a milioni di coppie, riducendo notevolmente tempi e costi e ci avvicina alla civiltà giuridica dell'Europa».
«Ormai il divorzio breve è virtualmente una realtà: manca solo il sigillo del Senato ma i giochi sono fatti»: è il commento di Gian Ettore Gassani, presidente dell'Associazione degli Avvocati Matrimonialisti Italiani. «L'Italia volta pagina e il dato che fa riflettere - spiega Gassani - è l'assoluta trasversalità del voto della Camera che ha approvato la proposta di legge. L'Italia è profondamente cambiata così come i costumi e il comune sentire degli italiani. In 40 anni nel nostro Paese vi sono stati forti cambiamenti sociali e giuridici, come da nessun'altra parte del mondo ».
«Tuttavia - aggiunge - c'è ancora molto da fare per dare una dignità al nostro diritto di famiglia. Occorrerà rendere facoltativa (e non obbligatoria) la separazione e urge una regolamentazione delle coppie di fatto etero ed omosessuali, perché l'Italia resta l'unico Paese tra i grandi d'Europa a mantenere un diritto di famiglia assolutamente conservatore, molte volte in dispregio dei diritti fondamentali dell' uomo».

Repubblica 30.5.14
Sei mesi per dirsi addio
di Michela Marzano



SONO quarant’anni che in Italia è possibile sciogliere giuridicamente il vincolo matrimoniale. È solo ora, però, che la Camera dei deputati è riuscita ad approvare una legge sul divorzio breve. Dopo anni di polemiche e resistenze, anche il Parlamento italiano si è pronunciato quasi all’unanimità in favore di procedure più flessibili e meno complicate.
SENZA più costringere coloro che hanno di fatto già deciso di divorziare ad aspettare anni e anni prima di poterlo fare. Perché la legge dovrebbe costringerli a trascinarsi, e magari anche a rovinare i ricordi più belli della vita in comune?
Nonostante tutto, non si divorzia mai a cuor leggero. Anche quando lo si fa di comune accordo, si tratta sempre di un momento di rottura e di lacerazione. Talvolta la storia d’amore è finita già da tempo, e il divorzio è solo un atto formale. Talvolta, anche dopo il divorzio, alcune persone non riescono a elaborare il lutto della perdita dell’altro, e continuano a non separarsene psicologicamente. Si tratta di lasciarsi alle spalle un progetto di vita comune, talvolta tanta speranza e molte energie. E nessuno dovrebbe permettersi di giudicare quello che accade, meno che mai evocando una crisi di valori che, con l’amore, non c’entra proprio nulla.
Solo nelle fiabe, che come si sa non hanno niente a che vedere con la vita, “lui e lei” vivono per sempre felici e contenti. Solo nelle fiabe, l’amore è perfetto, perché “lui” o “lei” sono capaci di darci tutto quello di cui abbiamo bisogno, non ci deludono mai, corrispondono sempre alle nostre aspettative. Nella vita, l’amore è sempre fragile e pieno di fratture. E poi accade anche di potersi sbagliare. Di confondere l’amore con la passione. Di cambiare. Perché si dovrebbe restare accanto ad un uomo o a una donna con cui non si condivide più nulla? Perché far finta che nulla sia cambiato mentre tutto è invece diverso? Perché aspettare per anni quando ormai la vita è altrove, e si vorrebbe avere la possibilità di ricominciare tutto da capo? Separazione e divorzio fanno parte della vita. È così. Perché accade che le cose finiscano. E non sono certo le regole che impongono anni di separazione prima di chiedere un divorzio che possono funzionare da deterrente. Al contrario. Aspettare anni prima di poter presentare una richiesta di divorzio rischia di rendere i rapporti tra i due coniugi ancora più tesi, e di inasprirne talmente le polemiche che, prima o poi, uno dei due rischia di crollare. Anche per i figli, in fondo, è meglio così. Nonostante quello che si sente dire ancora oggi. Come se per i bambini o gli adolescenti fosse meglio assistere alle scenate tra i genitori, oppure all’indifferenza reciproca, piuttosto che trovare un nuovo equilibrio con dei genitori che, pur divorziati, non smettono per questo di essere madri o padri.
Non sempre il tempo ricuce i rapporti. Anzi. Talvolta li inasprisce. Meglio allora utilizzarlo, dopo un divorzio breve, per “perdonarsi” e “perdonare” per quella storia ormai finita, che niente e nessuno può far continuare. Meno che mai leggi obsolete

Il Sole 30.5.14
Segnale che l'Italia è cambiata
di Gian Ettore Gassani

Presidente Associazione avvocati matrimonialisti Italiani (Ami)

Il diritto di famiglia italiano sta per cambiare ancora una volta le sue regole. Dopo la grande riforma della filiazione ecco che alle porte si affaccia il divorzio breve. La Camera ha approvato quasi all'unanimità un disegno di legge che mira a ridurre in maniera considerevole i tempi di attesa della fase della separazione, necessari per poi proporre domanda di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio (divorzio). Per la verità il termine «divorzio breve» è fuorviante. La riforma infatti riguarda i tempi della separazione, pertanto il termine corretto della riforma sarebbe stato «separazione breve». Al di là di questa puntualizzazione, per chiedere il divorzio bisognerà aspettare 12 mesi in caso di separazione giudiziale e solo 6 mesi nell'ipotesi di consensuale, indipendentemente dalla presenza di figli. Se invece la separazione è giudiziale, inoltre il termine decorre già dalla data della notifica del ricorso.
Questa riforma dimostra che l'Italia è profondamente cambiata. Il diritto di famiglia è il termometro del comune sentire di un Paese. Si è passati dai cinque anni di separazione del 1974 al minimo dei 6 mesi del 2014. Da più parti si invoca che un domani la fase della separazione possa essere abrogata o al massimo resa facoltativa come nel resto d'Europa. Adesso ci si augura che si possa finalmente organizzare il Tribunale per la Famiglia, perché la specializzazione dei magistrati e quella degli avvocati in una materia tanto delicata è assolutamente improcrastinabile. Poi occorrerà contemplare norme a tutela delle coppie di fatto.

