giovedì 5 giugno 2014

La Stampa 5.4.14
Fotogallery
Roma, mostra per celebrare i 70 anni dalla Liberazione

qui

il Fatto 5.6.14
Pd e Pdl uniti dalle tangenti
Gip: 'Politici asserviti a sistema criminale'
Inchiesta Mose, 35 arresti: Giorgio Orsoni ai domiciliari. Chiesto il carcere per Galan

qui

il Fatto 5.6.14
Laguna al collasso
Venezia, storia di un suicidio
di Tomaso Montanari


Massimo Cacciari - tra i cui non molti meriti di sindaco di Venezia c’è quello di essersi sempre opposto al Mose - ha detto che le radici della corruzione vanno cercate nell’urgenza. Vero, ma il Mose sarebbe criminogeno anche se i suoi lavori andassero lentissimi. Perché è un progetto sbagliato in sé: frutto di quella vocazione al suicidio da cui Venezia non sembra capace di liberarsi.
Per mille anni la Repubblica Serenissima ha vegliato sul delicato equilibrio della Laguna, che è la particolarissima “campagna” che circonda Venezia. In natura, una laguna ha una vita limitata nel tempo: o vincono i fiumi che portano materiali solidi verso il mare, e la laguna si trasforma in palude e piano piano si interra, oppure vincono le correnti marine, che tendono a renderla un golfo o una baia.
I veneziani capirono subito che tenere in vita la Laguna salmastra voleva dire assicurarsi uno scudo naturale sia verso la terra che verso il mare. Non mancarono le discussioni: celeberrima quella cinquecentesca tra Alvise Cornaro, che avrebbe voluto bonificare la Laguna, e Cristoforo Sabbadino, che ne difese vittoriosamente la manutenzione continua. Così la storia di Venezia - ha scritto Piero Bevilacqua - è stata “la storia di un successo nel governo dell’ambiente”.
Una storia che, con l’avvento dell’Italia unita si è, però, interrotta, ed è definitivamente collassata negli ultimi quarant’anni di malgoverno veneziano. Per fare entrare le Grandi Navi (turistiche, industriali e commerciali) si sono dragati e approfonditi i canali d’accesso in Laguna, e contemporaneamente se ne è abbandonata la secolare manutenzione .
IL RISULTATO è stato un abnorme aumento dell’acqua alta, culminato nella vera e propria alluvione del 1966. Fu proprio quell’enorme choc che mise Venezia di fronte all’alternativa: o riprendere il governo della Laguna e mantenere l’equilibrio, o essere mangiata dall’Adriatico.
Fu allora che emerse la terza via: il Mose, che permise di eludere la scelta tra responsabilità e consumo. L’idea era di continuare indefinitamente a violentare la Laguna e poi rimediare meccanicamente, con una gigantesca valvola che chiudesse le porte al mare. È come se un paziente ad altissimo rischio di infarto venisse persuaso dai medici a non sottoporsi ad alcuna dieta né ad alcun esercizio fisico, e a scommettere invece tutto su una costosissima e complicata operazione di angioplastica. Non verrebbe da pensare solo che i medici sono incompetenti : ma anche che hanno qualche interesse occulto nell’operazione. E se poi quei medici finissero in galera, chi potrebbe stupirsi?
Follemente, la scelta della terapia è stata affidata direttamente ai chirurghi. Fuor di metafora: la salvezza di Venezia e del suo territorio è stata affidata a un consorzio di imprese private (il Consorzio Venezia Nuova) interessate a realizzare il costosissimo meccanismo di riparazione del danno , il Mose appunto. E tutto è stato asservito a questo ente: anche il controllo del Magistrato delle Acque, che si è trovato a ratificare (invece che a sorvegliare) scelte operate in base all'interesse privato.
SAREBBE difficile spiegare un simile suicidio se non vedessimo che Venezia si distrugge ogni giorno in mille altri modi, prostituendosi, fino alla morte, a un turismo cannibale. Ma mentre gli abitanti continuano a scendere (sono ora 59.000: un terzo della popolazione del 1950, la metà di quella del 1510) e le Grandi Navi sembrano inarrestabili, c’è ancora chi resiste, tra mille difficoltà. Esemplare il caso di Italia Nostra, cui appartiene la voce più ferma e coraggiosa contro la morte di Venezia, una voce che un anno fa aveva documentato pubblicamente proprio la corruzione del Mose: ebbene, la soprintendente architettonica veneziana Renata Codello ha querelato l’associazione, che le rimproverava pubblicamente la difesa delle Grandi Navi, e l’autorizzazione allo scempio (futuro) del Fondaco dei Tedeschi e al raddoppio (in corso) dell’Hotel Santa Chiara sul Canal Grande (quello dove, secondo i pm, la segretaria di Giancarlo Galan avrebbe ricevuto le mazzette!). E che avvocato ha scelto la Co-dello? Ma quello del Consorzio Nuova Venezia, che controlla il Mose. Pulire la Laguna, insomma, sarà un’impresa lunga.

La Stampa 5.6.14
Venezia prima e dopo il Mose
nelle immagini della Nasa

qui

Corriere 5.6.14
Orsoni, il professore cattolico con il palazzo nobiliare preoccupa il Pd
di Marco Imarisio

qui

Corriere 5.6.14
I 10 motivi per cui oggi l’Italia ci imbarazza
di Beppe Sevregnini

qui

Corriere 5.6.14
Ma quando dichiariamo guerra alle mazzette?
Per il Mose ci sono voluti nove volte i tempi del colossale ponte di Donghai
di Gian Antonio Stella


«Votatelo, pesatelo, se sbaglia impiccatelo», diceva un antico adagio veneziano. Certo, se anche le accuse contro Giorgio Orsoni, Giancarlo Galan e gli altri politici e affaristi coinvolti nell’inchiesta trovassero conferma nei processi e nelle sentenze, nessuno pretende corda e sapone. Il quadro di corruzione disegnato dai giudici, però, è così vasto da imporre finalmente una guerra vera, non a chiacchiere, contro la mazzetta.
L’«affare» del Mose è esemplare. Perché c’è dentro tutto. C’è dentro lo spaccio dell’«emergenza», dei lavori da fare a tutti i costi in tempi così drammaticamente rapidi da non consentire percorsi lineari nei progetti, nella scelta degli esecutori, nelle gare d’appalto, nelle commesse. Risultato: di fretta in fretta sono passati 31 anni, nove volte di più di quelli bastati alla Cina per fare il ponte di Donghai, che coi suoi 32 chilometri a 8 corsie sul mare collega Shanghai alle isole Yangshan.
C’è dentro l’idea della scorciatoia per aggirare (non cambiare: aggirare) le regole troppo complicate con la creazione d’un concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova che, dopo tre decenni passati senza lo straccio di una concorrenza e dopo essere stato così pesantemente coinvolto negli scandali coi suoi massimi dirigenti, giura oggi d’essere estraneo alle brutte cose e pretende di presentarsi come una verginella al primo appuntamento.
C’è dentro quel rapporto insano tra la cattiva politica e il cattivo business così stretto da chiudere ogni spazio ai controlli veri sui costi, sui materiali, sugli uomini, sui tempi. Basti ricordare l’impegno preso dall’allora vicepresidente del consiglio Gianni De Michelis il 4 novembre 1988, quando dopo anni di tormentoni fu presentato il prototipo del Mose: «La scadenza? Resta quella del 1995. Certo, potrebbe esserci un piccolo slittamento...». Sono passati quasi vent’anni, da quella scadenza: ci saranno anche stati degli intoppi, ma cosa succederebbe, in Germania o in Olanda, se lo Stato si sentisse preso per i fondelli sui tempi in modo così sfacciato? E cosa direbbero i leghisti da tre lustri al governo del Veneto se un cantiere interminabile come quello del Mose fosse ancora aperto dopo tanti anni a Reggio Calabria o a Napoli?
C’è dentro il disprezzo per i pareri discordanti e più ancora, alla faccia del chiacchiericcio federalista, per le opinioni del Comune, tagliato fuori da decisioni prese altrove: «Sinistra e destra, sul Mose, erano d’accordo, e io sono rimasto inascoltato», ha accusato più volte, negli anni, Massimo Cacciari. Ieri l’ha ripetuto: «Le procedure erano tali che da sindaco io non potevo toccare palla». Una linea verticistica che la Serenissima non avrebbe accettato mai. Al punto di pretendere, se c’erano di mezzo opere idrauliche, che oltre a quello degli ingegneri si sentisse il parere di «otto pescadori» e cioè «due da S. Nicolò, uno da Sant’Agnese, uno da Muran, due da Buran e due da Chiozza».
E poi c’è dentro, in questa brutta storia, il continuo rincaro delle spese, la peste bubbonica delle nostre opere pubbliche: doveva costare un miliardo e trecento milioni di euro attuali, il Mose. E di anno in anno, di perizia in perizia, di furbizia in furbizia, ha sfondato i cinque miliardi e non è detto che ne basteranno sei.
C’è dentro la blandizia verso i possibili «amici» e insieme l’insofferenza arrogante verso ogni critica, come nel caso della stupefacente querela per «accanimento mediatico» (avevano dato battaglia sui giornali) contro Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e Giovanni Sebastiani, tre ingegneri rei di avere criticato il costosissimo progetto delle paratie mobili, la gallina dalle uova d’oro del consorzio.
C’è dentro la ripartizione di incredibili privilegi, come ad esempio, per citare le Fiamme Gialle, «il compenso di un milione di euro riconosciuto nel 2009» all’allora presidente Giovanni Mazzacurati «a titolo di “una tantum”, nonché i periodici rimborsi spese privi di giustificazione contabile», per non dire delle case affittate in California, delle consulenze distribuite ad amici e parenti o della liquidazione finale di 7 milioni di euro incassata dopo l’arresto: l’equivalente di trentuno anni di stipendio del presidente della Repubblica. Una buonuscita stratosferica, per un uomo finito in manette.
E tutti soldi pubblici. Sia chiaro. Tutti soldi privatamente gestiti come in una combriccola di società private ma tirati fuori dalle tasche degli italiani. Per amore di Venezia. Per salvare Venezia dall’acqua alta dovuta non solo ai capricci della Natura e del Fato ma anche a interventi come la cosiddetta «sussidenza», cioè lo sprofondamento del suolo dovuta al pompaggio dell’acqua dolce nel sottosuolo o la creazione del canale dei petroli, un canyon lungo 14 chilometri, largo 200 metri e profondo fino a 17, scavato nel ventre di una laguna delicata la cui profondità media era di 110 centimetri.
E torniamo al rispetto per l’acqua, la terra, le barene della Serenissima Repubblica. «Tre condition de homeni ruinano la Laguna: li Signori, li Inzegneri e li Particulari», cioè i proprietari, scriveva nel ‘500 il Magistrato alle acque Cristoforo Sabbadino. Scordava gli affaristi dell’appalto facile. Quelli della spartizione fra sodali. Che non guardano alla destra o alla sinistra ma al business. O, per dirla alla veneta, ai «schei». Montagne di «schei».
Certo è che quest’ultima ondata di arresti colpisce i cittadini italiani, proprio mentre mostravano di voler credere in un riscatto e in una nuova speranza, come una frustata in faccia. E dimostra che, nella scia dei moniti di papa Francesco che batte e ribatte contro il «pane sporco» del «dio tangente», è indispensabile una svolta vera. Nei fatti.
L’Expo 2015, i restauri a Pompei, il G8 alla Maddalena e poi all’Aquila, i primi interventi e poi la ricostruzione in Abruzzo, i Mondiali di nuoto, il Mose... Non c’è Grande Evento, da anni, che non sia infettato dalla corruzione. E dopo ogni arresto, lagne su lagne. E tutti a chiedersi come sia possibile, come mai non cambi mai niente, perché proprio qui e bla bla bla... Poi, passata la tempesta di sabbia, appena si posa la polvere, le leggi che parevano ur-gen-tis-si-me vengono rinviate dal lunedì al martedì, poi alla settimana dopo, poi al mese seguente, poi all’autunno e da lì all’estate successiva...
Eppure è tutto chiaro: per vent’anni, come denunciano don Luigi Ciotti, Piercamillo Davigo e tanti altri, ogni sforzo della cattiva politica (troppo comodo dare tutta la colpa ai berlusconiani) è stato dedicato a smontare le leggi che c’erano e a buttare bastoni tra le ruote dei giudici. Pochi numeri: nel decennio dopo la stagione di Mani Pulite, 1996-2006, secondo l’Alto Commissariato, le condanne per corruzione precipitarono dell’83,9%, quelle per concussione del 90,4%, quelle per abuso d’ufficio del 96,5%. Come mai? Perché l’Italia è più pulita? Magari!
L’abbiamo scritto ma vale la pena di ripeterlo: dice il rapporto 2013 dell’Institut de criminologie et de droit pénal curato dall’Universita di Losanna, che nelle nostre carceri solo 156 detenuti, lo 0,4% del totale, sono lì per reati economici e fiscali, tra cui la corruzione e la concussione. Una percentuale ridicola. Dieci volte più bassa rispetto alla media europea del 4,1%. È una coincidenza se la Germania, il Paese di traino del Continente, ha le galere più affollate di «colletti bianchi»? Ed è solo una coincidenza se noi, che arranchiamo faticosamente in coda, ne abbiamo 55 volte di meno?

l’Unità 5.6.14
Felice Casson:

«Per questi grumi di malaffare non basta la repressione»

«A Milano come a Venezia ci sono tra gli arrestati persone che erano state arrestate vent’anni fa. Sono situazioni che si ripetono perché da solo l’intervento repressivo non basta», riflette Felice Casson, senatore Pd e magistrato oggi fuori ruolo, che a suo tempo da gip diede il via libera all’arresto dello stesso Giorgio Baita ora coinvolto nella vicenda del Mose.
Senatore, lei questo scandalo quasi se lo aspettava...
«C’erano indagini da almeno un paio anni, c’erano stati almeno un paio di arresti eccellenti, quello del presidente del Consorzio e di un altro manager della Mantovani, Baita, e tutto questo, insieme alle dichiarazioni di persone arrestate, come da notizie giornalistiche, non potevano non condurre a ulteriori sviluppi. Così è stato. La magistratura ha condotto un lavoro accurato, fino a quando il giudice non ha emesso questi provvedimenti per motivi fondati».
A Palazzo Madama negli anni lei ha presentato più di un’interrogazione riguardo il Mose. Cos’era che non andava?
«Da quando sono in Senato, insieme altri senatori di centrosinistra, abbiamo ripetutamente presentato interrogazioni e interpellanze. Il vero bubbone era che il Consorzio fosse concessionario unico di tutte le opere relative al Mose. E questo è avvenuto contrariamente a tutte le indicazioni dell’Unione Europea e senza verifiche, perché non ci sono mai stati controlli sul presidente del Magistrato alle acque, tanto che fra gli arrestati risultano due ex presidenti».
Come è potuto succedere?
«Era un’anomalia molto grave, ripetutamente denunciata, e ora si capisce perché. Giravano molti, troppi soldi, per giunta soldi pubblici e chi doveva controllare non ha controllato».
Pochi giorni fa la bufera di Expo 2015, ora il Mose. È una nuova tangentopoli?
«Queste sono situazioni che si ripetono costantemente nel tempo. A Milano è stato arrestato Greganti, a Venezia Baita: sono persone arrestate già tanto tempo fa. Abbiamo iniziato vent’anni fa e proprio nella tangentopoli veneta, che cominciò prima di quella milanese, da gip ho proceduto all’arresto dello stesso Baita, su richiesta della procura. Questa è la prova che restano grumi di malaffare che non si risolvono solo con l’intervento repressivo. Se non ci sono sistemi di controllo efficienti, tutto poi si ripete».
Servono interventi normativi?
«Ci sono tre aspetti importanti. Quello etico e culturale del rispetto regole, che non è scontato. Quello della prevenzione che bisogna far funzionare, vanno semplificate le norme, verificate le fasi degli appalti e l’affidamento dei controlli, che devono essere seri costanti. C’è poi l’aspetto repressivo, ma quando interviene la magistratura penale i buoi sono già scappati dalla stalla ».
A quali norme si riferisce?
«Quelle in materia di appalti pubblici, serve che siano chiare ed evidenti, senza possibilità di sotterfugi, anche a tutela della concorrenza perché è indubbio che l’illegalità incide anche sul libero mercato, un aspetto confermato anche dalla banca mondiale e dall’Ue».
E il ddl anticorruzione? Se ne parla proprio nella commissione del Senato di cui lei è vicepresidente.
«Quel ddl riguarda solo la repressione, rimangono intatti gli altri due e occorre avere la volontà politica e sociale di farli funzionare, bisogna che ci siano controllori onesti e corretti, col senso delle istituzioni e non sensibili agli interessi di chi gestisce profitti enormi».
E il coinvolgimento dei politici? C’è una questione Pd?
«C’è una questione che coinvolge delle persone, alcune delle quali fanno parte del Pd. Da quello che si capisce ci sono vari filoni d’indagine e accuse diverse, bisogna vedere quali sono le contestazioni. In uno dei filoni è coinvolto l’ex ministro Matteoli, per il quale è stato già interessato il tribunale dei ministri, in un altro i vertici della Regione Veneto, per una gestione degli affari pubblici secondo l’accusa totalmente illecita. È fondamentale che la magistratura, possa continuare a operare in maniera approfondita, senza limitazioni a favore di nessuno. E compito del Pd è di avere nelle amministrazioni persone esenti da qualsiasi ombra e far valere le regole del suo statuto che sono più rigide di quelle del codice penale».

