domenica 8 giugno 2014

l’Unità 8.6.14
Domani Left: la foto, le divise e quell’onore da ritrovare
di Giovanni Maria Bellu
Direttore di LEFT



Il numero di left che sarà in edicola domani con l’Unità è dedicato alla difesa dell’onore dei poliziotti e dei carabinieri che fanno il loro dovere. La foto di copertina - che ritrae il volto tumefatto di Riccardo Magherini - è in bianco e nero. Non per attenuare il raccapriccio che l’originale suscita, ma per affermare la speranza che immagini di questo genere nel tempo più breve entrino nel passato. Come le immagini degli orrori della guerra.
Riccardo Magherini è morto per asfissia la notte tra il 2 e il 3 marzo mentre era nelle mani di quattro carabinieri, ed è stata subito avviata l’opera di denigrazione della sua figura di uomo: «ubriacone», «drogato», «violento ». Era già successo per Federico Aldrovandi, per Stefano Cucchi e per tanti altri. Una specie di protocollo non scritto prevede di far seguire la morte civile alla morte fisica. Un meccanismo che s’inceppa solo quando la vittima ha una famiglia forte e determinata che avvia una battaglia. «La battaglia dei familiari» - locuzione entrata stabilmente nel linguaggio giornalistico - presuppone che la ricerca della verità non sia un dovere istituzionale ma un fatto privato delle persone colpite in modo diretto dalle tragedie. È una frase fatta che, al di là delle intenzioni, favorisce il perdurare della protezione omertosa dei violenti in divisa. Queste esigue minoranze ancora godono di larghe protezioni e addirittura di «simpatie», come ha rivelato l’agghiacciante vicenda degli applausi ai condannati per l’omicidio Aldrovandi.
L’editoriale di apertura è firmato da Gabriele Ametrano, agente scelto di pubblica sicurezza, che racconta il disagio dell’indossare la divisa quando i telegiornali parlano di «una notte in cui un cittadino è morto dopo essere stato fermato» e quando «inizi la giornata lavorativa sapendo che incontrerai persone che ti guarderanno con un giudizio già confezionato e ti scontrerai con le parole “assassini”, “bastardi”, “infami”. Il coraggio di un poliziotto va oltre la divisa: è il coraggio dell’uomo che sa che il rispetto della vita è un valore fondamentale, al di là del buio di qualsiasi notte».
Anche nelle pagine della cultura e degli esteri ci occupiamo di frasi fatte e di luoghi comuni. Nella cultura in relazione al tema del nostro patrimonio artistico. Vittorio Emiliani ha elaborato per i lettori di left uno «stupidario» in quindici punti. Si va dall’accostamento dei beni culturali ai combustibili fossili alla necessità assoluta di super- manager(in realtà servono, banalmente, i soldi). Nelle pagine degli esteri trattiamo il mito Della donna americana nella felice democrazia americana. La realtà diversa: lo stipendio medio delle donne (bianche) negli Usa è pari a poco più di tre quarti di quello degli uomini e la presenza femminile al congresso (18%) è inferiore a quella dei principali Paesi europei (Germania 30,2%, Francia 24,5, Inghilterra 22,5, Spagna 35,1, Italia 27,7).


l’Unità 8.6.14
Alle radici dell’intolleranza
L’analisi del filologo Bettini che la individua nei credi monoteisti
«Elogio del politeismo» il nuovo saggio dello studioso parte dall’idea che ci possa essere qualcosa da imparare dalle religioni antiche esempio di tolleranza
di Luigi Spina


PER PARLARE ADEGUATAMENTE DELL’ «ELOGIO DEL POLITEISMO » DI MAURIZIO BETTINI, È DOVEROSO TRACCIARE PRIMA UN BREVE ELOGIO DELLA COMPARAZIONE ANTROPOLOGICA, che è il metodo che più volte l'autore richiama come guida della sua analisi. A differenza dell’analogia, che schiaccia il nuovo sul già conosciuto (non si contano gli Hitler, i Mussolini e gli Stalin che si sono susseguiti nella politica italiana), la comparazione distingue le due realtà, quella che si conosce e quella che si vuol comparare, per coglierne soprattutto le differenze e le singolarità.
Ecco, completato il mini-elogio della comparazione, si può cominciare a dire che il saggio di Bettini affronta un tema non usuale: l’idea che ci possa essere qualcosa da imparare dalle religioni politeiste antiche. Farne materia di ricerca sì, ma pensare che si possano importare, per quanto criticamente, idee e comportamenti da qualcosa che non rientri nella dialettica fra le tre religioni monoteiste e la non religiosità non è pensiero ricorrente. Proprio nell’Introduzione, Bettini propone un argomento convincente: di Platone, di Aristotele, di Agostino, della democrazia antica non si può fare a meno di parlare, qualsiasi argomento attuale si voglia affrontare; difficile invece che si parli della religione antica, politeista. Il volume è organizzato in 15 capitoli e due appendici. I titoli dei capitoli offrono i terreni della comparazione: dal presepio e dalle moschee alle statuette romane e al larario; dalla proclamata unicità del Dio alla possibilità di riadattare gli dèi; dai possibili contatti sotterranei fra monoteismi e politeismi alle strutture sociali e comunitarie nelle quali la/le divinità si insediano; dalla pregnanza delle parole, infine, ai paradossi della/e scrittura/ e. Le appendici approfondiscono due temi: la tolleranza e l’intolleranza; gli usi e i significati del termine paganus.
Fra gli elementi positivi, in base ai quali il politeismo antico potrebbe far riflettere meglio sulle rigidità del monoteismo c’è sicuramente la curiosità, anche di massa, che costituiva la molla per conoscere davvero il funzionamento di religiosità diverse dalla propria. L’ostacolo dell’unicità condiziona quello stesso dialogo interreligioso che rimane, comunque, un tentativo auspicabile per mantenere aperto un canale comunicativo e di reciproca conoscenza. Quando Papa Benedetto XVI richiamò, nel 2006, la controversia del 1391 fra Manuele II Paleologo e un maestro persiano, un mudarris di fede musulmana, non fu difficile constatare che non si trattava di un vero dialogo, ma di una specie di doppio monologo, come scriveva proprio Théodore Koury, il filologo a cui lo stesso Ratzinger si riferiva. D’altra parte, la scoraggiante presa d’atto non riguardava solo la controversia antica ma anche le modalità con cui furono lette le parole del Papa.
Il rapporto con la (o le) divinità altrui è la cartina di tornasole che Bettini sperimenta per comparare la cultura romana e le culture odierne, in uno scavo che è contemporaneamente antropologico e linguistico. Non si può prescindere dal modo in cui gli antichi hanno denominato un fenomeno, una pratica, un oggetto, e dal modo in cui, spesso, sono i moderni a rinominare quello stesso dato, cercando di retrodatarne la sostanza e mascherando, in tal modo, i differenti quadri mentali. La raffigurazione del politeismo da parte dei moderni avviene attraverso termini che non corrispondono quasi mai alla denominazione da parte delle culture antiche, l’unica che consentirebbe di capire effettivamente cosa gli antichi stessi intendessero. Questa indagine, che Bettini conduce con grande chiarezza si concentra su termini per noi familiari quali politeismo, e il corrispettivo monoteismo, pagano, idolatria ecc., ma la cui storia, il cui uso, presenta molti aspetti più complessi e spesso inattesi. La traducibilità degli dèi, cioè la possibilità di accogliere divinità di altre culture nella propria, rinominandole, riconoscendo loro nuove funzioni, rappresenta il vero punto originale del politeismo antico. In quel mercato comune della divinità non era un problema inserire nel contatto fra i popoli e le culture i rapporti fra le divinità, in una tendenza all’inclusione e all’allargamento, piuttosto che all’esclusione e alla reductio; la traducibilità tra divinità, inoltre, non consente di identificare superficialmente quelli che potrebbero sembrare suoi inaspettati residui nelle religioni monoteiste, come per esempio, in quella cattolica, il culto dei santi. Le funzioni che si attribuiscono alla Madonna e a molti santi, di patronato, di assistenza, di protezione mancano del requisito della traducibilità, della trasferibilità, per cui mantengono quella che Bettini definisce una pluralità esclusiva.
Un’attenzione particolare Bettini dedica alla tolleranza, che è termine moderno altrettanto abusato che contestato, in quanto conserva insieme un valore tendenzialmente positivo e un rischio negativo di tipo etimologico. Non a caso la tolleranza è contrapposta alla interpretatio degli dèi, quel carattere di traducibilità che percorre tutto il libro. L’interpretatio è quella traducibilità potenziale che viene stabilita attraverso la mediazione, il compromesso che presiede a qualsiasi negoziazione perché abbia un buon esito. Si capisce, dunque, come la tolleranza, spesso sentita come punto di avvio di un dialogo fra diversi, marchi nello stesso tempo la gerarchia fra i diversi stessi: il rispetto che si sottintende nel termine cela, infatti, la sofferenza della accettazione risolta solo da un’etica caritatevole che sa anche tollerare gli errori. Se non si pensasse di possedere l’unica verità, forse, non scatterebbe la vocazione alla tolleranza.
Connesso al tema della tolleranza è quello della violenza, dello scontro di carattere religioso. Che le divinità dei Greci e dei Romani fossero coinvolte nelle guerre umane, che fossero immaginate addirittura in guerra fra loro, ciò non toglie che questo scontro non avesse per nulla carattere religioso, ma che la religione rappresentasse, anzi, un motivo per attenuare lo scontro stesso. Tanto più che le divinità facevano parte sostanziale delle comunità, in particolare attraverso quei riti di attribuzione della cittadinanza che Bettini ben spiega. Nel capitolo che non a caso si intitola «Il sacrificio del presepio e le bombe della moschea», Bettini affronta un tema divenuto di forte attualità da qualche anno in occasione delle feste natalizie, da quando, cioè, la presenza del presepio o del Crocifisso, simboli del cristianesimo, nei luoghi pubblici dello Stato (scuole, tribunali), è diventato argomento di polemica; allo stesso modo, Bettini segnala le polemiche contro la costruzione di una moschea in Val d’Elsa. Questo tema riassume i termini della comparazione possibile fra politeismi e monoteismi nella vita non solo religiosa di una comunità. Entrambe le reazioni, la rinunzia al presepio proposta da alcuni insegnanti e genitori di scuole italiane come gesto di rispetto verso altri culti e, dall’altra parte, la protesta di segno opposto, mostrano come al fondo delle due opzioni vi sia un unico vincolo: l’unicità del dio nel quale si crede, al punto che la scelta si può dividere fra: se non quello, meglio nessuno. Eppure, il presepio mi pare possa rappresentare ancora uno spazio nel quale simboleggiare le dinamiche interne a comunità che hanno nella diversità religiosa fra monoteismi un punto vulnerabile. La grotta del presepio mi sembra abbia perso la sua posizione centrale, per la spinta a dare voce e spazi a presenze le più varie, fino all’irruzione, grazie ai ben noti artigiani napoletani, di personaggi dell’attualità. Una sorta di cittadinanza riconosciuta a elementi estranei alla tradizionale ambientazione del presepio potrebbe essere la chiave di volta per aprirlo a una vera tensione politeista, sperimentando un quadro mentale che adottasse gli schemi della traducibilità, della mediazione negoziata: un inizio in cui una nuova cittadinanza risulti visibile e leggibile, per dèi, uomini e donne, ciascuno con le proprie credenze e divinità e, anche aggiungerei, in assenza di esse.

La Stampa 8.6.14
Compagnia del Papa “benedice” Renzi
“E’ l’alternativa al rigore della Merkel”
Un editoriale sulla rivista dei gesuiti, “Civiltà Cattolica”, analizza il voto europeo
«Ora il premier deve riscrivere il riformismo eliminando la matrice socialista e post-comunista, e rimettendo al centro l’attenzione ai più deboli»
di Fabio Martini

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Corriere 8.6.14
Renzo Piano:
«Inconcepibili i senatori a tempo perso Devono essere eletti e remunerati»
I numeri vanno dimezzati. Ma non è un ruolo per sindaci e governatori
intervista di Aldo Cazzullo


«L’Italia è importante nel mondo per la cultura, l’arte, la scienza, la bellezza. Non è un caso che durante la sua ultima visita Obama, conclusi gli impegni ufficiali, da uomo curioso che ha bisogno di ritrovare riferimenti abbia cercato di cogliere questi valori, di scavare nei giacimenti per cui il nostro Paese conta sulla scena globale». Intervistato dal sito americano Politico , Renzo Piano ha raccontato la sua recente cena romana con il presidente Usa e altri ospiti. Ora prosegue nella riflessione sull’Italia e sul suo ruolo internazionale, affrontando un tema che lo riguarda da vicino, in quanto senatore a vita: la riforma del Senato. Dice Piano di avere «una fiera e orgogliosa diffidenza per la Cultura, quella con la C maiuscola, rappresentativa di un’élite, di un ambiente che non ci appartiene e non ci riguarda, cui sono persino ostile. Mi sono sempre divertito a essere irriverente verso quella Cultura: ero un ragazzo quando ho fatto il Beaubourg assieme a Rogers. Altra cosa è la cultura vera: la ricerca, la conoscenza, il sapere, il curiosare. Questa ci appartiene, ci riguarda. Il suo luogo di riferimento nel mondo è certo l’Europa, e all’interno dell’Europa è il nostro Paese. Qualcuno ha scritto che un Paese non può essere ricco e ignorante per più di una generazione: sono d’accordo. E quindi mi chiedo: dove va il Senato senza la cultura?».
Senatore Piano, viviamo un’epoca di discredito delle istituzioni, e il Senato non fa eccezione. Ora si cerca di cambiarlo. Si è parlato di farne un’assemblea di sindaci e consiglieri regionali, più ventuno membri nominati dal capo dello Stato. Il presidente Grasso ha difeso l’elezione diretta dei senatori. Renzi è contrario ma apre all’elezione indiretta. Qual è la sua posizione?
«E’ chiaro che il Senato va ridotto alla metà. Non occorrono 300 e passa senatori, così come non occorrono 900 e passa parlamentari. Ma il Senato è la Camera alta: deve guardare alto e lontano, deve guardare l’orizzonte. Il Senato l’abbiamo inventato noi, l’abbiamo esportato nel mondo. E come fai a guardare lontano senza la cultura, che è la nostra vera forza? Credo sia utile avere in Senato una ventina di persone che rappresentino in modo serio il nostro Paese da questo punto di vista. Non chiamiamole eccellenze, che mi fa ridere. Chiamiamole competenze. Testimoni affidabili dell’Italia per la ricerca, la scuola, l’arte. Dove va il Senato senza di loro? Davvero sono troppi venti senatori così?».
La risposta oggi prevalente è sì. La proposta di ventuno senatori non politici, nominati almeno in parte dal Quirinale, sembra tramontata.
«Ma se sono portatori veri di questi valori, non possono non essere politici. Io, nel mio piccolo, come posso fare l’architetto senza essere politico? Non si può essere scienziato o artista senza avere a cuore il bene comune, senza soffrire l’ansia del sociale di cui è bene che tutti soffriamo, da cui è bene che tutti traiamo energia. Non sto difendendo una categoria: come categoria appartengo a una specie in via di estinzione, i senatori a vita non ci saranno più. Ma questa presenza ci vuole, mi sembra importante. E non credo che debba essere il Quirinale a scegliere questi senatori».
Chi dovrebbe sceglierli allora?
«Ci sono vari modi per selezionarli, per creare rose di candidature tratte dall’Accademia dei Lincei, dai grandi atenei, dalle scuole Normali. In Italia abbiamo luoghi di eccellenza che ci consentono di procedere con certezza senza prendere bidoni. All’inizio del ‘900 furono i senatori scienziati, che appartenevano al mondo del lavoro, a sconfiggere in Italia la malaria, una malattia spaventosa diffusa in molte zone. Oggi ci occupiamo della lotta al malessere delle periferie, o alle truffe di Stamina. Nella storia del nostro Paese ci sono sempre stati in Parlamento uomini e donne designati non perché avessero fatto una campagna politica, ma per meriti acquisiti».
La destra obietta che verrebbero tutti dalla sinistra.
«Questo non lo so. Spero di no. Spero ci sia un giusto equilibrio di direzione politica. In ogni caso, più dell’appartenenza è importante la competenza».
Ma il nuovo Senato secondo lei deve essere elettivo, o no?
«Questo per me è terreno fragile. Non sono un politologo. Trovo logico che il Senato sia ridotto nei numeri; che sia meno remunerato; e che sia eletto. Dall’intero Paese o da una grande platea; ma eletto. Nel sistema francese, con cui ho una certa familiarità, la base dei 150 mila grandi elettori, che comprendono tutti i consiglieri comunali e regionali, anzi dipartimentali come è più corretto dire, è talmente ampia che conferisce al Senato una certa rappresentatività. E in Francia non nominano né sindaci né presidenti di Regione, che avrebbero un doppio incarico e quindi farebbero due lavori malfatti. L’idea di un senatore a tempo perso mi pare inconcepibile. Un senatore è uno che deve fare un buon lavoro».
Si potrebbe dire anche di lei che è un “senatore a tempo perso”. O no?
«Il mio caso è diverso. Un senatore a vita fa sempre un altro mestiere. Almeno così ho inteso il ruolo e così lo sto facendo. Io vado regolarmente in Senato. Vado poco in Aula, ma spesso nel mio ufficio, che è a cinquanta metri dall’aula: G124, palazzo Giustiniani, primo piano, stanza 24. Si chiama così anche il sito in cui appare quel che facciamo: renzopianog124.com. Lì ci sono i giovani architetti, che remunero con la mia indennità, e seguono il progetto di “rammendo” delle periferie, che sono le città del futuro. È un tema di cui abbiamo parlato anche con Obama: a New York del resto sto facendo il campus della Columbia University a West Harlem. Ora a Parigi sto lavorando in banlieue: a Nord al nuovo tribunale, a Sud alla nuova sede dell’École Normale Supérieure».
Lei dice che i senatori dovranno continuare a essere pagati, sia pure meno di adesso. Ma Renzi non la pensa così.
«Se hanno un ruolo, se fanno un lavoro, sarebbe una forzatura che non fosse remunerato. Un organismo che funziona bene, senza sprechi e senza privilegi, non costa molto; costa quello che è giusto che costi. Non può essere un Senato “local”, o municipale; semmai può essere “superlocal”, per segnare la nostra appartenenza all’Europa, l’Europa che vogliamo, diversa da quella di oggi. A proposito, è assurdo che il Senato cambi nome. Deve restare il Senato della Repubblica, non diventare il “Senato delle autonomie” o la “Camera delle autonomie”. Sarò un romantico, ma quando ho messo piede per la prima volta nell’aula di Palazzo Madama ho avuto un attimo di orgoglio. Non un orgoglio personale; un orgoglio civico».
E i tagli al costo della politica?
«È giusto fare economie, ma mi pare pericoloso procedere troppo rapidamente. Trovo logico che il Senato non voti la fiducia, né il bilancio. Non deve rallentare la decisione politica, ma darle profondità, visione, legame con la cultura. Oggi il nostro Paese teme il futuro; come se fosse opera del diavolo. L’Italia ha paura di andare nel futuro. Ma chi vuole che ce la porti nel futuro, se non la politica alta, se non un Senato che sia un luogo di esploratori, di inventori, di scienziati, di artisti, di cultori della bellezza, che testimonino i valori umanistici del nostro Paese? Noi siamo nani, ma non facciamo fatica a guardare lontano, perché siamo nani sulle spalle di giganti».
Siamo un Paese importante per la cultura, ma siamo anche un Paese in cui non si riesce a fare una grande opera pubblica senza rubare. Possibile che non ci siano soluzioni? Lei nel suo lavoro di architetto si è mai imbattuto in casi di corruzione?
«Mai. Va detto che lavoro soprattutto all’estero. Sono profondamente avvilito dagli scandali dell’Expo e del Mose, non sorpreso. Il sistema italiano è opaco. Però non è inguaribile. Solo che si deve scatenare una guerra sistematica e senza quartiere alla corruzione e all’evasione fiscale. E’ l’urgenza numero uno assieme a quella del lavoro. Purtroppo finora non vedo una grande attività, né in un campo né nell’altro. Un Paese corrotto ed evasore non va da nessuna parte, nemmeno con un Senato di grandi saggi».

Corriere 8.6.14
E a Palazzo Madama in tanti vogliono tagliare i deputati

Mentre a Palazzo Madama si discute della sua possibile riforma, i senatori passano al contrattacco e propongono una riduzione del numero dei deputati. I tagli a Montecitorio sono stati chiesti da quasi tutti i gruppi politici con degli emendamenti ai testi sulle riforme. Il Pd, con un emendamento della capogruppo in commissione
Affari costituzionali, Doris Lo Moro, e firmato da una cinquantina di senatori, chiede di portare a 500 il numero dei deputati. Sempre sul fronte dei democratici Vannino Chiti ha invece raccolto numerose firme trasversali su due proposte, la prima che fissa il numero a 315 (come l’attuale Senato) e la seconda a 470. La Svp indica come possibile quota 500, Gal e Augusto Minzolini 400. Anche la Lega fa la sua parte: ha presentato molti emendamenti che elencano alcuni numeri possibili. Unico denominatore comune a tutte le proposte dei diversi partiti: invocano una riduzione dei colleghi della Camera.

il Fatto 8.6.14
Grandi opere, grandi retate
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, perché le “grandi opere” invocate da tutti come la soluzione della crisi, lasciano sempre lavori incompiuti e carceri affollate? Federica
SE SI TRATTASSE di un fatto medico si parlerebbe di epidemia. E quando gli esperti hanno buone ragioni per sospettare una epidemia, sanno che a ciò che è accaduto nel recente passato potrà corrispondere una serie uguale o peggiore di eventi nell'immediato futuro. Qui non si tratta di dire che sono tutti ladri, perché ovviamente non è vero. Però certe cose, troppe cose, non si capiscono. Quando si parla di “grandi opere” vige una sorta di ingenua e appassionata attesa. Prima, tutto si celebra, tutto si esalta e più grande è l'opera, intorno a cui in tanti si danno da fare (e non sappiamo come) più le celebrazioni si moltiplicano. Basti pensare alle “grandi opere” in corso, esattamente modellate su Expo e Mose, ma felicemente “in progress” senza disturbi e verifiche. Alcune volte (tante) all'improvviso, dopo decine (centinaia) di arresti con accuse immense, frutto della mancanza di ogni controllo, tutti dicono prontamente due cose: “Fiducia nella magistratura”. E “le grandi opere devono continuare”. Eppure la seconda frase non può essere detta perché le modalità con cui le “grandi opere” in corso non ancora investigate, sono identiche alle modalità che hanno portato alle maxi-retate di Expo e Mose (per parlare solo dei due eventi più recenti, più impressionanti e più strettamente derivati dalla politica). Scrive Corrado Stajano: “Il futuro è incerto, il governo delle larghe intese non è il modello di quella chiarezza di cui il Paese ha necessità (...) Lo Stato si regge su travature tarlate. Aveva ragione Berlinguer, quando sosteneva che la questione morale è questione politica” (il Corriere della Sera, 5 giugno). Nessuno risponderà a queste parole, salvo parlare di “gufi”, “rosiconi” o “sciacalli” per definire coloro che, anche educatamente, dissentono. C'è stato un solo annuncio: la nomina del magistrato Cantone come verificatore di tutto. Nonostante il prestigio e le qualità di Cantone, è possibile? Per esempio, potrà, quel solo magistrato, andare su e giù per il tracciato dell'autostrada privata detta “Corridoio Tirrenico” che divide e spacca la Toscana dalla Maremma a Livorno (e oltre), che ha ricevuto in dono dallo Stato l'intero percorso della via Aurelia, e si affida a una catena di subappalti ad aziende lontane, piccole e ignote? Per avere detto cose come queste, il prof. Gianni Mattioli (docente di Fisica a La Sapienza di Roma e già ministro di Prodi) deve difendersi a sue spese da una causa per diffamazione dei fautori della grande opera, per centinaia di migliaia di euro. E Nicola Caracciolo, presidente di Italia Nostra, è già stato ammonito a non provare a sollevare dubbi, per avere difeso Mattioli, e al Fatto Quotidiano per avere pubblicato la lettera di Caracciolo. Intanto decine di migliaia di espropri di fertili terreni agricoli, uliveti e costruzioni sono già pronti per poter iniziare il proficuo lavoro di cementificazione vista mare, il tutto senza gare e senza concorrenza. E dovrà, potrà Cantone verificare tutto in tempo? Dovrà, potrà andare ad aprire il suo ufficio presso altre grandi opere in corso (inutilmente contestate dai cittadini dei luoghi purtroppo prescelti), dal costo immenso, e con ignote partecipazioni straordinarie, di cui si verrà a sapere, sia pure con grande stormire di media, solo troppo tardi ?

il Fatto 8.6.14
O Incalza o Cantone
di Marco Lillo


Ci sono 820 mila ragioni che rendono Matteo Renzi poco convincente quando promette di fare sul serio contro la corruzione dilagante, dall’Expo al Mose. Ogni giorno sentiamo suonare dai grandi quotidiani le fanfare dell’arrivano i nostri.
Su Repubblica, ieri, Simona Bonafé prometteva: “Chi sbaglia deve pagare”. Sul Corriere, Debora Serracchiani garantiva: “Con la nuova guardia non ci saranno più ambiguità”. Renzi ieri ha assicurato i poteri al super commissario anti-corruzione Raffaele Cantone e ha annunciato il Daspo per i dirigenti che sbagliano. Intanto, però, continua a lasciare al suo posto di Capo della struttura tecnica di missione del ministero delle Infrastrutture, Ercole Incalza. Se Renzi vuole tenere Incalza a comandare la cabina di regia delle grandi opere ha una sola strada: prima deve farsi spiegare dal suo dirigente perché l’architetto Zampolini ha tirato fuori 820 mila euro (520 mila euro in assegni circolari e 300 mila euro in assegni bancari) nel 2004 per pagare una casa al genero del dirigente pubblico, che ha tirato fuori solo 390 mila euro. Nello stesso periodo in cui la Cricca di Anemone pagava parte della casa di Scajola, faceva esattamente lo stesso con la casa scelta dalla figlia di Incalza, mai indagato per questo, anche se Zampolini ha raccontato che andò con lui a fare un sopralluogo in questa casa da sogno: 8,5 vani catastali a due passi da piazza del Popolo, valore reale di un milione e 140 mila euro, come da preliminare curato dal solito Zampolini. Incalza è stato confermato da Lupi nel febbraio 2014, nonostante la storia della casa e nonostante sia indagato a Firenze per la vicenda del Tav, che coinvolge anche l’ex presidente dell’Umbria del Pd, Rita Lorenzetti. Se non vuole perdere la faccia, Renzi prima di creare per decreto la nuova Autorità dovrebbe togliere dal suo posto chiave un dirigente amico di Lupi, che guida le grandi opere da 12 anni. E anche Cantone ha una bella responsabilità: se accetterà di fare il commissario allo stesso tavolo di Incalza, trasformerà la sua bella storia in una brutta foglia di fico.

