mercoledì 4 giugno 2014

l’Unità 4.6.14
Comunicato del Ddr
Ai lettori

Per i giornalisti dell'Unità l'appuntamento fissato per domani, giovedì 5 giugno, è decisivo per le sorti del giornale. Per questo lo sciopero delle firme continua. L'assemblea dei soci è chiamata a decidere sulla ricapitalizzazione o su una liquidazione della società. Da indiscrezioni della vigilia sembra che le parti siano ancora molto lontane.
Se l'assemblea si chiudesse con un nulla di fatto la situazione potrebbe precipitare verso soluzioni molto più rischiose per la tenuta del giornale. Tanto più che la redazione sta accumulando crediti pesanti nei confronti dell'azienda: siamo ancora in attesa dello stipendio e di altre spettanze risalenti fino al 2013. Se la situazione rimanesse invariata, sarebbe impossibile sospendere le due giornate di sciopero già votate dall'assemblea per il 6 e il 7 giugno. Avvertiamo gli attuali azionisti che il tempo delle decisioni è arrivato: qualsiasi rinvio non va fatto pagare ai lavoratori, che hanno diritto ai loro compensi e a conoscere le prospettive future del loro lavoro.
Il Cdr

l’Unità 4.6.14
E Roma tornò libera con l’elefante
4 giugno 1944
70 anni fa le truppe americane del generale Mark Wayne Clark entrarono in città tra gli applausi della gente in festa
Nazisti in fuga. Il comandante tedesco Kesselring ripiegò le forze sulla linea gotica abbandonando la città stremata


Pochi lo sanno, ma tra le immagini storiche della Liberazione di Roma del 4 giugno 1944, ve ne sono moltissime legate a un celebre film del dopoguerra: Vacanze Romane, di Wilder. Quello con Audrey Hepburn e Gregory Peck sulla Vespa in giro per la città. Wilder girò, per conto dell’esercito americano metri e metri di pellicola, in parte usate per i cinegiornali Usa, e in parte come taccuino per un film su Roma. Perché il dettaglio? Ci è capitato di vederle di recente, e sono a colori. Irreali rispetto a quelle festose e mitologiche, ma pur sempre drammatiche in bianco e nero, che abbiamo immagazzinato in memoria con le note di Glenn Miller. Lo strano di quelle sequenze estive e colorate è che sono normali e quotidiane. Tranquille. Senza enfasi. Certo gioiose, ma per così dire «turistiche».
Era quello che la propaganda Usa voleva fare vedere in Usa, dopo le ingenti perdite di Anzio, Nettuno, Salerno e soprattutto Cassino. Vedete, sembrava dire il raffinato regista: tutto bello e «easy», come in gita e la gente ci ama. Senza deliri o tragedie alle spalle. E infatti la gente appare ben vestita e posa volentieri in carrozzella o attorno ai carrarmati, a Piazza Venezia, Via del Babuino, Via del Corso, Piazza di Spagna, con l’immancabile «glamour» di Trinità dei Monti?
Vere o false quelle immagini della Liberazione e di quel giorno, nonché dei giorni successivi? Risposta: tutte e due le cose. Sì, perché il dramma di Roma città aperta, prima di quel 4 giugno ha due facce. C’è una città rastrellata e impoverita. Razziata, torturata nascosta e combattente. E una città più normale e indifferente. Più «zona grigia» per dirla con una famosa ed equivoca espressione dello storico Renzo De Felice (equivoca perché «grigio » non significava stare a metà tra le parti, ma tifare in silenzio per la Liberazione). Infatti si andava a cinema e a ballare, al Pincio e ai caffè. E la sera prima dell’arrivo degli americani al Teatro dell’Opera - dalla parte del Tevere in mano ai tedeschi - si alzava il sipario sul Ballo in Maschera. Con Beniamino Gigli a cantare Addio diletta America, per ironia della sorte poche ore prime dell’ingresso americano. Insomma c’era una Roma che si faceva i fatti suoi, sperando di passare indenne tra gli eventi. E una Roma corrusca e più simile al linguaggio filmico a venire di Rossellini e Lizzani: Roma città aperta e Il Gobbo del Quarticciolo.
In questa seconda e più vera Roma ci sono tante cose prima dello sbarco su gomma trionfale.
Le bande armate ai Castelli, sulla Tuscolana e la Casilina. I gap, i sabotaggi e gli attentati come quello clamoroso all’Adriano. E quello ancor più famoso e tragico di Via Rasella. Che in realtà, tecnicamente non fu un mero attentato fatto al riparo. Bensì un’azione militare vera e propria: bomba e poi sedici partigiani a sparare sul nemico, con armi leggere e lancio di ordigni da mortaio Brixia, con miccia e senza percussore. Ci voleva fegato, altro che sicari nascosti che non si consegnarono al bando per liberare i 335 ostaggi (menzogna ancora oggi ripetuta a destra dintorni: la sentenza fu eseguita prima di venire annunciata). E ci voleva un’organizzazione radicata e preparata per agire in quel modo. Oltretutto non contro pacifici boscaioli altoatesini, ma contro agguerriti e feroci «SS Bozen». Appartenenti a un reggimento che si sarebbe macchiato di stragi in Istria e nel Bellunese, ed addestrati a- fucilare e rastrellare. Poi c’erano i trotzskisti di Bandiera Rossa, forti a San Lorenzo e in frange del proletariato romano, temuti dal Pci e dal Cln. Che però ebbero sempre in mano il controllo politico e militare delle operazioni che vi furono. Del resto erano proprio gli angloamericani, bloccati sul fronte di Nettuno, a chiedere azioni militari in città. Benché poi la parte monarchica del Cln - pensiamo all’eroico Cordero di Montezemolo - fosse chiamata al contempo a temporeggiare coi tedeschi a Roma, agendo come supporto logistico alla Resistenza al nord. Pr favorirne l’evacuazione senza spargimento di sangue. Come attesta l’incontro in Vaticano del 10 maggio di Karl Wolff, comandante SS con Pio XII, affinché non ci fosse la difesa ad oltranza di Roma da parte tedesca. E quell’incontro era un ponte diplomatico tra tedeschi e Allen Dulles, responsabile del governo Usa in Europa. Un ponte gettato, forse all’insaputa di Hitler, da Himmler.
In questa tenaglia, dopo il fallimento della difesa di Roma a Porta San Paolo, la Resistenza romana fa quel che può. Aggredendo i tedeschi, anche con azioni spettacolari, e salvando e nascondendo ebrei e perseguitati. C’è la liberazione rocambolesca a Regina Coeli di Saragat con Pertini e Vassalli, la liberazione di ebrei dai vagoni piombati al Tiburtino, gli scontri armati in periferia e al centro. E poi le catture e le torture a Via Tasso e alla Pensione Jaccarino, o a Palazzo Barschi. Con le bande di torturatori fascisti: Pollastrini, Bardi, Franquinet, Koch. E l’uccisione prima di Eugenio Colorni e poi di Bruno Buozzi a Forte Bravetta. Preceduta dal sacrificio, tra i 335 delle Ardeatine, di Pilo Albertelli. Quindi popolo e intellettuali, militanti e fiancheggiatori: persino doppiogiochisti del Cln infiltrati tra finanzieri, impiegati e carabinieri. Altrimenti come avrebbero potuto nascondersi e sopravviverre le centinaia di migliaia di «clandestini » e sfollati, ospitati in conventi, soffitte e cantine? Erano più di 500 mila dopo il 1943, con documenti e identità false. Tornarono a veder le stelle anzi il sole il 4 giugno. Dopo avere sentito dalla radio alleata una strana parola. Non era «pronto america me senti» di Sordi, ma «Elefante». Come quelli di Annibale, ma non più cavalcati da nemici di Roma.

La Stampa 4.6.14
L’anniversario della Liberazione
Gli americani entrano a Roma “Il medioevo nazista è finito”
di Umberto Gentiloni


Il 4 giugno di settant’anni fa la diffidenza della popolazione si trasformò in gioia
Il 4 giugno 1944 è una domenica, 271mo giorno dell’occupazione nazista di Roma iniziata la sera di mercoledì 8 settembre 1943 a seguito dell’armistizio.
All’alba di Settant’anni fa le prime pattuglie statunitensi entrano in città. L’accesso è rischioso: imprevisti, rallentamenti e presenza di truppe tedesche nei punti di scorrimento verso il cuore della capitale. La Wehrmacht ripiega verso nord, i primi soldati alleati entrano con circospezione, spingendosi fin dentro le antiche mura. Non c’è quasi traccia degli occupanti, le vie sono sgombre, alcuni cecchini rimangono nascosti nelle proprie postazioni. Si spara fino a tarda sera; alle 21 in piazza di Spagna un conflitto a fuoco coinvolge gruppi di nazisti, fascisti e alleati. L’ultima strage avviene alla Storta dove vengono fucilati quattordici prigionieri prelevati dalla prigione nazista di via Tasso. L’esito dei combattimenti è scontato. Roma è libera. “Elefante!” la parola in codice diffusa da Radio Londra. Il 5 giugno viene colpito Ugo Forno, un bambino di dodici anni che aveva deciso di proteggere un ponte di ferro sul fiume Aniene. 
La liberazione di Roma diventa un obiettivo strategico per il buon esito della campagna d’Italia: impegnare divisioni tedesche sul fronte meridionale e lanciare un messaggio d’incoraggiamento al movimento partigiano e ai diversi teatri di guerra. Nei piani degli alti comandi la presa della capitale avrebbe dovuto seguire di qualche settimana lo sbarco di Anzio del 22 gennaio 1944, Operazione Shingle. Ma il cammino viene presto interrotto dalle capacità di difesa dei tedeschi e dagli errori di una condotta che rallentò invece di accelerare la direzione di marcia. La dialettica difficile tra Washington e Londra condiziona pesantemente la strategia militare e l’indirizzo politico delle operazioni sul territorio della penisola italiana. Per uscire dallo stallo, ai primi di maggio, prende avvio una nuova offensiva, l’Operazione Diadem articolata su due direttrici: lo sfondamento della Linea Gustav nei pressi di Monte Cassino, assegnato all’VIII Armata britannica, concluso il 18 maggio; la marcia verso Roma della V Armata americana, di stanza nel litorale sud. Se il progetto originario prevede il ricongiungimento dell’VIII e della V armata prima dell’ingresso in città, il generale Clark decide di non attendere l’arrivo degli inglesi: da Cisterna e Valmontone, gli americani puntano direttamente sulla capitale, attraverso la via Appia e la via Casilina. 
Sullo sfondo della seconda guerra mondiale Roma appare inizialmente incredula e dubbiosa. Dalle memorie che ci sono arrivate prevale un senso di diffidenza; il timore di una nuova cocente delusione, dopo le speranze tradite del 25 luglio e dell’8 settembre 1943. Si cercano conferme, si guarda verso sud per vedere arrivare mezzi e truppe di chi poteva cacciare l’occupante. Quando ci si rende conto di ciò che sta avvenendo la città sembra impazzire di gioia, stringendosi festante attorno ai nuovi arrivati e circondando monumenti e simboli antichi con una nuova speranza. Dormono in pochi, anche i soldati sono increduli per i segni di un’accoglienza diffusa che per le prime settimane avvolge in un clima idilliaco popolazioni e eserciti. Per gli uomini della Resistenza, per chi era passato all’azione, l’incontro con gli alleati si carica di speranze e sogni. «Sul piazzale Tiburtino (erano le 19 circa) incontrammo la prima camionetta americana». Sono le parole di Rosario Bentivegna, Sasà, giovane partigiano del movimento antifascista: «La gente le si avvicinava insospettita, non sapeva distinguere bene dalla foggia dell’elmetto ricoperto dalle reticelle mimetiche e dalle divise rese uniformi dalla guerra se si trattasse ancora del nemico o se fossero i nuovi amici. Anche quei soldati erano stanchi, ma con una gran voglia di riposarsi dalle loro fatiche in mezzo a quella folla che ancora diffidava, che temeva di sbagliare, ma che si sentiva dentro il bisogno di salutare la libertà. [...] Poi vennero fuori le sigarette - le Camel – e non ci furono più dubbi, e la gente corse impazzita intorno, nelle strade a urlare che erano arrivati gli americani. Forse questa volta il Medioevo nazista era finito davvero».

Corriere 4.6.14
Nove mesi di fame, torture, razzie Roma sotto il dominio della svastica
di Paolo Conti


«Senza quelle truppe oggi non saremmo liberi e sicuramente non saremmo mai nati», ricordava ieri il presidente della Comunità ebraica romana, Riccardo Pacifici, celebrando la riapertura del Tempio ebraico maggiore il 4 giugno 1944, il giorno della Liberazione di Roma da parte degli alleati angloamericani. Un episodio straordinario. Un soldato americano di fede ebraica, Aron Colub, appena entrato nella Roma liberata, passa su una camionetta sul lungotevere. Chiede di fermarsi alla Sinagoga romana, vuole pregare. Ma scopre che è stata sigillata dai nazisti durante la feroce occupazione della capitale (gli occupanti tedeschi erano in fuga dall’alba). L’ufficiale scende, si arma molto semplicemente di un piede di porco, rompe i sigilli, riapre il portone e restituisce il Tempio agli ebrei romani scampati alla razzia e alla deportazione nazista nei campi di concentramento.
Oggi alla Camera dei deputati, nelle sale della Biblioteca a palazzo San Macuto in via del Seminario 76, il presidente Giorgio Napolitano inaugura alle 17 la bella mostra «1943-1944. Roma dall’occupazione alla liberazione», che rimarrà aperta fino al 4 luglio (tutti i giorni dalle 10 alle 18.30, sabato 10-12.30, domenica chiuso). Un’ampia rassegna documentaria che conta, oltre ai contributi della stessa Biblioteca, numerosi apporti: Roma Capitale, Agenzia Ansa, Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, Comunità ebraica romana, Fondazione museo della Shoah, Istituto Cinecittà Luce, Museo storico della Liberazione, Rai Storia. Ma ci saranno anche documenti e testimonianze affidate dalle famiglie Amendola, De Mata, Ghisalberti, Nenni, Osti Guerrazzi e Siglienti.
Il filo conduttore della mostra, organizzata sui due piani principali della Biblioteca, è il punto di vista della gente comune di Roma. Cioè le sofferenze quotidiane dei romani raccontate dalla caduta del fascismo il 25 luglio 1943 fino alla mattina del 4 giugno 1944, quando le truppe alleate entrarono in città guidate dal generale americano Mark Wayne Clark. Un vasto capitolo riguarderà ovviamente l’occupazione tedesca dopo l’8 settembre 1943 e la Resistenza: e quindi i sabotaggi, le azioni «diffuse» nella città, i luoghi della repressione nazista, la prigione di via Tasso, le Fosse Ardeatine. Un altro racconterà la tragedia degli ebrei romani: la deportazione, il 16 ottobre 1943, i rastrellamenti successivi in tutti i quartieri di Roma (ora testimoniati dalle «pietre d’inciampo» collocate dall’artista tedesco Gunter Demnig).
La Comunità ebraica ha prestato numerosi documenti di proprietà del Museo ebraico di Roma, in particolare quelli che ricostruiscono la consegna dei cinquanta chili d’oro agli occupanti nazisti. Poi ci sarà la ricostruzione dello sbarco alleato ad Anzio, la cronistoria della rinascita della vita politica democratica. Infine l’arrivo degli Alleati, la fuga dei nazifascisti, i primi processi, le epurazioni, il ripristino delle libertà civili e del multipartitismo.
Colpirà sicuramente i più giovani quella paginata dedicata dal rotocalco in bianco e nero «La settimana» alla disperazione dei romani, poco dopo la Liberazione. Titolo in prima pagina: «La fame assedia Roma» , con un grafico molto esplicito e di grande effetto. Dentro, un reportage che testimonia l’epidemia di tubercolosi a Tormarancio, la mancanza di acqua, luce e gas, le altre malattie legate alla scarsa e cattiva alimentazione. Una donna di appena trent’anni, ma con l’aspetto di un’anziana cadente, si fa fotografare e grida: «Adesso, questi scatti appendeteli a palazzo Venezia!» Ovvero sotto al famoso balcone che era stato, per vent’anni, il pulpito usato da Benito Mussolini per i suoi discorsi da Duce del fascismo. Ci sarà anche una sezione di audiovisivi: dall’Archivio Luce arrivano documentari storici e famosi come Giorni di gloria di Luchino Visconti e Marcello Pagliero del 1944-45 (le terribili riprese della dissepoltura dei martiri delle Fosse Ardeatine, del processo alla Banda Koch), Roma città indifesa di Iacopo Rizza del 1963 e Roma occupata di Ansano Giannarelli del 1984. Domenica 8 giugno, durante un’apertura straordinaria della mostra dalle 16 alle 21, è prevista anche la proiezione di Roma città aperta di Roberto Rossellini e del documentario 4 giugno 1944 .

l’Unità 4.6.14
Disoccupati record, è sempre peggio
Istat: 13,6 per cento senza lavoro, 46 per cento tra i giovani


La disoccupazione in Italia resta sul livelli drammatici, addirittura da allarme sociale facendo riferimento alla popolazione giovanile, ormai per metà nella vana ricerca di un’occupazione. Numeri che fanno dire al presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che «stiamo strisciando sul fondo». E se il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, afferma che la crisi è «alle spalle ma per rilanciare l'occupazione occorre una ripresa molto forte», il suo collega dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ricorda invece che nel nostro Paese «la crescita è molto debole».
Tasso dei senza lavoro che resta ancorato ai valori massimi, +13,6%, mentre la percentuale di disoccupazione giovanile (15-24 anni) nel primo trimestre dell’anno segna un per nulla invidiabile record salendo al 46%(era il 41,9% nello stesso periodo del 2013). Una cosa è certa: il calendario dell’Istat è ben diverso da quello della politica. E così, se quest’ultima va in fibrillazione più per una scadenza elettorale che per la congiuntura economica, dalle parti dell’Istituto nazionale di Statistica l’anno è invece un ripetitivo percorso fatto di misurazioni più o meno rilevanti. E quella effettuata ieri è senz’altro una delle più significative, specie in tempi di crisi. Un andamento, quello della disoccupazione, che insieme al dato del Pil (tornato negativo nel primo trimestre)non evidenzia affatto la timida ripresa economica di cui si parla più o meno apertamente da qualche mese. Anzi, relativamente ai giovani siamo di fronte alla peggior rilevazione dall'inizio delle serie storiche nel 1977. Numeri ancor peggiori nel Mezzogiorno, dove addirittura il 60,9% della forza lavoro giovanile risulta essere in cerca di lavoro.
MASSIMOSTORICO L’andamento disastroso dell’occupazione giovanile trova del resto una sinistra corrispondenza nel dato più generale che riguarda l’intera popolazione in età lavorativa. Infatti, il tasso di disoccupazione nel primo trimestre del 2014 ha raggiunto, come detto, il 13,6%, in crescita di 0,8 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (dati non destagionalizzati). Ed anche in questo caso l'Istat specifica che si tratta, in base a confronti annui, di un massimo storico, ovvero del valore più alto dall' inizio delle serie trimestrali, partite nel 1977. In particolare, per gli uomini l'indicatore passa dall'11,9% all'attuale 12,9%; per le donne dal 13,9% al 14,5%.
Ed ancora, nel primo trimestre del 2014 il numero dei disoccupati risulta in ulteriore aumento su base tendenziale (+6,5%, pari a +212.000 unità) e riguarda sia coloro che hanno perso il lavoro sia le persone in cerca del primo impiego. La crescita delle persone senza lavoro è diffusa su tutto il territorio nazionale, aumentano però i divari geografici, con l'indicatore nel Nord al 9,5% (+0,3 punti percentuali), nel Centro al 12,3% (+1,0 punti) e nel Mezzogiorno al 21,7% (+1,6 punti). In quasi sei casi su dieci sono colpiti, appunto, i giovani con meno di 35 anni, mentre il 58,6% dei disoccupati cerca lavoro da un anno o più (54,8% nel I trimestre 2013).
«L'aumento della disoccupazione, al massimo dal 1977, è davvero preoccupante. È vero che in inverno tende statisticamente ad aumentare ma c'è grande preoccupazione e non è con un +0,2% della produzione che si risolvono i problemi. Stiamo strisciando sul fondo, non raccontiamoci storielle». Parole durissime, quelle pronunciate da Giorgio Squinzi nel suo intervento davanti agli Industriali della provincia di Varese. «Stiamo resistendo drammaticamente almeno dal 2007 ad oggi - ha aggiunto il presidente di Confindustria -.Da15 anni il nostro pil cresce quasi un punto percentuale in meno della media europea, non ci sono più consumi interni».
In seno all’esecutivo si è espresso Giuliano Poletti. Per il ministro del Lavoro «il dato sulla disoccupazione è figlio della crisi che abbiamo alle spalle. Sappiamo che la crisi ha ancora una coda velenosa, anche per il fatto che ci sono molti lavoratori in cassa integrazione e che lavorano per imprese che non riprenderanno la produzione. Proprio per questa ragione - ha concluso - abbiamo bisogno di una ripresa molto più forte altrimenti, in questa fase, anche con una piccola ripresa non si produrrebbe occupazione ». La leader della Cgil, Susanna Camusso, sottolinea invece che «il peggioramento del mercato del lavoro dimostra l'urgenza di creare occupazione, evitando di discutere solo su tagli e debito pubblico, altrimenti qualunque ragionamento sulla crescita resta appeso alla speranza».

il Fatto 4.6.14
Senato, Renzi spinge il modello francese
Il Pd è diviso
La minoranza Dem punta sul Ddl Chiti, tradotto in emendamenti che prevedono l’elezione diretta dei senatori
Corradino Mineo: “Se al Senato di domani saranno affidati compiti fondamentali come l’elezione del Presidente della Repubblica, è imprenscindibile una legittimazione popolare diretta”

qui

l’Unità 4.6.14
Senato «francese» c’è l’intesa. No di Fi
Nel Pd resiste la fronda favorevole al testo di Chiti

