domenica 1 giugno 2014

l’Unità 1.6.14
La crisi sociale resta pesante: 9 milioni precari o senza lavoro
Si allarga l’area del disagio occupazionale: +56% rispetto al 2007 secondo i dati diffusi dalla Cgil


È il lavoro (possibilmente stabile) che continua a mancare, tanto da mettere in ginocchio oltre 9 milioni di italiani. La creazione di nuova occupazione è tra i punti prioritari del governo. Dopo aver varato, non senza polemiche, il decreto del ministro Giuliano Poletti sull’apprendistato e sui contratti a termine («Ora le imprese non hanno più alibi per non assumere», la tesi del titolare del Lavoro), l’esecutivo Renzi si appresta a portare in aula entro fine giugno il disegno di legge delega. In quel testo saranno contenute, tra l’altro, la riforma degli ammortizzatori sociali, i servizi per il lavoro e le politiche attive, nonché il riordino dei rapporti di lavoro e di sostegno alla maternità e alla conciliazione.
Se è vero che la ripresa - seppur timida, con un incremento del Pil tra lo 0,1% e lo 0,4% a fine anno - è in arrivo, a dare fiato alle preoccupazioni espresse due giorni fa dal governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che ha invocato «un duraturo incremento dell’occupazione», sono i dati rilanciati ieri dall’Associazione Bruno Trentin (Abt) della Cgil.
I NUMERI
Secondo quello studio, sono infatti 9 milioni e 300mila le persone in difficoltà per la carenza di lavoro o per la precarietà della loro posizione lavorativa, pari al +56,8% rispetto all'ultimo anno pre-crisi, il 2007. L’area del disagio e della sofferenza occupazionale, considerate insieme, hanno raggiunto nell'ultimo trimestre del 2013 il punto più alto dall'inizio delle rilevazioni: 3 milioni e 370mila persone in più rispetto a quelle calcolate nell’ultimo trimestre di sei anni prima, quando i venti di crisi avevano appena iniziato a soffiare in Italia.
Nel dettaglio, disoccupati, scoraggiati e occupati in cassa integrazione sono circa 5 milioni e 95mila persone (rispetto al quarto trimestre 2007 l'aumento sfiora il 90%), mentre gli addetti in part-time involontario e lavoro a termine o in collaborazione, sempre involontario, sono circa 4 milioni e 200 mila unità (+29,6% rispetto allo stesso trimestre del 2007).
Non manca, nell’analisi dell'Associazione Bruno Trentin, un monito che, probabilmente, il governo - alle prese con i provvedimenti di cui si diceva all’inizio - dovrebbe quanto meno aver presente. «La caduta del numero di occupati - si legge nell’analisi della struttura Cgil - è stata eccezionale nel 2013 e ha colpito consistentemente anche il lavoro temporaneo: è particolarmente significativo che questo crollo abbia avuto luogo nel 2013 quando era già pienamente a regime la normativa che, per la prima volta, prevede contratti a termine senza causale per un anno».
IN CERCA DI BUONA OCCUPAZIONE
Eliminare la causale dai contratti a termine, come fa il decreto entrato in vigore lo scorso 20 maggio, che consente anche 5 rinnovi del rapporto di lavoro in 36 mesi, difficilmente potrà portare occupazione più stabile. Sull’altro piatto della bilancia, il governo mette l’assoluta esigenza a creare nuovi posti di lavoro: solo nel manifatturiero, tra il 2001 e il 2013, sono stati persi 120mila imprese e quasi 1,2 milioni posti di lavoro, ricordava pochi giorni fa il numero uno di Confindustria, Giorgio Squinzi. Il reddito pro capite, del resto, è ai livelli del 1996 e i consumi al 1998, anche se Federconsumatori notava ieri che l’impatto degli 80 euro del bonus Irpef sul 2014 dovrebbe attestarsi almeno sul +0,2% o +0,3%.
Infine, per quanto riguarda il raffronto europeo, l'andamento dell'occupazione italiana diverge sempre di più: il tasso medio di disoccupazione in Europa (Unione europea a 28 Paesi) ha perso quasi mezzo punto percentuale (da 10,9 a 10,5%) tra aprile 2012 e marzo 2013, a fronte di un aumento nel nostro Paese di 0,7% (dal 12 al 12.7%). Un divario che l’esecutivo dovrà cercare di colmare.

Repubblica 1.6.14
Le raccomandazioni in arrivo
Tutti i dubbi di Bruxelles sui conti pubblici italiani il Tesoro teme il pressing per una nuova manovra
di Alberto D’Argenio


FATTO sta che in queste ore le linee telefoniche tra Palazzo Chigi, il Tesoro e il Berlaymont sono roventi. E il clima è teso anche alla Commissione europea, se è vero che la paginetta delle raccomandazioni dedicata ai conti pubblici italiani è stata trasmessa dai servizi della Direzione generale Economia e Finanze direttamente al gabinetto del presidente Barroso. Insomma, il dossier è per tutti una patata bollente e la decisione finale a Bruxelles verrà presa tra questa notte e domani mattina. Poco prima che la Commissione pubblichi le Country specific recommendations, le raccomandazioni per ogni paese della zona euro composte da un giudizio, e una serie di indicazioni, sulle riforme e sulla politica di bilancio. Ed è proprio questa la parte spinosa per l’Italia. Roma naviga con il deficit sotto il 3% (per il governo e per la Ue è al 2,6%), ma i conti non tornano del tutto sul deficit strutturale, ovvero quello depurato dal ciclo economico e dalle una tantum.
In attesa che nel 2016 entri in vigore il Fiscal Compact con l’ingiunzione di tagliare il debito eccessivo di un ventesimo l’anno, ogni Paese deve assicurare che la sua traiettoria inizi a scendere e avvicinarsi al pareggio di bilancio strutturale, rispettando così il proprio Obiettivo di medio termine. Ma l’Italia su questo punto potrebbe essere giudicata inadempiente perché mentre Roma prevede di avere a fine anno un deficit strutturale dello 0,6%, la Commissione lo vede allo 0,8% (noi stimiamo una crescita allo 0,8, la Ue dello 0,6%). Scostamento che potrebbe portare Bruxelles a sollecitare una manovra da circa 4 miliardi. C’è poi la questione legata al 2015, con Roma che prevede uno 0,1% e chiede di rinviare al 2016 il raggiungimento dell’equilibrio perfetto, lo zero per cento strutturale, mentre Bruxelles prevede uno 0,7%. Una diffidenza che potrebbe essere causata anche dall’incertezza, rilevata dalla Commissione, delle coperture degli 80 euro di taglio dell’Irpef. Per questo il governo teme che l’Unione bocci il rinvio di pareggio di bilancio richiesto dal governo, complicando ulteriormente le cose. Senza contare che il debito continua a crescere, nel 2014 alla quota record del 135,2% del Pil.
Pur consapevoli della situazione, al Tesoro si dicono «tranquilli ». Non solo perché, come ha detto ieri il ministro Padoan, ci troviamo di fronte a una divergenza metodologica nel calcolo di alcune voci di bilancio, per cui «la diversità di opinione è parte della normale dialettica », ma anche perché le raccomandazioni di Bruxelles non sono vincolanti. «Se la Commissione ci consigliasse di intervenire sui conti si aprirebbe un confronto, potremmo tenerne conto o meno», spiegano fonti del governo. Ma si aprirebbe comunque un fronte polemico che tanto Roma quanto Bruxelles in questa fase politica eviterebbero volentieri. Per questo al governo sperano che la Commissione limi le virgole in modo da rendere il proprio giudizio meno abrasivo possibile. Diverso sarebbe se la Ue ci aprisse, tra fine anno e inizio 2015, una procedura per debito eccessivo legata anche al mancato raggiungimento degli obiettivi sul deficit strutturale. In questo caso sì le indicazioni di Bruxelles sarebbero vincolanti, ma si tratta di un passo che al momento al Tesoro viene considerato «impossibile ». E in effetti una scelta così legata all’ortodossia del rigore appare improbabile in una fase di debole ripresa, di sentimenti euroscettici e con molte capitali che chiedono apertamente di abbandonare l’austerity.
Ma per Renzi e Padoan domani arriveranno anche buone notizie, con un’ottima pagella sulle riforme. La Commissione darà il via libera a quanto fatto fin qui e spronerà ad andare avanti. Ci sarà l’allarme sulla «gravissima» disoccupazione giovanile e la sollecitazione ad attuare il Jobs Act, giudicato positivo. Si chiederà di completare la riforma della giustizia civile, di accelerare sulla digitalizzazione dello Stato e di attuare rapidamente la riforma della Pa. Ci sarà l’ok alla riduzione di Irap e costi energetici per le aziende, un via libera alla revisione dei valori catastali e la richiesta di andare avanti con la delega fiscale. Infine il solito richiamo a puntare sulle tasse legate ai consumi e alle proprietà abbassando le altre imposte.

l’Unità 1.6.14
Vendola: «Ricostruiamo la sinistra. L’orizzonte è l’alleanza col Pd»
«La lista Tsipras è stata una scelta last minute Renzi ora è forte in Europa
Con un mandato legato non solo all’anti-grillismo ma al cambiamento»


Nichi Vendola, la vostra Lista Tsipras alle Europee ha raggiunto il quorum ed eletto tre deputati. Adesso dovete decidere cosa fare da grandi. Dopo la direzione di venerdì tra chi invoca la fusione con il Pd echi la costituente di sinistra, a che punto siete?
«È stata una direzione importante in cui si è aperta la riflessione sul voto che è stato un terremoto in Europa e in Italia».
In molti Paesi europei diversamente che in Italia, o no?
«Parlo di terremoto anche qui perché il significato sintetico del voto è la bocciatura senza se e senza ma delle politiche di austerity. Il blocco conservatore ha preso un duro colpo a vantaggio della variegata estrema destra e dei populisti. Mentre il blocco socialista nasconde la propria crisi grazie alla straordinaria performance del Pd di Matteo Renzi».
È questo, secondo lei, il dato del voto del 25maggio?
«Sì. Escono sconfitti Ppe e Pse che hanno condiviso la scelta sciagurata di aggredire il welfare e fare dell’equilibrio di bilancio un totem anche ferendo al cuore l’idea stessa dell’unificazione europea. Poi, in quel voto, vedo dati belli e altri inquietanti».
Qual è il dato bello? Il vostro?
«La prova positiva di una nuova e articolata sinistra che non è più solo quella vecchia radicale. Da Syriza agli Indignados spagnoli fino a noi, c’è una luce di europeismo critico di sinistra contro le derive populiste».
È il populismo, invece, il segnale inquietante? «È la nefasta trasformazione di umori neonazisti e neofascisti in forze politiche. Cavalcando la paura e il malessere sono diventate qualcosa di più corposo, insidioso e strutturato».
Eppure, la lista Tsipras ha perso voti in termini assoluti rispetto alla prestazione di Sel alle ultime politiche. Questo ha influito nella scelta di un percorso per il futuro?
«È la prima volta che superiamo il quorum alle Europee. Abbiamo preso quasi un milione e 200mila voti. Un risultato miracoloso».
Col senno di poi, se lo aspettava o è stata una sorpresa?
«Alla vigilia del voto ero piuttosto pessimista. Ho visto salire la reazione alla violenza e alla volgarità di Beppe Grillo. Ho capito che si stava rideterminando una spinta di massa verso il voto utile al Pd percepito come argine democratico. Nella contesa tra Renzi e Grillo potevamo romperci l’osso del collo, invece ce l’abbiamo fatta. Nonostante non avessimo un lungo lavoro alle spalle».
In che senso?
«Abbiamo fatto una scelta last minute. Quella di un cartello elettorale che trovava il comune denominatore nella figura emblematica di Alexis Tsipras».
E adesso? La «terra di mezzo» tra Pd e Tsipras, con un occhio ai grillini delusi, dove conduce?
«Noi vogliamo essere la sinistra. Contribuire a ricostruirne una moderna, post-ideologica, plurale, capace di farsi attraversare dalle culture di femminismo, ambientalismo, libertà».
In che rapporti concreti con il Pd?
«Il nostro orizzonte è l’alleanza con il Pd a condizione che si ricostruisca un profilo di cambiamento. Renzi ha vinto e la sua vittoria non cambia la qualità di questo governo che è molto condizionato dal profilo del ministro Guidi e dalle scelte di Poletti, oltre che dalla presenza di Ncd. Sulle scelte di merito, per noi il governo merita una battaglia di opposizione».
Non è cambiato nulla, allora, dopo il voto?
«Sì. Renzi esce come uno dei leader più forti sulla scena europea. Con un mandato legato non solo all’anti-grillismo ma attinente al cambiamento che ha evocato con i suoi discorsi, la sua età ed effervescenza. Ha una responsabilità e una chance straordinarie: essere la leva per scardinare la gabbia di acciaio dell’austerità».
È vero che potreste votare la conversionedeldecretoIrpefcongli80euroinbustapaga per i redditi bassi?
«Leggeremo il decreto e valuteremo il merito. Abbiamo detto dei no, ma anche dei sì come sull’abolizione della legge Bossi-Fini. L’operazione di sostegno ai redditi più bassi è positiva, ma non se le coperture importano tagli drastici alla Pubblica amministrazione ». Significa che, alla fine, potreste votare no? «Non sono iscritto al partito dei gufi, come direbbe Renzi. In campagna elettorale non ho agitato l’argomento. Ma se le coperture sono minacciose per la vita degli enti locali non possiamo tacerlo».
Teme uscite dal partito, per andare con il Pd?
«Non ne ho notizia. In direzione abbiamo Ragionato su Renzi senza stereotipi né folgorazioni: è stato votato da chi è arrabbiato contro la Fornero e non ne può più di quelli come Monti nonostante il Pd abbia sostenuto quelle scelte. Lui non ne paga il prezzo, è percepito come diverso da chi c’era prima. Ma nella società liquida, tutto questo può cambiare velocemente. Sembra ieri che ci commuovevamo per Hollande all’Eliseo e adesso Marine Le Pen è primo partito...».
Per la Lista Tsipras non c’è futuro?
«Considero l’esperienza un seme. Bisogna evitare che precipitazioni organizzativistiche siano una gelata che lo uccide. Ingabbiare questo percorso in un nuovo contenitore non mi convince».
E cosa la convince, invece?
«Meglio metterci in ascolto e allargare il campo democratico, nel cui spazio vogliamo essere la sinistra. Non come colonna sonora ideologica di partiti della nazione ma nella ricerca di battaglie politiche e sociali comuni. La sinistra vale molto di più del 4% e il confronto con Renzi sarà sui contenuti».

il Fatto 1.6.14
Nuovi Mondi
L’inesorabile scomparsa dei ministri degli Esteri
di Furio Colombo


In un impeto di entusiasmo un esperto giornalista ha scritto questa nota sul ministro degli Esteri italiano in visita negli Stati Uniti: “Federica Mogherini, con la sua vasta rete di contatti internazionali, è considerata l’interfaccia ideale di un rapporto privilegiato fra i democratici d’America e d’Italia”. (Paolo Valentino, Il Corriere della Sera, 15 maggio). L’elogio è simpatico ma non descrive un ministro degli Esteri. È la lettera di raccomandazioni per una funzionaria di partito che svolge bene un compito affidatole.
Se potrà essere utile in seguito il lavoro diligente di questa funzionaria lo decideranno più avanti il decorso dei fatti e la visione e decisione di qualcun altro. Qualcun altro ma chi? Certo non più i ministri degli Esteri. Vi sarete accorti dell’attivismo volonteroso, ma privo di conseguenze, del segretario di Stato americano Kerry in Ucraina. È un politico esperto, competente, già candidato presidenziale. Non importa. Il suo mestiere non esiste più. Come e quando sono scomparsi i ministri degli Esteri? Certo ha a che fare con la politica, che si è accampata, un po’ dovunque nel mondo, purché fuori dalle istituzioni.
Si potrà discutere a lungo se sono cominciate prima le spallate dell’opinione pubblica, che, dalla guerra del Vietnam in poi, si è assunta il ruolo di fermare, spingere indietro e negare l’autorità delle istituzioni, o degli operatori di esse. O se invece il misterioso fenomeno della finanza, che si separa dalla economia, il capitale dal lavoro, la decisione e la strategia dall’impresa, e tutto (o gran parte) si sottrae al controllo dei governi.
UN PROVVEDUTO ministro degli Esteri era il depositario di strumenti politici e diplomatici che non esistono più. Anche quando agisce con competenza non tocca la realtà, e dunque non la cambia, non può. Si è arrivati, benché si sia finto di prestare poca attenzione, al caso delle guerre che cominciano da sole, più come una gigantesca smagliatura che come una iniziativa militare o politica. È accaduto in Libia, un evento inedito di ingresso e ritiro di truppe occidentali che non risultano nell’albo delle decisioni internazionali né al principio né alla fine. È il caso del Mali, dove l’inizio è cieco, la fine è incerta e nel mezzo ci sono truppe francesi dal ruolo tuttora in discussione (chi ha vinto? chi ha perso? chi controlla?). È il caso della Siria che era cominciata con due parti contrapposte, tutto il governo del dittatore Assad contro tutta la ribellione popolare, e che si è trasformato in contrapposizioni di Stati e Gruppi di Stati (più o meno a guida russa, più o meno a guida americana) che non avevano istruzioni precise e hanno presto abbandonato l’impegno, mentre sia la rivoluzione sia il regime si frantumavano in parti tutte incompatibili fra loro, e la situazione fatalmente espelleva trattative e ministri (vedi la futilità del tentativo di mediazione di Ginevra: fra chi, a opera di chi?). Possiamo dire che in pochi anni, un mondo di roccia (i grandi blocchi e degli Stati potenti) si sia trasformato in un mondo di sabbia, una volta che tutte le comunicazioni passano nella rete? C’è chi invoca con persuasione religiosa il governo della rete e la democrazia della rete. Non è affatto impossibile, ma, nonostante tentativi accaniti e affermazioni brutali, la democrazia della rete non ha mai potuto funzionare perché non rappresenta ciò che sostiene di rappresentare, la gente vera.
Infatti la gente vera non si riduce a messaggi. Dalla rete si leva comunque una immensa polvere di notizie, un ghibli che ci avvolge e ci acceca: sappiamo tutto. Ma poiché sappiamo anche il contrario di tutto, la vasta parte non credente di noi resta presa in mezzo e ferma nel niente. Così i ministri, così i governi. Direte che mancano parti intermedie che possono ancora funzionare. Oppure che c’è un “molto alto” (la volontà economica che non firma mai le sue decisioni) e un “molto basso” (una specie di continuo “occupy” che arriva sempre un po’ tardi a occupare palazzi d’Inverno già abbandonati ).
In ogni caso ci sono dei nuovi protagonisti. Vediamo. Apparentemente ingombrano ancora la scena i vecchi protagonisti, ambasciatori, ministri degli Esteri e capi (di Stato, di governo, di giunta militare, di banda armata, a seconda del tempo e dei luoghi ). Attenzione, però: solo il capo conta, è lui che gioca o viene giocato, usando gli altri, al massimo, come portavoce smentibili. Siamo arrivati all’epoca degli Stati Polifemo, che guardano, giudicano e decidono con un occhio solo, anche perché si è smagliata la implicita e presunta solidarietà con chi guida un Paese di Parlamenti. Rimangono sul campo, e si confrontano, la forza militare, la forza economica, la capacità di dare e ricevere informazioni. Tutte e tre sono diventate forze (prevalentemente) interne, non internazionali.
LA FORZA militare doma la folla ribelle in casa ma, per il mondo, è troppo forte se la usi tutta, e troppo debole se non è estrema. La forza economica degli Stati non è più politica estera perché confluisce nei mercati ed è segnata da volontà non statuali e non politiche. Le informazioni sono una esondazione di materiale vero e falso che stimola e altera la percezione di tutto. È un sistema che, per ragioni tutte da discutere, funziona meglio quando è distorto e non ha un luogo finale di certezza. Restano tre protagonisti mascherati: i Servizi di una galassia imprecisa. Di essa si identifica il destinatario ma non il mandante e il mandante del mandante; il terrorismo che non ha smesso e non smetterà di agire con una sua ipoteca oscura su tutto, che non esiste in alcun luogo ma può apparire dovunque.
La corruzione, che sposta cifre immense e svuota i bilanci degli Stati con totale discrezione sui vertici e i grandi agenti del meccanismo quasi perfetto. Comincia così un mondo nuovo e non proprio rassicurante. Resta da domandarsi se non stiamo imprudentemente fingendo che tutto, invece, sia come prima.

il Fatto Letere 1.6.14
Papa Francesco ha dato a Renzi i voti cattolici

Il primo miracolo non ancora accertato compiuto da Papa Bergoglio fu quello di inviare a votare 2milioni e mezzo di cattolici certificati. Purtroppo non disse per chi. Quella marea umana si diresse dapprima verso la dimora di Berlusconi, nessuno però aprì, perché erano passate le 23. Si trascinarono fino alla casa di Grillo, ma furono spaventati da un poderoso “vaffa”. Nei pressi dell’abitazione del comico scorsero un giovanotto che stava spiando all’interno. – chi sei ?- Chiesero tutti. – Sono un boy scout- e loro, felici, lo riempirono di voti. Ora Renzi trema perché è l’unico a conoscere il suo vero valore.
Cinzia Cavallo

il Fatto Letere 1.6.14
Parlamento illegittimo, ma Napolitano lo ignora

Il “Fatto Quotidiano” ha riportato la notizia che, sulla “London Review of Books”, lo storico britannico Perry Anderson ha posto tra le cause del disastro italiano il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Lo storico argomenta con scrupolo i motivi a sostegno della sua affermazione, tra cui spicca che “Napolitano dovrebbe essere il guardiano imparziale dell’ordine parlamentare e non interferire con le sue decisioni, invece rompe ogni regola”. Io aggiungo che Napolitano sta incredibilmente ignorando sia la sentenza 1/2014 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato incostituzionale la legge elettorale, sia la sentenza 4 aprile 2014 della Cassazione, che dichiara: “I ricorrenti non hanno potuto esercitare il diritto di voto nelle elezioni per la Camera e il Senato, svoltesi successivamente all’entrata in vigore della legge 270/2005 (istitutiva del “porcellum”) e sino alla data di pubblicazione della sentenza della corte Costituzionale 1/2014”. In sostanza la Cassazione, con sentenza definitiva, ha riconosciuto l’impossibilità a esercitare il diritto di voto per tre elezioni consecutive. Quindi gli attuali deputati senatori, dal gennaio 2014, devono essere considerati illegittimi perché nominati e non eletti. C’è poco da aggiungere. Napolitano avrebbe dovuto sciogliere le Camere e inviare gli italiani al voto, con una nuova legge elettorale. Invece lui incoraggia Renzi ad arrivare al 2018. Lo storico Andersono purtroppo ha visto giusto circa le responsabilità politiche dell’“italian disaster”.
Giorgio Castriota

l’Unità 1.6.14
Povere scuole. Vecchie, a pezzi e con l’amianto
Il nuovo allarme lo lancia il Censis
In 24mila degli oltre 41mila istituti statali gli impianti (elettrici, idraulici, termici) non sono a norma
Mimmo Pantaleo (Cgil): confermati gli allarmi per la sicurezza e la salute del personale e degli studenti
Il governo: «Ci sarà un cambio di passo»


L’argomento è dibattuto da tempo. Rnezi addirittura ne ha fatto un punto della sua campagna elettorale e di governo. Ma sentire i numeri sui problemi dell’edilizia scolastica fa sempre una certa impressione. A sollevare, nuovamente, il problema è stato il Censis. Secondo il quinto numero del «Diario della transizione», sei edifici scolastici statali su dieci - 24mila su 41mila - hanno gli impianti (elettrici, idraulici, termici) che non funzionano, sono insufficienti o non sono a norma. Sono 9mila le strutture con gli intonaci a pezzi, mentre in 7.200 edifici occorrerebbe rifare tetti e coperture. 3.600 sono, invece, le sedi che necessitano di interventi sulle strutture portanti (tra queste mura 580mila ragazzi trascorrono ogni giorno parecchie ore) e 2mila quelle che espongono i loro 342mila alunni al rischio amianto. Edifici malandati anche perché piuttosto vetusti: più del 15% è stato costruito prima del 1945, altrettanti datano tra il '45 e il '60, il 44% risale all’epoca 1961-1980, e solo un quarto è stato costruito dopo il 1980 (oltre 35 anni fa).
Nonostante il patrimonio immobiliare scolastico sia datato, in qualche caso ricavato da caserme o conventi, solo nel 7% dei casi si ritiene fondamentale la costruzione di un edificio più adeguato o il trasferimento della scuola in un’altra sede.
Di lavori se ne fanno pochi, e quando si fanno sono fatti male. Secondo le valutazioni dei dirigenti scolastici, che hanno considerato la qualità degli interventi realizzati in più di 10mila edifici scolastici pubblici negli ultimi tre anni, sono più di un quarto le strutture in cui sono stati effettuati lavori ritenuti scadenti o inadeguati. Si tratta del 20,5% delle scuole in cui gli interventi hanno riguardato l'abbattimento delle barriere architettoniche, del 22,5% degli edifici in cui sono stati realizzati lavori di manutenzione ordinaria, del 32,8% delle opere di manutenzione straordinaria, del 33,7% delle strutture in cui sono state realizzate reti o introdotti servizi per la didattica digitale.
Per il Censis, «la recente assegnazione del 95,7% dei 150 milioni di euro stanziati con il “decreto del fare” per l’avvio immediato di 603 progetti di edilizia scolastica rappresenta sicuramente un cambio di passo rispetto alle lunghe e farraginose procedure degli anni passati». Sulla base delle risorse stanziate e dei ritardi di spesa accumulati, alla fine del 2013 il ministero delle Infrastrutture stimava in 110 anni il tempo necessario per mettere in sicurezza tutti gli edifici scolastici italiani.
Gli interventi straordinari che via via sono stati programmati dopo il tragico crollo della scuola di San Giuliano hanno mobilitato poco meno di 2 miliardi di euro rispetto a un fabbisogno stimato di 13 miliardi. Notevoli i ritardi nell'attuazione. Dei 500 milioni di euro attivati con le delibere Cipe del 2004 e del 2006, a metà del 2013 ne erano stati utilizzati 143, relativi a 527 interventi sui 1.659 previsti. Per gli stanziamenti successivi, tutti i progetti sono ancora in attuazione o addirittura in fase di istruttoria.
Nel frattempo è scattata l’«Operazione edilizia scolastica» del governo, per censire le priorità d'intervento e le risorse necessarie, cui per ora hanno aderito 4.400 Comuni. Per garantire la tempestività della manutenzione ordinaria e accelerare la realizzazione dei piccoli interventi necessari è stata prospettata recentemente la possibilità di dotare le scuole di un budget specifico. Il54% dei dirigenti scolastici interpellati si dichiara favorevole, anche se il 45% condiziona tale eventualità alla semplificazione delle procedure per l'affidamento dei lavori.
L'ultimo rapporto Censis «riconferma l'allarme per la sicurezza e la salute del personale e degli studenti» ha detto il segretario della Fp Cgil Mimmo Pantaleo. «I dati diffusi dal Censis non ci colgono impreparati» sostiene il sottosegretario all’Istruzione con delega all’edilizia scolastica, Roberto Reggi. «Il governo conosce bene la situazione. Proprio per questo abbiamo in programma già oltre 8.200 interventi da far partire nel 2014. Altri undicimila partiranno all'inizio del 2015. Con le opere previste solo quest'anno interesseremo circa un quarto delle scuole e quindi due milioni di studenti. C'è un forte cambio di passo rispetto al passato».

il Fatto 1.6.14
Amianto e muri che cadono: migliaia di scuole a rischio
Allarme del Censis sullo stato degli istituti: sono vecchi e fatiscenti. In 3600 casi servono interventi strutturali; altri 9 mila sono costruiti anche con l’amianto
di Valeria Pacelli


Intonaci a pezzi, vetri rotti, lavori di ristrutturazione fatti male e tanto amianto. Sono queste le condizioni in cui trascorrono almeno 5 ore al giorno gli studenti italiani. Il Censis (Centro Studi Investimenti Sociali) ha pubblicato i dati delle scuole della penisola e il quadro che ne viene fuori è preoccupante. Degli oltre 41 mila edifici scolastici statali, sono 24 mila gli impianti (elettrici, idraulici, termici) che non funzionano o non sono a norma. In altrettante 9 mila scuole gli intonaci cadono giorno dopo giorno. Qui sono necessari interventi, come in altri 7.200 edifici in cui occorrerebbe rifare tetti e coperture. Sono numeri importanti soprattutto per l’incolumità degli studenti. Solo a febbraio scorso, in una scuola elementare di Palermo è crollato una parte del muro e due studenti sono rimasti feriti. In altri casi non è andata così: era il 2002 quando una scossa di terremoto buttò giù una scuola di San Giuliano di Puglia e morirono 26 bambini e una maestra. E non si può dimenticare L’Aquila e il crollo della casa dello studente, dove molti ragazzi persero la vita.
SONO ALCUNE delle tragedie avvenute in un’Italia dove ci sono “2.000 scuole che espongono i loro 342.000 alunni al rischio amianto”. Ma dai dati Censis emergono altri due elementi. Il primo riguarda la costruzione degli edifici che risulta essere datata nel tempo: più del 15% è stato costruito prima del 1945, il 44% tra il ‘61 e l ‘80. La seconda problematica riguarda i lavori di manutenzione: se ne fanno pochi e male. È questa la condizione delle scuole che il governo non può ignorare. Matteo Renzi aveva annunciato un piano - da approvare - di 3 miliardi e mezzo di euro. Il Fatto ne ha chiesto conto a Roberto Reggi, sottosegretario all’Istruzione, che ha assicurato che “gli interventi inizieranno da luglio”. Dove prenderete i soldi? “Ci saranno tre tipologie di intervento: ci sono 450 milioni di euro destinati alla piccola manutenzione. In questo caso abbiamo recuperato i soldi con l’aggiudicazione di una gara sul servizio di pulizia. Ossia prima le pulizie nelle scuole costavano 600 milioni. Con la gara abbiamo tagliano 300 milioni da utilizzare invece per i lavori”. Poi ci sarebbero 400 milioni per la manutenzione straordinaria. “Questi soldi - spiega Reggi - li recuperiamo da fondi europei inutilizzati. E infine ci sono i grandi interventi o nuove costruzioni: in questo caso stanzieremo 1 miliardo e 300 milioni giacenti nelle casse dei comuni attraverso l’allentamento del patto di stabilità.” E conclude: “A questi si aggiungono 900 milioni che arriveranno a gennaio 2015 da mutui con la banca europea. E altri fondi europei per un valore ancora da stabilire, ma che può essere intorno ai 3 miliardi.” Il piano per la scuola è questo, ma i decreti devono essere ancora approvati. Bisognerà aspettare luglio e vedere se le parole diventeranno fatti.

il Fatto 1.6.14
Il Codacons: “Così gli studenti sono in pericolo”

I DATI sugli istituti scolastici diffusi oggi dal Censis “disegnano un quadro allarmante, e dimostrano come le scuole italiane rappresentino un potenziale pericolo per studenti, insegnanti e personale scolastico”. Lo afferma il Codacons, ricordando che in materia di edilizia scolastica ha vinto “la prima class action italiana contro la Pubblica Amministrazione. Nel 2011 il Tar del Lazio e il Consiglio di Stato hanno accolto la class action del Codacons, ordinando al Ministero dell’istruzione di varare il cosiddetto ‘Piano nazionale di edilizia scolastica allo scopo di garantire la sicurezza delle scuole”. “A distanza di 3 anni -dice il presidente del Codacons Carlo Rienzinulla è stato fatto, e i dati Censis dimostrano la gravità della situazione. Dopo aver acquisito il rapporto completo dell’istituto, sarà inevitabile per la nostra associazione chiedere la chiusura immediata di tutti gli istituti che presentano i maggiori rischi per studenti e personale”. “Considerato inoltre che le sentenze dei giudici non sono state rispettate - prosegue Rienzi - ci vediamo costretti a denunciare tutti i dirigenti del ministero dell’istruzione dal 2011 ad oggi per inottemperanza all’ordine del giudice e per i pericoli fatti correre a studenti e insegnanti”.

Repubblica 1.6.14
“Qui si sbriciola il futuro”: l’emergenza
di Corrado Zunino


ROMA. Ci sono 4.400 segnalazioni dai sindaci d’Italia, ora impacchettate in un ufficio di Palazzo Chigi. Ogni tanto il premier Renzi fotografa il pacco a doppio spago e twitta la foto: «Abbiamo iniziato a smistare le lettere dei primi cittadini, le scuole da rifare». Sono ottomila i sindaci in Italia, quindi uno su due ha una scuola malmessa nel suo territorio. L’iniziativa di governo, che si è chiusa lo scorso 15 marzo, prevedeva la segnalazione dell’istituto nelle condizioni peggiori. Soltanto uno. Molti sindaci non si sono contenuti e hanno allegato l’elenco: «Caro collega, ti segnalo poi...». Renzi è il collega.
Il sindaco di Avezzano provincia dell’Aquila, Gianni Di Pangrazio, ha scritto una lettera al premier per ringraziare e segnalare. «Condivido in pieno la tua scelta di partire con l’azione di governo dando priorità alle scuole poiché è lì che si formano le nuove generazioni. Ad Avezzano, terra ballerina, stiamo lavorando da tempo, con i tempi biblici della burocrazia, per avere la disponibilità dei fondi del progetto “Il futuro in sicurezza” ». In quell’elenco di edifici congelati dalla burocrazia non c’è, tuttavia, la scuola simbolo di Avezzano, l’immobile Corradini- Fermi. È degli anni Venti, è un Deco, è vincolato per comprensibili ragioni storico-architettoniche. Di Pangrazio l’ha scelta tra tante. «Non possiamo toccarlo per mille ragioni, ha bisogno di un intervento di consolidamento». Rischia di venire giù, serve l’azione coordinata dal governo.
A Villafranca in Lunigiana il sindaco Pietro Cerutti ha chiesto - dritto per dritto - 3,9 milioni da investire nel nuovo plesso scolastico pensato per ospitare un liceo scientifico e l’Istituto professionale Belmesseri. Con il primo miliardo e due speso sono fermi alle strutture portanti. I liceali di Villafranca sono costretti nel vecchio convento di San Francesco e così hanno scelto di affiancare l’iniziativa del sindaco con una cartolina a testa recapitata al presidente del Consiglio: fotografa lo stato dell’arte del nuovo plesso antisismico.
Il Comune di Livorno ha indicato le scuole medie Pazzini di via San Gaetano: c’è già un disegno per rifare la copertura in alluminio e migliorare l’efficienza energetica, risistemare la facciata e dare la possibilità di un accesso civile alle aule per chi ha difficoltà. Un ascensore, un nuovo percorso per andare in palestra. La ristrutturazione dei bagni. Costa, tutto, 703 mila euro. Già che c’era il sindaco Alessandro Cosimi ha raccontato a Renzi di tutte le scuole bisognose di interventi a Livorno: cinquantuno tra nidi, materne, elementari e medie per un costo di 3,7 milioni. «Non sbricioliamo il futuro dei nostri ragazzi».
In Veneto le lettere inviate al premier sono passate, per conoscenza, all’attenzione dell’Ufficio scolastico, che così ha realizzato un censimento locale. Solo per la riqualificazione e la bonifica dall’amianto sono stati presentati 203 progetti: ne sono andati avanti 83. Servivano 150 milioni, ce ne sono 10. A Belluno il sindaco Jacopo Massaro chiede 5 milioni per restituire a trecento scolari la principale scuola elementare, la Aristide Gabelli. Padova ha individuato la primaria Ardigò: il progetto preliminare è pronto, mancano 700 mila euro, potrebbero arrivare con lo sblocco del patto di stabilità sugli investimenti per l’edilizia scolastica (decreto 66, a giorni convertito in legge). Per l’intera città ci sono 10,6 milioni pronti, fin qui non si sono potuti toccare per l’austerity imposta dall’Unione europea. A Cesena il patto di stabilità ha fermato l’ampliamento del complesso di San Vittore (6,4 milioni, Iva compresa).
Anche un sindaco d’opposizione come il leghista Flavio Tosi ha presentato l’elenco di necessità per Verona: «Speriamo non sia la solita l’elemosina». Federico Pizzarotti, Cinque stelle inquieto, ha scritto al “caro Matteo” per avere fondi per tre strutture di Parma. Una, è la contestata scuola europea: costata 35 milioni, non è finita. Il Comune di Ariccia alle porte di Roma ha puntato alto e chiesto la realizzazione di un polo scolastico «in grado di includere in un unico, ampio e moderno spazio tutto il ciclo dell’obbligo e dell’infanzia ». Progetto ambizioso, mancano 13 milioni. «Si possono recuperare con la vendita delle cubature delle scuole Bernini e via Vittoria», ha assicurato il sindaco Emilio Cianfanelli.
A Bari lo spot si è acceso sulla materna Regina Margherita nel rione Madonnella, a Foggia sulla media De Sanctis. Il sindaco di Andria, Nicola Giorgino, vorrebbe riaprire il Riccardo Jannuzzi nel quartiere di Santa Maria Vetere: è una secondaria, chiusa dal sisma del 2002. Servono 3 milioni. Ecco, il terremoto che colpì San Giuliano di Puglia, Campobasso. Ventisette bambini e una maestra morti schiacciati. Progettisti, costruttori, tecnico comunale, sindaco dell’epoca: tutti condannati in Cassazione. Il sindaco in carica, Luigi Barbieri: «Dopo la nostra tragedia gli sforzi fatti sono stati pochi».

Repubblica 1.6.14
La lezione che viene dal degrado
di Mariapia Veladiano


PER arrivare a questo risultato è stato indispensabile un impegno collettivo davvero ragguardevole. Sindaci e amministrazioni dalle cinquanta e più sfumature di ideologie che hanno sistematicamente ritenuto più importante asfaltare campagne per la comodità dei loro elettori e lastricare piazze per la sagra dello gnocco fritto, governanti di corso lungo-lunghissimo oppure più o meno novelli che nel loro (per quanto breve) permanere in Parlamento han trovato modo di dissimulare “riforme” scolastiche nello spazio bianco fra due articoli di legge finanziaria, elettori, e molti erano ben genitori, che hanno ostinatamente votato chi questo faceva e questo prometteva di fare.
Se il 58% delle nostre scuole non è a norma, e molte di queste sono un vero pericolo, è perché un mare di persone per un mare di anni non ha ritenuto importante investire lì e un mare di altre gliel’ha permesso. Adesso un pezzo di verità è che a voler prendere in mano la scuola non si sa da che parte cominciare. Arrivano i dati Ocse e ci dicono che siamo in fondo per gli apprendimenti. Arriva il rapporto Censis e scopriamo che stare seduti in classe è più pericoloso che andare in bici in tangenziale. Ma un altro pezzo di verità è che bisogna avere la pazienza di distinguere. C’è purtroppo una geografia dell’insuccesso scolastico, che in parte, non sempre, anche qui si deve distinguere, in parte coincide con la geografia del degrado delle scuole. Perché esistono regioni e comuni che nelle scuole hanno sempre investito. Questi con lo sblocco del patto di stabilità a favore della scuola potranno (meritoriamente) investire nel perfezionamento del cappotto termico della loro scuola e acquisire meriti ecologici, altri potranno forse far smettere di piovere in aula. E poi: un conto è il degrado estetico, che conta eccome, ma che può essere combattuto e non esibito. Le pareti scrostate possono essere coperte di disegni di bimbi, o di carte geografiche. Ma altra cosa è il pericolo. Abbiamo costruito un mondo di strade, spazi pubblici, piazze, in cui bambini, persone, e anche animali, sono un fastidioso problema di sicurezza da risolvere. Per cui a scuola li portiamo in macchina i figli, e chissaquando diventano autonomi. Ma dobbiamo pensare che almeno in classe poi stanno al sicuro, abbastanza. Che i muri non crollano. E allora? E allora va certo bene liberare risorse per le scuole, da qualche parte bisogna cominciare e però ci vorrebbe qui un (impopolare) frullato di solidarietà nazionale. Perché vien da dire che sarebbe ovvio finanziare prima di tutto le 3600 scuole che hanno problemi alle strutture portanti e sembra incredibile che possano esistere scuole così. Far partire con il piano straordinario per l’edilizia scolastica anche un piano straordinario di condivisione, fra chi la scuola l’ha sempre avuta in mente e chi invece, sciaguratamente, no. Perché i bambini son bambini, tutti ugualmente pieni di diritti. E la favola della cicala e la formica è solo un mostruoso inno all’egoismo che uccide la convivenza. Che uccide e basta.