La Stampa 8.6.14
Le mille e contraddittorie proposte
per cancellare la corruzione
Dalla ghigliottina ai nuovi reati passando per la speranza
di Mattia Feltri

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Corriere 8.6.14
Lo scaricabarile della politica
Troppa ipocrisia sulle inchieste
di Antonio Polito

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Repubblica 8.6.14
“Date l’appalto a quell’azienda finanzia il partito”
Essere un’azienda «vicina» al Partito Democratico poteva servire per avere una percentuale sugli appalti
di Giuseppe Caporale e Fabio Tonacci


VENEZIA. Essere un’azienda «vicina» al Partito Democratico poteva servire per avere una percentuale sugli appalti, dalle parti di Venezia. A volte senza fare nulla, senza nemmeno lavorare. Ne sono un esempio quei 750 mila euro «per finanziare il Pd veneziano», il 6 per cento di una commessa per la mitigazione ambientale della terza corsia della tangenziale di Mestre assegnata alla Sacaim nel 2009, proprio per quello scopo.
Fu l’allora amministratore delegato delle Autostrade di Venezia e Padova, Lino Brentan, ad imporre il dazio. A rivelarlo ai magistrati che indagano sul Mose Stefano Ancilotto, Paola Tonini e Stefano Buccini è stato Mauro Scaramuzza, amministratore delegato della Fip, società capocordata di quel subappalto.
«La Fip era l’aggiudicataria dagli atti di gara. Ma fummo costretti a rinunciare - mette a verbale Scaramuzza - su pressioni da parte di Brentan, il quale voleva che l’appalto invece fosse dato alla Sacaim, ma fosse gestito, di fatto, da noi». Svelandone anche il motivo: «Mi disse chiaramente che questo permetteva a lui di predisporre... di procurare una scorta per il Partito Democratico dell’area veneziana, tramite Sacaim appunto». Una scorta, ovvero «un finanziamento non lecito», spiega Scaramuzza. Salvo poi lamentarsene «perché il partito non gli aveva... non gli era stato grato di questo finanziamento che lui gli aveva procurato ».
È ancora una volta Lino Brentan, già condannato in primo grado nel 2012 e ora indagato per concussione, a tirare dentro il Partito democratico. Lo ha fatto due giorni fa, davanti al gip nell’interrogatorio di garanzia: ha sostenuto che i 65mila euro che Scaramuzza è stato obbligato a dargli erano in realtà un «finanziamento» raccoltodurante una cena di Natale per sostenere la campagna elettorale di Davide Zoggia alle provinciali di Venezia del 2009. «Mai ricevuto quei soldi », ha replicato il deputato del Pd, «Sono tutte fandonie, non ho mai nemmeno conosciuto Baita (Piergiorgio, amministratore della Mantovani arrestato), che non mi risulta essere stato presente alla cena elettorale alla quale ho partecipato».
Nelle carte del Mose il riferimento al Pd è frequente. C’è Zoggia, ma c’è anche soprattutto quando spunta il nome di Giampietro Marchese, consigliere regionale del partito (poi autosospesosi nel luglio del 2013, quando emersero le prime accuse), anche lui ora arrestato. Racconta il presidente del Consorzio Venezia Nuova Giancarlo Mazzacurati: «Per noi era una persona che curava, diciamo, i conti direi della sinistra politica e a me è stato presentato come la persona con cui dovevo parlare per metterci d’accordo sulle dazioni che fossero state necessarie». Spettava proprio a Marchese il compito di attenuare le posizioni spesso critiche del Pd veneziano sul Mose. «...Beh, non è che fosse tutto il Pd contro - ricostruisce Mazzacurati - c’erano varie parti che erano molto favorevoli. Io ne ho trovati parecchi della sinistra ». Ed è sempre Marchese che viene intercettato con una microspia dentro l’auto mentre chiede ad un emissario di Mazzacurati una “milionata di lavori” per una ditta che “mi ha sempre dato... Adesso è in difficoltà e non posso pisciargli addosso”», verbalizzano i finanzieri in ascolto.

Repubblica 8.6.14
Tangenti Bipartisan
Soldi dalla coop rossa al Pdl e il compagno Pio scherzava “Se vado dentro non esco più”
di G. C. e F. T.



VENEZIA. C’è pure la tangente bipartisan in quel teatrino di burattinai, mazzette e miliardi di euro che si è innalzato attorno al Mose. Soldi delle coop rosse, o presunte tali, che finiscono addirittura al Pdl, il partito del centrodestra, il partito di Silvio Berlusconi. A testimoniare, una volta di più, che quello che si è visto nello scandalo Expo non era un caso sporadico, ma la prova della mutazione genetica di alcune cooperative di sinistra, diventate, alla bisogna, dei veri comitati di affari.
«No sai, al partito suo (il Pdl, ndr), gli ho appena portato io 150mila euro», dice Pio Salvioli in un’intercettazione ambientale dell’8 febbraio 2013, dalle parti di Piazzale Roma a Venezia. Salvioli non è un imprenditore, né un uomo che per un motivo o per un altro, per storia, per cultura, o solo per simpatia, è vicino al centrodestra. È un ingegnere trevigiano, con un passato nel Pci prima, nel Pds e nei Ds poi. L’uomo che ha sempre lavorato con le coop, tanto da guadagnarsi il soprannome di “compagno Pio”. Salvioli, nel Consorzio Venezia Nuova, non è nemmeno uno qualunque. Fa parte del consiglio direttivo, è il braccio destro del patron Giovanni Mazzacurati (i due si chiamano quasi ogni giorno) ed è titolare di un contratto di collaborazione firmato con il Co.Ve.Co., il Consorzio “rosso” con sede a Marghera, nato nel 1954 e che oggi riunisce 85 cooperative in tutto il Centro Nord. La quota del Co.Ve.Co. sul Mose non è enorme, appena il 2,63 per cento, ma è affidatario tramite la Clodia delle opere milionarie alla Bocca di Chioggia.
«Sto facendo il giro per distribuire - ride il “Compagno Pio” insieme con Andrea Rismondo, il rappresentante della Selc, altra consorziata con il Co.Ve.Co. - uno di questi giorni mi mettono in galera e buttan via la chiave... Devo andare a riferire al capo supremo (Mazzacurati, ndr) e vedo... però la Maria Teresa (Brotto, ex amministratrice di una società ingegneristica, ndr) mi pare disponibile a dire la verità ». Segue un pezzo di conversazione incomprensibile, poi Salvioli continua: «No ma sai, siccome al partito suo (il Pdl, annotano i finanzieri all’ascolto) gli ho appena portato 150mila euro…e lei sa che gliel’ho portati io…».
Di quale verità sia depositaria la Brotto, non è chiaro. È chiara ai magistrati, invece, la destinazione di quei bigliettoni. Il 7 febbraio, il giorno prima, li ha consegnati a Sutto, un dipendente del Consorzio, il quale li ha portati poi a Renato Chisso, l’assessore alle Infrastrutture e alla Mobilità della Regione Veneto, di Forza Italia. Uno dei tanti modi per ungere il sistema e le pratiche. Ed evitare ostacoli. Ancor più chiara, e sorprendente, è la provenienza del contante: «150mila euro - scrive il gipnell’ordinanza di custodia cautelare - sono stati prelevati da Mario e Stefano Bacheto Boscolo ». Vale a dire il presidente e il consigliere della Cooperativa San Martino, anch’essa nel consorzio rosso Co.Ve.Co., detentrice, attraverso quello, di una quota consistente del 22,4 per cento del Consorzio Venezia Nuova di Mazzacurati. «Gli altri 10mila sono stati dati da Nicolò Buson, ex direttore finanziario della Mantovani».

Repubblica 8.6.14
“Giudici comprati al Consiglio di Stato”
“Giudici comprati al Consiglio di Stato”
di Giuseppe Caporale


GLI imprenditori del Mose compravano le sentenze. E per farlo si affidavano ad un avvocato cassazionista, Corrado Crialese, ex presidente di Fintecna (la finanziaria pubblica per il settore industriale). Si occupava solo di questo Crialese, pagare i giudici. Sia quelli del Tribunale amministrativo regionale, sia quelli del Consiglio di Stato. Agiva per conto delle ditte del Consorzio Venezia Nuova.
È QUANTO mettono a verbale Claudia Minutillo, ex segretaria di Giancarlo Galan (onorevole di Forza Italia ed ex governatore del Veneto) e Piergiorgio Baita, ex presidente della Mantovani, primo socio del Consorzio Venezia Nuova. Una sentenza costava tra gli 80 e 120mila euro. Ma non è tutto. Durante due interrogatori- confessione spunta anche un nome: quello del presidente del Tribunale amministrativo del Veneto Bruno Amoroso. È la Minutillo la prima a parlarne, quando i tre magistrati Paola Tonini, Stefano Ancilotto e Stefano Buccini il 19 marzo 2013 le chiedono conto di una mazzetta di 20mila euro.
IL TARIFFARIO
“Poi, signora, a un certo punto registriamo all’interno del suo ufficio la consegna di una somma di denaro che lei dà a un suo dipendente, da portare a Roma. Siamo nel febbraio del 2013... Insomma, qualche settimana fa, poco prima del suo arresto” dice il pm Buccini. “Sì lo ricordo - risponde la Minutillo - quel giorno, venne in ufficio da noi Corrado Crialese che ha una serie di rapporti importanti, tant’è che lui proprio lui una volta mi disse: sai, forse adesso viene il mio amico Amato, forse lo fanno Presidente della Repubblica. Fu il giorno della grandissima nevicata. E io dissi a Piergiorgio Baita: guarda che forse questo qua viene perché vuole qualcosa. E infatti era così. Bisognava corrispondergli 20mila euro che lui avrebbe fatto avere, diceva, al suo amico presidente del Tar del Veneto, Amoroso”.
“CONDIZIONARE I RICORSI”
Chiede il pm Tonini: “Perché essere consegnata questa somma?”. “Così si poteva influire sui ricorsi - risponde la Minutillo - su alcuni che erano in atto, in particolare quelli sull’Autostrada del Mare. E vincemmo noi. Ma ce n’erano stati anche altri. Maltauro aveva fatto ricorso contro di noi sulla Valsugana, e so che era anche in crisi per questo. Perché (il giudice, ndr) era amico sia di Mantovani (attraverso Crialese) che di Maltauro. Alla fine Maltauro ritirò il ricorso e si misero d’accordo Mantovani e Maltauro. In realtà i ricorsi servivano proprio a questo: un concorrente li fa per costringerti poi a tirarlo dentro. Funziona quasi sempre”. La interrompe il pm Ancilotto: “Ecco, ma allora perché pagare?”. “Perché questo è un sistema consolidato, nel senso che avviene anche ai più alti livelli oltre che al Tar...” risponde l’ex segretaria di Galan. “Senta, è l’unico pagamento fatto ad Amoroso o in passato ne vennero fatti altri dal Baita?” chiede ancora uno dei tre inquirenti. “Ce ne furono altri, come questo cui ho appena accennato: il ricorso della Valsugana, che infatti vincemmo”. Anche Baita, nell’interrogatorio del 28 maggio 2013 conferma tutto. E va oltre. “Conosco Crialese quando come vicepresidente di Fintecna si offre di fare il mediatore nell’acquisto dell’area ex Alumix, dove avevamo un progetto di piattaforma logistica presso il Porto di Venezia. Per favorire la vendita lui chiede una parte in nero, credo 160mila euro. Gli affidiamo poi degli incarichi anche come avvocato per le cause amministrative e oltre al pagamento della parcella ci chiede sempre una parte in nero”. “E come la giustifica questa parte in nero?” chie- dono i magistrati. “Che lui ha i suoi rapporti da...pagare ”.
LA LISTA
E poi fa la lista delle mazzette per i giudici: “Abbiamo pagato sia per alcune sentenze del Consiglio di Stato che del Tar del Veneto. Per la sentenza sulla Pedemontana Veneta 120 mila euro. Per vincere il ricorso contro Sacyr che poi, però, abbiamo perso, 100mila euro... In quel caso qualcun altro deve dato di più. Poi anche per un ricorso contro Maltauro sulla Valsugana. E contro Net Engineering credo altri 80 o 100mila euro. E ancora per la vicenda Jesolo Mare al Consiglio di Stato. Pagavamo sempre, perché Crialese diceva che se non glieli davamo avremmo perso...”. Crialese ora per lo scandalo del Mose è agli arresti domiciliari con la sola accusa di millantato credito.

Repubblica 8.6.14
Cantone avverte “La corruzione nemico più duro della camorra”
Il presidente dell’Autorità anti-tangenti chiede l’alt alle deroghe sugli appalti E sul suo ruolo: “Non ho poteri salvifici”
di Cristina Zagaria


«Potrebbe essere un pentimento storico, capace di aprire squarci sul mondo politico e imprenditoriale. Spesso le mafie sono la manovalanza di poteri più forti. Iovine ci sta dicendo che gli imprenditori lo andavano a cercare. Anche per la mafia bisognerebbe avere il coraggio di adeguare la legge ai tempi».
NAPOLI. «Non c’è qualcuno che abbia poteri salvifici né che abbia la bacchetta magica». Il presidente dell’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone, replica a chi lo chiama «San Cantone», rispondendo alle domande di Liana Milella sul palco della “Repubblica delle Idee”. Cantone non è un santo, ma ha le idee chiare.
Ha incontrato Renzi a Napoli: che gli ha detto?
«Fate i vostri giochi, ma ricordati che ci siamo anche noi e chiediamo garanzie».
Il premier ha promesso che sarà varato un provvedimento sulla corruzione che prevede poteri precisi all’Autorità anticorruzione. Cosa si aspetta?
«Politica è la decisione su cosa deve controllare l’Autorità. È Renzi che deve decidere se possiamo ficcare il naso negli appalti già assegnati o se ci dobbiamo muovere solo sui nuovi appalti. E politica è la scelta di come dobbiamo muoverci e cosa cercare. Voglio dire, il controllo cosa deve riguardare? Deve essere una specie di timbro, come una revisione - spesso falsa - o deve avere un senso?» Non esistono bacchette magiche, ma esistono obiettivi, dunque. Da dove si comincia?
«La corruzione esiste in tutti gli Stati occidentali ed è molto difficile da prevenire. L’azione di contrasto è molto più difficile di quella alla camorra perché spesso gli appalti truccati, sul fronte del rispetto formale delle regole, sono perfetti. Ma qualcosa si può fare, con le norme adatte e correggendo la legge sugli appalti che è fatta male».
Qual è una buona legge sugli appalti?
«Uno dei problemi è quello delle deroghe: perché ormai riguardano praticamente tutti i grandi appalti e perché di lì passano le camarille, le revisioni che gonfiano i capitolati e le consulenze agli amici degli amici alla base del sistema corruttivo».
Torniamo alle sue priorità.
«Per i vecchi appalti capire che margini d’azione abbiamo. Per i nuovi rivedere e ispirare a norme di trasparenza bandi, commissioni, aggiudicazioni ed esecuzioni. Una delle questioni da affrontare da subito, per esempio, è quella della trasparenza nella scelta delle commissioni di gara. Basterebbero degli elenchi di docenti universitari e membri di ordini professionali da cui sorteggiare i membri».
Quale volto ha la corruzione che lei vuole combattere?
«La corruzione tradizionale, quella con il passaggio di mazzette non esiste più, o quasi. Nel Mose sta emergendo un sistema rodato a trecentosessanta gradi. Ma siamo onesti: non è che se cambiamo le leggi, le persone diventano brave. E molte leggi ci sono già. Una parola chiave per me è la trasparenza».
Il Daspo per gli imprenditori come per i politici corrotti è una buona arma?
«Per i nuovi appalti c’è già una norma nella legge Severino che consente alle stazioni appaltanti di cacciare a calci nel sedere chi non rispetta il patto di integrità. La norma c’è, ma non è applicata. La cacciata dalle gare per le imprese “inquinate” è un obbligo, ma è anche una questione tra le più delicate. Di certo si possono creare meccanismi per cui l’imprenditore che ha corrotto non ottenga vantaggi dal reato compiuto. Per la revoca degli appalti poi ci vuole una legge».
Il falso in bilancio va ripristinato?
«Si, con una pena a cinque anni. Il vero tema è quello dei tempi di prescrizione che sono inaccettabile. Comunque ricordiamoci che l’abolizione del falso in bilancio non è stata voluta solamente da Berlusconi. Il mondo dell’imprenditoria ha fatto festa. Dopo Tangentopoli pezzi di classe dirigente hanno fatto di tutto per smontare il sistema dei controlli, la politica è stata solo il braccio operativo ».
Come la corruzione, anche la camorra è cambiata. Il pentimento del boss di Gomorra, Iovine, sta aprendo scenari inaspettati.

Repubblica 8.6.14
“La corruzione è un peccato del mondo” mi ha detto Francesco
di Eugenio Scalfari



IN UN colloquio che avemmo lo scorso mese di marzo, parlando del peccato Papa Francesco mi disse la frase che qui riferisco letteralmente: «I peccati del mondo sono l’ingiustizia e la prevaricazione. Io li chiamo concupiscenza, cupidigia di potere, desiderio di possesso. Questi sono i peccati del mondo e dobbiamo combatterli con tutte le forze di cui disponiamo».
Questi peccati indicati da Papa Francesco si servono di alcuni strumenti per esser commessi, il principale dei quali si chiama corruzione. Si tratta certamente di peccati del mondo ma in Italia sono più diffusi che altrove, anche se non sempre vengono a galla.
Vent’anni fa scoppiò lo scandalo che fu chiamato Tangentopoli. Sembrava che fosse riuscito a bonificare la palude della corruttela pubblica, i suoi miasmi e il malaffare che ne derivava. I partiti più implicati e gli imprenditori più compromessi furono travolti. Tutto era cominciato nel 1992 e fu sull’onda del malcontento popolare abilmente cavalcato che ebbe inizio il berlusconismo. Certo non volevano questo i magistrati che avevano sperato d’aver liquidato il malaffare, ma sta di fatto che il frutto che uscì da Tangentopoli era ancor più velenoso di quelli che c’erano stati prima.
La differenza - se questa parola vogliamo usarla - consiste nel fatto che all’epoca di Tangentopoli lo scandalo consisteva almeno per il 70 per cento in denari trafugati per finanziare i partiti e solo il 30 (e forse anche meno) finiva nelle tasche dei mediatori.
COL berlusconismo le cose cambiarono e la refurtiva finì interamente in tasche private. Moralmente si tratta di una differenza assai poco percettibile ma comunque oggi è peggio di ieri. Quelli che allora erano i mediatori, gli affaristi, gli intermediari in tasca ai quali finivano gli spiccioli adesso lavorano in proprio col potente di turno. Si sono formate lobby delinquenziali, mafie d’alto bordo e le abbiamo viste al lavoro nella (mancata) ricostruzione de L’Aquila, nella scandalosa gestione della Protezione Civile di Bertolaso e soci, negli appalti all’isola della Maddalena, nell’Expo di Milano e infine, proprio in questi giorni, nella più bella e più pestilenziale laguna del mondo. Lo scandalo del Mose è probabilmente il più eclatante, non tanto per l’ammontare delle cifre che pur sono assai consistenti, ma sicuramente per la quantità e la qualità delle persone coinvolte. Ci sono, come hanno scritto nei giorni scorsi i nostri inviati, squali, piranha e pesci piccoli. Sono compromessi il sindaco della città, gli azionisti del consorzio Venezia Nuova che è l’unico concessionario dell’opera, il direttore generale del predetto consorzio, un generale che fu comandante della Guardia di Finanza e perfino - perfino - il magistrato della Corte dei Conti distaccato in quella città. Il partito più rappresentato in questa schiera di corrotti-corruttori è, ovviamente, Forza Italia e Galan che fu tra i fondatori scelto per il Veneto - vedi caso - da Dell’Utri; ma anche il Pd è nel novero perché il sindaco non è un iscritto al partito ma la sua lista fu sponsorizzata dai democratici. Era molto stimato dal Patriarca che infatti lo aveva insignito del titolo onorifico di Procuratore di San Marco. Che volete di più?
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La corruzione in quanto reato si combatte in tre modi e in tre momenti distinti: la prevenzione, l’inchiesta, la punizione dei colpevoli, esattamente come si combattono tutte le malattie. L’altra sera l’ex procuratore di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, ha lamentato, nel corso della trasmissione “Otto e mezzo” l’assoluta mancanza di prevenzione. Non esiste ancora una vera ed efficace legge contro la corruzione, sono state anzi varate in questi anni le turpi leggi ad personam che sono uno dei frutti devastanti del berlusconismo ed hanno abolito il reato di falso in bilancio, ridotto il periodo di prescrizione, non istituito il reato di riciclaggio e via numerando; leggi che non solo non contrastano ma facilitano e incentivano la corruzione. Massimo Giannini, su questo giornale di giovedì scorso, ha esaminato dettagliatamente la mancanza di prevenzione e le cause imperdonabili del ritardo dei governi; berlusconiani prima e post-berlusconiani poi, ma pur sempre condizionati dalle “larghe intese” e perfino dalle “piccole intese” succedute (o affiancate) alle precedenti. Evidentemente non è chiaro l’ordine di priorità dei provvedimenti dei quali il nostro paese ha maggior bisogno. Sono: la creazione di nuovi posti lavoro, l’incentivazione di nuovi investimenti, un moderno sistema di ammortizzatori sociali, la prevenzione della corruzione.
Tutto il resto viene dopo perché non serve né a rilanciare la crescita né ad attutire la rabbia sociale. Quando lo scandalo del malaffare emerge i fatti ovviamente sono già avvenuti, le Procure e i giudici operano quando il reato è già stato consumato. È il lavoro preventivo che può evitare che sia commesso, un deterrente ben studiato e ben formulato in norme di legge. Qualche tentativo fu fatto ma venne stravolto in Parlamento e i governi non seppero impedirlo perché i sabotatori erano inseriti nei posti di comando e impedivano che i motori venissero accesi come si sarebbe dovuto fare.
Urge che un intervento decisivo venga immediatamente effettuato con priorità assoluta se non si vuole resuscitare un grillismo mettendo di nuovo in gioco la democrazia che è uscita rafforzata dalle recenti elezioni europee.
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Se le cose vanno in questo modo forse è necessario allargare un poco il nostro quadro mentale; forse non basta parlare di governi e di parlamenti insidiati da contrasti interni e di insufficiente o addirittura mancante lavoro di prevenzione; forse bisogna parlare del cosiddetto popolo sovrano.
Quasi il 40 per cento del nostro popolo sovrano si è astenuto dal voto nelle ultime elezioni. Il 20 o anche il 30 per cento di astensione è fisiologico, ma al di là di questo limite no, saremmo e siamo davanti a un evento che va guardato con attenzione.
Se poi osserviamo i votanti che scelgono movimenti e partiti e leader populisti, cioè demagoghi che promettono e non mantengono o addirittura fanno il contrario di ciò che a parole hanno promesso, allora è segno che quel popolo sovrano ha abdicato dalle sue funzioni. Del resto nella terminologia dell’economichese anche il debito pubblico si chiama sovrano. Popolo sovrano, debito sovrano: non vi sembra un gioco da bambini in cerca di sciarade?
Purtroppo è una dura e cruda verità. Questa mattina a Napoli dove mi trovo al festival della Repubblica delle Idee, discuterò anche di queste questioni con Roberto Benigni. Francamente non potrei trovare un interlocutore più adatto: Benigni è un comico di eccezionale cultura, che mette la sua comicità a servizio della conoscenza e proprio per questo avrò (e avranno quelli che lo ascolteranno) molto da imparare da lui.
Lo anticipo con dei versi d’un poeta - Trilussa - che anche lui metteva il cosiddetto popolo sovrano allo specchio affinché si guardasse e si emendasse se possibile. Di questi versi avevo già parlato tempo fa, ma ora trascrivo il brano finale della poesia (romanesca) intitolata “L’incontro tra li sovrani”. Mi sembra quanto mai attuale. Leggete, divertitevi ed emendatevi se c’è bisogno di farlo.
« Stai bene? Grazzie. E te?
e la Reggina? Allatta.
E er Principino? Succhia.
E er popolo? Se gratta.
E er resto? Va da sé...
Benissimo! Benone!
La Patria sta stranquilla; annamo a colazzione...
E er popolo lontano, rimasto su la riva, magna le nocchie e strilla: Evviva, evviva, evviva...
E guarda la fregata sur mare che sfavilla » .

