venerdì 6 giugno 2014

l’Unità 6.6.14
AI LETTORI
COMUNICATO DEL CDR

Sulla pelle dei lavoratori e alle spalle dei lettori, si stanno portando avanti manovre che minano il futuro de l’Unità. Il «giorno decisivo» è stato il giorno dell’ennesimo rinvio. L’assemblea dei soci, chiamata a decidere sulla ricapitalizzazione o su una liquidazione della società, ha rinviato il tutto al 12 giugno. Una scelta grave, inaccettabile.
Per senso di responsabilità e amore del nostro giornale, abbiamo garantito l’uscita de l’Unità, nonostante il mancato pagamento degli stipendi e l’irresponsabilità di un’azienda che nulla ha fatto per supportare adeguatamente il prodotto.
Un prodotto che, come dimostrano l’attaccamento dei lettori e il successo dei supplementi legati al novantesimo anniversario della testata (ultimo lo speciale su Enrico Berlinguer), ha ancora un significativo spazio di mercato. Lo stesso senso di responsabilità dimostrato nei fatti dai lavoratori, è fin qui mancato a Matteo Fago, Maurizio Mian, Renato Soru, Maria Claudia Ioannucci e allo stesso Pd, che pur avendo una quota minoritaria nell’azionariato, non può chiamarsi fuori quando è chiaramente a rischio l’esistenza stessa de l’Unità.
Per questo domani non saremo in edicola. Per questo, fino al 12 giugno, proseguirà lo sciopero delle firme. Stiamo lottando per mantenere in vita il più grande giornale della sinistra. Non permetteremo a nessuno di mettere a tacere una voce che sempre è stata e vuol continuare ad essere libera. IL CDR

il Fatto 6.6.14
Riunione piduista a Tg3 Linea Notte

La questione morale di Enrico Berlinguer arrivò in un momento cruciale della nostra storia repubblicana: il cancro della P2 di Licio Gelli era diventato metastasi in istituzioni e giornali. Più di trent’anni dopo, due affiliati di quella loggia massonica si sono ritrovati insieme nella notte del Tg3 a commentare l’ultimo scandalo di tangenti e politica: la grande retata del Mose di Venezia. A “Linea Notte” sono apparsi contemporaneamente l’alfaniano Fabrizio Cicchitto (fascicolo 945 della P2) e il due volte pregiudicato Luigi Bisignani (fascicolo 203 della P2), faccendiere riciclatosi nella narrativa. Ovviamente, si sono dimostrati entrambi garantisti a prescindere, innocentisti senza se e senza ma: “Era necessario arrestare delle persone?”. Conduceva Bianca Berlinguer, chissà cosa avrà pensato.

l’Unità 6.6.14
L’Anpi e l’Italia: settant’anni partigiani
Manifestazioni in tutto il Paese per il compleanno dell’associazione nata dopo la liberazione di Roma
Tutto è cominciato il 6 giugno ’44 su impulso del Comitato di Liberazione Nazionale
I protagonisti della Resistenza progettano passi di rinascita per un’Italia democratica
di Andrea Liparoto


QUELLA CHE VISTO PER RACCONTARE È LA STORIA DI UN AMORE, MA DI QUELLI ABBASTANZA IRRIPETIBILI. UNA STORIA il cui spartito mostra i segni di una fedeltà assoluta e di gesti brillanti e rivoluzionari. Vergata senza immaginazione, dunque, senza finali da risvegliarsi poi nel solito buio. Qui qualcuno ha fatto nascere e stretto davvero. Il tutto prende le mosse dal 6 giugno 1944 quando in Campidoglio, su impulso del Cln, Comitato di Liberazione Nazionale, viene costituita l’Anpi, Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Protagonisti della Resistenza, all’indomani della Liberazione di Roma - mentre nel nord ancora si combatte - si trovano insieme, finalmente liberi, senza il fiato addosso dei nazisti e dei loro portantini in camicia nera, a progettare passi di rinascita. A far fronte, prima di tutto, a necessità incombenti: assistenza alle famiglie dei partigiani caduti e a quelli in vita per il loro pieno reinserimento nella società. Dal primo comunicato ufficiale (26 settembre 1944) emergono con nettezza il senso e il fine del cammino che l’Associazione intende intraprendere, ma non solo. A leggere bene è facile intuire l’avvio di un vero e proprio «viaggio sentimentale»…: «(…) la fiamma ideale che ha sorretto gli intrepidi pionieri dell’Italia Democratica non deve disperdersi con la Liberazione del territorio nazionale: deposte le armi i loro compiti non sono finiti. La stretta comunione di intenti e di opere che li ha animati nell’azione militare deve perpetuarsi nell’attività civile. Non il baratto del sacrificio con privilegi e prebende deve essere il fine, ma - come si addice alle forze più sane e vigorose dell’antifascismo italiano - la difesa e la ricostruzione della Patria (…)». Da allora i combattenti per la libertà non hanno smesso un momento di collocare l’Anpi in prima fila nelle battaglie volte a riposizionare civilmente l’amata Italia a seguito delle tante occasioni in cui degrado morale, spinte eversive, affondi liberticidi hanno rischiato di snaturarne origini e direzione. Il 1948 è l’anno dell’entrata in vigore di uno straordinario baluardo e motore di «risorgimento»: la Costituzione della Repubblica. E non pochi dei suoi ideatori sono partigiani e dirigenti dell’Associazione. Tra tutti Arrigo Boldrini, «Bulow». «Il comandante », per antonomasia.
Autore di «leggendari colpi di mano» (come ricorda Lucio Cecchini nella sua storia dell’Anpi edita nel 1996) ai danni di fascisti e tedeschi, dopo l’8 settembre del 1943 Boldrini organizza a Ravenna ben due brigate partigiane. Quindi, col rientro nella vita civile, viene eletto Presidente Nazionale dell’Anpi nel corso del primo Congresso che si tiene a Roma nel 1947. E lo resterà per 60 anni. Bulow, senza dubbio alcuno, è stato uno dei più arguti e appassionati seminatori d’antifascismo con l’imperativo però di una raccolta di decisivi frutti d’avvenire…: «L’ideologia antifascista non può ridursi ad una posizione morale di ripulsa del fascismo, ma impone un pronunciamento, una critica puntuale sullo stato della democrazia, sui guasti della società italiana, proprio perché antifascismo, democrazia, Costituzione rappresentano i grandi pilastri di uno stato moderno. Ecco perché la strategia dell’antifascismo si deve rinnovare ed arricchire con il contributo autonomo delle forze più vive della società e delle nuove generazioni» (da Patria Indipendente - la rivista ufficiale dell’Anpi - del 27 luglio 1975).
Le nuove generazioni. Un altro capitolo «fondativo». Ad un certo punto del suo esistere, l’Associazione deve fermarsi. Le partigiane e i partigiani, dopo aver affrontato i nazifascisti prima, quindi i fascisti di ritorno negli anni 60, il terrorismo, la corruzione, la mafia… debbono scontrarsi con un nemico che forse non avevano mai messo nel conto, presi com’erano da amore e strategie: la vecchiaia. Agli inizi del terzo millennio, l’esigenza di un impellente passaggio di consegne fa così il giro delle coscienze più avvertite e responsabili. E arriva la svolta. Nel 2006, durante il Congresso di Chianciano, con una modifica statutaria si delibera che possono iscriversi all’Anpi anche coloro che non hanno partecipato alla Resistenza. E migliaia di giovani non si fanno ripetere l’invito due volte. Giugno 2008, Gattatico (RE), Casa Cervi: Prima Festa Nazionale dell’Associazione. Il tema portante, «Antifascismo e/è democrazia». Ad organizzarla, un gruppo formato per lo più da persone tra i 25 e i 40 anni. Il colpo d’occhio su questo primo, ufficiale prodotto di un’operazione rischiosa agli occhi di non pochi partigiani è del tutto sorprendente. Volti ed espressioni delle ragazze e dei ragazzi appaiono esattamente e naturalmente provenienti da lontano… Il 2009 conferma il bene dei nuovi ingressi, rilanciando, ma anche puntualizzando. Dal Documento programmatico della Conferenza Nazionale di Organizzazione di Chianciano: «Decisivo per una nuova stagione dell’Anpi è che nell’Associazione il rapporto tra i partigiani e gli antifascisti sia scevro da rotture generazionali, da giovanilismi paternalistici e da piaggerie opportunistiche o reverenziali, e si fondi invece sulla consapevolezza della reciproca indispensabilità e della comune funzione oltre che sulla parità di diritti e doveri. L’imperativo è lavorare insieme affinché sulla memoria dell’antifascismo e della Resistenza si fondi il futuro della democrazia italiana ».
Un lavoro che ad oggi ha procurato all’Associazione importanti benefici - in termini anche di rinnovamento della comunicazione, viaggiante su canali obbligatoriamente fuori dall’abituale «artigianato» partigiano - qua e là interrotti da fisiologiche incomprensioni, ma anche tensioni all’abuso per fini d’altra «missione» per così dire. Ma l’Anpi riesce ad avere continue risorse di radicamento in una sola identità date proprio da quell’antico principio di senso e sentimento. E a perderlo perderemmo un po’ tutti, in azione e riflessione. In particolare, ultimamente, quest’ ultima, e aggiungo responsabile. Per non parlare dell’amore... Per lo più infilato in un angolo di narrazioni scaltre e «innocue».
Ancora 70 anni cara Anpi. E più. Magari.

ridere ridere ridere...
(e infatti Maria di Nazareth era vergine...)
La Stampa
Serracchiani: Expo e Mose? Il Pd non c’entra

qui

il Fatto 6.6.14
Renzi grida al ladro, ma sui corrotti ferma tutto
Il suo governo rinvia il decreto con i poteri a Cantone
e fa slittare la discussione sulla nuova legge per contrastare le tangenti
di Wanda Marra


Il problema della corruzione non sono le regole che non ci sono, sono quelle che non si rispettano. Un politico che viene indagato per corruzione io lo indagherei per alto tradimento. Uno che prende tangenti tradisce la fiducia, l’onore su cui aveva giurato”. Matteo Renzi, dopo l’ennesima retata di arresti, quella sul Mose, usa parole forti, nella conferenza stampa dopo il G7 di Bruxelles. Però mentre annuncia “per le prossime ore, i prossimi giorni” nuove norme sull’anticorruzione chiarisce: “Non possiamo dire sempre che il problema sono le regole, sono i ladri”. Una notazione quasi antropologica, che però tradisce le difficoltà di mettere mano a una situazione deflagrante. Prima l’Expo, adesso il Mose. Tant’è vero che il decreto previsto per oggi, quello che doveva dare i “super poteri” a Raffaele Cantone, non entrerà nel
Cdm. La situazione è troppo complessa. E una cosa è fare annunci in campagna elettorale, una prendere di petto un problema endemico in Italia come la corruzione.
RENZI in questi giorni si è definito arrabbiato. Eppure sembra piuttosto preso alla sprovvista. Quello che poteva andare bene per l’Expo non va bene per tutto. Spiega Cantone: “Se il Mose finisce con due anni di ritardo, non succede niente. Ma l’Expo ha una scadenza ben precisa”. E questo mette l’accento su uno dei punti in discussione: alle società colpevoli si possono togliere gli appalti, o almeno si possono commissariare? O in nome dell’urgenza è il caso di far arrivare i lavori in fondo? Il testo a Palazzo Chigi sarebbe quasi pronto a livello tecnico, ma politicamente i nodi sono da sciogliere. E il premier domenica parte per la Cina e per quando torna ha già pronto il decreto Pa, che dovrebbe andare in Cdm il 13 giugno. Cantone ieri si è affrettato a dichiarare che non ci sono conflitti tra lui e il premier. Eppure l’impressione è che voglia garanzie difficili da ottenere. Intanto, slitta anche la legge anti corruzione, che era calendarizzata per la prossima settimana. Ieri il sottosegretario Cosimo Ferri ha annunciato in Commissione Giustizia al Senato che il governo presenterà un suo ddl. Questo - a norma di regolamento - basta a far slittare tutto di un mese. L’intento - ufficialmente - sarebbe migliorativo. Per ora quel che si vede è solo un allungamento dei tempi. E i rumors a Palazzo Madama raccontano di uno scambio: Forza Italia otterrebbe che nel falso in bilancio non venga prevista la possibilità di procedere in automatico, in cambio del sì alla riforma del Senato.
Ieri intanto è arrivata anche la posizione ufficiale del governo (e del Pd) sul sindaco di Venezia arrestato, Giovanni Orsoni. Affidata al sottosegretario, Luca Lotti, fidatissimo del premier-segretario: “Orsoni, non è iscritto al Pd, non ha tessera, è un sindaco indipendente". Per Lotti "le responsabilità sono individuali, non hanno un colore di partito, ma questo non significa scaricare nessuno". Una dichiarazione che arriva non a caso con 24 ore di ritardo, visto che Orsoni sì non è iscritto, ma dal Pd era sostenuto. La Boschi si spinge più in là: “Se le accuse saranno provate, ne trarremo le conseguenze, come fatto col caso Genovese”.
A BOTTA CALDA molti Democratici erano pronti se non proprio a difendere Orsoni (come ha fatto Fassino) quanto meno a concedergli il beneficio del dubbio. Malumore tra i renziani per le molte “mele marce” del Pd, un partito che in buona parte hanno trovato, ma del quale oggi fanno parte. Spiega il segretario del Veneto, Roger De Menech: “Serve trasparenza per i finanziamenti dei privati alla politica, che significa da una parte tracciabilità, dall’altra renderli tutti pubblici”. Mentre ci tiene a mettere l’accento sul fatto che i vertici del Pd veneto sono stati tutti rinnovati. Per restare in tema di Veneto, da notare che c’è il ballottaggio di Padova: il leghista Bitonci contro il Democratico, Rossi. Renzi non andrà a iniziative elettorali: era molto difficile prima, figuriamoci adesso.

il Fatto 6.6.14
Liturgia della parola
Turbamento e sconcerto

MATTEO Renzi? È “turbato” (parola di Raffaele Cantone, diligentemente riportata dalla stampa nazionale, con titolo ad hoc di Repubblica). Andrea Orlando? “Intristito”. E i Democratici? Sono “sconcertati”. Ovviamente. Le parole sono importanti, diceva qualcuno. E in effetti queste descrivono bene la situazione: nessuno nel Pd sa bene che dire sulla vicenda Mose, nessuno ha alcuna intenzione di assumersi qualche responsabilità e dunque tutti prendono tempo. Affidandosi a perifrasi ed eufemismi, che gli permettono di dire senza dire, di schernirsi senza sottrarsi, di adombrare futuri provvedimenti, senza prenderli. D’altra parte, in politica la parole sono pietre, si sa.

La Stampa 6.6.14
Massimo Mucchetti: «Matteo dice cose diverse da Cantone»
intervista di Antonio Pitoni


«Ma Renzi e Cantone vanno d’accordo?». Se lo chiede sul suo blog il presidente della commissione industria del Senato, Massimo Mucchetti (Pd) sulla scia degli scandali Expo e Mose.
Chi ha ragione tra i due?
«Bisogna trovare una sintesi. Cantone, come Kevin Costner ne “Gli intoccabili”, chiede di avere la sua squadra perché da solo non sconfiggerebbe mai Robert De Niro nel ruolo di Al Capone. Se restasse solo l’Autorità anticorruzione diventerebbe inutile, anche perché abbiamo già un’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici e una magistratura. Insomma, deve essere messa in condizione di operare». 
Perché l’idea di sospendere i lavori nei casi di corruzione non la convince?
«Intanto una misura così radicale andrebbe rapportata alla gravità dell’episodio corruttivo. Poi c’è un problema di accertamento del reato: attendere una sentenza definitiva comporterebbe un allungamento eccessivo dei tempi. Lo stesso accadrebbe nel caso in cui si decidesse di chiudere un cantiere per un’opera di pubblica utilità e di rinviarne, quindi, l’esecuzione all’esito di una nuova gara d’appalto. Se l’opera è necessaria si finirebbe per negare un servizio ai cittadini».
Come trovare, allora, la sintesi?
«Con un’adeguata iniziativa politico-giuridica. Ho suggerito un’ipotesi: commissariare temporaneamente, su richiesta del pm e per disposizione del Gip, le concessionarie inquisite fino all’eventuale assoluzione di primo grado, ferme restando le sanzioni previste in caso di condanna».
Expo e Mose: siamo di fronte ad una nuova Tangentopoli?
«I numeri di Tangentopoli sono stati decisamente più grandi. Ciò non toglie che siano episodi gravissimi. Mi stupisco che non si affronti con lo stesso impegno lo scandalo della Sopas dove dei banchieri privati sono accusati di aver truffato per centinaia di milioni le casse previdenziali». 