La Stampa 1.6.14
L’esodo dalle guerre, migliaia di sbarchi
Solo ieri 3300 persone sono approdate sulle coste siciliane: arrivano da Siria ed Eritrea. Molti i bambini
di Laura Anello


È un’ondata inarrestabile. Uomini, donne, vecchi, bambini. Tanti bambini, perché adesso a fuggire dalle guerre e dalla fame non sono più soltanto giovani africani che si avventurano nel deserto, ma intere famiglie di siriani. Ieri questo carico di umanità è approdato in massa sulle coste siciliane: 3.300 persone in viaggio su pescherecci più o meno scalcinati recuperati dai mezzi della Marina militare e della Guardia costiera.
Un’ondata che fa arrivare a 43 mila i profughi approdati sulle coste italiane (in gran parte in Sicilia) negli ultimi cinque mesi, lo stesso numero di migranti arrivati nell’intero 2013. Sembra inevitabile che presto saranno superati i 63 mila del 2011, l’anno delle primavere arabe e della guerra in Libia. Una situazione che dà fiato alla Lega, pronta a parlare di invasione, di assedio, e ad attaccare l’operazione Mare Nostrum. «Basta! Quanti altri morti si dovranno piangere? Quanti altri milioni si dovranno buttare via?», dice il segretario Matteo Salvini.
Da Porto Empedocle ad Augusta, la macchina dell’accoglienza è in ginocchio, con i sindaci impegnati ad accogliere la marea umana con mezzi e strutture del tutto inadeguate. Centri di accoglienza strapieni, palasport requisiti, vecchie scuole trasformate in dormitori, assistenti sociali alle prese con centinaia di casi. Il paradosso è che il piano di emergenza umanitaria, varato nel 2011 in risposta all’esodo dal Nordafrica e portato avanti pur tra mille contraddizioni, è stato chiuso nel 2013, proprio alla vigilia delle nuove crisi internazionali. E l’attuale Piano nazionale di riparto dei migranti - predisposto dal ministero dell’Interno con il concorso di prefetture, Regioni ed enti locali – fatica a garantire accoglienza e a smistare velocemente i profughi, mentre è continuo il flusso di chi fugge verso la Francia e la Germania.
Ieri la cronaca degli arrivi è stata ininterrotta. A Porto Empedocle, nell’Agrigentino, ne sono arrivati in due tornate 838. Prima è approdata la nave Euro con a bordo 531 migranti, tra cui 42 minorenni e 121 donne, quattro delle quali con il pancione di gravidanze avanzate. Poi è arrivato il pattugliatore Peluso della Guardia Costiera, con a bordo 307 siriani, compresi 52 minorenni e 49 donne. Viaggiavano su due imbarcazioni fatiscenti, da cui è partito l’allarme lanciato con telefono satellitare. Il mare non era buono, ci sono stati momenti di difficoltà. I porti del Ragusano, la nuova zona calda, ne accoglieranno in poche ore duemila. Un motopesca in legno con 210 persone a bordo, tra cui 32 donne e sei bambini che si sono dichiarati eritrei, è stato agganciato da una motovedetta della Capitaneria di porto al largo di Marina di Ragusa ed è stato scortato fino al porto di Pozzallo. Qui si aspettano gli altri 1.750 che sono in viaggio sulla nave Libra e sul rimorchiatore Asso 25.
Si è riaperta perfino la frontiera Lampedusa, esclusa dalle destinazioni di approdo da quando, l’estate scorsa, è stato chiuso il centro di accoglienza. Ne sono arrivati circa cinquecento, duecento dei quali a bordo della nave San Giorgio. Altri 271, di origine eritrea, hanno trovato ad aspettarli sulla banchina i militari dell’Esercito impegnati nell’operazione «Strade Sicure». In mare di sicuro non c’è più nulla.

l’Unità 1.6.14
Sicilia, tremila migranti Superata la quota del 2013
Nuova ondata di migranti tra Porto Empedocle e il Ragusano, la gran parte proviene dalla Libia
Lega all’attacco, Salvini: stop a Mare Nostrum


Nuova ondata di sbarchi in Sicilia: oltre 3.300 migranti soccorsi su diversi barconi vaganti nel Mediterraneo. Ed ora il totale degli arrivi in questi primi cinque mesi dell'anno ha superato quota 43mila, pari al totale degli stranieri giunti via mare in Italia nell'intero 2013.
Nella notte ed in mattinata circa 500 migranti soccorsi sono stati portati a Lampedusa. A Porto Empedocle la nave Euro ed il pattugliatore Peluso, hanno trasportato - rispettivamente - 531 e 307 persone. Altri 2.000 arrivi, poi, nel ragusano: 450 migranti sulla nave Libra, che scorta il rimorchiatore Asso 25 che ha soccorso a sua volta 1.300 persone, ha fatto poi rotta su Pozzallo scortato da nave Libra della Marina militare con a bordo altre 450 persone soccorse nel Canale di Sicilia, nell'ambito dell'operazione «Mare nostrum», mentre un motopesca con 250 persone era stato agganciato al largo di Marina di Ragusa. Nella notte 200 migranti sono stati soccorsi a sud di Lampedusa dalla nave «San Giorgio». Tra loro, spiega il sindaco Giusi Nicolini che monitora la situazione nell'isola, 29 donne (tre in gravidanza) e 12 bimbi: «Il nostro centro è chiuso e ripartiranno nel pomeriggio». Infine, destinazione Porto Empedocle per 837 stranieri a bordo della nave «Euro» e della motovedetta della Guardia costiera «Peluso». Nella notte altri due migranti erano stati trasportati con un elicottero all'ospedale di Lampedusa perché in condizioni critiche di salute, mentre una motovedetta della Guardia costiera vi ha condotto una donna al nono mese di gravidanza che era stata soccorsa da nave Libra.
Versano comunque tutti in buone condizioni di salute i 210 migranti, tra cui 172 uomini, 32 donne e 6 bambini, soccorsi ieri mattina dalla guardia costiera di Pozzallo (Ragusa). Le persone, di nazionalità eritrea e tunisina, sono giunte alle 12.25 nel porto di Pozzallo a bordo di un motopesca in legno lungo circa 14 metri. L'imbarcazione era stata individuata durante le prime ore del mattino a circa 30 miglia da Pozzallo. Non si arresta, dunque, il flusso dalla Libia. E a questo punto è a serio rischio il record del 2011, l'anno delle primavere arabe, quando sbarcarono in Italia quasi 63mila persone.
La gran parte delle partenze (oltre il 90%) avviene dalle coste libiche, dove l'instabilità politica del Paese impedisce qualsiasi tentativo di controllo. Eritrei e siriani le nazionalità più rappresentate. Il grande numero di arrivi sta mettendo a dura prova il sistema di accoglienza. Il Piano nazionale di riparto dei migranti - predisposto dal dipartimento per le Libertà civili e l'Immigrazione del ministero dell'Interno, con il concorso di prefetture, Regioni ed enti locali - punta a garantire accoglienza ed smistare velocemente gli sbarcati, assicurando un'equa suddivisione dei migranti su tutto il territorio. La Lega continua a polemizzare, in prima fila il segretario Matteo Salvini. «Basta!!! Quanti altri morti - lamenta - si dovranno piangere? Quanti altri milioni si dovranno buttare via? Tra qualche giorno andrò in Sicilia per dire stop a Mare Nostrum». Sulla stessa linea il governatore della Lombardia, Roberto Maroni: «Effetto Mare Nostrum, disastro annunciato». Il premier Matteo Renzi difende invece l'operazione. «Stiamo salvando tante persone. Ma l'Europa - aggiunge - deve richiamare l'Onu a intervenire in Libia e avere una capacità di gestione del fenomeno. Frontex può essere utilizzato più e meglio». Per il deputato del Pd Edoardo Patriarca, «è necessario un accordo con la Libia simile a quello che negli anni '90 fu fatto con l'Albania».

l’Unità 1.6.14
È nato in Italia, ma è trattenuto in un Cie
di Luigi Manconi e Valentina Brinis


Era esattamente un anno fa quando Alma Shalabayeva veniva rimpatriata in Kazakistan. Dal Centro di identificazione e di espulsione di Ponte Galeria era stata trasferita, in tempi insolitamente celeri per quel posto, all’aeroporto di Ciampino da cui sarebbe partita con un volo diretto organizzato dal governo kazako. Una procedura decisamente anomala rispetto a quella adottata per le donne e gli uomini che sono trattenuti nei cinque Cie d’Italia attualmente funzionanti.
Capita raramente, infatti, che nelle tre ore successive all’udienza di convalida davanti al giudice di Pace, la persona sia rimpatriata. Nella stragrande maggioranza dei casi la realtà è un’altra: il rimpatrio non è detto che avvenga, e se avviene non è immediato. I dati, raccolti tra gli altri da Medici per i diritti umani, dimostrano che meno dell’1% degli immigrati irregolari viene effettivamente riportato nel proprio paese. E tra quelli trattenuti nei Cie, ciò corrisponde a una percentuale del 46%. Per tutti, il fattore di maggiore difficoltà è rappresentato dall’attesa del rilascio per l’una o per l’altra destinazione: o verso l’espulsione o verso il rilascio di un documento regolare.
Dall’udienza di convalida passerà almeno un mese prima dell’incontro successivo (l’udienza di proroga) con il giudice di pace. In quei lunghissimi trenta giorni la persona, qualunque sia la sua situazione, sarà costretta nel centro di identificazione e di espulsione. Le condizioni in cui vertono questi centri sono al di sotto di standard di vita dignitosi. Nell’ultimo anno di Cie si è parlato molto facendo emergere le innumerevoli contraddizioni e criticità che segnano questi posti. Al ministero dell’Interno sono state presentate delle proposte che mirano al loro superamento, argomentato in particolare con l’inefficacia rispetto allo scopo previsto (e basti riflettere su quel dato prima accennato a proposito del tasso dei rimpatri).
Si può dire che a questo punto il trattenimento perda qualunque significato e qualunque utilità. In quel periodo di tempo, infatti, le persone dovrebbero essere identificate ma anche questo non è detto che accada a causa delle difficoltà di comunicazione con i consolati e le ambasciate che dovrebbero occuparsi del riconoscimento dei connazionali. A volte capita che anche di fronte al mancato riconoscimento da parte delle autorità consolari, il trattenimento non venga meno.
È questo il caso di un uomo, V.B., trattenuto da cinque mesi al Cie di Ponte Galeria la cui ambasciata di riferimento ha risposto negativamente sul suo riconoscimento. A complicare la situazione è la città di nascita: Aversa, in Italia. È uno dei tanti italiani di fatto che però non hanno i documenti necessari a dimostrarlo e richiedere la cittadinanza. Si tratta di una persona per la quale è difficile immaginare un rimpatrio perché, in quale paese potrebbe tornare? Nel frattempo, però, il giudice di pace competente a decidere della sua libertà, non consente il rilascio in quanto «è in attesa del giudizio del tribunale sulla pericolosità sociale », una procedura prevista per chi esce dal carcere.
E così, dopo la detenzione, il trattenimento. E poi, chissà. È questa totale incognita sul proprio destino che ha determinato la decisione di V.B. di far sentire la sua voce. Da quarantott’ore chiede di poter parlare con la questura della sua situazione. A lui si sono aggiunti molti altri trattenuti, che lamentano la scarsa attenzione nei loro confronti da parte del Giudice di Pace. È l’ennesima conferma del fallimento di un’istituzione, il Cie appunto, che prima ancora di essere iniqua appare totalmente insensata.

l’Unità 1.6.14
A Renzi serve un partito forte e strutturato
di Michele Ciliberto


La vittoria di Renzi sta suscitando molte aspettative nel paese, in tutti i settori, compresa la Confindustria. Si capisce: come è stato detto da molti, il successo elettorale del premier è dovuto alle speranze che ha saputo suscitare.
Le ha suscitate in molti strati della nazione compresa un’area moderata che si era finora riconosciuta in altre forze politiche. Certo, ha giocato in questo la volontà di contrastare Grillo e Casaleggio che hanno suscitato negli italiani antiche paure con le loro parole minacciose. Ma c’è stato anche altro in quel voto. Renzi è stato avvertito come portatore di idee finalmente nuove, di posizioni finalmente estranee al tradizionale gioco politico. Questa è stata fin dall’inizio la sua forza: aver intercettato sentimenti di speranza, desideri di mutamento, la voglia di uscire dalla palude. Simmetricamente, il risultato del voto sta provocando reazioni e preoccupazioni nella destra, che comincia a interrogarsi sulle conseguenze dello stato di frantumazione in cui si trova.
In questa situazione il premier quale politica vuole fare? Diceva Horkheimer, parafrasando Marx, che gli uomini vanno giudicati per quello che fanno, non per ciò che credono di essere. Da quello che ha già cominciato a fare si può dire che Renzi ha l’ambizione di «modernizzare » il paese, in nome di un progresso collettivo, non solo dello sviluppo di alcune parti del paese o di alcuni raggruppamenti sociali. Questo significa che dovrà misurarsi con alcune questioni strutturali della storia italiana: il divario tra Nord e Sud; il potere della burocrazia; le fortissime, e storiche, diseguaglianze sociali; la potenza impermeabile delle corporazioni. Problemi antichi ai quali se ne sono aggiunti altri e diversi: la questione demografica; il problema della disoccupazione giovanile; il rapporto tra i generi. Emi fermo qui, per non imitare il catalogo di Leporello...Per fare questo in democrazia ci vuole ampio consenso. E il premier in questo momento ce l’ha, vasto e robusto. Ma è anche il primo a sapere che esso non è eterno. Anzi, attraversiamo un’epoca nella quale gli schieramenti elettorali sono friabili, si compongono e si scompongono sotto l'impulso di molteplici fattori. Questa eventualità è tanto più forte proprio perché la politica del premier è destinata, per la sua radicalità, a toccare interessi forti, capaci di resistere e reagire come sono riusciti sempre a fare nella nostra storia. È una battaglia sacrosanta ma difficile: riuscire a «modernizzare» il nostro paese intrecciando progresso e sviluppo è stato l’obiettivo degli uomini più lungimiranti delle nostre classi dirigenti, ma in genere hanno pagato duramente per i loro sforzi. Ma non serve decifrare Renzi e i suoi obiettivi con vecchie categorie: il suo Pd non è la Dc (della quale facevano parte uomini come Gioia, Gava, Bisaglia ...), tanto meno è un erede di Berlusconi. Se poi si vuol parlare di «interclassismo» va detto che esso è di tipo nuovo e che, in ogni caso, ha la punta chiaramente rivolta a sinistra.
Per questo la lotta sarà assai dura e oggi non è possibile prevedere quali saranno gli esiti, anche perché non è facile comprendere in che modo si schiereranno le forze sociali quando l’azione del governo diventerà più efficace e penetrante. A sinistra, la questione demografica incide nella tenuta degli schieramenti tradizionali (come si vede in modo clamoroso in Francia); nell’area moderata non è facile immaginare come si muoveranno gli strati che si sono accostati a Renzi anche per una esigenza di garanzia contro Grillo e Casaleggio; altrettanto difficile è prevedere se le destre riusciranno ad organizzarsi con successo in una sorta di nuovo ressemblement comprendente la Lega. Lo scenario è molto complesso e pone alcuni problemi di ordine strategico. Un tratto che ha caratterizzato finora l’azione di Renzi è il fatto che essa si è svolta «dall'alto». Se ne comprendono i motivi: vuole bruciare le tappe, stordire gli avversari prima che si organizzino. Nel suo disegno, la velocità è una scelta strettamente politica, connessa a una cultura alla quale sono sostanzialmente estranee l’idea della mediazione e anche la persuasione che si governi «dal centro». Qui davvero, rispetto alla prima e alla seconda Repubblica, siamo entrati in una stagione diversa. Tutto chiaro. Però la storia e la riflessione politica ci insegnano che quando si governa «dall'alto» si corrono seri rischi, anche quelli del fallimento dei progetti più seri ed ambiziosi. Ci vuole un largo consenso per farcela, specie quando si vuole avviare una stagione di riforme radicali, ed essere organizzati.
Se Renzi vuole vincere la sua battaglia, che coincide oggi con gli interessi della Nazione, ha perciò bisogno di mettere alla base della sua azione salde fondamenta organizzative, dando un respiro ideale alla sua azione. E per far questo ha bisogno di una forza strutturata - qualunque sia il nome che si voglia darle - che non svolga una funzione subalterna o caudataria, come l’intendenza di Napoleone, o che si raccolga e si organizzi solo nel momento delle primarie. Il premier deve mettere subito in campo una forza in grado di sostenere in modo costante e propositivo l’azione politica del governo, specie quando essa comincerà a tagliare nella carne viva dei vecchi privilegi e le forze ostili al cambiamento aumenteranno la loro pressione. Quando dico questo però non mi riferisco alle forme tradizionali della politica: la «nostalgia del passato» serve agli storici, non ai politici. Senza un leader oggi non si fa politica. Ma senza una forza organizzata - e capace di esprimere una prospettiva anche sul piano ideale - un leader rischia di cadere perché non può governare e svolgere un’azione riformatrice in «assenza di gravità». Per farlo ha bisogno di potenti contrafforti che ne sostengano l’azione, specie quando, come in questo caso, si propone di riformare strutture antiche, e potenti, della vita del paese

il Fatto 1.6.14
Nomi per la Commissione
Ue, Renzi rottama già le ipotesi Letta-D’Alema
di Wanda Marra


Jeans scoloriti e interviste dilaganti in tutto il Vecchio Continente. Il combinato disposto dice solo una cosa: per Matteo Renzi l’operazione “conquista dell’Europa” è partita. Con tutta la potenza di fuoco della sua abilità mediatica. Secondo lo slogan: “Basta austerità: se vogliamo l’Europa, dobbiamo cambiarla”. Divanetto di Palazzo Chigi, per un’intervista uscita ieri, intorno al premier ci sono Fabio Martini de La Stampa, Andrea Bachstein della Süddeutsche Zeitung, Lizzy Davies del Guardian, Philippe Ridet di Le Monde e Pablo Ordaz di El Pais. E lui sta lì, seduto, con l’immancabile camicia bianca, un paio di jeans e le scarpe sportive. Un’immagine che effettivamente rompe tutti i paradigmi e vuole trasmettere una cosa ben precisa: il presidente del Consiglio in Europa ci entra tutt’altro che in punta di piedi. Anzi, è lui non solo il presente, ma pure il futuro. Non a caso la nomina nella Commissione europea di Enrico Letta, più conosciuto di lui e con rapporti più consolidati all’interno dell’Europa, sembra ipotesi sempre più remota. Per la verità, in questo momento scendono pure le quotazioni di Massimo D’Alema e Piero Fassino. “Matteo cerca un nome nuovo, una sorpresa”, spiegano i suoi. Ecco uno dei colpi a effetto con cui potrebbe entrare nel semestre europeo, che inizia il 2 luglio. E proprio per fare il punto sul semestre il premier riunirà mercoledì i ministri per disegnare una sorta di agenda-Italia, un pacchetto di provvedimenti da realizzare insieme ai partner europei, Germania in primis che “è un modello e non un nemico” anche se bisogna cambiare rotta. Questi sono giorni di lavoro sotto traccia per il presidente del Consiglio: ha messo tantissima carne al fuoco e nelle prossime settimane si vedrà se riesce a essere all’altezza delle aspettative. Prima di tutto Italicum e riforma del Senato: gli equilibri pre-elettorali sono saltati, bisogna vedere se gli accordi reggono e come. Poi, la delega fiscale e soprattutto la riforma della pubblica amministrazione, il 13 giugno. Ha dichiarato ieri il vicesegretario Pd, Lorenzo Guerini, in un’intervista al Messaggero: “La concertazione? Matteo la fa con l’Italia”. Le categorie tutte sono avvertite. Renzi non è andato al congresso della Cgil e neanche all’assemblea della Confindustria. Ha annunciato tagli alla Rai e non si è fermato neanche di fronte agli annunci di sciopero. Che non consideri i magistrati un tabù da non toccare e non nominare l’ha già chiarito. E ha abbassato gli stipendi dei dirigenti pubblici a 240mila euro. Per giugno è prevista anche la riforma della Giustizia.
INTANTO il governo starebbe per ottenere il rinvio della multa annunciate da Strasburgo per il sovraffollamento delle carceri. Questo per effetto dei vari svuotacarceri e della sentenza della Cassazione sulle droghe leggere che rimodulando le pene ha fatto già uscire 3000-4000 persone. Pare che insomma il premier non dovrà smentirsi e potrà evitare di fare amnistia e indulto, alle quali si era dichiarato contrario. Al di là delle dichiarazioni ufficiali non è escluso neanche un rimpastino: in uscita sono dati Maurizio Lupi (Ncd), Stefania Giannini (Sc) e la Lanzetta. Uno dei posti vacanti dovrebbe finire a Roberto Speranza, oggi capogruppo alla Camera. Per la presidenza del partito, salgono le quotazioni di Matteo Orfini. Ma da qui al 14 giugno – data dell’Assemblea in cui si deciderà tutto questo – il tempo è lungo. E il risiko da comporre tra i più difficili.

il Fatto 1.6.14
Di fronte a Madonna Boschi arretrano tutti
di Paolo Ojetti


Per quanto i telegiornali Rai (scioperi annunciati a parte) si siano sforzati di esaltare Matteo Renzi, il boom elettorale, la rinascita del Pd come “partito democristiano”, la falange di osanna si è arresa di fronte alla vera protagonista pop della settimana: Maria Elena Boschi, ministra per le riforme e per i rapporti con il Parlamento, nonché avvenente giovane donna di 33 anni che il Secolo XIX di Genova ha definito “la madonnina bionda dei miracoli”. La madonnina bionda non ha lacrimato se non per un attimo fuggente, non ha parlato a qualche giovane malaticcia con le visioni e nemmeno è apparsa a tre pastorelli analfabeti del remoto Portogallo: no, ha solo caricato 31 bambini congolesi, adottati e ricongiunti ad altrettante famiglie italiane. E qui, forse per quel minimo sindacale di coinvolgimento emotivo, alla madonnina renziana e toscana va riconosciuto il merito di aver evitato – per quanto possibile – la beatificazione. Basta volerlo, poiché nel passato ventennio abbiamo avuto inflazioni di madonne Carfagna, Prestigiacomo, Brambilla, Gelmini, oggi abbandonate dai laudatores di un tempo in qualche remoto santuario per ex. A carico della Boschi versione benefattrice si annotano dunque un’intervista di pochi secondi sulla pista di Ciampino, una treccina galeotta, qualche sbaciucchiamento, e cinque minuti introduttivi a Otto e mezzo di mercoledì, sotto gli occhi comprensivi di Lilli Gruber e quelli assai scafati di Massimo Franco.
IL DILAGARE di Maria Elena Boschi va ascritto alla sua imitatrice, Virginia Raffaele, lanciatissima da Ballarò e forte di un’invenzione tanto più geniale in quanto risalente al passato remoto: aver trasformato il vocalizzo “shabadadada” – tormentone musicale del film Un uomo e una donna del 1966 – in una risposta nonsense, depistante e furba. Di fronte a una domanda, anche banale, la Boschi fake regala uno sguardo da maliarda, un batter di palpebre e uno sventolio di ciglia prima di far partire il suo “shabadadada”, cioè il nulla fatto suggestione, arte incantatrice a sfondo erotico niente affatto dissimulato. Quando fu intonato il primo “shabadadada”, il film di Claude Lelouch (interpreti Jean Louis Trintignant e Anouk Aimée) sbancò i botteghini, le musiche di Francis Lai (un 33 giri notevole, con anche composizioni di Pierre Barouh) balzarono in groppa a tutte le hit d’Europa. Ancora oggi, chi passeggia sulle spiagge di Deauville fuori stagione, lo fa proprio per canticchiare il suo privato “shabadadada”.

Repubblica 1.6.14
Per fortuna Renzi ha vinto ma ci sono altri esami da superare
di Eugenio Scalfari


TUTTI hanno perso voti tranne il Pd. Ma da che parte sono venuti i consensi che hanno determinato il successo? Da Forza Italia non più di 300mila; da 5 Stelle 400mila. Poca roba. Dai residui del centrismo montiano circa un milione. Ma due milioni sono arrivati da ex democratici che alle elezioni di febbraio si erano rifugiati nell’astensione perché non credevano più nel loro partito allora guidato da Bersani. Domenica scorsa hanno capito la gravità della situazione e sono tornati a casa. Succede di rado e il merito di Renzi è stato questo, ha recuperato i democratici scoraggiati e arrabbiati. È difficile capire se fossero democratici moderati o di sinistra. Probabilmente dell’uno e dell’altro colore, è un partito plurale e questa è la sua forza.
Luciana Castellina sul Manifesto di qualche giorno fa ha scritto che il Pd somiglia molto al partito democratico americano dove la sinistra “liberal” convive con molti gruppi decisamente conservatori specie negli Stati del sud. Ha ragione, anche se il Pd americano ha un’impronta decisamente innovatrice e progressista. Del resto un’analoga convivenza di segno opposto avviene nel partito repubblicano.
Un’altra caratteristica di quei partiti è che si identificano in un leader carismatico che, in caso di vittoria, diventa presidente e leader di tutto il paese.
Sullo stesso Manifesto un personaggio di sinistra come Alberto Asor Rosa aveva dichiarato il suo favore a votare Renzi. Un altro esponente della sinistra storica del Pci, Alfredo Reichlin, ha scritto ad elezioni avvenute che la vittoria di Renzi è un fatto positivo e l’ha incitato a fare del Pd il partito della Nazione e dell’Europa; Renzi lo ha citato nelle prime righe della relazione letta alla direzione del partito dopo la vittoria.
Cito alcuni di questi interventi perché rappresentano la complessità della situazione. Siamo uno dei paesi europei che la crisi in corso ormai da sei anni ha devastato economicamente e socialmente suscitando negli italiani e specialmente nei giovani frustrazione e rabbia. Potevano incanalarsi verso una disperazione distruttiva oppure verso una speranza costruttiva. Hanno scelto la seconda. Per questo oggi siamo contenti. Una notevole massa di italiani si è dimostrata all’altezza della situazione. Ma il bello, anzi il difficile, viene adesso. Per Renzi, per l’Italia, per l’Europa. Ed anche per noi che di mestiere siamo testimoni del tempo che passa.
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Un difetto di quelli che aspirano alla leadership (di un partito, di un’azienda, di un paese) spesso è l’arroganza. Un altro possibile difetto è la demagogia. Sono difetti abbastanza diffusi in chi ricava soddisfazione dal guidare gli altri e Narciso è il personaggio mitologico che meglio li rappresenta.
I leader di questa fatta sarebbe meglio evitarli, ma è frequente il caso, specie nella storia d’Italia, che siano proprio loro i preferiti. Sanno sedurre e noi siamo un popolo che ama esser sedotto. Talvolta ne ricava anche qualche vantaggio personale perché ci sono molti furbi tra noi. Molti furbi e poco intelligenti nel senso dell’ intelligere .
Renzi una dose di narcisismo ce l’ha. Anche Grillo. Berlusconi non ne parliamo. Renzi però ha anche un innato senso della politica, cioè una visione del bene comune. Se quella prevale, Narciso viene richiuso da qualche parte e fa meno danni. Ogni tanto emerge, ma questo è normale ed è anche utile entro certi limiti. Se tutti riuscissimo ad anteporre il bene comune all’amore verso noi stessi che peraltro è legittimo, il mondo andrebbe di colpo assai meglio. Purtroppo non è così e siamo quasi tutti i giorni alla prova in questo difficilissimo confronto.
Anche Renzi e il suo partito sono alla prova. Direi su due punti. Il primo è l’essenza stessa del partito, nato come riformista ed erede della sinistra democratica. Renzi oltre che presidente del Consiglio è anche segretario del partito, ma ha bisogno per ovvie ragioni di delegare a qualcuno il compito di accudire il partito. Con quale obiettivo? Che non sia – come invece si sta profilando – un partito personale di Matteo Renzi. Forza Italia è un partito personale, i 5 Stelle sono un partito personale anche se qualche fremito per liberarsi dalla servitù al binomio Grillo-Casaleggio si avverte, ma è provocato da una sconfitta. Molto più difficile che ciò avvenga dopo una vittoria di inconsuete proporzioni. Eppure è necessario, altrimenti ci sarà un mutamento antropologico e non più una sinistra democratica.
Ho letto ieri sulla Stampa un’intervista che Renzi ha dato ad un gruppo di giornalisti. Ha detto varie cose di comune buonsenso già note al pubblico italiano, ma ne ha detta una che mi ha colpito: «Vorrei lasciare a mia figlia che sarà maggiorenne tra dieci anni un paese tranquillo e felice». Tra dieci anni? Due legislature? Ha ragione di augurarselo, Renzi, se avrà a sostenerlo un partito che lo giudichi per quel che fa o non fa, se lo fa bene o lo fa male; lo premi se il giudizio è positivo e lo sostituisca se è negativo.
Quindi deve delegare a qualcuno il compito di restituire il partito a se stesso. Di questo qualcuno si deve poter fidare, ma non può essere qualcuno dei suoi pulcini di antica o di recente covata. Deve fidarsi della sua onestà politica e intellettuale purché non sia della covata, altrimenti sarebbe del tutto inutile.
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L’altra questione, di cui ho già più volte parlato, è la riforma del Senato. Ne riparlo dopo aver letto i contributi al seminario cui furono invitati dallo stesso Renzi: Elena Cattaneo, senatrice a vita, Gustavo Zagrebelsky e Alessandro Pace. Ho letto anche nel frattempo la legge che istituì il Bundesrat che è il Senato dei Lander della Germania e quella che rimodernò da cima a fondo la Camera dei Lords, varata nel 1999 da Tony Blair allora premier del Regno Unito.
Ne ho tratto le seguenti conclusioni. Il Senato delle autonomie voluto da Renzi con apposita legge costituzionale che dovrebbe andare tra pochi giorni in discussione all’attuale Senato è a mio avviso una riforma profondamente sbagliata. In Germania i Lander hanno una radice storica, sono di fatto gli antichi regni della Germania confederata: la Renania, la Westfalia, le città Anseatiche, la Sassonia, il Brandeburgo, la Baviera. I Lander hanno una storia secolare e spetta al Bundesrat controllarli e al tempo stesso rappresentarli.
In Italia questo problema è di tutt’altra forma. Le nostre Regioni sono istituzioni amministrative e la loro autonomia è amministrativa. I Comuni, quelli sì, hanno una storia e rivalità tuttora molto accese tra loro e più vicini sono più le rivalità aumentano.
Un Senato che si occupi di questi Enti locali, ne controlli l’efficienza e le modalità con cui operano e ne arbitri i conflitti tra loro e con lo Stato e adempia soltanto a questa funzione e a pochissime altre (la nomina di due giudici costituzionali e l’intervento al plenum che elegge il Capo dello Stato) equivale all’instaurazione di un potere legislativo monocamerale. Ciò comporterebbe una serie di riforme costituzionali, per ripristinare un equilibrio democratico, che non possono essere effettuate con l’articolo 138 della Costituzione. Richiederebbe, secondo me, una Assemblea costituente. Vi sembra possibile nei tempi attuali un fatto del genere? La Camera dei Lords è tutt’altra cosa. I Lords sono nominati a vita dalla Corona su proposta del premier. Non ha molti poteri. Anzi, quasi nessuno. La Camera dei Comuni le trasmette le leggi affinché le valuti, le approvi, le modifichi o le respinga. Di solito le approva. Se le modifica, di solito i Comuni accettano. Se le respinge, i Comuni le mantengono in vita e l’approvano con votazione definitiva. Ma la Camera dei Lords emette pareri su qualunque argomento che ritenga importante ed affronti problemi delicati e attuali sui quali governo e Comuni dovrebbero intervenire. I Lords sono nominati perché rappresentano delle vere e proprie “eccellenze” nei campi della cultura, medicina, scienza, tecnologia, musica, arte, urbanistica. Insomma. la società civile al suo massimo livello. I suoi pareri sono molto ascoltati e assai spesso Governi, Comuni e organizzazioni private intervengono come i Lords hanno auspicato. Questo tipo di Camera alta va considerata con molta attenzione. Sarebbe nominata nel caso nostro dal Capo dello Stato e basata su rose di nomi proposte da Accademie, Università, parti sociali variamente scelte e indicate da una legge di riforma dell’attuale Senato della Repubblica che comunque dovrebbe continuare a chiamarsi così. Insomma, e per concludere, o si abolisce il Senato e si crea un organo che si occupi degli Enti locali, o si riforma la Camera alta lasciando che alta rimanga, partecipe delle funzioni del potere legislativo salvo quello di dare la fiducia al governo e di votare la legge di bilancio.
Vedremo Renzi alla prova, ma fretta non c’è perché per parecchi mesi avrà molto da fare in Italia e in Europa e lui lo sa. Deve puntare sul lavoro e la creazione di nuova occupazione, e deve puntare su un’Europa che consenta maggiore flessibilità finanziaria ai paesi che ne hanno bisogno e in prospettiva divenga uno Stato federale.
Per ora il Senato se lo tenga com’è e si limiti a togliergli il potere di fiducia al governo e basta così.
Ora il premier è alla prova Il segretario deve affidare a qualcuno il partito, qualcuno di cui si fidi purché non sia della sua covata
SPERAVO che Renzi vincesse le elezioni europee ed anche le amministrative abbinate ad esse in due Regioni e in migliaia di Comuni sparsi in tutta Italia. Lo speravo e l’ho scritto nelle ultime due domeniche suscitando una certa sorpresa in molti miei amici e lettori che conoscevano la mia diffidenza nei suoi confronti. Ho spiegato le ragioni di quella scelta: il pericolo per la democrazia italiana e per l’Europa era Grillo e Renzi era il solo che potesse batterlo; i sondaggi li davano testa a testa e i più ottimisti tra noi avrebbero sottoscritto a due mani una sua vittoria anche con quattro o cinque punti di vantaggio, ma nessuno, neanche lui, credeva che lo scarto sarebbe stato di venti punti, esattamente il doppio. Impensabile: il Pd al 41 per cento dei votanti, il più forte partito europeo eletto col sistema proporzionale senza un premio di maggioranza che rafforzasse il vincitore.
Sono stato e sono contento. A parte la Democrazia cristiana di De Gasperi e di Fanfani, nessuno era arrivato a quel livello. Se guardiamo alle cifre assolute anziché alle percentuali, il Pd alla sua prima uscita elettorale guidato da Veltroni aveva avuto anche più voti di domenica scorsa: con il 34 per cento aveva incassato 12 milioni di voti, Renzi ne ha avuti 11 milioni. Ma Berlusconi ne prese allora molti di più. Queste comunque sono le cifre e bisogna rifletterci sopra studiando i flussi che hanno prodotto questo risultato.
Dunque: tutti i partiti hanno perso voti sia in rapporto agli elettori con diritto di voto sia agli elettori andati alle urne, facendo il paragone con le politiche dello scorso febbraio.


La Stampa 1.6.14
Ma le riforme sono ancora troppo timide

di Luca Ricolfi

I primi 100 giorni sono passati, ma la luna di miele del governo con l’elettorato non sembra affatto esaurita. Lo certificano l’ampiezza del successo del Pd alle Europee e la netta inversione di tendenza in alcuni indicatori della situazione del Paese. Fra gli ultimi 100 giorni del governo Letta e i primi 100 giorni del governo Renzi sono sensibilmente migliorate le aspettative dei consumatori.
Ma anche le condizioni economiche delle famiglie, con una diminuzione delle famiglie che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese e un aumento di quelle che riescono a risparmiare (dati e grafici alle pag. 2 e 3). 

Una parte di questo miglioramento del clima generale del Paese è sicuramente una conseguenza del lento risveglio dell’economia europea, dopo ben 7 anni di crisi. Ma una parte, altrettanto sicuramente, è il risultato della campagna di ottimismo scatenata dal premier, una campagna di segno opposto rispetto a quelle dei suoi predecessori. Con Berlusconi l’ottimismo era un modo di mascherare la gravità della crisi, con Monti l’ottimismo era precluso dalla conclamata drammaticità della situazione finanziaria dell’Italia, con Letta l’ottimismo appariva come un atteggiamento di maniera, in quanto contraddetto dall’esasperante lentezza e inconcludenza del governo delle larghe intese.
Con Renzi no, un prudente ottimismo è penetrato nelle menti dei cittadini, rincuorati dal mero fatto che, dopo anni di sacrifici e di rinvii, qualcosa finalmente sembri muoversi. Questa sensazione è indubbiamente alimentata dalla campagna di autopromozione permanente scatenata dal governo e dai suoi ministri, ma è anche il frutto di due elementi reali.

Il primo è che Renzi ha sdoganato, a sinistra, temi che fino a pochi mesi fa erano tabù: il ruolo conservatore del sindacato, gli eccessi della magistratura, l’intangibilità della Costituzione, il primato morale e culturale dei «professoroni», i rapporti con Berlusconi e il berlusconismo. Questi possono sembrare gesti puramente simbolici, ma sono molto di più, perché dilatano enormemente lo spettro delle alternative politicamente praticabili, rendendo possibili riforme che altrimenti non avrebbero alcuna chance di essere attuate.
Il secondo elemento che trasmette l’impressione di movimento è che, nonostante abbia già ampiamente tradito il calendario delle riforme, Renzi due cose incisive le ha effettivamente fatte: gli 80 euro in busta paga e il decreto Poletti sul mercato del lavoro. La prima è percepita come la mossa «di sinistra» di Renzi, perché regala un po’ di ossigeno ai lavoratori dipendenti, ovvero alla base tradizionale della sinistra, che negli ultimi anni si era sempre più allontanata dalla casa madre. La seconda è percepita come la mossa «di destra» di Renzi, perché concede un po’ più di libertà di assumere e licenziare alle imprese, quasi a compensazione dell’altra mossa. 

Personalmente penso l’esatto contrario, ovvero che la vera mossa di sinistra di Renzi non sia quella degli 80 euro, ma sia semmai il decreto Poletti. Naturalmente che cosa sia di sinistra e che cosa sia di destra è questione di punti di vista e tuttavia, se stiamo alla classica definizione di Bobbio (è di sinistra chi combatte contro le diseguaglianze) pare difficile non rendersi conto che gli 80 euro rischiano di aumentare la diseguaglianza mentre il decreto Poletti potrebbe ridurla. Le risorse stanziate per il bonus di 80 euro, infatti, vanno quasi interamente a chi un lavoro dipendente già ce l’ha, mentre escludono sia i lavoratori dipendenti che guadagnano troppo poco per pagare le tasse (i cosiddetti incapienti), sia i lavoratori autonomi (drammaticamente colpiti dalla crisi), sia le donne e i giovani esclusi dal mercato del lavoro, tutte categorie mediamente ancora più deboli dei lavoratori dipendenti beneficati dal bonus. Il decreto Poletti, invece, specie nella sua versione originaria (poi peggiorata dal Parlamento), era concepito prevalentemente a beneficio di tali categorie, e in questo senso era più «di sinistra» del bonus.

Ma torniamo al bilancio dei primi 100 giorni. Come dobbiamo giudicare questo inizio, e che cosa possiamo aspettarci per il prossimo futuro?
Molto dipende dal termine di paragone. Se il confronto è con l’immobilismo di Berlusconi, con la timidezza di Monti, con la lentezza di Letta, il bilancio è senz’altro positivo. Se il confronto è con quel che si dovrebbe fare per mettere in sicurezza l’Italia il bilancio non è entusiasmante, specie sul versante di conti pubblici e delle riforme economico-sociali più importanti (mercato del lavoro e tassazione delle imprese).
Il Jobs Act, dopo una pioggia di annunci di scelte imminenti, è stato scientemente parcheggiato nel binario lungo dei disegni di legge, e questo nonostante almeno una parte di esso (il codice semplificato del lavoro) fosse perfettamente pronta, e quindi varabile immediatamente.

Quanto alla promessa di pagare «entro luglio» i 68 miliardi di debiti residui della Pubblica amministrazione verso le imprese, essa non sarà rispettata, né prima delle vacanze estive, né entro il 21 settembre (secondo la scommessa di Renzi con Bruno Vespa); il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Graziano Del Rio ha già mestamente ammesso che si andrà al 2015.
Ma il vero motivo di preoccupazione viene dall’andamento dei conti pubblici. Dico questo non solo perché il rapporto debito-Pil aumenterà anche quest’anno, o perché il pareggio di bilancio è stato rimandato di un anno, ma per una ragione più fondamentale, anche se poco visibile: contrariamente a quanto ci viene raccontato ogni giorno da quasi tutti i mezzi di comunicazione di massa, lo spread non sta andando affatto bene. Quella di un miglioramento dello spread è un’illusione mediatico-contabile, dovuta al fatto che il confronto viene effettuato con la Germania, e non con gli altri Pigs, ossia Spagna, Portogallo e Grecia.

Eppure è quello il confronto che conta. Questi sono tempi di calo generalizzato dei tassi di interesse, e in tutti i Paesi dell’euro gli spread con la Germania stanno diminuendo. Quel che dobbiamo valutare, dunque, non è tanto come si sono mossi i tassi di interesse dell’Italia rispetto alla Germania, ma come essi si stanno muovendo rispetto a quelli degli altri tre Pigs (l’Irlanda è tornata da tempo nel gruppo dei Paesi virtuosi). Ebbene, se effettuiamo questo confronto, la situazione appare assai meno rassicurante. Tra gli ultimi 100 giorni di Letta e i primi 100 giorni di Renzi i tassi di interesse italiani sono diminuiti, in Italia, meno che in Grecia, in Spagna e in Portogallo. E questo, presumibilmente, perché i mercati ritengono che le riforme, in Italia, procedono meno velocemente e incisivamente che in Grecia, in Spagna, in Portogallo. Questo è un grave indizio di vulnerabilità. Esso segnala che, ove ci fosse una nuova crisi dell’eurozona, noi l’affronteremmo in una posizione relativa peggiore che in passato, perché i mercati percepiscono le nostre riforme come più timide di quelle degli altri.
Insomma, caro Renzi, non basta sentirsi rock in Italia, occorre anche non apparire lenti in Europa.