La Stampa 8.6.14
Renzi: “Responsabilità anche del Pd”
La rivolta della vecchia guardia: “Non siamo la bad company Pd”
Stumpo e D’Attorre: nuovo non significa migliore
di Carlo Bertini


Proprio ora che il partito è volato al 41% e che si cerca di stringere i bulloni negli assetti per avere una squadra più compatta in Parlamento l’aria al Nazareno è tornata irrespirabile. Il premier lancia un segnale chiaro ai suoi per sedare gli animi. Ma ai giovani quarantenni della vecchia guardia, che hanno ricoperto incarichi di peso con Bersani, non va giù questa distinzione tra vecchio e nuovo corso sull’approccio alla legalità praticata dai renziani di vario conio. E se tengono a freno la lingua è per evitare un frontale in una fase in cui si sta discutendo di come strutturare un partito più unitario. Una fase che da lunedì entrerà nel vivo con incontri tra il vicesegretario Guerini e le minoranze bersanian-dalemiane e «turche» per arrivare ad un accordo globale sulla segreteria e sulla presidenza dell’assemblea nazionale, da mettere ai voti sabato prossimo.
Certo, basta citare quel che dice l’ex responsabile organizzativo Nico Stumpo per capire come nel ventilatore di largo del Nazareno volteggino veleni e recriminazioni, «perché nella vecchia guardia c’è tanta gente per bene, così come nella nuova». Tradotto, se ci sono mele marce non è che siano solo da una parte e dall’altra no, fa capire Stumpo. Che si compiace della presa di distanza del premier rispetto alle parole del suo braccio destro Luca Lotti sul sindaco Orsoni non iscritto al Pd. «Renzi è riuscito a fare chiarezza nelle ombre che alcuni dirigenti della sua gestione avevano messo in campo». Insomma, l’avvertimento è di non provare a «costruire una bad company e una new company, perché se c’è un problema è tra chi ruba e chi no». E se si deve parlare di Orsoni, «ha partecipato a tutte le primarie e quindi è per statuto uno dei nostri. Non si pensi che scaricando le responsabilità su chi sia o meno iscritto si risolva il problema». Con una rasoiata finale. «Orsoni anche in quanto elettore è del Pd un soggetto attivo, non è autoflagellazione ma se il tema è essere iscritti del Pd, considerando che ad oggi il tesseramento ancora non è partito, sicuramente nessuno potrebbe essere coinvolto in niente».
Ed è ancora più duro Alfredo D’Attorre contro questa lettura «ridicola tra vecchio e nuovo. Capisco si debba dire ecco il nuovo corso del Pd, ma non si può dare lontanamente l’idea che chi ha gestito prima il partito fosse meno determinato e impegnato contro la corruzione». E i bersaniani lanciano una controffensiva al premier sul rapporto con Berlusconi, perché «ora bisogna passare dalla fase di indignazione ai fatti con tre impegni su falso in bilancio, allungamento dei termini della prescrizione per i reati contro la pubblica amministrazione e autoriciclaggio. Tre anomalie che ci ha portato Berlusconi e si tratta di andare avanti che piacciano o meno a lui. Il nodo politico è questo». Anche Beppe Fioroni, l’unico degli ex big che alla Camera ha votato contro l’arresto di Genovese, conviene che «un partito che prende il 41% e fa distinzione tra noi e voi non è all’altezza dei consensi ricevuti. E voglio credere che figure come la Serracchiani o la ex portavoce di Bersani, Moretti, che nel Pd di ieri hanno avuto importanti responsabilità, pensassero anche allora e non solo oggi che la legalità fosse al primo posto».
E c’è poi chi sostiene, come il capogruppo Pd in commissione Giustizia, Walter Verini, veltroniano doc, che «l’essenza della questione morale berlingueriana sia tenere fuori i partiti dalle nomine negli enti: non far più nominare ai sindaci i capi delle municipalizzate, questa sarebbe una rivoluzione vera».

Corriere 8.6.14
Lite tra nuovi e vecchi del partito «Diversità etica finita con il Pci»
I bersaniani: assurdo far passare Orsoni per criminale
di Alessandro Trocino


ROMA — Sono passati 30 anni esatti dalla morte di Enrico Berlinguer, avvenuta sul palco a Padova, il 7 giugno del 1984. Trent’anni dalla sua scomparsa e dall’affermazione della diversità morale dei comunisti. Anniversario che si celebra in un clima cupo, con un Partito democratico scosso dall’arresto del sindaco di Venezia Giorgio Orsoni e in preda a un dibattito nervoso. Un duello verbale interno che contrappone la vecchia e la nuova guardia, l’apparato bersaniano-dalemiano e le forze fresche renziane.
Non sono passate inosservate certe dichiarazioni di renziani, che hanno spiegato come con il nuovo corso non ci saranno più ambiguità. Come se il passato autorizzasse un contagio da zona grigia, una pericolosa contiguità con l’impurità affaristica. Ieri Matteo Renzi ha ammesso che anche nel Pd ci sono responsabilità e che non ha senso la distinzione «noi e loro». Del resto Orsoni, di cui Beppe Grillo ha pubblicato una foto con Bersani, è stato eletto con le Primarie e ha appoggiato Renzi. Sulla stessa linea del leader si schiera Lorenzo Guerini, vicesegretario del Pd: «Noi e loro è un modo sbagliato per impostare la riflessione. C’è un dopo che riguarda tutto il Pd, nella sua interezza. L’eticità della politica non è una clava da brandire nel confronto interno». Quanto alla famosa diversità morale (già oggetto dell’ironia amara morettiana, con il suo «siamo uguali ma diversi»), Guerini è di un’altra generazione e decisamente lontano da una certa spocchia del passato: «Il tema della correttezza e della dimensione etica riguarda tutti e non credo che nessuno si debba ergere a professore. Non è il caso di usare superficialmente il tema della questione morale di allora. Non abbiamo bisogno di formule retoriche, ma di meccanismi politici, culturali e normativi per impedire che certe cose si ripetano. Perché queste sono sfide che non si vincono una sola volta».
La purezza antropologica non esiste, sottintende Guerini, e il contagio del malaffare va combattuto ogni giorno. Per questo non nasconde un certo nervosismo Nico Stumpo, da sempre vicino a Bersani: «Renzi ha fatto un giusto intervento che supera alcune dichiarazioni sconvenienti e infantili di questi giorni. Non ci sono due Pd: c’è chi ruba e chi non ruba». Ma Stumpo ha altro da dire. Sulle Primarie, per esempio, con le quali è stato eletto Orsoni: «Io non sono uno di quelli che le ha esaltate acriticamente, come fossero un toccasana. Né chiedo di abbandonarle: sono solo uno strumento». E sul garantismo: «Mi sempre un po’ affrettato far passare Orsoni da sindaco di Venezia a criminale comune. Il garantismo deve valere per tutti e fino al terzo grado. Se risultassero fondati gli addebiti naturalmente sarebbero gravi». Quanto alla diversità comunista, «è morta con il comunismo, ma il Pd è più attrezzato di altri nel combattere il malaffare».
Chi può chiamarsi fuori dal duello sterile interno, non essendo «vecchio» ed essendo all’opposizione del «nuovo», è Pippo Civati: «Che tristezza questo derby. Non mi interessa il vecchio film degli ex Margherita che rinfacciavano agli ex Ds il caso Penati e degli ex Ds che a loro volta rinfacciavano il caso Lusi. Piuttosto interveniamo su appalti, fondazioni oscure, selezione della classe dirigente». Chi non ci sta a veder trascinato il partito nel fango è Nicola Latorre: «È una follia dire che il Pd sia organico alla corruzione. Siamo estranei a questo sistema. Certo, se ci sono singole personalità responsabili, che si mandino fuori a pedate, come dice Renzi. Ma non mi ergerò mai a giudice etico e ricordiamoci che ci sono stati diversi casi di personalità finite sui giornali e poi assolte».
La bersaniana Chiara Geloni non ha apprezzato la dichiarazione di Luca Lotti, che aveva spiegato come Orsoni sia indipendente e non iscritto al Pd: «Orsoni non è del Pd? Parole che sono una palese violazione del nostro statuto. Che dice come il Pd sia un partito costituito da iscritti ed elettori». Se la politica è sotto accusa, anche la società civile ha le sue colpe. Alessia Morani prova «amarezza, rabbia e schifo» e chiede «un sano ricambio». Ma anche un intervento su «un certo modo di fare impresa che nuota nel brodo melmoso dell’illegalità».

Corriere 8.6.14
«A Genovese 10 mila euro al mese»

Ha diritto a percepire l’indennità da deputato, circa 10 mila euro al mese, nonostante Francantonio Genovese (nella foto a sinistra ), eletto con il Pd, sia attualmente agli arresti domiciliari per una vicenda che riguarda reati di associazione a delinquere, riciclaggio, peculato e truffa. Secondo quanto deciso dai questori dell’Ufficio di presidenza della Camera, infatti, verranno sospesi solo i rimborsi previsti dalla carica parlamentare, ma non la sua indennità di carica. Sono stati i parlamentari del Movimento 5 Stelle Claudia Mannino, Luigi Di Maio e Riccardo Fraccaro a denunciare la vicenda sulla Rete. «Abbiamo assistito — ha scritto Claudia Mannino sul suo profilo Facebook — a una prosopopea dei questori che affermavano che “siccome non c’è una normativa specifica, si sono attenuti alla prassi”, ovvero a seguito dell’arresto di Genovese gli verranno sospesi tutti i rimborsi ma continuerà a prendere l’intera indennità di carica per starsene agli arresti domiciliari».

Corriere 8.6.14
Spinelli: vado in Europa
Lista Tsipras nel caos fuori il candidato di Sel
Assemblea critica: le scelte si fanno insieme
di Giovanna Cavalli


ROMA — I due che stavano più sulle spine sono i potenziali successori, ovvero i più votati dopo di lei, Eleonora Forenza (Rifondazione comunista) e Marco Furfaro (Sel) che si ritrovavano a contendersi il seggio rimasto, dopo che Barbara Spinelli, la trascinatrice della Lista Tsipras con 37.056 preferenze, ha cambiato idea. Alla fine l’escluso è il candidato di Sel, primo dei non eletti nella circoscrizione Centro. Spinelli non rinuncia più alla carica di parlamentare europeo, anzi ci va. Lo ha confermato ieri sera con un comunicato. «Andrò al parlamento Ue, anche se le pressioni sono state molto forti e contrastanti». Eletta nelle circoscrizioni Centro e Sud, ha tagliato fuori il candidato di Vendola, con prevedibili malumori di quella parte. Lei commenta: «I tanti elettori di Sel approveranno e comunque accetteranno una scelta che è stata molto sofferta».
La questione ha parecchio infiammato l’assemblea dei comitati territoriali del movimento, riuniti ieri alla Sala Umberto di via della Mercede,alla quale l’intellettuale non ha partecipato, nemmeno in teleconferenza. È rimasta a Parigi. In caso di mancata scelta del collegio, scaduto il termine (una settimana) la Cassazione avrebbe estratto a sorte. «La soluzione del sorteggio non era accettata dalle parti in causa e mi è quindi apparsa una prevaricazione, oltre che una crudele roulette russa», ha spiegato la Spinelli, motivando così la lunga pausa. «Ora la mia speranza è che le discussioni e le diatribe finiscano».
Insomma. Questa sua assenza prolungata («Non la sento da dieci giorni», ammette persino il portavoce Luca Faenzi) ha indispettito la base che la accusa di restarsene «chiusa nella torre d’avorio».
Prima delle elezioni, la giornalista considerava la sua una candidatura di mero «traino», pronta a cedere il posto (anzi i due posti) ai secondi più votati. Poi l’insistenza degli altri garanti (lo è anche lei) Grevelli, Viale, Panagopoulos e soprattutto Gallino, l’ha indotta a dire sì a Strasburgo/Bruxelles. Avrebbe voluto felicitarsi con lei Sabina Guzzanti, che però si è confusa ed ha sottoscritto un appello contrario. «A forza di firmare appelli ho firmato quello sbagliato. A Bruxelles c’è bisogno di lei», si è corretta poi su Twitter.
Tuttavia nemmeno i co-garanti, a quanto pare, vorrebbero lasciare il telecomando alla candidata. E dopo ore di discussione ecco uno stralcio illuminante del documento conclusivo dell’assemblea: «L’obiettivo lo abbiamo raggiunto tutti insieme. Per questo chiediamo che le scelte e le responsabilità — anche quelle in apparenza più personali come l’accettazione o meno di un seggio — vengano prese nella consapevolezza del fatto che sono parte di un processo collettivo».
Protettivo e ancora grato, Argyrios Panagopoulos dice che «siamo tutti contenti che Barbara abbia scelto di andare al parlamento europeo, Tsipras per primo, saremo più forti. Sparita? Ma no, ci è rimasta male per le critiche, è un tipo sensibile. Però è bene che a scegliere siano i garanti, con i due candidati». Meno tenera Paola Bacchiddu, l’ex portavoce bacchettata dalla Spinelli per la foto in bikini: «Era sbagliato presentarsi come capolista pensando poi di rinunciare. Ma dire largo ai giovani e poi adesso accettare la poltrona non è giusto, è una truffa».

Repubblica 8.6.14
Spinelli va in Europa, l’ira di Sel
di Matteo Pucciarelli



MILANO. Barbara Spinelli ha deciso: siederà in europarlamento con la sinistra del Gue, insieme e a sostegno del leader greco di Syriza Alexis Tsipras. E a rimetterci sarà Sel. La sua doveva essere una candidatura di servizio, ma adesso per la giornalista si prospetta un ruolo di prestigio: la vicepresidenza della Commissione Europea. Il nome della figlia di Altiero, uno dei padri dell’Europa, ha infatti un forte ascendente anche sul Pse. «Il Parlamento in cui intendo entrare - dice Spinelli - dovrà, su spinta della nostra Lista e delle pressioni che essa eserciterà in Europa e in Italia, essere costituente. Dovrà lottare accanitamente contro lo svuotamento delle democrazie e delle nostre Costituzioni, a cominciare da quelle italiane e dal vuoto democratico che si è creato in un’Unione che non merita, oggi, il nome che ha». Parlando poi della decisione di andare a Bruxelles, la Spinelli si dice certa «che i tanti elettori di Sel, battutisi con forza per la nostra Lista, approveranno e comunque accetteranno una scelta che è stata molto sofferta, visti i costi che saranno sopportati dal candidato del Centro designato come il primo dei non eletti».
Il cambio di rotta rischia però di mandare in frantumi il già complicato tentativo di unità delle sinistre oltre il Pd. Nemmeno il tempo di festeggiare il superamento della soglia del 4% dell’Altra Europa. Il gioco delle preferenze (al netto della rinuncia di Spinelli) aveva accontentato tutti: un eletto della società civile, il giornalista Curzio Maltese di Repubblica ; uno di Sel, Marco Furfaro; una di Rifondazione, Eleonora Forenza. Invece ora Spinelli, capolista nelle circoscrizioni Italia centrale e meridionale, ha deciso di optare per il centro, e così resta fuori Furfaro: «Al Sud non ero capolista, ma seconda dopo Ermanno Rea, e da molti verrei percepita come “paracadutata” dall’alto. Mi assumo l’intera responsabilità di quest’opzione, che mi pare la più giusta, nella piena consapevolezza del prezzo che essa comporterà. Io volevo fare il sorteggio ma avete detto di no». Così scrive Spinelli in una lettera aperta. Ma la reazione della platea riunita ieri al teatro Umberto è stata di assoluta sorpresa: «E questa che democrazia è?». Critiche anche dal comitato di Milano.
Nei giorni scorsi su internet si erano fronteggiati due appelli: uno affinché Spinelli mantenesse la parola e rinunciasse al seggio; un altro affinché Spinelli accettasse il seggio, «per unire società civile e mondo dei partiti». «Considero questa scelta grave - dice il coordinatore di Sel Nicola Fratoianni - perché sottratta a un percorso collettivo. Sequestrato in modo autoritario da un singolo. Uno stile deludente e un po’ miserabile perché Spinelli mai si è confrontata con nessuno».
E mentre Sabina Guzzanti firmava il primo degli appelli ma in realtà voleva optare per il secondo («scusate, a furia di firmare appelli mi sono sbagliata...», ha scritto su Twitter) Maltese dalla “Repubblica delle idee” esprimeva soddisfazione: «Bella notizia. Meglio Barbara di Iva Zanicchi».

il Fatto 8-6-14
Spinelli ha deciso: andrà a Strasburgo. Sel fuori
di Tommaso Rodano

Alla fine dell’ennesima giornata di patemi, Barbara Spinelli ha reso ufficiale la scelta di accettare il seggio al Parlamento europeo. Lo ha fatto con una lettera inviata alla lista Tsipras decidendo di optare per il Centro e quindi lasciando fuori il candidato di Sel, Marco Furfaro.
“Ho molto meditato quel che dovevo fare, scrive Spinelli, ma “ritorno sulle mie decisioni: accetterò l’elezione al Parlamento europeo, dove andrò nel gruppo Gue-Sinistra Europea”. Nonostante avesse dichiarato di non voler andare a Strasburgo, “la quantità di preferenze” ottenuta, circa 78 mila, ma anche il fatto “che la situazione politico-elettorale stava precipitosamente cambiando” ha indotto il ripensamento. Spinelli pensa a un impegno per un Parlamento europeo “costituente” che “dovrà lottare accanitamente contro lo svuotamento delle democrazie e delle nostre Costituzioni”. A convincere la figlia di Altiero Spinelli è stata “anche la lettera di Alexis Tsipras” ai molti “che sono delusi” risponde che “i patti si perfezionano per volontà di almeno due parti e gli elettori il patto non l’hanno accettato, accordandomi oltre 78.000 preferenze”. Infine, la scelta del collegio, quello del Centro, “è il mio collegio naturale, la mia città è Roma. È qui che ho ricevuto il maggior numero di voti. A Sud non ero capolista ma seconda dopo Ermanno Rea, e da molti verrei percepita come ‘paracadutata’ dall’alto”. Un grazie a Marco Furfaro “certa che i tanti elettori di Sel, battutisi con forza per la nostra Lista, approveranno e comunque accetteranno una scelta che è stata molto sofferta”.
LA LETTERA ARRIVA dopo la conclusione dell’assemblea nazionale dei comitati della Lista Tsipras, circa 300 persone nella sala Umberto di Roma. Assemblea che non sa ancora della lettera ma che si basa sulle voci dei giorni scorsi. Tra le quali, l’annuncio fatto nel pomeriggio da Curzio Maltese alla festa di Repubblica “Barbara andrà, meglio lei di Iva Zanicchi” dice. La riunione quindi si trasforma in un “processo”. Dal palco, Guido Viale si limita ad annunciare che “Barbara Spinelli deciderà da sola, in modo unilaterale, per quale circoscrizione optare”. E quindi quale dei due partiti escludere dal Parlamento Europeo. Una scelta non apprezzata dall’assemblea che alla fine decide di adottare un documento polemico nei confronti della sua capolista: “Abbiamo contribuito con grande fatica e non pochi sacrifici a dare corpo e gambe a questo progetto (...) ora appartiene a tutti noi, non solo al comitato operativo, non ai soli candidati, non ai soli garanti (...) Per questo chiediamo che le scelte e le responsabilità vengano prese nella consapevolezza del fatto che sono parte di un processo collettivo”. Traduzione: “Barbara Spinelli non può decidere da sola, a nome di tutta la Lista Tsipras”. Alla fine, la lettera. Che ha già cominciato a far discutere, polemizzare, litigare. Il destino beffardo della sinistra italiana.

l’Unità 8.6.14
Spinelli sceglie di tenere il seggio
Psicodramma in casa Tsipras


«Ognuno deve fare quello che sa, e io mi esercito nella scrittura, nello smascherare le falsità che vengono dette in politica. So fare solo questo. Non so fare politica», spiegava autorevolmente Barbara Spinelli, ai primi di marzo, nella conferenza stampa di lancio della lista Tsipras. «Ho pensato che questa idea di Europa e queste idee dovevo usarle in modo diverso, non per cominciare un altro mestiere ma per metterci la faccia. La questione della visibilità che in qualche modo io ho è stata centrale nella decisione. Con la mia scelta, questa visibilità è data a tanti invisibili, a tanti combattenti d’Europa. Per questo non ritengo che si tratti di un inganno per l’elettore».
Gli invisibili, per ora, possono aspettare. Già, perché Spinelli i voti li ha presi e adesso avrebbe deciso di entrare al Parlamento europeo, sollecitata dallo stesso Tsipras che vorrebbe proporla come vicepresidente. La conferma è arrivata ieri da Curzio Maltese, altra new entry a Strasburgo con la stessa lista. Lui il seggio l’ha ottenuto perché Moni Ovadia, come promesso prima del voto, ha rinunciato. Spinelli invece no. «Meglio Barbara di gente come Iva Zanicchi o Mastella», dice Maltese, con un argomento inoppugnabile. Ma il problema è che Spinelli ha gettato i partner della lista nel caos. Da giorni si è ritirata a Parigi e non risponde al telefono ai compagni che la cercano per sapere se opterà per il collegio del Centro o del Sud: nel primo caso resterebbe a casa il trentenne Marco Furfaro, unico eletto di Sel; nell’altro una giovane esponente di Rifondazione, Eleonora Forenza. Una poltrona per tre, dunque, e una sinistra in pieno psicodramma, a partire da Sel e Prc.
«Desaparecida», è uno degli epiteti usati ieri per Spinelli al teatro Umberto di Roma, dove si sono riuniti i promotori della lista. È stato partorito anche un documento per chiedere che «le scelte e le responsabilità - anche quelle in apparenza più personali come l’accettazione o meno di un seggio - vengano prese nella consapevolezza del fatto che sono parte di un processo collettivo». «Questo processo appartiene a tutti noi», grida il documento, mentre i presenti sono basiti: «Non ci ha fatto neppure una telefonata...».
La base, come da tradizione, si è spaccata in più rivoli, con appelli in rete pro e contro l’ingresso di Spinelli all’Europarlamento. Con anche alcune note comiche. Come quella di Sabina Guzzanti: «Ho fatto una cazzata, a forza di firmare appelli ho firmato quello sbagliato. Io sono per Barbara Spinelli a Bruxelles, c’è bisogno di lei», ha twittato ieri. «Pessima abitudine mettersi a giocare col cellulare di prima mattina. Qualcuno sa se si può cancellare la firma?», domanda in affanno Sabina nel successivo post. Nel frattempo Spinelli sembra incurante di tutto questo fermento, o comunque non interviene. Salvo per comunicare al Corriere di voler togliere a sua volta la firma da un appello. Di che si tratta? Della candidatura di Juncker alla presidenza della Commissione Ue. Spinelli aveva aderito, per una questione di principio, e cioè di lasciare agli elettori la scelta del prossimo presidente (e dunque il candidato del partito più votato). Poi però ci ha ripensato. «Juncker rappresenta la continuità della politica del rigore», scrive Spinelli. La firma dunque è ritirata. E non sarà certo l’ultima.

La Stampa 8.6.14
La Spinelli non rinuncia al seggio di Bruxelles


Barbara Spinelli, eletta con la lista Tsipras, al Parlamento europeo ha deciso di non rinunciare al seggio come sostenuto in un primo momento. È stato Curzio Maltese a dare la notizia: «Barbara ci ha ripensato, io sono molto contento di questo - ha detto Maltese - , è una grande esperta di temi europei. Meglio lei di Iva Zanicchi o Clemente Mastella». La decisione della Spinelli però impedisce l’ingresso nell’emiciclo di un esponente di Sel o Rifondazione e i dissi con Claudio Fava in testa, salgono sulle barricate. Infatti se così dovesse essere, Spinelli dovrà scegliere chi lasciare indietro, se Marco Furfaro di Sel (primo dei non eletti della Circoscrizione Centro) o Eleonora Forenza di Prc (primo dei non eletti della Circoscrizione Sud).

Corriere 8.6.14
L’aeroporto torna di Pio La Torre

Ieri a Comiso, nel Ragusano, il presidente del Senato, Pietro Grasso e il ministro della giustizia, Andrea Orlando, hanno svelato la targa che ufficialmente intitola l’aeroporto a «Pio La Torre», il segretario del Pci siciliano ucciso dalla mafia il 30 aprile del 1982. Lo scalo, che in passato è stato anche una vecchia base militare, gli era già stato intitolato nell’aprile del 2007 ma l’anno dopo la giunta comunale di centrodestra aveva ripristinato l’antica denominazione «Vincenzo Magliocco». «Pio La Torre era prima di tutto un siciliano — ha detto Pietro Grasso — che ha dato tanto per la sua terra. Sono orgoglioso di essere presente a questa cerimonia alla quale partecipo in maniera sentita e solenne». «Come siciliano — ha aggiunto Grasso — ho vissuto con rammarico la vicenda. È stato contestato che era un politico, ne avessimo oggi di politici così...».

