lunedì 9 giugno 2014

A Livorno, dove Gramsci fondò il Partito comunista nel 1921,
una dura sconfitta storica, e simbolica, del Partito Democratico
La Stampa 9.6.14
M5S e sinistra uniti Così il Pd ha perso nella roccaforte rossa
Serracchiani: sconfitti dove non cambiamo
di Carlo Bertini


Per evitare il disastro hanno perfino provato a superare il campanilismo più ossidato, alla fine ci si erano messi pure i «compagni» di Piombino guidati dal dalemiano Andrea Manciulli a dare manforte in campagna elettorale ai cugini livornesi: superando l’antica rivalità tra due comuni tra i quali non è mai corso buon sangue. Ma nulla è valso contro un’inedita coalizione tra grillini e sinistra, che con le sue liste civiche ha sostenuto il candidato 5Stelle Filippo Nogarin.
Al primo turno aveva preso solo il 19% dei voti e ieri si è ritrovato a superare in corsa il candidato del Pd, Marco Ruggeri, sostenuto da Sel e dai socialisti. Partito col 40% e spalleggiato nella volata finale anche da renziani di comprovata fede e vicinanza col leader come il braccio destro Luca Lotti, il neosindaco di Prato Matteo Biffoni e il neosindaco di Firenze, Dario Nardella.
E invece non solo è successo l’impensabile, cioè un ballottaggio in una città dove da 70 anni la sinistra non aveva mai avuto rivali, ma anche una sconfitta vieppiù bruciante. «Forse abbiamo scontato una certa insofferenza verso un blocco di potere consolidato di ex diessini», sussurra un renziano per farsi una ragione di quel che è successo. Forse il candidato non era sufficientemente marchiato come renziano dalla prima ora e quindi non ha beneficiato dello slancio impresso dal premier. Che non si è presentato a Livorno in campagna elettorale, malgrado fosse atteso così come del resto non è venuto Beppe Grillo.
Insomma, nella città rossa che ha visto i natali del Pci, va in scena la rivincita più simbolica per i pentastellati che espugnano una roccaforte grazie a un candidato che si è mostrato molto forte a sinistra. Già poco dopo mezzanotte, Nogarin festeggia, anche grazie all’appoggio ricevuto da Andrea Raspanti il candidato sostenuto al primo turno da quattro liste civiche schierate a sinistra del Pd, che aveva dato indicazione di votare Nogarin in segno di discontinuità. E lo slogan di Ruggeri, «Livorno punto a capo» non è stato sufficiente a convincere i livornesi.
E se da Bergamo il vincitore Giorgio Gori ammette che «è stato un grande aiuto il passaggio di Matteo in campagna elettorale», uno dei due vicesegretari del Pd, Debora Serracchiani, nota che nel caso di Livorno «si era saldato un asse a prescindere dal colore politico, contro il partito Democratico. Certo abbiamo perso dove non abbiamo saputo rinnovarci». La botta è forte, «sicuramente è un dispiacere enorme, dovremmo riflettere su cosa abbiamo sbagliato, analizzeremo il voto e vedremo cosa è successo. Credo ci sia un’esigenza di rinnovamento», dice la governatrice del Friuli. Che preferisce mettere l’accento sulle affermazioni positive di Bari, Pescara, Bergamo, Pavia, Verbania, Vercelli e Biella, Cremona. «Ora stiamo tutti guardando a Livorno e Padova e non guardiamo al resto, certo che puntassimo a vincere anche in quelle città è fuor di dubbio».
Anche il responsabile enti locali del Pd, Stefano Bonaccini, esprime «amarezza per le sconfitte a Perugia, Padova e Livorno che non tolgono però il valore di una grande avanzata del Pd e del centrosinistra in tutto il Paese». Ma qualcosa non ha funzionato nella storica città rossa se alla vigilia del voto lo stesso Ruggeri ammetteva di aver dovuto «combattere non solo gli avversari ma anche nel partito». 

Lettera 43 9.6.14
Elezioni amministrative 2014, il Pd fa flop nelle città rosse

qui

Corriere 9.6.14
Gli umori variabili
di Massimo Franco


Erano elezioni osservate almeno con curiosità. Dovevano dire quanto l’effetto Renzi delle Europee di due settimane fa sarebbe stato confermato; e se le inchieste giudiziarie a Venezia avrebbero pesato sul voto per i ballottaggi in 148 Comuni italiani. Il crollo della partecipazione è una parziale risposta alla seconda domanda: sebbene non si capisca se abbia potuto più l’attrazione del sole o la repulsione della politica. Ma l’astensionismo schizzato in alto rispetto a due settimane fa è un responso sconfortante. Dà il senso di elezioni nelle quali la mobilitazione del passato per scegliere il sindaco è un ricordo sbiadito. I «primi cittadini» sono sempre più figli di minoranze.
Si delinea una democrazia diretta dimezzata da un’affluenza che è stata inferiore al 50 per cento. Riguarda un elettorato deciso a far contare i propri orientamenti su uno sfondo di delusione e di sfiducia, e dunque ancora più ammirevole. Il segnale mandato dai circa quattro milioni e mezzo di elettori di ieri, tuttavia, è sovrastato dalla sensazione di crisi del sistema. Racconta un’Italia stanca non solo di candidati più o meno competenti, ma di un potere giudicato con scetticismo crescente. D’altronde, i giorni scorsi sono stati sovrastati da notizie di mandati di cattura, e da tentativi maldestri di scaricabarile dei partiti.
La cifra rimane quella della voglia di cambiare. E il ricambio premia in alcune realtà il Movimento 5 Stelle, in altre il Pd, in altre ancora un centrodestra acefalo, in crisi ma tutt’altro che inesistente. Chi appare politicamente datato, fatica. Vengono premiati gli avversari perfino quando si presentano con alleanze ambigue e irrituali, come quelle tra i candidati di Beppe Grillo e settori del mondo moderato ostile alla sinistra. Insomma, il quadro che emerge è più sfaccettato di quello regalato di recente dalle urne europee. Ieri non c’è stata una replica della valanga renziana. Anzi, l’onda ha subìto una frenata: se non altro perché contavano soprattutto fattori locali.
La battaglia all’ultimo voto a Bergamo, risolta con la vittoria del Pd, o il successo dei grillini in un bastione rosso per settant’anni come Livorno, sono indizi di un Paese che sta cercando nuovi equilibri; e che comincia a sperimentarli votando, o astenendosi, nelle città. La corruzione pesa, e peserà ulteriormente senza una risposta forte della politica. Accentuerà la fuga verso la protesta, e aumenterà il numero delle persone che si rifiutano di andare alle urne perché non trovano più una buona ragione per farlo. Livelli di non partecipazione di questa portata non sono fisiologici. Mostrano una democrazia in affanno non solo per gli scandali veneziani o milanesi, ma per l’incapacità di ritrovare un baricentro stabile.

Pagina 99 9.6.14
Renzi, la sinistra, le manette
di Alberto Ferrigolo

qui

Corriere 9.6.14
I renziani e l’effetto inchieste: ora rottamare i quadri locali
Guerini: le sconfitte bruciano, ma siamo cresciuti

di Monica Guerzoni

ROMA — Quella «stanchezza» che contagia gli elettori ai ballottaggi, Matteo Renzi l’aveva prevista. Il premier aveva messo nel conto il crollo dell’affluenza, ma certo non si aspettava che il terremoto giudiziario veneziano avrebbe avuto un tale impatto sul secondo turno, guastando con un tocco amaro il sapore della vittoria di maggio. Da ieri notte sulla roccaforte rossa di Livorno, che fu la «culla del Pci», sventolano i vessilli del M5S. «Una ferita», titola L’Unità . Il Pd è sconfitto a Urbino e Civitavecchia e perde due forzieri di voti come Perugia e Potenza. L’effetto-Renzi è mancato anche a Padova, conquistata dalla rinata alleanza tra Lega e Forza Italia.
«Siamo amareggiati per Livorno — ammette a caldo il vicesegretario Lorenzo Guerini —. Le sconfitte bruciano, ma il Pd è passato da 15 a 19 capoluoghi amministrati». Hai voglia a dire che i Comuni al ballottaggio erano pochi e che, dunque, il valore nazionale della competizione è scarso... La frenata del Pd c’è stata e le conseguenze arriveranno presto. Quando tornerà dalla missione tra Vietnam e Cina, Renzi metterà la testa sui problemi del territorio e i suoi prevedono una rivoluzione che fa rima con rottamazione. «Ci vuole gente nuova, anche nelle città» è il leitmotiv intonato ieri notte dai renziani del giro ristretto. «La rottamazione è solo iniziata», conferma Francesco Nicodemo.
Guerini assicura che la polemica tra vecchia e nuova guardia non ha avuto ripercussioni sulla campagna elettorale, né effetti sul risultato: «Si sono impegnati tutti, vecchi e nuovi». Eppure il tema aleggia. Di chi sono gli aspiranti sindaci sconfitti? «Renziani non sono», rispondono nell’entourage del leader buttando la croce sulla sinistra del Pd. L’arresto di Giorgio Orsoni a Venezia ha diviso i «dem», già provati dai fatti dell’Expo e dall’arresto del deputato siciliano Francantonio Genovese per associazione a delinquere. Ma, anche qui, Guerini smentisce che i ballottaggi siano stati un test sulla tenuta di Renzi dopo gli scandali: «Il Mose non c’entra nulla».
Sfumato l’en plein, niente foto di gruppo al Nazareno. I dirigenti hanno atteso i risultati nei vari comitati, su e giù per l’Italia. E anche Stefano Bonaccini parla di «amarezza per le sconfitte a Perugia, Padova e Livorno». I numeri intaccano lo straordinario risultato del 25 maggio, quando le Europee hanno consentito a Renzi di trainare il Pd anche nei comuni. Alfredo D’Attorre cerca il termine giusto: «È un cappottino... Il Pd amministrava 14 Comuni capoluogo, ora siamo a 20 su 28».
A Livorno il M5S ha giocato duro ed è riuscita a spingere i Democratici verso l’autogol, in una città simbolo per la sinistra da sempre. Le liti fra correnti hanno indebolito il Pd locale e bruciato candidati anche validi. Renzi ha scelto di non farsi vedere al secondo turno in nessuna piazza d’Italia e così a Livorno, in rappresentanza del leader, sono andati Lotti e Nardella. Risultato: il candidato di Grillo, in asse con la sinistra-sinistra, si è preso la città umiliando Marco Ruggeri, primo candidato sindaco nella storia della sinistra livornese ad aver subìto l’onta dello spareggio e poi della débâcle. «Sconfitta pesante — ammette deluso — Ci saranno riflessioni e fortissimi cambiamenti da fare».
Per riorganizzare e svecchiare il partito anche sul territorio, Renzi ha affidato a Guerini il compito di avviare una ricognizione campanile per campanile, con l’obiettivo di dirimere contrasti e spazzar via correnti. Anche a Modena il Pd ha tremato. Nella città della Ghirlandina, dove la sinistra aveva sempre vinto al primo turno, il colore rosso sembrava essersi scolorito. Gian Carlo Muzzarelli, braccio destro del «governatore» bersaniano Vasco Errani, ha dovuto lottare fino all’ultimo per trionfare sul grillino Marco Bortolotti. A Padova invece, dove i venti burrascosi del Mose soffiano forte, il leghista Massimo Bitonci ha avuto facile gioco nel finale di partita, potendo mettere in carico all’ex sindaco reggente Ivo Rossi i «legami del Pd con gli arrestati». A Bergamo, per portar via la poltrona al sindaco Franco Tentorio, Giorgio Gori si è visto costretto a combattere contro i tabù della sinistra, che gli rimprovera di aver lavorato a Mediaset. A Bari, infine, la vittoria di Antonio Decaro era già scritta nei 24 mila voti di scarto con Domenico Di Paola, il candidato del centrodestra. «Abbiamo battuto in maniera sonora Fitto e tutto quel che rimane del centrodestra», esulta Michele Emiliano.

La Stampa 9.6.14
Guerini, vice segretario Pd “Non si usi la questione morale per riaprire lo scontro interno”
Il vice segretario del Partito democratico: la legalità è un problema culturale non generazionale
intervista di Carlo Bertini

qui

La Stampa 9.6.14
Partiti in cerca di una nuova verginità ma con poca memoria del loro passato
Tutti pronti a chiedere pene esemplari
di Mattia Feltri


Come i bambini: toc, ce l’hai. Ma quelli del Pd non se lo aspettavano. Uno del Movimento cinque stelle, Alessio Villarosa, si era alzato a Montecitorio per dire che tutti quanti avrebbero avuto di che vergognarsi per l’intestazione della biblioteca della Camera a Paolo Borsellino. Rosy Bindi, sorpresa nell’altra parte della barricata, rispose che «nessuno dovrebbe appropriarsi dei nomi di Borsellino e Falcone». Ma pochi giorni più tardi, nel comizio conclusivo a piazza San Giovanni della campagna elettorale per le Europee, Beppe Grillo si prese non soltanto i magistrati antimafia, ma anche quelli di Mani pulite e infine il santino di Enrico Berlinguer; si gridò «la mafia fuori dallo Stato» e si invocò una «pulizia etica». 
E così il Partito democratico si trovò di colpo, dopo vent’anni di morale impartita, epurato da qualcuno più puro. Ma in Italia ci vuol niente a rimettersi in piedi: i giovani padroni del Pd, dopo gli arresti del Mose, hanno certificato la loro diversità all’interno dell’ex partito della diversità; sul tema della corruzione, «il nuovo Pd non fa sconti a nessuno», ha detto Debora Serracchiani; il Pd trarrà le conseguenze «come già è stato fatto nel caso Genovese (il deputato consegnato alla magistratura, ndr)», ha detto Maria Elena Boschi; e siccome Berlinguer è meglio non lasciarlo in giro, «ora c’è una nuova generazione che vuole prendere in mano la questione morale e segnare una discontinuità col passato». Il povero Nico Stumpo, rimasto quasi in solitaria a respingere le teorie di differenza generazionale («nella vecchia guardia c’è tanta gente per bene come in quella nuova»), aveva appena riproposto quelle sulla differenza antropologica (o almeno culturale): «Il Pd è più attrezzato di altri nel combattere il malaffare».
Una partita difficile, questa. Tante più ruberie si scoprono, e tanti più partiti ne restano coinvolti, tanto più nessuno è disposto ad abbassare i vessilli della sua incomparabile rettitudine. Sul Mattinale di Renato Brunetta si è letto che «Forza Italia è la portabandiera della lotta alla corruzione», e Maurizio Bianconi ha suggerito a Matteo Renzi - «il grande ipocrita» - di spiegare perché i ladri sono fra di loro, anziché minacciare di «prenderli a calci nel sedere». Posizioni forse un pochino temerarie, visto la storia antica e recente del partito berlusconiano. Ma in fondo c’è spazio per tutti. La Lega Nord, già immemore delle mutande verdi di Roberto Cota, dei crodini e delle lauree di Bossi jr, dei diamanti e dei lingotti di Francesco Belsito, si gode l’occasionale innocenza e col governatore del Veneto, Luca Zaia, si prende una rivincita: «Il quadro è inquietante, ancora di più pensando alle lezioni pubbliche che Giancarlo Galan dispensava a tanti di noi». E poi, sempre Zaia: «Il Pd si guardi in casa: ci sono contributi finiti dalle tasche dei signori del Mose alla segreteria del partito». Non aveva nemmeno tutti i torti, visto che il Pd del Veneto gli aveva sollecitato le dimissioni. 
Il momento è propizio. E’ propizio per Sinistra ecologia e libertà e per Rifondazione comunista di dire «noi ve lo avevamo detto»: non si fanno le grandi opere, che portano soltanto grandi mazzette, spiegano Nichi Vendola e Paolo Ferrero. E’ propizio per attribuire un’intrinseca carica criminale al governo meticcio: lo fa Grillo («larghe intese in manette») e ancora più chiaramente Giorgia Meloni, leader di F.lli d’Italia: «L’altra edificante faccia delle larghe intese». E così è tutto buono: ecco Renato Schifani deberlusconizzato congratularsi col suo segretario per non avere gridato al complotto della magistratura; ed ecco Edmondo Cirielli, altrettanto decavalierizzato, invocare «punizioni esemplari». E poteva mancare Antonio Di Pietro? Mai! «Ho scritto la storia di Mani pulite e mi viene tanta voglia di ricominciare», anche se «allora me l’hanno fatta pagare». Torna in pista perché «sono state fatte leggi per aiutare i ladri», e voi scordatevi i Razzi e gli Scilipoti, e anche Vincenzo Maruccio, il braccio destro di Tonino che si intascò un milione di rimborsi, e non parliamo poi di Sergio De Gregorio e delle sue prodezze. Di senza colpa, qui, non ne è rimasto uno, e hanno tutti lanciato la loro prima pietra, ultima vaga testimonianza di una consapevolezza comune: è meglio non rubare. 