Corriere 1.6.14
Le chance del premier in Europa
Poche illusioni piedi per terra
di Lucrezia Reichlin

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Corriere 1.6.14
L’intervista

Camusso e il successo del Pd alle urne: «Gli 80 euro hanno contato molto»
Il segretario Cgil: ora partito unico della sinistra con riferimento al lavoro
Ma il sindacato ha ottenuto aumenti anche maggiori, pubblico impiego escluso
di Aldo Cazzullo

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La Stampa 1.6.14
Padoan: “Ridurre l’età pensionabile non è efficace”
Il ministro: “Il problema dell’Italia è la produttività”
di Teodoro Chiarelli


A un certo punto fa sobbalzare l’affollata platea del Teatro Sociale di Trento accorsa ad ascoltare il nuovo ministro dell’Economia nell’ambito del Festival dedicato proprio all’Economia. «Non sono a favore di una diminuzione dell’età pensionabile, ma di un graduale aumento - scandisce Pier Carlo Padoan -. Mi chiedo cosa succederà in Germania dove sono andati nella direzione opposta». Apriti cielo. Rilanciata dalle agenzie, la battuta mette in subbuglio centrali sindacali, sedi di partito e organi di informazione. Si riparte con le pensioni nel solco di Elsa Fornero? L’equivoco, se di equivoco si tratta, non dura molto. Lo stesso Padoan, messo sull’avviso dai suoi collaboratori, appena termina il dibattito coordinato da Tito Boeri e Tonia Mastrobuoni, si affretta a precisare. «No, no, per carità. Non ho detto che il governo stia pensando ad alzare l’età pensionabile - spiega -. L’età pensionabile è già indicizzata alle aspettative di vita. Non sono d’accordo a interventi per abbassare l’età pensionabile che stanno facendo alcuni Paesi. Come la Germania, appunto».
Rimediato all’incidente mediatico, il ministro appare a suo agio sul palco, rivelando insospettate doti di humour e non disdegnando di dialogare a suon di battute con il pubblico del Festival. Così a una signora che gli chiede della disoccupazione, risponde soave: «Una soluzione per il rilancio dell’occupazione? Chiedetela domani a Renzi, sicuramente ce l’ha...». Poi la spending review: «Voglio rassicurare tutti: il commissario Cottarelli è vivo e sta bene».
Padoan chiede all’Unione europea di premiare i Paesi che si dimostrano seri e sono in grado di implementare le riforme strutturali. La Ue, però, passate le elezioni deve cambiare marcia e rimettere al centro dell’agenda europea crescita e occupazione. Bisogna trovare le soluzioni per rilanciare gli investimenti. Il ministro, comunque, rassicura Bruxelles e mette le mani avanti: «Vogliamo essere seri, non svicoliamo». Il fatto è, aggiunge, che il vero dramma dell’Italia è il calo della produttività. Ma non solo. «L’unica via per combattere il debito pubblico è migliorare la crescita - insiste il ministro dell’Economia -. Il debito scende se l’economia reale cresce. Se non c’è crescita, gli spostamenti sono minimi o nulli». E prosegue: «Mi basta una crescita reale dell’1,8% del Pil, ma non mi illudo. I benefici delle riforme strutturali crescono con il passare del tempo. Un pacchetto di riforme ha impatto maggiore della somma dei suoi componenti. La riforma del lavoro si può fare, ma se non c’è una riforma della Pubblica amministrazione, allora non serve a niente». Sul fronte tasse, commentando le stime di Bankitalia sulla Tasi rispetto al 2013, quando però la tassa era stata abolita, Padoan getta acqua sul fuoco. «L’aumento era atteso, è solo apparentemente gigantesco. L’aggiustamento era già previsto e starà ai Comuni stabilire quale aliquota applicare».
In prima fila ad ascoltare il ministro ci sono il numero uno di Vodafone, Vittorio Colao, e l’amministratore delegato di Fiat Chrysler, Sergio Marchionne, che oggi assisterà all’intervento a Trento di Matteo Renzi e avrà il primo incontro diretto con lui da quando è diventato premier. Fra i due i rapporti sono stati altalenanti, ma recentemente l’ad del Lingotto ha manifestato nei confronti del presidente del Consiglio «totale sostegno», elogiandone lo «stile nuovo e dirompente» e invitandolo «ad andare avanti».

La Stampa 1.6.14
Il triste cimitero dei partiti della seconda Repubblica
Non cambiano i leader ma i nomi

di Mattia Feltri

Gli ultimi caduti sono di pochi giorni fa: l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro, i Verdi nella versione Green Italia, Scelta civica, Fare per fermare il declino, il Centro democratico di Bruno Tabacci, questi ultimi tre federati in un unico simbolo- Scelta europea - buono a raccogliere un indivisibile 0.72 per cento, 192 mila voti. I partiti suddetti negheranno di appartenere alla mesta categoria, prometteranno vigorosi ritorni alla salute e pronti riscatti, che naturalmente auguriamo loro, e però la tendenza alla moria di questa Seconda repubblica sta assumendo dimensioni drammatiche: dalle elezioni politiche del 1994 a quelle europee della scorsa domenica è nato un numero di partiti che ha abbondantemente superato il centinaio, e quasi tutti si sono dissolti fra un giro alle urne, una spericolata alleanza, un piccolo cambio di brezza nei gusti del popolo volubile. Per capire che assurdo campo di battaglia sia stato il ventennio, sarebbe sufficiente andare a rivedersi la composizione del primo Parlamento composto dopo l’introduzione della legge elettorale maggioritaria, quello del primo governo Berlusconi. C’era l’alleanza dei progressisti composta, in ordine alfabetico, da Alleanza democratica (defunta), Cristiano sociali (defunti), Federazione dei verdi (si veda sopra), la Rete (defunta), Rifondazione comunista (dispersa), Pds (defunto), Psi (defunto, poi riesumato in vari tentativi), Rinascita socialista (mai rinata, defunta).

Poi c’erano Forza Italia (defunta e riesumata), il Partito popolare (defunto), Alleanza nazionale (defunta e ora riesumata dai F.lli d’Italia), il Centro cristiano democratico di Pierferdinando Casini e Clemente Mastella (defunto), il Patto Segni (defunto), i Comunisti unitari (defunti). E siccome non pareva abbastanza, si inaugurò quella tendenza a mettere in piedi minigruppi in corso di legislatura, fra cui si ricordano uno Scudo crociato, una Lega italiana federalista, una Sinistra democratica, tutta roba evaporata nella distrazione generale.
L’unico partito veramente sopravvissuto a quella breve legislatura e ancora in forze, dopo malattie, guarigioni e ricadute, è la Lega Nord. Ci sarebbero anche i radicali, allora presenti con la Lista Pannella, e oggi fuori dalla competizioni elettorale per protesta contro il regime e, si sospetta, per scarsa competitività. Quella legislatura inaugurò una politica diversa, molto più individuale, il che sarebbe stato anche al passo coi tempi se l’affermazione di sé fosse coincisa con quella del paese.

E infatti tutti sanno che la Seconda repubblica è stato il tempo in cui i partiti non cambiavano leader, ma i leader cambiavano partito, o almeno gli cambiavano il nome. Uno come Casini, per esempio, ha comandato il Ccd, l’Udc 1 e l’Udc 2. Del Ccd abbiamo detto, l’Udc 1 in teoria si doveva scrivere UDC, stava per Unione dei democratici cristiani e di centro e unificava, appunto, il Ccd, il Cdu di Rocco Buttiglione e Democrazia europea di Sergio D’Antoni. Tutta roba seppellita. L’Udc 2 si scrive UdC e tiene assieme il vecchio UDC, la Rosa per l’Italia di Savino Pezzotta e i Popolari-Margherita di Ciriaco De Mita. Un vorticare da emicrania, ma non è che Casini abbia l’esclusiva di questi andirivieni: Gianfranco Fini seppellì il Msi per An, seppellì An per il Pdl, seppellì il Pdl per Futuro e libertà e alla fine ci si dovette mettere una pietra sopra.

Ci sono stati anche partiti gloriosi, o almeno corposi, durati una sola stagione, come i Ds e la Margherita, il cui fondatore, Francesco Rutelli, la sciolse nel Partito democratico da cui poi uscì lanciando Api (Alleanza per l’Italia), ora dispersa in qualche sanatorio parapolitico. O di rilevanti, come l’Udr di Francesco Cossiga, messo insieme e poi gettato per sostenere Massimo D’Alema a palazzo Chigi. E ce ne sono stati di trascurabili, emersi e sommersi senza lasciare segno, roba come gli Ecologisti democratici o il Movimento repubblicani europei, come Fareitalia per la costituente popolare o Popoli sovrani d’Europa, e sono partiti, questi, transitati in Parlamento magari per pochi mesi: se tenessimo conto della lista Forza Roma o di quella Bunga Bunga o dei Poeti d’azione - tutti simboli registrati al Viminale - entreremmo in dimensioni che non siamo più in grado di gestire. Già la legislatura 2008-2013, quella della passione berlusconiana e dell’arrivo di Mario Monti, vide soltanto a Montecitorio l’alternarsi di trentatré partiti, talvolta costituiti da un solo deputato. Fu la legislatura dei Responsabili di Domenico Scilipoti e Antonio Razzi, ed è un nome che forse suona familiare. Ma chi ricorda Iniziativa liberale o Lega Sud Ausonia? Chi mai dedicherà loro un pensiero? E da quale pathos potremo mai essere mossi, abituati come siamo a una strage rituale e spesso pianificata, davanti agli ultimi caduti di questi giorni? 

Corriere 1.6.14
Nei partiti cresce la tensione per le casse vuote
Allarme da FI al Pd fino alla Lega, ma entro il 2017 tutto il finanziamento pubblico sarà azzerato
di Sergio Rizzo


ROMA — Che tirasse una brutta aria si sapeva da tempo. Se n’era accorto l’ex tesoriere del Pd Antonio Misiani, che annunciando di aver dovuto stringere la cinghia, un anno fa aveva fatto venire i brividi a qualcuno con una battuta alla Zanzara di Radio24 : «L’ultima cosa che farò è licenziare…». Già: l’ultima. Soprattutto se n’era accorto, eccome, il tesoriere del Popolo della Libertà (quando quel partito esisteva ancora), Rocco Crimi, che qualche mese prima aveva dovuto spedire una letteraccia agli eletti. Parlamentari e consiglieri regionali si erano impegnati a versare nelle casse del partito rispettivamente 800 e 500 euro al mese, ma molti di loro facevano il pesce in barile. Risultato, alla fine del 2011 c’erano 4,6 milioni di arretrati. Forse pensavano che qualcuno prima o poi avrebbe provveduto a tappare il buco. E chi, se non il capo, colui che i soldi li aveva sempre tirati fuori senza battere ciglio? Una valanga, come risulta dai bilanci di Forza Italia, che negli ultimi cinque anni prima di risorgere aveva accumulato perdite per 149 milioni e debiti per 61. Il tutto, coperto da una fideiussione personale di 174 milioni. Di chi? Ma del Cavaliere, ovvio. Le spese correvano senza freni, anche dopo. Tanto che Crimi, di fronte all’eventualità di rinunciare alla seconda tranche di finanziamento prevista per il 2012, per destinarla ai terremotati emiliani, veneti e lombardi, per poco non ebbe un mancamento. Sfido: molto prima di incassarli, quei soldi li aveva già tutti scontati in un istituto di credito. Addirittura nel 2009. E adesso, eravamo nel 2013, chi avrebbe tirato fuori i 20 milioni che sarebbero mancati all’appello per renderli alla banca?
Il bello è che allora i famigerati rimborsi elettorali che avevano ingozzato i partiti per tanti anni erano stati soltanto dimezzati. Ma ben presto sarebbe arrivata la pur discutibile (per certi aspetti) legge che invece li avrebbe azzerati del tutto entro il 2017. Nonostante questo le macchine dei partiti hanno continuato a bruciare risorse ben più rilevanti delle reali disponibilità. A sinistra come a destra. L’agenzia Adnkronos ha rivelato che «i debiti ereditati dalla gestione Bersani ammonterebbero a circa 9-10 milioni, a fronte del 7 previsti finora». Giovedì il consiglio federale della Lega Nord, gestione Matteo Salvini, ha preso atto che le casse del partito sono vuote: bei tempi, quando Francesco Belsito investiva i rimborsi elettorali in diamanti, lingotti d’oro e fondi offshore. Mentre Silvio Berlusconi avrebbe fatto sapere che da vent’anni a questa parte si è svenato fin troppo. Tommaso Labate ha raccontato su questo giornale che l’avventura politica sarebbe costata al Cavaliere qualcosa come 98 milioni: ben oltre metà della fideiussione da 174 milioni prestata alle banche. Ma se investire tutti quei soldi poteva forse essere giustificato dal suo punto di vista quando c’era in ballo Palazzo Chigi, ora le cose sono radicalmente cambiate. L’anziano leader, azzoppato dalla condanna per frode fiscale e sotto la spada di Damocle delle altre inchieste giudiziarie, guida ormai il terzo partito italiano, che alle Europee del 25 maggio ha raggranellato appena il 40 per cento dei voti conquistati dal Pdl alle vittoriose elezioni politiche del 2008. E a lui giocare in difesa non è mai piaciuto tanto. Aggiungiamo che i conti delle aziende di famiglia non sono più così brillanti come in passato e il quadro è completo. La situazione, insomma, potrebbe essere ancora più difficile di quanto non appaia: circolano persino voci di qualche difficoltà nel pagamento degli affitti per i locali occupati dal partito di Berlusconi a palazzo Grazioli.
La verità è che gli allarmi lanciati più volte dai tesorieri in questi ultimi due anni sono caduti quasi sempre nel vuoto. E quando si è deciso di tagliare, non si è tagliato abbastanza. Pochi mesi fa il Cavaliere ha inaugurato la nuova sede di Forza Italia nella centralissima piazza San Lorenzo in Lucina, a Roma, celebrata dal Giornale di famiglia con un articolo nel quale si descrivevano ambienti sfarzosi, come «quello che è stato rinominato il Salone degli Specchi, 150 metri quadrati di stucchi, lampadari di cristallo, soffitti affrescati o a cassettoni d’epoca…». Passi che il costo di quei locali prestigiosissimi della «Roma ladrona», per dirla con i più virili esponenti del partito di Roberto Calderoli, che da ministro della Semplificazione li occupava senza un lamento, sia di «appena» un milioncino l’anno, contro i 2,8 milioni della sede precedente in via dell’Umiltà. La domanda è se quella somma, oggi, è compatibile con la nuova realtà finanziaria. Interrogativo più che legittimo, se per pagare stucchi e lampadari di cristallo Denis Verdini propone una piccola tassa di 50 euro l’anno a carico di ciascun militante. Ed è una domanda da girare anche al Pd, che paga per la sede di via del Nazareno, subaffittata dalla Margherita ormai defunta dell’ex tesoriere Luigi Lusi, qualcosa come 1,3 milioni l’anno.
Il fatto è che il taglio dei finanziamenti pubblici non è stato preceduto, come invece doveva essere in tutti i partiti, da un serio piano di ridimensionamento degli esborsi cresciuti in modo abnorme negli anni della corsa all’oro. E non parliamo soltanto degli apparati, ma anche delle spese elettorali: che continuano a galoppare. Da un sistema politico che a distanza di 65 anni non è ancora stato in grado di dare applicazione all’articolo 49 della Costituzione, stabilendo i paletti entro cui i partiti possono e devono muoversi, è difficile però pretendere tanto. C’è solo da sperare che non finisca tutto in caciara, magari con qualche leggina ad hoc per salvare i bilanci in rosso. Un film, purtroppo, che abbiamo già visto.

il Fatto 1.6.14
Grillo ha deciso: Farage
Vuole lo xenofobo inglese e attacca gli ambientalisti. Cresce il dissenso interno
di Luca De Carolis


Dritto, senza fermarsi. Contro Monica Frassoni, la co-presidente dei Verdi europei che aveva aperto alla trattativa per Strasburgo. E addosso a Vauro, vignettista del Fatto, reo di aver ironizzato sul Farage elogiato come “spiritoso”. Una colpa che gli è valsa il titolo di “vignettista del giorno” sul blog del capo. Beppe Grillo corre verso l’accordo con Nigel Farage, il leader dell’Ukip. Nonostante il no di larga parte dei parlamentari. E a dispetto dei dubbi messi in fila dagli eletti a Bruxelles nell’incontro a Milano di venerdì con Grillo, Casaleggio e staff. “Parleremo anche con i Verdi, non è ancora stato deciso nulla” avevano assicurato ai 16 (uno era assente) neo eurodeputati. Ma al leader dell’M5s pare interessare solo l’intesa con Fa-rage, con cui confluirebbe nel gruppo dell’Efd (Europa della libertà e della democrazia) nell’Europarlamento. E allora lo difende senza sosta dalle accuse di xenobia e sessismo. Ieri sul suo blog il leader dei 5 Stelle ha postato un video: “Lo storico discorso” con cui nel novembre 2011 Farage “ha difeso la sovranità del popolo italiano”. Ossia tre minuti in cui il capo dell’Ukip si scagliava contro i “governi fantoccio di Italia e Grecia” e “il piano di dominio germanico”.
DAL BLOG è ormai campagna virale, a favore di Farage. E pazienza se venerdì dai Verdi era arrivato un segnale: “Coi 5 Stelle finora niente contatti, ma se vogliono incontrarci una nostra delegazione ci sarà” aveva detto la Frassoni al Fatto.it  . Ieri mattina dal portale del capo è arrivato un post che pare una chiusura a doppia mandata: “5Stellestatebuoni: così parla la Frassoni”. Di seguito un video da Repubblica.it   in cui l’esponente dei Verdi definiva Grillo “autocratico e senza soluzioni”. E poi: “Da lui non arriva una proposta per l’Europa ma un delirio”. A stretto giro di posta, la replica dei portavoce dei Verdi italiani, Angelo Bonelli e Luana Zanella: “Siamo dispiaciuti dall’incomprensibile attacco di Grillo. Ma ribadiamo che esiste la disponibilità a incontrare il Movimento Cinque Stelle se sarà espressa questa volontà da parte loro”. Anche se il post di Grillo guasta il lavoro diplomatico fatto con i Verdi tedeschi, fino a qualche giorno fa nettamente contrari ad accordi con Grillo. Un incontro tra M5s e il gruppo ambientalista però appare ancora possibile. Lo stesso Grillo potrebbe vedersi con uno dei leader de-stranieri del gruppo. Ma l’intesa con l’Ukip è già a uno stadio avanzato. I contatti vanno avanti da un mese, e prima di quello tra Grillo e Farage a Strasburgo ci sarebbero stati almeno due incontri tra rispettivi emissari a Londra, con tanto di discussioni sui ruoli nel gruppo. In queste ore il Movimento è stato contattato da altri gruppi europei. Raccontano che un emissario ieri fosse all’estero, per valutare proposte. Ma l’ipotesi Ukip è prioritaria. Luigi Di Maio concorda: “Mi appare la soluzione più logica. Sarebbe come una convivenza in una casa: si sta assieme, ma con la possibilità di scegliere liberamente sui singoli provvedimenti. Farage, che sarà il futuro primo ministro inglese,è un leader lungimirante che ci garantisce libertà di voto”. I vantaggi della loose action. E chi lo accusa di xenobia? “Non dobbiamo ragionare per steccati ideologici”. Gran parte dei parlamentari però rimane contraria. Ieri le chat interne friggevano di malumore. C’è chi ha lanciato l’idea di telefonare a Casaleggio dall’assemblea congiunta dei parlamentari, in settimana, per convincerlo. In diversi vorrebbero un gruppo autonomo a Strasburgo, da rafforzare con parlamentari “sciolti” (complicato). Giovedì una delegazione incontrerà a Milano Casaleggio (Grillo dovrebbe collegarsi via skype), con la speranza di fargli cambiare la rotta. Perplesso anche lo storico Aldo Giannuli, vicinissimo all’M5s: “L’Ukip di Farange non è fascista come Alba dorata, ma è un ultranazionalista, xenofobo, nuclearista e reazionario”. La parola definitiva la dirà il web, perché la proposta di intesa (da regolamento, fatta da Grillo) va votata dagli iscritti. “Diranno di no, non può passare,” si dice sicuro un senatore. Mentre un ortodosso sibila: “Qui tira aria di fronda vera”.

il Fatto 1.6.14
L’arrocco dei meet up “Senza Beppe è la fine”
In attesa del voto on line, da Torino ad Agrigento la base M5S accusa i giornali e difende il leader: “da soli precipitiamo al 6%. Voi dite falsità”


La base grillina, i meet up e gli attivisti impegnati in mille battaglie, piccole e grandi da nord a sud, si arroccano nella fortezza del capo: “Il Movimento non può ancora camminare senza le gambe di Grillo”. Nascondono qualche imbarazzo su Farage che risolvono a volte col solito “non dobbiamo avere pregiudizi ideologici, non siamo né di destra né di sinistra”. Anche se non manca chi è “profondamente contrario a una simile alleanza”.
Livorno
”Non è la nostra fine”
Filippo Nogarin, 44 anni, è candidato sindaco a Livorno: il ballottaggio è l’8 giugno, parte da un 19 per cento contro il 40 di Marco Ruggeri del Pd. Ma ha già incassato l’appoggio della lista di sinistra Buongiorno Livorno (16% al primo turno). “Su Farage sono state fatte speculazioni e strumentalizzazioni. Si è cercato di dare al Movimento 5 stelle una connotazione ideologica, e di farlo passare come una realtà che strizza l’occhio alla destra razzista. Ma non è vero. Alle Europee il M5s ha perso alcuni punti, ma non è arretrato così tanto da poter parlare di una sua fine”.
Lazio
”Il web deciderà bene”
Claudiafederica Petrella, 31 anni, attrice teatrale e attivista: “È la prima volta che sentiamo parlare di Farage. Come primo impatto sono rimasta stranita. Vengo dalla sinistra. La decisione finale spetterà alla rete. Mi lasciano perplessi, per esempio, le posizioni di Ukip su nucleare e politiche ambientali, ma Farage ha cacciato personaggi importanti del partito che avevano fatto dichiarazioni razziste. E all’interno di Ukip ci sono anche transessuali e immigrati”.
Enrico Stefàno, 26 anni, consigliere comunale in Campidoglio: “Alcuni tratti della figura di Farage mi spaventano un po’, sull’alleanza deve essere consultata la base. Grillo e Casaleggio hanno sempre detto che avrebbero allentato la loro presenza, prima o poi, ma non credo Grillo abbia sbagliato campagna elettorale. Serve ancora al M5s: è un grande comunicatore”.
Emiliano Bombardieri, 31 anni, attivista ad Albano Laziale: “Sono profondamente contrario a un’alleanza con Ukip, ma l’ultima parola deve spettare comunque alla rete. Mi sembra assurdo che si sia andati al voto senza sapere con chi ci si sarebbe alleati dopo”.
Sicilia
”Lui è il nostro megafono”
Marianna Lombardo, 24 anni, attivista del meet up di Alcamo (Trapani), il Comune più grillino d’Italia alle politiche 2013 con il 48 per cento: “A livello di politica economica ci sono parecchie affinità tra il Movimento e l’Ukip, ma è anche vero che su altri piani come il campo energetico, le nostre posizioni sono inconciliabili. Rispetto al 2013 la situazione è diversa: ha molto influito la non alleanza con Bersani per alcuni elettori. Comunque Grillo non deve defilarsi”.
Giuseppe Corso, 31 anni, consigliere comunale a Menfi (Agrigento): “Farage ha attaccato Borghezio per le frasi sulla Kyenge: non mi sembra il comportamento tipico di un razzista. Grillo è un valore aggiunto: ha detto che il giorno in cui avremo la maggioranza farà un passo indietro, fino ad allora sarà il nostro megafono”.
Emilia Romagna
”Noi né destra né sinistra”
Vittorio Borghi, 63 anni, consigliere comunale ad Anzola Emilia (Bologna): “Ho massima fiducia in Beppe Grillo, sono sicuro che sceglierà la strada più funzionale per mettere in pratica il nostro programma in Europa. Farage o no lascio a Grillo il compito di sondare tutte le strade, noi non dobbiamo avere pregiudizi ideologici, perché non siamo né di destra, né di sinistra”.
Piemonte
”È colpa dell’informazione”
Fabio Martina, 40 anni, torinese, candidato non eletto alle regionali, attivista dal 2009: “La gente non ci ha votato per colpa dell’informazione. Non si è parlato di quanto il movimento ha fatto bene in quest’anno in parlamento. Molte proposte sensate sono andate bene: come quella sulle slot machine, il fondo per le piccole/medie imprese. Abbiamo restituito e fatto risparmiare milioni di euro allo Stato. Ma non ne parla nessuno. Su Farage si legge tutto e il contrario di tutto”.
Campania
”Siamo in una fase critica”
Josi Gerardo Della Ragione, 27 anni, consigliere comunale di Bacoli (Napoli): “Il dato alle ultime elezioni è drammatico. Siamo in una fase critica. Ma se non ci fosse Grillo saremmo al 6-7%. Per me il tema non è Farage o Verdi, bisogna scegliere se stare contro il sistema o dentro, facendone parte”.
(a cura di Giuseppe Pipitone, Tommaso Rodano, Cosimo Caridi, Andrea Postiglione
e Giulia Zaccariello)

Repubblica 1.6.14
Per placare i militanti Grillo cerca il verde Bovè E ora traballa lo staff
Beppe difende l’Ukip ma vuol vedere anche il leader no global. Nel mirino la comunicazione alla Camera
di Tommaso Ciriaco


ROMA. Per Gianroberto Casaleggio si tratta solo di tempo sprecato. Fosse per il guru, la trattativa con i Verdi europei neanche vedrebbe la luce. Il caos interno ai Cinquestelle, però, impone di consumare tutti i passaggi necessari a evitare che la rete sancisca la clamorosa bocciatura dell’Ukip di Nigel Farage. E così gli ambasciatori pentastellati e ambientalisti sono al lavoro in queste ore per organizzare un faccia a faccia tra Beppe Grillo e il capo dei no global Josè Bovè, candidato verde alla Presidenza della commissione europea.
Se gli emissari riusciranno nell’impresa - e non è ancora detto, visto i caratteri focosi dei due protagonisti - faranno sedere allo stesso tavolo il comico genovese e l’ex sindacalista francese. Dalla Palestina a Porto Alegre - passando per un clamoroso blitz contro un McDonald’s - il leader contadino siede a Bruxelles dal 2009. Si sentirà presto con Beppe per fissare un appuntamento, ma di recente non ha risparmiato dure critiche al Movimento. I Verdi italiani, nel frattempo, ribadiscono la volontà di un colloquio con il Capo dei pentastellati. Continuano a pesare, però, le resistenze dell’ala ecologista tedesca. Senza contare che un’eventuale intesa con i grillini metterebbe in discussione equilibri e poltrone già suddivise fra le varie anime del gruppo verde.
La mossa dei due cofondatori, comunque, è soprattutto tattica. I vertici della Casaleggio associati lavorano da settimane al contestato patto con la destra euroscettica britannica. E non intendono arretrare. A far evaporare i residui dubbi, il doppio affondo dal blog del comico. Prima un endorsement di Farage, poi lo stralcio di un duro intervento della verde Monica Frassoni contro il Movimento. Come a dire, un matrimonio impossibile.
L’Ukip, insomma, resta l’unico interlocutore nel cuore di Grillo e Casaleggio. «Nigel Farage in un discorso al Parlamento Europeo - si legge nel post - ha accusato i burocrati Ue di avere rimpiazzato il governo greco con un governo marionetta e di avere sostituito in Italia Berlusconi con Monti. Ha terminato il suo discorso chiedendo cosa, in nome di Dio, avesse dato loro il diritto di farlo». Una chiara indicazione di voto, in vista del delicatissimo referendum interno che a cavallo del 10 giugno deciderà quale intesa siglarea Bruxelles. Uno spot per Farage, nonostante il Movimento si avvicini al momento della verità più diviso che mai. Non pochi parlamentari hanno espresso pubblicamente perplessità e dubbi. E parecchie decine fra deputati e senatori - pur tacendo - non mancano di ricordare nelle chat private il disagio per l’Ukip. Si tratta dell’area più sensibile alle tematiche di sinistra, a dir poco imbarazzata dal sodalizio con l’estrema destra britannica. I vertici grillini, comunque, vanno avanti come un treno e attaccano Vauro Senesi, proclamandolo vignettista del giorno sul blog di Beppe.
Come se non bastasse, non trova pace lo scontro interno ai gruppi di comunicazione. Anzi, ad interpretare gli umori del quartier generale pare che il report post elettorale della discordia - redatto dallo staff della Camera guidato da Nicola Biondo - abbia convinto Casaleggio a rimettere mano all’organigramma, senza escludere avvicendamenti traumatici e la promozione del responsabile della comunicazione televisiva Rocco Casalino. La battaglia interna allo staff, però, è così aspra che ogni scenario resta aperto.
L’ala dura, fiutata l’aria, cerca di serrare i ranghi. Si espone soprattutto Luigi Di Maio, definendo Farage «un uomo lungimirante rispetto a tanti altri». Il vicepresidente della Camera, insomma, promuove a pieni voti l’operazione Ukip: «Stiamo facendo un gruppo parlamentare per essere l'ago della bilancia del Parlamento europeo e ci criticano. Prima invece ci dicevano che non avremmo contato nulla in Europa». Per placare le truppe, si attende soprattutto la riunione congiunta di Camera e Senato. E qualcuno già lancia un’idea: «Telefoniamo in assemblea a Casaleggio per provare finalmente a cambiare le cose?».

Repubblica 1.6.14
Yves Meny
“Non più repellente ma perbene, attenzione al nuovo populismo”
intervista di Anais Ginori



PARIGI. «Il successo dei movimenti populisti ci insegna che la democrazia deve essere sempre perfezionata per evitare la disaggregazione e la morte». Il politologo Yves Meny è stato uno dei primi specialisti a lanciare l’allarme su nuovi estremismi e populismi in Europa. I risultati delle elezioni europee hanno confortano in parte le sue paure. «E’ la dimostrazione che non si può mai abbassare la guardia» spiega il presidente della Scuola Sant’Anna di Pisa.
Perché i nazionalismi sono tornati a crescere?
«Storicamente, abbiamo costruito un triangolo d’oro: Nazione, Stato, Democrazia. Il modello ha cominciato a incrinarsi quando le alternative peggiori, come il comunismo, sono sparite. La globalizzazione ha definitivamente distrutto il triangolo d’oro. Oggi, lo spazio economico europeo non corrisponde più allo spazio Stato-Nazione. Lo Stato rimane solo la cornice delle affiliazioni politiche e della solidarietà. Questo divario è all’origine della crisi odierna. Non abbiamo ancora una risposta a questo sistema di multi-level governance».
I nuovi estremismi di destra hanno una continuità storica con il Novecento?
«Tutti questi movimenti combinano vecchi schemi ideologici con tematiche nuove. Possono risvegliare ideologie dormienti grazie all’uso di vecchi schemi di interpretazione. Tipico è il riferimento antico di “comunità” e l’esclusione dei forestieri, che nel caso della Lega possono essere anche connazionali. Si aggiungono poi elementi di discontinuità e di rinnovo. Come spiegare altrimenti che il Front National sia il partito più “operaio” dello spettro politico francese?».
C’è chi parla di un nuovo nazional- socialismo. E’ d’accordo?
«È un’etichetta facile e conveniente perché evoca immagini orrende e, si spera, repellenti. Ma da un punto di vista storico è un abuso concettuale. La lotta contro le idee del Fn dev’essere fatta al presente e non agitando un fantasma del passato. Si presenta come un partito “per bene”, rispettoso della legalità, democratico. Possiamo non crederci, ma siamo ben lontano della strategia del fascismo o del nazismo. Per combattere un nemico, la prima regola fare una valutazione corretta dell’avversario».
Esiste il rischio di una deriva neofascista?
«Ci sono molti elementi neo-fascisti in Europa e spesso fuori delle organizzazioni politiche, come gli ultras del calcio. Fortunatamente, sono quasi dappertutto troppo deboli per costituire una minaccia seria. Ma dobbiamo essere coscienti del fatto che, come diceva Bertold Brecht, “il ventre della Bestia è ancora caldo” e potrebbe partorire sviluppi anti-democratici e inaccettabili. Non siamo nella situazione degli anni Trenta ma dobbiamo essere coscienti che la democrazia è una cosa fragile, mai compiuta, una speranza da realizzare piuttosto che un obbiettivo raggiunto».

il Fatto 1.6.14
Nessuno è perfetto
Scheletri anche nell’armadio verde
di Alessio Schiesari


C’è Bart De Wever, il nazionalista fiammingo che ritiene superflue le scuse per la shoah, un’ampia schiera di secessionisti (loro malgrado) eletti in Spagna e, in passato, c’è stata anche la Lega Nord. L’eurogruppo per cui alcuni nella base del Movimento 5 Stelle scalpitano è l’Eg-Efa (Verdi Europei - Alleanza Libera Europea). Il nome ridondante ed eccessivamente lungo è frutto della fusione di due famiglie politiche distinte: ecologisti e indipendentisti. Dal 2004 infatti l’Alleanza Libera Europea, il partito comunitario che racchiude tutte le minoranze d’Europa, ha costituito un gruppo unico con gli ecologisti . Da un lato quindi ci sono le forze dell’ecologismo tradizionale, con i Verdi tedeschi in prima fila. Con 11 deputati su 55, sono di gran lunga il primo azionista del gruppo. Sono convinti europeisti, antinuclearisti e hanno posizioni di apertura sull’immigrazione.
DALLE LORO battaglie Beppe Grillo ha attinto a piene mani per i suoi spettacoli anni ’90, e anche per la fondazione del M5s. Accanto a loro e ai loro partiti gemelli europei, c’è Alleanza, una strana accozzaglia di partiti regionalisti. E dentro ci si trova di tutto. Nei primi anni ’90, quindi precedentemente della fusione a freddo con il partito verde, la forza principale era la Lega Nord, che venne messa alla porta in seguito al patto elettorale con Alleanza nazionale. Oggi il partito numericamente più rappresentativo è Nuova Alleanza Fiamminga di De Wever, il trionfatore delle recenti elezioni belghe. Sul tema immigrazione, quello che Farage grida, i nazionalisti fiamminghi applicano in modo scientifico (tra cui le espulsioni dei cittadini comunitari, inclusi migliaia di italiani). Il loro leader è anche sindaco di Anversa. Nel 2007 ritirò le scuse poste dal suo predecessore per la generosa collaborazione che le autorità cittadine offrirono alle SS durante la seconda guerra mondiale nell’organizzazione della deportazione degli ebrei. Per De Wever il Belgio è stato solo una vittima, una convinzione radicata nonostante anche suo nonno abbia militato nelle file collaborazioniste.
NELL’ALLEANZA c’è anche il Partito per i Diritti Umani nella Lettonia Unita, espressione della minoranza russa nel Paese baltico. Alle elezioni del 2009 candidarono tra le loro file anche un’italiano: Giulietto Chiesa. Anche gli indipendentisti del Partito sardo d’azione e quelli di Liga veneta repubblica fanno parte di Alleanza, anche se nessuno dei loro rappresentanti ha conquistato seggi al Parlamento europeo. Nell’eurogruppo verde c’è anche il partito pirata svedese. In questo caso le cui analogie con il M5s, soprattutto quello degli esordi, sono davvero tante.

l’Unità 1.6.14
Legge elettorale, sindacato preventivo
di Andrea Giorigis


La Corte costituzionale, nel nostro ordinamento, può essere chiamata a pronunciarsi sulla legittimità delle leggi e degli atti aventi forza di legge (se si esclude l’ipotesi del ricorso da parte dello Stato nei confronti delle leggi regionali e delle Regioni nei confronti delle leggi statali) solo su richiesta di un giudice e in relazione a norme che stanno per essere applicate nel corso di un giudizio. Tale sistema di instaurazione (c.d. incidentale), essendo imperniato sulla necessaria rilevanza della questione, rende difficile sottoporre al sindacato della Corte le leggi che non trovano concreta e immediata applicazione di fronte a un giudice e, in particolare, le leggi che non possono da questi essere disapplicate: si tratta delle c.d. zone d’ombra (o zone franche) della giustizia costituzionale, sulle quali da tempo la dottrina e la giurisprudenza si interrogano nella ricerca di soluzioni processuali in grado di ridurne al minimo l’ambito di estensione.
Un tipico esempio di tali leggi (e di zona d’ombra) è da sempre stato individuato, dalla maggior parte degli studiosi, nelle leggi elettorali delle due Camere. La natura incidentale del giudizio di costituzionalità presuppone infatti - come si è ricordato - che il giudice a quo dopo l’eventuale sentenza di accoglimento possa fare uso di quest’ultima e in tal modo possa tutelare in concreto (attraverso una sua ulteriore e distinta decisione) il diritto rivendicato dai ricorrenti: poiché in relazione alle leggi elettorali è assai improbabile che si possa verificare tale eventualità o condizione (non potendo il giudice a quo in alcun modo “utilizzare” la declaratoria della Corte) si è tradizionalmente ritenuto che ogni questione di legittimità sollevata da un giudice nei confronti delle regole che disciplinano le elezioni politiche fosse destinata a essere dichiarata inammissibile, per difetto di rilevanza.
Dopo la sentenza n. 1 del 2014 simili argomenti hanno perso gran parte della loro forza. La Corte costituzionale, superando la nozione stessa di incidentalità come progressivamente definita dalla sua consolidata giurisprudenza, ha ritenuto ammissibile la questione sollevata dalla Corte di Cassazione nei confronti delle modifiche alla legislazione elettorale introdotte dalla legge n.270 del 2005 e ha dichiarato illegittime parti significative di tali modifiche.
L’esigenza costituzionale che sta all’origine della recente sentenza della Corte e della svolta processuale che in essa si è compiuta, l’esigenza cioè di coprire una “zona franca” del giudizio di costituzionalità ed evitare che una materia così importante com’è quella elettorale possa essere sottratta a verifica e a tutela giurisdizionale quando si teme che confligga con fondamentali principi costituzionali, non è stata però del tutto soddisfatta: perché sulle leggi elettorali un giudizio di costituzionalità successivo, dopo che la legge è entrata in vigore ed è stata applicata, è comunque un giudizio insufficiente a garantire la piena effettività dei principi costituzionali. L’eventuale decisione di annullamento (di una parte) della disciplina elettorale – come ha infatti sottolineato la Consulta – “produce i suoi effetti esclusivamente in occasione di una nuova (e successiva) consultazione elettorale (...). Le elezioni che si sono svolte in applicazione anche delle norme elettorali dichiarate costituzionalmente illegittime costituiscono (…) un fatto concluso” che, in ossequio al principio fondamentale della continuità dello Stato, non può in alcun modo essere rimosso.
Al fine di porre rimedio a simile lacuna del vigente sistema di giustizia costituzionale, e garantire che anche le regole che disciplinano le elezioni politiche e strutturano l’assetto democratico rappresentativo della Repubblica possano essere sindacate prima che abbiano dispiegato ogni loro effetto, i deputati del Partito democratico, membri della Commissione affari costituzionali, hanno presentato una proposta di legge costituzionale (A.C.2378) che prevede l’introduzione di un sindacato preventivo di legittimità nei confronti delle leggi elettorali delle due Camere. La proposta è stata altresì presentata al Senato, (anche) in un emendamento del relatore (Anna Finocchiaro) al disegno di legge costituzionale (S.1429) di riforma del bicameralismo paritario e del Titolo V della Costituzione.
Se la proposta sarà accolta, le leggi elettorali, prima di essere promulgate, potranno essere inviate alla Corte costituzionale su richiesta di una minoranza di deputati o di senatori (pari a un decimo dei componenti di ciascuna Camera). Gli eventuali dubbi sulla legittimità di ogni nuova disciplina elettorale potranno così essere fugati prima che quest’ultima venga applicata: il che, oltre a estendere l’effettività dei principi costituzionali (pur senza dilatare in maniera eccessiva il ruolo della Corte, come avverrebbe se si introducesse una generale sindacato preventivo), non potrà che contribuire a rafforzare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche e rappresentative.
Onde evitare che il ricorso possa determinare un irragionevole rinvio dell’entrata in vigore delle leggi elettorali, la proposta prevede altresì – anche sull’esempio di quanto stabilito in altri ordinamenti, come quello francese nel quale è disciplinato un analogo sindacato preventivo – che la Corte costituzionale si debba pronunciare entro il termine di trenta giorni.