Repubblica 5.6.14
Due mosse contro la corruzione
di Gianluigi Pellegrino

IERI l’expo, oggi il Mose. E se persino una faccia pulita come quella di Orsoni ne viene, al momento, travolta, vuol dire che, raschiato il barile del degrado nazionale, stiamo scavando ancora. E la questione non è solo etica ma è pure fortemente economica. Appena l’altro giorno la Commissione europea nel valutare i nostri controversi propositi, tra speranze, impegni e promesse, poneva tra le prime criticità letteralmente il fatto che “la Corruzione continua ad incidere pesantemente sul sistema produttivo dell’Italia e sulla fiducia nella politica e nelle istituzioni”. Del resto è noto da tempo come sia da sola una voce che pesa per oltre 60 miliardi l’anno. Risolverla forse non si può (se non nel paese delle meraviglie) ma attenuarla senz’altro, e da sola sbloccherebbe risorse enormi per risanamento e rilancio. Ed è la stessa Commissione ad indicare due interventi urgenti che l’Italia ha annunciato ma che ancora tardano ad arrivare: revisione della disciplina sulla prescrizione e maggiori poteri alla nuova Authority affidata a Cantone.
Non serve infatti alcun formale aggravamento delle pene che si scioglie come burro nel falò di impunità della prescrizione dei reati. Frutto non a caso di una tra le più squassanti delle leggi ad personam, la ex Cirielli, con grande beneficio per Berlusconi ma con lui anche per una folla di corrotti e corruttori di ogni risma e ogni colore politico. Su questo fronte purtroppo le larghe intese hanno già dato pessima prova con il colpo di spugna sulla concussione nelle pieghe della legge Severino. Un salvacondotto bipartisan concepito a tavolino in notturne riunioni, con la complice foglia di fico del governo tecnico. La pantomima di Penati che disse di non volerne approfittare salvo poi risultare assente nell’udienza in cui doveva rinunciare, ne è stato solo il frutto più avvi- lente e grottesco.
Ora il nuovo governo dovrebbe avere con Renzi e il ministro Orlando determinazione e competenza per rimediare con provvedimento di urgenza. La prescrizione deve smettere di decorrere almeno con la sentenza di condanna in primo grado. Ovviamente con tempi certi e contingentati per l’appello e opportuni rimedi. Perché è proprio questo che deprime un già malfermo senso civico nel paese: il diffuso messaggio di impunità, la fondata certezza alla fine di farla franca. Con l’ulteriore aggravante della doppia ingiustizia di un processo severissimo nella fase cautelare e sommaria, ma inane e dolce come il miele quando dovrebbe andare a sentenza. Si salda così una paradossale alleanza implicita tra gli eccessi della giustizia spettacolo e l’impunità finale per i colpevoli.
Inutile dire che ciò si unisce con il terrificante messaggio di un incallito frodatore fiscale condannato in tre gradi che se ne esce con poche ore a settimana in un centro per anziani a Cesano Boscone, ed in teoria espulso dal Senato ma recuperato in pompa magna come riformatore della Costituzione e padre della patria. E così corruttori e rapinatori si aspettano fiori e non condanne.
Sul fronte dell’Autorità il buco nero sono i camuffati arbitri nell’affidamento degli appalti. Qui va potenziato, altro che diminuito, in sede amministrativa il controllo giurisdizionale immediato. E poi gli abusi in fase di realizzazione delle opere. Le più lente e più costose d’Europa. E lì che Cantone deve poter vigilare.
Correzione della prescrizione, e poteri all’Authority. Servono decreti di urgenza. Se fino a ieri era opportuno, oggi è il minimo sindacale.

il Fatto 5.6.14
Riforme e anti-corruzione: tutto fermo
A Palazzo Madama il governo si è impegnato entro un mese a presentare gli emendamenti al testo Grasso
di Wanda Marra

La riforma del Senato? Fervono le trattative, aumentano gli ultimatum, ma l’accordo non si vede. La legge anti-corruzione? È ferma in attesa degli emendamenti del governo, che si è impegnato a presentarli entro un mese. A Palazzo Madama il 40,8% del Pd non sembra aver prodotto un turbinio di iniziative politiche. Anzi, ha congelato tutto. Tra i senatori democratici non renziani c’è chi parla di difficoltà di gestione da parte del governo. E chi ricorda che - boom elettorale o no - i numeri della maggioranza sono risicatissimi . Per ora le grandi riforme costituzionali rimangono incagliate tra le impuntature dei 20 irriducibili democratici e il no di FI al cosiddetto sistema francese (prevede che l’elezione dei nuovi senatori dovrà essere affidata a una platea estesa formata da consiglieri comunali-regionali e deputati) nel nome dell’elettività diretta. Ma nel partito di Berlusconi c’è chi racconta che l’ex Cavaliere baratterebbe il suo assenso alla riforma in cambio della mancata reintroduzione del falso in bilancio, quello che il ministro Andrea Orlando sta promettendo. Adesso l’accertamento parte solo su querela di parte, prossimamente dovrebbe diventare automatico. Al di là degli annunci e delle intenzioni, per ora il ddl anticorruzione a Palazzo Madama si è fermato. Coincidenze? Tra l’altro, c’è chi è molto critico sull’iniziativa di Grasso di presentarlo. “Deve tornare alla Camera - spiega un renziano - perché con i numeri del Senato è chiaro che il rischio è l’affossamento”.
ALLO STALLO sul fronte giustizia corrisponde uno stallo sul fronte riforme. Ieri la Commissione Affari costituzionali ha iniziato a discutere i 5200 emendamenti. È chiaro che si prende tempo. Luigi Zanda, il capogruppo, ha incontrato il “dissidente”, Corradino Mi-neo. Si parla di una sua sostituzione con il più ortodosso renziano, Stefano Collina. Ho parlato con Luigi Zanda che mi ha detto di essere preoccupato per la commissione ma non mi ha detto niente sulla mia sostituzione", dice lui. In ogni caso "non lo accetterei e non penso che il Pd se lo possa permettere". Tra le opzioni in agenda per sbloccare la situazione, un nuovo incontro tra Berlusconi e il premier la prossima settimana.
I membri della Commissione - intanto - si chiedono fino a che punto è disposto Renzi a mantenere la sua rigidità. Il punto di caduta individuato da molti è il “listino”, che prevede che quando si va a votare per le Regioni sia possibile individuare quelli che dovrebbero sedere nella Camera delle autonomie. Una forma di elettività a cui Matteo Renzi e il governo restano contrari. A costo di far saltare il banco e la legislatura?

il Fatto 5.6.14
Idea, non punire più i delinquenti: lo dice la legge
Per il delitti che prevedono pene fino a 5 anni esclusi carcere, domiciliari e servizi sociali
di Beatrice Borromeo

Venghino signori, venghino. Corrotti ed evasori, frodatori e pirati informatici, danneggiatori e bancarottieri: le belle sorprese non mancano mai per la banda dei “diversamente onesti”, colletti bianchi in testa che, ancora una volta, incassano l’assist del legislatore. Un regalo non da poco, perché chi commetterà certi tipi di reato, per quanto gravi (anche delitti che prevedono la reclusione fino a 5 anni), potrà evitare sia il carcere, sia i domiciliari, sia i servizi sociali, sia addirittura la macchia sulla fedina penale. In sostanza, non verrà proprio punito.
LA LEGGE delega è la numero 67 dello scorso 28 aprile ed è già stata approvata dalla Camera. A leggere bene, nascosto tra i classici sconti di pena, c’è il dono più apprezzato, che farà felice chi, per dirne una, ama creare discariche abusive. Secondo il testo, sarà infatti da “escludere la punibilità di condotte sanzionate con la sola pena pecuniaria” e anche, notate bene, quelle che prevedono “pene detentive non superiori nel massimo a cinque anni”. Solo che cinque anni non sono pochi. Questa novità, come ricostruisce l’avvocato penalista Federico Penco, riguarda infatti la maggioranza dei reati ambientali e informatici, buona parte dei reati societari e alcuni reati tributari (ma anche, per dire, chi istiga alla pedofilia). Si prevedono poi concitate riunioni di condominio: munitevi di chiavi appuntite, perché rigare l’automobile del vostro vicino di casa potrebbe diventare di fatto lecito (e chi pensa che questa sia istigazione a delinquere, si dia pace: essendo un reato punibile da uno a cinque anni, anche questo rientra nel lungo elenco di quelli che verrebbero “perdonati”). Il processo potrebbe dunque saltare in toto: ci si fermerà un passo prima, per valutare la sussistenza di due soli fattori, cioè la “particolare tenuità dell’offesa” e la “non abitualità del comportamento”. Poi starà al giudice decidere se procedere o, nella logica di svuotare le carceri (e le case-domiciliari, e le strutture alla Cesano Boscone dove si sconta l’affidamento in prova), fare finta che non sia successo nulla. Certo, alcuni vincoli reggono. Nel caso dei delitti contro l’ambiente, per esempio, il tizio che vuole farla franca deve volontariamente “rimuovere il pericolo ovvero eliminare il danno da lui stesso provocato, prima che sia esercitata l'azione penale”. Ma, se proprio non vuole, e dunque non può appellarsi alla particolare “tenuità” del reato, non si disperi. Perché la modifica principale contenuta nella legge delega è ancor più generosa: “Per i delitti per i quali è prevista la pena della reclusione tra i tre e i cinque anni - recita l’articolo - il giudice può applicare la reclusione domiciliare”. Se finora a evitare la galera erano di fatto i condannati fino a tre anni, e poi fino a quattro con le ultime “svuotacarceri”, l’asticella si alza ancora più, fino a cinque, nel nome di un’emergenza-celle ormai perenne (anche se molti penitenziari, nuovi o vecchi come l’Asinara, continuano a restare inutilizzati ). E i regali non finiscono qui: anche per i reati puniti fino a quattro anni, l’imputato potrà chiedere la sospensione del processo con la “messa alla prova”. Ancora una volta, basta risarcire il danno o eliminare le conseguenze pericolose del reato non solo per evitare la reclusione, ma addirittura perché il giudice dichiari l’estinzione del reato stesso. “Anche se la norma non è ancora entrata ufficialmente in vigore - racconta Mauro Lissia, giornalista - in Sardegna sta già interferendo con alcuni processi, tra cui uno per lottizzazione abusiva con 45 imputati, che è stato sospeso per vedere se è applicabile, al posto della reclusione, la messa in prova”. Massimiliano Ravenna, avvocato difensore proprio in quel processo, conferma che il Tribunale di Cagliari la scorsa settimana si è riservato di verificare l’applicabilità delle nuove norme: “Ci sono molte lacune - spiega Ravenna - ma la legge è promettente. Ho fatto già sospendere anche un altro processo, a Chia, in cui il mio cliente è accusato di dichiarazione fraudolenta e uso di fatture per operazioni inesistenti”.
BUONE notizie infine per chi, inaccontentabile, volesse rendersi direttamente irreperibile: verrà eliminato l’istituto della contumacia. “Si prevede che a fronte dell'assenza dell'imputato, il giudice debba rinviare l'udienza e disporre che l'avviso sia notificato all'imputato personalmente a opera della polizia giudiziaria; quando la notificazione non risulta possibile, e sempre che non debba essere pronunciata sentenza di non luogo a procedere, il giudice dispone con ordinanza la sospensione del processo nei confronti dell'imputato assente”. L’estate è alle porte e il Natale pure.

l’Unità 5.6.14
Chiuse 120mila fabbriche, persi un milione di posti
Confindustria: «L’Italia è ultima tra i Paesi del G8, superata da India e Brasile»
La produzione industriale è crollata del 25,5% tra il 2000 e il 2013

Il bilancio è da dopoguerra: 120mila aziende chiuse e un milione di posti di lavoro persi. Per il momento l’Italia figura ancora tra i Paesi che compongono il G8. Ma, dopo essere scivolata all’ultimo posto della classifica, infine superata dall’India e anche dal Brasile, si trova in una posizione molto meno confortevole di qualche anno fa. Certo era un altro mondo quello del 1975, quando fece il suo ingresso tra i grandi in qualità di sesta economia della Terra, ed in continua espansione. Ma sembra passata un’era anche dal non lontano 2008, prima che scoppiasse la crisi globale, quando ancora vantava il quinto piazzamento in classifica e poteva guardare dall’alto in basso anche la Corea del Sud.
Ora non è più così. Il rapporto sugli scenari industriali appena diffuso dal Centro studi di Confindustria ha confermato il sorpasso degli indiani e dei carioca, e non solo a causa della «fisiologica avanzata degli emergenti», ma anche di un arretramento produttivo «accentuato da demeriti domestici». Non stupiscono i tentativi di rassicurazione del medesimo rapporto, secondo cui l’ottavo posto «in sè rimane un ottimo piazzamento», soprattutto se si considera che il nostro Paese è solo 23esimo per grandezza demografica. Manon si possono nemmeno dimenticare le previsioni meno ottimistiche circolate nei mesi scorsi, che rischiavano di vedere l’Italia già oggi fuori dal club del G8 o addirittura fuori dai primi dieci produttori mondiali entro il 2018 (a favore di Canada e Spagna).
LA PERDITA DIPRODUZIONE
Il dato davvero allarmante, a prescindere dalle offese all’orgoglio nazionale (sui gradini più alti del podio, del resto, anche nel 2013 si è confermata la terna Cina, Stati Uniti, Giappone, con la Germania sempre quarta, seguita da Corea del Sud e India), resta però il costo in termini manifatturieri ed occupazionali in cui si è tradotto questo progressivo arretramento. Mentre i volumi mondiali di produzione industriale sono cresciuti del 36% tra il 2000 e il 2013, l’Italia si trova «in netta controtendenza» con una diminuzione del 25,5%. «Fa peggio proprio dove gli altri vanno meglio» si legge nello studio di viale dell’Astronomia. Una situazione che ha portato il presidente Giorgio Squinzi a parlare di «dati tragici», ma senza nessuna concessione al vittimismo, facile tentazione del Belpaese. «Non siamo vittime di un destino crudele e ineluttabile, siamo noi che possiamo e dobbiamo costruire il nostro futuro» ha puntualizzato il leader degli industriali, avvertendo però che serve «un salto di mentalità, una svolta chiara e decisa, e mi pare che si stiano creando le condizioni per tale svolta». Tenendo sempre a mente la direzione da intraprendere, con il lavoro come «priorità assoluta», Squinzi si è detto «sicuro che ce la possiamo fare». O meglio, «ce la dobbiamo fare».
Le conseguenze, in caso contrario, potrebbero farsi più pesanti di quanto siano già oggi che la «massiccia erosione della base produttiva» ha portato alla chiusura di oltre 100mila fabbriche con la distruzione di quasi un milione di posti di lavoro tra il 2001 e il 2011, a cui vanno aggiunte le perdite del biennio successivo, ovvero «altri 160mila occupati e 20mila imprese» che sono sparite dal nostro tessuto produttivo. Complessivamente, dunque, «nel 2007-2013 la produzione è scesa del5%medio annuo, una contrazione che non ha riscontro negli altri più grandi Paesi manifatturieri». Le cause del tracollo sono fin troppo note, «il calo della domanda interna, l’asfissia del credito, l’aumento del costo del lavoro slegato dalla produttività, e la redditività che ha toccato nuovi minimi», a cui vanno aggiunti anche «i condizionamenti europei». Vale a dire, «le politiche fiscali restrittive » e «il paradosso di un euro che si apprezza, specialmente nei confronti delle valute di molte economie emergenti, e frena così il driver delle esportazioni ».
Così, mentre la produzione manifatturiera mondiale «ha ripreso a crescere », rilevano gli economisti di Confindustria, «arranca l’Europa» e soprattutto arranca l’Italia, «tra tutte le grandi economie industriali quella più in difficoltà». Ragioni d’ottimismo restano, però, «una forte capacità di competere» e i «segnali di cambiamento delle strategie delle imprese » per reagire al credit crunch senza ridurre gli investimenti.

l’Unità 5.6.14
Cgil Cisl e Uil preparano l’offensiva sulle pensioni

Divisi martedì sullo sciopero in Rai, i sindacati confederali si ricompattano e preparano una piattaforma comune su pensioni e fisco per sfidare Matteo Renzi e il suo governo sul piano concreto delle riforme.
Complice la commemorazione in mattinata dei 70 anni del Patto di Roma, Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti si sono rivisti e hanno confermato la volontà di trovare una posizione comune entro l’inizio della prossima settimana. Gli appuntamenti - assai serrati - sono già stati programmati: lunedì si incontreranno le segreterie di Cgil, Cisl e Uil; martedì mattina sono convocati il direttivo della Cgil e gli esecutivi di Cisl e Uil, mentre al pomeriggio di martedì è prevista la riunione unitaria degli esecutivi delle tre confederazioni che dovrà votare il via libera al testo.
Nata sotto la spinta della relazione congressuale di Susanna Camusso a Rimini, la piattaforma comune parte da due temi sui quali il governo non si è ancora speso: le pensioni e la riforma fiscale - che per stessa ammissione di Matteo Renzi richiederà tempi più lunghi del previsto.
Ma è sulle pensioni che Cgil, Cisl e Uil vogliono spingere il loro affondo e la loro sfida al governo. L’esclusione dei pensionati dai beneficiari degli 80 euro di bonus fiscale ha creato malcontento nella categoria - Spi Cgil, Fnp Cisl e Uilpa stanno raccogliendo milioni di cartoline di protesta da portare a Matteo Renzi - e come ricordato nella maggior parte degli interventi al congresso Cgil la critica che la maggior parte degli iscritti fa al sindacato è quella di essersi battuta poco contro la riforma delle pensioni.
Proprio la modifica della «riforma Fornero» sarà dunque il primo punto della piattaforma. Cgil, Cisl e Uil partono dalla constatazione della insostenibilità sociale della riforma e puntano a renderla flessibile, a partire dall’età pensionabile - la proposta Damiano prevede una decurtazione a scalare sull’assegno pensionistico a partire dai 62 anni di età - e dalla diversificazione delle mansioni - chi lavora alla catena o è maestra d’asilo non può andare in pensione a 66 anni.
Altro punto fermo della piattaforma è quello di prevedere un ampio percorso di discussione delle proposte sui luoghi di lavoro, in modo da rendere partecipi il maggior numero di lavoratori della battaglia comune per modificare l’odiata riforma Fornero.
Per quanto riguarda la riforma fiscale - da sempre cavallo di battaglia di Cisl e Uil - i sindacati confederali puntano a rendere strutturale il bonus di 80 euro, di estenderlo a pensionati, precari e partite Iva e di tagliare ulteriormente il cuneo fiscale, rivedendo poi le aliquote Irpef.
A 70 ANNI DAL PATTO DI ROMA
Come detto la giornata di ieri è stata dedicata al ricordo. Le fondazioni Buozzi, Di Vittorio e Pastore organizzavano all’Ara Pacis di Roma una mattinata di lezioni e tavola rotonda per ricordare il 70esimo del Patto di Roma, l’accordo - a città appena liberata - che decretava la rinascita del sindacato libero e la ricostituzione della Cgil unitaria, che durò solo sei anni - fino al 1950, causa guerra fredda - furono fondate Cisl e Uil. Assieme ai presidenti delle fondazioni Di Vittorio (Carlo Ghezzi), Buozzi (Giorgio Benvenuto) e Pastore (Aldo Carera), Pietro Craveri, storico della Sapienza di Roma, Emanuele Macaluso e il direttore del Censis, Giuseppe De Rita hanno ricordato l’importanza di quel Patto.
Susanna Camusso ha sottolineato come a quel tempo «c’era un rapporto diretto tra governo dell’economia e le condizioni dei lavoratori», oggi «bisogna attuare una straordinaria risindacalizzazione delle politiche di rappresentanza del mondo del lavoro».