l’Unità 30.5.14
Puntiamo sull’economia della conoscenza
di Pietro Greco


L’ECONOMIA BASATA DIRETTAMENTE SULLA SCIENZA FISICA HA PRODOTTO IN ITALIA 118 MILIARDI DI EURO di fatturato nell’anno 2011, pari al 7,4% del Prodotto interno lordo (Pil) del nostro Paese. Dando impiego a 1,51 milioni di persone, pari al 6,1% del totale dei lavoratori italiani. Ciascuno di questi lavoratori, dunque, ha prodotto valore aggiunto per 78.100 euro, con una produttività del 22% superiore a quella media italiana.
I 118 miliardi di euro sono stati realizzati per il 49% nell’industria manifatturiera, per il 22% nel settore trasporti, per il 16% nei servizi di pubblica utilità (energia, acqua, rifiuti) e per l’8% negli altri servizi, ricerca scientifica compresa. A tutto questo, sostengono gli analisti mobilitati dalla Sif, vanno aggiunti circa 2 milioni di posti di lavori creati indirettamente dai settori economici fondati sulla fisica per una quota di Pil difficile da definire.
È questa, ridotta in pillole, l’analisi che una società privata indipendente, la Deloitte, ha realizzato per conto della Società Italiana di Fisica (Sif), in analogia a due indagini sull’impatto della fisica sull’economia dell’Unione Europea e del Regno Unito realizzate dalla medesima società di analisi economia, rispettivamente, nel 2013 e nel 2012. Lo studio è stato consegnato sotto forma di rapporto dal titolo The impact of physics on the Italian economy: l’impatto della fisica sull’economia italiana.
Certo, l’idea di fondo – vediamo cosa succederebbe se all’economia italiana venissero sottratte tutte le conoscenze fisiche – si presta a qualche critica. Sia perché non è facile definire cosa è fisica e cosa non lo è. Sia perché nella definizione rientra anche la fisica più classica, cosicché non tutti i settori analizzati – oltre cento, ancorché ponderati (in ciascuno si è pesata l’incidenza della fisica) – sono realmente innovativi. Tuttavia l’analisi ci offre tre spunti di riflessione.
Il primo è che la conoscenza scientifica non ha solo un (inestimabile) valore culturale. Perché ci dice come va il mondo naturale. Ma ha anche un valore economico. Tangibile. Nel 2011 la fisica ha creato ricchezza per quasi 120 miliardi di euro. Mentre gli investimenti italiani negli Enti pubblici di ricerca che hanno finanziato la ricerca realizzata dalla Deloitte per conto della Società italiana di fisica (Cnr, Inaf, Infn, Inrim e Centro Fermi) non raggiungo il miliardo di euro. Sarebbe errato dire che questi investimenti sono ad altissima rendita (per 1 euro investito se ne ricavano 120), perché la fisica su cui si basano i settori economici analizzati è il frutto di un lavoro di ricerca che dura da secoli. Tuttavia esso ci fornisce un’indicazione di cosa si intende (e di quanto rende) l’economia fondata sulla conoscenza. Il primo messaggio è: investire in ricerca fisica conviene. Anche da un punto di vista economico. Perché se ne hanno grandi ricadute a breve, medio e lungo termine.
Sarebbe interessante realizzare indagini analoghe per i settori economici che si fondano sulla matematica, la chimica, le scienze biologiche, le scienze umane.
Tuttavia l’indagine pubblicata dalla Sif non è un inno alle sorti magnifiche e progressive dei settori economici italiani che si fondano sulle conoscenze fisiche. Intanto perché ci dice che nel 2011 questo settore è arretrato di circa il7%rispetto all’anno precedente. Molto più degli altri settori economici. Il che significa che l’economia italiana tende a perde colpi soprattutto nei settori considerati strategici, quelli fondati appunto sulla conoscenza.
Ma l’analisi comparata con il resto d’Europa è impietosa. Nell’Unione, infatti, i settori economici che si basano sulla conoscenza fisica producono una ricchezza superiore al 15% del Pil complessivo: il doppio, in media, dell’Italia. Con punte che superano il 25% in Germania e in Scandinavia. E questi settori impiegano oltre il 13% della forza lavoro europea, contro il 6% dell’Italia. In soldoni: le industrie fondate sulla fisica nell’Europa centro- settentrionale hanno prodotto, nell’anno 2010, ricchezza per oltre 3.000 miliardi di euro. Nell’Europa meridionale solo un sesto: 500 miliardi di euro.
Naturalmente un settore economico vale l’altro. E qualcuno potrebbe dire: cosa importa? Noi siamo forti in altri settori, dove magari non contano le conoscenze fisiche, ma il senso estetico. L’obiezione sarebbe valida se questa indagine – se anche questa indagine – non avesse dimostrato che la produttività per addetto nell’industria fondata sulla fisica è quasi un quarto più alta della media. E in tutta Europa i salari pagati in chi lavora nelle imprese ad alto tasso di conoscenza aggiunto (sia essa conoscenza fisica o di altra origine scientifica) sono in media del 30% più alti che negli altri settori. In altri termini, l’indicazione è forte. Ed è triplice. Se vogliamo bloccare il dumping sociale (salari sempre minori, diritti sempre più sfumati), se vogliamo invertire il trend al ribasso della domanda interna (generata da salari sempre più bassi), se vogliamo combattere la disoccupazione – soprattutto giovanile, soprattutto qualificata – anche in Italia dobbiamo puntare sull’economia della conoscenza. Perché, anche in Italia, l’economia della conoscenza paga.

l’Unità 30.5.14
L’intervista
Evoluti e scontenti
Homo Sapiens, il carissimo prezzo del successo
Nel suo libro «Breve storia dell’umanità», Yuval Noah Harari racconta come siamo diventati nel corso di 70mila anni e cosa abbiamo «ucciso» nel mondo e in noi stessi