Repubblica 1.6.14
Expo, il rapporto shock “Appalti senza controlli per mezzo miliardo”
La denuncia dell’Authority dei contratti a Cantone “Deroghe a ottanta regole, così la spesa è lievitata”
di Giuliano Foschini e Fabioi Tonacci


IL CASO MANTOVANI
Su un caso, la realizzazione della “piastra del sito espositivo”, l’Authority si sofferma un po’ di più. È l’appalto più consistente, la base d’asta è fissata a 272 milioni di euro. Con un ribasso addirittura del 41 per cento e un offerta di 165 milioni lo ottiene, il 14 settembre di due anni fa, una cordata guidata dal colosso delle costruzioni Mantovani, il cui presidente Piergiorgio Baita sarà arrestato il febbraio successivo nell’ambito di un’inchiesta sul Mose di Venezia.
«Con lo stesso aggiudicatario - rileva il garante - Expo ha stipulato però altri due contratti, rispettivamente di 34 milioni e 6 milioni, in opere complementari alla piastra ». Un’osservazione che rimane tale, che non arriva ad assumere le forme di una qualche accusa specifica contro la cordata di imprese vincitrici, ma che per Raffaele Cantone (che martedì si incontrerà con Santoro) potrebbe valere un approfondimento.
LA GARA PER LA PEDEMONTANA
Quando l’Authority ha potuto ficcare il naso, sono stati guai. «Solo per la costruzione della Pedemontana - spiegano - non siamo stati esautorati dal nostro ruolo di vigilanza ». A marzo del 2013, dopo uno screening dello stato di avanzamento, oltre a segnalare gravi ritardi il Garante ha individuato un incremento del costo complessivo dell’opera complementare all’Expo di 250 milioni di euro.
Non sarebbe un caso. Nella relazione ispettiva si legge che l’appalto era stato affidato con «elementi oggettivi di distorsione della concorrenza e conseguente alterazione del risultato della gara». In sostanza appalto sbagliato, costi impazziti, autostrada che rischia di non essere mai terminata.
È STATO più facile costruire le fondamenta dell’Expo che una pista ciclabile a Monza, più semplice affidare un contratto di vigilanza da qualche milione di euro che non assumere due bidelli in una scuola pugliese. In attesa di vedere quello che sarà, l’Esposizione universale del 2015 si è già rivelata per quello che è: una delle più grandi deroghe che lo Stato abbia mai concesso a se stesso.
Mezzo miliardo di euro di denaro pubblico sottratto «alle norme e ai controlli » in nome dell’”emergenza” più prevista del mondo. «Ben 82 disposizioni del Codice degli appalti sono state abrogate con quattro ordinanze della Presidenza del consiglio - denuncia Sergio Santoro, l’Autorità garante per la vigilanza dei contratti pubblici - così hanno escluso noi e la Corte dei conti da ogni tipo di reale controllo ».
Dopo gli arresti dell’inchiesta di Milano, però, è scattato l’allarme e gli uffici tecnici dell’Authority hanno analizzato tutti i contratti per capire cosa sarebbe accaduto se quelle deroghe non ci fossero state, se il Codice nato nel 2006 apposta per combattere i fenomeni di corruzione fosse stato rispettato alla lettera. Ed ecco che sono venuti fuori affidamenti diretti oltre le soglie consentite, goffi riferimenti a commi di legge inesistenti, procedure ristrette poco giustificabili. «Le nostre sono osservazioni - ci tiene a specificare Santoro - fatte sui documenti disponibili online». Numeri, casi, segnalazioni, appunti, finiti in un dossier che Repubblica ha avuto modo di consultare e che è stato consegnato al magistrato Raffaele Cantone, il commissario voluto dal premier Matteo Renzi per evitare altri scempi.
LE FALLE NEL SISTEMA
Per capire di cosa stiamo parlando basta prendere l’opera al momento più famosa dell’Expo, le cosiddette “Architetture di servizio” per il sito, cioè le fondamenta dei capannoni. Famosa per il costo, 55 milioni di euro, ma soprattutto perché attorno a quel contratto ruota l’indagine di Milano sulla banda di Frigerio. Lo ottiene la Maltauro, ma come? Per l’affidamento Expo sceglie di non bandire una gara europea, aperta a tutti, ma di seguire la procedura ristretta. Partecipano sette aziende e dopo la valutazione della commissione vince un’Ati che ha come capofila appunto la Maltauro, l’azienda che è accusata di aver pagato mazzette a Frigerio e Greganti. La procura di Milano accerterà cosa è accaduto e come.
Per il momento si può dire che a spalancare la porta alla corruzione è stata proprio la legge, permettendo la procedura abbreviata. «Come in molti altri casi per l’Expo - scrive il Garante nel suo dossier - si è seguito il criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa». A individuare quale sia deve essere una commissione di 3 o 5 membri, «imparziale e altamente qualificata». Ma, ed ecco l’anomalia, nell’offerta della Maltauro hanno avuto più peso gli elementi qualitativi «per loro natura soggettivi», quali l’estetica e il pregio, rispetto al prezzo e ai tempi di esecuzione, «che sono invece dati oggettivi». Il punteggio qualitativo era 65 punti, quello quantitativo 35 punti. In sintesi, basta avere dei commissari amici e il gioco è fatto. «Ne abbiamo due su tre», si compiacevano Frigerio e Greganti, al telefono. E lo stesso Maltauro, interrogato dopol’arresto, ha confermato il sistema.
L’URGENZA CHE NON C’È
Ma a impressionare l’Authority è l’”emergenza perenne” che tutto giustifica. Perché, per esempio, viene affidato “in deroga” a Fiera di Milano spa l’allestimento, la scenografia e l’assistenza tecnica (2,9 milioni)? «Non si ravvisano evidenti motivi di urgenza - annota Santoro - per un appalto assegnato il 28 novembre scorso, un anno e mezzo prima della data del termine dei lavori».
Ancora: con procedura “ristretta semplificata” sono stati dati i 2,3 milioni per il servizio di vigilanza armata a un Ati (la mandataria è la Allsystem Spa), nonostante quella modalità «è consentita solo per contratti che non superino il milione e mezzo di euro». Sforamenti simili, ma di entità inferiore, sono avvenuti con l’”affidamento diretto”, utilizzato 6 volte. «Il tetto massimo ammissibile è 40mila euro», segnala Santoro, ma nella lista figurano i 70mila a un professionista per lo sviluppo del concept del Padiglione 0 e i 65mila per servizi informatici specialistici.
Ben 72 appalti sono stati consegnati “senza previa pubblicazione del bando”, tra cui figurano il mezzo milione a Publitalia per la fornitura di spazi pubblicitari e i 78mila euro per 13 quadricicli alla Ducati energia, impresa della famiglia del ministro dello Sviluppo Federica Guidi. A Fiera Milano congressi - il cui amministratore delegato era Maurizio Lupi fino al maggio scorso, quando si è autosospeso - viene invece affidata l’organizzazione di un meeting internazionale dal valore di 881mila euro.
Anche in questa occasione Expo decide di seguire la via della deroga, appoggiandosi a una delle quattro ordinanze della presidenza del Consiglio (il dpcm del 6 maggio 2013). Lo fa in maniera quantomeno maldestra, perché nel giustificativo pubblicato sul sito ufficiale «si rileva un riferimento al comma 9 dell’articolo 4 che risulta inesistente ». Un refuso.

l’Unità 1.6.14
Oristano
Accoltella la compagna di scuola che lo ha rifiutato, arrestato


È stato arrestato con l'accusa di tentato omicidio il 16enne che ieri a Oristano ha accoltellato una compagna di scuola prima dell’inizio delle lezioni al tecnico industriale Othoca. Il ragazzo è stato portato nel carcere minorile di Quarticciu (Ca) su ordine dei pm Ignazio Chessa e Rita Manganiello della procura dei minori di Cagliari. Il giovane, innamorato della ragazza, avrebbe tentato un approccio e al suo diniego ha estratto un coltello a serramanico con una lama di30 centimetri e l’ha colpita per4volte all’addome. La ragazzina è crollata a terra in un lago di sangue mentre i compagni di scuola e un’insegnante che hanno assistito increduli alla scena hanno tentato l’inseguimento. Nel frattempo è stato dato l'allarme al 113 e il giovane è stato preso dalla polizia alla stazione di Oristano. Aveva una mano ferita, mentre la ragazza è stata soccorsa dal personale del 118 e trasportata d'urgenza in codice rosso in sala operatoria al San Martino, in prognosi riservata, dov’è stata operata ed tuttora ricoverata. Agli agenti coordinati dal capo della mobile, Pino Scrivo, ha raccontato di essere stato respinto dalla ragazza. Per lui si sono aperte le porte del carcere minorile con la pesante accusa di tentato omicidio. «Mi ha colpito alle spalle senza che io mi rendessi conto di nulla, quando mi sono girata l'ho riconosciuto» ha detto la studentessa alla polizia prima di entrare in sala operatoria.

il Fatto 1.6.14
Come Erika e Omar Tutti pazzi per i massacri
di Elisabetta Ambrosi


E ora interrompiamo il programma Adotta il tuo cucciolo per la svolta del delitto di Santa Serena”. L’inviata di Canale Quattro, un nome che è tutto un programma, Darla Presto, parla eccitata in minigonna e scarpe rosse. “Apriamo subito il collegamento col paese del massacro”. Seguono interviste agli emozionatissimi abitanti, che cantano in coro: “È successo qualcosa, c’è un’inviata!”. È una delle scene dello spettacolo scritto da Tobia Rossi prodotto e diretto da Enzo Iacchetti, Come Erika e Omar (regia tecnica di Alessandro Tresa), in questi giorni in scena al teatro “Lo Spazio” a Roma, dopo l’estate a Milano e poi in tour. Un “diversamente musical” - con musiche di Francesco Lori - che racconta con sarcasmo la scellerata spettacolarizzazione televisiva dei delitti di cronaca nera, da Cogne a Garlasco, da Meredith a Yara.
In apertura la storia di due ragazzi annoiati, Jessica e il suo fidanzato Christian (i bravi Gea Andreotti e Massimiliano Pironti), sullo sfondo di un paesino dove imperano ipocrisia e conformismo. Il padre di Jessica è un arrogante imprenditore di solventi chimici - “Tu non sai come mi chiamano in paese!”, “L’uomo sciacallo? Merdamen? Inquinator?”, risponde la figlia – che si fa fare le sveltine in garage dalla moglie del sindaco leghista, in perenne ricerca di notorietà. Il fratello nerd sniffa coca mentre la madre, che prende psicofarmaci e canta la bellezza del suo salotto – “la poltrona in finta pelle e la trapunta con le stelle!” –, non si accorge di nulla (“Tesoro, che stai facendo con quel borotalco?”).
Per disperazione e noia, e per sentirsi diversa, Jessica, con l’aiuto del fidanzato, stermina la sua famiglia. Il resto è la messa in scena dell’assurdo italiano: l’iniziale caccia allo straniero – “Scappa finché puoi, ferma l’invasione, prendi il tuo forcone” – poi, soprattutto, la grottesca escalation mediatica. Con gli ospiti del talk show dal titolo Sono stati loro? in sala trucco – “Sì, per il rossetto lo stesso colore della puntata con la ragazzina fatta a pezzi” –, la rubrica di cronaca giudiziaria Processo che spasso, “che ti mette a tu per tu con l’assassino”, l’immancabile parere del popolo di internet, infine la trasformazione dei due baby killer in star raccontata attraverso il dialogo con i compagni di cella Olindo e Rosa (“Sono Olindo, cazzo non hai sentito parlare di me?”). Insomma, come recita il sottotitolo del musical, “è tutto uno show”. Perché ormai “fa più audience il sangue dello sport” e poi vuoi mettere “quanto sono belle queste serate di cronaca nera? Molto meglio del varietà di una volta”

l’Unità 1.6.14
Nassib e gli altri. In Libia è caccia ai giornalisti
La giovane libica lavorava per la tv al Wataniya: è stata sgozzata in un vicolo
Gli estremisti islamici di Ansar al Sharia contro i reporter locali
Diversi omicidi e agguati negli ultimi due mesi


I suoi colleghi la ricordano come una ragazza piena di vita, che aveva sempre sognato di fare la giornalista. Una giornalista libera, sul campo, impegnata a raccontare la tragedia di un Paese che non conosce pace. Un Paese che sperava di aver voltato pagina con la fine del regime di Muammar Gheddafi e che oggi, invece, si trova ancora più diviso, insicuro, terrorizzato. Voleva raccontare un Paese, il suo Paese, in mano a milizie qaediste, a organizzazioni criminali, a signori della guerra mascherati da politici.
Il suo nome è Nassib Karnaf, lavorava per la tv al Wataniya. Era scomparsa giovedì nella regione di Sabah, oltre 600 chilometri a sud di Tripoli. Nassib era stata rapita giovedì mentre usciva dalla redazione della sua emittente, ed è stata ritrovata l’altro ieri in un vicolo con la gola tagliata: sanguinaria consuetudine degli assassini qaedisti che suona anche come messaggio sinistramente simbolico per chi è giornalista e donna. Va ricordata Nassib Karnaf, perché la sua storia, e la sua tragica fine, racchiudono il presente di un Paese in totale emergenza, al centro della cronaca per le milizie armate, oltre trecento, che dettano legge e per l’esodo disperato di migliaia di persone che cercano la salvezza sulle carrette del mare che spesso finiscono sui fondali del Mediterraneo.
Nassib, nonostante la sua giovane età, era già molto popolare. I colleghi di al Wataniya, ancora sotto choc, affermano che non aveva ricevuto minacce, ma aggiungono, anche se qualcuno avesse provato a minacciarla, Nassib non si sarebbe piegata, perché lei amava il suo lavoro, e considerava la libertà d’informazione uno dei parametri sui quali misurare il cambiamento. Per farla tacere avevano solo un modo: sopprimerla. E così è stato. Il Sindacato generale dei giornalisti libici, ha avanzato richiesta sia al Congresso Nazionale, che al governo a interim, affinché vengano adottate le misure «necessarie per la protezione dei giornalisti».
SCIA DI SANGUE
Nel caos libico, fare il giornalista è sempre più pericoloso. Quattro giorni prima che Nassib venisse sequestrata all’uscita della sua redazione, a essere assassinato a Bengasi era stato un altro reporter, Meftah Bouzid, noto per le sue posizioni duramente critiche nei confronti dell’estremismo radicale. E meno di un mese dai due agguati ai quali è riuscito a sfuggire Hassan Bakush, corrispondente da Bengasi del canale televisivo privato «Libya Li Kullu Ahrar». Anche in questo caso i principali indiziati sono gli estremisti islamici di Ansar al Sharia. Il corrispondente da Bengasi Hassan Bakush del canale Libya Li Kullu Ahrar è sfuggito il mese scorso a due attentati. Il 7 maggio, Reporter senza frontiere (Rsf) aveva denunciato le ripetute minacce contro i professionisti dei media libici che sempre più spesso sono sotto tiro. Tra i casi segnalati da Rsf, nel 2013, c’è anche quello di Ahmad Abusnina, corrispondente da Bengasi della tv privata Al Nabaa, che a settembre è stato fermato da due uomini mentre andava all’aeroporto sull’auto della tv, insultato e picchiato. Il giornalista aveva già ricevuto minacce a causa delle sue attività con Al Nabaa e in precedenza con Al Jazeera. Anche il direttore del canale tv Al Wataniya, Tareq Al Houni, e due altri dipendenti, sono stati insultati e picchiati a Tripoli da una milizia locale.
A maggio invece un giornalista libico di un’agenzia di stampa straniera fu arrestato dalla milizia in pieno giorno a Bengasi e rilasciato in tarda serata dopo essere stato colpito, insultato e minacciato. Sempre a Bengasi, meno fortunato è stato invece il 28enne Ezzedine Qusad, presentatore tv del canale Libya Hurra, freddato da uomini armati all’uscita della moschea. Rsf ha registrato anche casi di giornalisti presi di mira dalle autorità come Amara Abdalla al-Khattabi, direttore del quotidiano al-Umma, arrestato nel dicembre del 2012 dopo aver pubblicato una lista di 84 giudici implicati in atti di corruzione. Accusato di «oltraggio» al sistema giudiziario, il giornalista rischia fino a 15 anni di prigione. Secondo Amnesty International le autorità libiche stanno ricorrendo alle stesse misure che hanno portato all’arresto di detenuti politici durante il regime precedente. Ma minacce e assassinii non hanno piegato la volontà di informare dei tanti reporter in Libia. Ma il caos armato in cui è precipitato il Paese ha un impatto negativo anche in questo campo. Stando a un report del Committee to Protect Journalists degli almeno 69 nuovi giornali e delle decine di emittenti radio e tv nati nelle settimane seguite alla caduta di Gheddafi diversi hanno dovuto chiudere o non se la vedono benissimo. Al-Assema Tv per esempio, la nuova tv privata di Tripoli, è stata ripetutamente attaccata da miliziani.
NON SOLO TRIPOLI Libia, e non solo. Nel 2014, secondo l’ultimo rapporto della ong Usa Freedom House, nel mondo sono stati 35 i giornalisti uccisi finora mentre le statistiche del 2013 parlano di: 71 reporter morti, 826 arrestati, 2160 minacciati o attaccati fisicamente, 87 rapiti, 77 costretti a lasciare il proprio Paese, 39 netizen (chi frequenta le comunità online) e citizen-journalist (cittadini che informano) uccisi, 127 blogger e netizen arrestati. Secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti i cinque Paesi più mortali per gli operatori dei media sono: Siria, Iraq, Egitto, Pakistan e Somalia.

Repubblica 1.6.14
Tienanmen venticinque anni dopo la piazza che ci ha cambiato la vita

di Ma Jian


IL 4 giugno 1989, quando il Partito comunista cinese inviò 200.000 soldati sui mezzi corazzati a reprimere la dimostrazione a favore della democrazia in Piazza Tienanmen a Pechino, causando centinaia se non migliaia di vittime, né io né buona parte dei miei compatrioti potevamo immaginare che, 25 anni dopo, quel regime barbaro sarebbe stato ancora al potere e che quel massacro sarebbe stato reso tabù. Nel venticinquesimo anniversario, Tienanmen è più importante che mai.
IL BILANCIO delle vittime del Movimento democratico di piazza Tienanmen forse non è che un pallido paragone rispetto ai milioni di morti ai tempi del “Grande balzo in avanti” o della Rivoluzione culturale. L’importanza della protesta però non si misura dal numero dei caduti, ma dalle nobili aspirazioni che l’hanno mossa e dalla forza del suo retaggio. Il Pcc e i suoi apologi occidentali amano sostenere che la Cina, con la sua vasta popolazione, una lunga storia ininterrotta alle spalle e le sue tradizioni culturali, non desidera né realmente necessita un regime democratico costituzionale, preferendo seguire il suo “eccezionale” percorso di dittatura politica associata all’economia di mercato. Tienanmen ha dimostrato al mondo che i cinesi non sono diversi dagli altri. Colsero al volo l’opportunità di esprimere le proprie opinioni liberamente e all’unisono gridarono il proprio desiderio di democrazia, libertà e rispetto dei diritti umani. Furono protagonisti di una sollevazione di massa spontanea, di un euforico risveglio nazionale in cui milioni di studenti, operai e professionisti scesero pacificamente nelle pubbliche piazze di tutto il paese per settimane a rivendicare i diritti loro garantiti dalla costituzione: libertà di parola, di stampa e di assemblea e libertà di eleggere i propri leader - libertà fondamentali che l’Occidente dà per scontate. Nella follia della Cina del ventesimo secolo la protesta di Tienanmen è stata un momento di sublime salute mentale, in cui l’individuo è emerso dalla collettività assopita trovando la sua vera voce.
In quell’atmosfera di libertà le persone usarono la propria innata creatività e intelligenza per sfidare il potere dello Stato. Adolescenti strimpellavano le ballate di Bob Dylan attorno ai falò e danzavano nel buio. L’orchestra sinfonica di Pechino portò gli strumenti in piazza e improvvisò l’Inno alla Gioia di Beethoven. Gli studenti di arte eressero una copia della Statua della Libertà proprio di fronte all’enorme ritratto del presidente Mao all’estremità settentrionale della piazza. Quando il governo respinse gli appelli al dialogo centinaia di studenti con una fascia bianca sulla fronte iniziarono lo sciopero della fame. Il 3 giugno, Liu Xiaobo, allora lettore alla Università Normale di Pechino, mise in atto il suo sciopero della fame in piazza assieme all’economista Zhou Duo, la rock star Hou Dejian e il membro del partito comunista Gao Xin, come atto di protesta contro la legge marziale e come appello per una pacifica transizione alla democrazia. Tienanmen svelò il vero volto del popolo cinese, ma anche quello del Partito, rivelatosi un regime pronto a massacrare i suoi cittadini inermi per mantenere il potere. È sbagliato e moralmente ripugnante sostenere che i morti fossero necessari a “ristabilire l’ordine” e garantire la crescita futura. Taiwan è la chiara dimostrazione che i cinesi sono perfettamente in grado di associare la democrazia al capitalismo.
Ad oggi l’unico vincitore di Tienanmen sembra essere il Pcc. Il massacro ne ha distrutto la legittimità morale ma, come un virus resistente, si è trasformato in maniera imprevista per garantirsi la sopravvivenza. Sotto lo slogan del capitalismo autoritario ha riempito i ventri dei cinesi, mettendone le menti in catene. Ma è una vittoria vacua. La repressione psicotica di qualunque riferimento a Tienamen è rivelatrice del senso di colpa per il massacro e del terrore della verità.
Nel frattempo la lista delle vittime di Tienanmen continua ad allungarsi. Molti leader studenteschi sono tuttora in esilio. Liu Xiaobo, nonostante sia stato insignito del premio Nobel per la pace nel 2010, sconta una condanna a 11 anni di carcere per eversione, mentre la moglie Liu Xia è agli arresti domiciliari. All’approssimarsi di ogni anniversario del massacro è normale che gli attivisti siano vittima di retate, ma quest’anno la repressione del dissenso è stata più dura che mai. Il 24 aprile la giornalista settantenne Gao Yu, è stata arrestata assieme al figlio per aver reso pubblico un memorandum del partito elencante sette “argomenti tabù” che la stampa non deve toccare, tra cui i valori universali, la libertà di stampa, i diritti dei cittadini e le aberrazioni nella storia del partito. Il 3 maggio quindici intellettuali hanno tenuto un seminario in un’abitazione privata a Pechino per commemorare il venticinquesimo anniversario del massacro. Tre giorni dopo, cinque dei quindici presenti, sono stati arrestati per aver «suscitato dispute e causato disordini». Il dibattito pubblico su Tienanmen non è mai stato tollerato, ma ora persino la commemorazione privata è considerata illegale. Tre anni fa l’artista Hua Yong è andato in piazza, si è dato un pugno sul naso e con il san- gue ha scritto su una lastra di cemento della pavimentazione i numeri 6 e 4, la comune abbreviazione di 4 giugno. Poliziotti in borghese lo hanno immediatamente trascinato via.
Il ricordo più vivido che ho dei giorni di Tienanmen è quando sono salito sul monumento agli eroi del popolo un pomeriggio a fine maggio e ho guardato dall’alto la folla, un milione di persone raccolte nella piazza. Ogni volto era raggiante di speranza e di gioia. Quell’umanità colorata aveva l’aspetto pacifico di un prato fiorito. Si aveva la sensazione euforizzante che dopo decenni di tirannia i cinesi avessero infine trovato il coraggio di assumere il pieno controllo delle proprie vite e di tentare di cambiare il destino della loro nazione. Tutte le persone di quella folla sono state vittime del massacro, sia che abbiano perso la vita il 4 giugno o siano sopravvissute, i loro ideali infranti, le anime marchiate dalla paura.
Tienanmen è stato un momento chiave per la mia generazione. Poco tempo fa mi ha cambiato la vita un’altra volta: da quando l’edizione cinese del mio romanzo su Tienanmen, Pechino è in coma , è stata pubblicata a Taiwan tre anni fa, le autorità mi hanno impedito di rientrare nella Cina continentale. Il 3 giugno di quest’anno seguirò un seminario su Tienanmen in Svezia e porrò una sedia vuota al posto che avrebbe dovuto occupare la giornalista Gao Yu. Il 4 giugno, rientrato a Londra, telefonerò al mio amico, l’economista Zhou Duo, che come sempre commemorerà la giornata con uno sciopero individuale della fame. Accenderò candele in onore dei morti del massacro e dei dissidenti cinesi che sono in carcere o agli arresti domiciliari. Penserò all’enorme folla esultante che riempì la piazza nel 1989 e ricorderò a me stesso che i valori che sostenevano sono universali e più potenti della tirannia che tuttora cerca di soffocarli. Poi mi augurerò che prima di altri venticinque anni il mausoleo e il ritratto dell’omicida di massa Mao siano rimossi per sempre dalla piazza e sostituiti da un monumento agli eroi del 1989, e che i cinesi siano liberi di riunirsi in quella piazza, darsi pugni sul naso se lo desiderano, piangere tutte le vittime delle tragedie del passato, discutere di libertà e democrazia e cantare i loro inni alla gioia.

La Stampa 1.6.14
Pechino resuscita le spie maoiste. E il pensionato diventa delatore
La Cina teme il terrorismo: torna il Comitato di quartiere a caccia di sospetti
Per scongiurare attentati soprattutto in vista del 25° anniversario del massacro di Tiananmen (3-4 giugno) Pechino intensifica i controlli e istituisce un «esercito» di cittadini
di Ilaria Maria Sala

qui

Corriere 1.6.14
Gabbia dorata e 100mila spie per «cancellare» Tienanmen

Il governo si prepara all’anniversario da dimenticare
di Guido Santevecchi

PECHINO — Il primo a finire agli arresti è stato Hu Jia, attivista che fa campagna per i malati di Aids. Gli agenti sono andati a casa sua a febbraio e gli hanno spiegato che questo è «un anno molto delicato». Questo è il venticinquesimo anniversario del massacro sulla Tienanmen; ma i poliziotti non hanno citato né la piazza né la data, il 4 giugno 1989, perché in Cina sono parole proibite. Dopo Hu sono finiti in carcere altre decine di dissidenti e avvocati dei diritti civili, qualche artista, un poeta, esponenti della comunità gay e buddisti. Poi, all’inizio di maggio, la piazza cuore del potere e della storia è stata circondata da una nuova barriera rinforzata e dorata. Sono i preparativi del governo per la ricorrenza innominabile.
Pechino sembra sospesa, stordita dal caldo asfissiante fuori stagione (42 gradi di massima) e sorpresa dall’enorme spiegamento di forze. L’ultimo segno di quasi serenità è all’angolo di Wangfujing, il viale commerciale distante un chilometro dalla Tienanmen: un bambino saltava felice in una pozzanghera e un netturbino aspettava paziente che finisse di giocare prima di spazzare via l’acqua. Ma a dieci metri c’erano tre soldati con elmetto, pistola nella fondina e mitra imbracciato che scrutavano inespressivi. Procedendo verso la piazza, furgoni e auto della polizia, agenti in postazione, dissuasori metallici agli incroci. E poi le barriere dorate, imbullonate sul marciapiedi. Sul web i pechinesi di spirito le hanno definite degne di un «tuhao», la parola che identifica i cafoni arricchiti dell’economia di mercato amanti dei gioielli d’oro. Forse al regime fa piacere che invece di parlare dell’anniversario di sangue la gente banalizzi.
Le autorità dicono che la gabbia dorata è a prova di auto, per evitare nuovi attacchi come quello uiguro di mesi fa. Ufficialmente sono solo precauzioni anti-terrorismo anche le pattuglie armate che attraversano la capitale. In parte è vero, perché dopo gli ultimi attentati sanguinosi nel lontano Xinjiang il governo teme che il terrorismo di matrice etnica e islamica colpisca anche qui: nelle stazioni della metropolitana da qualche giorno si passano al metal detector i pendolari, causando code bibliche.
Ieri i giornali di Pechino hanno annunciato che le autorità hanno mobilitato centomila cittadini per raccogliere informazioni. Dicono che è per proteggere la città dai terroristi: li pagano due yuan (25 centesimi) a soffiata. I più efficienti, quelli capaci di riferire tre sospetti al giorno, riceveranno a fine mese 200 yuan (25 euro, una bella cifra). Questi informatori volontari sono stati reclutati tra gli assistenti ai bagni pubblici, gli ambulanti, i portieri dei palazzi, gli edicolanti. Anche questo non è inedito a Pechino: circa 850 mila pensionati si prestano volentieri a controllare i loro quartieri. Ma con il pensiero alla Tienanmen il nuovo esercito popolare di spie ausiliarie accresce l’ansia.
Diversi uffici di agenzie e giornali internazionali hanno ricevuto il consiglio di stare alla larga dalla piazza. A quattro, cinque chilometri dalla Tienanmen, il vialone Chang’an (Pace duratura) prende il nome di Fuxingmen: qui nella notte del 3 giugno 1989 passarono i camion con i soldati e i carri armati ai quali era stato ordinato di schiacciare i «contro-rivoluzionari», gli studenti che da aprile occupavano la piazza del potere chiedendo riforme democratiche. Sul Fuxingmen, sotto il viadotto di Muxidi, i ragazzi cercarono di fermarli; i soldati spararono, anche i palazzi furono colpiti. Il punto dove si combattè più duramente è di fronte al Blocco 27, una serie di casermoni di abitazione. I fori non ci sono più, naturalmente. Seduti su sgabelli, davanti ai portoni, sei civili con il bracciale rosso dei volontari per la sicurezza. Girando sul retro e schivando un paio di poliziotti abbiamo avvicinato alcune coppie di anziani. «Certo che abito qui, da un sacco di tempo». Che cosa ricordate... «Non c’è niente da ricordare». Uno solo, mentre si allontanava con la compagna che gli chiedeva le ha sussurrato: «Sai, qui sparavano, ma è stato molto tempo fa».
Il partito comunista ha imposto una sorta di amnesia collettiva. Louisa Lim, autrice della «Repubblica popolare dell’amnesia» ha cercato di fare un sondaggio tra gli universitari, mostrando la celebre foto del ragazzo davanti ai tank: su 100 solo 15 l’hanno riconosciuta come l’immagine simbolo della Tienanmen. Molti dicono che è tutta un’invenzione degli americani; altri che «se davvero qualcosa è successo è stato provocato dalla Cia». Un tassista chiacchierone assicura che lui era militare a quei tempi e che i soldati hanno «solo sparato a terra o in aria, se qualcuno è stato ferito sono stati di sicuro colpi di rimbalzo». E poi ci sono anche personaggi importanti, come il geniale Jack Ma di Alibaba, che hanno detto: «Quell’incidente? Una decisione crudele, ma corretta».
Gli arresti preventivi, le intimidazioni, la censura che cancella dal web cinese la data 4 giugno 1989 (aggirata da qualche ardimentoso con definizioni tipo «35 maggio» e «ultimo anno degli 80»), hanno fatto cadere l’ultima illusione di riforma politica, 25 anni dopo. Dagli arresti domiciliari Hu Jia si fa sentire: «Dicono che è primavera a Pechino, ma è sempre inverno».
Guido Santevecchi

Corriere 1.6.14
Lunedì il governo palestinese di unità tra Hamas e Fatah

RAMALLAH — Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha dichiarato che lunedì annuncerà l’attesa formazione di un governo di unità nazionale sostenuto da Hamas e Fatah. Il nuovo esecutivo dovrebbe mettere fine alla scissione iniziata nel 2007 tra il gruppo islamico Hamas che governa Gaza, considerato terroristico da Israele e dall’Occidente, e il partito di Abbas che controlla la Cisgiordania. Il governo, sulla cui formazione i colloqui sono iniziati in aprile dopo il blocco dei negoziati di pace con Israele, sarà formato da «tecnocrati e indipendenti», ha detto Abbas aggiungendo che il governo israeliano ha già annunciato che «prenderà subito misure punitive» contro la nuova alleanza.

Corriere 1.6.14
Gates «cede» alle pressioni per boicottare gli israeliani

di Davide Frattini

Le telecamere della G4S sorvegliano i palestinesi fuori e dentro le prigioni. Li seguono quando passano attraverso i controlli di un posto di blocco israeliano, li ispezionano a distanza dalle torri militari di cemento grigio. La multinazionale britannica conta 620 mila dipendenti globali (6 mila nello Stato ebraico) e investitori da tutto il mondo: fino a pochi giorni fa anche Bill Gates che nel 2013 aveva comprato azioni per 135 milioni di euro, poco più del 3 per cento. Le ha vendute tutte o in gran parte e la decisione sarebbe arrivata sotto la pressione del movimento per il boicottaggio. O almeno è quello che proclamano gli attivisti: avevano raccolto 14 mila firme per provare a convincere il fondatore della Microsoft. L’uomo più ricco del pianeta non ha spiegato le ragioni del disinvestimento, era stato criticato anche perché aveva acquistato le azioni della società di sicurezza attraverso il suo fondo privato Cascade Investment e soprattutto la Bill e Melinda Gates Foundation, che dovrebbe occuparsi di iniziative benefiche.
La campagna è la stessa che ha bersagliato Scarlett Johansson per aver accettato di pubblicizzare gli elettrodomestici della SodaStream, la cui fabbrica sta a Mishor Adumim, una zona industriale collegata a uno dei più grandi insediamenti israeliani in Cisgiordania. L’attrice non ha ceduto e ha rinunciato al ruolo di ambasciatrice per Oxfam, l’organizzazione umanitaria britannica. Gates avrebbe invece dato ascolto all’appello dei gruppi che spingono per interrompere le relazioni — non solo economiche, sotto attacco sono anche le università — con Israele.
Un anno fa l’Unione Europea ha pubblicato le nuove linee guida da seguire nei rapporti economici con lo Stato ebraico. Fissano le regole per prestiti o finanziamenti da parte della Commissione e per la prima volta prescrivono che ogni intesa venga accompagnata da una clausola: quei soldi non possono finire ad atenei, società, istituzioni al di là della Linea Verde, perché — precisa il documento — gli insediamenti in Cisgiordania o a Gerusalemme Est non fanno parte dello Stato d’Israele. La stessa G4S ha annunciato di non voler rinnovare i contratti per la prigione di Ofer e le caserme di polizia nei territori occupati. I diplomatici europei non parlano di embargo o sanzioni, ma il rischio di ritorsioni comincia a preoccupare il governo di Benjamin Netanyahu: il premier sa di non aver più la copertura delle trattative con i palestinesi, bloccate alla fine di aprile.

Repubblica 1.6.14
Il pugno duro di Erdogan
di Renzo Guolo


ERDOGAN fa sentire il pugno di ferro sul movimento di piazza Taksim, nel primo anniversario delle proteste di Gezi Park. Tolleranza zero nei confronti di chi manifesta: è il monito del premier turco, che annuncia di aver dato ordini precisi in tal senso alle forze di sicurezza. E così è stato.
Ancora una volta a Taskim la polizia ha usato idranti e lacrimogeni senza parsimonia e ha operato numerosi arresti. Forte del successo delle amministrative di fine marzo, che hanno confermato come l’Akp e il suo progetto di “turbocapitalismo più Islam” riscuota ancora il consenso di buona parte della società turca, il premier intende mostrare chi comanda davvero in Turchia. Anche in vista dell’imminente annuncio della sua candidatura alle presidenziali di agosto. Elezioni per la prima volta a suffragio universale diretto che Erdogan dovrebbe facilmente vincere, dal momento che non avrà davanti avversari in grado di competere.
Nel calare il pesante maglio sul movimento di Taksim, che pure è riuscito a bloccare, almeno parzialmente, il progetto che minacciava l’esistenza di Gezi Park, Erdogan punta a prendersi una rivincita. Gezi è una memoria dolorosa per il capo del governo, il simbolo di un intollerabile scacco e l’inizio di una crisi grave per la sua leadership. La calda estate sul Bosforo del 2013 ha segnato l’esplosione dell’insofferenza di quella parte della Turchia, laica, di sinistra, ambientalista, che mal tollera il crescente senso di onnipotenza del capo del governo e la sua insensibilità verso quanti non condividono i suoi progetti e gli interessi del blocco sociale che si è formato attorno al suo potere. Gezi ha visto mobilitarsi contro il premier milioni di persone e il premier ha sentito per la prima volta davvero minacciato il suo potere. Da qui la decisione di mettere a tacere ogni opposizione, cercando di mettere la museruola alla stampa, avviando purghe negli apparati della sicurezza, facendo approvare leggi che hanno diminuito l’autonomia della magistratura e rafforzato il pe- netrante potere dei servizi segreti e del nuovo “stato profondo” in versione islamista fedele al premier.
Una deriva autoritaria che ha accentuato, sino alla rottura, la frattura con il potente movimento conservatore religioso di Fetullah Gulen, che con l’Akp condivide la stessa base sociale, formata dalle classi medie anatoliche, conservatrici sul piano della morale e dei costumi, antilaiche e liberista in economia. Le critiche di Gulen a Erdogan per le vicende di Gezi Park hanno fatto esplodere il conflitto tra i due antichi alleati. Erdogan si è vendicato togliendo il sostegno alle dershane , le scuole private del movimento di Gulen, pilastro culturale ed economico della confraternita guidata dal suo leader che vive negli Stati Uniti ma continua a esercitare grande influenza in Turchia. Magistrati e poliziotti legati all’organizzazione di Gulen sono stati in prima linea nelle inchieste che hanno coinvolto l’ entourage e la famiglia del capo del governo, che Erdogan ha cercato di insabbiare. Nella circostanza il premier ha preso anche le distanze da esponenti dell’Akp ritenuti vicini al potente leader spirituale, come il presidente Gul e il vice primo ministro Arinc che, ostili a una repressione dura, hanno manifestato dissenso contro le scelte del premier.
Ora, con la nuova repressione contro la «gente che non ha idee» (così ha definito i militanti di Gezi), Erdogan punta a regolare i conti sia con l’opposizione politica, sindacale, civile che non accetta la sua svolta autoritaria, sia con i pezzi di opposizione islamica, interni ed esterni all’Akp, che nutrono dubbi sulla strategia del capo del governo. Linea dura nelle piazze, sperando che paghi nelle urne in agosto. La scommessa di Erdogan è tutta qui. E certo non è poco.

l’Unità 1.6.14
«Fuori dal manicomio ancora il manicomio»
Il Santa Maria della Pietà compie 100 anni
Ne parliamo con Ascanio Celestini
di Anita Eusebi


INQUESTO MESE DI MAGGIO LA LEGGE 180 HA COMPIUTO 36 ANNI, IL DECRETO LEGGE 52/2014 PER IL DEFINITIVO SUPERAMENTO DEGLIOSPEDALI PSICHIATRICI GIUDIZIARI, approvato lo scorso aprile in Senato, è divenuto legge con il voto finale della Camera e il Santa Maria della Pietà di Roma, il più grande manicomio d’Europa d’un tempo, festeggia il suo centenario. Ne parliamo con Ascanio Celestini.
Il 31 maggio, quindi ieri, ricorreva il centenario dell’ex manicomio Santa Maria della Pietà di Roma che, inaugurato nel 1914 da Vittorio Emanuele III, ha visto l’inizio del suo smantellamento negli anni della rivoluzione basagliana, ma la sua chiusura definitiva è arrivata soltanto nel 1999.
Che significato può avere festeggiare i cento anni dall’inaugurazione di un manicomio?
«Un infermiere di Perugia in un’intervista di qualche anno fa mi disse che per i perugini il manicomio era un numero civico. Dietro quel numero non era importante che ci fossero poche o molte persone, che soffrissero o che venissero curate. Quel numero difendeva i cittadini sani dalla pazzia come certi amuleti apotropaici dagli spiriti maligni. La chiusura di queste istituzioni alle volte è coincisa con l’apertura dei suoi cancelli e la restituzione di un luogo per la cittadinanza, ma spesso le storie vissute all’interno hanno lasciato tracce flebili e poco comprensibili. In fondo chi non le ha conosciute prima della chiusura fa difficoltà ad avvicinarvisi dopo. E forse dovremmo anche chiederci perché dovrebbe farlo. Queste celebrazioni rischiano di diventare una nuova istituzionalizzazione, stavolta anti-manicomiale, ma altrettanto istituzionale e retorica. Basta guardare cosa sono spesso le varie giornate della memoria. La battaglia che è stata combattuta contro il manicomio non era semplicemente una lotta per liberare i reclusi, ma contro tutte le istituzioni repressive. Le istituzioni che Basaglia considerava sorelle del manicomio (“famiglia, scuola, fabbrica, università, ospedale” e a queste potremmo aggiungerne altre: chiesa, caserma, tribunale, carcere…) sono uscite rafforzate dalla fine del ‘900. Più che celebrare la fine del manicomio dovremmo constatare quanto ce ne sia ancora attorno a noi.
Scrive Franco Basaglia in Conferenze brasiliane, «giorno dopo giorno, anno dopo anno, passo dopo passo, disperatamente, trovammo la maniera di portare chi stava dentro fuori e chi stava fuori dentro».
E «entrare fuori, uscire dentro» è il motto con ui nasce nel 2000 il Museo Laboratorio della Mente. Secondo te le persone che sono uscite in seguito alla chiusura del Santa Maria della Pietà, dopo anni e anni di internamento, sono riuscite poi a «entrare fuori»? E il mondo fuori, analogamente, è davvero riuscito a «uscire dentro»?
«Gli individui che sono usciti dal manicomio sono tanti e le loro storie non sono catalogabili. Qualcuno ce l’ha fatta, qualcun altro no. Qualcuno non ce l’avrebbe fatta comunque, qualcun altro ha avuto fortuna ed è stato accolto. Ma non c’era alternativa: i manicomi erano lager e dovevano essere chiusi. Davanti ai sopravvissuti di Aushwitz non ci si è chiesti se non fosse opportuno umanizzare i campi di sterminio mettendo le docce al posto delle camere a gas. Quando ci poniamo la questione in merito all’entrare fuori automaticamente ci troviamo a ragionare su “quale fuori” sia quello intorno alle mura abbattute del manicomio. Fuori dal manicomio c’è ancora il manicomio. C’è nel disagio psichico e sociale, nei rapporti di potere. Un’infermiera di Padova mi racconta della chiusura dell’ospedale psichiatrico nel quale lavorava e mi parla del suo lavoro sul territorio. Mi parla di quegli operatori che si comportano come gli infermieri peggiori nei manicomi più chiusi trattando i pazienti come bambini buffi e un po’ stupidi. Li chiamano “matterelli” e “pazzerelli” e quando diventano meno governabili li gestiscono con i farmaci. Mi dice “una volta c’era il manicomio, oggi c’è il terricomio”».
«La pecora nera» è stato girato nel padiglione 18 del Santa Maria della Pietà. È un film che racconta una storia tipica di abbandono, violenza e pregiudizio, per cui un bambino viene internato in manicomio, elìrimaneper35anni.Unapresenzaemblematicain tal senso è Alberto Paolini, con il suo pesante bagaglio di vita reale di 42 anni di manicomio al Santa Maria della Pietà, con le sue peggiori brutture, andando dall’elettroshock alle camere di contenzione. Quanto resta delle sofferenze del manicomio negli occhi di una persona la cui casa è stata il manicomio quasi per tutta la vita?
«La storia di Alberto Paolini è un esempio straordinario per raccontare l’insensatezza dell’istituzione psichiatrica. Nonostante l’internamento, gli psicofarmaci e l’elettroshock è riuscito a difendersi e a non perdere la propria lucidità. Mi raccontava Adriano Pallotta, storico infermiere del Santa Maria della Pietà e animatore del Museo Laboratorio della Mente, che tra infermieri non ci si stupiva davanti al peggioramento di un internato e che, anzi, era motivo di stupore vedere che dopo un po’ che stava dentro rimaneva più o meno nelle stesse condizioni. Il peggioramento era la norma e la cura era inesistente».
L’altro volto del manico mio, gli infermieri. Internati loro stessi in un certo senso, ma con in mano il potere, e il mazzo delle chiavi. E in La pecora nera ritroviamo Adriano Pallotta, infermiere al Santa Maria della Pietà per oltre 40anni, che nel film interpreta un paziente, “il professore”. Quanto è stato importante il confronto con il vissuto di Adriano, come di altri infermieri, nel ricostruire la memoria storica del Santa Maria della Pietà?
«Ho intervistato Adriano una decina di anni fa durante un laboratorio con gli studenti di Roma Tre. Mi ha stupito per la chiarezza della narrazione oltre che per la lunghezza del suo intervento: ha incominciato a raccontare appena arrivato, prima che iniziasse l’intervista e ha continuato quando era già finita e stavamo andando via. Nei suoi racconti è fondamentale l’esperienza che ha vissuto, ma tante persone hanno avuto una vita altrettanto interessante e forse anche più avvincente. La differenza tra lui e molti altri è che sa raccontare. Dice il professor Gerardo Guccini che ci sono attori che raccontano storie, ma non sono narratori. Ci sono attori che sono arrivati al teatro perché erano narratori. E poi ci sono quelli che non fanno teatro, ma narrano magnificamente. Questi ultimi, dice Guccini, hanno delle storie da raccontare, sanno come farlo e vanno in cerca di un pubblico. Pallotta è così. Tant’è vero che in quella prima intervista non ha iniziato la sua storia parlando di manicomio, bensì della sua esperienza personale inquadrata in una condizione sociale. Lui era il secondo di sei fratelli e la sua era una famiglia che faticava ad andare avanti. Un giorno rientrando in casa ha sentito i genitori che parlavano di lui. Erano andati a colloquio con l’insegnante che gli aveva detto di spingere Adriano a studiare perché era portato. Ha sentito i genitori che dicevano “Bisogna cerca’ a tutti i modi di farlo studiare. Faremo i sacrifici, faremo i sacrifici, dobbiamo fare i sacrifici...”. Adriano ha pensato che “già ce n’erano tanti di sacrifici. Ma quali sacrifici! Io, zitto zitto so’ andato a Piazza Risorgimento, c’era ’na libreria, andetti lì eme so’ venduto i libri. Ai genitori ho detto: Non voglio anna’ più a scuola!” e così ha incominciato a lavorare. Tutti gli infermieri che ho incontrato hanno portato degli elementi interessanti, ma lui è stato il più prezioso perché è anche un narratore. A me servono dati concreti, ma anche narrazioni perché non sono un giornalista, uno storico o un sociologo. Io racconto storie».
Manicomi sono anche gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, dove la maggior parte degli internati ha commesso reati di poco conto, o peggio ha solo la colpa della povertà, della solitudine, della mancata assistenza e dell’abbandono. Lo scorso 28 maggio è stata approvata la legge per il superamento degli Opg, ma parte dell’opinione pubblica ha paura dei “pazzi criminali” e i servizi territoriali hanno bisogno di risorse per farsi carico dei “fratelli scomodi”. Pensi si riuscirà davvero a buttare definitivamente giù le mura dell’istituto dell’Opg?
«Indubbiamente gli Opg sono un’istituzione vergognosa che va superata. Ma la sua chiusura pone un problema che è difficilmente risolvibile se ci si limita a guardare solo questi istituti. La maggior parte degli internati sono stati schiacciati e probabilmente la loro pericolosità (se mai c’è stata) si è azzerata insieme a una parte consistente della loro identità. Ma mettiamo il caso dell’ipotetico internato pericoloso. Lui tornerà in prigione in “repartini” fatti a posta? E chi lo seguirà in carcere? Parlando con uno psicologo in un istituto di pena marchigiano m’ha detto “riusciamo a seguire i detenuti per una media di 25 minuti al mese”. Ma anche un carcere migliore di quello italiano, meno affollato, con più spazi alternativi alla cella, eccetera, il problema si pone alla stessa maniera anche se in modo meno evidente. L’istituzione carceraria è più vecchia e datata del manicomio. Il superamento del manicomio criminale deve andare di pari passo col superamento del carcere».