il Fatto 5.6.14
“Sfruttati e missi alla porta” Call center, precari contro Renzi
Roma, i lavoratori al governo: “basta con le delocalizzazioni selvagge”
di Salvatore Cannavò


Buongiorno, sono Rosi in che cosa posso esserle utile?”. Per dodici anni, Rosi, di Palermo, ha ripetuto questa frase a ogni singola telefonata a cui ha risposto dalla sua postazione di call center Almaviva. Ora si è stufata: “È arrivato il momento - grida dal palco - in cui qualcun altro deve essere utile a me”. Si rivolge al governo e con lei ci sono circa cinquemila lavoratori che da tutta Italia hanno attraversato le vie di Roma per riempire piazza Ss. Apostoli. Manifestazione e sciopero riusciti (80% l’adesione media) per un conflitto a cui il governo Renzi è chiamato a dare risposta. Non a caso, intervenendo dal palco, Susanna Camusso afferma che “solo dal lavoro si cambia davvero verso all’Italia”.
I LAVORATORI dei call center sono circa 80 mila e oggi si sentono molto più vicini alle aziende con cui hanno un contratto di lavoro. Almeno quelle che rispettano i diritti. “Il problema non è la società - dice un lavoratore Almaviva di Catania - loro non delocalizzano, lo hanno scritto nello statuto. Il problema sono i committenti”. Sono questi a strozzare le circa 2000 aziende del settore imponendo ribassi dei costi e minacciando di ricorrere a strutture collocate all’estero, dove i salari sono più bassi. I sindacati di categoria di Cgil, Cisl e Uil hanno recentemente denunciato, alla Procura di Roma e all’Agcom, Eni, Fastweb, Mediaset, Sky, Telecom, Vodafone, Wind “e altre” per “l’assoluta inosservanza” della legge 83/2012 (Decreto sviluppo) in merito alle “attività gestite in Paesi esteri”. A questa situazione si aggiunge il fenomeno dei troppi incentivi. La Cgil ha calcolato che il costo del lavoro per chi usufruisce dei contributi per l’occupazione (legge 407/90) o dei fondi Fse può ridursi del 31 ma anche dell’87%: calcolando in 14,5 euro l’ora la paga media in aziende regolari, per quelle che, al Sud, usufruiscono degli incentivi il compenso scende a 11 euro mentre per coloro che cumulano anche i fondi Fse si arriva a 7,7 euro l’ora (ovviamente lordi). La normativa, quindi, induce a creare aziende ad hoc che muoiono al termine degli incentivi. Come la Phonemedia-OmniaNetwork, in Calabria, che dopo aver ottenuto 11 milioni di euro di Fse, dopo tre anni ha lasciato a casa 12 mila lavoratori.
Nella manifestazione di ieri va anche registrato anche un nuovo orgoglio nazionale: “Vogliamo difendere il lavoro italiano e vogliamo che gli utenti siano davvero informati su chi risponde alle loro chiamate, se si tratta di un operatore italiano oppure no” ripetono un po’ tutti. La legge, infatti, impone ai call center di informare il cliente sul luogo in cui la struttura opera, ma questa disposizione è quasi sempre aggirata.
L’ALTRO FENOMENO è quello che regola il massimo ribasso. In un settore in cui il 70% del fatturato è costituito dal costo del lavoro, per ottenere una commessa presso un grande ente si deve risparmiare al massimo. I sindacati denunciano comportamenti scorretti anche da parte delle amministrazioni pubbliche. Come il Comune di Milano che ha affidato la gestione del servizio 020202 con gara al massimo ribasso a cui ha partecipato la Comdate che ha sedi in Romania e Croazia. Situazione analoga si potrebbe verificare a Roma con il servizio 060606 per ora affidato ad Almaviva. L'azienda pubblica Acea di Roma ha indetto una gara in cui ha autorizzato la delocalizzazione dell'attività.
Terzo problema , i cambi di appalto, molto frequenti viste le caratteristiche del settore, comportano la chiusura dei rapporti di lavoro. Allo stesso tempo, lo si vede anche dalla composizione della piazza, il call center non è più l'ambito che veniva raffigurato da Paolo Virzì in Tutta la vita davanti. “Io ho il mutuo e mantengo tre figli” dice una lavoratrice siciliana di 40 anni. La parola più gettonata della manifestazione è “futuro” insieme a “dignità”. La richiesta generale è quella di avere più regole e di poter lavorare “serenamente” in un settore ancora deregolamentato. L’ultimo intervento, nel 2007, a opera del ministro dell’epoca, Cesare Damiano - per lui l’ovazione dalla piazza - permise di stabilizzare 26 mila lavoratori. A Renzi non si chiede tanto ma solo “alcuni interventi legislativi” come la modifica dell’articolo 2112 del Codice civile per garantire i posti di lavoro in caso di cambio di appalti, la sistemazione della direttiva europea sulle delocalizzazioni e una revisione drastica del sistema degli incentivi. “Il governo non è né insensibile né impreparato” ha risposto il viceministro allo Sviluppo economico, Claudio De Vincenti, annunciando per il mese di giugno un tavolo di confronto con aziende e sindacati.

La Stampa 5.6.14
La pressione sfiora il 40 per cento, il sommerso vale 50 miliardi
La Corte dei Conti bacchetta il governo
“Gli 80 euro in busta paga non bastano”
I magistrati contabili: la pressione fiscale in Italia è eccessiva e mal distribuita
«La misura sull’Irpef? Un surrogato»

qui

il manifesto 5.6.14
Riforme, il governo non ha i numeri
Stallo. Il cosiddetto "Modello francese" non ha i voti in commissione. Per il nuovo senato renziani costretti a cercare una mediazione con Berlusconi. Intanto prendono tempo
di Andrea Fabozzi


«Il nodo è la com­po­si­zione del senato». Siamo sem­pre lì, alle prime cri­ti­che che la pro­po­sta di riforma costi­tu­zio­nale del governo aveva rice­vuto, ormai quasi tre mesi fa. E non sono ser­viti gli ulti­ma­tum, né la raf­fica di solu­zioni alter­na­tive alla sem­plice ele­zione diretta dei sena­tori soste­nute dal governo (nomina di diritto, libertà alle regioni di sce­gliere il pro­prio sistema). L’ultima è il cosid­detto «modello fran­cese», che di fran­cese ha poco o nulla, e che per i ren­ziani ha retto come solu­zione di media­zione appena qual­che giorno. Fino a che Forza Ita­lia l’ha bocciata.

Il governo, che non rinun­cia al ruolo di regi­sta delle riforme mal­grado i pes­simi risul­tati rac­colti, deve quindi cam­biare ancora una volta strada. È in dif­fi­coltà, come ammette anche il sot­to­se­gre­ta­rio Piz­zetti, ieri in com­mis­sione in sosti­tu­zione della mini­stra Boschi. Appunto: «Il nodo è la com­po­si­zione del senato». Al pre­si­dente del Con­si­glio con­ti­nuano ad arri­vare grosse spinte — ieri il (deca­dente) pre­si­dente della com­mis­sione euro­pea Bar­roso ha detto che l’Italia non può fare a meno delle riforme di Renzi — ma il peso degli emen­da­menti pre­sen­tati in com­mis­sione costringe a un nuovo stop. A que­sto punto anche il sì dell’aula entro fine mese è a rischio. A meno che il governo non arrivi a chiu­dere il dibat­tito in com­mis­sione per por­tare tutto in aula, con i tempi con­tin­gen­tati (e sarbbe clao­roso per una riforma costituzionale).

Il pro­blema non è tanto la mole degli emen­da­menti leghi­sti — oltre tre­mila, in totale supe­rano i cin­que­mila -, che pos­sono essere riti­rati, anche se le con­di­zioni che con­ti­nua a porre Cal­de­roli sono incon­ci­lia­bili con le tesi gover­na­tive (di certo lo è la terza): «Ridu­zione del numero dei depu­tati oltre che dei sena­tori, ride­fi­ni­zione delle fun­zioni del senato, senato eletto dalla gente e non dalla casta, poteri alle regioni». Il punto è che quando si arri­verà al voto il governo con­ti­nuerà ad essere in mino­ranza in com­mis­sione. Come lo è stato dall’inizio, salvo quella notte che Forza Ita­lia decise di soste­nere il testo base del governo, piaz­zando un voto a tat­tico favo­re­vole in mezzo a dichia­ra­zioni tutte con­tra­rie. Tant’è che aleg­gia ancora il buco nero pro­ce­du­rale, in virtù del quale la com­mis­sione sta ragio­nando su un testo di legge pre­ce­den­tye­mente smen­tito da un ordine del giorno.

Il cosid­detto «modello fran­cese», cioè l’elezione indi­retta dei sena­tori da parte di un col­le­gio di con­si­glieri comu­nali e regio­nali, non ha i numeri per pas­sare in com­mis­sione: è sotto di due o tre voti. Forza Ita­lia lo osteg­gia soprat­tutto per­ché riporta i sin­daci al cen­tro del pro­getto di rin­no­va­mento della seconda camera, i sin­daci (tipo, il sin­daco di Vene­zia) e i rap­pre­sen­tanti degli enti locali. Nel modello (non fran­cese ma) ita­liano sareb­bero gli unici eleg­gi­bili, e si dà il caso che siano in mag­gio­ranza Pd. Ber­lu­sconi, però, nei suoi con­ti­nui ripen­sa­menti, non ha ancora rinun­ciato al «patto del Nazareno».

Solo con un sì sta­bile di Forza Ita­lia la riforma-cancellazione del senato comin­ce­rebbe a fare passi avanti. È per que­sto che la rela­trice Finoc­chiaro prende tempo fino alla pros­sima set­ti­mana per calare la ver­sione defi­ni­tiva dei suoi emen­da­menti. E, nono­stante tutto, non rompe con l’altro rela­tore, Cal­de­roli, sapendo che può tor­nare utile come testa di ponte in campo for­zi­sta. Tutti i voti sono impor­tanti, ma con­vin­cere un solo sena­tore non baste­rebbe in ogni caso. E così le voci di una pos­si­bile sosti­tu­zione in com­mis­sione del sena­tore «civa­tiano» Mineo ser­vono solo come pres­sioni inde­bite. Non regge l’argomento che, avendo sosti­tuito un ren­ziano, Mineo dovrebbe ade­guare i suoi voti. Per­ché in com­mis­sione tra i sena­tori del Pd ce n’è anche uno che ha sosti­tuito Chiti, cioè colui che si è inte­stato la bat­ta­glia per l’elezione diretta.

il manifesto 4.6.14
Un senato tutto sbagliato
di  Massimo Villone


Per molti, l’indubbio suc­cesso di Renzi nel voto euro­peo ha raf­for­zato il governo. Di certo, è stata l’occasione di un forte e imme­diato rilan­cio delle riforme pro­po­ste dall’esecutivo, con par­ti­co­lare accento sul senato, di cui si pro­pone ora una ver­sione simil-francese. Il che accre­sce, non can­cella, per­ples­sità e dubbi. Non sfugge, anzi­tutto, che non si può barat­tare l’architettura isti­tu­zio­nale di un paese, desti­nata a con­for­marne i destini e a durare nel tempo, con il suc­cesso — intrin­se­ca­mente e fatal­mente effi­mero, ancor­ché impor­tante — in un sin­golo turno elettorale.

Tanto più con­si­de­rando che la vit­to­ria di Renzi è stata dovuta certo alla sua abi­lità, ma ancor più agli errori o debo­lezze dei suoi com­pe­ti­tori. Inol­tre, è ben vero che Renzi esprime l’unica sini­stra (??) vin­cente in Europa. Ma è pur sem­pre uno che vince tra chi perde. Ai vin­centi veri la favo­letta delle deci­sive riforme isti­tu­zio­nali ita­liane è pro­ba­bile che inte­ressi poco. Molto più utile al paese e alla sua imma­gine in Europa sarebbe una riforma — quella sì, epo­cale — della PA, o una forte ini­zia­tiva anti­cor­ru­zione. Ma il momento della verità verrà pro­ba­bil­mente con la legge di sta­bi­lità, e dopo l’estate. Fino ad allora, l’ingegneria isti­tu­zio­nale offrirà ancora spa­zio a una stra­te­gia movi­men­ti­sta e di mar­ke­ting politico.

Que­sto è il clima in cui cala la pro­po­sta di un senato che si vor­rebbe ispi­rato al modello fran­cese. È stato già bene chia­rito su que­ste pagine che il richiamo è ingan­ne­vole, e le dif­fe­renze sostan­ziali. Va soprat­tutto ricor­dato che la Fran­cia ha deci­sa­mente cam­biato rotta rispetto a una lunga tra­di­zione, con una legge orga­nica — di cui abbiamo già rife­rito — che vieta il cumulo di man­dati, salvo che per alcune cari­che, escluse per i con­di­zio­na­menti e le pru­denze della poli­tica. A un divieto totale prima o poi si arri­verà. E va sot­to­li­neato come nel dibat­tito che ha pre­ce­duto la legge le cri­ti­che siamo state dirette verso il som­marsi delle cari­che in sé, visto come ido­neo a favo­rire l’inquinamento della poli­tica. È pro­prio que­sto argo­mento che spinge il can­di­dato pre­si­dente Hol­lande a pro­met­tere in cam­pa­gna elet­to­rale il divieto di cumulo. I fran­cesi, come gli ita­liani, hanno una bassa opi­nione dei poli­tici e della poli­tica, e Hol­lande vede nel divieto l’aggancio per una svolta. E pen­sare che nella clas­si­fica del Cor­rup­tion Per­cep­tion Index 2013 la Fran­cia è in alta clas­si­fica, al 22mo posto. Noi, che arran­chiamo al 69mo, pen­siamo a un senato total­mente e neces­sa­ria­mente fon­dato sul cumulo dei man­dati. Ammet­tendo inol­tre in via esclu­siva al cumulo un ceto poli­tico segnato da cor­ru­zione e malaf­fare, come anche le più recenti noti­zie di stampa dimo­strano. È que­sta la riforma che ci pro­iet­terà nell’olimpo d’Europa?

Anche senza voler con­si­de­rare le pic­cole mise­rie umane, potremo ricor­dare che in Fran­cia la pre­senza in par­la­mento di per­so­nale poli­tico regio­nale e locale era stata sem­pre vista in pas­sato come con­trap­peso a uno stato for­te­mente accen­trato nelle strut­ture pub­bli­che e nella poli­tica. Nel momento in cui si è aperta una — pur limi­tata — pro­spet­tiva di auto­no­mie ter­ri­to­riali, l’argomento ha perso peso, e si è giunti al divieto di cumulo. È signi­fi­ca­tivo poi che, nei casi in cui il cumulo è ancora con­sen­tito, venga per­ce­pita una sola inden­nità: ma è quella da parlamentare.

In Ita­lia, auto­no­mie regio­nali e locali forti sono già una realtà. Se mai, vediamo una grave debo­lezza dei livelli nazio­nali nei sog­getti poli­tici e nelle isti­tu­zioni. Il rischio non è più quello della sopraf­fa­zione cen­tra­li­stica, ma piut­to­sto la dege­ne­ra­zione in chiave di fram­men­ta­zione e di par­ti­co­la­ri­smo loca­li­stico. È in que­sto con­te­sto che si vuole man­dare a Roma un sena­tore non elet­tivo, dun­que privo di spe­ci­fica inve­sti­tura popo­lare, e pagato come con­si­gliere comu­nale, regio­nale, sin­daco o gover­na­tore. Il seg­gio par­la­men­tare è un bene­fit aggiun­tivo con­nesso alla carica locale, alla stre­gua di un posto auto. Che dif­fe­renza potrebbe mai fare che venga sele­zio­nato da una pla­tea di suoi pari? Ne trar­rebbe forse auto­re­vo­lezza e cre­di­bi­lità, legit­ti­ma­zione a legi­fe­rare e addi­rit­tura a rifor­mare la Costi­tu­zione? Pro­prio non lo crediamo.

La pro­po­sta di riforma del senato rimane pes­sima, anche nelle ultime decli­na­zioni. Può darsi che il muro di 5.200 emen­da­menti serva a ral­len­tarla. Ma dob­biamo sapere che nel par­la­mento ita­liano un vero ed effi­cace ostru­zio­ni­smo di oppo­si­zione non è — per rego­la­mento e per prassi — tec­ni­ca­mente pos­si­bile. Meglio sarebbe che il governo, piut­to­sto che insi­stere su una pro­po­sta per molti versi inac­cet­ta­bile, facesse un inve­sti­mento poli­tico sul titolo V, dove ha messo in campo una pro­po­sta asso­lu­ta­mente difen­di­bile, volta a cor­reg­gere stor­ture evi­denti intro­dotte nel 2001 che hanno gene­rato un enorme con­ten­zioso davanti alla corte costi­tu­zio­nale. Non è certo un caso che si siano levate le pro­te­ste di chi teme di per­dere potere reale. Ne par­le­remo. Ma pro­prio que­sto ci dimo­stra come sia dif­fi­cile rimet­tere sui binari giu­sti una cat­tiva riforma. Si dice che le costi­tu­zioni siano fatte per durare. Sfor­tu­na­ta­mente, durano anche gli errori fatti nello scriverle.

