lunedì 2 giugno 2014

La Stampa 2.6.14
Il Papa ai carismatici: “Il diavolo odia la famiglia”
di Gia. Gal.


Novanta minuti memorabili. All’Olimpico scoppia un boato da curva come per un gol di Totti quando il Papa scherza: «All’inizio credevo che Rinnovamento nello Spirito fosse una scuola di samba». Poi avverte: «Nella Chiesa quando uno si crede importante, inizia la peste». Infine si inginocchia e prega con i 52mila fedeli riuniti allo stadio di Roma. «Nessuno può dire “io sono il capo”, non bisogna diventare controllori della grazia, guardatevi dall’eccessiva organizzazione». Secondo il Pontefice «si scartano gli anziani che sono la saggezza e il diavolo vuole distruggere la famiglia». Rispondendo alle questioni poste da quattro «carismatici», Francesco ha chiesto ai preti di essere vicini alla gente, alle famiglie di difendersi dal male, ai ragazzi di non tenere in cassaforte la propria giovinezza e ha ringraziato i disabili per la testimonianza alla Chiesa.
Poi ha convocato a piazza San Pietro per la Pentecoste del 2017 laici e sacerdoti impegnati nel movimento in 200 Paesi del mondo.

Corriere 2.6.14
Il gesto ecumenico di Papa Francesco, in ginocchio davanti ai non cattolici
di Luigi Accattoli


«Mi raccomando l’eloquenza dei gesti» aveva detto Francesco ai vescovi italiani il 19 maggio: ed eccolo ieri all’Olimpico che s’inginocchia per «ricevere» la preghiera dei cinquantamila su di lui. Qui l’eloquenza sta nella capacità di quel gesto di dare un’evidenza plastica alla sua costante richiesta «pregate per me».
Quello di ieri non è un gesto pacifico nella Chiesa, perché tra la folla che pregava per lui c’erano anche i «carismatici» appartenenti a Chiese protestanti; così come non sarà senza risonanze polemiche l’incontro di preghiera di domenica prossima, al quale ha chiamato i presidenti Shimon Peres e Abu Mazen. Papa Bergoglio sa bene che i gesti non sono eloquenti se sono innocui, ma parlano quando smuovono.
Il gesto di inchinarsi per ricevere la preghiera del popolo Francesco lo compì al primo affaccio alla loggia di San Pietro la sera dell’elezione. Quell’inchino è nuovo nella tradizione papale, ma non era nuovo nella biografia di Bergoglio che già l’aveva sperimentarlo da arcivescovo di Buenos Aires in un’occasione per la quale i tradizionalisti l’accusarono di «apostasia», cioè di rinnegamento della fede, dal momento che allora — come di nuovo ieri — si era inginocchiato per ricevere la preghiera di un’assemblea composta anche da «eretici».
Era il 19 giugno 2006 e il cardinale Bergoglio partecipava a un raduno ecumenico allo stadio Luna Park di Buenos Aires. «A un certo punto il pastore evangelico chiese che tutti pregassero per me» racconterà il futuro Papa a pagina 197 del volume Il Cielo e la terra che è del 2010. Mentre tutti pregavano, dirà ancora, «la prima cosa che mi venne in mente fu di inginocchiarmi per ricevere la preghiera e la benedizione delle settemila persone che si trovavano lì».
Per l’accoglienza di quella «benedizione» ecumenica come — e ancora di più — per le sue iniziative di incontri di preghiera con ebrei e musulmani, egli era contestato in patria e forse tornerà a esserlo ora da Papa, dopo il gesto di ieri e in vista di quello di domenica prossima. Unire le preghiere è impresa ardua sulla terra.

Corriere 2.6.14
Monologo di Fo in tv, elogio di Papa Francesco
di Renato Franco


L’Ateo e il Papa. Il seguace di Darwin e il vicario di Cristo. Dario e Francesco. Un connubio che sembra un ossimoro, eppure ieri sera è stato proprio Dario Fo a lanciarsi in un elogio laico di papa Bergoglio, vittima di «linciaggio» perché in più occasioni si è schierato contro il mondo degli affari e del business, contro le banche e i poteri forti. La cornice è quella dell’Arena di Verona, il quadro è popolato da personaggi diversi, dalla pop Anastacia al dolente urlatore Cocciante, maestra di cerimonie Antonella Clerici che conduce Arena di Verona 2014. Lo spettacolo sta per iniziare , in diretta su Rai1. Qui Dario Fo ha recitato un’anteprima di Papa Francesco , il suo nuovo lavoro teatrale che verrà trasmesso sempre da Rai1 il 22 giugno (ospite anche Mika).
Fo — Intellettuale con la I maiuscola — attacca i suoi consimili: «Alcuni spietati commenti che ho sentito fare su papa Francesco recentemente da intellettuali con la I maiuscola mi hanno indignato fortemente. Notate bene, è risaputo, io sono ateo, marxista, leninista e seguace di Darwin. E ora, qui, mi trovo paradossalmente a difendere il rappresentante massimo della Chiesa cattolica, apostolica e romana nel mondo». Il Premio Nobel se la prende con chi accusa Bergoglio di essere «un furbacchione» dedito al marketing per il suo modo di porsi: «Il suo abbigliarsi quasi sciattamente con le scarpe nere e la tunica bianca, sempre la stessa; il rifiutare il sontuoso palazzo in Vaticano che gli è stato offerto e l’andare a vivere in una comunità di preti di rango comune; il rifiutare la pomposa macchina di rappresentanza; l’andarsene in giro senza scorta e invitare a tavola con sé i barboni e le prostitute».
Fo dà la sua spiegazione del perché di tanta acredine: «Perché troppe volte in questo primo anno egli ha preso posizione contro il mondo degli affari e del grande business internazionale... Ecco le ragioni del linciaggio, perché è un uomo che tenta di migliorare questo mondo». Fo tesse le lodi del Bergoglio che dà fastidio ai politici corrotti e sferza vescovi e cardinali tentati dalla mediocrità. Cita le parole del Papa — «Quanto è vuoto il cielo di chi è ossessionato da se stesso» — e le ricorda di nuovo per chiudere il suo intervento: «Quanto è sbagliato il ripiegamento di chi vorrebbe che un triste passato divenisse il nostro futuro».
Un monologo appassionato. Come il ricordo di sua moglie Franca Rame sulle note di «Casta Diva» che Fo ha ascoltato commosso fino alla fine e fino alle lacrime.

l’Unità 2.6.14
Oggi verdetto Ue sui conti: si rischia una manovra bis
Il premier si mostra tranquillo: «Non ho timori» Ma pesa il mancato taglio del debito pubblico
Sul deficit possibile un correttivo da 4 miliardi


Non ho particolari timori. La Commissione europea farà le valutazioni che ritiene di fare. Conta cosa i governi immaginano sulla prossima Commissione europea». Con questa mossa del cavallo Matteo Renzi lancia il cuore oltre l’ostacolo e sposta i riflettori sul futuro. Resta in ombra quello che potrebbe accadere oggi alle 16: un verdetto negativo sui conti italiani e quindi la richiesta di una manovra correttiva. C’è questo in ballo in queste ore.
Capire come si muoverà Bruxelles non è affatto semplice, perché non c’è nulla di più politico delle raccomandazioni ai Paesi che i «tecnocrati» (così vengono definiti spesso) inviano a fine semestre. Stavolta è proprio sull’Italia che si gioca la partita più importante per la Commissione uscente. Ci sarebbe da decidere se fermarsi ai numeri secchi, o se far pesare il piano di riforme annunciato e il carico di stabilità che l’esecutivo si è guadagnato alle elezioni. I Commissari si ritroveranno oggi di fronte a questo bivio. Se il dossier resterà nelle mani di Olli Rehn sarà difficile far valere le ragioni politiche di un’Italia che chiede di cambiare, ma restando nel recinto europeo. Se, in alternativa, la palla passerà a Barroso, si potrà aprire un altro scenario.
L’unione europea contesta all’Italia di non aver rispettato il taglio del deficit strutturale (cioè depurato dagli effetti del ciclo) di almeno mezzo punto di Pil, avendo effettuato una riduzione di circa 0,2%. «Ballerebbero» circa 4 miliardi di euro (0,2% del Pil) che dovrebbero essere reperiti con una manovra correttiva a metà anno. Questo se si resta ai numeri secchi. A far pendere la bilancia verso il rigore c’è anche il dato, molto preoccupante per il nostro Paese, dell’aumento del debito che tocca la soglia record del 135,2%. Andrebbe però aggiunto che quella cifra è dovuta essenzialmente al pagamento dei debiti della Pa, che in precedenza erano stati nascosti sotto il tappeto, e al contributo dell’Italia al fondo salva-Stati. Due voci su cui la stessa Europa ha spinto. La battaglia tra Roma e Bruxelles comunque è ancora molto aperta. In questa situazione non stupiscono le ultime esternazioni di Pier Carlo Padoan sulle pensioni (no all’anticipo dell’età pensionabile) e sulle coperture strutturali del bonus di 80 euro per gli anni futuri. Tutti segnali inviati ai rigoristi.
Ma Padoan ha detto anche altro pensando alle reazioni di Bruxelles. Il ministro ha ricordato che il patto Ue prevede un grado di flessibilità legato alle riforme e al ciclo. Sulla crescita le stime dei tecnici Ue divergono da quelle italiane. Secondo la Commissione l’Italia crescerà dello 06% quest’anno, per Roma dello 0,8. I primi dati, che addirittura nel primo trimestre registrano una crescita in negativo, dovrebbero dar ragione agli europei. Ma proprio per via del ciclo avverso, la Commissione dovrebbe far scattare tutti gli «sconti» previsti dal patto. Su questo sembra insistere il Tesoro quando parla di flessibilità.
PROGRAMMI
Ma la carta vincente da porre sul tavolo in queste ore è politica e programmatica. Poltica, perché l’Italia ha rappresentato una diga all’espandersi dell’antieuropeismo. Per questo dovrà essere ascoltata dai «guardiani» dei conti. programmatica perché accanto alle tendenze della finanza pubblica, ciascun Paese ha dovuto presentare anche un piano nazionale di riforme. Ebbene, per l’Italia si tratta di un’agenda che ha l’ambizione di sbloccare proprio il dato sulla crescita. A partire dalle riforme istituzionali, che dovrebbero garantire governabilità e decisioni veloci. Tutti elementi che piacciono agli investitori. Le nuove norme sul lavoro, poi, dovrebbero garantire regole semplici e certezza del diritto per i datori di lavoro. L’altro pilastro per la crescita italiana, richiamato più volte anche dal governatore di Bankitalia, è la riforma della Pa. Il premier ha annunciato la sua rivoluzione a metà giugno, dopo che saranno state analizzate le 36mila mail arrivate al sito del ministero. Sempre metà giugno è l’appuntamento per le norme per la crescita a cui sta lavorando il ministero dello Sviluppo economico. Si tratta delle misure taglia costi dell’energia e di un rafforzamento dei fondi per il credito alle Pa. Nell’ottica di un rafforzamento del Pil c’è anche lo sblocco delle opere pubbliche comunali, annunciato ieri.

La Stampa 2.6.14
Conti pubblici, per l’Europa al governo mancano nove miliardi
Oggi le raccomandazioni all’Italia
di Marco Zatterin


Mancano 9 miliardi. La bozza della proposta con le raccomandazioni economiche della Commissione Ue al governo Renzi ribadisce l’invito a rispettare gli obiettivi per la sostenibilità del debito.
Non solo. Il testo nota anche che la correzione del deficit strutturale pianificata da Roma per avere il bilancio 2014 in equilibrio vale 0,1 punti di pil, mentre Bruxelles la valuta nello 0,7. La differenza, lo 0,6 del prodotto, è ciò che va trovato. Ovvero i 9 miliardi di cui si parlava in principio.
Più fonti assicurano che la Commissione Ue non lo scrive esplicitamente nella proposta per le raccomandazioni al governo Renzi sul come rimettere l’Azienda Italia nel giusto binario, documento che presenterà oggi pomeriggio. Ma i numeri dicono quello, sebbene non sia una richiesta di manovra correttiva, non per il momento. Le fonti concordano che la proposta di raccomandazione al Consiglio sul programma nazionale di riforma 2014 dell’Italia «non dice nulla a proposito di uno sforzo aggiuntivo» e basa gli ammonimenti di politica fiscale sulle previsioni presentate in maggio dall’esecutivo. Dipende dalla crescita e da mille altre cose.
Posto che il documento potrebbe ancora essere suscettibile di cambiamenti nella riunione del collegio che si terrà stamane, la Commissione considera dunque che l’intero scenario possa evolversi, e non intende fare altre pressioni se non richiamare il governo a una realtà dei fatti che, a dir la verità, non risulta proprio essergli estranea. Nell’attesa, si stilano otto blocchi di consigli su come oliare i meccanismi dell’economia (erano sei nel 2013). E si ribadisce l’appello a centrare i benchmark di riduzione del debito previsti dalla governance Ue.
La valutazione politica che il redivivo commissario Olli Rehn si appresta a varare offre un apprezzamento per il cantiere delle riforme aperto dall’Italia, un incoraggiamento ad avanzare con fermezza sulla strada virtuosa tracciata dal governo, ma anche l’ammissione che i conti si fanno solo alla fine del gioco. Fonti della Commissione ricordano che il progetto inviato da Roma è per forza di calendario incompleto, e solo col Documento di stabilità il quadro sarà completo. Il successo politico alle europee del premier Renzi, si sottolinea, ha creato migliori condizioni di stabilità potenziale, eppure a Bruxelles resta il timore che in parlamento qualcosa possa andare storto. Certo si guarda a Roma con maggior ottimismo. Però le regole sono le regole. Per questo, spiega una fonte, «la richiesta di far slittare l’azione sul ritorno del debito non è ora oggetto di delibera concreta».
Il dato di fatto è che l’Italia deve avere un pareggio di bilancio o quasi. In altre parole, il deficit strutturale (cioè al netto di congiuntura e una tantum) non deve superare lo 0,5% del pil. La Commissione stima che si sia oltre l’1%, e che la frenata debba essere dello 0,7% del pil, al posto dello 0,1 previsto a Roma, pena una procedura dolorosa per la nostra immagine di superdebitori. Il tutto deve avvenire mantenendo il deficit sotto il 3% del prodotto, cosa che si sta avverando, visto che secondo Bruxelles nel 2014 saremo allo 2,6%. Lo 0,4% di fabbisogno a nostro vantaggio potrebbe essere oggetto di una trattativa costruttiva per maggiori margini di spesa pro crescita. Si vedrà di qui all’autunno.
Sarà una sfida dura, ma anche quella delle otto raccomandazioni non è da ridere. Bruxelles torna a puntare il dito sulla trasparenza del mercato creditizio, sulla necessità di riequilibrare il carico fiscale sul lavoro (avviata), sul dramma occupazionale da contenere (con Jobs Act), sull’apertura incompleta dei mercati dei servizi (in particolare della pubblica amministrazione), sulla Giustizia civile ancora lenta e scoraggiante per gli investimenti, sulla lotta all’evasione da rafforzare ulteriormente, sul sistema scolastico che richiede maggior cura, sulle reti da sviluppare e l’autorità dei Trasporti da lanciare sul serio. Sono grosso modo le stesse cose dello scorso anno, la sintesi dei problemi di un Paese che non cresce da due decenni. Il governo non troverà nulla di nuovo. Solo una conferma del fatto che la strada che lo attende è obbligata.

La Stampa 2.6.14
Marchionne: “L’agenda di Renzi è l’unica che abbiamo in Europa”
L’Ad di Fca: spero che lo ascoltino, apprezzo il premier perché è uno che fa
di Teodoro Chiarelli

qui

l’Unità 2.6.14
dall'intervista a Orlando:
Ministro Orlando, 11 milioni di voti come se li spiega?
«Con un termine poco utilizzato nel nostro vocabolario tradizionale lo chiamerei un voto patriottico
...
Teme sgambetti interni sulle riforme istituzionali?
«No, ci sono tutte le condizioni perché la voce del Pd sia univoca. Però dato che le resistenze ci saranno, è necessario che gli obiettivi del governo diventino obiettivo del Pd non solo in parlamento ma anche fuori, fra la gente in un confronto aperto.
...
Camusso auspica un partito unico della sinistra e Vendola rilancia l’unità col Pd. Che ne pensa?
«Facendo nascere il Pd avevamo in mente proprio una forza riformista che unisse le diverse anime del progressismo e del socialismo europeo.
...
Non c’è contraddizione nel dire che si vuole un unico partito della sinistra e poi essere contrari all’Italicum che spinge al bipolarismo?
se si estremizza l’idea dell’esigenza di rappresentanza e si combatte per questo l’Italicum non s’è poi molto credibili nel percorso unitario

l’Unità 2.6.14
Camusso: indicare tutte le spese on line? Non lo fa neanche il Pd

«Ha idea di quante cose fa ogni giorno un’associazione da sei milioni di iscritti?». Così il segretario della Cgil, Susanna Camusso, reagisce dal Corriere della Sera alla richiesta di Renzi al sindacato di mettere online tutte le spese. «Noi - spiega Camusso - non siamo un’amministrazione pubblica. Indichiamo le grandi direttrici di spesa, difficile elencare quelle minute. Comunque sono andata a vedere: non lo fa neanche il Pd. Noi siamo più avanti. Il Pd dovrebbe prenderci a modello, non chiedere agli altri quello che, dopo averlo annunciato, non fa».