Repubblica 9.6.14
E la ferita riapre la guerra fra i dem
di Goffredo De Marchis


RENZI è partito per il Vietnam alle otto di sera con lo schema preparato da Stefano Bonaccini, il capo dell’organizzazione del Pd. Previsioni, numeri, l’ipotesi del record di 20 capoluoghi vinti su 28 ma anche il realismo delle contese in bilico. Alla fine il bilancio mostra qualche città simbolo ceduta, alcune conquiste significative.
MA È una frenata rispetto al trionfo di 15 giorni fa. «Del record mi è sempre interessato poco — è il ragionamento del premier —. Il risultato delle Europee unito a quello delle amministrative non può essere messo in discussione. Non dimentico le regioni Piemonte e Abruzzo, le vittorie del primo turno. E le riforme vanno avanti, abbiamo la forza per farle». Sono parole indirizzate a Forza Italia, ai suoi ultimatum sulla riforma del Senato. Ma anche e soprattutto al Partito democratico.
Si sta già aprendo infatti il confronto tra vecchio e nuovo al Nazareno. Come sulle inchieste di Venezia. C’è il rischio di una resa dei conti. Il corso renziano, lì dove si è perso, ha fatto fatica a farsi largo. Anzi, ha dovuto cedere il passo. Questa è la versione dei fedelissimi. La stessa che ispira il premier. «Perdiamo dove ci siamo chiusi, dove ha prevalso la logica del vecchio. Vinciamo dove ci siamo presentati con nuovi volti e nuovi programmi», è l’analisi dei renziani in contatto comunque via telefono con l’aereo in volo per l’Asia. Come dire che l’effetto Renzi deve ancora fare breccia nel Pd.
Ci sono le ferite di Padova, Perugia, la sconfitta simbolo di Livorno con la rivincita dei 5stelle. Attenzione dunque a un Partito democratico dove neanche il 40 per cento mette al riparo da dissidi intestini. Al Nazareno si fanno i conti con alcune realtà «dove il Pddel passato ha mostrato la corda, dove dobbiamo ancora rinnovare». È chiaro il riferimento a Padova, la città del bersaniano Zanonato che ha visto la corsa perdente del suo vice Rossi. E a Perugia, dove i renziani puntano l’indice contro il sindaco uscente Wladimiro Boccali, cuperliano, esponente di una sinistra «legata a una logica vecchia». Come tutta l’Umbria democratica, dicono al Nazareno, una regione rossa che rischia di cambiare verso nel senso di una rendita di posizione ormai logora. È un colpo duro da digerire la Livorno perduta dopo 70 anni ma, dicono, «in Toscana abbiamo vinto al primo turno Firenze e a Prato strappandola al centrodestra». È uno choc anche Perugia, altro simbolo di un potere decennale. Non saranno indolori questi insuccessi, in particolare per i rapporti interni, alla vigilia dell’assemblea dem, se il ragionamento è “i nuovi vincono, i vecchi perdono”. Ma Renzi ha lasciato detto ai suoi fedelissimi che non si cambia strategia. Basta un niente per mettere in difficoltà le accelerazioni volute da Palazzo Chigi. Serve dunque la spinta finale per non avere ostacoli sulla strada del governo. Questa poi è la settimana decisiva per chiudere la partita con le correnti in vista dell’assemblea nazionale di sabato dove si sceglierà anche il presidente del partito.
Già venerdì, nel consiglio dei ministri, andranno in porto la riforma della pubblica amministrazione del ministro Madia e il pacchetto anticorruzione in cui saranno compresi i poteri di Raffaele Cantone. Sono anche sette giorni importanti per l’abolizione del Senato. Per dare spazio alla discussione e per non forzare, il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi ha fissato la nuova scadenza per l’approvazione in prima lettura della riforma: «Prima della pausa estiva». Non a fine giugno ma entro luglio dunque. La partita però sarà più chiara da subito. Questa settimana verranno illustrati gli emendamenti. Va valutata la posizione di Roberto Calderoli relatore di minoranza e di Anna Finocchiaro relatrice di Dalle scelte della Finocchiaro si capirà quali sono le aperture del governo a modifiche. Il no al Senato elettivo rimane. Di Forza Italia Palazzo Chigi continua a fidarsi. «Semmai — dicono — vediamo come reagirà il Pd dopo i ballottaggi e di fronte a un primo passaggio istituzionale ». Non dimentica, Renzi, che sull’Italicum ha dovuto cedere: fissando la riforma solo per la Camera in attesa dell’abolizione del Senato. Le resistenze sono state solo seppellite per le elezioni e grazie al risultato straordinario delle Europee ma nessuno scommette sulla loro scomparsa definitiva. A partire dalla discussione tra vecchio e nuovo destinata ad aprirsi fin da oggi. Dice già in serata Bonaccini: «Il successo generale rimane. Ma sulle ferite delle città simbolo dovremo aprire una riflessione».

Repubblica 9.6.14
Massimo Cacciari
“Il leader non basta e gli scandali pesano sull’affluenza”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA. «Speriamo che ora a Roma capiscano che non basta il leader, per governare ci vuole il radicamento, altrimenti non si va avanti a lungo». Massimo Cacciari, filosofo, ex sindaco di Venezia, fa un bilancio a caldo dei risultati: «Il traino di Renzi è minore nelle amministrative. Gli scandali hanno influito sull’affluenza».
Cacciari, affluenza in caduta libera: gli scandali, quest’ultimo del Mose in particolare, hanno influito nella disaffezione e anche sui risultati?
«Il calo consistente mostra che gli scandali di corruzione hanno avuto un peso. Se a Padova in fatto di astensione è andata un po’ meglio, è perché lì c’era un testa a testa che ha mobilitato. Non credo però che c’entrino con i risultati».
L’arresto di Orsoni ha spostato?
«Orsoni non ha nessun ruolo nel Pd. Se anche lo scandalo fosse avvenuto prima delle europee, avrebbe potuto al massimo spostare uno o due punti localmente».
I ballottaggi sono stati la prova del nove per Renzi? E comunque a Livorno si va verso il ribaltone con il grillino in testa. A Padova in testa è il leghista.
«Sono votazioni assolutamente non comparabili. Qui alle amministrative conta molto il fattore personale delle candidature locali. L’effetto traino di Renzi non è determinante. Se a Pavia la vittoria del centrosinistra era facile profezia, a Padova è stata incertezza fino alla fine».
Un’incertezza che derivava da quello che è accaduto in Veneto?
«Intanto in Veneto c’è stato il salto più clamoroso del Pd alle europee. Immaginiamoci cosa sarebbe accaduto se il coinvolgimento nell’inchiesta del Mose per Galan e per Chisso fosse avvenuto prima delle europee. Per Forza Italia sarebbe stato un massacro, sotto il 10%».
A Padova lei come si aspettava andasse a finire?
«La situazione lasciata da Zanonato era difficile. Zanonato ha smesso di fare il sindaco, la mollato cioè la città e ha fatto il ministro senza successo. E il candidato del centrosinistra Ivo Rossi, persona che stimo, non sembrava avere carisma. Inoltre il rischio previsto era che i grillini pur di fare un dispetto al Pd votassero per l’antagonista ».
Nel Pd veneto c’è una situazione compromessa?
«Non vedo perché. Moltissimi democratici erano sulle mie posizioni. Il Pd veneto non deve sentirsi responsabile delle faccende connesse al Mose. Abbiamo sempre portato avanti una linea molto critica. Orsoni aveva anche lui una linea critica. Dalle accuse sembra che abbia fatto questa mega galattica scemenza di prendere dei finanziamenti. I Dem veneziani ne escono a testa alta, diverso è per il centrosinistra nazionale. I governi di centrosinistra e di centrodestra e tutto il Pd nazionale si facciano le pulci a casa loro».
Però il Comune ha ora un problema?
«Bisogna rinnovare l’amministrazione comunale con una squadra giovane, competente, capace».
Ma lei condivide la rappresentazione: “vecchia guardia” come la bad company del Pd?
«Non c’entra niente. Va valorizzato un ricambio, al di là delle rottamazioni, delle renzine, delle demagogie».

Il Fatto 86.14
Pd, la civatiana Schlein:
“Risultato europee? Riconsiderare alleanze e subito al voto”

con un video qui

Repubblica 9.6.14
“A Orsoni serviva il voto dei cattolici” la pista dei fondi neri dirottati sulla Curia
Baita: il Patriarcato fece una scelta di campo e anche noi decidemmo di scaricare Brunetta
di Corrado Zunino


ROMA. I 450mila euro che il supremo tessitore Giovanni Mazzacurati sostiene di aver dato al sindaco (in uscita) di Venezia, Giorgio Orsoni, avrebbero alimentato il voto cattolico alla vigilia delle elezioni amministrative del 2010. Gli investigatori stanno trovando le prime conferme a questa pista giudiziaria. Orsoni, agli arresti domiciliari nella sua casa veneziana “alla fermata del vaporetto di San Silvestro”, nega di aver ricevuto i 450 mila euro in nero, ammette solo i finanziamenti registrati (110 mila). Alle parole dell’accusatore Mazzacurati si sono aggiunte nel tempo, però, due conferme: la testimonianza a verbale di Piergiorgio Baita, già amministratore della Mantovani spa, capofila del Conzorzio Venezia Nuova guidato proprio da Mazzacurati, e quella di Federico Sutto, uno dei due cassieri del consorzio. La finanza, che ha certificato undici incontri tra Orsoni e l’ingegner Mazzacurati, di cui otto a casa del sindaco con passaggi di denaro in tre-quattro occasioni, ora sta verificando la consistenza del filone “finanziamenti Mose girati alla chiesa cattolica veneziana”.
L’ipotesi, abbiamo visto, è che all’inizio del 2010 l’avvocato Orsoni avesse bisogno di denaro per condurre la sua campagna elettorale in salita: era sfavorito di fronte all’avversario pdl, il ministro Renato Brunetta. In alcune intercettazioni si ascolta Orsoni chiedere ai sostenitori potenti di far presto, vuole più soldi di quelli che — centomila euro —gli vengono prospettati. È stato lo stesso Baita, in altre occasioni, a raccontare come i dirigenti del Consorzio per costruire il Mose fossero inizialmente orientati sul candidato più affine, Brunetta appunto. «Quando abbiamo saputo che il Patriarcato aveva fatto una scelta di campo, quella di Orsoni, abbiamo cambiato linea ». Il contante girato da Mazzacurati al sindaco aveva ottenuto il suo effetto spostando “voti cattolici” verso il centrosinistra.
Nelle carte di procura c’è un altro passaggio che lega il Consorzio Venezia Nuova alla curia locale ed è il sequestro degli appunti dei pagamenti realizzati fino all’11 ottobre 2001 dal Consorzio veneto cooperativo (socio, appunto, del grande Cnv). Quelle consegne in contante erano state segnate su un foglio poi nascosto nell’abitazione dei genitori di una dipendente del Coveco. La lista sequestrata segnalava, tra molti politici locali, anche la Fondazione Marcianum. Centomila euro, per loro: “quota annuale”. La fondazione è un polo pedagogico e accademico fortemente voluto e quindi fondato nel 2004 a Venezia, sestiere Dorsoduro, dall’allora patriarca Angelo Scola, oggi arcivescovo di Milano. Istituto di studi religiosi, liceo classico, facoltà San Pio X, biblioteca. Una struttura costosa, la fondazione. Che da sempre ha stretti rapporti con le istituzioni del territorio. Tra i quattro soci fondatori del polo cattolico c’è, non a caso, il Consorzio Venezia Nuova che, per missione, non ha quella di tirare su biblioteche cattoliche. Presidente del Marcianum viene nominato Giovanni Mazzacurati, lo stratega del Mose che sarà arrestato nel luglio 2013. Nel consiglio della fondazione entrano Romeo Chiarotto, il padrone della Mantovani Spa, e lo stesso sindaco Orsoni, cattolico di sinistra i cui rapporti con Scola sono tenuti dal capo di gabinetto Marco Agostini. Sostenitore della fondazione tra i primi, si fa avanti la Regione Veneto. Il suo presidente, Giancarlo Galan, nel 2004 dirotta 50 milioni alla curia di Venezia prelevandoli dai fondi della legge speciale: servono a ristrutturare il seminario patriarcale alla Salute (foresteria per 70 persone, sale multimediali), il palazzo patriarcale, restaurare la basilica della Salute (accanto al Marcianum). Nella comunità diocesana e in città quel finanziamento fa discutere.
Lo scorso 19 luglio, subito dopo l’arresto di Mazzacurati, il nucleo tributario è andato alla sede della Fondazione Marcianum e ha sequestrato i documenti che certificavano i finanziamenti del Consorzio Venezia Nuova all’ente ecclesiale e i finanziamenti (tra i 10 e i 50 mila euro a testa) di molte società del Cvn: Mantovani, Coedmar, Lmd, la Hmr dell’attuale neodirettore Hermes Redi. «Un’azione normale», là definì l’amministratore Marco Agostini, l’uomo di Scola, l’uomo di Orsoni. Era solo l’inizio della caccia ai fondi neri elettorali.

Corriere 9.6.14
Le Grandi opere che l’Italia non sa più costruire e il record dei 395 cantieri mai portati a termine
Dalla Salerno-Reggio al ponte sullo Stretto, tra tempi incerti e costi altissimi
di Sergio Rizzo


Che le cose non funzionino affatto come dovrebbero, lo sappiamo da mezzo secolo. Basta rileggere quello che disse in una intervista al Corriere negli anni Settanta Fedele Cova, uno dei progettisti dell’Autostrada del Sole. «Il segno del cambiamento», ricordava, «si ebbe nel 1964. Prima mi avevano lasciato tranquillo, forse perché non credevano nelle autostrade, forse perché non si erano neppure accorti di quello che stava accadendo. Ma, nel ’64, con la fine dell’Autosole, cominciarono gli appetiti, le interferenze...».
Fu lì che si perse l’innocenza del dopoguerra. E che le opere pubbliche cominciarono a diventare la greppia per politici e affaristi. Più che la loro utilità, interessavano i soldi che potevano far girare. Oppure il ritorno in termini di consenso politico. Memorabile la vicenda del tracciato dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, i cui lavori iniziarono nel 1963, che con scarso rispetto della logica fu fatto inerpicare nel collegio elettorale del ministro dei Lavori pubblici, il socialista Giacomo Mancini.
Se si vuole trovare una spiegazione alla nostra cronica incapacità di costruire opere pubbliche in tempi umani e a costi civili, non si può che partire da qui.
L’Autostrada del Sole venne realizzata in poco più di otto anni, al ritmo di 94 chilometri l’anno con un costo medio, in euro attuali, di 4 milioni al chilometro. Per la Salerno-Reggio Calabria, poco più che una semplice statale lunga 443 chilometri invece dei 794 dell’Autosole, di anni ne servirono 11, e il costo a chilometro era già salito a 5,5 milioni. L’attuale rifacimento della stessa autostrada, iniziato nel 1997, potrà forse dirsi completato in vent’anni, a un costo chilometrico esattamente valutabile soltanto alla fine: ma certo non molto distante da un quintuplo di quello di quando l’arteria fu costruita. Per non parlare della famosa variante di valico, il nuovo tratto appenninico dell’Autosole, del quale si parla da vent’anni e non è ancora percorribile. Passando dalle strade alle ferrovie, la musica non cambia. Un recente studio di Intesa Sanpaolo ha appurato che il costo medio di un chilometro di alta velocità made in Italy è triplo rispetto alla Spagna, alla Francia e al Giappone. Vari sono i motivi: non ultimo le compensazioni che vengono imposte dai Comuni attraversati dai binari. Ma oltre al costo economico c’è da mettere nel conto anche la perdita di tempo: per realizzare l’alta velocità ferroviaria in Italia c’è voluto un ventennio. Fatto sta che nel 2012 avevamo 876 chilometri di linee veloci, contro 2.125 della Francia e 3.230 della Spagna: e pensare che la prima tratta europea per i supertreni, la direttissima Roma-Firenze, era stata costruita proprio in Italia, all’inizio degli anni Settanta. Tempi lungi, costi assurdi, procedure complicatissime che sembrano ideate apposta per favorire i ritardi e le spese faraoniche, ma anche la corruzione. E una profondissima ipocrisia: regole minuziose e controlli accurati sulla carta, assenza di regole e assenza di controlli nella realtà. Come sta a dimostrare proprio il caso del Mose. Dove per giunta gli incarichi di collaudo venivano assegnati, oltre che a manager come il presidente dell’Anas Pietro Ciucci e ad altri suoi colleghi esperti in strade, addirittura a persone prive di laurea come il geometra Gualtiero Cesarali.
Non c’è opera pubblica la cui vicenda non sia scandita da varianti infinite, ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato, arbitrati nei quali lo Stato finisce inevitabilmente per soccombere. Senza che le uniche due necessarie certezze siamo mai certe: il tempo e il prezzo. Il risultato è che mentre continuiamo a divorare il nostro meraviglioso paesaggio con brutta e inutile edilizia abitativa, non facciamo le opere pubbliche necessarie. E anche questo è un costo. Enorme. Chi si è preso la briga di calcolare i costi del «non fare» ha stimato che la mancata costruzione di ferrovie e autostrade che hanno fatto scivolare l’Italia in fondo alla classifica dei Paesi europei per dotazione infrastrutturale ci abbia causato una perdita di 278 miliardi di euro. A cui va aggiunta, ovviamente, la fattura delle opere pubbliche mai completate: record, anche questo, tutto italiano. Ne sono state censite 395, con una punta di 150 nella sola Sicilia.
Numeri e circostanze che alla vigilia del 2015, e con gli scandali delle tangenti dell’Expo e del Mose, ci mettono ancora di più di fronte a un interrogativo cruciale: l’Italia è in grado di realizzare opere pubbliche importanti? È una domanda a cui dobbiamo dare una risposta, se vogliamo considerarci a pieno titolo un Paese sviluppato che fa parte dell’Unione Europea. Ma qui, purtroppo, gli esempi lasciano poche speranze. Il ponte sullo Stretto di Messina, per esempio. Un’infrastruttura controversa, sulla quale le opinioni nel Paese erano assolutamente discordi. Che però ha offerto al mondo uno spettacolo inverosimile. Messa nel 2001 dal governo di Silvio Berlusconi in cima alla lista delle opere strategiche, cancellata con un colpo di spugna nel 2006 dal governo di Romano Prodi, riesumata nuovamente da Berlusconi nel 2008 e affossata dallo stesso governo del Cavaliere nel 2011. Per essere poi definitivamente sepolta con uno stratagemma ideato dall’abbinata fra politica e burocrazia quando a Palazzo Chigi è arrivato Mario Monti. Il tutto dopo aver fatto una gara internazionale e aver firmato otto anni fa un contratto miliardario con imprese italiane e internazionali. Uno scherzetto già costato ai contribuenti 350 milioni fra progetto e mantenimento in vita della società Stretto di Messina. E con le penali il conto potrebbe arrivare anche a un miliardo: senza che ci resti un solo mattone.

l’Unità 9.6.14
Luigi Berlinguer: «Necessario modificare statuto e codice etico del Pd»
«Fa bene Renzi a usare toni duri. Di fronte alla drammaticità di nuovi episodi, al nostro partito serve una maggiore radicalità degli interventi»