Repubblica 5.6.14
Senato, intesa lontana presto nuovo incontro tra Renzi e Berlusconi
Contatti Guerini-Gianni Letta dopo il no di Fi al sistema francese

Il Pd diviso e il centrista Mauro fanno rischiare la maggioranza
di Giovanna Casadio


ROMA. L’incontro-bis ci sarà. Renzi e Berlusconi si vedranno nella prossima settimana per tentare di nuovo di sbloccare le riforme. A preparare il colloquio sono da ieri il vice segretario del Pd Lorenzo Guerini e Gianni Letta. L’abolizione del Senato è impantanata. A Palazzo Madama regna il caos. La giornata delle riforme comincia con uno scontro in casa pd e finisce con la lite tra governo e Regioni sul Titolo V, cioè sulla devolution: Vasco Errani è furibondo.
Alle 9 del mattino sulla testa di Corradino Mineo si abbatte la collera di Luigi Zanda: «In ogni commissione abbiamo solo un voto di maggioranza, lo sai. Non puoi non avere senso di responsabilità». Sul dissidente Mineo pende il rischio di rimozione dalla commissione Affari costituzionali. Il Pd è diviso. Il “modello francese” per il nuovo Senato delle autonomie ha sempre meno simpatizzanti. Se venisse votato oggi, sarebbe bocciato in commissione perché la maggioranza non c’è. Fi non vuole sentire parlare del patto sulle riforme. Berlusconi è allergico a un modello di Senato non eletto direttamente dai cittadini. Come se non bastasse, un gruppo di senatori dem rilancia sul taglio dei deputati: siano 500. Il nodo riforme invece di dipanarsi si aggroviglia. Il pallino è in mano al premier. Ma una cosa è certa: senza riforme - ripete Renzi - si va tutti a casa.
La trattativa è in corso. La ministra Maria Elena Boschi ammette che c’è un “piano B”: altre ipotesi sono sul tappeto. Anche l’Ncd avanza perplessità.
Tuttavia Alfano dichiara che il nuovo Senato si può votare a maggioranza, andando al referendum confermativo. In mattinata si vedono a Palazzo Chigi Anna Finocchiaro, presidente della commissione, e la Boschi.
Sono pronti una ventina di emendamenti dei due relatori, cioè Finocchiaro e il leghista Roberto Calderoli. Ma ci dev’essere «la quadra» politica per andare avanti. Per ora sul tavolo della commissione ci sono 16 fascicoli di emendamenti: solo una minima parte (fino all’articolo 9) degli oltre 5 mila depositati. Sulla riforma del Senato bisogna trovare un’intesa al più presto, se no saltano i tempi. Calderoli pone tre condizioni per ritirare i 3.806 emendamenti lumbàrd: devolution, nuovo Senato eletto dai cittadini, deputati ridotti a 500. Daniela Santanchè, forzista, invita il partito a dire “niet”: «Forza Italia si divincoli dalla catena del patto con Renzi». La fibrillazione attraversa tutti gli schieramenti. Mario Mauro, centrista, ago della bilancia in commissione, annuncia: «Sono totalmente contrario a questo nuovo Senato alla francese. Non avranno mai il mio voto». Calderoli sostiene che Berlusconi con un Senato “alla francese” eletto dall’assemblea di amministratori, sarebbe penalizzato e quindi la proposta non passerà mai. Ringalluzziti dal successo alle europee, i leghisti preparano l’ostruzionismo e chiedono modifiche persino sull’articolo 1 della Costituzione: «... la sovranità appartiene ai popoli», invece che al popolo. Una provocazione. L’ex ministro Giulio Tremonti si presenta in commissione per illustrate i suoi emendamenti sul premierato forte. A fronteggiare gli attacchi durante la riunione della commissione a Palazzo Madama non c’è Boschi ma il sottosegretario Luciano Pizzetti. I senatori dell’opposizione denunciano la doppiezza: in commissione si chiacchiera, la trattativa si fa fuori dal Parlamento. E Pizzetti smussa («Il governo cerca l’intesa, non la guerriglia») e si mostra ottimista: «Non subiremo l’ostruzionismo, il governo è fiducioso ».

Il Sole 5.6.14
Senato, nuovo vertice Renzi-Berlusconi
Pizzetti (Pd): elezione indiretta punto fermo - «Il modello francese? È solo una delle ipotesi»
di B. F.


ROMA Un nuovo incontro la prossima settimana tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, per superare lo stallo sulla riforma del Senato. Le diplomazie sono già a lavoro. Gianni Letta ieri si è intrattenuto a lungo con il Cavaliere a Palazzo Grazioli. Berlusconi ha bisogno di riconquistare spazio politico e vuole sfruttare l'ansia del premier di presentarsi con la riforma approvata dal Senato prima dell'inizio dell'avvio del semestre europeo a guida italiana, e quindi entro questo mese. Tempi strettissimi soprattutto se confrontati con quei 5.200 emendamenti al testo del governo di cui ieri è cominciata l'illustrazione in commissione Affari costituzionali.
La proposta del cosiddetto modello francese per l'elezione indiretta dei senatori è stata bocciata senza appello da Fi ma anche dalla Lega e dalla minoranza del Pd e non piace neppure al Ncd. Spetterà ora a Renzi decidere se aprire a una nuova mediazione. Intanto i due relatori, Anna Finocchiaro (che è anche presidente della Commissione) e Roberto Calderoli stanno lavorando a una possibile sintesi. «Dobbiamo approvare le riforme al più presto – ha confermato Finocchiaro - se è possibile entro giugno. Ci sono moltissimi emendamenti ma c'è ancora una riserva di attività dei relatori che mi auguro vada a buon fine. Io e Calderoli non ci arrendiamo». E in effetti anche Calderoli, nonostante il giorno prima si fosse presentato con i 3.800 emendamenti leghisti, si mostra tutt'altro che pessimista: «Qualcosa si muove». Il giorno clou potrebbe essere martedì. Almeno così lascia intendere il sottosegretario alle Riforme Luciano Pizzetti, che apre a nuove proposte sottolineando che il modello francese è solo «una delle ipotesi». Certo «l'elezione indiretta dei senatori è un punto fermo», ha ribadito sottolineando che fa parte anche del patto del Nazareno tant'è – ricorda Pizzetti – che Fi «ha detto solo no al modello francese».
Quanto al possibile incontro tra Renzi e Berlusconi, l'esponente del governo sembra avvalorarlo: «Così si dice». Al momento però una decisione ancora non c'è. Il Ncd non vede di buon occhio un nuovo patto tra il premier e il Cavaliere: «Noi dobbiamo tentare di fare le riforme con la maggioranza più ampia possibile – ha avvertito Angelino Alfano – ma se ci sarà comunque la maggioranza assoluta dei senatori a votare la riforma facciamo il referendum e il popolo deciderà se questa riforma si può approvare o no».
Ma anche la maggioranza assoluta è tutt'altro che scontata. La minoranza Pd resta contraria all'elezione indiretta e non sembra intenzionata a farsi da parte, soprattutto in commissione. Lo confermano le voci di un trasferimento di Corradino Mineo dalla Commissione Affari costituzionali, smentito seccamente dal diretto interessato: «Il Pd non si può permettere di sostituirmi, non lo accetterei».

Corriere 5.6.14
Senato, l’ostacolo di 4.700 emendamenti
In commissione maggioranza a rischio
L’ipotesi di sostituire Mineo, favorevole all’elezione diretta
«Non l’accetterei»
di Dino Martirano


ROMA — «Calderoli un osso duro? Anche Renzi lo è. Non è che con 5 mila emendamenti qualcuno si può illudere di inchiodarci per 200 ore in commissione. Gli strumenti per andare avanti ci sono... Abbiamo il carro per tirare fuori il testo dalla palude». Al termine di una seduta interlocutoria sulla riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione (rapporto tra lo Stato e le Autonomie), il sottosegretario Luciano Pizzetti (Rapporti con il Parlamento) riassume con queste parole lo stallo che si sta consumando in commissione Affari costituzionali a Palazzo Madama e, per la prima volta, lascia intendere che il governo potrebbe anche forzare la mano portando in aula il «testo base» non emendato entro la data fissata del 30 giugno. Va avanti il vice della ministra Maria Elena Boschi: «Il governo non intende mica fare la guerriglia, anzi vogliamo continuare a trattare, cerchiamo l’intesa. C’è tutto il tempo. Siamo comunque vicini al punto di non ritorno che arriverà la prossima settimana quando si inizierà a votare anche per la composizione del Senato».
Nella trincea di Palazzo Madama — dove gli uffici termineranno solo oggi di fascicolare i 4700 emendamenti, circa 500 in meno del previsto perché la Lega ha prodotto testi fotocopia che sono stati eliminati — la tensione si taglia a fette. E Roberto Calderoli conferma che tra le condizioni per ritirare il carrello di emendamenti c’è la diminuzione del numero dei deputati, oltre che dei senatori. Un punto, questo, inaccettabile per il governo, che non vuole toccare Montecitorio.
Il problema è che la proposta del governo (riduzione dei senatori ed elezione indiretta degli stessi) non ha la maggioranza certa in commissione al Senato dove 15 dei 29 componenti sarebbero per l’elezione diretta. La differenza la fanno Mario Mauro (Popolari), che si è lamentato per essere stato tenuto fuori dalle consultazioni, e Corradino Mineo (favorevole all’elezione diretta insieme ad altri 19 senatori del Pd guidati da Vannino Chiti) che è stato convocato nello studio del capogruppo Luigi Zanda per una reprimenda: «Zanda non ha parlato della mia sostituzione in commissione ma è chiaro che una decisione del genere non l’accetterei», ha detto Mineo che sostituisce Marco Minniti e che ora rischia di essere rimpiazzato da un renziano doc. Zanda non commenta: «Non sono uso raccontare gli incontri che intrattengo nel mio ufficio».
Anche con il sostituto di Mineo, però, il Pd avrebbe un problema in commissione perché non ci sarebbero i numeri per far passare il cosiddetto «modello francese» (una platea di consiglieri regionali e comunali elegge il Senato) che, a dire il vero, perde quota. Per questo il sottosegretario Pizzetti ricorda che è ancora in piedi l’accordo sulle riforme con Forza Italia e che nell’aria c’è sempre un nuovo incontro tra Renzi e Berlusconi: «Il capogruppo Romani ha detto no al modello francese ma quella non è una è proposta del governo... », insiste Pizzetti. Anche Donato Bruno (FI) è convinto che l’accordo verrà rispettato e il clima tra governo e Forza Italia — nonostante Daniela Santanché («Berlusconi si deve divincolare dall’abbraccio di Renzi») — non è così sfavorevole, soprattutto per quel che riguarda le riforme della giustizia. Oggi si vede la conferenza dei capigruppo che dovrà decidere se far slittare di un mese l’approdo in aula al Senato del ddl anticorruzione previsto per il 10 giugno. E ieri il Guardasigilli Andrea Orlando è andato a Palazzo Madama per rassicurare i senatori del Pd Casson e Lumia che, su input del governo, avevano congelato i loro emendamenti sull’allungamento dei termini di prescrizione per i reati di corruzione. Il ministro ha confermato che la materia della lotta alla corruzione sarà oggetto di un testo organico del governo a fine giugno. Cioè dopo la data presunta del primo sì sulla riforma del Senato. Ma dopo gli arresti per l’inchiesta sul Mose di Venezia i tempi dell’anticorruzione potrebbero essere più stretti.

Corriere 5.6.14
Ma svilire un’Aula non cancellerà i nostri mali
di Corrado Stajano


L a necessità di fare in fretta e furia le riforme costituzionali è davvero nel cuore degli italiani come viene ossessivamente ripetuto dagli scranni alti e bassi di chi esercita il potere politico? È così dissennata l’opinione che nuove leggi di somma importanza per la struttura e l’essenza stessa di una democrazia parlamentare come la nostra debbano essere portate a compimento soltanto quando i problemi del vivere quotidiano sono risolti e gli equilibri politici e sociali ripristinati?
Quelle riforme — il Senato da rendere impotente, soprattutto — non sembrano davvero utili a far sì che milioni di persone abbiano un lavoro, che centinaia di migliaia di giovani all’avventura ritrovino speranza nel futuro, che le imprese possano funzionare senz’affanni, con la dovuta normalità. Hanno piuttosto l’aria di essere un alibi. La legge elettorale, quella sì necessaria, rifatta dopo anni simile al disastroso «Porcellum», è ancora dimezzata, approvata alla Camera, non ancora al Senato.
Le strombazzate riforme utili, come sembra, a dar maggiori poteri all’esecutivo, non servono a risolvere i nostri mali. Pochi giorni fa il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha detto che i problemi centrali del Paese sono sempre «la crescita e l’occupazione». E la Commissione europea ha chiesto lunedì scorso «uno sforzo aggiuntivo» dello 0,2% per il Pil nel 2014. Non occorre aver frequentato la London School of Economics per capire che la crisi non è ancora finita, nonostante le vanterie elettorali.
Non capita a quegli uomini e a quelle donne — le omologate ministre del governo Renzi, tutte uguali, nel vestire, nell’aspetto, nel porgere, spesso nel non sapere — di guardare i volti preoccupati e ansiosi delle persone, al Nord, al Sud, nelle grandi città, nelle aree metropolitane, nelle piccole città, nei paesi, di entrare in un supermercato, di salire su un tram, di osservare gli operai di una fabbrica al primo turno, alle 6 della mattina, timorosi ogni volta di trovare i cancelli sbarrati perché l’azienda si è trasferita in Polonia, in Corea, altrove.
La distanza tra la società politica e i cittadini è incommensurabile. I partiti che hanno rappresentato, fino a una ventina di anni fa, un essenziale polo di aggregazione sociale, esercitano ora una funzione di pura forma al servizio personale di un capo che cerca di togliere di mezzo quel che rallenta i suoi voleri. Si capisce soltanto così la volontà di trasformare il Senato della Repubblica in una qualsiasi e futile assemblea di soci, non più eletti dal popolo, come prescrive la Costituzione, ma scelti e nominati dai vertici istituzionali. Si cancella in questo modo la ragione di essere di un’assemblea — lo sa chi l’ha frequentata — che ha una rilevante (identica) funzione di controllo sull’altra Camera, spesso utilissima. Il Senato potrebbe essere riformato nel regolamento, nel funzionamento — tante cose, ripetitive, burocratiche, vanno cambiate — ma deve esser lasciato com’è soprattutto per quanto riguarda l’eleggibilità.
La crisi è profonda. Non soltanto politica: morale, civile. La precarietà è madre della depressione, della passività, della rassegnazione, della paura. Manca il fervore, indispensabile per ricominciare dopo vent’anni di illegalità che ci hanno portato in fondo al pozzo. Non serve l’ottimismo di maniera se manca la sostanza, se le promesse non vengono mantenute, se i modelli del fare sono i pasticci dell’Imu e della Tasi.
Renzi, si dice, è il nuovo, «l’uomo dei sogni», come scrivono certi giornali. Gli oppositori interni ed esterni al suo partito sono saltati subito sul suo Carro di Tespi. La sua capacità di farsi intendere, nello stile di Berlusconi, è indubbia. Gli eredi del vecchio Pci non avevano mai ottenuto il 40 per cento dei voti. Solo che molti elettori non hanno votato per Renzi, ma contro i cosacchi di Grillo, il grande propagandista del premier. Il futuro è incerto, il governo delle larghe intese non è il modello di quella chiarezza di cui il Paese ha necessità. Non sappiamo nulla, ad esempio, del patto del Nazareno tra il presidente del Consiglio e Berlusconi: «Uniti finché morte non li separi»?
Lo Stato si regge su travature tarlate. Aveva ben ragione Berlinguer quando sosteneva che la questione morale è questione politica.L’ha ricordato qualcuno dei celebratori nei giorni appena passati?
Se ci si guarda intorno si prova sgomento. Il già ministro degli Interni Scajola in galera; l’altro ministro (di Monti), Clini, per decenni potente uomo dell’amministrazione, agli arresti domiciliari; Dell’Utri, l’uomo ombra di B., condannato a 7 anni, fuggito nel Libano; B. ai blandi servizi sociali decretati da una pavida sentenza del Tribunale di sorveglianza di Milano che non rende onore alla legge uguale per tutti. E poi, i dirigenti dell’Expo in manette; i banchieri, il già presidente della Carige e vicepresidente dell’Abi Giovanni Berneschi finito in prigione anche lui. E, dulcis in fundo, per ora, il sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, e i responsabili del Mose implicati in reati contro la pubblica amministrazione. Ovunque le guardie mettono il dito incappano nei ladri del sistema?
Come si fa a ricostruire un Paese se le palafitte sono marce?