La Stampa 1.6.14
A Mosca per finire in un Gulag bastava una lettera anonima
di Anna Zafesova


«Anonimka», la delazione firmata da mano ignota, è stata l’arma più letale del totalitarismo comunista. Ai tempi di Stalin era un biglietto per il Gulag e, in tempi meno feroci, poteva significare il licenziamento, l’espulsione dall’università o un umiliante iter di giustificazioni e indagini. In un sistema repressivo basato sullo spionaggio sfuggire al controllo era quasi impossibile, in Urss ci voleva un lasciapassare anche per entrare in biblioteca. Per chi era già stato presa di mira dai servizi come dissidente c’era tutto il pacchetto completo offerto dal Kgb, dai pedinamenti alle intercettazioni telefoniche, e alcuni dissidenti hanno scoperto solo anni dopo che nell’appartamento accanto era stata allestita una vera centrale d’ascolto, come nel film «Le vite degli altri». Ma anche per i comuni cittadini sovietici finire nella rete della delazione era questione di un attimo. Bastava una barzelletta politica, un’esclamazione di scontento, un brontolio sui (molteplici) guai della vita di tutti i giorni, e se nei dintorni c’era un orecchio indiscreto partiva l’«anonimka».
Nessuno ha mai saputo quanti fossero i soldati dell’armata dei delatori. C’erano quelli che lo facevano d’ufficio: gli uscieri, le ferocissime guardiane all’entrata di uffici e convitti, gli addetti condominiali, gli spazzini, i tassisti, le burbere «dezhurnaya» piazzate a ogni piano negli alberghi al solo scopo di monitorare le entrate, le uscite e soprattutto le compagnie degli ospiti. Ma da quelli non c’era da aspettarsi d’altro e si cercava di stare attenti. Poi c’era la rete di informatori prezzolati, reclutati dal Kgb con lusinghe o ricatti per riferire sui propri colleghi e amici, soprattutto in ambienti di intellettuali. I più pericolosi però erano i volontari, quelli che scrivevano delazioni per passione, battitori liberi mossi da zelo ideologico o da interesse, e che spesso firmavano anche le loro denunce per poterne beneficiare. Si poteva venire denunciati dal vicino che così poteva ambire alla stanza che si liberava, dal collega che puntava alla scrivania della vittima, dalla fidanzata tradita, dall’amico invidioso.
L’«anonimka» non aveva bisogno di venire provata e poteva venire inviata al Kgb, alla polizia, al sindacato, alla cellula di partito, al superiore, che erano obbligati a procedere: cestinare una denuncia poteva rivelarsi molto pericoloso se il delatore l’avesse mandata a più indirizzi. Con l’apertura, molto parziale, degli archivi alcune vittime delle delazioni hanno scoperto di essere state spedite in Siberia dal migliore amico, da un commilitone come era successo ad Alexandr Solzhenitsyn, o addirittura dai parenti. E una volta tra le mani della polizia segreta, si diventava delatori a propria volta, per salvarsi la vita, per paura, sotto tortura.
La paura dell’orecchio indiscreto veniva assorbita fin da bambini, e la capacità di dire le cose giuste pensandone altre diventava quasi automatica già a scuola. Rilassarsi poteva essere mortale, il delatore poteva essere dovunque, a raccogliere le confidenze davanti a un bicchiere di vodka, e nulla era prezioso come un amico che segnalava agli altri un sospetto spione, di solito battendo con le nocche sul tavolo per indicare che quello è uno «stukach», «uno che bussa». Alla porta innominabile che tutti avevano paura di varcare.
Le «anonimke» furono abolite soltanto da Gorbaciov alla fine degli Anni 80: d’ora in poi una denuncia doveva essere formale e firmata. Ma le liste interminabili di quelli che rovinavano le vite degli altri sono sempre rimaste un segreto sepolto negli archivi.

La Stampa 1.6.14
Ho imparato da Dostoevskij la lotta tra fede e dubbio
Il filosofo e sociologo francese racconta le letture che hanno accompagnato la sua formazione: nell’autore dei Karamazov le instabilità profonde dell’identità
di Edgar Morin


Viviamo età estetiche differenti, dall’infanzia alla maturità, e, una volta adulti, diventiamo insensibili alle opere che hanno affascinato la nostra infanzia, la nostra giovinezza, la nostra adolescenza. Ci intenerisce riandare alle favole di Perrault, ai romanzi della contessa di Ségur, perché pensiamo alla nostra infanzia, ma li consideriamo ormai come cose da e per bambini. Tuttavia queste opere ci hanno segnato profondamente.

Così, per quanto mi riguarda, mi hanno segnato in profondità i romanzi di avventura di Gustave Aimard, i romanzi di avventure canine di Jack London. Più tardi, verso i 13-15 anni, hanno avuto un’importanza enorme il Jean-Christophe di Rolland e i romanzi di Anatole France. Il primo è romantico, lirico, trasportato dall’amore per l’umanità. Il secondo è scettico, critico, ironico, distaccato. Entrambi mi svelano, mi rivelano, esprimono due sentimenti antagonisti che sono molto forti in me, perché derivano dallo stesso evento fondamentale: la morte di mia madre quando avevo dieci anni. Da un lato sono disincantato per sempre, ho perso l’assoluto, sono portato a dubitare di tutto, tanto più in quanto ho ricevuto un imprinting culturale molto debole: i miei genitori sono sefarditi laicizzati d’ascendenza spagnola e poi italiana, non ricevo da loro nessun credo tradizionale e, a scuola, mi nutro di romanzi che leggo sotto il banco, durante le lezioni, e a casa, durante i pasti; sono romanzi che mi emozionano e mi rapiscono, così come i film (che vedrò un po’ a caso), che mi danno la mia cultura di base. Certo incorporo la sostanza della Francia, integrando in me Vercingetorige, Giovanna d’Arco, Napoleone, le battaglia di Bouvines, di Valmy, della Marna. Ma più tardi mi sentirò di patria mediterranea, con l’amore per la Spagna e l’Italia da dove vengono i miei antenati, e come qualsiasi individuo nutrito di più culture, legato a ciascuna ma non assolutizzandone alcuna, potrei essere facilmente idoneo a diventare cittadino del pianeta Terra.

L’altro aspetto di me stesso, che viene dall’aspirazione sempre rinnovata di ritrovare l’integrazione in una sostanza materna infinita, oceanica, mi spingerà non solo verso tutto ciò che esprime il romanticismo, ma anche verso la ricerca della fede, dell’effusione, della comunione. Così, avendo perduto mia madre, ho cercato di ritrovare altrove, in modo diverso, la comunione oceanica, ma allo stesso tempo ho sempre custodito in me il sentimento dell’irreparabile, della perdita e del disastro; il dubbio è rimasto incrostato in fondo a me stesso, sia per l’esperienza della morte e del non ritorno della madre, sia per il debole imprinting culturale nel mio spirito, da cui l’impossibilità, malgrado gli sforzi, di credere nella religione della salvezza (il cristianesimo).
Conflitto sempre vissuto, mai superato, tra fede e dubbio, e sempre nutrito dai libri. Da qui la mia fascinazione per gli autori che hanno vissuto più intensamente questo conflitto (Pascal, Dostoevskij), per i filosofi che in fondo non lo sopprimono mai (Eraclito, Hegel, e anche Marx), e anche la mia attrazione irresistibile per il dubbio fondamentale (Montaigne) ma allo stesso tempo per lo slancio fondamentale oltre il dubbio e la ragione (Rousseau). Sono stato segnato da ciò di cui avevo sete.
Parlerò quindi innanzi tutto di qualcuno di questi autori, che sono per me fondamentali, non solo perché riguardano quello che c’è di fondamentale in me, ma perché li ho conosciuti nell’età stessa in cui le letture possono nutrire e segnare nel profondo l’intelligenza, l’anima e l’essere tutto intero. Cito in primo luogo Dostoevskij. Sono sicuramente stato segnato da Resurrezione di Tolstoj, da Padri e figli di Turgenev, dai racconti tristi e nostalgici della Steppa e da Zio Vanja di Cechov, e nei primi decenni sono stato sconvolto da Divisione cancro, Il primo cerchio e La casa di Matrjona di Solzenicyn, e dal dantesco Vita e destino di Grossman, scrittore «medio» che diventa sublime nel momento in cui s’ immerge a Stalingrado, e percepisce con una giustezza visionaria come Stalingrado sia al tempo stesso la più grande vittoria e la più grande sconfitta dell’umanità, e susciti una scena terribilmente grandiosa come quella del grande inquisitore ad Auschwitz, tra un giovane capo SS e un deportato comunista.
Ma quello che per me resta il più presente, il più intimo, è Dostoevskji. Dmitrij, Ivan e Alëša Karamazov, Stavrogin e gli altri eroi dei Demoni, Raskolnikov non mi hanno mai lasciato. Nessun altro ha portato altrettanto senso della sofferenza, della tragedia, della derisione, del delirio propriamente umano (e non avrei proposto l’idea di Homo sapiens-demens come nozione chiave del mio Paradigma perduto se questo sentimento così profondo dell’indistinguibilità tra follia e ragione nell’essere umano non fosse stato di continuo rigenerato dagli scrittori e soprattutto dal ricordo di Dostoevskij).
Senza dubbio trovavo nei Fratelli Karamazov gli eroi che corrispondevano a vocazioni profonde e contraddittorie del mio essere, come nella maggior parte di noi. Ma ciò che trovavo soprattutto, nell’intera opera di Dostoevskij, più acuto, più intenso, più doloroso e violento che in qualsiasi altro autore, compresi gli altri russi, è il senso della sofferenza, è la pietà infinita e stravolta per questa sofferenza, il tormento delle anime straziate, le instabilità profonde dell’identità, i momenti di verità dell’amore, l’insondabile mistero degli esseri e della vita. Il mio primo sentimento filosofico (se oso usare questa parola) mi è venuto da Dostoevskij: l’idea prioritaria che bisogna avere compassione per la sofferenza. Quello che sentivo in lui non è tanto il fatto che fosse un ex rivoluzionario diventato tradizionalista, un ex occidentalista diventato slavofilo, ma il persistere corrosivo, nel secondo Dostoevskij, del dubbio, del nihilismo, e la lotta furiosa, disperata tra la fede e il dubbio, la lotta che in me non è mai cessata tra la speranza e la disperazione. E io oggi so che le più grandi menti europee sono quelle che non hanno smesso di vivere interiormente un conflitto fondamentale, un antagonismo irriducibile; anche quando hanno apertamente scelto un partito contro l’altro, quest’ultimo lavora in modo sotterraneo, ma attivamente, all’interno del primo.

Corriere 1.6.14
Il buon Dio passa l’esame di scienze
di Marco Rizzi


Il rapporto tra fede e ragione è un tema classico dell’apologetica cristiana sin dai tempi antichi. Nel libro La razionalità della religione (Raffaello Cortina, pagine 382, e 26) Robert Audi, docente di filosofia all’Università cattolica americana di Notre Dame, pur tenendo sullo sfondo il monoteismo biblico, estende l’approccio ad ogni forma religiosa che consideri l’esistenza di un Dio onnipotente e benevolo verso gli uomini.
In questo modo, l’autore non limita l’analisi alla plausibilità del credere in simili affermazioni, bensì considera pure se i comportamenti, gli atteggiamenti e le emozioni che nascono dall’impegno religioso possano essere considerati frutto di una scelta razionale, specie in confronto con l’odierno approccio scientifico alla realtà.
La sua risposta è positiva; al termine di un serrato dialogo con le prospettive epistemologiche della filosofia analitica anglosassone, Audi conclude che una visione teistica come quella delineata non è solo razionale, ma risulta anche coerente con una mentalità di tipo scientifico. A condizione, però, che l’adesione a una tradizione religiosa non risulti acritica e passiva, ma sia il frutto di appropriazione responsabile.

Repubblica 1.6.14
Compagni di letto
“Segretario, io andrei a vivere con la mia amante...”
Passioni, tradimenti e separazioni: dopo la guerra
il Pci interveniva sulle scabrose vicende sentimentali dei suoi onorevoli.
E quei dossier spuntano adesso
Come il Pci controllava i suoi deputati
di Michele Smargiassi


Gallo della guerra civile spagnola, confessa di aver sposato Teresa Noce perché succube della «violenza morale compulsiva» della mamma. Marisa Musu, integerrima partigiana dei Gap di via Rasella, s’incolpa di «temperamento ipocondriaco e malinconico». Aldo D’Onofrio, potente capo dei quadri del Pci, accetta che il suo matrimonio sia descritto in termini di «violenza di consenso e impotenza coeundi ». Ma quanto erano fragili in casa, questi uomini e queste donne di marmo? Invece no, erano solo finzioni da tribunale, mortificanti ma necessari escamotage avvocateschi per strappare l’annullamento del matrimonio in quella “sacra rota comunista” che era la Repubblica di San Marino negli anni Cinquanta.
Bisognava pur fare qualcosa. Era una frana. Saldati nella clandestinità antifascista, forgiati al fuoco della Resistenza, nella rilassata libertà democratica i matrimoni comunisti si sfasciavano uno dopo l’altro, non reggevano a quella “voglia di vivere, cantare, parlare e stare insieme”, magari in una Festa dell’Unità, che molcea il cor anche dei funzionari più gelidi. «Fra i compagni di ogni livello», scrive Rossana Rossanda, «imperversavano passioni e tragedie, separazioni e unioni di fatto». La probità proletaria, a lungo contrapposta al libertinismo dei ricchi, sfarinava in quello che gli avversari bollavano come «amore libero». Il ménage Togliatti-Iotti, “scandalo in rosso” che turbò le coscienze di migliaia di militanti, ha fatto finora ombra a un fenomeno diffuso, virale. Gli irregolari del Pci ora ce li racconta un originale saggio (Laterza, 192 pagine, 18 euro) che Anna Tonelli, storica del contemporaneo e del costume, ha ricavato da carte finora mai sfogliate. Erano tanti, gli amori comunisti irregolari, famosi e sconosciuti, dirigenti e militanti.
E il Partito si occupava di tutti.
Perché non poteva esserci un muro fra vizi privati e pubbliche virtù in un Pci bisognoso di legittimazione morale nell’Italia democristiana che lo accusava di voler demolire la famiglia.
C’era dunque la “cicici”, la Commissione centrale di controllo, la Lubjanka di Botteghe Oscure, a vigilare sulle eterodossie sessuali degli iscritti. Ma non era un’imposizione orwelliana. Per primi i dirigenti convocavano il partito in camera da letto. Prima di lasciare la Noce e andare a vivere con Bruna Conti, Longo informò gerarchicamente Togliatti, promettendo «di dare alla cosa la minima pubblicità possibile». Tradire la moglie si può, ma con l’autorizzazione del segretario. E il partito deliberava come sulle questioni di linea politica: «Si ritiene nell’interesse del partito che i compagni Longo-Noce e Togliatti-Montagnana regolino la loro situazione nel senso dell’annullamento matrimoniale», Secchia e D’Onofrio seguirono la pratica.
Nella clandestinità, l’endogamia ideologica era stata una cautela obbligatoria: relazioni fuori dal partito potevano essere trappole. A Parigi, Celso Ghini fu convinto da un’assemblea di compagni espatriati a «non fare sciocchezze» con una ragazza. Ma nella tranquillità repubblicana, il centralismo democratico degli affetti divenne una versione privata della “doppiezza” togliattiana. Il problema era l’immagine del partito, non i princìpi morali. Del resto Terracini, presidente della Costituente, era stato tacciato di “morale sovietica” dalla stampa ostile perché viveva con una donna separata. Ma una vera e propria censura etica contro i coniugi infedeli, almeno fra i quadri, non c’era. In qualche risoluzione della Ccc traspare anzi il disagio nel dover sanzionare gli “irregolari” che creavano più scandalo.
Eppure, quando le coppie rosse cominciarono a scoppiare, il partito dovette trovare un riparo al pubblico scandalo: e fu la fuga divorzista a San Marino. Nella micro-repubblica rossa del Titano, per l’irritazione vaticana, i matrimoni potevano essere annullati. Ne approfittarono Einaudi e Vittorini. Gli irregolari rossi ci si precipitarono: D’Onofrio, Pietro Amendola, Gerratana, Grieco. Rinunciò Togliatti, perché avrebbe dovuto abdicare alla cittadinanza italiana: improponibile. Andò invece fino in fondo Longo, anche troppo: Teresa Noce non fu convocata per un disguido, e la “cenerentola rossa” si ritrovò divorziata a sua insaputa sui giornali (“La scissione Longo-Noce”, infierì Guareschi), allora scrisse una smentita pubblica che le costò l’espulsione dal gruppo dirigente, «un trauma più grande della deportazione».
Problema spinoso, quello della ribellione delle “ripudiate in rosso”. La differenza di genere, nella gestione politica dei divorzi comunisti, oggi appare eclatante e scandalosa. Solo in un caso l’iniziativa fu della moglie: fu Maria Antonietta Macciocchi ad avviare la causa per separarsi da Pietro Amendola. Rita Montagnana (che si rifiutò, scopre Tonelli, di andare in tribunale nella stessa auto del marito) finì emarginata dopo la rottura con Togliatti. Il partito era comprensivo con i compagni divorziandi, ma severo con le compagne che non accettavano che «i panni sporchi si lavano in Federazione ».
Puritano all’esterno, tollerante ma maschilista all’interno, il Pci pronubo e divorzista non esce bene dallo scavo di Tonelli. Se i problemi fossero stati solo di letto, come quello del compagno tombeur, il dirigente pugliese trasferito di sede in sede perché ovunque insidiava mogli e figlie di compagni, sarebbe stato più semplice. Ma il cuore ha ragioni speciali. E fu l’intrattabilità sovversiva dell’amore la prima vera crepa nel monolito dell’ideologia comunista italiana.

Repubblica 1.6.14
Il povero Aldino e le conseguenze dell’amore finito
di Filippo Ceccarelli


MA POI, COME SUCCEDE, TUTTI QUESTI AMORI e disamori, tutte queste passioni e lacerazioni qualche vittima lasciavano anche, e del tutto innocente. Nel bel libro di Anna Tonelli si accenna un paio di volte alle “difficoltà di salute” e ai “seri problemi mentali” di Aldo Togliatti, il figlio che il Migliore ebbe nel 1925 con Rita Montagnana e a cui il Pci ha riservato il più impietoso, per non dire il più inumano dei trattamenti.
Perché sballottato da Parigi a Mosca a Torino e affetto da una forma di autismo, Aldo, o Aldino, o Aldolino - come spesso accade i diminutivi enfatizzano la crudeltà del destino - fu sempre poco amato da suo padre, che dopo averlo abbandonato alla malattia in qualche modo lo sostituì con la bambina che si prese in casa quando andò a vivere con la sua nuova compagna, Nilde Iotti.
Inutile, ora, oltre che troppo facile, condannare. Resta che Aldo era fisicamente identico al padre: ingegnere, curiosissimo, poliglotta, ma troppo spesso si chiudeva nel mutismo. Tra un ricovero e l’altro, da Budapest all’Urss, lo si vide l’ultima volta ai funerali di Togliatti; ma una volta morta anche la Montagnana, nel 1979, il Partito, residuo Moloch, decise di cancellarlo, ma letteralmente, nel senso che lo rinchiuse a sue spese, lungodegente senza nome, in una clinica di Modena.
Dove, nel 1993, a Pci ormai scomparso, Aldo Togliatti fu “ritrovato”: un vecchio triste e silenzioso a cui un anziano militante portava la Settimana Enigmistica.
Morì nel 2011. Di lui ha scritto, oltre a Massimo Caprara, che fu a lungo segretario di Togliatti, Nunzia Manicardi ne I figli di Togliatti ( Koiné, 2002), ma a Broadway è andato in scena un dramma, Our fathers, di Luigi Lunari, in cui Aldo dialoga con Rosemary Kennedy, sorella di JFK, figlia anche lei “malata”, quindi rinchiusa e perfino lobotomizzata.
Ecco, nel momento in cui i sentimenti riacquistano diritto di cittadinanza nella ricerca storica, e senz’altro la malattia mentale si valuta in modo diverso da quarant’anni fa, magari è arrivato il momento di guardare con un altro occhio alla storia di questo sacrificio. Cominciando per esempio a restituire dignità storiografica e perfino politica alla testimonianza di Caprara secondo cui il figlio di Togliatti non era comunista, e ci teneva anche a non esserlo. Di più: in piena Guerra Fredda amava l’America; e almeno due volte scappò di casa per raggiungerla, in nave. Forse è una diceria, anche se può suonare come una specie di poesia, ma quel giovanotto confuso e intirizzito, che una notte del febbraio 1958 si aggirava sul molo di Civitavecchia, confessò che voleva imbarcarsi per andare a Disneyland. Inaudito, doloroso e tenero cortocircuito fra Aldolino e Paperino.

Repubblica 1.6.14
L’estetica del male
Tramontato il tempo dei malvagi titanici di Shakespeare, Dostoevskij e Melville e quello della banalità burocratica dei carnefici di Stato, che cosa rimane della rappresentazione del nostro lato oscuro?
di Benedetta Tobagi



NEI dettagli ingigantiti dall’obiettivo macro, i normali rituali di un risveglio casalingo si trasformano in carneficina, dall’arancia rossa spolpata dallo spremiagrumi alla goccia di sangue che cade da un taglietto di rasoio sul mento: così si presentava agli spettatori, attraverso la sigla, la serie americana Dexter (2006-2013), che marca un punto-limite nella rappresentazione contemporanea del male: un anatomopatologo serial killer è star assoluta e voce narrante. Si va ben oltre il provocatorio capovolgimento dell’etica ordinaria di un’altra serie di culto come Breaking Bad ( 2008-2013), il cui protagonista è un chimico che, colpito dal cancro, si trasforma in produttore di metanfetamine per assicurare alla propria famiglia di che vivere. E’ una forma di manipolazione perversa indurre lo spettatore a empatizzare, volente o nolente, con un assassino seriale psicopatico? L’arte si è assunta da secoli il compito di raccontare il male. Il male si trasforma, e con esso le sue rappresentazioni, dal teatro alle serie tv. I grandi “cattivi” della tradizione letteraria, il Riccardo III o lo Iago di Shakespeare, il Lucifero di Milton, fino alla grandiosa follia di Achab, contaminato dal male con cui lotta senza quartiere, sono personaggi grandiosi, dotati d’intelligenza e motivazioni complesse, e vanno incontro a un destino tragico. Il Padrino di Coppola si colloca ancora in questo solco. In più, Michael Corleone, come tanti altri gangster o eroi negativi di Scorsese, fino ai criminali di Educazione siberiana di Lilin, esercitano un fascino durevole sul pubblico perché incarnano un sistema valoriale fatto di vendetta e onore, arcaico e tribale quanto si vuole, ma granitico e dunque non privo di seduzione, in una società sempre più anodina. Tra le qualità più dirompenti del romanzo Gomorra c’è stata proprio la capacità di raccontare come molti boss del Sistema si pascessero di quest’immaginario (fino a copiare la villa di Scarface), mettendo a nudo, in contrasto, la disumanità degradante connaturata alla nuova criminalità ibridata col turbocapitalismo. Molti critici hanno apprezzato che il protagonista della recente trasposizione televisiva sia un giovane la cui affiliazione al clan è spogliata di epica, mera scelta di sopravvivenza in un inferno. Come incontrò grande successo la scelta innovativa di raccontare la depressione del boss dei Sopranos (1999- 2007).
Tramontata l’epoca dei malvagi grandiosi, il Novecento, complice la disumanizzazione indotta da tecnica e burocrazia, è stato il secolo del male grigio, senza volto e “senza radici”, dunque apparentemente impossibile da sradicare, come scrisse Hannah Arendt. E oggi? Il male della società tardocapitalista ci sgomenta perché risuona vuoto. Il genio di Dostoevskij intuì per primo questa linea d’evoluzione: i personaggi de I demoni ( 1873) gravitano intorno al nucleo freddo e vuoto dell’anima di Stavrogin, di cui alla fine si svela la segreta perversione. Il nichilismo, come notò Lukacs, «non è una convinzione ma un’esperienza vissuta». Viviamo circondati da crimini orrendi con motivazioni risibili, se non, addirittura, senza movente né ragione apparente, crudeltà gratuita, male fine a se stesso. Il mondo che ritroviamo nei romanzi di Roberto Bolaño, il labirinto di intrighi e delitti insoluti di 2-666 , per esempio, in cui, osserva Arturo Mazzarella nel saggio Il male necessario, a muovere la girandola degli eventi è un male “puntualmente immotivato”, oltre che impunito.
Oppure, crudeltà come forma di affermazione di sé o fonte di eccitazione, morte per “sentirsi vivi”. Accanto al fantasma grigio di Eichmann, riapparso nelle prigioni di Abu Ghraib, si fa avanti quello di Patrick Bateman, protagonista del romanzo American Psycho di Bret Easton Ellis (1991): un giovane yuppie di Wall Steet superficiale, salutista e danaroso, ossessionato dalle griffe d’alta moda e dal film Omicidio a luci rosse , che si trasforma con sconcertante naturalezza in un efferato torturatore e omicida seriale.
Cinema e letteratura, insomma, hanno saputo cogliere tempestivamente l’evoluzione del male, da Arancia meccanica di Burgess e Kubrik fino a L’avversario di Carrère, ai giochi crudeli degli adolescenti abbandonati a se stessi del romanzo Niente di Jane Teller, al vuoto pneumatico dei ladri d’appartamento modaioli del Bling Ring di Sophia Coppola. Opere diversissime compongono l’articolata fenomenologia di un male agito da uomini e donne “senza inconscio”, secondo la definizione di Recalcati, emanazione del dilagare di nuove e diverse patologie psichiche, perversioni narcisistiche in testa, analizzato in modo eccellente in alcuni saggi recenti come La scienza del male. L’empatia e le origini della crudeltà di Simon Baron-Cohen, o L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa? di Philip Zimbardo.
Il minimo comune denominatore è la totale assenza di empatia: «Avevo tutte le caratteristiche dell’essere umano», faceva dire Ellis al suo Bateman, «ma la mia spersonalizzazione era andata così a fondo che […] ero la rozza caricatura di un essere umano». Ma nella rappresentazione della crudeltà di questi “fratelli umani” nonostante tutto, per citare l’apostrofe con cui si rivolge ai lettori il protagonista e io narrante (un SS omosessuale matricida coprofago con relazione incestuosa con la sorella gemella: bingo) dell’assai discusso Le benevole di Jonathan Littel, tacciato, come Ellis, di «pornografia della violenza», fino a che punto di dettaglio è lecito spingersi? Ineludibili le riflessioni del premio Nobel Coetzee nella Lezione quarta di Elizabeth Costello.
Senza chiudere gli occhi davanti al male, vi sono tuttavia luoghi e pratiche d’orrore che meritano ancora la qualifica di “osceno”, riflette la protagonista. Il limite va ritrovato ogni volta. La bussola sta proprio nell’empatia che manca al malvagio. La pietas e il rispetto dell’umana dignità fanno sentire se qualcosa è “osceno” in quanto inutile alla comprensione e alla compassione, e come tale non dovrebbe essere messo in scena, tanto meno spettacolarizzato.
Letteratura e grande cinema (penso, in anni recenti, a Michael Haneke, Lars von Trier, GusVan Sant) disegnano una fenomenologia del male indispensabile per orientarsi, e, soprattutto, per simbolizzare (cioè dare forma, immagini e parole, ritessendole in un racconto) emozioni che altrimenti, slegate e irriflesse, restano prive di significato, e potenzialmente molto pericolose. Esiste una nuova estetica del male che sa penetrare l’abisso dell’assenza di empatia, metterlo a nudo e smascherarlo, possibile solo perché l’autore e l’artista sanno pensare e sentire, e aiutano gli altri a pensare i pensieri più difficili, a sondare le emozioni insopportabili.
Tutto il contrario della televisione, che si limita a mettere in scena, senza mediazione simbolica, la «tragedia senza il tragico» (felice definizione coniata dal criminologo Adolfo Ceretti per il delitto di Novi Ligure). Non per niente è un rutilante blob televisivo ad avere preso il posto del pensiero dei due Natural Born Killers di Oliver Stone. Illuminante per molti versi l’evoluzione di Quentin Tarantino. Si è lasciato alle spalle la violenza gratuita e quasi insopportabile, a dispetto dell’ironia, della scena di tortura delle Iene. Dalla Sposa di Kill Bill, al rogo purificatore in cui culmina Bastardi senza gloria, fino a Django Unchained, la violenza stilizzata e ironica ha assunto sempre più una dimensione simbolica: fantasie di vendetta e riscatto per chi ha subito violenze e umiliazioni. Decisamente liberatorie, e a tratti addirittura catartiche.

Repubblica 1.6.14
Quell’arte “cattiva” che ci rende insensibili all’orrore
di Gregorio Botta



«LA bellezza non è che il tremendo al suo inizio »: quando Rainer Maria Rilke scrisse questo celebre verso non poteva prevedere quanto sarebbe caduta in basso la categoria del tremendo. L’autore delle Elegie Duinesi pensava a un terribile sovrumano e angelico, e non avrebbe mai potuto immaginare le tristi forme che avrebbe assunto nel panorama estetico dell’arte a venire. Per esempio le forme splatter dei pupazzi di resina di Paul Mc-Carthy, l’artista americano, esposto in tutto il mondo, che predilige maiali e corpi umani (magari quelli di Bush che fa accoppiare con i predetti suini), che gonfia enorme cacche di plastica, che espone falli e vibratori, e cumuli di cibo e anatomie e resti della civiltà industriale ammucchiate in un asfittico immaginario pulp. Certo, lo scultore critica l’American Dream e questo basta a giustificare il suo immaginario e il relativo successo. Ma McCarthy non è l’unico: l’arte ha smesso da decenni di occuparsi della bellezza, e ormai è inutile piangerne la perdita, ma con la bruttezza continua a fare invece i conti. E parecchio. Chi si aggira per le Biennali e le fiere internazionali sa che incontrerà una certa quantità - non sempre modica - di opere che possono essere disgustose, dolorose, scioccanti, o semplicemente molto tristi.
È un panorama della desolazione quello che si offre ai nostri occhi. È di pochi giorni fa la notizia che il famoso My Bed con cui Tracey Emin partecipò al Turner Prize sarà messo all’asta da Christie’s per un milione di sterline. Si tratta di un letto sfatto, lenzuola fetide, pieno di cicche, preservativi, biancheria sporca di sangue compresa: quello che rimaneva di una notte alcolica nella Londra fine anni ‘90. Quindici anni fa l’artista - che poi avrebbe seguito altre più usuali strade - si svegliò chissà a che ora, vide il suo letto, e decise di esporlo così com’era: un objet trouvé di duchampiana memoria. Ma senza più nessuna trasposizione di senso, senza nessun salto semantico. Puro e semplice schiacciamento sulla realtà, o meglio, su una realtà: la sua. Non autobiografia, ma autoscatto. Forse una forma di selfie in 3D ante-litteram. E però se una simile opera è diventata così famosa, se ha raggiunto queste quotazioni, vorrà pure dire qualcosa.
C’è, evidentemente, un’estetica della miseria umana che ha preso piede e si è ritagliata una nicchia ben guarnita nel mondo dell’arte contemporanea. Riflette come uno specchio o più spesso pantografa abissi e disastri della nostra condizione. Qualche volta scivola in una vera estetica dell’orrore. Che cosa penserà, che cosa sentirà, chi guarda un’opera dei fratelli Chapman, con i loro fantocci umani deformati e iper o desessualizzati, e soprattutto con i loro teatri della crudeltà? Si tratta di grandi e precisissimi plastici in cui centinaia di piccoli soldatini - spesso nazisti - e scheletri e vittime mettono in scena amputazioni, decapitazioni, fucilazioni, massacri con una precisione assoluta e raccapricciante. D’accordo, sono i sonni della ragione che generano mostri. Li ha descritti Goya, perché i Chapman non dovrebbero? Perché in quell’ossessione da collezionista, in quel compiacimento voyeuristico forse c’è un di più che trasforma l’opera nel suo contrario. Un cantico del male. Un altro esempio? Abdel Abdessemed, l’artista franco-algerino famoso per le sue provocazioni - sua la statua della testata di Zidane a Materazzi - mostra video con mattanze di animali. Ecco servita in formato Hd la ferocia dell’uomo, la sua gelida insensibilità. La domanda è: non lo sapevamo già? Abbiamo davvero bisogno di vederla nei minimi particolari per esserne consapevoli? Che cosa aggiunge il video di Abdessemed?
Quanta guerra, quanta malvagità salgono sul cavalletto delle nostre mostre. Il mondo è cattivo e gli artisti pretendono di rappresentarlo per quello che è: da quando poi la fotografia ha occupato uno spazio sempre maggiore nel campo dell’arte le cose si sono fatte ancora più complicate, creando un territorio ambiguo che mescola e cancella ogni confine tra estetica e informazione. Belle foto dell’ orrore: non è un ossimoro? Fu Susan Sontag a indicare il rischio dell’estetizzazione della guerra, parlando delle immagini dei fotoreporter al fronte. L’estetica del dolore - diceva - rischia di essere un’anestetica: abitua e assuefà tutti al mondo come è. Ultimo passo della banalizzazione del male. Un tempo - tanto tempo fa - l’Occidente inseguiva il kalòs kai agathòs, il bello e buono. Oggi invece i Chapman intitolano una mostra Bad Art for Bad People . Arte cattiva per gente cattiva. Appunto.