La Stampa 6.6.14
Ma il muro del malaffare sta crollando
di Luigi La Spina

qui

Repubblica 6.6.14
Pd, è scontro tra vecchia e nuova guardia
di Giovanna Casadio


ROMA. La “vecchia guardia” dem non ci sta a fare da capro espiatorio della nuova Tangentopoli. La “ditta” ha avuto una bella botta con lo scandalo del Mose. Un pezzo di Pd compare un’altra volta compromesso in loschi affari e corruzione. E al Nazareno il vice segretario Lorenzo Guerini, a cui Renzi ha affidato il partito, parla di «rabbia». Rabbia, sconcerto, fastidio. «Dopo tutto il lavoro che abbiamo fatto... chi ha sbagliato deve essere politicamente isolato. Ora noi voltiamo pagina».
Ma i veterani democratici, accusati di un modo di condurre la politica troppo vicino, se non «colluso» con gli affari, reagiscono. Cosa c’entra la frattura vecchio/nuovo, giovane/vecchio sulla corruzione? Crescono tensioni e polemiche. Pierluigi Bersani dopo aver smentito seccamente di avere mai incontrato Greganti, twitta rivendicando l’eredità berlingueriana: «Sarò a Cagliari e lunedì a Genova su Berlinguer per sognare una politica bella, pulita e coraggiosa». Proprio la prossima settimana il Pd ricorderà Enrico Berlinguer e il suo insegnamento etico in Parlamento. Non poteva cadere in un momento più opportuno.
Ma il 14 giugno l’Assemblea nazionale del Pd sarà una resa dei conti. Rosy Bindi, la presidente della commissione Antimafia, che ripulì la Dc proprio in Veneto quando scoppiò Tangentopoli, non ci sta: «Far entrare la corruzione nella distinzione tra vecchia e nuova guardia è fuorviante. La distinzione è tra chi ha combattuto il malaffare e chi ne è stato attore o complice». Attacca Laura Puppato: «Con la sua nascita il Pd doveva dare una cesura netta al modello di politica e affari: invece così non è stato». E ricorda le tante interrogazioni, denunce e richieste da lei presentate quand’era capogruppo in consiglio regionale veneto e a cui non è stata data risposta: «Il Pd ha visto molti Gattopardi, e ora tutto questo getta un’ombra sulla nostra credibilità».
I Dem sono una polveriera. C’è Luca Lotti, il sottosegretario all’Editoria e braccio destro di Renzi che, dopo la lettura mattutina dei giornali, prende le distanze dal sindaco di Venezia: «Non è per scaricarlo, ma Giorgio Orsoni non è del Pd, non ha mai avuto la tessera...». E c’è Flavio Zanonato, ex sindaco di Padova, e amico di Orsoni: «Che di questa cosa si sapesse, che se ne sentisse parlare è vero. Ma il coinvolgimento di Orsoni con il quale ho avuto un rapporto di amicizia, non me l’aspettavo... spero si possa discolpare». Qualche autocritica da fare? Norme, regole che sono mancate? «L’onestà non arriva per legge - risponde Zanonato - La corruzione è un cancro che minaccia la democrazia». Se ne discuterà di tutto questo nel Pd, e non ci saranno sconti. Lo garantisce la ministra Maria Elena Boschi, ricordando come i Dem si sono comportati con Francantonio Genovese, ex segretario del partito messinese e parlamentare, per il quale è stata votata dai deputati l’autorizzazione all’arresto. Il “doge” Orsoni non avrà più alcun appoggio dal Pd. Pesa però il sarcasmo di Grillo: «Noi #vinciamopoi intanto #arrestanovoi ». «Grillo strumentalizza tutto - replica Danilo Leva - I ladri sono ladri e la responsabilità è individuale».

il Fatto 6.6.14
Riunione piduista a Tg3 Linea Notte

La questione morale di Enrico Berlinguer arrivò in un momento cruciale della nostra storia repubblicana: il cancro della P2 di Licio Gelli era diventato metastasi in istituzioni e giornali. Più di trent’anni dopo, due affiliati di quella loggia massonica si sono ritrovati insieme nella notte del Tg3 a commentare l’ultimo scandalo di tangenti e politica: la grande retata del Mose di Venezia. A “Linea Notte” sono apparsi contemporaneamente l’alfaniano Fabrizio Cicchitto (fascicolo 945 della P2) e il due volte pregiudicato Luigi Bisignani (fascicolo 203 della P2), faccendiere riciclatosi nella narrativa. Ovviamente, si sono dimostrati entrambi garantisti a prescindere, innocentisti senza se e senza ma: “Era necessario arrestare delle persone?”. Conduceva Bianca Berlinguer, chissà cosa avrà pensato.

l’Unità 6.6.14
Il riformismo e il popolo
L’errore di un riformismo senza popolo
di Alfredo Reichlin


Torno sulla questione del Partito e sul significato dell’espressione «partito della nazione». Con lo straordinario voto del 25 maggio si è creata una situazione che non consente più al Pd di navigare a vista. I problemi del Paese, accantonati nei decenni e non risolti, non possono più essere rinviati. Sia pure a piccoli passi, con realismo, tenendo conto delle condizioni difficili in cui ci muoviamo, sarà necessario affrontare - finalmente - le ragioni della crisi di quello che non è solo l’apparato dello Stato ma l’insieme dell’organismo italiano. Parlo di cose come il patrimonio umano (indebolito al punto che il Paese di Dante e Galileo scende agli ultimi posti per ciò che riguarda la formazione e il sapere); il tasso di attività (un italiano su due lavora a fronte di tre tedeschi su quattro); lo sfilacciamento del tessuto sociale (non solo le tradizionali ingiustizie ma l’enorme peso delle rendite, dei corporativismi, delle «consorterie», della illegalità diffusa e quindi il ruolo marginale attribuito al lavoro produttivo); l’emarginazione del Mezzogiorno, giunta al punto che di fatto zone importanti del Paese vivono sotto il dominio di mafie e massonerie. E qui mi fermo.
Di questo si tratta. Di grandi problemi ormai ineludibili, che la sinistra deve affrontare se vuole restare protagonista. Ecco le ragioni per cui penso che la forza del messaggio che il Pd è chiamato e rivolgere agli italiani deve consistere - certamente - nella definizione di un nuovo programma, che è cosa essenziale e che sta avvenendo, ma non solo questo. Quale programma può funzionare se dopo anni e anni di confusi dibattiti sui sistemi elettorali e sui marchingegni del potere noi non riusciamo a riaprire la questione che spiega la debolezza di fondo della democrazia italiana? Parlo della debole integrazione politica di un popolo antico e così diverso, dal Veneto alla Sicilia, nella vita statale. Questo è il problema cruciale. È la creazione di una soggettività politica, è il rapporto tra popolo e nazione. È ridare senso e ideali alla politica. Questo problema, nel Novecento, fu affrontato con la costruzione dei grandi partiti. È per mezzo di essi che fu possibile coniugare popolo e governo, partecipazione e decisione politica. Fu un fatto grandissimo ma irripetibile in quelle forme. In quali forme è pensabile adesso? Questo è il tema - ben più che organizzativo - che merita davvero una riflessione seria. È la costruzione del Pd come partito, è la questione di quel «partito della nazione» di cui andiamo parlando.
Ma allora bisogna essere molto chiari. Che cosa andiamo cercando? Un ennesimo sgabello per le ambizioni di un leader? Oppure noi cerchiamo - come io penso - la risposta all’interrogativo di che cosa ci sia dopo la vecchia democrazia dei partiti e dopo la crisi della sovranità nazionale quale si era affermata in Europa con lo Stato-Nazione. Il dilemma è chiaro. Ci rassegniamo all’idea che ormai c’è solo una forma di governo più o meno oligarchica e nei fatti schiacciata dalle logiche di un mercato per cui i diritti sociali sono valutabili solo in quanto costi? Oppure ci sono nuove forme di partecipazione più complesse costruite sulla base del riconoscimento dei nuovi diritti delle persone e sulla valorizzazione della loro creatività?
È una discussione difficile ma inevitabile dal momento che - a ben vedere - la grande difficoltà che ci assilla non sta tanto nel mettere in campo un ceto politico più efficiente e onesto quanto nella necessità di dotare le persone di nuove armi politiche e sociali capaci di contrastare la potenza delle oligarchie con poteri meno fragili di ciò che resta dei partiti, dei sindacati, della famiglia, dell’associazionismo, della sovranità degli Stati nazionali (il deserto che ci sta davanti). È una domanda difficile che però non può essere evitata. Dove sta la «potenza» democratica, cioè il potere degli uomini di essere liberi e di governare la propria vita in una società molecolare dove non ci sono più i vecchi blocchi sociali ma una somma di individui che si misurano solo col denaro?
Credo che questa potenza stia nell’organizzare un nuovo soggetto politico capace di porsi come lo strumento di una alleanza tra le forze più creative del lavoro, dell’impresa e dell’intelligenza, una alleanza interessata a battersi contro il grumo di conservatorismi e perfino di tentazioni sovversive che attraversano la società italiana. Sta tutta qui la questione del partito, il bisogno di una forza che dia voce alla società, compresi i ceti subalterni, e che quindi li organizza. Ma come? Con quale tipo di partito? Io penso a partiti meno assillati dalla gestione del potere, direi quindi più «culturali», non nel senso della dottrina ma dei valori popolari più animatori delle risorse umane. Cosa che, dopo Berlinguer, la sinistra italiana non ha potuto o non ha saputo fare dominata come è stata da una idea del riformismo troppo dall’alto, «senza popolo».
Coloro che come chi scrive non hanno mai dubitato della funzione storica della sinistra italiana ma che, al tempo stesso non si sono mai nascosti la sua debolezza e, perfino, per certi aspetti, il suo anacronismo in quanto troppo gravata dalle culture novecentesche, cioè dalla visione di un mondo che non c’è più; ebbene proprio coloro come me possono dire senza essere fraintesi che per affrontare questo nuovo passaggio storico la sinistra è forza necessaria ma non sufficiente. Però necessaria: questo sì, e molto.
La sinistra non è una categoria dello spirito. È nata in Europa e ha fatto storia per oltre un secolo, in quanto attore principale del conflitto tra le classi, cruciale allora, nell’epoca dell’industrialismo. Oggi non siamo più in grado di affrontare un ruolo analogo facendo leva solo sul nostro patrimonio. Non è una tragedia e non è il caso di stracciarsi le vesti. È un fatto. Per affrontare i nuovi conflitti di un mondo il quale esprime culture e bisogni, diversissimi da quelli del Novecento europeo, bisogna andare oltre i nostri vecchi confini. È tempo di incontrare altre culture e altri riformismi per dar vita a qualcosa di molto più forte di una alleanza elettorale e di molto più serio che un club di riformisti «doc».
Dobbiamo occupare il terreno dei nuovi conflitti. Stiamo attenti. La globalizzazione è ben più che l’allargamento dei mercati. È l’apertura di un processo storico nuovo in conseguenza del quale gli Stati nazionali non scompaiono affatto ma la loro sovranità è attraversata e condizionata da attori che governano reti attraverso le quali passano poteri sovranazionali, interessi forti, disegni politici di dominio, insieme a tutti quei fattori immateriali che impongono valori e modi di pensare. Google conta più di uno Stato.
Ecco dove sta il terreno dei nuovi conflitti e delle nuove alleanze, dove sta il bisogno di un nuovo pensiero politico. Ecco perché bisogna puntare sulle grandi ragioni e sui valori che possono unire in Italia e nel mondo le forze del progresso. Perché lì, in quelle grandi ragioni stanno le forze vere e vive da rimettere in moto. L’incontro si fa a questa altezza. Non si fa al ribasso ma rendendo esplicita la grandezza della posta in gioco.

l’Unità 6.6.14
La vittoria elettorale non inghiotta la sinistra
Si va verso un futuro in cui non ci sarà più dialettica politica tra destra e sinistra?
di Riccardo Terzi


DOPO LO STRARIPANTE SUCCESSO DELLE ELEZIONI EUROPEE, TUTTO IL GRUPPO DIRIGENTE DEL PD È ENTRATO, COMPRENSIBILMENTE, IN UNA CONDIZIONE DI EUFORIA, perché quel risultato arriva dopo una lunga stagione di delusioni e di sofferenze. Sarebbe del tutto ingeneroso non riconoscere il grande valore storico di questa vittoria. Ma ho l’impressione che alcuni si siano lasciati inebriare dalla «vertigine del successo», perdendo di vista la materialità concreta dei rapporti di forza e delle condizioni politiche del Paese. Mi ha molto colpito, e allarmato, la definizione del Pd come «partito della nazione », perché qui si compie un salto da un’idea maggioritaria a una totalitaria, e il partito diviene il «tutto», l’interprete esclusivo dell’interesse e dell’identità nazionale. È una formula del tutto inedita, ed essa ci rinvia a modelli che sono estranei alla nostra tradizione democratica, laddove non c’è nessuna distinzione tra partito e Stato.
È solo un inconsapevole slittamento linguistico, un artificio retorico che nasce in questo attuale clima di esaltazione collettiva? È probabile che si tratti solo di questo, ma sarebbe bene misurare il significato delle parole, e usarle con un criterio di severa razionalità. Dire «partito della nazione» vuol dire che non c’è, e non ci deve essere, nessuna dialettica politica tra destra e sinistra, che la politica non ha nulla a che fare con i conflitti sociali, e che c’è un’unica forza che riassume in sé il bene comune, e tutto il resto è solo un insieme di scorie, di detriti populistici o demagogici. La nazione, in una logica democratica, si regge non su un partito ma su un sistema politico, su uno spazio democratico aperto al pluralismo delle idee e dei progetti. Se un partito si fa nazione è la democrazia stessa che viene spenta. Il partito non è altro che una parte, ed esso concorre assieme ad altri in una libera competizione plurale, e non può mai pretendere di essere qualcosa di più di questa sua parzialità. Vorrei che su questo nodo, politico e teorico, riflettessero con più attenzione tutti quelli che si sono avventurati su questo terreno scivoloso, senza misurarne tutte le implicazioni. Sulla medesima lunghezza d’onda si muove l’intervista del ministro Orlando, che parla di «voto patriottico». Stiamo attenti, perché si tratta di formule mistificatorie, che identificano il partito con lo spirito della nazione, e ci si avvicina così pericolosamente all’idea di un regime che non ammette nessuna possibile alternativa. Aggiungiamo a tutto ciò la proposta di una legge elettorale super-maggioritaria, la liquidazione delle ragioni della rappresentanza in nome della governabilità, e appare allora chiara una traiettoria che va in una direzione del tutto opposta rispetto alla domanda di una maggiore partecipazione popolare alle decisioni.
Che cosa è oggi il Pd, e che cosa vuole essere nel prossimo futuro, è questa una domanda cruciale, a cui non è affatto agevole rispondere. Per ora, ciò che appare chiaro è solo la volontà, e la capacità, di occupare con successo il centro della scena politica. Devo dare atto a Matteo Renzi di aver seguito, anche dopo le elezioni, una linea di sobrietà e di realismo, senza sottovalutare la forza dei suoi avversari, e senza chiudere i canali del confronto politico nelle diverse direzioni. Consiglierei al Presidente del Consiglio di stare sul terreno concreto dell’azione politica e di governo, e di prendere le distanze da tutta la schiera di cortigiani che vogliono trasformare, lui e il suo partito, in un monumento nazionale. In questo contesto, mi pare del tutto fuori luogo l’idea di una unificazione politica della sinistra. Se il Pd è il partito-nazione, ciò vuol dire che l’idea stessa di sinistra viene messa fuori giuoco, e allora non si tratterebbe affatto di una nuova unità, ma solo di una liquidazione. La prima necessità è quella di far vivere le differenze, di far valere il pluralismo politico, in Italia e in Europa. Poi si vedrà, alla luce dei fatti e dei comportamenti concreti. E intanto, mentre si riconosce il grande ruolo centrale del Pd nella vita politica italiana, va contrastata apertamente la sua tendenza a essere il dominus esclusivo della situazione, l’asse su cui si costruisce una nuova forma di regime.

il Fatto 6.6.14
Chiusi gli ospedali psichiatrici, pazienti liberi e senza tutele

LA LEGGE 81 del 2014 sul superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) dice che salvo casi di “conclamata pericolosità sociale dell’individuo” o laddove le cure non bastino a evitare il rischio per la comunità, i magistrati dovranno adottare misure “alternative” rispetto agli ospedali psichiatrici giudiziari. Ma la norma sta destando allarme per la disposizione introdotta dal Senato che dispone che sia le misure di sicurezza detentive (provvisorie o definitive) che i ricoveri non possano protrarsi oltre la pena. I giudici saranno così tenuti a revocare le misure di sicurezza per internati che abbiano superato il limite massimo della pena. Così soggetti ad alta pericolosità sociale potrebbero finire fuori dal carcere senza che siano state predisposte le necessarie misure sanitarie, sociali e giudiziarie.