Corriere 8.6.14
In Sicilia finiti i posti e i soldi per i migranti
Nuova circolare del Viminale. Strasburgo: l’Italia preveda altri centri d’accoglienza
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Sono quasi tutti profughi, tutti bisognosi di assistenza. Sono più di 45mila, entro la fine dell’estate potrebbero diventare 100mila. Uomini, donne e bambini in cerca di aiuto che approdano sulle nostre coste a ritmi mai registrati prima. Portati sulla terraferma dalle navi dell’operazione «Mare Nostrum» che ormai fanno la spola nel Mediterraneo e ne sbarcano in media 800 al giorno. La maggior parte proviene dall’Eritrea, poi ci sono i siriani, i malesi. Salpano in Libia, dall’inizio dell’anno quasi 50mila hanno trovato posto su uno dei barconi che a decine ogni settimana lasciano i porti e le spiagge, con scafisti consapevoli che a metà del tragitto basterà lanciare l’Sos e attendere i soccorsi. Ma i posti per l’accoglienza non bastano e soprattutto sono ormai finiti i finanziamenti. Il grido di allarme che arriva dai sindaci siciliano non lascia spazio ai dubbi. «Siamo radicalmente fuori controllo, in un dramma disumano. Le chiacchiere si sprecano, la credibilità delle Istituzioni europee e dei Governi è vacillante. Ormai siamo di fronte a numeri insopportabili», denuncia il sindaco di Porto Empedocle Lillo Firetto.
La circolare ai prefetti
Il 9 aprile scorso, di fronte «al perdurante e massiccio afflusso di migranti e a seguito dell’intensificarsi degli sbarchi di queste ultime ore» il ministro dell’Interno Angelino Alfano aveva trasmesso ai prefetti una circolare per il reperimento di strutture pubbliche «per fare fronte alla situazione di congestionamento e saturazione dei centri di accoglienza governativi». Il titolare del Viminale specificava la «necessità di procedere all’ampliamento da 9.400 a 19mila posti per i richiedenti asilo e i rifugiati e a una ulteriore espansione del Piano nazionale di distribuzione dei migranti». Le cifre rese note dal ministero parlavano di circa 20mila stranieri arrivati dall’inizio dell’anno. Sono trascorsi due mesi e il numero degli sbarchi è più che raddoppiato. In queste ore i prefetti di tutta Italia hanno ricevuto un nuovo allerta perché in Sicilia la situazione è ormai al collasso, ma soprattutto ci sono da trovare nuovi finanziamenti a fronte di un quadro in costante evoluzione che certamente subirà impennate nelle prossime settimane.
Il nuovo finanziamento
Lo stanziamento previsto a inizio anno è ormai quasi finito. Per ogni migrante è prevista una spesa di 35 euro al giorno, cui si devono aggiungere i costi di «Mare Nostrum» che ormai sfiorano i 10 milioni al mese. Il programma prevedeva un’operazione a termine, ma al momento appare difficile che si possa pensare a fermare il progetto se non si vuole rischiare altri naufragi, proprio come accaduto appena qualche settimana fa e ancor prima a ottobre con centinaia di persone annegate a poche centinaia di metri da Lampedusa.
Il governo aveva annunciato una nuova valutazione «al momento di assumere la presidenza Ue», dunque a metà luglio, ma i «report» trasmessi dalla Libia parlano di altre decine di migliaia di persone pronte a salpare e dunque appare difficile che l’Italia possa tirarsi indietro. Per questo il Viminale ha già avviato le procedure per ottenere un nuovo stanziamento, anche tenendo conto del monito arrivato da Strasburgo.
Il monito dall’Europa
Un documento del Consiglio d’Europa approvato dalla commissione Immigrazione e trasmesso all’assemblea per il voto «elogia i maggiori sforzi compiuti dall’Italia in risposta all’emergenza immigrazione, in particolare attraverso l’operazione Mare Nostrum», ma sollecita interventi urgenti «per la dotazione di un’adeguata rete di centri di accoglienza e di un sistema appropriato per identificare i migranti e per controllarne i movimenti». Il richiamo coinvolge anche l’Unione europea «affinché ridefinisca le sue politiche e regole, specie quella di Dublino, e le sostenga con risorse finanziarie e operative adeguate anche pensando alla costruzione di campi per i richiedenti asilo nei Paesi del Nord Africa, patto che l’Alto commissario per i rifugiati dell’Onu possa avervi accesso».
La dimostrazione che ancora molto c’è da fare, ma l’Italia rimane in prima linea come lo stesso Alfano è costretto ad ammettere quando sottolinea come «in Europa non c’è un’omogenea valutazione positiva, c’è una certa differenza tra i Paesi del nord e quelli del Mediterraneo e su questo noi daremo battaglia perché non possiamo pagare da soli l’instabilità in Libia né possiamo andare avanti in eterno con Mare Nostrum» .

l’Unità 8.6.14
Sciopero di Roma, guerra di numeri Marino-sindacati


L’un contro l’altro armati: i sindacati contro il sindaco, il Pd dilaniato dalle correnti, il Campidoglio contro la Pisana (sede della Regione). E forse anche Pd nazionale contro Pd locale.
SINDACATI E COMUNE
Fra sindacati e sindaco, lo scontro si sposta sui numeri del primo grande sciopero del personale capitolino, anche se qualcuno fa notare che non è il primo, uno lo incasso Fiorella Farinelli, assessore alle politiche educative della giunta Rutelli, che proveniva dalla Cgil. «Il sindaco - sostengono alla Camera del lavoro - insinua che non rappresentiamo i lavoratori. Aspettiamo le cifre dell’adesione, lunedì». La cifra - fanno sapere dal Campidoglio - è il 73 per cento di astensione, però «molti dipendenti si sono messi in ferie». I sindacati misurano lo spazio stretto fra disagio reale dei dipendenti capitolini che effettivamente lavorano e disagio vero dei cittadini che, per esempio, non si sono accorti dell’assenza dei vigili urbani dalla strada, visto che sono anni che li vedono solo nelle grandi occasioni. O che attraversano con terrore giardini in stato di penosa sporcizia, o si siedono pazienti, ad aspettare il turno nelle sale d’attesa dei municipi. Ma il sindacato vuole passare per il difensore dei fannulloni: «Noi ci battiamo per la dignità dei servizi e la dignità del salario e chiediamo che una parte del compenso sia agganciato alla soddisfazione dei cittadini », dice il segretario della Funzione pubblica Natale Di Cola. Però, sulla legge sul salario accessorio, fate melina, sperate nella crisi della giunta o prendete tempo per non cambiare nulla? «Non scioperiamo contro la giunta e nessuno vuole perdere tempo ma non si capisce perché dopo 100 giorni per il salvaroma e mesi d’attesa per il piano di rientro, noi dobbiamo chiudere il 31 luglio. Sugli enti locali c’è anche un tavolo nazionale in corso per interpretare la legge sul salario accessorio». Il sindaco Marino resta sulle sue posizioni: «Ho tagliato i compensi dei vertici Acea e non intendo tagliare i salari bassi, però difendo anche la legalità». Ma il Campidoglio garantisce gli stipendi attuali fino al 31 luglio, per il dopo non ci sono proroghe.
DEMOCRATICI ROMANI
Il successo alle europee, anziché mettere il vento in poppa sulle sfide da affrontare, nella Capitale, ha aizzato i mastini delle preferenze, spingendo Roberto Morassut a qualificare come «ciarpame » le polemiche: «Le ragioni della vittoria alle Europee hanno solo un nome ed un cognome, Matteo Renzi». E qualcosa, da questo punto di vista, diranno anche ai romani, i ballottaggi di oggi. Non è per niente scontato l’effetto Renzi sulle dinamiche locali. Nel day after, dopo lo sciopero dei comunali che ha paralizzato Roma, i democratici discutono di verifica interna: il 18 giugno è convocata l’assemblea del Pd romano, che verrà conclusa da Lorenzo Guerini. La presenza del vicesegretario nazionale, nelle intenzioni, serve a chiarire che «non ci sono due Pd, ce n’è uno solo nelle sue articolazioni». Cosentino ha messo sul tavolo anche la possibilità delle sue dimissioni, l’esecutivo ha deciso - con la perplessità del più critici sull’assetto attuale (Luciano Nobili, Ilaria Feliciangeli, Lorenza Bonaccorsi) che nell’assemblea si voterà un documento, anche perché non si può stare «in un congresso permanente».
TENSIONI CON LA REGIONE
Nel puzzle romano, dove il Pd governa a tutti i livelli, c’è da mettere nel conto anche la tensione fra la Regione e Campidoglio. A Roma sembra che nessuno parli con nessuno. La Regione, dopo anni stanzia 150 milioni per i trasporti nella capitale e, il giorno dopo, si becca la critica dell’assessore alla mobilità di Roma, Guido Improta. Lavora ai fondi europei con l’assessore Fabiani e a quelli per la scuola, ma al Campidoglio non accusano ricevuta. Il presidente Nicola Zingaretti è rimasto male anche per la vicenda delle nomine Acea, dove è entrata nel Cda Elisabetta Magini, capofila di «Vocazione Roma», un gruppo di giovani dell’imprenditoria romana. Magini ha lavorato con Zingaretti in Provincia e alla Regione, sul tema delle pari opportunità nelle imprese. Vedersela sfilare senza essere stato informato, gli è parso un segno di poca buona creanza istituzionale. Il fatto non sarà grave ma è un segnale dello scarso dialogo. Eppure ci sarebbe materia abbondante e urgente di confronto: nei municipi romani 15 mini sindaci governano popolazioni pari a città medio-grandi, ma sono senza soldi e senza chiarezza di poteri, «a mani nude ». L’accorpamento dei municipi è stato il primo passo verso la configurazione della città metropolitana ma adesso, è come se la questione fosse scomparsa. Inghiottita dalle polemiche sulle preferenze fra Goffredo Bettini ed Enrico Gasbarra, nello scalpitare dei giovani neoparlamentari. Le richieste; deleghe in giunta, rinnovamento a via delle Sette Chiese (sede romana del Pd). Morassut: «Ma perché non mettono in campo uno straccio di idea per la città?».

La Stampa 8.6.14
Roma, la sfida “sudamericana” dei dipendenti comunali
Nella Capitale dei cortei non autorizzati e degli scioperi sindacali indetti
per difendere vecchi aumenti che il ministero dell’Economia giudica illegittimi
di Fabio Martini

qui

l’Unità 8.6.14
Colori uniti per i diritti Il Gay Pride con Marino


I selfie di due trans mulatte che in top e jeans attillati sono comunque tra le persone più sobrie in Via Merulana. I selfie di uno degli autisti della sfilata, sul suo enorme camion blu, barba folta, la pancia di uno che si tiene ben lontano dal macrobiotico e l’aria assai divertita, vuoi mettere con la noia di un carico di cipolle o di mobili.
Mica tutti i giorni capita di girare con la scritta «Froci e fuorinorma» sulla fiancata, e sul cassone una variopinta tribù di gente che balla, sorride e manda baci a tutti. Uno dei quindici carri che compongono la ventesima edizione del Gay Pride passa con le note furibonde di Lady Gaga, dietro spunta il successivo e con un grande cartello a scritte nere manda un messaggio definitivo al folto pubblico intervenuto: «Esistiamo da sempre. Fatevene una ragione». Col sindaco Ignazio Marino e i presidenti delle circoscrizioni ad aprire il corteo, e Bocca di Rosa poco lontano, verrebbe da dire come nelle note di De André, il serpentone di colori e di rumori si è mosso puntuale da piazza della Repubblica fino ai Fori imperiali, dove era previsto l’arrivo del Pride.
Un gigantesco ingorgo in zona Termini, alla partenza, è la conferma che la capitale è tradizionalmente sensibilmente ai diritti degli omosessuali e combatte pubblicamente l’omofobia, ma al minimo sindacale. Bastava qualche transenna in più per canalizzare i pedoni all’inizio del corteo, per evitare code chilometriche che si sono protratte tutto il pomeriggio. Basterebbe un po’ di amore, non solo quello gay, per le cose che si fanno. «Se è così bravo, perché non lo fa lei?» risponde con la consueta cortesia una vigilessa alla quale avevamo posto la domanda, allargando le braccia come in una resa del buon senso. Il Gay Pride sfila riempiendo le vie con i suoi duecentomila partecipanti, come rilancia il portavoce Andrea Maccarone, ma Roma assiste quasi impassibile e imperterrita nei suoi vizi.
Il puzzo di piscio a cielo aperto in piazza delle Medaglie d’oro, dove turisti sciamano attirati anche dal fracasso e dall’allegria del Pride. I tassisti abusivi infaticabili come sempre ad abbindolare clienti, a pochi metri dal cordone dei vigili urbani e dal sindaco che cammina sorridente dietro allo striscione «Adesso fuori i diritti », i cinesi che non smettono un attimo di portare merci dentro fuori dai negozi, tanto loro i diritti dei gay li garantiscono nel modo che sappiamo.
Il Gay Pride cammina tra una staffetta della polizia e un gruppo di carabinieri che lo chiudono, agenti e militari che quasi sbadigliano per una giornata effettivamente molto più riposante di una allo stadio, ma Roma è appunto quella di sempre, fa gli onori di casa in modo come sempre neutrale e anzi si dà un gran daffare per ripulire subito le tracce del corteo, con mezzi dell’Ama che lavano e spazzolano le strade, quasi commovente pensando alle caterve di pattume pigiate dentro e fuori dai cassonetti nei quartieri di periferia, per l’ennesimo infarto del sistema della raccolta dell’immondizia con operatori e mezzi misteriosamente spariti. Non basta un Gay Pride per cambiare i vizi di una città, è vero, ma arrivati al ventesimo magari uno si aspetta che qualcosa sia cambiato.
Poco male. È una giornata di festa e la musica che arriva dai grandi altoparlanti piazzati sui camion spazia dalla tecno a Raffaella Carrà, il tripudio ovviamente scatta quando suonano «Ymca» dei Village People. Marino, capofila di una moltitudine di persone che hanno la stessa idea e lo stesso sogno, pur essendo giovani e vecchi, uomini e donne, ragazzi, bambini, lancia una promessa che è anche il tallone d’Achille dell’Italia nelle questioni delle coppie omosessuali e dei loro diritti negati: «Subito dopo il voto sul bilancio calendarizzeremo in Consiglio comunale la delibera sulle unioni civili, ma non è sufficiente. Dobbiamo spingere sul Parlamento affinché l’Italia superi questa vergogna di essere rimasta indietro rispetto al resto dell`Unione Europea». Dal megafono del carro capofila, partono verso la folla inviti che la folla in festa non si lascia scappare, e comincia una serie di scanzonati «vaffa» verso una lista di politici accomunati dal fatto di non vedere un bel niente oltre la tradizionale famiglia. «Amare è un diritto umano» dice invece un foglio di carta in mano ad una ragazza dai capelli colorati. E negarlo, sinceramente, sarebbe difficile perfino per Carlo Giovanardi.

l’Unità 8.6.14
La pillola del giorno dopo tra scienza e pregiudizio
Gli attacchi dei pro life sul caso Norlevo non nascono da una visione scientifica ma religiosa
di Maurizio Mori


È DA QUALCHE TEMPO CHE LE DECISIONI DELLE NOSTRE ISTITUZIONI VENGONO ATTACCATE CON FORZA DAI COSIDDETTI «PRO-LIFE». LE PROTESTE SONO OVVIAMENTE PARTE INTEGRALE DELLE SOCIETÀ PLURALISTE, e non ci passa neanche per l’anticamera del cervello di voler limitare in qualche modo questa facoltà. Credo però sia altrettanto importante far sentire il sostegno anche alle istituzioni, per non dare l’impressione che queste siano oppressive o “fuori rotta”: esse stanno compiendo il debito lavoro con precisione, puntualità e nel rispetto della pluralità delle posizioni. Per questo va fatta sentire anche la voce a loro favore, al fine di dare una visione completa della situazione. A questo proposito credo sia opportuno dedicare attenzione al modo con cui i pro-life avanzano le loro proteste e critiche, perché esso rivela il livello culturale del discorso da essi proposto.
Già abbiamo detto qualcosa circa la reazione pro-life alla bocciatura della iniziativa «Uno di noi» (l’Unità, 30 maggio) che chiedeva di bloccare il finanziamento alle ricerca con cellule staminali embrionali: la Commissione europea che aveva titolo a farlo ha attentamente esaminato la richiesta e ha motivato il rigetto giudicando deboli le ragioni addotte a sostegno. Colpisce che invece di rispondere argomentando l’eventuale punto di dissenso, si è puntato sul “brutto colpo alla democrazia partecipativa”, mostrando scarso senso dell’istituzione e un cedimento alla deriva populista.
È ora opportuno richiamare l’attenzione sulle proteste contro l’ordinanza del Tar del Lazio che il 29 maggio ha respinto il ricorso dei Giuristi per la Vita contro il provvedimento Aifa di modifica del “bugiardino” del Norlevo (la cosiddetta “pillola del giorno dopo”) come farmaco che non causa interruzione di gravidanza. La decisione dell’Aifa si basa sul fatto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità si è pronunciata in questo senso, e ciò è il dato scientifico accreditato, al di là delle ideologie e delle religioni. Ebbene, di fronte a questo dato di fatto, Avvenire (31 maggio) critica osservando che «non occorre una laurea in medicina per intuire che un farmaco ideato allo scopo di impedire una gravidanza se assunto prima di un rapporto sessuale si chiama contraccettivo ma quando viene assimilato subito dopo diventa per forza di cose potenzialmente abortivo, visto che la sua azione è orientata a impedire l’annidamento dell’ovulo eventualmente fecondato e quindi di causare la morte della vita umana appena sbocciata». È come se dicesse che non occorre essere astronomi per vedere che il Sole gira intorno alla Terra, perché possiamo constatarlo da noi!
Invece, proprio questo è il punto: per conoscere le questioni tecniche (quando ha inizio una gravidanza e se un farmaco la interrompe oppure) bisogna affidarsi ai competenti. In questo caso la competenza più elevata è proprio quella dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Possono esserci medici e scienziati dissenzienti, i quali fanno benissimo a sostenere le posizioni diverse perché la scienza avanza per prova ed errore: nella scienza non ci sono dogmi assoluti, ma fino a che l’argomentazione tiene è quella e solo quella che conta.
Al contrario, sembra che i medici dissenzienti, ragionino sulla scorta di una visione assoluta cosicché ogni volta che si ha a che fare con la riproduzione umana credono di avere loro in tasca la verità e di poter dar lezione a chiunque. Così, invece di riconoscere che i giudici del Tar del Lazio si sono attenuti al miglior dato scientifico disponibile e hanno operato bene, un farmacologo intervistato da Avvenire invita la magistratura a essere più prudente sulle questioni scientifiche e ricorda al riguardo il “caso Stamina”. Dimentica però che, agli inizi, Stamina ha ricevuto appoggio da alcuni “scienziati” proprio perché escludeva il ricorso alle cellule staminali embrionali e si poneva come ulteriore conferma della superiorità delle cosiddette “staminali etiche”, e chi sul piano scientifico si è opposto a Stamina sono stati scienziati spesso criticati proprio da Avvenire. Meglio evitare gli attacchi indiscriminati alla magistratura che nel caso in esame si è attenuta ai dati scientifici e ha garantito che la pacifica convivenza sociale sia fondata, non su posizioni religiose circa la riproduzione umana, ma sulle migliori conoscenze scientifiche disponibili: quelle che attestano che il Norlevo non provoca l’aborto.

l’Unità 8.6.14
Rompi iI Buddha e io mi sdegno
Un monumento danneggiato provoca più reazioni di una tragedia umana
di Marco Aime


“Un giorno sedevo sui gradini dell’entrata della Torre di Davide.
Avevo appoggiato le mie due borse della spesa di fianco a me.
Un gruppo di turisti circondava la sua guida e io divenni il loro punto di riferimento. «Vedete quell’uomo con le borse della spesa? Proprio a destra della sua testa c’ è un arco di epoca romana. Appena a destra della sua testa». «Ma si sposta! Si sposta!».
Io mi dicevo: la redenzione verrà solo quando la loro guida dirà loro: «Vedete quell’arco di epoca romana? Non è importante: ma lì vicino, in basso, un po’ a sinistra, c’ è un uomo seduto, che ha comprato frutta e verdura per la sua famiglia».
DISTRUGGERE SIMBOLI
Sono versi del grande poeta israeliano Yehuda Amichai. Mascherate dietro a un gesto di apparente banalità, come l’andare a fare la spesa, le sue parole rivelano una profonda critica a certi nostri atteggiamenti, al nostro modo di guardare al mondo, soprattutto se ciò che stiamo osservando non è vicino a noi. Difficile dire se il flusso sempre più rapido e costante di informazioni sia la causa o l’effetto, ma sono frequenti i casi in cui l’opinione pubblica sembra commuoversi o sdegnarsi più per il danneggiamento di opere d’arte o di luoghi naturali, che non per azioni commesse contro il genere umano.
Nel marzo del 2001 i talebani puntarono dei cannoni di contraerea contro le statue dei Buddha nella valle di Bamiyan, nell’Afghanistan settentrionale. Il risultato fu deludente, quelle enormi statue di roccia rimanevano ancorate al loro posto, dove erano state scolpite tra il iii e il v secolo d.C. dai membri di una allora floridissima civiltà buddhista, che prosperava in quell’incantevole tratto della via della seta. Accecati dalla loro furia iconoclasta, i talebani usarono allora l’esplosivo, che ridusse in polvere quelle sculture. «Noi non siamo contro la cultura » dichiarò Wakil Ahmed Muttawakil, ministro degli Esteri dei talebani, «ma non crediamo in queste cose. Sono contro l’islam».
Alla notizia di quel gesto di follia gran parte del pianeta insorse, le immagini di quelle nicchie vuote fecero il giro del mondo in un inseguirsi di dichiarazioni di sdegno. C’erano volute le statue dei Buddha. Non era bastato che da anni i talebani calpestassero quasi sistematicamente ogni più banale diritto umano, uccidendo e amputando mani; che impedissero alle donne non solo di frequentare le università, ma anche di essere visitate e curate da un medico che non fosse di sesso femminile. Non era stato sufficiente che riducessero le donne a fantasmi informi, libere di circolare solo velate, accompagnate ed esclusivamente in certe ore del giorno; che costringessero gli uomini a giustificarsi se non portavano la barba; che avessero dichiarato peccaminoso ridere per strada o cantare; che avessero impiccato le televisioni per impedire ogni contatto con l’esterno, mettendo così un velo opprimente non solo alle donne, ma all’intero paese.
Prima dell’avvento del regime talebano, Bamiyan era abitata quasi esclusivamente dagli hazara, un’etnia discriminata e a lungo oppressa dai pashtun, gruppo da cui proviene la gran parte dei talebani, a causa dei tratti fortemente orientali dei suoi membri e della loro adesione all’islam sciita. Prima di far esplodere le celebri statue, i talebani avevano effettuato numerose operazioni di pulizia etnica a danno degli hazara. Operazioni che hanno finito per svuotare completamente la valle di Bamiyan dei suoi originari abitanti.
Tutto questo non aveva mosso a indignazione più di tanto le masse e soprattutto i media occidentali, che ben poco spazio diedero a questo etnocidio. Che si distruggessero le vite di milioni di donne e uomini non era sufficiente a mobilitare le telecamere delle reti televisive. Bisognava arrivare a distruggere le statue perché si accendesse lo sdegno nei confronti di un regime così ossessivo e integralista.
Dodici anni dopo è toccato a Timbuctu, millenaria città sahariana, antico crocevia di commerci e di culture, mitizzata dagli europei e venerata come sacra dai musulmani. «La città dei 333 santi» recita uno slogan divenuto ormai noto, che ricorda le numerose tombe di uomini pii che costellano la città. Ora a quel numero più che perfetto, ne mancano almeno tre: quelle di Sidi Mahmoud, di Sidi Moctar e di Alpha Moya. I tuareg jihadisti, che hanno scatenato l’offensiva nel nord del Mali all’inizio del 2012, hanno infatti distrutto tre storici mausolei al grido di «Allah u akbar». Sanda Ould Boumama, portavoce del gruppo, dopo aver annunciato altre distruzioni, ha dichiarato che costruire tombe è contrario all’islam e pertanto proibito.
Diversamente da quanto accaduto a Bamiyan, qui si sono visti musulmani scagliarsi contro simboli della loro stessa religione e non di un credo diverso dal loro. La cosa può apparire paradossale, ma per questi fondamentalisti, addestrati militarmente nella Libia di Gheddafi e versati a un’interpretazione presuntamente integrale e falsamente ortodossa del Corano, l’islam di Timbuctu 134 non è autentico. Se per gli europei, fin dal medioevo, Timbuctu appartiene allo spazio geografico, icona della lontananza, dell’altrove per eccellenza o, come ha scritto Bruce Chatwin, «miraggio antipodale o simbolo del chissà dove», per i musulmani appartiene allo spazio religioso, è una città santa.
L’islam praticato fin dall’antichità in questa città di commercianti è sempre stato improntato alla massima apertura, ed è contro i segni di questa tradizione di tolleranza che si è scagliata la furia iconoclasta di Ansar Dine. Furia che ha subito acceso l’attenzione dei media, che avevano fino a quel momento appena accennato alle violenze perpetrate contro la popolazione: la chiusura delle scuole, l’imposizione del velo, l’obbligo per le donne di uscire solo se accompagnate dai mariti e altre costrizioni di vario genere. Nel gennaio del 2013, le truppe francesi entrano a Timbuctu, mettendo in fuga i jihadisti che la occupavano dall’ottobre dell’anno precedente. Immediatamente ha fatto il giro del mondo la notizia che costoro avevano dato alle fiamme migliaia di antichi manoscritti conservati nel Centro Ahmed Baba.
Testimonianze scritte della secolare tradizione culturale di Timbuctu. Per fortuna (se di fortuna si può parlare in questo frangente), i responsabili delle biblioteche avevano messo in salvo la maggior parte dei manoscritti, prevedendo l’accanimento degli islamisti. Ciò che accomuna questi tragici fatti è la loro capacità di smuovere l’opinione pubblica molto più di quanto riescano a fare azioni simili perpetrate sugli individui. Le statue, i manoscritti, i monumenti. Questi manufatti, di indubbio pregio e valore storico, sembrano colpirci più della sorte delle persone. Ho citato due eventi di carattere internazionale, ma una risposta analoga la si è avuta quando tra il settembre e l’ottobre del 1997 una serie di violenti terremoti scosse l’Umbria e le Marche, causando undici vittime e un centinaio di feriti. Le abitazioni distrutte furono circa ottantamila, fatto che costrinse numerosissime famiglie a 135 vivere negli anni a venire in container o in sistemazioni di fortuna.
Ciò che però riempì più di tutto gli spazi di giornali e telegiornali fu il crollo della Basilica di San Francesco ad Assisi, per la cui ricostruzione furono immediatamente stanziati dei fondi.
Perché ci commuoviamo in maniera più intensa davanti a un monumento danneggiato che di fronte alle tragedie umane? Che il delirio iconoclasta degli «studenti islamici» fosse un segno di barbarie è fuor di dubbio, ma non è certo stata l’espressione peggiore del loro fanatismo. Ci siamo però accorti della loro furia solo quando hanno violato il sacro tempio dell’arte, quasi sentissimo più vicino a noi questa realtà piuttosto che quella umana. Percepiamo l’arte come un universale, come un qualcosa che ci appartiene. Perché?
Elisa Bellato individua nella convenzione unesco del 1954 l’inizio di una concezione che inaugura la responsabilità universalista nei confronti del patrimonio culturale mondiale: «I danni arrecati ai beni culturali, a qualsiasi popolo essi appartengano, costituiscono danno al patrimonio culturale dell’umanità intera, poiché ogni popolo contribuisce alla cultura mondiale». In realtà, la distruzione del patrimonio assume sempre più spesso una valenza specifica, per esempio quella di annullare l’identità culturale dell’avversario eliminando le testimonianze fisiche della memoria della sua presenza sul territorio.

l’Unità 8.6.14
Indios, senzatetto e metrò: le proteste si fanno Mondiali
Sciopero a oltranza, a San Paolo del Brasile 209 chilometri di coda: chiusa la linea per lo stadio