Repubblica 1.6.14
Firenze
La furia che lega Jackson Pollock a Michelangelo
di Paolo Russo



CHE un legame esistesse fra Michelangelo e Jackson Pollock è cosa nota. Ma l’attenzione degli studiosi non ha mai troppo approfondito eventuali convergenze di personalità, aspirazioni e modus operandi. Ci prova, ora, curata da Sergio Risaliti e Francesca Campana Comparini, La figura della furia che porta a Firenze in Palazzo Vecchio sedici opere dell’eroe laico e tragico dell’action painting (fino al 27 luglio, pollockfirenze. it). Mentre nel vicino barocco di San Firenze un allestimento multimediale, che include lo storico film di Hans Namuth, si propone come insight nell’universo pollockiano. Un progetto che, a differenza della collettiva milanese sugli “Irascibili”, si fonda sull’assunto della continuità fra quei due titani.
Evocata e rafforzata, secondo i curatori, dalla presenza in Palazzo Vecchio del michelangiolesco Genio della Vittoria , che incarna non finito, forze contrapposte e ascensione spiraliforme, la disumana spinta verso il bello che del Buonarrroti furono “furiosi” tratti cruciali. E che hanno, nell’impianto della mostra, il loro corrispettivo nella stessa “furia” del Pollock che ridefinì col dripping il corso dell’arte occidentale. L’individuazione di quella comune “furia”, l’agire in un panico continuum di eroica, sofferta ricerca, la tremenda tensione spirituale che Michelangelo rivolge a Dio, mentre l’americano per la sua mortale utopia di bellezza attinge al proprio inconscio, la capacità irripetibile di entrambi di rivoluzionare per sempre l’arte, sono dunque la scommessa della mostra. La quale, sopite le polemiche che ancor prima dell’inaugurazione avevano investito relazioni private e competenze di Francesca Campana Comparini, diventa occasione di soggettiva verifica del visitatore. Al quale saranno molto utili pure i saggi degli studiosi di vaglia che nel catalogo Giunti articolano l’assunto di cui sopra, citando, fra le molte fonti, dichiarazioni di Pollock, del quale si sottolineano affinità e apprendistato michelangiolesco a partire dal desiderio di “diventare scultore” e dalle lezioni del suo primo mentore Thomas Hart Benton. Dal cui insegnamento Pollock arriva, fra 1937 e 1939, agli importanti Sketchbooks I e II conservati al Metropolitan, che, pubblicati da Katharine Baetjer nel ‘97 per un’esposizione newyorchese su Pollock e i maestri antichi, sono stati l’innesco dell’occasione fiorentina. Con la quale debuttano in Italia sei di quei disegni: tre dagli affreschi della Sistina, altrettanti di più incerto soggetto. Documenti preziosi che certificano uno studio profondo e un’attenzione anatomica mai banali. Intorno a quel nucleo, altri notevoli prestiti da importanti musei e raccolte private tracciano un interessante excursus: le giovanili (1934-1938) Panel With Four Designs e Square Compositions With Horse ; lavori degli anni ‘40, alla vigilia dei dripping, come The Water Bull e Earth Worms; la Composition with Black Pouring che il maestro teneva nel suo studio di Long Island, mentre dalla Pollock Krasner Foundation arrivano grafiche dei secondi ‘40 e dei primi ‘50


La Stampa 1.6.14
La mostra del pittore
che uccise la sua musa
A Bologna nell’83 il delitto del Dams: “Ma sono innocente”
di Franco Giubilei

qui


Repubblica 1.6.14
Giovanni Bellini
Maria piange davvero e il tempo si ferma nella Pietà più bella
di Armando Besio


LA DISPERAZIONE calma di Maria, che accosta la guancia a quella del figlio, in un estremo gesto di tenerezza. Lo sgomento di Giovanni, che volge verso l’immaginario spettatore il viso incorniciato da riccioli bellissimi e gli grida lo strazio per la morte dell’amico. In mezzo a loro Gesù, appena deposto dalla croce, non ancora collocato nel sepolcro. Il capo reclinato, le braccia abbandonate, le ferite dei chiodi dipinte non spietata nitidezza iperrealista. Avvolge la scena la morbida luce di un malinconico tramonto (è l’ora liturgica della Compieta) che «attenua e armonizza ogni tinta» (Longhi).
«È il più bello dei Cristi in Pietà» sosteneva nel 1908 il grande storico dell’arte francese Emile Male. Cent’anni dopo, 2008, il maestro americano della videoarte Bill Viola, commosso dalla mostra di Giovanni Bellini (1432-1516) alle Scuderie del Quirinale, affidava al quaderno dei visitatori queste parole: «Come sei riuscito a rappresentare il mondo fisico in un modo tanto preciso e realistico, e allo stesso tempo a inondarlo di tale forza spirituale? Sarei curioso di sapere se hai pianto mentre instillavi di lacrime gli occhi di Maria e di Giovanni». La risposta è scritta in latino nel cartiglio dipinto sul bordo di marmo del sarcofago, sotto la mano di Gesù. È un distico ispirato alle Elegie di Properzio. Il soggetto della poesia originale (in mostra nel manoscritto veneziano nel 1453 aperto su questa pagina) è il lamento di un soldato per la morte di un compagno. La versione dettata a Bellini da un amico umanista (forse il triestino Raffaele Zovenzoni), tradotta dice (più o meno) così: «Mentre gli occhi gonfi di pianto quasi emettevano gemiti, quest’opera di Giovanni Bellini poteva piangere».
Intorno alla Pietà del Giambellino (il suo soprannome, popolare come il quartiere milanese cantato da Gaber), capolavoro della Pinacoteca di Brera, donato nel 1811 dal viceré francese Eugenio de Beauharnais (erano gli anni in cui Napoleone trasformava il piccolo museo nato nel ‘700 al servizio dell’Accademia nel “Louvre italiano”), la soprintendente Sandrina Bandera ha costruito una piccola, ma raffinata esposizione che ripercorre la storia del dipinto, ne indaga le fonti iconografiche, documenta il recente restauro e ricostruisce il contesto figurativo e culturale in cui sbocciò. ( Giovanni Bellini. La nascita della pittura devozionale umanistica, fino al 13 luglio, catalogo Skira).
Una mostra dalla genesi sofferta come il quadro. Neanche uno sponsor ha risposto al bando della Soprintendenza, che chiedeva solo 200mila euro. Intossicati dalle overdose di Kandinsky, Warhol e altri divi di facile consumo e sicuro incasso, i moderni mecenati hanno perso di vista la pittura antica. Ma all’antivigilia è intervenuta la Fondazione Cariplo evitando brutte figure coi prestatori.
Il percorso inizia con una Imago Pietatis greco-bizantina. Lo stile è ancora quello astratto geometrico delle icone che approdavano in Laguna dall’Oriente. Ma nel rigido prototipo si riconosce già uno slancio di affetto, il guancia a guancia tra madre e figlio che sarà ripreso da Bellini. Altre “Pietà” del Rinascimento preparano l’epifania del capolavoro. Opere di Antonio Vivarini (occhio allo schema delle tre figure, lo stesso che sarà adottato da Bellini), Michele Giambono, Marco Zoppo, Carlo Crivelli. E Andrea Mantegna, che di Giovanni è cognato. Il confronto tra i parenti portenti del Rinascimento veneto è affascinante. C’è un periodo in cui i loro quadri quasi si somigliano. Tra Venezia e Padova, assorbono un sofisticato melting pot di culture: la pittura fiamminga, la letteratura umanistica, la passione per l’archeologia, la scultura di Donatello nell’Altare del Santo. Ma qui risaltano con nitidezza anche le differenze. Il tratto di Andrea è più solido, scultoreo, intellettuale. Quello di Giovanni più morbido, dolce, emotivo. «Più riposato, meno nervoso» (ancora Longhi, sempre efficacissimo).
Giovanni dipinge molte varianti della “Pietà”. Eccone alcune in mostra. Arrivano dal Palazzo Ducale di Venezia (l’espressionismo delle figure evoca i ferraresi), dal Correr (il modello è uno dei bassorilievi padovani di Donatello), da Rimini (sorreggono Gesù i quattro più simpatici angioletti della storia dell’arte), dalla Carrara di Bergamo (la smorfia di Maria ricorda quella dell’ Ecce Homo di Antonello), dai Musei Vaticani (strepitoso il gioco di mani tra Gesù e Maddalena che lo cosparge di unguento).
E finalmente, la “Pietà” più bella, la versione definitiva. «Una poesia silenziosa» secondo l’umanista Bartolomeo Faccio. Fu dipinta a tempera su doppia tavola di pioppo, non si sa per chi, né destinata a quale spazio: le misure relativamente abbondanti (87 x 109 cm) fanno pensare a una cappella piuttosto che alla devozione privata da camera. Prima di approdare a Brera, nel ‘700 era nella collezione bolognese Sampieri. La datazione è controversa, tra 1460 e 1470, quando Bellini, figlio e fratello di pittori (Jacopo e Gentile), inizia a imporre il suo talento a Venezia e diventa «famosissimo in orbe». Dürer, che lo incontrerà nel 1506 tra le calli, riconoscerà che sebbene «molto vecchio, è ancora il migliore di tutti».
Qualche notizia sul restauro, effettuato a Brera da Mariolina Olivari. L’ultimo che aveva messo mano sul dipinto era stato, nel 1864, Giuseppe Molteni, ottimo pittore milanese. Il quale, in un eccesso di zelo, non si era proibito di ritoccare l’originale. Liberato il quadro dalle vecchie vernici ingiallite, la Olivari ha ritrovato i piccoli tocchi di pennello di Molteni sulle spalle e perfino sui capezzoli di Gesù. Dopo la mostra, la “Pietà” di Bellini tornerà nella sua nuova collocazione nella Pinacoteca, dove chiude il corridoio dei pittori veneti del Rinascimento e introduce la sala allestita da Ermanno Olmi per il Cristo morto del Mantegna.

Repubblica 1.6.14
Il “sor” Belli che dà voce all’inconscio in dialetto

di Walter Siti


IN QUESTA poesia l’io di chi parla non coincide con l’autore; ma qui, mi si obietterà, non c’è nessun io - è un racconto oggettivo, in terza persona. Niente affatto. Chi si mostra annoiato e rassegnato per una ritualità stanca («sempre er Papa… sempre quarche Eminenza… sempre la su’ predica latina»)? Chi fa dell’ironia («quello che ppiù a tutti j’interessa») sui prelati che frequentano le “cappelle”, cioè le cerimonie cantate? Chi con occhio straniato, disincantato e deformante fotografa l’immobilità dei cardinali - che non sembrano soltanto cadaveri, né soltanto morti, ma “cadaveri de morti”? Chi, teatralizzando, usa quel “ve” al v. 12 come se parlasse a interlocutori da stupire? Chi infine mima il sussurro del caudatario (l’inserviente addetto a reggere lo strascico), sussurro che uno s’immagina a voce non troppo bassa perché l’Eminentissimo è probabilmente rincoglionito e duro d’orecchio? Non c’è un io esplicito, ma c’è una voce soggettiva e la voce non è di Belli. Lui, tranquillo impiegato pontificio, non si sarebbe mai permesso.
Ci arriva di colpo a questo sdoppiamento, a questa maschera plebea, intorno al 1829’30; dopo tre visite a Milano, l’ultima appunto nel ‘29. Per quanto strano possa sembrare, Milano ha avuto un ruolo decisivo nella maturazione dei sonetti romaneschi di Belli. Lì ha letto le poesie di Porta e s’è convinto della piena dignità artistica del dialetto; lì ha potuto valutare, per confronto, quanto la società romana sotto il papato oscurantista di Gregorio XVI fosse immobile e quanto vi fossero impermeabili le classi sociali. Tornato a Roma si dimette dall’Accademia Tiberina, dove aveva scritto molti non memorabili versi italiani - guarda con taglio nuovo i propri tentativi precedenti in dialetto (ancora vecchi, di maniera) e intuisce genialmente un progetto monumentale: una gigantesca commedia umana in cui ritrarre fedelmente la plebe di Roma considerata «cosa abbandonata senza miglioramento». Un progetto realistico e nichilista insieme. La voce sarà quella dei parlanti popolari, «dal ceto medio in giù»; si tratterà di mettere in versi le espressioni come escono dalle loro bocche, non seguendo altro modello che «il testimonio delle orecchie ». Progetto rischioso perché dalle bocche plebee escono oscenità, ingenuità infantili, aggressioni anticlericali. (In un sonetto intitolato Li Cardinali in cappella il popolano dice, riferendosi alle Eminenze, «saria curioso de leggeje in core/ quanti de quelli lì credeno in Dio»).
Per questo i quasi duemila sonetti romaneschi resteranno sostanzialmente clandestini, destinati oralmente e di rado a pochi amici e selezionati ascoltatori (tra questi Gogol di passaggio per Roma, che ne parlerà a Sainte-Beuve); ma non credo che la decisione di tenerli segreti sia dipesa per Belli unicamente dal pericolo della censura. In un’introduzione all’opera mette avanti il dovere della verità («il popolo è questo, e questo io ricopio») per difendersi da un’accusa che sente insidiosa: di «celarsi perfidamente dietro la maschera del popolano… onde esalare il mio proprio veleno». Spesso le negazioni non richieste funzionano da rivelazioni. Se Belli vede la plebe, romanticamente, come un grande fanciullo nel cuore della società; se biograficamente il padre di Belli fu severissimo e autoritario, e il papa è pur sempre un Padre; se il sesso, il politicamente aggressivo e il gioco verbale sono le pulsioni inconsce che secondo Freud si liberano nel motto di spirito, non credo di sbagliare sostenendo che la plebe romana è anche, per Belli, l’incarnazione allegra e masnadiera, la controfigura del proprio inconscio. Quando la verità esterna incontra il desiderio rimosso, il realismo diventa simbolo e intensità lirica.
Che il nostro sonetto abbia una struttura comica non c’è dubbio: la lenta preparazione delle due quartine, con quegli endecasillabi che sembrano ritagliarsi casualmente nel parlato, porta a stringere l’obiettivo sui banchi dei cardinali - lì le terzine creano il silenzio, un silenzio di morte, perché più nitida risalti la battuta del caudatario: con quel “finita” che chiude davvero il sonetto e quel superlativo sdrucciolo sull’accento forte di sesta che è come uno sghignazzo. Ma la prima terzina, e soprattutto il v. 11, eccedono qualunque comicità puntando verso una zona di grottesco tragico; lì c’è il barocco eterno di Roma, ci sono i cardinali rossastri di Scipione, le sfilate ecclesiastiche di Fellini. Morte fisica e morte morale, la morte di un mondo storico e quella di tutti i poteri in decadenza. Il v. 11 piaceva a Pasolini che lo cita più volte; e a Pasolini, che cerca il proprio inconscio tra i parlanti romani nei primi anni ‘50, Belli apparirà come guida e Virgilio. Ma nel violento documento belliano c’è una miniera che non si esaurisce fino ai fantasmi attuali; nel sonetto Li prelati e li cardinali , dopo essersi lamentato di quelli che vengono a Roma dalle altre città per riempirsi la pancia, il popolano conclude così: «Ma saria poco male lo sfamalli:/ er peggio è che de tanti che ce trotteno/ li somari so’ ppiù de li cavalli./ E Roma, indove viéngheno a dà fonno,/ e rinnegheno Iddio, rubeno e fotteno,/ è la stalla e la chiavica der monno».

l’Unità 1.6.14
La bellezza è sotto Roma
Ogni giorno una scoperta: dal centro alla periferia
In via Prenestina vengono alla luce 22 mausolei e una necropoli E così a Tor Marancia e all’Ostiense ma anche al Tritone
Il lavoro fondamentale della Soprintendenza archeologica
di Vittorio Emiliani


«QUI A TOR MARANCIA STIAMO SCAVANDO DALL’ESTATESCORSA, COI POCHI MEZZI DISPONIBILI, E, NEL SISTEMARE A GIARDINO L’INGRESSO DA VIA LONDRA, A GROTTA PERFETTA, abbiamo rinvenuto il battuto antico, sconosciuto, di una strada romana, e soprattutto tombe che potrebbero essere del IV secolo avanti Cristo», mi riferivano ieri, in una emozionante «diretta» le archeologhe Rita Paris, responsabile dell’Appia antica e del Museo dell’ex Collegio Massimo, e la sua collaboratrice Livia Giammichele. «Sono tombe terragne, sembrano gruppi famigliari con tracce di pali per la copertura della tomba principale, un unicum nell’area. Nell’800 qui era segnalato un impianto termale dal quale sono state prelevate molte statue…Chissà, proseguendo, potremmo trovare anche il Bagno e il Tempio di Dioniso già noti nel ‘500. Ora però abbiamo scoperto cose molto più lontane, decisamente arcaiche» Così avviene spesso nell’area dell’Appia Antica dove peraltro ci si deve, contemporaneamente, difendere dall’assalto continuo degli abusivi.
A Roma non passa giorno senza che la Soprintendenza archeologica, gli istituti stranieri oppure i lavori edilizi e stradali non individuino altri importanti resti della città antica dall’età arcaica a quella imperiale. È successo venerdì scorso con la scoperta, davvero eccezionale, annunciata dalla soprintendente Mariarosaria Barbera, di 22 mausolei con ampia necropoli lungo la Via Prenestina (Tor Tre Teste), città sacra sui 5000 metri di ampiezza, con un tracciato stradale in basolato a 2,5 metri di profondità. Patrimonio straordinario - ovviamente tutto da studiare - rivelato dalle mai abbastanza lodate indagini archeologiche preventive rese più incisive col Codice per il Paesaggio 2005. In quell’area libera un grande gruppo alimentare emiliano (Cremonini) deve realizzare alcuni edifici di tipo commerciale. Un grande Grill.
Del resto la Roma imperiale contava circa un milione e mezzo di abitanti e si estendeva ben oltre la stessa città d’oggi. Anni fa questi ritrovamenti venivano considerati un inciampo. Oggi, molto meno. Gli abitanti per primi delle periferie sentono di conquistare di colpo un pezzo di identità storica. Difatti è stato subito intenso l’interesse dei residenti di Tor Tre Teste, del Quarticciolo, delle associazioni e dei comitati di quartiere, per il grande ritrovamento. «Una speranza per tutte le periferie». ha dichiarato la soprintendente Barbera. L’archeologia come «opportunità di crescita » per un popolo di sradicati. Altro fatto fondamentale: la collaborazione fra la Soprintendenza e il gruppo Cremonini disponibile a sostenere il progetto di valorizzazione museale. «Una lezione per coloro che si ostinano a vedere nelle Soprintendenze un ostacolo per lo sviluppo», ha polemicamente (e giustamente) sottolineato la soprintendente.
Pochi giorni or sono, nell’area dei Fori - che si pensa già indagatissima - è saltata fuori da una cavità del condotto fognario, sotto la Via Sacra, una elegante testa di Apollo di età imperiale, appartenente ad una statua di grandi proporzioni. Un mese fa era stata annunciata la scoperta - questa davvero clamorosa - di un’altra parte sconosciuta della maggiore città portuale del mondo di allora, a Ostia Antica. Già più grande di Pompei, e certo meglio tenuta, senza tanti strombazzamenti, al di là del corso antico del Tevere che non chiudeva a nord l’abitato romano ma lo attraversava. «Risultati strepitosi» ottenuti dalla collaborazione fra la Soprintendenza archeologica (Angelo Pellegrino e Paola Germoni), le Università di Southampton e Cambridge, la British School at Rome (Simon Keay e Martin Millett), e presentati assieme ad un maestro dell’archeologia, Fausto Zevi, e alla soprintendente Barbera. La quale ha voluto ricordare il vincolo del lontano 1962, che ha salvato quella grande area. Un’altra prova della essenzialità dei vincoli e delle Soprintendenze che tanto fastidio sembrano suscitare oggi. Per ignoranza, provincialismo e interessi speculativi fondiarie e immobiliari.
Altri ritrovamenti nell’ottobre scorso, fra il Nazareno e Via del Tritone: una «insula» a più piani riccamente decorata con terme e un tratto dell’Aqua Virgo, acquedotto tuttora esistente, costruito da Vipsanio Agrippa. Oppure, in settembre, sotto il Terminal Ostiense i probabili resti della Villa di Servilla amante di Cesare e madre di Bruto. Negli stessi giorni, sotto l’ex Ufficio Geologico, un tempio dalle potenti mura risalente addirittura al VI secolo a.C. Pensate che città ancor più straordinaria sarebbe Roma se il cardinal De Merode prima, Quintino Sella e Benito Mussolini poi avessero evitato di edificare la Capitale (dal 1870, la Terza Roma) «sopra» la Roma dei Cesari, ma l’avessero pensata in aree del tutto libere.

La Stampa 1.6.14
Under 30 assunti nei musei e addio bancarelle al Colosseo
Il decreto Cultura prevede contratti per i giovani e lotta al degrado urbano
di Maria Corbi

qui

il Fatto 1.6.14
L’intervista Francesco Tullio Altan
“L’Italia è un ombrello che non si chiude mai”
di Malcom Pagani


Altan fuma il sigaro, beve caffè amaro e come certi personaggi delle sue storie non crede in dio e non professa culti che osino superare la Gibilterra della scommessa quotidiana: “Sono ateo”, “Io no, credo nel Superenalotto”. Altan cova opinioni che non condivide: “Non sono convinto di aver molto da dire”. Altan è uno scaffale di tesori che per pudore chiama “vignette”. Sono più di 7.000: “Le ha contate mia sorella” e sul tema, di più non gli si cava: “Sono timido, lo sono sempre stato, ma con il tempo la situazione è migliorata”. Altan ha la barba di Mosè, ma non sente di detenere alcun segreto. Così minimizza, riduce, ride di se stesso e quando gli pare di esagerare, precede i ragionamenti sibilando un “abbastanza”. Al secondo piano di una casa che era stata di suo padre: “Da queste parti, con la Brigata Osoppo, fu anche partigiano”, circondato da fieno, rose e campagna, Francesco Tullio impasta il suo pane da quasi mezzo secolo con china e pennarello.
Ha fatto definitivamente scalo a Grado, anche se la bici da lanciare tra le gole della Carnia è ormai un ricordo: “Il tendine è a pezzi” e i viaggi sudamericani – 4 mesi l’anno, figli di un antico patto con Mara, la moglie brasiliana – si sono trasformati in una pallida parentesi invernale: “Nel 2014 a Rio sono stato solo 20 giorni. Se non sento l’atmosfera giusta, non riesco a disegnare”. Poi mima l’aria con le dita perché è qui, alle porte di Aquileia: “Dove sono discreti e la tentazione massima, il cinema, è a 18 chilometri” che Cipputi, la Pimpa e il Cavalier Banana, fiabescamente, possono vestire in tuta blu, correre felici o agitare l’ombrello senza far piovere nevrosi. Altan iniziò alla fine dei Sessanta su Playmen e già all’epoca, con piglio da Wodehouse, ritraeva mostri, satrapi, cialtroni e disgraziati. Donne travestite da sirene, impegnate a cantare con il timbro del cinismo: “Io son disposta a tutto, basta che sia alto, bianco, serio, biondo, innamorato e ariano”. Farfalle in volo allusivo: “Sul serio credevate che gli entomologi ci rincorressero per le bellezza delle nostri ali?”. Affreschi di naufraghi che ballano porcini all’immorale ritmo della perdita di sé: “Babbo, vado in tv”. “Allora non ho vissuto invano”. Se ripensa al viaggio originario intrapreso nel settembre del ’42, al mare navigato in zattera prima che Linus, Il Corriere dei Piccoli, l’Espresso, Le Monde e la Repubblica offrissero al suo talento un oblò per guardare la vita al riparo dalle onde, Altan trova piroscafi da disegnare: “Vidi una nave sulla Treccani immaginandomi progettista” e lessici familiari meno diretti degli interni che ha fotografato senza concedersi il lusso della pietà: “Papà, mi suicido”. “Non fare il moralista, spara agli altri”. Tra le mura di San Vito al Tagliamento, la dialettica da tinello dei suoi genitori, Nora e l’antropologo Carlo Tullio, viveva di prassi consolidate: “Almeno fino a quando, nel ’50, non si separarono. Mia madre era dolce e mio padre severo. Con me giocava poco e aveva idee precise su quel che si dovesse o non si dovesse fare. Poi un giorno facemmo le valigie e partimmo per Bologna. Avevo annusato l’atmosfera, ma nessuno mi disse né mi spiegò niente. All’epoca l’addio tra moglie e marito si gestiva male”.
Fu traumatico?
Abbastanza. Arrivammo a fine novembre. La nebbia era nebbia e il freddo, un freddo porco. Dalle finestre si vedevano ancora i palazzi distrutti dai bombardamenti. Sembrava Guernica. Tubi, appartamenti sventrati, tetti crollati . Bologna, con il tempo, si è fatta amare molto. Ci ho vissuto fino ai 19 adorando le sue piazze, tifando per la sua squadra di calcio e sentendola sempre una seconda patria. Il ricordo casalingo di mio padre invece è fermo agli 8 anni, a una visita sporadica e a qualche vacanza estiva.
Il disegno è un riflesso della solitudine?
A 14 anni volevo fare il pittore. Mio padre mi dissuase: “Fai il Liceo, poi deciderai”. In verità non ho mai scelto una mia strada. Mi sono fatto guidare dalle correnti. All’inizio degli Anni 50 la tv non c’era e le alternative erano poche. Si disegnava e si leggeva creandosi la propria mappa un libro dopo l’altro.
Ha letto molto?
Esisteva il dovere di leggere ed era una fatica. Il punto di rottura fu L’uomo senza qualità di Musil. Era estenuante e mi fermai al primo volume. Cominciando a scegliere da solo, senza imposizioni, conobbi finalmente anche il piacere. Il meccanismo perfetto dei gialli di Dürrenmatt o Le Carré. L’umorismo un po’ amorale degli inglesi. Una goduria. Con il disegno è andata diversamente. Mi è sempre parso la miglior maniera di raccontarmi alcune cose liberando la fantasia. Lo fanno anche i bambini e del loro spazio, sono gelosissimi. Mia nipote si chiude in camera e assegna le parti. Se la interrompi si infuria.
Lei sembra calmo a prescindere dal contesto.
La verità è che detesto spostarmi. Ti dicono: “Ci mettiamo un’ora” e un’ora non è mai. Si perdono 3 giorni e fuori dal mio ambiente, non riesco a pensare. Non amo il telefono e non ho molti amici. Ma ne ho di buoni. Magari non ci incontriamo per un anno, ma quando accade, si riparte dallo stesso punto. Non c’è bisogno di spiegarsi con gli amici veri. La condizione che preferisco.
Battute folgoranti in enciclopedia minima: “Lei è un coglione”, “Maledizione, un’altra fuga di notizie”. “Siamo sull’orlo del baratro”, “Goditi il panorama”. “Peggio non poteva andare: sono morto e mi sono reincarnato in me stesso”. “Ho pensato a delle cose orribili”, “Falle, adesso, così ti togli il peso”.
Qualcuna mi viene così, nella fase tra il sonno e la coscienza piena, nel dormiveglia. È un Tin-tin.
Un Tin-Tin?
La battuta è un suono. Un istinto. Un lampo. Altre volte devo capire cosa mi stia davvero sullo stomaco e per elaborare ci vuole tempo. Mi piace dialogare con il lettore, portarlo dentro al paradosso, coinvolgerlo come hanno fatto i creatori di una magnifica serie tv, House of cards. Ho sempre pensato che a chi ti va a cercare sul giornale si debba restituire qualcosa. Che se si stufa lui, il patto, all’improvviso, non funziona più.
Lavora di notte?
Non più. Una volta stavo in piedi fino alle 4 del mattino ed erano ebbrezze, non solo artistiche, e lunghe notti terribili per la salute. Non vedevo la luce, avevo la sindrome del fornaio. Ora devo dormire 8 ore, sogno molto e non faccio più incubi. Se ho un’illuminazione mentre riposo, la lascio fuggire. L’attività onirica inganna e io non voglio deludermi come quel regista francese che lascia il letto, corre al tavolo, scrive su un foglio un passaggio decisivo del suo film e quando si alza, il giorno dopo, trova soltanto 5 parole: “Un uomo ama una donna”.
Lei ha conosciuto sua moglie in Brasile.
Con lo sceneggiatore di Prima della rivoluzione, Gianni Amico, partii nel ’67 su un Jet della Varig per il Brasile. Gianni avrebbe girato un film sulla locale musica popolare e il produttore, Barcelloni, mi propose di unirmi alla troupe. Studiavo Architettura a Venezia. Ero a due terzi del percorso. Lasciai l’Università e sui libri non tornai più. Stordito, con un giubbotto di Renna, attraversai Rio tra un caldissimo pranzo a Copacabana e un ufficio all’ultimo piano da raggiungere senza ascensore. Mara la incontrai 3 anni dopo. Faceva la costumista. La assunsi per Tatu bola. Le riprese cominciarono nell’ottobre del ’70. A novembre del ’71 nacque nostra figlia. Del cinema non sapevo nulla. Facevo di tutto. Autore, fonico, scenografo. Il primo incarico, atroce, fu da sdoganatore delle attrezzature che arrivavano dall’Italia. Andavo all’aeroporto con un funzionario del Consolato, il dottor Palla, e le tasche piene di banconote. La corruzione era sistematica. Palla sapeva come muoversi senza disagio.
Il dottor Palla sembra una sua invenzione letteraria.
Le due o tre volte che non poté scortarmi, vidi l’inferno. Mi trovavo al cospetto di mostruosi ceffi in divisa e dell’enorme rotolo di denaro tra le dita, non sapevo cosa fare. Se darglieli, non darglieli e come darglieli, ’sti soldi.
Altra tappa, Roma.
Un periodo di passaggio tra i viaggi sudamericani. Vivevo in Via del Pellegrino. Era considerata la strada dei ladri e naturalmente era tra gli angoli più sicuri di Roma. Il caos mi piaceva, ma quando tornai un decennio dopo, il disgusto per la confusione prese il sopravvento sullo stupore. Lavoravo sulla Salaria e spesso, nonostante la distanza, nell’impossibilità di trovare un taxi, andavo a piedi. Ho visto La grande bellezza di Sorrentino e ho ritrovato immutati alcuni tratti cittadini.
Le è piaciuto?
Sorrentino è un autore che ammiro. Nei suoi lavori, anche da scrittore, emana una sorta di disperazione controllatissima, un’atmosfera sconfortante, il quadro di un’umanità che in sé ha gli anticorpi per non abbandonarsi al dolore. This Must be the Place, per esempio, è un’opera straordinaria: sembra che divaghi, che si perda e invece mantiene inalterato il nucleo narrativo.
Sorrentino sostiene che la digressione sia una delle cose per cui vale la pena vivere.
È una bella suggestione. Mi chiamavano dottor Divago e, anche se mia moglie divagava molto più di me, so di cosa parlo. Nei fumetti lunghi mi distraevo parecchio, perdevo il filo, andavo dove volevo. Alla setta dei divagatori aderisco senza indugi.
Lei è stato anche sceneggiatore.
La scrittura delle sceneggiature è un esercizio orrendo. Bisogna supporre cose che non succederanno mai: “Lui entra da qui e dice questo”, mentre sai già che entrerà da un’altra parte e dirà un’altra cosa. C’è un certa frustrazione nel mettere fantasia e budget nello stesso cerchio. Io ho partecipato solo alla stesura di qualche discutibile canovaccio, ma i copioni letterari, Bergman per intenderci, li avevo letti. In Cuori Pazzi, ambientandolo in Svezia, avevo tentato di riprendere quel filo.
Cuori pazzi si presentava così: “Storia di sesso e di speranza miste alla ricerca di dio attraverso il lurido labirinto che è la vita”.
Quando mi guardo indietro sto attento a non rimpiangere niente. Il passato è stato sempre più complicato di come ce lo ricordiamo e di come, soprattutto, ce lo raccontiamo. Forse ho nostalgia degli anni bolognesi, ma più probabilmente è nostalgia per i miei 16 anni. E non è vero che il tempo degli anziani valga di più. È tutto uguale il tempo. L’impresa eccezionale è organizzarlo, dargli un ordine. Prenda la Pimpa, compie 40 anni tra qualche mese. La concorrenza di Peppa Pig è feroce, ma io so che i bambini e la mia edicolante la aspettano ancora. Non posso fermarmi. (Ride)
Come nacque?
Giocando con mia figlia. Feci questo cagnolino con i puntini rossi, inventai una storiella di supporto e Marcelo Ravoni, il mio primo mentore, l’uomo che portò Quino e Mafalda in Italia, la consigliò al Corriere dei Piccoli. La Pimpa del ’75 era molto brutta, sgangherata, eversiva rispetto ai canoni formali. In linea con quel che mi appassionava all’epoca, con il tratto dei disegnatori americani e dei francesi di Hara-Kiri. Infatuazioni momentanee. Ieri usavo i pantaloni a zampa d’elefante, oggi credo li lascerei nell’armadio.
E Cipputi, il suo operaio? È rimasto nell’armadio della memoria anche lui?
Gli voglio bene e ogni tanto lo richiamo in servizio, ma Cipputi è preistoria. Non riesco più a immaginarlo. In quel senso è cambiata ogni cosa.
I giornali vendevano più di oggi.
I giornali hanno le loro colpe. Ultimamente ho l’impressione di leggere cose che ho già sentito e se si guarda una prima pagina di un anno fa non la si distingue da quella dell’anno successivo. Ma alla dittatura del quotidiano sul web non mi arrendo. Ho bisogno del caffè, della carta stampata stesa sul tavolo, delle liturgie mattutine, delle mie operazioni a stretto contatto con l’abitudine.
Le Monde le propose di inventare una vignetta tutti i santi giorni.
E io dopo qualche settimana, dissi grazie e declinai. Anche Eugenio Scalfari, nell’unica telefonata che mi fece nell’82, mi fece una richiesta simile. Fu gentile. Forattini aveva appena lasciato Repubblica. Di fronte al diniego, per farmi cambiare idea, Scalfari mi informò che avevano inventato il Fax.
È cambiata anche la politica.
I nostri politici sono di una pigrizia mentale che sfiora il fantastico. Da un secolo sono abituati a fare le cose in un certo modo e degli strumenti della modernità non sanno cosa farsene. Come singoli individui non sono neanche pessimi, ma come organizzazione mostrano una sconfortante incapacità. La violenza verbale, poi, è arrivata a un livello incredibile. Non c’è più limite e mi pare accompagnata da un totale disinteresse per i fatti concreti. Un dato pericolosissimo. Del Pd non si può sempre parlar bene, ma la controparte rimane peggiore.
Per un certo periodo Pd e destra governeranno insieme.
Di queste ipotesi, quando ero giovane, ridevamo. Ma quando non si hanno soluzioni per nessuno, l’impotenza è uguale per tutti. Ricorda Primo Levi ne La Chiave a Stella? Le cose vanno fatte bene, siano piccole, grandi o insignificanti. In politica non vedo cose fatte bene. Solo chiacchiere, discorsi vuoti, vanità.
C’è chi sostiene che Renzi sia l’erede di Berlusconi.
Non mi pare. Forse le tecniche affabulatorie si somigliano, ma nei suoi occhi non vedo la stessa cupidigia. Alle primarie non l’ho votato, ma una possibilità, da elettore, devo dargliela. Il suo avvento è la cosa più vicina a smuovere le acque che abbiamo visto negli ultimi decenni. Poi è tutto discutibile, ma mandare sempre la palla altrove non è saggio. Cerchiamo di mettere le mani nella pasta che abbiamo davanti a noi, per una volta.
Deduco che Grillo non l’abbia mai convinta.
L’ha visto da Vespa? Lindo e così tranquillo da apparire svuotato, fuori contesto, sconfitto. Grillo sudato sul palco sarebbe anche bravo, ma mi pare che in assoluto non ci sia sostanza e che se togli le urla non rimanga nulla. Non apprezzo l’oratoria che indulge allo strillo per lo strillo.
Su Berlusconi ci teniamo ombrelli, banane e vignette ormai storicizzate?
Sono veramente stanco di quest’uomo. Non se ne va mai. L’ombrello non si chiude.

La Stampa 1.6.14
Elie Wiesel: “Un progetto morale
per i giovani”
Il premio Nobel: «La felicità? Per me non è importante. È importante capire ed essere capito»
intervista di Alain Elkann

qui

Corriere La Lettura 1.6.14
Senza metamorfosi non c’è identità
I miti classici raccolti da Ovidio nel suo poema c’insegnano come sia illusorio pensare di conservare le proprie radici
Elevando barriere che cimettano al riparo dal mutamento
di Umberto Curi


Come si diventa ciò che si è? In un mondo quale è il nostro, la risposta abituale sembra essere intuitiva. Poiché tutto intorno a noi cambia incessantemente, e con ritmo crescente, l’unica strada per tutelarci consiste nel preservare la nostra identità, mettendola al riparo da ogni mutamento. Si spiegano così alcuni fenomeni, altrimenti incomprensibili, legati alla riproposizione di slogan, modelli di comportamento, stili di vita attinti alla tradizione. E si spiega così anche la fortuna di alcuni movimenti politici, in Italia e in Europa, la cui ragion d’essere principale è una diffusa paura del nuovo e del diverso. Assai più che in passato, al giorno d’oggi la prospettiva del cambiamento, l’idea stessa della metamorfosi, suscita reazioni contrastanti, per lo più ispirate al rifiuto e alla rimozione.
In tale contesto, la nuova edizione Rizzoli delle Metamorfosi di Ovidio, con la traduzione interessante e «spericolata» di Vittorio Sermonti, sembra procedere in controtendenza. Tanto più perché il poema si presenta come una grandiosa raccolta di miti antichi: «racconti» considerati poco adatti all’esigenza dell’uomo contemporaneo, perché frutto di immaginazione e dunque privi di ogni attendibilità.
In effetti, pochi altri temi sembrano differenziare il moderno dall’antico, come l’atteggiamento verso il mito. Perfino sotto il profilo linguistico, la tendenza rimasta a lungo prevalente è quella di contrapporre mythos e logos , come espressioni rispettivamente di una narrazione fittizia, e perciò anche «irrazionale», e di un ragionamento rigorosamente logico. Curioso è notare lo scarso, o nullo, fondamento filologico di una distinzione così assiomatica. Fra Omero e Platone, e dunque per quasi 5 secoli, i termini impiegati per indicare la «parola» sono ben nove, ciascuno con una specifica sfumatura di significato. Fra essi, a differenza di ciò che abitualmente si pensa, mythos è la parola vera e autoritativa, quella che indica il reale, l’oggettivo, mentre logos (da leghein : scegliere, raccogliere) è la parola ponderata, usata per convincere. Come è confermato dal fatto che nei poemi omerici le parole usate da Ulisse, idonee a ingannare, sono dette logoi , mentre le parole pronunciate da Priamo, circondate dall’autorità del re, sono mythoi . D’altra parte, già a partire da Aristotele, polemico verso il ricorso al mito nei dialoghi platonici, il significato originario è stato rovesciato, e si è perciò presentata la nascita della filosofia come un graduale affrancamento della luce della razionalità dalle oscurità indecifrabili del mito. È stato necessario un lungo e accidentato percorso, avviato con gli scritti di Francesco Bacone e di Giambattista Vico, perché si sviluppasse una vera e propria scienza del mito, capace di valorizzare adeguatamente il significato delle fabulae antiche.
Si è così chiarito che, anziché essere considerato come testimonianza fossile dell’infanzia dell’umanità, o indizio di primitivismo culturale, il mito doveva essere interpretato come un «testo» pregnante e complesso, per la cui appropriata comprensione s’impone un approccio multidisciplinare. Come ha sottolineato Marcel Detienne, uno dei maggiori studiosi del mito, si dovrebbe ormai mettere tra parentesi l’idea del mito come genere letterario o racconto fantastico, e scoprire «la varietà delle produzioni affidate alla memoria: proverbi, racconti, genealogie, cosmogonie, epopee, canti d’amore o di guerra».
Il più ricco repertorio di miti antichi in lingua latina è costituito dai 15 libri delle Metamorfosi di Ovidio, la cui composizione risale ai primi anni dell’era volgare, mentre per trovare un corrispettivo in lingua greca è d’obbligo riferirsi all’opera convenzionalmente intitolata Biblioteca , della quale, oltre al nome dell’autore, si ignora anche la data di stesura. Ma, mentre nell’opera greca è più evidente l’intento classificatorio, il poema latino si segnala non solo come capolavoro poetico, non abbastanza valorizzato, ma anche come testo di grande e inesplorato rilievo filosofico.
Al centro dell’opera ovidiana è la nozione che compare nel titolo, non casualmente lasciata in greco dal poeta di Sulmona. Infatti, morphé non è la forma in senso latino. È, invece, ciò che appare , quello che si offre alla visione. In quanto tale, la morphé si distingue dalla sostanza: ne rappresenta una delle possibili manifestazioni, uno fra i modi in cui essa può rendersi visibile. Si comprende, allora, per quali ragioni, ricondotta al suo etymon (e dunque a ciò che è «vero» di un termine), la meta-morphosis non indichi affatto un mutamento sostanziale, ma alluda piuttosto ad un cambiamento nel modo di apparire. Così, nel poema di Ovidio, ciò che i personaggi descritti diventano attraverso la metamorfosi non è in contraddizione, ma in continuità, con la loro natura , nel senso specifico che ciò che essi sono per nascita può manifestarsi in un modo o nell’altro, senza che questa transizione implichi un mutamento di identità. Da questo punto di vista, il concetto stesso di metamorfosi, mentre sottolinea il cambiamento della morphé , presuppone la conservazione di una identità che si manifesta appunto in maniera morfo-logicamente differente.
Questa dialettica di alius e idem emerge per esempio nella prima metamorfosi descritta da Ovidio, quella del re dell’Arcadia, uccisore degli ospiti, introdotto come notus feritate Lycaon . La duplicità di espressioni con cui può manifestarsi la natura del personaggio è già implicita nella definizione con la quale egli è subito presentato, dove la feritas può appunto esprimersi come ferocia dell’uomo, ma al tempo stesso come carattere latentemente ferino, reso manifesto dal processo metamorfico. Nella trasformazione di Licaone in lupo (che sotto il profilo linguistico si presenta come passaggio da Lykaon a lykos ), il carattere della ferocia costituisce il ponte fra l’uomo e l’animale. Licaone non si trasforma in lupo. Egli è già lupo (almeno nel nome) e la metamorfosi non fa che restituirgli un aspetto con-forme alla sua genuina natura.
Un ragionamento simile si può fare anche per un altro grande mito raccontato nel poema, al quale si richiama lo stesso Sermonti nella breve introduzione. Attraverso la metamorfosi, tanto Narciso quanto Eco diventano ciò che già sono: riflesso visivo il primo, risonanza acustica la seconda. Le loro definitive trasformazioni, rispettivamente in un delicato fiore acquatico e in una roccia capace di rimandare il suono di una voce, suggellano un processo in cui il mutamento di forma è funzionale alla conquista della propria vera identità. In questa affascinante rappresentazione delle forme in movimento, un punto centrale dovrebbe essere inteso ancor oggi come un monito. Per essere compiutamente se stessi, è vitale e insostituibile il rapporto, in qualunque modo declinato, con l’altro da sé. Senza metamorfosi, nessuna identità.