La Stampa 6.6.14
Nuova ondata di sbarchi in Sicilia
In 24 ore soccorse oltre 2500 persone
Gli uomini della Marina hanno già intercettato 17 barconi in arrivo dall’Africa.
Ma il bilancio è destinato a aumentare. A bordo centinaia di minori e donne

qui

l’Unità 6.6.14
Un detenuto su cinque è dietro le sbarre senza processo
di Valter Vecellio


IL COMITATO DEI MINISTRI DEL CONSIGLIO D'EUROPA RICONOSCE I «SIGNIFICATIVI RISULTATI» ottenuti dall’Italia per quel che riguarda la situazione delle carceri. Tiri pure un sospiro di sollievo chi vuole, il rischio di una mega-multa per ora appare scongiurato. La situazione tuttavia è ancora grave: un detenuto su cinque è in carcere senza aver subito un processo. Sono in questa condizione 10.389 reclusi, il 17% dell’intera popolazione carceraria (59.683, secondo i dati aggiornati al 30 aprile scorso). Un fenomeno che incide sul sovraffollamento, ha costi umani e anche economici per il Paese, visto che ogni giorno per la carcerazione preventiva l’Italia spende circa 1,3 milioni di euro. I dati emergono da un’analisi dell’Associazione italiana giovani avvocati.
Per arrivare a stabilire quanto costa la carcerazione preventiva l’Aiga è partita dai dati del ministero della Giustizia, e ha poi moltiplicato il numero dei detenuti sottoposti al carcere preventivo a quello che lo Stato spende al giorno per ogni singolo recluso: una cifra pari nel 2013 a quasi 125 euro, in un anno 45.610 euro. Dal punto di vista numerico la situazione è migliorata da quando nel gennaio del 2013 fu pronunciata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la sentenza Torreggiani, visto che allora i detenuti in attesa di giudizio erano circa 12.439 (18,87%) su un totale di 65.905 detenuti.
Nonostante i «significativi risultati» una situazione di palese illegalità, in contrasto con la Costituzione e la normativa europea, e che può essere sanata solo a partire da un provvedimento di amnistia e indulto. Lo ha ben detto, l’altro giorno, il Procuratore generale aggiunto che coordina i magistrati dell’esecuzione penale, dottoressa Nunzia Gatto: «Personalmente sono dell’idea che si sarebbe dovuto seguire la linea più volte indicata dal presidente della Repubblica per alleggerire il sovraffollamento carcerario: amnistia e indulto. In quel modo, per noi sarebbe stato possibile applicare automaticamente il condono ai detenuti che ne avessero avuto diritto».
Il presidente della Repubblica Napolitano, con il suo messaggio alle Camere ha “gridato” il suo autorevolissimo «non si perda neanche un giorno». Ci sono state le iniziative nonviolente che i radicali in questi mesi hanno messo in atto: dallo sciopero della fame e della sete di Marco Pannella a quello della segretaria di Radicali Italiani Rita Bernardini, fino agli appelli diffusi e sottoscritti da numerose personalità alle lettere inviate al Capo dello Stato. Da ultimo, ma non ultimo, gli incoraggiamenti e gli appelli di papa Francesco con le sue telefonate a Pannella...
Gli aspetti della pena illegale in Italia non riguardano solo gli spazi a disposizione di ciascun detenuto (e qui il sovraffollamento persiste) ma anche la possibilità di accesso alle cure. Su questo versante la situazione è disastrosa, perché oltre i tossicodipendenti, che sono il 32%, il 27% di detenuti ha un problema psichiatrico. Non solo: malattie infettive debellate all’esterno dietro le sbarre si diffondono sempre di più. Tra queste, l’epatite C è la più frequente (32,8%), seguita da Tbc (21,8%), epatite b (5,3%), Hiv (3,8%) e sifilide (2,3%). Con tutti i rischi di diffusione di queste malattie all’esterno. Per quel che riguarda inoltre le possibilità di accesso alle attività trattamentali, quali il lavoro e lo studio siamo ancora all’anno zero. C’è una percentuale bassissima di detenuti che può svolgere lavori poi spendibili all’esterno. Su quasi 60.000 detenuti, solo 2.278 solo quelli che svolgono attività per datori di lavoro esterni, mentre 12.268 fanno lavori poco qualificanti all’interno del carcere.
La democrazia e lo stato di diritto si possono realizzare solo difendendo i diritti umani fondamentali. Purtroppo un traguardo ancora lontano.

Corriere 6.6.14
Otto euro al giorno ai detenuti in meno di tre metri
Pronto il decreto del governo per risarcire i danni da affollamento
E Strasburgo rinvia le sanzioni
di Giovanni Bianconi


ROMA — Con i provvedimenti già adottati e la promessa di nuovi interventi — a cominciare da un decreto legge da varare nei prossimi giorni — l’Italia evita l’annunciata condanna europea a risarcimenti milionari per i detenuti che hanno subito «trattamenti disumani e degradanti». Il governo ha superato l’esame davanti al comitato ministeriale del Consiglio d’Europa e guadagna un altro anno di tempo per mettere a posto la situazione delle carceri sovraffollate, che sarà rivalutata entro il giugno 2015. Cioè fra un anno. Con comprensibile, seppure contenuta, soddisfazione del Guardasigilli Andrea Orlando: «È il riconoscimento del lavoro svolto, ma si tratta di un punto di partenza. C’è ancora molto da fare. Aver risolto le urgenze non significa avere un sistema penitenziario all’altezza della civiltà del nostro Paese».
In effetti, più che risolto il problema è stato nuovamente spostato in avanti, grazie ai numeri che si è riusciti a ridurre e al decreto annunciato con la lettera d’impegno inviata a Strasburgo dal sottosegretario di Palazzo Chigi Graziano Delrio: al primo Consiglio dei ministri utile — se non oggi, com’era inizialmente previsto, appena saranno definiti testo e coperture finanziarie — sarà approvato un testo che introdurrà il «ricorso risarcitorio richiesto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo», per chi è stato ristretto al di sotto della soglia di spazio minima considerata non «disumana e degradante», cioè tre metri quadrati. Con la nuova norma chi ha presentato ricorso alla corte di Strasburgo (oltre seimila persone) potrà ora farlo in Italia, ottenendo un «rimedio compensativo»: uno sconto di pena se è ancora detenuto (si pensa a un giorno in meno di carcere per ogni dieci trascorsi nelle condizioni sanzionate dai giudici europei), oppure soldi se è già uscito di prigione (l’ipotesi è di 8 euro per ogni giorno trascorsi in spazi troppo ridotti). Una spesa considerevole per l’erario, ma inferiore di almeno la metà di quanto bisognerebbe pagare se i risarcimenti fossero stabiliti a Strasburgo. Con notevole risparmio per le casse dello Stato.
L’adozione di questo provvedimento è essenziale per ottenere il lasciapassare dell’Unione a un sistema carcerario che nel messaggio alle Camere dell’ottobre scorso il presidente della Repubblica definì «questione drammatica» da affrontare con urgenza, secondo «un imperativo giuridico e politico, e in pari tempo morale». In assenza dell’amnistia e dell’indulto suggeriti da Napolitano, il Parlamento ha varato altre leggi di minore portata che hanno consentito al governo di presentare a Strasburgo, lo scorso 27 maggio, una relazione nella quale è scritto, fra l’altro, che «attualmente, nessun detenuto è allocato in una cella con spazio vitale inferiore a 3 metri quadrati». Alla riga successiva, però, emerge un dato preoccupante: «18.687 detenuti hanno uno spazio vitale compreso fra 3 e 4 metri quadrati», cioè appena al di sopra dell’asticella fissata dalla Corte europea dei diritti umani.
Secondo l’ultimo aggiornamento, al 4 giugno quella cifra s’è ridotta a 16.700, ma resta comunque alta. Quasi il 30 per cento dei detenuti italiani ha a disposizione un ambiente che più o meno corrisponde a un letto a due piazze, e se la popolazione carceraria dovesse tornare a crescere rischia di scendere al di sotto degli standard considerati accettabili; con tutto quel che ne conseguirebbe per loro e per lo Stato che si troverebbe di nuovo ad essere condannato. Ecco perché nella relazione che fotografa la realtà attuale, il ministero della Giustizia mette in evidenza altri dati.
A parte il costante decremento del numero dei reclusi (dai 68.258 del 30 giugno 2010 siamo arrivati ai 59.550 del 19 maggio scorso, grazie soprattutto a alla «liberazione anticipata speciale» e all’allargamento della possibilità di ottenere arresti domiciliari e affidamento ai servizi sociali per i condannati) vengono sottolineati gli effetti di altri interventi. Per esempio l’esperimento delle celle aperte di giorno per chi non rientra nei circuiti dell’Alta sicurezza o del «41 bis», grazie al quale oggi «i detenuti che usufruiscono di 8 ore di permanenza fuori dalle camere di detenzione sono 39.213, pari al 83,13 per cento del totale dei potenziali beneficiari (47.171). A essi vanno aggiunti gli 806 in semilibertà e i 1.322 che lavorano all’esterno del carcere». Come dire che laddove gli spazi sono ai limiti delle ristrettezze consentite, i detenuti hanno maggiore libertà di movimento, in modo da ridurre al minimo gli effetti negativi del sovraffollamento.

Repubblica 6.6.14
L’Europa ci promuove
Il governo sulle carceri “Celle sovraffollate risarcimento di 8 euro e sconti di pena”


ROMA. Otto euro al giorno a chi è stato recluso in una cella con meno di tre metri quadrati a disposizione o, per chi ancora si trova in quelle condizioni, uno sconto di pena fino al 10 per cento.
Eccoli i risarcimenti per i detenuti che soffrono il sovraffollamento. Sono i “rimedi compensativi” previsti da un decreto legge che il Consiglio dei ministri potrebbe discutere già oggi e pensati per chi dietro le sbarre ha vissuto in condizioni inumane.
Il provvedimento arriva dopo il plauso del comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, che ieri ha riconosciuto i «significativi risultati» già ottenuti dal nostro Paese nel risolvere il sovraffollamento delle carceri e nel pianificare a tutela dei detenuti due rimedi: uno preventivo, che può usare chi si trova in una cella affollata per porre fine alla violazione; l’altro, di risarcimento, compensativo. La strada che in meno di un anno ha fatto diminuire di 7mila persone la popolazione carceraria è stata intrapresa dopo la sentenza Torreggiani, con cui nel 2013 la Corte europea dei diritti umani aveva condannato l’Italia per le condizioni in cui erano stati costretti sette detenuti. «Siamo soddisfatti della decisione di Strasburgo -ha commentato il ministro della Giustizia Andrea Orlando - ma c’è ancora da fare: non dobbiamo sederci sugli allori».

il Fatto 6.6.14
Carceri, Strasburgo ci grazia
Ora Orlando ha più potere
Il comitato dei ministri apprezza i “risultati” sul sovraffollamento
di Silvia D’Onghia


Risultati significativi”: il mandato pieno al ministro Orlando per ripensare interamente il sistema carcerario, e nominare i nuovi vertici dell’amministrazione penitenziaria, sta tutto in queste due parole. Non stupisce la decisione del comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, che da Strasburgo ieri ha promosso, appunto, i risultati ottenuti in Italia sul sovraffollamento carcerario. La questione nasce dalla sentenza Torreggiani, che aveva condannato il nostro Paese in seguito al ricorso di un detenuto. Negli ultimi mesi, i ministri che si sono succeduti in via Arenula, in accordo con i vertici del Dap, erano corsi ai ripari, soprattutto con strumenti legislativi (in mancanza dell’attuazione del famoso Piano carceri, che prosegue ormai da oltre cinque anni). Tra decreti svuotacarceri e, soprattutto, bocciature della Fini-Giovanardi (la legge sulle droghe), i penitenziari italiani sono arrivati a un numero di detenuti sicuramente più accettabile, anche se sempre eccessivo: 58.925, dato diffuso ieri dal Dipartimento di Largo Daga, circa settemila in meno rispetto a gennaio 2013. “Siamo soddisfatti per il riconoscimento del lavoro svolto – ha commentato ieri il vice capo vicario del Dap, Luigi Pagano, reggente dopo la non riconferma di Giovanni Tamburino –. Tutti, ciascuno per la propria parte, hanno contribuito a questo risultato. L’Europa premia anche gli sforzi compiuti dal Dap. Tengo a sottolineare il lavoro svolto unitariamente da tutto il personale – seguendo le direttive del decisore politico – verso un obiettivo comune. Una comunione d’intenti che non si vedeva da diversi decenni. Questo è un obiettivo centrato
– ha concluso Pagano – ma per noi costituisce una nuova tappa di partenza”.
INFATTI IL PUNTO è questo, ed è un punto squisitamente politico. Il ministro Orlando ha fin dall’inizio annunciato di voler cambiare il pianeta carcere, nel tentativo di applicare
– cosa mai accaduta nella storia repubblicana – il terzo coma dell’articolo 27 della Costituzione, che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Da qui la decisione di proseguire nel lavoro cominciato da Anna Maria Cancellieri, nel segno di provvedimenti legislativi tesi a far uscire più detenuti possibile, e soprattutto la non conferma di Giovanni Tamburino. Il Guardasigilli potrebbe anche decidere di infrangere la norma non scritta secondo cui a capo del Dap va messo un magistrato, e scegliere una figura manageriale. Questo consentirebbe di riorganizzare e di spendere meglio le risorse – poche – a disposizione e di riportare all’interno dell’amministrazione ordinaria proprio il Piano Carceri, una torta da quasi 500 milioni di euro finora gestita da un commissario straordinario.
Strasburgo ci ha fatto sapere che il comitato riprenderà in esame la questione “al più tardi nella sua riunione del giugno 2015”: abbiamo dunque un anno di tempo per cavarcela. Tutti contenti? Quasi. Mentre l’associazione Antigone e i Radicali invitano il governo a proseguire sulla strada del decongestionamento, il Sappe, sindacato della polizia penitenziaria, parla di “fallimento” della gestione Dap e di meriti esclusivi dei 4 decreti svuotacarceri.

La Stampa 6.6.14
Stamina
Un’iniezione di follia
di Niccolò Zancan


Stamina non è un metodo. Non è una cura. E’ un inganno pericoloso. Lo hanno dimostrato gli scienziati. Lo sostiene il procuratore Raffaele Guariniello, dopo cinque anni di indagini. Lo ha ribadito, tre giorni fa, la Corte europea dei diritti dell’uomo. Eppure, sulla pelle di un bambino di tre anni che si chiama Federico, affetto dal morbo di Krabbe, ancora una volta, stanno combattendo una guerra contro ogni ragionevolezza.
Mercoledì un giudice del lavoro di Pesaro ha nominato il vicepresidente di Stamina Foundation, Mariano Andolina, commissario ad acta per le infusioni. Lo ha incaricato, cioè, di trovare un medico disposto a praticare il metodo che non esiste. L’ottava infusione per Federico. Agli Spedali Civili di Brescia tutti oppongono l’obiezione di coscienza.
È un paradosso. Una storia italiana. La scienza stravolta a colpi di ordinanze. Un giudice del lavoro che si avvale di un indagato per associazione a delinquere e truffa, per obbligare un medico a «iniettare follie» contro la sua volontà. Ora, per arrivare a questa decisione, il giudice di Pesaro non è entrato nel merito.
Non è compito suo. Lo ha fatto sul malinteso diritto alle cure compassionevoli.
«Iniettare follie» è il modo con cui la senatrice a vita Elena Cattaneo, una delle massime esperte mondiali di staminali, cerca di riassumere di cosa stiamo parlando. Parliamo di un metodo mai verificato. Di iniezioni a base di liquidi di natura incerta, cellule morte e frammenti ossei. Di infusioni praticate senza le necessarie condizioni di igiene e sicurezza. Un metodo già rigettato dall’ufficio brevetti degli Stati Uniti, quando in Italia era ancora clandestino. Parliamo del nulla. Al massimo, di qualcosa che assomiglia a una specie di inutile esorcismo contro la fragilità dell’esistenza. Come testimoniano decine di pazienti che non hanno tratto alcun beneficio.
Su questo grande inganno, Davide Vannoni e Mariano Andolina hanno costruito una carriera. Dal 2007 al 2009 hanno incassato soldi per ogni trattamento, fino a 50 mila euro. Andolina è quello che al padre di Denise, una bambina gravemente malata di Torino, si è rivolto con queste parole: «Se non hai i soldi per le infusioni, manda tua moglie a battere». Soldi. Visibilità. Il passaggio dai centri estetici, al sistema sanitario nazionale. Con l’obiettivo di trasformare le staminali in un business su scala mondiale. Vannoni ha due procedimenti penali in corso. Associazione a delinquere. Truffa. Tentata truffa. Esercizio abusivo della professione medica. Abuso d’ufficio. Negli ultimi mesi, ha cercato di improvvisare una carriera politica. Come capolista alle elezioni europee per il movimento «Io Cambio», ha raccolto in tutto 2168 preferenze. La verità scientifica – quella che si basa sui dati certi e ripetibili – stava prevalendo sull’emotività. Sulla disperazione comprensibile dei parenti. Sulla leggerezza di certi servizi televisivi, davvero poco obiettivi. Ora, è evidente, nessuno può biasimare i genitori di Federico. Sono soli al cospetto della loro tragedia. Cercano il miracolo impossibile, come lo cercheremmo noi. Ma sono delle vittime. Le ultime vittime di questa guerra assurda.

l’Unità 6.6.14
Lo sciopero dei 24mila Roma senza asili e vigili
Muro contro muro fra primo cittadino e sindacati sul salario accessorio
Il sindaco: «Stipendi non calano», ma le sigle attaccano