Corriere 5.6.14
Esecutivo incalzato dagli scandali branditi dai 5 Stelle
di Massimo Franco


Le inchieste giudiziarie a grappolo stanno diventando il principale appiglio che il Movimento 5 Stelle vuole usare per boicottare le cosiddette Grandi Opere e delegittimare la coalizione di governo. È il tentativo di rivincita di Beppe Grillo dopo la sconfitta alle europee di dieci giorni fa; o almeno di incrinare l’immagine vincente che il Pd di Matteo Renzi sta trasmettendo. Le indagini e gli arresti sul Mose veneziano (le «dighe» per proteggere la città dalle maree), si aggiungono a quelli sull’Expo di Milano. E l’M5S teorizza che il Treno ad Alta Velocità Torino-Lione possa essere il prossimo scandalo scoperto dalla magistratura. La linea del governo è di combattere la corruzione ma in parallelo realizzare i progetti già decisi. Quanto accade, però, può diventare un ostacolo.
Per quanto strumentale, il binomio larghe intese-malaffare è di facile presa. Viene usato per continuare a dipingere il sistema come marcio; e la coalizione di governo e l’asse tra Palazzo Chigi e Forza Italia come paraventi dietro i quali i partiti si dividono in modo inconfessabile appalti e fondi. L’operazione è rischiosa anche per Renzi: se non altro perché mettono in pessima luce sindaci e nomenklature locali alla vigilia dei ballottaggi di domenica in alcune città e regioni. Per ribattere agli attacchi di Grillo, la cerchia del premier tende a presentare gli scandali come figli del passato, non del nuovo corso.
Nella narrativa grillina, le inchieste sarebbero la controprova di complicità trasversali e mai recise. In quella governativa, sono invece controprove e conferme dell’esigenza di cambiare passo e classi dirigenti. È una parola d’ordine destinata a pesare sia sulle riforme istituzionali, ipotecate da resistenze diffuse e presenti nello stesso Pd; sia sui rapporti con Silvio Berlusconi, pressato da quanti dentro FI vorrebbero rapporti più conflittuali con il governo dopo la sconfitta del 25 maggio. C’è chi teorizza la necessità di «divincolarsi dalle catene» dell’asse con Renzi. E in questi distinguo si avverte l’eco della lotta per la leadership in atto tra i berlusconiani.
In realtà, è difficile prevedere strappi e rotture degli equilibri preelettorali. Per quanto forse i molti voti ricevuti alle europee abbiano irritato alleati e avversari, il presidente del Consiglio ed il governo sono più forti. E i margini di trattativa di FI si sono ridotti e sconsigliano colpi di testa. Anche perché con una crisi economica che l’Unione europea e i dati sulla disoccupazione giovanile ricordano impietosamente, la stabilità diventa una delle risorse in mano all’Italia per sperare nella crescita. Ieri Renzi è arrivato a Bruxelles per la riunione del G7, il gruppo dei Paesi più industrializzati, con alle spalle un risultato elettorale che in teoria dovrebbe offrirgli maggiore potere contrattuale e spazio di manovra.
Il ministro degli Esteri, Federica Mogherini, ritiene che a questo punto siano «i cittadini europei» e non solo l’Italia a chiedere un cambio di politica all’Ue. Ma l’operazione comporta la conferma degli impegni presi da Renzi di fronte a una situazione finanziaria che rimane precaria e in bilico. «Il premier ci ha dato rassicurazioni», ha spiegato ieri il presidente uscente della Commissione, Josè Manuel Barroso. «È nell’interesse dell’Italia diventare più competitiva». Ma non può bastare. Per questo si aspettano le decisioni che prenderà oggi la Banca centrale europea per scacciare una deflazione che frena la ripresa. E per questo oggi fa paura più dell’inflazione.

l’Unità 5.6.14
Sel spaccata tra Pd e Tsipras. Vacilla la tregua di Vendola
Fratoianni guarda a sinistra, Migliore spinge per un rapporto più stretto con i democratici
Spinelli verso l’accettazione del seggio


Se la lista Tsipras non avesse superato il 4%, paradossalmente, il clima dentro Sel sarebbe meno burrascoso. Sembra assurdo, ma è così, almeno a sentire gli umori dei deputati vendoliani a Montecitorio. Già, perché quel «cartello elettorale » con Prc e alcuni intellettuali nel segno del greco, in fondo, ha avuto pochi padri dentro Sel. «Nessuno di noi ci ha creduto fino in fondo, meno che mai nella ricostruzione di un partito di sinistra- sinistra», confida un deputato non allineato.
Sono mesi difficili per Sel. Prima la rottura col Pd, poi l’opposizione a Letta, con M5S e Lega a sbraitare oscurando quasi del tutto l’opposizione costruttiva di chi si era comunque candidato per governare con Bersani. Poi il tumultuoso avvento di Renzi, e quell’avventura targata Barbara Spinelli che alcuni non volevano fin dall’inizio. E che ora Vendola ridimensiona a «un seme». «Ingabbiare questo seme in nuovo contenitore non mi convince», ha spiegato il leader a l’Unità. Che vuol dire, in sostanza, congelare quell’esperienza. Non dare vita alla costituente di una nuova sinistra (i più ottimisti pensano al modello Syriza di Tsipras) che gli altri partner vorrebbero mettere in piedi al più presto per sfruttare l’onda lunga del successo europeo.
Per Vendola sono giornate di lavoro interminabili: in Europa vuole fare il ponte tra Tsipras e Schulz, in casa sua deve tenere insieme le due fazioni di Gennaro Migliore (capogruppo alla Camera) che vorrebbe un partito unico col Pd, e di Nicola Fratoianni (coordinatore e vincitore dell’ultimo congresso) che invece guarda a sinistra. Martedì il governatore pugliese è volato a Bruxelles per incontrare entrambi i leader, e in casa sua è scoppiato un putiferio, con i dissidenti sulle barricate perché gli eletti di Sel potrebbe andare con Tsipras nel gruppo della sinistra europea, Gue. «E dove dovrebbero andare gli eletti nella lista Tsipras? », sorride Fratoianni. Il problema è che di eletti potrebbe non essercene neppure uno. Barbara Spinelli, al contrario di quanto detto in campagna elettorale, ha praticamente deciso di accettare il suo seggio. Avendo vinto al Centro e al Sud, in base al collegio che sceglierà potrebbe andare a Strasburgo o Marco Furfaro di Sel e Eleonora Forenza del Prc. Se dovesse vincere alla lotteria dei collegi la ragazza di Rifondazione, per Sel sarebbero zero deputati. e tuttavia Vendola è molto impegnato a spiegare che col greco il Gue cambia pelle, «si libera dell’ortodossia, come dimostra l’uscita dei partitini comunisti».
Ma ai dissidenti non basta perché questa querelle tra Pse e Gue(un anno fa Sel chiese l’adesione al Pse, ma la pratica non è andata avanti), è solo la punta dell’iceberg dei tormenti di un partito in piena crisi d’identità. Costretto a fare i conti con un Pd che non è più quello del 2013, e tuttavia abbastanza determinato a non rientrare nella schiera della sinistra «minoritaria» e di testimonianza. E qui il vocabolario diventa una maionese. Vendola spiega che «siamo una sinistra di governo ma non nel governo». Fratoianni e altri chiosano ogni frase critica sull’attuale esecutivo ribadendo per Sel «un orizzonte di governo» o un «quadro di alternativa». L’accusa a Migliore, non tanto velata, è quella di voler regalare piccole truppe a un Pd che non ne ha alcun bisogno. E dunque di svendere l’intero patrimonio di Sel in cambio di nulla. «Per me una sinistra autonoma dal Pd ma potenzialmente alleata ha ancora senso. E davvero non capisco perchè bisogna fare oggi una guerra fratricida», sbuffa Arturo Scotto, uno dei pontieri. «Aspettiamo, votiamo i provvedimenti del governo in cui crediamo, sproniamo Renzi sul tema della lotta all’austerità. Nella politica italiana le cose cambiano così rapidamente...». La linea del prendere tempo è anche quella di Vendola. Mai due litiganti, Migliore e Fratoianni, sembrano sempre più incompatibili. Ormai la truppa alla Camera vive un po’ da separati in casa, si attende la data fatidica del 14 giugno, quando si terrà l’assemblea nazionale. Sarà quello il momento clou per capire i destini di Sel? Non è sicuro, ma è probabile che in quella sede ci sia una conta, e che la quindicina di deputati vicinia Migliore costituisca una minoranza interna codificata. Anteprima della scissione? «Non è affatto scontato», mette le mani avanti Ileana Piazzoni, una delle più filo Pd. «Se parte una costituente della nuova sinistra io non ci posso stare, ma se la segreteria fa scelte diverse si può restare tutti insieme, noi come minoranza interna». Nella maggioranza legata a Fratoianni si dà quasi per scontato che qualcuno uscirà. Ma solo alla Camera, perché i sette senatori dovrebbero restare fedeli.
E tuttavia anche a palazzo Madama il clima è complicato. Tra i senatori era prevalente l’idea di votare sì al decreto Irpef sugli 80 euro, poi è arrivata la notizia del voto di fiducia e dunque il voto sarà contrario. Ma alla Camera si ripeterà lo stesso copione: riunioni di gruppo per decidere cosa fare, mai deputati vicini a Migliore già pensano al sì e anche altri non nascondono il loro favore al provvedimento. «E un sì non vuol certo dire sposare la linea del governo o entrare in maggioranza », spiega uno dei pontieri.
Il punto è capire per quanto potrà reggere la linea di Vendola del “non aderire né sabotare” il governo Renzi. Settimane? Mesi? L’aria che si respira in Parlamento fa capire che la resa dei conti tra le due anime potrebbe essere vicina. Oppure no. La lista Tsipras, come tante altre costituenti della sinistra, potrebbe abortire spontaneamente. Per le troppe rivalità. Scaricata da un partito che ha vissuto il 4% come un peso improvviso, una gabbia, un seme di divisione in una truppa che per anni ha vissuto relativamente tranquilla all’ombra del leader. E che ora rischia di dividersi nel segno dei due delfini. Ormai adulti. E divisi dalla strategia.

l’Unità 5.6.14
Sel
No, compagni: non possiamo consolarci con le bandiere
È un errore abbandonare lo spazio del socialismo europeo per vecchi approdi
Ed è sbagliato anche pensare che il Pd sia una nuova Dc
di Claudio Fava


Lo dico subito: considero un errore del gruppo dirigente di Sel voler abbandonare a Bruxelles lo spazio politico del socialismo europeo per riproporre vecchi approdi nella Gue. Ho trascorso dieci anni da deputato al Parlamento europeo nel gruppo del Pse, misurando anche i limiti della famiglia socialista in Europa.
Discutendo a volte aspramente con i compagni del mio gruppo sulla prudenza di alcune scelte, ma sentendomi sempre a mio agio in una comunità che metteva al centro, pur fra mille contraddizioni, proprio l’ideale europeo di Spinelli, la sua intuizione di un’Europa dei diritti e non solo delle libertà. E ritrovando il gruppo al mio fianco anche in battaglie che contrapponevano le posizioni del Pse a quelle dei governi nazionali. Abbiamo lavorato senza padroni, per un’Europa più solidale, meno rigida, più autentica. E gli amici della Gue, con il loro orgoglioso dogmatismo, spesso erano altrove. Ritrovare oggi il mio partito, il partito che cinque anni fa ho fondato assieme ad altri compagni, avviato su quei sentieri mi sembra scelta fumosa, rituale, poco comprensibile. Che non condivido affatto.
Non condivido neppure l’analisi su un Pd ridotto a una caricatura della vecchia Dc , che poteva definirsi un partito moderato perché alla sua sinistra c’era una forza politica come il Pci, che prendeva il 30% dei voti. Se il Pd di Renzi fosse solo un grande contenitore dei voti moderati, vorrebbe dire che il voto di sinistra in Italia si è ridotto al 4%: chi se la sente di affermare in buona fede una simile idiozia? Questo voto generoso e imprevisto al Pd racconta piuttosto un pezzo d’Italia. Che per una parte è anche nostra, è il paese a cui abbiamo provato a dare voce con Sinistra Ecologia e Libertà. Un voto volubile, spurio, senza padrini, senza obbedienze, senza radici profonde: ma esiste. E chiede di essere ascoltato per quello che dice.
E qui le opinioni divergono. Io, per esempio, non credo che quell’Italia chieda al Pd semplicemente di consolidarsi, di irrobustirsi, di rinchiudersi nel perimetro di se stesso limitandosi a gestire questo consenso. Nel 41% democratico alle europee c’è soprattutto una domanda di buona e nuova politica, la pretesa di un cambiamento nei linguaggi, nelle pratiche, nei volti dei protagonisti, nella funzione del governo, nell’uso della verità, nel ripudio dei bizantinismi, il ripudio di una politica fatta di parole che nascondono dentro altre parole... Quel voto è anche il ritratto di un paese civile, adulto, migliore di come lo abbiamo raccontato, capace di smaltire il senso comune del berlusconismo senza piangersi addosso. E adesso che ne facciamo di questi italiani? Cosa gli diremo nei giorni che verranno? È qui che siamo chiamati in causa anche noi di Sel. Non su cosa dire al nostro 4% di elettori ma su cosa proporre agli italiani tutti. Entrare nel Pd? No, non credo sia una soluzione: oggi sarebbe piuttosto una scorciatoia. Restare orgogliosamente soli, appesi alla nostra bandiera, immersi nel lutto di un centrosinistra che non esiste più? Progetto consolante come tutte le malinconie, ma inutile. Proporre ridicole fusioni a freddo, Pd più Sel, come fossimo molecole in un laboratorio? Che senso avrebbe? Io penso altro. Credo che abbia senso lavorare tutti (tutti quelli che hanno a cuore le ragioni di un autentico cambiamento sociale e il senso profondo della democrazia) per creare un campo largo, aperto, condiviso. Uno spazio comune che raccolga la sfida mancata del centrosinistra ma parli oltre e avanti, che si proponga di rappresentare anzitutto il lavoro ma non solo il lavoro, che sposti il proprio sguardo in Europa dove le grandi sfide di civiltà si vincono o si perdono, che abbia il coraggio di pensieri lunghi per superare le piccole patrie. È un tempo in cui le bandiere producono solitudine, non buona politica.
A ciascuno la propria parte di responsabilità. A Renzi tocca la quota più corposa: ancor prima che come presidente del consiglio, per ciò che ha rappresentato nell’immaginario del paese. Gli tocca anzitutto l’onere della coerenza: ma quello tocca a chiunque prometta e poi sia chiamato a mantenere. A Renzi spetta una fatica in più: dimostrare che di quel Pd lui è figlio ma non padre, che non lo vivrà come la casa da difendere, che non gli toccherà chiedere permesso per fare ciò che dice di voler fare. Ame (a noi, a chi se la sente…) il compito di rimetterci in cammino riponendo le belle bandiere in fondo alle tasche e in cima al cuore.

Repubblica 5.6.14
“Il Pd è riformista”
“Addio Sel, ho scelto Matteo” la svolta del deputato Aiello
di Tommaso Ciriaco



ROMA . «Io non entro solo nel Pd. Io entro nel Pd di Matteo Renzi. Scelgo il premier che sta cercando di cambiare l’Italia». Diretto, quasi brutale, il deputato Ferdinando Aiello dice addio a Sel. Saluta Nichi Vendola dopo mesi di tensioni e una battaglia, persa, per abbracciare il Pse. «Guardi - dice a Repubblica vado via senza rancore. Ma con una certezza: Sel, nata con l’obiettivo di costruire una forza unitaria per una sinistra riformista e di governo, ha cambiato rotta irrimediabilmente. Puntano a una sinistra alternativa. Hanno scelto Tsipras, senza tenere in considerazione militanti e territori. E non a caso preferiscono il Gue ai socialisti».
È cambiato il mondo in pochi mesi, giura il quarantunenne parlamentare calabrese oversize: «Come non accorgersene? Gli ottanta euro, innanzitutto. Una redistribuzione mica da poco. E poi è arrivato il momento di misurarci con la mia generazione, che è anche quella di Renzi». Da tempo il nuovo deputato del Pd sollecitava un atteggiamento diverso di Sel in Parlamento, da mesi chiedeva di dismettere le casacche dell’opposizione: «E infatti ora discutiamo delle misure sull’edilizia scolastica e per gli insegnanti, delle nuove battaglie in Europa e del decreto sblocca-Italia». Aiello, insomma, è certo: «Io in questo percorso ci sto in pieno».
Sarebbe facile, adesso, annunciare altri scossoni a sinistra, giurare che altri addii seguiranno il suo: «No, davvero. Ho rispetto dei miei colleghi e del dibattito in corso. Per me è finita un’esperienza, sarei di intralcio anche a loro». Non parlategli però di opportunismo, perché Aiello è netto: «Il trasformismo è del gruppo dirigente di Sel, ha cambiato linea politica senza discutere, né confrontarsi ». Coerente, insomma? «Certo. Basta guardare indietro di pochi mesi: sa quale è stata la prima mossa di Renzi, appena eletto segretario del Pd? Ha aderito al Pse...».

Corriere 5.6.14
«Cittadinanza a chi nasce sul suolo italiano»
Un piano per i rifugiati Annuncio del Viminale, la Lega insorge
di Virginia Piccolillo


ROMA — «Pochi giorni. Giusto il tempo di mettere a punto la circolare. E poi anche i bambini degli asilanti, arrivati magari nella pancia della mamma o nati in Italia successivamente all’arrivo dei genitori, potranno avere la cittadinanza italiana».
Il sottosegretario all’Interno, Nicola Manzione, non ha dubbi: nel giro di qualche settimana al massimo, si potrà estendere ai figli dei rifugiati lo «ius soli» (il diritto alla cittadinanza per il fatto di essere nati sul suolo italiano). Un provvedimento che riguarderebbe, secondo il sottosegretario, «solo duecento minori, circa». Ma capace di scatenare subito le proteste della Lega. «Alfano smentisca o si dimetta: la cittadinanza non è un regalo, ma una cosa seria —, hanno scritto ieri su Twitter i deputati Nicola Molteni e Guido Guidesi —. Renzi, come un novello Re Sole, pretende di cambiare uno status con una circolare».
Che il governo abbia intenzione di riprendere in mano l’intero dossier sulla cittadinanza lo ha detto ieri anche il ministro degli Esteri, Federica Mogherini. La strategia, da adottare durante il semestre di presidenza in Europa, è quella di «agire sulle cause di fondo dei flussi e dei richiedenti asilo». Ma, ha spiegato il ministro, «sarà un lavoro in parte sul lungo periodo. Oggi sono soprattutto richiedenti asilo e rifugiati, ciò vuol dire che dobbiamo lavorare sulla prevenzione e sulla gestione dei conflitti e delle zone di conflitto».
Quello che anticipa Manzione è invece un provvedimento di immediata applicazione. Ma come allargare le maglie di una legge che non riconosce lo «ius soli», ai figli degli immigrati nati in Italia, solo con una circolare? Manzione, ex magistrato, spiega: «Questi minori sono in una condizione del tutto particolare. Non hanno diritto alla cittadinanza come accade per i figli degli apolidi nati in Italia. E come accade per quei bambini che arrivano in Italia assieme ai genitori. La legge infatti prevede che per il riconoscimento della cittadinanza i minori siano presenti all’atto della domanda. È talmente evidente la disparità che basterà una circolare interpretativa».
Un provvedimento, dunque, limitato. O un primo passo per l’estensione dello «ius soli» a tutti i ragazzi nati in Italia? Attualmente i figli degli immigrati venuti alla luce nel nostro Paese devono aspettare i 19 anni per ottenere la cittadinanza. «Le categorie sono diverse. L’immigrato non è una persona che cerca protezione, ma lavoro. Il richiedente asilo è un perseguitato. E se un Paese concede l’asilo al genitore deve farsi carico anche del minore».
La vera emergenza in Italia «non è l’immigrazione clandestina ma il problema dei rifugiati, che è una cosa diversa, ed è ingiusto che l’Italia debba affrontare da sola questa situazione», ha spiegato ieri l’ex presidente del consiglio Massimo D’Alema da Bruxelles.
La legge che consente la cittadinanza per diritto territoriale è stata applicata di recente a un bimbo cubano: Leandro E. Il piccolo, che avrà 4 anni a luglio, è nato da genitori cubani a Casalmaggiore in provincia di Cremona. La legge cubana riconosce la cittadinanza solo dopo aver risieduto almeno tre mesi nel territorio cubano. Leandro, dunque, è un apolide. E in base alla legge del 5 febbraio 1992 è uno dei rari casi che ha già diritto alla cittadinanza per «ius soli».
Finora, secondo Manzione, in Italia sono state registrate, per il 2014, 21.000 richieste di asilo, ben più di quelle presentate in tutto il 2013. E sono oltre 40.000 i migranti giunti via mare. Proprio ieri, nell’ambito della missione «Mare Nostrum», sono stati salvati a bordo di un barcone alla deriva 100 bambini.