Repubblica 2.6.14
Italicum, ora Renzi vuol cambiare le soglie


ROMA. Da ieri pomeriggio, tornato a Roma, Matteo Renzi è al lavoro su un dossier che sembrava ormai dimenticato in un cassetto: la nuova legge elettorale. Qualcosa cambierà e quel qualcosa va deciso subito, trattando con le forze politiche di maggioranza e con Forza Italia. Del resto, parlando a Trento al Festival dell’economia, il presidente del Consiglio qualcosa si è lasciato sfuggire: «Credo che ora si debba chiudere. La soglia del 37,5 per cento non è comprensibile. Sembra la temperatura della febbre... vedremo. Ma l’importante è arrivare a un ballottaggio dove si capisca chi vince e chi perde».
Dunque il punto in discussione è la soglia che una coalizione deve raggiungere per agguantare al primo turno il premio di maggioranza. Si sa che Verdini e Berlusconi, discutendo con Renzi, avevano pensato al 35%, nell’illusione di poter superare agevolmente il centrosinistra ed evitare un pericoloso doppio turno. Dopo le Europee e il tonfo dei forzisti, tutto va riscritto. Ora per Berlusconi c’è il rischio opposto: che persino l’attuale 37,5 per cento sia troppo basso per l’idrovora Renzi. Che rischia di vincere al primo turno persino senza annacquarsi con Sel o altri, realizzando il sogno veltroniano del partito a «vocazione maggioritaria». Dunque, per salvare l’Italicum, il premier starebbe pensando a un ritocco verso l’alto della soglia. «Oltretutto il 37,5% - osserva l’alfaniano Andrea Augello - è una soglia troppa bassa anche per la Corte costituzionale. Un partito con il 29%, alleato con tre partiti del 3% ciascuno, potrebbe prendere il controllo della Camera. E lasciare i tre partiti coalizzati senza nemmeno un seggio».
Alla limatura dell’Italicum stanno lavorando i ministri Boschi e Delrio. Le voci di palazzo dicono che anche il professor Roberto D’Alimonte sia stato richiamato per mettere mano alla sua creatura (lo stesso professore aveva individuato proprio nel compromesso sulle soglie il vero punto debole della nuova legge). Una fonte dem vicina alla trattativa parla di un arrotondamento verso l’alto della soglia per il premio - «dal 38 fino al 40 per cento» - ma anche di una sostanziosa sforbiciata verso il basso alle soglie di sbarramento.
Sembra complicato ma in realtà è semplicissimo. Berlusconi aveva imposto al Pd di fissare un’asticella alta, all’otto per cento, per i partiti non coalizzati e del dodici per cento per le coalizioni. Una sorta di spada di Damocle per costringere Alfano a tornare a Canossa. Invece, nella trattativa che si è riaperta, le soglie verrebbero livellate al sei per cento. E per i partiti più piccoli, coalizzati con uno più grande, si fermerebbero al quattro, evitando profili di incostituzionalità. Ma c’è anche una ragione politica per questi ritocchi. Abbassando al 4% la soglia di sbarramento “interna” alla coalizione, Renzi invoglierebbe Sel a rimettere in piedi l’alleanza e Berlusconi potrebbe convincere più facilmente Alfano. Interessi convergenti per un Italicum bis.

l’Unità 2.6.14
Senato, sì alla strada del «minimo indispensabile»
di Luciano Violante


Eugenio Scalfari ha avuto il merito, ieri, di riportare l’attenzione su un giusto metodo per la riforma del Senato: scegliere la strada del “minimo indispensabile” e non quella del “massimo possibile”.
Una riserva intendo invece sollevare sullo specifico contenuto della proposta. Scalfari ritiene che la riforma debba limitarsi a togliere al Senato il potere di conferire e negare la fiducia al governo. Formulo due obiezioni: una di carattere politico-costituzionale e l’altra di carattere pratico. Partiamo dalla prima. L’elezione diretta da parte dei cittadini comporta necessariamente per chi è investito dalla sovranità popolare l’esercizio del potere di indirizzo politico (conferire e negare la fiducia al governo). Non è costituzionalmente ammissibile che due camere entrambe elette direttamente dai cittadini, entrambe quindi diretta espressione della sovranità popolare, abbiano differenti poteri, proprio in relazione alla questione più delicata, il rapporto con il governo.
L’obiezione di carattere pratico è semplice.
Mentre il governo alla Camera potrebbe porre la questione di fiducia per superare difficoltà e ostruzionismi, nel Senato sarebbe privo di questo potere e pertanto resterebbe in balia delle tensioni di quel ramo del Parlamento senza disporre di strumenti di difesa. Paradossalmente, il Senato sarebbe in grado di condizionare il governo più della Camera. Si potrebbe stabilire che in caso di difforme giudizio tra Camera e Senato sia la Camera a dare il voto definitivo.
È un’integrazione sensata della proposta originaria di Eugenio Scalfari, che consente di costruire una risposta corretta a quella che a me sembra la domanda di fondo: al sistema politico italiano che tipo di Senato serve? Serve, questa è la mia opinione, un Senato che possa essere camera di riflessione nei confronti di leggi ordinarie, per le quali resterebbe il voto decisivo finale di Montecitorio, e camera con pienezza di poteri per le leggi di carattere costituzionale. Infatti per le grandi questioni di carattere politico-costituzionale, il Senato dovrebbe bilanciare la Camera dei deputati che verrà prevedibilmente eletta con criteri fortemente maggioritari e che sarà quindi legata a doppio filo alle esigenze del governo piuttosto che a quelle dell’equilibrata rappresentanza dei cittadini.
Quindi la sottrazione del potere di indirizzo politico al Senato è giusta ma va integrata: a) con l’elezione indiretta (a questo proposito c’è un buon emendamento firmato da alcuni senatori Pd che riprende con correzioni il sistema francese); b) attribuendo alla Camera il potere di voto definitivo sulle leggi di bilancio e sulla gran parte delle leggi ordinarie; c) lasciando bicamerali tutte le leggi costituzionali e di revisione costituzionale nonché un altro piccolo gruppo di leggi di particolare rilevanza democratica, ad esempio sistemi elettorali, minoranze linguistiche, confessioni religiose, ordinamento dell’Unione europea, come propone il senatore Chiti.
Confido che la maggioranza di governo accolga questi indirizzi seguendo il metodo suggerito da Scalfari: in materia costituzionale meglio toccare il minimo indispensabile piuttosto che il massimo possibile.

La Stampa 2.6.14
I senatori vogliono ridurre pure il numero dei deputati
di Carlo Bertini


C’è gran fermento in Senato, i «tacchini» destinati a finire nel forno col primo ciclo di cottura entro luglio, lavorano freneticamente agli emendamenti della riforma costituzionale che vanno consegnati domani. E uno dei loro scopi, più condivisi e trasversali, è come rendere la pariglia agli amici deputati. Ne è ben consapevole Anna Finocchiaro: la presidente della commissione Affari Costituzionali, relatrice insieme a Calderoli, è preoccupata di come tenere a freno la voglia di riduzione del numero dei deputati. E perfino i renziani che albergano nella stessa prima commissione di Montecitorio convengono che non ci sarebbero molti validi argomenti per opporsi ad una sforbiciata dei deputati se mai venisse approvata dal Senato, certo previo placet del governo che ancora non c’è. «In fondo a Palazzo Madama c’è lo stesso numero di commissioni, lavorano alle stesse leggi e sono la metà di noi. Come si potrebbe dire di no se qualcuno chiedesse di ridurre i deputati da 630 a 500?».
Italicum e Consulta
Ma non è solo questa una delle nubi che si profilano all’orizzonte, l’altra viene dalla Camera, ha già contagiato il Senato ai suoi massimi livelli e riguarda l’Italicum: una proposta di legge del bersaniano Giorgis, firmata da tutti i membri Pd della commissione Affari Costituzionali, per un sindacato preventivo di costituzionalità sulla legge elettorale da spedire alla Consulta prima dell’approvazione definitiva. Un parere che eviti quanto successo col porcellum, ma che tradotto ora in norma di legge si può prestare ad interpretazioni malevoli. E che questa proposta di legge l’abbiano firmata Bersani e Bindi, D’Attorre, Cuperlo e Pollastrini, che non amano granché l’Italicum non sorprende. Così come non stupisce che sarà tradotta subito in un emendamento alla legge elettorale al Senato. Desta curiosità invece che in calce alla proposta ci sia anche la firma del renziano Richetti e dei franceschiniani lealisti al governo Fiano e Rosato. «Il fine è condivisibile, io prima di firmarla mi sono assicurato che non creasse qualche problema al governo», racconta Richetti. «Ho chiesto un parere alla Boschi e il ministro mi ha dato il suo ok, ritenendola una proposta ragionevole».

Corriere 2.6.14
Senato
La riforma non è in forma
di Michele Ainis


Se con un piede acceleri, mentre con l’altro schiacci il freno, il testacoda è inevitabile. Attenzione: sta per succedere al nuovo Senato, archetipo di tutte le riforme. Dopo il successo alle Europee, il governo ha fretta, il Parlamento ha sonno. Il termine per la presentazione degli emendamenti era già slittato dal 28 al 30 maggio, poi al 3 giugno: il rinvio del rinvio. Ma intanto il partito di Alfano ne ha depositati 13, quello di Berlusconi 37. Piccoli numeri, rispetto al diluvio universale minacciato da Calderoli: 3.550 emendamenti. Senza dire dei grillini, dei mal di pancia all’interno del Pd, delle febbriciattole accusate dai partiti minori. Conclusione: nonostante le vitamine dispensate da Napolitano (l’ultima proprio ieri), la riforma non è in forma, anzi è proprio acciaccata.
Per rimetterla in sesto, urge un passaggio in farmacia. D’altronde la ricetta è chiara: o il Senato continuerà a svolgere qualche utile funzione, oppure tanto vale sbarazzarsene. Non avrebbe senso trasformarlo in un orpello delle nostre istituzioni, dopo averle alleggerite del Cnel. Qui tuttavia diventa indispensabile il bilancino del farmacista. Se la Camera esprime la volontà legislativa, il Senato dovrà bilanciarla con poteri di controllo. Se la prima regge il cordone ombelicale con il governo nazionale, il secondo potrà ben reggerlo con i governi locali. E se i deputati incarnano il primato della politica sulle cose terrene, ai senatori toccherà rappresentare un altro spazio, un’altra esperienza umana. In sintesi: di qua le appartenenze, di là le competenze.
Sennonché questo punto è finito sotto un cono d’ombra, nel dibattito che si trascina stancamente attorno alla riforma del Senato. Tutti i contrasti vertono sull’elezione diretta dei nuovi senatori, caldeggiata dai dissidenti del Pd. Eppure nella proposta del governo figura una pattuglia di 21 cittadini illustri, nominati dal capo dello Stato. Ma il governo stesso parrebbe averla abbandonata alla deriva, dopo le critiche piovute da destra e da sinistra. Non senza fondamento, quanto alla nomina affidata al presidente: perché lo renderebbe signore d’un partito, trasformando perciò l’arbitro in un partigiano. Ma il principio no, il principio è sacrosanto. Sui banchi del nuovo Senato occorrerà uno sguardo lungo, anziché incollato sulla prossima campagna elettorale. Beni culturali, clima, energia, bioetica, innovazione tecnologica: sono queste le sfide che ci attendono. E per affrontarle serve il contributo della scienza, fianco a fianco alla politica.
Dopotutto, un tempo succedeva. Fra i 2.362 senatori di nomina regia s’incontrano i nomi di Marconi (che inventò la radio), Ferraris (padre del motore elettrico), Forlanini (cui si deve lo pneumotorace). Oltre ad artisti e intellettuali come Manzoni, Verdi, Carducci, Verga, Croce, Einaudi. E il loro apporto fu spesso decisivo, per esempio durante la malaria, nelle leggi per il chinino di Stato approvate fra il 1900 e il 1907. Viceversa, in questi settant’anni di Repubblica sono stati appena 4 (su 37 nomine) gli scienziati designati dai nostri presidenti. Curioso, proprio nell’epoca marcata dal predominio della scienza. Sicché pensiamoci, prima di gettare quest’idea nel cestino dei rifiuti. In fondo, basterebbe spostare la scelta sui Lincei (la più antica accademia scientifica del mondo), come suggerisce Elena Cattaneo. Perché la rappresentanza non può divorziare dalla competenza. Altrimenti ci terremo perennemente sul groppone competenti impolitici e politici incompetenti.

l’Unità 2.6.14
La responsabilità della sinistra
di Claudio Sardo


IL VOTO DEL 25 MAGGIO HA ESPRESSO UNA FORTE DOMANDA DI GOVERNO. Anzitutto il bisogno di garantire la governabilità e le istituzioni, minacciate dalla violenza verbale e dai propositi sfascisti di Grillo. Ma ancor più vasta è stata la richiesta di un cambio di rotta, di un’inversione di tendenza, di una nuova stagione italiana ed europea. La protesta urlata dei Cinquestelle è apparsa velleitaria, autolesionista: da qui l’arretramento. Il Pd guidato da Renzi è risultato invece credibile sia per difendere le cose che contano, sia per avviare un cambiamento razionale e profondo nel tessuto del Paese. Così quel sentimento, che altrove in Europa ha destabilizzato governi e sconvolto gerarchie politiche, si è coagulato da noi attorno a un progetto di governo. Non sono state firmate cambiali in bianco. Il consenso-record raggiunto dal Pd poggia ancora su basi fragili. Ma questo non fa che aumentare le responsabilità del premier e dell’intero Pd. Hanno una grande occasione davanti a loro: trasformare le speranze e le aspettative suscitate in una nuova prospettiva per l’Italia.
Nessuno si aspettava un simile verdetto popolare. Ora quelle cifre cambiano molte cose. Anche per Matteo Renzi. Che nei primi mesi di governo aveva usato Palazzo Chigi soprattutto per spiegare che la politica stava cambiando corso, per ridestare un po’ di fiducia, per creare un feeling anche nel linguaggio con quanti ormai erano sintonizzati sulle frequenze dell’antipolitica. Adesso al linguaggio nuovo bisogna affiancare una visione del futuro del Paese. È arrivato il tempo di trasformare i simboli di cambiamento in processi di cambiamento. Gli strappi hanno una funzione anti-congiunturale e servono per tenere alto il ritmo della comunicazione. Ma ora Renzi e il Pd devono darsi una prospettiva più lunga, più inclusiva. Dopo gli 80 euro ai lavoratori dipendenti, bisogna dare appuntamento ad altre fasce sociali in difficoltà: i pensionati, le famiglie numerose, le partite Iva. Occorre costruire un’alleanza sociale per lo sviluppo. Occorre riaprire le porte del ceto medio.
Ma per fare questo un governo, da solo, non basta. Tanto meno se parliamo di una sinistra moderna, europeista, riformatrice, che si propone di abbattere privilegi, rendite, ostacoli alla mobilità sociale. Il governo ha bisogno che si riapra nella società il cantiere del «partito». Un partito dalle forme nuove, che non pretenda di occupare le istituzioni. Un partito che sostenga e indirizzi le domande sociali. Un partito che formi e selezioni le classi dirigenti. Un partito che faccia cultura, e che si metta in rete con le risorse cognitive diffuse nei territori. Solo così il cambiamento può diventare un traguardo del Paese, e non solo una sequenza di atti legislativi separati tra loro.
Renzi ha dato l’impressione, già nella fase finale della campagna elettorale europea, di intuire la necessità di una svolta. Il suo invito all’unità nel partito non sembra più la riproposizione degli schemi di prima. Come il congresso, anche il dopo congresso sta nel passato remoto. Con Grillo e Casaleggio che, dopo la sconfitta, muovono nientemeno che verso la destra di Farage, con una destra divisa e allo stato priva di un baricentro strategico, il Pd e Renzi non possono che ripartire dalla loro responsabilità nazionale. Anzitutto responsabilità di mantenere quella promessa di cambiamento fatta agli italiani.
È una sfida inedita. Conta poco chi nel Pd era renziano della prima ora, chi lo è diventato nella seconda e chi non intende diventarlo neppure alla terza. Una nuova classe dirigente va messa in campo e misurata sui fatti. Ma c’è un nodo da sciogliere. Il partito serve all’impresa? Può dare un contributo autonomo al governo? Oppure deve occuparsi soltanto delle retrovie? Non sono domande oziose. Sono questioni vitali, anche perché rilanciare il valore dei partiti come reti di trasmissione democratica tra società, interessi e istituzioni, vuol dire andare decisamente controcorrente rispetto alla narrazione degli ultimi vent’anni. I partiti sono stati distrutti, oltre che dalle loro incapacità, dal disegno oligarchico di avere governi sempre più dipendenti dalle élite e dalle tecnocrazie. Sarebbe un errore oggi, di fronte a questa impetuosa domanda che emerge dal Paese, rispondere che la nuova classe dirigente dei quarantenni verrà selezionata sulla base di una cooptazione, che si ispira ancora al pensiero liberista dominante. La nuova classe dirigente ha bisogno invece di una cultura nuova. Che rompa i vecchi argini. Ha bisogno di un partito. Anzi, dei partiti. I partiti-società sono condizione di un cambiamento duraturo, perché a volte ci vogliono tempi e pensieri lunghi per produrre risultati. La scorciatoia del partito personale non porta al traguardo. Il populismo brucia tutto subito. A volta brucia anche le istituzioni piegandole a fini di potere. Soprattutto un partito di sinistra come il Pd, che oggi è investito della responsabilità di «partito della nazione », deve rompere lo schema degli ultimi anni. E rifondarsi. Ricostruire la propria circolazione democratica, il proprio radicamento. È un’impresa difficile: ma è il momento di avere grandi ambizioni. Se tutto il Pd sarà capace di aprire questa strada nuova si potrà anche realizzare quel sogno, di cui ieri ha parlato Susanna Camusso, cioè vedere tutta la sinistra presto in un partito di governo e di società. È un pro-memoria anche per le riforme istituzionali: sarebbe ora di tornare a puntare sui partiti (come è avvenuto alle elezioni europee) anziché sulle coalizione coatte che nella seconda Repubblica hanno demolito la credibilità della politica.

Corriere 2.6.14
Se il premier assedia i fortini della sinistra che fu
di Dario Di Vico


Se lo sciopero dei dipendenti Rai contro il governo fosse stato indetto qualche giorno prima delle elezioni europee, ha assicurato Matteo Renzi dal palco del Festival dell’Economia di Trento, sarebbe stato meglio perché «avrei preso il 42,8 e non solo il 40,8%». La battuta è spietata ed è diretta contro quello che resta del glorioso «partito Rai», rimasto a lungo una delle constituency più influenti del centrosinistra. I sondaggisti raccontano addirittura che negli anni che vanno dalla metà dei 90 al 2004 per connotare gli elettori di centrodestra e centrosinistra non si usassero più i vecchi parametri identitari come imprenditore vs tuta blu oppure la frequenza alla Santa Messa ma «la fiducia in Mediaset» contrapposta «alla fiducia nella Rai». Per tutta la fase iniziale della Seconda Repubblica, se eri di sinistra confidavi nelle magnifiche sorti dell’azienda televisiva di Stato.
In parallelo all’interno di Viale Mazzini si andava creando una situazione singolare: dal 2001 fino al 2012 i vertici aziendali sono stati scelti dai governi a guida berlusconiana ma «la pancia della Rai» è rimasta sempre e comunque affezionata alle bandiere del centrosinistra. I segretari via via succedutisi a Botteghe Oscure e al Nazareno hanno guardato con grande attenzione a questa membership e hanno pescato a piene mani dal vivaio Rai per intercettare il voto romano (con Piero Badaloni, Piero Marrazzo, David Sassoli). Il primo leader che non si è appassionato al tema ma vuole addirittura emanciparsene è proprio Renzi, conscio forse che nei sondaggi di opinione la popolarità di Rai e Mediaset è scesa drasticamente al livello dei partiti e delle banche e che alla domanda «chi fa, secondo lei, servizio pubblico televisivo» molti intervistati rispondono indicando Sky o La7.
In sostanza come la sfida portata alle alte burocrazie dello Stato e alla dirigenza della Cgil è servita a Renzi per fare il pieno di voti al Nord e in particolare in Veneto, così l’opposizione frontale al partito Rai dovrebbe aiutarlo a liberarsi di un’altra di quelle «catene della sinistra» (come recita il titolo del libro di Claudio Cerasa) che sono state azioniste occulte del progressismo italiano. Come ha ribadito anche nel suo show di Trento il premier punta a «mettere la residenza» a quota 40% e per questo ha in mente un posizionamento del suo partito che alla fine produca un interclassismo dell’epoca di Internet. Per ottenere questo risultato Renzi deve far guerra alle piccole caste rosse senza rompere con la base sociale del centrosinistra e con i suoi valori tipici come l’attenzione alla scuola o la solidarietà verso gli immigrati. Non ripudia il voto di pensionati, operai, dipendenti pubblici e ceti urbani intellettuali — «la società bersaniana» — punta invece ad aggiungere al voto di sempre il consenso di fette consistenti dell’imprenditoria autonoma e del lavoro precario. Due segmenti del mercato elettorale che non amano lo Stato e tutto ciò, compresa la Rai, che rimanda ad esso. La manovra sugli 80 euro in più in busta paga è stata da questo punto di vista esemplare, porterà ristoro economico ai lavoratori dipendenti ma ha anche generato una querelle con la Cgil dimostrando così all’elettorato chi è pragmatico (lui) e chi è invece ideologico (Susanna Camusso). Idem con il tetto agli stipendi degli alti burocrati presentato come una norma desunta addirittura dalla lezione di Adriano Olivetti, un’icona della sinistra, e nei fatti una sforbiciata destinata a far capire agli elettori che l’inciucio tra il centrosinistra e i grand commis di Stato deve considerarsi archiviato.