Scene da palazzo Madama: il senatore e vicepresidente della Prima commissione Affari costituzionali Roberto Calderoli si presenta sorridente alle 18 in punto con un carrello colmo di una pietanza assai indigesta, 3.806 emendamenti al testo delle riforme costituzionali. «Potrebbero anche aumentare...» comunica con un filo di sadismo. A quella vista uno dei funzionari replica: «Sono già in triplice copia, vero?». No, è solo una copia. Poco prima un’altra funzionaria parlava alla fotocopiatrice accarezzandola: «Poverina, preparati che oggi dovrai lavorare tanto...».
Allora, uno cerca anche di provare a prenderla sul ridere. Di pensare al 40,8 per cento di consensi ottenuti dal Pd di Renzi una settimana fa e che quindi l’incanto di quei numeri continua. Però il risveglio è brusco. E la strada delle riforme, che resta obbligata e anche veloce («entro fine giugno il primo voto in aula » insiste il premier), comincia fare i conti con le curve strette e i numeri di questo palazzo che si chiama Senato e che la riforma vuole ridurre a luogo non residuale ma non più decisivo nella politica italiana.
Ieri alle 18 sono scaduti i tempi per presentare gli emendamenti alla legge di riforma costituzionale, scheletro portante dell’Italia che sarà, viatico di ripresa e di sviluppo, il biglietto da visita di un nuovo sistema paese. Fino a quell’ora nei corridoi del Senato si parlava di «accordo raggiunto grazie alla mediazione sul modello francese», emendamento presentato dai senatori Marcucci e Mirabelli (di provata fede renziana) e condiviso dal governo. Si narrava di una comunione d’intenti tra la presidente della Commissione Anna Finocchiaro e il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi.
A sera, e per ieri, le cose non stavano esattamente così. L’incontro tra il ministro Boschi e Vasco Errani, rappresentante delle Regioni, sulla riforma del Titolo V, seconda parte della riforma, ha segnato un «poco di fatto» visto che i governatori vogliono «chiarezza e non retrocedere ». Così dalle retrovie è spuntato fuori quello che adesso è il vero problema: non più quale modello di Senato bensì quali saranno i veri poteri del Senato. E cioè la parte finora meno discussa: il Titolo V della Carta che nel testo del governo ridisegna i poteri delle Regioni facendo tornare centrale il governo su molte questioni, dalla sanità al turismo. La citazione di Mao «grande è la confusione sotto il cielo ma la situazione è eccellente» può tornare utile a spiegare cosa sta succedendo. Ieri mattina il presidente Finocchiaro e il ministro Boschi si sono incontrate per fare il punto della situazione. A seguire la riunione del gruppo Pd durata fino alle 14. A quell’ora Finocchiaro sembra ottimista e tenta una sintesi. Prima le buone notizie: «Vedo un sostanziale accordo sul fatto che le Regioni dovranno essere rappresentate nel nuovo Senato in maniera proporzionale alla popolazione e che 2/3 dell’assemblea dovranno essere consiglieri regionali e 1/3 sindaci». Poi quelle meno buone: «Restano, invece, ancora due opzioni principali per quello che riguarda il sistema di elezione dei senatori: una è quella che prevede che in occasione delle consultazioni regionali vi sia un listino nel quale indicare i consiglieri che faranno i senatori mentre i sindaci verrebbero comunque eletti dalle assemblee dei sindaci (opzione dei facilitatori, capofila il lettiano Russo, ndr) ; l’altra ipotesi riguarda la possibilità di adottare il sistema francese perché ad eleggere consiglieri e sindaci sarebbe un’assemblea molto ampia composta da sindaci, consiglieri comunali e consiglieri regionali e deputati di quella stessa regione (ok del governo e dei bersaniani, ndr)».
I buoni auspici di Finocchiaro e gli appelli del capogruppo Luigi Zanda («sulle riforme bisogna fare squadra») hanno però dovuto durante il giorno fare i conti con il dissenso interno e pubblico. Corradino Mineo parla di «pasticcio zeppo di contraddizioni» tra riforma del Senato e Titolo V. Vannino Chiti, Massimo Mucchetti, Felice Casson e altri 18 a cui si aggiungono exM5s e Sel insistono con una ventina di emendamenti che disegnano Camera e Senato più ridotti ma eletti ferma restando che solo la Camera dà la fiducia. «Aspetto un confronto serio su almeno quattro punti» dice Chiti «e non anatemi, ordini e pregiudiziali». Per l’ex vicepresidente del Senato, toscano di Pistoia, è dirimente ad esempio sapere «se Forza Italia è d'accordo sul cosiddetto modello francese; perché l’elezione diretta da parte dei cittadini dei senatori sarebbe uno scandalo e non una fonte di legittimità visto che non darà più la fiducia ma dovrà occuparsi di leggi elettorali, riforme costituzionali e Trattati europei; se il nuovo Titolo V deve essere un riordino razionale di competenze tra Stato centrale e Regioni oppure una brusca ricentralizzazione?». Poi arrivano altre notizie: il mezzo flop tra la Boschi ed Errani; a Fi non piace il modello francese; fino alla montagna finale di 5000 (171 di M5S, 140 del Pd, un centinaio di Fi, 25 Popolari, 13 Ncd). È sera quando Zanda scrive al gruppo. «Servono comportamenti organizzativamente coerenti per fare presto e bene le riforme».

il Fatto 4.6.14
Strettoie
Senato, 5200 emendamenti alla riforma
E Forza Italia minaccia: “Così è inaccettabile”
di Wanda Marra


Roberto Calderoli arriva in Prima Commissione spingendo il carretto degli emendamenti della Lega (3806), Paolo Romani (Fi) avverte il governo che “il sistema francese è inaccettabile” , i 20 “irriducibili” democratici (tra cui Corradino Mineo e Massimo Mucchetti) trasformano il ddl Chiti in altrettanti emendamenti.
RIFORMA del Senato, anno zero. Matteo Renzi ha preso il 40,8% ma a Palazzo Madama sembra non fare differenza. O forse, come sottolinea qualcuno “è proprio per questo risultato che molti tengono il punto: pena, l’annientamento politico totale”.
Fatto sta che ieri pomeriggio la Commissione Affari Costituzionali si è vista recapitare ben 5.200 emendamenti (oltre a quelli del Carroccio, 71 del M5s, i 140 del Pd, il centinaio di FI, i 25 dei Popolari per l’Italia, 13 di Ncd, più altri a titolo personale dei diversi senatori).
E ora? Stamattina in Commissione si comincia ad illustrarli, ma si lavora per farli ritirare. L’obiettivo sarebbe approvare la riforma entro la fine di giugno. Ma evidentemente con questo numero di modifiche da esaminare non basterebbero degli anni.
Dunque, il punto è politico. Anche questa settimana passerà nell’ “ammuina”, mentre si lavora a un accordo per la prossima settimana.
Dalle parti del governo, Maria Elena Boschi in testa, si ostenta tranquillità. Matteo Renzi, dalla sua, ha il coltello dalla parte del manico: se le riforme non si fanno, si va a votare, come ha fatto intendere ieri alla riunione dei senatori democrat il capogruppo, Luigi Zanda: “La condizione perché la legislatura vada avanti fino al 2018 è che il gruppo lavori compatto sulle riforme”.
La settimana scorsa pareva si fosse arrivati a un accordo, sul cosiddetto sistema francese, un collegio di consiglieri comunali, regionali e deputati per l’elezione dei membri del Senato delle Autonomie. Molti non esitano a definirlo “un pasticcio”. Il punto - tecnico - continua ad essere l’elettività, quella su cui formalmente il governo non molla, come ha ribadito ieri Anna Finocchiaro, dopo aver parlato con il ministro delle Riforme. "Oggi - afferma - ci sono due opzioni di modifica. Il primo è un sistema di scelta che prevede un listino dei consiglieri regionali eletti dall'assemblea dei sindaci, il secondo è quello che viene chiamato sistema francese”. Il cosiddetto listino piacerebbe di più anche ai facilitatori, come il lettiano Francesco Russo.
Gli appelli di Zanda e Finocchiaro non sembrano essere stati recepiti. E in Commissione i numeri sono strettissimi (prima delle europee è bastato il voto di Mario Mauro all’odg Calderoli per far andar sotto il governo), si sta valutando una via d’uscita: Mineo potrebbe essere sostituito dal renziano Stefano Collina. Nel frattempo Vannino Chiti va all’attacco: “Da mesi il dibattito sulle riforme costituzionali procede per anatemi, anziché con un confronto vero sui contenuti: conservatori, pasdaran, se non sabotatori”.
MA POI c’è soprattutto l’incognita Forza Italia: non è chiaro cosa ne sarà del Patto del Nazareno. Dentro il partito di Berlusconi, che ieri si è riunito a Palazzo Grazioli, c’è un caos assoluto. Il leader ieri sembrava tentato dalla rottura, ma oggi nessuno è in grado di dire se ha intenzione di sfilarsi o meno, e se ha preso una posizione definitiva. Sono in corso contatti, innanzitutto con Denis Verdini. E si comincia ad evocare un nuovo incontro tra l’ex Cavaliere e il presidente del Consiglio. Poi, ci sono da tenere presenti i malcontenti e i dubbi dentro Ncd. Scelta civica è ormai in via di scioglimento, con una parte dei montiani tentati dalla confluenza nel Pd e un’altra dalla costruzione del Ppe italiano, insieme ad Alfano, Mauro e Casini.
Se è per Sel e Cinque Stelle la situazione è in movimento. Insomma, alla fine l’esecutivo potrebbe uscire vincente visto lo sfaldamento di partiti e partititini, con molti onorevoli liberi di confluire dove vogliono.

l’Unità 4.6.14
Per fare bene, niente fretta
di Gianfranco Pasquino


Sulle riforme non si può procedere con la fretta: riflettere sul rapporto tra legge elettorale e nuovo Senato.
Potrei cominciare dicendo che, se la riforma elettorale la trasformazione del Senato erano impostate correttamente, l’esito elettorale, vale a dire il grande successo del Partito democratico di Renzi, non cambia nulla. Al contrario, da un lato, potrebbe essere considerato un sostegno dato dai cittadini a quelle riforme, dall’altro, addirittura una loro forte spinta affinché vengano approvate rapidamente.
Invece, penso che i cittadini italiani non abbiano votato avendo come motivazione prevalente quelle riforme e che il successo elettorale del Pd di Renzi discenda dalla sua campagna elettorale e dalla, giusta, convinzione degli elettori che il Partito democratico, da poco condotto da Renzi nel Partito del Socialismo Europeo, fosse, per l’appunto, il più europeista dei partiti italiani. Dunque, il partito da premiare contro gli euroscettici, gli anti-Euro e gli eurostupidi.
Coloro che oggi sostengono che le riforme di Renzi, in particolare quella della legge elettorale, debbono essere riscritte perché il quadro politico è cambiato danno ragione a quanti (fra i quali chi scrive) avevano sostenuto che quelle riforme servivano fondamentalmente gli interessi di Berlusconi e dello stesso Renzi. Invece, riforme delle regole (e delle istituzioni) del gioco che servono interessi particolaristici e di corto respiro non vanno mai fatti. Peraltro, non credo neppure che le riforme debbano essere fatte da tutti. Nessun potere di veto va concesso a chi prospera in un sistema politico arrugginito.
La via di mezzo (in medio stat virtus) è quella delineata dal grande filosofo politico John Rawls: le riforme vanno formulate dietro un «velo di ignoranza».
Mi affretto ad aggiungere, primo, che in questa espressione non è implicito nessun complimento per gli ignoranti patentati i quali, in materia di regole, sono tanto numerosi quanto inconsapevoli e, secondo, che le simulazioni non strappano il velo d’ignoranza, ma sollevano il polverone della confusione.
Nel Parlamento italiano non sono cambiati i rapporti numerici fra partiti e gruppi. Continuerà, dunque, a essere necessaria una convergenza (non una grande indistinta ammucchiata) fra più gruppi su riforme che promettano la semplificazione dei procedimenti legislativi (riforma del Senato), maggiore incisività del voto degli elettori (anche in questo caso con l’individuazione di una legge semplice, non bizantina), migliore definizione dei livelli di governo.
Nei tecnicismi non desidero entrare. Quindi, mi limito ad affermare che nessuna legge elettorale prossima ventura deve basarsi né sulla aspettativa di un grande balzo in avanti del Pd alle prossime politiche (pure possibile e, a scanso, di equivoci, anche auspicabile) né sulle necessità del centro-destra né sulle prospettive di coalizioni prossime venture.
Il consenso «europeo» del Partito democratico lascia intravedere un futuro da partito dominante che, incidentalmente, è, secondo me, l’unico elemento che consenta una limitata comparazione con la Democrazia cristiana.
La riforma elettorale non deve né riflettere questa situazione né prefiggersi di consolidarla. Deve, invece, garantire quella competitività indispensabile affinché l’elettorato senta il desiderio di andare alle urne. Deve, inoltre, contenere disposizioni che incoraggino il centro-destra, se non è ostaggio degli interessi di un leader, a ristrutturarsi. Deve, infine, dare ragionevoli garanzie che si formi un governo operativo che trovi qualche contrappeso alla sua azione.
Ricominciare tutto daccapo? Neanche se il governo procedesse a una revisione approfondita della sua brutta e bizantina proposta elettorale si tornerebbe davvero daccapo. Infatti, nel corso del tempo molti sono riusciti a vederne i difetti e alcuni ne hanno prospettato non disprezzabili rimedi.
Riflettere in maniera sistemica sul rapporto fra legge elettorale per la Camera e ruolo del Senato non è necessariamente perdere tempo. D’altronde, l’esito delle elezioni europee significa anche che sia il Pd sia il governo hanno guadagnato anche il tempo per consentire al Parlamento un’analisi approfondita delle riforme.
Per fare bene non c’è nessun bisogno di fare in fretta e furia.

Il Sole 4.6.14
Dietro il rebus del Senato l'urgenza di definirne le funzioni costituzionali
In mancanza di chiarezza le polemiche intorno ai modi dell'elezione portano a un corto circuito
di Stefano Folli

Difficile dare torto a Stefano Rodotà quando dice quello che molti pensano: nella riforma del Senato non è importante il modo con cui verranno scelti i componenti dell'assemblea, quanto stabilire in via preliminare quali saranno le loro competenze. Avendo deciso che essi non voteranno la fiducia al governo, resta da capire come impiegheranno le loro giornate. E quindi anche definire quale sarà il rilievo costituzionale del nuovo Senato e dei suoi membri. Del resto, è chiaro che passare da un sistema bicamerale a uno monocamerale non è la cosa più semplice di questo mondo. Ci sono varie e profonde implicazioni di natura, appunto, costituzionale; ed è la ragione per cui anche i più convinti riformatori della cosiddetta Camera alta non si risolvono a proporne la mera abolizione.
Il premier Renzi lo sa, a differenza di numerosi suoi sostenitori. Ecco perché ha intrapreso un complicato viaggio che ha come punto d'arrivo non la cancellazione, bensì la trasformazione del Senato e delle sue funzioni. Ma è proprio su quest'ultimo punto che non c'è ancora chiarezza. La polemica è quasi tutta intorno a un tema procedurale (elezione diretta o elezione indiretta) su cui sembra impossibile che non si possa trovare un'intesa in Parlamento. Peraltro, come ha detto Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama, l'ipotesi dell'elezione diretta «non è più in campo». Un messaggio piuttosto ruvido rivolto anche ai venti senatori del suo partito, il Pd, che si sono messi di traverso guidati da Vannino Chiti.
Se davvero la questione fosse questa, sarebbe incomprensibile. D'altra parte, discutere e dividersi sul "Senato alla francese", ossia su una specifica modalità di elezione indiretta, rischia di confondere ancor più le idee a un'opinione pubblica che vuol vedere il risultato della riforma e non assistere a oscure diatribe per addetti ai lavori. Forse la verità è che dietro certe polemiche si cela proprio la difficoltà di trasformare il Senato senza recare danni all'assetto costituzionale complessivo della nazione. Non tutti coloro che chiedono maggiore chiarezza – ce ne sono, come abbiamo visto, in tutti i partiti – sono degli irriducibili conservatori che vogliono lasciare le cose come stanno. Molti accettano una parte della riforma (la fine del voto di fiducia, che diventa prerogativa della Camera), ma sono incerti sul resto. Spetta al governo compiere un ulteriore sforzo per ricucire i fili. Anche perché si tratta a questo punto di capire cosa veramente vuole Forza Italia.
Non sembra che Berlusconi abbia davvero voglia di rompere il famoso patto con Renzi. In fondo, dopo l'insuccesso elettorale, al leader del centrodestra non restano molte carte da giocare. Continuare a calcare, nonostante tutto, il palcoscenico del "risiko" istituzionale, rimane un'opzione dignitosa e utile, di fatto l'unica vantaggiosa. Viceversa, auto-emarginarsi vuol dire condannarsi all'irrilevanza: un suicidio politico. È noto inoltre che la riforma del Senato è strettamente connessa alla nuova legge elettorale: il famoso Italicum che nella versione attuale dovrà essere corretto e aggiornato tenendo conto delle critiche. Anche in questo caso Renzi, proprio perché ha raccolto il 40%, deve procedere con qualche prudenza. E comunque non da solo. Le riforme sono vicine, ma gli ultimi passi sono i più difficili.

il Fatto 4.6.14
Contro la corruzione Renzi promette tanto ma non ha fatto nulla
Annunci ripetuti per rilanciare un tema su cui ora il governo vorrebbe presentare un disegno di legge
di Antonella Mascali


Tra 48 ore sapremo se il governo Renzi passerà dalle parole ai fatti nella lotta alla corruzione.
Venerdì, infatti, durante il consiglio dei ministri, dovrebbero essere stabiliti i poteri di Raffaele Cantone in merito al suo ruolo di controllore di Expo 2015, dopo gli arresti per gli appalti ottenuti, secondo la procura di Milano, a colpi di tangenti.
Tanto per essere chiari, ci sarebbero i fatti e non gli annunci, per esempio, se Cantone avrà il potere di revoca di un appalto, nel caso in cui non dovesse corrispondere a requisiti di trasparenza.
Ma Renzi, il 9 maggio, dopo aver indicato in Cantone il “controllore” di Expo 2015, ha detto che bisogna essere cauti sui poteri straordinari: “Va fatta una verifica dal punto di vista amministrativo. E poi Cantone non è un supereroe … non può essere un sostituto del pm a Milano, ma neanche un passa-timbri”.
L'EX MAGISTRATO anti camorra, comunque, è stato chiaro, non vuole essere uno specchietto per le allodole: “Non ho intenzione né voglia di fare gite milanesi”, ha detto il 15 maggio, rispondendo agli studenti di Giurisprudenza dell’Università di Napoli, “allo stato non c’è possibilità che l’Autorità anticorruzione possa occuparsi delle vicende dell’Expo. Il tema è provare a individuare poteri specifici transitori e che riguardino solo quell’evento. Questi poteri servono e dovranno essere tali da lasciare indipendente l’Autorità”. Appena il giorno prima La Repubblica aveva titolato: “Renzi: ‘Interdizione perpetua per chi prende tangenti’”. E il 18 maggio: “Corruzione, giro di vite sul falso in bilancio. Più poteri a Cantone”.
L'esecutivo guidato dal premier-rottamatore, che vuole fare tutto e subito, da febbraio ad oggi ha fatto diversi annunci, ma nessuna legge, per altro a costo zero, su riforma della prescrizione, sul reato di autoriciclaggio, sulla riforma del falso in bilancio, depenalizzato dal governo Berlusconi 2001-2002 e mai rivisto. Addirittura non c'è stato neppure un annuncio sulla lotta alla corruzione, il 22 febbraio, quando Renzi si è insediato con il discorso di rito in Parlamento.
Eppure l'Europa ha continuato a strigliarci. L'ultima stoccata ce l'ha tirata lunedì: la Commissione Ue ci ha chiesto di riformare “in particolare la prescrizione entro la fine del 2014” e di rafforzare i poteri dell'Autorità nazionale anticorruzione. Il riferimento della Ue è al fatto che l’Autorità ha poteri di indagare ma non ha poteri sanzionatori. Insomma ha le armi spuntate.
Lo ha osservato anche Cantone, nominato il 16 aprile presidente dell’organismo. Ed è stato lui stesso a chiedere più poteri. Ma ad oggi non ci sono, come non c’è la nomina di altri 5 commissari indipendenti. Forse saranno designati entro la prossima settimana. Appena tre mesi fa, a febbraio, la Ue aveva segnalato le criticità anche della legge Severino sul cosiddetto spacchettamento del reato di concussione, per costrizione o per induzione; e ancora sulla corruzione privata, l'autoriciclaggio e la prescrizione, la bestia nera. L'Italia, infatti, è un caso più unico che raro in Europa: la prescrizione si conta dall'anno in cui sarebbe stato commesso il reato, a prescindere da quando viene scoperto e perseguito e continua per tutto l'iter giudiziario, processi compresi. Anche su questi punti tutto tace.
SEMBRAVA CHE QUALCOSA potesse cambiare ad aprile. Il 21 si è parlato di lotta alla corruzione nel documento economico e finanziario, ancora una volta con promesse di intervento su falso in bilancio, prescrizione e autoriciclaggio, ma è un nulla di fatto.
Il ministro della giustizia Andrea Orlando assicura che si affronterà tutto dopo la fine di un “clima di rissa permanente”.
Solo una settimana prima il Corriere della Sera aveva titolato: “Giustizia: riforme a tappe. Un decreto sugli arretrati”.
Il 22 maggio, dopo le critiche di Raffaele Cantone contro il ddl anticorruzione, il governo scrive un testo sull'autoriciclaggio e lo inserisce nel progetto fermo alla Camera. Il magistrato aveva definito la vecchia proposta sull’autoriciclaggio “inapplicabile perché prevede che ci sia 'nocumento all'economia', un meccanismo assolutamente vago".
Il voto sul ddl, previsto per il 10 giugno al Senato, probabilmente slitterà. E venerdì il consiglio dei ministri potrebbe presentare un disegno ad hoc.

il Fatto Lettere 4.6.14
Decreto Sblocca Italia, Renzi oltre Berlusconi

Mi pare che Renzi ce la stia mettendo tutta per attuare il programma di Silvio Berlusconi, spingendosi perfino dove il Cavaliere a suo tempo non osò arrivare. L’annunciato decreto Sblocca-Italia infatti sembra preludere a liberalizzazioni selvagge che potrebbero, anzi potranno, mettere a ferro e fuoco quel che resta del patrimonio artistico, archeologico e paesaggistico del nostro disgraziato Paese. Già prevedo condomini vista mare dove fino a ieri c’erano gli arenili, discariche accanto ai parchi archeologici, file e file di pale eoliche come triste skyline di paesi e città. Tutto è in vendita in Italia, dall’Alitalia alle frequenze tv, dal paesaggio ai musei, perfino la dignità e la bellezza, in nome del (finto) rinnovamento messo in atto da chi ha ampiamente dimostrato di essere il vero erede della vecchia DC, ma senza averne le buone maniere sia pure di facciata.
Tiziana Gubbiotti

Repubblica 4.6.14
Dopo le Europee
Pse o Tsipras? Sel si spacca Vendola nel mirino dei filo-Pd
di Tommaso Ciriaco



ROMA. Baraonda Sel. Sopravvissuta allo sbarramento europeo, il partito di Nichi Vendola torna a spaccarsi sulla collocazione nell’Europarlamento. C’è da scegliere tra il Pse di Martin Schulz e il Gue di Alexis Tsipras. E i gruppi parlamentari si dividono. Sullo sfondo, ma neanche troppo, riemerge pure il braccio di ferro interno che ruota attorno al rapporto con il Pd.
Tutto nasce da una dichiarazione del coordinatore Nicola Fratoianni. Pubblicata sul sito di Sel e poi rimossa, giura la deputata Martina Nardi: «Siamo rimasti allibiti, si annunciava in maniera inequivocabile l’entrata nel Gue. Poco dopo è stata cancellata». Basta questo, però, a far riemergere il malcontento della pattuglia di deputati che - assieme al capogruppo Gennaro Migliore - premono per riaprire il dialogo con Renzi.
Vendola, in realtà, mostra cautela. Insieme a Fratoianni e Arturo Scotto vola a Bruxelles, incontra Schulz e Tsipras, quindi sollecita un ponte tra il Gue e i socialisti europei. Sulla collocazione, però, si sbilancia parecchio: «È difficile immaginare che chi è stato eletto con la lista Tsipras possa militare nel Pse». La reazione è immediata. Claudio Fava contesta un «cambio di rotta irresponsabile e mai discusso, che muta profondamente la natura di Sel». A poco serve, poco dopo, la precisazione di Scotto: «Gli eletti italiani non sono né di Sel né di qualcun altro, ma solo dell’“Altra Europa con Tsipras” e dunque innanzitutto con lui si orienteranno». La spaccatura, insomma, resta evidente: «Smettiamola di mettere la polvere sotto il tappeto - attacca Fabio Lavagno o le contraddizioni di Sel rischiano di scoppiare. Le larghe intese non sono più con Berlusconi o Alfano, ma con gli italiani. Faremmo meglio a lavorare per sostituirci all’Ncd». Ragionamenti simili a quelli di Alessandro Zan: «Da sempre guardo al Pse e mi preoccupa una deriva minoritaria». L’area del dissenso, una quindicina di parlamentari, si riunirà già oggi. Il braccio di ferro continua.