CAPIRE COSA HA FATTO L’UMANITÀ NEGLI ULTIMI SETTANTA MILA ANNI. Un progetto ambizioso quello di Yuval Noah Harari, di professione esperto di storia medievale. Tutto è nato da un corso tenuto all’università ebraica di Gerusalemme. «A quegli studenti provenienti da tutto il mondo, dovevo presentare la storia non dal punto di vista di un Paese o di una religione, ma secondo una visione più olistica». Anni di ricerca ed ecco Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità. «Un viaggio affascinante», racconta Harari che oggi ha solo 38 anni.
Il suo libro racconta il successo di Homo sapiens. Che cosa gli ha permesso di diventare la specie dominante del Pianeta?
«Il segreto del successo di Homo sapiens è stato quello di saper collaborare in modo flessibile con tantissime persone. Esistono altri animali che sanno cooperare. Le api e le formiche ad esempio coinvolgono migliaia di individui nelle loro azioni ma in modo rigido, non sanno modificare il loro ambiente. Altri animali, come scimpanzé e delfini, sono più flessibili, ma cooperano solo con un numero limitato di individui che conoscono direttamente. Solo l’essere umano ha la capacità di collaborare in modo flessibile con milioni di individui, molti dei quali perfetti estranei. E sappiamo trasformare la nostra società da un anno all’altro. Lo abbiamo fatto: pensiamo alla rivoluzione francese».
Che prezzo ha questo successo?
«Il prezzo non lo abbiamo pagato solo noi: già prima della rivoluzione agricola, Homo sapiens aveva provocato l’estinzione di metà dei mammiferi viventi. Con il suo arrivo, tutte le altre specie umane sono scomparse e gli animali domestici sono stati sottoposti a un durissimo regime di sfruttamento. Ma i progressi tecnologici e il crescente potere non si sono tradotti in una vita migliore per l’essere umano. La vita di un operaio in Cina oggi è per certi versi peggiore rispetto a quella di un cacciatore-raccoglitore di 70.000 anni fa. Si sveglia, pulisce la casa, trascorre una o due ore a raggiungere il luogo di lavoro in mezzo al traffico e all’inquinamento, lavora 10-12 ore in fabbrica ripetendo sempre gli stessi gesti, altre due ore per tornare a casa e prima di andare a dormire deve cucinare, lavare i piatti... Settantamila anni fa la sua ava andava nella foresta a cercare conigli e funghi e aveva una vita di comunità migliore. Non sto dicendo che quella di allora era una vita paradisiaca, ma in termini di bisogni fisici e mentali era più adatta ai corpi e alle menti degli esseri umani rispetto alla vita di un operaio di oggi».
Lei individua tre rivoluzioni che hanno modellato la nostra storia: la rivoluzione cognitiva, quella agricola e quella scientifica. Ma c’è chi trova che negli ultimi anni sia in atto una nuova rivoluzione: quella della conoscenza, basata sull’informazione. Cosa ne pensa?
«Il mondo è invaso da sistemi per elaborare l’informazione e algoritmi. Sempre più le nostre decisioni vengono assunte grazie ad essi: le Borse ad esempio già agiscono sulla base di algoritmi e non di interventi umani. Secondo molti, il principale interrogativo economico dei nostri tempi è: a cosa servono le persone in un mondo in cui le decisioni possono essere prese molto meglio da un algoritmo? Oggi Google fa le automobili senza pilota, domani anche medici e giornalisti potranno essere sostituiti.
Una parte del suo libro è dedicata alla felicità: ci siamo evoluti, abbiamo costruito imperi e superato i nostri limiti fisici. Ma siamo più felici dei nostri antenati? Gli storici non si sono posti quasi mai questa domanda, perché?
«Per due motivi: in primo luogo perché l’interesse è sempre stato per la storia dei Paesi e delle nazioni e non per il destino dei singoli. In secondo luogo perché la felicità non era considerata un argomento serio, accademico. Negli ultimi venti anni però la psicologia, la biologia e anche l’economia hanno cominciato a interessarsi di questo tema. E si è cominciato a capire che la vera misura del successo non è data dal tasso di crescita del Pil, ma dal tasso di felicità. Oggi anche la storia può cominciare a porsi questi interrogativi. In questo libro mi occupo dei grandi eventi della storia, ma mi chiedo sempre: che impatto possono aver avuto sulla felicità degli individui? Abbiamo molte informazioni sull’Impero romano, ma cosa significava per una persona vivere a Roma in quei tempi? Sotto Augusto era più felice o meno di prima? Se non sappiamo rispondere, chi se ne importa di chi era al comando».
Ci sono però dei tentativi di prendere in esame la felicità degli individui: il piccolo Bhutan, ad esempio, adotta il Pif, prodotto interno felicità, per misurare il benessere della nazione. Cosa ne pensa?
«Da una parte è uno sviluppo molto positivo perché la felicità è una misura più efficiente rispetto alla crescita economica. Ma c’è un problema: definire la felicità è difficile. Alcuni governi potrebbero nascondere i loro fallimenti dietro questo paravento: “Non siamo riusciti a far crescere l’economia, la nostra sanità fa schifo, ma la gente è felice!”. La Corea del Nord ha diffuso i risultati di un’indagine svolta dal governo secondo cui gli abitanti del paese sono al secondo posto, dopo i cinesi, nella classifica dei più felici al mondo. Un altro rischio è che, poiché capitalismo e consumismo spingono le persone a volere sempre di più, la ricerca della felicità alimenti questo fenomeno. Questo è un grosso rischio perché la gente non sa fermarsi: volere sempre di più è una droga».
Nell’affacciarsi sul futuro, lei arriva a una conclusione forte: ci stiamo avvicinando agli ultimi giorni di Homo sapiens, perché?
«Di mutamenti ce ne sono stati tanti nella storia, ma due cose sono rimaste invariate: il corpo e la mente dell’essere umano. Nel XXI secolo stiamo acquisendo le capacità tecnologiche di trasformare corpo e mente grazie all’ingegneria genetica e alla possibilità di collegarci con computer. Questo trasformerà le regole del gioco. Non sto preannunciando un’apocalisse, ma persone come noi spariranno e saranno sostituite da esseri con capacità fisiche e cognitive diverse. Non possiamo fermare il cambiamento: è troppo veloce ed è alla base della nostra economia. Ma possiamo cercare di influenzare la direzione nella quale si muove questo processo. La questione più importante è stabilire ciò che vogliamo diventare».

l’Unità 30.5.14
I grandi temi della restaurazione filosofica

C’È UN’ARIA DI RESTAURAZIONE CHE SPIRA IN FILOSOFIA, SOPRATTUTTO IN ITALIA. IDEE COME REALTÀ E VERITÀ, CHE PER TUTTO IL NOVECENTO sono state sottoposte a critica serrata, tornano oggi come nuovi idoli o feticci del pensiero accademico. Sotto l’apparenza di una confutazione del postmodernismo, la filosofia dell'università diffonde una sorta di catechismo o di manuale d’istruzione per gli scettici. Ed ecco riapparire le maschere di sempre del teatro filosofico: oltre alla Realtà e alla Verità, l’Oggettività, il Realismo, la Morale, l’Educazione... Etichette a cui non corrisponde alcun contenuto originale di pensiero, ma che vorrebbero soddisfare la domanda di conformismo che sale da una cultura spaventata dalla mancanza di punti fermi.
Il saggio di Alessandro Dal Lago, sociologo della cultura, non vuole essere certamente una critica del Nuovo Realismo, una moda che già mostra la corda. Piuttosto, riprende alcuni grandi temi del pensiero del secondo Novecento, oggi per lo più trascurati o minimizzati, mostrandone fecondità e attualità. Ed ecco in questo libro discussioni serrate del ruolo del linguaggio per il pensiero (in cui alcuni filosofi medievali appaiono più avanzati dei neo-realisti d’oggi ...), dell’idea di verità scientifica e storica, dei mondi possibili, del governo delle menti, del rapporto tra credenze e razionalità, dell’infondatezza ultima del pensiero morale e altre ancora. Ma la critica di ogni pretesa filosofica che si voglia sistematica, oggettiva o scientifica non sfocia certamente nell’indifferenza o nell’irenismo. Infatti, per l’autore, è proprio quando l’impalcatura idealistica e sistematica del pensiero comincia a traballare che le pratiche di resistenza e di trasformazione (come in Foucault e nelle Tesi su Feuerbach di Marx) appaiono nella loro urgenza e necessità.
Di Alessandro Dal Lago è uscito in questi stessi giorni L’artista e il potere. Episodi di una relazione equivoca (pagine 252, euro 18,00, Il Mulino), firmato insieme a Serena Giordano, saggio sull’attrazione irresistibile del potere nei confronti dell’estetica e sulla volontà di potenza dell’arte. Una relazione profondamente ambigua e, sullo sfondo, il mercato che fagocita tutto.

il Fatto 30.5.14
Quanto è pop (e best-seller) un Montaigne in Francia
di Elisabetta Ambrosi