Corriere 2.,6.14
L’altolà dei renziani alla sinistra «antica» e al partito unico
di Maria Teresa Meli


ROMA — Che cosa dovrebbe essere il Pd per Matteo Renzi? Un partito «che si apre alla gente, il partito degli elettori, della società, dei cittadini, una comunità di donne e di uomini». Insomma, qualcosa di ben diverso da quello che immaginava ieri in un’intervista al Corriere Susanna Camusso, la quale prefigurava una fusione tra il Pd e Sel in una sola forza politica che prendesse a esempio il modello Cgil. Niente di più lontano dalla mentalità di Renzi e da quel suo atteggiamento che gli ha consentito di oltrepassare l’asticella del 40%. Il premier non arriverebbe mai a dire quello che osservava ieri un renziano della prima ora: «Il Partito unico della sinistra? Vi rendete conto di qual è l’acronimo? Pus. Sì, proprio così, pus, come quella materia purulenta che viene fuori quando avete un’infezione». Però è certo che il Renzi-pensiero sia un altro rispetto a quello di Camusso, il che non vuol dire che abbia problemi con Vendola. Anzi i due si stanno anche simpatici. Peccato però che il governatore della Puglia che voleva portare Sel nel Pse abbia dovuto cambiare linea al congresso del suo partito perché era in minoranza e si sia dovuto accodare a Tsipras. Comunque, il premier non mira affatto a un partito che nasca dall’incontro-assemblaggio di gruppi dirigenti: «Non vogliamo essere autoreferenziali, e non vogliamo adeguarci ai vecchi metodi dei palazzi della politica, questo non accadrà mai, su questo potete stare sicuri, io non cambierò», è il ritornello che i suoi interlocutori si sentono ripetere un giorno sì e l’altro pure. Insomma, per Renzi il Pd «non può essere un insieme di correnti culturali, di tradizioni politiche diverse che si uniscono, perché così non è spendibile, non è credibile e non vince». «Deve essere una cosa nuova», come ha ripetuto tante volte, «in grado di catturare le persone che hanno votato per Grillo e per il Pdl». Ecco, «un partito delle persone», dove ognuno ha un nome e ognuno viene consultato: e le email sulla Pubblica amministrazione, tanto per fare un esempio, benché riguardino il governo e non direttamente il Pd, vanno proprio in questo senso. Dunque «un partito comunità», che rifiuta «l’idea novecentesca dell’appartenenza». Ma c’è un secondo motivo per cui a Renzi non basterebbe l’unione con Sel. Il partito a vocazione maggioritaria non è un ritorno a un simil-Pci. Al Renzi-pigliatutto interessano per prima cosa gli elettori: ma di ogni forza politica. Ed è grazie a questo che ha ottenuto il risultato che ha ottenuto. Perché il «sogno» del premier «è arrivare a un bipartitismo all’americana». Certo ancora è presto per dirlo in pubblico con troppa schiettezza, né si può lasciar capire che si vorrebbe arrivare a questo traguardo già nel 2018. Perciò ieri, intervistato da Enrico Mentana a Trento, il premier ha affermato: «Il risultato elettorale dimostra che si può andare verso due schieramenti (non dico due partiti, anche se mi piacerebbe) e il centrosinistra si sta attrezzando in questo senso». Il centrosinistra, appunto. Quindi non solo Sel, ma anche Scelta civica, ed ex grillini, e contatti ci sono persino con esponenti del Ncd e di FI. Sì, perché poi Renzi è un uomo pragmatico, e sa che oltre alle elezioni c’è il Parlamento da conquistare. Perciò il vero «test saranno le riforme». Su quel fronte misurerà i comportamenti di Sel, di Scelta civica e di Ncd. E nel frattempo continuerà a lavorare per un Pd «che possa rendere stabile, anzi, aumentare, il risultato europeo». È chiaro che un simile ambizioso obiettivo non sarebbe mai possibile con la proposta di Camusso. Del resto, quel che pensa del mondo della sinistra «conservatrice» Renzi lo ha detto più volte. Anche ieri, quando ha attaccato quelle che per tanto tempo sono state roccaforti rosse, le sovrintendenze: per lui sono stati «fattori di sottosviluppo del Paese». O quando, criticando implicitamente i sindacati e una certa sinistra ha osservato: «In omaggio alla lotta alla precarizzazione in questo Paese è diventato un incubo trovare un lavoro vero».

La Stampa 2.6.14
Riforme, ecco le mosse per allargare la maggioranza
Al Senato il governo ha una maggioranza di sette senatori che non lo mette al riparo dalle «imboscate» delle opposizioni
Ma Renzi non teme sgambetti da Berlusconi in Senato
di Carlo Bertini


Tanto più ora, dopo che Napolitano ha avvertito che non ammetterà più «inconcludenze» sulle riforme, avere maggiore solidità di numeri in Senato per portare avanti un percorso lastricato di mine, sarebbe più che un bene una necessità. Il premier si mostra aperto a modifiche dell’Italicum sulle soglie per il premio di maggioranza, «quel 37,5% è incomprensibile», avvertendo però che il ballottaggio non si discute, lanciando così un segnale ai berlusconiani, lacerati da uno scontro interno che non fa ben sperare sulla tenuta dei patti. Ma è indubbio che malgrado ciò Renzi possa confidare in una strada più spianata di prima: «Se c’è una dinamica in atto al Senato, di sicuro è per noi espansiva, Sel sta discutendo e non è escluso che qualcuno di loro esca e si avvicini a noi. Gli ex grillini fuoriusciti stanno facendo gruppo a sè e il tema dei rapporti con la maggioranza di governo se lo pongono», è l’elenco dei fattori positivi snocciolato da uno dei più alti in grado del Pd. «L’ambizione di arrivare al 2018 ce l’hanno tutti, le riforme bisogna farle e in fretta e Berlusconi terrà botta, perché altrimenti facciamo un Italicum per i fatti nostri e andiamo a votare». Ecco, basta questo excursus per capire l’umore che domina nelle stanze dei bottoni. E se pure un senatore navigato come Paolo Naccarato dell’Ncd scommette che ora «la maggioranza può allargarsi in modo consistente», mettendo in guardia Berlusconi, un motivo ci sarà.
Ma è evidente che per onorare la previsione «per qualche anno non vedrete altri premier», una maggior solidità al Senato non guasterebbe. Specie nel ramo più sottoposto ad uno stress-test impressionante: entro l’estate dovranno ottenere l’ok la riforma che abolisce i senatori eletti, il decreto Irpef con gli 80 euro, la legge elettorale e la «madre di tutte le riforme», il job act.
E per questo grande attenzione viene rivolta ai segnali che giungono da quei drappelli finora fuori dal perimetro di governo, come appunto quello di Sel e degli ex grillini: da cui non si attendono al momento travasi, ma un atteggiamento più disponibile nel merito dei provvedimenti magari sì. «Non a caso Vendola per evitare smottamenti ha aperto sugli 80 euro», ragiona un ministro con buone sponde a sinistra. Certo è che il governo da domani comincerà a tastare il polso del Senato sulla riforma costituzionale, cercando una mediazione più avanzata rispetto alla soluzione alla francese di senatori eletti dagli amministratori locali, consiglieri regionali e comunali. Che non basta a soddisfare i pasdaran dell’elezione diretta come Chiti del Pd e Minzolini di Forza Italia, che preparano decine di emendamenti.
E quindi, poiché le resistenze non mancheranno, il governo un occhio attento al problema dei numeri lo pone. «La verità è che tutti questi ancora non sanno che pesci prendere, noi offensive vere e proprie non ne abbiamo prese, ma diamo per scontato che alla fine alcuni cercheranno di venire con noi, facendo un percorso di tappe intermedie» è la previsione di un senatore. Anche la nuova compattezza di un Pd unitario farà gioco: entro il 14 giugno saranno rinnovati gli organismi e Renzi sta aspettando che le minoranze si mettano d’accordo sulla presidenza. In queste ore salgono le quotazioni di Matteo Orfini, leader dei «giovani turchi», in corsa insieme alla lettiana Paola De Micheli e Maria Chiara Carrozza.

Repubblica 2.6.14
Gli ottanta euro e la ricostruzione della solidarietà
di Mario Pirani


QUALCHE riflessione sugli ottanta euro che lo Stato ha donato agli italiani. Si tratta di un avvio, piuttosto elementare, di redistribuzione del reddito o di un primo passo di equiparazione salariale? Hanno una qualche ragione di lamentarsi quei sindacati che si sentono tagliati fuori da un aumento generalizzato raggiunto al di fuori di ogni tradizionale trattativa? O, forse, non corrisponde ad alcuna definizione perché fuoriesce da ogni formalismo preesistente ed è meglio ricercarne, in via di fatto, la genesi che ne ha prodotto l’apparizione? Rimettiamoci, quindi, alla natura degli eventi che in questo quadro fanno ricadere al di fuori di ogni qualsivoglia sintesi una iniziativa che evidentemente trova la sua spinta non motivata da una richiesta esplicita pressante. Allora ci troveremmo di fronte a un dato di fatto, sospeso tra un ritorno del passato e un recupero di future speranze. Qualcosa che non nasce da una tradizione recuperata né da una attesa in progress . Per cui il bisogno di far quadrare gli eventi ci è dato dallo squilibrio sempre meno sopportabile tra agiatezza e povertà che legittima nuove forme di protesta politica e di conquista di spazi perduti di ricchezza reale. Di qui il tradursi nell’iniziativa di un governo che si afferma con più del 40% dei voti nell’assegnare quegli 80 euro ad un gruppo definito dei più poveri senza particolari motivazioni. Il silenzio del pensiero storico o dell’analisi matematica è, però, oggi colmato dalle statistiche che proprio in questi giorni l’Istat comincia a diffondere, ad esempio, sul sempre più difficile equilibrio tra i vincoli di spesa e l’efficacia dell’azione del Servizio sanitario nazionale. È questo il crinale principale e decisivo dell’equilibrio tra ricchi e poveri; gli 80 euro non sono, quindi, un’azione di beneficenza “propagandistica”.
«Negli scorsi anni, l’attenzione è stata distratta dalla crisi finanziaria e dalla recessione», afferma il professor Alan Krueger, capo degli economisti di Barack Obama, in un’intervista su l’Espresso, «adesso che l’economia è in ripresa ci si può concentrare sui problemi causati da una diseguaglianza crescente, che ha continuato ad aumentare durante la crisi ed è ormai giunta a livelli così alti da costituire una minaccia per il Paese».
Gli aspetti più gravi si riscontrano sul fronte dell’equità che vede sempre più difficile l’accesso alle cure sanitarie e la sempre maggiore difficoltà delle famiglie nel farvi fronte con mezzi propri. Un indicatore importante al riguardo è costituito dall’abbandono di approfondimenti sulla propria salute da parte dei cittadini. Nel 2012 la quota che vi ha rinunciato si attesta all’11,1%, in maggioranza donne (13,2%, uomini 9%) e, a livello territoriale, la quota è più elevata nel Mezzogiorno (14,8%). I Comuni svolgono un ruolo sempre più gravoso nel sistema di sostegno alle famiglie, con una disomogeneità crescente nella distribuzione dei servizi come gli asili nido, l’assistenza sociale ai disabili, agli anziani, ai non autosufficienti. Il Mezzogiorno continua ad emergere come la zona con maggiori bisogni e minori servizi su tutti i fronti. «L’amministrazione americana - prosegue Krueger - sembra oggi più sensibile a questo tema rispetto ai governi europei, pare un paradosso, visto che l’eguaglianza è uno degli ideali alla base del modello europeo di welfare. Su questo conta il fatto che gli Usa sono usciti prima dalla crisi. Hanno risposto in modo più incisivo e immediato, con provvedimenti che hanno prodotto effetti concreti e una modesta ripresa. L’Europa è rimasta in recessione più a lungo poiché le politiche di austerità imposte ai Paesi del sud hanno peggiorato la caduta della domanda. Queste politiche possono esacerbare le diseguaglianze». Queste ed altre analisi sul disfarsi delle reti di solidarietà ed aiuto ridanno concretezza alle esigenze e al rinnovamento dell’intervento politico, liberandosi dalle vecchie formule sindacal-burocratiche, come stanno cercando di fare i nuovi gruppi che emergono dalle ultime elezioni. Uno sforzo difficilissimo ma meritevole d’appoggio.

Repubblica 2.6.14
Perché l’Ue ci costringe a sciogliere le nostre ambiguità
di Piero Ignazi



IN QUESTI giorni a Bruxelles si stanno precisando le appartenenze politiche della Lega Nord e del Movimento 5 Stelle. Matteo Salvini ha incontrato Marine Le Pen e gli altri estremisti di destra, e Beppe Grillo ha pranzato cordialmente con l’anti-europeista più radicale del continente, il britannico Nigel Farage, leader dell’Uk Independence Party e trionfatore delle elezioni europee nell’isola.
L’Europa conferma il suo effetto “chiarificatore” sulla politica italiana. Ha incominciato all’inizio dell’anno Matteo Renzi quando d’un colpo ha tagliato le ubbie e le resistenze dei post-democristiani nei confronti del Partito socialista europeo - ridefinitosi nel contempo Socialisti e Democratici proprio per facilitare l’inclusione di formazioni politiche, soprattutto dell’Est, che non avevano una diretta discendenza socialista. Al neosegretario del Partito democratico era evidente che senza una precisa scelta di campo il Pd avrebbe continuato a vagolare in uno spazio indefinito, senza poter far valere tutto il suo peso politico. E oggi, che si devono distribuire le cariche e definire le politiche, si vede quanto opportuna sia stata quella decisione. Adesso tocca alla Lega e al M5S schierarsi. Nei primi tempi il Carroccio era addirittura entrato nelle file dei liberali europei: il liberismo economico e il federalismo, anche sul piano europeo, propugnati dal primo Bossi avevano creato l’illusione di una “domesticazione” moderata del Carroccio. Una illusione presto conclusasi con la fuoriuscita della Lega anche per evitare di essere espulsa a causa della sua curvatura destrorsa verso posizioni anti-immigrati, securitarie ed euroscettiche. Da allora la Lega ha aderito, volta a volta, ai gruppi euroscettici o è rifluita tra i non-iscritti.
La nuova leadership leghista ha rotto gli indugi ed ha scelto di schierarsi con l’estremismo di destra capitanato dal Fn di Marine Le Pen, dal Pvv olandese di Geert Wilders e dal Fpö austriaco di Heinz-Christian Strache. Una decisione, ed una compagnia, che fa chiarezza sull’affiliazione politica della Lega nord. Le ambiguità del passato, sostenute da una pluridecennale accondiscendenza nei confronti della xenofobia e del populismo delle camicie verdi, si sono finalmente sciolte. La Lega entra a pieno a titolo tra i nazional-populisti di estrema destra. Ma questo non scandalizza nessuno, da noi. Mentre in Francia l’Ump gollista continua ad evitare ogni collaborazione con il Fn a causa delle idee e della cultura politica che quel partito esprime, in Italia non si erge alcuna barriera di fronte a questo scivolamento estremista. Anzi, in Forza Italia si fa strada l’ipotesi di una rinnovata alleanza con la Lega.
Così come la politica europea fa chiarezza sul posizionamento del Carroccio, lo stesso vale per il M5S, ma con qualche problema in più. Fenomeno nazionale non assimilabile a nessun altro, il partito di Grillo e Casaleggio sta cercando una sua collocazione nel Parlamento di Strasburgo. Il bivio di fonte al quale si trova è decisivo. Se sceglie, come sembra, di proseguire l’intesa cordiale con l’Ukip di Farage, allora il M5S sterza bruscamente a destra perché, oltre all’euroscetticismo a 24 carati, Farage porta con sé anche una buona dose di xenofobia e di chiusura nazionale. L’ispirazione originaria dei 5Stelle trabocca di riferimenti positivi all’apertura delle frontiere, al cosmopolitismo, alla libera circolazione delle persone, delle idee e delle informazioni: non c’è nulla che rimandi a impennate nazionaliste. Quale sintonia può esserci allora con gli anti-europei tout court dell’Ukip? Quale rapporto può saldarsi con chi trasuda ostilità verso gli stranieri, laddove i parlamentari pentastellati hanno votato l’abolizione del reato di immigrazione clandestina? Quali intese si possono stringere con chi snobba totalmente i problemi ambientalisti, così cari a Grillo, per non parlare dell’antimilitarismo in stridente contrasto con le nostalgie imperiali di Farage?
Mentre Salvini ha trovato la sua collocazione naturale, in coerenza con l’evoluzione populista ed estremista del suo partito, Grillo, abbracciando un esponente della destra tradizionalista e nazionalista, manda al macero anni di battaglie ambientaliste e antimilitariste che avrebbero dovuto indirizzarlo piuttosto verso il gruppo dei Verdi. Se il M5S privilegerà sopra ogni cosa l’antieuropeismo, allora anch’esso slitterà a destra. Con tutte le conseguenze del caso. Ad ogni modo, l’Europa, ancora una volta, ci costringe a sciogliere le nostre ambiguità.