Corriere 4.6.14
Tra seggi e alleanze Tutti i tormenti della lista Tsipras
Caso Spinelli e collocazione in Europa
di Monica Guerzoni


ROMA — «Cosa sta succedendo? Il solito bel dibattito sotterraneo, come nella tradizione della sinistra marxista leninista». Gano Cataldo, secondo dei non eletti al Sud, spiega con una battuta quel che accade nella lista Tsipras, dove il risicato successo elettorale ha paradossalmente incendiato gli animi, investendo Rifondazione e Sel. E ieri è scoppiata anche la grana della collocazione in Europa.
Con Sel dilaniata e sull’orlo della scissione Nichi Vendola è volato a Bruxelles, nel tentativo di giocare un ruolo nella partita della presidenza della Commissione. Ha visto Martin Schulz e Alexis Tsipras e dichiarato quanto sia «difficile immaginare» che possa militare nel Pse chi è stato eletto con l’Altra Europa per Tsipras. Parole che hanno scatenato l’ira di Claudio Fava, vicepresidente dell’Antimafia: «È grave. Un cambio di rotta irresponsabile, mai discusso nel partito».
Accuse, sospetti, manovre. A tenere banco, esacerbando gli animi, è il caso Barbara Spinelli. L’esponente più rappresentativo e più votato della lista, figlia del padre fondatore della Ue, sta meditando di tenersi il seggio a Strasburgo, contrariamente a quanto aveva dichiarato in campagna elettorale. Per convincerla, Tsipras le avrebbe offerto di indicarla per una vicepresidenza del Parlamento. «Potrei tenere il seggio — ha detto al quotidiano greco Avghì l’editorialista e scrittrice che ha trainato la lista —. Non ho ancora deciso, sto avendo molte pressioni dai miei elettori».
Il ripensamento inatteso ha scatenato la reazione dei social network e spaccato la base. C’è la petizione pro Spinelli eurodeputata e c’è quella del no, che ha raccolto su Change.org oltre 1.200 firme. Appello: «Cara Barbara Spinelli, ti chiediamo il passo indietro promesso, che permetta di fare, assieme, tanti passi avanti». Ragionamenti che sulla Rete sono rimbalzati con ben altri toni, tra accuse di «poltronismo» e messaggi al veleno. La ex responsabile comunicazione Paola Bacchiddu ha annotato su Twitter: «Parlava di coerenza e generosità. Poi il problema era il mio bikini, eh». Sulla presunta «incoerenza» della Spinelli si è esercitato anche Claudio Riccio, il più votato tra gli indipendenti al Sud. La garante della lista è arrivata prima sia al Centro che al Sud e il suo dilemma adesso è decidere a quale delle due circoscrizioni rinunciare. Scelta non semplice, visto che i primi dei non eletti sono un giovane esponente di Sel, Marco Furfaro e una giovane donna di Rifondazione, Eleonora Forenza. Quale dei due partiti lasciare senza strapuntino in Europa? «È terribile parlare di poltrone — commenta “con amarezza” Loredana Lipperini —. La guerra delle petizioni è la cosa più sbagliata. Si parla solo di partiti e non di persone, si creano fazioni e tifoserie e non si arriva alla decisione giusta».
La Spinelli sta riflettendo e Vendola ha detto che rispetterà la sua decisione. Sabato a Roma ci sarà l’assemblea dei comitati della lista Tsipras e lì, a costo di litigare di brutto, si cercherà una soluzione: si fa largo l’idea di una staffetta tra Furfaro e Forenza. Il primo mantiene saldi i nervi: «Aspettiamo serenamente. Sono ore delicate. Questa lista è un patrimonio che nessuno può permettersi di disperdere». Argyrios Panagopolus, giornalista ateniese non eletto, è preoccupato: «Basta con l’eterna conflittualità della sinistra... Non è normale che stiamo qui a discutere dopo aver sconfitto la censura». La Spinelli deve andare a Strasburgo o no? «Sì, una persona come lei può fare la differenza in un Parlamento di neonazisti e xenofobi». Moni Ovadia, che ha rinunciato al seggio facendo entrare Curzio Maltese, assiste alle risse interne con intramontabile ottimismo, sperando che dalla lista Tsipras nasca un soggetto unitario della sinistra: «È normale che si scatenino le passioni, ma discutere fa bene». E la Spinelli? «Donna di grandissima caratura. A giorni deciderà e vedrete che usciremo dalle contraddizioni».

il manifesto 4.6.14
Tsipras a Spinelli: resta con noi a Strasburgo
di Daniela Preziosi


Sinistre. Vendola incontra il leader greco e Martin Schulz, ma sceglie il Gue. Anche se ancora non sa se avrà un europarlamentare. Malumore in Sel. Fava: Nichi parla a titolo personale, così il partito cambia natura
Arri­verà ad ore la deci­sione di Bar­bara Spi­nelli sull’entrare o no nel par­la­mento di Stra­sburgo a nome dell’Altra Europa. In tutta la cam­pa­gna per le euro­pee la capo­li­sta nelle cir­co­scri­zione cen­tro e sud, edi­to­ria­li­sta di pre­tsi­gio di Repub­blica, aveva giu­rato di non cam­biare mestiere. Il ripen­sa­mento è arri­vato subito dopo la vit­to­ria della lista, acciuf­fata per un sof­fio (il 4,03). Ieri è il lea­der greco Ale­xis Tsi­pras le ha uffi­cial­mente chie­sto di accet­tare: «Capi­sco che ciò che ti chiedo forse vada oltre i tuoi pro­getti per­so­nali, e tut­ta­via sono costretto a chie­der­telo, con­si­de­rando il tuo ruolo for­te­mente garante per la con­ti­nua­zione del progetto».
La let­tera cerca di met­tere la parola fine ai malu­mori che l’incertezza ha creato nei due par­titi che hanno ade­rito alla lista uni­ta­ria,  Sel e Prc, ma anche fra i comi­tati ter­ri­to­riali impe­gnati oggi nel lan­cio dell’esperienza uni­ta­ria. All’apparenza potrebbe sem­brare una pun­tata dell’eterno scon­tro partiti-società impe­gnata, grande clas­sico della sini­stra. Invece sta­volta il malu­more per l’improvviso ripen­sa­mento è molto tra­sver­sale. Certo è che se Spi­nelli deci­derà di andare a Stra­sburgo, uno dei due pos­si­bili suben­tranti (sui tre con­qui­stati) resterà fuori, magari a tempo: la scelta è fra un nome di Sel, il gio­vane Marco Fur­faro primo dei non eletti al cen­tro,  vicino ai movi­menti e nuova gene­ra­zione del par­tito di Ven­dola; oppure Eleo­nora Forenza, fem­mi­ni­sta, anche lei gio­vane diri­gente del Prc. Tsi­pras, lea­der della coa­li­zione della sini­stra radi­cale Syriza che di anime ne ha almeno sette, e quindi esperto di deli­cate rela­zioni fra le orga­niz­za­zioni di sini­stra, mette tutto il suo peso poli­tico dalla parte di Spi­nelli davanti a mili­tanti e elet­tori: «Vor­rei che tu con­si­de­rassi», scrive a Spi­nelli, «sia il fatto che la tua pre­senza nel Par­la­mento euro­peo è molto impor­tante, par­ti­co­lar­mente nel periodo ini­ziale, sia l’ansia di tutti noi di man­te­nere l’unità e la con­ti­nua­zione del nostro magni­fico lavoro nel tuo paese».
Al lea­der greco pia­ce­rebbe avere la figlia di Altiero fra le sue file, almeno nel seme­stre di pre­si­denza ita­liana. La vor­rebbe pro­porre come vice­pre­si­dente del par­la­mento. E c’è chi assi­cura che le grandi fami­glie euro­pee non potreb­bero dire no alla figlia di Altiero, padre nobile del fede­ra­li­smo euro­peo cui è dedi­cata l’ala prin­ci­pale del palazzo di Bru­xel­les, oltre­ché le aule uni­ver­si­ta­rie di mezzo continente.
Però l’opzione fra un nome di Sel o uno del Prc com­porta con­tro­in­di­ca­zioni in ogni caso: Sel affronta un dif­fi­cile dibat­tito interno fra entu­sia­sti e scet­tici della lista Tsi­pras; il Prc aveva festeg­giato la fine dell’”extraparlamentarismo” inau­gu­rato nel 2008. Gli stra­sci­chi nel corpo vivo dei mili­tanti potreb­bero rovi­nare l’entusiasmo della vit­to­ria e azzop­pare l’esperienza uni­ta­ria nascente; se ne vede già un sag­gio in que­ste ore sulla rete. A meno di un accordo con­di­viso fra tutte le anime della lista. Fra i garanti pre­vale l’ottimismo. Il dos­sier è in mano al por­ta­voce Marco Revelli. Tsi­pras stesso sem­bra chie­dere a Spi­nelli una scelta almeno «per il periodo iniziale».
Intanto ieri Nichi Ven­dola è volato a Bru­xel­les per incon­trare Tsi­pras, ma anche il social­de­mo­cra­tico Mar­tin Shulz, che in tutta la cam­pa­gna ha indi­cato come inter­lo­cu­tore della lista ita­liana. «Per noi è fon­da­men­tale il patto fatto con Tsi­pras, ed è molto impor­tante che in Ue ci sia una sini­stra capace di rin­no­varsi e di incal­zare il par­tito del socia­li­smo euro­peo per costruire un fronte largo con­tro l’austerity», spiega Ven­dola. E a chi gli chiede a quale gruppo ade­rirà un even­tuale euro­par­la­men­tare di Sel, risponde: «Dif­fi­cile imma­gi­nare che chi è stato eletto con l’Altra Europa per Tsi­pras possa mili­tare nel gruppo Socia­li­sti e demo­cra­tici». Comun­que Ven­dola  assi­cura che rispet­terà la deci­sione di Bar­bara Spi­nelli quando saprà «quale sarà la sua decisione».
Ma intanto la scelta del Gue, con o senza euro­de­pu­tato, è dura­mente con­te­stata da Clau­dio Fava: una scelta «grave», «un cam­bio di rotta irre­spon­sa­bile, mai discusso nel par­tito, che muta pro­fon­da­mente la natura di Sel», Ven­dola «ha par­lato a titolo per­so­nale». Parole a loro volta pesanti, alle quali risponde Arturo Scotto, anche lui agli incon­tri di Bru­xel­les: gli eletti, spiega, «non sono né di Sel ne di qual­cun altro, ma dell’Altra Europa con Tsi­pras’ e dun­que innan­zi­tutto con lui si orienteranno».

il Fatto 4.6.14
Spinelli in Europa nel nome di Tsipras (e del sorteggio)
Il leader della sinistra greca le chiede di accettare il seggio
L’obiettivo, avere un nome di prestigio per la vicepresidenza dell’europarlamento
di Salvatore Cannavò


Barbara Spinelli dovrebbe accettare oggi l’elezione al Parlamento europeo avvenuta con la lista Tsipras lo scorso 25 maggio. Il condizionale è più che d’obbligo vista la difficoltà della scelta, le pressioni che provengono da ogni parte e la natura, riservata, della candidata.
A SCIOGLIERE gli ultimi dubbi è stata la lettera con cui l’intestatario della stessa, Alexis Tsipras, leader della formazione greca Syriza e riferimento obbligato della nuova sinistra europea, ha chiesto alla scrittrice di impegnarsi direttamente. Ma tra gli attivisti della lista, in particolare quelli dei due partiti che l’hanno promossa, Sel e Rifondazione, a cui appartengono i due candidati. Marco Furfaro e Eleonora Forenza, che saranno alternativamente penalizzati dalla scelta dell’editorialista, la polemica resta alta. Tanto più che la modalità con cui Spinelli dovrebbe optare tra le due circoscrizioni in cui è arrivata al primo posto, stando a quanto spiegato dal comitato dei garanti, dovrebbe essere quella del sorteggio.
A confortare, e a sollecitare, la sua scelta, ieri, è giunta la lettera di Tsipras. Dopo aver manifestato “commozione profonda” per il risultato della lista in Italia, il leader greco ha scritto: “Il Tuo ruolo e la Tua presenza sono più importanti e decisivi in questo momento che non nel periodo della nascita della Lista”. Per questo, il leader greco considera “necessario, almeno fino al momento in cui vi sia la certezza che le cose seguano la strada giusta, che Tu non insista nella Tua decisione iniziale di dimetter-Ti dal posto di europarlamentare dell’Altra Europa”. La lettera non lo dice, ma l’intenzione dell’esponente greco è quella di far eleggere Barbara Spinelli alla vicepresidenza del Parlamento europeo. Un riconoscimento di prestigio che in Europa viene visto molto favorevolmente. Del resto, il palazzo principale del Parlamento europeo a Bruxelles è intitolato a suo padre, Altiero, di cui pure esiste una raffigurazione di cartone in una delle sale interne.
LA LETTERA di Tsipras si unisce alle tantissime email che Spinelli ha ricevuto e sta ricevendo da parte di chi l’ha votata e che ora le chiede di rappresentarle. Come fa notare chi ha partecipato alla formazione della lista, l’editorialista ha ottenuto nelle tre circoscrizioni in cui è stata candidata, oltre 70 mila preferenze, non si è fatta fare nessun manifesto personale e ha più volte ribadito la propria intenzione di non accettare l’elezione. Ed è su questa promessa che nascono gli imbarazzi e le difficoltà di queste ore. Una volta eletta, infatti, la sua scelta penalizzerà uno dei due candidati giunti alle sue spalle nelle due circoscrizioni. Si tratta di Marco Furfaro, di Sel e di Eleonora Forenza, di Rifondazione comunista. Uno dei due dovrà quindi rinunciare e vista l’appartenenza partitica il dilemma potrebbe avere risvolti pesanti sul fronte dei rapporti interni alla lista.
La giornata di ieri, dunque, è stata impiegata a trovare una modalità condivisa da tutti e, al momento, la più gettonata sembra essere il sorteggio. Ma una mano l’ha data lo stesso Nichi Vendola andando a Bruxelles, insieme a una delegazione di Sel, a incontrare proprio Tsipras. Incontro di grande sintonia nel quale il leader pugliese ha garantito che il suo partito farà pienamente parte del gruppo del Gue, quello della sinistra radicale e non del Pse come pure chiedono le componenti interne più propense a un dialogo con il Pd di Renzi. Una scelta di campo, da parte del gruppo dirigente di Sel, che provocherà certamente un’ulteriore frattura interna al partito. Claudio Fava, ad esempio, ha parlato ieri di “cambio di rotta irresponsabile” e Gennaro Migliore, altro esponente di minoranza, aveva avanzato nei giorni scorsi la sua proposta: costruire un unico partito con il Pd. In Sel si teme che nei prossimi giorni si possano realizzare le condizioni di una mini-scissione, sul piano degli iscritti, ma importante sul piano parlamentare.
LA SCELTA DI SPINELLI, però, come sottolinea lo stesso Tsipras nella sua lettera, può servire a tenere salda quella che uno dei garanti, Marco Revelli, chiama “la casa comune”, un’impresa di ricostruzione della sinistra oltre i partiti attuali. Dopo il voto, viste le fibrillazioni dei partiti e il successo di Renzi, il cammino della lista come “luogo unitario” è sembrato essere messo in pericolo. La scelta che Barbara Spinelli si appresta a compiere serve a tutelarlo. Anche a costo del sorteggio.

il manifesto 4.6.14
Sinistra. Il fascino nuovo di un milione di voti a un leader collettivo
Lista Tsipras, una polifonia da preservare
di Ermanno Rea


Per comin­ciare un’annotazione di tipo pes­si­mi­stico. Riguarda l’ineleganza (al posto di ine­le­ganza ci può stare anche la parola gros­so­la­nità) di certi per­so­naggi dell’italico tea­trino poli­tico, pre­senti a destra come a sini­stra, anzi, in qual­che caso, dotati anche di bio­gra­fie degne di enco­mio. Pren­diamo i can­di­dati della Lista “L’Altra Europa con Tsi­pras”: spe­ravo di non imbat­termi in nes­sun caso di «ine­le­ganza». E invece eccomi qui a dare atto di un dolo­roso rav­ve­di­mento, matu­rato sull’onda di una suc­ces­sione di mes­saggi di posta elet­tro­nica via via più risen­titi con­tro i vari comi­tati elet­to­rali e in parte con­tro gli stessi Garanti della Lista.
Non dubito che molte di que­ste rimo­stranze, arri­vate a cascata in que­sti ultimi giorni, siano fon­date e che, qua e là, si siano veri­fi­cate situa­zioni sgra­de­voli e irre­go­la­rità dovute soprat­tutto – così viene denun­ciato – all’invadenza dei candidati-concorrenti desi­gnati e soste­nuti da Sel e da Rifon­da­zione comu­ni­sta. Tut­ta­via l’asprezza di taluni mes­saggi mi è parsa fran­ca­mente sospetta, intrisa di quel risen­ti­mento per­so­nale tipico di chi ha gio­cato la par­tita non tanto per dare qual­cosa di sé e basta, ma piut­to­sto nella spe­ranza di rice­vere qual­cosa (un pre­mio chia­mato Strasburgo?).
Ancora più meschina e incom­pren­si­bile la presa di posi­zione di alcune/i con­tro un even­tuale ripen­sa­mento di Bar­bara Spi­nelli rispetto al suo pro­po­sito ini­ziale di rinun­ciare al seg­gio se eletta. Come se per una donna del peso intel­let­tuale e del pre­sti­gio poli­tico della Spi­nelli sedere al par­la­mento euro­peo fosse un van­tag­gio e non un sacri­fi­cio, un pre­mio e non una pesante respon­sa­bi­lità. E qui mi pare giu­sto chiu­dere la par­tita con l’«ineleganza» (e quindi con il pes­si­mi­smo) per aprirne un’altra di piglio com­ple­ta­mente diverso. Sull’esito di que­ste ele­zioni europee.
Un milio­ne­cen­tot­to­mi­la­quat­tro­cen­to­cin­quan­ta­sette: è un bel numero, no? Lasciamo per­dere se la lista “L’Altra Europa con Tsi­pras” ha supe­rato la soglia di sbar­ra­mento sol­tanto di un sof­fio. Non sono le soglie di sbar­ra­mento a deci­dere la por­tata e il signi­fi­cato poli­tico di un risul­tato elet­to­rale. Impos­si­bile per esem­pio, nella valu­ta­zione di que­sto 4,03 per cento con­se­guito, non tener conto del fatto che sol­tanto pochis­simi mesi fa della Lista Tsi­pras non esi­steva trac­cia, che essa è nata come ini­zia­tiva estem­po­ra­nea da parte di un esi­guo gruppo di intel­let­tuali, tra l’altro non legati tra loro da alcun par­ti­co­lare vin­colo politico-ideologico, anzi con tutta pro­ba­bi­lità diver­sa­mente orien­tati su talune que­stioni di carat­tere gene­rale, anche se sicu­ra­mente coin­ci­denti nella loro acca­nita pas­sione demo­cra­tica, nel con­dan­nare la siste­ma­tica demo­li­zione, in corso in tutta Europa, dello stato sociale a van­tag­gio degli istinti ani­mali del neo-liberismo imperante.
Di qui la domanda, tutt’altro che ille­git­tima: se que­sta volta è bastato alzare un dito, pro­nun­ciare sol­tanto poche parole per pro­vo­care una discreta fiam­mata (oltre un milione di voti, appunto) che cosa può suc­ce­dere domani, dopo che la neo­nata ini­zia­tiva avrà avuto modo di farsi cono­scere meglio, di orga­niz­zarsi dando evi­denza alle riserve di intel­li­genza, one­stà e lun­gi­mi­ranza poli­tica pre­senti nel suo seno?
Riba­di­sco: si tratta di una domanda del tutto legit­tima. Ma anche peri­co­losa se tra­sfor­mata in uno stru­mento di auto-esaltazione e di ecces­si­va­mente ambi­ziosa pro­get­tua­lità. Met­tere a frutto un pic­colo capi­tale poli­tico non è impresa facile. Il rischio di bru­ciarlo esi­ste, inu­tile nascon­der­selo: di que­sti tempi basta un pic­colo passo falso per man­dare tutto all’aria. Non credo di esa­ge­rare per­ciò affer­mando che il tema del che fare? terrà a lungo banco tra quanti hanno ade­rito, a vario titolo, alla Lista Tsi­pras e ora si inter­rogano sul suo futuro.
Inten­dia­moci: nes­suno dubita che l’esperienza politico-associativa debba con­ti­nuare, che ormai sia stato pian­tato un paletto soli­dis­simo e che sarebbe sem­pli­ce­mente folle pre­ten­dere di rimuo­verlo. Il punto in discus­sione è un altro: che cosa possa e debba diven­tare la Lista Tsi­pras nei pros­simi mesi, se essa debba dotarsi di un rigo­roso pro­gramma poli­tico deli­neando un pro­prio oriz­zonte di obiet­tivi, alleanze, ecce­tera, oppure debba con­fi­gu­rarsi in modo per così dire più liquido e spon­ta­neo. In breve: se debba diven­tare un par­tito oppure debba restare così com’è, un movi­mento, sia pure orga­niz­za­ti­va­mente strut­tu­rato (ma ideo­lo­gi­ca­mente, se non poli­ti­ca­mente, polifonico).
Poi­ché ho qual­che opi­nione in pro­po­sito, mi fa pia­cere esporla met­tendo, come si dice, nero su bianco. Intanto un’osservazione pre­li­mi­nare, sol­tanto in appa­renza di carat­tere per­so­nale. Che cosa mi ha spinto ad ade­rire sin dal suo lan­cio all’iniziativa del gruppo dei Garanti? La rispo­sta è sem­plice: in primo luogo la sen­sa­tezza della pro­po­sta (riaf­fer­ma­zione della nostra iden­tità euro­pea non­ché della nostra volontà di restare nella moneta unica ma, con­tem­po­ra­nea­mente, revi­sione dell’intera impal­ca­tura comu­ni­ta­ria e fon­da­zione di una nuova Europa poli­ti­ca­mente uni­fi­cata). In secondo luogo l’autorevolezza cul­tu­rale, morale e poli­tica dei Garanti, da me con­si­de­rati sin dap­prin­ci­pio come un «lea­der col­let­tivo» di grande affi­da­bi­lità, guida sag­gia ed equi­li­brata di un’iniziativa for­te­mente demo­cra­tica ma non con­tras­se­gnata da par­ti­co­lari ideologismi.
Non sono stato il solo a restare affa­sci­nato dall’appeal di que­sto «lea­der col­let­tivo» capeg­giato tra l’altro da una donna di straor­di­na­rio acume poli­tico, un per­so­nag­gio intel­let­tual­mente sedut­tivo di per sè e tanto più per il cognome che porta: Bar­bara Spi­nelli. Come ho già ripe­tu­ta­mente riba­dito siamo stati oltre un milione di per­sone a votare per la Lista Tsi­pras; un milione di schede che non è né legit­timo né sen­sato ascri­vere a merito di que­sta o di quella sigla poli­tica «asso­ciata», e nep­pure alla pre­senza di que­sto o quel can­di­dato ma sem­pli­ce­mente alla Lista Tsi­pras per come essa è nata ed è stata pro­po­sta all’attenzione della gente, per il fascino che è riu­scita a eser­ci­tare pro­prio in quanto svin­co­lata da ogni pre­ce­dente espe­rienza elet­to­rale più o meno simile.
Ed eccomi di ritorno alla domanda cru­ciale, a quel che fare? acca­ni­ta­mente discusso dai can­di­dati della Lista Tsi­pras nelle prima riu­nione post-elettorale che si è svolta sabato scorso a Roma. A me pare che mai come in que­sto caso il futuro stia alle nostre spalle, in quello che abbiamo fatto e nel modo in cui è stato fatto, limando appena qual­che eccesso o sba­va­tura. Figli di un’iniziativa estem­po­ra­nea, per­ché dovremmo smen­tire la nostra voca­zione alla recita improv­vi­sata e spon­ta­nea? Per me la rispo­sta al che fare? è tutta scritta in quello che è acca­duto, nell’entusiasmo con il quale in tanti abbiamo accolto l’invito che ci è stato rivolto di ade­rire (senza nes­suna con­tro­par­tita) a un pro­getto di pro­gres­siva eman­ci­pa­zione dell’Europa dal gro­vi­glio di nefa­ste regole in cui è stata sur­ret­ti­zia­mente avviluppata.
Oggi tro­ve­rei per­so­nal­mente intol­le­ra­bile far parte di un par­tito poli­tico, obbe­dire a una disci­plina, essere inse­rito in una gerar­chia (è un’esperienza che ho già fatto, una ses­san­tina di anni fa, e che non ripe­te­rei per nes­suna ragione al mondo). Il che, sia chiaro, non esclude affatto che la «COSA» cui è stata data vita e che ha riscosso oltre un milione di con­sensi possa, anzi debba darsi una più solida orga­niz­za­zione, con­sen­tendo a quanti vi ade­ri­scono occa­sioni d’incontro, di discus­sione, di socia­lità, capaci di con­tra­stare quel clima di sepa­ra­tezza e spesso di vera e pro­pria soli­tu­dine del quale, sopra­tutto il cosid­detto popolo di sini­stra, si sente oggi molto spesso prigioniero.
Insomma, che cosa pro­pongo in buona sostanza? Forse un partito-non-partito? E per­ché no? I tempi esi­gono crea­ti­vità. Intanto abbiamo un «lea­der col­let­tivo» (suscet­ti­bile di essere allar­gato ad altri nomi eccel­lenti che hanno scelto di votare per la Lista Tsi­pras) e gli altri no. Van­tiamo tra i nostri rap­pre­sen­tanti com­pe­tenza e auto­re­vo­lezza e gli altri chissà. Abbiamo una casa pulita (tanto più che non è stata mai abi­tata in pas­sato) e que­sto non può non susci­tare inte­resse e curio­sità. Inol­tre, a dif­fe­renza del Movi­mento 5 Stelle, noi cre­diamo fer­ma­mente che esi­ste una destra ed esi­ste una sini­stra (anche se quest’ultima, al pre­sente, appare in forte affanno); che in Europa sia giu­sto essere e restare alleati di Tsi­pras, il gio­va­notto greco che si batte per un’Europa migliore, tenen­doci a debita distanza da Nigel Farage, raz­zi­sta e omo­fobo; che non espel­le­remo mai nes­suno dal nostro movi­mento per­ché ripu­diamo il con­cetto stesso di espul­sione nei con­fronti dei dis­sen­zienti e anche degli «ine­le­ganti»; che non faremo mai ricorso al tur­pi­lo­quio nei con­fronti di qual­siasi avver­sa­rio poli­tico (com­preso Grillo, come è ovvio); che non per­cor­re­remo mai a nuoto lo Stretto di Mes­sina per mostrare quanto siamo forti, anzi maschioni.