«Ha ragione il segretario del Pd a usare toni duri contro chi si è reso responsabile dei gravissimi fatti di corruzione del Mose e di Expo. E ha ragione, quando, come presidente del Consiglio Renzi annuncia norme che rendano trasparenti i meccanismi degli appalti e sanzioni più dure per chi infrange le regole. Ma attenzione, perché l’emozione sociale è nemica della giustizia penale. Agire sull’onda dell’emotività porta a scrivere norme sbagliate, come è avvenuto spesso in passato». Luigi Berlinguer, già presidente della Commissione di Garanzia del Pd, è convinto della necessità di modificare anche Statuto e Codice etico del partito, ma invita a mantenere quel distacco indispensabile per produrre norme «giuste».
È come il gioco dell’oca, ad un certo punto si riparte daccapo. Sempre le stesse dinamiche: appalto uguale tangenti, tangenti uguali coinvolgimento dei politici. Come si disinnesca il meccanismo infernale?
«Le vicende delle istituzioni pubbliche sono drammatiche e giustificano la forza con la quale il presidente del Consiglio ha posto la questione. Non si può più andare avanti così, la corruzione esiste in qualsiasi Paese del mondo, ma da noi il fenomeno ha assunto un tale rilievo da provocare un approccio forte. Per questo sono necessarie alcune modifiche anche del nostro profilo istituzionale di partito che si compone delle due importanti fonti che sono il Codice etico e lo Statuto. La precedente Commissione di garanzia, che ho presieduto, aveva avanzato già da allora la necessità di alcune modifiche. Oggi, di fronte alla drammaticità di nuovi episodi c’è bisogno di un’accentuazione radicale degli interventi».
E infatti Lorenzo Guerini dice che sono necessari meccanismi normativi e culturali per evitare che si ripetano episodi del genere.
«Sono d’accordo con il vicesegretario, perché queste vicende hanno aggravato il già difficile rapporto tra cittadini e politica. La radicalità con cui viene prospettata ora la natura dell’intervento deve partire dall’individuazione di norme più rigorose di carattere preventivo, parlo cioè di norme di comportamento ordinario del ceto politico e dei responsabili istituzionali rispetto ai rischi di malaffare. Ma deve anche comportare una severità di sanzione corrispondente alla drammaticità del problema. Quindi fa bene Renzi quando parla di cacciare i responsabili a calci nel sedere perché la gente capisce di cosa si parla. Le misure sanzionatorie nei confronti di chi si rende responsabile di reati di corruzione devono essere gravi, simili a quelle previste per altri gravissimi reati, perché chi riveste un ruolo pubblico o istituzionale non può rendersi protagonista di un tradimento verso la cosa pubblica. Ma se mi consente vorrei parlare anche di un altro aspetto che mi preoccupa molto...».
A cosa si riferisce?
«Al fatto che in Italia di fronte a questi fenomeni si sta reagendo con una pratica secondo la quale la condanna mediatica iniziale bolla definitivamente una persona in un momento investigativo e non di giudizio. Così non va bene, occorrono norme sicure di garanzia affinché il processo mediatico non si trasformi in un processo reale di distruzione dell’indagato. Tanto più severa deve essere la pena tanto più necessaria la certezza che davvero una persona si sia resa responsabile. Abbiamo assistito troppe volte al massacro mediatico di chi poi o non è stato condannato o si è portato dietro per tutta la vita il sospetto di una responsabilità. C’è stato anche un periodo in cui gli avvocati di Berlusconi grazie ai cavilli hanno allungato i processi e allontanato le condanne: io sono contro un garantismo che attraverso i cavilli non porta mai a conclusione una vicenda giudiziaria, ma sono contrario anche alla sommarietà. Per questo la distinzione tra pm e giudice deve essere più netta».
Ma i partiti cosa debbono fare per evitare che si arrivi ai fatti cui stiamo assistendo? «Prima di tutto i partiti devono fare una campagna di cultura politico-istituzionale che rimetta le cose al loro posto. Una società non può vivere sulla cultura del sospetto non appena si apre un’indagine, non si possono fare processi mediatici. Non serve il qualunquismo, ma seria responsabilità verso la giustizia. Il reato è la configurazione penale di un atto, i comportamenti politici inopportuni sono un’altra cosa. La politica deve dire con chiarezza quali sono gli atti inopportuni e ingiusti politicamente, distinguendoli da quelli di delinquenza. Si devono definire confini precisi, per esempio dire come devi prendere i soldi per la campagna elettorale e come li deve spendere, cosa è opportuno fare e cosa evitare. Ma alla base di tutto deve mettere il senso di responsabilità che chiunque voglia fare attività politica o istituzionale deve avere».

Repubblica 9.6.14
Barbara Spinelli
La candidata di Tsipras spiega le ragioni che l’hanno portata a cambiare idea
“È stata una scelta tormentata: ho detto sì per i voti ricevuti e per le forti spinte che ho avuto ad accettare il mandato”
“Vado in Europa per tutta la Sinistra Le accuse di Sel sono false e ingiuste”
di Alessandra Longo


ROMA. Ormai ha deciso di andare in Europa ed è il momento, per Barbara Spinelli, di ragionare pacatamente su quel che è successo, su quell’incendio divampato dentro l’Assemblea dei Comitati territoriali della Lista Tsipras, sulle accuse di «unilateralismo» che ha ricevuto per la decisione di accettare, su pressione dello stesso Tsipras, il ruolo di europarlamentare, sulla rabbia di Sel che perde il suo “ambasciatore” a Strasburgo. Ore difficili per chi non è abituato alla durezza dello scontro politico. Ma Spinelli spera che la tormenta passi: «Vado in Europa in rappresentanza di tutti e spero di essere all’altezza. Se Sel pensa di aver perso quello che ritiene essere il “suo” candidato (Marco Furfaro, collegio Centro, ndr) è segno che c’è ancora strada da fare, che la Lista Tsipras deve perfezionarsi. Il candidato arrivato dopo di me al Centro, collegio che ho scelto perché sono di Roma, non era candidato di Sel, ma della Lista; tale dovrebbe essere considerato dal suo partito».
Barbara Spinelli, partenza tormentata.
«Sì, tormentata. Inizialmente non intendevo andare in Europa, ma sono rimasta sorpresa dal numero di preferenze che ho preso e dalle forti spinte ad accettare il mandato».
Con che spirito affronta il suo primo incarico istituzionale?
«Con una grande speranza e la volontà di contribuire al cambiamento radicale dell’Europa, delle sue politiche. Urge un forte segno di discontinuità».
I due partiti che hanno appoggiato la Lista, Sel e Rifondazione, sembrano in difficoltà. L’affermazione di Tsipras li fa diventare di colpo vecchi contenitori?
«Questo era — ed è ancora — il progetto: costruire un’aggregazione di sinistra più ampia, che includa le espressioni della società civile e i partiti che si riconoscono nel progetto. Certo non è un obiettivo che si realizzi subito, produce scossoni, tormenti».
Sel, orfana del suo candidato, ha avuto un rigurgito identitario.
«Perché lo considera il “suo” candidato e non della Lista. Sel sta vivendo una profonda crisi. Non sa decidersi tra Tsipras e Schulz ma questo è un problema di Sel. Gli assestamenti, dolorosi, sono fisiologici. Ci vogliono saggezza e comprensione reciproca».
Il risentimento nei suoi confronti in queste ore è forte.
«Mi si accusa di essermi chiusa in una torre d’avorio, a Parigi, di aver deciso da sola. Di aver scelto fra Centro e Sud trattando i candidati arrivati dopo di me “come carne da macello”, così scrive Furfaro. È falso e ingiusto. Tra il voto e la decisione finale non c’è stato il vuoto ma un pieno: di contatti, di negoziati dei garanti con i partiti che esprimevano le candidature. Fallite le trattative, qualcuno doveva pur decidere. Su invito dei garanti l’ho fatto io».
Tsipras la vuole vicepresidente del Parlamento Europeo. Il cognome Spinelli è un valore aggiunto anche nei rapporti con il Pse. I suoi rapporti con Schulz?
«Non ho rapporti personali. La mia linea non è ostile al gruppo socialista ma alternativa alle politiche da esso fin qui sottoscritte. Se i socialisti smettono di inseguire le larghe intese, responsabili dell’austerità, se marcano una discontinuità, il dialogo sarà interessante ».
Altri dialoghi interessanti in Europa?
«Con i Verdi».
Lei ha sempre detto che c’erano dei punti di contatto anche tra la Lista Tsipras e 5Stelle. Adesso corteggiano Farage.
«Farrage è nazionalista, xenofobo, nuclearista. Cose lontane anni luce dai sette punti di Grillo sull’Europa. Vedremo se i suoi deputati accetteranno il diktat. I sette punti sono ancora là».
Non la spaventa questo nuovo lavoro?
«Si, provo spavento e spero soprattutto di essere all’altezza. Il passaggio dall’osservazione all’azione non è poca cosa. Ma continuerò a scrivere».
La politica è un mestiere duro.
«Anche la scrittura a volte lo è».
C’è un vento populista in Europa che fa paura.
«Più che impaurente lo trovo uno stimolo, per i veri europeisti. Inquietante è che vengano definiti populisti, in blocco, tutti gli elettori che rifiutano le attuali politiche europee. Non si può pensare che esistano da una parte i filo-europei, peraltro responsabili della crisi, e dall’altra una massa di antieuropeisti. L’Europa nasce solo se c’è un agorà con spazio per conflitti e alternative. L’Europa solidale e federale che immagino non la fanno solo i governi. Nasce dalla base e dovrà avere una Costituzione il cui incipit sia: “Noi, cittadini d’Europa” ».
I primi tre punti dell’agenda Spinelli?
«Appoggio a un New Deal per l’occupazione; lotta contro l’intollerabile segretezza delle trattative di partenariato commerciale tra Usa ed Europa; conferenza sul debito che preveda condoni per i Paesi in difficoltà».
Andando in Europa sente il peso di chiamarsi Spinelli, figlia di Altiero?
«Mio padre scrisse il Manifesto di Ventotene dentro una guerra che divideva l’Europa. La crisi di oggi è una specie di guerra, anche se non armata. E come allora, serve una “rivoluzione europeista”».

l’Unità 9.6.14
L’ira di Sel contro Spinelli
L’escluso Furfaro: «Noi carne da macello»
Verso l’archiviazione della lista Tsipras
Partito diviso, la resa dei conti finale all’assemblea nazionale di sabato
La giornalista contrattacca: «Da loro ambiguità»


«Logica proprietaria», «comportamento nello stile della casta», «scelta che ci riduce a carne da macello». Dal coordinatore di Sel Fratoianni all’escluso al Parlamento europeo Furfaro, è un coro di critiche contro Barbara Spinelli
Dalla Spinelli «una logica proprietaria e anche un po’ miserabile», tuona il coordinatore di Sel Nicola Fratoianni. «Si è comportata come la più autentica esponente della casta. Che fa una promessa e nonla mantiene», rincara la dose il deputato Arturo Scotto.
Il giorno dopo la decisione della giornalista e scrittrice di accettare il seggio all’europarlamento, Sel è in rivolta. Spinelli infatti ha optato per l’elezione nel collegio del Centro, consentendo l’elezione al Sud di Eleonora Forenza di Rifondazione comunista (il segretario del Prc Paolo Ferrero esprime «solidarietà» alla Spinelli) e lasciando fuori Marco Furfaro, l’unico eletto dei vendoliani, che ora si ritrovano con zero seggi. E   Sel precipita in una crisi senza precedenti.
Dopo il voto del 25 maggio, e nonostante il quorum superato, il partito di Vendola era diviso tra due linee, quella filo Pd del capogruppo Gennaro Migliore e quella che mirava a dare gambe al progetto Tsipras, guidata da Fratoianni, con Vendola nel mezzo a tentare di fare da pontiere tra due truppe sempre più in guerra fra loro. L’esclusione di Furfaro da Strasburgo è la classica goccia che fa traboccare il vaso, alla vigilia dell’assemblea nazionale del 14 giugno che già si preannunciava come una resa dei conti. La posizione dei filo Tsipras si è molto indebolita. «Spinelli ha seppellito lo spirito della lista e offeso tanti cittadini che avevano riposto in lei la speranza di una politica pulita e disinteressata», taglia corto Scotto, uno dei pontieri. Ma lo stesso Fratoianni, che ha vinto il congresso sulla linea Tsipras, è sconcertato: «Oltre ad aver disatteso la parola data, il ripensamento di Spinelli è avvenuto con una modalità che ha il sapore di un sequestro proprietario di un percorso collettivo, una scelta fatta nella completa solitudine di chi è incapace di misurarsi e confrontarsi ».
Molto hanno pesato anche le modalità della decisione. Spinelli si è chiusa per molti giorni nella sua casa di Parigi, e non ha fatto neppure una telefonata a Furfaro e Forenza, che trepidavano in attesa di un suo segnale. «Siamo stati trattati come carne da macello. Senza nessuna cura per le persone in una lista che recitava “prima le persone”», si sfoga Furfaro in una lunga lettera aperta, in cui ricostruisce i balletti delle ultime due settimane, con l’intellettuale che mandava segnali contrastanti a giorni alterni. «C’è qualcosa di disumano in questo », aggiunge Furfaro, che si rivolge direttamente a Spinelli: «Io sono figlio di un operaio. E mio padre mi ha insegnato la dignità. Dei comportamenti, innanzitutto ». E poi: «Cara Barbara, la mia generazione in un angolo non la mette nessuno. E non devi porgermi nessuna “gratitudine”».
Di lettere a firma Spinelli, in realtà, ne circola più d’una. In quella ufficiale, la giornalista motiva la sua giravolta con il pressing di Tsipras e con quelle 78mila preferenze ricevute. «Non sento di aver tradito una promessa. I patti si perfezionano per volontà di almeno due parti e gli elettori il patto non l’hanno accettato, accordandomi oltre 78.000 preferenze ». Inoltre, «come garante della Lista, ho il dovere di proteggerla dalle logiche di parte che possono comprometterne la natura originaria. In conclusione Spinelli, auspica da parte di Sel una «partecipazione immutata al progetto iniziale, che ha come prospettiva un’aggregazione di forze di sinistra alternativa all’odierno centro-sinistra e alle grandi intese». Parole che suonano come uno sberleffo a Sel, dove ormai i più sono convinti di avere «buttato il sangue in una operazione che aveva fin dall’inizio l’obiettivo di distruggerci». In una lettera riservata ad alcuni candidati di Sel, Spinelli ammette il deficit di democrazia della sua scelta ene attribuisce la responsabilità agli altri garanti. «Non posso io sola essere trasformata in una capro espiatorio di un’organizzazione che non ha saputo praticare la democrazia nel modo migliore», si sfoga. E attacca Sel: «Nel loro partito ci sono ambiguità che hanno fatto male alla lista». Il riferimento è a Vendola, che in un’intervista a l’Unità ha parlato della lista come una scelta «last minute». «Penso a chi sostiene l’opportunità di oscillare tra la Lista e il Pd di Renzi», chiude Spinelli.
Il rapporto con il partito di Vendola ormai è chiuso. Restano i cocci di Sel. «All’assemblea del 14 chiederemo le dimissioni del coordinamento nazionale che ci ha portato fin qui, da Fratoianni a Smeriglio e Airaudo», annuncia la deputata Ileana Piazzoni, vicina a Migliore. «Mi pare chiaro che il progetto Tsipras è archiviato. Ma ora non basta dire “si torna a Sel”, dopo che qualcuno ha deciso di cancellarla per un’intera campagna elettorale. Ora rimettere insieme i cocci non sarà facile». Fratoianni però non arretra: «Quel 4% è un successo che non si può negare». Vendola per ora tace. Nei prossimi giorni dovrà lavorare per salvare il suo partito dall’implosione. E non sarà facile

l’Unità 9.6.14
Giorgio Airaudo: «Non è stata ai patti, ma la perdita di coerenza si paga»
Per il deputato di Sel la giornalista ha sbagliato, ma non è così pessimista sul futuro della sinistra «Nel governo? Entriamo solo se esce Alfano...»


Barbara Spinelli avrebbe fatto meglio a rispettare i patti, sia verso Sel che, soprattutto, verso gli elettori. La lista l’Altra Europa per Tsipras era nata superando le divisioni e invece... Barbara Spinelli è un nodo da sciogliere». Giorgio Airaudo, deputato di Sinistra e Libertà che ha portato in Parlamento il suo bagaglio di sindacalista della Fiom, critica decisamente la scelta della giornalista di accettare il seggio a Strasburgo escludendo Furfaro di Sel, ma sembra comunque ottimista.
Per Sel è stato un colpo pesante...
«Noi abbiamo una responsabilità di fronte agli elettori, a chi ha creduto alla necessità di avere una sinistra per un’altra Europa. C’è una parte di elettorato che chiede una sinistra che vada oltre al Pd, è a questa che dobbiamo rispondere».
A Barbara Spinelli invece cosa dice?
«Che avrebbe fatto meglio a rispettare i patti. Riconosco il merito degli intellettuali nel mettersi al servizio della lista Tsipras, nel superare i fossati delle varie appartenenze. Invece Spinelli non è stata ai patti, ha sbagliato e glielo diremo, ma in politica paga la coerenza. E per ricostruire una sinistra in Italia pagherà la coerenza, come la forza con cui Furfaro invita a non chiudersi nelle piccole patrie, dimostra che a sinistra c’è uno spazio ampio da arare».
Furfaro esprime anche la sua amarezza personale, no?
«Io non l’ho sentita, leggendo la sua lettera. Semmai è un’amarezza girata sul futuro, nonostante tutto crede ancora nel progetto di una sinistra che ha fra le sue priorità i diritti, la libertà, i problemi economici. Certo, Barbara Spinelli è un nodo da sciogliere». A questo punto cosa succederà in Sel? Ci sono diverse posizioni rispetto al rapporto con il Pd e con il governo.
«C’è quel milione e 250mila voti della lista Tsipras con cui interloquire, hanno fatto diga alla polarizzazione, ai populismi e anche a Renzi, sono voti di chi chiede che la sinistra si liberi da quelle cambiali del centrodestra, dai Sacconi, gli Alfano, i Giovanardi...».
Ovvero Sel potrebbe sostenere il governo senza il centrodestra?
«Se Renzi si libera dalla cambiale sul lavoro da pagare a Sacconi, perché ho visto come il decreto lavoro, nei vari passaggi dalla Camera al Senato e ancora alla Camera, è cambiato come ha voluto lui. O le cambiali che Berlusconi impone sulle riforme, Giovanardi sui temi della famiglia e della droga».
Alfano fuori e Sel dentro?
«Beh, certo per entrare al governo deve uscire qualcun altro, e cambiare politiche. Il problema va rovesciato: non è Sel a doversi avvicinare al Pd, se il Pd vuole investire sui voti europei della sinistra deve immaginare di cambiare governo. È impossibile che Sel si avvicini al governo se c’è Alfano. E devono cambiare politiche, soprattutto sul lavoro. Visto i dati Istat? 7 milioni di italiani sono tecnicamente senza lavoro, 3 milioni, pur facendo vari lavori, non raggiungono i 1030 euro al mese e sono alla soglia di povertà. Certo, gli 80 euro, che male non fanno, sono un segno giusto nel deserto totale, ma se non cambia la politica economica del governo, che forzi i vincoli europei, si rischia che il semestre europeo dell’Italia sia in continuità con l’austerity».
Ancora una volta la sinistra si divide, è una malattia? Rifondazione, Sel, il miraggio di unità della lista Tsipras è sfumato.
«Ma no, le divisioni ce le abbiamo alle spalle, è difficile accumulare più macerie di quelle da dove veniamo. Come ha scritto Furfaro, la ricostruzione della sinistra è possibile, con quel 4 per cento di persone che ha arginato i populismi e che vuole esistere alla sinistra del Pd. È qualcosa che dovrebbe fare comodo al Pd, quando si voterà per il governo in Italia e non per l’Europa».