Nel giorno del muro contro muro volano gli stracci fra amministrazione capitolina e sindacati. Dal Campidoglio trapelano dati sull’assenteismo: più di 4000 in malattia o permesso sindacale ogni giorno. Dai sindacati l’insofferenza per le spese «abnormi» per lo staff. Il sindaco, però, ha incassato proprio ieri la riduzione dei costi dei vertici Acea, da due milioni a 790.000 euro.
Oggi sarà una giornata di passione per i romani: a rischio i servizi negli asili nido e nelle scuole materne. Disagi negli uffici del Comune e dei 15 Municipi. Nessun vigile nelle strade, ferma la sala operativa della Protezione civile, gli sportelli dei servizi sociali e le biblioteche comunali. Funzioneranno bus, metro, raccolta rifiuti, assistenza a domicilio per anziani e disabili e musei. Alle 8.30 partirà il corteo dalla Bocca della Verità a Campidoglio.
La causa scatenante della protesta ha origine nel rilievo contenuto nella relazione del Mef, per la quale il salario accessorio, non essendo agganciato a criteri premiali, non può essere erogato. Una situazione generata anche dal blocco del turn over e degli aumenti che ha portato a riaggiustare le cose alla «romana», «questo problema -sostiene il sindaco - si conosce da molto tempo ma è stato lasciato marcire». Per i sindacati questo «farà perdere ai lavoratori, in media, un terzo dello stipendio, con tagli da 380 a 438 euro», mentre per sindaco e vicesindaco «gli stipendi non si abbasseranno di un centesimo». Il sindaco ha scritto ieri ai dipendenti, il testo è stato pubblicato dal sito di Romacapitale. «Gli stipendi non si toccano ma - scrive il sindaco - la macchina amministrativa va riorganizzata », «metto nero su bianco ancora una volta il mio punto di vista, - scrive Marino - perché credo profondamente nel dialogo e nel confronto». Ma la lettera, alla vigilia dello sciopero, ha fatto infuriare i sindacati, presenti nell’Aula Giulio Cesare, affollata anche dei dipendenti, in occasione del consiglio straordinario sulle politiche del personale: «Nonne possiamo più - dice Natale Di Cola (Cgil funzione pubblica) delle uscite scomposte di Marino, che invece di partecipare al Consiglio straordinario invia una lettera il giorno prima dello sciopero col chiaro intento di pregiudicarne la riuscita».
La riorganizzazione della macchina comunale è il punto maggiore di attacco. È «game over», dicono i sindacati, dopo un anno in cui non si è visto nulla. «Roma conta 250mila disoccupati, oltre a 160mila neet, ossia giovani che non studiano nè lavorano, 25mila in cassa integrazione in deroga - rafforzano i segretari regionali Cgil-Cisl-Uil, Claudio Di Berardino, Mario Bertone e Pierpaolo Bombardieri-. E il Comune che fa? Anziché unire le forze, persiste in un atteggiamento di chiusura, inasprendo i rapporti ».
«Non si può - sostiene Di Cola - cambiare in due mesi (la dead line del comune è il 31 luglio) contratti che sono frutto di decenni di trattative». Sui servizi ai cittadini, rivendica il sindacalista Cgil: «Ieri ho firmato ad Ama un accordo per la raccolta differenziata senza nuove assunzioni, perché c’è un progetto chiaro». Nel caso del Campidoglio, invece, «non c’è vera proposta, non c’è certezza delle risorse, dal governo nazionale potrebbero venire indirizzi diversi da quelli che sta adottando il comune». Sull’assenteismo, continua Di Cola, «non ci siamo mai nascosti dietro un dito ma a noi questi dati non sono stati forniti, sono stati tirati fuori alla vigilia dello sciopero». E aggiunge: «Il sindaco apra le finestre», che oggi, dalla piazza, verranno le proposte dei lavoratori, fra queste «il giudizio dei cittadini a cui agganciare una parte del salario ». Se dagli assessori, come quello all’urbanistica Giovanni Caudo, viene la rotazione dei dirigenti, «io sono d’accordo », dice il sindacalista, «basta discutere le cose».
Invece un deciso «niet» è arrivato alle proposte fatte dal vice sindaco, ieri, in Aula, durante il consiglio straordinario. Luigi Nieri ha prospettato la valorizzazione e l’aumento dei funzionari. «Ma questa», risponde la Cgil «è una gerarchizzazione che non valorizza il gruppo di lavoro». L’apertura degli sportelli fino alle 20 «è interessante ma irrealizzabile », «come si incentiva il decentramento nei municipi, se le risorse non ci sono?», quelle Di Nieri sono «proposte che non appaiono nei documenti che ci hanno presentato».

Repubblica 6.6.14
Sciopero dei comunali, Roma chiude
“Se volete cambiare la città pagate”
di Sebastiano Messina



ROMA. Oggi niente multe, per nessuno: non ci sarà un vigile, uno solo, per le strade di Roma. Sono in sciopero, tutti e 6300. E con loro gli impiegati dell’anagrafe, i geometri dell’ufficio tecnico, le maestre dei 207 asili nido, gli uscieri del Campidoglio, le insegnanti delle 317 materne e gli sportellisti dei 15 municipi. È il primo sciopero contro un marziano, ma anche il primo sciopero che unisce tutti i comunali, dagli autonomi alla Cgil, sotto uno slogan rubato ai vecchi flipper: «Game over: insert coin to continue». Il marziano naturalmente è il sindaco Ignazio Marino, che gli abitanti del pianeta Campidoglio considerano come un alieno arrivato un anno fa da chissà dove, con un piano che li ha gettati nel panico: vuole ridiscutere gli extra dei loro stipendi e farli lavorare un po’ di più. Fermi tutti, dunque: per la prima volta la Capitale chiude per sciopero.
Che loro siano arrabbiati neri, lo si è capito già ieri sera, quando cinque di loro sono entrati nell’aula Giulio Cesare proprio mentre era riunito il Consiglio comunale, mostrando dei grandi cartelli colorati e gridando «Vergogna!» a squarciagola. E Giancarlo Cosentino, il sindacalista della Cisl che il 6 maggio guidò l’occupazione della piazza del Campidoglio al grido «Noi le mani in tasca non ce le facciamo mettere da nessuno», ha spazzato via le ultime speranze di una tregua: «Vogliono imporci un contratto senza regole, senza nessuna garanzia per i nostri salari: possono scordarselo».
Ma quella del salario dei comunali è una storia ingarbugliata, fatta di furbizie e di paure, di codicilli e di cifre assai singolari. Merita di essere raccontata, con una premessa: qui non si parla di stipendi d’oro, si parla di stipendi che vanno dai 1200 ai 2000 euro. Stipendi sui quali una mattina è caduta la mannaia degli ispettori del ministero dell’Economia.
Ai funzionari ministeriali non sono sembrate giustificabili quel grappolo di indennità che rimpolpano la (magra) busta paga dei vigili urbani, su ognuna delle quali hanno messo un timbro rosso: «Illegittima ». Qualche esempio. L’indennità di “servizio esterno”. Quattro euro al giorno per chi fa il vigile in strada anziché in ufficio (obiezione: siete stati assunti per dirigere il traffico, non per star dietro la scrivania). O l’indennità “seminotte”: sei euro al giorno per chi comincia il proprio turno dopo le 15,48 (obiezione: il servizio notturno comincia alle 22, non alle 16). Per concludere con l’indennità per «manutenzione uniforme», 36 euro al mese. Tra un’indennità e l’altra, un vigile riesce mediamente a mettere insieme 380 euro.
Ma anche gli altri hanno le loro indennità. Gli impiegati dell’anagrafe ne hanno una (due euro l’ora) per «attività di sportello», e anche un’altra «per effettiva presenza in servizio », mentre le maestre incassano l’indennità «di disagio » di 6,19 euro al giorno più 20 euro settimanali. Tutte voci che sono state inventate in passato per rendere più dignitose le buste paga dei comunali. Tutte voci «illegittime», però, per il ministero. «Ma io sono perfettamente che quelle cifre fanno la differenza tra i poter pagare il mutuo e il non poterlo fare – dice il sindaco Marino – perciò fin dall’inizio ho detto chiaro e tondo: i salari non si toccano. E ho fatto stanziare nel bilancio 72 milioni proprio per continuare a pagare quelle cifre». Avesse detto solo questo, Marino avrebbe avuto solo applausi. Ma lui ha detto anche altre due cose: che bisogna scrivere un nuovo “contratto decentrato” dei comunali entro il 31 luglio, per rivedere le indennità illegittime, e soprattutto che è arrivata l’ora di riorganizzare i servizi.
Cos’abbia in mente, l’ha rivelato ieri il vicesindaco Luigi Nieri nella turbolenta seduta in Campidoglio: «Vogliamo che i romani abbiano la possibilità di rinnovare la carta d’identità non solo per quattro o cinque ore al giorno, ma per dieci, eliminando le code agli sportelli». Il vicesindaco, che è anche assessore al Personale, ha fatto i conti: «Con il nuovo contratto, gli impiegati di categoria C non perderanno un euro, i funzionari della polizia municipale passeranno da 1975 a 2014 euro netti e il personale scolastico passerà da 1655 a 1698 euro: a servizi migliori corrisponderanno stipendi migliori». Peccato che i comunali non si fidino. Hanno paura di ritrovarsi con buste paga più leggere, e di dover lavorare di più. Magari di pomeriggio (gli impiegati) o la notte (i vigili). Temono persino che qualcuno chieda loro di restituire tutte le indennità illegittime. Sommate questi timori alla sensazione che il sindaco sia un marziano, un politico che non risponde ai partiti e non si fa fermare dai sindacati, e capirete perché lo sciopero di oggi somigli a un assalto al quartier generale, più che a un assedio. Una prova di forza per vedere chi comanda davvero in Campidoglio. «Insert coin to continue»: dateci altri soldi, adesso. Lui, Marino, ha provato fino all’ultimo a rassicurarli: «Chi farà un chilometro in più avrà uno stipendio un po’ più alto, chi farà un chilometro in meno ne avrà uno un po’ più basso, per tutti gli altri non cambierà nulla». Fiato sprecato. Lo sciopero si fa. Ma il sindaco non si ferma: «Voglio rigore, trasparenza e rapidità. E sono sbigottito nell’apprendere che oggi, in una città con il 46 per cento di disoccupazione giovanile, chi ha avuto il proprio salario protetto dal sindaco, abbia deciso di scioperare. Non contro il sindaco: contro i romani».

l’Unità 6.6.14
Acea, Marino vince il match

Caltagirone resta solo

Marino-Caltagirone4a 1. Se si trattasse di un match calcistico, sarebbe questa l’estrema sintesi del titolo. Si è riunita ieri l’assemblea dei soci di Acea, la multiutility in cui il Campidoglio ha il 51%, dopo più di un anno di schermaglie: l’ultima querelle è stata sulla data di convocazione della assemblea di ieri.
Le proposte presentate dal sindaco sono passate con una maggioranza superiore a quella del 51%. E, a sorpresa, nel nuovo cda sono entrati due rappresentanti per i francesi di Suez Gaz de France e uno per il gruppo di Caltagirone. Sorpresa che ha portato una maggioranza al femminile nel cda, sono entrati: Catia Tomasetti (presidente al posto di Giancarlo Cremonesi), Alberto Irace (lunedì avrà le deleghe di ad). Per il comune in cda entrano anche Elisabetta Maggini e Paola Profeta. In quota Caltagirone è passato il solo Francesco Caltagiorone jr. In quota Suez sono entrati Giovanni Giani e Diane D'Arras. Quattro donne su sette membri del cda. I due gruppi privati (Caltagirone, 15,8%, e Gaz de France, 12,83%) avevano entrambi i voti congelati all’8 per cento. A determinare la maggioranza sono stati, probabilmente, i fondi istituzionali, che avrebbero preferito lo status internazionale dell’azienda francese a quello del «re di Roma». È una scelta che rafforza la governance, perché i francesi, per i criteri adottati in Francia, con un solo rappresentante, avrebbero potuto mettere in bilancio i dividendi e non il fatturato. E non danneggia Caltagirone. È stata molto apprezzata dai piccoli azionisti la proposta di Marino di una drastica riduzione della remunerazione dei vertici, che scendono, come ammontare, dai 2 milioni del 2013 a un massimo di 792.000 euro. L’assemblea ha anche votato le remunerazioni individuali di presidente e ad: 120.000 euro (contro i 500.000 attuali) per la presidente. 260.000 più 210.000 variabili (in base al raggiungimento di obiettivi finanziari e qualitativi) per l’ad. Più contrastata è stata la votazione sulla riduzione del numero dei componenti di amministrazione, da nove a sette. Anche in questo caso, la riforma è passata.

il Fatto 6.6.14
Acea, Marino “caccia” Caltagirone
Cambiano i vertici della società idroelettrica romana, che era di fatto controllata dai privati
di Daniele Martini


Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, avrà pure un sacco di difetti, come gli rimproverano gli oppositori tra cui paradossalmente primeggiano i suoi amici Pd della maggioranza, soprattutto quelli dell’area renziana. Ma non si può dire non sia tenace: aveva detto alcuni mesi fa che avrebbe fatto piazza pulita all’Acea, l’azienda pubblica dell’acqua e della luce, e ieri ha portato a compimento il proposito. Ha dato il benservito ai due vecchi capi, il presidente Giancarlo Cremonesi, e l’amministratore delegato, Paolo Gallo. E ha ridisegnato il consiglio di amministrazione riducendolo da 9 a 7. L’assemblea della società lo ha sostenuto su tutta la linea. La proposta di Marino ha ottenuto molto più del 51 per cento (la quota azionaria del comune). Con lui si sono schierati i piccoli azionisti e i fondi esteri esprimendo in totale un voto che ha lambito il 70 per cento.
AL POSTO dei vecchi capi di Acea sono stati scelti Catia Tomassetti, presidente, e Alberto Irace, amministratore delegato. La prima ha già assunto i suoi poteri, il secondo sarà formalmente eletto lunedì mattina in occasione della riunione del primo cda rinnovato che dovrebbe anche cancellare la figura del direttore generale fino ad ora assunta dall’amministratore Gallo. Entrambi sono nomi nuovi, ma allo stesso tempo hanno una certa consuetudine con Acea. Tomassetti, esperta di finanziamenti per il settore idrico, ha già lavorato ad alcuni progetti per l’azienda capitolina e anche per il comune di Reggio Emilia di cui l’attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, è stato sindaco fino a 5 mesi fa. Irace ha avuto una parentesi da politico, sindaco Pds del comune campano di Castellammare di Stabia, è stato poi amministratore della fiorentina Publiacque quando consigliera era Maria Elena Boschi, ora ministro Pd per le riforme costituzionali. Per Roma è una svolta importante. Non tanto per il cambio di manager o per i risparmi, visto che il nuovo vertice tutto intero costa quanto costava da solo l’ex amministratore delegato. Quel che è successo è importante perché Acea non è solo una grande azienda, la prima in Italia per il trattamento e la distribuzione dell’acqua, una delle più grandi fabbriche del centrosud con 7 mila dipendenti, una holding con una ventina di società controllate e più di 3 miliardi di euro di fatturato. A Roma Acea significa potere vero. Chi la controlla ha le mani sulla città. Prima di Marino, era guidata di fatto dai privati, pur avendo il Campidoglio la maggioranza assoluta del capitale.
I privati di peso di Acea sono due, i francesi di Suez e il costruttore Francesco Gaetano Caltagirone. A quest’ultimo l’ex sindaco Gianni Alemanno aveva fatto ponti d’oro. Con appena il 16,3 per cento delle azioni al re del mattone era stato permesso di scegliere accuratamente i vertici dell’azienda, come fosse roba sua. Questo andazzo ieri è stato sanzionato in modo eclatante: quando si è trattato di votare, il costruttore romano che sulla carta aveva i numeri per eleggere 2 consiglieri, ne ha eletto uno solo. A sorpresa ne hanno avuti 2 i francesi.
I DISSENSI su Acea tra Marino e Caltagirone erano a 360 gradi. Marino rimproverava al vecchio vertice aziendale di avere occhi solo per l’andamento del titolo in Borsa (la società è quotata) anche a discapito dei servizi per i cittadini. L’altro punto di scontro sono stati i rifiuti. Marino vorrebbe rafforzare la presenza di Acea nel ciclo di trattamento dell’immondizia collegandola con l’azienda comunale che i rifiuti li raccoglie (Ama). Pur senza mai esplicitarlo, Caltagirone seguiva invece un suo scopo puntando all’acquisto degli impianti Colari per prendere il posto di Manlio Cerroni, l’ex re della monnezza che per più di 30 anni ha monopolizzato quel business prima di essere arrestato.