La Stampa 5.6.14
Milano, uccise tre persone a picconate
Il gup: “Malato, ma in grado di capire”
Pubblicate le motivazioni alla sentenza che ha condannato il 31enne ghanese Adam Kabobo a 20 anni di carcere. Rabbia ed emarginazione alla base dei delitti

qui

Corriere 5.6.14
Il giudice nella mente dell’assassino del piccone
«Il mondo lo escludeva»
di Giuseppe Guastella


MILANO — La fame, il freddo, l’abbandono: ad accendere la miccia che fece esplodere la follia nella mente di Adam Kabobo (nella foto) furono lo «stress» della «lotta per la sopravvivenza» e la «rabbia verso un mondo che non lo accoglieva, che non gli prestava aiuto, che non soddisfaceva neppure le sue primarie esigenze di vita». L’11 maggio 2013 il ghanese non era completamente incapace di intendere e di volere mentre a picconate uccideva tre persone incontrate per caso in strada a Milano. Per questo è stato condannato a venti anni di carcere e non al manicomio giudiziario.
A spiegare perché Kabobo non può essere considerato completamente pazzo e che su di lui, nonostante la schizofrenia paranoide, pesa una grave responsabilità criminale, è il giudice Manuela Scuderi che il 15 aprile scorso lo ha condannato con il rito abbreviato che garantisce la riduzione di un terzo della pena. Adam Kabobo, 32 anni, un immigrato clandestino che provava a vivere di elemosine, seminò il terrore lungo le strade del quartiere Niguarda alla periferia nord della città, colpendo a picconate alla testa Alessandro Carolè, 40 anni, Ermanno Masini, 64, e Daniele Carella, 21 anni, rapinandoli anche dei cellulari. Quando i carabinieri lo individuarono, il ghanese si liberò dell’arma e provò a fuggire, ma fu bloccato e arrestato. Tra grandi difficoltà persino a esprimersi in un dialetto africano quasi incomprensibile, raccontò che a spingerlo a uccidere erano le voci che sentiva nella sua testa. Era il segno di quello che i periti hanno definito un «grave disturbo mentale di natura psicotica». Disse anche che lo aveva fatto per andare in carcere dove le sue sofferenze sarebbero finite e «per attirare l’attenzione di coloro che lo ignoravano costantemente». Il suo fu il comportamento di chi, mosso da un «movente predatorio» e in «condizione di emarginazione sociale e culturale», comunque ha un barlume di razionalità. «Kabobo non ha commesso gli omicidi in una condizione di totale assenza di coscienza, di automatismo travolto dalla malattia, così che non può dirsi che la malattia abbia agito per lui», si legge nelle motivazioni, perché non sempre «gesti incomprensibili» appartengono «solo a una mente totalmente offuscata dalla pazzia».

il Fatto 3.6.14
Immondizia, topi, scioperi: e Marino va in tv
Roma, il sindaco nelle interviste si autoassolve, ma la città è al collasso e domani si fermano i dipendenti comunali
di Tommaso Rodano


I problemi per il sindaco Ignazio Marino sembrano non finire mai. Gli ultimi, i più frequenti, arrivano ancora dai cassonetti della città. Stracolmi, putrescenti, circondati da distese di sacchetti colorati. Piccole discariche a cielo aperto che possono regalare sorprese, come frigoriferi, materassi e reti metalliche abbandonate a fianco dei secchioni. Oppure sgraditi incontri con la fauna meno nobile della città: ormai assodato il dominio dei gabbiani, sono stati avvistati anche topi e blatte (senza scomodare l’indimenticabile foto dei maiali che pasteggiavano immondizia durante le ultime feste di Natale). Le denunce arrivano da ogni quadrante di Roma. Dal centro come dalla periferia. Esquilino, San Lorenzo, Prenestino, Torpignattara, Monteverde, Camilluccia, Eur, Magliana. Le settimane a cavallo tra fine maggio e inizio giugno sono state particolarmente nefaste. Durante i turni festivi hanno pesato (di nuovo) la diminuzione del personale e le difficoltà di circolazione dei camion che portano la monnezza romana fuori dal Lazio. Parlare di emergenza non è corretto. Non esiste alcun accidente o circostanza imprevista: il ciclo dei rifiuti romani è sull’orlo del collasso da anni. Specie negli ultimi mesi, dopo la chiusura della mega discarica di Malagrotta (e l’arresto del suo dominus Manlio Cerroni, oggi alla sbarra per la prima udienza di “Monnezzopoli”), gli episodi critici si sono ripetuti con una tale regolarità che il pessimo funzionamento della raccolta e dello smaltimento, più che sintomo d'emergenza, è la constatazione di una norma.
SUL SISTEMA pesa una fragilità strutturale, tra i ritardi della differenziata (a fine 2013 Marino ha festeggiato il traguardo del 40 per cento), le inefficienze e i debiti di Ama (la municipalizzata che ha la responsabilità della raccolta) e la cronica scarsità degli impianti di trattamento. Marino se l’è presa di nuovo con Ama e con l’amministratore delegato Daniele Fortini. Secondo il sindaco “su 8 mila dipendenti dell’azienda, ogni giorno mille non si presentano a lavorare”. Anche a gennaio, nel culmine di un periodo di disagi più intensi, aveva attaccato la municipalizzata, giudicandola “non all’altezza”. In televisione, invece, il primo cittadino si è auto assolto. Ospite di Otto e mezzo, su La7, ha chiesto più tempo: “Non mi dimetto. Mi volete dare almeno due anni per fare quello che in questa città non è stato realizzato negli ultimi cinquanta?”. Marino ha giurato di godere della massima fiducia da parte del governo Renzi e ha rivendicato il suo essere “alieno”: “Sono un corpo estraneo al modo in cui per mezzo secolo è stata governata Roma. La cambierò senza farmi influenzare da nessuno”. Intanto le sfide si moltiplicano. Oggi il sindaco partecipa all’assemblea dei soci di Acea, la società della luce e dell’acqua di Roma. Si gioca la partita delle nomine dei vertici. Marino spera di piazzare i suoi uomini e battere un colpo contro il “nemico” Caltagirone (azionista di minoranza, che “tifa” per gli attuali dirigenti). Domani invece è il giorno dello sciopero generale dei dipendenti comunali romani. L’esercito di 24 mila impiegati della macchina pubblica si ferma per l’intera giornata. Asili, scuole materne, vigili urbani, biblioteche, uffici: il corpaccione di Roma Capitale rischia la paralisi, in mancanza di un accordo sui servizi minimi. È la prima volta nella storia della città. Oggetto del contendere, il salario accessorio dei comunali: duecento euro di indennità che - secondo i sindacati - rischiano di sparire dalle buste paga dei dipendenti pubblici. Il corteo partirà dalla Bocca della Verità e si fermerà al Campidoglio, sotto la finestra del suo inquilino.

l’Unità 5.6.14
Consulenze e stipendi d’oro Resa dei conti Marino-Acea

A noi le bollette pazze a loro le spese folli, come la gita ad Ovindoli, in marzo, 33 dirigenti e quadri con mogli, mariti e pupi, 77 persone a sciare per un week end e il conto pagato da Acea. O la parcella per consulenza ricevuta dall’avvocato Antonio Caporale, 169.000 euro, per la vendita dell’autoparco di piazzale Ostiense, quando l’avvocato era segretario del Cda.
Oggi l’assemblea degli azionisti dovrebbe chiudere la stagione targata Gianni Alemanno alla multiutility romana. E dovrebbe anche essere detta la parola fine alla querelle fra la dirigenza della Spa e il Campidoglio, iniziata poco più di un anno fa, quando l’allora candidato sindaco Ignazio Marino (il 51% di Acea è controllato Roma Capitale), chiese di attendere, per il rinnovo delle cariche, il risultato elettorale.
Il condizionale è d’obbligo perché, se c’è accordo sulle nuove nomine (Catia Tomasetti presidente, Alberto Irace a.d.), gli avvocati stanno affilando le lame per tutto il resto: riduzione del Cda, tetto alle remunerazioni, ruolo del potentissimo a.d. uscente Paolo Gallo, che avrebbe voluto conservare l’incarico di direttore generale, ma si accontenterebbe anche del solo settore acquisti. I membri del consiglio di amministrazione che si preparano a fare causa e il Campidoglio pronto a rispondere con azioni di responsabilità.
LE REMUNERAZIONI
La giunta capitolina ha votato il tetto agli stipendi dei manager, la nuova presidente prenderà 120.000 euro a fronte dei 500.000 appannaggio dell’uscente Cremonesi. E il nuovo a.d. dovrà accontentarsi di 260.000 euro (più 30.000 come membro del Cda, più il premio, se raggiungerà gli obiettivi). Una cifra molto lontana dalla remunerazione dell’attuale amministratore e direttore generale Paolo Gallo (850.000 euro più il premio del cento per cento non ancora erogato, più il pagamento dell’affitto di 60.000 euro per l’appartamento e tre auto a disposizione). La cosa crea grande imbarazzo in una parte del management: se il presidente riceve «solo» 120.000 euro, perché il capo del personale Paolo Zangrillo dovrebbe continuare a percepire 640.000 bigliettoni più la casa pagata (50.000 euro/anno) o il direttore dell’area finanziaria Franco Balsamo riceverne 700.000 (anche per lui è pagata l’affitto della casa con 55.000 euro)? Anche Marco Poggi (Ict) e Lorenzo Bianchi (acquisti e logistica) dovrebbero adeguare verso il basso gli attuali 400.000 euro di stipendio. Il Campidoglio si è cautelato, non approvando la relazione Acea sui compensi.
SENZA GARA D’APPALTO
La cupola dei privilegiati si è formata intorno agli affidamenti senza gara. La legge prevede la gara europea per cifre superiori al mezzo milione di euro ma l’ad Gallo, che viene dal privato, sembra considerare superfluo tale adempimento. Il caso più famoso è quello delle bollette pazze. La creazione del software per la lettura informatica fu affidato a Sap Italia nel 2011 per 55 milioni di euro. Il sistema non riusciva a leggere i dati precedenti e, ad aprile scorso, è stato deciso un secondo affidamento per 40 milioni di euro. Al gruppo Dab (sempre senza gara) sono stati affidati i sistemi di sicurezza di otto impianti per 2 milioni di euro. Anche il socio di minoranza Gaz de France, ha beneficiato di un affidamento diretto (da12 milioni di euro) per la costruzione di due cupole per i depuratori Est e Nord di Roma, finalizzate e ridurre miasmi e rumore. Sette milioni di euro sono stati spesi senza gara per il «progetto Rita», antenne sugli impianti di depurazione che avrebbero dovuto trasmettere i dati e potenziare il wi-fi. Il progetto non è entrato in funzione ma costa, per la manutenzione 350.000 euro l’anno. C’è, poi, il caso, di un milione di euro spesi per tablet e telefonini, il 20 % dei quali distribuiti al management, della restante parte non si sa che fine abbiano fatto. E quello di un parco di furgoni elettrici acquistati per 400.000 euro dalla Microvet, fermi nell’autoparco Acea. La Microvet, che avrebbe dovuto fare la manutenzione, ma è fallita. Durante l’operazione di compravendita fu fatto omaggio all’ad di una Fiat 500 elettrica.
UN CONSULENTE D’ORO
Il caso dell’avvocato Antonio Caporale è singolare: dall’8 novembre 2011 al 15 maggio del 2013 è in pianta organica (anche se esterno) con la funzione «Affari societari». Eppure continua nella attività di intermediazione e consulenza, sebbene il codice etico lo vieti. In questo periodo emette parcelle per consulenza o assistenza legale per le società del gruppo. Il 24 gennaio del 2012 emette fattura di 95.000 euro per consulenza sulla compravendita della sede di Acea e dell’autorimessa annessa. Acea aveva esercitato la prelazione, comprando la sede (che il comune di Roma aveva messo all’asta) nel novembre del 2011 dalla Beni Stabili Gestioni S.g.r.

Corriere 5.6.14
Un medico del Gemelli riapre il caso del fine vita
Lo specialista che cura la Sla: i pazienti possono scegliere se rinunciare all’ossigeno
di Margherita De Bac


ROMA — «La Sla è un’infame. Toglie tutto, lascia solo il pensiero. Mamma una mattina ha chiamato i medici e sussurrando ha detto no. Poi con l’alfabeto muto si è rivolta a me. Non ce la faccio più, non voglio vivere così». Paola è la figlia di una signora di 72 anni, ricoverata a lungo al Gemelli, che ha rifiutato la tracheostomia, ultima risorsa per persone annientate da una degenerazione muscolare che non lascia scampo e annulla il respiro. Ma la donna ha preferito sottrarsi a «un supplizio inutile».
Sette malati su dieci preferiscono evitarlo e essere accompagnati verso la fine con la mascherina della ventilazione meccanica e cure palliative. Lo afferma Mario Sabatelli, neurologo del policlinico universitario, una professione dedicata alla Sla, la sclerosi laterale amiotrofica. Hanno fatto clamore le sue dichiarazioni rilasciate all’associazione Viva la Vita e poi riprese dal Fatto quotidiano : «Trovo assurdo che il destino di chi è costretto a vivere con un tubo in gola debba essere deciso a tavolino. È illegittimo. Mario Riccio, il medico di Piergiorgio Welby, è stato prosciolto, qualcosa vorrà dire». Lo specialista precisa anche di aver già interrotto la terapia di sostegno a un paziente trecheostomizzato.
Per sgombrare il campo da ogni strumentalizzazione Sabatelli chiarisce al Corriere : «La fame d’aria è il peggior dolore. Alcuni colleghi ritengono che la tracheostomia, cioè il taglio della trachea, debba essere applicata di prassi. A mio giudizio è uno strumento sproporzionato, una violenza. Noi non siamo notai. Lasciamo che siano i malati a decidere in sintonia con i medici. Risparmiare il tubo in gola non è un gesto eutanasico. Significa rispettare la loro volontà. Non è vero che da noi i pazienti sono liberi di morire. Sono liberi di scegliere come vivere. Sono lucidi, padroni dei loro pensieri».
Riflessioni che sarebbero cadute nel vuoto se a pronunciarle non fosse stato un medico del Gemelli, propaggine sanitaria del Vaticano, l’ospedale dove sono stati operati i pontefici. E si capisce quanto l’intervista sia risultata scomoda in una fase in cui continuano a riaffiorare proposte di leggi sul testamento biologico e libertà di scelta. Quando escono fuori storie del genere il rischio è che si faccia confusione sui termini. In realtà quello che ha raccontato Sabatelli rientra nei canoni della buona prassi clinica. Paolo Maria Rossini capo della neurologia del Gemelli precisa: «Qui non parliamo di persone in stato vegetativo ma di persone lucide. L’esame dei singoli pazienti è effettuata da una squadra di sanitari che si basano su leggi, etica e rispetto dei valori cattolici. Tra noi c’è un eticista clinico. In ogni situazione cerchiamo di valutare se il mezzo terapeutico è proporzionato al guadagno in termini di salute anche psicologica». E Massimo Antonelli, direttore della rianimazione del Gemelli aggiunge: «I nostri pazienti non vengono mai abbandonati a se stessi. Non si può confondere tra eutanasia e desistenza dalle cure». Anche la scelta della mamma di Paola è stata vagliata da una commissione etica.
Il reparto di neurologia del Gemelli sembra lontano mille miglia da queste polemiche. Racconta Angela, figlia di un paziente: «Mio papà, Pasquale, la tracheo l’ha voluta. Sono incinta e vuole aspettare che il nipotino nasca. Dice che non può perdere questa felicità. La sua gioia siamo noi che lo andiamo a trovare o la fotografia del primo nipote che soffia su tre candeline. Ecco come mai ha scelto di andare avanti pur sapendo che la fine si avvicina». E poi c’è Nicoletta, detta Nicla, ex insegnante delle elementare in pensione, al Gemelli col marito Giovanni che ha insegnato matematica: «Lo vede quanto legge, come è lucido e attento? — lo indica mentre è seduto su una panca in corridoio —. Giovanni sa quali sono gli stadi inesorabili della Sla, il dottor Sabatelli gli ha spiegato tutto. Anche che un giorno dovrà mettergli il tubo in gola per farlo respirare. Accetterà? Rifiuterà? Non ne abbiamo parlato. Evita il discorso e di tanto in tanto piange. Io certo non lo fermerò».