Scena n. 1: spiaggia dell’Adriatico, rumore di bambini selvaggi, radiolina accesa su Juve-Milan, trofeo Berlusconi. Scena n. 2: Côte Azur, poetico rumore di onde, radiolina che trasmette una voce pacata che, in francese arcaico, parla di tristezza, crudeltà, codardia, educazione dei fanciulli, morte e persino cannibalismo. Sta tutta in un’immagine la differenza tra noi e la Francia. Perché se in Italia può succedere persino che il Pd vinca, non potrà di sicuro mai accadere quanto avvenuto oltralpe, nel paese delle biblioteche e dell’educazione alla lettura (e dove gli intellettuali sono portati in palmo di mano). E cioè che un professore della Columbia University, Antoine Compagnon, intrattenga per un’estate intera i radioascoltatori su una delle maggiori radio pubbliche francesi, France Inter, commentando ogni giorno qualche pagina degli Essais di Montaigne. E che la trasmissione – Une été avec Montaigne – diventi non solo popolare, ma si traduca in un omonimo libro che ha scalato le vette della classifiche vendendo oltre centomila copie e che ora esce anche in Italia per Adelphi (che per un decimo delle copie probabilmente farebbe carte false).
SE VI IMMAGINATE una trasmissione pop, tutta frizzi e lazzi, oppure qualcosa di scabroso, magari con la lettura dei passi in cui Montaigne si lamenta del suo pene piccolissimo, rimarrete delusi. Il guaio, si fa per dire, è che le quaranta puntate della trasmissione sono come minuscole lezioni universitarie. A tratti persino un po’ noiose. Come quando, ad esempio, commentando le riflessioni del filosofo francese sul cannibalismo, Compagnon spiega: “Gli indios sono selvaggi non nel senso che sono crudeli, ma perché vicini allo stato di natura”. Oppure quando, chiosando il capitoletto Des monstres et prodiges – dove Montaigne racconta il suo incontro con Marie, un ermafrodito che avrebbe scoperto di avere anche un membro virile dopo un intenso sforzo fisico – l’accademico nota, provocando qualche sbadiglio (ma non sopra le Alpi), che “non c’è migliore esempio di questo per descrivere i complessi rapporti che intercorrono tra mente e corpo”.
Come si spiega allora il successo di una trasmissione, e di un libro, su un filosofo cinquecentesco? “Forse, ipotizzo, perché Compagnon è un intellettuale atipico, estraneo al conformismo culturale di certa sinistra”, commenta lo scrittore Giuseppe Scaraffia, che ha scritto e condotto programmi culturali per la Rai. “Tra l’altro è l’autore di due cose che da noi lo farebbero subito sminuire: un romanzo erotico e un saggio sui grandi reazionari. In breve, da noi Dante continua a leggerlo Benigni, in Francia Montaigne lo legge e lo spiega un intellettuale fuori da schemi e schieramenti”.
“In Francia c’è molta più attenzione e rispetto per i prodotti culturali ed essere minoritari non significa essere privi di valore”, spiega a sua volta Marino Sinibaldi, ideatore e conduttore di Fahrenheit su Radio Tre. “Al contrario qui c’è una fondamentale ambiguità nella nostra divulgazione culturale. Abbiamo paura di fare una cosa alta perché i media italiani sono molto più restii ad accettarla. Così si paga volentieri il prezzo di apparire divulgativi, perché non farlo equivale a consegnarsi all’irrilevanza”.
INSOMMA Un’estate con Montaigne da noi sarebbe davvero un esperimento impensabile? “Noi stiamo provando a fare un esperimento non dissimile, attraverso Wiki Radio”, continua Sinibaldi. “Una puntata giornaliera che all’ora di pranzo, le due, racconta in modo narrativo un evento accaduto proprio nel giorno in cui si va in onda, dal colpo di stato in Cile alla nascita di Amnesty International”.
Più scettico, invece, Scaraffia. “Si potrebbe fare, in teoria, se non si pensasse subito solo agli ascolti, un accorgimento che si usa soltanto per i membri della parrocchietta e non per i poveri classici che, non facendo parte di nessuna lobby, sembrano non avere niente da dare in cambio. In pratica, mi permetto di dubitarne, almeno per il momento. Mentre vedo all’orizzonte qualche stridula imitazione di Compagnon fatta da qualche intellettuale molto impegnato a restare in riga”.

Repubblica 30.5.14
La Wollstonecraft, madre della Shelley, fu scrittrice e femminista militante
L’altra Mary e l’enigma Frankenstein
di Elena Stancanelli


«Il maschio insegue, la femmina concede» scrive Mary Wollstonecraft nell’introduzione al suo Rivendicazione dei diritti della donna, pubblicato per la prima volta nel 1792. Gli uomini, spiega, sono fisicamente più forti delle donne ma non paghi di questa superiorità tentano di spingerci più in giù, «con l’intento di trasformarci in momentanei oggetti del desiderio». Le donne, intossicate da questa adorazione, puro abbaglio dei sensi, cedono e si beano, anziché capitalizzare e trasformare quel trasporto in un sentimento solido e duraturo.
Antidoto, e unica forma possibile di emancipazione femminile, è l’istruzione.
Mary Wollstonecraft era nata il 27 aprile 1759, lo racconta William Godwin, filosofo illuminista radicale e anarchico, che amò e sposò Mary e ne scrisse la biografia. Non giocò mai con le bambole e crebbe come un maschio in una fattoria nella foresta di Epping, vicino Londra, correndo per i campi dietro ai fratelli. Ma attenzione, scrive Mary: accusare una donna di mascolinità è solo un’altra tattica degli uomini. In questo modo vorrebbero farci tornare a quella debolezza nefasta e artificiale, che produce, nella donne, «una propensione alla tirannia, generando astuzia, rivale naturale della forza, e inducendo a esibire quelle spregevoli arie infantili che ne minano la stima, nonostante al contempo eccitino il desiderio...». Sembra di ascoltare una tirata di Elizabeth Bennet, l’eroina di Jane Austen, o meglio ancora di leggere nella mente di Jane Eyre, l’impavida istitutrice.
Mary, per diventare la donna che voleva essere, studiò sul serio, e più che poteva. Non era facile, non veniva da una famiglia molto istruita. A sedici anni conobbe Fanny Blood, una ragazza colta, capace di cantare suonare disegnare e mantenere tutta la famiglia lavorando. Con Fanny, Mary aprì una scuola a Islington, dove mise a insegnare anche le sue sorelle. Quando Fanny, pochi anni dopo, morì di parto a Lisbona, Mary disperata chiuse la scuola, scrisse un romanzo, si occupò di politica, e infine partì per Parigi, innamorata della rivoluzione. Robespierre la deluse, ma nel frattempo conobbe un uomo, Gilbert Imlay. Un faccendiere americano, forse addirittura una spia, che speculava lavorando per i Giacobini, coltivando ambizioni politiche. Faceva la spola tra Parigi e Londra, fin quando in Francia non tornò più.
Mary partì per cercarlo, dopo averlo atteso a lungo insieme alla piccola Fanny, la loro figlia alla quale aveva dato il nome dell’amica adorata. Ovviamente, lo trovò sistemato con un’altra, «una giovane che lavorava come attrice in una compagnia di girovaghi», scrive Godwin. Pianse, tentò il suo suicidio, ma poi tornò da lui. Difficile capire per quali ragioni si legò a un uomo così, a una passione infelice e pericolosa. «Una delle ultime impressioni che una mente può essere in grado di cogliere è quella relativa al valore della persona per cui prova ammirazione», scrive il saggio Godwin. Imlay la spedì in Svezia a cercare una nave con un carico importante e ricco, sparita chissà come. Da lì scrisse all’amato (Lettere scritte durante un breve soggiorno in Svezia, Norvegia e Danimarca , edizioni Rubettino) d’amore, di politica, di paesaggi.
Una corrispondenza che la figlia Mary doveva aver letto, che dovrà esserle servita di ispirazione. Il suo Frankenstein è infatti un romanzo epistolare, la vicenda che conosciamo è inserita dentro le lettere del capitano Walton a sua sorella Margareth. Capitano di una nave, in viaggio verso il Polo Nord, una notte vede passare una creatura mostruosa che corre sui ghiacci, il giorno successivo un uomo su una slitta. L’uomo, che salirà a bordo e racconterà la sua storia, è il dottor Victor Frankenstein di Ginevra, l’incauto Prometeo.
Ma quando la madre è in Svezia, persa dietro vascelli fantasma, Mary non è ancora nata. Anzi, rischia di non nascere per niente perchè Mary Wollstonecraft, tornata dal suo viaggio, trova di nuovo Imlay con un’altra e si butta nel Tamigi.
Anche questa volta viene salvata, e, esaurito il lutto, si innamora finalmente di una persona perbene, William Godwin. Il 10 settembre 1797 nasce Mary e poche ore dopo la madre muore di setticemia. Lui, Godwin, qualche anno più tardi incontrò un’altra donna, fondò una casa editrice per bambini, scrisse la biografia di Mary, sua moglie, e si occupò di dare un’educazione vera a Mary, sua figlia. Che però a sedici anni si innamorò del poeta Percy Shelley, che ruppe un matrimonio e abbandonò due figli per seguirla. Godwin, pur seguace e teorico dell’amore libero - «non ci sposammo », scrive nella biografia di Mary, «non c’è nulla di più distante dalla spontaneità che far dipendere la grandezza di un sentimento da una cerimonia e lasciare che acquisisca valore solo perché riconosciuto pubblicamente » - non la prese bene. Ma i due fuggirono comunque insieme.
E una notte, per gioco, a Villa Diodati sul lago di Ginevra, Mary inventò e poi scrisse uno dei romanzi più belli della modernità, Frankenstein. Storia di un mostro, nato dalla presunzione di un uomo. Messo al mondo e abbandonato a se stesso, cresciuto senza che nessuno si prendesse cura di lui. Buttato nella vita senza istruzioni, costretto a vagare per la terra cercando, invano, qualcuno che potesse affezionarsi alla sua deformità. Come una figlia, la cui madre sia morta partorendola?
Mary Wollstonecraft è oggi riconosciuta come una delle prime e più importanti teoriche del pensiero femminista. Ma subì una lunga censura, per la sua vita considerata libertina e la sua impudicizia, anche sentimentale, nell’esporla. Fu George Eliot, a metà dell’ottocento, a riscoprirla, e dopo di lei Virginia Woolf che le dedicò uno dei saggi in Four Figures. Proprio quella sua vita libera, le lettere appassionate, unite al suo pensiero razionale, scrive Woolf, fanno di lei una figura speciale, rendono la sua esistenza, e il suo pensiero immortali. Ragione e sentimento, avrebbe infatti riconosciuto il Novecento, è molto più potente di ragione contro sentimento.