l’Unità 2.6.14
Se in Europa vince Keynes
di Laura Pennacchi


La necessità di una svolta in senso keynesiano nella politica economica della Ue è indicata in modo chiaro dal risultato delle Europee del 25 maggio. Da mesi Prodi parla della opportunità per l’Europa di affidarsi a un «sano keynesismo».
All’indomani del voto il premier Renzi ha invocato la possibilità di «una grande operazione keynesiana da 150 miliardi di euro di investimenti ». E ora il Governatore della Banca d’Italia Visco torna con forza su un argomento a lui caro: «Alla crescita della produttività, troppo a lungo stagnante, deve accompagnarsi quella della domanda, quindi dei redditi delle famiglie, da sostenere con nuove opportunità di lavoro». La chiave di volta si trova «nell’aumento degli investimenti fissi, che sono la cerniera tra domanda e offerta», calati in Italia del 27% dal 2007 riducendo la propensione ad investire di ben quattro punti negli ultimi sei anni.
Sembra dunque in atto una convergenza nel reclamare «politiche di largo respiro» e una inversione della relazione tradizionale: non spingere la crescita per avere lavoro e investimenti, ma creare lavoro e investimenti per generare una crescita qualitativamente rinnovata. Si profila di fronte a noi una straordinaria occasione in cui l’Italia guidata da Renzi può giocare un ruolo cruciale. La vera risposta ai populismi antieuropei è infatti tornare a far spirare in Europa il vento della «riforma del capitalismo», nei termini in cui fu proposto negli anni 30 dal New Deal di Roosevelt, le iniziative dei socialdemocratici svedesi guidati da Myrdal, gli impulsi di Beveridge e dei laburisti inglesi, le teorie e le politiche di Keynes che individuano al centro del nuovo liberalismo, con cui sostituire il vecchio, le azioni umane non determinate dal profitto.
Bisogna interrogarsi in modo radicale sul perché oggi si riproducano condizioni analoghe a quelle studiate da Keynes: mentre rimaniamo prigionieri della «trappola della liquidità », la distruzione di valore patrimoniale netto e l’illiquidità feriscono gli operatori, gli investimenti crollano anche se i profitti non flettono, la riduzione del reddito e la disoccupazione di massa scaturiscono dalla trasmissione delle turbolenze finanziarie all’economia reale e dalla deflazione da debito. Per evitare che le forze destabilizzanti prendano il sopravvento, l’ipotesi keynesiana della intrinseca instabilità del capitalismo prevede, anziché solo nuove regolazioni e liberalizzazioni, la necessità di uno stimolo fiscale pubblico di grandi dimensioni, quell’intervento diretto dello Stato che, preteso dai neoliberisti quando si tratta di salvare banche e operatori finanziari, per altre finalità si vorrebbe far «arretrare» con tagli di spesa e privatizzazioni. Keynes consiglierebbe piani di spesa pubblica diretta per il lavoro e per gli investimenti, finanziati in disavanzo con nuova moneta, distinguendo tra debito «buono» (quello per nuovi investimenti) e debito «cattivo» (quello per spesa pubblica corrente improduttiva) e tenendo congiunti il lato della domanda e quello dell’offerta, tanto più in una fase di squilibri nelle capacità produttiva tra eccessi in alcuni settori e deficit in altri. Per Keynes solo un regime di pieno impiego dei fattori della produzione giustifica il principio del pareggio di bilancio, che non andrebbe mai inserito in Costituzione e che in ogni caso non può valere per gli investimenti pubblici, vero traino dello sviluppo economico in una fase in cui si tratta non solo di rilanciare la crescita ma di cambiarne la qualità e la natura.
Il succo dell’insegnamento keynesiano, oggi, si può tradurre così: la retorica del primato del mercato ci ha portato nell’attuale cul de sac e alla drammatica sottoproduzione di beni pubblici e dissipazione di beni comuni indotte dal modello di sviluppo neoliberista. Le società moderne hanno straordinarie interdipendenze e bisogni collettivi, in esse molti scopi individuali possono essere raggiunti solo insieme ad altri e in maniera cooperativa. Si deve prendere atto del funzionamento potenzialmente pernicioso di alcuni aspetti del capitalismo e apprestarsi a vivere al meglio la fase presente, restituendo ai cittadini speranza e fiducia nel futuro. Per «beni pubblici », «esternalità» e «innovazione tecnologica e sociale», il mercato non ha buone soluzioni e, quando ne trova, è spesso troppo tardi (si pensi ai salvataggi pubblici avvenuti durante la crisi finanziaria del 2007-2008). Proprio questo è il punto: il neoliberismo ha creato enormi diseguaglianze ed è sfociato in una enorme disoccupazione da un lato, in una terribile sottoproduzione di beni pubblici e in una grave generazione di esternalità negative dall’altro, con correlata dissipazione di beni comuni, a cui si può porre rimedio solo con un nuovo modello di sviluppo rispetto a cui, però, il mercato sa solo riprodurre lo statu quo. Di fronte a questi evidenti «fallimenti» del mercato, le forze neoliberiste trattano il problema dei beni pubblici cercando di trasformare tali beni in beni «privati » (per esempio, si oppongono al riciclaggio dei rifiuti con l’argomento che il costo del riciclaggio è superiore a quello dei materiali riciclati). Le forze democratiche, socialiste, ambientaliste, invece, considerano un’esternalità negativa anche l’insicurezza sul lavoro, esprimono una preferenza per i beni collettivi (come la salute, l’educazione, l’ambiente), sono scettici sull’abilità del mercato di perseguire interessi comuni in relazione soprattutto alla sua incapacità di portare a soluzione il problema dei beni pubblici.
Così torna in campo Keynes: la keynesiana «socializzazione degli investimenti», destinata a riqualificare l’offerta e ad aumentarne la produttività, chiama in causa un nuovo modello di sviluppo, al tempo stesso sostenendo la domanda e riducendo nel tempo il rapporto debito/Pil. La keynesiana «socializzazione dell’occupazione» fa sì che l’operatore pubblico si doti di un Piano del lavoro per la miriade di obiettivi che attendono solo agenzie e strutture che se ne prendano cura: tecnologie verdi, energia, infrastrutture, trasporti, territori, città, salute, educazione, servizi sociali.

Repubblica 2.6.14
Tra i ribelli turchi armati di libri contro i blindati
Piazza Taksim è circondata dalla polizia, schierata con gas e idranti A un anno dalla rivolta di Gezi Park è vietato anche soccorrere i feriti
di Marco Ansaldo


ISTANBUL. DUE Toma, i famigerati blindati della polizia turca, spuntano a lato di Piazza Taksim, a soli 30 passi dal monumento ad Ataturk. Minacciosi e felpati, si sistemano dietro le transenne, con visuale perfetta sulla spianata centrale di Istanbul. Bianchi e silenziosi, sembrano due giaguari acquattati, pronti a scattare se necessario a un minimo cenno. Ma oggi la piazza è tranquilla, e i disordini dell’altra sera hanno lasciato vaghi segni per terra. Una ruspa resta ai piedi di una scalinata. Un’ambulanza ha i portelloni aperti all’uscita del metro.
CENTINAIA di poliziotti con i manganelli o addirittura i fucili in mano presidiano una rivolta del tutto pacifica, fatta con i fiori e - massima trasgressione - leggendo dei libri seduti per terra.
Il Gezi Park si apre davanti, con i suoi 600 alberi difesi un anno fa da un taglio sconsiderato per far posto a un centro commerciale, motivo di una repressione sanguinosa costata 8 morti e centinaia di feriti. Il prato è calpestato da agenti in divisa e in borghese. Pochi giovani lo percorrono, addossandosi ai tronchi. Basta infatti accompagnarsi a una borsa poco più che voluminosa, e subito scattano i controlli. Nulla sfugge qui agli occhi dei poliziotti, che paiono vivisezionare ai raggi X ogni passante.
Dietro i Toma e le transenne blu, nella viuzza del garage dove dormono i tramvai rossi che solcano Istiklal Caddesi, via dell’Indipendenza, fino alla torre di Galata, altri blindati ben sorvegliati dagli agenti sono pronti a entrare in azione. Ma la strada teatro poche ore fa di scontri e incidenti appare adesso la solita arteria inzeppata di turisti, e dai ristoranti e i negozi alla moda a esplodere è tutt’al più la musica assordante del pop turco.
Non così però è ad Ankara, dove la polizia ha lanciato lacrimogeni e usato idranti contro centinaia di manifestanti. Cinquecento persone sono state disperse a Piazza Kizilay, il centro della capitale, nel luogo in cui l’anno scorso fu ucciso un giovane di 26 anni dalle pallottole sparate dagli agenti. Solo sabato, a Istanbul, dice Human Rights Association, sono state arrestate 83 persone. I feriti risultano almeno 14, di cui sei sotto i 15 anni. Tra loro un ragazzo che ha perso un occhio per un lacrimogeno.
Due dati colpiscono rispetto al passato. Il primo, la legge voluta dal premier Tayyip Erdogan a febbraio, mirata a punire con il carcere chi soccorre i feriti al di fuori del Pronto soccorso ufficiale. Come ha raccontato l’altra sera lo stesso fotoreporter italiano Piero Castellano, rimasto contuso dal lancio di un lacrimogeno, «questo è un provvedimento fatto proprio per scoraggiare le manifestazioni. Se un dimostrante viene ferito, per la legge dovrebbe rimanere a terra fino a quando non viene trasportato dalle ambulanze al Pronto soccorso». La nuova misura ha portato così, l’altro giorno, all’arresto di 4 medici, costretti a comparire oggi davanti al giudice con l’accusa di aver soccorso i manifestanti a terra. «Speriamo non ci sia anche quello che mi ha medicato», commenta con amarezza Castellano, aiutato da un pronto soccorso clandestino.
L’altra novità è stata invece registrata durante il fermo, solo temporaneo, del giornalista della Cnn, Ivan Watson. Un ufficiale di polizia lo ha interrotto bruscamente mentre era in diretta da Piazza Taksim, tirandolo per la giacca e chiedendogli di mostrare tessera professionale e passaporto: «Sei un giornalista? - gli intimava - facci vedere il passaporto, il passaporto!». Mai è successo in Turchia, almeno negli ultimi decenni, che i reporter siano costretti a mostrare i documenti per realizzare il loro lavoro. Un’ennesima stretta delle autorità.
YouTube, del resto, è tuttora inaccessibile qui, nonostante la decisione della Corte Costituzionale di togliere il blocco per favorire la libertà di espressione. Ma il governo conservatore islamico, forte del risultato elettorale conseguito alle amministrative del 28 marzo (oltre il 46 per cento delle preferenze), impone il suo credo nonostante l’altra metà del Paese critichi con forza i modi spicci del premier. Lo stesso avviene per Twitter, mentre pure Facebook e Google sono entrati nel mirino.
Di fronte a media sempre più omogenei nel seguire il leader, infatti, sono proprio i social network i più attivi nel comportarsi da “cane da guardia” della democrazia, denunciando i fenomeni di corruzione. Erdogan scarica nei loro confronti tutta la sua rabbia, minacciando loro e la stampa straniera.
Eppure, scrive sulla prima pagina del Hurriyet Daily News l’editorialista Guven Sak, «lo spirito di Gezi Park e la guerra di Twitter continuano». I giovani che si annidano dietro gli alberi del parco di Piazza Taksim, impediti a manifestare per strada, si ritrovano sempre più numerosi e attivi sul web e sulle piattaforme sociali mobili. Che cosa potranno fare i Toma dal muso feroce, sistemati ai bordi del monumento al laico Ataturk, contro la forza inevitabile della piazza virtuale?

Repubblica 2.6.14
Traditi da uno stato che si sente ognipotente
di Elif Shafak



DAGLI eventi di Gezi Park è trascorso un anno intero. In questo tempo la Terra ha percorso intorno al Sole 942 milioni di chilometri, ma in Turchia noi non ci siamo mossi neppure di un centimetro. Non c’è stato alcun progresso significativo nella democrazia e nella libertà di espressione. Al contrario, temo che abbiamo fatto passi indietro.
Il governo usa di continuo l’eccessiva contrapposizione “noi contro loro”, polarizzando ancor più una società già divisa.
Christos Tsiolkas ha ambientato il suo romanzo “ Lo schiaffo ” a un barbecue alla periferia di Melbourne. Una versione di quella sua storia di violenza patriarcale, però, si è verificata nel villaggio turco di Soma, teatro della tragedia che qualche settimana fa ha portato alla morte di oltre 300 minatori. Il paese è sottosopra per le voci secondo le quali il primo ministro Erdogan avrebbe inseguito un contestatore all’intero di un supermercato e gli avrebbe allungato uno schiaffo. Vero o meno che sia l’episodio, il fatto che neanche i più determinati sostenitori di Erdogan non lo trovino inverosimile la dice lunga. In un filmato registrato quello stesso giorno, si sente Erdogan lanciare questo avvertimento: «Se fischi il primo ministro di questo paese, ti becchi uno schiaffo». Se questo episodio si fosse verificato altrove, il governo di qualsiasi paese sarebbe scosso dalle fondamenta. Ma non la Turchia. Nei giorni scorsi per le strade di Istanbul, Ankara e Smirne, la polizia antisommossa ha lanciato gas lacrimogeni contro i giovani che protestavano per le circostanze che hanno portato i minatori alla morte e per le reazioni del governo. Il cordoglio in Turchia si deve vivere passivamente, in silenzio: se osi scendere in strada, lo stato ti prende a schiaffi.
“Lo schiaffo” fa parte della nostra cultura, e compare alla minima provocazione. In Turchia lo stato è onnipotente. I cittadini no. Noi, come nazione, siamo abituati a essere presi a schiaffi da chi ha una certa autorità. In famiglia, a scuola, nell’esercito, in strada, al supermercato…gli schiaffi sono ovunque.
(Traduzione di Anna Bissanti)

Repubblica 2.6.14
Slogan e manifesti tra le macerie Nelle urne la sfida del regime di Assad
Nel quartiere cristiano della città martire del conflitto uomini e donne si aggirano come spettri cercando tra le rovine qualche traccia del proprio passato
Incombono i cartelloni: “Ricostruiremo”. Un invito a votare domani per il presidente
di Alberto Stabile



HOMS. LIKE Hiroshima! Like Hiroshima! ». Ryad Huzam non riesce a trovare parole più drammatiche nel suo modesto vocabolario d’inglese per esprimere tutta la propria disperazione davanti alla scena della sua casa distrutta e saccheggiata. E le grida di continuo, quelle due parole, mentre ci fa strada lungo il vicolo di Hamidyeh, il quartiere cristiano di Homs, invaso dalle macerie e dai rifiuti della guerra, su cui sporge la facciata annerita dalle fiamme e sventrata dai colpi d’artiglieria del palazzo in cui, al primo piano, si trovava il suo appartamento.
In realtà, non è facile descrivere la devastazione, il dolore, la barbarie quando colpiscono una città intera. Si deve forse cominciare dal silenzio profondo che avvolge gli scheletri degli edifici crollati sotto le bombe, le vie scavate in mezzo alle rovine, i posti di blocco dei soldati siriani che, nonostante la tregua, sembrano timorosi di chiunque si avvicini. Oppure da quelle figure leggere e isolate come fantasmi, o come comparse che sfiorano questa scena di morte. Una coppia esce da un cortile diroccato trascinando un grosso pacco e una valigia. Due ragazze camminano al centro della via, una stringendo una pila di libri che rischiano di scivolare per terra, l'altra, due quadri. Alcun manovali scaricano secchi di detriti su montagne di macerie.
Siamo arrivati ad Homs da Damasco, lasciandoci alle spalle una realtà totalmente diversa, paradossale. Mentre a pochi chilometri ancora si combatte, mentre una larga parte del paese è nelle mani dei ribelli, mentre a Homs gli abitanti di Hamidyeh tornano a cercare di recuperare memorie e tracce della loro tempo passato, a Damasco impazza la campagna elettorale. La capitale è letteralmente tappezzata di manifesti del raís, il quale cerca con le elezioni presidenziali convocate per domani, martedì 3, la legittimazione per continuare a guidare la Siria per altri sette anni.
Una conferma che non contempla alcuna sorpresa, tale è la preponderanza del messaggio di Assad, sui due concorrenti, Hassan al Nouri e Maher Hajad. Tale è il radicamento del suo potere. Resta tuttavia da vedere quanto possa pesare il voto di un corpo elettorale disperso dalla guerra civile, con due milioni e mezzo di siriani rifugiati all'estero e sei milioni costretti a fuggire dalle loro case pur rimanendo in Siria, e intere province strappate dai ribelli alla giurisdizione dello stato.
Ad Homs questa sorta di normalità imposta dal calcolo politico è ancora più visibile. Dopo la tregua che ha permesso ai ribelli di uscire armi in pugno dalla città vecchia e all'esercito siriano di interrompere il lungo assedio, la gente continua a tornare ad Hamidyeh, spinta dall'attaccamento alle proprie cose e alle proprie radici, ma non dalla la speranza immediata di poter abitare presto le loro case. Troppo vasta sembra ad Homs la distruzione. Ma il regime sembra avere la risposta.
Accanto alla Chiesa che ha subito danni modesti e nessun atto di vandalismo, contrariamente al palazzo del Metropolita che è stato distrutto, sopra il negozio di moda Danny, un grande striscione con la foto di Bashar el Assad, il presidente candidato a succedere a se stesso, ondeggia al vento. «La ricostruiremo insieme», dice lo slogan in arabo alludendo ovviamente alla città.
Ryad Husam, 60 anni, fotografo, è fra quelli che, pur sapendo che tornare a vivere ad Hamidyeh non sarà facile, non riesce a stare lontano dalla sua casa, adesso che la guerra sembra essersi allontanata da Homs e quelle lontane raffiche di mitra che il silenzio amplifica. «Son andato via il 6 gennaio del 2012, non lo dimenticherò mai. Ho chiuso la porta di casa piangendo. La mia famiglia aveva vissuto qui per 150 anni. Io avevo aperto uno studio fotografico con sviluppo e stampa a colori, il primo ad Homs e forse in tutta la Siria. Avevo fatto arrivare l'apparecchiatura dall'Italia».
Città strategica per la sua prossimità al confine libanese, vale a dire ad una della le frontiere che hanno alimentato la rivolta armata contro Assad, conquistare Homs per i ribelli significava infliggere una sconfitta devastante al regime spezzando l'asse vitale che da Damasco conduce fino a Latakia e alla costa del Mediterraneo. Per questo, i gruppi armati hanno provato in tutti i modi di impossessarsene e l'esercito siriano con l'appoggio delle milizie Hezbollah e dei “consiglieri” iraniani hanno cerato in tutti i modi d'impedirglielo. Questo spiega l'intensità dello scontro.
Qui ad Hamidyeh si vede come i cristiani siano rimasti prigionieri di questa tenaglia. A qualche decina di metri dalla Chiesa di Notre Dame de la Ceinture, ecco il convento gesuita dove, pochi giorni prima che scattasse la tregua favorita dalla mediazione dell'Iran, è stato ucciso padre Franz van der Lugt, il gesuita olandese che aveva deciso di rimanere nel quartiere a proteggere, essendone lui stesso a sua volta protetto, la comunità cristiana. «Eravamo rimasti più o meno un centinaio – racconta Nazim Anawati, ingegnere, che abita a pochi passi dal convento – alla fine eravamo ridotti in 24. Siamo rimasti per testimoniare la nostra fede ed anche per difendere padre Franz e il convento, senza alcuna ostilità verso nessuno perché noi non facciamo differenza tra cristiani e musulmani ».
Quello che successe quel giorno Nazim l'ha saputo direttamente da un testimone oculare, che, ancora sotto choc, ha preferito parlare con lui ma non vuole parlare con i giornalisti. «A un certo punto è entrato un giovane armato di kalashnikov e con la faccia coperta da una sciarpa che lasciava liberi soltanto gli occhi. Ha chiesto di padre Franz cui avrebbe dovuto dire una cosa importante... padre Franz ha sentito che c'era del movimento ed è salito dal piano di sotto. Il giovane armato gli ha chiesto di uscire dal convento, ma lui gli ha risposto che non sarebbe uscito fuori con un uomo dal viso coperto. Allora, il giovane, pensiamo che fosse un giovane sui vent'anni, lo ha fatto sedere su quella sedia, ha messo il colpo in canna, ha appoggiato la canna alla testa ed ha sparato. Il proiettile è entrato da un lato ed è uscito dall'altro. Padre Franz non s'è mosso. Ha chinato la testa ed è morto. Soltanto gli occhiali erano saltati via. Li abbiamo trovati qualche giorno fa in un'aiuola». Nel giardino del convento hanno lasciato la sedia di plastica lì dove si trovava. Hanno soltanto aggiunto un mazzetto di fiori incollato con il nastro adesivo alla spalliera.