l’Unità 6.6.14
Spagna, il Re e la sinistra
di Raquel Garcìa Àlvarez


«La società spagnola come narrazione»: così il grande cronista e drammaturgo Benito Pérez Galdós titolò il suo discorso di ingresso alla Reale Accademia della Lingua Spagnola. Era il 1897, tanto per dire come l’essenza di una nazione resiste ai tempi.
Quello che sta succedendo oggi in Spagna è storia, ed è più che mai materia di narrazione.
All’indomani dell’abdicazione di Juan Carlos I il premier spagnolo Mariano Rajoy ha ringraziato pubblicamente il suo rivale político, il leader socialista Alfredo Pérez Rubalcaba, per il suo comportamento «esemplare, con alto senso dello Stato», aggiungendo che secondo lui i tempi dell’uscita di scena del Re non sono legati all’imminente cambio di leadership del Partito Socialista Operaio Spagnolo (Psoe). Rubalcaba ha con Juan Carlos I una lunga conoscenza personale, chi prenderà il suo posto che rapporto vorrà avere con la monarchia?
Una cosa è certa: con una nuova leadership socialista il passaggio al trono da Juan Carlos I a suo figlio avrebbe rischiato di essere stato ben più movimentato. In tanti lo hanno pensato mentre il Re parlava alla nazione (con un messaggio registrato) e la Casa Reale precisava poco dopo che la decisione di abdicare era stata presa da tempo. Rubalcaba ha ormai una data di scadenza vicina: ha assunto su di sé la responsabilità del calo socialista alle recenti elezioni europee. Anche il Partido Popular (PP) ha perso rappresentanza, ma il caso socialista è più grave perché il consenso è andato ad altre formazioni di sinistra, prima tra tutte una nuovissima formazione politica, Podemos, guidata da un insegnante universitario con mille euro di stipendio che arrotonda facendo anche il commentatore televisivo: Pablo Iglesias. I suoi genitori lo hanno chiamato come il politico marxista fondatore del Psoe, lui oggi in cambio si è appropriato dei voti ex-socialisti insediando il suo partito a Strasburgo come quarta forza politica spagnola, dietro Izquierda Unida (sinistra unita).
I resultati elettorali sono stati una bomba lanciata al bipartitismo: PP e Psoe insieme, per prima volta in democrazia, non hanno raggiunto il cinquanta per cento dei voti. Ed ecco che in questo scenario il Re abdica. Per farlo abdicare (e quindi perché il figlio Felipe salga al trono) serve approvare d’urgenza una legge che i nazionalisti catalani hanno già detto che non voteranno. Oggi alle Camere e fino alle prossime elezioni generali PP e Psoe hanno ancora l’80% dei voti, quindi la legge, la cui votazione e prevista per il prossimo mercoledì, passerà malgrado migliaia di persone scenderanno di nuovo in piazza chiedendo un referendum nel quale siano gli spagnoli a poter decidere. Legalmente per cambiare forma di governo non basterebbe neanche il referendum, in realtà per inaugurare la III Republica bisognerebbe mettere in atto una complicatíssima riforma costituzionale che comprende anche lo scioglimento delle Camere: tra le certezze indissolubili della Carta Magna Spagnola oltre l’ufficialità dell’idioma spagnolo, la bandiera, Madrid capitale, c’è che la Spagna è una Monarchia parlamentare. Dall’altra parte ci sono pochi dubbi: gli spagnoli sono repubblicani. Neanche se facciamo riferimento ai due tradizionali poli politici i conti tornano per la monarchia. Non tutta la destra spagnola è monarchica: Franco costrinse all’esilio Don Juan, il padre di Juan Carlos, e in tanti non capivano perché confidasse nel figlio. Ma nel complesso e per decenni, malgrado due Repubbliche alle spalle, la Spagna è stata Juan Carlista, perché ne aveva avuto abbastanza con la guerra civile e per altre ragioni che per i giovani di oggi, nati in democrazia, sono magari troppo lontane.
Anche i nazionalisti sono repubblicani. La sinistra radicale (IU e Podemos) è repubblicana. E per chi mette in dubbio la vocazione repubblicana dello stesso Psoe, due deputati hanno già chiesto pubblicamente (pubblicamente!) alla dirigenza socialista di disobbedire alla disciplina di voto la prossima settimana. Già si sono già levate voci tra i dirigenti regionali di Valencia, Barcellona, Baleari e Galizia a sostegno del referendum popolare, come tra le diverse federazioni della Gioventù Socialista, attraverso i tanti suoi rappresentanti apparsi sui social network pochi minuti dopo l’annuncio della abdicazione. I favoriti per succedere a Rubalcaba (Eduardo Madina, basco, Susana Díaz, andalusa, Pedro Sanchez a Madrid) non sembrano intenzionati ad ascoltare i giovani, malgrado la crisi di credibilità del partito e la evidente necessità di un rinnovamento che saranno destinati a guidare. Chi tacendo, come Madina, chi assicurando che sarà rispettato l’ordine costituzionale, come Susana Díaz, nessuno nega l’ansia repubblicana, ma grazie a loro si contiene quella che potrebbe finire per essere una vera e propria rivolta interna.
Benito Pérez Galdós nei momenti importanti si buttava in strada «a vedere la storia di Spagna ». Il 2 giugno a Roma a Piazza di Spagna un gruppo di giovani connazionali in Erasmus si erano riuniti, per chiedere anche loro il referendum. Erano in pochi, ma con tre bandiere repubblicane. Il che significa che quando sono partiti dalla Spagna per l’Italia, nella loro valigia, partendo per il loro progetto universitario, la portavano con loro. C’era nel gruppo anche un giovane che portava una maglietta pure questa rosso-gialla-viola. Queste magliette sono comparse per la prima volta durante i festeggiamenti del Mondiale di Calcio di Sudafrica 2010. Allora a qualcuno venne in mente che era giusto festeggiare non solo per il Paese, ma per l’idea di Paese che ognuno coltivava. Prima queste magliette si trovavano solo su internet, adesso le vendono nei negozi, aMadrid e a Barcellona. Aspettiamoci in questo Mondiale brasiliano di vedere parecchie di queste magliette ogni volta che giocherà la Spagna.
Ritorna sempre Pérez Galdós, la narrazione scritta dalla società spagnola: sapete che data ha scelto il Psoe perché i tesserati eleggano il suo nuovo leader? Il 13 luglio. Giorno della finale dei Mondiali.

La Stampa 6.6.14
Se Maometto vota Le Pen
Da Hollande al Front National, come (e perché) sono cambiate le preferenze dei musulmani francesi
Parla lo studioso che al loro comportamento elettorale ha dedicato l’ultimo libro
di Paolo Modugno


Secondo Matteo Salvini «Marine Le Pen è stata votata dagli operai delle periferie parigine, dagli immigrati regolari che non vogliono gli immigrati clandestini». In conclusione, il segretario della Lega pensa che il voto per il Front National sia stata «una scelta per arginare il razzismo». La frase ha un che di paradossale. Ma, in effetti, come vota la popolazione francese di origine islamica? Lo chiediamo a Gilles Kepel, uno dei principali esperti del mondo musulmano, che, colpito dalla presenza, alle legislative del 2012, di oltre 400 candidati di origine araba, nel suo ultimo libro, Passion française (Gallimard), si interessa da vicino a questo problema.
Professor Kepel, come si è costruito nel tempo il voto dei francesi di religione musulmana?
«Il momento chiave è rappresentato dalle rivolte del 2005 quando, a seguito della morte accidentale a Clichy, nella banlieue parigina, di due adolescenti rincorsi dalla polizia, si producono delle sollevazioni di massa in varie periferie. Queste rivolte rappresentano la volontà di affermare la propria esistenza politica da parte di una gioventù che si sente completamente ai margini della società. E, grazie anche all’azione di numerose associazioni sorte nelle periferie, si verifica un’iscrizione massiccia delle popolazioni di origine immigrata sulle liste elettorali».
Per chi vota questo nuovo elettorato?
«In opposizione alla politica repressiva messa in atto dal ministro dell’Interno dell’epoca, Nicolas Sarkozy, questo nuovo elettorato si era espresso prevalentemente in favore della sinistra, votando prima per Segolène Royal e poi, nel 90% dei casi, per François Hollande. In effetti Sarkozy, dopo aver tentato di intercettare il “voto musulmano” considerato come naturalmente più vicino a un’ideologia conservatrice, aveva abbandonato questo terreno per capitalizzare, alle presidenziali del 2007, il successo registrato nell’opinione pubblica grazie al soffocamento delle rivolte. In questo modo era riuscito anche ad attirare numerosi consensi dall’area tradizionalmente sensibile alle tesi del Front National».
E oggi, dopo due anni di presidenza Hollande, com’è cambiata la situazione ?
«Oggi il voto della popolazione di origine musulmana si è profondamente differenziato e il partito socialista ha perso in parte questi consensi. Ciò è dovuto a diverse ragioni tra le quali l’instaurazione del matrimonio omosessuale ha senz’altro svolto un ruolo importante, ma ha anche pesato la sensazione che il governo non abbia fatto granché nella lotta contro l’esclusione sociale e il degrado delle periferie».
La sua ricerca mostra profondi cambiamenti anche nei riguardi del Front National.
«Io ho intervistato un certo numero di candidati del Front National, tra i quali alcuni di origine algerina. Malgrado il fatto che il Front National esprima, in apparenza, posizioni anti-islamiche e anti-immigrazione, il discorso di Marine Le Pen contro il “sistema” trova ascolto presso una parte dei giovani di origine musulmana che si sentono in situazione di esclusione. E così il tabù nei confronti del Front National è saltato».
Nel suo libro Les banlieues de l’Islam aveva già affrontato il tema della Francia musulmana. Che cosa l’ha maggiormente colpita, tornando dopo più di 25 anni in questi territori?
«Due novità mi hanno particolarmente impressionato. La prima è il traffico di droga nei quartieri popolari. L’ampiezza del fenomeno in una città come Marsiglia va al di là dell’immaginabile. I caïd (i capi dello spaccio) sono diventati i padroni delle periferie, tanto che Samia Ghali, la prima araba eletta sindaco di una grande città, nel settore Nord di Marsiglia, è arrivata a richiedere l’intervento dell’esercito per sradicare l’economia della droga».
E la seconda?
«L’altra grande trasformazione è costituita dalla crescente visibilità dei simboli dell’Islam. Dalle donne col velo alla generalizzazione del digiuno del Ramadan, passando per la moltiplicazione delle macellerie halal che trattano la carne seguendo i riti della tradizione islamica, queste immagini fanno oramai parte integrante del paesaggio urbano. A questi fenomeni si è aggiunta negli ultimi anni un’ostentata presenza del salafismo, una branca più tradizionalista dell’Islam, sostenuta dall’Arabia Saudita, che esprime una più marcata volontà di rottura con i valori della società francese e una forte spinta comunitaria».
Prima di Passion française lei ha pubblicato Passion arabe, un’appassionante inchiesta sulle cosiddette «primavere arabe». Questi due libro costituiscono una sorta di dittico?
«Ho sempre cercato di analizzare contemporaneamente quello che succedeva nell’insieme del mondo arabo e le questioni legate all’immigrazione musulmana in Francia. Questi due aspetti sono intimamente legati, la Francia è il primo paese arabo d’Europa, con 5-6 milioni di musulmani».
In questo contesto, come si inserisce la crisi siriana?
«I jihadisti partiti dalla Francia per andare a combattere contro l’esercito di Assad sono stimati a circa 500 individui. E non si devono sottovalutare i rischi rappresentati dal rientro in patria di alcuni di essi. La prospettiva del ritorno del jihadismo sul territorio francese costituisce un rischio di destabilizzazione politica di prima grandezza».

l’Unità 6.6.14
Israele dice sì a nuove colonie, l’Anp si appella all’Onu


Il ministro per l’Edilizia israeliano Uri Ariel ha indetto ieri nuove gare d’appalto per circa 1500 abitazioni destinate ai coloni. Le gare d’appalto prevedono la costruzione di 900 unità abitative in Cisgiordania e circa 560 a Gerusalemme Est. Le gare d’appalto rappresentano in pratica l’approvazione finale del governo per il progetto. «È una risposta sionista appropriata al governo di terrore palestinese», sottolinea Ariel in riferimento al nuovo governo di coalizione guidato dal premier Rami Hamdallah in collaborazione con i radicali di Hamas. «Il diritto e il dovere dello stato di Israele di costruire sul suo territorio sono indiscutibili e credo che questi nuovi appalti siano solo l’inizio», ha poi ribadito. Detto e fatto.
RUSPE IN AZIONE
Il governo israeliano ha ordinato all’amministrazione di sbloccare un progetto per la costruzione di 1.800 alloggi extra nelle colonie, solo alcune ore dopo aver annunciato una gara di appalto per l’edificazione di 1.500 nuove case. Lo ha riferito un responsabile israeliano all’Afp. «L’amministrazione civile ha ricevuto l’ordine di far avanzare » un progetto di 1.800 alloggi extra in Cisgiordania, ha precisato il responsabile in condizione di anonimato. Secondo dei media israeliani, il progetto era stato congelato tre mesi fa dal governo.
Ma non tutti nell’esecutivo guidato da Benjamin Netanyahu sono d’accordo con la decisione assunta. L’annuncio da parte di Israele della costruzione di 1.500 nuove case in insediamenti nei territori occupati è «un errore politico che farà soltanto allontanare lo Stato ebraico dalla capacità di mettere il mondo contro Hamas», commenta la ministra della Giustizia israeliana, Tzipi Livni, la quale aveva ricoperto l’incarico di capo negoziatore dello Stato ebraico nell’ultima serie di colloqui di pace con i palestinesi, terminati ad aprile. Intanto l’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, Dan Shapiro, ha ribadito in un’intervista alla radio dell’esercito che Washington è contraria al piano di costruzioni nei territori occupati. Una condanna è arrivata anche da Lior Amichai dell’ong israeliana Peace Now, secondo il quale l’annuncio «dimostra che il governo si sta muovendo verso una soluzione a uno Stato».
Immediata la reazione palestinese. l’Olp si è rivolta al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite in merito alla decisione di Israele di dare il via a nuove gare d’appalto per la costruzione di 1500 case per i coloni. «La commissione esecutiva dell’Olp sta guardando questa nuova escalation con grande preoccupazione», dichiara Hanan Ashrawi. «Abbiamo inteso contrastare questa decisione appellandoci sia al Consiglio di sicurezza sia all’Assemblea generale dell’Onu, come via migliore per frenare questa grave violazione », ha poi aggiunto.
Nel frattempo fonti riservate vicine al nuovo governo unitario e hanno riferito che «la dirigenza palestinese sta valutando seriamente l’ipotesi di adire le Corti internazionali contro le attività di costruzione negli insediamenti»: un’opzione resa possibile dall’ottenimento dello status di osservatore al Palazzo di Vetro da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese, in occasione della penultima sessione ordinaria dell’Assemblea, nel settembre 2012 a New York. «È tempo che Israele sia chiamata a rispondere davanti agli organismi internazionali e sulla base del diritto internazionale », rimarca Saeb Erekat, l’esperto capo negoziatore dell’Anp. «Chi teme le Corti internazionali», aggiunge Erekat, «deve porre fine ai propri crimini di guerra a danno del popolo palestinese, il primo e principale tra i quali sono proprio gli insediamenti».

Repubblica 6.6.14
Israele
Coloni, via libera a 3.300 nuove case, rabbia palestinese


GERUSALEMME. Israele ha annunciato il via libera alla costruzione di altre 3.300 case per coloni. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha dato l’ok a 1.800 nuove unità abitative la cui costruzione nei territori palestinesi occupati era stata congelata negli ultimi tre mesi, mentre qualche ora prima il ministero degli Insediamenti aveva pubblicato 1.500 nuove gare per la realizzazione di unità abitative in Cisgiordania e a Gerusalemme est, decisione definita dal ministro Uri Ariel una risposta al varo del nuovo governo di unità nazionale palestinese, frutto dell’accordo tra le fazioni di Fatah e Hamas. Secca la replica palestinese: «Il nuovo governo ha chiesto a Washington di prendere «seri provvedimenti contro Israele», ha dichiarato Nimr Hammad, consigliere del presidente Abu Mazen.
«Inoltre - ha poi aggiunto - condanniamo fortemente questa decisone che in pratica afferma che Netanyahu è solo un bugiardo, non interessato a una soluzione a due Stati».