Repubblica 30.5.14
Il diritto di essere religiosi senza un Dio
La legge, l’indipendenza etica e la libertà individuale di esprimere la propria fede L’ultima lezione del giurista americano
di Ronald Dworkin



Adesso abbiamo scoperto, però, che è molto difficile definire la portata di quel presunto diritto morale. La sua protezione non può ragionevolmente essere limitata alle religioni devote a un dio. Ma non possiamo neppure definirla sensatamente come se comprendesse tutte le convinzioni che ricadono sotto un resoconto più generoso della religione. Rileviamo inoltre un conflitto tra due idee che sembrano entrambe appartenere a tale presunto diritto morale specifico: che il governo non possa penalizzare l’esercizio della religione, ma anche che non debba discriminare favorevolmente alcuna religione. È tempo di prendere in considerazione un approccio più radicale. Per descrivere che cosa hoin mente, però, devo fornire un po’ di contesto.
La libertà politica ha due componenti distinte. Uno stato giusto deve riconoscere sia un diritto molto generale a quella che potremmo chiamare «indipendenza etica», sia diritti speciali a libertà particolari. La prima di queste componenti, l’indipendenza etica, significa che il governo non deve mai restringere la libertà perché assume che un certo modo in cui le persone vivono la loro vita - una certa idea su quali vite siano più degne di essere vissute in quanto tali - sia intrinsecamente migliore di un altro, non perché le sue conseguenze siano migliori, ma perché le persone che vivono in quel modo sono persone migliori. In uno stato che dà valore alla libertà, si deve lasciare che i singoli cittadini, uno per uno, decidano tali questioni per se stessi; non può dipendere dal governo che venga imposta una visione a tutti quanti. Perciò, per esempio, il governo non può proibire l’uso delle droghe solo perché ritiene che l’uso delle droghe sia qualcosa di cui vergognarsi; non può proibire la deforestazione solo perché pensa che le persone che non danno valore alle grandi foreste siano disprezzabili; non può imporre una forte tassazione progressiva solo perché pensa che il materialismo sia un male. Ma naturalmente l’indipendenza etica non impedisce al governo di interferire con gli stili di vita scelti dalle persone per altre ragioni: per proteggere altre persone da danni, ad esempio, o per proteggere le meraviglie naturali, o per migliorare il benessere generale. Perciò il governo può proibire le droghe per proteggere la comunità dai costi sociali della dipendenza; può imporre tasse per finanziare strade e aiutare i poveri, e può proteggere le foreste perché esse sono effettivamente meravigliose; può proteggere le foreste per questa ragione, anche se nessuno dei suoi cittadini pensa che una vita passata a vagare per le foreste abbia alcun valore.
L’indipendenza etica, in altre parole, impedisce al governo di restringere la libertà solo per certe ragioni e non per altre. I diritti speciali, d’altra parte, pongono vincoli molto più potenti e generali al governo. La libertà di parola è un diritto speciale: il governo non può violare tale libertà speciale a meno che non abbia quella che i giuristi americani usano chiamare giustificazione «impellente». Chi parla non può essere censurato neanche quando ciò che dice può benissimo avere delle conseguenze negative per altre persone, ad esempio perché propugna il disboscamento delle foreste, o perché sarebbe costoso proteggerlo da una folla inferocita. (...) A questo punto posso avanzare un’ipotesi. I problemi che abbiamo incontrato nel definire la libertà di religione derivano dal provare a conservare tale diritto come un diritto speciale disconnettendo al tempo stesso la religione da un dio. Dovremmo prendere in considerazione, invece, di abbandonare l’idea di un diritto speciale alla libertà religiosa, assieme alle sue tutele strettamente vincolanti, e di conseguenza anche il suo bisogno impellente di limitazioni ferree e di una definizione accurata. Dovremmo invece prendere in considerazione la possibilità di applicare, all’oggetto tradizionale di tale presunto diritto, solo il diritto più generale all’indipendenza etica. La differenza fra questi due approcci è importante. Un diritto speciale concentra l’attenzione sull’oggetto di cui si occupa: il diritto speciale alla religione dichiara che il governo non deve limitare la pratica religiosa in nessun modo, a meno che non si verifichi un’emergenza straordinaria. Il diritto generale all’indipendenza etica, al contrario, si concentra sulla relazione fra il governo e i cittadini; limita le ragioni che il governo può offrire per qualsiasi vincolo alla libertà di un cittadino.
Dovremmo chiederci: le convinzioni che vogliamo tutelare sono sufficientemente tutelate dal diritto generale all’indipendenza etica, per cui non abbiamo bisogno di un problematico diritto speciale? Se decidiamo che lo sono, allora avremo forti ragioni a favore di una reinterpretazione radicale di tutte le costituzioni, le convenzioni e i patti sui diritti umani. Dovremo allora intendere il diritto morale alla libertà religiosa che essi proclamano come un diritto all’indipendenza etica. Sapremo perché, storicamente, tale diritto è stato espresso come se fosse limitato alla religione, ma sosterremo che adesso possiamo fornire la migliore spiegazione di tale diritto, e ne forniamo la migliore giustificazione possibile, se concepiamo la tolleranza religiosa come un esempio di quel diritto più generale.
Perciò ripeto la nostra domanda: il diritto generale all’indipendenza etica ci dà la tutela di cui, dopo averci riflettuto, crediamo di avere bisogno? Quel diritto generale protegge il nucleo storico della libertà religiosa; condanna qualsiasi discriminazione esplicita o istituzione ufficiale di una religione che assuma - come assume invariabilmente qualsiasi discriminazione del genere - che un certo tipo di fede religiosa sia superiore alle altre per verità o virtù, o che una maggioranza politica abbia il diritto di favorire una fede rispetto alle altre, o che l’ateismo è il padre dell’immoralità. L’indipendenza etica tutela le convinzioni religiose anche in un modo più sottile: mettendo al bando qualsiasi vincolo che sia neutrale all’apparenza, ma la cui concezione assuma surrettiziamente una qualche subordinazione diretta o indiretta. Questa tutela è sufficiente? Abbiamo bisogno di un diritto speciale che richieda non solo una giustificazione neutrale, ma anche impellente, per qualsiasi vincolo?