Corriere 2.6.14
Macerie, nespole e i sopravvissuti
A Homs dove è morta la rivoluzione
Viaggio nella città simbolo della guerra. Che Assad ha (quasi) vinto
di Viviana Mazza


HOMS — Con i suoi nespoli, le palme e i gelsomini il cortile del convento dei gesuiti offre un momentaneo rifugio dal sole, dalla polvere e dalla desolazione della Città Vecchia di Homs, un po’ come lo offrì il padrone di casa Padre Frans a molti, cristiani e musulmani, in questa guerra fratricida. Anche quest’ultimo quartiere della città un tempo nota come la «capitale della rivoluzione» è stato ripreso dal governo tre settimane fa e la gente sta tornando a casa nei quartieri soprattutto cristiani di Bustan Al Diwan, Al Malgaa e Al Hamidiyah. Ma al centro del cortile c’è una sedia vuota, con un ciuffo di fiori rosa di plastica appoggiati allo schienale. Proprio su quella sedia e in quel punto, è stato assassinato quasi due mesi fa Padre Frans Van Der Lugt. Il gesuita 76enne olandese era l’ultimo missionario europeo rimasto nella roccaforte dei ribelli negli oltre due anni in cui era stata assediata dai soldati lealisti di Assad. Non ha potuto vedere la fine dell’assedio. «Un giorno, un miliziano con il volto coperto è arrivato, lo ha fatto sedere su quella sedia e gli ha sparato alla testa». Lo racconta Nazim Qanawati, 50 anni, ingegnere civile. È uno dei 24 cristiani rimasti fino all’ultimo giorno, insieme a 200-500 civili musulmani e 2000 miliziani ribelli. Nemmeno a febbraio Padre Frans aveva voluto andarsene con gli ultimi civili evacuati, per non abbandonare i suoi fedeli. In quel cortile ora c’è la sua tomba. Nazim l’ha seppellito nel punto in cui amava prendere il caffè al mattino e ha disposto le pietre a forma di croce. Viene a trovarlo uno stuolo continuo di pellegrini incluse coppiette e scolaresche.
Homs, a due ore di auto a nord di Damasco sulla strada segnata dai carri armati, è oggi il simbolo della fine della rivoluzione. Nella piazza dell’Orologio che a lungo ha segnato una linea del fronte tra regime e ribelli, le lancette hanno ripreso a muoversi, ritmando il ritorno della gente alle case. Lo ha sancito un accordo ai primi di maggio: i combattenti hanno lasciato la zona negli autobus forniti dal governo e sotto supervisione dell’Onu verso i villaggi e le campagne a nord, verso la Turchia, dove ancora si combatte. In cambio hanno ceduto degli ostaggi sciiti e un accesso ai villaggi vicino ad Aleppo. In un cortile sporco e pieno di detriti, dove c’era una volta il ristorante Beit Al Agha, Elia Saman mostra il nascondiglio dell’emiro della brigata Abu Leil. Stava nello scantinato per evitare le bombe. «Era un uomo colto». Accanto agli strumenti per preparare bombe, tubi e sostante chimiche, e una foto pasticciata di Assad ci sono due pile di volumi di libri, non solo religiosi. Uno è sulla prevenzione delle malattie. «È fuggito a Al Waer, l’unico altro quartiere di Homs dove stanno ancora i ribelli e c’è una tregua e la speranza di un accordo. Ma l’emiro l’hanno ammazzato».
Un papà in bicicletta sfreccia con un bimbo in grembo tra le stradine su cui si affacciano le case sventrate. Sulla soglia di ciascuna ci sono cumuli di detriti. Tutte le chiese riportano danni insieme a recenti segni di affetto. Quella greca-cattolica, la Signora della Pace, è vuota, con la cupola crollata, un affresco annerito dal fuoco e le vetrate in frantumi: eppure le sedie sono in ordine davanti all’altare. Nella chiesa siro-ortodossa si celebra la messa della domenica, e il sacerdote comanda ai fedeli di andare in pace. Ad ogni angolo stanno appostati soldati in mimetica abbastanza tranquilli da posare per le foto. Agli angoli sventolano le bandiere delle milizie cristiane, in cui molti si sono arruolati per combattere contro gli estremisti musulmani. Bari, 21 anni, maronita, che aveva lasciato il quartiere nel 2012, racconta che lui, studente di matematica, non ha voluto combattere. Si sente più portato per la ricostruzione. Molti, come lui, hanno il sorriso sulle labbra ma Abu Rogé, un anziano con un fratello a Como, si trascina senza meta per Al Malgaa, vicino alla piazzetta dove una volta i ragazzi si riunivano la sera nei bar. «Forse sarebbe stato meglio non tornare, per non vedere queste cose», confessa con gli occhi arrossati.
Davanti alla tomba di Padre Frans, Nazim non mostra odio. «Quel gesto così atroce è stato compiuto per disperazione, per smuovere i negoziati con il governo. La vita qui era arrivata ad un punto cruciale, mancavano il cibo, l’acqua. Negli ultimi 50 giorni mangiavano le nespole di questo cortile, mischiandole al granturco. Il nocciolo lo ammorbidivamo nell’acqua: acquista un sapore simile ai funghi. L’assassinio di Padre Frans è diventata una storia di portata internazionale, una specie di luce che ha portato alla riconciliazione. Ce l’ha insegnato lui. Una volta i miliziani vennero a rubare del cibo. Padre Frans li denunciò ai loro capi che li misero in prigione. E allora lui andava a trovarli per assicurarsi che fossero rimessi in libertà e una volta rilasciati li invitò a pranzo».
La caduta o la liberazione di Homs non cancella la realtà di un Paese ancora in guerra. Nel nord, nella città spaccata di Aleppo, si combatte quella che è definita la battaglia decisiva. Con assedi e offensive con l’aiuto dell’Hezbollah, il regime ha ripreso il controllo di buona parte del territorio e sostiene che in pochi mesi può riportare la stabilità. Secondo uno studio pubblicato a maggio dal Brookings Institution, c’è l’opzione americana dell’appoggio alla ribellione da sud benché la Casa Bianca prometta ma continui ad esitare nel fornire nuove armi ai ribelli, tra ansie per i qaedisti e timori che il regime sospenda la distruzione delle armi chimiche.
Mentre molti ribelli hanno lamentato la grave perdita di Homs, il regime l’ha celebrata come una vittoria e può fregiarsene mentre si appresta a disputare domani nuove elezioni presidenziali destinate a riconfermare Bashar Assad per 7 anni e precedute da un lungo blackout che per tutto il giorno ieri ha impedito le telefonate all’estero e l’accesso a internet. Ma forse, in una guerra in cui entrambi i fronti hanno pensato poco alle vittime collaterali, va capito che la gente di Homs come della Siria è stanca. A Homs non ha vinto nessuno, ma il senso che il valore delle vite umane può prevalere sulle pistole offre un barlume di speranza in un conflitto su cui è presto per mettere la parola fine .

Corriere 2.6.14
Ipazia d’Alessandria, filosofa e scienziata martirizzata dal fanatismo
Gemma Beretta ha ricostruito la vita, le idee e la fine orribile di una straordinaria caposcuola del pensiero neoplatonico nella tarda antichità
di Massimiliano Chiavarone


Una donna su un carro percorre le strade di Alessandria d’Egitto per fare ritorno a casa. Un gruppo di monaci cristiani la sorprende, la tira giù dal mezzo, la trascina fino a una chiesa, fa del suo corpo macelleria, uccidendola con bastoni e cocci e poi smembrandola. Infine quegli stessi uomini, sulla carta di fede, prendono i miseri resti sanguinolenti e li bruciano per cancellare ogni traccia.
È la sorte toccata a Ipazia, la filosofa e scienziata vissuta tra il IV e il V secolo. Il suo caso costituisce uno dei più efferati femminicidi di matrice cristiana della storia. La vicenda è raccontata da Gemma Beretta in Ipazia d’Alessandria (Editori Riuniti/University Press, pp. 320, e 20). Questo bel libro è una scrupolosa ricostruzione storica della vita e delle idee della martire del paganesimo e della libertà di pensiero, supportata da un uso approfondito delle fonti antiche. Beretta sottolinea che l’omicidio maturò nell’ambito della lotta per la supremazia tra pagani e cristiani da un lato e del prevalere del potere cosiddetto «spirituale» su quello temporale dall’altro, inteso come «scontro senza mediazioni tra il potere ecclesiastico locale e il potere civile cittadino».
Il fulcro del conflitto nel V secolo fu Alessandria, centro della cultura pagana e dunque «laica», cioè un barile di polvere da sparo in cui bisognava solo innescare la miccia. In corso epocali cambiamenti geopolitici che porteranno alla caduta dell’Impero romano d’Occidente, alle invasioni barbariche che riguardavano anche l’Impero romano d’Oriente (come la sconfitta di Adrianopoli, nell’odierna Turchia, del 378) e alla supremazia del Cristianesimo.
Il primo evento che ne sancì l’affermazione fu l’Editto di Milano del 313, dell’imperatore Costantino I: stabiliva la libertà di culto, interrompendo le persecuzioni contro i cristiani, ma di fatto privilegiava la loro religione a scapito delle altre. Poi il Concilio di Nicea del 325 formulò i fondamenti dell’ortodossia cristiana. L’Editto di Tessalonica del 380 dichiarò il Cristianesimo religione ufficiale dello Stato nella forma definita «cattolica». Inoltre riconosceva il primato delle sedi episcopali di Roma e di Alessandria in materia di teologia. E questo atto inaugurò una specie di «soluzione finale» per il paganesimo con i decreti teodosiani emessi tra il 391 e il 392 (il primo dei quali firmato da Teodosio a Milano) e ispirati da Ambrogio. Infatti, scrive la Beretta, «rientravano nella politica di scambio tra Chiesa e Impero» inaugurata proprio dai due. Cominciò la distruzione dei templi pagani insieme alle persecuzioni e prese slancio la filosofia cristiana con Agostino.
Qui si inserisce la storia di Ipazia, nata ad Alessandria e figlia di Teone, uno dei più grandi matematici dell’antichità. Lei stessa, educata dal padre, divenne un punto di riferimento non solo nella filosofia, ma anche nell’astronomia, assurgendo a terza grande caposcuola del platonismo dopo Platone e Plotino.
Ma il suo insegnamento rivolto a tutti, la sua cultura, il fatto che a lei chiedesse consiglio il prefetto romano Oreste, la fecero emblema di un ideale di vita e di politica antitetico alla visione degli episcopi, basato «piuttosto che sul potere che viene dall’essere anello di una scala gerarchica, sull’autorità che viene dall’intelligenza sul mondo e dal coraggio nell’esporsi». La prese di mira il vescovo Cirillo, che la riteneva responsabile della sua mancata riconciliazione con Oreste. E di fatto ispirò lo scempio che nel 415 di lei fecero i monaci, in realtà «corpo di polizia degli episcopi». Un delitto atroce, rimasto impunito, e di cui sarebbe il caso ora, anche se a secoli di distanza, di riconoscere le responsabilità morali.

Corriere 2.6.14
L’aquila e la croce di Dante
di Armando Torno


Nell’opera di Luigi Valli (1878-1931) e della sua scuola trovò spazio un tema inattuale e denso di fascino: l’esoterismo di Dante e di buona parte della poesia italiana delle origini. Tema che si riallacciava,tra l’altro, alla tradizione dei Fedeli d’Amore; argomento di cui dovette occuparsi anche Pascoli, professore di latino dello stesso Valli. Ora uno studio documentatissimo di Stefano Salzani (École pratiques des hautes études), dal titolo Luigi Valli. L’esoterismo di Dante (Il Cerchio, pp. 416, e 34), ricostruisce la lettura dell’opera del sommo fiorentino con la prospettiva ermetica. La simbologia (basti pensare alla croce e all’aquila), i rapporti con Pascoli, il linguaggio segreto dantesco e gli studi dello stesso Valli (i più importanti sono riproposti da Luni) e altro ancora entrano in queste pagine per mettere a punto un’interpretazione antica e antiaccademica. Salzani ha interrogato anche quegli ambiti religiosi che rientrano in codesta interpretazione, soprattutto ha compulsato l’archivio di Valli (è alla Casa di Dante a Roma) e gli epistolari. Segnala i siti internet utili e credibili.

Corriere 2.6.14
L’eroe satanico di Stevenson
Il signore di Ballantrae è un nobile dall’animo oscuro
Incarna in una figura sola le psicologie di Jekyll e Hyde
di Pietro Citati


Come tutte le intelligenze vaste, nitide e vertiginose, quella di Robert Louis Stevenson era attratta dal male assoluto. «Mi sembra — scrisse negli ultimi anni di vita — di essere nato col sentimento di qualcosa di inquietante nascosto nel cuore delle cose, di un male e di un orrore egualmente senza limiti». Con una violenza estrema, egli affrontò il male soprattutto in due libri: scrivendo Lo strano caso del Dr. Jekyll e di Mr. Hyde (1886) e Il signore di Ballantrae (1889). Nel primo caso guardò la tenebra del male: quello che esso ha di deforme, abietto, orribile, odioso, al punto da sottrarsi all’espressione e alla parola, superando qualsiasi limite negativo. Hyde destava una «curiosità piena di ripugnanza»: c’era, in lui, qualcosa di anormale e di contraffatto; qualcosa che colpiva, sorprendeva e rivoltava.
Il caso del Signore di Ballantrae era opposto. Il grande aristocratico scozzese emanava una specie di luce radiosa e abbacinante: emanava un fascino senza limiti; affetto, amore, venerazione, adorazione. Era — racconta l’onesto Mackellar, la voce narrante del libro — «un alto e snello gentiluomo vestito di nero, con la spada al fianco, una mazza da passeggio allacciata al polso. Agitò la mazza verso il capitano Crail in segno di saluto, con un misto di grazia e di beffardaggine, che impresse profondamente quel gesto nella mia memoria… Aveva il viso olivastro, asciutto, ovale, con neri occhi, vigili e penetranti, da uomo combattivo e avvezzo al comando. Un grosso diamante gli brillava all’anulare… Le sue maniere erano di un’affabile garbatezza. Ogni suo atto era così piacevole e di aspetto così nobile che io non riuscivo a meravigliarmi vedendo suo padre e sua cognata sedere attorno alla tavola insieme a lui, con facce radiose. Era un meraviglioso attore, che parlava all’orecchio della signora, con una grazia diabolicamente insinuante». Ed ecco il tocco definitivo. «Vi era in lui tutta la gravità e qualcosa dello splendore di Satana nel Paradiso perduto di Milton».
Questo fascino era soltanto una scintillante facciata. James, signore di Ballantrae, pretendeva di essere un cavaliere, un eroe, il fiore dell’aristocrazia europea del Settecento. Ma chi lo conosceva bene, chi ne seguiva le azioni e ne vedeva il volto segreto, sapeva che egli era avidissimo di denaro e di menzogne. Spargeva sangue attorno a sé con cinica indifferenza: torturava; ed era così intimamente brutale e volgare che rivelò la sua natura profonda quando venne nominato capitano da una banda di corsari. Fingeva di essere un nobile protettore degli afflitti e dei perseguitati: mentre era una spia, che per denaro denunciava i suoi compagni di sventura.
James aveva un fratello minore: Henry, che sembrava modesto e mediocre, quanto egli era demoniacamente accorto ed astuto. Henry aveva il senso del dovere mentre egli ne era privo: leggeva poco, parlava poco, mentre egli era un re della conversazione e della lettura: non aveva finezza: era goffo, quasi brutto, inelegante; soprattutto incapace di ispirare amore e dedizione. Tutti lo sfuggivano: le comari del villaggio lo insultavano per strada: al massimo i buoni avevano pietà di lui, che al contrario avrebbe voluto ricevere amore e tenerezza — la tenerezza quotidiana, che rende lieta la vita.
James odiava ferocemente, selvaggiamente Henry: senza nessuna ragione, perché il fratello lo adorava e venerava come gli altri; lo odiava appunto perché non possedeva né eleganza né fascino; e lo considerava colpevole di tutte le sue sventure, delle quali egli era invece il solo responsabile. Lo scherniva, lo chiamava Giacobbe (mentre lui si paragonava a Esaù): gli dava dell’avaro, dell’idiota, del goffo, del contadino, del marinaio alla taverna, dello zotico, della mignatta; non sopportava la sua ingenuità e la sua innocenza, e la sua bontà premurosa e affettuosa.
Nel torturare il fratello, James possedeva un’astuzia diabolica, sempre più raffinata e sottile, che lo colpiva al cuore, e faceva affondare la sua vita in una infelicità senza misura. Quando viveva insieme a lui con il padre e la cognata, James si rivolgeva al fratello nel modo più gentile e squisito se qualcuno lo ascoltava, ma crudelissimo quando lo incontrava a quattr’occhi. Il vecchio Lord e la Signora erano quotidianamente testimoni di ciò che avveniva: avrebbero potuto giurare in corte di giustizia che Mr. James era un modello di tolleranza e di bonomia, e che invece Mr. Henry era un esempio di gelosia e di ingratitudine. Quando James venne dato per morto, nemmeno allora Mr. Henry poté avere sollievo. Il padre e la moglie si riunivano insieme in segreto, per compiangere lo scomparso, e tenevano lontano il malvagio, l’insensibile Mr. Henry, come se fosse un crudele impostore.
Il grande romanzo precipita all’improvviso verso il suo culmine: la notte del 27 febbraio 1757. È il cuore del freddo, al quale Stevenson si avvicina con lievi tocchi successivi. «Al sopravvenire della notte la caligine si rinchiuse nell’alto; il buio calò da un cielo senz’aria, in un’atmosfera immobile e gelida: notte inclementissima e adatta a strani casi». «Non tirava un alito: un gelo senza vento aveva fermato l’aria; e, mentre avanzavamo al lume delle candele, la tenebra pendeva come una volta sul nostro capo. Non proferimmo parola; né udimmo altro suono tranne lo scricchiolio delle nostre scarpe sul viottolo ghiacciato. Il fremito della notte mi si ghiacciò addosso come un secchio d’acqua, accrescendo nelle mie vene il tremito provocato dal terrore».
Avvicinandosi al cuore del freddo, Henry si trasformò: dopo aver udito una terribile offesa di James, diventò calmo, lucido, determinato, sicuro. Si alzò in piedi lentamente, molto lentamente, avendo l’aria di essere immerso in profondi pensieri. «Che vigliacco!» — disse piano come parlando a sé stesso. Poi, senza fretta e senza speciale violenza, diede un rovescio sulla bocca di James. Mr. James balzò in piedi, come trasfigurato: «Non mi parve mai tanto bello», commentò Mackellar. «Le mani addosso a me, esclamò. Non lo sopporterei da Dio onnipotente». Poi, nel gelo, la rapidissima scena del duello. Henry, completamente trasformato, incalzò il fratello con una furia contenuta e trionfante: finché James, menando il colpo a vuoto, inciampò nel ginocchio del fratello e, prima di potersi riprendere, venne trafitto dalla spada di lui, guizzò per un momento come un verme calpestato e poi giacque immobile al suolo. Mackellar e Henry lo credettero morto.
* * *
Questa scena è il meraviglioso culmine tragico del libro. Poi tutto crolla, sebbene il racconto conservi la sua straordinaria bellezza. Henry ha un lungo e terribile incubo, dal quale esce cambiato, abbandonandosi all’odio per il fratello. Sopporta un «grave scadimento»: subisce la pietà di se stesso, piagnucola, beve; la faccia appare invecchiata, la bocca malinconica, la dentatura scoperta in un perpetuo rictus, l’iride dilatata in un campo bianco iniettato di sangue.
Intanto Mackellar si avvicina al genio del male sconfitto: fa un viaggio con lui attraverso l’Atlantico; talora prova nausea come davanti a un essere immondo, talora ribrezzo, talora una strana ammirazione piena di complicità e di odio. Anche la Geenna, conclude Mackellar, «può avere nobili ardori».
Nell’ultima pagina del romanzo, due lapidi. La prima: «James Durie,/ erede di un titolo scozzese,/ signore delle arti e delle grazie,/ ammirato in Europa, in Asia, in America,/ in guerra e in pace,/ nelle tende dei cacciatori selvaggi/ e nelle cittadelle dei re,/ nonostante i grandi meriti,/ le molte imprese e le dure privazioni,/ qui giace obliato». La seconda: «Henry Durie,/ fratello di lui,/ dopo una vita di immeritati affanni/ coraggiosamente sopportati,/ morì quasi al tempo stesso;/ e dorme nella stessa tomba/ del suo fraterno avversario./ La pietà della moglie/ e di un vecchio servo/ pose questa memoria/ad entrambi».