Corriere 6.6.14
Colonie in arrivo
Il Solco che divide America e Israele


I Rolling Stones hanno deciso di suonare a Tel Aviv mescoledì sera senza cedere alle pressioni di Roger Waters, tra i fondatori dei Pink Floyd, che aveva chiesto a Mick Jagger e compagni di boicottare Israele. La diplomazia del rock non basta, i decibel del concerto sono già sovrastati dalle reazioni dei palestinesi, degli europei e degli americani agli annunci del governo di Benjamin Netanyahu: 3.300 abitazioni in più da costruire nelle colonie, tra progetti approvati in passato (sospesi per qualche mese) e nuovi piani edilizi. L’Unione Europea lascia capire nella risposta ufficiale che le sanzioni — rinviate su richiesta degli Stati Uniti durante i negoziati ormai in bancarotta — potrebbero a questo punto essere approvate: etichette obbligatorie sui prodotti che vengono esportati dagli insediamenti, avvertimenti alle aziende di evitare contratti con società israeliane basate nei territori occupati. L’espansione nelle colonie è la rappresaglia di Netanyahu alla nascita della coalizione di unità nazionale palestinese. Per Uri Ariel, ministro dell’Edilizia, si tratta di un «governo terrorista»: «Se Israele prende una gomitata in faccia, deve reagire». Il premier è rimasto indispettito dalla scelta americana di mantenere i contatti con Abu Mazen. John Kerry, il segretario di Stato, e Dan Shapiro, l’ambasciatore a Tel Aviv, hanno spiegato che Washington ha verificato nome per nome i nuovi ministri: «Tecnocrati», né di Fatah (il partito del presidente) né di Hamas. Così l’embargo applicato al movimento fondamentalista, nella lista nera del Dipartimento di Stato, non si estende al leader della Muqata. Che minaccia di portare la questione delle colonie alla Corte internazionale dell’Aia. La concordia tra le due fazioni palestinesi peraltro vacilla già dopo pochi giorni. Hamas pretende che adesso Ramallah paghi gli stipendi ai 40 mila impiegati pubblici ingaggiati dal gruppo nei sette anni di dominio a Gaza. Abu Mazen vuole prima controllare chi siano e che cosa facciano. Anche per non rischiare di pagare i miliziani delle Brigate Al Aqsa, inquadrati come forze di sicurezza, e far cambiare idea agli americani.

Repubblica 6.6.14
Serve più spazio per le nuove città così la Cina abbatte 700 colline
Il governo dice che è l’unica soluzione per rilanciare l’economia. Ma gli scienziati avvertono: “Una catastrofe”
di Giampaolo Visetti



PECHINO. La Cina scopre di avere 700 montagne di troppo. Danno fastidio ai piani di urbanizzazione del governo e Pechino ha stabilito che «rovinano il paesaggio». I funzionari di alcune regioni, obbligati a non rallentare i livelli di crescita economica, sostengono che «colline troppo alte tolgono sole alle campagne e rubano spazio alle città». L’ultimo documento del partito sullo «sviluppo delle province centro-occidentali», chiede di «spianare i rilievi che ostacolano l’ampliamento delle aree edificabili». Un gruppo di scienziati dell’Università di Chang’An, citati dalla rivista Nature , ha avvertito che «spianare 700 montagne significa condannare la Cina a una catastrofe ». Pechino, da sempre, è convinta che ciò che esiste, nella storia come nella natura, vada periodicamente azzerato. Ogni impero distruggeva le tracce del precedente, il comunismo ha più volte divorato anche se stesso. Mao Zedong ha fatto invertire il corso dei fiumi, facendoli scorrere verso Nord e suoi successori hanno eretto dighe vertiginose per alimentare «l’industria del mondo».
Nulla rispetto a quanto deciso ora. Per rinviare un atterraggio duro dell’economia, Pechino ha bisogno di sviluppare le regioni dell’interno. Serve una classe media di consumatori più ampia, capace di riempire il vuoto lasciato dalla crisi occidentale. Il problema è che, ai piedi dell’altopiano himalayano, le aree prescelte sono montagnose. Le autorità locali hanno fatto presente che per «costruire il futuro » occorrono terra e spazio. Il governo ha fornito subito la soluzione: demolire appunto 700 montagne e creare 250 chilometri quadrati di terreno pianeggiante. Nella mitica Yan’an, culla della rivoluzione nello Shaanxi, l’obbiettivo è «raddoppiare la superficie produttiva recuperando 78,5 chilometri occupati dai rilievi». A Shiyan, nello Hebei, il livellamento è già cominciato: la conseguenza sono frane, allagamenti e fiumi sconvolti, con migliaia di contadini sfollati. A Langzhou, nel Gansu, lo spianamento è stato temporaneamente sospeso. La demolizione delle montagne sollevava impenetrabili nuvole di polvere, le sostanze usate per gli scavi hanno intossicato l’aria ed è finita l’acqua per bagnare la terra e impedirle di volare via. I tre scienziati di Chang’an, Li Peiyue, Qian Hui e Wu Jianhua, denunciano che «non è stato approfondito il rapporto tra costi e benefici», che «l’inesperienza dei tecnici si rivela devastante» e che «l’impatto ambientale del piano è stato sottovalutato». Per i funzionari, tagliare i massicci fuori posto frutta invece miliardi di yuan: vendono i nuovi terreni a industrie e imprese di costruzione, centrano gli obiettivi e scalano le gerarchie del partito. L’intera Cina somiglia così all’antico villaggio di Liuliqu, impegnato nella lotta per non farsi salvaguardare dallo Stato. Tra i pochi tesori storici sopravvissuti a ogni rovescio, sostiene che «la tutela impedisce agli abitanti di diventare ricchi » e che ha il diritto ad «autodemolirsi ». Farà la fine delle 700 montagne: nessuno spiega come vivranno i cinesi senza identità e senza ambiente.

Corriere 6.6.14
Grattacieli e tai chi. Così è la Cina
Da Shanghai alla montagna taoista del Regno di Mezzo. A lezione di meditazione
di Michela Proietti

qui

Corriere 6.6.14
Il ministro: «Gli stupri a volte sono giusti»

New Delhi — «A volte gli stupri sono giusti, a volte sbagliati», ha dichiarato ieri il ministro degli Interni dello Stato del Madhya Pradesh, Babulal Gaur, del partito nazionalista indù Bjp del neo premier Narendra Modi. La dichiarazione choc è arrivata in un momento in cui l’India è in primo piano nel mondo per la serie ininterrotta di violenze sessuali di gruppo, spesso seguite dall’uccisione della vittima. Il caso più grave è stato pochi giorni fa lo stupro di gruppo e l’impiccagione di due cugine adolescenti nello Stato dell’Uttar Pradesh, dove sono poi avvenute altre violenze su donne e ragazze. Nel Paese le reazioni sono state accese e diffuse ma Gaur ha minimizzato sostenendo che «fino a quando non c’è una rimostranza, nulla è successo». Da New Delhi il Bjp di Modi ha disconosciuto le sue affermazioni sostenendo che il suo pensiero non è condiviso dal partito.

La Stampa 6.6.14
Le vite di Dora Maar, musa ribelle di Picasso
Mostra a Venezia sulla fotografa che denunciò la povertà degli Anni Trenta
Immortalò la lavorazione di Guernica
di Angelo D’Orsi


Far dialogare gli scatti fotografici di Henriette Theodora Markovic con i tanti prodotti della «fabbrica» di Mario Fortuny y Madrazo, è la chiave della bella mostra veneziana («Non solo Picasso», a Palazzo Fortuny, appunto), la prima in Italia, dedicata alla fotografa, meglio conosciuta con il nome d’arte di Dora Maar. Era nata a Parigi, da padre croato e madre francese, nel 1907: l’anno in cui Pablo Picasso realizzava Les demoiselles d’Avignon, venduta al Moma di New York, per ben 24.000 dollari, trent’anni dopo. Era il 1937, l’anno in cui Picasso in un paio di mesi di lavoro matto e disperatissimo, dipinse l’immensa tela dedicata a Guernica, la città sacra dei Baschi, appena distrutta dall’aviazione tedesca e italiana. La gestazione e la realizzazione dell’opera vennero registrate dall’obiettivo di Dora momento per momento, in una simbiosi assoluta fra i due: prezioso documento che smentisce le insinuazioni che accusano Picasso di aver rivenduto alla Repubblica spagnola, già in difficoltà, una tela dipinta per la morte di un torero, anni prima. Ma quel quadro è di per sé anche la testimonianza di una delle più intense storie d’amore vissute dal grande artista. Si erano conosciuti nel ’35, grazie a Paul Éluard, uno dei migliori amici di Pablo, al caffè parigino Les Deux Magots: lei indossava guanti neri guarniti di fiorellini rosa. Tolti i guanti aveva estratto un piccolo coltello dalla lama affilata, e aveva incominciato a piantarlo fra un dito e l’altro, sempre più velocemente. Il sangue tinse di rosso le dita affusolate: Pablo la guardava rapito, e le chiese in dono i guanti che avrebbe conservato per sempre, in una teca di vetro.
Non era un esempio di bellezza canonica, Dora, col suo volto irregolare, ma aveva fascino da vendere: «C’era nei suoi occhi una luce, uno sguardo straordinariamente luminoso, limpido come il cielo di primavera», raccontò chi la conobbe. Prima del fatale incontro, divenuto l’anno dopo una relazione tempestosa con quel genio possente e dominatore, che la amava e la tiranneggiava, Dora aveva già vissuto molte vite, a dispetto della giovane età. Fotografa, certo, ma anche pittrice, giornalista e soprattutto militante rivoluzionaria, che aveva assegnato alla fotografia un ruolo di provocazione culturale e di azione politica. Nello studio aperto fin dal 1930 con Pierre Kéfer, aveva condiviso la camera oscura con l’ungherese-parigino Brassaï, «l’occhio di Parigi», secondo la definizione di Henry Miller. Fu lui, Brassaï (di cui a Parigi si è da poco chiusa una bella personale), ad avvicinarla al movimento surrealista, sotto la cui influenza realizzò foto, spesso di composizione, che esposte a Venezia, ci appaiono, a distanza di decenni, e con tutto il materiale visivo a cui siamo avvezzi, di assoluta provocazione: uno schiaffo al perbenismo. Ma amò i poveri e i derelitti, e se ne prese cura, diventando testimone della loro condizione, tra Parigi, Barcellona, Londra: la crisi del ’29 mordeva in Europa, a distanza di qualche anno dall’America. I bambini cenciosi e denutriti di Waterloo Road, l’ex combattente mutilato costretto all’elemosina accanto al modellino di una nave, i gentlemen caduti in miseria che vendono calzini in strada o chiedono lavoro, i cortili abbandonati nel cuore delle città, la donna al finestrino di una roulotte di fortuna, il ragazzo seminudo che si riposa dalla fatica su una panca davanti a una saracinesca abbassata… Altrettante istantanee di un momento storico che oggi ci sembra talvolta di rivivere.
Il suo obiettivo fotografico era ormai l’occhio di una aderente alla sinistra estrema, nella drammatica stagione dello scontro sordo tra fascismo e antifascismo, comunismo e nazionalismo, ma anche delle lotte intestine allo stesso campo socialista, anarchico, comunista, come la Guerra di Spagna avrebbe tragicamente mostrato. Dora entrò in vari gruppi che lavoravano, da posizioni eversive, nei più diversi ambiti dell’arte, della fotografia, del teatro; ma finì anche per giocare consapevolmente il ruolo della grande seduttrice, stabilendo relazioni con personaggi come André Breton o George Bataille, il quale ebbe su lei una profonda influenza: Bataille teorico fra i massimi dell’erotismo, fa capolino, in effetti, nelle più azzardate foto di Dora, esposte in mostra.
Poi, il fatale incontro con Picasso, che la ritrasse in tele sempre più angosciose: è lei la «femme pleurante» che conosciamo in innumerevoli variazioni: da quel rapporto uscì provata, nel ’43, al punto da finire in casa di cura, salvata (nientemeno da Jacques Lacan) dalla tortura degli elettrochoc. Ma la contropartita della salvezza fu la perdita della creatività e un’ascesi misticheggiante («Dopo Picasso solo Dio», ebbe a dire). Visse fino ai novant’anni, spegnendosi nel 1997. «Non solo Picasso», certamente; ma Picasso fu l’acme dell’esperienza artistica e biografica di questa donna, una delle prime, rare intellettuali militanti del ’900 europeo.

La Stampa 6.6.14
Gli ingegneri eroi segreti della vittoria alleata
I tecnici lavorarono ai mortai e ai caccia P-51 che decisero il conflitto
di Gianni Riotta


Nel gennaio del 1943 a Casablanca, il presidente americano Roosevelt, il premier inglese Churchill e il generale francese De Gaulle, decidono la strategia finale della II guerra mondiale, resa senza condizioni per i nemici dell’Asse, invasioni in Italia e Francia, dominio dell’aria. Stalin, assente per seguire l’accerchiamento della VI Armata di von Paulus a Stalingrado, è d’accordo, ma sollecita l’apertura del fronte francese.
Oggi sappiamo che, entro l’estate del 1945, la strategia alleata viene realizzata con successo, e ricordiamo con emozione lo sbarco in Normandia. Guardando i film, da «Il giorno più lungo» a Spielberg, osservando le foto di Capa, leggendo i libri di scuola, ci sembra una marcia inesorabile, la democrazia che travolge il totalitarismo. A ben guardare invece la vittoria non era per nulla scontata, e il fattore decisivo non fu il coraggio militare dei tanti che sbarcarono attaccando l’armata di Hitler, eroi che pagarono con la vita, croci bianche che punteggiano le spiagge in Normandia. A vincere la guerra e permetterci di vivere in libertà furono gli ingegneri, eroi segreti della vittoria alleata.
Nelle prime settimane del 1943, mentre a Casablanca si decide la strategia, l’ammiraglio tedesco Dönitz affonda 108 navi che provano ad attraversare l’Atlantico e rifornire la Gran Bretagna, senza viveri né benzina. Dei materiali e degli alimenti che servono a Londra ne arriva meno di un terzo. La popolazione stenta a sopravvivere, preparare l’invasione dell’Europa è impossibile. Hitler sta vincendo la Battaglia dell’Atlantico e può resistere a lungo, magari fin quando la voglia di battersi delle democrazie si affievolirà, cercando un’intesa politica, come la maggioranza degli inglesi voleva nel maggio 1940 (a guerra già iniziata!) e il Congresso Usa prima di Pearl Harbor 1941.
Per permettere agli angloamericani di sbarcare occorre dislocare l’Armata, navi, aerei, artiglieria e uomini in Inghilterra, liberare l’Atlantico dai sommergibili U Boot, dominare il cielo. Si fa un gran parlare dei logici che decifrano i codici segreti tedeschi, guidati dal geniale Alan Turing, ma anche i nazisti leggono gli alleati e dunque la chiave della vittoria, gli eroi del D-Day sono, con marines, rangers, commandos e paracadutisti, gli ingegneri.
Nel suo affascinante saggio «Engineers of Victory» lo storico Paul Kennedy, autore del celebre studio sulla caduta degli imperi che stregò l’America trenta anni fa, prova come ingegneri, geometri, ragionieri, analisti, nel chiuso di uffici senza gloria e fama, mettono alle corde Hitler e salvano la libertà. I combattenti arricciano il naso, irridono il laboratorio delle innovazioni militari Department of Miscellaneous Weapons Development come «Ufficio Bronchitici e Imboscati», ma quegli uomini disegnano gli strumenti per realizzare la strategia alleata. Il tenente colonnello Stewart Blacker progetta il «Riccio» un mortaio che, montato sulle navi, centra i sommergibili con precisione. Da scolaro aveva affinato l’arte costruendo un mortaio ad elastico contro le serre del preside, e per far sì che Churchill investa nel progetto, la Marina mobilita due giovani ufficiali con la missione di convincere la giovanissima figlia del premier, Sarah Churchill (Kennedy non conferma l’aneddoto, ma lo cita). Il «Riccio» affonda da solo 50 U Boot, aprendo l’autostrada Normandia.
Un ingegnere aggiunge un serbatoio di carburante ai bombardieri B 24 e allunga, con un foglio da disegno e inchiostro di china, di centinaia di miglia la difesa aerea. I B 17 stentano con i carichi di bombe, gli ingegneri della Rolls Royce disegnano un motore meraviglioso, il Merlin, che adattato al caccia Usa P-51 Mustang lo può trasformare in arma letale. I burocrati americani nicchiano, «Aerei a stelle e strisce con motori stranieri?», entra in gioco Tommy Hitchcock, asso della I guerra mondiale, giocatore di polo, laureato ad Harvard, playboy, modello per il personaggio di Tom Buchanan nel romanzo «Il grande Gatsby» di Fitzgerald. Amico di tutti, Hitchcock persuade l’Aeronautica a lanciare il P-51 che dominerà i cieli: l’affascinante giocatore di polo paga con la vita l’idea, morendo durante uno dei frettolosi test. Un altro «Bronchitico Imboscato» disegna Fido, mina speciale antisommergibile.
La domanda di Kennedy è: attraverso quali passaggi una strategia vince e una perde? Una riflessione da fare anche a 70 anni dal D-Day. Le democrazie vincono – scriveva già lo storico inglese John Keegan - perché innovano, correggono errori, distribuiscono e controllano l’informazione e gli errori in velocità. I sistemi centrali, totalitari, verticali bloccano la trasmissione strategica e perdono alla lunga, da Hitler all’Urss. Il Giappone aveva una buona flotta di sommergibili, ma puntandoli per malinteso spirito da Samurai contro le navi da guerra e non da trasporto sbaglia partita nel Pacifico.
Vedere gli ingegneri come i protagonisti del D-Day è parte di un nuovo metodo storico e di analisi politico-militare, lo studio della complessità. Legare, per esempio, la caduta del Vietnam 1975 alla debolezza Usa dopo guerra del Kippur e golpe in Cile 1973, fatti lontani, conseguenze lontane. Adesso tanti hanno le idee chiare sulle partite in corso, Putin, Ucraina, Cina, Nsa, Europa, ma la strategia di lunga durata, la tecnologia cui nessuno bada, potranno rivelarsi decisive, magari uno smartphone avrà il peso militare di un mortaio Riccio.