Repubblica 30.5.14
Sul lettino del Dr. Costanzo
“Il segreto di ‘In treatment’ è una scrittura perfetta”
Il regista presenta la seconda parte della serie, su Sky Atlantic all’inizio del 2015
intervista di Silvia Fumarola



ROMA. SAVERIO Costanzo, 39 anni, regista schivo, autoironico ma con un fondo di malinconia, preferisce il dubbio alle affermazioni definitive: «Non ho certezze, chi sono per dire come stanno le cose? Mi sembra molto presuntuoso». Pardo d’oro a Locarno per Private (che gli è valso anche il Nastro d’argento come miglior regista esordiente), Costanzo ha esplorato la fede (In memoria di me) e le paure dell’infanzia (La solitudine dei numeri primi ); ha girato un film in America, Hungry hearts , ha ultimato la seconda serie di In treatment con lo psicanalista Sergio Castellitto (in onda su Sky Atlantic nei primi mesi nel 2015) e continua a lavorare al progetto di Limonov dal best seller di Emmanuel Carrère.
Quando ha deciso che avrebbe fatto il regista?
«Non lo so perché non mi sento ancora così sicuro di esserlo, dunque non ho ancora deciso».
Cosa le piace di più del suo lavoro?
«Il fatto di essere solo, poi di stare tanto con gli altri e potere riordinare tutta la confusione che si è fatta e tornare solo».
Ha iniziato col cinema, poi è arrivato il successo di In treatment...
«Quando la Wildside me lo ha proposto ho pensato che fosse un’occasione per lavorare su sceneggiature di livello altissimo. Grazie a una scrittura così ben congegnata in ogni episodio c’è qualcosa di imprevedibile, qualcosa che l’attore non controlla e rende In treatment un prodotto unico. Per una serie così un interprete deve essere coraggioso, deve buttarsi e guardare cosa succede. Lo “scontro” tra l’accademia e l’imprevedibilità provoca quel colpo geniale inatteso che fa diventare unico il momento ripreso sul set. Il ruolo del regista è relativo».
Perché?
«Il format esiste in 18 paesi: è chiaro che l’opera non sarà mai uguale all’originale - ci sono attori e lingue diversi - ma l’emozione sì, nasce da una scrittura perfetta».
Cosa succederà nella seconda serie?
«Entriamo nel privato dello psicanalista Giovanni Mari: si è separato dalla moglie, ha una nuova casa con annesso studio, è una dimensione più personale. Poi ci sono i nuovi pazienti: Maya Sansa è un’avvocatessa quarantenne che a vent’anni aveva abortito e torna con una grande rabbia per quella scelta. Greta Scarano è una ragazza malata di tumore che non vuole curarsi; Michele Placido è l’amministratore delegato di un’azienda chimica finito in uno scandalo che comincia ad avere attacchi di panico non tanto per la perdita del lavoro ma per il rapporto con la figlia Alba Rohrwacher. Poi torna la coppia Bobulova-Giannini, in analisi col figlio obeso. Il venerdì, come nella passata stagione, è il giorno in cui Mari va dalla sua terapeuta, Licia Maglietta. Affronta il rapporto col padre, diventa lui il paziente».
Lei ha fatto analisi?
«Non rispondo mai a questa domanda».
Com’è andata a New York sul set di Hungry hearts?
«L’esperienza americana è stata molto avventurosa, il film è liberamente tratto dal Bambino indaco di Marco Franzoso. La storia è ambientata a Manhattan, racconta una coppia che s’innamora e si trova a fronteggiare la vita e la morte. I protagonisti sono Alba Rohrwacher e Adam Driver, un giovane attore di grande talento».
Da Private a In memoria di me, il suo cinema è spesso caratterizzato dagli ambienti chiusi. «Anche col cinema cerco di capire come guardo le cose per domandarmi: che ci faccio qui? Qual è il mio compito? Non prevedo che ci siano luoghi unici, non sono abbastanza rigoroso, non ragiono sempre nello stesso modo… Spero che visto da me anche un paesaggio sorprendente, larghissimo, come un deserto, non sembri claustrofobico…».
Non le interesserebbe un film più politico?
«Mi piacerebbe molto, ci ho anche lavorato a lungo ma non ci sono riuscito. Non sono mai soddisfatto. Non demorderò dal tentativo di rappresentare l’Italia, ma è complesso».
Come procede la preparazione del film sul dissidente russo Eduard Limonov?
«Limonov mi ha affascinato, ha avuto una vita che ne racchiude tante ma è una sfida che ha ancora ha bisogno di confrontarsi con la realtà produttiva, è un progetto importante. Credo che si concretizzerà nell’estate dell’anno prossimo».