La Stampa 2.6.14
Così ho infranto il monopolio di Dio
Il biologo d’assalto Craig Venter racconta in un libro come ha “creato” il primo organismo vivente artificiale
di Piero Bianucci


Qualche settimana fa, mentre eravamo distratti dalle grida di Grillo e dai servizi sociali di Berlusconi, Nature annunciava che l’uomo è riuscito ad aggiungere 2 «lettere» alle 4 che da miliardi di anni il Dna usa nel suo alfabeto della vita. Un microbo, l’Escherichia coli, comunissimo anche nel nostro intestino, vive con il Dna a 6 lettere inventato da Floyd Romesberg - Scripps Institute, California. È come se finora la Natura avesse scritto i progetti di tutte le specie in una sola lingua e ora potesse incominciare a scriverli in una nuova lingua inventata dall’uomo. Ma il vecchio alfabeto permette 64 combinazioni, quello nuovo 216.
È l’ultimo rivoluzionario capitolo nel romanzo della vita sintetica. Quattro anni fa, un altro biologo d’assalto, John Craig Venter, costruì il primo organismo vivente artificiale. Battezzato Mycoplasma mycoides JCVI-syn1.0, è anche il primo microbo griffato: nel suo genoma sintetizzato al computer, orgogliosamente Craig scrisse il proprio nome. Fatto ancora più curioso, la prima forma di vita sintetica nasconde una antologia letteraria: nel milione di istruzioni genetiche del mycoides, Venter infilò tre citazioni: «Vivere, sbagliare, cadere, trionfare, ricreare la vita dalla vita» (James Joyce, Ritratto dell’artista da giovane), «Vedere le cose non come sono ma come potrebbero essere» (Robert Oppenheimer, capo dell’équipe che realizzò la bomba atomica), «Quello che non posso creare, non lo comprendo» (Richard Feynman, premio Nobel per la fisica). Parole gravide di messaggi esistenziali ed epistemologici che dicono quanto sia ingombrante ma anche geniale e interdisciplinare l’ego di Craig Venter.
Science annunciò la vita artificiale il 20 maggio 2010 nella sua edizione online e il 2 luglio nell’edizione a stampa. Il titolo nell’insieme sembra prudente: «Creazione di una cellula batterica regolata da un genoma di sintesi». Ma la prima parola – creazione – in una rivista scientifica suona provocatoria. Venter e gli altri 23 autori avrebbero potuto scegliere la forma neutra «ottenuta una cellula». Invece, correndo il rischio di scatenare una bufera religiosa e filosofica, hanno voluto appropriarsi di ciò che fino al giorno prima per i laici era monopolio della Natura, per i religiosi di Dio.
A raccontarci queste cose è Craig Venter in persona nel libro Il disegno della vita (Rizzoli, pp. 280, € 18). Nato a Salt Lake City 67 anni fa, infermiere dei marines nella guerra del Vietnam, laurea in biochimica all’Università della California, Venter lavora per parecchi anni ai National Institutes of Health, l’equivalente del nostro Istituto superiore di Sanità. Nella struttura statale si impadronisce di una tecnica per leggere rapidamente i messaggi genetici nelle cellule. Poi lascia la struttura pubblica, fonda un centro di ricerca privato ed entra nel business della genomica accumulando brevetti per la lettura veloce del Dna (il famoso «sequenziamento a mitraglia») e cercando di brevettare i geni degli organismi che andava sequenziando, cosa che gli procura parecchi nemici. Entrato tardi in concorrenza con il consorzio pubblico che stava mappando per la prima volta il genoma umano, lo raggiunge sul traguardo: con il capo del consorzio Francis Collins, c’era anche lui accanto a Clinton e Blair il 26 giugno del 2000 alla conferenza stampa che annunciò la conclusione di quel progetto da 3 miliardi di dollari. Ma mentre il consorzio pubblico aveva mappato un genoma fatto di tanti frammenti di persone diverse (simbolicamente dell’umanità), Venter aveva lavorato sul genoma di 5 persone soltanto, e una di queste era lui.
Di lì Venter parte verso l’obiettivo più ambizioso: creare un organismo artificiale. Per comprendere meglio la vita, ma anche per progettare (e vendere) batteri capaci di produrre energia, sintetizzare farmaci, ripulire mari inquinati. L’idea è individuare il più semplice organismo in grado di vivere, con il corredo di geni minimo per nutrirsi e riprodursi. Lo trova nel Mycoplasma genitalium, che ha solo 482 geni. Tutti necessari? No, Venter prova a sfoltirli uno dopo l’altro fino a identificare i 381 davvero indispensabili alla vita. Chiama Synhia il genoma minimo e lo brevetta con il numero 20070122826. Tra successi e fallimenti, passa a un altro batterio, il Mycoplasma mycoides, ne spezzetta il patrimonio genetico in 1078 mattoncini ognuno contenente 1080 informazioni genetiche, lo sintetizza al computer e lo introduce in un batterio simile, il Mycoplasma capricolum, dopo aver eliminato il suo genoma. Era un venerdì sera. Fiato sospeso fino alle 4 del lunedì mattina. Poi il trionfo: la creatura artificiale si nutre e si riproduce. Vive! Un’antica concezione filosofica, il vitalismo, si dissolve: non c’è uno «spirito» che anima la materia, c’è solo un programma genetico, a sua volta scritto nella materia.
Eppure quella di Venter non era ancora autentica vita artificiale. Era un genoma di sintesi inserito in un microbo preesistente. Il prossimo passo sarà costruire l’intero nuovo organismo, hardware e software. Ha già il nome, Mycoplasma laboratorium. Intanto Venter sogna il design della vita: progettare una cellula vivente universale, ricavarne nuove creature, trasmettere nello spazio istruzioni genetiche per teletrasportare la vita su altri pianeti. Forse però il progetto più importante è quello di mappare microrganismi eccezionali per individuare i geni che li rendono tali. L’ha fatto con il Deinococcus radiodurans, che sopporta radiazioni in quantità 6000 volte maggiori della dose mortale per l’uomo, l’Archaeoglobus, che prospera nei giacimenti di petrolio, il Methanococcus, che genera la propria energia cellulare trasformando l’anidride carbonica in metano, stupenda soluzione contro l’effetto serra. La vita artificiale, quando arriverà, avrà prestazioni da Superman. Ma forse porterà la firma di Floyd Romesberg.

La Stampa 2.6.14
La città fantasma al Polo Nord fra miniere, segreti e Lenin
Pyramiden, da avamposto del comunismo creato dai russi alla fuga nel 1998
di Vittorio Sabadin


Il «Langoysund», il vecchio peschereccio che porta la gente a fare un giro per i fiordi delle Svalbard, ferma i motori sul limitare della banchisa, nel Billefjorden. A destra, imponente e magnifico, striato di venature azzurre, c’è il Nordenskioldbreen, uno dei più incantevoli ghiacciai dell’Artico. 
A sinistra, ai piedi di una montagna inquietante, c’è una città che nessuno si aspetterebbe di trovare da queste parti, a poche centinaia di chilometri dal Polo Nord. Ha edifici imponenti, ampie piazze e viali, monumenti imperiosi. Ma niente si muove nelle strade, dai camini non esce fumo e nessun rumore la disturba. Pyramiden, la città fantasma ai confini del mondo, è così dal 1998, quando tutti i suoi mille abitanti smisero all’improvviso di fare quello che stavano facendo e se ne andarono via insieme, da un momento all’altro. 
Le isole Svalbard non sono sempre state dove si trovano ora. Prima che la deriva dei continenti le portasse nel Circolo polare artico erano ricoperte di alberi, che hanno formato enormi giacimenti di carbone. All’inizio del ‘900 tutti vennero qui a scavare miniere e i russi si aggiudicarono tre concessioni: Grumant ancora ai tempi dello zar, Barentsburg e Pyramiden ai tempi di Lenin. Intorno ai primi due insediamenti sorsero le solite baracche dei minatori, ma non nel terzo: a Pyramiden, l’Unione Sovietica volle fare le cose in grande, talmente in grande da creare più di un sospetto e generare leggende, ipotesi inverosimili e spiegazioni che convincono, ma non cancellano del tutto la sensazione che ci sia ancora altro da scoprire. 
Pyramiden deve il suo nome alla montagna che la sovrasta e che è non solo a forma di piramide, ma ha sulla cima una punta a gradoni scavati dalla neve e dal vento, che evocano la piramide di Saqqara in Egitto e i templi a scalini dei Maya. Dopo avere ottenuto l’autorizzazione a estrarre carbone nel 1927, l’Urss di Stalin decise nel Dopoguerra di fare di Pyramiden un avamposto della civiltà comunista. Vennero costruiti palazzi di cinque o sei piani mai visti alle Svalbard, nello stile monumentale di Mosca. Nella piazza principale, un busto di Lenin guarda ancora la città e la pianura di fronte, dalla quale si elevano altre montagne a forma di piramide. 
I mille abitanti di Pyramiden avevano tutto quello che poteva servire a una comunità: asilo, scuola, ospedale, auditorium, cinema, biblioteca con 50.000 volumi, campo da basket e da calcio, piscina riscaldata. In nessuna delle abitazioni c’era una cucina. Il cibo veniva servito a tutti in un grande ristorante centrale, e non mancava mai. C’erano serre nelle quali si coltivavano frutta e verdura, stalle riscaldate piene di maiali, polli e bestiame. Poiché la terra delle Svalbard è molto povera, venne portata terra feritile dall’Ucraina, che ha prodotto erba che d’estate spunta ancora nei parchi giochi della città. 
D’inverno, quando il sole non si fa vedere per quattro mesi, Pyramiden non è raggiungibile e gli unici stranieri che si avvicinano sono orsi polari. Da giugno a ottobre vi si può approdare in nave, e fino a pochi anni fa visitarla è stata una esperienza che nessuno ha dimenticato. Tutto era rimasto come se il tempo si fosse improvvisamente fermato. Sul pavimento della palestra i palloni da basket. Al bar i bicchieri ancora sul bancone. Nell’auditorium due balalaike posate per terra e sul palco un nobile pianoforte «Ottobre Rosso» a coda che stabilisce, malandato e orgoglioso, il record dello strumento musicale più a Nord del pianeta. Nella piscina sembra sia sufficiente aprire il rubinetto per poter nuotare di nuovo. Dentro le case i letti disfatti, le scarpe abbandonate a terra. Gli attrezzi dei minatori appoggiati alle pareti, pronti per essere usati il giorno dopo. C’è un’atmosfera sospesa, come di una fotografia che ha fermato il tempo. 
Le ragioni per le quali Piramyden è stata abbandonata così, da un giorno all’altro, lasciando tutto quello che con più calma si sarebbe potuto portare via, non sono mai state spiegate in modo convincente. Si dice che nel 1991, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, i finanziamenti di Mosca siano cessati, dando inizio alla decadenza. La miniera non ha mai generato sufficienti profitti e occorrevano soldi in continuazione per tenere in piedi quell’Eden tra i ghiacci. L’equipaggio del «Langoysund» si ricorda di un luogo anomalo e misterioso, nel quale i mercantili arrivavano pieni e partivano vuoti, popolato da uomini di cultura e scienziati più che da minatori. Uno sceneggiatore di Hollywood potrebbe ambientarci molti film: una base segreta nucleare sovietica, evacuata all’improvviso per una emergenza; un avamposto della Guerra Fedda pronto per una incursione di James Bond; un ingresso segreto di Agarthi, il regno sotterraneo immaginato dallo scrittore Willis George Emerson, circondato da piramidi per metà artificiali e per metà naturali. 
Chissà. Grazie al gelo delle Svalbard, Pyramiden resterà intatta per molti secoli. Secondo gli scienziati sarà probabilmente l’ultima città della Terra a scomparire, con la statua di Lenin e i suoi segreti ancora avvolti nel ghiaccio.

Repubblica 2.6.14
Settanta anni fa lo sbarco in Normandia
Ritorno a Omaha Beach dove nacque la potenza Usa
di Bernardo Valli