Il 2 giugno a Modenail Fatto 4.6.14
Libertà e Giustizia
La corruzione che ci circonda
di Gustavo Zagrebelsky


Pubblichiamo un estratto dell’intervento di Gustavo Zagrebelsky pronunciato lunedì sera a Modena in occasione della manifestazione “Per un’Italia libera e onesta” organizzata da Libertà e Giustizia
Il nostro Paese sta sprofondando nel conformismo (...) siamo usciti da una consultazione elettorale che ha dato il risultato a tutti noto, ma la cosa che colpisce è questo saltare sul carro del vincitore. Tacito diceva che una delle abitudini degli italiani è di ruere in servitium: pensate che immagine potente, correre ad asservirsi al carro del vincitore. Noi tutti conosciamo persone appartenenti al partito che ha vinto le elezioni che hanno opinioni diverse rispetto ai vertici di questo partito. Ora non si tratta affatto di prendere posizioni che distruggono l’unità del partito, ma di manifestare liberamente le proprie opinioni senza incorrere nell’anatema dei vertici di questo partito (...) Queste persone, dopo il risultato elettorale, hanno tirato i remi in barca e le idee che avevano prima, oggi non le professano più. Danno prova di conformismo. (...)
La nostra rappresentanza politica è quella che è (...) La diffusione della corruzione è diventata il vero humus della nostra vita politica, è diventata una sorta di costituzione materiale. Qualcuno, il cui nome faccio solo in privato, ha detto che nel nostro Paese si fa carriera in politica, nel mondo della finanza e dell’impresa, solo se si è ricattabili (...) Questo meccanismo della costituzione materiale, basato sulla corruzione, si fonda su uno scambio, un sistema in cui i deboli, cioè quelli che hanno bisogno di lavoro e protezione, gli umili della società, promettono fedeltà ai potenti in cambio di protezione.
È UN MECCANISMO omnipervasivo che raggiunge il culmine nei casi della criminalità organizzata mafiosa, ma che possiamo constatare nella nostra vita quotidiana (...)
Questo meccanismo funziona nelle società diseguali, in cui c’è qualcuno che conta e che può, e qualcuno che non può e per avere qualcosa deve vendere la sua fedeltà, l’unica cosa che può dare in cambio (...) Quando Marco Travaglio racconta dei casi di pregiudicati o galeotti che ottengono 40 mila preferenze non è perché gli elettori sono stupidi: sanno perfettamente quello che fanno, ma devono restituire fedeltà. Facciamoci un esame di coscienza e chiediamoci se anche noi non ne siamo invischiati in qualche misura. (...)
Questo meccanismo fedeltà-protezione si basa sulla violazione della legge. Se vivessimo in un Paese in cui i diritti venissero garantiti come diritti e non come favori, saremmo un paese di uomini e donne liberi. Ecco libertà e onestà. Ecco perché dobbiamo chiedere che i diritti siano garantiti dal diritto, e non serva prostituirsi per ottenere un diritto, ottenendolo come favore.
Veniamo all’autocoscienza: siamo sicuri di essere immuni dalla tentazione di entrare in questo circolo? (...) Qualche tempo fa mi ha telefonato un collega di Sassari che mi ha detto: “C’è una commissione a Cagliari che deve attribuire un posto di ricercatore e i candidati sono tutti raccomandati tranne mia figlia. Sono venuto a sapere che in commissione c’è un professore di Libertà e Giustizia...”. Io ero molto in difficoltà, ma capite la capacità diffusiva di questo sistema di corruzione, perché lì si trattava di ristabilire la par condicio tra candidati. Questo per dire quanto sia difficile sgretolare questo meccanismo, che si basa sulla violazione della legge. Siamo sicuri di esserne immuni? Ad esempio, immaginate di avere un figlio con una grave malattia e che debba sottoporsi a un esame clinico, ma per ottenere una Tac deve aspettare sei mesi. Se conosceste il primario del reparto, vi asterreste dal chiedergli il favore di far passare vostro figlio davanti a un altro? Io per mia fortuna non mi sono mai trovato in questa condizione, ma se mi ci trovassi? È piccola, ma è corruzione, perché se la cartella clinica di vostro figlio viene messa in cima alla pila, qualcuno che avrebbe avuto diritto viene posposto. Questo discorso si ricollega al problema del buon funzionamento della Pubblica amministrazione: se i servizi funzionassero bene non servirebbe adottare meccanismi di questo genere. Viviamo in un Paese che non affronta il problema della disonestà e onestà in termini morali. (...) Se non ci risolleviamo da questo, avremo un Paese sempre più clientela-rizzato, dove i talenti non emergeranno perché emergeranno i raccomandati, e questo disgusterà sempre di più i nostri figli e nipoti che vogliono fare ma trovano le porte sbarrate da chi ha gli appoggi migliori. È una questione di sopravvivenza e di rinascita civile del nostro Paese. Ora, continuiamo a farci questo esame di coscienza: non siamo forse noi, in qualche misura, conniventi con questo sistema? Quante volte abbiamo visto vicino a noi accadere cose che rientrano in questo meccanismo e abbiamo taciuto? Qualche tempo fa, si sono aperti un trentina di procedimenti penali a carico di colleghi universitari per manipolazione dei concorsi universitari (...) Noi non sapevamo, noi non conoscevamo i singoli episodi (...) e per di più non siamo stati parte attiva del meccanismo, ma dobbiamo riconoscere che abbiamo taciuto, dobbiamo riconoscere la nostra correità.
PROPOSTA: Libertà e Giustizia è una associazione policentrica che si basa su circoli, che sono associazioni nella associazione, radicati sul territorio e collegati alla vita politica. Non sarebbe il caso che i circoli si attrezzassero per monitorare questi episodi, avendo come alleati la stampa libera e la magistratura autonoma? Potrebbe essere questa una nuova sfida per Libertà e Giustizia, controllare la diffusione di questa piovra che ci invischia tutti, cominciando dal basso, perché dall’alto non ci verrà nulla di buono, perché in alto si procede con quel meccanismo che dobbiamo combattere.

il Fatto 4.6.14
L’ex magistrato Ferdinando Imposimato
“Grillo fermati, Farage è xenofobo e contro l’Europa”
di Luca De Carolis


Non possiamo distruggere il Movimento, è l’unica opposizione rimasta in Italia. Fa-rage rappresenta l’opposto di quello per cui questi ragazzi combattono”. Ferdinando Imposimato, classe 1936, si accalora. Lui, che da magistrato che ha lottato contro camorra, mafia e terrorismo, si dichiara un “convinto sostenitore dei Cinque Stelle”. Ma è contrarissimo a un eventuale accordo tra il M5S e l’Ukip di Nigel Farage: “Quell’uomo è razzista, xenofobo e vuole distruggere l’Europa”.
Grillo parla di “alleanza tattica”, necessaria per “contare qualcosa in Europa”. E rimarca la libertà di voto di cui il M5S godrebbe.
Ma che vuol dire? Un’alleanza non è tattica, è politica. E ti qualifica. Alleandosi con Farage, il Movimento si unirebbe a un partito neo-fascista, anche se l’Ukip assicura di non esserlo.
Ma Farage è davvero così pericoloso?
Lui è uno xenofobo, ed era alleato con la Lega. Ma soprattutto vuole distruggere l’Europa. Io invece la voglio cambiare, perché così com’è l’Unione non va. Fa solo gli interessi delle lobby, dando i finanziamenti solo alle grandi imprese e non a chi ne ha davvero bisogno, come i pastori sardi. E su questo sono totalmente d’accordo con Grillo.
Il leader dell’Ukip invece...
Nel suo programma fa l’elogio del profitto, vuole le privatizzazioni. L’esatto contrario di quello che vogliono i ragazzi del 5Stelle. Sono convinto che loro abbiano davvero raccolto l’eredità di Enrico Berlinguer, di cui ero amico. Ero al loro fianco nella battaglia in difesa della Costituzione. Quando salirono sui tetti di Montecitorio contro la modifica dell’articolo 138, ero davanti al Parlamento, per testimoniare la mia vicinanza.
Grillo ha definito Farage “spiritoso e non razzista”.
Essere simpatici non conta in politica. Magari Farage sarà davvero spiritoso, suggestivo: ma non è questo il punto
Molti parlamentari sono contrari all’accordo con l’Ukip.
Lo so, ne ho sentiti diversi in questi giorni e ho avuto la stessa impressione. Ma non mi chieda nomi, non sarebbe corretto.
Ha parlato anche con Grillo?
No, l’ho visto solo il venerdì del comizio in piazza San Giovanni (il 23 maggio, ndr), quando ho fatto il mio intervento dal palco. Mi fece molti complimenti.
Come alternativa all’Ukip, molti proponevano i Verdi. Ma sembra una pista ormai impraticabile.
L’importante è non allearsi con Farage. Per me la sinistra o i Verdi rappresentano sicuramente opzioni migliori. Ma non mi permetto di indicare un gruppo nello specifico.
Perché il M5S ha perso le Europee? Pensa anche lei che sia stato soprattutto un problema di toni sbagliati?
A mio avviso il 21 per cento è stato un ottimo risultato. Il Movimento partiva da zero in questo tipo di elezioni.
Sul suo blog Grillo ha alluso a brogli nelle urne.
Io so cosa sono i brogli, da senatore ho studiato il fenomeno e ho visto quanto sono diffusi, soprattutto nel mio Sud. Ma non mi sembra una causa da addurre per il risultato del 25 maggio.
Ora come può ripartire il Movimento?
Deve continuare a riconoscersi nei valori della Costituzione, che ha sempre difeso e rispettato. E deve battersi per un’Europa solidale, dove i Paesi lavorino assieme e non in competizione l’uno con l’altro.
Secondo lei come finirà la vicenda Farage?
Io mi auguro che Grillo si fermi e cambi idea.
Ma se dovesse andare dritto, e la consultazione sul web confermasse la scelta? Alla Zanzara lei ha detto: “Prenderò le mie decisioni”.
Mi troverei in una situazione molto conflittuale, perché non potrei condividere una scelta di questo tipo. Dopodiché, non voglio dare l’impressione di esercitare un ricatto morale. Io continuo ad avere fiducia. E lo ribadisco: sono molto legato a questo Movimento.

Confindustria
Dramma Squinzi, se caccia i ladri in Confindustria resta solo lui
Annunci.Il presidente degli industriali, durante l’ultima assemblea annuale, ha intimato agli iscritti: fuori da qui chi corrompe. Ma la lista dei condannati è troppo lunga
di Giorgio Meletti


Con chi ce l’ha Giorgio Squinzi? Aveva in mente dei nomi quando ha annunciato la cacciata dalla Confindustria degli imprenditori corrotti? O gli è scappata la parola? Insomma, qualcuno ha spiegato al presidente Forrest Gump che, tenendo fede ai propositi, la prossima volta rischierebbe di parlare a uno sparuto parterre senza carichi pendenti? Grande è la confusione sotto il cielo del capitalismo travolto dagli scandali. Piangono le industrie e le banche non ridono, anzi singhiozzano. Nel giro di un anno l’Abi, l’associazione bancaria italiana, ha perso prima il presidente, Giuseppe Mussari, travolto dall’inchiesta sul Montepaschi, e poi un vicepresidente, Giovanni Berneschi, causa arresto. I banchieri sono arrivati al punto che l’economista Luigi Zingales li ha gratificati, dalle colonne dell’austero Sole 24 Ore, di un anatema da social network: “Nonostante i molti galantuomini ci sono talmente tanti delinquenti che a entrare in banca c’è d'aver paura di essere derubati, non dai rapinatori, ma dai banchieri”. A parole Squinzi non è stato da meno: “Chi corrompe - ha tuonato giovedì scorso all’assemblea confindustriale - fa male alla propria comunità e al mercato. Queste persone non possono stare in Confindustria”. Cosa avrà pensato Emma Marcegaglia, che lo ascoltava in prima fila come past president? Forse che la prima a dover uscire dall'Auditorium di Roma era proprio lei, fresca presidente dell’Eni. Nel 2008 suo fratello Antonio Marcegaglia, amministratore delegato dell’azienda di famiglia, ha patteggiato una condanna per corruzione a undici mesi, per aver pagato proprio a un dirigente dell’Eni un milione 158 mila euro di tangente per una commessa. Certo, la responsabilità penale è personale. Ma alla Confindustria non si iscrivono le persone bensì le aziende. E proprio in quanto esponente di un’azienda “che corrompe”, Emma è stata eletta presidente nel marzo 2008.
PER CAPIRE IL SENSO delle parole di Squinzi bisogna rispondere ad alcune domande. La prima: chi è l’imprenditore che corrompe? Solo chi è stato condannato in via definitiva o basta un corposo sospetto? Faccenda complessa. L’impresa di costruzioni di Enrico Maltauro, recentemente arrestato con i furbetti dell’Expo, il 15 maggio scorso è stata allontanata dal presidente di Confindustria Vicenza, Giuseppe Zigliotto, che ha ritenuto “gravissimi i fatti di questi giorni, soprattutto perché riguardano un imprenditore già coinvolto oltre 20 anni fa in fatti analoghi”. Zigliotto introduce due concetti innovativi nella giurisprudenza confindustriale. Il primo è che i reati di Maltauro si considerano già accertati, il secondo è il richiamo all’era di Mani Pulite come a un passato che non si prescrive. Ma allora Squinzi deve spiegare: chi ha invitato all’assemblea di Confindustria l’ex presidente della Banca popolare di Milano, Massimo Ponzellini, fresco di arresto e al centro di un’inchiesta per gravi reati? Chi ha invitato il past president Giorgio Fossa, sotto processo per la bancarotta della compagnia aerea Volare? E che ci fa negli uffici di viale dell’Astronomia il vice direttore generale Daniel Kraus, condannato a un anno e otto mesi per un’inchiesta di Mani Pulite? Perché non è stata ancora cacciata dalla Confindustria la Finmeccanica, dopo che l’amministratore delegato Giuseppe Orsi è stato arrestato l’anno scorso con l’accusa di corruzione internazionale? E perché viene chiamato alla vice presidenza Carlo Pesenti proprio nelle stesse ore in cui suo padre Giampiero Pesenti viene indagato per truffa aggravata e riciclaggio nello scandalo Ubi Banca?
Il problema è che addentrandosi nella giungla di “galantuomini e tanti delinquenti” Squinzi può perdere l’orientamento. La Confindustria Sicilia è ancora attraversata dalla drammatica questione del pizzo.
Marcegaglia, appena eletta nel
2008, innalzò il vessillo brevettato dall’imprenditore siciliano
Ivan Lo Bello: cacciare chi subisce le estorsioni senza denunciare i mafiosi. Per lei era un ottimo modo per glissare sul più stringente “cacciare chi corrompe”, che l’avrebbe costretta alle immediate dimissioni. Come per il suo predecessore Luca di Montezemolo era un diversivo rispetto agli abusi edilizi nella sua villa di Capri che l’hanno portato alla condanna a un anno in primo grado.
È DISCUTIBILE CACCIARE chi è vittima di un reato (l’estorsione) anziché chi ne è autore. Ma se la linea è questa Squinzi dovrebbe spiegare perché non ha ancora espulso Carlo De Benedetti, che nel 1993, quando fu arrestato durante l’inchiesta Mani Pulite, spiegò che per vendere i prodotti Olivetti ai ministeri era costretto a pagare tangenti ai partiti. Si dichiarò concusso e i giudici gli credettero. Invece la Confindustria non ha creduto a Natale Spinnato, industriale palermitano del pane che tre anni fa si è salvato in extremis dall’espulsione promettendo che sarebbe andato a raccontare alla polizia quanto sapeva dei boss del quartiere Brancaccio, ai quali non pagava il pizzo però riconosceva altri favori per vivere in pace. Viene da chiedere a Squinzi perché non impone la stessa prova di coraggio a quella sua bella platea di indagati: vadano a spifferare tutto ai carabinieri, sennò fuori. La risposta è che i vertici confindustriali digrignano feroce onestà solo con i piccoli associati periferici, anche perché la coerenza avrebbe un prezzo beffardo: Squinzi dovrebbe chiedere al suo amico Silvio Berlusconi di dire ai magistrati la verità sulle richieste di pizzo di cui tanto si lamentava ai tempi della Standa.
Ma Squinzi si guarda bene dal fare nomi, per esempio: Mediaset. Non è di un grande imprenditore condannato a quattro anni per frode fiscale? E come mai il presidente Fedele Confalonieri è ancora un esponente di spicco di Confindustria? Forse perché Squinzi vuol cacciare chi corrompe e chi paga il pizzo (solo se è siciliano), non certo chi evade le tasse, sennò gli si vaporizza l’organizzazione. Ma come la mette sbaglia. Prendiamo l’Ilva. La Confindustria se ne occupa solo per attaccare i magistrati nemici dell’industria. Ma dopo la scomparsa di Emilio Riva, al timone del gruppo è rimasto il primogenito Fabio Riva, oggi a Londra in attesa di estradizione. È accusato di reati come associazione a delinquere e corruzione in atti giudiziari. Non sarebbe abbastanza per cacciare tutti i Riva di ogni ordine e grado da Confindustria? Squinzi aspetta i processi? E se aspetta i processi, perché per Riva sì e per Maltauro no? Oppure Squinzi sa cose che noi umani neppure sospettiamo? Forse. Ciò che Squinzi non capisce è che ormai gli umani sospettano cose che lui neppure immagina.

il Fatto 4.6.14
Mario Sabatelli Il neurologo del Gemelli
“I miei pazienti sono lasciati liberi di morire”
di Silvia D’Onghia


Trovo assurdo e violento che il destino di una persona che sta vivendo un dramma così particolare, com’è vivere con un tubo in gola, debba essere deciso da qualcuno seduto dietro a una scrivania. È violento, illogico, irrazionale, illegittimo. Per questo noi abbiamo già praticato la sospensione del trattamento - naturalmente col consenso informato- a pazienti sottoposti alla ventilazione non invasiva. E in un caso abbiamo avviato la procedura anche con un tracheostomizzato. Io non ho paura: stiamo facendo il bene dei pazienti”. A parlare non è un medico svizzero, ma il professor Mario Sabatelli, neurologo responsabile del centro SLA del Policlinico universitario Gemelli di Roma. Ospedale cattolico, quello del decimo piano nel quale sono stati curati Giovanni Paolo II e il fratello di Ratzinger. Un ospedale - ci dice Sabatelli - in cui le persone in fin di vita, affette da patologie come la Sclerosi laterale amiotrofica allo stadio terminale, possono scegliere se continuare a vivere “artificiosamente” attaccate a una macchina o essere lasciate andare. Il professore sceglie di parlare davanti alla telecamera dell’associazione “Viva la Vita onlus”, rispondendo alle domande di Simonetta Tortora. Ci mette la faccia, perchè dalla sua ha “il codice deontologico, le leggi, l’etica”. Ed è perfettamente consapevole che le sue parole rischiano di rialzare un putiferio intorno a un tema, quello del “fine vita”, che accende la politica solo quando si tratta di decidere la sorte di Piergiorgio Welby o Eluana Englaro. “Sono casi sospesi in un limbo al Fatto il presidente della onlus, Mauro Pichezzi -, e invece serve chiarezza: per il bene dei pazienti e per quello dei medici. Non è possibile che un ospedale si muova in direzione opposta all'altro. È arrivato il momento di stabilire delle regole chiare per tutti”.
IL CENTRO SLA del Gemelli prende in carico, ogni anno, circa 120 nuovi pazienti. Un numero elevatissimo, giustificato dalle continue ricerche portate avanti da un team di cui anche Sabatelli fa parte. È di poche settimane fa la scoperta - da parte del consorzio Italsgen, che riunisce 14 centri universitari e ospedalieri italiani - di un gene, denominato Matrin3 e localizzato sul cromosoma 5, presente in diverse ampie famiglie con più membri affetti da Sla e da demenza frontotemporale . Una scoperta cui la prestigiosa rivista Nature Neuroscience ha dedicato la copertina.
Sabatelli parla della malattia, dei progressi che sono stati fatti negli ultimi vent’anni, anche da un punto di vista tecnologico, ma dell’impossibilità, ancora, di sconfiggerla. “Arriva un momento in cui si deve scegliere tra ‘la situazione finisce qui’ oppure ‘avanti con una vita artificiale’”. Il riferimento è al momento in cui un malato di Sla deve decidere se sottoporsi o meno alla tracheostomia: “Si tratta di una terapia straordinaria - spiega il neurologo -, di una ‘pratica non convenzionale’, come spiega l’articolo 15 del Codice deontologico dei medici. E dunque ci sono alcuni punti da rispettare: il consenso informato e l’efficacia del trattamento, che deve essere appropriato clinicamente. Vi faccio un esempio: bisogna chiedersi se un trapianto di cuore sia appropriato per un paziente di 90 anni. Ma per la Sla vale anche un quarto elemento: la proporzionalità. L’intervento deve essere proporzionato, se ne deve pesare la gravosità. La ventilazione meccanica ti tiene in vita, ma quanta sofferenza in più ti sto dando?”. E allora non si parla solo di terapie, ma di valori. Si parla di una scelta esistenziale del paziente. E rifiutare la tracheostomia non è un atto illecito, sostiene il professore.
MA POI SABATELLI fa un passo in più: poiché nessuno può immaginare cosa significhi vivere con un tubo in gola e una macchina che pompa aria nei polmoni, per quanto un medico si sforzi di descriverne la condizione, “il piano terapeutico deve essere flessibile”. Cosa significa? “Che quello che è proporzionato oggi, può essere sproporzionato tra sei mesi, quando la malattia sarà drammaticamente avanzata. E allora un paziente ha tutto il diritto di dire: ok, basta. Nessuno dietro a una scrivania può decidere per me, che sono a letto tracheostomizzato”. La traduzione dal linguaggio medico è semplice: se una persona ventilata artificialmente, ma cosciente e lucida, cambia idea e decide che non vuole più respirare attraverso quella macchina, ha tutto il diritto di chiedere di essere stubato sotto sedazione. Il passo da lì alla morte è conseguente. Il professore, nell’intervista, ammette che questa pratica è stata già eseguita al Gemelli su pazienti sottoposti a ventilazione non invasiva e che una volta lui stesso aveva cominciato la pratica per un tracheostomizzato. “Noi ci avvaliamo della consulenza di un etico clinico. Bisogna rispettare la volontà del paziente e creare con lui un’alleanza. Sono persone che noi seguiamo dall’inizio della malattia e quindi conosciamo bene. E allora diventa una scelta condivisa”. Simonetta Tortora chiede esplicitamente a Sabatelli se non ha paura di un nuovo “caso Riccio”, il medico di Eluana Englaro. “Riccio mi pare sia stato prosciolto - risponde il medico - qualcosa significherà. Se non c’è chiarezza legislativa, e io auspico che la politica decida in fretta, mi muovo in accordo col codice deontologico e con l’etica. Non ho paura: stiamo facendo il bene dei pazienti”.

il Fatto 4.6.14
Testamento biologico: tantissimo rumore per nulla


SE NE PARLA ogni qualvolta viene fuori un “caso” Eluana Englaro o Piergiorgio Welby o Luca Coscioni, di solito con battaglie parlamentari ai limiti del ridicolo. Ogni legislatura ha il suo momento di gloria che finisce, spenti i riflettori, nei cassetti dimenticati. E così nel 2014 l’Italia non ha ancora una legge sul “fine vita” o sul testamento biologico, grazie alla quale poter formalizzare la propria volontà riguardo ai trattamenti sanitari che desidera accettare o rifiutare. La Costituzione stabilisce che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge” e l’Italia ha firmato nel 2001 (ma non ancora ratificato, mancano i decreti attuativi) la Convenzione sui diritti umani e la biomedicina di Oviedo secondo cui “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione”. Il Codice di Deontologia Medica stabilisce che il medico dovrà tenere conto delle precedenti manifestazioni di volontà del suo paziente.

il Fatto 4.6.14
L’appello a Renzi
La vergogna: legge ferma da 300 giorni


È AL PRESIDENTE Renzi, e a una classe politica “indifferente” che si rivolgono Francesco Lizzani, figlio del regista Carlo, Chiara Rapaccini (nella foto), compagna di Mario Monicelli, Carlo Troilo, autore di Liberi di morire, e Mina Welby, co-presidente della Associazione Coscioni. Alla vigilia del convegno sull’eutanasia organizzato domani a Firenze da Micromega, lanciano un appello: “La mancata soluzione del problema della ‘morte dignitosa’ - scrivono - ha queste conseguenze, da noi pubblicamente denunciate e da nessuno smentite: ogni anno, in Italia, mille e più malati si suicidano e più di mille tentano invano di farlo; ed ogni anno 30.000 malati terminali muoiono nei reparti di rianimazione con l’aiuto attivo di medici pietosi e coraggiosi, costretti a praticare l’eutanasia clandestina dalle norme di un codice penale che risale al 1930 e non a caso segue solo di un anno il Concordato fra il regime fascista e il Vaticano”. Poi la descrizione di quanto avvenuto negli ultimi mesi: “Abbiamo tentato, con una serie di iniziative pubbliche, di richiamare il Parlamento a quello che è un suo dovere, imposto dalla Costituzione: discutere delle proposte di legge di iniziativa popolare come quella presentata dalla Associazione Luca Coscioni con 70 mila firme di cittadini/elettori. Abbiamo avuto, per questa nostra richiesta, il sostegno pubblico ed appassionato del Presidente della Repubblica, cui sono seguiti gli impegni del Presidente della Camera e di molti altri autorevoli esponenti dei due rami del Parlamento. Eppure, a quasi 300 giorni dal deposito della legge e a 70 giorni dal messaggio del Capo dello Stato nulla si muove”. Infine l’appello a Renzi: “Non permetta che l’Italia, che assumerà a breve la presidenza di turno della Comunità Europea, sia additata come il paese più arretrato sul piano dei diritti civili. In particolare, per quanto riguarda l’eutanasia, solleciti il Parlamento a compiere il proprio dovere ed a frenare con leggi coraggiose quella che non esitiamo a definire una “strage degli innocenti”.