Corriere 5.6.14
Colleghi divisi: «Decide il malato» «No, il respiratore non si stacca»
I camici bianchi tra codice deontologico, Costituzione e il precedente di Welby
di Luigi Ripamonti


Come ci si comporta in Italia di fronte ai problemi che pone la ventilazione meccanica per i malati di Sla? Tutti gli esperti interpellati sono d’accordo sul fatto che quando il paziente si avvia verso l’insufficienza respiratoria deve essere accompagnato e assistito nelle sue decisioni. Gli si deve prospettare la possibilità di ventilazione non invasiva (con una mascherina) e, quando questa sarà insufficiente, di ventilazione attraverso un tubicino inserito in trachea (tracheostomia) collegato a una macchina ventilatrice. Fino a qui tutti concordi sul fatto che deve essere rispettata la decisione del paziente di accettare o no questi trattamenti dopo essere stato adeguatamente informato. Nel caso non desideri l’assistenza respiratoria deve essere avviato a un percorso di terapie palliative. Se però un malato ha accettato la tracheostomia e poi ci ripensa? Qui le posizioni assumono sfumature differenti. «Secondo il nostro registro epidemiologico regionale il 15% dei pazienti sceglie la tracheostomia e gli altri le cure palliative» dice Adriano Chiò, neurologo del centro Sla di Torino. «Fra i primi a noi nessuno ha chiesto di staccare il respiratore, e noi non lo faremmo. Nel caso Welby la posizione del medico che lo ha fatto è stata archiviata perché ha commesso un reato ma nell’atto di permettere a un paziente di esercitare il proprio diritto alla salute. Quella sentenza però non ci mette al riparo dal rischio che un altro magistrato ci giudichi, in circostanze analoghe, colpevoli di omicidio di consenziente. Il problema è che manca un quadro normativo ben definito».
«Non c’è bisogno di una legge specifica» è l’opinione di Amedeo Santosuosso professore di Diritto, Scienza e nuove tecnologie all’università di Pavia. «Esistono norme costituzionali che prevedono il rispetto della volontà del paziente. Il medico del caso Welby è stato assolto perché ha adempiuto a questo dovere. Cassazione e Corte Europea dei diritti dell’uomo confortano questa posizione». «Il paziente deve essere messo sempre in condizione di rifiutare una terapia, anche se questa è stata iniziata» aggiunge Enrico Marinelli, direttore dell’unità di medicina legale del policlinico Umberto I di Roma. «Ma se viene accompagnato adeguatamente, avvisandolo prima che la decisione di accettare una terapia sarà, di fatto, senza ritorno, il problema è molto raro, direi quasi più teorico che pratico». «Io tratto situazioni diverse perché ho pazienti acuti» interviene Marco Venturino, direttore del Servizio di anestesia e rianimazione dello Ieo, di Milano. «Però secondo me la norma giudirica non è davvero essenziale nella mia professione perché credo che il rapporto con il paziente la superi. Anche una normativa sul testamento biologico non sarebbe mai davvero esaustiva perché ogni caso è unico e va gestito con il paziente e con i suoi familiari». «La coscienza del medico è essenziale» chiosa Christian Lunetta, del Centro Clinico Nemo, di Milano. «Noi puntiamo molto sull’accompagnamento del malato, facciamo un lavoro a monte e il problema di staccare il respiratore a qualcuno che ha deciso di averlo, nei fatti, per noi non si pone, però siamo di fronte a una realtà in cui sarebbe auspicabile sapere quello che è fattibile e quello che non lo è perché affidare le decisioni alla coscienza del medico e al codice deontologico può comportare rischi». «Se c’è già una tracheostomia non conosco colleghi che “stacchino la spina” senza prima aver contattato magistratura e comitato etico dell’ospedale» commenta Ferdinando Raimondi, responsabile del dipartimento di anestesia dell’Istituto Humanitas, di Milano. «Con la legislazione attuale si tratta di una decisione, anche quando deontologicamente ammissibile, espone il medico a problemi importanti »
« Se alla ventilazione meccanica si arriva in modo condiviso e cosciente il problema si pone raramente» rinforza Mario Melazzini, presidente di Arisla, «e il nostro codice deontologico, comunque ci dice di non sospendere un trattamento che è un sostegno vitale». «Io di tubi non ne ho mai tolti» racconta Jessica Mandrioli, responsabile del centro Sla di Modena, «ma un nostro paziente ha chiesto la sospensione del trattamento e ha “prenotato” l’eutanasia in Svizzera. Allora noi l’abbiamo ricoverato e abbiamo detto che se questa era la sua volontà avremmo staccato il respiratore noi, informando familiari e giudice. Ma quando è stato ricoverato ha cambiato idea perché ha capito che non era stato abbandonato. Se nessuno se ne fosse fatto carico sarebbe morto in Svizzera, dopo aver pagato 12mila euro e aver fatto un’intervista di “idoneità” via Skype. Noi dovremmo accettare che una persona metta fine alla propria vita con un questionario a video?»

Corriere 5.6.14
A Tuen
Irlanda, una fossa comune di bimbi vicino al rifugio gestito dalle suore
Le religiose gestivano un centro per ragazze madri e i loro figli, considerati illegittimi. Tra il 1943 e il 1946 vennero registrati 300 morti

qui

La Stampa 5.6.14
La Spagna dice no agli F35: troppo cari
Il premier popolare Mariano Rajoy ha rigettato la richiesta
della Marina di sostituire i vecchi Harrier con i caccia statunitensi
di Gian Antonio Orighi

qui

Repubblica 5.6.14
L’Intifada del cibo spacca Israele “Alimentateli” “No” dei medici
Netanyahu ordina di nutrire i detenuti palestinesi in sciopero della fame, ma i sanitari si rifiutano: “Così è una tortura”
di Fabio Scuto



GERUSALEMME . Nessuno vuole un Bobby Sands palestinese. Se solo uno dei duecento prigionieri palestinesi in “detenzione amministrativa” in sciopero della fame dal 24 aprile dovesse morire, un’ondata di proteste travolgerebbe la Cisgiordania, scatenerebbe la violenza dei più estremisti, innescando una terza intifada dagli esiti disastrosi. Ormai, al 42esimo giorno di digiuno, sono più di ottanta i prigionieri palestinesi ricoverati negli ospedali israeliani che però continuano a rifiutare il cibo. Il premier Benjamin Netanyahu, allarmato da questa protesta, spinge perché la Knesset approvi rapidamente una legge che impone l’alimentazione forzata ai detenuti, ma si sta scontrando con la principale Associazione dei medici d’Israele contraria alla legge perché «l’alimentazione forzata è una forma di tortura» e i suoi dottori non si presteranno a questa pratica.
I prigionieri che rifiutano il cibo sono tutti “detenuti amministrativi”, in cella da mesi o anni, senza accuse e senza aver mai visto un giudice. I palestinesi della Cisgiordania sono sottomessi alle autorità militari israeliane: basta l’ordine scritto di un ufficiale per finire in carcere senza possibilità di appello, con gli arresti che vengono rinnovati ogni sei mesi. Un retaggio del Mandato britannico, che nonostante le proteste interne e internazionali, Israele ha mantenuto: è la famigerata disposizione 1651. Nelle carceri dello Stato ebraico, dati dell’Israel Prison Service, ci sono 5.330 palestinesi, fra loro oltre 200 in “detenzione amministrativa”. Ci sono quotidiane dimostrazioni in appoggio alla protesta, le famiglie dei detenuti sostengono questo digiuno nonostante i rischi. «Mio marito è in carcere senza sapere perché e questo incubo deve finire», dice Lamees Faraj del marito Abdel Razeq, militante di un piccolo gruppo dell’Olp, che ha passato in detenzione amministrativa 8 degli ultimi 20 anni.
«E’ contro il Dna dei sanitari forzare il trattamento su un paziente », spiega la portavoce Ziva Miral dei medici israeliani, «l’alimentazione forzata è una tortura, e non possiamo avere dottori che partecipano a una tortura». Dello stesso avviso il Consiglio Nazionale di Bioetica israeliano e la World Medical Association, il coordinamento mondiale delle associazioni mediche nazionali. Nonostante questo coro di critiche, Netanyahu avrebbe detto ai suoi ministri che sarà lui a fare in modo di trovare i medici disponibili per alimentazione forzata. Un po’ come fanno, ha osservato il premier, gli americani a Guantanamo Bay con i detenuti jihadisti. Fares Qadoura, uno degli avvocati dei prigionieri, annuncia che se la legge passerà alla Knesset i palestinesi sono pronti a ricorrere prima all’Onu e poi alla Corte di Giustizia dell’Aja. Le famiglie intanto aspettano e temono. Mahmoud, il marito di Amani Ramahi, eletto deputato con Hamas nel 2006, è in cella senza un’accusa da 4 anni. La Ramahi racconta che suo marito gli fatto arrivare un messaggio dal carcere: “l’intifada della fame” sarà a oltranza perché «vogliono mettere fine una volta per tutte alla loro sofferenza».

La Stampa 5.6.14
“In fuga da Assad e Al Qaeda. Il mondo ci ha dimenticati”
I ragazzi di Homs dove tutto è iniziato: in Siria non c’è più posto per noi
di Francesca Paci


Il mezzo è sempre Skype. Chi lo usa, però, i ragazzi siriani che tre anni fa lanciarono il guanto di sfida ai signori di Damasco sull’esempio dei coetanei egiziani e tunisini, è cambiato: resta in campo, raccoglie documenti che spera un giorno di mostrare al mondo, ma l’umore è cupo. Mentre le zone sotto il controllo lealista hanno rieletto quell’Assad che secondo un’inchiesta di «Le Monde» continua a bersagliare ribelli e civili con gas cloro, gli attivisti della prima ora si leccano le ferite incapaci di ritagliarsi uno spazio tra il regime e al Qaeda, i due mattatori della scena siriana prossimi a legittimarsi a vicenda. 
«Siamo nelle retrovie» ammette Omar, pioniere della rivolta disarmata. Si scalda: «Per 3 anni, 24 ore al giorno, 7 giorni a settimana i ragazzi come me hanno mostrato al mondo i crimini di Assad prima che arrivasse al Qaeda. Invano. Nonostante il regime e i terroristi siamo vivi, ma impotenti. Fino all’inizio del 2012 gli unici qaedisti in Siria erano quelli liberati dalle galere del regime. I media internazionali trattano le vittime siriane come numeri ma si sono tuffati sulla storia dell’Isis, lo Stato Islamico del Levante. Scusate la rabbia, ma ci sentiamo abbandonati». 
Omar è uno tra i molti che rispondono ancora al telefono. La sua storia e i suoi sentimenti sono quelli di tutti gli altri. Ha 25 anni e ha passato gli ultimi tre nella trincea politica (non armata) della rivolta contro Assad: «Ero ricercatore all’università di Homs, avevo la laurea in letteratura inglese, dovevo perfezionarmi in Gran Bretagna. Poi è scoppiata la rivoluzione, mi sono dato anima e corpo al media attivismo che in Siria si è rivelato inutile. Il mio nome adesso è nella lista nera, sono stato cacciato dall’ateneo. Un anno fa mio padre e mio fratello sono stati uccisi e io, mia madre e le mie sorelle siamo scappati in Turchia. Allora era facile, adesso Ankara ha messo molte restrizioni, ci sono migliaia di disperati che non riescono a passare il confine. Collaboro con una organizzazione umanitaria qui a Gaziantep che si occupa dei rifugiati. Tengo un profilo basso, ho la carta d’identità ma niente passaporto. Volevo chiederlo quando ero studente ma non avevo soldi per viaggiare e aspettavo. Ora è difficile ottenerlo. Ci sto provando sotto banco, perché il regime è corrotto fino al midollo e perfino ora uno come me può aggirare i veti pagando tanti soldi. Ma intanto sono irregolare, se il governo turco voltasse le spalle ai siriani sarei nei guai». 
La rivoluzione siriana non è morta, lo ripete. Ma dopo i primi mesi è precipitata e ora sopravvive nella resilienza di chi non può mollare: «Non c’è spazio per quelli come me in una Siria in mano ad Assad. Anche se dopo queste elezioni-farsa annunciasse la riconciliazione nazionale non tornerei. Il regime aspetterebbe e poi ci ammazzerebbe tutti, non distingue tra me e i macellai dell’Isis, va più d’accordo con al Qaeda che con noi». 
La guerra di Omar non coincide con la narrazione ufficiale che vede Assad in recupero sul terreno ma anche nella considerazione internazionale, baluardo estremo contro i nuovi Bin Laden: «I moderati pacifici sono scappati dalla Siria ma i moderati armati sono ancora lì. Sono deboli, la comunità internazionale ha scelto di non fare nulla per sostenerli e loro hanno perso terreno rispetto ai terroristi che prima o poi l’Occidente si ritroverà in casa, ma resistono». Omar racconta per sentirsi vivo: «Molti attivisti hanno ripiegato sull’aiuto ai rifugiati. Prima avevamo di fronte solo Assad adesso ci sono anche i terroristi, invasati provenienti da mezzo mondo che hanno memorizzato gli hadit in cui si parla della Siria come della terra del Levante da liberare un giorno dagli infedeli e si sono convinti che quel giorno sia ora. I terroristi hanno ideologia e soldi. Siamo sempre stati un popolo non estremista, la ferocia contro i cristiani e gli alawiti non ci appartiene. Non ho perduto la mia vita per questo inferno, ma nessuno ricorda più perché ci siamo ribellati al regime». 

Repubblica 5.6.14
Stupri in India l’albero della vergogna diventa un simbolo
di Adriano Sofri



DICE la notizia che un’altra adolescente è stata violentata, uccisa e impiccata a un albero, nell’Uttar Pradesh indiano. Rileggiamo la sequenza: violentata, uccisa e impiccata. Se è così, non si è impiccata, né è stata impiccata perché tacesse sulla violenza subita. Pochi giorni fa, quando la fotografia delle due ragazze di 14 e 15 anni appese a un mango fece il giro del mondo - questo giornale ha scelto di non pubblicarla - si dubitò che si fossero suicidate per l’offesa e la vergogna. Sarebbe stato comunque atroce, e tuttavia anche loro erano state impiccate dal branco degli stupratori, forse prima, forse dopo essere state strangolate. Il dettaglio non è facile da capire, o lo è fin troppo. Forse, stiamo guardando delle scene di caccia. La preda preferita sono ragazze molto giovani, braccate nel momento più inerme, quando vanno nei campi a fare i loro bisogni.
ALL’ALBA, prima che si sveglino gli uomini, e al calar della notte, quando occhi di uomini, anche quelli di famiglia, non le vedano, perché il loro pudore non sia offeso - il pudore degli uomini. Il branco le aspetta e piomba loro addosso, infierisce, poi, quando il bel gioco li stanca, uccide, e finalmente appende la selvaggina come untrofeo.
Era successo a Badaun, ieri di nuovo a Sitapur. Un giorno prima altri cacciatori avevano violentato una donna di 22 anni, e le avevano versato acido in gola, non perché non parlasse: l’hanno uccisa alla fine. O forse l’avevano uccisa e hanno versato l’acido per amore di completezza. Forse le impiccano non per farle tacere, ma per esibirle: le inalberano.
Adesso si trasmettono i numeri delle persone che non hanno servizi igienici domestici in India: più o meno la metà della popolazione. «Circa il 65 % della popolazione rurale fa i suoi bisogni all’aperto e donne e ragazze sono tenute a farlo col buio. È una minaccia alla loro dignità ma anche alla loro incolumità», dice il delegato dell’Unicef, Louis-Georges Arsenault. Il particolare impressionante non spiega la violenza sulle donne, né la spiegano i dati su povertà e disoccupazione, o sulla sproporzione dovuta al pregiudizio e alle pratiche per non far nascere bambine o ucciderle neonate - metà degli indiani ha meno di 30 anni, e nell’Uttar Pradesh maschi e femmine stanno in un rapporto di 1000 a 912. La violenza contro bambini, ragazze e donne sa fare a meno delle circostanze. Però la muta degli uomini che bracca le ragazze mentre vanno vergognose e spaventate nel loro buio mostra la bestialità degli stupratori e il conto che fanno delle loro prede, femmine e, in questi casi, “intoccabili” - ironia tragica delle parole - come animali, “cose di nessuno”, da catturare, soggiogare e ammazzare.
Ieri erano in sei, guidati, dice la notizia, dal vicino quarantenne che vendicava il rifiuto di dargli con le buone la ragazza quindicenne. Una settimana fa erano parecchi addosso alle due cugine adolescenti, e fra loro due poliziotti. Un mese fa, il capo del partito di maggioranza dello Stato aveva definito “ragazzate” gli stupri di branco: suona familiare, no?
Qualcuno ha fatto notare l’abbigliamento modestissimo e castigato delle due cugine, per commentare amaramente le scemenze sulle ragazze che provocano i poveri uomini. Mi sono chiesto che cosa vogliano dire quei vestiti composti: se fossero stati i loro carnefici a ricomporli, l’orrore sarebbe maggiore. Di quell’immagine, il dettaglio più toccante sono i piedi nudi. I piedi degli impiccati sono scalzi quando indossavano ciabatte o sandali che scivolano giù e tornano alla terra per cui sono fatti.
Nei giorni scorsi era inevitabile accostare quell’immagine a un’altra arrivata dal Pakistan. Oscenamente somiglianti, perché in quella indiana la folla silenziosa accoccolata attorno alle due ragazzine impediva di staccarle dai cappi e deporle fino a che non si fossero presi gli assassini, e testimoniava contro l’orrore dello stupro maschile e di casta. Nell’immagine pakistana, la folla era autrice o tifosa della lapidazione di Farzana Parveen, 25 anni, incinta, colpevole di aver disonorato la famiglia sposando “per amore” un uomo diverso da quello che padre e fratello le avevano imposto. Il luogo non era un villaggio rurale ma la metropoli di Lahore, e la scena si svolgeva davanti al tribunale, dove la giovane era andata per dichiarare la propria volontà. Nella scena indiana un padre chiedeva giustizia, in quella pakistana il padre si era fatto giustizia, ripulendo a colpi di mattoni lo sfregio fatto al suo onore. Le parole d’onore e d’amore ricorrono mostruosamente. Si è poi saputo che il marito di Farzana aveva strangolato la sua prima moglie, riscattandosi col pagamento del “debito del sangue”: ha spiegato di averlo fatto “per amore” di Farzana.
Una ventina di anni fa avevo avuto un amichevole scambio di idee su queste pagine con Miriam Mafai, a proposito di quello che avevo chiamato “il paradigma di sir Phileas Fogg”. Il quale, arrivato in India nel suo giro del mondo in 80 giorni, insieme al fido Passepartout rapisce e porta in salvo la giovane vedova del maragià che sta per bruciare viva sul rogo dello sposo, come vuole il rito del suttee. Impresa coloniale, per così dire, del tutto irriguardosa dei costumi locali, e indifferente anche al consenso della donna. Impresa sacrosanta, pensavo e penso, in cui si presenta esemplarmente quello che di migliore c’è nell’occidente con quello che di peggiore c’è nell’oriente. (Fra i quali, del resto, meglio e peggio si distribuiscono in modi assai complicati). Occorrerà ricordare ogni volta di nuovo che anche noi veniamo da lì, e che il delitto d’onore è per noi un retaggio troppo fresco per vantare superiorità assolute e spocchiose. Ma non al punto di restare prigionieri della relatività dei valori. Abbiamo fatto l’esperienza di come certe svolte nei modi di pensare e nelle abitudini di vita siano immemorabilmente lente e difficili a compiersi, e però, quando avvengano, facciano sentire di colpo inconcepibile il passato. La tragedia era così: Edipo ha ucciso suo padre, è andato a letto con sua madre, e non l’ha voluto vedere, quando lo vede non può far altro che accecarsi. Noi abbiamo magari i doppi servizi, e insieme la memoria del branco e della preda. Viene il momento di aprire gli occhi. Verrà anche nei villaggi dell’Uttar Pradesh: nel frattempo, c’è bisogno di una polizia che, chiamata, arrivi.