CAEN. IL TEMPO non doveva essere molto diverso : una leggera foschia e il mare non troppo quieto, in più punti agitato.
I residui delle forti perturbazioni delle ultime ventiquattro ore sono ancora visibili. Il cielo arruffato lascia incerti i servizi meteorologici come settant’anni fa inquietava il colonnello Stagg, l’ufficiale scozzese al servizio del generale Dwight D. Eisenhower.
GRIGIO e pioggia, quasi rugiada, sui pascoli di un verde smalto, leggermente ondulati, cintati da filari d’alberi esuberanti e da arbusti ad altezza d’uomo, si addicono alla Normandia umida e fertile. In questo paesaggio rurale, chiamato « bocage », i carristi inglesi e americani rimanevano impigliati, e allora si rassegnavano a percorrere le strade battute dall’artiglieria o imbottite di mine. Una campagna incantata per contadini e pittori, e un inferno per gli M4 Sherman decimati come selvaggina dai panzerfaust, i bazooka dei tedeschi. Per fortuna la Luftwaffe del maresciallo Goering era quasi assente nel cielo normanno.
Ma le nubi, compatte anche in questa mattina di settant’anni dopo, potevano ridimensionare la netta superiorità dell’aviazione alleata, su cui contava l’operazione Overlord per tenere a bada le divisioni tedesche del Vallo atlantico, l’imponente sistema difensivo costruito da Hitler per impedire sbarchi nemici. Il 4 giugno fu dunque deciso un rinvio. Forse anche oggi, visto il tempo piuttosto simile, sarebbe stata fatta la stessa scelta. Come allora non mancherebbero tuttavia motivate obiezioni. A non essere d’accordo in quel lontano giugno era il generale Bernard Montgomery. Per la verità non lo era quasi mai. Il già mitico comandante su tanti fronti della guerra mondiale in corso, dall’Africa all’Italia, aveva un carattere difficile. In quell’occasione non aveva torto: un ritardo rischiava di scompigliare l’organizzazione delle truppe di terra, di cui era responsabile. L’ammiraglio Ramsay fece invece notare la difficoltà di aggiustare i tiri dei cannoni nel caso di una scarsa visibilità. Lasciò tuttavia la decisione a Eisenhower.
A 53 anni l’americano Eisenhower, detto “Ike”, futuro presidente degli Stati Uniti, era il responsabile dell’operazione senza avere un’esperienza diretta dei campi di battaglia. Aveva fatto carriera negli Stati maggiori. Questo non aumentava il suo prestigio agli occhi di Montgomery, l’altezzoso inglese di 57 anni, diventato visconte di El Alamein dopo la campagna vittoriosa di Libia. Eisenhower non ci faceva caso. Sapeva apprezzare i bravi generali con un cattivo carattere. Anche se Montgomery, suo sottoposto, lo metteva a dura prova. Per questo, durante tutta la lunga battaglia di Normandia, lo incontrò di persona soltanto nove volmery, te. Poche, per i due principali responsabili della gigantesca operazione. Allora, il quattro giugno, Eisenhower decise comunque di ritardare di ventiquattro ore lo sbarco. Soltanto il giorno successivo, il cinque giugno, poco dopo le quattro del mattino, e dopo un’altra breve esitazione, lo fissò per l’indomani: il 6 giugno 1944. Il D-Day. Un ulteriore ritardo avrebbe potuto mettere in allerta i tedeschi.
L’effetto sorpresa era decisivo. Il cattivo tempo e le astute iniziative alleate (finti camion e aerei di gomma disseminati nel non lontano Pas-de-Calais) traevano in inganno i generali tedeschi, convinti che il mare agitato, la foschia e il cielo minaccioso non consentissero uno sbarco. Erano inoltre convinti che gli alleati l’avrebbero tentato in un altro punto della costa, più vicino a quella inglese. Anche una vecchia volpe, di 53 anni, come Erwin Rommel si lasciò ingannare. Il maresciallo se la prese comoda. Sicuro che non ci fosse nulla da temere nell’immediato, l’ex comandante dell’Afrika Korps, celebrato dagli strateghi, compresi quelli nemici, benché sconfitto nel deserto da Montgo-abbandonò il quartier generale di La Roche-Guyon proprio il cinque mattina. Voleva essere in tempo per il compleanno della moglie nella casa di famiglia, a Herrlingen, vicino a Ulm. Poi sarebbe andato da Hitler. Voleva chiedergli altre due divisioni corazzate per la Normandia. Sempre in quelle ore il generale Dollmann, capo della Settima armata, partecipava a Rennes a un Kriegspiel (esercizio simulato). Il generale Marcks, dell’Ottantaquattresimo Corpo d’armata, festeggiava a champagne i suoi 53 anni. E così tanti altri generali tedeschi non erano in quelle ore ai loro posti di comando. Eppure c’era stato un segnale che avrebbe dovuto inquietarli. Radio Londra aveva mandato un messaggio alla Resistenza francese di cui i servizi tedeschi non ignoravano del tutto il significato: aveva trasmesso i primi tre versi ( Bles-sent mon coeur/ D’une lan-gueur/ Monotone) della Canzone d’Autunno di Paul Verlaine. Il 5 giugno, verso le 9.15 di sera, lo stato maggiore della Quindicesima armata aveva captato quelle parole che mettevano in stato d’allerta i partigiani. I vari comandi erano stati avvisati, ma non avevano preso troppo sul serio l’informazione, non avevano creduto a un annuncio dello sbarco.
Il tentativo di rivivere sette decenni dopo un avvenimento bellico che ha segnato una svolta nella storia, e non soltanto in quella del Ventesimo secolo, invita a tentare di immergersi nell’atmosfera di quelle ore. Il paesaggio è cambiato. Non ci sono più tracce delle ferite, delle distruzioni. C’è qualche carro armato esibito come cimelio. Ci sono molte lapidi rievocative. E alla vigilia della celebrazione ci sono le bandiere dei paesi che parteciparono all’invasione. Alberghi, ristoranti, case secondarie improvvisate per villeggianti delle classi medie, occupano le spiagge, Ma la più bagnata dal sangue americano, Omaha Beach, è stata risparmiata. È intatta. Vuota. Vi sorgono soltanto dei castelli di sabbia costruiti da piccoli francesi in vacanza. Sopravvivono eterni i cimiteri, ampie aree imbiancate nella Bassa Normandia verde, ritornata normale. A Caen, capoluogo del Calvados, si sente che è stata ricostruita. Lo rivelano le strade geometriche, i palazzi allineati e spesso identici, come accade nei centri distrutti dalla guerra e ridisegnati dagli urbanisti (di tendenza gotica, quelli francesi) nella fretta di una pace ritrovata. Caen è stata una piccola Stalingrado. La battaglia, durata più di settanta giorni, tra i soldati di von Rundsedt e Montgomery ha distrutto i tre quarti della città, e non ha contribuito alla fama di chi aveva il comando. Hitler ha rimproverato al maresciallo tedesco di avere perduto la battaglia, e al maresciallo inglese è stato rimproverato di avere messo troppo tempo per conquistare la città e di avere avuto troppi morti.
Prima di raccontare lo sbarco, ho accennato appena alle ore che l’hanno preceduto, ai dubbi dei comandanti, al tempo incerto che ha condizionato lo svolgimento della più grande operazione militare della storia. Tutti dettagli di un avvenimento alla cui preparazione si erano dedicati per anni strateghi, tecnici e capi di Stato e di governo, non sempre consapevoli di star cambiando gli equilibri politici e militari del mondo.
All’alba cinque divisioni alleate sbarcano sugli ottanta chilometri di costa che vanno dagli estremi sobborghi di Caen alla base della penisola del Cotentin. Le spiagge indicate sulle mappe dettagliate dello stato maggiore sono cinque, e a ciascuna è stato dato un nome in codice, ancora oggi scritto sui cartelli che guidano turisti e pellegrini. Sword Beach è la più a Est; poi Juno, Gold, Omaha; e infine Utah Beach a Ovest. Quest’ultima, Utah, è una delle due spiagge affidate agli americani, che la conquistano senza grandi difficoltà. La corrente è forte e sposta di più di due chilometri a Sud dell’obiettivo i mezzi da sbarco. Dai quali escono soldati storditi dal mal di mare. Durante la navigazione hanno vomitato le abbondanti colazioni fatte alla partenza dalla costa inglese. La resistenza tedesca è sporadica e gli americani superano abbastanza facilmente la spiaggia. Prima del tramonto le punte avanzate raggiungono le unità di paracadutisti lanciate su Sainte-Mère-Église. Dei ventitremila uomini approdati a Utah il primo giorno ne vengono uccisi centonovantasette. Meno rispetto alle previsioni.
All’altra estremità, vicino a Caen, a Sword Beach, gli inglesi riescono a stabilire abbastanza presto un contatto con i paracadutisti già appostati sulle sponde dell’Orne e del canale non lontano da Rainville. Anche da Gold Beach si staccano e si inoltrano nel retroterra altri reparti in direzione di Bayeux. I canadesi, occupata Juno Beach, si attestano in prossimità di Courselles-sur-Mer. I bombardamenti aerei e navali, accompagnati dall’artiglieria e dai mezzi corazzati, riducono la capacità di resistenza delle truppe tedesche. La spiaggia è piatta, la sabbia è ferma, non intralcia l’avanzata dei mezzi cingolati. La Terza divisione di fanteria canadese è quella che penetra più in profondità: otto chilometri.
A Omaha Beach, seconda spiaggia americana, tutto va invece storto. Il mare agitato, violento, sommerge i mezzi da sbarco, travolge le chiatte, danneggia quasi tutti i carri anfibi e distrugge i cannoni leggeri da 105 mm. Così le truppe mettono piede a terra senza l’appoggio essenziale d’artiglieria e autoblindo. La foschia fa mancare gli obiettivi agli attacchi aerei e quindi la reazione tedesca, anche grazie ai rinforzi ricevuti, è più tenace che altrove. Infligge serie perdite agli americani, non favoriti dalla spiaggia stretta sui fianchi da promontori e sbarrata da una scogliera a picco al vertice della quale i difensori hanno posizioni al momento inespugnabili.
Molti uomini della Prima e della Ventinovesima divisione ricevono in quell’inferno il battesimo del fuoco. Si scoprono imprigionati tra la scogliera e il mare, in mezzo ai relitti che ingombrano la spiaggia e impediscono l’arrivo di rinforzi. Vent’anni dopo Eisenhower ricorderà che a Omaha Beach «tutto quello che poteva fallire era fallito «. A mezzogiorno il generale Bradley pensa di ritirare le truppe e di riversarle su Gold Beach, ma si accorge di non avere i mezzi per rimbarcare i soldati.
È da tempo una leggenda, evocata da tutti gli storici (mi riferisco in particolare a Jean-Pierre Azéma, Robert O. Paxton, Philippe Burin), il ruolo avuto in quella situazione disastrosa dal colonnello George Taylor, del Sedicesimo reggimento di fanteria. L’ufficiale dice ai suoi: «Su questa spiaggia ci sono due tipi di uomo. Quelli morti e quelli che stanno per morire. Usciamo da qui». E subito tenta di superare la diga creata dai relitti e di scalare la scogliera, usando ramponi e corde da alpinista, sotto i tiri e le granate dei tedeschi. Molti ufficiali subalterni, tenenti e capitani, e sottufficiali daranno l’esempio. Ed è così che gli americani di Omaha Beach usciranno dalla trappola micidiale. Anche se al prezzo di duemila morti.
Non è poi tanto azzardato affermare che a Omaha Beach gli Stati Uniti abbiano conquistato il titolo di superpotenza mondiale. Quando nel dicembre di tre anni prima, nel dicembre 1941, sono trascinati nella guerra dal Giappone (e poi da Germania e Italia), i generali americani devono trasformare il loro modesto esercito, «una polizia di frontiera », in vere forze armate. Oltre Atlantico non manca una tradizione militare. La Guerra di secessione (1861-1865) è stato il primo grande conflitto moderno, e un corpo di spedizione americano ha contribuito in modo determinante alla vittoria alleata, nella fase finale della Grande guerra (1914-1918). Ma nel 1941 l’esercito degli Stati Uniti conta 190 mila uomini. Quattro anni dopo ne conterà 8 milioni e trecentomila. Mentre i marines, distinti dall’esercito, sono impegnati soprattutto nel Pacifico, contro il Giappone, l’esercito viene impiegato sul fronte occidentale. Le divisioni che affrontano per prime i duri veterani tedeschi nell’Africa settentrionale si rivelano impreparate e i loro comandanti sono in gran parte sostituiti da quelli che poi riveleranno le loro qualità sul fronte italiano e più tardi, nel giugno ‘44, in Normandia e in Germania. Tra questi il generale Patton.
Il principio di un’invasione dell’Europa per liberarla dall’occupazione nazista è stabilito dall’entrata in guerra degli Stati Uniti. E prima ancora che venga fissato il luogo e la data dello sbarco si forma via via in Gran Bretagna un’immensa forza militare, in cui sono rappresentate otto nazioni. L’obiettivo è di costringere Hitler a difendere tutta la costa dell’Atlantico e della Manica. I soldati americani sono i più numerosi. Sono circa tre milioni. E tra il 1942 e il 1945 diventano una presenza che conta nella società delle isole britanniche. I rapporti non sono sempre facili. Gli americani sono visti, secondo una battuta inglese dell’epoca, come individui «superalimentati, superpagati, supereccitati e sulle nostre spalle». Bevono troppo, sono troppo assillanti con le ragazze (i figli di donne nubili triplicheranno in quegli anni), e sono troppo razzisti con i neri del loro stesso esercito. A quest’ultima accusa gli americani rispondono rimproverando agli inglesi il loro colonialismo.
Il 6 giugno la presenza degli americani sulle spiagge normanne non è schiacciante rispetto a quella inglese e canadese. Questi ultimi hanno settantaduemila fanti e ottomila uomini delle truppe aerotrasportate. Gli americani hanno cinquantasette mila fanti e sedicimila uomini delle truppe aerotrasportate. Ma è la forza navale impiegata quel giorno che dà la superiorità alla Gran Bretagna: l’ottanta per cento appartiene alla Royal Navy, e soltanto il sedici alla US Navy. Un mese e mezzo dopo in Normandia ci sono ottocentododicimila americani, poco più di mezzo milione di inglesi, centomila canadesi e piccole unità francesi e polacche. La potenza dell’industria bellica, il numero di uomini sui campi di battaglia e i mezzi della immensa logistica al seguito danno agli Stati Uniti una superiorità alla quale gli inglesi, fino allora convinti di essere la nazione guida, si devono piegare. Già nell’Africa del Nord e poi con gli sbarchi in Sicilia e ad Anzio il ruolo degli Stati Uniti era diventato via via preminente. Ma a Omaha Beach (e nella guerra del Pacifico) esso si afferma, anche per i decenni successivi.
Le truppe del generale Mark Waine Clark entrarono a Roma poche ore prima dello sbarco in Francia. Le notizie dai due fronti si accavallarono nei bollettini di guerra alleati. La liberazione dell’Europa dal nazismo richiederà ancora mesi di combattimenti, ma era arrivata a un punto cruciale. Al tempo stesso, mentre era in corso la sofferta ed esaltante emancipazione, il Vecchio continente viveva un altro capitolo del suo declino storico. Pur ammettendone la necessità, Winston Churchill aveva avanzato qualche riserva sull’invasione frontale da attuare in Normandia. A quella strategia degli Stati Uniti ne avrebbe forse preferito una meno rischiosa, meno affidata alla schiacciante superiorità dei mezzi, più articolata nel tempo e sul terreno. Ma aveva prevalso l’idea di chi disponeva, appunto, di una potenza industriale e di un apparato militare senza pari. In quei giorni si è imposta la superpotenza americana.
Stalin chiedeva con insistenza da anni l’apertura di un fronte nord-occidentale capace di alleggerire il peso tedesco su quello orientale. Lo sbarco in Normandia non poteva più essere ritardato. A questa urgenza imposta dalla pressante domanda del Cremlino, si aggiungeva la necessità, altrettanto urgente, di non lasciare che i sovietici, passati con successo all’offensiva dopo la battaglia di Stalingrado, liberassero gran parte dell’Europa prima degli anglosassoni. Si profilava insomma tra gli alleati-rivali una corsa che poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale sarebbe diventata la guerra fredda tra l’Est e l’Ovest.
Nel giugno del ‘44 Charles de Gaulle era il capo del Governo provvisorio della Repubblica francese. Ma non godeva né della simpatia né della fiducia del presidente americano. Roosevelt non poteva sopportare il caparbio generale di brigata francese (a titolo provvisorio). Neppure Churchill gli riservava un appoggio incondizionato, nonostante l’avesse sostenuto nel suo coraggioso rifiuto della resa ai tedeschi, e nella sua audace creazione della Francia Libera.
De Gaulle ha ignorato fino all’ultimo la data dello sbarco. Ne fu informato da Eisenhower soltanto tre giorni prima. E tra i due ci fu un’accesa discussione sul comunicato da diffondere per radio in Francia. De Gaulle non volle sottoscrivere quello americano, in una posizione subordinata. E lanciò un suo messaggio. Il compassato Eisenhower perse la pazienza e non lo nascose. Dubitando, come Roosevelt, che incarnasse la legittimità della nazione, Churchill avrebbe voluto impedire a de Gaulle di mettere piede in Francia in quei giorni. Ma il 14 giugno il capo della Francia Libera, a bordo del cacciatorpediniere francese La Combattante , reduce dallo sbarco alleato, salpò lo stesso per la Normandia. La nave si guastò a due chilometri dalla costa, e de Gaulle proseguì con un anfibio fino alle dune deserte di Juno Beach, conquistata dai canadesi giorni prima.
I comandi alleati avevano l’ordine di accoglierlo con cortesia ma di non permettergli riunioni pubbliche. De Gaulle si infischiò di quelle restrizioni e percorse la strada principale di Bayeux, piccolo capoluogo del bacino normanno, tra una folla festante. Ma non delirante. Fu trenta chilometri dopo, a Isigny, località quasi rasa al suolo dai bombardamenti, che ci fu il trionfo. E via via de Gaulle, anche per la decisa azione della resistenza che aveva saputo unificare, fu riconosciuto come il capo della Francia liberata dagli alleati. I quali rinunciarono a emettere una moneta d’occupazione, come in Italia, e lasciarono ai francesi il diritto di governarsi da soli. E a figurare poi tra i vincitori.

Repubblica 2.6.14
Trasmettere il sapere agli allievi da Lacan alla scuola di oggi
Un maestro sa insegnare solo se parla ai muri
di Massimo Recalcati



Qualcosa sembra accomunare l’esperienza dell’insegnamento a qualunque livello essa avvenga, dalle scuole elementari sino all’Università e oltre. Ogni insegnante, a suo modo, ne ha fatto esperienza sulla sua pelle: ha parlato ai muri. L’insegnamento porta con sé, sempre, una inevitabile esperienza di solitudine nonostante in esso si tratti di trasmettere un sapere, di farlo circolare, di condividerlo con altri. Parlare ai muri è la condizione strutturale di ogni insegnamento perché in ogni insegnamento è in gioco un impossibilità. Quale? Quella di una trasmissione integrale, senza resti, trasparente del sapere.
La solitudine del maestro non è allora solo una figura retorica, ma dice qualcosa della postura essenziale di ogni insegnamento. Se “insegnare” significa letteralmente lasciare una impronta, una traccia, un segno nell’allievo, è perché esso esclude che la trasmissione possa ridursi a una clonazione, ovvero alla riproduzione passiva e conformista della parola del maestro. Al contrario un buon effetto di insegnamento consiste nel produrre una soggettivazione del sapere a partire dall’impronta che esso lascia nell’allievo. Questa impronta non è e non deve essere un calco, sebbene ogni insegnamento porti con sé questo rischio. Per questo i maestri trovano insopportabili gli allievi che fanno il loro verso.
Jacques Lacan in Il mio insegnamento e Io parlo ai muri (Astrolabio, Roma), due brevi cicli di conferenze tenute a ridosso dell’uscita, alla fine del 1966, dei celebri Ecrits, non si limita a tracciare una sintesi effervescente e intensa del suo percorso teorico, ma propone alcune notevoli riflessioni su cosa significa insegnare. Tanto più interessanti in quanto la disciplina in gioco, quella della psicoanalisi, appare per certi versi resistere a ogni forma di trasmissione essendo una pratica che esclude per principio la generalizzazione, la comparazione, la traduzione della sua esperienza singolarissima in concetti validi universalmente. Per sapere bisogna desiderare il sapere. Per questo Lacan resta volutamente tortuoso nella sua parola. Esige che chi l’ascolta non resti passivo: «Mi sforzo che non abbiate un accesso troppo facile al sapere, così che voi dobbiate metterne del vostro».
Ma questa tortuosità non è solo un tatticismo didattico. Qualcosa sfugge sempre, qualcosa non può essere preso nella parola. Non è questa la scommessa di ogni insegnamento degno di questo nome? I muri, afferma Lacan, «sono fatti per circondare un vuoto». Insegnare non è provare a circoscrivere questo vuoto, a dire l’ineffabile, a tradurre in matemi trasmissibili universalmente il patema singolare della nostra vita? Con la consapevolezza però che non si può mai dire tutto. Se il sapere umano è attraversato da una faglia non è perché è impossibile acquisire tutto il sapere, ma perché un limite lo attraversa strutturalmente: il sapere non può mai venire a capo del senso della vita, il sapere non può sapere tutto. L’eccedenza della vita lo esorbita scavando al suo interno una mancanza.
Ecco allora da dove sorge un vero insegnamento. Quando il maestro sa alludere, evocare, portare alla presenza continuamente questo limite - questa mancanza e questa eccedenza - senza mai pretendere di ridurlo a un oggetto che possiamo padroneggiare. Il muro che ci separa dalla verità, afferma Lacan, «è dappertutto», cioè concerne il linguaggio. Tra l’uomo e il mondo c’è sempre un muro così come tra un uomo e una donna e tra la verità (che sfugge sempre) e il sapere. Eppure questo muro - il muro del linguaggio - non è solo una barriera che separa, ma è anche il terreno da cui sorge il dono della parola che rende possibile la poesia e l’amore, l’umanizzazione della vita e l’incontro. Per questo, conclude Lacan, la parola «che si indirizza ai muri ha la proprietà di ripercuotersi». Più che sulla trasmissione efficace di informazioni (come crede l’odierna pedagogia delle competenze) un insegnamento dovrebbe preservare quello che non si può trasmettere. O, se si preferisce, può trasmettere un sapere vero proprio perché sa custodire l’impossibile da sapere.
La tortuosità che veniva spesso rimproverata a Lacan non era un artificio retorico finalizzato alla seduzione intellettuale dei propri allievi. In più occasioni egli insiste nel dire che questa tortuosità calcolata era il solo modo per provare a essere in sintonia con l’oggetto di cui la psicoanalisi si occupa, e cioè l’inconscio. Lacan non lo fotografa a distanza, ma lo rende presente, lo mette in atto, persino lo teatralizza. Nel suo discorso l’inconscio parla, si rivela nelle contorsioni del senso, nelle forme oblique che assume la sua parola, ma anche nelle sue eclissi e nei suoi silenzi. In ogni maestro, sempre, qualcosa parla ( « ça parle »), qualcosa che trascende la parola viene alla parola. Per questo ci ricordiamo così bene le voci dei maestri che abbiamo avuto. Quella roca e calda, quella forte e metallica, quella lucida e chirurgica, quella appesa ad un filo. Perché nella voce appare l’eros, il corpo, la carne della parola. È la voce del maestro a rendere vivo il sapere, a rianimarlo permanentemente. Gli esempi dei grandi commentatori orali quali sono stati, Heidegger, Kojève e Deleuze, ma anche quello di Roberto Benigni lettore straordinario di Dante e con lui tutti gli insegnanti che abbiamo amato, mostrano come l’effetto dell’insegnamento consiste nel restituire vita a saperi che potevano sembrare morti mettendone in rilievo l’inesauribilità.
In questa operazione la voce non è mai inessenziale, non è solo un ponte per la parola o per il pensiero già costituiti nella mente del maestro. La voce a volte anticipa la parola e il pensiero. Ogni insegnante sa che deve usare la sua voce per non fare addormentare i suoi uditori. È il punto minimo da cui scaturisce ogni insegnamento: tenere sveglio chi ascolta.