Corriere 9.6.14
Barbara Spinelli «candidata civetta»
Le tante contraddizioni di un successo
di Luca Mastrantonio


Il caso di Barbara Spinelli, giornalista prestata alla politica con vuoto a perdere, è utile per capire come funziona la Terza Repubblica. Liquida, post moderna, demagogica ed ego-machiavellica. Anche a sinistra, dove Spinelli ha deciso di rimangiarsi la parola data, non rinunciando più al suo seggio europeo ottenuto con la lista Altra Europa con Tsipras, per la quale si era candidata come «civetta», per attirare voti da dare agli altri. Evidentemente segue anche lei un principio oggi più che mai sovrano in politica, che potremmo riassumere così: il (proprio) fine giustifica i mezzi (altrui).
Quali mezzi? Quelli economici: il capitale, per quanto piccolo, messo a disposizione in gran parte da Sel per la campagna elettorale; e quelli mediatici, usati da Paola Bacchiddu, responsabile della comunicazione della lista, quando ha pubblicato una foto in costume per ottenere più visibilità. Spinelli ha così «ringraziato» il partito di Nichi Vendola tenendosi il posto, ai danni del primo non eletto di Sel (Moni Ovadia, invece, ha lasciato il suo, a vantaggio di Rifondazione). E alla Bacchiddu? Neanche un grazie. Doppia ingratitudine: l’eterogenesi dei fini che porterà Spinelli a Bruxelles è figlia anche di quel bikini.
E poi? Zero dialogo intellettuale. Spinelli non ha partecipato all’infuocato dibattito sul suo ripensamento; all’assemblea romana ha mandato una lettera da Parigi, spiegando che ha ceduto alle pressioni dei garanti, non proprio una garanzia, e degli appelli: peccato che alcuni, come Sabina Guzzanti, abbiano firmato quello sbagliato, contro la Spinelli a Bruxelles. Ad Alexis Tsipras, poi, non dispiacerebbe giocarsi per la vicepresidenza del Parlamento quel nome che Barbara ha ereditato dal padre, Altiero (quando però lo citò Eugenio Scalfari per criticarla, lei andò su tutte le furie). E, ancora, dice di aver ricevuto tante preferenze: troppe per lasciare il posto a un altro.
Ecco: in tempi di partiti a progetto e liste tenute assieme con lo spago, non serve il bilancino che assegna posti e poltrone dall’alto in stile «manuale Cencelli». Oggi paga di più la presunta investitura dal basso e il cinismo intellettuale. Il «manuale Spinelli». Barbara, ovviamente.

l’Unità 9.6.14
Nuovi sbarchi di migranti
In sei mesi salvati 50mila
Ancora barconi sulle coste siciliane: a bordo anche tre morti


Ci sono anche tre morti fra i 205 migranti che sono arrivati ieri a Pozzallo (in provincia di Ragusa). Gli sbarchi si susseguono con il bel tempo e la situazione è allarmante. In sei mesi sono stati soccorsi e salvati oltre 50 mila migranti. Fassino chiede ad Alfano un «incontro urgente».
Più di duemila migranti soccorsi nelle ultime ore, almeno 3400 se si abbraccia un arco di tempo di 48 ore. Oltre 50mila dall’inizio del 2014 per un costo di oltre cento milioni all’anno. Le coste della Puglia e quelle della Sicilia sono prese d’assalto, ma l’emergenza adesso è a Pozzallo, nel ragusano, dove sono arrivate le motonavi Anwar con 102 immigrati e quella maltese Norient Star che viaggia con altri 102 profughi e a bordo ha tre cadaveri di persone morte probabilmente durante il viaggio. L’allarme è stato lanciato dal sindaco Luigi Ammatuna: «Tutti gli immigrati che arrivano - ha spiegato il primo cittadino che teme serie ripercussioni sul turismo - vengono quasi subito trasferiti. Il problema sono i continui arrivi con cifre che generano paura: se i numeri continuano ad essere questi la situazione rischia di diventare ingestibile. Già abbiamo le prime disdette di turisti; la gente non sa bene cosa accade veramente, teme di arrivare in una splendida località che trova invasa dai migranti. Pozzallo, la nostra comunità, è da sempre accogliente. Siamo ospitali, ma non possiamo essere penalizzati, questa sta diventando una vera e propria emergenza e continuando così saremo davvero nei guai. Qualche giorno fa avevo fatto la proposta di ricevere 10 euro per ogni migrante che accogliamo, ma nessuno ha preso l’ha presa in considerazione. Chiederò al più presto un incontro a Roma, c’è bisogno di una sorta di compensazione per una città così ospitale, ma che non ce la fa più».
Naturalmente non è l’emergenza turismo che preoccupa. Piuttosto la latitanza dell’Unione europea come denuncia anche il sindaco di Palermo Leoluca Orlando. «Ormai - ha detto il primo cittadino - la macchina dell’accoglienza ai migranti è sperimentata ed è frutto di professionalità e d’amore. Resta ancora una volta la denuncia per l’insensibilità dell’Europa nei confronti di un dramma che si consuma nella acque siciliane. Non si può pensare infatti di affrontare un problema di carattere europeo affidandosi soltanto alla sensibilità delle amministrazioni locali siciliane». E di Sicilia sola davanti alla crisi parla anche il prefetto di Trapani Leopoldo Falco: «La Sicilia è stata lasciata da sola a fronteggiare l’emergenza immigrati. Le navi mercantili che soccorrono i migranti non possono andare oltre la Sicilia e i ponti aerei non ci sono. Così l’Isola come al solito lavora per tutti. Anche Trapani fa la sua parte ». Al momento, la provincia ospita 2100 migranti in 27 strutture, l’ultima aperta oggi a Salemi in occasione dei nuovi arrivi. A questi si aggiungono altri 400 rifugiati accolti in 12 Sprar e 50 extracomunitari reclusi nel Cie di Milo. E poi c’è il problema della criminalità organizzata che ora ha scoperto l’affare accoglienza. Approfittando dell’emergenza sbarchi «la criminalità ha cercato di inserirsi nel sistema dell’accoglienza dei migranti - ha detto ancora Falco -. Ci sono stati soggetti grossi, multinazionali legate a faccendieri locali che non ci piacciono, le quali disponendo di molto denaro si sono proposte dietro facce pulite ma noi le abbiamo individuate e respinte».
Si diceva più di duemila persone sbarcate tra sabato e domenica. E questi sono solo i migranti soccorsi in mare dalle navi della Marina Militare, altri 700 sono stati caricati a bordo di mercantili. La fregata Scirocco ha soccorso ieri 186 persone tra cui 45 donne e 58 minori, circa dieci i neonati. La fregata Bergamini ha soccorso 554 immigrati tra cui 34 donne e 37 minori. La nave Etna ha invece fatto salire a bordo 1335 migranti salvati da una vedetta della capitaneria di porto e si è diretta verso Taranto dove solo nelle ultime ore è previsto l’arrivo di 1800 persone. Tutte le persone tratte in salvo erano allo stremo, con gravi sintomi di disidratazione. Poi c’è la motonave City of Sidon che arriverà oggi a Palermo con a bordo 529 migranti. Di dimensioni drammatiche e insostenibili del fenomeno parla il presidente dell’Anci Piero Fassino che ha chiesto ieri un incontro urgente con il ministro Alfano. «Gli sbarchi sulle coste italiane stanno assumendo dimensioni drammatiche e insostenibili per i Comuni siciliani le cui strutture sono insufficienti e, in ogni caso, già ipersature. - ha detto Fassino - Per altro, senza un impegno finanziario e operativo straordinario dello Stato e delle Regioni, anche gli altri Comuni italiani non sono in grado di farsi carico da soli di una situazione così critica. Per questo chiedo al ministro Alfano di promuovere un incontro urgente con la partecipazione delle diverse istituzioni interessate, per adottare tutte le misure necessarie».

l’Unità 9.6.14
Quei fatti (mai chiariti) nel Cie di Gradisca
di Luigi Manconi e altri


Il mese scorso l’Associazione «Tenda per la Pace e i Diritti» e alcune delle organizzazioni che hanno aderito alla campagna LasciateCIEntrare hanno depositato presso le Procure della Repubblica di Gorizia, di Roma e di Napoli un esposto per chiedere accertamenti e indagini sugli avvenimenti dell’agosto 2013 all’interno del Cie (Centro di Identificazione ed Espulsione) di Gradisca d’Isonzo. In quei giorni, infatti, il centro era stato teatro di scontri, pestaggi, lanci di lacrimogeni. Nella notte tra l’11 e il 12 agosto, una delle persone lì trattenute era caduta dal tetto sul quale si trovava in segno di protesta, ed era entrato in coma. È morto il 30 aprile scorso all’ospedale di Monfalcone.
Le proteste sono continuate anche nei mesi successivi a quelli estivi, fino a che il 5 novembre 2013 il Ministero dell’Interno ha svuotato il centro, disponendo il trasferimento delle persone trattenute verso altri cie. Una decisione presa a causa delle condizioni di degrado in cui verteva la struttura, tali da determinare la violazione dei diritti «non solo delle persone lì trattenute, ma anche di quelli che vi lavoravano». Attualmente il centro è chiuso e Alfano ha dichiarato che non sarà riaperto.
Sulle rivolte ci sono molte ombre che l’esposto vuole chiarire. Nel testo presentato vengono evidenziati i fatti, ricostruiti grazie alle testimonianze dei migranti, di associazioni e dei parlamentari che sono giunti sul posto chiamati d’urgenza durante quei giorni di proteste e di rivolte. Uno dei punti che viene maggiormente enfatizzato riguarda il ricorso a metodi coercitivi utilizzati dalle forze di sicurezza per placare le proteste. Bisogna ricordare, però, che quelle manifestazioni erano inscenate da persone trattenute in uno spazio circondato da sbarre e che avevano una ridotta possibilità di movimento. In questo contesto appare dunque spropositato l’utilizzo di lacrimogeni il cui gas è stato completamente inalato da chi si trovava lì dentro, causando malori. Nei giorni della protesta sono state molte le persone a voler essere presenti e a seguire le vicende anche solo tramite il web e la stampa. Alcuni dei parlamentari accorsi sul posto, poi, hanno aderito alla Campagna LasciateCIEntrare, un movimento sorto nel 2011 per contrastare una circolare del Ministero dell’Interno che vietava l’accesso agli organi di stampa nei Cie. Appellandosi al diritto/dovere di esercitare l’art. 21 della Costituzione, ovvero la libertà di stampa, LasciateCIEntrare ha ottenuto l’abrogazione della circolare e oggi si batte per la chiusura dei Cie, l’abolizione della detenzione amministrativa e la revisione delle politiche sull’immigrazione. Ma è sull’abolizione dei Cie che bisogna continuare a insistere. Questi centri, infatti, presentano enormi carenze sotto il profilo della tutela dei diritti umani e, oltre a essere inutilmente dispendiosi, risultano palesemente inefficaci rispetto allo scopo per il quale sono stati istituiti.

il Fatto 9.6.14
Siracusa. Nelle antiche grotte
I turisti a guardare i disperati a morire
di Veronica Tomassini


Le grotte hanno il vincolo paesaggistico, sono annerite dalla guaina bruciata per ricavarne rame, se ne trovano a tratti: operazioni clandestine che si consumano nel parco degli ulivi. Siamo in via Politi Laudien, a Siracusa. Zona residenziale. E invece c’è una precisa mappa intestina che governa un regno segreto. Quel che non si vede, è quel che conta. Qui è posta una lapide in ricordo del Santo Papa Wojtyla.
Gli uomini degli sbarchi abitano le grotte verso il promontorio, peggio che nei barrios di Bogotà. La sera esalano terribili fumi, gli africani si riscaldano con bombolette di gas da campeggio, sono gli stessi uomini che chiedono ai semafori di giorno, quelli che non arrivano nemmeno al Cie, che dopo Mare Nostrum incassano il loro decreto di espulsione e arrivederci, un confino perenne e ligio che non potranno mai rispettare ovvio, dovrebbero tornarsene al paesello loro entro sette giorni, usando la frontiera di un aeroporto. Un po’ ridicolo, anche soltanto pensarlo. Lungo i sentieri, si inerpicano verso la Croce, in cima, costruzioni con compensato, una mimesi perfetta dentro il paesaggio, tutto intorno pietra, terra, rovi e mondezza. Sono caverne abitate da rumeni. Questo è consolatorio. Non ci sono italiani, men che meno indigeni. Sbagliato. Nelle grotte sono tornati a viverci, tutti, clemenza per nessuno, non i buoni non i cattivi, tutti, come ratti nel tombino, italiani, siracusani, gente con residenza un tempo, con un’automobile, uno status borghese. Uomini, donne. Bambini.
Giocattolini franano verso i dirupi tra una grotta e l’altra, al centro riparano i drogati, hanno la loro cava, veri tornanti di flaconcini di metadone o acqua distillata senza beccuccio, di siringhe e lacci emostatici, raggiungono nuovi cimiteri. Ogni grotta ha il suo terrore. In alcune, ci sono i disegni dei ragazzini appiccicati alle pareti fredde, alla pietra, il letto appena rifatto, un tavolo con un vassoio, un uovo al centro, una lattina vuota. I ragazzini vanno a scuola, i disegni sono precisi, sono colorati senza sbavature, le parole usate non contengono errori di grammatica. Una macchinina rotola verso un abisso di lamiera, sul fronte della prima grotta, entrando a destra, accanto a un albergo antico, lusso e blasoni forse pure, ospiti eccellenti, la maestosa villa Politi scelta persino da Churchill: parquet e boiserie alle pareti, una gran pineta che aleggia sui moti intestini delle grotte arroccate sopra, in prossimità di certe pensiline, stessa linea d’aria (moti paurosi, come taluni afrori nella notte, di cadaveri una volta, ne sono morti due, anni fa, o di uomini vivi rivoltati dall’abiezione, i loro nauseanti pagliericci). Eppure è stato un primo maggio grandioso, musica a palla nel parco, musica dal vivo, rock, vino e salsicce, bandiere a sventolare. Non è una provocazione. È stata un’ideona dell’amministrazione. Ma: e gli uomini delle grotte? Macché, chitarre a ruggire al massimo e slogan anarchici e comunisti tutt’al più. Picchetti pregni di indignazione erano già bell’è pronti con i militanti dell’associazione di destra “Italiani in movimento”, che hanno esortato il sindaco (loro, proprio loro): faccia qualcosa, la prego, consideri questi uomini. Era la festa del lavoro, un ossimoro incommensurabile celebrato lì, a ridosso di terrificanti tombini, uomini di una qualche sottospecie, annichiliti nelle cave, ratti costretti da chiusini. Non era solo una metafora, piuttosto una fatwa. L’auspicio ieratico della comunità spera ardentemente che almeno non crepi nessuno, come capitò con il povero Miroslaw Dabek o la povera polacca Ewa, morti a Natale, dentro le grotte. Ewa non la tiravano fuori, era incastrata esangue nel suo feretro di pietra, fuori pioveva, era Natale. Anche Miroslaw morì a Natale, la sua grotta puzzava appresso all’altra quella visitata dagli altri, dalla persone perbene, dentro si conduceva un presepe vivente. Era tutto abbastanza triste. Il presepe vivente e l’uomo morto di là, non si sono accorti della parabola evangelica in quell’assisa platea, moriva il figlio dell’uomo mentre nasceva il Figlio di Dio.
Nessuna vibrante protesta, nemmeno i cannoni nelle piazze di De André ne La domenica delle salme, pronti per un va a quel paese onnicomprensivo, destinatari sparsi. Siracusa non conosce un welfare, non esiste una rete sociale, l’anarchia per certi versi, o una rozzezza estesa a far valere qualsiasi diritto contrabbandato di solito per favore. Storie vecchie, da profondo sud. Siracusa, tolta la parrocchia di padre Carlo D’Antoni, un dormitorio nato per iniziativa privata, di venti posti, e uno della San Martino di Tours di appena otto, non propone altro. Nasceranno mausolei per profughi, non supereranno il centinaio di posti letto, competenza di prefetture e ministero dell’interno, poco c’entra con gli uomini delle grotte, e ad ogni modo non sono nemmeno loro una risposta. A Siracusa si muore per strada, cioè chi vive per strada , ci resta. Non la chiesa di questi uomini (non è la chiesa di Dio), non un esecutore di un qualsiasi ente morale che si sia mai visto lungo i sentieri delle grotte raccogliere la miseria o uomini vestiti di purezza uscire dai loro rigidi paramenti e asciugare il sudore dei lerci o le loro lacrime nere da profughi o da disgraziati, ombre anche nostre, credeteci. Che alle grotte ci possano vivere anche indigeni secondo un condiviso sentire della comunità prossima è da escludere, altrimenti è un commentare sussurrando, con le mani davanti la bocca, i frequentatori della zona procedono oltre allora. Chiediamo a loro: “Conoscete gli uomini delle grotte?”. Accelerano il passo, scuotono il capo, si schermiscono con un braccio dinanzi a una tale bestemmia. Eppure in quel parco il senso dell’apocalisse si svolgeva in pieno giorno per anni. Donne e uomini si trascinavano in quei luoghi, vinti dai vizi più terribili, dalle più terribili miserie. Miroslaw moriva a Natale, senza esofago, vomitando sangue, seduto su una pietra. Poi sono venute le ruspe, ma i topi sono tornati.

il Fatto 9.6.14
Addio assistenti sociali
Uno ogni cinquemila abitanti


Il problema è sempre lo stesso: non ci sono soldi. Il dipartimento dei servizi sociali non ha risorse. Secondo la legge 2 dell’86 il rapporto è di un’assistente sociale ogni 5 mila abitanti. Siracusa ne conta 9 su 12. La macchina amministrativa dei quartieri costa al comune qualcosa come 4 milioni di euro (il comune vanta un quasi default, val la pena ricordare, con un passato recente costellato dal commissariamento della giunta e la dimissione dell’ex sindaco Visentin che lasciò al suo posto un debito per oltre 5 milioni di euro e in testa una causa superiore: la candidatura alle nazionali). Antonello Ferrara, responsabile Osservatorio Povertà e Risorse della Diocesi di Siracusa, conferma i dati e aggiunge che attualmente l’ente morale segue 1500 famiglie, ovvero il 5% della popolazione, e che l’utenza nei centri di ascolto, già solo rispetto all’anno passato, è aumentata del 28%. La lista fornita dal commissario all’Icp prevede l’assegnazione di 470 nuclei abitativi a famiglie indigenti. L’Icp peraltro fu commissariato nel 2012 perché le graduatorie rimanevano inspiegabilmente ferme ancora al 2005. E infatti le cifre lievitano fuori le liste. Fuori le liste è il caos. Due mense per i poveri, una di 34 posti a mezzogiorno, un solo turno; l’altra nel pomeriggio di poco più, che ha aperto da qualche giorno, interdetta all’utenza per mesi. Impossibile gestire la domanda di povertà, considerati i confini geopolitici persino di una città come Siracusa e la sua provincia e i 26 mila sbarchi dall’inizio dell’anno.