La Stampa 4.6.14
Sanità, la protesta dei giovani medici
“Più risorse e nuovo concorso”
Mobilitazione dei camici bianchi in tutta Italia: «Ecco la cura proposta al Miur»
I nodi aperti: l’accesso alle scuole di specializzazione e il problema dei fondi
di Nadia Ferrigo

qui

Il Sole 4.6.14
Immigrazione. Circolare in arrivo dall'Interno
Viminale: «ius soli» ai figli dei rifugiati nati in Italia
di Marco Ludovico


ROMA Con una mossa a sorpresa il ministero dell'Interno introduce lo jus soli. L'acquisizione della cittadinanza a causa del fatto di essere nati in Italia viene da tempo invocata a partire dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e dal premier Matteo Renzi. Nell'attesa di una legge problematica da licenziare in Parlamento in tempi brevi - sarebbe una rivoluzione, trappole e cavilli politici salterebbero fuori ovunnque - il clima politico però è cambiato dopo le elezioni europee.
E ieri, alla Camera, nella sala del Mappamondo si è svolto un convegno dell'Anfaci-associazione nazionale dei funzionari civili dell'Interno sul diritto d'asilo dove c'erano, tra gli altri, i prefetti Bruno Frattasi (presidente Anfaci), Ignazio Portelli (segretario generale), Riccardo Compagnucci (vicario del dipartimento Libertà civili e Immigrazione), Mario Morcone (già capo dipartimento Libertà civili). Alla fine del dibattito la novità è stata annunciata dal sottosegretario all'Interno Domenico Manzione (Pd), renziano, con delega all'immigrazione.
«Stiamo mettendo a punto una circolare interpretativa - ha spiegato il sottosegretario - ormai quasi pronta e in emanazione a breve scadenza, per riconoscere la cittadinanza italiana a coloro che sono figli di chi ha ottenuto la protezione internazionale». Un istituto con due status: quello di rifugiato, o in alternativa, la protezione sussidiaria. Forte dell'esperienza di magistrato e di giurista, Manzione sta preparando la circolare estendendo il diritto alla cittadinanza, per i figli di chi ha protezione internazionale, in analogia al riconoscimento che ora già spetta ai figli degli apolidi (per i genitori invece resta l'iter ordinario). Proprio l'attuale normativa (legge n. 5 febbraio 1992, n.91) stabilisce all'articolo 1 che è «cittadino per nascita» - oltre a chi è figlio di padre o madre cittadini italiani - anche «chi è nato nel territorio della Repubblica se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi»: condizione, quest'ultima, che definisce «una persona che nessuno Stato considera come proprio cittadino» come si legge sul sito del ministero guidato da Angelino Alfano.
Se dunque per le norme sulla cittadinanza apolidi e rifugiati possono essere considerate condizioni analoghe avremo presto una prima applicazione dello jus soli. La platea degli interessati, del resto, per ammissione dello stesso Manzione «è ristretta». Secondo stime di fonti qualificate del Viminale, in effetti, si tratta di duecento persone al massimo. Non è questione di cifre, però, ma di un atto con un valore simbolico e politico indiscutibile. Una sfida che potrebbe risultare alla fine vincente, nonostante le inevitabili polemiche, proprio perché riguarda numeri ridotti.

l’Unità 4.6.14
Bavaglio sul web e arresti, 25 anni dopo Tian An Men


Altro che primavera! A Pechino sembra di essere in pieno inverno ». Amara ironia di Hu Jia, attivista per i diritti umani, confinato da tre mesi nel suo appartamento con obbligo di non uscirne fino a nuovo ordine. È pesante il clima che si respira nella Repubblica popolare, dove anche Google inquieta il governo al punto da bloccarne l’utilizzo, caso mai qualche internauta volesse andare in cerca di notizie sulla tragedia di 25 anni fa. La strage che il 4 giugno 1989 pose fine alla Primavera democratica cinese.
Le autorità quest'anno si sono mosse con largo anticipo. Solitamente gli arresti preventivi avvenivano a ridosso del 15 aprile, giorno in cui nel 1989morì Hu Yaobang, che era stato da poco estromesso dalla guida del partito comunista a causa del suo orientamento riformatore. I primi raduni sulla Tian An Men si formarono in suo onore, nel lutto per la scomparsa di una figura simbolo della speranza di rinnovamento. Settimana dopo settimana il movimento crebbe a dismisura, e assieme salì l'angoscia degli uomini al comando. Alla fine Deng Xiaoping, la cui fantasia riformatrice non andava oltre i recinti dell’economia, ordinò all’esercito di intervenire senza pietà. Ancora oggi le cifre del massacro sono ignote, mille morti secondo Amnesty International.
Da molti anni a questa parte Maya Wang, che lavora per la sezione di Hong Kong dell’associazione Human Rights Watch, non aveva visto «un intervento così duro e intenso» da parte delle autorità per fermare in anticipo qualunque tentativo di commemorare quei tragici avvenimenti. I giornalisti stranieri sono stati convocati dalla polizia e ammoniti a stare alla larga dalla famosa piazza, l’associazione stampa estera denuncia atti intimidatori. I membri di una troupe televisiva francese che cercavano di parlare con i passanti sulla Tian An Men sono stati sottoposti a un interrogatorio di sei ore. Arrestato Guo Jian, artista australiano di origini cinesi, che ha dedicato all’ecatombe del 4 giugno 1989 una scultura allusivamente fatta con carne di porco.
Molte decine i dissidenti finiti agli arresti, fra loro anche gli organizzatori di un seminario dedicato alla Primavera cinese. Benché fosse la riunione privata di un piccolo gruppo di persone in una casa di Pechino, la polizia ha accusato i partecipanti di «disturbo alla quiete pubblica». Tutti in attesa di processo: Hao Jian docente all’Accademia di cinema della capitale, Xu Youyu, filosofo, Pu Zhiqiang, avvocato. C’è chi è finito in galera per molto meno. Si chiama Liu Wei, giovane operaio di Chongqing. Di passaggio a Pechino, ha pensato bene di mettere in rete un «selfie» che lo ritrae con le dita alzate nel segno di vittoria sullo sfondo dei monumenti di Tian An Men. Lo fanno molti turisti. Fatto dal povero Liu Wei sapeva evidentemente di sovversione.
L’impressione degli osservatori è che tanta rigidità da parte del potere derivi dal timore che le tensioni sociali siano arrivate a un livello pericoloso. Secondo alcuni il presidente Xi Jinping, che pure ha legato il suo nome da un lato a progetti di sviluppo e liberalizzazione economica, dall’altro a una lotta senza quartiere alla corruzione, soffre della sindrome di Gorbaciov. Teme che qualunque spiraglio di libertà politica spalanchi la porta a un vento di cambiamento inarrestabile sino al rovesciamento del regime. Il sinologo americano Perry Link era «agnostico » circa le vere intenzioni di Xi Jinping. Ma il modo in cui è stata affrontata la lunga vigilia di Tian An Men lo induce ora a pensare che Xi «se potesse governerebbe con la stessa durezza di Mao».
Eppure, proprio nel momento in cui la stretta del potere si fa più soffocante, sembra aumentare la voglia di libertà. Sorprendono piacevolmente i risultati dell’inchiesta svolta da un ricercatore cinese dell’università di Shantou fra gli studenti di giornalismo di otto diverse università cinesi. Protetti dall’anonimato 120 hanno risposto a un questionario inviato loro on line. I dati non sono ancora stati diffusi nella loro interezza, ma l’aspetto che colpisce è la generale ostilità alla censura, la sfiducia nella credibilità dei media ufficiali, e l’opposizione alla regola secondo cui i giornalisti debbano appartenere al partito comunista.

Repubblica 4.6.14
4 giugno 1989, il giorno che cambiò il mondo
di Timothy Garton Ash


IL4 giugno di 25 anni fa il mondo cambiò rotta. Era il 1989: le elezioni semilibere in Polonia diedero avvio alla fine del comunismo in tutto il blocco sovietico e il massacro di Piazza Tienanmen portò la Cina comunista su una traiettoria completamente diversa. Le conseguenze si manifestano a tutt’oggi, dall’Ucraina al Mar cinese meridionale.
Non dimenticherò mai quel pomeriggio. Ero nella redazione di un quotidiano di Varsavia circondato da amici polacchi entusiasmati dalla prospettiva di un trionfo storico e all’improvviso in tv apparvero le prime immagini sgranate dei corpi degli studenti e degli operai cinesi trasportati su barelle improvvisate per le strade di Pechino. Da quel giorno in poi il fantasma di Tienanmen ha perseguitato l’Europa dell’Est. «Ricordatevi di Tienanmen!» si sussurrava da Sofia a Berlino Est. «Se andiamo troppo oltre potrebbe accadere anche qui». E avevano ragione. A Lipsia, in Germania Est, ad esempio, si arrivò a un passo dalla repressione violenta.
IN questo senso la tragedia cinese fu una manna per l’Europa. L’esempio negativo di Tienanmen aiutò gli europei a restare sulla via della non violenza, del negoziato e del compromesso.
In seguito si manifestò un’inversione di tendenza. I leader della Cina comunista trassero sistematicamente insegnamento dal crollo del comunismo in Europa. Così si espresse nel 2004 uno dei massimi leader cinesi in un discorso politico chiave: «Traiamo profonda ispirazione dalla dolorosa lezione della perdita di potere da parte dei partiti comunisti dell’Unione sovietica e dell’Europa dell’Est». Le parole d’ordine quindi furono: produrre crescita economica, non perdere il contatto con l’opinione delle masse, introdurre una rotazione regolare dei vertici governativi, arruolare nelle fila del partito comunista gli studenti più brillanti, energici e ambiziosi senza pregiudizi di classe. E soffocare spietatamente qualunque iniziativa volta all’autorganizzazione sociale e all’azione collettiva, perché queste furono le cause della rovina dei compagni europei. Il presidente Xi Jinping ha a sua volta ricordato in pubblico il crollo sovietico.
Entrambe le vie hanno prodotto notevoli successi nell’ultimo quarto di secolo. La Cina ha vissuto una crescita economica di livello stellare e un progresso notevolissimo nell’ambito delle libertà individuali. La televisione di Stato cinese ama mostrare le immagini del bagno di sangue e del caos in Ucraina. Il messaggio, non così implicito, è: “siate grati che da noi non si sia seguita la via della rivoluzione di velluto ispirata dagli americani. Guardate a cosa porta”. Meno spesso vanno in onda le immagini della Polonia libera, prospera e democratica.
Esiste un’altra interessante differenza. Il 4 giugno 1989 la Polonia sperimentò un originalissimo nuovo modello di cambio di regime pacifico. Dopo il 1989, pur facendo bene, non ha fatto nulla di originale. Il sistema politico, economico e giuridico della Polonia di oggi è una sorta di mescolanza di modelli collaudati esistenti nell’Europa dell’Ovest.
La Cina, invece, il 4 giugno 1989 fu tutt’altro che originale. Deng Xiaoping non fece altro che reiterare il tipico comportamento dei vertici comunisti confrontati con la sollevazione spontanea di uomini a donne anelanti alla libertà: sparare sulla folla. Dal 1989 in poi però la Cina è stata estremamente originale, combinando il dinamismo dell’economia di mercato con l’ininterrotto governo del partito unico. L’unica cosa che nessuno avrebbe mai immaginato 25 anni fa è il capitalismo leninista. Ecco perché trovo che la Cina oggi sia per uno studente di politica comparata il luogo più interessante della terra. Perché in politica è rarissimo trovare un esperimento realmente innovativo dal futuro totalmente incerto.
Nonostante Vladimir Putin ce la metta tutta per riportare indietro le lancette dell’orologio sono piuttosto sicuro di sapere cosa sarà la Polonia tra dieci anni: una democrazia liberale europea appartenente all’Occidente, sulla stessa barca della Francia e della Germania (sua nuova migliore amica). Ma la Cina? Continuerà nel suo itinerario improvvisato, senza mappe, “attraversando il fiume con i piedi sulle pietre”, secondo il famoso detto di Deng? Oppure le contraddizioni tra il sistema politico e sociale cinese e le crescenti tensioni a livello sociale condurranno a una nuova crisi? In questo ultimo caso la crisi sarà motore di una auspicabile riforma politica oppure porterà a un pericoloso nazionalismo diversivo — che si potrebbe manifestare con l’avventurismo militare nel Mar cinese meridionale? O quest’ultimo finirà per portare al primo, o a qualcosa di molto peggiore?
“Ritorneranno/a Tienanmen” scriveva il poeta James Fenton indignato a pochi giorni dal massacro. È possibile che le vittime siano in futuro glorificate come martiri ed eroi proprio sulla piazza della Pace Celeste? Se nei primi anni Ottanta aveste detto che prima della fine del decennio i leader della rivoluzione ungherese del 1956 avrebbero ricevuto sepoltura ufficiale con cerimoniale di Stato in Piazza degli Eroi a Budapest, nessuno vi avrebbe creduti. Ma è successo realmente qualche giorno dopo le storiche elezioni polacche.
Che lo stesso accada in Cina è possibile, ma al momento non sembra probabile. La Cina pare più propensa a continuare il suo peculiare percorso. Veniamo qui a un’ultima differenza rivelatrice. A Varsavia i polacchi celebrano fieri il loro 4 giugno, assieme al presidente Barack Obama. A Pechino le realtà fondamentali del 4 giugno cinese, le fotografie, i nomi stessi, persino i riti funebri delle madri in lutto, saranno soppressi, con fare orwelliano. C’è chi ancora ha paura del fantasma di Banco.
Personalmente spero e prego che la Cina trovi la via per un progresso pacifico sulla scia degli indubbi successi raggiunti dopo il 1989 e ponendo rimedio ai suoi altrettanto palesi insuccessi. Ma di una cosa sono certo: potremo dire con sicurezza che la Cina ha costruito un sistema stabile, seguendo una traiettoria completamente diversa rispetto all’Europa post-comunista solo quando sarà capace di confrontarsi serenamente e pubblicamente con il suo difficile passato. (Traduzione di Emilia Benghi)

Il Sole 4.6.14
1989-2014
A 25 anni da Tienanmen la rivoluzione può aspettare
di Rita Fatiguso


L'anniversario invisibile dei fatti di Tienanmen tenta di materializzarsi ogni 4 giugno ormai da 25 anni, da quando gli studenti cinesi tennero in scacco, insieme alla piazza più grande del mondo, un Paese intero e il suo gruppo dirigente.
Finirono come risucchiati in una bolla d'aria, lontani dagli occhi del mondo occidentale. Anniversario negato, perché non c'è niente da festeggiare, niente da ricordare, né immagini da mostrare. Di Tienanmen non si parla, non si scrive, le linee telefoniche in questi giorni hanno il passo lento, i pc girano a vuoto. Tutto diventa troppo difficile.
Le cronache raccontano che il caos durò qualche settimana, poi l'ordine fu drammaticamente ricostituito, una parte dei vertici al potere cadde come cadono pietre malferme in un muro destinato, però, a rimanere in piedi. Il partito comunista tenne e tiene ancora.
Dicono che all'altezza del quarto piano, sui palazzi della Janguomen ci siano ancora le tracce delle raffiche lanciate dai carri armati che presidiavano la strada verso l'aeroporto, l'idea dei soldati era quella di incutere timore e di stanare gli studenti che si erano rifugiati in spazi extraterritoriali. Ancora oggi il numero delle vittime è ignoto. La Cina ne uscì determinata a non ripetere mai più quel copione. Scattò un'enorme rimozione collettiva.
Cosa resta di tutto ciò un quarto di secolo dopo, nei ricordi e nelle vite quotidiane degli abitanti di Pechino, di quei giorni caldissimi e disperati, è un vero mistero. Invisibile com'è, non c'è ricorrenza più evanescente.
Nelle stanze degli studenti di oggi certamente non c'è il poster dell'omino in camicia bianca che sbarra il passo, nell'enorme piazza, ai cingolati. Quell'immagine in Cina non sarà mai un gadget, niente a che vedere con la foto di Che Guevara, eroe ridotto a icona, o con la kefiah palestinese messa intorno al collo. Nelle stanze cinesi solo immagini di divi delle soap opera coreane e di manga giapponesi o poco più.
Chi oggi ha 25 anni ed è nato ai tempi dei coetanei che, come in tutte le rivoluzioni che si rispettino, nel 1989 pensavano di cambiare la Cina, di quei fatti non serba memoria alcuna. Troppo giovani per ricordare il Grande Timoniere, il chairman Mao, quello sì stampato sulla t-shirt, questi giovani sono intenti a frequentare ossessivamente ben altre piazze. Pc, telefonino, smartphone, kindle, tutto va bene.
La piazza è diventata virtuale ed è in quell'agorà telematica tanto cara ai cinesi, la più affollata al mondo, che si naviga non solo per comprare rossetti e device e scarpe grazie a negozi come Taobao e Tmall ma anche per scambiarsi punti di vista e interloquire su tutto.
Nei meandri di wechat, l'instant messaging di Tencent, si nasconde il pericolo più grande, migliaia di siti ufficiali, si parla di due milioni, sono stati clonati o gli account sono finti, in molti casi è lì che si può annidare il germe della protesta, nelle chat di gruppo nate sui social network. Il Governo ha appena messo le mani avanti, è intervenuto smentendo la notizia che molti account sarebbero stati sottoposti a controlli e limitazioni. Diventa difficile, se non impossibile, mantenere il controllo di oltre 300 milioni di account che permettono di caricare e spedire foto o messaggi verbali in qualsiasi momento e frangente della vita. Queste piazze ormai impegnano migliaia e migliaia di controllori attivi full time.
A pochi giorni dall'anniversario di piazza Tienanmen ciclicamente la tensione sale. Si legge di arresti, anche quest'anno l'assistente cinese di un report giapponese sarebbe stata sottoposta a controlli per un'intervista a un esperto di diritti umani. Ma cosa volete che ne sappia di Tienanmen un venticinquenne figlio unico con lavoro garantito al quale i genitori hanno appena trovato moglie e a prezzo di mille sacrifici forse anche una casa pur di assicurarsi un sostegno alla vecchiaia? C'è da arredarla, la casa, bisogna comprar la macchina, viaggiare, consumare. La rivoluzione può aspettare.