Corriere La Lettura 1.6.14
Neuroscienze
L’inconscio batte la coscienza
L’uomo sceglie prima di rendersene conto: nel cervello una banca-dati inconsapevole
di Sandro Modeo


«Oh la mente, la mente ha montagne; precipizi/ a picco, spaventosi, da nessuno penetrati. Può crederli da/ poco solo chi mai vi fu sospeso. E la nostra poca resistenza/ non può a lungo occuparsi di quei dirupi e quegli abissi». Sono versi — dagli Ultimi sonetti di Gerard Manley Hopkins, poeta ottocentesco da cui si irradia tutto il Novecento sperimentale — che condensano in un’unica visione le profondità psichiche che ci minacciano e la necessità, se non di rimuoverle, almeno di velarle.
Nello stesso periodo — il secondo Ottocento — in cui vengono scritti quei versi, il medico-neurologo Theodor Meynert — allievo del grande patologo Rokitansky alla scuola «darwiniana» di Vienna — studia i rapporti conflittuali tra le pulsioni «inconsce e istintive» del cervello rettiliano e il «comportamento riflessivo» (il controllo) della corteccia, evolutivamente più recente; una dialettica che Sigmund Freud (allievo sia di Rokitansky che di Meynert) tradurrà nella lotta tra Es (Id) e Super-Io, combattuta sul ring dell’Io.
Sganciandosi dai maestri, Freud tenderà a scorporare sempre più la «realtà psichica» dai suoi correlati neurali: ma troppo spesso si dimentica come lui stesso — per esempio in un passaggio di Al di là del principio del piacere — ritenesse possibile, nel giro di «qualche decennio», un avanzamento della ricerca neurobiologica tale da far crollare, e riassorbire in sé, l’«artificioso edificio» della psicoanalisi. E un secolo dopo, in effetti, constatiamo come le neuroscienze — specie nell’ottica evoluzionistica innescata proprio dalla scuola di Vienna — siano arrivate a riformulare e correggere tante intuizioni freudiane, a partire da quelle, decisive, sull’inconscio: basta leggere, al riguardo, i libri recenti di neuroscienziati come David Eagleman, Christof Koch o Lionel Naccache.
A un primo impatto, l’«inconscio cognitivo» descritto in questi libri sembra limitarsi alla dimensione meccanico-operativa e patire un deficit rispetto a quello affettivo-emotivo (più vasto) della psicoanalisi. Un esempio è la distinzione tra le decisioni «intuitive» e automatiche e quelle più riflessive e lente: tra il «bestiario di processi senso-motori specializzati» in cui l’azione precede il percetto (vedi il centometrista che sente lo sparo dopo aver mosso la prima falcata) e operazioni mentali complesse che implicano attenzione (moltiplicare 17x24). Eppure, già a questo livello, emergono diversi aspetti sorprendenti: il fatto che la coscienza venga accesa solo quando necessario, per evitare un dispendio energetico (leggi metabolico); i limiti del libero arbitrio, dato che veniamo a conoscenza di molte nostre scelte «a cose fatte»; e la conseguente necessità — se una scelta non è una risposta improvvisata, ma una selezione tra opzioni depositate a monte nel cervello dall’evoluzione, dai geni e dall’apprendimento — di alimentare il ventaglio delle opzioni stesse sia con schemi motori (per le decisioni intuitive e i compiti automatici) sia con nozioni, concetti e «pensiero critico» (per le elaborazioni complesse).
Andando più in profondità, vediamo come questa fluida continuità-contiguità tra coscienza e inconscio — e tra i loro correlati neurali — si estenda a dinamiche più articolate e creative, che immettono in una dimensione specificamente freudiana. Un esempio è dato dalle rivelazioni oniriche di tanti scienziati, come quella (un serpente che si morde la coda) con cui Kekulé intuisce la struttura dell’anello benzenico. Si tratta infatti di casi classici in cui l’impostazione di un problema da parte dell’attività cosciente delega all’inconscio il peso di fitte permutazioni-combinazioni (incubazione), protratte fino a quando — al momento dell’eureka — quel brulichio silente riemerge alla coscienza con la soluzione.
Del resto, si può seguire la presa cosciente anche nella direzione inversa e più consueta (dal sonno senza sogni alla percezione dell’ambiente): vedi l’adagio d’apertura della Recherche proustiana, in cui il Narratore — svegliandosi nel pieno della notte — delinea prima il lento formarsi di un sentimento dell’esistenza «nella sua semplicità primaria», così come freme «nelle profondità di un animale»; e poi — dopo uno spaesamento spaziotemporale — la messa a fuoco delle immagini confuse di qualche lampada a petrolio e di alcune camicie, tese a ricomporre «i tratti originali» del suo io.
È una descrizione bottom-up dei gradi di coscienza — dove risalta, oltretutto, la nostra continuità filogenetica con altre specie — che insieme al sogno di Kekulé disloca la coscienza nella veglia come nel sonno, mostrandola come uno stato (un processo) in cui gli oggetti mentali non vengono «generati», ma «modulati» dall’ambiente, esterno o «interno» (il cervello stesso) che sia. Cioè uno stato (un processo) come aggregato di un minimo di informazione selettiva e sincronizzata (a livello talamo-corticale) che si staglia sullo sfondo per un minimo di tempo necessario, con «scene» che vanno da ¼ di secondo a 20 secondi (tempo medio 3 secondi), poi «cucite» dalla corteccia in un’unità illusoria. Il tutto somiglia a un’orchestrazione, estesa dal silenzio di un’informazione «troppo poco» integrata (il sonno senza sogni) alla cacofonia assordante di un’integrazione eccessiva (l’attacco epilettico), passando per una scala di modulazioni intermedie (di sfumature) pressoché illimitata.
In questa prospettiva, è più facile tentare un confronto tra le fluttuazioni inconscio-coscienza (coi reciproci feedback) a livello neurobiologico e psicologico-analitico. Cercare di ricondurre, ad esempio, l’idea di «rimozione» del ricordo sgradevole anche a un danneggiamento dell’ippocampo (responsabile della memoria esperienziale) in seguito alla sovrapproduzione di ormoni steroidei in situazioni stressanti. Oppure, collegare il controllo del «Super-io» anche all’attività del quadrante ventromesiale dei lobi frontali, la cui lesione — vedi il caso famoso di Phineas Gage raccontato da Damasio — libera ogni inibizione. O ancora, per tornare al sonno e al sogno, trovare nella riduzione funzionale proprio dei lobi frontali un nesso col dissolversi della «censura» (e quindi con la liberazione di pulsioni sessuali e/o aggressive); e nell’inattività del cervelletto la spiegazione del movimento «mentale», a corpo immobile (o quasi).
Anche se questo avvicinamento disciplinare — fatalmente prematuro — deve scontare sfocature e reciproche incomprensioni. Non a caso nel bilancio conclusivo di Naccache (neurologo alla Salpetrière, antico regno di Charcot), l’inconscio freudiano e quello neuroscientifico mostrerebbero possibili convergenze (l’incidenza all’attenzione nel passaggio inconscio-coscienza) e altrettante divergenze, a partire dal carattere non decisivo del linguaggio in quello stesso passaggio, dato che si hanno molti stati di coscienza «non verbale».
La sola certezza è che le neuroscienze — confermando o correggendo le impostazioni freudiane — arricchiscono ulteriormente l’incidenza dell’inconscio, la forza soggiacente che — ricordava Giovanni Jervis — ci rende «meno liberi» ma anche «meno stupidi» (e alla fine meno indifesi) di quanto crediamo. In fondo, anche per Hopkins le montagne e i precipizi della mente sono interni a una tettonica mobile e mutevole, capace di plasmarsi in paesaggi percorsi da infinite forme di «bellezza screziata». Quello che conta, con l’inconscio, è alimentarlo: impedire che per inerzia, conformismo o abitudine non si riduca (insieme alla coscienza) al deserto di un pianeta senza vita.

Corriere La Lettura 1.6.14
Il mio psicologo è un videogioco (sul cellulare)
di Viviana Devoto


«Oggi sento che sei felice», dice l’iPhone. Oppure annoiato, di cattivo umore, ansioso, imbarazzato. È possibile uno schermo del telefono capace di rivelare lo stato d’animo di chi giocherella sui tasti? Per rispondere alla domanda, gli ingegneri di Stanford hanno messo a punto una consolle collegata col sistema nervoso che può leggere le emozioni attraverso la pelle, il respiro, il battito del cuore. Tramite un videogioco, chi sta di fronte allo schermo è esposto a rivelare alcuni aspetti di sé. Corey McCall, dottorando di Stanford e in prima linea del progetto, spiega a «la Lettura»: «Chi gioca mostra noia o emozione, facendo scattare un meccanismo che ci consente di aumentare le difficoltà o diminuirle». A Palo Alto credono che nei videogame si nasconda una strada per curare alcune forme di depressione. Personal Zen (nella foto) e SuperBetter , ad esempio, sono definiti dai creatori «motori di stimoli quotidiani» da utilizzare nello smartphone non più di 25 minuti al giorno. Contengono piccoli consigli che vanno da «Esci e prendi una boccata d’aria» a «Vediti con un amico». Jane McGonigal, direttrice del centro per i videogiochi all’Institute for the Future di Palo Alto, ha fondato «SuperBetter» con una raccomandazione: «Un’applicazione non può sostituire la terapia, ma certamente incoraggiare a considerarla». Scarabeo e Solitario come pratiche antistress sono archeologia: «Studiamo giochi che possano migliorare le vite reali, e risolvere problemi reali».

Corriere La Lettura 1.6.14
Stanze mentali vi trasformano in superatleti della memoria
Il difficile? Saper dimenticare
di Francesca Ronchin


Il mazzo di carte scorre davanti agli occhi: 52 in un minuto. Poco più di un secondo per ricordarle una ad una, perché la sfida è estrema. Si chiama Extreme Memory Tournament, Xmt, si tiene a San Diego e in campo ci sono i migliori del mondo. Mnemonisti, «atleti della mente», così vengono chiamati, in grado di ricordare 900 e più combinazioni binarie, roba da far spavento all’homo sapiens sapiens medio.
01, 00, 10, 01... Johannes Mallow, 32 anni, riesce a ricordare una sequenza di 975 coppie, mentre Simon Reinhard, avvocato, è in grado di memorizzare un mazzo di carte in 21,9 secondi. Questi record appartengono a due tedeschi e non è un caso, perché in Germania a questi tornei di memoria ci si allena fin dalle superiori. Tutto merito della scuola anche per lo svedese Jonas von Essen, 21 anni. Se la scuola non l’avesse esentato dal rientro pomeridiano per potersi allenare, forse non sarebbe riuscito a diventare, nel giro di soli due anni, l’attuale campione del mondo, primo ai World Memory Championships nel 2013 e terzo al Xmt. Facendo zapping tra i talk show del Nord Europa, non è raro trovarlo impegnato a ordinare lunghe serie di carte e a spiegare al conduttore incredulo che la sua non è una memoria straordinaria ma soltanto tecnica e allenamento.
«Noi tutti siamo convinti di avere una cattiva memoria — ha spiegato alla Bbc il segretario generale dei World Memory Championships, Chris Day — ma non è così. La nostra memoria potrebbe essere ottima, se solo decidessimo di ricordarci le cose e quindi volessimo imparare come si fa». Nelson Dellis, campione americano, ideatore del torneo Xmt e consulente in tecniche mnemoniche, dice a «la Lettura»: «La nostra mente è un computer e per migliorarla basta aggiornare il software».
Uno dei «programmi di aggiornamento» più utilizzati risale alla Grecia del 500 a.C., quella del poeta Simonide di Ceo. È la tecnica del palazzo mentale o metodo dei loci , utilizzato anche da Marco Tullio Cicerone per ricordare correttamente i punti salienti di un’orazione. In base a questo metodo, le parole che si vogliono ricordare verranno trasformate in immagini da inserire in un percorso mentale che richiama un percorso fisico ben conosciuto, come l’interno della propria abitazione o la strada da casa al lavoro. Se il punto di partenza è il portone d’ingresso e la parola da memorizzare è mandarino, potremo immaginare un bel frutto arancione disegnato sul portone. «La nostra memoria lavora per immagini — illustra Dellis nei suoi corsi —. Quanto più queste saranno bizzarre, tanto più saranno memorabili».
Dopo migliaia di ore di allenamento la tecnica sarà diventata un automatismo e non comporterà dispendio di risorse cognitive. Il giovane von Essen sarebbe solito ricorrere ai personaggi della serie televisiva Lost . Nello specifico, lo svedese dichiara di avvalersi del sistema cosiddetto Pao, da person /action /object , una tecnica che è l’evoluzione di quella dei loci e che funziona come un sistema di conversione immediato. Per esempio, se deciderò che 1 corrisponde a Kate, la protagonista della serie, che taglia una cipolla e che il 5 è Afrodite che emerge dall’acqua, l’oggetto potrà essere la conchiglia del celebre dipinto di Botticelli. A questo punto la coppia 1-5 potrà essere ricordata attraverso l’immagine di Kate che taglia una conchiglia. «La conversione dei numeri in immagini — spiega a “la Lettura” Clelia Rossi Arnaud, docente di Psicologia della memoria e dell’apprendimento a La Sapienza — è particolarmente efficace perché permette quella che in psicologia chiamiamo “doppia codifica”, ossia più l’informazione è ricca di elementi, maggiori sono le vie di accesso al recupero e quindi al ricordo della stessa, specialmente se la si collega ad altre informazioni già nostre e che sono significative per noi».
Ogni campione ha il suo personalissimo metodo. Per James Peterson, 57° nella classifica mondiale, per ricordare combinazioni di lettere e numeri l’ideale è la scena in cui il gladiatore Russel Crowe ispeziona nell’omonimo film i soldati uno a uno per controllare le armi. «L’idea che il cervello umano — dice a “la Lettura” il semiologo Paolo Fabbri — possa funzionare come un computer e quindi agire come puro associatore di significanti, semplici dati, senza significati, è una pura illusione. Qui non si tratta di immagazzinare dati, ma di costruire significati. Il ricordo diventa veramente tale quando una semplice sequenza di numeri ha un senso per noi, ad esempio la data del nostro compleanno. Per questo le mnemotecniche non sono altro che un modo di dare senso al non senso». Sarebbe dunque solo una questione di tecnica? «Nella maggior parte dei casi questi campioni non sono mnemonisti naturali, dotati di qualità mnestiche fuori dal comune — aggiunge Rossi Arnaud — bensì di mnemomisti strategici. Ciò che li rende unici sono migliaia di ore di allenamento e un’enorme motivazione».
Per Matteo Salvo, campione italiano, la spinta ad allenarsi è stata un’iniziale difficoltà di apprendimento: «Ero troppo lento nel preparare gli esami e volevo più tempo per me». Oggi ricorda fino a 1012 numeri e insegna agli altri a fare lo stesso attraverso le mappe mentali di Tony Buzan e corsi di lettura veloce. Per qualcuno la motivazione può essere il primo premio, se va bene si possono vincere 10 o 20 mila dollari. Per il campione americano Dellis, la molla è stato assistere al deterioramento mentale della nonna affetta da Alzheimer. Oggi pubblicizza integratori di omega3, è il testimonial di case farmaceutiche impegnate nella cura dei deficit cognitivi e scala montagne per sensibilizzare la popolazione sull’importanza di mantenere in forma il muscolo della memoria. «Mantenere la mente attiva è senz’altro utile — sostiene Arnaud — ma i risultati di questi campioni sono frutto di un eccesso di specializzazione su abilità che non è detto che servano. Se per ricordare un numero telefonico ci aiutiamo dividendolo in chunk , raggruppamenti di 3 o 4, un supercampione lavorerà su gruppi di cifre di 20 o più».
Per quanto lo span di un campione — ovvero la capacità massima di memoria — possa essere notevole, in termini evolutivi, l’iperspecializzazione non paga. Secondo Arnaud, ciò che renderebbe una memoria particolarmente efficiente sarebbe una varietà di abilità, in particolare quelle della memoria di lavoro, come ad esempio il controllo attenzionale, necessario a «ripulire» la propria mente ad ogni nuovo esercizio. Del resto, come spiega lo psicologo Zachary Hambrick al «New York Times», spesso questi campioni sbagliano quando l’operazione di cancellazione fallisce. «Il problema non è che ricordano poco, ma che ricordano troppo». Le informazioni vecchie non verrebbero infatti cancellate bensì inibite e questo può sovraccaricare il cervello. «Se si fa un nodo al fazzoletto per ricordarsi qualcosa — conclude Fabbri — poi dobbiamo ricordarci perché abbiamo fatto il nodo al fazzoletto. Lo stesso vale per le informazioni da dimenticare. La difficoltà non è dimenticare una cosa ma ricordare che l’abbiamo voluta dimenticare. E questo, per un campione di memoria, può essere una bella impresa».

Corriere La Lettura 1.6.14
La sapienza (un po’ zen) di Montaigne
di Alessandro Piperno


Montaigne è il santo patrono degli scrittori confidenziali. Avete presente i cantanti confidenziali: Sinatra, Bennet, Sammy Davis Jr.? Straordinari entertainer che cantano, recitano, dicono battute e, nel frattempo, trovano anche il tempo di confessarsi. Ebbene, gli scrittori confidenziali si comportano allo stesso modo. Sto pensando a Sterne, a Diderot, al Baudelaire dei Salons , a Sainte-Beuve e, per venire ai nostri tempi, a Bellow e Kundera.
Chi tra essi non si è ispirato, più o meno esplicitamente, a Montaigne?
La sua storia è esemplare. Impegnato in politica in anni di pestilenze e guerre di religione, a un certo punto della sua vita si seppellisce nella biblioteca del suo castello per dedicarsi unicamente alla meditazione e alla lettura. È da questa vertiginosa immersione in se stesso che vengono fuori i Saggi .
Montaigne è il primo grande moralista che non conosce la sentenziosità dei suoi epigoni. Per questo lo sentiamo così affettuosamente vicino. Ci piace il tono disinvolto, lo stile blasé che lui stesso definisce «indisciplinato, scucito, audace». Non sorprende che l’anno scorso un libro di Antoine Compagnon, che raccoglieva alcune lezioni su Montaigne scritte per la radio France Inter, sia diventato un bestseller in Francia. Una quarantina di brani commentati con maestria. Prelibati assaggi (è proprio il caso di dirlo) che pongono una serie di questioni più o meno capitali.
Antoine Compagnon è uno dei massimi critici francesi contemporanei. I suoi scritti proustiani hanno nutrito un’intera generazione di studiosi. A suo tempo, Il Demone della teoria mise ordine nel mare magnum della critica francese. I parigini sfidano le intemperie per seguire le sue lezioni al Collège de France su argomenti dotti come l’uso della preposizione «chez» nella Recherche proustiana.
I divulgatori sono pericolosi (così come, per ragioni inverse, lo sono gli ermetici oracolari); ma se c’è un autore che, a dispetto di certe schifiltosità accademiche, si presta alla diffusione parcellizzata — «in pillole», si direbbe oggi —, quello è Montaigne. E se c’è un critico che può permettersi un’operazione tanto arbitraria, beh, quello è Compagnon. Non a caso, dunque, Un’estate con Montaigne risulta un libro così felice.
Compagnon usa Montaigne in un modo non troppo diverso da quello in cui Montaigne usa i classici. Sebbene talvolta possa sembrarlo, Montaigne non è un erudito, tanto meno un pedante. Lui non chiede ai classici di essere istruito, più che altro, se ne lascia ispirare. L’uso dei classici non è passivo. È personale e arbitrario. Non sono i classici a cambiarci, siamo noi a cambiare i classici. O quanto meno, a renderli conformi alle nostre esigenze. Il libro di Compagnon ha il pregio di non attualizzare Montaigne. Dopotutto, parliamo di uno scrittore del Rinascimento. Un gentiluomo scettico e conservatore. Tuttavia Compagnon mostra come la sapienza universale di Montaigne si esprima nella capacità di sospendere il giudizio e di sospettare qualsiasi verità acquisita e classificata.
È autentica la modestia di Montaigne? Bah, ne conoscete di autentiche? Come nota Giacomo Debenedetti, l’understatement di Montaigne è, anzitutto, una scelta stilistica. Compagnon, d’altra parte, rincara la dose: la modestia è un modo di alzare le mani di fronte all’inaffidabilità di qualsiasi cosa. È patetico pensare di poter esercitare un qualche controllo sulle nostre vite. E, del resto, ci è impossibile dominare le passioni. In un curioso paradosso, questa consapevolezza drammatica nelle mani esperte di Montaigne può diventare rasserenante. «I mali dell’anima, consolidandosi, tendono a occultarsi: più si è malati e meno li si avverte. Ecco perché occorre portarli spesso alla luce e, con mano impietosa, metterli a nudo e sradicarli dal nostro petto».
Sono parecchi gli inquieti, i nichilisti, i disperati che hanno cercato nei Saggi , se non proprio consolazione, almeno un’oasi di pace: da Flaubert che, in una lettera a un’amica, consiglia di leggere Montaigne come terapia, a Zweig che, durante l’esilio, elegge Montaigne a inseparabile fratello. Per non dire di Gide, per cui Montaigne è una vera ossessione. Montaigne è utile soprattutto ai tormentati, i quali forse vedono in lui il fratello maggiore che ce l’ha fatta. Uno che è riuscito a esorcizzare la morte, a farsi carico dell’insensatezza del tutto, a dare gusto all’istante in fuga. Guai a scambiare tale savoir vivre per dabbenaggine o per insipienza. Montaigne conosce i suoi nemici. Con chi ce l’ha? Compagnon non ha dubbi: «Il bersaglio polemico di Montaigne sono gli agitatori, tutti quegli apprendisti stregoni che promettono alla gente un domani migliore». Per questo «è meglio che i potenti non si prendano troppo sul serio, che non aderiscano interamente alla propria funzione, che sappiano conservare un certo senso dell’umorismo e dell’ironia». Montaigne t’invita al distacco, ma non nel modo ottuso e radicale degli stoici. Il suo distacco non esclude intimità, comprensione, edonismo, ricerca di felicità. Montaigne comprende ciò che qualsiasi nevrotico ossessivo conosce bene: che la salute spirituale sta nella parzialità, nell’assenza di completezza, nella fuga dall’assoluto. «Coloro che pretendono di arrivare al fondo delle cose — scrive Compagnon sulla scorta di Montaigne — ci ingannano, perché all’uomo non è dato di conoscere il fondo delle cose. E la varietà del mondo è tale che ogni sapere è fragile e necessariamente opinabile».
Tempo fa, in un bel corsivo su «Il Foglio», Anna Maria Carpi si chiedeva come mai lei, a dispetto di tanti altri, non traesse alcuna consolazione dalla lettura di Montaigne. Un bellissimo articolo, nel quale Carpi nota giustamente come nei Saggi la disperazione sia stata semplicemente abolita, al pari di ogni slancio romantico. Per tutta risposta, sarei tentato di chiamare in causa certi passi in cui Montaigne lascia intravedere gli abissi in cui si dibatte. Ma sarebbe disonesto e fuorviante. Perché Anna Maria Carpi ha ragione: non c’è niente di più lontano da Montaigne dello slancio romantico, del perseguimento di ideali irrealizzabili. La sua coscienza è tutto fuorché infelice. Compagnon stesso scrive: «L’etica del vivere che Montaigne si prefigge è al tempo stesso un’estetica, un’arte di vivere nella bellezza. Saper cogliere il momento presente diventa un modo di stare al mondo, modesto, naturale, semplicemente e pienamente umano». Una delle sentenze più famose di Montaigne recita: «Quando io ballo io ballo, quando io dormo io dormo». Come a dire, io sono qui. Dentro la cosa che faccio. Non scrivo per pubblicare. Scrivo per scrivere. Non penso per avere risposte. Penso per pensare. La nostalgia è pericolosa, l’ambizione è pericolosa. Qualcuno potrebbe prenderla come una massima zen. Ma il punto è un altro: Montaigne, a differenza degli scrittori disperati che lo veneravano, sapeva come non prendere troppo seriamente la propria disperazione.

il Sole24ore domenica 1.6.14
Vale più la virtù o la fortuna?
Machiavelli non disse mai che il fine giustifica i mezzi. Il «Principe» è un classico da rileggere a partire da un'idea più sofisticata, quella di «sorte morale»
di Armando Massarenti


È quantomeno peculiare che, al cuore di un trattato che si pone l'obiettivo di una costruzione razionale della virtù, o meglio delle virtù della politica, Machiavelli abbia collocato la vicenda di Cesare Borgia, il Valentino, figlio esemplare della fortuna. Come è noto, il rapporto tra virtù e fortuna nel Principe è uno nei nodi teorici più delicati e filosoficamente stimolanti dell'intera opera. Nella convinzione che il dialogo tra pensatori di secoli diversi possa essere enormemente fruttifero, proprio come lo stesso Machiavelli auspicava nella famosa lettera del 10 dicembre 1513 a Vettori, proveremo a far dialogare Machiavelli con un importante filosofo novecentesco, Bernard Williams, autore tra gli altri della raccolta di saggi Sorte morale. La “sorte morale” (Moral Luck) di cui parla Williams è un'idea profonda e originale, che ha a che vedere con un'altra felice espressione filosofica: la “fragilità del bene”, cui Martha Nussbaum ha dedicato un altro famoso libro.
Molte delle ambiguità di Machiavelli nell'affrontare la tensione fondamentale tra virtù e fortuna si stemperano e si chiariscono proprio se prendiamo le mosse dal ragionamento di Williams. Il grande filosofo morale propone un esempio ricco di sfumature, una sorta di «esperimento mentale»: parla di un pittore di nome Gauguin – un Gauguin, certo, più immaginario che reale – che da giovane scommette di essere un grande artista. Ma per verificarlo è costretto a compiere una scelta assai riprovevole: deve abbandonare la famiglia. Ha fatto bene o ha fatto male? Dipende dal successo che avrà come artista. Se non avrà successo, il biasimo del prossimo sarà totale. Se invece avrà successo quella scelta moralmente dubbia apparirà del tutto giustificata.
Nel Principe, l'impostazione teorica di fondo è molto simile. Anche la virtù di Machiavelli non è facile da separare dalla questione del successo dell'azione, anzi ne è intrisa. Si potrebbe addirittura dire che le virtù del principe, che riguardano la conquista, la creazione e il mantenimento degli Stati, e che ben poco hanno a che vedere con le virtù morali dell'uomo comune, riguardano tutte il fine cui esse tendono: la gestione e il mantenimento del potere e la capacità di far durare la conquista.
Ma senza che le virtù stesse risultino in ultima analisi depotenziate dall'azione apparentemente ingovernabile della “fortuna”: «Affinché il nostro libero arbitrio non sia completamente annullato, penso possa essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle nostre azioni, ma penso anche che essa ne lasci governare l'altra metà, o quasi, a noi». Cioè alle nostre virtù.
Ma che tipo di virtù sono queste di cui si parla? Non sono né virtù civiche – queste semmai riguardano le repubbliche e non i principati – né virtù morali in senso stretto. Sono piuttosto, in massima parte, virtù epistemiche: hanno a che vedere con la reale capacità di sapere, e di conseguenza prevedere, di che pasta sono fatti gli uomini e come si comportano nelle mutevoli e imprevedibili vicende che li vedono coinvolti. «E quindi bisogna che egli abbia un animo disposto a voltarsi dalla parte che i venti della fortuna e il variare delle cose gli comandano» afferma Machiavelli nel cap. XVIII poco dopo aver proposto ai lettori la notissima similitudine della volpe e del leone, dove per “animo” dobbiamo senz'altro intendere in questo caso la mente, l'intelletto del principe, insieme allo spettro di quelle doti di carattere che rientrano nell'attitudine personale del soggetto. Per dirla con un altro termine chiave, anch'esso presente nel testo, si tratta di contrastare i rovesci della fortuna con l'utilizzo saggio del buon senso, della “prudenza”, dove «la prudenza consiste in sapere conoscere le qualità delli inconvenienti e pigliare el men tristo per buono».
Per questo la tensione tra virtù e fortuna trova nel personaggio di Cesare Borgia il suo apice. Borgia, «chiamato dal volgo duca Valentino», è “figlio della fortuna” perché «acquisì lo stato con la fortuna del padre e insieme con quella lo perdette» (Cap. VII). Ma dopo aver ripercorso e valutato in lungo e in largo la catena delle azioni compiute dal Valentino nell'esercizio del potere… ecco annidato il sorprendente scacco della ragione (politica) tanto perseguita da Machiavelli e della connessa virtù: «Avendo dunque riassunte tutte le azioni del duca, nulla saprei rimproverargli: anzi mi sembra di poterlo proporre – come io ho fatto – a modello da imitare per tutti coloro che sono ascesi al comando per fortuna e con le armi altrui; giacché egli, avendo l'animo grande e alto l'intento, non avrebbe potuto comportarsi meglio, e ai suoi disegni si opposero solo la brevità della vita di Alessandro e la sua malattia».
Eppure la stella del virtuoso Borgia declinò, eccome. Di qui tutta l'ambiguità di Machiavelli: in bilico tra fiducia profonda nella virtù politica, la capacità di analizzare e prevedere gli eventi, anche per preservare il libero arbitrio degli uomini e, dall'altra parte, la fortuna che a volte è fortuito aiuto o, più potentemente e forse anche più spesso, vero tranello per le ambizioni umane. Per la ragione ordinatrice (politica) dell'uomo. Insomma per il principe.
Torniamo dunque all'esperimento mentale di Williams. La scelta di Gauguin è amorale? Per Williams non è questo il modo giusto per inquadrarla. E il Principe è amorale? Anche questo è un modo sbagliato di porre una domanda. La "sorte costitutiva" di cui parla Williams, nel quadro concettuale del Principe è più vicina alla fortuna, al carattere o alla virtù? In realtà partecipa di tutti gli elementi, probabilmente perché tocca il nervo teorico scoperto, la zona grigia, di Machiavelli. Virtù e fortuna sono fortemente intrecciate tra loro, così come lo sono i mezzi e i fini. Per questo è sbagliato dire che il fine giustifica i mezzi, espressione che infatti Machiavelli non ha mai usato. È tutto più sofisticato e complesso: il principe ragiona continuamente su mezzi e fini e se è un buon principe lo fa avendo in mente le virtù proprie della politica.
Anche la contrapposizione etica e politica finisce per diventare assai sfumata. Tutto dipende molto dalle circostanze. In Machiavelli troviamo due elementi potentissimi che convivono: il primo è la consapevolezza dell'importanza della fortuna e dell'occasione propizia o nefasta per rovesciare le sorti in positivo o in negativo; il secondo è la tenacia con cui costruisce gli elementi fondamentali che disegnano le virtù del principe. La prudenza e la saggezza sono legate alla capacità predittiva. Machiavelli in questo disegna una vera scienza della politica, basata su una visione realistica e disincantata della natura umana. Neppure questa è sufficiente. Ma ciò non le toglie un briciolo della sua importanza. Essere realisti, sapere come stanno le cose, è fondamentale sia per quanto riguarda la natura umana sia per quel che riguarda la conoscenza in generale. E, allora come oggi, è solo da questo che può derivare l'efficacia delle nostre azioni e delle nostre decisioni politiche.

il Sole24ore domenica 1.6.14
La cultura è nel Dna dell'Europa
I tecnocrati della Ue sembrano non vedere che attraversa lingue e saperi nazionali: è un elemento di appartenenza
di Julia Kristeva


I politici fanno fatica a strutturare questa realtà aleatoria che emerge dalla diversità dei popoli europei scossi dai flussi migratori della globalizzazione. L'Europa attuale somiglia sempre più al regno di un principato spietato ma privo di esistenza reale, che nessun geniale Machiavelli, né tanto meno nessun eurosocialista, si avventura ad accreditare. Ancor più della depressione internazionale e del rifiuto delle politiche che destabilizzano gli Stati nazionali, le inquietudini e il malcontento suscitati dall'Unione europea rivelano un'urgenza: la nuova realtà politica richiede un'altra pratica politica. Ma quale?
Per evitare il rifiuto della politica, se non addirittura la regressione suicida al nazionalismo autistico, si impone la necessità di concepire una profonda mutazione della politica. Quest'ultima è possibile solo a partire dalla vitalità storica rappresentata dalla memoria culturale del nostro continente. Una memoria da cui la politica si è distaccata nel momento in cui si è «specializzata» nella «gestione» – senza averne titolo – del patto sociale.
Esperta, com'è oggi, in celebrazioni del proprio patrimonio, l'Europa non aveva inserito la cultura nel Trattato di Roma, e i tecnocrati dell'Unione europea non sembrano accorgersi che una cultura europea esiste davvero, come insieme composito di culture e di lingue nazionali, come elemento trasversale a questa pluralità. Essa non è solo un sinistro residuato dell'Inquisizione, del colonialismo e della Shoah. Ci precede una storia di lotte emancipatrici e di resistenze che rappresenta un orizzonte «federatore», nel quale si riconoscono contemporaneamente – senza saper bene perché, ma con una fierezza prudente e al tempo stesso ferita – i disoccupati greci, portoghesi e italiani, così come gli idraulici polacchi, i blogger tedeschi e i «twitteristi» francesi. Indignati dalla crisi, tutti costoro non hanno mai messo in discussione la loro appartenenza a una cultura europea: «si sentono europei». Come mai?
La mia esperienza mi porta a insistere su alcuni aspetti della cultura europea: la nozione di identità e il multilinguismo; il destino della nazione; l'umanesimo da reinventare. Di fronte a questa cultura del l'identità (in nome della quale la buona coscienza moderna si lascia andare, ancor oggi, a guerre ignobili) la cultura europea non cessa di svelare questo paradosso: esiste una identità, la mia, la nostra; ma essa può essere costruita all'infinito.
Alla domanda «chi sono io?» la miglior risposta europea non è, con tutta evidenza, la certezza, ma l'amore per il punto interrogativo.
Forse è così perché l'Europa ha ceduto alla barbarie fino al crimine, ma avendola proprio per questo analizzata meglio di chiunque altro, l'Europa porta al mondo una concezione e una pratica dell'identità come di una inquietudine interrogante. Un "noi" europeo sta emergendo. "Noi" ci troviamo in un momento in cui è possibile assumere il patrimonio europeo rappresentandolo come un antidoto alle chiusure identitarie: le nostre e quelle di tutti coloro che ci circondano.
Questo continuo interrogarsi può strabordare in odio di sé: un tipo di autodistruzione della quale i francesi e gli europei amano compiacersi. Ma l'identità messa in questione può sfociare anche in un'identità plurale.
L'Europa è ormai un'entità politica che parla almeno altrettante lingue quanti sono i Paesi che la compongono, se non di più. Il multilinguismo sta diventando la lingua degli europei; gli studenti che attraversano le frontiere con le borse Erasmus ne sono l'esempio vivente e incoraggiante: cittadini poliglotti di un'Europa plurinazionale. Il futuro del cittadino europeo sarà un soggetto singolare, dall'identità caleidoscopica, dalla psiche intrinsecamente polifonica in quanto trilingue, quadrilingue, multilingue?
Un malinteso universalismo e il senso di colpa coloniale hanno condotto numerosi attori politici e ideologici a commettere, sotto la maschera del cosmopolitismo, alcune «impercettibili scortesie» (Giraudoux) – e spesso alcune arroganti offese – che uccidono le nazioni. Questi atteggiamenti contribuiscono ad aggravare la depressione delle nazioni, prima di gettarle nell'esaltazione maniacale, nazionalista e xenofoba. Le nazioni europee, depresse come possono esserlo i singoli individui, aspettano l'Europa, e l'Europa ha bisogno delle culture nazionali valorizzate, per realizzare nel mondo quella diversità culturale di cui abbiamo dato il mandato all'Unesco. La specificità culturale delle nazioni è il solo antidoto al male della banalità, ossia la nuova versione della banalità del male.
Invitata con una delegazione di non credenti all'incontro interreligioso di Assisi dell'ottobre del 2011, ho presentato in quella sede Dieci principi per l'umanesimo del XXI secolo. Voglio spezzare una lancia a favore di questo umanesimo che si è costituito sul continente europeo – e da nessun'altra parte, lo ripeto – e che è stato tanto denigrato per i suoi punti deboli e screditato per le sue promesse disattese, perché io non ci vedo nessun teomorfismo: non si tratta di una nuova religione di cui l'"uomo" sarebbe l'oggetto di culto, ma di una ricostruzione continua delle nostre identità, dei nostri valori, delle nostre situazioni personali, storiche, sociali.
Tagliando il filo delle tradizioni greca, giudaica e cristiana, da cui è scaturito, l'umanesimo non può irrigidirsi nel puro smantellamento dell'oscurantismo integralista e degli abusi liberticidi delle credenze religiose; esso può sussistere solo a condizione di perseguire la rifondazione permanente dei propri principi. L'umanesimo è un femminismo, è una sollecitazione costante al risveglio dell'esperienza interiore, con e nonostante l'iperconnessione, all'interazione con la vulnerabilità, all'accompagnamento della mortalità; esso propone una morale che comporta necessariamente una rivalutazione rispettosa del retaggio religioso e spirituale.
Con Erasmo, Diderot e per finire con Freud, per richiamarne solo alcuni, sono tanti gli europei che hanno posto i gradini di questo umanesimo, la cui costruzione senza fine adesso spetta a noi. Ancor più che i politici, sono gli intellettuali europei, gli artisti e gli scrittori, a portare una pesante responsabilità del disagio europeo, nel momento in cui sottovalutano o dimenticano il compito di una simile continua ricostruzione. Erede del cristianesimo (cattolico, protestante, ortodosso) e della sua fonte che è il giudaismo, compatibile con il trapianto massiccio dell'islam, l'Europa umanistica è chiamata oggi a ideare dei ponti fra i tre monoteismi, e con le altre religioni.
Per fare questo, la tolleranza e la fraternità sono necessarie ma non sufficienti. L'umanesimo non è l'«appartamento spagnolo» in cui accatastare alla rinfusa tutte le credenze. Alla luce della filosofia e delle scienze umane scaturite dalla secolarizzazione, la laicità repubblicana invita credenti e non credenti a considerare che, se «nessuno è depositario della verità», è dovere di ciascuno riconsiderare i propri ideali e oltrepassare i dogmi fratricidi. Costituitasi da due secoli a questa parte come la punta avanzata della secolarizzazione, l'Europa è anche il luogo per eccellenza in cui si potrebbe e si dovrebbe dispiegare quel bisogno prepolitico e prereligioso che è il bisogno di credere. Quest'ultimo è la condizione del desiderio di sapere, il quale a sua volta continuamente smantella il bisogno di credere nel momento stesso in cui si appoggia su di esso.
Per fronteggiare i due mostri che minacciano il pianeta globalizzato, vale a dire una politica asserragliata dall'economia e dalla finanza e l'autodistruzione ecologica, l'esperienza culturale, e in particolare la risposta che essa saprà dare alle contrazioni identitarie, occupa una posizione decisiva. Se saprà prendere sul serio la complessità della condizione umana nel suo insieme, le lezioni della sua memoria e i rischi delle sue libertà, essa costituirà il trampolino e l'avanguardia di una vera federazione politica europea.

il Sole24ore domenica 1.6.14
Vince la sfida dei «logoi»
I testi platonici sono pieni di contraddizioni, aporie, problemi irrisolti. Ma sono in linea con l'arte del maestro Socrate: non proporre tesi, ma un metodo per pensare
di Maria Bettetini


Platone al centro di un mistero, Platone sconfitto. Nessuno ha ancora scritto gialli con Platone protagonista, come invece ne esistono per Aristotele e altri filosofi, ma non stiamo parlando di un thriller. Stiamo leggendo un'opera in due volumi, millecinquecento pagine, scorrevole non proprio come un romanzo giallo, ma molto vicina a una lettura appassionante. È una nuova introduzione al pensiero di Platone, dove Maurizio Migliori raccoglie il portato di decenni di lavoro sulle pagine platoniche, e insieme rilancia un programma di lavoro per almeno altrettanti decenni. Non quindi uno studio sulle possibili interpretazioni di Platone, ma una lettura attenta e ripetuta dei Dialoghi e delle Lettere, e un invito a un rinnovato studio di ogni opera. A prima vista, si potrebbe pensare a un testo introduttivo più lungo degli altri, che non trascura né etica né politica, né i discorsi sull'anima né la definizione di dialettica. Ma il lettore rimane spiazzato da quanto si diceva all'inizio: il mistero e la sconfitta del filosofo ateniese dalle spalle larghe (o forse dalla fronte ampia, o grande e grosso, platýs).
Afferma infatti Migliori che è ben strana l'assenza di un quadro unitario nelle interpretazioni platoniche, essendo in possesso molto probabilmente della sua intera produzione scritta. Ne fa fede anche l'opposta via percorsa dai suoi seguaci, le soluzioni di Aristotele da una parte, neoplatoniche dall'altra, del problema del rapporto tra principio e principiato, tra Bene e molteplicità, risolto con l'eliminazione del Demiurgo oppure riducendo la polarità a una unità dell'ineffabile primo principio.
Perché i testi platonici sono pieni di contraddizioni, di prese di posizioni opposte, di aporie ovvero problemi irrisolti? La risposta secondo Migliori è in quella che definisce la sconfitta del filosofo. Le opere infatti avrebbero dovuto essere solo un invito alla filosofia, non l'esposizione di un sistema o anche solo di alcune soluzioni ai grandi problemi filosofici. Fedele alla linea di pensiero e di condotta del suo maestro Socrate, Platone non avrebbe abbandonato la maieutica, l'arte del far nascere il pensiero nella mente di chi ascolta, nel suo caso di chi legge. Lungi dall'imporre le proprie vedute, il gioco sarebbe stato quello di mettere per scritto alcuni possibili percorsi mentali, affidando ai diversi personaggi i ruoli del maestro (Socrate) e quello dell'allievo più o meno recalcitrante. Nessun mistero quindi, ma solo una sconfitta, quella di essere stato da subito letto come un propositore di tesi e non di metodo. Molto si è dibattuto dagli anni Ottanta intorno alle dottrine non scritte di Platone, che, secondo testimonianze anche aristoteliche (Migliori le raccoglie in una cospicua appendice), avrebbero spostato il pensiero del filosofo dall'aporia del dibattito aperto alle certezze di un primo principio, Uno e Bene, contrapposto alla molteplicità del disordine della materia priva di forma. In questo libro Migliori, da sempre allievo di Giovanni Reale, quindi acceso simpatizzante del valore protologico delle dottrine non scritte, sposta l'attenzione più sul metodo che sul contenuto. Con un rispetto del testo da lui stesso definito "religioso", riconosce negli scritti il "gioco" descritto nel Fedro, che per necessità rimanda ad altro, a una filosofia che può sorgere solo nel confronto dialettico e non può essere messa su carta (su papiro o pergamena che sia). Le pagine del Fedro hanno sempre costituito una bella sfida per gli storici della filosofia: il primo autore di pagine filosofiche scritte in bello stile, senza la cripticità di un Eraclito detto l'oscuro, o di un Parmenide non in prosa, questi primi scritti adatti al pubblico degli incolti, essoterici quindi, non sarebbero una cosa seria.
Gli scritti servirebbero solo a riportare alla memoria ciò che già si è appreso attraverso il dialogo dialettico con il maestro, non a ricostruirlo in contumacia, per così dire. Sarebbero come le pallide piantine che crescono in poco tempo bagnando direttamente i semi (chi non ha fatto crescere così lenticchie e fagioli alle scuole elementari?): danno l'idea di un prato o una piantagione, ma muoiono in fretta, non diventano mai adulte. Ad Atene si chiamavano "giardini di Adone", si preparavano nel caldo estivo per ricordare la morte prematura del bellissimo fanciullo. Sono giardini per finta, così come le parole scritte sono logoi "per gioco", come si legge nel Fedro: «Il gioco davvero bello, in confronto all'altro che non ha valore, è quello invece di giocare con i logoi, narrando racconti (mythoi) sulla giustizia e altri argomenti». Fare, e non subire, la filosofia.