La Stampa 9.6.14
Eutanasia, un medico racconta:
“Ho aiutato a morire cento malati”
Giuseppe Maria Saba, 87 anni, già ordinario di Anestesiologia e rianimazione all’Università di Cagliari e alla Sapienza di Roma:
“La dolce morte è una pratica consolidata negli ospedali italiani anche se per conformismo non se ne parla”

qui

La Stampa 9.6.14
Le infusioni Stamina a Brescia?
Un reato voluto da un giudice”
Elena Cattaneo, senatrice e scienziata: “Un impazzimento giudiziario”
intervista di Niccolò Zancan


Senatrice Elena Cattaneo, cosa ha pensato quando ha visto un giudice del lavoro di Pesaro resuscitare Stamina?
«A un impazzimento giudiziario senza precedenti. Non so come il Csm e il Ministro di Giustizia possano spiegarlo ai cittadini. Marino Andolina, un medico senza alcuna competenza in materia di malattie neurologiche o staminali, per giunta indagato da un magistrato per truffa e somministrazione pericolosa di farmaci, grazie ad un altro magistrato è stato messo nelle condizioni di diventare l’esecutore materiale dello stesso reato. Perché proprio questo è presumibile che sia successo, sabato, agli Spedali Civili di Brescia: la reiterazione di un reato su mandato di un giudice».
Come spiega questo conflitto fra parti delle istituzioni?
«Sono altri che devono spiegarlo. Io sono inorridita e non ci provo nemmeno. Sono mesi che giudici del lavoro decidono che è terapia ciò che per la medicina è nulla. A quali consulenti si sono rivolti? Una parte della magistratura si arroga il diritto di decidere di scienza e salute. Dico solo una parte, perché fortunatamente sentenze corpose e sostanziate ne sono state emesse. E tutte a tutela del malato. Tutte contro questa pratica tribale».
Tornare alle infusioni significa cancellare il pronunciamento dell’Agenzia italiana del farmaco. Al punto che adesso il direttore Luca Pani minaccia le dimissioni. Qual è la sua opinione?
«L’Aifa aveva fatto il suo dovere già due anni fa, bloccando tutta la follia Stamina. Ma è stata lasciata sola. Anzi, spesso attaccata da chi vuole un’agenzia più “accondiscendente” con le strategie di pascolo politico della salute... Aifa è guidata in maniera impeccabile e coraggiosa».
Il giudice di Pesaro ha detto di non sapere che Andolina fosse indagato. Le sembra plausibile?
«No. Non può un giudice che deve disporre che sia continuata in un bambino una pratica tribale, già compiuta in precedenza, non informarsi sulle persone su cui sta decidendo. Sono giustificazioni di lana caprina, nessuna persona intelligente può accettarle».
Che effetto le fa la presenza della senatrice Bonfrisco agli Spedali Civili insieme al medico che chiedeva di restare anonimo nel giorno dell’infusione?
«Basta pensare alla farsa del “non c’ero, anzi c’ero” svelata dagli interventi del senatore Luigi Zanda e dal vostro servizio. Ecco il motivo per cui i cittadini non hanno fiducia in questa politica disposta a tutto per la visibilità personale. Una politica capace persino di smentire la realtà, quando l’obiettivo fallisce».
Davide Vannoni ha messo il nome Cattaneo nella categoria «mentecatti». Che cosa risponde?
«È una persona che scrive queste cose nascosto dietro un tweet. Quando si mostra in televisione cerca di dare un’immagine diversa e rassicurante. È il copione seguito dai ciarlatani. Ora sta cercando di dare dei nemici da odiare alle persone che ancora inganna, per il suo tornaconto personale».
Persino il nonno di Federico, il bambino a cui è stata fatta l’infusione, è arrivato a dire: “Della Cattaneo ci occuperemo dopo...”. Parole bruttissime. La ritengono una specie di nemico. È così?
«Non mi pare una campagna d’odio. Anche perché quotidianamente ricevo il sostegno di tantissime persone, malati compresi. Mi sembra piuttosto una campagna della disperazione. Sono persone che affrontano malattie gravi, molto simili a quella che il mio laboratorio studia. I familiari dei malati vivono problemi che conosciamo benissimo, per i quali diamo tutto noi stessi. Ma noi non possiamo mentire, nemmeno quando è doloroso...».
Come se ne esce?
«Io non so come si facciano i miracoli. Conosco solo la fatica, il lavoro, l’impegno, la responsabilità, il coraggio, anche delle proprie competenze, che devono essere tante e al più alto livello. Chi ha competenze, abbia quindi il coraggio di fare il proprio dovere, quello che la sua funzione richiede. Significa anche contribuire, istituzionalmente, ad organizzare la vita quotidiana di famiglie esposte a sofferenze che vanno oltre ogni umano sentire. E sto parlando di tutti i malati. Perché esistono anche decine di migliaia di malati che a Stamina non hanno mai voluto avvicinarsi. Anche loro chiedono di essere considerati».

Repubblica 9.6.14
Salasso ticket per le famiglie italiane pagati 3 miliardi nel 2013, +25% sul 2010


ROMA Aumento del 25 per cento per i ticket sanitari tra il 2013 e il 2010. L’anno scorso sono stati sborsati più di 2,9 miliardi di euro contro i 2,2 spesi nel 2010, secondo i rapporti della Corte dei Conti. I ticket valgono attualmente il 3 per cento del fondo sanitario. In media, a spendere di più sono stati nel 2013 i cittadini della Lombardia (490 milioni) seguiti dai veneti con 319, Lazio (281 milioni) e Campania (238 milioni). I rincari pesano al punto che i ricavi nel 2013 sono fermi (solo più 0,1 per cento rispetto al 2012) perché i ticket in molti casi sono diventati talmente alti che tanti malati rinunciano a curarsi oppure passano al privato, che offre costi simili e, se non altro, attese più brevi. «Lo Stato ha cominciato a incassare meno rispetto a quanto preventivato e la misura si è dimostrata così paradossale nel risultato», spiega Sabrina Nardi, vice coordinatore nazionale del Tribunale per i Diritti del Malato: complessivamente, le famiglie italiane nel 2012 hanno speso in media 900 euro. Regioni e governo se ne sono accorti, e infatti hanno annunciato con il prossimo Patto per la Salute che il sistema sarà “ritoccato”.

Il Sole 24.6.14
Diritto di famiglia
Più di 200mila coppie pronte a chiedere il divorzio breve
Le disposizioni all'esame del Senato si applicano anche alle separazioni in corso
di Valentina Maglione


Oltre 200mila coppie potranno chiedere subito lo scioglimento del matrimonio. È questo il primo impatto del divorzio breve sui coniugi che oggi sono già separati, ma non hanno ancora maturato il periodo minimo di tre anni attualmente richiesto. Infatti il disegno di legge che disciplina la nuova tempistica consente a marito e moglie di lasciarsi definitivamente dopo sei mesi di separazione (se è consensuale) o dopo un anno (se è giudiziale), a prescindere dalla presenza di figli. Con un'attesa, in ogni caso, di molto inferiore ai 36 mesi imposti finora dalla legge sullo scioglimento del matrimonio del 1970 (la 898).
Si tratta di una riforma che da alcune legislature il Parlamento sta provando a portare avanti, senza successo. Il disegno di legge attuale è stato approvato nei giorni scorsi dalla Camera ed è ora in attesa che inizi l'esame al Senato. Spiega Donatella Ferranti (Pd), presidente della commissione Giustizia della Camera: «Abbiamo scelto di varare un testo semplice, dedicato solo al divorzio breve e sganciato dagli altri provvedimenti di riforma del diritto di famiglia per sveltire il percorso parlamentare».
I tempi brevi – in base al testo attuale del Ddl che però potrebbe essere ancora modificato – si applicheranno anche a tutte le coppie che hanno già chiesto la separazione da almeno sei mesi (se si sono lasciate consensualmente) o da un anno (se sono in conflitto). Ed è questa norma transitoria quella che con ogni probabilità farà impennare le domande di divorzio subito dopo il debutto delle nuove disposizioni.
Vediamo perché. In tutto il 2012 (l'anno degli ultimi dati ufficiali del ministero della Giustizia) le separazioni sono state circa 96mila, di cui 64mila congiunte e 32mila giudiziali. E il numero è più o meno costante nel corso del tempo. Ipotizzando anche le istanze presentate nel 2013 e nella prima parte di quest'anno, si può stimare che le coppie potenzialmente in lista d'attesa per il divorzio breve siano più di 200mila in tutta Italia, di cui quasi 100mila nei quattro distretti di Corte d'appello di Roma, Milano, Napoli e Torino (si veda il grafico a fianco). Detto diversamente, all'entrata in vigore delle nuove norme, le istanze potrebbero quadruplicare il dato di circa 55mila divorzi all'anno registrato nel 2012.
Al di là della probabile impennata iniziale delle domande, a regime con il divorzio breve si ridurrà di molto l'attesa imposta ai coniugi prima che sia messa la parola fine al matrimonio. Oggi, in media, passano tre anni e 8 mesi tra il momento in cui si riconosce la crisi di coppia e quello dell'addio definitivo. E questo nel caso più semplice possibile, quando marito e moglie sono d'accordo e si separano consensualmente per poi arrivare a un divorzio congiunto. Con le nuove regole, invece, in questa ipotesi si arriverebbe a un anno e due mesi.
Si tratta di una stima dell'effetto minimo, perché il disegno di legge sul divorzio breve mira a ridurre i tempi, oltre che abbattendo il periodo di riflessione oggi chiesto ai coniugi, anche con alcuni interventi sulla procedura. Le nuove norme, infatti, in primo luogo anticipano il momento da cui calcolare il decorso del periodo di separazione: oggi si considera la comparizione di marito e moglie di fronte al presidente del tribunale, mentre con il divorzio breve i termini inizieranno a scorrere dalla notifica della domanda di separazione o dal deposito del ricorso, se è presentato insieme dai due coniugi.
Inoltre, mentre attualmente occorre sempre attendere, prima di presentare la domanda di divorzio, che la separazione giudiziale sia pronunciata con sentenza passata in giudicato, il Ddl sul divorzio breve permetterà di chiedere lo scioglimento del matrimonio anche se il giudizio di separazione è in corso e sono ancora pendenti le domande accessorie.

Repubblica 9.6.14
Nasce l’Internazionale nera anti-Ue
di Andrea Tarquini


BERLINO. Nasce l’Internazionale nera, la “Santa alleanza” delle destre radicali anti-europee, anti-occidentali e omofobe del Vecchio continente. E nasce con la benedizione e la sponsorizzazione di oligarchi russi vicini a Putin, nonché la partecipazione di Aleksandr Dugin, il noto leader nazionalista del “Movimento euroasiatico” le cui idee sono state riprese, con l’Unione euroasiatica, proprio dal capo del Cremlino. Una loro riunione a porte chiuse si è tenuta l’ultimo sabato di maggio a Vienna, nello Stadtpalais del principe di Liechtenstein. E dopo aver concluso il vertice con un gran gala, si sono dati appuntamento per gennaio. Probabilmente a Mosca.
La notizia, ripresa dal Tagesanzeiger svizzero, ha creato allarme negli ambienti politici e dell’intelligence di diversi paesi democratici, a cominciare dalla Germania di Angela Merkel. Gli obiettivi comuni non mancano: nazionalismo ed Europa delle patrie, opposta all’Europa come unità politica, e poi opposizione al liberalismo, in senso economico, politico e culturale, ostilità alla “lobby satanica” degli omosessuali, richiamo ai vecchi valori tradizionali di legge e ordine. Ospitante e sponsor l’oligarca russo Konstantin Malofe’ev, con la sua Fondazione intitolata a San Basilio il Grande. Malofe’ev, secondo il Financial Times, avrebbe accesso diretto a Putin ed è sospettato di aver finanziato i separatisti dell’Ucraina orientale. Al suo fianco Aleksandr Dugin, ex ultrà di destra, poi spostatosi su posizioni nazionaliste più moderate. E ancora: Marion Maréchal-Le Pen, la giovane nipote della carismatica numero uno del Front national, il popolare leader della Fpö (destra radicale austriaca) Heinz-Christian Strache, il capo dei radical- nazionalisti bulgari Volen Siderov. Dugin ha auspicato la creazione di «una quinta colonna filorussa di intellettuali che come noi vogliono rafforzare le identità nazionali ». E ha aggiunto: «Così potremo conquistare l’Europa e le sue anime e unirla a noi», e difenderla dalla decadenza occidentale, liberal e gay. L’idea, ovviamente, è di cavalcare l’onda populista uscita dalle urne: non fosse che proprio ieri Marine Le Pen ha dovuto per la prima volta sconfessare pubblicamente suo padre, il patriarca della destra francese, Jean-Marie Le Pen, che in un video ha attaccato un popolare cantautore ebreo, Patrick Bruel, con una battuta pesantissima: «Critica il Fronte? La prossima volta ne faremo un’infornata». Le Pen figlia si è vista costretta di dichiarare al Figaro che il padre «ha fatto un errore politico».
Per quel che riguarda la “Internazionale nera”, il grande interrogativo che inquieta le cancellerie europee, è fino a che punto l’alleanza sia in contatto col Cremlino. In ogni caso la Fpö di Strache ha ottimi contatti ufficiali in Russia, mentre Marine Le Pen fin dall’inizio della crisi con l’Ucraina ha voluto lodare la fermezza di Putin. Intanto prevale la riservatezza. Alla riunione niente immagini: quando Strache ha voluto scattare un selfie col suo smartphone, Malofe’ev lo ha subito rimproverato.

Corriere 9.6.14
Israele - Palestina
La vita, non i luoghi
il mio Appello ai Fanatici: non Trascinate Dio nelle Dispute Immobiliari
La vita è più sacra della «terra» per cui lottiamo
di Amos Oz


Ritengo che per circa un secolo il conflitto tra israeliani e palestinesi sia stato sostanzialmente una disputa di carattere immobiliare. Una lunga guerra fondata su una domanda: di chi è la proprietà di questa casa con la terra?
I fanatici in entrambi i campi stanno disperatamente cercando di trasformare questa disputa immobiliare in un conflitto di religione, tra Ebraismo e Islam, e in qualche modo ci sono riusciti.
Io credo che una disputa sulla proprietà possa venire risolta attraverso il compromesso, tramite la partizione della terra, la divisione della casa in due appartamenti più piccoli, in breve: ricorrendo alla soluzione della suddivisione in due Stati. Ma una guerra santa, un conflitto di carattere religioso, è molto più duro da risolvere poiché la disputa su ogni luogo, su qualsiasi singola pietra, diventa la ragione che scatena odio e violenza. Proprio su questo punto credo dunque che i leader religiosi — cristiani, musulmani ed ebrei — dovrebbero ricordare ai fanatici che la vita umana è più santa di qualsiasi luogo sacro; che la testa di ogni bambino — ebreo, arabo o cristiano — è più preziosa a Dio che non qualsiasi pietra di qualsiasi patria al mondo.
Quando ero bambino mia nonna mi spiegò in parole semplici dove sta la differenza tra un ebreo e un cristiano. Mi disse: «Vedi, piccino mio, i cristiani credono che il Messia sia già stato sulla Terra e che tornerà nel futuro. Noi ebrei crediamo invece che il Messia non sia ancora arrivato e debba arrivare nel futuro». «Su questa disputa — disse ancora la mia saggia nonna — non puoi immaginare quante persecuzioni, violenze, massacri e sangue siano stati versati nella storia. Perché mai non potremmo semplicemente attendere e vedere con i nostri occhi se il Messia, arrivando infine tra noi, dirà di essere felice di vederci per la prima volta, oppure di trovarci ancora?».
La spiegazione della nonna era semplice. Se il Messia ci saluterà contento di rivederci per la seconda volta allora gli ebrei dovranno scusarsi con i cristiani. Ma se invece parlerà della sua visita come della prima tra noi, allora sarà l’intero mondo cristiano a doversi scusare con gli ebrei.
In buona sostanza, ritengo mia nonna avesse in tasca la soluzione per la questione dei Luoghi Santi di Gerusalemme. Lasciamo che ognuno preghi il suo Dio a modo suo. Facciamo in modo che non sventolino bandiere a segnare la proprietà dei Luoghi Santi. Alla fine, sarà il Messia a dirci di chi sono, dei cristiani, dei musulmani o degli ebrei.
(Raccolto e tradotto da Lorenzo Cremonesi )

La Stampa 9.6.14
Israele - Palestina
Lo scrittore israeliano: mi ricorda la stretta di mano Rabin-Arafat
“È il testamento di Shimon. Dialogare con i palestinesi, anche con quelli di Hamas”
intervista di Maurizio Molinari


«Dai giardini del Vaticano Shimon Peres ha lasciato in eredità a Israele il suo ultimo messaggio da leader politico, gettando lo sguardo verso il futuro del Medio Oriente». Seduto nel salotto del suo appartamento a Tel Aviv lo scrittore Abraham B. Yehoshua assiste alle immagini in diretta in arrivo dal Vaticano con un’attenzione particolare per il novantenne presidente israeliano, arrivato al termine del suo mandato.
Quale è il messaggio che Peres lascia a Israele?
«È il riconoscimento del governo di unità nazionale creato da Abu Mazen con Hamas. Domani la Knesset eleggerà il suo successore. Siamo all’epilogo del settennato di Peres ed anche della sua lunga vita pubblica, dedicata alla sicurezza e alla prosperità di Israele, e ci troviamo davanti all’ultimo gesto da statista che compie. Si tratta di un momento simbolico dall’alto valore politico. Peres riconosce il governo Fatah-Hamas, suggerendo al premier Benjamin Netanyahu di fare altrettanto».
Perché crede che in un evento interreligioso, carico di simbolismi, sia questo aspetto politico a prevalere?
«Per il semplice motivo che di incontri fra i leader israeliani e palestinesi ve ne sono stati tanti. La stretta di mano nel giardino del Vaticano evoca, per chi l’ha vista, quella nel giardino delle Rose della Casa Bianca fra Rabin ed Arafat sugli accordi di Oslo. Era il 1993. Eravamo ai tempi di Bill Clinton, ma né quel presidente americano, né gli altri che sono venuti dopo sono riusciti a portare le parti ad un’intesa sullo status finale. Dubito che possa riuscirci il Papa. A poterlo fare invece sono le parti in causa, con decisioni e gesti concreti come quello che ha compiuto Shimon Peres».
Presentando l’evento in Vaticano i portavoce della Santa Sede hanno detto di voler solo creare una atmosfera propizia fra le parti, senza entrare nei dettagli del negoziato come i confini ed gli insediamenti. È un approccio che può funzionare?
«Sarà solo il tempo a dirlo, ma come ho detto, appartengo ad una generazione che ha visto molte strette di mano, molte speranze di accordi andare in fumo e molte intese certe svanire. La convinzione che ne ho tratto è che l’intermediario può assai poco in Medio Oriente, anche se le parti sono in realtà molto vicine. Per raggiungere l’intesa serve anzitutto la volontà reciproca. Devono essere israeliani e palestinesi a volere la pace».
Se dunque ciò che più l’ha colpita è il gesto compiuto da Peres di partecipare, come interpreta quello di Abu Mazen di essere andato in Vaticano?
«Il presidente palestinese sta cercando la legittimazione al governo appena creato. È questa la strada che persegue per arrivare ad un accordo di pace con Israele e Shimon Peres ha giustamente deciso di andargli incontro. In questo momento si tratta, visto da Israele, di un passo politico molto importante».
Quali possono essere le conseguenze di questo gesto che Shimon Peres lascia in eredità ad Israele?
«Difficile dirlo. Basta ragionare sul fatto che i maggiori canali televisivi israeliani non hanno dedicato grande attenzione all’evento, declassandolo di fatto ad evento marginale. È qualcosa che fa riflettere, ma che nulla toglie alla decisione presa da Peres».
In una recente intervista a «La Stampa» Shimon Peres ha detto che i leader delle religiosi «possono agire come capi di Stato». L’evento in Vaticano può dare inizio ad un nuovo filone di dialogo per tentare di arrivare ad un accordo di pace?
«Peres ha ragione nell’assegnare ai leader religiosi un’importanza strategica, e crescente, qui in Medio Oriente, e non solo. Ma resta il fatto che ci troviamo di fronte ad un conflitto fra due popoli, ognuno con le proprie legittime ragioni, che può essere risolto solo grazie a decisioni politiche adottate dai rispettivi governanti. E Peres dai giardini del Vaticano si è innanzitutto rivolto a Israele, agli israeliani come cittadini e come nazione, spingendoli a continuare sulla strada della pace con i palestinesi, ad affrontare i sacrifici che le intese comportano, ed a cogliere l’intesa fra Fatah e Hamas come un’opportunità che può avvicinare il raggiungimento di un’intesa per porre fine al conflitto fra i due popoli».