il  manifesto 4.6.14
Quel 35 maggio a Tiananmen
di Simone Pieranni


Cina. Nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989 l’Esercito Popolare sgomberava la piazza simbolo di Pechino, occupata dagli studenti in protesta. Fu un massacro che ancora oggi il governo prova a nascondere
Nella notte tra il 3 e il 4 giu­gno 1989 i tank dell’esercito popo­lare pro­ce­de­vano a obbe­dire all’ordine giunto dal Par­tito: la piazza Tia­nan­men, con gli stu­denti da giorni accam­pati in segno di pro­te­sta, andava sgom­be­rata. Ope­ra­zione effet­tuata e riu­scita. Alle 6 del mat­tino la piazza era stata «libe­rata». L’alba del 4 giu­gno era pronta ad acco­gliere una Cina diversa, ferita a tal punto in pro­fon­dità, da dimen­ti­care l’origine di tutto. Il patto di Deng Xiao­ping avrebbe trion­fato, aprendo un’epoca nuova: diven­te­rete ric­chi, ma non vi occu­pe­rete mai più di poli­tica. #64, come il 4 giu­gno, #25Tam, come i ven­ti­cin­que anni da Tia­nan­men e #35maggio l’hashtag e l’espressione coniata dallo scrit­tore Yu Hua e usata oggi da molti altri cinesi, per ricor­dare quel 4 giu­gno senza essere bloc­cati dalla cen­sura della rete cinese.
Il Grande Firewall – il blocco che tra­sforma l’internet cinese in una grande intra­net locale — nei giorni che pre­ce­dono quella data si arma di atten­zione cer­to­sina; senza tre­mare, le mani di migliaia di cen­sori bloc­cano qual­siasi con­te­nuto che si possa con­si­de­rare «sen­si­tive», sba­gliato, inac­cet­ta­bile, impos­si­bile da essere dif­fuso. Figu­rarsi nella vita vera.
Nel 2009 a Wuhan, durante un pranzo che pre­ce­deva una lezione sul gior­na­li­smo indi­pen­dente (si par­lava di Indy­me­dia, in Cina), al tavolo con alcuni stu­denti, venne fuori quella data. Le parole si fecero più sospi­rate, sguardi anda­vano a destra e a sini­stra, ad assi­cu­rarsi di non essere ascol­tati. Si chiama oblio, amne­sia di massa, e più sem­pli­ce­mente, paura. Ancora oggi, non è tanto peri­co­loso, quanto sospetto, par­lare di quella data in pub­blico. Alcuni anni prima, a Shan­ghai, il 4 giu­gno, nel cor­ri­doio di un edi­fi­cio che ospi­tava studi di web desi­gner, Liu par­lava, fino a quando non fece notare lo strano silen­zio. Di solito que­gli androni, i cor­ri­doi, le scale e pic­coli magaz­zini erano rumo­rosi. «Oggi è una gior­nata par­ti­co­lare», disse, «è il 4 giugno».
Tutti sanno, tutti ricor­dano, almeno chi ha una certa età. Molti c’erano; se non fosse suc­cesso in Cina, ci sareb­bero le stesse mec­ca­ni­che della memo­ria col­let­tiva dell’omicidio Ken­nedy, del rapi­mento Moro. O c’eri o ricordi per­fet­ta­mente dov’eri e cosa facevi, quando la noti­zia si è dif­fusa. I gio­vani in Cina, quelli nati dagli anni 80 in poi, igno­rano quanto suc­cesso. Sui libri di scuola l’89 viene cata­lo­gato come un anno dif­fi­cile da un punto di vista eco­no­mico, ma non esi­ste alcuna uffi­cia­liz­za­zione di quanto accadde. Si parla di infla­zione, di gene­ri­che que­stioni legate allo sviluppo.
Per altro, al di là del gesto repres­sivo di un Par­tito che si trovò a com­piere la scelta più orrenda, man­dare il popolo armato con­tro il popolo in pro­te­sta, non si cono­scono ancora oggi né l’esatto numero delle vit­time (300 per il governo, 3mila per i fami­liari delle vit­time), né quanto suc­cesso all’interno delle stanze del potere del par­tito. Ci furono sicu­ra­mente oppo­si­zioni, come testi­mo­niato dalle recenti rive­la­zioni di un mili­tare pub­bli­cate dal New York Times, ma tutto venne infine coperto non tanto dall’oblio che agli eventi ha riser­vato il Pcc, quanto dal benes­sero che dagli anni 90 ha per­meato la Cina, finendo per lasciare a chi ha perso un figlio, una figlia, una moglie, un marito, il com­pito di ricor­dare quelle giornate.
I prin­ci­pali pro­ta­go­ni­sti di allora si sono rifatti una vita, dopo fughe epi­che, nasco­sti in camion, tra­sci­nati per il paese, pro­tetti da com­plici, fino al luogo di sal­vezza sognato, Hong Kong e Tai­wan, e poi la meta finale, gli Usa. Chai Ling, ad esem­pio, la ragazza sim­bolo di Tia­nan­men, poi accu­sata dai suoi com­pa­gni di aver spinto al mas­simo la pro­te­sta, vive negli Stati uniti, si è con­ver­tita al cri­stia­ne­simo e ha detto di aver per­do­nato i car­ne­fici dell’89 (sul suo blog sull’Huffington Post, per­ché gli «ex lea­der della pro­te­sta cinese» negli Usa tirano ancora).
Non la pensa così Wang Dan, altro fug­gi­tivo, ricer­cato numero uno dalla mat­tina del 4 giu­gno. Il suo iden­ti­kit reci­tava: «24 anni, stu­dente di Sto­ria, 1 metro e 73 di altezza, mento pro­nun­ciato, capi­glia­tura poco folta, abra­sioni den­ta­rie agli inci­sivi». Wang Dan ha rispo­sto a brutto muso alla sua ex com­pa­gna: lui non per­dona. Chissà cosa pensa invece Li Lu, altro capo popolo di allora, e oggi con­si­de­rato (negli Sta­tes) l’erede di War­ren Buf­fet. Stu­denti, intel­let­tuali: Liu Xiaobo non è andato via, è rima­sto in Cina, ha vinto un Nobel, in carcere.
A Pechino non è molto noto, ma è uno dei pochi intel­let­tuali che ha pagato, anche a scop­pio ritar­dato: arre­stato dopo aver pub­bli­cato Charta08, poco prima delle Olim­piadi. Chie­deva demo­cra­zia e fede­ra­li­smo, che per il governo signi­fi­cava ten­tare una vera e pro­pria «sov­ver­sione di Stato».
Chi è in car­cere, ancora oggi, e viene con­si­de­rato l’ultimo pri­gio­niero di Tia­nan­men è un ope­raio. Ne ha dato noti­zia il Wall Street Jour­nal, attra­verso le parole di un mem­bro di una ong che si occupa di quelle gior­nate. Basti ricor­dare che prima di Tia­nan­men, ci furono molte pro­te­ste ope­raie e poi — e que­sta è una delle colpe che si attri­bui­sce ai lea­der stu­den­te­schi — mancò l’aggancio vero, quello che avrebbe fatto sal­tare il banco, ovvero una vera unione di intenti e obiet­tivi tra gli ope­rai e gli studenti.
Il fatto che «l’ultimo pri­gio­niero di Tia­nan­men» sia un lavo­ra­tore, però è un dato par­ti­co­lar­mente rile­vante, che sci­vola sui sen­tieri delle leg­gende popo­lari che in Cina ani­mano il ricordo di quelle gior­nate. Pro­pa­ganda e nazio­na­li­smo vuole vera que­sta sto­ria, ad esem­pio: i lea­der delle pro­te­ste stu­den­te­sche erano della Cia, furono spinti e pagati dagli Usa per bloc­care le riforme cinesi e spin­gerle più avanti.
Sarà un caso, dicono que­sti cinesi par­ti­co­lar­mente attenti a quanto ordina il Par­tito, che tutti gli stu­denti pro­ta­go­ni­sti della piazza sono scap­pati a Hong Kong e Tai­wan e poi infine negli Usa? È la ver­sione del Par­tito, que­sta, ma risulta con­di­visa, forse, dalla mag­gio­ranza dei cinesi. Insieme ad un’altra: l’89 è una fis­sa­zione degli occi­den­tali. Vagli a spie­gare che sulle nostre tele­vi­sioni, com­plice l’arrivo di Gor­ba­cev a Pechino e un’attenzione mon­diale su quella piazza, si pote­vano vedere e sen­tire le imma­gini di gio­vani cinesi che anda­vano con­tro il Par­tito comu­ni­sta can­tando l’Internazionale.
Come spie­gare a un cinese la con­trad­di­zione che que­sto sca­tena nell’animo di un lao­wai (uno stra­niero)? Per loro tutto è meno con­trad­dit­to­rio; la sto­ria cinese è fatta di sco­perte, grandi nome nella filo­so­fia, nella let­te­ra­tura, ma è anche con­trad­di­stinta da guerre, vio­lenze, con­flitti civili, spie­ta­tezza. I gior­na­li­sti chia­mano que­sto atteg­gia­mento «prag­ma­ti­smo». Ma oggi, dicono i cinesi, pos­siamo rinun­ciare al benes­sere, all’auto di lusso, alle vacanze, per ricor­dare quei giorni di caos e con­fu­sione? Per avere cosa in cambio?

La Stampa 4.6.14
Cina, un tetto all’inquinamento
Fino ad ora Pechino era sfuggita ai vincoli
Per la prima volta il governo fissa un limite alle emissioni di CO2
di Ilaria Maria Sala

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Corriere 4.6.14
Siria
In quel calvario il declino morale dell’Occidente
di Franco Venturini


La guerra civile in Siria dura da tre anni e con la discesa in campo dei jihadisti non si sa più chi siano i buoni e chi i cattivi. Da lì arrivano soltanto notizie di massacri, di torture, di donne e bambini uccisi come gli altri se non di più.
E poi arrivano i numeri, meno sicuri di prima perché l’Onu si è stufata di fare il conto: 162 mila morti, nove milioni di sfollati.. Lo scorso anno Obama stava per premere un grilletto poco impegnativo, ma poi non ha fatto nemmeno quello. Gli altri hanno smesso persino di agitarsi ai tavoli della diplomazia. Forse perché è meglio alzare le mani e guardare altrove, è meglio trasformare l’assuefazione in resa definitiva?
No, non è meglio. Il calvario della Siria è invece un segnale che supera la nostra vergogna repressa, e che fornisce una cruciale indicazione strategica: la terra dove accadono mattanze quotidiane, la terra dove Bashar al Assad sta avendo la sfrontatezza di farsi «rieleggere» tra cannonate e bombardamenti, è diventata lo specchio del declino dell’Occidente.
Sappiamo bene che riportare la pace in quel che resta della Siria è oggi «mission impossibile», soprattutto dopo aver perso mesi e anni senza muovere un dito. Nei suoi confini si combatte un conflitto tra musulmani sunniti e musulmani sciiti che coinvolge gran parte del mondo arabo, che ha radici profonde nel Golfo ed è esploso anche in Iraq mentre cova nel Libano. Non stupisce che l’alauita Assad (della famiglia sciita) venga appoggiato dall’Iran, dagli Hezbollah libanesi e da una parte degli iracheni, mentre i sunniti aiutano la resistenza. Ma una terza variabile ha reso se possibile più complicata l’equazione: i jihadisti e qaedisti prima hanno infiltrato i rivoltosi, poi sono diventati i più forti tra loro. E oggi accolgono gli europei in cerca di emozioni forti, addestrano al terrorismo individui come Mehdi Nemmouche, il probabile autore dell’attacco al Museo ebraico di Bruxelles. Niente forniture di armi sofisticate agli oppositori, dunque, perché potrebbero finire in mano ai cattivi. Le armi chimiche, quelle, c’erano già prima della guerra e probabilmente sono state usate da entrambi gli schieramenti (ora Assad se ne disfa con calcolata lentezza). E così, poco a poco, le forze governative avanzano, schiacciano, bruciano, piantano la bandiera sulle rovine di Homs e distruggono Aleppo con i «barili esplosivi» lanciati dal cielo.
Il rompicapo è davvero tale. Ma per quanto complicata e carica di insidie, la sfida è lanciata: può l’Occidente lasciare che la strage continui indisturbata per chi sa quanto tempo ancora? Non è forse vero che oltre alla intollerabilità umanitaria di quanto accade in Siria in gioco ci sia anche un formidabile logoramento della credibilità, dell’influenza degli Stati Uniti e dei loro alleati, vale a dire dell’Occidente? Qui non si parla nemmeno di guerre sbagliate (l’Iraq, a mio parere) o di guerre non vinte (l’Afghanistan, a mio parere). Qui siamo al cospetto della più grave, della più imperdonabile delle colpe: un’assenza che gronda sangue.
Nella sua campagna più interna che internazionale per rispondere alle accuse di debolezza, Barack Obama, oltre a mostrare i muscoli in Ucraina e dintorni, ha deciso di addestrare i ribelli siriani «moderati» e, indirettamente, di armarli un po’ meglio. Supponendo che i «moderati» possano essere individuati con certezza, Assad e i jihadisti (nemici tra loro e nemici dei «moderati») dovrebbero forse avere paura?
Piuttosto, è giusto riconoscere che grande è stata in questi anni l’influenza delle opinioni pubbliche e della loro stanchezza di guerre. Non è forse per questo che Obama, pur vedendo superata la sua «linea rossa» sulle armi chimiche, non colpì Assad lo scorso autunno, si rifugiò in una paradossale richiesta di parere al Congresso e consentì così a Putin di ridimensionarlo davanti al mondo? Le opinioni pubbliche è giusto tenerle in conto. L’Occidente è anche, è soprattutto questo: democrazia. Anche quando la Camera dei Comuni dice no. Anche quando Parigi pensa sì, ma per farlo evita di ascoltare il parere dell’Assemblée. E trovo sacrosanta la dottrina Obama che nasce dalla pesante eredità di Bush, e che si affida alla guerra soltanto in ultima istanza. Ma esiste anche un principio, stabilito dall’Onu, che si chiama «Responsibility to Protect», responsabilità di proteggere. Cosa ne è rimasto in Siria, dopo tre anni di carneficine? Non è anche questo un ideale, come quelli che identificano nella guerra il male supremo?
Non è immaginabile, beninteso, un intervento militare in Siria che infiammerebbe tutta la regione. Ma credo che le opinioni pubbliche occidentali capirebbero, ancora oggi, misure più efficaci delle gesticolazioni che abbiamo visto sin qui. Una no-fly zone opportunamente circoscritta (non come quella applicata alla Libia) e abbinata alla creazione di corridoi umanitari, per dirne una. Assad e jihadisti si opporrebbero, la Russia che tiene al porto di Tartus quasi quanto a quello di Sebastopoli bloccherebbe il Consiglio di sicurezza? L’Occidente si è già trovato nei Balcani in una simile contingenza, e sa come affrontarla. Difficile, difficilissimo. Ma c’è una sola cosa che l’Occidente non può continuare a fare se non vuole finire di screditarsi: niente.


Repubblica 4.6.14
“Wiesel presidente”. E Israele insorge
Il premier proponeva il Nobel, ma ha incassato solo no “È uno straniero”
di F. S.


GERUSALEMME . Due sconfitte, due uppercut in grado di atterrare il più navigato dei politici, segnano sul barometro israeliano la rapida discesa di Benjamin Netanyahu. “King Bibi” lo aveva ribattezzato Time lodandone il trasformismo politico, ma adesso, prima con la disfatta sulla corsa alla presidenza e poi con il governo Fatah-Hamas addirittura appoggiato dagli americani, la sua l’immagine è molto appannata. Paradossalmente è più la prima sconfitta a pesare sul premier che non la seconda. Perché nella storia bizzarra e ricca di eventi alla “House of cards” di questa elezione del 10° presidente di Israele, il premier ha un ruolo da protagonista, con le sue tresche, i suoi tranelli, la sua sfacciata e inutile opera di lobbyng per candidare il premio Nobel Elie Wiesel alla successione del presidente Shimon Peres che termina il suo settennato e passerà la mano in luglio.
La saga inizia un paio di mesi fa quando dopo aver attentamente osservato il panorama delle possibili candidature alla presidenza, e non avendo trovato nessuno di suo gradimento, Netanyahu inizia a far circolare la possibilità che Peres possa estendere di 6 mesi il suo mandato in attesa di una nuova legge per stabilire nuove competenze per la prima carica dello Stato. Un’idea che nell’ordine è stata bocciata da Peres, dal suo partito, dall’opposizione, dalla società civile. Ma Netanyahu era pronto a qualunque cosa pur di scongiurare la quasi certa elezione — fra i sei candidati ufficiali — di Reuven Rivlin, l’ex presidente del Parlamento e dirigente del Likud, verso il quale la “royal family” d’Israele nutre un’avversione che sfiora l’ossessione. Netanyahu ha cercato in ogni modo di trovare un altro nome da sostenere (dopo i no o i ritiri di Shalom, Levy, Eldestein, Sharansky) per arrivare poche ore prima della scadenza dei termini a telefonare a New York a Wiesel per proporgli la presidenza. Un candidato a cui nessuno avrebbe azzardato ad opporsi.
Ma non aveva fatto i conti con la lucidità del pensiero dell’ottantaseienne premio Nobel per la Letteratura che, sordo ad ogni pressione, lusinga e bugia politica di Netanyahu, ha detto chiaramente il suo «no». «Non riuscendo ad ottenere le risposte che voleva», ha raccontato Elie Wiesel a Naum Barnea di Yedioth Aaronot, «ha iniziato a fare pressioni pesanti attraverso amici comuni, ma io so come farvi fronte. E alla fine gli ho detto, non fa per me: io scrivo libri. Non sono tagliato per questo».
I giornali continuano a mantenere alta l’attenzione sul caso, soprattutto perché nelle tre conversazioni Netanyahu approfitta della buona fede di Wiesel al quale dice di «avere un ampio consenso», «è tutto organizzato, deve solo dire sì».
Quando invece l’idea non aveva mai varcato la porta del suo ufficio. Tutti i commentatori dei giornali hanno mandato un silenzioso ringraziamento al Premio Nobel per il suo “no”.
Elie Wiesel è uno degli ebrei più importanti e autorevoli nel mondo, ma oltre a non essere cittadino israeliano, non ha mai vissuto in Israele, si è occupato solo di libri e letteratura per tutta la sua vita. «Che immagine avremmo dato di noi eleggendo come presidente un ebreo americano di origini rumene?», ha scritto Haaretz, «Avremmo inviato il messaggio che Israele dopo 66 anni di vita e storia non era in grado di scegliere uno tra i suoi cittadini per rappresentarlo nel mondo».

Repubblica 4.6.14
Il riscatto in un gol
Un ex guerrigliero porta la Palestina al trionfo nel pallone
di Fabio Scuto



RAMALLAH. CERCARE qualche commento o valutazione sul nuovo governo di riconciliazione palestinese fra Fatah e Hamas appena varato dal presidente Abu Mazen può essere un esercizio difficile. Perché nei caffè, nei ristoranti e negli uffici della “capitale provvisoria” dei palestinesi si parla ancora solo della “madre di tutte le partite”. Quella di venerdì contro le Filippine con la vittoria che ha dato alla nazionale della Palestina il miglior risultato di sempre: la qualificazione alle fasi finali dell’Asia Cup che si giocherà in Australia il prossimo gennaio.
In mano la tazza del caffè e l’immancabile sigaretta, tutti mimano con la mano libera la mirabile traiettoria che su calcio di punizione Ashraf Alfawaghra, al 59°, ha disegnato col pallone beffando fatalmente il portiere delle Filippine. «Uno così dovremmo farlo presidente», azzarda Saeb sulla porta del Bar 24-Ore, nell’esagerazione classica del tifoso soddisfatto. L’altra notte erano in migliaia a seguire la diretta via satellite da Malè (Maldive) sul maxischermo montato a Piazza Arafat; nei ristoranti, nei pub e nei caffè muniti di tv non c’era un solo posto libero. Al fischio finale la piazza è letteralmente esplosa in urla di giubilo, fuochi d’artificio hanno rischiarato la notte stellata, si è cantato e ballato, caroselli di auto per le strade hanno tenuto sveglia la città. E nella festa anche l’alcol, nella laica Ramallah, è andato via in gran quantità, nelle case, come nei ristoranti e nelle discoteche.
Il calcio palestinese fra mille, inimmaginabili, difficoltà in questi anni è molto cresciuto sul piano tecnico. Ma giocare al calcio in una terra sotto occupazione militare non è facile e non è semplice, bisogna crederci. Ci vuole motivazione, impegno, passione e molta pazienza. Gli spostamenti per le trasferte o gli allenamenti possono diventare un calvario di check-point, controlli, fermo di sicurezza. Sono continue le proteste alla Fifa, perché spesso i giocatori della Lega della Cisgiordania non ottengono il permesso delle autorità israeliane per spostarsi da una città all’altra, altre volte non è stato permesso di espatriare ai calciatori della nazionale, con la partita persa a tavolino. Per esempio Khaled Mahdi, mezzapunta nativo di Gaza, non torna a casa da 4 anni: ha paura che una volta entrato nella Striscia gli israeliani non lo facciano più uscire. Queste “consuetudini” ha spinto il presidente della Federcalcio palestinese a chiedere all’ultimo vertice ad Amman l’espulsione di Israele dalla Fifa per «mancanza di etica sportiva».
In Palestina il calcio è molto più di uno sport, è il modo per dimostrare di esistere, ripete sempre con convinzione il presidente Abu Mazen. È lo strumento di un riscatto cercato per anni con le armi in pugno. «La nostra è una missione per costruire una nazione indipendente», aveva detto a Repubblica Sami Hadrah, che il “mister” Jamal Mahmoud fa giocare “alla De Rossi” davanti alla difesa. Toni e sentimenti sono quelli dell’uomo medio palestinese: rinascita sportiva e rinascita politica, identità e senso di appartenenza. La mente di questo riscatto sportivo è un uomo improbabile, dalla faccia seria e i modi bruschi. Jibril Rajub ha passato 17 anni nelle carceri israeliane prima di diventare capo della Sicurezza preventiva ai tempi di Arafat. Adesso il suo nome circola fra coloro che potrebbero correre per la presidenza dell’Anp dopo Abu Mazen. Lui ha lasciato la politica nel 2006 quando venne nominato capo della Federcalcio palestinese prima e presidente del Comitato Olimpico poi. Infaticabile, nel suo modesto ufficio di Ramallah dove è perennemente al telefono, è diventato il miglior ambasciatore che lo sport palestinese potesse avere. L’ex guerrigliero convertito alla non violenza adesso dice che «la lotta non violenta è certamente la più produttiva e proficua per la causa palestinese, e lo sport è uno dei mezzi migliori per raggiungere le nostre aspirazioni nazionali».

Corriere 4.6.14
Giura il governo
L’Unità palestinese può farcela  se le parti rinunciano alla violenza
Abu Mazen deve riuscire a muoversi con cautela tra le minacce di Netanyahu e le dichiarazioni dei leader di Hamas
di Davide Frattini

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il manifesto 4.6.14
Governo palestinese, Netanyahu condanna gli Usa

Israele/Territori Occupati. Il premier e i ministri israeliani puntano l'indice contro Washington che lunedì si è detta pronta a collaborare con l'esecutivo nato dalla riconciliazione Fatah-Hamas. Soddisfazione in casa palestinese per la presa di posizione americanadi Michele Giorgio

GERUSALEMME
Come Beppe Grillo anche Benya­min Neta­nyahu ha dovuto ingur­gi­tare una pasti­glia di Maa­lox per spe­gnere il bru­ciore di sto­maco che lo ha col­pito lunedì sera quando la sem­pre ben pet­ti­nata por­ta­voce del Dipar­ti­mento di stato Usa, Jen­ni­fer Psaki, ha annun­ciato che «Alla luce di ciò che sap­piamo, lavo­re­remo con que­sto governo pale­sti­nese». Il pre­mier israe­liano piut­to­sto avrebbe dovuto usare del ghiac­cio per la sua guan­cia rossa e gon­fia. Per­chè l’altra sera ha rice­vuto dall’Amministrazione ame­ri­cana una bella sberla. Washing­ton si è alli­neata alla posi­zione dell’Europa e vede il nuovo ese­cu­tivo pale­sti­nese per quello che è: un governo tec­nico appog­giato dall’esterno da varie forze poli­ti­che, a comin­ciare dai movi­menti Fatah e Hamas che si sono ricon­ci­liati. E lo ha fatto dopo che il Segre­ta­rio di stato John Kerry, forse per smar­carsi da una deci­sione presa dallo stesso Barack Obama, aveva dichia­rato che gli Usa riten­gono «appro­priata» la rea­zione di Israele alla ricon­ci­lia­zione tra pale­sti­nesi e sono pre­oc­cu­pati per il coin­vol­gi­mento di Hamas.
Neta­nyahu non ha alcuna inten­zione di por­gere l’altra guan­cia. Ieri il pre­mier e buona parte del governo hanno lan­ciato il con­trat­tacco accu­sando l’Amministrazione ame­ri­cana di «inge­nuità». Un’azione corale che ha avuto la sua punta più avan­zata nel primo mini­stro. «Sono pro­fon­da­mente tur­bato dall’annuncio che gli Usa lavo­re­ranno con il governo pale­sti­nese appog­giato da Hamas che ha ucciso innu­me­re­voli civili israe­liani», ha com­men­tato il primo mini­stro. Poco dopo Neta­nyahu ha rin­ca­rato la dose durante un col­lo­quio tele­fo­nico con Fran­cois Hol­lande. Dopo aver rin­gra­ziato il pre­si­dente fran­cese per l’arresto del sospet­tato per il recente atten­tato di Bru­xel­les, ha pro­cla­mato che «L’unità pale­sti­nese con l’appoggio di Hamas è un passo con­tro la pace e a favore del ter­ro­ri­smo. Sarebbe uno sba­glio dar­gli la legit­ti­ma­zione». Pesanti i com­menti di altri espo­nenti del governo. Per il mini­stro delle comu­ni­ca­zioni Gilad Erdan «l’ingenuità ame­ri­cana ha supe­rato tutti i record». Per il suo col­lega della sicu­rezza nazio­nale, Yuval Ste­nitz, gli alleati sta­tu­ni­tensi hanno due voci: «Non potete pre­sen­tarlo pri­va­ta­mente come un governo di Hamas per poi dire pub­bli­ca­mente che è for­mato da tecnici».
Il noto ana­li­sta poli­tico Oded Eran da parte invita alla calma. «Non si tratta di una frat­tura (tra Israele e Stati Uniti) ma di un disac­cordo – ha detto al mani­fe­sto – lo stesso accadde un po’ di anni fa quando Washing­ton decise di aprire un canale di comu­ni­ca­zione con l’Olp di Yas­ser Ara­fat con­tro il volere di Israele. Non è stato un attacco alle spalle. Il primo mini­stro sapeva delle inten­zioni ame­ri­cane». In ogni caso la bat­ta­glia ora si spo­sta negli Stati Uniti dove il governo Neta­nyahu spera che il Con­gresso, più filo israe­liano della stessa Knes­set, ora gio­chi qual­che brutto scherzo ad Obama, magari bloc­cando i finan­zia­menti annuali per cen­ti­naia di milioni di dol­lari all’Anp che l’Amministrazione ha detto di voler con­ti­nuare anche con il nuovo governo palestinese.
Il capo­ne­go­zia­tore pale­sti­nese Saeb Ere­kat ieri non stava nella pelle. Iro­niz­zava sul pre­mier israe­liano. «Se Madre Teresa fosse il pre­si­dente pale­sti­nese, Tho­mas Jef­fer­son primo mini­stro e Mon­te­squieu pre­si­dente del par­la­mento pale­sti­nese, Neta­nyahu li accu­se­rebbe di non essere buoni part­ner per la pace», ha com­men­tato facendo sfog­gio di cul­tura poli­tica. E invece non è il caso di scher­zare per­chè i pale­sti­nesi non hanno ancora con­qui­stato nulla e non pos­sono ral­le­grarsi più di tanto per una occa­sio­nale presa di posi­zione degli Stati Uniti che non cam­bia nella sostanza la linea ame­ri­cana in Medio Oriente. Le aspi­ra­zioni pale­sti­nesi per­ciò restano al palo. A ricor­darlo è il 47esimo anni­ver­sa­rio dell’occupazione israe­liana di Cisgior­da­nia e Gaza che cade pro­prio in que­sti giorni. Ieri i sol­dati hanno ucciso un uomo nei pressi di Nablus (era armato secondo il por­ta­voce mili­tare), por­tando a oltre 60 il numero dei morti pale­sti­nesi in Cisgior­da­nia dallo scorso luglio, quando ripre­sero i col­lo­qui bila­te­rali mediati dagli Usa.
Le puni­zioni israe­liane si annun­ciano pesanti, a comin­ciare dalle misure per impe­dire la par­te­ci­pa­zioni dei can­di­dati di Hamas alle ele­zioni par­la­men­tari e pre­si­den­ziali pre­vi­ste entro sei mesi. L’ultranazionalista mini­stro dell’economia Naf­tali Ben­nett, con­ti­nua a lan­ciare appelli per l’annessione imme­diata a Israele dell’area C (il 60% della Cisgior­da­nia). Altret­tanto dure saranno le san­zioni eco­no­mi­che, a comin­ciare dal blocco dei fondi pale­sti­nesi (tasse e dazi doga­nali) per un ammon­tare di 100 milioni di dol­lari al mese. E il nuovo ese­cu­tivo di con­senso nazio­nale dovrà pen­sare anche a come coprire i buchi di bilan­cio del disciolto governo di Hamas a Gaza, giunto con le casse vuote all’appuntamento della ricon­ci­lia­zione e 50mila dipen­denti pub­blici e mili­ziani sulle spalle. Il Qatar si dice pronto coprire per qual­che mese il costo della “uni­fi­ca­zione ammi­ni­stra­tiva” ma non durerà per sempre.