Corriere 6.6.14
Il doppio sogno dell’amore assoluto
Tutto comincia e finisce con una Rosa
Due autori, diversi finali (e un giallo) per il poema celebre del XIII secolo
di Paolo Di Stefano


I sogni non sono sempre menzogneri. Prende avvio da questa considerazione, suggerita dallo scrittore latino Macrobio, esperto di sogni, uno dei poemi narrativi medievali più diffusi e letti, il Roman de la Rose , scritto in antico francese e testimoniato da oltre trecento manoscritti (secondo per quantità di codici solo alla Commedia di Dante), 21 edizioni a stampa e molti rifacimenti. 21.750 ottosillabi per raccontare la storia della tormentata conquista della Rosa da parte dell’Amante. Allegoria dell’amore in tutte le sue forme, dalle più sublimi alle più mondane, ma anche opera enciclopedica, il Roman de la Rose non è un libro qualunque. Intanto perché viene abitualmente considerato opera di due autori, con le cautele del caso. Si tratta di Guillaume de Lorris, cui si devono i primi 4.028 versi, e di Jean de Meun, che avrebbe aggiunto la seconda parte, più lunga e digressiva, per completare l’opera che non era conclusa.
Di Guillaume, citato da Jean all’ingresso del personaggio-chiave Falso Sembiante, l’ipocrita per definizione, si conosce solo il nome, il che ha fatto pensare a qualcuno che sia un’invenzione di Jean realizzata ad arte per capovolgere l’ideologia cortese in un finto gioco (auto)parodico. Ma tutto sarebbe possibile, anche che il primo autore abbia portato a termine il romanzo e che il secondo l’abbia amputato del finale per completarlo a piacimento. Che non siano mai esistiti né l’uno né l’altro è l’ipotesi, anche autorevole, di chi pensa che ci sia un burattinaio che li muove.
Introducendo l’edizione Einaudi (traduzione con originale a fronte), Mariantonia Liborio, curatrice con Silvia De Laude, mette in campo queste possibilità, ma la versione più accreditata resta anche la più semplice: e cioè quella dei due autori. Un unico manoscritto riporta la sola parte di Guillaume, sei codici conservano continuazioni anonime, tutte precedenti quella di Jean de Meun, iniziata 40 anni dopo la morte del primo autore, avvenuta verosimilmente tra il 1225 e il 1230. A differenza di Guillaume, la figura di Jean dispone di elementi biografici certi: fu, tra l’altro, traduttore di Boezio e di Vegezio, ebbe rapporti stretti con Guillaume de Saint-Amour, a cui si affiancò nella battaglia universitaria parigina, di impronta «laica», contro gli ordini mendicanti; essendo definito «maistre» fu probabilmente un chierico uscito dalla Sorbona. Può darsi che Jean abbia trascorso la giovinezza a Bologna e buona parte della vita a Orléans (la stessa zona di Guillaume). All’interno del testo il dio d’Amore, che lo chiama Johan Chopinel (chope è la taverna), lo descrive come un goliardo dedito alle donne, alle bevute e al gioco.
I sogni, dunque. Il testo di Guillaume si apre con un io narrante che racconta di aver fatto un sogno e di volerlo mettere in rima (cinque anni dopo) per obbedire ai desideri di Amore; la visione onirica consiste nel viaggio intrapreso dal protagonista fuori dalla città per incamminarsi lungo un fiume e arrivare nei pressi di un giardino cinto da un alto muro merlato su cui si trovano raffigurate personificazioni anti-cortesi: Odio, Slealtà, Villania, Cupidigia, Avarizia, Invidia eccetera. Nel Giardino di Piacere l’Amante accede grazie a una bellissima fanciulla, Oziosa. Si apre così un panorama di meraviglie, tra suonatori, menestrelli e nuove figure allegoriche, da Bellezza a Cortesia, tutte dettagliatamente descritte: il protagonista arriva alla fonte di Narciso, luogo fatale d’iniziazione in cui due cristalli riflettono ogni parte del giardino, ma quando l’Amante tende la mano per cogliere un bocciolo di rosa viene fermato da sterpi e spine. È in quel momento che il dio d’Amore lo colpisce al cuore, facendolo innamorare della dama di nome Rosa. «L’idea geniale di Guillaume de Lorris — scrive Liborio— è quella di far giocare sulla scena del testo, dietro il velo dell’allegoria, i sentimenti e le emozioni che si danno battaglia nel cuore dei due giovani». Tra aiuti (Amico, Benaccolgo eccetera), vane speranze e nuove opposizioni, Ragione cerca di far riflettere il protagonista sui pro e i contro della sua ossessione, ma le cose si complicano dopo il primo bacio propiziato da Venere: Gelosia fa costruire una torre entro cui chiuderà Benaccolgo, sorvegliato dalla vecchia, e con la disperazione dell’Amante dinanzi alla fortezza si interrompe il poema di Guillaume.
Dopo il verso 4028, si inseriscono finali posticci in cui il protagonista arriva comunque a cogliere la rosa, ma con Jean de Meun la ottiene per via essenzialmente parodica. L’Amante cambia registro e dal pianto passa al pentimento e poi all’imprecazione: contro la maledetta Dama Oziosa, contro «l’orribile vecchia puzzolente e lercia», ma anche contro se stesso, colpevole di non aver avuto un’oncia di senno nel riporre la sua fiducia nel dio d’Amore. Sotto la «lente deformante» del secondo autore, il modello si dilata in antimodello, accumulando dotte disquisizioni filosofiche e politiche, nonché narrazioni colorite dove la favola allegorica si squarcia e il dettato assume una connotazione più profana con forti dosi di misoginia e di cinismo libertino. Il risultato complessivo è la giustapposizione, in un solo libro, di due culture e visioni del mondo in contrasto: a quella cortese (percepita da Jean come superata e insopportabilmente piagnucolosa) si oppongono la cosmologia neoplatonica e la prospettiva naturalistica improntata su Alano di Lilla, con l’innesto di violente prese di posizione contro francescani e domenicani, ipocriti e finti Buoni (tema eterno, che arriva intatto fino al recente libro di Luca Rastello).
L’innamoramento viene spogliato da Jean de Meun di ogni valore magico, è il prodotto di una falsa apparenza riflessa negli occhi, cioè l’esito di un fenomeno ottico (in ossequio alle tesi del fisico persiano Alhazen). In questo nuovo registro, Ragione può persino permettersi di accennare senza scandalo ai genitali maschili in senso proprio (coilles , ovvero «coglioni»), ottemperando al progetto di dire le cose col loro nome, senza infingimenti metaforici. Sulle questioni terminologiche e tecniche, sulle fonti spesso sapientemente rimescolate (da Platone alla latina commedia a Tibullo, Ovidio, Virgilio ai fabliaux ), sul rapporto prospettico tra primo e secondo Roman , sulle varie ipotesi in gioco, sui debiti dovuti da molti poeti (da Villon in poi) a questa sorta di «tesoro» a cui attingere liberamente, si concentrano con puntualità le note poste in appendice al volume. Dove si troveranno gli elementi per leggere al meglio i comandamenti d’amore di Guillaume e i contro-comandamenti di Jean, a volte spossanti nella loro lungaggine, riscattata però non di rado da straordinarie trovate narrative.
Fa bene Liborio a segnalare nell’introduzione gli autentici pezzi di bravura di Jean de Meun, come quello in cui si presenta la vecchia mezzana che rimpiange la giovinezza e gli amori passati o quello in cui si inscena la corsa della Morte che insegue forsennatamente ogni individuo. La traduzione di Liborio è molto rispettosa dell’originale, pur con qualche peccato stilistico, come alcune cacofonie evitabili: per esempio nella bellissima sequenza sulla casa di Fortuna esposta ai flutti, in cui viene ripetuto il «contro» tre volte nel giro di pochi versi culminando in un «sempre le si scontrano contro» a fronte di un semplice «a lui se conbatent». Idem, poco più in là con il rincorrersi esorbitante di «forma», «riforma», «si trasforma», «forme». Resterebbero da dire molte cose sulla fortuna del Roman de la Rose . In primis , a proposito del Fiore , rifacimento toscano in chiave comica, 232 sonetti a opera di un Durante che Gianfranco Contini identifica con l’Alighieri. Il che dimostra come il poema francese avesse raggiunto una larga diffusione europea, confermata per altro dalla traduzione inglese di Chaucer e dalle accese «querelle» scatenate dalla sua inquieta lettura.

Corriere 6.6.14
La verità sul matriarcato, raccontata da Frazer
di Armando Torno


Un’opera imponente come Il ramo d’oro (The golden bough) di James George Frazer, che giunse alla terza edizione del 1907-15 a dodici volumi (c’è anche un supplemento uscito nel 1937), non è mai stata tradotta integralmente in italiano. Da noi c’è il lavoro dello scrittore e poeta Lauro de Bosis (morto a trent’anni nel 1931) che diede la versione del compendio realizzato dall’autore stesso nel 1922: uscì per la prima volta in tre volumetti presso Stock di Roma nel 1925. La medesima venne ristampata da Einaudi nel 1950 in due volumi nella compianta «Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici». In tal caso fu aggiunta una prefazione di Giuseppe Cocchiara. E quando i titoli di questa magnifica raccolta passarono a Boringhieri, l’opera fu riproposta identica in tre volumi nel 1965 nella «Universale scientifica» del nuovo editore torinese. Da allora si ristampa periodicamente. Newton Compton ne pubblicò una versione «integrale» a cura di Nicoletta Rosati Bizzotto (introduzione di Alfonso Maria Di Nola) nel 1992: anche questa, però, è stata condotta sul compendio ricordato.
Non farà dunque meraviglia che ci siano iniziative editoriali sulle parti non note in italiano de Il ramo d’oro . Esce ora, a cura di Maria Piera Candotti, la riproposta di Matriarcato e dee-madri (Mimesis, pp. 98, e 5.90). Il libro contiene i capitoli dedicati da Frazer a tale argomento, contenuti nel secondo volume di «Adonis, Attis, Osiris», quarta parte della (vera) edizione integrale, condotta sul testo pubblicato da Macmillan and Co (London 1951) alle pagine 202-218, quindi l’appendice sugli usi degli abitanti delle isole Pellew che è in calce al medesimo volume (pp. 253-268), nonché alcuni ampliamenti (quelli usciti nel 1937) sotto il titolo Aftermath. A supplement to the Golden Buogh (nell’edizione inglese citata sono alle pagine 365-75 e 373).
Il libro di Mimesis ebbe una prima edizione nel 1995 ma, data l’aria che tira nell’editoria italiana, si può considerare una novità. I temi del matriarcato, da Bachofen in poi, non danno tregua all’antropologia e alla cultura in genere. Vale la pena, per i loro riflessi religiosi, conoscerli su testi seri. Frazer, tra l’altro, indagando il fenomeno nell’Oriente antico nota: «Il matriarcato, la divinità di re e regine, il senso di un legame primigenio delle divinità con la natura: tutte cose che sono sopravvissute alle conquiste persiane, macedoni e romane per perire solamente sotto l’azione di un solvente molto più potente: il Cristianesimo».

Repubblica 6.6.14
La società liquida al tempo delle spie
di Zygmunt Bauman



Per cominciare, i social network rappresentano più di qualsiasi altro strumento di sorveglianza una modalità più economica, accurata e in generale più facile per identificare e localizzare i dissidenti attuali o potenziali. E la sorveglianza esercitata attraverso i social network è resa assai più efficace grazie alla collaborazione delle sue stesse vittime. Viviamo in una società confessionale, che promuove la pubblica esposizione di sé al rango di prova eminente e più accessibile, oltre che verosimilmente più efficace, di esistenza sociale.
Milioni di utenti di Facebook fanno a gara tra di loro per rendere pubblici gli aspetti più intimi e altrimenti inaccessibili della propria identità, delle proprie relazioni sociali, dei propri pensieri, sentimenti ed attività. I social network sono il terreno di una forma di sorveglianza volontaria, fai-date, di gran lunga preferibile (sia per volume che per costi) alle agenzie specializzate nelle quali operano professionisti dello spionaggio e del pedinamento. Una vera manna per qualsiasi dittatore e i suoi servizi segreti, una pioggia di monete cadute dal cielo.
Uno dei capitoli di L’ingenuità della rete (saggio di Evgeny Morozov che esplora proprio questi temi, ndr) si intitola “Perché il Kgb vuole che tu ti iscriva a Facebook”. Morozov vi passa in rassegna i molti modi in cui i regimi autoritari, o meglio: tirannici, possono sconfiggere i presunti combattenti della libertà al loro stesso gioco, servendosi della stessa tecnologia alla quale gli apostoli e i panegiristi delle propensioni democratiche di internet hanno affidato le proprie speranze. Non c’è nulla di nuovo; come ci ricorda L’ Economist, un tempo i dittatori del passato impiegavano le vecchie tecnologie in maniera analoga per mettere a tacere e disarmare le proprie vittime: alcune ricerche dimostrano che i tedeschi dell’Est che avevano accesso ai programmi televisivi occidentali erano meno portati ad esprimere insoddisfazione nei confronti del regime. Quanto ai ben più potenti mezzi dell’informatica digitale, Morozov sostiene che internet fornisce a coloro che vivono sotto regimi autoritari così tante distrazioni facilmente accessibili e a buon mercato da complicare considerevolmente i tentativi di indurre le persone ad interessarsi minimamente alla politica. A meno che la politica si ricicli a sua volta in un’avvincente varietà di intrattenimento, piena di impeto e passione e tuttavia rassicurantemente sdentata, sicura e innocua.
Testo tratto da Moral blindness. The loss of Sensitivity in Liquid Modernity di Zygmunt Bauman and Leonidas Donskis, (Polity Press 2013), di prossima uscita per i tipi degli Editori Laterza

Repubblica 6.6.14
“Io, poeta maledetto contro l’Islam estremista”
A 18 anni Yahya Hassan, danese di origine palestinese, è nel mirino dei fondamentalisti I suoi versi sono un j’accuse rivolto alla generazione dei padri violenti e antimoderni
intervista di Antonello Guerrera