La Stampa 5.6.14
Hong Kong sfida Pechino e commemora Tiananmen

All’esterno della barriera della censura cinese Hong Kong ha ricordato ieri i 25 anni dalla strage di Tiananmen. Nel Victoria Park un’enorme folla si è riunita al grido di «Vendicare il 4 giugno» con riferimento al 1989. Migliaia di candele si sono alzate nel buio nel parco mentre i nomi di tutti i morti di Tiananmen sono stati letti ad alta voce. All’evento hanno partecipato circa 180mila persone. Manifestazioni anche a Taiwan, dove il presidente Ma Ying-jeou ha descritto gli eventi di 25 anni fa «un’enorme ferita storica». Intanto a Pechino piazza Tiananmen si è trasformata in un fortino inaccessibile per via delle imponenti misure di sicurezza.
[e. st.]

Corriere 5.6.14
1989, le fiaccole di Hong Kong e l’amnesia collettiva di Pechino
Tienanmen 25 anni dopo: un anniversario ancora diviso
di Guido Santevecchi


PECHINO — Prima di uscire da casa, quella notte di 25 anni fa, il ragazzo chiese alla madre: «Pensi che i soldati spareranno?». La donna rispose di no. Per giorni e per settimane, da quando gli studenti avevano occupato la piazza Tienanmen a metà aprile del 1989, i reparti militari erano rimasti quasi intrappolati a Pechino: anziani, donne con bambini in braccio, lavoratori, studenti, un mare di studenti universitari, tenevano discorsi e lezioni alla truppa sul significato del movimento di protesta e sul motivo per il quale i reparti in armi si sarebbero dovuti ritirare. Per questo, quella notte, la madre rispose che no, l’Esercito popolare di liberazione non avrebbe sparato. Non sapeva che al vertice del partito comunista i duri avevano vinto, avevano condannato come «contro-rivoluzionari» i giovani che chiedevano partecipazione e riforme democratiche. L’ordine per la repressione era stato dato.
Tre ore dopo, all’alba del 4 giugno 1989, suo figlio era morto, colpito dal fuoco di quei soldati. Zhang Xianling, ha 77 anni e da settimane è stata chiusa in casa da otto poliziotti. Ieri la polizia l’ha accompagnata in auto sulla tomba del figlio. Stesso trattamento anche per le altre Madri della Tienanmen. «Lo trovo ridicolo, sono una vecchia, che cosa posso mai rivelare? Non conosco segreti di Stato. Tutto quello di cui posso parlare è mio figlio, perché hanno ancora paura di me?», ha detto la signora Zhang per telefono.
Ieri Tienanmen era affollata come al solito di cinesi, turisti che vengono a visitare il Mausoleo di Mao e la Città proibita: 130 mila al giorno. Ma in piazza si notavano di più i cordoni di agenti di sicurezza, forze paramilitari, pattuglioni in marcia, soldati in mimetica ed elmetto, auto e furgoni della polizia, più un numero incontrollabile di uomini in borghese. Niente è stato lasciato al caso per prevenire ogni tentativo di commemorazione anche isolato. I visitatori cinesi non davano segno di essere colpiti. Per la stragrande maggioranza di loro il 4 giugno è un giorno come un altro nella lunga marcia della Cina diventata seconda potenza economica del mondo. E poi, dal 1989 il Pil pro capite dei cinesi è cresciuto da 307 dollari a 6.091, un incremento del 1.800 per cento: il patto non scritto secondo cui il partito garantisce la prosperità in cambio del dominio politico ha funzionato. «Il partito comunista è più adattabile e flessibile di quanto si creda all’estero, dopo il 1989 ha stretto il controllo ma ha concesso la libertà individuale di arricchirsi», dice Lijia Zhang, giornalista e autore del saggio Il socialismo è grande! .
È proprio questo che vuole il potere: il non ricordo, l’amnesia collettiva sull’«incidente». Non è mai stato possibile nemmeno contare i caduti della repressione di quella notte: centinaia, migliaia? L’Amnesia di Stato copre tutto.
È stata una giornata di superlavoro per gli addetti alla censura. I tecnici di Pechino si sono concentrati sui due grandi canali dell’informazione globalizzata: Bbc e Cnn . Ogni servizio che citava la Tienanmen è stato oscurato: appena l’annunciatore cominciava a dire «Venticinque anni fa...», schermo nero. È andata avanti così per tutto il giorno, per 24 tg, uno ogni ora.
Qualcuno è riuscito a farsi beffa della muraglia di fuoco della censura: su Twitter il grande Ai Weiwei si è divertito a scrivere «8,9 meno 2,5 fa 6,4», riuscendo così a nascondere sotto la sottrazione tutti i numeri proibiti, dall’89 ai 25 anni trascorsi, alla data 4 giugno. Alle 19 e 30, l’ora in cui il sole tramonta a Pechino, i soldati in piazza hanno ripetuto la cerimonia dell’ammainabandiera e sulla Tienanmen è sceso il buio.
Poco dopo si sono accese candele e torce a Hong Kong, il territorio autonomo tornato alla madrepatria nel 1997 dopo il dominio dell’impero britannico. Decine e decine di migliaia di persone (200 mila dicono gli organizzatori) si sono riunite al Victoria Park, il grande spazio verde tra i grattacieli dell’isola. Laggiù ogni anno la strage è commemorata con una veglia. È comparsa anche una copia della Dea della Libertà, la statua che era stata innalzata in Tienanmen dagli studenti e un carro armato di cartapesta. Il cardinale cattolico Joseph Zen Ze-kiun ha pregato per la democrazia e il rilascio dei dissidenti. «Qualcuno oggi dice che sono passati 25 anni e bisogna darsi pace. Ma gli assassini non hanno ammesso la loro colpa e non hanno chiesto scusa. Noi non possiamo permettere che quegli eroi portino per sempre il marchio di contro-rivoluzionari».
Guido Santevecchi

l’Unità 5.6.14
Cacciari nel «labirinto» del Moderno demoniaco e inattuale
Il nuovo testo del filosofo che fa ritorno alla nostra concreta esistenza
di Giuseppe Cantarano


IL MODERNO - È STATO PIÙ VOLTE DETTO - È COME UN LABIRINTO. MA UN LABIRINTO UN PO’ PARTICOLARE. Perché, sebbene vi sia un centro, questo centro è in realtà vuoto. Non contiene, non custodisce, non nasconde, diciamo così, nessuna Verità. Nessuna salvezza. Non solo. Ma le molteplici vie - i molteplici percorsi - che lo costituiscono a volte si incontrano, si intersecano, si annodano in un groviglio apparentemente inestricabile. Per poi di nuovo separarsi, dividersi, allontanarsi. Sentieri - percorsi - tutti diversi. Inassimilabili. Ciascuno geloso della propria irriducibile, intraducibile singolarità. Della propria distinta identità. Del proprio inconfondibile timbro linguistico. Sentieri - percorsi - tutti differenti. Eppure tutti «identici». Perché tutti hanno in comune l’identico labirinto che li contiene. Quel labirinto le cui vie sono - di volta in volta - tratteggiate, segnate dal loro stesso cammino. Dal loro stesso procedere. Che a volte improvvisamente e inaspettatamente si arresta, si interrompe - come i sentieri di un bosco - per tornare indietro. E per intraprendere un altro cammino. Un’altra direzione. Poiché se è vero che in questo curioso labirinto - che è la filosofia - non c’è un centro, è altrettanto vero che non c’è un’unica via d’uscita prestabilita, predeterminata. Ecco perché ciascun sentiero filosofico è «condannato» a costruirsela, a trovarsela da sé, la via d’uscita.
Metafora del Moderno, questo strano labirinto è però il luogo dove l’interrogazione della filosofia non ha smesso mai di aggirarsi, di avventurarsi, se ci pensiamo bene. È il luogo da dove i molteplici e differenziati percorsi della filosofia non riescono ancora a congedarsi. Perché nessuno è sinora riuscito a crearsi la propria via d’uscita. Mentre il centro è sconsolatamente, disperatamente vuoto. E non c’è più alcun motivo, alcuna ragione, alcun senso per soggiornare in esso.
È a questo paradossale labirinto filosofico che Massimo Cacciari ha dedicato il suo ultimo bel libro, Labirinto filosofico, (Adelphi, pp.348, euro 38,00 ). Un libro «inattuale». Controcorrente, diciamo così. E a suo modo «demoniaco », se vogliamo. Perché non si può certamente scrivere un libro come questo, se non si è spinti, trascinati quasi a farlo da quel demone - di cui parlava Socrate - che abita in ciascuno di noi. E che ci obbliga incessantemente a interrogarci. A tornare a interrogarci ancora sulle «cose ultime». Che ci obbliga, insomma, a far ritorno alla metafisica. E alle sue «eterne» questioni. Troppo frettolosamente - e, peraltro, con puerile ingenuità - liquidate dalle correnti mode filosofiche. Che hanno contribuito a inaridire la filosofia. Relegandola nell’astrazione degli specialismi accademici. Dove agonizza ormai da troppo tempo. Lontano dalla vita. Lontano da quelle domande che cercano di scuoterla. Di acciuffarla. Di «curarla».
Far «ritorno» alla metafisica, per Massimo Cacciari, è tornare infatti a prendersi cura soprattutto di quella «cosa ultima» che è il nostro esserci. La nostra concreta esistenza. Ma senza l’amore - senza la philia - nessun sapere - nessuna sophia - sarebbe davvero in grado di corrispondere a questa disperata «vocazione terapeutica». Perché è vero che è la meraviglia - thauma -, lo stupore per le cose esistenti che muove l’interrogazione della filosofia. È vero - come scrive Cacciari - che «metafisica è l’interrogazione intorno alla physis dell’ente che ci ha tremendamente meravigliato».
Certo, la prima domanda della filosofia scaturisce dallo stupore per le cose esistenti:« Che è “questo” che ci sta di fronte? È qualcosa, certamente - osserva Cacciari -. Da Dove? Perché qualcosa esiste?».
Ma cos’è che tremendamente ci meraviglia, ci spaventa - delle cose che esistono - se non l’angosciante esperienza che noi facciamo del loro dileguamento? Se noi non amassimo le cose che esistono - e le creature che vivono - perché dovremmo tremendamente meravigliarci - angosciarci - del loro dileguamento? Il thauma - la paura più tremenda - è il fatto che dobbiamo morire, ci dice Cacciari.
Ma il nostro pensiero - il «divino», il trascendente che è in noi - si ribella a questa «apparente» evidenza. È l’angoscia della nostra morte che ci costringe a pensare. A filosofare. Che ci costringe a trascenderci.
Ecco perché la filosofia - come erroneamente si crede - non potrebbe mai essere una «cura» per il morire. Non potrebbe mai essere una preparazione alla morte - melete thanatou. Ma è «cura- angoscia contra il nudo fatto che moriamo », precisa Cacciari. È davvero mortale il soffio che dà vita al nostro corpo? Può davvero spegnersi il principio della nostra vita? Siamo davvero convinti che tutto, nel divenire, sia destinato al nulla? Siamo davvero sicuri - si chiede Cacciari - che per «guarire» dall’angoscia della morte, dobbiamo rassegnarci ad abbandonare il nostro corpo - che è soltanto dolore e sofferenza - e «correre a morire, correre incontro alla sua morte per poter credere alla immortalità della pura anima»?
No, la filosofia non è cura per la morte, ma per la vita. La filosofia è sì interrogazione dell’angoscia massima, la morte. Ma non si può «guarire» dalla morte morendo. Ma semmai pensando la morte. Al centro della nostra psiche c’è il nostro pensiero vivente, che ci dice che noi viviamo. Il nostro pensiero vive, è pensiero del vivente poiché si oppone al fatto «apparente» che noi dobbiamo morire. Solo chi è dotato-armato del logos - proprio della filosofia - potrà mettere a morte ogni padrone. Perfino quel padrone che è la nostra morte. Ecco perché la filosofia non può essere una attesa impaziente e impotente della morte liberatrice.
Ma è un saper mettere a morte tutto ciò che ostacola, impedisce una piena vita: «Trapassare il padrone ultimo - la morte - e fare del dato “che si muore” un fatto del pensiero: ecco la cura suprema e il supremo esercizio. Da limite del vivere - ci dice Cacciari - la morte, nell’esser pensata da parte dell’anima, diviene così fattore essenziale della sua vita».

Corriere 5.6.14
Quel disagio di Bobbio alle prese con Marx
di Giuseppe Galasso


«Sempre affascinato, mai convinto»: così scriveva Norberto Bobbio in una sua pagina del 1969, ora nei suoi Scritti su Marx, testi inediti pubblicati da Cesare Pianciola e Franco Sbarberi (Donzelli, pp. XXVIII-132, e 19,50). È, come si vede, una notazione autobiografica di ordine psicologico, ma non è solo questo. È, anzi, il succo del problema che Marx costituì per lui.
Nella stessa pagina egli notava che l’interesse per Marx si era acceso soprattutto in tre momenti della sua vita: l’«antifascismo militante» a Padova nel 1941-42, la «ricostruzione» postbellica nell’Italia del 1945-50 e la «crisi universitaria» del 1968. Per il resto della sua vita avrebbe potuto di certo segnalare un quarto momento: il crollo del «comunismo reale» e l’eclisse dell’idea marx-comunistica dal 1989 in poi.
I curatori di questi scritti e appunti — che, tra l’altro, ci introducono un po’ nell’officina intima della sua riflessione e ci offrono nuovi particolari e inflessioni del Bobbio politico e filosofo della storia — insistono, a ragione, sul liberalsocialismo quale caratteristica di fondo del pensiero politico di Bobbio, nella scia di Carlo Rosselli e in ideale continuità con la sua adesione al Partito d’Azione. Opportuna è, perciò, la loro citazione dall’introduzione, del 1994, a un volume sul liberalsocialismo, che merita di essere letta in rapporto non solo agli interessi marxiani di Bobbio, bensì anche alla fisionomia più propria dell’anima, direi, ancor prima e più che della letterale formulazione, del suo pensiero politico. Quanto ai problemi di libertà e di uguaglianza del nostro tempo, egli affermava, «se vogliamo dire che i due problemi rinviano, il primo, alla dottrina liberale, il secondo, a quella socialista, diciamolo pure. Ma io mi riconosco meglio, anche emotivamente, nel motto “Giustizia e Libertà”», ossia nel motto formulato da Rosselli, che fu lo slogan ideologico del Partito d’Azione.
Sennonché, proprio da qui emerge, fra l’altro, l’impulso che portò Bobbio alla sua tormentata, ininterrotta e ammirevole riflessione sul socialismo quale problema-cardine della politica e del pensiero contemporaneo. A leggere, anzi, gli scritti qui raccolti ci si può chiedere se lo stesso suo interesse per Marx non sia da leggere — oltre che alla luce dei suoi interessi filosofici e politici più volte messi in luce e ricordati dai due curatori nell’introduzione — anche in rapporto alla parte imponente di Marx nello sviluppo del movimento e del pensiero socialista. Egli lo lascia intravvedere qui fin dall’inizio, ad esempio, dell’appunto Il marxismo teorico in Italia , del 1958. «Tentativi falliti» egli giudica qui quelli di Gobetti e Rosselli di «un inserimento della tradizione liberale nel movimento operaio, e un distacco del socialismo dal marxismo». Difficile, dunque, staccare il socialismo dal marxismo: punto che distingue alquanto Bobbio dalle correnti liberali e democratiche più tipiche del pensiero politico italiano, e lo mette in una singolare posizione intermedia fra l’area «laica» e quella socialista della nostra democrazia.
Un’area non comoda per lui, che si trovò a muoversi con ricorrenti difficoltà fra due settori di fatto antagonisti, e con un disagio che, quanto a Marx, trovò una felice espressione nel titolo di un altro volume di suoi scritti marxistici: Né con Marx, né contro Marx . Difficoltà e disagio che non attenuarono, peraltro, il suo interesse per Marx neppure dopo il 1989. Anche se fin da un altro interessante scritto del 1946, ora edito, egli citava Rosselli per affermare che era «venuto il momento di dissociare il socialismo e il marxismo», riducendo quest’ultimo soltanto a «una delle molteplici teorie del movimento socialista», questa dissociazione egli poi non la praticò mai davvero. Ritenne, anzi, alla fine, che del pensiero di Marx fossero destinati sempre a sopravvivere almeno due punti, e cioè, scriveva a Sylos Labini nel 1991, «il primato dell’economia sulla politica e sull’ideologia» e «il processo di mercificazione universale prodotto dall’universalizzazione del mercato»: due punti che il nostro pensiero liberaldemocratico riteneva fra i meno accettabili di Marx e, ancor più, del marxismo.
Valgano queste poche notazioni a indicare l’interesse degli scritti marxistici di Bobbio ora editi. Un maestro tormentato, ma autentico e di grande spessore, che può riuscire non abbastanza illuminante o persuasivo quanto a soluzioni e risposte specifiche ai problemi che si pose, ma che, senza contare la ricca serie di studi e di insegnamenti che ne fanno uno dei nostri maggiori pensatori del suo tempo, continua a mantenere largamente la sua forza di sollecitazione e di suggestione sia teoretica che etico-politica.