Ci sono anche gli indios Guarani a protestare in strada nella tormentata vigilia dei Mondiali di calcio brasiliani. La loro rabbia affonda le radici in una sigla: Pec 215, come viene chiamata la proposta di legge per trasferire al Congresso i poteri per delimitare le loro terre ancestrali. Hanno archi e frecce, ma per il momento si limitano a bloccare il traffico di San Paolo già paralizzato dalla protesta dei lavoratori della metropolitana: protesta a oltranza, una bella arma di pressione sul governo quando l’unica via d’accesso allo stadio Itaquerao, o Arena Corinthians, alla periferia cittadina, è il trasporto pubblico. E proprio in questo stadio, giovedì prossimo, è previsto il calcio d’inizio di Brasile-Croazia. Che cosa potrebbe accadere si è già visto in queste ore. Con 4milioni e mezzo di passeggeri lasciati a piedi - in una megalopoli che conta 20 milioni di abitanti - venerdì scorso, lo sciopero ha provocato una coda di 209 chilometri, un record anche per una città che vanta ore di punta da brivido, con le auto incolonnate per tratti che possono raggiungere i 105 chilometri.
La protesta è scattata dopo il fallimento delle trattative per un aumento salariale, i lavoratori chiedevano un incremento del 16,5%, la società dei trasporti ne offriva la metà. Protesta annunciata, sciopero solo parziale - chiuse tre delle cinque linee - ma la tensione è andata subito alle stelle. Incidenti all’interno di una stazione della metropolitana, dove la polizia ha usato lacrimogeni, proiettili di gomma e granate stordenti per disperdere i dimostranti: tre persone sono rimaste ferite.
È solo l’ultima pagina di una stagione di manifestazioni, sit-in, appelli e cortei che hanno finito per catalizzare la protesta sociale contro i cantieri dei Mondiali, che secondo un sentire popolare hanno drenato risorse e denaro da obiettivi più importanti degli stadi. Pochi giorni fa, nella stessa San Paolo migliaia di persone hanno marciato pacificamente verso lo stadio Corinthians, rivendicando il diritto alla casa contro il fiume di denaro assorbito dai lavori per la Coppa del mondo.
Lavori lunghi, costosi più del previsto e soprattutto non completati. La presidente Dilma Rousseff, di fronte alle proteste e alle polemiche per gli stadi rimasti a metà, è intervenuta per difendere l’organizzazione del Mondiale, quanto meno per la parte di competenza pubblica. Rousseff ha scaricato sulla Fifa la lievitazione dei costi, parlando con i corrispondenti della stampa estera a Palazzo Alvorada: nel 2007, la Fifa avrebbe assicurato che gli stadi sarebbero stati finanziati dai privati, ha spiegato. Ma il governo è dovuto intervenire a rimpinguare le casse quando è stato chiaro che i lavori non stavano avanzando secondo la tabella di marcia. La maggior parte degli investimenti pubblici effettuati dal 2007, ha rivendicato Dilma, è stata comunque «per il Brasile» e non per il Mondiale: infrastrutture, strade, aeroporti, trasporto pubblico.
Parole che forse serviranno a placare il malcontento, quello che secondo i sondaggi è cresciuto in modo esponenziale in questi ultimi due anni: oggi il 72 per cento dei brasiliani si dice insoddisfatto di come vanno le cose, soprattutto per quanto riguarda l’aumento dei prezzi, la criminalità, il sistema sanitario e la corruzione. Nel 2012 gli scontenti erano una nutrita schiera, comunque ferma al 55%.
Di fatto però l’organizzazione costosa e caotica della Coppa del Mondo ha portato finora frutti amari, dall’impennata della protesta sociale alla constatazione che dei dodici stadi previsti, quattro non sono stati ancora ultimati, mentre Amnesty International mette in guardia contro il rischio di violenze da parte delle forze dell’ordine chiamate a sedare le proteste. «Il comportamento inadeguato da parte di chi svolge funzioni di ordine pubblico, l’affidamento di tali compiti ai militari, l’assenza di addestramento e il clima d’impunità hanno prodotto una miscela pericolosa in cui gli unici a rimetterci sono i manifestanti pacifici», ha dichiarato Atila Roque, direttore di Amnesty Brasile. «La Coppa del mondo 2014 sarà un banco di prova decisivo per le autorità brasiliane».

il Fatto 8.6.14
Brasile Scioperi, botte e ingorghi: te lo do io il mondiale
Le proteste dilagano, Dopo insegnanti, guide turistiche e indios, trasporti fermi da tre giorni, a San Paolo si terrà la prima partita, ma senza metro si teme il caos
di Giulia Merlo


A meno di una settimana dall’inizio dei Mondiali di Calcio e con gli occhi del mondo puntati sul Brasile, la città di San Paolo è ancora teatro di scontri tra polizia e manifestanti. Gli agenti hanno usato proiettili di gomma, gas lacrimogeni e manganelli per disperdere il presidio dei lavoratori della metropolitana, che piantonavano la stazione Metro - chiusa - di Santa Ana, in pieno centro città. I militari hanno dichiarato di essere intervenuti per sedare una rissa tra scioperanti e pendolari, ricostruzione però smentita dai manifestanti.
LO SCIOPERO dura ormai da tre giorni e i dipendenti del trasporto pubblico hanno deciso di proseguire a oltranza, dopo l’interruzione delle trattative tra sindacati e amministrazione comunale. Il braccio di ferro riguarda gli stipendi: i lavoratori che chiedono un aumento del 10%, mentre la compagnia che eroga il servizio non è disposta ad andare oltre l’8,7%. Il tribunale regionale del lavoro sta valutando la legittimità delle richieste del Sindicato dos Metroviários de São Paulo e ha ordinato che il trasporto metropolitano sia comunque garantito nelle ore di punta. Nonostante il Comune abbia sospeso in via eccezionale il limite alla circolazione delle auto nel centro città e la Compagnia dei trasporti ha annunciato l’aumento del numero di treni, San Paolo è andata in tilt. In una città con oltre 20 milioni di abitanti, sono più di 4 milioni le persone che ogni giorno si spostano con i mezzi pubblici. Nei giorni scorsi, l’interruzione dei trasporti ha provocato 200 chilometri di coda moltissime persone non hanno potuto raggiungere il posto di lavoro. Ieri, con 38 fermate di metro chiuse su 65, il traffico ha creato un ingorgo di 72 chilometri.
CON I MONDIALI ormai alle porte, le proteste rischiano di mettere in serio imbarazzo, oltre al comitato organizzativo brasiliano, anche la Fifa. La prima partita, in cui il Brasile affronta la Croazia nel match di apertura del gruppo A, si giocherà giovedì prossimo proprio al San Paolo Arena Corinthians. Lo stadio si trova in periferia e il modo più semplice per raggiungerlo è proprio con la metropolitana. Se lo sciopero continuasse, però, moltissimi spettatori potrebbero non arrivare all’impianto per assistere alla cerimonia di apertura dei Mondiali, e un’arena mezza vuota non sarebbe certo un buon biglietto da visita per il governo brasiliano. Nonostante le proteste, la presidentessa brasiliana Dilma Roussef ha dichiarato di essere sicura che i Mondiali saranno un enorme successo, sostenendo che le proteste non rovineranno l’evento. Anche il presidente della Fifa Sepp Blatter, dopo gli scontri con il governo brasiliano per i ritardi sui preparativi, ha gettato acqua sul fuoco: “Sono ottimista. Quando il torneo inizierà, migliorerà anche l’umore della gente e sono sicuro sarà una festa”. Quello della metropolitana, però, è solo l’ultimo sciopero in ordine di tempo. In maggio, infatti, ad incrociare le braccia erano stati gli autisti dei mezzi pubblici, provocando anche in quel caso ingorghi e blocchi del traffico. Prima ancora, invece, era stato il turno degli insegnanti e delle guide turistiche.
Le proteste in Brasile continuano ormai da più di un anno, nonostante la loro intensità sia progressivamente diminuita. Le numerose manifestazioni contro le politiche di Dilima Youssef hanno portato anche a scontri con le forze dell’ordine e all’arresto di oltre 200 persone. La sollevazione popolare - considerata la più grande degli ultimi 20 anni - scaturisce dalle accuse verso il governo di Brasilia, di aver speso troppo per l’organizzazione dei due grandi eventi sportivi che si terranno nel Paese - i Mondiali 2014 e le Olimpiadi 2016 - sacrificando gli investimenti in sanità e istruzione e aumentando del 7% il costo del trasporto pubblico. Secondo le stime, infatti, la sola Coppa del Mondo 2014 è costata alle casse statali circa 11 miliardi di dollari. Non certo il clima migliore per accogliere l’evento che dovrebbe rilanciare l’immagine del Brasile a livello internazionale.

il Fatto 8.6.14
Il giocattolo è arrugginito Dov’è finita l’allegria?
Il calcio vive oggi sotto una pesante cappa, non di afa e umidità, bensì di denaro e potere, che corrompe e sfigura dappertutto
di Oliviero Beha


L’allegria non è mai stupida, verseggia il poeta sulle tracce dell’allegria francescana cui fa riferimento spesso Papa Bergoglio tifoso del San Lorenzo e del calcio. Allegria che era, dovrebbe essere e non è più un festival pallonaro come i Mondiali. Vi pare infatti che sia allegro, porti gioia di vivere, sia una promessa di felicità? Credo proprio di no. È una cappa pesante non tanto di afa e di umidità, bensì di denaro & potere che corrompe di qua e sfigura di là.
Lo so, state pensando che non si presentano così i Mondiali, che diffondo pessimismo invece che imbonire i lettori, che sto vendendo male la mia merce. In un certo senso avete anche ragione. Con tutto quello che ci succede un mese di partite a ogni pie’ sospinto in tempi di scandali, crisi e cinghia tirata parrebbe l’ideale per distrarsi. E giacché comunque anche così mal ridotto, il calcio dispone di un potenziale anestetizzante e onirico straordinario, sfruttiamolo al meglio. Peccato che chi scrive non debba vendere “quella” merce, che invece è sul bancone mediatico, politico e politico sportivo nelle dosi macroscopiche che sapete. Peccato che il calcio nei suoi risvolti extra-campo abbia travolto il suo quid ludico rendendolo a brandelli insieme alla credibilità di quello che vediamo: sarà combinata quella partita oppure è vera? E le scommesse su qualunque cosa avvenga sul terreno di gioco, dalla prima espulsione al momento in cui viene sostituito il terzo tipo di una squadra condizionano o no lo svolgimento degli incontri? Ecc. ecc. Per carità, niente di nuovo oramai da tempo, anche se il denaro e le tecnologie hanno elevato a potenza un prodotto drogato deprivandolo sempre più della sua radice giocosa. E qui siamo alla autentica novità di questo Mondiale, che non consiste tanto o soltanto nel dubbio su chi lo vinca, sui favoriti, sulle “mode” tattiche, sul giocatore che esploderà e quello con la miccia bagnata, no. La novità di Brasile 2014 è che non c’è più allegria. Anche se lo dovesse vincere la Nazionale di casa, e sarebbe la sesta volta dopo una dozzina d’anni dall’ultima escursione coloniale in Estremo Oriente, probabilmente non ci sarebbe allegria, per lo meno non come siamo abituati a registrarla nel Paese che è il calcio, e il samba, e il carnevale, che ha convissuto con la miseria pur essendo straricco di materie prime grazie a un’allegria naturale e culturale insieme, che il calcio esprimeva benissimo.
ADESSO chi ha il coraggio di evocare l’allegria con quello che sta succedendo nelle strade e nei cantieri per stadi raffazzonati in extremis? Chi può evitare di giustapporre il socialismo di Lula e Rousseff calcisticamente protesa alla rielezione a questa scarnificazione anche del Diversivo Rotondo? Romario contro Pelé, la strada contro il Palazzo, la sensibilità contro le istituzioni, un Brasile che si sta ammutinando contro se stesso e le sue tradizioni più peculiari perché non ce la fa più. E dunque se al calcio viene a mancare l’allegria, bisogna forse rivedere tutto. Anche perché non è certo colpa del calcio, della sua mitologia a presa rapida e della sua resistenza al degrado nonostante tutto, se l’allegria se ne è andata, non essendo più compatibile neppure con una recita collettiva. Il calcio, e la vetrina dei Mondiali lo riflette alla perfezione, non riesce più a fungere da arma di distrazione di massa da tutto il resto, perché risente al suo interno delle logiche di tutto il resto. Quindi gli scandali di Blatter e la resipiscenza di Platini (fair play o non fair play finanziario? L’unico che gli interessi è il fair play politico della sua carriera), scendendo per li rami fino alle nanerie di casa nostra (di Casa Italia), l’onnipotenza della tv, le regole del gioco dell’organizzazione di un Mondiale che invece di migliorare stanno peggiorando socialmente le condizioni di chi lo ospita, e si tratta del Brasile leader planetario del settore, finiscono nello stesso calderone oramai ai limiti della sopportabilità. Quindi con un’allegria polverizzata o a scartamento ridotto. La qualità, la tecnica, lo spettacolo, gli ingredienti vecchi quanto il cucco eppure ancora in funzione in un “rettangolo verde” si sono degradati anche perché il gusto estetico dell’appassionato ormai conta poco e niente, mentre come detto il gusto etico ha subito un vero e proprio inabissamento. In questi giorni non sarà il campo a farla da padrone, bensì la gestione delle immagini del campo quasi sempre a fini non strettamente calcistici. Non l’azione in sé, sempre meno allettante per cui si è costretti a millantare straordinarietà di fronte a un’ordinarietà davvero modesta, ma l’azione che può permettere l’uso della polemica, del gossip, del fuoricampo che è miniera mediatica e di costume ormai infinitamente più ricca del calcio inteso come tale. E anche in questo senso la Rotondolatria non basta più a se stessa, e segue le strade di tutto il resto.
Tra uno stop azzardato di Chiellini e quello che succede nel costoso ritiro azzurro, per il gusto sensazionale del pubblico non c’è lotta. Anche nel calcio è il retrogusto a prevalere. Ed è un’altra manifestazione di allegria in perdita. Ma i Mondiali ci sono e vanno raccontati. Magari con l’idea geopolitica che prima o poi verrà smentita la formula del calcio alla Monroe, ovvero “In Europa non vince una sudamericana, oltreoceano non vince un’europea”. Nella mediocrità dilagante e nel Brasile ammutinato magari vince la Germania (dopo 24 anni...) o di nuovo la Spagna... Certo, vincesse la Colombia...

Corriere 8.6.14
La Francia in un hotel da 90 euro, quello degli azzurri ne costa 300
L’Italia vince il Mondiale dei resort con la delegazione più numerosa
Camere care, ma la Figc è serena: «Chiuderemo in attivo». L’Inghilterra ha affittato 64 stanze a 150-200 euro. I tedeschi hanno comprato un resort: risparmio e investimento
di Rocco Cotroneo

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Repubblica 8.6.14
Abu Mazen
“Io il papa e Peres, la nostra preghiera può spingere Israele a voltare pagina”
intervista di Fabio Scuto


RAMALLAH. CI AUGURIAMO che questa preghiera di mente e cuore possa davvero aiutare Israele a decidere: io con Shimon Peres ho firmato gli accordi di pace di Oslo e nei giardini della Casa Bianca nel 1993, ma purtroppo il potere esecutivo in Israele oggi è nelle mani degli oppositori di quegli accordi».
L’invito di Papa Francesco è un atto di grande coraggio», dice il presidente della Palestina a Repubblica. «Niente deve fermarci nella ricerca di soluzioni in cui entrambi i nostri popoli possano vivere ognuno nel proprio Stato sovrano. Ma non è facile, perché il potere oggi in Israele è nelle mani degli oppositori degli accordi di pace di Oslo». Oggi Abu Mazen sarà in Vaticano insieme al presidente israeliano Shimon Peres e al patriarca ortodosso Bartolomeo I, per la storica preghiera di pace promossa da Papa Francesco. Un’iniziativa che arriva in un momento di dura contrapposizione, con la costruzione di tremila nuovi insediamenti israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme est decisi dal governo Netanyahu: «Una provocazione, la formazione del nuovo governo palestinese con Hamas è solo un pretesto.
“Io, il Papa e Peres: la nostra preghiera può spingere Israele a voltare pagina”
«IN questi anni con Peres abbiamo sempre mantenuto i contatti, nonostante i divieti e le imposizioni di qualcuno».
È mattina presto, i corridoi della Muqata sono deserti. Il presidente Abu Mazen è passato a prendere le sue ultime carte, gli appunti dal tavolo del suo studio al secondo piano, prima di partire per Roma dove oggi pregherà in Vaticano assieme al Pontefice, al presidente Peres e al Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo per «la pace in Terrasanta», nella speranza di favorire un dialogo che adesso sembra quasi impossibile. «L’invito del Santo Padre è stato coraggioso. Papa Francesco ha messo in campo la sua grandezza spirituale e umanitaria, e con questa preghiera mandiamo un messaggio a tutti i credenti delle tre grandi religioni e anche delle altre: il sogno della pace non deve morire. Niente deve fermarci nella ricerca di soluzioni dove entrambi i popoli, quello palestinese e quello israeliano, possano vivere ognuno nel proprio Stato sovrano e nel proprio territorio riconosciuto internazionalmente, compresa Gerusa- lemme, città aperta a tutti i credenti del mondo senza Muri ».
L’annuncio di giovedì scorso di oltre tremila nuove case negli insediamenti colonici della Cisgiordania e a Gerusalemme Est non sembra l’atto di un governo deciso a marciare verso il dialogo. ..
«Queste nuove costruzioni sono una provocazione da parte del primo ministro Netanyahu, che ha scelto stavolta come pretesto la formazione del nuovo governo palestinese. Lo sblocco di queste costruzioni, e delle 12 mila che le hanno precedute nell’ultimo anno, hanno sempre sollevato le proteste degli Usa e della comunità internazionale. Questa è una rappresaglia senza senso».
L’America però stavolta non vi ha lasciato soli.
«Apprezziamo molto gli sforzi del segretario di Stato Kerry e del presidente Obama. Augurandoci che il Congresso americano non prenda decisioni opposte, sulla spinta di pressioni di lobby interne. Dopo le elezioni del 2005, la posizione americana ed europea è stata chiara, nessuna collaborazione con chi non accetta questi tre principi: riconoscimento di Israele, rinun- cia alla violenza e al terrorismo, accettazione degli accordi di pace precedenti. L’attuale premier e i suoi ministri hanno ripetuto pubblicamente questi tre impegni. Perché questo è un “governo del presidente” che lavora su questioni civili e economiche con un ruolo particolare per l’organizzazione delle elezioni politiche e presidenziali entro la fine dell’anno».
Signor Presidente, è Hamas che è diventato moderato oppure lei, come dice Netanyahu, è diventato un estremista?
«Mai lasciar cadere la possibilità di un dialogo, anche interno. In Irlanda negli anni Novanta - quando l’Ira abbandonò la lotta armata - nessuno accusò i mediatori di quell’intesa di aver preso le parti del terrorismo. Dobbiamo cercare di moderare e dialogare con chi ha posizioni estremiste. E allora perché non considerare che se Hamas accetta un programma moderato questo è un fatto positivo. Netanyahu di nuovo ha inventato una cosa: basta pronunciare la parola Hamas per chiudere i rapporti. E pretende che Stati Uniti, Europa e gli altri facciano lo stesso. Riguardo al riconoscimento reciproco fra Olp e Israele, per noi è sempre valido ogni accordo già firmato ».
Lei preme per elezioni politiche e presidenziali entro la fine dell’anno. Davvero ha deciso di andare in pensione?
«Ho espresso pubblicamente il mio desiderio di non presentarmi, ma questo non significa che non senta la responsabilità di fronte a quello che può accadere da qui fino al voto. Il prossimo 4 agosto ci sarà il congresso di Fatah, vediamo se il Congresso eleggerà un nuovo leader che posso aiutare».
Circolano già dei nomi qui a Ramallah...
«Con troppo anticipo le candidature si bruciano».
Non teme che Hamas - che già vinse contro ogni previsione le ultime elezioni palestinesi - possa vincere di nuovo?
«Non ho paura delle elezioni perché credo profondamente nella democrazia, nessuno è al di sopra il popolo. Il mio desiderio è sempre stato quello di rispettare le scadenze elettorali, è Hamas che dal 2007 a oggi si è sempre rifiutato. Ma stavolta le condizioni sono cambiate».
Se le cose stanno così, a quando la sua prossima visita a Gaza?
«C’è tempo, ci sono molte al- tre emergenze da risolvere prima, non ultima quella della sicurezza nella Striscia».
La Palestina si è appena guadagnata l’accesso alle fasi finali dell’Asia Cup, per chi farà il tifo a questi mondiali di calcio?
«Arrivare in fondo all’Asia Cup è stato un miracolo. Noi non abbiamo campi d’allenamento e non abbiamo veri stadi, ma il calcio è fatto dai calciatori e i nostri affrontano mille difficoltà in una terra sotto occupazione militare. Uno dei nostri migliori attaccanti è stato arrestato due mesi fa senza motivo ed è in “detenzione amministrativa” (cioè senza una imputazione, ndr).
Servono permessi degli israeliani per spostarsi da una città all’altra, permessi per uscire e andare a giocare all’estero. Un calvario che non trova nessun senso, lo sport può riuscire dove la politica finora ha fallito. L’Italia ha molto aiutato lo sport palestinese e il vostro Coni ci ha sempre sostenuto. E poi nessun palestinese dimentica che quando l’Italia vinse il Mondiale nel 1982, gli azzurri di Enzo Bearzot dedicarono quella vittoria alle vittime del massacro di Sabra e Shatila a Beirut. Per questo dico sinceramente: auguri Italia».

La Stampa 8.6.14
Gerusalemme Est, per l’Australia non è più territorio “occupato”
È il primo Paese occidentale a compiere questo passo, suscitando le ire dei palestinesi
Il premier Abbott: «La definizione non giova al processo di pace»
di Maurizio Molinari

qui

La Stampa 8.6.14
Usa e Iran, la prima volta dei colloqui diretti
Il meeting di domani a Ginevra porterà a un accordo sul nucleare?
di Claudio Gallo


Si stringono i tempi a Ginevra per arrivare a un accordo sul programma nucleare iraniano prima del 20 luglio, data di scadenza dell’attuale intesa-ponte che stabiliva una finestra di sei mesi in cui entrambe le parti (Teheran e i cinque membri del Consiglio di sicurezza Onu più la Germania più l’Europa) si erano impegnate a limitate concessioni. L’ultimo atto di questa corsa contro il tempo (ma c’è chi dice che il tempo non è abbastanza) è un inedito incontro bilaterale tra delegazioni iraniane e americane che si terrà a Ginevra domani e martedì prossimi. A guidare il team americano sarà il vicesegretario di Stato Bill Burns insieme al sottosegretario di Stato Wendy Sherman. «Siamo convinti di dover tentare tutti gli sforzi diplomatici possibili per verificare se è possibile raggiungere una soluzione diplomatica con l’Iran», aveva detto la settimana scorsa un alto funzionario Usa.
Bill Burns aveva seguito lo scorso anno un canale diplomatico segreto con l’Iran che era culminato con la firma dell’accordo nucleare ad interim che si concluderà a luglio. Nei giorni successivi all’incontro con gli americani, l’11 e il 12 giugno, i negoziatori iraniani incontreranno una delegazione russa a Roma. I segnali che arrivano da Teheran sembrano confermare una forte volontà dei vertici della Repubblica islamica di concludere un accordo il più definitivo possibile. In questo senso andrebbe il richiamo della Guida suprema Ali Khamenei agli ambienti conservatori tradizionalmente contrari a un accordo con gli americani. Secondo l’agenzia «Bloomberg», Khamenei avrebbe ammonito in privato alcuni esponenti dei media più oltranzisti di smettere di indebolire le posizioni del governo di Rohani. Il ministro dell’Intelligence Mahmoud Alavi avrebbe fatto analoghe pressioni sul direttore di Kayhan, il principale quotidiano conservatore.

l’Unità 8.6.14
Quelle divinità che vengono da diverse culture

Duemila anni di monoteismo ci hanno abituato a ritenere che Dio non possa essere se non unico, esclusivo. Al contrario, il politeismo antico prevedeva la possibilità di far corrispondere fra loro dèi e dèe appartenenti a culture diverse, ovvero di accogliere nel proprio pantheon divinità straniere. Questa disposizione all’apertura ha fatto sì che il mondo antico non abbia conosciuto quella violenza a carattere religioso che invece ha insanguinato, e spesso ancora insanguina, le culture monoteiste. È possibile attingere oggi alle risorse del politeismo per rendere più agevoli e sereni i rapporti fra le varie religioni? È quello che si chiede Maurizio Bettini nel suo libro.

l’Unità 8.6.14
La parabola di Rimbaud
Da poeta a mercante, il giro di boa di un artista
Un mistero della storia letteraria: Vito Sorbello prova a ripercorrere la strana «conversione» pubblicando nuove lettere e documenti
di Felice Piemontese


QUELLO CHE RIGUARDA ARTHUR RIMBAUD È, CON OGNI PROBABILITÀ, IL PIÙ AFFASCINANTE MISTERO DI TUTTA LA STORIA LETTERARIA. Come sia stato possibile, cioè, che alcuni dei versi più belli e complessi della poesia francese, e universale, siano stati scritti da un ragazzo non ancora ventenne, che poi ha interrotto per sempre ogni attività letteraria, riducendosi a fare il mercante all’altro capo del mondo. Un mistero sul quale si sono interrogati storici e critici della letteratura, psichiatri e psicoanalisti, testimoni e compagni d’avventura, senza che nessuna delle risposte che hanno dato appaia soddisfacente. A riproporre la questione, ecco ora la pubblicazione, per Nino Aragno, di due volumoni di corrispondenza, curati da Vito Sorbello, col titolo Non sono venuto qui per essere felice (pp. 920, euro 50,00).
Naturalmente, la corrispondenza rimbaudiana è ampiamente nota agli studiosi. Sia l’edizione della Pléiade italiana che quella dei Meridiani delle Opere le riservano ampio spazio. La caratteristica del lavoro di Sorbello (cui dobbiamo, tra l’altro, la pubblicazione integrale del Journal dei fratelli Goncourt) è di pubblicare non solo tutte le lettere scritte da Rimbaud e arrivate fino a noi (alcune ritrovate abbastanza di recente) e quelle a lui indirizzate, ma anche documenti di cui il poeta non è né il destinatario né il firmatario ma che fanno luce su episodi e circostanze della sua vita. E insieme a documenti di varia natura - articoli di rivista, annunci di giornale, rapporti di polizia, atti giudiziari, dichiarazioni di confidenti - «che ricostruiscono il fondale storico in cui si svolse l’avventura esistenziale e artistica di Rimbaud».
Un’avventura che si svolge sotto i nostri occhi increduli, nonostante i tanti libri letti, le biografie, le ricostruzioni più o meno romanzesche. Ecco il ragazzino quindicenne che chiede disperatamente libri che lo aiutino a uscire dalla soffocante atmosfera provinciale, e quello appena un po’ più grande che scrive parole destinate a incidere profondamente sull’idea stessa di letteratura («lavoro a rendermi Veggente», «si tratta di arrivare all’ignoto mediante lo sregolamento di tutti i sensi»).
Ecco l’arrivo a Parigi (dopo i fermi per vagabondaggio e accattonaggio) con l’effetto di una bomba sui compassati poeti dei circoli letterari «perbene». Su uno in particolare, Paul Verlaine, che abbandonerà moglie e figlio per imbarcarsi nel più folle dei rapporti, tra Londra e Bruxelles, fame e grandi bevute, litigi furibondi e improvvise rappacificazioni, minacce di suicidio, fino ai colpi di pistola esplosi contro il giovanissimo amico e la prigione, comprensiva di degradanti esami corporali (va ricordato in proposito il recente Una sconosciuta moralità di Giuseppe Marcenaro).
Manca poco al più sorprendente degli sviluppi. Se non si può «cambiare la vita» (dopo Rimbaud motto di tutti i movimenti d’avanguardia dell’ultimo secolo) si può sempre cambiar vita, dice Sorbello, e non si può immaginare cambiamento più radicale di quello che Rimbaud apporta alla propria esistenza. Diventa viaggiatore - l’elenco dei posti in cui è stato occupa una pagina - prima di trasformarsi in mercante, in luoghi che ancora adesso sono tra i più remoti e «difficili » che si possano immaginare: Aden, l’Abissinia.
Mercante di caffè, di spezie, di fucili, di qualunque cosa si possa commerciare. E non solo non scriverà più un verso, ma sembrerà aver rimosso completamente quel se stesso poeta, cui non dedicherà mai nemmeno il più piccolo cenno nella corrispondenza con i familiari, fitta di conti, di richieste di manuali pratici, di lagnanze («non stupitevi se scrivo poco: il motivo principale è che non trovo mai niente da dire. Che volete che vi si scriva da posti simili? Che ci si annoia, che ci si scoccia, che ci si abbrutisce, che se ne ha abbastanza ma non si può finire»…)
La cosa paradossale è che mentre Rimbaud in Africa porta fino alle estreme conseguenze il suo processo di trasformazione in avido mercante deciso a non farsi sopraffare dai suoi occasionali compagni d’avventura, nella lontana Europa il suo mito comincia a svilupparsi e a crescere, grazie anche al mistero che ne circonda la scomparsa. Qualche lettera riguardante la sua poesia, che nonostante tutto lo raggiunge, rimane senza risposta e tutti lo credono morto. Morirà davvero, a37 anni, dopo un drammatico ritorno in Europa, indifferente al fatto di essere considerato, con Baudelaire, il massimo poeta dell’800 francese.