Corriere 9.6.14
dall’articolo di Paolo Conti: «Ma il rabbino di Roma non c’è»

L’assenza del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni (dovuta ad «altri impegni») arriva dopo la sua netta critica apparsa su «Pagine ebraiche» di giugno: «Trattandosi di un incontro religioso sfugge il significato della presenza di una figura chiaramente laica come quella di Peres, che non mi sembra un assiduo frequentatore di luoghi di preghiera e che mi sorprenderebbe iniziasse a esserlo a casa del papa. È un’impostazione alla quale guardo non soltanto con perplessità ma che trovo anche pericolosa».

La Stampa 9.6.14
La freddezza di Netanyahu
Non commenta

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha accompagnato ieri sera con un silenzio gelido la missione di pace di Shimon Peres in Vaticano. Di fronte al Consiglio dei ministri Netanyahu è tornato ieri a biasimare Abu Mazen per il suo recente accordo di riconciliazione con una fazione, quella islamica di Hamas, «che invoca la distruzione di Israele». Ha poi avvertito che Hamas potrebbe gradualmente assumere il controllo dell’Anp e ha inoltre intimato al presidente palestinese di provvedere alla smilitarizzazione della Striscia di Gaza (roccaforte degli islamici).

l’Unità 9.6.14
Re o presidente? La Spagna vuole un referendum
Secondo un sondaggio del Paìs il 62 per cento dei cittadini vorrebbe esprimersi sulla forma dello Stato
Alle Cortes i referendari hanno però solo il 10%
Il 19 giugno sarà il giorno di Felipe VI


La maggioranza degli spagnoli vorrebbe essere consultata sul regime statuale del proprio Paese. Questo almeno è quello che dice l’inchiesta di Metroscopia pubblicata da El país questa domenica. Magari per confermare il mandato al futuro re Filippo VI, ma oltre il 60% degli intervistati si dice favorevole ad un referendum sulla monarchia.
Così, uno dei nodi mai risolti della transizione democratica, il compromesso per cui la sinistra repubblicana accettò la monarchia, elemento di continuità del franchismo in cambio di uno Stato democratico non confessionale, si ripresenta prepotente nel momento del passaggio di potere determinato dall’abdicazione di re Juan Carlos in favore di suo figlio, il principe Felipe. A quanto sembra, non sono solo le manifestazioni di piazza a rivendicarlo, quanto il senso comune popolare, che vorrebbe approfittare dell’occasione per esercitare un normale esercizio democratico non riconosciuto nel momento dell’emanazione della Costituzione del 1978.
È vero che quella Costituzione fu votata con referendum e approvata dalla maggioranza dei cittadini spagnoli, ma era piuttosto il nuovo modello statuale democratico che veniva messo ai voti, non tanto la forma dello Stato. Ed oggi che quel modello dimostra di avere esaurito la sua forza e necessita di una evoluzione, sembra naturale a molti che ciò riguardi anche il regime monarchico. Probabilmente è per non sollevare un problema di questo tipo che Zapatero non andò mai avanti nella sua riforma costituzionale che promuoveva l’eguaglianza di genere nell’asse ereditario della corona - la figlia primogenita dei futuri re di Spagna, Felipe e Letizia, sarà l’erede al regno solo perché ha la fortuna di non avere un fratello maschio.
L’IMMUNITÀ
È anche per questo che l’articolo della Costituzione sull’abdicazione non è stato mai risolto prima - Così ora Juan Carlos - quando smetterà formalmente di essere re - si vedrà privato dell’immunità, perché non è sembrato il caso di proporre nella legge che il parlamento voterà sull’abdicazione anche la definizione del futuro status dell’ex-monarca di fronte alla legge. Tanto più, che non si sta parlando dell’operato nel corso del regno, che rimane fuori da ogni possibile contenzioso, ma della protezione giuridica di Juan Carlos per il futuro, una volta decaduto.
Comunque, sondaggi a parte, sembra certo che il parlamento spagnolo approverà il passaggio di testimone dal vecchio al nuovo re con una maggioranza più che importante. Non la stessa però che sostenne il patto costituzionale del ’78, perché a smarcarsi, questa volta, è Convergència i Unió, il partito nazionalista di destra al governo della generalitat catalana, che ha dichiarato che si asterrà sull’abdicazione di re Juan Carlos. E così, messa la sordina ai rigurgiti di repubblicanesimo tra i socialisti, sarà meno di un 10% dei deputati a chiedere espressamente la celebrazione di un referendum sulla forma statuale.
Le Cortes cominceranno l’iter della legge che accetta l’abdicazione del re il prossimo 11 di giugno, per concludersi il 18 di questo mese al Senato. Sarà allora il re Juan Carlos a controfirmare la legge, mettendo fine al suo regno. Il giorno successivo, il 19 giugno, Felipe verrà proclamato re, a camere riunite, con il titolo di Felipe VI. Perché si tratta di un atto di proclamazione, non di incoronazione, con i simboli del potere, corona e scettro, non materialmente indossati.
Comincerà così il regno del nuovo capo di Stato spagnolo, di cui tutti immaginano la capacità di rinnovare l’immagine della monarchia, dopo gli ultimi incidenti personali dell’anziano monarca e quelli politici in cui è stata coinvolta la casa reale. Tutti lo aspettano soprattutto alla prova della questione catalana, con il desiderio maggioritario di una popolo che vuole votare per decidere della sua relazione con il resto della Spagna. Con in più una curiosità storica, determinata dal fatto che, trecento anni fa, un altro Filippo di Borbone, Filippo V, portò alla capitolazione di Barcellona e alla perdita della libertà per i catalani nella guerra per la Successione spagnola.

il Fatto 9.6.14
Somaliland
Senza Stato né banche tutto sta nel telefonino
di Gianluca Iazzolino
da Hargeisa (Somaliland)

Muraglie di banconote fanno ombra ai cambiavalute accovacciati dietro tè fumanti, un rosario islamico in una mano, un cellulare nell’altra. L’emblema sui bigliettoni, logori e scoloriti, evoca un Paese che, ufficialmente, non esiste: il Somaliland. Eppure ad Hargeisa, la capitale di questo lembo settentrionale di Somalia scampato alla guerra e in attesa di riconoscimento internazionale, l’economia vibra, eccome. Se non nel
denaro visibile, quello emesso dalla Banca centrale per puntellare un anelito di sovranità, per lo meno in quello invisibile. “Ci sono più soldi qui dentro che in tutta questa strada”, dice Hassan sollevando il suo cellulare. Quanto? Ottanta, centomila. Dollari. Zaad è il nome con cui i pastori nomadi, che da sempre percorrono il Corno d’Africa con le mandrie, indicano il necessario di viaggio, quanto basta per sopravvivere per giorni in solitudine su queste distese riarse. Ma, dal 2009, Zaad è anche un servizio finanziario che trasforma i cellulari in portamonete. La piattaforma, lanciata dall’operatore mobile somalo Telesom, ha suscitato l’entusiasmo della GSMA, l’associazione della telefonia mobile mondiale con sede nella City londinese, che l’ha definita un caso da manuale. Per gli esperti di sviluppo internazionale, questa è la chiave per l’inclusione finanziaria, ennesima formula magica nella ‘lotta alla povertà’ che mette d’accordo profit e no-profit. Una volta aperto un conto Zaad con Telesom, basta un sms per pagare stipendi o acquistare khat, lo stupefacente leggero importato dall’Etiopia e masticato ovunque. In Africa sub-sahariana ci sono oltre 80 servizi di ‘mobile money’ e il numero sale. La piattaforma M-Pesa, lanciata nel 2008 in Kenya da Safaricom, è studiata e imitata nel mondo: ogni mese, transitano sulla sua rete un miliardo e duecento milioni di dollari. Ma il caso del Somaliland si staglia su tutti. Proprio come questo Paese ai margini del sistema internazionale, eppure al centro di flussi che uniscono gli Stati Uniti a Dubai, il Regno Unito alla Cina.
“DA NOI NON CI SONO BANCHE commerciali: ecco perchè Zaad era necessario”, racconta Abdikarim Mohamed Eid, l’amministratore delegato di Telesom. “Così abbiamo studiato M-Pesa e l’abbiamo adattato alla realtà locale.” Il che significa innanzitutto niente costi di servizio. Telesom consente chiamate e transazioni solo tra i suoi utenti, che possono usare Zaad gratuitamente ma continuano ad acquistare credito telefonico Telesom. I ricavi sono così sulla fidelizzazione dei clienti, il 10% su 3,8 milioni di abitanti. Commercianti e studenti, dipendenti pubblici e nomadi, con batterie solari montate su dorsi di cammello, in cerca di pascoli e campi telefonici. Il mercato Mahmoud Haybe, alla periferia di Hargeisa, brulica di mercanti e bestiame .Le contrattazioni sono affidate alle dita, prima celate da panni bianchi per sottrarre il negoziato alla vista altrui (afferrare una mano è chiedere cinquemila, pizzicare un dito è rilanciare di mille), poi su tastiere telefoniche per concludere. Cellulari penzolano da colli di donne in veli colorati. Adan, un intermediario, gestisce flussi di vacche e cammelli tra l’Haud etiope e Aden, in Yemen, dove sbarca il bestiame destinato ai mercati della penisola arabica. Sono affari d’oro, soprattutto a Eid e Ramadan. “Con Zaad pago i guardiani delle mandrie e gli agenti che si occupano della traversata” , dice. I soldi mobili possono essere facilmente recuperati in caso di smarrimento o furto del telefono. Ma questa sicurezza riguarda soprattutto la valuta di riferimento, i dollari americani, che scherma il valore dall’inflazione, una nuvola nera sempre all’orizzonte. Gli scellini valgono poco più della carta su cui sono stampati ma i dipendenti pubblici sono pagati in valuta locale e, ogni mese, se ne tornano a casa con sacchi pieni di banconote. I cambiavalute oliano il sistema, smaterializzando gli scellini in denaro Zaad o in dollari. Le ricevute dei trasferimenti disegnano la geografia delle migrazioni somale, rifugiati e uomini d’affari, pendolari tra il Golfo e Hong Kong, il Minnesota, centro americano della diaspora somala, e Mogadiscio, dove il governo di Mahmoud Sheik Hassan tenta di attrarre investimenti, tra le bombe di Al Shabaab e la corruzione che erode dall’interno. Il denaro scorre in canali finanziari lubrificati da rapporti di fiducia fondati su clan e riservatezza. Nel mondo islamico questo sistema è noto come hawala. Per secoli ha consentito ai mercanti di muovere capitali tra il Mar Rosso e l’Indonesia. Oggi, agenti di hawala muovono denaro dalla Finlandia ai campi profughi africani, o costellano i percorsi dei migranti in viaggio per la Libia, permettendo di acquistare un passaggio dopo l’altro, una rimessa alla volta.
GRATTACAPO per le agenzie antiterrorismo occidentali, per le quali il sistema è una scatola nera per il riciclaggio; ma anche un tubo d’ossigeno per rifugiati e sfollati nel Corno d’Africa, secondo lo organizzazioni internazionali, che usano compagnie di hawala per veicolare finanziamenti a ong in Somalia. Su tutte, Dahabshiil, un colosso nel campo, con quartier generale ad Hargeisa e uffici a Londra e Dubai. Zaad è l’evoluzione tecnologica della specie, pronta a varcare i confini, intrecciandosi alle reti transnazionali dell’hawala. Del resto, il fondatore Sheik Ahmed-Nour Mohamed Jimale, un tycoon della telefonia mobile in Somalia, era fino al 2001 il numero uno di Al Barakaat, agenzia di rimesse chiusa dal dipartimento di stato americano all’indomani dell’11 settembre per presunti legami con Al Qaeda, e poi scagionata.
L’anomalia del Somaliland la dice lunga sulle dipendenze coloniali di ieri e umanitarie di oggi. Per gli inglesi, questa era nient’altro che una fonte di approvvigionamento per il presidio di Aden, sulla sponda opposta del Mar Rosso, avamposto strategico sulla rotta per il gioiello della Corona, l’India. Per il resto, lasciarono mano libera ai nomadi locali, innamorati della poesia e delle armi. Il fascismo, invece, immaginò la sua Somalia come un’appendice italiana sull’oceano indiano, con tanto di Lido e via Roma. Ridisegnò rapporti di potere e ruoli di forza e svuotò le autorità tradizionali, esperte da secoli nella risoluzione di conflitti. L’indipendenza realizzò una bizzarra alchimia post-coloniale, fondendo le due colonie in un’unica repubblica somala. Il colpo di stato di Siad Barre riallontanò il nord, povero e dominato da un unico clan, gli Isaq, dal sud, conteso da una miriade di fazioni. Negli anni Ottanta, le aspirazioni autonomiste del Somaliland provocarono il giro di vite del regime di Mogadiscio. La sanguinosa offensiva scatenata nell’88 rase al suolo Hargeisa ma accelerò il collasso della Somalia, che precipitò nella guerra civile. Il Nord restò a galla grazie a un incessante negoziato tra leader politici e religiosi, uomini d’affari e capiclan. Da quella discussione, nel 1991, uscì uno stato e degli equilibri più o meno stabili. Il Somaliland è riuscito finora a evitare infiltrazioni terroristiche. Eppure, non è in grado di scrutare nelle casse di Telesom o Dahabshiil, colossi economici al di lá della portata dello stato. È un confronto alla pari, quello tra istituzioni e businessmen, comune a tutta la Somalia. Ma mentre ad Hargeisa ha trovato un equilibrio, a Mogadiscio la commistione tra i ruoli ha prodotto aberrazioni. I cosiddetti “signori della guerra” erano nient’altro che imprenditori armati fino ai denti che imponevano ordine per proteggere i propri interessi. Su tutti, il controllo degli aiuti internazionali. Il Somaliland finora non ne ha visti. E questa è stata la salvezza. Ora il Paese punta sull'innovazione per proiettare all'esterno un'immagine di stabilitá. L'inclusione finanziaria non basta: secondo Mohamed Behi Yonis, ministro degli esteri, il Somaliland è pronto per essere il prossimo stato africano. Con benefici per l’intera regione. “Siamo riusciti ad evitare la guerra e a contenere il terrorismo. Possiamo contribuire al bene della Somalia. Ma il nostro futuro è l’indipendenza.”
L’autore ringrazia la European Journalist Foundation

Corriere 9.6.14
Nella fabbrica di Adidas e Nike dove la Cina ha imparato a scioperare
Venti giorni di proteste per i contributi. Una nuova Solidarnosc?
di Guido Santevecchi