La Stampa 4.6.14
Dalla Cisgiordania al Messico
Così il mondo riscopre i Muri
A 25 anni dalla fine della Guerra Fredda sono sempre di più le barriere erette per difesa o per frenare l’immigrazione clandestina. L’ultima al canale di Suez
di Francesca Paci

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Repubblica 4.6.14
Scrittura
La rivincita della penna, chi la usa ha più memoria
Utilizzare le mani aiuta la creatività e la lettura nei bambini, ma anche negli adulti
Così perde terreno il computer, troppo presente nelle scuole americane
di Maria Konnikova


NEW YORK. SCRIVERE a mano è importante? Non tanto, se dobbiamo dar retta a molti educatori. Gli standard Common Core, adottati nella maggior parte degli stati americani, prevedono l’insegnamento di una grafia leggibile, ma soltanto al kindergarten e in prima elementare. In seguito, l’importanza viene data soltanto all’efficienza che si acquisisce nell’uso della tastiera. Psicologi ed esperti di neuroscienze, però, affermano che è troppo presto per dichiarare che la scrittura manuale è superata.
Non soltanto, infatti, i bambini imparano a leggere più rapidamente non appena imparano a scrivere a mano, ma per di più se scrivono a mano restano maggiormente in grado di concepire idee e memorizzare informazioni. «Quando scriviamo, si attiva automaticamente un circuito neuronale particolare», spiega Stanislas Dehaene, psicologo presso il Collège de France a Parigi. «Nella parola scritta vi è un riconoscimento profondo del gesto, una sorta di riconoscimento che avviene tramite la simulazione mentale nel nostro cervello». La scrittura manuale nelle scuole pubbliche americane è stata pressocché eliminata, e questo potrebbe essere un male per le menti dei bambini.
Uno studio del 2012 effettuato sotto la guida di Karin James, psicologa presso l’Università dell’Indiana, avalla tale opinione: ad alcuni bambini che non avevano ancora imparato a leggere e scrivere sono state mostrate alcune lettere o figure su schede di archivio, ed è stato chiesto loro di riprodurle in un modo a loro scelta su tre disponibili, tracciandole su un foglio con un insieme di punti, disegnandole su un foglio bianco vuoto o scrivendole al computer. I bambini sono stati quindi sottoposti a scansione cerebrale e hanno rivisto la medesima scheda. I ricercatori hanno così scoperto che il processo di riproduzione iniziale aveva una grandissima importanza. Se i bambini tracciavano una data lettera a mano libera, evidenziavano un aumento dell’attività in tre aree cerebrali che negli adulti si attivano quando si legge e si scrive: la circonvoluzione fusiforme dell’emisfero sinistro, la circonvoluzione frontale inferiore e la corteccia parietale posteriore. Al contrario, questo effetto non si è presentato nei bambini che hanno scritto con una tastiera.
Karin James attribuisce le differenze alla difficoltà insita nella scrittura manuale libera: per scrivere non soltanto dobbiamo prima programmare e poi eseguire una data azione in un modo che non è richiesto quando si ha a disposizione un contorno da ricalcare o tracciare, ma oltretutto creeremo un risultato variabile. «Quando un bambino scrive una lettera in modo confuso» dice James, «ciò lo aiuta ad apprendere».
Sembra ormai evidente, inoltre, che possa esserci una differenza anche tra scrivere in stampatello e scrivere in corsivo, e si tratterebbe di una distinzione particolarmente importante, dato che sempre più spesso nelle scuole americane non si insegna più a scrivere in corsivo. Virginia Berninger si spinge a ipotizzare che la scrittura in corsivo potrebbe esercitare la capacità di autocontrollo con modalità non comuni ad altri tipi di scrittura, e alcuni ricercatori sostengono che questa potrebbe rappresentare una strada per trattare la dislessia.
Corsivo o no, i benefici della scrittura manuale si estendono ben oltre l’infanzia. Due psicologi, Pam A. Mueller di Princeton e Daniel M. Oppenheimer dell’Università della California a Los Angeles, hanno riferito che sia in laboratorio sia nelle classi vere e proprie gli studenti imparano meglio se prendono appunti a mano che non utilizzando una tastiera. Non tutti gli esperti sono convinti che i benefici a lungo termine della scrittura manuale siano significativi fino a questo punto, ma almeno uno di questi scettici, Paul Bloom, psicologo di Yale, dice che la nuova ricerca offre molto su cui riflettere. «Con la scrittura manuale l’atto stesso di mettere per iscritto qualcosa ti costringe a concentrarti su ciò che è veramente importante».
Copyright The New York Times. Traduzione di Anna Bissanti

Corriere 4.6.14
Una volta eravamo atleti: in 7 mila anni la civiltà ci ha modificati
Il passaggio da una società agropastorale a una iù complessa con meno lavori mauali
di Elisabetta Curzel

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Corriere 4.6.14
Cinque spiagge a ferro e fuoco per sconfiggere il Terzo Reich
di Paolo Rastelli e Antonio Carioti


Sarà in edicola con il «Corriere» da dopodomani, 6 giugno, il libro D-Day 6 giugno 1944. Storia e controstoria dello sbarco in Normandia , in vendita al prezzo di e 6,90 più il costo del quotidiano. È una raccolta di saggi, corredata da fotografie e cartine, nella quale storici e firme del «Corriere», approfondiscono i retroscena, le conseguenze e gli aspetti controversi del più grande sbarco della storia.
Il volume, oltre alla prefazione di Sergio Romano e all’introduzione di Ernesto Galli della Loggia, contiene contributi di Elena Aga Rossi, Giovanni Belardelli, Antonio Carioti, Marcello Flores, Marco Gervasoni, Leonardo Goni, Paolo Pezzino, Maurizio Porro, Paolo Rastelli.

Nel punto più largo misura 240 chilometri (la distanza tra Milano e Carrara passando per la Cisa) e in quello più stretto 34, un po’ meno di quanto separi Modena da Bologna. Ma per quattro anni, tra il 1940 e il 1944, il Canale della Manica sembrava largo migliaia di chilometri, tanto erano diversi i mondi che separava: da una parte la Gran Bretagna, l’ultima isola libera dal nazismo, dall’altra la costa francese e più in là il resto dell’Europa occupata dalle armate di Adolf Hitler. Nel 1940 i tedeschi avevano tentato di porre le basi per superare quel piccolo tratto di mare. Ma la Royal Air Force, l’aviazione inglese, glielo aveva impedito.
Il 6 giugno 1944, 70 anni fa, la Manica diventò l’autostrada che le immense forze angloamericane percorsero per sbarcare sulla costa francese e attaccare da Occidente la Germania, già duramente pressata dai sovietici all’Est. Sulla terraferma aspettavano 60 divisioni tedesche, tra cui le unità corazzate delle SS, alcune tra le più agguerrite truppe che la storia avesse mai visto. Come destinazione delle forze alleate, comandate dal generale americano Dwight Eisenhower, vennero scelte cinque spiagge della costa orientale della penisola del Cotentin e della Normandia: da ovest a est avevano i nomi in codice di Utah e Omaha (destinate alla 1ª armata Usa comandata da Omar Bradley) e di Gold, Juno e Sword (sulle quali dovevano prendere terra inglesi e canadesi della 2ª armata britannica del generale Miles Dempsey).
In tutto i primi sbarchi, sotto la guida del generale britannico Bernard Montgomery, dovevano essere eseguiti da 6 divisioni, mentre altre 31 aspettavano sulle navi o nei campi di addestramento inglesi per intervenire come rincalzo. Gli sbarchi dal mare furono preceduti dall’attacco di tre divisioni di paracadutisti, due americane sul fianco occidentale e una inglese a oriente: circa 4.000 C 47 Dakota, i cavalli da tiro dell’aviazione alleata, lanciarono migliaia di paracadutisti e sganciarono centinaia di alianti carichi di uomini, jeep, mortai e cannoni anticarro.
I tedeschi, guidati dai feldmarescialli Gerd von Rundstedt ed Erwin Rommel (e poi da Gunther von Kluge) si aspettavano lo sbarco al passo di Calais, il punto più stretto della Manica. Gli inglesi misero a punto un elaborato piano di mascheramento per rafforzare questa loro convinzione: fu creato un gruppo di armate inesistente messo agli ordini del generale George Patton, il più famoso tra i condottieri americani, con traffico radio, mezzi da sbarco, campi di addestramento situati nell’Inghilterra sud occidentale, pronti a balzare al di là dello stretto di Dover. Tutti falsi. I tedeschi ci cascarono in pieno: per settimane dopo il D-Day, mentre in Normandia la situazione si aggravava, Hitler si rifiutò di sottrarre forze allo schieramento di Calais.
Lo sbarco riuscì e solo sulla spiaggia Omaha la reazione tedesca mise in pericolo, per qualche ora, l’esito dell’operazione. Dopo il primo giorno, cominciò la gara per chi riusciva a portare più rinforzi al fronte, gli alleati attraverso la Manica, i tedeschi con la rete ferroviaria francese e le strade devastate dalle incursioni aeree. Gli alleati premevano in continuazione per allargare la testa di sbarco, aiutati nei loro sforzi da un’enorme potenza di fuoco (artiglieria terrestre e navale, bombardieri medi e pesanti come le Fortezze volanti B 17) e dalla superiorità quantitativa che compensava largamente lo svantaggio qualitativo di molte delle loro armi. Tra i carri armati, per esempio, non c’era confronto tra lo Sherman americano e il Tigre tedesco. Ma i Tigre presenti sul fronte normanno erano poche decine, mentre gli Sherman si contavano a centinaia.
L’esito finale era solo questione di tempo: il 25 luglio gli americani sfondarono a sud di Saint-Lô e dilagarono in Francia. Sotto l’energica guida di Patton invasero la Bretagna a ovest e poi corsero a rotta di collo verso est, fino a chiudere le forze nemiche nella grande sacca di Falaise. A fine agosto fu liberata Parigi, mentre alcune migliaia di tedeschi, dopo aver lasciato in Normandia 450 mila loro compagni tra morti, feriti e prigionieri, si ritiravano verso la Germania. La battaglia di Francia era finita.

Corriere 4.6.14
Fantasia e tecnologia Il volo temerario dell’ultimo Zeppelin
di Danilo Taino


La Storia, la tecnologia e anche la fantasia di noi europei finiscono spesso con il prendere la forma della Germania. È vano fingere che il colosso nel cuore geografico, politico, economico, culturale dell’Europa sia qualcosa che si può evitare: che si possa essere cittadini del Vecchio Continente senza misurarsi con esso. È che quando un racconto è ispirato a un pezzo di questo complicato Paese veniamo trascinati non solo in una cultura di modernità che razionalmente accettiamo o rifiutiamo: soprattutto, veniamo presi da una fascinazione che raggiunge il profondo, che provoca paura oppure ammirazione; e che a noi italiani induce uno stato di curiosa confusione.
Il romanzo appena pubblicato dal giornalista Alessandro Pasi, L’ultimo Zeppelin ( Bolis Edizioni, pp. 156, e 14) ha, tra gli altri, il pregio di mettere assieme il bello e l’orribile che la Germania è stata nella prima metà del secolo scorso: i sogni fatti volare come un dirigibile dalla tecnologia e i rumori del passo dell’oca. E di parlare dei tedeschi degli anni del nazismo come persone normali, con sentimenti lineari, che amano e tradiscono, sono generosi e crudeli come lo possono essere un italiano o un inglese. Racconta una storia che nasce da una speranza di apertura, di volo, distrutta dalle esigenze belliche del Terzo Reich ma che non muore nello spirito di tedeschi amanti della libertà.
L’epoca degli Zeppelin si chiuse nell’agosto del 1939, poche settimane prima dello scoppio della guerra. Il dirigibile LZ130 perlustrava le coste inglesi, probabilmente a scopo di spionaggio: dopo quel viaggio non avrebbe più volato, rinchiuso in un hangar dell’aeroporto di Francoforte al fianco di un cugino, il Graf Zeppelin. Nella primavera successiva, ambedue sarebbero stati demoliti. Hermann Goering li considerava — comprensibilmente — superati come mezzi di trasporto nei giorni in cui erano gli aerei a conquistare il dominio dei cieli, a maggior ragione all’inizio di una guerra senza quartiere. Pasi aggiunge un capitolo a questa realtà storica: scrive il suo romanzo immaginando che un gruppo di tedeschi, in testa coloro che lo Zeppelin avevano fatto funzionare e guidato, decidano di fuggire dalla Germania di Hitler verso la Gran Bretagna imbarcandosi proprio sull’LZ130 per un ultimo, glorioso viaggio in direzione della libertà.
La preparazione della fuga, le vicende amorose e famigliari dei protagonisti, la presenza angosciante delle SS occhiute e spietate, la sorte certe volte buona e certe volte cattiva: un intreccio di vite sullo sfondo di una Germania che è già conquistata dal nazismo — anche nei cervelli e nelle anime, ad esempio di un figlio che denuncia i genitori — ma dalla quale c’è ancora chi trova il coraggio di provare a fuggire. E poi il rapporto con l’Inghilterra, non solo la terra della democrazia e dei sigari di Winston Churchill ma anche la meta idealizzata, antipodo per molti versi anti-tedesco.
Un romanzo lineare, evocativo e anche punteggiato in forma più o meno esplicita dai temi che rendono, a chi non è tedesco, complessa e affascinante la Germania. Un Paese che molto ha provato a volare alto, molto è caduto in basso e continua a essere l’enigma straordinario della vecchia Europa.

l’Unità 4.6.14
Piketty? Viene dopo Ruffolo e Gallino
di Bruno Gravagnuolo


LA REPUBBLICA LANCIA LA MODA PIKETTY. Evviva. Ma non c’è niente di nuovo nelle tesi dell’ex consigliere di Hollande, autore del Il capitale nel XXI secolo, che è stato fatto oggetto di attacchi da parte del Wall Street Journal e del Financial Times. Addirittura Federico Rampini che lo ha lanciato con enfasi, lo fa diventare «il nemico pubblico che l’Internazionale liberista vuole abbattere». Ora capiamo l’eccitazione e il pentimento di Rampini. Passato dall’apologia delle magnifiche sorti e progressive della third way, alla denuncia del liberismo e dei suoi nefasti. Benvenuto a lui e benvenuto a Piketty.
Ma in definitiva cos’è che dice Piketty? Che c’è una parte della società che ha fatto «secessione». Invertendo, anzi capovolgendo dagli anni 80 in poi, il trend egualitario del welfare e delle politiche redistributive. Sicché si è arrivati a un blocco dello sviluppo in Occidente, per via di carenza di domanda associata a crescita abnorme ed esponenziale delle diseguaglianze. Dunque, carenza di domanda e svincolamento degli strumenti finanziari dalla produttività reale. Con predominio finale del «top management», capofila e controllore di fondi pensione, derivati, fondi comuni, pacchetti di azioni e scatole cinesi varie. Si chiama capitalismo monetario manageriale (definizione di Ruffolo). Ma non l’ha scoperto Piketty! L’aveva scoperto già Marx e poi dopo di lui Hiferding. E negli Usa più di recente Krugman e Stieglitz. Ma nelle sue forme più recenti lo hanno descritto e definito compiutamente gente come Luciano Gallino e Giorgio Ruffolo, in saggi analitici strepitosi, per non dire di Marco Revelli, Paolo Leon e tanti altri che han parlato del fenomeno, coi numeri e non solo.
Dunque francamente dov’è la novità? Nei calcoli e nelle statistiche di Piketty sugli squilibri di reddito comparati all’ascesa neoliberale? Benissimo. Ma perché chi arriva primo a pensarle e dirle certe cose non fa scalpore? Questione di marketing.

il Fatto 4.6.14
Montaigne è vivo e lotta insieme a noi
Il filosofo è al centro di un caso radiofonico-editoriale in Francia
Forse perché ha anticipato Freud di tre secoli
di Daniela Ranieri


Leggo Montaigne per dissipare un umore lunatico-malinconico e irritabile”, scriveva Nietzsche in una lettera. A giudicare dall’interesse suscitato da Antoine Compagnon, che ha commentato i Saggi in una radio francese (Adelphi ha pubblicato i testi della trasmissione del 2012, Un’estate con Montaigne), ancora oggi c’è sete di Montaigne. Gli si domanda conforto e consolazione; gli si chiede di divertirci col resoconto delle sue minuzie quotidiane, il ricordo di un morto scorticato, quello del sapore dei baci femminili sui baffi. Ma che c’entra Montaigne l’eccellente, l’ironico, con noi poveri dementi globalizzati? Cosa ha detto Compagnon alla folla dei bagnanti, tutti i giorni a mezzogiorno di un’estate di crisi?
LA CONTEMPORANEITÀ
dell’opera, scritta alla fine del ’500, è nel valore politico del suo stile: quella che Giorgio Colli definì la “superiore indulgenza verso i vortici variopinti dei pensieri umani” ha un effetto calmante sugli spiriti contro la verbosità fatua della cronaca politica, le chiacchiere autoreferenziali, il gossip che stordisce senza lenire. I Saggi parlano a un’epoca afflitta dal pathos e insieme patetica, in cui lo sgomento e la vertigine non toccano nessun abisso, ma si rivolgono all’interno, nel breve circuito tra i nostri appetiti e l’indisponibilità del mondo. È in questa frustrazione il motivo della loro attualità: se l’essere non si può attingere, ma solo il suo passaggio “di giorno in giorno, di minuto in minuto”, Montaigne si racconta non per offrirci apologhi edificanti o un prontuario di soluzioni salutifere, ma per cucire i frammenti contraddittori che lo costituiscono come individuo e ne fanno una specie di prototipo del nostro smarrimento . I Saggi non nacquero come un trattato: dimessosi a 38 anni dalla carica di consigliere del Parlamento di Bordeaux, Montaigne si ritirò nell’otium della torre di Bergerac, tra sentenze greche e latine che correvano sulle travi; ma invece di stare meglio, una volta libero dagli affanni fu preda di “mostri e chimere”, convulsioni mentali che provò a domare annotandole in un quaderno per pochi amici (con una dedica implicita alle lettrici donne per via della scelta del francese invece che del latino). Così la loro missione “clinica” si riverbera sull’universo dei suoi lettori.
L’atteggiamento più sano verso le supposte grandi verità, ci dice, è quello scettico; gli episodi minimi della vita sono i soli intelligibili, se paragonati ai grandi sistemi che onorano l’Essere e ignorano il divenire. Così la caduta di un dente è un’anticipazione innocua della morte e la vecchiaia una sottrazione progressiva a se stessi, affinché “l’ultima morte” (“un quarto d’ora di patimenti senza conseguenze né danno” che “non merita istruzioni particolari”) sia meno perentoria e funesta.
E DAL DENTE al pene - delle cui performance spesso si lamenta - tre secoli prima di Freud, Montaigne compie un passaggio epocale in due righe: le nostre parti attive e vigorose corrono ogni giorno verso la fine, inciampando in comiche défaillances che non negano la vita ma la fanno, sono la vita. Così il più penoso incidente organico può edificare una filosofia, far dichiarare guerre, stipulare trattati, e l’unico rimedio contro l’amore che funzioni davvero sono i calcoli renali (“non ho il potere di Cicerone che sognando di abbracciare una femmina trovò che si era liberato della pietra fra le lenzuola! Le mie mi svogliano del tutto dalle femmine”).
Togliamoci dalla mente che i Saggi siano una specie di manuale how to (sospetto non del tutto neutralizzato dal disclaimer di Compagnon), di quelli dal titolo sbarazzino che ogni tanto compaiono in libreria vicino alla cassa, secondo la moda di certa filosofia pop.
Piuttosto la loro “utilità” è quella rivelata da Thomas Bernhard: nel racconto Montaigne, un ragazzino (lo stesso Bernhard) sottrae dalla biblioteca paterna un volume a caso, al buio, e lo porta nel suo rifugio sulla torre: sono i Saggi, vero antipode della stagnazione morale e della tortura psicologica ad opera dei genitori (“Io non ho mai avuto un padre e non ho mai avuto una madre, ma ho avuto sempre il mio Montaigne”).
E la consolazione che danno non è quella di un insieme di precetti, ma quella che può dare una finestra in luogo di un muro o di uno specchio. È Montaigne a dirci oggi che, sebbene tutto sia farsa, facciamo bene a incipriarci il volto ma dovremmo “evitare di incipriarci il cuore”, ed è sua la lezione che chiude i Saggi e che tutti i governanti dovrebbero far propria, secondo cui anche sul più alto trono del mondo siamo sempre seduti sul nostro culo.

il manifesto 4.6.14
Manuale per uccidere una biblioteca nazionale
di Roberto Ciccarelli


L'inchiesta. Viaggio nei 10 piani della Nazionale di Roma, vessata da 15 anni di tagli e autogestita dai suoi 203 lavoratori. Il personale è insufficiente e manca lo spazio per i libri. Il trasferimento della direzione generale degli archivi al terzo piano, non fa che peggiorare la situazione