Repubblica 8.6.14
Progetto Manhattan. Le ragazze dell’atomica
Settant’anni fa partirono a migliaia dalle campagne dell’America profonda chiamate dal governo per un lavoro top secret
Avrebbero saputo solo poi che anche grazie a loro Nagasaki e Hiroshima non esistevano più
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON. LA RAGAZZAe ntrò nella casa della bomba reggendo in mano le sue scarpe bianche coi tacchi che non voleva distruggere nel fango del Tennessee. Portata in braccio da un poliziotto militare mosso a pietà dalla disperazione di una donna che aveva speso tutte le proprie fortune in quel paio di scarpe eleganti, Celia Klemski entrò nella baracca numero 5 di Oak Ridge ancora fresca dell’odore di assi e segatura, senza sapere, senza immaginare che lei, insieme con altre sessantamila donne, sarebbe diventata la madre del più infernale ordigno di morte che mai l’umanità avesse concepito e partorito prima: l’atomica. Per sette decenni la storia del “Progetto Manhattan”, così chiamato perché il primo ufficio dove fu organizzato e pianificato era a Manhattan, la saga degli scienziati catapultati da tutto il mondo e segregati per due anni tra le colline degli Appalachi, avrebbe ignorato lei e le decine di migliaia di donne, quasi tutte ragazze, senza le quali “Little Boy”, la bomba di Hiroshima, e “Fat Man”, il distruttore di Nagasaki, non sarebbero mai nati. È stato scritto qualcosa, poco, sulle scienziate reclutate accanto alle celebrità come Oppenheimer, Fermi, Lawrence, Teller, Szilárd o come la spia sovietica Fuchs, a concepire le bombe. Ma pochissimo spazio e tempo, fino alla ricerca di Denise Kiernan su The Girls of Atomic City (Touchstone) e solo ora uscita in America, erano stati dedicati al fiume di donne senza la quali la Bomba sarebbe rimasta quell’idea sulla carta suggerita da Albert Einstein a Roosevelt, e dimostrata possibile da Enrico Fermi a Chicago. Come Napoleone sapeva che ogni esercito marcia sullo stomaco, così Roosevelt, e il despota assoluto alla guida del Progetto Manhattan, il generale Leslie Groves, avrebbero scoperto in fretta che per arrivare alla mattina del 6 agosto 1945 su Hiroshima, il “gadget”, come era chiamato in codice, avrebbe dovuto camminare sulle gambe delle donne.
Fu la necessità di creare in poche settimane un mostro logistico e amministrativo di trecentomila persone, sparso in diciannove strutture e impianti dalla costa del Pacifico nel Nord Ovest agli Appalachi nell’Est, che lanciò l’operazione scarpetta bianca, il reclutamento, quasi una leva militare, di centomila donne. Erano quasi tutte ragazze, a volte liceali o contadine, sempre single, essendo le più adulte già impegnate nei lavori civili al posto dei figli e dei mariti inviati al fronte o madri con bambini anco- ra piccoli. I reclutatori dell’Esercito e dell’Fbi le preferivano di paese o di campagna, magari un po’ ruspanti ma meno schizzinose, più malleabili, più rispettose dell’autorità rispetto alle loro coetanee di città.
Lettere misteriose di convocazione arrivavano nelle cassette postali di fattorie del Midwest, nelle colline della West Virigina, negli acquitrini della Carolina. «Si presenti il tal giorno alla tale ora....». Uomini bruschi e dalla bocca cucita offrivano un lavoro per il governo, ben pagato, meglio degli avari salari dei genitori o della madre. Dove? Chiedevano agitate le ragazze. Lo vedrà. Per fare che cosa? Non si può dire. Per quanto tempo? Non lo sappiamo. E, attenzione, miss: quando sarà dove sarà non potrà parlarne con nessuno, neppure con le colleghe e i colleghi, non potrà scrivere a casa senza prima aver passato il vaglio dell’ufficio censura, e non potrà allontanarsi dal campo grande quaranta chilometri quadrati se non in gruppi sorvegliati. Firmi qui. La ragazze firmavano, quasi tutte, fra l’eccitazione, la paura, la curiosità, senza notare la riga dove era indicato che ogni violazione delle regole avrebbe potuto comportare il carcere per spionaggio e alto tradimento. Pena: anni dieci senza libertà provvisoria.
Si mossero a legioni. Partirono più ragazze per le destinazioni del Progetto Manhattan di quanti uomini esattamente settant’anni fa sarebbero sbarcati in Normandia. La maggior parte di loro, come Celia dalla bianche scarpe, come Kattie, la figlia di un pastore luterano, come Colleen che si sarebbe messa nei guai per amore, sarebbero state portate a Oak Ridge, accanto al paesino di Clinton, nel Tennessee, per lavorare in quella che era definita soltanto come “The Works”, la fabbrica. Viaggiavano per ore, spesso per giorni, in convogli lentissimi e riservati alle femmine. Si fermavano spesso per lasciar passare i treni dei loro coetanei maschi che andavano in direzione opposta, diretti ai porti dove si sarebbero imbarcati per i mattatoi d’Europa e d’Asia. «Quando i vagoni si fermavano uno accanto all’altro non aprivamo i finestrini. Anche i maschi erano quieti, niente fischi né richiami, ci guardavamo, al massimo qualche saluto con la mano e poi via», ricorda Lise, una delle “ragazza atomiche” ancora vive.
Oltre le barriere, le garitte degli Mp, i poliziotti militari, le strade non asfaltate e abbandonate al fango invernale e al polverone estivo, le donne facevano un po’ di addestramento davanti a macchine da scrivere, batterie di telefoni, saldatrici, macchinari mai visti, come quei quadranti di controllo per calutroni, gli spettrometri usati per separare gli isotopi dell’uranio. Non più donne, ma file di automi in tuta sedute con le mani sulle manopole e l’ordine di azionarle se la lancetta avesse superato certi valori. Ogni vicina nella camerata, o di stanza per le privilegiate che trovavano sistemazione in case sempre rigorosamente femminili e sorvegliate da implacabili matrons, poteva, anzi, doveva essere una delatrice, perché la stessa punizione, la cacciata o peggio il carcere, colpiva sia la pettegola sia colei che non l’avesse denunciata.
Nessuna di loro aveva la più lontana idea di che cosa stessero facendo, oltre quella lettera battuta a macchina per il proprio boss, quel manometro osservato per otto ore al giorno, quel tubicino saldato sotto lo sguardo inquieto di un ingegnere nucleare. Il generale Groves, dopo la guerra, calcolò che forse due dozzine di persone in tutti gli Stati Uniti sapessero che “La Fabbrica”, ufficialmente destinata a produrre un misterioso «tubo in lega», aveva il compito di arricchire l’uranio e renderlo utilizzabile per la bomba. Neppure il vice presidente americano che le avrebbe sganciate, Harry Truman, era stato informato.
Le poche donne sposate con uno degli «addetti ai lavori», con gli scienziati, potevano vivere con marito e figli in baracchette prefabbricate, naturalmente con la stessa proibizione di fare domande al marito o divulgare alle amiche anche soltanto quale fosse la sua specializzazione scientifica. Il massimo dello svago, dopo la festa del bucato che trasformava la Zona 5 in coreografie al vento di biancheria intima appesa ad asciugare, era la gita domenicale a Clinton, dove erano esplosi drugstore, modiste, parrucchieri, cinema, pasticcerie per approfittare di quei settantamila piovuti in poche settimane su paesini di tremila abitanti. «Persino andare in chiesa è uno svago», sospira Virginia in una delle poche lettere alla madre passata al vaglio dalla censura. Ma oltre lo spirito, anche la natura conosce le proprie estasi, e neppure la “matrona” più attenta, o il poliziotto più occhiuto, potevano impedire che qualche ragazza riuscisse a raggiungere il ragazzo incontrato un giorno nelle mense. La «fraternizzazione » non era proibita ma temuta, perché nel vortice degli ormoni qualche spezzone di informazione poteva sfuggire. La reazione a catena fra tanti ragazzi e tante ragazze ventenni era inevitabile, al punto da indurre un gruppo di indignati pastori e cappellani a denunciare al colonnello comandante «il crescente numero di cattive ragazze che danno scandalo con il loro comportamento». Una petizione alla quale il colonnello rispose astutamente con un «benissimo, Padri, fate una ricerca presso i maschi per sapere quali siano le cattive ragazze ». Prevedibilmente la ricerca non produsse alcun esito. Neppure quando Trinity esplose nella notte di Alamogordo, segnalando che la teoria era diventata realtà, e quando Hiroshima prima e Nagasaki poi furono annientate da Little Boy e da Fat Man, alle ragazze della bomba fu permesso di sapere. Soltanto all’annuncio della resa giapponese fu loro detto che avevano contributo alla vittoria finale e che le immagini sconvolgenti che presto avrebbero visto arrivare dalle due città erano anche frutto della loro fatica.
Celia Klemski lasciò la sua baracca un mese dopo Nagasaki, in settembre. Aveva ventun’anni. Le sue scarpe bianche erano ancora immacolate.

Repubblica 8.6.14
Datemi un Dna e vi spiegherò il mondo
Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?
La scienza comincia a dare risposte precise
Basta fare un piccolo test
di Marco Cattaneo



CON L’ARIA che tira in Europa c’è il rischio di essere frainteso, ma io sono - come tutti - una specie di miscuglio etnico: per metà mediterraneo, un po’ nordeuropeo, un po’ mediorientale. Con in più un due per cento di uomo di Neanderthal e un pizzico di uomo di Denisova, l’enigmatica specie di ominidi scoperta appena cinque anni fa nei Monti Altaj, in Siberia. In poche parole, è questo il verdetto scaturito dall’analisi del mio Dna effettuata dal Progetto Genographic, l’iniziativa lanciata quasi dieci anni fa da National Geographic e Ibm con l’obiettivo di tracciare le migrazioni umane attraverso l’analisi genetica delle popolazioni odierne. A volerla fare più lunga, i miei antenati per parte di padre furono tra i primi gruppi di Homo sapiens a lasciare l’Africa, circa 70mila anni fa, per stabilirsi nella Penisola Arabica. Di lì, alcuni presero la via dell’Asia, seguendo la costa e raggiungendo l’Australia già 50mila anni fa. Noi no. I miei, per così dire, se ne rimasero a girovagare da quelle parti da bravi cacciatori nomadi finché il clima cambiò.
Le temperature si abbassarono, le precipitazioni diminuirono, lasciando terre aride dove prima c’era una rigogliosa savana. Il deserto avanzava, e i miei (come i vostri, probabilmente) non avevano scelta: migrare o morire. Alcuni si ostinarono a rimanere in Medio Oriente, altri inseguirono le grandi mandrie di animali selvatici nelle praterie che a quell’epoca si estendevano dall’Atlantico fino al Mar del Giappone. Il gruppo più piccolo, il mio, mosse verso nord, attraverso l’Anatolia e i Balcani. Lì, resistettero all’ultima glaciazione di 20mila anni fa, durante la quale i ghiacci ricoprivano il Nord Europa, ma anche l’area alpina e gli Appennini. E quando le temperature si fecero più miti, tra 15mila e 10mila anni fa, sciamarono per l’Europa, divennero agricoltori e allevatori e alla fine, finirono in Pianura Padana.
Il cammino dei progenitori di mamma non è stato molto diverso. Se ne uscirono dall’Africa un po’ più tardi, e un po’ più a nord, seguendo il bacino del Nilo fino al Sinai, e incontrando i Neanderthal intorno a 60mila anni fa. Deve essere lì che è avvenuto il fattaccio per cui mi ritrovo qualche avanzo di genoma neandertaliano. Dopo qualche millennio in Medio Oriente si ritrovarono con i parenti di papà nella Mezzaluna Fertile, ma poi presero un’altra strada. Superarono il Caucaso lungo il Mar Caspio e passarono l’inverno nell’Europa centro-orientale, dove diedero il loro contributo alla scomparsa dei cugini Neanderthal. E di lassù calarono poi a sud delle Alpi con qualche orda di barbari. O almeno così mi piace immaginare. A oggi il Genographic ha analizzato il Dna di oltre 660mila persone, ricostruendo la mappa delle migrazioni umane con una precisione senza precedenti, grazie all’esame di 150mila marcatori genetici. Ogni nostra cellula contiene cromosomi che sono la combinazione del Dna che ereditiamo dai nostri genitori. Con qualche eccezione. Il Dna mitocondriale, per esempio, lo ereditiamo soltanto dalla madre, e il cromosoma Y dal padre. È da questi che si ricostruiscono le due linee di discendenza. E per questo le donne, che non hanno il cromosoma Y, non possono conoscere la propria storia paterna se non grazie all’analisi del Dna di un congiunto maschio di primo grado. Il Dna passa di generazione in generazione, ma di tanto in tanto intervengono mutazioni. E una mutazione di successo è come una specie di post-it sulla doppia elica del Dna; viene trasmessa per millenni ai discendenti del primo che l’ha recata. Confrontando il genoma di molti individui, con il metodo dell’“orologio molecolare” si riesce a stabilire quando e dove una mutazione sia avvenuta per la prima volta. E l’epoca e il luogo di quel primo evento segnano l’inizio di una nuova linea di discendenza umana. Così, controllando quali marcatori ci sono nel nostro Dna, si risale nella nostra storia personale, fino a quelle piccole comunità che vivevano 75mila anni fa nel cuore dell’Africa, e da cui tutti discendiamo. Il test è semplice, garantisce la riservatezza e non coinvolge marcatori come quelli per individuare la predisposizione a malattie genetiche. Per farlo basta richiedere il kit Geno2.0 a genographic.n ationalgeographic.com e seguire le istruzioni. Che poi prevedono solo di sfregarsi l’interno delle guance con una specie di spazzolino da denti e rispedirlo in un contenitore sterile. Poi una mattina vi ritrovate nella posta elettronica un messaggio che annuncia che i risultati sono disponibili. Magari, come me, non ci troverete grosse sorprese - al di là del fatto che una parentela con i Neanderthal, almeno come ce li hanno sempre dipinti, può dare qualche inquietudine - ma avrete partecipato a un progetto scientifico di portata mondiale. E potrete fantasticare sul cammino dei vostri geni, sulle disavventure, i disagi, i pericoli, le malattie che i vostri antenati hanno dovuto affrontare per arrivare fino a voi. Qui e ora.

Repubblica 8.6.14
Il re della genetica “Evviva le differenze”
di Silvia Bencivelli



INTERESSANTE per la scienza, curioso per chi lo fa. E utile per capire da dove veniamo e dove stiamo andando. Per Luigi Luca Cavalli Sforza, pioniere della genetica di popolazioni e professore emerito di Genetica all’Università di Stanford, i risultati del progetto Genographic sono più che benvenuti. Anche se qualche scetticismo può essere legittimo.
Ma davvero ci aspettiamo che tra due persone che oggi abitano nello stesso paese, o nello stesso continente, i risultati siano tanto diversi? «Perché no? E poi, come tutti i genetisti, sono naturalmente convinto che vi siano parecchi risultati interessanti da leggere nelle differenze che si riscontrano con un test eseguito su due persone prese a caso».
L’Europa sta cambiando: un test come questo, magari eseguito su intere popolazioni, sarà in grado di ricostruire i cambiamenti veloci della nostra storia, come quelli delle recenti migrazioni? «Il test del Dna può certamente ricostruire una parte dei cambiamenti veloci dovuti alle recenti migrazioni, anche se dobbiamo ricordare che queste sono solo una piccola frazione di quelle avvenute su tutto il pianeta nel corso dell’intera storia umana. Lo studio delle differenze in tempi e luoghi diversi darà risultati diversi».
Perché la discendenza paterna e quella materna, come viene raccontato nell’articolo di Marco Cattaneo, risultano tanto diverse? «La discendenza paterna si studia sul cromosoma Y, che viene trasmesso dal padre a tutti i figli maschi, mentre quella materna si studia sul DNA contenuto nei mitocondri, che viene trasmesso dalla madre a tutti i figli, maschi e femmine. Così, andando a ritroso nel tempo, si possono separare le vicende avvenute lungo la linea di discendenza paterna e lungo quella materna, che non sono mai identiche e, a volte, possono anche essere molto diverse».

Corriere 8.6.14
William Masters
Il medico che studiò il sesso trasformandolo in scienza
di Renato Franco


Il sesso come scienza. Non solo osservare nel corso di 11 anni oltre 10 mila atti sessuali compiuti da circa 700 volontari. Ma anche misurarne le reazioni fisiologiche e documentarle con foto e filmati. Fu un lavoro monumentale quello del ginecologo William Masters (1915-2001) e della sua assistente e poi moglie Virginia Johnson (1925-2013) che sconvolse i perbenisti anni 50. Il risultato scientifico più rilevante fu quello di sdoganare l’orgasmo femminile e renderlo rilevante quanto quello maschile; il risultato televisivo è la serie «Masters of Sex».
A interpretare i protagonisti ci sono il 45enne gallese Michael Sheen e la 31enne americana Lizzy Caplan. Si parla molto di sesso, ma inevitabilmente anche di amore perché — a volersele fare — ci sono domande senza tempo: cos’è l’intimità? Qual è la natura del desiderio? Che cosa sono l’attrazione e l’amore? «Questa serie è un’esplorazione sulla sfida di essere intimo con qualcun altro — spiega Sheen —. Ossia sulla difficoltà di essere fisicamente, emotivamente e psicologicamente vulnerabili nei confronti di qualcun altro. E il sesso e l’amore sono solo una parte di questa sfida». Sheen dà il volto a un personaggio ambivalente, esperto di sesso, ma conoscitore superficiale di donne, distaccato nei rapporti umani. Ambizioso, ma anche trattenuto. «Masters è un uomo che ha bisogno di avere tutto sotto controllo, ma allo stesso tempo è alla disperata ricerca di come perdere questo controllo, anche se lo nasconde a se stesso. Lui è un uomo che ha costruito il suo mondo per fare quello che deve fare, ma a scapito di seppellire una parte essenziale di se stesso. Quando incontra Virginia, lei inizia a parlare a quella parte sepolta e il suo mondo inizia a implodere». In onda da domani, ogni lunedì, alle 21.10 su Sky Atlantic (canale 110 della piattaforma a pagamento), «Masters of Sex» non lesina — e non potrebbe visto l’argomento — scene di sesso in cui prevale l’aspetto scientifico, freddo e anestetizzato (non sempre) su quello pruriginoso. I recensori americani hanno approvato: su 49 giudizi — ha calcolato il sito Rotten Tomatoes — il 90% sono stati favorevoli con una media voto di 8,4 su 10.
Al centro del racconto c’è non solo l’evoluzione delle ricerche di Masters & Johnson ma anche l’incrocio delle loro vite private. Lui era sposato con una donna con cui non riusciva a stabilire una relazione sessuale e affettiva, lei aveva due matrimoni alle spalle e due figli come risultato, una donna indipendente ed emancipata per i canoni dell’epoca. Così la ricerca da scientifica diventò personale: iniziarono una relazione che si concluse in matrimonio nel 1971. Del resto una serie sulla sessualità non può che essere anche una serie sulla famiglia che in fondo è il prodotto sociale del sesso.

Corriere La Lettura 8.6.14
Dal Sapiens al posthuman: il filo che percorre la traiettoria della nostra specie. Determinismo e scelte
È l’immaginazione che ci ha resi umani
Senza vie obbligate
di Adriano Favole
qui

Corriere La Lettura 8.6.14
La nuova vita del figlio di Romain Gary
di Daria Gorodisky


Tanto il padre adorava primeggiare, tanto il figlio ama «camminare rasente i muri». Il padre è il grandissimo Romain Gary, e come non ricordarne il centenario della nascita (8 maggio 1914)? Venuto alla luce in Lituania come Romain Kacew, era il frutto di una relazione clandestina fra il Rodolfo Valentino russo, Ivan Mosjoukine, e un’attrice ebrea. Lei, ragazza-madre povera, attraversò l’Europa con il bambino — destinazione Parigi — e dedicò la vita a trasformarlo nel proprio riscatto. E ci riuscì, eccome se ci riuscì: Romain sarà eroico pilota di guerra e poi alto diplomatico per la Francia, prolifico autore da premio Goncourt (l’unico ad averlo vinto due volte, la seconda con lo pseudonimo di Émile Ajar), poliglotta anche nella scrittura, regista, sofisticato collezionista di arte e di donne: purché fossero le più belle del mondo, come voleva sua madre. Un genio riconosciuto. In Italia Neri Pozza ha pubblicato la maggior parte delle sue opere; e qualche mese fa anche Delle donne, degli ebrei e di me stesso , raccolta di interviste e suoi articoli inediti in italiano. Insomma, difficile per un figlio confrontarsi con un padre così. Praticamente impossibile se per mamma si ha un’icona del cinema come la splendida Jean Seberg; e se un giorno del 1979 lei viene trovata, svestita e uccisa dai barbiturici, nel bagagliaio di un’automobile; e se, un anno dopo, Romain indossa una sontuosa vestaglia rossa per salvaguardare l’estetica e si spara. Quando perde entrambi i genitori, Alexandre Diego Gary ha 17 anni. Da lì in avanti vuole solo «annegare in un mare di cenere»: alcool, droga, prostitute. Non sopporta il «rango da progenitura da nulla, da meno di niente», «la posterità non è vita». Si laurea in letteratura; sogna di scrivere; ma è «paralizzato». Alexandre Diego cerca ossigeno liberandosi della casa di famiglia, il «mausoleo» parigino al 108 di Rue du Bac, e nel 1999 si trasferisce a Barcellona. Lì apre un caffè letterario, piano piano ritrova se stesso. Quando sta per nascergli una figlia riversa il tormento in un libro: S. ou L’espérance de vie (Gallimard). A 45 anni una speranza di vita, finalmente. Poi di nuovo via dai riflettori. Che fortuna se lo si vede al Lletraferit , quel suo locale fra la Rambla e l’università. Non è facile scorgere un’ombra che si nasconde.