SHENZHEN/DONGGUAN — Zhang Zhiru ha cambiato l’ora dell’appuntamento una quantità di volte. E fino all’ultimo è rimasto sul vago per il luogo. Ha i suoi motivi, perché è il capo del Centro Shenzhen Chunfeng per le controversie sul lavoro, un’organizzazione non governativa che insegna agli operai le tecniche di contrattazione collettiva, attività non facile in Cina. Nelle ultime settimane Zhang ha consigliato i 45 mila operai in sciopero della Yue Yuen di Dongguan, il primo produttore al mondo di scarpe sportive: sette impianti per 1,4 milioni di metri quadrati e circa 320 milioni di paia all’anno per marchi come Adidas, Nike, Asics. È stata la protesta operaia più imponente nella storia del Guangdong, la provincia meridionale nota come la Fabbrica del Mondo.
Zhang ha anche una certa esperienza delle celle di sicurezza della polizia; ci dice che il suo vice, Lin Dong, è «ospite delle autorità in una casa al mare da settimane» (significa che lo hanno arrestato). «In effetti da noi c’è un modo di dire: “Le autorità non aiutano la gente a mettere a posto i loro problemi, mettono a posto la gente che indica i problemi”» ci spiega con un mezzo sorriso. Quindi, meglio essere prudenti con gli appuntamenti. La cautela non è servita a molto: nell’ufficio del sindacalista indipendente, una specie di garage con due computer, una fotocopiatrice e qualche scaffale tra biciclette e motorini, troviamo persone strane e silenziose. «Sicurezza di Stato» sussurra Zhang accennando a un giovanotto in maglietta a righe che non perderà una parola del nostro colloquio.
Perché lo sciopero? «È cominciata ad aprile, quando un lavoratore della Yue Yuen appena pensionato è andato a ritirare i soldi accumulati con i contributi sociali. O meglio i soldi che credeva di avere da parte, perché l’azienda aveva omesso di versare la quota degli straordinari, che sorpassano di molto la paga minima (per otto ore al giorno a sfornare scarpe sportive si prendono 1310 yuan al mese, circa 155 euro)». La voce si è sparsa, moltissimi altri sono andati a controllare: c’è stato chi ha scoperto di avere ricevuto contributi per 35 mesi mentre aveva lavorato per 85; altri non hanno trovato traccia della quota prevista per l’edilizia popolare, l’assistenza sanitaria. «Il primo sciopero è stato il 5 aprile, due ore per andare a presentare una petizione al governo locale a Dongguan, ma la polizia è intervenuta» dice Zhang. «Il 10 gli operai ci hanno contattato, siamo andati a Dongguan la sera del 13: eravamo riuniti da due minuti quando sono arrivati venti agenti e ci hanno portati via».
Lin Dong è finito «ospite della polizia al mare»; Zhang Zhiru è controllato, ma lo sciopero dei 45 mila è andato avanti per venti giorni con poche intimidazioni per gli standard cinesi, solo qualche bastonatura e 5 o 6 arresti. Segno di una certa comprensione da parte delle autorità. Il governo di Pechino da mesi sta cercando il modo per riequilibrare l’economia in rallentamento: meno produzione a basso costo, salari e pensioni migliori per avere un aumento dei consumi interni. Sta di fatto che il viceministro del Lavoro cinese ha chiesto (ordinato) alla Yue Yuen di trovare una soluzione e l’azienda ha accettato di versare 37 milioni di dollari di arretrati.
Hanno vinto i lavoratori? Vorremmo vedere le cose dall’interno della grande fabbrica. Jerry Shum, responsabile del Dipartimento relazioni con gli investitori di Yue Yuen Industrial Holdings, è molto gentile al telefono da Hong Kong (la cortesia è il suo mestiere), ma ci risponde che è meglio di no: «Non possiamo ricevere visite, lo sciopero ha provocato ritardi nella produzione e siamo indietro con le forniture ai clienti, dobbiamo concentrarci per recuperare». Jerry è rassicurante (anche questo è il suo mestiere): «Ora la situazione è calma. Tutti sono contenti. Prima versavamo i contributi per le assicurazioni sociali facendo riferimento allo stipendio medio standard pubblicato dalle autorità locali, cosa che era completamente legale, ma ora paghiamo tutto in base agli stipendi reali dei dipendenti. Sono tutti soddisfatti».
Andiamo a vedere. Davanti alle fabbriche grandi striscioni ammoniscono: «L’indolenza produce perdite». Il personale della security ci tiene a distanza dai cancelli: vestono uniformi ben stirate, con stivaletti anfibi, guanti bianchi e baschi rossi. Aspettiamo l’uscita del turno cominciato al mattino per chiedere se davvero sono tutti soddisfatti. Un gruppetto va di filato dentro una trattoria per noodles : perché non mangiate alla mensa? «Perché fa schifo» risponde un ragazzo. Zhuo Qi, maglietta, calzoncini corti e ciabatte (sono tutti vestiti così), ha 43 anni: «Lavoro qui da 10, sono un migrante, vengo da Chongqing, faccio il caposquadra». Avete vinto? «Guardi che anche noi operai dovremmo pagare gli arretrati per metterci in regola: io ho fatto i calcoli, 50 mila yuan (6mila euro) e chi ce li ha? Abbiamo provato a spiegarlo ai giornalisti cinesi, ma nessuno ne ha voluto scrivere». Una donna: «Mi chiamo Yan Gairong (Gairong significa “La riforma è gloriosa”), ho 45 anni, vengo dallo Shandong e lavoro qui da 9. Ho due figli a casa con i nonni, li vedo una volta l’anno. Guadagno bene, 1.700 yuan con gli straordinari e ora dopo lo sciopero ne faccio tanti. Sto alla pressa delle forme per le Nike, 500-600 al giorno», dice e si massaggia continuamente la spalla. E lei un bel paio di Nike le ha? «Nooo, mi costerebbero un mese di salario». Ambizioni? «Tornare per sempre nello Shandong, il bambino più piccolo non sapeva nemmeno di avere una mamma». Peng Yaohui ha 25 anni, migrante come tutti, arrivato dallo Hunan. Ha partecipato all’organizzazione dello sciopero nel suo reparto, che programma al computer i fregi e i colori delle scarpe. Avete vinto? «Finora solo promesse e offerta di licenziarsi con una buonuscita. E comunque, chi li gestirà i fondi pensione? Funzionari locali corrotti, come sempre».
I salari nella Fabbrica del Mondo tra Shenzhen, Dongguan, Guangzhou, Foshan nel 2013 sono cresciuti del 16%. Prima o poi qualcuno dei 45 mila di Dongguan avrà i soldi per comprarsi un paio di Nike o di Adidas. «È come la vecchia storia di Henry Ford che capì la necessità di pagare i lavoratori abbastanza perché potessero acquistare una delle sue auto» ha detto alla Bloomberg David Dollar, ex funzionario del Tesoro Usa. «Penso che il governo centrale sia più tollerante, sono le autorità locali che temono le richieste dei lavoratori, perché se i costi aumentano le multinazionali se ne vanno» ci dice Zhang. I 45 mila della Yue Yuen forse hanno vinto e forse no. Pechino comunque non li ha repressi, perché chiedevano solo più potere d’acquisto e questo va bene. Ma che succederebbe se a Dongguan si formasse un movimento sindacale simile a Solidarnosc? Qualcuno lo chiama «l’incubo polacco».

l’Unità 9.6.14
Matteotti eroe di oggi
Domani i 90 anni dall’uccisione del socialista che denunciò la tangentopoli fascista


CI SONO ANNIVERSARI RITUALI E PURAMENTE SIMBOLICI. E altri che sono vere e proprie date-evento. Anniversari «evenemenziali», per dirla con la storiografia delle Annales. Dove la storia cambia, si spacca, diventa un crocevia: sarebbe potuta cambiare in modo opposto rispetto a ciò che avvenne dopo. Ecco, i 90 anni dell’uccisione di Giacomo Matteotti, 10 giugno 1924, sono una ricorrenza di questo tipo, che sarebbe stolto annegare nell’agiografia o nella ritualità antifascista (il «santino», polemicamente additato da Sandro Pertini). Infatti dopo quell’omicidio nulla sarà più come prima nella storia d’Italia, perché il fascismo che pure aveva vacillato, resiste e supera la crisi. Sulle cenere dei propri avversari incapaci di capire l’accaduto e inchiodati al famoso e sterile Aventino (che è poi una sala di Montecitorio dove gli oppositori si riunirono per decretare la loro non partecipazione alla tenzone parlamentare, sperando che il Sovrano intervenisse a restaurare la legalità e Mussolini cadesse).
I fatti. Giacomo Matteotti, avvocato, deputato del Polesine (Fratta, 1885) viene rapito il 10 giugno 1924 sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, si difende, urla, mena calci e butta dal finestrino di una Lancia Kappanera il suo tesserino parlamentare. Verrà ucciso quello stesso giorno, all’altezza di Ponte Risorgimento, da una pugnalata di Amleto Poveromo, che con Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria, lo aveva rapito. Per conto di Marinelli, Finzi, Rossi, fiduciari del Duce e legati con Pavolini, squadrista «intellettuale della prima ora a Firenze e amico di Dumini dai tempi della rivista Sassaiola fiorentina. Il 30 maggio Matteotti, socialista unitario e riformista radicale nel Psu, aveva denunciato i sistemi fascisti per far votare gli italiani: ordine delle preferenze diverso a ciascun elettore sulla scheda. Accompagnamenti coatti in cabina con randello. Incetta di certificati elettorali, voto ripetuto decine di volte dagli stessi elettori. Botte e trucchi, che avevano fatto parlare Giovanni Amendola per primo di «totalitarismo», concetto destinato a fare strada. Ma non c’era stata solo la richiesta di annullare le elezioni, bocciata, e per inciso elezioni dove col 25% si prendeva il 66% (Legge Acerbo, Super Italicum e porcellum antelitteram). Matteotti, detto Tempesta per il suo coraggio fisico - altro che santino! - aveva in serbo ben altro.
Aveva in mano un dossier fatto di tangenti alla Corona e ad Arnaldo Mussolini, relative a quanto segue: profitti di guerra non tassati e ottenuti con frode dall’industria privata italiana. Leggi compiacenti su bische e gioco d’azzardo. E infine l’«affare Sinclair». Nel quale l’inglese petrolifera Sinclair, in combutta con l’americana Standard Oil, aveva ottenuto l’esclusiva per le trivellazioni di Petrolio in Emilia e Sicilia. Un insieme di dazioni gigantesche per l’epoca, in virtù del quale la Sinclair otteneva l’esclusiva contro ogni ente statale per le trivellazioni anche in Libia! Sicché quel 10 giugno Matteotti si stava recando a piedi a Montecitorio. Per preparare per il giorno successivo un ben più pericoloso discorso, contro il fascismo al governo e forse contro il Re. Che avrebbe sollevato uno scandalo internazionale e infine travolto il regime (i cui echi nel novembre del 1924 rimbalzarono sulla stampa internazionale e indussero Mussolini a disdire l’affare, ormai incassate le tangenti dal fratello Arnaldo). Perciò Matteotti doveva morire, come aveva sibilato alla Camera lo stesso Mussolini, durante il discorso del 30 maggio: «Che fa la Ceka, dorme?». La Ceka era la banda di cui vi abbiam parlato sopra, che aveva usato la macchina di Filippo Filippelli, direttore del Corriere Italiano e amico di Mussolini, la vettura di cui fu presa la targa che consentì di risalire agli assassini. A proposito, a parte le dimissioni e gli arresti di Marinelli, Rossi e Finzi - rispettivamente capo del Pnf, addetto stampa e sottosegretario - fu un processo infinito. Con pene lievi: tre procedimenti con condanna a 5 anni per omicidio preterintenzionale (la vittima rapita si agitava). Con pensionamento forzato di giudici onesti e amnistia nel secondo dopoguerra. Mai venne fuori il nome del Duce, in seguito evocato a Verona nel 1944 da De Bono, capo della Milizia. Da Cesare Rossi un memoriale e anche dalla missive dei condannati, intrise di ricatti e richieste di soldi, per tacere.
Il corpo di Matteotti fu ritrovato in una buca alla Quartarella, vicino Riano Flaminio, sulla Flaminia, a una ventina di chilometri da Roma. Fu il brigadiere Ovidio Caratelli con cane, a scoprire il corpo interrato in fretta e furia. E di lì nacquero lo scandalo, la protesta e anche l’impotenza di un’opposizione divisa. Coi liberali Giolitti, Einaudi e Croce che votano la fiducia. E la rivotano addirittura il 26 giugno 1926! Con un voto che Don Benedetto - che già plaudì nel 1922 al manganello come «revulsivo» - definì «prudente e patriottico ». Che accade insomma? Questo: Mussolini temporeggia, seda la questione giudiziaria, fingendo di fare pulizia. Confida nel Re e aspetta. Fino al 3 gennaio 1925, quando si assume la responsabilità morale dell’omicidio e accetta di includerlo nel male necessario per addomesticare e pacificare la nazione. Lo stesso aveva fatto nel 1924 al teatro Massimo di Palermo il liberal-fascista Gentile: «Predica o manganello conta il “consenso interiore”, anche se estorto: purché in una prospettiva “rivoluzionaria”». E così tra comunisti e massimalisti, che invitavano il fascismo a mostrare il suo vero volto di reazione capitalistica, e liberali che plaudivano o tacevano, Matteotti restò solo. A difendere socialismo, libertà, sfruttati e questione morale. Lui lo chiamava «riformismo». Ma era un’altra storia rispetto a oggi.

Corriere 9.6.14
A 90 anni dal delitto l’ultimo volume degli scritti
Matteotti, non solo martire antifascista ma simbolo della lotta al totalitarismo
di Arturo Colombo


Giacomo Matteotti è stato ucciso il 10 giugno 1924, e in occasione del 90° di quell’efferato assassinio (ricordato oggi a Milano a Palazzo Sormani, alle 18, insieme a quello dei fratelli Rosselli) esce l’ultimo volume dei suoi Scritti e discorsi vari (Pisa University Press, pp. 323, € 30), a cura di Stefano Caretti, uno studioso dell’Università di Siena, che fin dal 1983 si dedica al recupero dell’intera opera. E uno dei meriti di Caretti emerge subito, appena si avverte che per lui Matteotti non va solo considerato come «simbolo della lotta contro il fascismo e i regimi totalitari» ma occorre farne conoscere soprattutto «la complessa personalità di studioso e politico».
In questa prospettiva emergono le varie tesi sostenute fra il 1907 e il ’24, che coinvolgono fin dal 1908 le dure polemiche fra l’Associazione dei proprietari e le Leghe dei lavoratori, proseguono nel 1911 con Matteotti che ribadisce quanto occorra «che i lavoratori non si scoraggino ma intensifichino e rafforzino le loro leghe», e trovano ulteriore conferma nell’intervento alla Camera nell’agosto del ’21, quando Matteotti sostiene che «a tutte le categorie di dipendenti dello Stato dev’essere dato ciò che è necessario per vivere e per mantenere la loro posizione».
Nessun appello, però, alla violenza rivoluzionaria (cara, invece, a certo socialismo estremista) ma continuo richiamo alla «necessità di unione delle forze proletarie», insistente appello a ogni attività «che irrobustisce, infonde fiducia e coraggio», e insieme radicale rifiuto di quel sistema elettorale, allora dominante, che non assicurava il voto a ogni cittadino ma rendeva elettori solo in base alle disponibilità economiche, o — come precisa a Montecitorio l’11 maggio 1920 — «in quanto si possiede una vacca, un mulo, un pezzo di terra, un pezzo di casa...». L’opposizione al governo Mussolini, che stava degenerando in regime, è subito netta, come la diagnosi espressa nel ’23: «Presso il fascismo è già in atto una collaborazione con le destre, i liberali, la democrazia-sociale, se non anche con i popolari». E non meno perentorio: «Tutti fanno a gara a dichiararsi disposti a collaborare col governo fascista». Per troppo tempo — spiega Caretti — Matteotti è stato «ricordato solo per il delitto del 10 giugno visto come evento isolato, e non come la conclusione di un coerente percorso intellettuale e politico».

l’Unità 9.6.14
Canali, una vita in latino
Docente, poeta e scrittore si è spento ieri a 89 anni


ERA ALLA SOGLIA DEI NOVANT’ANNI, LUCA CANALI, MORTO IERI A ROMA DOPO UNA MALATTIA. È STATO UNO DEI MAGGIORI LATINISTI ITALIANI, SCRITTORE E POETA. Allievo di Ettore Paratore, con cui si era laureato su Lucrezio e di cui è stato assistente, Canali ha insegnato a lungo letteratura latina all’università di Pisa. Lasciò la cattedra all’inizio degli anni Ottanta, prima del tempo, per poi dedicarsi alla scrittura saggistica e narrativa. La sua opera, per mole, è impressionante: decine e decine di volumi, attraverso i quali - accanto al lavoro più accademico - ha messo a fuoco in una chiave divulgativa ma rigorosa la storia romana, con predilezione per le tinte fosche, gli intrighi, i vizi, gli scandali, il potere, l’eros, la follia. Vita, sesso, morte nella letteratura latina (1980) prepara il terreno a testi a metà fra saggistica e narrativa, su Cesare, su Augusto, sui potenti di Roma antica, o all’autobiografia immaginaria di Lucrezio, di cui tradusse splendidamente il De rerum natura. Ha tradotto l’Eneide di Virgilio, la Farsaglia di Lucano, le Odi di Orazio, gli Epigrammi di Seneca, ha tradotto Catullo e Petronio. Ha attraversato, da autore, generi diversi con disinvoltura, affidandosi - per guardare più da vicino i grandi dell’antichità - di volta in volta all’intervista immaginaria, al «diario segreto», alla riscrittura, come nel caso del Satyricon di Petronio. Fellini, per il suo Fellini Satyricon, gli chiese una consulenza, e Canali parecchi anni dopo inseguì l’idea di un suo Canali Satyricon (Manni lo pubblicò nel 2008).
La lunga vita di Canali è segnata da un’inquietudine senza posa, da un’attività quasi febbrile, che negli ultimi anni lo ha portato a pubblicare moltissimo anche da marchi editoriali minuscoli. Con Cavallo di Ferro ha pubblicato l’anno scorso un breve romanzo, Matchnullo, candidato allo Strega 2014 ma non incluso nella dozzina. Il protagonista, come l’autore, si chiama Luca, malinconico e burbero. In filigrana, dietro Luca c’è proprio Canali, la sua vita universitaria, la sua militanza politica nel comunismo. «La vita è una gara, e durissima, no? Tutto sta nell’imparare i metodi per vincerla ». Gli ultimi versi sono affidati alla plaquette Semplice cronaca (Ladolfi). Vi compaiono piccole figure solitarie, anzi ammalate di solitudine, come forse era pure l’autore, sempre più appartato e cupo, risentito. Canali era un nichilista? Forse sì, a un passo da lì, da quella posizione, da quel «senza scampo» che dà il titolo a una poesia su una pecora che arranca disperata sull’asfalto. Ma poi magari sapeva guardare gli oleandri nelle stazioni di servizio, «polverosi nell’ardore della canicola» e provare gratitudine «per quella floreale vocazione ad ornare luoghi disidratati». L’anno scorso era stato ripubblicato da Mondadori il suo romanzo maggiore, Autobiografia di un baro (1984), storia - anche questa molto vicina al vissuto - di un ragazzo che si butta a capofitto nella lotta politica e si trova infine a dover combattere con la propria stessa testa, con la nevrosi che la assedia, con la depressione. Così Canali è stato segnato da quest’ombra, da fobie e ossessioni che travasava nella cupezza del suo narrare. Ognuno soffre la sua ombra è un suo titolo bellissimo, che vale - quanto Autobiografia di un baro - da esergo a un’intera vita: Lucrezio, Catullo, Giovenale riletti narrativamente come «grandi nevrotici».
Dopo esserne stato lo studioso e il traduttore, era diventato l’analista dei suoi amati poeti e di sé stesso. C’è un Catullo ventottenne che confessa il proprio disagio psicologico; l’interlocutore lo incalza, lui si apre: «Ricordo di avere attraversato un periodo di profondo smarrimento. E Lesbia allora non c’era. Non mangiavo, non dormivo, vivevo di incubi… Già a quel tempo ero pieno di contraddizioni. A volte mi percepivo molto più capace e intelligente dei miei coetanei, altre volte vivevo complessi di inferiorità abissali. Sin da bambino ho sempre avuto la sensazione che qualcuno alle spalle mi scrutasse, mi giudicasse… Questa sensazione non mi ha mai abbandonato del tutto ».
La sua voce, nelle ultime telefonate, era stanca, ma ancora curiosa, sospesa tra la distanza dalle cose e dal mondo e una strana, ancora vitale voglia di partecipare, di esserci, di sapere, di scrivere, di sbraitare. Aveva collaborato a lungo con queste pagine. Il giorno in cui era uscita una recensione al suo ultimo libro di versi mi chiamò per ringraziare. Gli chiesi ingenuamente se fosse stato informato dall’editore. «L’Unità la leggo tutti i giorni» mi disse con quel tono secco e burbero, che era il suo, e non ammetteva repliche.