Corriere 30.5.14
Carabinieri, storia infinita. Oggi è tempo di narrarla
Presenti nell’immaginario, trascurati nei romanzi
di Claudio Magris


Forse soltanto gli alpini, fra i cittadini in divisa, sono altrettanto presenti, nell’immaginario collettivo, come una rassicurante e forte garanzia di difesa del Paese; difesa, per quel che riguarda i carabinieri, sia nel caso sciagurato di una guerra sia in quella guerra quotidiana, purtroppo inevitabile e non meno terribile, che è l’incessante tutela del cittadino, delle istituzioni, del sereno ordine di ogni giorno, non meno importante dell’integrità territoriale del Paese. I carabinieri sono — caso unico — insieme poliziotti e soldati, soldati che non conoscono tempo di pace sicura. In quanto tutore dell’ordine, il carabiniere è certo temuto, ma è anche una figura rassicurante; è come se si fondessero in lui i caratteri del soldato e del poliziotto, in una simbiosi che fa emergere gli elementi più positivi e familiari di entrambi, elidendo invece quelli più temuti.
Quest’aureola — tante volte immortalata dalla letteratura, dall’arte, dal cinema — deriva forse dall’origine dell’Arma, avvolta — già nello stile e nel fascino evocativo della sua uniforme — da un alone in qualche modo rivoluzionario, anche se dirlo può sembrare paradossale. Infatti, pur avendo origini — quantomeno nel nome — più antiche (dalla Francia del tardo Seicento, se non ancora prima nell’esercito inglese, alla Prussia e alla Spagna), la vera e propria Arma istituita nel 1814 dal re di Sardegna Vittorio Emanuele I con duplici compiti, militari e civili, si ispira al modello napoleonico, modello in cui sopravvive, sia pure con tutte le trasformazioni, lo spirito della Rivoluzione francese ovvero, in questo caso, di una fedeltà non a una casa regnante o a un potere particolare bensì allo Stato che, monarchico costituzionale o repubblicano, rappresenta tutti i cittadini e non una dinastia, una fazione, un partito, un’ideologia. La lealtà allo Stato — in epoca monarchica al re, ma non in quanto singola persona o capo di una famiglia, bensì simbolo della comunità del Paese — ha portato ad esempio i carabinieri a non identificarsi col regime fascista e a fornire un notevole contributo alla Resistenza o alla riscossa dell’intero Paese. Naturalmente, nemmeno l’Arma dei Carabinieri è costituita soltanto da santi e da eroi e ci sono stati, come in ogni istituzione, pure errori e cadute che certo non offuscano l’immagine globale del Corpo e dei suoi meriti.
Questo senso dello Stato, del bene pubblico, è stato una vera rivoluzione nella concezione della vita politica civile e sociale; purtroppo è un senso che in questi anni si è paurosamente, indecentemente deteriorato, degradando il nostro Paese a una Babele di consorterie truffaldine, per le quali la Patria è una mucca da mungere fraudolentemente. La storia dei carabinieri è costellata di esempi e testimonianze di valore, di sacrificio, di coraggio, esercitati non come un culto eroico bensì quale semplice ma in certi casi terribile esercizio del dovere. Alcuni nomi — un solo esempio, ma è solo uno tra i tanti, Salvo D’Acquisto — sono noti a tutti, ma tanti altri dovrebbero esserlo altrettanto; uomini che hanno rischiato o perso la vita semplicemente svolgendo il loro lavoro, come un insegnante a scuola o un impiegato in un ufficio, non certo meno meritevoli e rispettabili, ma che per guadagnare onestamente il loro modesto stipendio non devono affrontare il rischio di morire — come accade certo invece ad altre categorie di lavoratori, ad esempio operai, ma accade a causa di infami e criminose condizioni e mancanze che vedono spesso — e dovrebbero vedere sempre — i loro responsabili ammanettati dai carabinieri. Il lavoro di questi ultimi non conosce solo, oltre alla routine quotidiana, il pericolo talora anche gravissimo. È anche l’esperienza — difficilmente immaginabile per chi svolge altri mestieri — di un mondo di violenza, di disperazione, di miseria umana con tutte le sue debolezze talora ripugnanti ma, nella loro pur distorta umanità, sempre degne di dolorosa pietà.
Ma l’Arma dei carabinieri non vive solo su questa frontiera estrema. C’è, non meno importante, una sua funzione nella normale vita quotidiana dei cittadini — normalità che certo si trova ad affrontare difficoltà di vario genere. Forse il cuore dell’Arma non è il Comando generale, quanto la Stazione e il carabiniere per eccellenza è forse il maresciallo che la dirige. Non a caso, nella letteratura dedicata ai carabinieri, il personaggio fondante è il maresciallo e non solo nei racconti omonimi di Mario Soldati.
La Stazione non rappresenta solo il luogo in cui si sporgono denunce, che si chiama in aiuto nei momenti d’emergenza, che tutela l’ordine pubblico e imposta l’investigazione dei delitti. La Stazione dei carabinieri è — e potrebbe e dovrebbe esserlo ancor più — anche un punto di riferimento dei cittadini che vivono in quel distretto o rione della città; in certo modo, assomiglia alla parrocchia, ad altri centri in cui gli individui possono trovare un punto di aggregazione e non solo per rivolgersi quando sono aggrediti o minacciati. Ovviamente ciò è più facile in un piccolo paese che in una grande, anonima e tentacolare città in cui prevalgono la disaggregazione sociale, la solitudine, l’emarginazione, la miseria e talora la disperazione da cui nasce la rivolta, la trasgressione, il reato anche grave che esige l’azione repressiva a spese della benevola tutela.
Se, nella lotta contro la maxidelinquenza della malavita organizzata e magari infiltrata negli stessi organi dello Stato, l’immagine del carabiniere mantiene intatta ed anzi esalta la sua positività umana e sociale, le cose si complicano quando il doloroso malessere sociale conduce a turbamenti dell’ordine pubblico che ovviamente non possono venire permessi ma che possono, erroneamente ma con gravi conseguenze nel senso civico generale, indurre a vedere nel carabiniere il braccio di una repressione al servizio dell’ingiustizia. Ciò non è vero, e appunto perciò va posta ogni cura per evitare questa falsa immagine, sottolineando peraltro che anche nella piccola delinquenza le sue vittime sono sempre i più deboli.
Quale è la funzione oggi della Stazione dei carabinieri? Come si vive un lavoro che è insieme lavoro di ufficio, di amministrazione, di controllo e può diventare di colpo un’azione in cui si mette a repentaglio la vita?
Ne parlo con il Maresciallo Aiutante Luogotenente Giuseppe Alessandro, che comanda la Stazione di Barcola a Trieste. È un uomo del Sud, precisamente di Patti in provincia di Messina, chiamato come tanti carabinieri a prestare servizio nel settentrione della nostra penisola. Cinquantenne, figlio di un marinaio imbarcato su una petroliera, si arruola a soli diciassette anni (perciò solo con il consenso scritto della madre) nel 1980 nella Benemerita. Dopo la scuola sottufficiali è in servizio in Lombardia e Veneto, per giungere nel 1992 a Trieste dove conosce una ragazza del luogo, la signora Raffaella. Una classica famiglia di carabiniere: lui «caruso» siciliano, la consorte «continentale», e tre figli, Laura di 25 anni, Elisa di 18 e un ragazzino, Mattia, di 8. Negli ultimi 15 anni è stato impiegato volontariamente anche all’estero: a Sarajevo, in Bosnia Erzegovina nel 1998, e nel 2001; in Iraq a Nassiriya, nel 2004, pochi mesi dopo il tragico noto attentato. Dal 2006 comanda una delle stazioni di Trieste, ove svolge il suo servizio in favore della comunità.