C’è del marcio in Danimarca. Lo diceva Shakespeare nell’ Amleto e ora lo dice anche Yahya Hassan. Che della Danimarca non è principe, bensì figlio incompreso. Hassan ha pochi anni (18), è un poeta danese di origine palestinese e con la sua prima raccolta in versi ha ottenuto un successo clamoroso: oltre 100mila copie vendute in patria (record di sempre), diritti ceduti in tutta Europa. E oggi arriva anche in Italia grazie a Rizzoli (pagg. 176, euro 16, trad. di Bruno Berni). La poesia sarà pure morta, ma Hassan l’ha resuscitata per mutilarla e incidere versi rabbiosi che, dai campi profughi del Libano ai supermarket scandinavi Fakta, raccontano una vita spinosa. È la storia di una famiglia musulmana trapiantata in Danimarca, tra violenze familiari, “dittature educative”, donne umiliate, droga, furti e riformatori. Versi spietati e irriverenti che, oltre agli elogi, hanno attirato la fatwa dei fondamentalisti islamici: decine di minacce di morte, poi l’aggressione in una stazione di Copenaghen. Ora Yahya vive sotto scorta.
Ecosì, sulla pelle della Danimarca, sono ricomparse vecchie ustioni, quelle delle “empie vignette” di Kurt Westergaard che nel 2005 quasi scatenarono una guerra mondiale. C’è chi dice che questo piccolo maggiorenne dal codino scuro è solo un blasfemo. Chi lo considera un incrocio tra Eminem e Whitman. Più semplicemente, Yahya Hassan è un orfano riottoso della globalizzazione, un cantore smarrito delle acide periferie di Copenaghen. Ed esecra l’ipocrisia. Dell’Islam, ma anche della società occidentale che non integra, non modella, non comunica. Per questo Hassan qualche tempo fa, sul quotidiano danese Politiken, ha lanciato un agghiacciante j’accuse alla «odiata generazione dei padri».
Hassan, si aspettava a 18 anni un successo simile?
«Certo che no. Ma immaginavo che i miei versi sarebbero stati giudicati problematici. O comunque controversi ».
La sua famiglia come ha reagito? Suo padre, da lei dipinto come un violento, che dice?
«A qualcuno è piaciuto, ad altri no. Con qualcuno di loro parlo, con altri no. Ho una famiglia molto numerosa ».
C’è un motivo particolare per la copertina nera del suo libro e i versi tutti in maiuscolo?
«Ho scelto una copertina minimalista perché credo che le parole abbiano molto più senso delle immagini. Il maiuscolo è il mio modo di esprimermi. Ma non perché voglio passare per un ragazzino che strilla. Semplicemente, è per imprimere nettezza. E poi mi piace, a livello estetico».
C’è un tatuaggio sulla sua mano: “Ord”. Cosa significa?
«”Parola”, in danese. Perché le parole sono la cosa più importante oggi».
Dicono che il rap abbia influito molto sulla sua poesia.
«A 12 anni ho cominciato a scrivere testi in questo genere musicale. C’erano delle lezioni nel quartiere dove vivevo. Sa, una di quelle aree socialmente molto complicate dove a un certo punto qualcuno decide che tutti i ragazzini devono essere “salvati” con il rap. O con il ballo. O con il calcio».
E poi cos’è successo?
«A poco a poco, il rap è diventato qualcosa che non mi apparteneva. Mi sentivo imprigionato. Sia a livello di contenuti, che di forma. Così sono passato a scrivere racconti, fino ad arrivare alla poesia, anche grazie a un’insegnante. E la poesia è diventato l’unico modo con il quale riesco a relazionarmi alla vita».
Nella sua raccolta, si percepisce un evidente senso di smarrimento, religioso ma anche sociale. È così?
«Io non mi sento un musulmano. Così come non mi sento danese. E nemmeno un semplice poeta. Secondo lei sembro un danese? L’origine conta. I miei genitori sono palestinesi. Mi sento palestinese. Uso il danese per scrivere, ma in famiglia parlo l’arabo. Più che altro, mi sento un essere
umano».
Nei suoi versi non pare esserci felicità, di alcun tipo.
«Non mi piace parlare della mia adolescenza, né giudicare se sia stata felice o meno. La felicità è molte cose. Spesso irrilevanti, spesso confuse nel quotidiano».
Lei è stato molto critico nei confronti dell’integrazione in Danimarca.
«Io sono critico più o meno verso tutto. Certo, il multiculturalismo è una realtà. Ma questo non significa che non sia una realtà problematica».
Il suo libro è un severo manifesto contro l’ipocrisia, soprattutto quella dell’Islam che lei ha conosciuto bene. Ma anche quella occidentale, dai “ghetti” al razzismo.
«Quello che critico dell’Islam può essere detto anche di altre religioni, sia ben chiaro. Ma spesso la mia ex religione, a differenza di altre, purtroppo non riesce a uniformarsi alla modernità. E per questo trovo ipocrita quando i musulmani integralisti cercano rifugio in un Paese di “infedeli”. Trovo ipocrita campare sul welfare danese se non si condividono i principi di quel Paese. Trovo ipocrita, come racconto nel libro, andare in moschea il venerdì, non mangiare maiale e poi picchiare moglie e figli».
Questo succedeva anche nella sua famiglia, purtroppo. Ma così si corre il rischio di generalizzare, non trova?
«I musulmani danesi sono molto indottrinati. Che non significa essere terroristi, ci mancherebbe. Ma gli viene inculcata una visione del mondo molto tradizionalista, trasmessa di padre in figlio. E a volte risale a secoli fa. Colpa delle vessazioni subite per lunghissimo tempo, certo: campi profughi, povertà, violenze, nessuna istruzione. I problemi delle vecchie generazioni arrivano da lontano. Ma i giovani nati in Danimarca, come me, a volte neanche parlano arabo e non conoscono la storia del loro popolo. Così si crea una frattura insanabile».
Cosa pensa dei suoi critici?
«I musulmani danesi vivono in zone disagiate, dove purtroppo ci sono molti problemi. Se ne parlo, mi accusano di generalizzare sui musulmani. Ma sono loro che generalizzano su se stessi».
E cosa pensa di chi la vuole morto?
«Non m’importa. Le minacce di morte e la violenza purtroppo fanno parte della nostra società, non sono certo iniziate con il mio libro. Mi spiace solo che molti musulmani colti e capaci non si ribellino a tutto questo».
Lei sa bene, però, che le sue accuse verso l’Islam più integralista vengono sfruttate dai politici populisti e xenofobi in Danimarca.
«Disprezzo i politici populisti di destra. Così come disprezzo i musulmani di destra. I fascisti sono sempre fascisti. Però, allo stesso tempo, rivendico il diritto di esprimere la mia opinione attraverso la poesia».
Com’è la sua vita da sorvegliato speciale?
«Prima di diventare famoso avevo sempre due tizi dei servizi sociali alle calcagna. Ora, al loro posto, ci sono la polizia e i servizi segreti “Pet”. Non c’è molta differenza».
Dopo 18 anni così “movimentati”, come si immagina il futuro?
«Non me lo immagino. Io penso solo a vivere il presente».

Repubblica 6.6.14
Markaris: “Solo la cultura può vincere la crisi”
L’autore del commissario Charitos “Basta estremismi, anche la Grecia non deve rinunciare all’euro”
di Daniele Mastrogiacomo



ATENE. «Non sono una Cassandra e non amo esserlo. Ma nei miei libri, soprattutto nella trilogia del commissario Kostas Charitos, da anni racconto il rischio concreto che corre l’Europa. Si profila un disastro. La gente fatica a rendersi conto delle conseguenze terribili che potremmo pagare se alla fine prevarranno le forze populiste. C’è una forte spinta che ha un chiaro sapore fascista». Petros Markaris, scrittore di origine armene, nato a Istanbul ma greco di adozione, sarà oggi a Napoli alla Repubblica delle Idee. Il nostro appuntamento è nel cuore di Atene, una capitale che la crisi ha cambiato nel profondo del suo animo. L’autore della Resa dei conti ( Bompiani), ultima impresa del poliziotto che ama consultare antichi dizionari per trovare gli aneddoti sulla vita, si concede il suo classico whisky di ogni pomeriggio.
È consapevole che almeno quattro greci su dieci sarebbero disposti a tornare alla dracma. Ma è proprio questo che lo manda su tutte le furie: un’irresponsabilità che lo fa quasi gridare. Tira sulla pipa che si porta in continuazione alla bocca e avverte: «Certo, all’inizio le cose andrebbero meglio. I morsi della recessione allenterebbero la presa. L’economia riprenderebbe fiato. La gente si sentirebbe più ricca. Ma poi, con i mesi, arriverebbe il disastro». Forse, osserviamo, perché tutti i discorsi, alla fine, erano legati alla finanza, ai conti, al rigore che la Grecia, come l’Italia e la Spagna, non aveva seguito. Eravamo i Paesi delle cicale. «In Europa, la politica è scomparsa. Eppure, in ogni paese evoluto, si è sempre parlato di politica. La Grecia è la culla della democrazia: l’ha trasmessa nei secoli al mondo. Ma questo è un vuoto generale dovuto alla globalizzazione. Sono saltate quelle protezioni sui valori che sono la vera ricchezza dell’umanità ». È una costante nei suoi racconti: l’assenza della cultura nel mondo moderno. «È il tema di fondo della nostra crisi», spiega lo scrittore. «C’è una povertà diffusa di cultura. Jean Monnet, tra gli eurofondatori, disse una cosa importante: per unire l’Europa bisogna partire dalla cultura. È accaduto l’opposto: siamo arrivati al punto che il denaro distrugge gli amici, le famiglie, le collaborazioni tra gli Stati. Il governo della finanza ha trasformato le nostre vite e cambiato le nostre identità». La responsabilità è anche dei cittadini. «Sicuramente. Ma la colpa principale è dei politici. I quali restano sordi rispetto al valore della cultura. La considerano irrilevante». È mancata però la voce degli intellettuali in tutti questi anni. «È vero. Ci siamo accontentati delle nostre origini, abbiamo vissuto di rendita: siamo la culla della grande cultura che ha formato l’era moderna. Eppure tutta la storia greca e anche romana, fino al Rinascimento, all’Illuminismo hanno contribuito a superare i diversi cicli e le diverse crisi. Il nuovo e ultimo secolo ha visto invece l’assenza di una spinta propositiva. Ci siamo assoggettati all’economia e alla finanza: abbiamo totalmente delegato loro il nostro presente e anche il nostro futuro».
Un grande inganno. «L’inganno è stata opera dei politici. Hanno nascosto la gravità dei conti, hanno spinto la gente a indebitarsi, a spendere, a comprare. Descrivevano una realtà fittizia, fatta di opulenza e di progresso. È chiaro che i popoli alla fine, davanti alla realtà esplosa all’improvviso, si sono infuriati. Sognavano qualcosa che non era vero». Cosa pensa oggi il commissario Kostas Charitos? Petros Markaris s’incarna ancora nel suo personaggio. Ha già in mente un nuovo capitolo della serie. «Oggi Charitos resta a casa. È la sua famiglia che gestisce la crisi. Adriana, la moglie, è la vera regina del momento. Quella che gestisce il denaro. Lei sa come spendere i soldi, come cucinare, dove e come comprare da mangiare. Le donne, come sempre nei momenti difficili, sono quelle che possono salvarci dal collasso».

Repubblica 6.6.14
Quando la Terra si scontrò con Teia, a nascita della Luna
Uno studio tedesco conferma l’impatto con un misterioso corpo celeste avvenuto oltre quattro miliardi di anni fa
di Silvia Bencivelli



ROMA. L’atto di nascita della Luna è stato un gigantesco scontro spaziale. O meglio: un impatto avvenuto quattro miliardi e mezzo di anni fa tra la Terra primordiale, che allora era molto più grande di quanto non sia oggi, e un misterioso corpo celeste, che dopo lo scontro si sarebbe disintegrato. Per indicare quest’ultimo gli astronomi hanno scelto il nome Teia, che richiama l’antica dea greca madre di Selene, cioè la Luna. Mentre per indicare l’ipotesi della nascita del nostro satellite dal gigantesco incidente tra Teia e la Terra hanno scelto il nome decisamente meno poetico di “Impatto gigante”. Oggi, a quarant’anni dalla sua prima formulazione moderna, l’ipotesi sembra trovare una conferma grazie a una ricerca tedesca pubblicata sull’ultimo numero della rivista Science.
Secondo l’ipotesi dell’Impatto gigante, lo scontro spaziale tra corpi celesti avrebbe prodotto una nuvola di polvere e frammenti che, ruotando a grande velocità intorno alla Terra, si sarebbero aggregati a formare la Luna. In parte, questi frammenti sarebbero state schegge di superficie terrestre. E in parte, o forse soprattutto, resti del misterioso corpo celeste. Ma se Teia non esiste più, com’è possibile provare che abbia davvero dato origine alla Luna?
L’idea è che, se le cose sono andate come dice l’ipotesi, la Luna dovrebbe in qualche modo assomigliare un po’ a Teia, cioè dovrebbe portare dentro di sé, da qualche parte, qualche segno dell’eredità materna. Il che però propone un duplice problema: il primo è che di Teia non conosciamo proprio niente e quindi non sappiamo che cosa cercare. E il secondo è che, fino a ieri, avevamo trovato solo rocce lunari in tutto e per tutto uguali a quelle della Terra. Quindi di Teia nessuna traccia. Fino a ieri, però.
La ricerca tedesca, infatti, è finalmente riuscita a scovare un segno particolare nelle rocce della Luna che su quelle della Terra non c’è. È stato possibile grazie a campioni di superficie lunare, portati indietro dalle missioni Apollo della Nasa, e a tecniche di analisi più raffinate. Questo segno è una piccola, ma significativa, differenza tra la quantità di una particolare forma dell’ossigeno contenuta nelle rocce lunari rispetto a quelle terrestri.
«La differenza è piccola ed è difficile da riconoscere - ha spiegato Daniel Herwartz, coordinatore del gruppo di ricercatori dell’Università di Colonia - ma c’è. E significa due cose: possiamo essere ragionevolmente sicuri che ci sia stato l’impatto tra Teia e la Terra. E possiamo farci un’idea della composizione di Teia». Adesso, chiariscono i ricercatori, si tratta di capire quanta Teia sia rimasta nella Luna e quanta abbia finito per disperdersi nello spazio. I vecchi modelli dicevano che la Luna era soprattutto figlia di Teia: i nuovi dati, concludono gli studiosi tedeschi, suggeriscono invece che sia figlia di entrambi. Metà della Terra e metà del misterioso corpo celeste. Ma ci potrebbe anche essere una seconda spiegazione per i risultati della ricerca tedesca. Quella suggerita da Diego Turrini, planetologo dell’Istituto di Astrofisica e planetologia spaziali dell’Istituto nazionale di astrofisica di Roma: «cioè che si tratti del risultato di impatti successivi, avvenuti anche quando la Luna e la Terra erano perfettamente formati». Tutti i corpi del sistema solare, infatti, hanno continuato anche dopo la loro formazione a ricevere l’impatto di meteoriti (come del resto avviene ancora). E siccome la Luna e la Terra hanno massa e gravità diversa «potrebbe essere stato qualcosa che si è impattato in maniera diversa e che ha provocato una qualche modifica della superficie di uno dei due corpi celesti». In fondo, i dati indicano solo che c’è una minima, ma chiara, differenza nella composizione tra la Terra e il suo satellite. Questo non toglie, conclude Turrini, che per la nascita della Luna l’ipotesi dell’Impatto gigante rimanga oggi la più plausibile. «Ha anche il vantaggio di spiegare l’unicità del nostro satellite, che è “solo” un centesimo della massa della Terra ed è quindi grandissimo rispetto agli altri satelliti degli altri pianeti del Sistema solare».

l’Unità 6.6.14
Leggere il pensiero
Per la rivista inglese «Current Biology» è possibile


È POSSIBILE LEGGERE NEI PENSIERI, VIOLANDO COSÌ L’ULTIMA FRONTIERA DELLA PRIVACY? Sì, secondo uno studio riportato sulla rivista scientifica Current Biology. Alcuni ricercatori della London University hanno sperimentato questa nuova opportunità attraverso un dispositivo di risonanza magnetica funzionale per immagini, detto fMRI. Si tratta del tipo usato per effettuare i comuni esami organici. Stavolta, però, gli scanner hanno rilevato tracce di memoria cosiddetta «fissa», con una particolarità: sono visibili e misurabili in rapporto all’attività cerebrale. Più di preciso, i dati subiscono modifiche direttamente collegate alla varietà dei ricordi cui si riferiscono. Il che sembrerebbe sminuire l’enfasi della notizia, ma non è così. La «trascrizione in immagini» del lavorio mentale prodotto dai ricordi mostra similitudini in soggetti differenti. Cioè: a ricordo di uguale natura corrisponde uguale traccia elettronica. I risultati si fondano sulle reazioni a brevi inserti filmati di sette minuti, ciascuno con sequenze tratta dalla quotidianità, che i partecipanti poi rievocavano ciascuno dal proprio punto di vista. Gli scanner scrutavano i loro cervelli in quei momenti, segnalando analogie reattive. Dunque, sono i primi passi per ricostruire la dinamica dei pensieri, fin qui ritenuti ben riposti all’interno della scatola cranica.
Ma le intrusioni nella sfera privata costituiscono già molteplici aspetti dell’esistenza quotidiana. La deriva estrema della convivenza, che cancella la privacy nel nome dell’ordine pubblico, capovolge le attese di un XXI secolo nel quale si sarebbero dovute abolire completamente le zone oscure per l’umanità. Invece, il terrorismo ciclico seguito all’11 settembre 2001 diviene implacabilmente la nuova misura della quotidianità globale. Anche in Italia vengono messi in funzione i body scanner, gli apparecchi di controllo individuale negli aeroporti. Precedentemente, in tutti gli scali le perquisizioni ai passeggeri erano assurte alla norma. Anche su tratte secondarie tocca sottoporsi alla minuziosa ispezione corporale da parte degli addetti. I viaggiatori devono perfino alzare le scarpe, per lasciar verificare che non abbiamo delle suole insolite, nelle quali potrebbero celare dell’esplosivo. Il body scanner ovvierà al rischio di biancheria intima pronta a deflagrare, come accaduto nei giorni di Natale del 2009.
Esistono altri modi per penetrare nei recessi dell’individuo. Le telecamere impiegate nei grandi magazzini, negli ipermercati e nei megastore non servono unicamente ai fini della sicurezza. Registrano anche le preferenze dei consumatori, fornendo informazioni alle ditte produttrici. Specialmente in prossimità delle casse, dove catturano gli acquisti dell’ultimo momento: caramelle, rasoi, snack, posti nelle rastrelliere come prodotti definiti dal sociologo Gian Paolo Fabris di «consumo emozionale». E le telecamere raccolgono le immagini sui dischi rigidi, senza il rischio di nastri smagnetizzabili.
Ulteriori incursioni nella privacy sul piano dell’economia avvengono, sempre nel circuito delle spese, mediante le tessere punti dei supermercati sotto casa, le varie card rilasciate dagli ingrossi di materiali elettronici e simili. Per non dire degli estratti conto bancari. L’elenco degli acquisti effettuati con carta di credito è una vera e propria mappa anche psicologica dell’intestatario.
Su Internet, poi, il concetto di privacy risulta completamente inapplicabile. Ogni passaggio anche fulmineo su un sito lascia l’impronta del visitatore, sotto forma del suo account di posta elettronica. Per non dire del phishing. Il termine circola dagli anni 90, agli albori della rete, per indicare lo «spillaggio» dei dati sensibili. Con l’utilizzo di falsi messaggi via mail o perfino telefonate, si rubano numeri di conto corrente e carte di credito, codici fiscali e altro materiale da sfruttare per truffe. Phishing è una deformazione di fishing, che in inglese significa pescare.
Il diritto alla privacy, quello autentico, dettato dal buon senso e non dalla legislazione, viene svento-lato proprio per essere violato, specialmente con una tecnologia che non conosce più i tradizionali confini tra l’ipotesi e la fattibilità.