Un colpo di gra­zia alla soprav­vi­venza della biblio­teca nazio­nale di Roma. Per i lavo­ra­tori della monu­men­tale biblio­teca a Castro Pre­to­rio non c’è dub­bio: lo spo­sta­mento di un cen­ti­naio di addetti della dire­zione gene­rale per gli archivi al terzo piano della Nazio­nale, oggi ospi­tati in un palazzo in via Gaeta distante pochi passi, sarà un evento cata­stro­fico per i deli­cati equi­li­bri dell’astronave moder­ni­sta pro­get­tata alla metà degli anni Set­tanta. La spen­ding review del governo Monti del 2011–2012 ha tagliato le spese per gli affitti. Per rispar­miare il mini­stero dei beni cul­tu­rali (Mibact) ha deciso di tra­sfe­rire que­sti uffici nel cuore di un edi­fi­cio di 10 piani che ospi­tano 8 milioni di volumi a stampa, 2 mila incu­na­boli, 25 mila cin­que­cen­tine, 8 mila mano­scritti, 10 mila stampe e dise­gni, 20 mila carte geo­gra­fi­che, e 1.342.154 opuscoli.
La deci­sione del mini­stero com­por­terà lo spo­sta­mento della dire­zione, della sala riu­nioni, degli uffici acqui­sti, quelli del per­so­nale ammi­ni­stra­tivo e della pro­mo­zione cul­tu­rale. L’operazione è allo stu­dio del Mibact, ma non è ancora ese­cu­tiva. Cento per­sone non entrano al terzo piano della Nazio­nale ed è dif­fi­cile spo­stare il labo­ra­to­rio di restauro dei libri. La sede per la dire­zione degli archivi resterà la biblio­teca, non c’è dub­bio. «In quale altro paese euro­peo si pro­getta un’operazione che rischia di met­tere a repen­ta­glio la fun­zio­na­lità di una biblio­teca nazio­nale?» doman­dano i lavo­ra­tori. Non sarebbe una novità. Al terzo piano sono stati già tra­sfe­riti gli uffici dell’Icar e del ser­vi­zio per i diritti d’autore. Per la Rsu il nuovo tra­sfe­ri­mento «rap­pre­sen­te­rebbe la fine di qual­siasi futura pro­spet­tiva non solo di rilan­cio della Nazio­nale, ma di soprav­vi­venza di uno dei pochi ser­vizi pub­blici ancora total­mente gratuiti».
IL RISIKO DEI PIANI
Gli uffici estra­nei al ciclo di «lavo­ra­zione del libro» azio­ne­reb­bero un risiko di spo­sta­menti. I dipen­denti del terzo piano ver­reb­bero spo­stati al secondo che ospita il ser­vi­zio di cata­lo­ga­zione per autori. Gli uffici sono dispo­sti in stanze comu­ni­canti come sca­tole cinesi. Dall’ultimo libro di Albe­roni alla mono­gra­fia su Renzi, da un tomo di logica mate­ma­tica all’ultimo romanzo di Car­lotto, in que­sto mondo di carta dovranno tro­vare uno spa­zio vitale almeno cin­quanta per­sone. Tra pile di volumi in equi­li­brio sulle scri­va­nie oppure sul pavi­mento si intra­vede una biblio­te­ca­ria che alza il capo con espres­sione ras­se­gnata. Fisso lo sguardo davanti allo schermo del com­pu­ter cata­loga uno dei 40 mila libri depo­si­tati in emer­genza. «Sono solo quelli che ci sono arri­vati negli ultimi due anni – sostiene – Per non par­lare degli altri che arri­ve­ranno». Ogni anno in que­ste stanze pas­sano circa 60 mila mono­gra­fie. Una massa biblio­gra­fica ster­mi­nata che dev’essere gestita da poco più di 20 per­sone. Ci sono anni di arre­trati, per­ché il per­so­nale oggi non basta. E non basterà domani, quando saranno andati in pen­sione, per­ché nes­suno potrà essere assunto a causa del blocco del turn-over. Il secondo piano è uno dei cuori pul­santi della Nazio­nale. È qui che il ciclo del libro prende vita. Die­tro le ampie fine­stre a giorno, mani esperte e occhi die­tro lenti spesse cer­cano un ordine che verrà dato dalla cata­lo­ga­zione per sog­getto e dalla deci­ma­liz­za­zione, fatta cioè su una base nume­rica deci­male che rimanda ad un sog­getto spe­ci­fico. Senza que­sto lavoro, nes­suno potrà tro­vare un libro o una rivi­sta nei dieci piani di depo­sito. Domani, oltre ai libri, que­sto piano diven­terà un depo­sito anche di esseri umani. I lavo­ra­tori non lo accet­tano e hanno scritto una let­tera di pro­te­sta al mini­stro dei beni cul­tu­rali Dario Fran­ce­schini che domani dovrebbe par­te­ci­pare ad un’iniziativa alla Nazio­nale. Si dice che il tra­sloco sia stato deciso per­ché gli uffici della biblio­teca sono scar­sa­mente occu­pati. «È vero – rispon­dono i lavo­ra­tori – ma per­ché negli ultimi 15 anni siamo stati dimez­zati dai tagli».
QUANDO LO STATO AFFITTA A SE STESSO
Il tra­sloco della Dire­zione gene­rale per gli archivi nella biblio­teca nazio­nale non è solo una que­stione di uffici. È una par­tita molto più ampia che inve­ste il mondo degli archivi e dei musei romani dell’Ente Eur, la società per azioni che gesti­sce l’archivio cen­trale dello Stato, il Museo dell’età pre­i­sto­rica Luigi Pigo­rini, il museo delle Arti e delle Tra­di­zioni popo­lari, quello dell’Alto medioevo a rischio chiu­sura. Il Mibact gui­dato da Fran­ce­schini versa a que­sto ente, al 90% pos­se­duto dal mini­stero dell’Economia e al 10% dal Comune di Roma, 4 milioni e mezzo di euro per man­te­nere aperti musei pub­blici. È una caram­bola di par­tite con­ta­bili che ha una sola morale: pur aven­dolo «pri­va­tiz­zato», lo Stato paga all’Ente Eur — cioè a se stesso — un affitto per ciò che in realtà pos­siede. Senza con­tare che que­sti spazi sono semi-vuoti. «Per­ché allora si sce­glie di lasciarli così, pagando 4 milioni all’anno, e di tra­sfe­rire la dire­zione gene­rale per gli archivi alla Nazio­nale?» doman­dano i lavo­ra­tori della Nazionale.
La beffa non fini­sce qui. Una volta tra­sfe­rita la dire­zione alla Nazio­nale, lo Stato con­ti­nue­rebbe a ver­sare i 4 milioni all’Ente Eur s.p.a. Invece di rispar­miare, abo­lendo l’ente Eur e acqui­sendo i musei e gli archivi che gesti­sce, lo Stato esporta il suo caos in una biblio­teca già asfis­siata dai tagli. Dai 6 miliardi di lire ver­sati nel 2000 dallo Stato per il suo fun­zio­na­mento e l’acquisto dei libri, il fondo oggi è pari a 1,3 milioni di euro. Quasi un milione viene impie­gato per pagare le bol­lette, 230 mila per la tassa sui rifiuti. Pagati al comune per un ser­vi­zio che la biblio­teca offre alla città di Roma. Se il sin­daco Marino dispen­sasse la biblio­teca, i soldi per la tassa ser­vi­reb­bero per acqui­stare qual­che libro. Sarebbe un «rispar­mio» vir­tuoso. Al momento per gli acqui­sti ven­gono impie­gati 60 mila euro, il costo di un data­base scien­ti­fico che la Nazio­nale non può permettersi.
VOLON­TARI IN BIBLIOTECA
Domani Fran­ce­schini potrà veri­fi­care se quello dei lavo­ra­tori è allar­mi­smo o una fon­data pre­oc­cu­pa­zione per il destino della biblio­teca. Se accet­terà l’invito avrà modo di notare un altro dei pro­dotti dell’austerità nei beni cul­tu­rali. Anche la Nazio­nale rie­sce a svol­gere le sue atti­vità gra­zie ai volon­tari, l’ultima risorsa visto che non ci sono più soldi per pagare appalti o subap­palti alle coo­pe­ra­tive. Alla Nazio­nale i dipen­denti sono 203, in mag­gio­ranza 50-60enni. Sono affian­cati media­mente da 130 tra volon­tari e sta­gi­sti. Ven­ti­nove di loro lavo­rano per la «A.v.a.c.a — asso­cia­zione volon­tari atti­vità cul­tu­rali ed ambien­tali». Dallo spor­tello tele­ma­tico del volon­ta­riato della regione Lazio, risulta che il respon­sa­bile legale è il vice segre­ta­rio nazio­nale della Filp-Cisl, Gae­tano Rastelli.
Que­sta asso­cia­zione impiega 72 volon­tari nelle biblio­te­che romane. Alla Nazio­nale lavo­rano ad esem­pio nelle recep­tion, nel grande atrio oppure davanti alle sale di let­tura, nei magaz­zini o in uno dei depo­siti dei libri. Que­ste per­sone non pos­sono essere pagate diret­ta­mente, sono volon­ta­rie appunto, ma otten­gono un rim­borso spese «a scon­trino». Per met­tere da parte 400 euro al mese per 24 ore di lavoro set­ti­ma­nale, rac­col­gono tutti gli scon­trini pos­si­bili, quelli del bar della biblio­teca ad esem­pio. Li pre­sen­tano a fine mese per otte­nere in cam­bio il loro magro sala­rio. È la nuova fron­tiera del pre­ca­riato: il lavoro a scon­trino senza con­tri­buti. Que­sto è un altro modo che lo Stato usa aggi­rare il blocco delle assun­zioni nel pub­blico impiego, e non solo nei beni culturali.
IL MONDO CHE NON C’È PIÙ
I tagli al per­so­nale hanno ridotto l’orario di distri­bu­zione dei libri. Fino alle 14,30 oggi è ancora pos­si­bile chie­derne uno nelle sale, poi tutto si ferma. Dopo la ristrut­tu­ra­zione della biblio­teca nel 2000 il sistema delle richie­ste e del tra­sporto dai piani dei libri è stato auto­ma­tiz­zato. Il sistema è orga­niz­zato con i nastri tra­spor­ta­tori ai piani. A gestirli c’è solo una per­sona che dovrebbe muo­vere cen­ti­naia di libri per 11 ore al giorno, cin­que giorni alla set­ti­mana. Un’impresa impos­si­bile a cui si è dedi­cata con dedi­zione, accu­mu­lando 3500 ore oltre il nor­male ora­rio di lavoro che recu­pe­rerà prima di andare in pen­sione. Senza di lui, la «cabina di regia» si ferma. E la biblio­teca torna all’analogico: i libri ven­gono cari­cati sui car­relli, messi in un ascen­sore e arri­vano al banco, nella sala let­tura dov’è stata fatta la richiesta.
Le ristret­tezze hanno dimi­nuito i con­trolli sulle porte taglia­fuoco, due ascen­sori sono stati fer­mati per­ché man­cano i fondi per la manu­ten­zione. Nei magaz­zini c’è un impianto anti-incendio che toglie l’ossigeno. In caso di incen­dio, infatti, non si può get­tare la schiuma chi­mica sui libri. Per far fun­zio­nare l’antincendio, in que­ste stanze non dovrebbe cir­co­lare l’aria, ma gli ambienti non sono sigil­lati e le fine­stre ven­gono aperte. In più ci dovrebbe essere il riscal­da­mento e raf­fred­da­mento 24 ore su 24 per­ché nei depo­siti c’è un’escursione ter­mica che arriva a 20 gradi. Ma non ci sono i soldi per affron­tare que­sti pro­blemi ele­men­tari. L’austerità non taglia solo le per­sone, mette a rischio la memo­ria dei libri.
Cor­ri­doi scuri. Pavi­menti scro­stati. Umi­dità. Saliamo piano dopo piano con gli ascensori-montacarichi. E i piani sem­brano lun­ghi chi­lo­me­tri. Dall’alto si vede la Sapienza, all’orizzonte i Castelli. Le fine­stre sono ampie ma oscu­rate da col­tri di pol­vere. La luce sporca lascia i piani nella semi-oscurità quando il sole gira alle spalle della biblio­teca. I lavo­ra­tori che ci accom­pa­gnano in que­sto viag­gio dicono che man­cano i soldi per cam­biare neon e lam­pa­dine. Quando cala il giorno ai custodi capita di usare le torce per vedere il numero della cata­lo­ga­zione sui libri. Ci sono interi set­tori vuoti, in attesa che nuovi fal­doni e libri ven­gano ricollocati.
Per i gior­nali ita­liani, stra­nieri, micro­fil­mati oggi non c’è più spa­zio. Nel flusso inin­ter­rotto di pub­bli­ca­zioni che entrano nella Nazio­nale ci sono decine di edi­zioni locali della stessa testata. Mol­ti­pli­ca­teli per 360 all’anno, tutti gli anni, e avrete un oceano di carta incon­te­ni­bile. È uno degli effetti dell’obbligo del depo­sito legale: una copia di qual­siasi scritto pub­bli­cato in Ita­lia dev’essere archi­viato nella biblio­teca nazio­nale di Roma o di Firenze. Per con­te­nere que­sta marea di carta è stato scelto di tra­sfe­rirla in un depo­sito a Ciam­pino insieme agli elen­chi tele­fo­nici, uno per tutte le pro­vince, e gli atti par­la­men­tari. Il costo dell’affitto è di 100 mila euro all’anno. A Castro Pre­to­rio ci sono spazi che potreb­bero essere boni­fi­cati e fun­zio­nare come depo­siti. Coste­rebbe «solo» 300 mila euro che però non ci sono. Nulla di que­sto oceano di tomi, volan­tini, mani­fe­sti, pub­bli­cità dev’essere per­duto. Oggi di scarsa con­sul­ta­zione, domani potrebbe essere impor­tante. È stato così, ad esem­pio, per gli sta­tuti delle società ope­raie di fine XIX secolo. Allora erano sem­pli­ce­mente carte. Oggi sono docu­menti di rile­vanza ecce­zio­nale. Niente è ogget­tivo in una biblio­teca. C’è una vita segreta che con il tempo cam­bia il valore delle carte. E il super­fluo diventa ogget­tivo. Qual­siasi testo trova il suo posto in que­sto mondo razio­nale. Biso­gna archi­viarlo, posi­zio­narlo e come il vino un giorno fer­men­terà, tro­vando un senso.
Un tempo c’erano gli ascen­so­ri­sti. Lavo­ra­vano insieme agli addetti alle cal­daie. Era stato for­mato un gruppo ope­raio di fale­gnami, idrau­lici ed elet­tri­ci­sti assunti a tempo inde­ter­mi­nato. Sono andati in pen­sione all’inizio degli anni Due­mila e non sono stati sosti­tuiti. «Tutto que­sto mondo non c’è più», afferma un custode. Di loro sono rima­sti due idrau­lici e un elet­tri­ci­sta. Alcuni custodi si sono rici­clati in ascen­so­ri­sti o in cal­dai­sti, dopo un breve corso.
Alla Nazio­nale vige l’autogestione in attesa di una morte per causa natu­rale. Reste­ranno milioni di libri. Soli. Un tesoro che dovrà essere gestito. Dagli ex lavo­ra­tori in pen­sione che, un giorno, faranno i volontari?

Repubblica 4.6.14
Mahler sul divano di Freud e altre nevrosi
Una raccolta di memorie e ricordi di personaggi in cura dal padre della psicanalisi
di Massimo Ammaniti


QUANDO ci riferiamo alla psicoanalisi, intendiamo in primo luogo una teoria psicologica che valorizza il mondo inconscio, ma anche le narrazioni cliniche dei pazienti che si sono distesi sul lettino psicoanalitico alla ricerca di sé stessi, come i famosi casi clinici di Freud, dal piccolo Hans a Dora, dall’Uomo dei lupi all’Uomo dei topi. E questi casi clinici, oltre ad aver contribuito all’avanzamento della teoria psicoanalitica, costituiscono vere opere letterarie con un ritmo narrativo ed una suspense in attesa di scoprire il mistero individuale.
Sull’altro versante ci si può chiedere come i pazienti abbiano vissuto e percepito la figura dello psicoanalista e l’ambiente curativo in cui sono entrati. Questo cambio di prospettiva, potremmo dire una vera anamorfosi, viene ora proposta da Lucilla Albano nel suo libro Il divano di Freud (Il Saggiatore; la prima edizione è del 1987) che raccoglie testimonianze e scritti di pazienti che si sono rivolti al grande Maestro. E sono pazienti eccezionali, non solo del mondo psicoanalitico ma anche del mondo musicale come Bruno Walter o Gustave Mahler oppure del mondo letterario come la poetessa Hilda Doolittle. È una lettura di grande interesse perché ci fa scoprire un Freud potremmo dire inedito, molto diverso dai dettami psicoanalitici dei suoi scritti, molto più aperto ed accogliente di quanto la neutralità psicoanalitica lo potesse caratterizzare. Ed è vivo in tutti i pazienti il riconoscimento della figura autorevole e rassicurante di Freud, non solo influenzata dalla sua fama e dal suo grande prestigio scientifico ma soprattutto dalle sue qualità personali di estrema attenzione ed interesse per quello che i pazienti esprimevano, soprattutto le loro sofferenze. Non tutti i pazienti hanno provato la stessa riconoscenza e lo stesso apprezzamento, viene riportata nel libro il lungo e minuzioso diario di uno psichiatra, Joseph Wortis, sul suo trattamento psicoanalitico con Freud, durante il quale era interessato a confutare la teoria psicoanalitica e molto meno a parlare di sé stesso. Anche i suoi resoconti delle sedute erano un modo di mettere un diaframma fra sé e Freud e non lasciarsi coinvolgere.
L’immagine di Freud tratteggiata da uno dei suoi pazienti più famosi, l’Uomo dei Lupi, è molto eloquente «nel suo viso, incorniciato da una barba già grigia e accuratamente tagliata, il tratto più impressionante erano gli intelligenti occhi scuri, che mi guardavano quasi penetrandomi». Le descrizioni si fanno via via dettagliate ed evocative, Freud viene ricordato con il sigaro fra le dita nel suo ambiente prediletto del suo studio in Berggasse 19, in cui erano esposti i suoi reperti archeologici e le sue statuette, che colpirono la poetessa Doolittle a cui Freud si rivolse dicendole: siete l’unica persona che guarda le cose che ci sono dentro, prima di guardare me.
Il libro della Albano è stato costruito in modo rigoroso, raccogliendo scritti, diari non solo dei pazienti ma anche di familiari e psicoanalisti che hanno ampliato la ricostruzione delle esperienze psicoanalitiche. Ed ogni testimonianza è introdotta da uno scritto estremamente utile e documentato dell’Autrice che colloca il personaggio nel suo contesto storico e culturale rendendo in questo modo molto leggibile il libro, anche aldilà della cerchia interessata al mondo della psicoanalisi.

Repubblica 4.6.14
La sera andavo al Colle nell’oasi segreta di Pertini
Escono i diari postumi di Antonio Maccanico sugli anni al Quirinale col presidente Nella prefazione Scalfari ricorda i dialoghi a tre dell’epoca: tra leggerezza e drammi
di Eugenio Scalfari



Eravamo molto giovani quando ci conoscemmo. Ci piacevano le ragazze ma a quell’epoca non era facile farci l’amore, le portavamo al cinema o nelle sere di bel tempo a spasso nei parchi romani, Villa Borghese, il Pincio, il Gianicolo, qualche bacio e i desideri dell’età che però restavano insoddisfatti. Poi ci raccontavamo le nostre imprese infiocchettandole di particolari inesistenti. Eravamo nati lo stesso anno, il 1924, lui in agosto ad Avellino, io a Civitavecchia in aprile. Se fosse vivo starebbero per scadere i novant’anni per lui, ma purtroppo se ne è andato da quasi un anno e ne ha fatte di cose nella sua lunga vita. Le nostre carriere sono state molto diverse ma si sono spesso intrecciate e la nostra amicizia è diventata sempre più intima. Conoscemmo le stesse persone, votammo quasi sempre per lo stesso partito, almeno fino a quando visse Ugo La Malfa.
Nel frattempo e indipendentemente da lui diventai amico di Adolfo Tino, allora capo dell’ufficio legale di Mediobanca e molto legato a Cuccia e a Raffaele Mattioli. Soltanto dopo qualche mese seppi da Adolfo che Antonio era suo nipote, figlio di una sorella.
Ma l’amicizia con Tonino diventò fraterna durante i sette anni che lui passò al Quirinale, segretario generale del capo dello Stato Sandro Pertini. La Repubblica era stata fondata da poco più di due anni quando Pertini fu eletto Presidente. Lo conoscevo da tempo e in qualche modo partecipai alla sua elezione esortando Berlinguer, insieme a Rodano, affinché i voti del Pci convergessero su di lui. Da allora Pertini diventò una persona di famiglia non solo per me ma anche per il giornale che dirigevo. Era impetuoso e generoso, Sandro Pertini; le formalità del cerimoniale gli erano del tutto sconosciute. Seguiva il suo carattere, i moti dei suoi sentimenti senza alcun calcolo di convenienza politica né compromessi. Veniva dall’emigrazione antifascista e dalla guerra partigiana della quale era stato uno dei capi. Si fidava solo di Tonino che l’ha protetto e guidato ininterrottamente per sette anni. Non era facile guidare un uomo come Pertini, specie da quando aveva assunto la più alta carica dello Stato, e non era facile proteggerlo dal suo carattere, dalle decisioni che prendeva più col cuore che con la testa e che attuava immediatamente. Ma Tonino ci riuscì dedicandogli tutto se stesso.
I colloqui con Pertini al Quirinale erano frequenti e avvenivano sempre con la presenza di Tonino. Non c’era mai un tema specifico, Pertini aveva spesso il desiderio di riposarsi e lo faceva parlando con due amici dei quali si fidava. Gli argomenti era naturalmente lui a proporli: giudizi, ricordi, qualche pettegolezzo e noi lo seguivamo con leggerezza, umorismo reciproco e anche analisi e pensieri che aiutavano il Presidente a riprendere forza e allegria. I tempi, si sa, erano terribili. Moro era stato rapito in quei giorni e quei mesi di prigionia occupavano le nostre conversazioni. Un giorno Pertini ci domandò: «Che cosa fareste se vi trovaste prigionieri di terroristi assassini?». E, anticipando le nostre risposte, disse: «Io non avrei mai scritto lettere ad amici e familiari come fa Moro e la ragione è evidente: lui crede nell’aldilà e quindi vorrebbe sopravvivere a questa orribile prigionia e continuare a far del bene al paese. Ma io non ho la fede nell’aldilà e quindi la sola cosa che mi importa è di preservare la mia immagine. Le lettere che lui scrive i suoi carcerieri le leggono prima di spedirle; quest’intrusione io non l’avrei mai sopportata». Ma poi, conclusa drammaticamente quella terribile vicenda, i nostri incontri ripresero il tono di sempre.
Gli anni passavano. Ci fu la strage alla stazione di Bologna e il discorso del sindaco Zangheri. Quando cominciò a parlare la piazza, gremita e ribollente di furore contro le autorità che secondo i bolognesi non avevano compiuto i controlli che forse avrebbero evitato quell’evento tragico, coprì le parole di Zangheri con una selva di fischi sebbene il sindaco non c’entrasse per nulla nei controlli non effettuati. Pertini era seduto sul palco accanto a Zangheri che stava in piedi al microfono. Il Presidente si alzò, si avvicinò al sindaco e gli mise una mano sulla spalla. I fischi cessarono immediatamente.
La morte di Berlinguer fu un altro dei tanti episodi di quel periodo, tra i più agitati della storia italiana. Tonino mi avvertì al telefono che il Presidente stava partendo da Padova per Verona: andava a prendere con un aereo militare la salma del leader comunista e così fece. Arrivati a Roma seguì il feretro al funerale tra una immensa folla piangente e non soltanto comunista. Fu un momento di commozione nazionale.
Infine arrivò la scadenza del settennato presidenziale, ma Pertini sperava di essere rieletto. Debbo dire che da qualche tempo non mi sembrava che fosse sereno, la scadenza l’aveva fortemente turbato ed esibiva il suo turbamento in modo molto improprio. Tonino aveva dovuto raddoppiare i suoi sforzi per evitare quelle esibizioni assai dannose al ricordo e all’affetto che gran parte degli italiani avevano verso Pertini. La soluzione che venne in mente a Tonino per indirizzare il bisogno che Pertini aveva di comunicare pubblicamente il suo desiderio d’esser riconfermato fu di portarlo da noi, accoglierlo nel mio ufficio con i vicedirettori del giornale e farlo sfogare lì, in quella stanza, con amici che avrebbero conservato il massimo riserbo. E così avvenne due o tre volte, Tonino l’accompagnava, noi l’accoglievamo e lui parlava a lungo delle sue speranze. Noi comprendevamo ma suggerivamo che non era questa la via per lasciare dei suoi sette anni di presidenza il ricordo che meritavano. Alla fine si convinse che il suo congedo era necessario e riacquistò la lucidità di mente e la dignità che l’avevano sempre assistito in tutta la sua vita.
La carriera di Tonino al Quirinale continuò con Cossiga ma durò soltanto due anni. Tonino aveva capito che Cossiga voleva con sé un uomo suo e Tonino anticipò quel desiderio dando le dimissioni per ragioni private. Nel frattempo lo zio Adolfo era morto e Cuccia e lo staff di Mediobanca pensarono a Tonino come il miglior successore. Accettò e la sua vita svoltò dalla politica al mondo bancario ed economico. Quei due anni ci sentimmo di rado e a lui la politica mancava. Nell’88 De Mita lo invitò nel suo governo affidandogli il dicastero per gli Affari regionali e i problemi istituzionali così tornò a Roma e i nostri rapporti ridivennero frequenti come un tempo.
Non starò qui a seguire la sua carriera politica che in quegli anni fu intensissima. Nel ‘96 ebbe addirittura l’incarico da Scalfaro di formare un governo che però non ottenne la maggioranza necessaria. Seguirono le elezioni e il governo Prodi, nel quale entrò come ministro delle Poste e delle telecomunicazioni. Successivamente, nel ‘98, entrò nel governo D’Alema come ministro delle Riforme istituzionali necessarie per modernizzare lo Stato che ne aveva grandissimo bisogno. Purtroppo la nostra classe dirigente non è ancora riuscita a distanza di molti anni ad attuare quella modernizzazione pur essendo ben consapevole della sua necessità.
Tonino è stato per me una lunghissima e grande amicizia e credo che anch’io lo sia stato per lui. Tra spiriti liberi come eravamo non sono mancate differenze ed anche qualche dissenso sul da fare. Ora per l’ennesima volta siamo di fronte a una curva nella storia del paese. Purtroppo non posso alzare il telefono e sentire la sua voce e il suo pensiero e questo mi manca molto.