Corriere La Lettura 8.6.14
Leonardo, la scienza senza il mito
Il museo di Milano rilegge la figura e le opere
«È diventato un’icona pop, noi facciamo ordine»
Un nuovo percorso espositivo
di Leonard Berberi


Quando sarà finito, sembrerà di vederlo dal vivo. Certo, è in versione ridotta. E in gesso. Però gli equilibri nelle misure, i suoi archi e i dettagli ci sono tutti. E, a differenza di quello vero, lo si può vedere nella sua interezza. Da dentro, e da fuori — è in sezione —, contemporaneamente. Il Pantheon di Roma, esempio del rapporto tra il Rinascimento e gli antichi, sarà uno dei pezzi forti della nuova esposizione su Leonardo da Vinci che stanno mettendo a punto al Museo nazionale della scienza e della tecnologia di Milano. Un’istituzione che del genio fiorentino — strapazzato e rivendicato al di qua e al di là delle Alpi — porta anche il nome. E una nuova galleria permanente che nel 2015 dovrebbe aprire i battenti, questo almeno è l’obiettivo, giusto in tempo per l’Expo, l’evento che per sei mesi stravolgerà l’assetto del capoluogo lombardo con una ventina di milioni di visitatori previsti.
Un evento, l’esposizione universale del prossimo anno, che ruota anche attorno alle «Vie d’acqua». E, di riflesso, ai moltissimi lavori d’ingegneria urbana e idraulica dell’uomo nato a Vinci.
Leonardo il genio. Leonardo l’osservatore. Leonardo l’inventore. Leonardo pop. Ma anche: Leonardo il mito. Che vuol dire, nell’ottica della nuova idea del museo, anche Leonardo reinterpretato. Il primo effetto del lavoro di aggiornamento della figura dell’autore della Gioconda — tanto per dirne una — è che sarà presentata in modo innovativo. «Negli ultimi decenni l’interpretazione sulla sua vita ha subìto molte evoluzioni», spiega Claudio Giorgione, curatore del dipartimento «Leonardo, Arte e Scienza» al Museo nazionale della scienza e della tecnologia, mente del nuovo progetto d’esposizione. Restano la «visione originale», certo. Così come «la sua contemporaneità», la sua curiosità «e la sua capacità di osservare e interpretare la natura». Ma, sottolinea Giorgione, «andremo anche un po’, indirettamente, a smontare il mito di Leonardo». Un esempio? «I suoi studi e i suoi disegni non rappresentano necessariamente invenzioni, progetti o tentativi di realizzare macchine funzionanti» (due su tutti: l’ala battente e la navicella volante), ma sono «espressioni di una cultura e di un sapere esistenti da tempo». Ecco, quello che storicamente si è sempre fatto su vita, opere, morte e miracoli di Leonardo — secondo l’esperto — è stato questo: non contestualizzarlo nel tempo e nello spazio. Soprattutto nello spazio. «Certe cose che abbiamo ereditato delle attività del genio italiano non si possono capire davvero se non teniamo conto del suo trascorso a Milano o in Toscana».
Insomma, nella nuova esposizione si farà attenzione, tanta, ad evitare qualsiasi effetto «parco di divertimento». Ci sarà l’interattività e tutto quello che la tecnologia moderna offre per comprendere meglio la figura di Leonardo, ma lo scopo principale è quello di presentare il genio per quello che è stato, per quello che — davvero — ha fatto, e per l’eredità lasciata ai giorni nostri. Soprattutto: per quello che potrà dire nell’ambito dell’Esposizione universale. «Un ritorno alle radici del protagonista per conoscere davvero il suo passato e per guardare al futuro», precisa il direttore generale del Museo, Fiorenzo Galli.
Il tutto sarà esteso su 1.300 metri quadrati di spazio espositivo (contro gli attuali 920). Saranno utilizzati anche ambienti chiusi al pubblico per ospitare i quattordici «nuclei tematici» dell’allestimento. Si partirà dalla vita di Leonardo. Poi toccherà al rapporto con il disegno («Il cui impiego innovativo è la sua più grande invenzione», dice Galli), alla città ideale tra edifici e cantieri, alla pittura, al mestiere delle armi e all’arte della guerra, all’osservazione del territorio (soprattutto: delle vie d’acqua). E ancora: alla ricerca del volo umano, ai legami con il tessuto economico e sociale per arrivare agli aspetti «micro» (l’anatomia) e «macro» (il cielo) della vita umana.
Addio all’aspetto enciclopedico. Alla base ci saranno i «nuclei narrativi» disposti in parte in ordine cronologico e in parte tematico. «Nel nostro progetto abbandoniamo la classica suddivisione nei diversi ambiti di studio, tipica chiave di lettura degli anni Cinquanta», ragiona il curatore. «I modelli storici della collezione saranno in questo modo soltanto gli strumenti, e non il fine, con cui verranno approfonditi questi “nuclei”». Tra i modelli ci sarà anche la versione in gesso del Pantheon. Un’opera che, in questo momento, è ancora in tanti pezzetti: la stanno restaurando nel laboratorio del museo e nei prossimi mesi sarà montata e mostrata al pubblico. L’ultima volta è successo nei primi anni Novanta.
Questo nuovo progetto si inserisce in una realtà nata più di mezzo secolo fa e che nel 2013 ha registrato 435 mila visitatori. «Quest’anno supereremo i 450 mila», anticipa Galli. Un quinto viene dall’estero. «Tra quelli stranieri — calcola il direttore generale del Museo della scienza e della tecnologia — i primi cinque Paesi di provenienza sono Russia, Giappone, Francia, Germania e Stati Uniti».
L’internazionalizzazione è uno dei temi su cui più insiste Galli. Non solo perché da anni il museo milanese porta in giro per il mondo la figura e i modelli di Leonardo. Ma anche perché questo serve per fare il punto sulla situazione nazionale. Una realtà che, nel confronto con l’estero, «ci vede molto indietro», spiega il direttore generale. Non solo da un punto di vista economico e di quanto dagli enti statali e locali arriva ai musei italiani. Per questo elenca spesso le «missioni» fuori dai confini, anche europei. «La mostra “Léonard de Vinci, projets, dessins, machines” — realizzata da Universcience in collaborazione con noi e il Deutsches Museum — a Parigi nel 2013, a Monaco di Baviera (fino al prossimo 3 agosto) e da ottobre 2015 al Science Museum di Londra, i musei tecnico-scientifici più importanti d’Europa. “Leonardo da Vinci. Flexible thinking”, fino al 31 ottobre 2014 all’Energimuseet di Bjerringbro in Danimarca. Le esposizioni “Leonardo da Vinci and the Ideal City” all’Urban Footprint Pavillion Expo Shanghai 2010 in Cina. “Leonardo da Vinci workshop caravan” in Giappone sempre nel 2009, nel 2013 e quest’anno. Infine nel 2008, all’interno del padiglione italiano all’Expo Internazionale di Saragozza».
Tutte esperienze che secondo Galli dimostrano una cosa: «Abbiamo le potenzialità, abbiamo i mezzi, abbiamo tutto, sia a livello lombardo che nazionale, tant’è vero che ci chiamano dall’estero per quello che siamo in grado di fare. Forse, anche alla luce di Expo 2015, dovremmo puntare un po’ di più su questo, dovremmo valorizzare molto di più le eccellenze del territorio. È anche così che il made in Italy può ulteriormente farsi largo nel mondo».
A proposito di «made in Italy». Fiorenzo Galli sottolinea il suo ruolo non solo all’interno del tema centrale dell’Esposizione universale («Nutrire il Pianeta») — evento nel quale il Museo della scienza e della tecnologia parteciperà con diverse iniziative permanenti —, ma anche per il futuro di oltre sette miliardi di persone. Per il direttore generale, visti i numeri, c’è bisogno di una «cittadinanza alla sostenibilità». «E questo tipo di cittadinanza non può fare a meno dell’eredità che ci ha lasciato proprio Leonardo da Vinci».

l’Unità 8.6.14
La cultura rende l’uomo libero
di Enrico Berlinguer


Le forze conservatrici hanno visto e vedono nella cultura soltanto uno strumento: nel migliore dei casi, per l’acquisizione del dominio sopra la natura e, nel peggiore, per il mantenimento del privilegio e del dominio dell’uomo sull’uomo. Per le forze progressiste e rivoluzionarie, per noi comunisti, la cultura è un’altra cosa. È risorsa indispensabile per lo sviluppo ed è anche e soprattutto una finalità del vivere sociale degli uomini.
La cultura è per noi leva determinante ed essenziale non per il dominio, ma per la liberazione di ogni singolo individuo e della società nel suo complesso. Quanto più avanza la conoscenza scientifica e quanto più sofisticate si fanno le tecniche tanto più assurdo appare il ruolo marginale assegnato alle forze della cultura e del sapere.
È ormai ovunque necessaria una capacità di previsione e di programmazione e tale capacità vuol dire rapporto continuo tra politica e conoscenza, tra istituzioni democratiche e mondo della cultura e del sapere. Senza una tale razionale capacità di previsione e di programmazione le stesse conquiste della scienza e della tecnica possono rivolgersi contro l’uomo, anziché a suo vantaggio.
Il pensiero ancora oggi dominante è che la natura sia da considerare come una sorta di mezzo di produzione, da sfruttare in modo indiscriminato e quando, soprattutto fra le giovani generazioni, si diffonde un sentimento di ripulsa verso questa concezione si obietta da parte di molti che non si vuole tener conto della preminenza delle necessità economiche; ma è proprio qui l’arretratezza culturale.
Oggi, al contrario, è perfettamente concepibile uno sviluppo che non avvenga facendo irrimediabile violenza alla natura. Oggi le tecnologie offrono straordinarie possibilità tra loro alternative. E se non si sarà capaci di scegliere tra le diverse tecnologie quelle che consentono di rispettare la natura come un valore da salvaguardare con ogni sforzo, saranno alla fine negativi anche i conti economici.
L’ambiente è anch’esso una risorsa e la sua dissipazione è un danno anche economico. Deve essere messa sotto accusa la politica generale, ma anche l’ignoranza e l’incultura che l’hanno generata. Niente può giustificare l’incuria o peggio l’abbandono alla speculazione, al saccheggio, ai furti sistematici del più straordinario patrimonio culturale che esista nel mondo ereditato dalle grandi civiltà che, fatto pressoché unico, si sono succedute in Italia.
In Italia in Italia, viviamo immersi in una ricchezza di testimonianze di epoche diverse, di civiltà che si sono succedute senza uguali, rispetto a tutti gli altri paesi dell’Europa. Questa ricchezza di beni esige tutela e valorizzazione già per il fatto che essa appartiene propriamente non solo a noi italiani, ma a tutta l’umanità. L’Italia ha verso gli uomini tutti, anche verso quelli che verranno dopo di noi, la responsabilità di salvare e conservare documenti che sono indispensabili a fare non appiattite ma alte, fornite di memoria storica, dotate di molti modelli ideali, le civiltà degli uomini di oggi e di domani.
Certamente le regioni e gli enti locali più sensibili possono curare e curano questa ricchezza di valori e di testimonianze, come il comune di questo capoluogo. Ma per quanto siano efficaci gli sforzi e le iniziative loro, essi non possono bastare se manca il complessivo impegno dello Stato. Assurda appare la destinazione nel bilancio statale di somme tanto esigue ai beni culturali, zero venticinque per cento del totale: la cifra si commenta da sola.
In primo luogo i beni culturali costituiscono una risorsa per tutto il nostro popolo, che può svilupparsi a contatto con gli universi del passato e della bellezza, così naturalmente aprendosi al senso della complessiva vicenda umana, al senso critico verso il presente. La cultura di un popolo che utilizza largamente la pagina scritta, il documento, è cultura che si predispone a essere riflessione, consapevolezza scientifica, spirito critico contro le sottoculture che minacciano di diffondersi all’insegna dell’evasione, dell’irrazionale con quanto ne può derivare di smarrimento dell’identità nazionale, sociale, umana.
La nostra critica al bilancio dello Stato è fondata anche su un’altra ragione incontestabile da ogni parte. La nostra ricchezza di beni culturali rappresenta infatti la possibilità di acquisire altra ricchezza. Possiamo essere ben più che un polo del turismo internazionale e di un turismo meno frettoloso e culturalmente più qualificato. Possiamo nei diversi settori dei beni culturali porci all’avanguardia; possiamo essere una capitale internazionale della ricerca nell’architettura, nell’archeologia, nella storiografia, nella storia dell’arte, nella biblioteconomia. Il fatto è che tutta la questione della cultura, dai beni culturali alla scuola, alla ricerca scientifica, indica l’esigenza di una nuova concezione della spesa statale e della sua distribuzione; un’altra concezione, non solo della quantità, ma della qualità dell’intervento pubblico.
Il bisogno di progettualità e di programma asserito fin dall’inizio dal pensiero socialista, si fa oggi stringente e diventa un bisogno assoluto e un programma per l’Italia deve intendere la centralità della questione culturale come grande questione nazionale.
Non si rimane nell’area dello sviluppo senza un balzo in avanti nella ricerca scientifica, senza una più alta tecnologia, senza una più elevata e diffusa cultura. Noi abbiamo proposto misure specifiche in ogni settore della vita e dell’organizzazione della cultura e ci batteremo per esse, ma l’insieme di questo tema ci rimanda inevitabilmente ai problemi dell’orientamento generale della politica del paese.

il Sole24 domenica 8.6.14
Il più irriducibile degli oppositori
Dopo l'omicidio, Piero Gobetti scrive un profilo (ora riedito) in cui tratteggia la vittima come guardiano della rettitudine politica, antifascista intransigente, «volontario della morte»
di Emilio Gentile


Or sono novanta anni, il 10 giugno alle ore 16.30, a Roma, il deputato socialista riformista Giacomo Matteotti, uscito di casa per recarsi alla Biblioteca della Camera, fu rapito da una banda di sicari fascisti, che lo assassinarono e ne seppellirono il corpo in un bosco nei pressi della capitale, dove fu ritrovato due mesi dopo, il 16 agosto. La scomparsa del deputato fu denunciata dalla moglie il giorno dopo, ma subito si diffuse la convinzione del suo assassinio e iniziarono le indagini per cercare i colpevoli. I portieri di uno stabile nei pressi della sua abitazione avevano annotato il numero di targa dell'auto dei rapitori, che nei giorni prima del sequestro si aggiravano nei paraggi. La sera del 12 giugno il capo della banda, Amerigo Dumini, fu arrestato dalla polizia. Nei giorni successivi, l'inchiesta giunse a coinvolgere, come mandanti del delitto, strettissimi collaboratori di Mussolini: Cesare Rossi, capo dell'ufficio stampa della presidenza del Consiglio, e Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del Partito fascista. Mussolini aveva appreso la notizia del delitto la sera stessa del 10 giugno, ma il 12 alla Camera, rispondendo a una interrogazione dei socialisti, finse di non saperlo e parlò di «misteriosa scomparsa».
Da novanta anni si discute sui mandanti e i moventi del delitto: se fu il duce il mandante principale; se l'uccisione di Matteotti fu premeditata, dopo il suo discorso alla Camera del 20 maggio 1924 per denunciare le violenze fasciste nelle elezioni politiche, oppure fu l'epilogo di una spedizione squadrista concepita inizialmente solo per bastonare e umiliare uno dei più coraggiosi e intransigenti oppositori del fascismo; se il movente del delitto fu politico oppure affaristico, cioè derivato dal timore che Matteotti fosse prossimo a denunciare uno scandalo di tangenti in cui sarebbero stati coinvolti caporioni del fascismo e il fratello del duce. È certo però che il delitto Matteotti fu l'episodio più grave e più clamoroso in una lunga sequela di violenze e di assassini perpetrati dai fascisti prima e dopo l'ascesa al potere.
Dagli oppositori antifascisti, Mussolini fu subito considerato mandante o complice di un delitto premeditato. Come scrisse Piero Gobetti su «La Rivoluzione Liberale» il 17 giugno, l'assassinio di Matteotti era parte «di un piano raffinato che non può non essere dettato dall'alto .... Ci vuol un'intelligenza fredda e calcolatrice per scoprire l'avversario vero in Matteotti, l'oppositore più intelligente e più irriducibile tra i socialisti unitari. ... Nulla di fortuito dunque nel suo assassinio. Col cinismo della guerra civile si è voluto eliminare il capo di uno Stato Maggiore».
Poche settimane dopo, il 1º luglio, Gobetti pubblicò sulla rivista un profilo biografico di Matteotti, subito edito in un libro dalla sua casa editrice, e ora ripubblicato dalle Edizioni di Storia e Letteratura. Il deputato assassinato era descritto come un eroe solitario nello stesso Partito socialista unitario, di cui era segretario generale, costituito alla vigilia della conquista fascista del potere dai riformisti che facevano capo a Filippo Turati. Il giudizio di Gobetti sui socialisti unitari era molto severo: nel saggio La rivoluzione liberale Turati era accusato di «parlare attraverso i fiori della retorica messianica un linguaggio reazionario. Il suo scetticismo verso ogni organizzazione di forze, la sua fede nella diplomazia giolittiana riuscirono in un momento storico solenne gravemente diseducatori» per il proletariato, che «restava ormai inerte e senza interesse verso l'esperimento riformista».
Invece Matteotti, dopo il suo assassinio, divenne per il giovane antifascista torinese un intransigente del «sovversivismo», un «aristocratico nello stile», «un socialista persecutore di socialisti» perché «guardiano della rettitudine politica e della resistenza dei caratteri», un «nemico delle sagre» perché organizzatore con «l'ossessione della semplicità, della chiarezza, della praticità», e, infine, come «un volontario della morte». Nel suo socialismo di intransigente solitario, Gobetti vedeva la forza morale di «una fede di stampo austero e pessimistico, nei valori di individualismo e di libertà». Lo stesso antifascismo di Matteotti, per Gobetti, era «una questione di carattere, di intransigenza, di rigorismo», che lo indusse, come segretario del partito, a «stroncare non appena se ne parlò ogni ipotesi collaborazionista della Confederazione del Lavoro».
Al di là dei tratti di carattere, si può discutere, come osserva giustamente Marco Scavino nella postfazione del Matteotti gobettiano, se il deputato socialista fosse stato come lo descriveva Gobetti «o se non si trattasse piuttosto dell'abile costruzione di un personaggio ad usum Gobetti, dotato di tutte le prerogative politiche e morali più care al giovane intellettuale torinese». In effetti, prima dell'assassinio, Gobetti aveva dedicato a Matteotti un accenno tutt'altro che elogiativo, in un articolo dell'8 marzo 1923, dove aveva scritto che come economista socialista, Matteotti, non aveva «più importanza che un articolista di giornale». Matteotti non era neppure menzionato nel saggio di Gobetti La rivoluzione liberale pubblicato nel marzo 1924.
Nel numero del 17 giugno de «La Rivoluzione Liberale», dove comparve il primo elogiativo commento gobettiano su Matteotti assassinato, Giovanni Ansaldo affermava che il discorso di Matteotti alla Camera del 30 maggio «non fu, a grammaticalmente parlare, un discorso eloquente, e del resto, l'on. Matteotti non pretende di essere un oratore. Ma esso fece effetto di un discorso eloquentissimo: le stesse interruzioni avversarie, l'accanimento della stampa ministeriale, tutto confermò questa impressione».
Dopo l'assassinio, Matteotti divenne per Gobetti la figura del martire che egli vagheggiava come modello per il suo antifascismo intransigente: «la generazione che noi dobbiamo creare», scriveva alla fine del suo profilo, «è proprio questa, dei volontari della morte per ridare al proletariato la libertà perduta». Nel ritratto di Matteotti, in fondo Gobetti descriveva se stesso.

il Sole24 domenica 8.6.14
Luciano Canfora
Traiettoria tra individuo e Stato
di Angelo Varni


Storia e politica; militanza personale e approfondimento scientifico; lettura disincantata della realtà e richiamo all'astrattezza dei principi: c'è tutto questo e altro ancora nella densa intervista a Luciano Canfora, curata con ritmo dialogante da Antonio Carioti. Ma c'è soprattutto l'esigenza di una riflessione sui tempi lunghi della vicenda della nostra civiltà, in una prospettiva che tende a cogliere la traiettoria che lega individuo e Stato, nella costante dialettica tra potere e libertà, dall'età classica greco-romana all'oggi.
E Canfora riesce a farlo con la lucidità del profondo conoscitore di quel mondo antico, arricchita dalla passione civile di chi mai - anche per la tradizione familiare antifascista - si è chiuso al confronto con l'impegno a vantaggio della polis odierna.
È indubbio, del resto, che in politica il linguaggio utilizzato per individuare istituzioni e comportamenti non sia mutato rispetto al periodo "classico". Canfora ha maturato la convinzione della possibilità di "perlustrare" la vicenda storica anche utilizzando "il pensiero ' analogico', che consiste nel riconoscere (quando si tratti di fenomeni politici) un nesso non velleitario fra dinamiche di epoche differenti che s'illuminano a vicenda".
Una ragione interpretativa che trova conferme nel rinvio costante e illuminante ai principi e alle fasi della Rivoluzione dell' '89, a loro volta intrisi di continui richiami alle esperienze della classicità. Con queste siamo chiamati di volta in volta a fare i conti per comprendere quanto è accaduto lungo i due secoli che ci separano da quel sogno di rigenerazione dell'uomo allora vagheggiato.
Così è, ad esempio, per le diverse fasi della rivoluzione sovietica, come per gli autoritarismi del '900, evitando di dar credito a " spiegazioni monolitiche e unilaterali, in cui tutto si riduce a un solo elemento diagnostico". Compito dello storico - ci ammonisce Canfora a più riprese- gli appare quello di sottrarsi a valutazioni che lo assimilino ad un " padreterno con intorno gli angeli al momento del giudizio universale". Solo in tal modo è possibile pure scrostare le esperienze rivoluzionarie dalle motivazioni ideologiche di partenza, facendole realisticamente rientrare nelle specifiche vicende nazionali dei diversi Paesi coinvolti, per giungere a rendersi conto dell'inevitabile "generale vittoria della storia, intesa in senso continuistico, sull'ideologia".
Il dialogo intrecciato nel volume porta il lettore a ritrovare i grandi temi delle forme d'esercizio del potere nel confronto millenario tra Occidente ed Oriente, tra dimensioni imperiali e frammentazioni nazionali, fino agli attuali "scontri di civiltà" affidati ad ottimistiche quanto irrealistiche - ci avverte Canfora - visioni espansive di una cultura democratica occidentale. Un affascinante succedersi di "quadri" storici, dove non manca il rapporto tra politica e religione; né il ruolo cruciale dell'istruzione; come pure il susseguirsi degli scontri sociali; per poi addentrarsi in un'originale disamina degli effetti dirompenti della prima Guerra mondiale seguita dalle esplosioni rivoluzionarie dei totalitarismi, derivanti dal comune " fallimento del sistema parlamentare rappresentativo di stampo liberale".
Nel procedere verso l'oggi, lo scambio di opinioni tra i due interlocutori si fa sempre più serrato, segnato dall'appassionata ricerca di risposte convincenti all'attuale dispersione dei "valori". Spezzatosi, infatti, il filo orientativo di tutto il Novecento, rappresentato dalle diverse declinazioni dello Stato sociale; elevata di nuovo a dogma indiscutibile la supremazia della ricchezza individuale; modellata un'Europa solo delle monete e dei capitali; disgregati - è il caso dell'Italia - i partiti tradizionali, ci si è affidati alle decisioni di tecnocrati incapaci di cogliere bisogni e aspirazioni dei cittadini. Da qui, dai troppi errori commessi, il diffuso disagio e l'immaturità politica segnalati dall'espandersi di movimenti populisti densi di pericolosi echi propri delle derive fasciste che abbiamo ben conosciuto.
Di fronte alle nuove oligarchie imperanti in questo mondo globalizzato, teme Canfora di assistere a una sconfitta degli ideali di libertà concepiti due secoli fa nella temperie rivoluzionaria dell''89, con le poche speranze di risalire la china affidate unicamente a quel " laboratorio immenso costituito dal mondo della formazione e della scuola. È lì che l'educazione antioligarchica, su base critica, può farsi strada". Dequalificarlo - è l'ammonitrice conclusione - gli appare " un gesto suicida".

il Sole24 8.6.14
L'economia ha bisogno del genio femminile
I romanzi di Eliot e il ruolo della donna nel mondo degli affari
di Fabrizio Galimberti


Torniamo a un amato filone: "Economia e letteratura". Lo abbiamo già detto: è difficile trovare un romanzo in cui l'economia - apertamente o di soppiatto - non faccia capolino. Dato che l'economia ha a che fare col modo in cui ci guadagniamo la vita, anche i più tragici o romantici personaggi della letteratura devono sbarcare il lunario. Il romanzo scelto per questa puntata del nostro filone è "Middlemarch", di George Eliot. Di George Eliot si parla nell'articolo a fianco [sotto n.d.r.]. Perché ho scelto questo libro? Una ventina di anni fa una serie tv inglese invitava varie celebrità, e ogni volta poneva la stessa domanda: se foste naufragati da soli in un'isola deserta, che disco e che libro vorreste avere con voi? La domanda fu posta al fisico Stephen Hawking, l'esperto dei 'buchi neri', che è riuscito a passare i 70 anni pur essendo afflitto da una malattia terribile, la sclerosi laterale amiotrofica, che lo costringe in carrozzella da mezzo secolo e gli impedisce di parlare (comunica costruendo le parole da uno schermo, con movimenti della guancia rilevati da un sensore infrarosso, e le manda poi a un programma di voce sintetica).
Hawking rispose che, per quanto riguarda la musica, avrebbe scelto il Requiem di Mozart. E, per la lettura, voleva solo "Middlemarch". Avendo un gran rispetto per Hawking, mi procurai subito il romanzo. Di addentellati con l'economia ce ne sono tanti, ma qui tratteremo di due in particolare.
Uno dei protagonisti è la giovane Dorothea, dotata di grandi ideali, ma costretta nella camicia di forza del ruolo vittoriano della donna. Dorothea, durante un pranzo, ascolta il baronetto Sir James che si propone di impiegare metodi agricoli avanzati nelle sue tenute, e chiede a Dorothea cosa ne pensa. Lo zio della ragazza, Mr. Brooke, si intromette e sconsiglia queste avventure di modernità (meglio, dice, limitarsi a esser sicuri che i contadini non rubino il fieno). Ma Dorothea afferma con energia che «è meglio spendere danaro per scoprire come gli uomini possano sfruttare al massimo la terra che dà loro sostentamento, che tenerci sopra a scorrazzare solo cavalli e cani» (la caccia alla volpe doveva essere lo sport preferito dei baronetti...). Lo zio, con sufficienza, ritorce che «le giovani non se ne intendono di economia». Dorothea si sentì umiliata dal commento di Mr. Brooke. Sentiva di «essere stata presa in giro per la sua ignoranza dell'economia, quella scienza mai spiegata che veniva gettata come uno spegnitoio su tutte le sue certezze».
Lo sviluppo economico procede sempre dall'innovazione. Ma l'innovazione non procede inesorabile come un grande fiume. L'acqua deve aggirare ostacoli e scavarsi nuove vie. Alla fine continua a scendere, come è sempre successo alle innovazioni, ma le resistenze sono molte. E quella principale è quella dei benpensanti, che diffidano delle novità e pensano sempre al peggio. L'11 maggio abbiamo detto del ruolo creativo dell'ignoranza nell'innovazione: quando non si sa molto di una materia si è liberi da pregiudizi e si porta uno sguardo vergine al problema.
Dorothea non sapeva molto di agricoltura. Ma il suo senso etico la portava ad abbracciare gli esperimenti del baronetto, che stava leggendo la "Chimica dell'agricoltura", e aveva intenzione di mettersi lui stesso a dirigere una delle sue fattorie e «dare così un buon esempio di agricoltura ai miei affittuari». Il ruolo della donna, abbiamo detto, era limitato a quel tempo, e l'economia rinunciava così a un giacimento di energie e di intuizione femminile. Studenti o studentesse che siate, non rinunciate mai a dire quel che vi sembra giusto.
L'idealismo di Dorothea, che più tardi nel romanzo sposerà il reverendo Casaubon - un matrimonio sbagliato - la porterà un giorno a cercare di studiar l'economia. Sedendosi di fronte al suo «mucchietto personale di libri di economia politica», cerca «suggerimenti sul modo migliore di spendere il danaro, così da non danneggiare il prossimo o - il che equivale alla stessa cosa - fargli quanto più bene si può». Se un giorno studierete l'economia sul serio, vi accorgerete che l'intuizione femminile di George Eliot aveva anticipato il principio dell'"ottimo paretiano" (elaborato da un grande economista italiano, Vilfredo Pareto): il benessere di una popolazione è massimo quando non è possibile migliorare la situazione di qualcuno senza peggiorare quella di qualcun altro.
L'altro tema che incontriamo nel romanzo è quello delle difficoltà finanziarie dell'altra "coppia sbagliata": il dottor Lydgate e la moglie Rosamond. Difficoltà che l'arte della scrittrice dipinge con tanto crudele realismo da indurre il lettore a una riflessione. Una riflessione sul ruolo dei diritti di proprietà nell'economia. Questi diritti sono veramente i muri maestri dell'economia di mercato, e vengono difesi e imposti con una spietatezza che sembra crudele. I legami personali sembrano infrangersi quando le questioni di interesse irrompono nelle relazioni fra clienti e negozianti, financo fra amici e parenti. Ma allo stesso tempo ci si rende conto che questa "spietatezza" è inevitabile se l'economia deve funzionare. Ci può essere un sistema migliore? Non l'abbiamo ancora trovato. Per parafrasare quel che Churchill diceva a proposito della democrazia, l'economia di mercato è il sistema peggiore di tutti, fatta eccezione per tutti gli altri.