Repubblica 2.6.14
La scomparsa della solitudine
Siamo sempre connessi, anche quando siamo soli
a separazione dal mondo, seppure per pochi istanti, fa paura come una malattia
E nei bar di Tokyo la “cura” è un pupazzo da compagnia
di Gabriele Romagnoli


UN RAGAZZO cammina solo in una città straniera, si ferma, estrae dalla tasca uno smartphone, solleva il braccio, sorride allo schermo, scatta. Poi controlla l'esito, clicca su un altro paio di comandi prima di riporre l'oggetto e ripartire. Si è appena fatto un selfie, fin dall'etimologia (self = se stesso) qualcosa di solitario, ma l'ha condiviso con un numero imprecisato di persone postando l'immagine su Facebook, Instagram o qualche altro social network. Il navigatore solitario Manfred Marktel va in barca dalla Namibia a Bahia. Durante il percorso (4.000 miglia) tiene un blog, fa sapere tutto quel che gli accade, riceve commenti e risponde.
Una giovane di nome Robyn Davidson, in crisi interiore, lancia una sfida a se stessa e decide di attraversare il deserto australiano a piedi. Anni prima, in analoghe condizioni psicologiche, un giovane americano di nome Cristopher Mc Candless si era allontanato da tutto e tutti sperdendosi in Alaska.
Entrambe le vicende hanno originato film: “Tracks” e “Into the wild”. Come si vede nei finali: lui muore, lei sopravvive. Perché non si è mai isolata del tutto. Ha portato con sé il cane, a tappe, seppur distanziate, si è fatta raggiungere da un fotografo con cui ha amoreggiato. Ha già concepito l’idea di un articolo, una mostra fotografica, una pellicola. Mc Candless viene trovato morto in un pulmino al cui esterno ha appeso un foglio con su scritto: “Sono da solo e questo non è uno scherzo. Per favore, in nome di dio, fermatevi e salvatemi”. Lo hanno ucciso probabilmente le patate avvelenate che mangiava. Complice, la solitudine. Per questo, per spirito di sopravvivenza, non sappiamo più davvero affrontarla?
Per questo, come Robyn nel deserto, il ragazzo del selfie e il navigatore nell'oceano, non stiamo mai veramente soli? Abbiamo sconfitto quello che consideriamo un mostro o l’abbiamo semplicemente ricreato in altre forme? Che ne avessimo paura lo sappiamo fin dal saggio “On loneliness” della psicanalista Frieda Fromm-Reichmann. Troppa, sostiene lei.
In un articolo del 2013 dal titolo “The science of loneliness” la rivista americana New Republic spiega con supporti statistici e verifiche di laboratorio che la solitudine può uccidere. Almeno quanto il fumo. E causare l'Alzheimer, l'obesità, una più rapida diffusione delle metastasi in caso di cancro. Un esperimento compiuto dalla psicologa Naomi Eisenberger dimostra che l’esclusione da un contesto sociale provoca una reazione scatenata dagli stessi centri che trasmettono il dolore fisico. Molto semplicemente (come dimostra il caso di “Into the wild”) è più probabile ammalarsi se non c’è nessuno accanto che si prenda cura di te. La sintesi poetica di Auden è: “Dobbiamo amarci o morire”.
Non sempre si può scegliere. A essere soli sono infatti prevalentemente i vecchi, i poveri (benché Albert Camus lo considerasse “lusso dei ricchi”), i diversi. Tre categorie a cui è difficile rifiutare l'iscrizione. E anche se lo psicologo John Cacioppo, alla maniera di Catalano, avverte “Stare con gli altri non evita la solitudine”, si sono individuate forme di cura alla portata di tutti. Si va dagli animali (vedi “Tracks”) a dio.
L'eremita metropolitano di Padova, padre Domenico Maria, la segnala al terzo di abitanti single del capoluogo veneto come «un’opportunità per avvicinarsi alla fede». Di fatto, ognuno, come in ogni altra situazione, fa quel che può, assecondando la massima di Victor Hugo: “La solitudine crea persone d’ingegno. O idioti».
È stato Vasco Rossi a proporre l'introduzione a scuola dell’ora di solitudine, per imparare a stare con se stessi. Molti anni prima il suo collega Tito Schipa jr. aveva inciso una canzone dal titolo “Non siate soli”, che si chiude così: «Lo so che io a solitudine ho spostato mari e monti/acceso fuochi, osato libri grandi e versi e canti/Per finire a far da anello rotto in fondo a una catena/Ma voi non siate soli”.
È un invito tanto accorato quanto seguito. Nessuno più sa star solo sul cuor della terra a farsi trafiggere da un raggio di sole.
I vagoni delle metropolitane sono pieni di palombari che chattano, in Giappone se ti siedi in un caffè e non c'è nessuno con te ti piazzano di fronte un pupazzo.
Ma sono davvero metodi per cancellare la solitudine o piuttosto per reinventarla? E, se fosse vera la seconda cosa, per renderla addirittura più forte? Chi è più realmente solo di colui che si trova immerso in una folla di amici virtuali? Ogni svolta in quel senso è una rinuncia a possibilità concrete. Il ragazzo che si scatta il selfie evita di chiedere, come si usava, a un estraneo di fargli la fotografia. Una volta su dieci, cento, mille, da quel contatto scaturiva qualcosa di più: una chiacchierata, una serata, una relazione. L’avventore che siede di fronte al pupazzo evita il contatto visivo con gli occhi di chi è ugualmente solo e magari potrebbe avvicinarsi.
Le metropolitane erano pagine di piccoli annunci: AAA donna trentenne bionda sportiva non fumatrice cerca uomo max cinquantenne, libero, in completo scuro, che scende a Cordusio. Ora sono libri chiusi, occhi fissi, ripiegamenti. Siamo così circondati da opportunità che non cogliamo. Rifiutiamo la solitudine, ma allarghiamo il vuoto che abbiamo dentro.
Perfino i “mostri” della cronaca nera non sono più soli. Era un classico, dopo l’arresto, l’intervista al vicino che dichiarava: “Tipo sospetto, non frequentava mai nessuno”. L'ultimo “mostro”, quello che crocefiggeva prostitute vicino a Firenze, teneva famiglia: viveva con mamma e papà e aveva sposato una immigrata dell'Est. Si suppone, per non stare da solo, farsi curare, tenere a bada i propri demoni. Missione non esattamente compiuta.
Bisognerà prima o poi arrendersi all'idea che la solitudine è un tratto, come il ciuffo ribelle o la sventatezza. Sta nel Dna quanto nell’esperienza.
Se si è conficcata nell’anima può accompagnarsi dolcemente ad altre solitudini quanto alla propria, ma non al can can, virtuale o autentico. Si torna sempre al noto aforisma di Friedrich Nietzsche: “Nella solitudine il solitario divora se stesso. Nella moltitudine lo divorano i molti. Ora scegli”. Sembra una condanna. L'unica salvezza è accettare la pena, in tutti i possibili sensi, vivere la galera come liberazione. Fare propria la strofa di Gianni Morandi: “Io ti trovo bella, non mi fai paura/Signora solitudine”.

Repubblica 2.6.14
Quel sogno impossibile dell’ultima isola deserta
di Guia Soncini



L'ULTIMA solitudine rimasta è quella dei non possessori di lavastoviglie. Che, lavando i piatti, non possono scrivere messaggi, controllare che si dice su Twitter, pubblicare su Facebook pezzi di vita da condividere. Col lavandino pieno di schiuma, siamo soli con noi stessi.
Quell’esperienza traumatica ma necessaria in nome della quale il comico americano Louis CK si rifiuta di comprare un cellulare alle figlie: dice che smanettare su quella tastiera è un modo per non rendersi conto neanche per un istante che dentro di noi c’è un vuoto che niente riempirà mai, un’infelicità esistenziale. Sì, forse la sta mettendo giù dura: è solo un cellulare. E sì, anche coi guanti di gomma e la paglietta potremmo parlare in viva voce con qualcuno. Ma ormai telefonare è un utilizzo del tutto marginale del telefono: prevede un’attenzione eccessiva, è un’attività invadente. Essere perennemente collegati, invece, ci lascia l’illusione di essere soli. Ma allo stesso tempo ci rassicura: non lo siamo.
La scrittrice Ruth Thomas ha pubblicato su New Republic un saggio intitolato “La scomparsa della solitudine” in cui ricostruiva le due settimane passate da sola, in campagna, in un casale in cui non riusciva a configurare la connessione a Internet. Le cinque fasi dell'elaborazione del lutto sono andate da “Dio, quanto mi sento sola” a “Ti dirò, non mi dispiace”. Perché, se non sei connessa e niente di ciò che immagini può avere un riscontro immediato, un like, uno scambio, allora avrai lo spazio mentale per far diventare quel pensiero passeggero un’idea decente. Se “Una stanza tutta per sé” venisse scritto oggi, avrebbe come sottotitolo “E che non sia cablata”.
Lo sceneggiatore della serie tv The Newsroom, Aaron Sorkin, racconta che quando sta scrivendo fa molte docce e molti giri a vuoto in autostrada con la musica alta. Dice che gli danno una sferzata di energia, ma non è mica quello: è che sono le uniche attività durante le quali non puoi connetterti o prendere appunti. È il momento in cui le idee circolano. O meglio, lo era: qualcuno ha inventato i post-it impermeabili da attaccare alle piastrelle della doccia. Erano gli ultimi attimi sconnessi dal mondo, in cui sapevamo che non ci potevamo appuntare niente, che non potevamo cercare su Google qualcosa che non ricordavamo, che il mondo non si aspettava pensierini brillanti da noi; era l'ultima isola deserta, e il progresso ce l'ha sottratta. (Come alla doccia stanno i post-it plastificati, ai giri in macchina stanno gli sms alla guida: Louis CK sostiene che preferiamo rischiare di sfracellarci che sentirci soli).
Jonathan Franzen, la cui specialità dell’ultimo decennio sono le tirate contro la modernità, dice che nessuno che scriva in un posto connesso a Internet produrrà mai grande letteratura. Ha ragione (è senz’altro colpa del wifi se io non ho scritto “Le correzioni”), e mi aspetto un’altrettanto vigorosa invettiva contro i post-it da doccia.
Ma produrre grande letteratura è un’ambizione per pochi (troppi rispetto a quelli che lo faranno davvero, ma comunque una minoranza). L'ambizione di noialtri mortali, invece, è trovare una presa a metà pomeriggio. Quando il telefono immancabilmente si scarica, e rischiamo di restare soli con noi stessi.
Accogliamo dritte su dove si trovino le prese in stazioni e aeroporti con il sollievo con cui, nel secolo scorso, ci appuntavamo nome e numero del cardiochirurgo che avrebbe potuto salvare nostra madre. Percepiamo le immaginarie vibrazioni di un telefono ormai spento, in tasca, con lo struggimento con cui gli amputati sentono l’arto mancante. Non è il cibo né la riscoperta del territorio: il segreto del successo di Eataly è che alla cassa tengono, da prestare ai clienti, dei caricabatterie per il telefono. Se nel frattempo mi resusciti il cellulare, sono disposta a comprare tutto il farro prodotto nella mia regione.
«Io lo so che non sono solo anche quando sono solo », cantava Jovanotti. Pensavamo fosse misticismo, ma era solo che anche lì, in quel videoclip in Amazzonia, aveva due tacche di ricarica.

La Stampa 2.6.14
Se in carcere la prigionia è anche nella mente
Alle Vallette nel reparto per malati psichiatrici colpevoli di reato
di Caterina Clerici


Sotto stretta osservazione I detenuti con problemi psichiatrici devono essere monitorati giorno e notte attraverso telecamere e monitor a circuito chiuso: «Basta un secondo di disattenzione perché succeda qualcosa»

È un pomeriggio come tanti altri, forse solo un po’ più tranquillo, nel reparto d’osservazione psichiatrica «Il Sestante», nel carcere di Torino. Alcuni detenuti gironzolano, fumano, rientrano indolenti in cella, altri invece sono riuniti in biblioteca, una saletta stretta e luminosa con uno scaffale pieno di libri. Non si sentono urla, nemmeno dalla sezione di 23 celle singole con bagno a vista dove stanno i detenuti con un disagio psichico più acuto, ancora in fase di scompenso.
Osservati speciali
«Loro li dobbiamo monitorare 24 ore su 24. Basta un secondo perché succeda qualcosa», spiega l’assistente responsabile Alessandro Colangelo da una stanzetta tappezzata di schermi su cui appaiono in bianco e nero i detenuti ripresi dalle telecamere. «Qui arrivano persone che hanno ogni tipo di disturbo psichico. Con ognuno di loro bisogna lavorare in modo diverso».
Colangelo è uno dei diciotto agenti di polizia penitenziaria specializzati del Sestante. Ne ha - letteralmente - aperto le porte nel 2002, quando dalla collaborazione tra la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno e il dipartimento di Salute Mentale Maccacaro dell’Asl To2 è nato il progetto per trasformare la preesistente «sezione degli agitati» nell’attuale reparto psichiatrico a due sezioni, una d’osservazione e una di trattamento.
Personale specializzato
«Doveva servire a favorire la specializzazione dell’attività psichiatrica in carcere, diventata sempre più necessaria negli ultimi vent’anni con l’aumentare di problemi sociali che lo hanno trasformato in un contenitore per tanti tipi di patologie», spiega il dottor Elvezio Pirfo, direttore del Dipartimento Salute Mentale dell’Asl To2 e ideatore del progetto insieme all’allora direttore del carcere Pietro Buffa. «Se il numero degli internati nei sei ospedali psichiatrici giudiziari al momento oscilla tra gli 800 e i 900, quello dei detenuti con disturbi psichici è almeno 10 volte superiore», puntualizza.
Mentre gli internati arrivano in Opg dopo un percorso, i detenuti entrano in carcere da un giorno all’altro. Ma possono essere comunque pazienti psichiatrici. E molti di loro passano da qui. «Non abbiamo solo i nostri pazienti, ma anche quelli degli altri istituti di pena», aggiunge l’educatrice Simona Botto. Con un’équipe di quindici fra psichiatri, psicologi, infermieri ed educatori presenti dal lunedì al sabato, e con dieci delle 23 celle singole – il più alto numero in Italia – destinate a detenuti inviati dal ministero per un accertamento della condizione psichica, il reparto è unico nel suo genere. Oltre ai detenuti interni in fase di scompenso arrivano in osservazione anche quelli con un’assegnazione temporanea da altri istituti, in media 150 l’anno.
Da altri istituti di pena
La permanenza di chi arriva da altri istituti ha un limite di 30 giorni, poi possono passare in sezione di trattamento con sedici celle doppie per la terapia e la riabilitazione, o tornare al carcere di provenienza o essere mandati in Opg, qualora la loro infermità psichica sia decretata incompatibile con il regime carcerario. I detenuti in assegnazione temporanea al carcere di Torino invece arrivano in sezione comune e possono anche aspettare lì il «miglioramento del quadro clinico», la loro unica scadenza.
I «nuovi giunti»
«La sofferenza psichica dei nuovi giunti talvolta è dovuta solo a una difficoltà di adattamento in altre carceri. Non tutti hanno bisogno di diagnosi e cure specifiche, ma giungono comunque alle Vallette», spiega la psichiatra Carlotta Berra. E la loro presenza finisce per creare una maggiore fatica anche nelle altre sezioni: «I detenuti spesso si lamentano dicendo che se non ci fosse il Sestante non ci sarebbero quelli che disturbano».
Con l’avvicinarsi – almeno in termini legislativi – del loro superamento, previsto per l’aprile 2015, è grande il timore che reparti come il Sestante finiscano a rimpiazzare gli Opg nella funzione di contenitori per qualsiasi situazione a cavallo fra l’ambito psichiatrico e quello detentivo. «Si è già presa l’abitudine di assegnare a noi persone la cui capacità di intendere e volere è ancora in fase di giudizio», osserva la psichiatra. E la zona grigia non può che estendersi: «Con un minor numero di posti nelle “Residenze per esecuzione di misure di sicurezza”, il flusso d’uscita dal carcere per i detenuti sarà rallentato e il Sestante rischia di essere visto come un’alternativa».
«Se un paziente è ritenuto colpevole di reato deve avere la possibilità di scontare la pena con la stessa dignità di una persona normale, e se sta male all’interno del carcere deve poter essere curato in un reparto come il Sestante», dice Sara Cassin, presidente della Federazione delle strutture comunitarie psico-socio-terapeutiche: «Chi invece è dichiarato non imputabile non deve essere detenuto, ma contenuto in una struttura di tipo sanitario».

La Stampa Medicitalia 30.5.14
Bere il sangue umano o “mangiare l’altro” di baci? Il vampirismo
Dr.ssa Valeria Randone

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