il Sole24ore domenica 1.6.14
Talete di Mileto
Il Sole ha la misura di un piede
Il fondatore della scuola dei presocratici ci ha lasciato preziose riflessioni nel sapere cosmologico, dedicandosi sia ai solstizi che agli equinozi
di Dorella Cianci


I filosofi presocratici, così definiti probabilmente già dai commentatori aristotelici, ovviamente ben prima di Diels, hanno osservato il mondo da scienziati con la curiosità filosofica, questo è noto, e hanno lasciato contributi interessanti nell'ambito dell'astronomia, infatti – oltre agli studi di Eratostene e Tolomeo – esistono quelli della scuola di Mileto, come ci ha mostrato brillantemente, in alcune sue pubblicazioni, Carlo Rovelli. Ulteriori contributi provengono dalla filosofia antica e da alcuni studi su Talete, che hanno ridefinito certezze ipersemplificate.
Se da un lato Anassimandro ha dato un maggiore contributo al sapere astronomico, dall'altro Talete ha lasciato preziose riflessioni nel sapere cosmologico. Talete si è distinto nelle misurazioni tanto da trovare il modo per misurare, ad esempio, l'ampiezza apparente del sole. Egli inoltre ha calcolato l'ineguale lunghezza delle stagioni: alcune fonti sostengono che abbia calcolato con precisione la durata e le parti dell'anno, altre ritengono che egli scoprì «la durata delle tropai del sole» (solstizi), notando che non avvengono a intervalli uniformi.
Dunque secondo Talete possiamo fissare la durata dell'anno solare in 365 giorni e individuare il periodo dei solstizi. Il biografo "ufficiale" dei filosofi antichi, Diogene Laerzio, afferma: «Talete probabilmente non si dedicò soltanto ai solstizi, ma applicò la sua stessa ricerca agli equinozi. Riguardo al sole e alla luna, egli ne misura l'ampiezza apparente tralasciando quella assoluta». Ancora una volta Diogene Laerzio ci informa che si tratta di una settecentoventesima parte del circolo solare. L'attenzione non si è focalizzata abbastanza intorno a questa espressione, come se fosse ovvio che il sole seguisse un percorso circolare attorno alla terra. Ma generalmente quest'idea viene ascritta ad Anassimandro e dunque si può ipotizzare che Talete abbia intuito qualcosa prima? Le scoperte di Talete furono ben accolte dai suoi contemporanei e il dato è documentato da preziose testimonianze antiche; va però sottolineato il vuoto esegetico che si è creato intorno al fr. 3 DK di Eraclito, a mo' di commento sarcastico su Talete, e riguarda la misura dell'ampiezza angolare del sole. Nel frammento eracliteo si legge che «il sole ha la misura di un piede umano», infatti basta provare a stendersi su un prato per verificarlo: sollevando il piede si può notare che copre il sole (o anche la luna).

il Sole24ore domenica 1.6.14
Blatt, teorico della depressione
di Vittorio Lingiardi


L'11 maggio scorso un infarto ha fermato il cuore ottantacinquenne di Sidney Blatt, psicologo, ricercatore empirico, teorico della personalità e professore (emerito) tra i più amati del corpo docente dell'Università di Yale. Figlio di un gelataio di Filadelfia, entra a Yale nel 1960 e vi lavora per più di 50 anni, dirigendo la psychology section del dipartimento di psichiatria e formando generazioni di studiosi e professionisti che in questi giorni, da tutto il mondo, lo ricordano con grande affetto sui loro siti e weblist. La sua teoria della depressione ha guidato le scelte di trattamento di molti clinici e ha contribuito a sviluppare una coscienza scientifica sui molti e complessi aspetti di questo disturbo. Autore o coautore di quasi 250 articoli e di circa venti libri, tra cui The Theory and Treatment of Depression (Routledge, 2005) e Polarities of Experience (American Psychological Association, 2008), Sid Blatt è relativamente poco noto ai colleghi italiani, se non per un contributo tradotto nel volume di James Barron Dare un senso alla diagnosi (Cortina, 1998) e per uno scritto riassuntivo delle sue idee, Una polarità fondamentale in psicoanalisi: implicazioni per lo sviluppo della personalità, la psicopatologia e il processo terapeutico, apparso nel 2006 sulla rivista «Psicoterapia e Scienze Umane».
Secondo Blatt, la personalità, e di conseguenza i modi in cui i disturbi depressivi possono manifestarsi, si sviluppa lungo due direttrici inevitabilmente intrecciate. Una riguarda l'identità e le caratteristiche "introiettive" dell'individuo, cioè legate al proprio mondo interno e alla definizione di sé; l'altra riguarda le relazioni e le caratteristiche "anaclitiche" dell'individuo, cioè legate al bisogno degli altri e del loro sostegno, fino alla dipendenza. Così, per Blatt, la depressione può assumere una configurazione prevalentemente introiettiva, esprimendosi con sentimenti di colpa, autocritica e bassa autostima. Oppure anaclitica, caratterizzandosi per sentimenti di abbandono, impotenza e solitudine. Pur da prospettive assai diverse, può essere suggestivo il confronto tra il modello di Blatt e il cosiddetto "modello alternativo" dei disturbi di personalità recentemente proposto dal DSM-5. Secondo il controverso manuale dell'American Psychiatric Association, infatti, il nucleo della psicopatologia della personalità sarebbe riconducibile a due dimensioni principali: il funzionamento del sé (nelle dimensioni identità e auto-direzionalità) e il funzionamento interpersonale (nelle dimensioni empatia e intimità).
Quando, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, i ricercatori in psicoterapia iniziarono a valutare l'efficacia dei diversi trattamenti, le teorie di Blatt ebbero un'importante influenza moderatrice, spostando l'attenzione non tanto su quale trattamento fosse più efficace in assoluto, bensì su come fosse efficace e con quale tipo di pazienti. In particolare venne evidenziato che i pazienti con depressione introiettiva («sono un fallimento») rispondevano meglio a terapie espressive psicodinamiche classiche, dove il terapeuta è più neutrale e tende a favorire uno sviluppo autonomo del paziente. Al contrario, i pazienti con depressione anaclitica («non sono degno di amore») rispondevano meglio a terapie supportive, dove il terapeuta è più attivo nel sostenere e favorire lo sviluppo relazionale del paziente.
La configurazione a "doppia elica" proposta da Blatt ha influenzato molte teorizzazioni successive e sostenuto importanti studi clinici e ricerche empiriche, fino a un articolo appena apparso sull'«American Journal of Psychiatry» (aprile 2014) su alcune caratteristiche della depressione legate alla personalità e alla cultura di genere.
Attivo fino al giorno della sua morte improvvisa, Sid Blatt non ha mai smesso di collaborare con i colleghi più giovani e i suoi ex allievi. I suoi interventi sulle weblist di discussione teorica, clinica e di ricerca erano caratterizzati da una piacevole miscela di arguzia e saggezza. Attualmente stava lavorando con Diana Diamond, Patrick Luyten, John Auerbach e Benedicte Lowyck a un volume dedicato al ruolo degli schemi interpersonali nello sviluppo della personalità, della psicopatologia e del processo terapeutico.
«Dai miei pazienti ho imparato moltissimo», diceva. «Fare il terapeuta mi ha premesso di essere sempre attivo intellettualmente e stimolato dal piacere della scoperta. Al tempo stesso mi ha permesso di essere sempre capace di accudire gli altri e di essere attento ai loro bisogni. Davvero non riuscirei a pensare a un mestiere più bello».

il Sole24ore domenica 1.6.14
C.S. Peirce, il grande
Nel centenario del filosofo e padre della semiologia (ma fu un chimico), un omaggio alle sue teorie e capacità
di Nicla Vassallo


Il sopravvalutato e ipertradotto Richard Rorty insiste, nonostante tutto, con l'ammaliare i più, pur senza lo smalto della meditazione (o mediazione) in cui la conoscenza viene travisata, in un tempo, o tempio, in cui a predominare permane la vaporosità, in cui la giustificazione delle proprie e altrui affermazioni si ritrova confusa, forse a proposito, con la fondatezza o, peggio ancora, con l'autosovranità. Rorty continua a piacere a contemporanei, che, al suo pari, finiscono con lo scrollarsi di dosso il ragionare, col ripudiare la filosofia ben fatta, che con altro non deve, né può ingarbugliarsi. Così il termine “post”, post–filosofia inclusa, conquista il bad trip del relativismo, della parzialità, della faziosità. E, a pensarci, qui da noi, pure la filosofia, quella antica inclusa, riesce a deteriorarsi col post, nel suo venir spesso vissuta, oltre che quale storia della filosofia, e non come vera e propria filosofia, come brutale filologia: se mastichi il greco antico, allora sei capace di filosofare? Sarebbe, come dire, se mastichi l'inglese, allora sei capace di fare filosofia anglosassone. È termine facile, ai faciloni adatto, a coloro che sorridono, che tentano di farti ridere, e tu sorridi, malinconico/a per compiacerli, e che così male hanno ridotto il bel paese nella "grande bellezza": vi fa sempre ricorso chi deve riciclarsi – vedasi “post-graffiti” – e ciò, piuttosto di rappresentare un indice serio, sottolinea per l'ennesima volta che il piacere dei più non decreta, né presuppone alcuna analisi di concetti di base, quali quelli di conoscenza, estetica, giustizia, verità, analisi necessarie specie quando, nella vita privata e pubblica, li si mistifica. Rorty avanza le sue tesi, pur sempre volutamente per lui immuni dalla critica: a contare non permangono conoscenza e verità, bensì il "mi piace" dei più, e così lui, Rorty proprio su facebook ha i suoi fans (per esempio, si vedano i me gusta di una pagina spagnola), o altri social (pseudo o post ideologi?) stile aNobii, i cui frequentatori che “se la tirano” da intenditori – per un recente quadro più positivo e d'insieme, rispetto a questa mio, rimando al volume, conciso ed efficace di Ronald A. Kuipers (Richard Rorty, Bloombury, London & New York).
Sto schematizzando, per scrivere in realtà di Charles Sanders Peirce, nel centenario della sua morte: poche quelle di Charles, rispetto a Richard, le traduzioni italiane, ma pure rare le sue pubblicazioni in vita – ci sono gli showmen, i recensori di se stessi, dei volumi dei propri editori, e coloro che non lo sono. In parole povere, se ho richiamato Rorty, è per smitizzare una sorta di leggenda, ovvero che Rorty, il neo–pragmatista, costituisca un pronipote, se non il discendente eccelso, di Peirce, il pragmatista: c'è sempre di mezzo una certa onestà, un certo screening della verità, una certa franchezza, accuratezza, fine e scrupolosa, in Peirce, che manca in Rorty, nei suoi esercizi ornamentali, al limite del tradimento. Charles Sanders Peirce, giudicato il pioniere della semiotica contemporanea, insieme a Ferdinand de Saussure, senza dimenticare che la riflessione sui segni e sul processo di semiosi si origina nell'antichità, in diverse pratiche, discipline, dottrine, cui Peirce non risulta affatto alieno, grazie anche al padre Benjamin Peirce, per anni docente, anzi meglio Perkins Professor di astronomia e matematica dell'Harvard University, di cui si rammentano notevoli contributi in algebra, astrofisica, meccanica, statistica. Lui, Charles, oscuro, ai limiti del misterioso, è tra i figli di Benjamin; lui, Charles, scrive, quasi ininterrottamente per cinquantasette anni, e parecchi rimangono i suoi scritti in inglese, scritti anzitutto scientifici, che spaziano dalla fisica alla matematica, dalla psicologia all'economia, e via dicendo. Tutto qui? L'educazione intellettuale del piccolo Charles si deve, appunto e innanzitutto, al padre. Educazione, con approfondimenti di e su la logica, a partire dalla sua giovanissima adolescenza – logica per cui non cesserà la sua passione intensa, congiunta al rigore – e in stile analitico: ti pongo problemi di rilievo, incoraggiandoti a risolverli.
Da qui, pare derivi un'originalità che Charles conserverà e che gli creerà non pochi intoppi: condurre un'esistenza intellettuale comune, banale, asservita rimarrà inaccettabile. Si laurea in chimica, non in filosofia o semiotica, e lavora per la U.S. Coast con l'incarico di risolvere problemi teorico-pratici, specie in relazione alla misurazione scientifica. Il suo marginale lavoro di docente di logica dura poco, dal 1879 al 1884, presso il Dipartimento di Matematica della Johns Hopkins University, mentre l'impiego presso la U.S. Coast termina nel 1891, e Peirce si ritrova a sopravvivere da precario, a svolgere parecchie mansioni, tra cui quella di traduttore. Nonostante le acquisizioni scientifiche, Charles non giunge a condividere la popolarità del padre, e finisce con perire in indigenza, a Milford, il 19 aprile del 1914: la sua indole indipendente, eccentrica, estranea a certi entourage non gli apre la strada a un qualche riconoscimento di valore – accade, purtroppo, oggi come allora. Con pochi, Charles trova ai tempi un'affinità: con William James, per esempio, amico che, tra l'altro, lo soccorre nei momenti di difficoltà finanziaria, James da cui però Charles si distacca: se James viene definito il fondatore del pragmatismo, Peirce intende appartenere al pragmaticismo, teoria ove la filosofia della conoscenza non perde di priorità, ma in cui si ribadisce la tesi della conoscenza in quanto segnica, oltre il fatto, risaputo, che al metodo induttivo e a quello deduttivo, si contrappone quello abduttivo: per comprendere l'abduzione, basti leggere Arthur Conan Doyle e il suo Sherlock Holmes, Sherlock raffinato, ancorché ignorante in e di troppo (a differenza di Charles), eppure dotato di una retta padronanza della chimica e della logica (chimica e logica di Charles?), oltreché buon sportivo. Charles Sanders Peirce, apprezzato ora, per lo più ovunque, e ignorato ai tempi ovunque? Non proprio. Basti ricordare che, nel 1922, l'allora neo–rettore dell'Università di Varsavia, non uno qualunque, ovvero Jan Lukasiewicz, nella sua lezione inaugurale, commemora proprio Peirce tra i più grandi logici, associandolo a Leibniz, Boole, Frege, Russell. Già George Boole, ormai raramente nominato, per la sua filosofia, ma di lui si rievoca l'algebra, che Peirce sviluppa, algebra da cui dipendiamo ogni qualcosa volta accendiamo un ordinario computer. E oggi ci ricordiamo poco pure dell'accademico padre, Benjamin, fortunato in vita – con un figlio (Charles) scapestrato? Per di più, se, in questo esatto istante, provi a domandare chi mai fosse costui, Charles, anche a chi qualcosa si bea di saperne, ti risponde "semiotico" o “semiologo”: “amicone” di de Saussure; o “pragmatico”: “amicone” di William James. Eppure, a differenza di William, non è mai stato considerato, in vita, il più famoso filosofo statunitense – tra grandezza e fama corre una certa differenza. E lui, William, forse proprio in virtù della celebrità, riceve negli States, nel 1909, Sigmund Freud e la sua “corte” di allora (Jung, Ferenczi, Jones).
Circolano voci strane e diverse sull'invito di Freud, su un primo rifiuto dello psicoanalista, sulla sua parcella per attraversare l'Atlantico. Charles Sanders Peirce? Sarebbe morto da lì a poco, questione di anni, alieno rispetto alle piccole e grandi parcelle, benché le meritasse più di altri. E oggi fa piacere che Scott Soames, filosofo analitico statunitense annoverato tra i migliori, avvii il primo capitolo del suo volume Analytic Philosophy in America – and Other Historical and Contemporary Essays (Princeton University Press, pagg. 376, uscito in libreria lo scorso 30 aprile), descrivendo Charles Sanders Peirce quale «the leading preanalytic philosopher in America, and one of its gigants of all time», attribuendogli grandi, specifici contributi nel campo della logica, in linea con quelli di Frege, benché l'Atlantico li dividesse – volume, quello di Soames, che ben spiega la relazione, non solo storica, anzi, tra filosofia pre–analitica e quella analitica negli States. E, sempre oggi, al di là di pre–analitici e analitici, fa pure piacere rammentare che Alfred North Whitehead riconoscesse apertamente il suo debito a Charles. Si ricorda. Si immagina. Curiosa la nostra immaginazione: se il Nazismo non ci fosse stato e se intellettuali, filosofi e scienziati, anti–nazisti o, comunque, lontani dall'operare nel disprezzo dei diritti umani e civili, non fossero emigrati, cosa ne sarebbe dell'intellettualità oggi, della sua internazionalità democratica? Il bell'affresco della filosofia analitica in America, a opera di Soames, in cui Rorty non merita menzione, offre una risposta, benché indiretta, alla domanda, risposta che ci induce a sospettare che, forse, grazie a Charles e ai suoi simili, l'intellettualità non si sarebbe attestata poi così diversa: onestà, razionalità, comunicazione, correttezza, amore per il sapere. L'intellettualità, non altro.

il Sole24ore domenica 1.6.14
Bruno Buozzi (1881-1944)
Tragica fine di un leader
di Valerio Castronovo


Nel pomeriggio del 4 giugno 1944, mentre i primi reparti americani entravano a Roma, a poca distanza dalla capitale, alla Storta, sulla strada per il Nord, Bruno Buozzi e altri tredici ostaggi, prelevati dai tedeschi dalle celle di via Tasso, vennero trucidati con un colpo di pistola alla nuca. Fu questa la tragica fine del leader sindacale che, dopo esser stato a capo della Fiom e poi della Confederazione generale del lavoro, aveva svolto un ruolo di primo piano, quale esule politico socialista ed esponente del movimento operaio internazionale, nell'ambito del fronte antifascista; e che, dopo il 25 luglio, venne designato a ministro del Lavoro nel governo Badoglio, prendendo poi parte alla Resistenza romana fino al suo arresto nell'aprile 1944.
Sulla figura e l'opera di Buozzi, tra i protagonisti della storia d'Italia nella prima metà del Novecento, molto s'è scritto, ma con riferimento per lo più ad alcune singole battaglie sindacali e politiche. Non s'era invece tracciata finora una biografia che coprisse l'intero arco della sua vita e facesse da filo conduttore delle sue complesse vicende. Vi si è cimentato adesso un giovane studioso, Gabriele Mammarella, con altrettanta passione civile e rigore scientifico.
Di umili origini famigliari, apprendista a tredici anni in una fabbrica del suo paese natale nel Ferrarese, Buozzi s'era guadagnato, da autodidatta e operaio, il posto di caporeparto alla Marelli e poi alla Bianchi di Milano, prima di entrare nel sindacato dei metallurgici e iscriversi al partito socialista spiccando poi il salto, a 28 anni nel 1909, nel direttivo nazionale della Fiom, di cui assunse presto la guida. Portato per indole ad agire in modo pacato e riflessivo, e convinto che un indirizzo riformista fosse la strada maestra per la causa dei lavoratori, ebbe modo, durante il corso liberale giolittiano, di sostenere con successo alcune rivendicazioni di quella che era considerata l'avanguardia della classe operaia.
Nel settembre 1920, in un tornante cruciale come l'occupazione delle fabbriche, che parve il preludio di un'insurrezione proletaria, Buozzi (eletto frattanto alla Camera nella corrente di Filippo Turati) si trovò al centro di contrastanti pressioni. Da un lato, il gruppo ordinovista di Gramsci e la maggioranza massimalista del Psi puntavano alla rivoluzione; dall'altro, sia il direttore del «Corriere della Sera» Luigi Albertini sia la Banca Commerciale e la Fiat confidavano nell'atteggiamento non barricadiero del leader della Fiom; mentre Mussolini era pronto (come gli disse in un colloquio) ad affiancare i socialisti se avessero mirato alla conquista del potere. Di fatto, Buozzi escludeva un moto rivoluzionario sul modello russo che promettesse ai lavoratori "il paradiso in terra". A prevalere fu così la soluzione proposta da Giolitti, del "controllo sindacale" delle fabbriche, che egli condivise perché in tal modo gli operai avrebbero maturato l'esperienza necessaria per giungere ad autogestirle.
Dopo la marcia su Roma, a Mussolini, che cercò in più occasioni di tirarlo dalla propria parte, Buozzi oppose sempre un netto rifiuto. Aggredito dagli squadristi a Torino nel marzo 1924, difese sino all'ultimo, quale segretario generale della Cgdl dal novembre 1925, i diritti di cittadinanza sindacale, seguitando poi, durante l'esilio a Parigi, a coordinare l'azione clandestina di alcuni militanti e denunciando i soprusi del regime fascista nelle conferenze del Bureau International du Travail. Il suo socialismo riformista gli attirò peraltro aspri attacchi dei comunisti, allineati alle direttive del Comintern: finché si giunse nel 1937 a un patto di unità d'azione.
Arrestato nel marzo 1941 nella Francia occupata dai tedeschi, venne consegnato in luglio alla polizia fascista, che lo confinò a Montefalco in Umbria. Dopo la deposizione di Mussolini, Buozzi ebbe l'incarico di commissario della Confederazione dei lavoratori dell'industria e passò, dopo l'8 settembre, nelle file della Resistenza. Ma nell'aprile 1944 la Gestapo riuscì a catturarlo, in seguito alla delazione di un giovane finito nelle mani di Priebke, proprio il giorno prima che egli trovasse rifugio nel Seminario del Laterano.
Mussolini sperava che, una volta ottenuta da Kappler la consegna di Buozzi alla Repubblica sociale, l'avrebbe convinto (dopo che era andata a vuoto nel 1929 la sua insidiosa "avance" di nominarlo ministro delle Corporazioni) a collaborare all'attuazione della «Carta di Verona» per la cogestione delle fabbriche. Sta di fatto che fu un anziano ufficiale delle SS, Hans Kahrau, ad assassinare Buozzi e gli altri suoi sventurati compagni. Ma non si è mai appurato con esattezza se lo fece su ordine all'ultimo di Priebke o di sua iniziativa per sbarazzarsi, durante la fuga da Roma, di un carico di prigionieri che riteneva troppo ingombrante.

il Sole24ore domenica 1.6.14
La Storia nelle scienze sociali
Con Lucien Febvre fondò gli Annales, cambiando prospettiva: si studiano i mutamenti lenti come le abitudini, i riti, l'alimentazione
di Donald Sassoon


Quando ero al liceo un illuminato insegnante di storia promise un dieci a chiunque avesse letto per intero La société féodale di Marc Bloch (e in grado di dimostrarlo). A sedici anni l'idea di ottenere un tale voto semplicemente leggendo un libro era irresistibile. Il libro era lungo e difficile, ma anche molto diverso dalla storia tradizionale, con la sua serie straordinariamente noiosa di date e storie di grandi uomini che avevano cambiato il mondo e vinto guerre. Guadagnai qualcosa di più di un buon voto: compresi quanto potesse essere eccitante la storia, anche la storia delle strutture, dei cambiamenti lenti, delle credenze, di come si forma e si mantiene la sudditanza, e come le cose cambiano da luogo a luogo. Per di più il tutto era scritto in una prosa elegante e a volte ironica, con un uso parsimonioso ma sottile di metafore. Si parlava perfino degli emiri del Qayrawan e dei califfi Fatimidi, con nomi che sembravano appartenere al mondo incantato delle Mille e una notte.
Bloch, nato nel 1886 a Lione, frequentò la prestigiosa École Normale Supérieure, poi fu ufficiale nella Grande guerra e infine ottenne un incarico universitario a Strasburgo, ora di nuovo territorio francese. Lì, proprio nell'ufficio accanto al suo, Bloch incontrò un altro storico dalle idee originali: Lucien Febvre. Insieme fondarono, nel 1929, la rivista «Annales d'histoire économiques et sociales». E così cambiarono la storia. Poi Bloch si trasferì alla Sorbona e gli Annales diventarono una école senza pari in altri Paesi. I loro seguaci, Fernand Braudel, Georges Duby, Jacques Le Goff ed Ernest Labrousse diventarono anch'essi grandi maestri della storiografia francese.
L'innovazione degli Annales fu di sfidare la forma dominante del racconto storico, vale a dire una narrazione incentrata in gran parte sul periodo breve, su eventi come guerre, rivoluzioni e diplomazia. Bloch e Febvre volevano una storia che esaminasse la longue durée (ma dobbiamo il termine a Braudel). Non si tratta semplicemente di una storia che comprenda un periodo molto lungo, ma che si soffermi su mutamenti lenti come il paesaggio o l'alimentazione, le abitudini, i riti. Questo veniva contrapposto alla storia degli eventi o histoire évènementielle, e cioè la storia dei movimenti improvvisi, come le rivoluzioni e guerre.
L'approccio di Bloch e Febvre aveva avuto precursori illustri. L'Essai sur les moeurs et l'esprit des nations di Voltaire era una storia generale del cristianesimo finalizzato a mettere in luce gli orrori del fanatismo religioso. Il Declino e caduta dell'Impero Romano di Edward Gibbon si soffermava a lungo su aspetti sociali e culturali. Nel XIX secolo Jules Michelet e Jacob Burckhardt produssero storie del Rinascimento con un approccio "totalizzante". Il concetto di Volksseele (l'anima del popolo) dello storico tedesco Karl Lamprecht (1856-1915) influenzò la storia delle mentalità dei pionieri degli Annales.
Bloch e Febvre, partendo da un'ottica molto più rigorosa di quella dei loro predecessori, abbracciarono con entusiasmo l'idea di mettere la storia al centro delle scienze sociali, quali l'economia, la sociologia (particolarmente quella di Émile Durkheim), l'antropologia e la geografia.
Nel 1940 Bloch, essendo ebreo, perse il suo incarico universitario, la sua casa fu requisita, la sua biblioteca privata confiscata. Trasferito a Clermont-Ferrand, ma privo di accesso ad archivi e biblioteche, Bloch scrisse un testo meraviglioso sul mestiere dello storico: Apologie pour l'histoire. Nel 1942 diventò partigiano. Nel 1944 fu arrestato dalla Gestapo, torturato e poi fucilato.
Il suo capolavoro, Les rois thaumaturges (I re taumaturghi), è uno dei grandi libri di storia del XX secolo. È l'opera fondatrice della storia delle mentalità, la base della storia antropologica. In questo testo Bloch esamina la convinzione che il re avesse il potere di curare la scrofola semplicemente toccando il paziente. Partendo da questa semplice credenza Bloch spiegava il ruolo del "miracolo" nella concezione del potere politico assoluto come potere sacro, concezione che non si limitava al Medio Evo, poiché il rito è sopravvissuto nel Seicento e nel Settecento. In poco più di quattro anni (1660-64) Carlo II d'Inghilterra "toccò" più di 23mila persone e Luigi XIV ebbe più malati di qualsiasi dei suoi predecessori. L'aspettativa del "miracolo" era più importante del "miracolo" stesso in quanto vi erano persone che tornavano per essere toccate un'altra volta, la loro fede per nulla offuscata dall'evidente fallimento.
Centrale in questo studio era il concetto di memoria collettiva. In una società dove la maggior parte delle persone non sanno scrivere e dove poco è scritto, la memoria collettiva è ancora più importante che in epoche successive, non perché la gente "ricordi" di più, ma perché un evento incidentale, se ripetuto più volte sembra essere esistito da lungo tempo. In questo tipo di società un cambiamento può essere rapidamente legittimato sulla base di precedenti e "tradizione", pur essendo spesso recente ed eccezionale. Così, sotto l'aspetto di un mondo immutabile, il Medio Evo cambiava costantemente anche se in modi diversi dai mutamenti descritti dalla storia évènementielle. Bloch ci offre una molteplicità di esempi come il caso dei monaci di Saint Denis, nel X secolo, ai quali era stato chiesto di donare una determinata quantità di vino in una giornata dove questo mancava nella cantina reale. Una "tradizione" fu rapidamente imposta: ogni anno i monaci dovevano consegnare la stessa quantità di vino nello stesso giorno. Un editto fu poi necessario per abolire questa usanza. Ciò portò alla crescita di accordi contrattuali, per cui se un barone o un vescovo, bisognoso di denaro, avesse voluto fare affidamento sulla "generosità" di uno dei suoi vassalli, questo richiedeva un documento scritto che specificasse che il dono non stabiliva un precedente.
Naturalmente queste trattative si potevano fare solo quando la disparità sociale non era eccessiva; nella maggior parte dei casi anche la violenza giocava la sua parte.
La lezione di Bloch consisteva in questo: non è sufficiente raccogliere il materiale e metterlo in ordine. Occorre interrogarlo, costringerlo a rivelare quello che non si vede, scovare quello che c'è sotto. Insomma lo scetticismo è una delle grandi armi dello storico. E questa lezione valeva più di un buon voto.

il Sole24ore domenica 1.6.14
Il “caso Genitle”
Lo sguardo sulla Ghirlanda Mecacci torna sull'assassinio del filosofo, riesaminando i dati acquisiti e suggerendo nuove piste d'indagine, come quella inglese legata all'ambiente fiorentino
di Francesco Perfetti


A distanza di settant'anni dall'uccisione di Giovanni Gentile il 15 aprile 1944, quell'episodio, che rappresenta una delle pagine più brutte della guerra civile fra gli italiani all'indomani della caduta del fascismo, non è ancora del tutto chiarito. Noti sono gli esecutori materiali dell'agguato mortale al filosofo che stava rientrando a Villa Montalto al Salviatino dopo aver lasciato Palazzo Serristori, dove aveva sede provvisoria l'Accademia d'Italia, da parte di un commando di Gap (Gruppi di azione patriottica) del quale facevano parte i comunisti Bruno Fanciullacci e Giuseppe Martini. Controversi sono tuttora i mandanti e non del tutto chiare le motivazioni.
Il Partito comunista rivendicò subito la paternità del delitto: Palmiro Togliatti lo elogiò sull'edizione napoletana di «L'Unità» e definì il filosofo un «bandito politico», «camorrista, corruttore di tutta la vita intellettuale italiana» e «uno dei responsabili o autori principali di quella degenerazione politica e morale che si chiamò fascismo». Non basta. Sulla rivista ideologica del partito, «Rinascita», ripubblicò, poi, facendolo precedere da una breve nota intitolata «Sentenza di morte», un articolo che il latinista Concetto Marchesi aveva scritto nel febbraio del 1944 per un quotidiano socialista di Lugano come replica a un appello di Gentile alla pacificazione: lo ripubblicò, quell'articolo, nella versione che Girolamo Li Causi, allora responsabile della stampa e propaganda del partito in Alta Italia, aveva riproposto il mese successivo sul periodico clandestino «La nostra lotta» modificandone l'ultimo capoverso e aggiungendo queste minacciose parole: «Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: morte!».
La rivendicazione comunista, che provocò l'immediata dissociazione degli azionisti per bocca di Tristano Codignola, non risolveva appieno il problema dei mandanti né quello delle motivazioni. Molte questioni rimanevano aperte a cominciare da quella se l'assassinio fosse stato deciso dai vertici del partito o se non fosse stato, invece, frutto di un'iniziativa dell'ambiente comunista fiorentino. Circolarono ipotesi alternative: furono chiamati in causa sia l'estremismo fascista mal disposto verso l'appello pacificatorio del filosofo e la sua condanna della brutalità nazista e repubblichina sia i servizi segreti inglesi. Quella rivendicazione, insomma, poteva essere vista come una mossa politica per riaffermare il primato comunista nella Resistenza e nella lotta contro il fascismo o come un tentativo di porre una ipoteca «culturale» sul futuro del paese.
Ai lati oscuri e controversi dell'assassinio di Gentile sono stati dedicati, negli ultimi decenni, almeno tre volumi - La sentenza (Sellerio) di Luciano Canfora, il mio Assassinio di un filosofo. Anatomia di un omicidio politico (Le Lettere) e Il delitto Gentile. Novità, mistificazioni e luoghi comuni (Le Lettere) di Paolo Paoletti – che hanno sviscerato il drammatico episodio da punti di vista diversi e hanno suscitato un ampio e articolato dibattito storiografico. Ad essi si aggiunge oggi il denso lavoro di Luciano Mecacci, La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile (Adelphi) che riapre, ancora una volta, il "caso Gentile" riesaminando i dati acquisiti, integrandoli con nuovi elementi e suggerendo nuove piste d'indagine. Il punto di partenza dello studio di Mecacci, è l'affermazione del filosofo Cesare Luporini, già senatore del Partito comunista, il quale, nel 1989, durante una trasmissione radiofonica in onore di Eugenio Garin disse che sull'uccisione di Gentile c'erano «cose che forse non si possono ancora dire».
Una frase sibillina che spinse Gennaro Sasso ad augurarsi che egli, prima o poi, si decidesse a mettere le sue informazioni «a disposizione del postero» desideroso di «stabilire con verità come in quel lontano giorno dell'aprile 1944, davanti a Villa Montalto, andarono propriamente le cose e chi, propriamente, avesse deciso che andassero così». Se Luporini non accolse l'invito di Sasso, si ebbero testimonianze successive, da Teresa Mattei, che chiamò in causa l'archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli fino a Romano Bilenchi che fece il nome di altri studiosi e scrittori militanti: tutte testimonianze, queste, che accesero i riflettori sull'ambiente dell'intellettualità fiorentina, in particolare su persone, spesso allievi dello stesso filosofo, ormai impegnate nell'antifascismo e vicine, se non proprio o ancora aderenti, al Partito comunista.
La «sentenza di morte» per Giovanni Gentile, a prescindere dagli esecutori materiali, fu probabilmente decisa da un intreccio di complicità politiche e intellettuali a livelli diversi, locali e nazionali, con retropensieri di varia natura che andavano dall'idea della «rappresaglia» per la fucilazione di esponenti dell'ambiente partigiano fiorentino a quello di colpire un «simbolo» del fascismo fino a quello di eliminareil perno di un progetto di «pacificazione nazionale» per far uscire dalla guerra la Rsi sulla base di un «compromesso» non in linea con i propositi di «resa incondizionata» degli inglesi.
Ipotesi, queste, come altre ancora, tutte plausibili, ma certo non conclusive: ipotesi delle quali Mecacci segue tutti i fili, anche i più tenui, soprattutto quelli che lo portano a contatto con la galassia della intellettualità fiorentina velata da una cortina di ambiguità, di sospetti, di sensi di colpa e di reticenze. L'indagine riserva sorprese, ma, soprattutto, accumula indizi che pongono nuovi interrogativi. E suggeriscono nuove piste per la ricerca di una verità che forse non si conoscerà mai. Quando Gentile, completata la stesura dell'ultima sua opera, Genesi e struttura della società, ne mostrò il manoscritto allo storico della filosofia Mario Manlio Rossi con queste parole: «ora ho completato la mia opera. I vostri amici, ora, possono uccidermi se vogliono. Il mio lavoro di tutta una vita è finito».
Che cosa voleva dire Gentile? E di chi intendeva parlare accennando agli «amici» di Rossi? Ecco, a titolo esemplificativo, alcuni interrogativi che si pone Mecacci e che lo portano a indagare i frequentatori della piccola corte di Bernard Berenson e l'ambiente della Ghirlanda fiorentina, il circolo di intellettuali in tal modo definito da un professore scozzese, John Purves, il quale si trovò, probabilmente, ad operare per i servizi segreti britannici. Sembra riaprirsi, così, la cosiddetta «pista inglese»: una pista alla quale aveva fatto cenno, per primo, come voce raccolta a caldo, uno dei figli del filosofo, Benedetto Gentile, in un saggio sull'ultimo anno di vita del padre. Ma è solo un filo, e neppure il più robusto, di una trama fittissima il cui disegno complessivo rimane sempre indecifrabile.

il Sole24ore domenica 1.6.14
Piccoli editori resistono
La collaborazione con librai e bibliotecari, le sinergie interne, il rinnovamento tecnologico: tutto, pur di non cedere alla crisi
di Antonio Monaco
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Negli anni scorsi ci siamo detti diverse volte che l'editoria è in crisi. Forse però ci riferivamo al fatto che l'attività editoriale è fragile, con margini economici modesti, con una domanda di innovazione molto forte, e in cui ogni buona idea dura poco.
Oggi, invece, è necessario considerarne la gravità. Proprio al Salone Internazionale del Libro di Torino, in occasione della presentazione dei dati Nielsen, ho avuto modo di sottolineare che per tre anni di seguito il fatturato del mercato del libro si è concluso con il segno meno, e non era mai successo, perdendo 200 milioni nel triennio. Aggiungo un dato nel dato: i piccoli e medi editori oggi sono presenti nelle librerie di catena solo per il 4%.
È sconfortante, perché dopo la diminuzione consistente in questi anni di librerie indipendenti, ora assistiamo a costanti, ancorché modeste, chiusure editoriali, con un danno non trascurabile al pluralismo.
Non tutti si rendono conto di cosa rappresenta la piccola e media editoria italiana. Nonostante le dimensioni contenute (parliamo di fatturati che vanno da 100mila a 5 milioni di euro), i piccoli e medi editori indipendenti esercitano infatti una funzione nazionale con uno sforzo creativo incredibile, con una straordinaria performance organizzativa, e con una funzione indispensabile: permettere alle nostre menti e alle nostre coscienze di essere coccolate, risvegliate e provocate; consentire, pur tra mille errori e ripetizioni, che si compia il miracolo di nuove parole che possono consolare, guarire e cambiare la vita.
Oggi meno di 100 sigle editoriali assorbono l'86% del mercato editoriale, ma nel restante 14% del mercato - la quota della piccola e media editoria - è concentrata la bibliodiversità italiana. I piccoli e medi editori sono il nostro Madagascar e la nostra Amazzonia. Come tutte le cose essenziali ci accorgiamo che ci servono solo quando rischiano di scomparire o, peggio, quando sono già scomparse. Allo stesso tempo però, il mercato della piccola e media editoria non deve sembrare troppo esiguo: vale quasi 200 milioni di euro di fatturato e coinvolge oltre 6mila lavoratori. Corrisponde a metà dell'intera industria discografica e a un terzo di quella cinematografica del nostro Paese. Certo non gode della stessa visibilità e attenzione. Certo non ha lo stesso appeal politico e comunicativo. Ma è un humus indispensabile che fertilizza e rende vivo tutto il "campo culturale".
Al Salone del Libro ho dichiarato che il sistema della piccola e media editoria ha ancora 20 mesi di vita, se non cambia qualcosa. Lo stress finanziario a cui è sottoposta (diminuzione delle vendite, aumento delle rese, inaccessibilità al credito) potrebbe determinare un crollo per almeno un terzo delle imprese. Non a caso, forse, proprio al Salone del Libro erano assenti ben 80 editori piccoli e medi in meno rispetto allo scorso anno.
Questa difficile situazione, tra resistenza e resa, richiede innanzitutto a noi editori di cercare risposte. Mentre attendiamo e ci auguriamo che il "Centro per il libro e la lettura" sia rafforzato, non siamo fermi.
Da alcuni mesi abbiamo rafforzato la collaborazione con l'Associazione dei Librai (Ali) e quella dei Bibliotecari (Aib). Le soluzioni si possono trovare solo all'interno dell'ecosistema librario, lavorando in squadra. Più libri Circus, che si è svolto da poco a Gorizia, rientra in questo esempio. A partire dall'esperienza della fiera "Più libri più liberi" di Roma, che ogni anno richiama lettori appassionati, ci siamo inventati un modo per andare a trovare i lettori a casa loro, valorizzando anche l'editoria nella sua dimensione locale. E poi abbiamo cominciato una riflessione per favorire tutte le possibili sinergie dei piccoli editori, oltre al rinnovamento tecnologico, alla formazione professionale e alla crescita occupazionale. Busseremo anche alla porta di chi regola i meccanismi fiscali e si occupa di sostegno allo sviluppo.
I singoli editori possono ovviamente venir meno. La loro funzione, al di là del cambiamento della forma libro, proprio no.
*Presidente dei Piccoli editori dell'Associazione Italiana Editori