il Sole24 8.6.14
Epoca vittoriana e rivoluzione industriale
Eroine che sfidano antichi pregiudizi
di Claudia Galimberti


Nell'Inghilterra Vittoriana della rivoluzione industriale, quando i mestieri delle donne e degli uomini si erano differenziati e moltiplicati portando però ricchezza solo a pochi e miseria a tanti, la letteratura fioriva e vantava grandi nomi di romanzieri. Tra questi uno dei più noti e letti era George Eliot, autore, tra il 1858 e il 1880, di libri molto popolari. Peccato che George fosse in realtà una Giorgia, meglio fosse Mary Ann (o Marian) Evans, nata ad Arbury nel 1819 e morta nel 1880. Perché mai Mary Ann usò uno pseudonimo? Perché in un ambiente intellettuale vivace come quello inglese, una donna scrive sotto uno pseudonimo maschile mentre altre sue contemporanee (Charlotte ed Emily Bronte?, Jane Austen, così come Harriet Beecher-Stowes) si firmano con il loro nome? Lei disse che lo fece perché voleva esser presa sul serio, ma forse fu solo una piccola mania. Eppure quando si seppe che George Eliot era una donna non calò certo il numero dei suoi lettori: ci furono polemiche e sorprese, ma i suoi lettori rimasero e si moltiplicarono. Anche quando convisse per decenni, senza sposarsi, con un uomo sposato, George Henry Lewes e poi, due anni dopo la sua morte, si sposò con un uomo di venti anni più giovane, John Cross. Era anticonformista Mary Ann, lontana dall'ipocrisia, antesignana di quel diritto delle donne, anche affettivo, a vivere la propria vita sentimentale.
Per Mary Ann la vita non poteva essere solo ciò che le appariva. Valeva sempre la pena di indagare, scrivere, e infine lottare. Anche a costo di non avere una famiglia regolare. La sua vita, la respirerà tutta d'un fiato, con intelligenza e passione. Avrà più coraggio dell'eroina di MIddlemarch, Dorothea, che per conformismo non cede all'amore per il giovane Will Ladislaw e solo alla fine del romanzo, ormai vedova, trova il coraggio di sposarlo contro il parere dei benpensanti. Negli anni in cui John Stuart Mill, con l'"Asservimento delle donne", pubblicato nel 1869, poneva con forza la questione femminile, Mary Ann aveva già acquistato la fama di donna libera e indipendente dall'osservanza dei valori dell'epoca.
"Middlemarch, studi di vita provinciale", pubblicato tra il 1871 e il 1872, racchiude la trama dei grandi romanzi dell'800: famiglie che intrecciano i loro destini sullo sfondo di cambiamenti sociali. Povertà e ricchezza distribuite in maniera ingiusta; educazione e amore per la cultura, si intrecciano con le meschinità di altri personaggi. Il bene di tutti di cui parla Dorothea è lontano dalla mente di chi ha il potere di provare a crearlo. L'uomo vittoriano ne esce turbato da incertezze e inquietudini, lontano dai bozzetti che lo rappresentano come capace imprenditore, solido intellettuale o eroico soldato. Convinto che le donne non possono comprendere l'economia, depositario delle sue verità, sembra identificarsi nel Crystal Palace, quel palazzo di vetro che nell'esposizione universale del 1851 racchiudeva tutte le meraviglie dell'Impero Britannico, tutte tranne una, il nuovo modello di donna che l'epoca vittoriana stava producendo.

il Sole24 domenica 8.6.14
La grande guerra di Piero
Nel 1969 Melograni scrive un libro sulla partecipazione italiana al conflitto, usando un metodo «laico», privo di modelli ideologici: da allora gli studi presero strade nuove
di Dario Biocca


Gli storici hanno cominciato a studiare la guerra del 1914 non appena questa finì, nel novembre del 1918. Non era però una "autentica" storiografia; molti autori erano reduci, soldati o ufficiali, e con i loro studi vollero ribadire (e, se possibile, dimostrare) le responsabilità degli imperi centrali. Era una storia patriottica, aspra, ispirata dal tribunale dei vincitori.
Le prime ricerche sulla vita di trincea presero avvio negli anni Trenta ma, anche in questo caso, non placarono polemiche né rancori. Molti studiosi dichiararono che l'eroismo dimostrato dai soldati era lo specchio e la misura della loro partecipazione alla guerra. Altri, al contrario, sostennero che i soldati rimasero al loro posto perché vi furono costretti da una ferrea disciplina militare. La loro protesta rimase inespressa, resa muta dalla censura e dai plotoni di esecuzione.
Solo nel secondo dopoguerra, finalmente, la storiografia si è occupata delle commemorazioni, dei monumenti, della memorialistica e dell'uso pubblico che della Grande guerra si era fatto da parte di nazioni, governi, partiti, associazioni e organizzazioni di ex combattenti. È stata questa fase, nel giudizio di Melograni, a produrre i migliori risultati perché più libera da condizionamenti politici, nazionalismi e ideologie. Per la prima volta sono emerse le vicende di milioni di uomini e donne precipitati nel vortice della guerra, le sofferenze patite e inflitte ma anche le aspettative di rinnovamento, persino l'immaginazione e l'utopia. La storia e il ricordo della guerra sono tornati così a svolgere un ruolo attivo, protagonisti anche delle vicende dei decenni successivi.
Melograni scrisse la Storia politica della Grande Guerra negli anni Sessanta al termine di un formidabile lavoro in archivio. L'autore aveva meno di quarant'anni e il libro (era il suo primo libro) lo fece apprezzare in Italia e all'estero come uno dei più giovani e brillanti studiosi della Grande guerra. Il volume era dedicato alla partecipazione italiana al conflitto ma Melograni dimostrava di conoscere anche il lavoro condotto all'estero da due generazioni di storici. La prima, guidata da Pierre Renouvin, era ancora concentrata sulla questione delle responsabilità e delle colpe. L'altra, invece, si ispirava alle tesi di Lenin e della III Internazionale. La guerra, nella più radicale delle interpretazioni, era stata provocata dalla chiusura degli sbocchi commerciali aperti con il sopruso e la violenza dall'imperialismo.
Questa interpretazione, che oggi appare così poco convincente, ebbe il merito, ammise Melograni, di ricondurre l'analisi verso la concretezza, la documentazione d'archivio, i conflitti di classe. Melograni però aveva abbandonato il marxismo già da molti anni: «Ricordo che nella notte fra il 4 e il 5 novembre '56, mentre i carri armati sovietici invadevano Budapest, non riuscii letteralmente a prender sonno. Il timore di perdere la fede fu finalmente sopraffatto dalla rabbia di non averla perduta prima».
Nella Storia politica della Grande Guerra Melograni descrive la società italiana in una fase di estrema tensione che ebbe inizio ben prima delle «radiose giornate» e si protrasse ben oltre l'offensiva di Vittorio Veneto. Il testo indaga su aspetti pubblici e privati, esperienze collettive e vicende individuali, episodi di entusiasmo e di sconforto, di ingenuità e scaltrezza, dedizione e opportunismo. Il libro descrive quindi la vita nelle trincee e nelle retrovie, nelle città e nelle campagne; ricostruisce infine le strategie dello Stato maggiore e le pressioni della grande industria ma descrive anche, in dettaglio, i tessuti con cui erano cucite le ruvide uniformi dei soldati e gli scarponi da montagna.
Questo metodo di studio a tutto campo, che Melograni definì «laico» perché privo di modelli ideologici e precostituiti, era del tutto nuovo e produsse straordinari risultati; fu subito condiviso da gran parte della storiografia italiana. Esso costituisce, ancora oggi, il principale lascito del libro. Gli studi sulla guerra, da allora, intrapresero strade nuove.
Negli anni seguenti Melograni studiò con particolare interesse la relazione tra modernità, élites politiche e società di massa. La classe dirigente italiana nel corso della Grande guerra gli era apparsa impaurita, legata al passato, incapace di elaborare strumenti efficaci di comunicazione, eppure determinata a ottenere «benefici interni», cioè a esautorare e colpire i partiti dell'opposizione. Questa miopia, di fronte a eventi epocali e al sacrificio di tante vite, era per Melograni un «machiavellismo misero» e rivelava l'incomprensione delle trasformazioni avvenute nella società. Pochi anni dopo quella stessa miopia avrebbe consegnato il sistema parlamentare italiano alla dittatura. La distanza tra i capi e le masse, evidenziata già nelle prime pagine del libro sulla guerra, spinse Melograni a intraprendere una nuova ricerca, pubblicata nel 1977 con il titolo Saggio sui potenti. Il pamphlet era dedicato allo studio della dittatura e del consenso ma il testo, come ha ricordato in più occasioni il suo autore, era anche una lunga, appassionata postfazione alla Storia politica della Grande Guerra.

il Sole24 domenica 8.6.14
Perché vogliamo Dio?
Anche gli animali possono essere superstiziosi, ma il pensiero divino è proprio della specie «homo sapiens»
di Luca Pani


«Io credo nel Dio di Spinoza che rivela se stesso nell'ordine armonioso di ciò che esiste, non in un Dio che si preoccupa del destino e delle azioni degli esseri umani» (Albert Einstein).
L'uomo dall'altra parte dello specchio mi guardò. Pensai alla nostra immagine e somiglianza; mi sorpresero, un attimo dopo, le declinazioni nominali che tutte le religioni danno al principio della creazione. Pensai al verso della Bibbia Ebraica che recita uno dei sette nomi di Dio 'ehyeh 'ašer 'ehyeh, che letteralmente si traduce: «Io sarò ciò che sarò» (Esodo 3:14). Mi sovvenne allora che l'idea di Dio, da qualche impreciso momento della nostra storia evolutiva, è diventata pervasiva e ubiquitaria, unanime e ostinata, unica e onnipresente. Molto più della reale esistenza di ogni sua rappresentazione materiale o spirituale. Pare che tutti gli esemplari della specie Sapiens Sapiens sviluppino un'idea del divino, anche per negare che esista. In altri termini nessuno sembra essere in grado di chiedere: «Dio, chi?». Persino gli atei sanno di chi stiamo parlando. L'idea è ben radicata nel loro cervello, come in qualunque cervello, e nessuno se ne può liberare. Com'è dunque possibile che per millenni, alle latitudini cangianti, con nomi (almeno 300) e suoni diversi la nostra mente abbia costantemente generato riferimenti al sovrannaturale, diventando un terreno di scontro da cui tendono a uscire storicamente vincitori a fronte di credenze animistiche, politeistiche o magico-spiritiste, i monoteismi? E quali sono i caratteri cerebrali che si possono identificare evolutivamente con i pensieri e i comportamenti religiosi?
Si tratta di un fenomeno squisitamente umano, benché negli animali si riconoscano elementi comportamentali riferibili alla superstizione, ancora presente in tutte le culture contemporanee e rintracciabile in tracce archeologiche preistoriche. Alcuni modelli esplicativi utilizzano spiegazioni prossimali (causali e di sviluppo onto-filologico) oppure distali (più propriamente evolutive) tentando di mettere in relazione i fenotipi religiosi umani proprio con qualche comportamento adattativo animale. La neuroetologia metacognitiva postula invece che l'emergere delle differenti religioni e dei loro simulacri sia stato il risultato di una fortuita confluenza di almeno tre processi: lo sviluppo di una Teoria della Mente, della cognitività sociale e del linguaggio simbolico che – a loro volta – possiedono differenti origini evolutive e risultano, presumibilmente, dall'espansione di specifiche aree cerebrali come le suddivisioni della corteccia prefrontale, il precuneo, i lobi temporali e così via.
Sappiamo che l'iper-religiosità negli individui affetti da epilessia dei lobi temporali e/o limbici è talvolta proporzionale all'intensità delle crisi comiziali, che le esperienze mistiche sono in relazione a una ridotta attività delle cortecce parietali e che la straordinaria capacità evangelizzante delle religioni suggerisce un diretto coinvolgimento dei lobi frontali. Si tratta però di comportamenti troppo vaghi e aspecifici per concludere che esiste una precisa architettura neuronale che codifica la complessa semantica del divino. Nondimeno è del tutto naturale per i credenti accettare che qualcosa sia reale senza averlo mai verificato per esperienza personale, tanto quanto il credere in entità immateriali, descriverle con un linguaggio astratto e trasmetterle culturalmente. Altri punti di forza della conoscenza religiosa provengono dalla diretta esperienza del coinvolgimento (evidentemente gratificante) nei rituali di preghiera e di partecipazione alle funzioni liturgiche. In questo modo la religione trae fenomenali rinforzi positivi sia dal punto teorico sia pratico, e le credenze sono alimentate da entrambi gli aspetti. Non è comune e non è poco. Infine, su queste basi s'innestano l'emotività e il riscontro su obiettivi fondamentali della vita.
Alcuni studiosi ritengono che una delle primordiali percezioni dell'idea di Dio sia stata generata dal ritenere che una forza sovrannaturale e invisibile fosse responsabile di fenomeni altrimenti inesplicabili e pericolosi, progressivamente personificati come divinità "arrabbiate" con l'uomo. Alcuni nomi, in effetti, lo definiscono come Dio degli Eserciti o Arbitro delle Guerre. In molte religioni la figura divina ha caratteri distruttori che vengono inglobati in una neoformanda teoria della mente (presumibilmente alcuni milioni di anni fa) grazie al reclutamento delle regioni cerebrali prefrontali anteriori e posteriori. In seguito, il proposto continuum tra la conoscenza dottrinale ed esperienziale delle pratiche religiose si innesta, da un lato sulle reti neurali che processano la semantica astratta (simbologie e significanti) e, dall'altro, su quelle coinvolte nel recupero mnemonico e nelle funzioni immaginifiche. Infine, forse alcune centinaia di migliaia di anni dopo, l'adozione delle credenze religiose restituisce un valore cognitivo-emozionale e stabilità psicologica. Nell'insieme si tratta di vantaggi competitivi sul piano evolutivo pressoché ineguagliabili cui è difficile dare delle spiegazioni che vadano oltre delle teorie.
Recenti studi di risonanza magnetica funzionale dimostrano però come sia le credenze che i comportamenti religiosi sono capaci di reclutare in modo massivo aree cerebrali che controllano la nostra cognitività sociale ma, fatto interessante, non si specializzano su nessun circuito in particolare quanto piuttosto sul flusso della trasmissione nervosa. È come se il vero vantaggio evolutivo dell'ideologia e pratica religiosa fossero nella capacità di farci funzionare in modo armonico con vantaggi per la specie a cui apparteniamo, riuscendo a giustificare in un unico costrutto emotivo e comportamentale la nostra unicità personale e anche l'esser parte di una totalità come quella della popolazione globale. Per questi motivi il Dio degli uomini è un Dio a cui ci si può rivolgere direttamente, a cui dare del tu, a cui chiedere cose impossibili che quando accadono definiamo miracoli. Il Dio delle genti non è tanto, o non è solo, quello della creazione dell'universo ma – come dice Einstein – quello che si occupa dell'armonia degli uomini in modo giornaliero e che, soprattutto per questo, andrebbe onorato e pregato continuamente.
Nel silenzio della nostra assoluta individualità, laddove il cuore e la mente si fondono, quando i mondi interiore ed esteriore cessano di esistere e, tra un battito e l'altro, nelle pause di ogni singolo respiro, abbiamo la percezione sovrana di essere una sola entità onnipresente, onnipotente e onnisciente, nell'impossibile ma straordinario tentativo di passare da: «Io sarò ciò che sarò» a «Noi saremo ciò che saremo». Humanitas sive Deus.

il Sole24 domenica 8.6.14
Chi ci fa compiere le azioni?
Per Hume era la «più controversa delle questioni». Una raccolta di saggi curata da De Caro, Mori e Spinelli
di Carola Barbero


Alla fine del film The Red Shoes (1948) la protagonista Victoria Page decide di lasciare il fidanzato Julian Craster per continuare a ballare nella compagnia di Lermontov. Mentre si avvia verso il palcoscenico succede però qualcosa di strano: le scarpette rosse che porta ai piedi la costringono a scappare dal teatro e a gettarsi da un parapetto sui binari della ferrovia. «Please, take off my red shoes» saranno le sue ultime parole prima di morire. Uscendo dalla storia horror-romantica proviamo a domandarci: Vicky ha scelto di buttarsi, l'hanno costretta le sue scarpe oppure l'hanno spinta a commettere il folle gesto Lermontov e Julian obbligandola a scegliere tra la danza e la vita? E poi, ponendo che abbia scelto di buttarsi, lo ha scelto liberamente oppure crede soltanto di aver scelto (e quindi la libera scelta non è che illusione), dal momento che, come scrive Spinoza a Schuller, anche una pietra che rotola, se potesse pensare, crederebbe «di essere liberissima e di non persistere nel movimento per nessun altro motivo se non perché lo vuole»? Non è facile rispondere, come ben emerge da questo importante testo curato da De Caro, Mori e Spinelli che prende in esame il problema del Libero arbitrio chiarendo quali sono le principali questioni teoriche da esso sollevate inserendole al contempo all'interno di una cornice storica (per non dimenticare, come sottolineano i curatori, che la filosofia «è sapere storico, ma non è solo sapere storico»). Si parte con la concezione della libertà e del determinismo nel mondo antico (Platone, Aristotele, ellenismo, neoplatonismo, scuole peripatetiche) per passare prima alle trasformazioni della libertà nella patristica e nella scolastica, quindi ai dibattiti sul libero arbitrio nel Rinascimento, a cui seguono le riflessioni in età moderna su intelletto, volontà e determinismo, con la successiva ripresa kantiana di una forma di dualismo (tra il mondo dei fenomeni e quello delle cose in sé) poi attenuato da parte degli idealisti, per arrivare infine alle trattazioni della libertà nell'utilitarismo classico, nell'esistenzialismo e nel dibattito contemporaneo.
La ricchezza di questi saggi (ognuno dei quali meriterebbe una recensione a sé) mostra come per la filosofia e la sua storia non ci sia una questione del libero arbitrio, ma ne esistano molte, così come molte sono le forme del sapere che possono essere chiamate in causa per cercare di dare una risposta ai problemi che via via si presentano. Non c'è da stupirsi d'altra parte: si tratta di quella che Hume definisce come «la più controversa delle questioni». In effetti, come conciliare quella libertà di cui ci sembra di essere dotati con il determinismo delle leggi di natura? Se davvero le nostre azioni, in quanto parte del mondo naturale, sono determinate, possiamo essere considerati liberi di scegliere (come peraltro quella concezione detta "compatibilismo" sostiene)? E se invece le nostre azioni non sono determinate da alcunché non dovremo forse ammettere che esse siano del tutto casuali? Evidentemente si tratta di questioni che non riguardano solo l'etica, la filosofia del diritto e la filosofia politica, ma anche la filosofia della mente (per il problema mente-corpo), la filosofia della scienza (per la questione del determinismo), le teorie dell'azione e della conoscenza.
Oltre a ciò, è importante sottolineare come per la filosofia oltre a non esserci un solo problema relativo al libero arbitrio, non possa esserci nemmeno un'unica soluzione ai problemi da questo sollevati, nonostante quanto in ambito psicologico si sia cercato di dimostrare alla fine degli anni settanta con gli esperimenti fatti da Libet poi rivisitati da Haynes. Gli esperimenti in questione, confermando che i soggetti scelgono (nel 60% dei casi) prima di essere consapevoli delle proprie scelte, portavano a concludere che le nostre azioni coscienti non fossero la causa delle nostre azioni, e quindi che il libero arbitrio, di fatto, non esistesse (come potremmo ammettere il libero arbitrio avendo escluso che siano possibili azioni volontarie?). Tuttavia, come è stato peraltro da più parti osservato, queste ricerche non sono in realtà dirimenti riguardo al problema in questione.
E questo per varie ragioni: innanzitutto perché danno per scontate una serie di definizioni molto problematiche di concetti quali coscienza, volontà, libero arbitrio – che, come ben emerge dal volume curato da De Caro, Mori e Spinelli, sono ben lontani dall'essere stati chiariti una volta per tutte – e poi perché si basano sull'osservazione di corsi d'azione estremamente semplici (ai soggetti veniva chiesto di flettere un dito o di premere un pulsante). Invece la vita reale, come tutti sappiamo, è molto più complicata: non solo perché le nostre scelte si situano in quadri complessi, ma anche perché quello che scegliamo spesso ha conseguenze non trascurabili su di noi e sugli altri. Non da ultimo, veniamo spesso considerati responsabili delle nostre scelte, in base all'assunto che siamo soggetti liberi. Certo, sarebbe strano, come sottolinea Voltaire, «che tutta la natura, tutti gli astri, obbedissero a leggi eterne, e che vi fosse un piccolo animale alto cinque piedi che, a dispetto di queste leggi, potesse agire come gli piace solo in funzione del suo capriccio». Indubbiamente è strano, ma questa è l'impressione che abbiamo. Ecco perché il libero arbitrio continua a essere una delle questioni più affascinanti e dibattute della filosofia.

il Sole24 domenica 8.6.14
La volontà sotto esame
Le neuroscienze cognitive pongono alla ricerca e alla riflessione normativa molte certezze e instillano dubbi. La ricerca di Mark Balaguer
di Arnaldo Benini


Per riflettere se la volontà è libera, senza finire nelle tautologie e nelle astrattezze, occorre aver chiari i termini del dilemma. Circa la volontà, ci sono due opzioni, senza vie di mezzo: o si è, per scelta o spontaneamente, dualisti, come la stragrande maggioranza del l'umanità, che crede alla libera volontà e la desidera. Per loro la volontà è libera perché dipende da un ente immateriale individuale (anima o spirito) che agisce senza condizionamenti.
La neurobiologa Patricia Churchland ritiene che i dualisti attribuiscono le buone scelte all'anima e quelle infelici al corpo. Oppure si ragiona secondo la scienza, per la quale la volontà è il prodotto di meccanismi nervosi, che non sono solo umani, perché di loro si rintraccia la storia evolutiva fino a esseri semplici e remotissimi. Le scienze propongono, con dati attendibili, che le decisioni e le azioni sembrano essere il prodotto della macchina elettrochimica del cervello, che, secondo dati ben corroborati, agisce non in modo deterministico, ma probabilistico. Le scienze hanno anche individuato il meccanismo in forza del quale la coscienza s'illude di decidere liberamente, mentre invece viene informata della decisione già presa. Che cosa deve essere "libero" e di quali lacci e laccioli si deve (o si può) liberare per potere agire in autonomia (in autonomia da che cosa?), e quindi con responsabilità? È il problema che le neuroscienze cognitive, con i dati raccolti da oltre un secolo, pongono alla ricerca e alla riflessione normativa.
Se noi siamo ciò che il cervello ci fa essere, che cosa, al suo interno, si deve "liberare" per garantirci l'autonomia? La domanda, tipica dei filosofi (anche dell'autore di cui si parla qui), dal punto di vista naturalistico è improponibile: se noi altro non siamo che il nostro cervello, i "noi", che dovrebbero "liberarsi" dei vincoli naturali per agire in libertà, altro non sono che una parte dei molti miliardi di neuroni del cervello. I neuroni lavorano insieme, in serie e in parallelo, senza direttore centrale in cerca di autonomia. Per la maggioranza dei neuro-scienziati, la libera volontà è un mito, tenace perché rassicurante e concorde col sentire comune. La posizione naturalistica è stata confermata recentemente anche dagli studi clinico-sperimentali di Mark Hallett sui disturbi dei movimenti. Mark Balaguer, filosofo all'Università della California di Los Angeles, mette in dubbio, senza rifiutarla a priori, in poche, piccole (il formato del libro è tascabile) ma densissime pagine, questa posizione con un'obiezione che la scienza può, eventualmente, ribattere e rifiutare, ma non ignorare. Egli si presenta come ateo, materialista e fisicalista (un "patafisico", direbbe qualche suo collega inorridito), ed è aggiornato sulle ricerche neuroscientifiche, specie sullo sviluppo e sul funzionamento casuale dei meccanismi cerebrali, che sono il punto chiave della ricerca contemporanea e che dovrebbero essere – ma di regola non lo sono – anche al centro della riflessione normativa.
Dopo aver scartato come irrilevanti non solo il compatibilismo, ma anche il determinismo e l'idea che la concezione quantistica della materia lascerebbe un varco aperto alla volontà libera, Balaguer sostiene che non serve speculare ma occorre andare a vedere l'interno dei meccanismi nervosi, così come sono descritti da ricerche e da esperimenti, per orientarsi circa la libera volontà. In sintesi: le scienze dimostrano che ogni evento della coscienza (quindi anche una decisione o una scelta) è preceduto da una modificazione di aree specifiche della corteccia cerebrale. L'attivazione altamente specifica (le aree sono diverse, ad esempio, se si intende aggiungere o sottrarre una cifra) è verificabile prima che la decisione sia cosciente.
Il principio dell'attività del cervello è che il suo agire probabilistico dipende dalla casualità dei meccanismi. Balaguer contesta l'identificazione dell'attività corticale, precedente la coscienza della scelta, con la scelta: si vede che l'area corticale è attiva, ma da ciò non si può dedurre il contenuto della sua attività, e quindi se essa preceda veramente ciò che la volontà sembra scegliere. Non lo si può dedurre, ma nemmeno escludere, per cui Balaguer sostiene che il problema della libera volontà, in termini naturalistici, non è risolvibile. L'idea non è nuova, se è vero che già Lorenzo Valla, nel 1439, consigliava di non perder tempo nella discussione sul libero arbitrio. Nella posizione di Balaguer c'è di vero che le procedure delle varie visualizzazioni dell'attività cerebrale mostrano che un'area è attiva con particolari contenuti della coscienza. Il contenuto della coscienza cambia solo dopo che è cambiata l'attività cerebrale. La correlazione costante è il correlato nervoso specifico di ciò che la coscienza poi percepisce. Di ciò, ha ragione Balaguer, non c'è la prova definitiva, ma ciononostante la costanza della correlazione è un indizio molto pesante. Se ciò non fosse, quale è l'alternativa? Balaguer si avventura a distinguere astrattamente atti della coscienza e attività cerebrale. Se essa non fosse il substrato specifico del contenuto della coscienza, quale sarebbe il suo ruolo e il suo significato biologico? La domanda non sembra turbarlo. Balaguer giunge per una via sua, e senza rendersene perfettamente conto, a constatare che i contenuti della coscienza sono atti della vita di cui non si può capire la natura.