Alessandro — Lei mi chiede quale è la funzione oggi della Stazione dei carabinieri? Sostanzialmente quella di sempre. All’interno della caserma la quotidianità si affronta forse con un po’ più di fatica, perché se è vero che prima non esistevano gli ausili informatici è altrettanto vero che le incombenze burocratiche erano minori. Una volta il fax e le email non esistevano e, perciò, le risposte da fornire ai numerosi enti con i quali abbiamo contatti e al cittadino erano meno pressanti. Sotto altri versi le comunità vanno servite allo stesso modo, come un tempo. Ad esempio, Trieste, sebbene non sia un piccolo paesino sperduto nelle campagne d’Italia, è una città del Nord ancora a misura d’uomo. Così che se è vero che non è possibile intessere relazioni operative con tutti i suoi cittadini, è altrettanto vero che si possono conoscere gli abitanti del rione, nel mio caso Barcola e San Giacomo. Costoro possono sicuramente essere paragonati agli abitanti di un piccolo paese e, come tali, mi vengono a trovare sì per sporgere una denuncia, ma anche per rappresentarmi un loro problema, per chiedermi un consiglio, un parere e, a volte, anche per sfogarsi, raccontandomi i loro problemi. In queste occasioni premiano sicuramente i valori di un tempo: non solo il coraggio, ma anche la riservatezza, la lealtà, insomma l’etica del comportamento, che nella società odierna, anche nell’arte, nel cinema, nella letteratura mi pare non sembrano sempre ben sottolineate e valorizzate.
Magris — Certo, non c’è forse ancora una grande opera letteraria che abbia fatto del carabiniere una figura come ad esempio il granatiere napoleonico nella letteratura francese e ci sono anche banali e noiose stupidaggini come le barzellette, i carabinieri che vanno sempre in due perché uno sa leggere e l’altro scrivere e altre stantie scemenze. Tuttavia ci sono anche i Racconti del maresciallo di Mario Soldati, in cui mi sembra che valori e caratteristiche dell’Arma siano colti, senza retorica, in tutta la loro concreta, generosa e coraggiosa umanità. E anche quanto c’è della bonaria ironia, specie nel cinema, ad esempio De Sica in Pane, amore e fantasia o con Totò, ne I due Marescialli , per fare solo due esempi, attraverso il comico di situazioni e temperamenti dà un’immagine di schietta umanità quotidiana, generosa e coraggiosa, che fa onore all’Arma. Mi sembra che pure recenti telefilm offrano sempre di più quest’immagine positiva del carabiniere quale esempio di semplice e vera umanità. C’è il pericolo, in certe situazioni, di una funzione repressiva, ossia di reprimere, anche necessariamente e giustamente, il disordine ma senza occuparsi delle ragioni che lo creano?
Alessandro — Nella mia esperienza di oltre trenta anni di servizio ho eseguito e fatto eseguire azioni anche di carattere repressivo che avevamo l’obbligo di portare a termine su ordine dell’autorità. In tutte queste circostanze, certamente dolorose per i destinatari — penso agli sfratti forzosi, agli sgomberi — ho sempre richiesto ai miei ragazzi, ai carabinieri, la giusta doverosa umanità. Devo dire che non mi sono sforzato più di tanto per veicolare il giusto messaggio. Un provvedimento afflittivo, che necessariamente bisogna adottare, può essere meglio accettato se è eseguito sì con il doveroso senso di legalità ma anche con la giusta comprensione e buon senso. Circa le ragioni, talvolta non ne ho compreso subito pienamente la portata che magari mi è stata più chiara, dopo, in un quadro di riferimento più generale.
Magris — Abbiamo tutti presente l’immagine di tante illustrazioni che mostrano il carabiniere che doma il cavallo imbizzarrito, ma l’Arma si è ovviamente estremamente modernizzata. Questa modernizzazione, che immagino debba essere di continuo aggiornata, soffre forse oggi della crisi economica, rischiando di essere inadeguata?
Alessandro — L’Arma, soprattutto negli anni 2000, ha operato tanti cambiamenti della sua struttura, anche tecnologica. La Stazione è oggi una piccola centrale computerizzata. Nel settore burocratico sono stati fatti passi da gigante. Pensi, ad esempio, ai servizi del personale disposti e annotati in un «brogliaccio» che può essere letto su supporto informatico anche a livello centrale, o al sistema di inoltro della corrispondenza attraverso la posta elettronica certificata, che ci pone all’avanguardia nella Pubblica amministrazione. In questi ultimi tempi le risorse finanziarie non sono certo esuberanti, me come nelle famiglie giudiziose una oculata gestione, in tutti i comandi, permette di non intaccare l’efficienza. Oggi che la nazione soffre non possiamo certo noi carabinieri dare segnali di sprechi o di spese non necessarie.
Magris — Uno dei fantasmi ricorrenti, specie nei momenti di crisi politica, è «il colpo di Stato dei carabinieri», temuto o magari auspicato. Lo ha invocato ad esempio, seppur scherzosamente, anche un uomo di sinistra come Alberto Asor Rosa, un modo di protestare contro gli aspetti moralmente e politicamente peggiori dell’Italia di oggi. Ci possono essere nell’Arma mugugni di sofferenza per la democrazia, quando la democrazia degenera in modo indegno?
Alessandro — Non credo che nell’Arma vi siano, o possano albergare, tali sentimenti. Nelle nostre scuole, dopo poche settimane, giuriamo, mi creda, con emozione, di «essere fedeli alla Repubblica italiana, di osservarne la Costituzione e le leggi». Questi riferimenti costituiscono il nostro scudo, quello degli ideali. Certo i comportamenti di malaffare e di corruzione anche nelle Istituzioni, possono tendere a disorientarci. Ma è necessario seguire decisamente la via maestra, quella che conduce l’Arma al servizio del cittadino, che non ha sicuramente bisogno di colpi di Stato ma di tranquillità, di sicurezza e certezze per il futuro dei propri figli.
Magris — Quanto c’è di vero nelle dicerie sui rapporti talora tesi fra carabinieri e polizia?
Alessandro — Per la mia personale esperienza non ho mai avuto problemi di sorta ad operare con colleghi delle altre forze di polizia, anche nella consapevolezza che si è comunemente scelto di espletare un mestiere, innanzitutto, al servizio del cittadino e, pertanto, giocando nella medesima squadra, la Nazionale, non potranno mai esservi rapporti tesi.
Magris — Oggi il nemico della patria non è una potenza straniera, quanto un cancro al suo interno, una malavita organizzata con un potere da grande multinazionale, che strangola il Paese. Contro questa potenza criminale, forse più pericolosa di un nemico esterno, carabinieri e altre forze dell’ordine combattono estremamente, talora subendo gravissime perdite, in una guerra veramente difficilissima, come dimostra, per fare solo un esempio, l’assassinio del generale dalla Chiesa. Crede che questa guerra possa un giorno essere vinta?
Alessandro — Me lo auguro di cuore e di poter vivere abbastanza per vedere questo sogno dei nostri genitori divenire realtà. I tempi dell’assassinio del generale dalla Chiesa sono ormai lontani. Tanti giovani hanno trovato il coraggio di alzare la testa e la voce e quest’ultima, se non rimane isolata, può essere compresa anche da coloro i quali fingono di essere sordi.
Mi creda, professore, deve essere così, non può essere altrimenti.

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