Repubblica 9.6.14
Luca Canali il baro amante del latino
Lo scrittore è morto ieri a Roma a 89 anni. Studioso dell’antichità, fu nel Pci e raccontò la Resistenza
di Paolo Mauri


Ettore Paratore faceva lezione, alla Facoltà di Lettere di Roma, nell’aula prima, affollatissima, anche perché la frequenza era in quegli anni obbligatoria. Montava materialmente in cattedra, una cattedra molto alta, non prima d’aver controllato che attorno al tavolo che stava proprio sotto la cattedra sedessero i suoi assistenti, di cui era maestro e anche un po’ tiranno. Luca Canali, scomparso ieri a Roma quasi novantenne, era tra loro, latinista, ma non solo. All’epoca trovavo bellissimo il suo ritratto di Cesare, che non ho più riletto e bellissime erano anche le sue traduzioni.
Intanto, nel ‘65 era uscito un suo libro di riflessioni più o meno storico- filosofiche, con una lettera di Montale che il Corriere della sera aveva pubblicato come elzeviro: “La Resistenza impura”. Canali, allora quarantenne, era un uomo molto bello (le ragazze di Lettere non avevano dubbi) e in più era comunista. Un comunista alla corte del rigido conservatore Paratore che avrebbe presto proposto ai suoi studenti “rivoluzionari” per la traduzione in latino un brano di Mao, suggerendo di volgere «comunisti » con «omnia qui communia censent». Canali ne avrebbe comunque conservato un buon ricordo: il suo mestiere lo sapeva ed era coltissimo, aveva solo il torto di scrivere terribili romanzi, come raccontò nella recente e lucidissima intervista a tutto campo di Antonio Gnoli ( Repubblica, 29 settembre 2013), dove rivelava di avere una figlia segreta e concludeva un ragionamento durato, credo, una vita intera: «La storia insegna che il mondo è un incubo senza risveglio». “La Resistenza impura” insinuava molti dubbi sui risultati raggiunti da una generazione che aveva conosciuto l’azione diretta contro i nazifascisti (Canali era entrato nelle formazioni di Giustizia e Libertà e solo in seguito aveva aderito al Pci) ed ora assisteva alla caduta di tanti ideali. Nel ‘58, dopo i fatti d’Ungheria, il compagno Canali che aveva diretto diverse sezioni del Pci, ma aveva manifestato dei dubbi su quanto andava accadendo era stato buttato fuori dal Partito con diversi altri e vi sarebbe rientrato solo molto più tardi. La sua storia si incamminava ad essere quella di uno studioso di letteratura latina che presto avrebbe avuto i suoi successi lavorando su Lucrezio, Virgilio, Giovenale (divenne anche consulente per il Satyricon di Federico Fellini) e che avrebbe continuato a suo modo nella militanza politica. Nel ‘77 pubblicò Quel punto di luce (Vangelista editore), un libro sulla Resistenza a Roma, con i ritratti di alcuni partigiani torturati e uccisi dove ribatteva ad una affermazione di De Felice che dichiarava di non credere alle rivoluzioni tradite, alle resistenze tradite. «Io invece ci credo», scriveva Canali, «per dirla con la stessa rozzezza, e penso anzi sia una legge storica che tutte le rivoluzioni siano tradite». In qualche modo il tradimento diventa più propriamente un assestamento e poco oltre Canali ritorna sul concetto di Resistenza impura: «tutte le rivoluzioni coinvolgono in sé l’“impuro”, il reale imperfetto, il tornaconto personale, il casuale, e perfino la viltà e la delazione ».
In realtà Canali pensava molto anche a se stesso, alla sua storia personale, alla famiglia da cui proveniva, al suo modo di stare al mondo. Il padre faceva il carbonaio e con lui non c’era stata praticamente mai una vera confidenza. Da un certo punto in poi Canali diventa dunque un acuto narratore di se stesso e delle vicende che lo riguardano sul piano personale e persino su quello sessuale che dopo l’apprendistato nelle case chiuse si rivela problematico o semplicemente predatorio (molto poco invece racconta sul piano professionale che sembra appartenere ad un’altra persona). Nel 1980 esce Il sorriso di Giulia , (Editori Riuniti). Giulia è la figlia di Luca. Alla fine del romanzo c’è un capitolo intitolato «Come vorrei essere ricordato». Parla di una fotografia scattata nel ‘73: «È forse l’unica foto della mia vita in cui sembro soddisfatto di me, padre correttamente seduto sul divano con la figlia treenne». La normalità era già un rimpianto. Nel frattempo Canali aveva vinto una cattedra a Pisa e faceva su e giù da Roma con la sua velocissima Porsche. È più o meno in questo periodo che matura ed esplode una fortissima depressione accompagnata da una psiconevrosi piuttosto grave. Canali si guarda ora soffrire, ancora una volta con spietata acutezza e scrive l’ Autobiografia di un baro (Bompiani, 1983). Mi capitò di leggerla proprio su un treno che mi portava a Pisa. Mi turbò. Non ne volevo scrivere. Poi invece pensai che scriverne era doveroso e dichiarai subito che la mia non era una recensione nel senso classico del termine. Si può recensire la sconfitta, la sofferenza? Canali, che resta comunque un eccellente scrittore, comunica al lettore il dolore per una vita distrutta, nella quale (a torto) pensa di avere avuto la parte di un baro. Ma un baro, obiettavo, può perdere sempre? Non sono l’unico a pensare che questo suo libro, ristampato anche in anni recenti (negli Oscar Mondadori), sia quello che meglio lo rappresenta, anche se su se stesso sarebbe tornato molte volte e citiamo almeno Spezzare l’assedio (Bompiani, 1984) dove però i fatti sono in qualche modo romanzati.
Autobiografia di un baro si chiude con un capitolo scritto da Maria, la ragazza spagnola che era venuta in Italia e che sarebbe diventata sua moglie. È un’altra pagina di delusione e di dolore dove si vede Luca indifferente conquistatore, poco incline al sentimento. «Ho conosciuto un giovane uomo pieno di dubbi e di ragioni, bello come una statua greca…». Così comincia il capitolo firmato da Maria ora da tempo scomparsa. Invecchiando in solitudine Canali era diventato l’ombra di se stesso. La sua bibliografia, tra saggi, traduzioni, narrativa e poesia, è infinita (Giunti ha pubblicato proprio in questi giorni Pax alla romana. Gli eterni vizi del potere , scritto a quattro mani con Lorenzo Perilli), ma lui stesso ammise che spesso scriveva per terapia. Se nella scrittura e nella letteratura cerchiamo qualcosa che ci faccia conoscere meglio gli uomini e la loro sorte, Canali resta un autore di singolare e (posso dirlo?) perverso fascino. Suo malgrado, un testimone protagonista del nostro recente passato.

Corriere 9.6.14
Luca Canali ha spezzato l’assedio
L’esistenza in ostaggio del male di vivere: scrivere non lo consolò
di Alessandro Piperno


Anni fa, imbattendomi in Qualcosa è cambiato — uno spassoso film in cui Jack Nicholson veste i panni di uno scrittore recluso che cerca di esorcizzare coazioni nevrotiche di ogni sorta attraverso la pratica non meno compulsiva della scrittura — pensai a Luca Canali. Per me un caro amico, appena scomparso, una specie di mentore, a suo modo un impareggiabile maestro di stile. Ricordo che gliene parlai, e gli dissi anche che il vecchio Jack alla fine del film se la cavava piuttosto bene: Hollywood sa come chiudere in bellezza le sue fiabe e ricompensare i suoi eroi. «Qualcosa è cambiato? — disse lui contrariato — beh, mi sa che per me non cambierà un bel niente». Era piuttosto irritato che paragonassi una commedia sentimentale alla sua vita.
Non ne parlerei in modo così impudico — del disagio psichico, intendo — se esso non fosse il tema dominante di tutta la narrativa e dell’intera esistenza di Luca Canali. Una volta mi disse che, a dispetto di quello che pensano certi romantici ciarlatani, nulla è meno creativo del disagio psichico. E parlava (come al solito) con cognizione di causa. A quarant’anni Luca Canali era un uomo bellissimo, un disincantato libertino, alle spalle la Resistenza e una militanza tosta nel Pci (quando essere comunisti era roba seria) finita con un’abiura dopo i fatti di Ungheria. Allievo riottoso e dissidente di Paratore, era da poco diventato ordinario di Letteratura latina. Frattanto aveva già iniziato la sua formidabile carriera di traduttore (Cesare, Catullo, Lucrezio...). Un suo libro bizzarro, La resistenza impura , era stato pubblicamente elogiato da Montale. Inoltre, Canali aveva prestato la sua consulenza a Fellini che stava girando il Satyricon .
Poi il crollo, i ricoveri, la lunga clausura nelle tenebre dello spirito.
Quando lo conobbi questa era già storia. Alla quale aveva dedicato tre libri spudorati: Autobiografia di un baro , Amate ombre e Spezzare l’assedio . Tre titoli, converrete con me, bellissimi. Che dicono tutto di Canali. Il suo desiderio di auto-calunniarsi, la sua nostalgia straziante per chi non c’è più e la lotta per liberarsi dall’assedio della malattia. Il modo attraverso il quale Canali teneva a bada tutto questo caos era la sintassi. Deliberatamente ispirata a quella latina, la sintassi di Canali conferiva alla prosa una specie di solennità baudelairiana. Un assaggio? All’inizio di un racconto si sta rivolgendo direttamente a un amico morto, di nome Pietro: «Pietro, tu eri Pietro, ma sulla tua pietra nessuno edificherà la sua chiesa. All’amico venuto in città dal suo regno di provincia per indiscutibili impegni familiari e industriali, oltre che come sempre ognuno per chi sa quale oscuro eterodosso miraggio, e certo per rintracciare passi e amici perduti, mi sono dimenticato di dire di te, che non eri più sulla terra, ma sotto, parallelo a tanti altri, orizzontale, a decomporti con il lombrico, la buccia di patata, il seme d’orzo, l’orina del randagio».
Eccolo qui, Canali allo stato puro. C’è tutto il suo materialismo, c’è l’orrore per la decomposizione. C’è l’involuzione sintattica al servizio di un pensiero disperato. Il lessico preciso e brutale. C’è l’immaginazione macabra smussata dalla pietà e dalla tenerezza. C’è, anche se dietro le quinte, la sua Roma. Una specie di sintesi tra la Roma di Augusto e quella degli artisti di via Margutta. Il cinismo, la violenza, il sesso. Tutto mescolato.
Nella mia vita non ho mai incontrato un uomo più consapevolmente (vorrei dire virilmente, se non suonasse sessista) disperato di Luca Canali. La vita non ha senso. E neppure la morte ce l’ha. Dio non esiste. Il Diavolo fa ridere i polli. La sola verità è il corpo e la materia. È tutto lì. Non c’è altro. Non a caso Canali venerava Lucrezio, Leopardi e Joyce. Non che avessero qualcosa in comune (o forse sì), ma certo tutti e tre, e ciascuno in modo diverso, coltivavano un’idea non proprio idilliaca della condizione umana.
È un vero peccato che Canali abbia scritto così tanto. Che non sia riuscito a disciplinarsi. E che con il tempo la sua vena si sia così opacizzata. Del resto, era lui a dirlo: la malattia, la clausura non insegnano niente, neppure a uno scrittore. Se si fosse meglio amministrato, se non avesse usato la scrittura per colmare quel gigantesco buco, forse oggi i suoi scritti migliori sarebbero inseriti nelle più selettive antologie del Secondo Dopoguerra. Ma dopotutto chi se ne frega delle antologie?

Corriere 9.6.14
Rainer Werner Fassbinder
Autodistruzione di un genio tedesco
di Paolo Mereghetti


Regista «carsico» per antonomasia, Rainer Werner Fassbinder appare e sparisce nella coscienza critica (e nella memoria) dello spettatore come un corso d’acqua tra le doline giuliane. Osannato in vita — brevissima: 37 anni solo — è stato dimenticato fin troppo in fretta, scavalcato da colleghi più abili di lui nell’adattarsi alle mode e ai gusti. Oltre che naturalmente meno disposti a dilapidare con rabbia il proprio talento e la propria esistenza. Il che, comunque, non ha impedito al regista di Querelle di raggiungere lo scopo che si era dato: «Essere quello che Shakespeare fu per il teatro, Marx per la politica e Freud per la psicoanalisi: uno dopo il quale nulla è più come prima».
A volte iniziative meritorie riaccendono l’attenzione, come quelle recenti del Teatro Stabile e del Museo del Cinema di Torino, ma basterebbe pensare alla difficoltà di reperire molti dei suoi capolavori in dvd per capire come uno degli autori più importanti del cinema moderno sia poco considerato in Italia. Per questo è doppiamente meritoria l’iniziativa del Saggiatore di tradurre la monumentale biografia di Jürgen Trimborn Un giorno è un anno è una vita (traduzione di Silvia Albesano, Alessandra Luise e Anna Ruchat, pp. 532, e 35 ), perché colma un vuoto imbarazzante e può aiutare anche i più giovani a scoprire il valore di un artista davvero grandissimo.
Scomparso nel 2012, a soli 41 anni, Trimborn aveva insegnato a Colonia e pubblicato, tra le altre, le biografie di Leni Riefenstahl e Romy Schneider. Per Fassbinder ha scandagliato in profondità la documentazione esistente, intervistando molte delle persone che avevano condiviso con il regista pezzi della sua vita, a cominciare da Ingrid Caven (che fu sposata per meno di due anni con Fassbinder, omosessuale dichiarato) e dalla sua interprete d’elezione Hanna Schygulla, per proseguire con molti dei suoi colleghi (Wenders, Herzog, Kluge, Schroeter, Schlöndorff) e i tanti attori e amici che attraversarono la sua vita. Quella che ne esce è una ricostruzione minuziosissima ma non per questo meno appassionata di una vita vissuta a mille chilometri all’ora, dove alcol, sesso, droghe, cinema, teatro e televisione si intrecciano in maniera indissolubile.
Il libro scava nell’infanzia del futuro regista, mettendo a nudo i traumi affettivi che subì dai tradimenti del padre Helmuth (medico troppo vicino alle prostitute che curava) e dall’egoismo della madre, Liselotte Pempeit sposata Fassbinder e poi Eder, debole nel fisico ma anche negli affetti se un compagno di giochi lo poté definire «il bambino più infelice e triste» mai conosciuto. Ne racconta la precoce scoperta dell’omosessualità (lo disse alla madre a quattordici anni, scatenando nella donna reazioni contrastanti ma non accondiscendenti) e la prostituzione come mezzo di sopravvivenza; ma anche la precocissima vocazione artistica, prima con l’Action-Theater di Monaco e poi cinematografica, con il festival di Berlino che nel 1969 decide di mettere in concorso il suo primo film, L’amore è più freddo della morte , scatenando polemiche a non finire ma anche consacrandone da subito la grandezza.
Trimborn scava con la stessa precisione e attenzione nella sua carriera artistica (44 film tra cinema e televisione, fra cui la monumentale riduzione tv di Berliner Alexanderplatz , 12 testi per il palcoscenico oltre a molte regie teatrali) e nella sua vita privata, seguendo l’inesorabile percorso di autodistruzione che Fassbinder sembrava aver scelto per sé («potrò dormire solo quando sarò morto» rispondeva a chi gli chiedeva di rallentare i suoi ritmi), ma sempre con un rispetto che evita qualsiasi moralismo o atteggiamento scandalistico. Non nasconde certo le sue ossessioni o i modi punitivi con cui «schiavizzava» i suoi collaboratori ma registra anche i meriti e gli apprezzamenti che sapeva conquistarsi con il lavoro e le idee. E soprattutto aiuta a entrare in un’opera che ha sempre messo al centro i legami (di forza, potere, dominio) che finiscono inevitabilmente per stravolgere e soffocare amori e passioni, sia che racconti lo «sfruttamento» che si nasconde dietro i sentimenti (Le lacrime amare di Petra Von Kant , Martha , Effi Briest , Il diritto del più forte ) sia che ricostruisca l’euforia della Germania che vuole dimenticare il proprio passato (Despair , Il matrimonio di Maria Braun , Lili Marleen , Veronica Voss ) sia che affronti i drammi del terrorismo (Germania in autunno , La terza generazione ). Lasciandoci alla fine soprattutto col rimpianto per una carriera troppo breve e l’ammirazione per uno dei pochi veri geni che il cinema abbia avuto.

Repubblica 9.6.14
Donne. Così single, così felici
In Italia in quattro milioni vivono sole Una condizione che, fino a pochi anni fa, era considerata avvilente, sfortunata e soprattutto subita
di Vera Schiavazzi


ZITELLA , parola italiana sostituita prima da nubile e poi da single, parola dalle origini gradevoli, perché deriva da zita, ragazza, in molti dialetti del Sud, e zita significa anche fidanzata. Ma che diventa giudizio e scherno quando è usato per le donne non sposate, di qualunque età. Oppure l’inglese spinster, che il Guardian ha appena denunciato come discriminatorio nelle parole della sua editorialista Claudia Connell: “Ogni volta che ho festeggiato il mio compleanno, dai 35 in poi, qualcuno mi ha chiesto perché non mi ero ancora sposata! Basta”. La rivolta delle inglesi è anche quella delle italiane. Non c’è paragone con “scapolo”, o single quando applicato ai maschi, due parole che possono apparire quasi affascinanti. L’Italia è un paese dove — come fotografa l’Istat — vivere da soli è ormai la forma di famiglia più diffusa: vive solo il 13,6 per cento della popolazione sopra i 15 anni, 7 milioni ai quali, tra il 2000 e il 2010, se ne aggiungono altri 2. Le donne che vivono sole sono il 15,5 per cento sul totale di 28 milioni (ovvero oltre 4 milioni) contro l’11,6 per cento dei maschi, e diventano il 38 per cento quando si superano i 64 anni. Vedove? Non solo, perché oltre il 25 per cento è fatto da signore (signore, ladies, madame, come vorrebbero essere chiamate) che non si è mai sposato. La svolta è avvenuta nel 2010, quando i single, nel loro insieme, sono saliti del 39 per cento, mostrando così una tendenza di massa, nella stessa Italia dove un matrimonio su 3 finisce col divorzio.
Le ragazze nate alla fine del secolo scorso, millennials, come amano chiamarsi, si sono messe sulla scia: le ha raccontate il “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo di Milano. “Vorresti un figlio nei prossimi tre anni?” era una delle domande, e il 64 per cento delle intervistate ha risposto con un secco “no”. È la generazione che ha già visto separarsi i genitori, quella che non vede più, nel semplice fatto di trovare un compagno, la garanzia del “vissero felici e contenti”. Lontano il tempo in cui si viveva in attesa del principe azzurro, tutte ammalate della sindrome di Cenerentola, come ben spiegò, nel suo volume cult “Dalla parte delle bambine”, Elena Gianini Belotti oggi le giovani donne credono che la parità vada conquistata sul campo, e che nessuna azienda o professione o partito politico sia disposto a regalarla loro mentre stanno a casa a cucinare. La “rivolta delle zitelle”, tuttavia, non è soltanto legata alle statistiche, alla mancanza di una parità autentica o alle scarse opportunità di carriera. Ma anche al piacere di stare da sole (e di essere libere), al non volersi accontentare, alla fine di una società patriarcale che guardava con sospetto chi non si batteva con le coetanee per conquistare un marito, per essere la più bella della festa o per farsi invitare quando a tavola c’era anche uno scapolo.
Ora le zitelle d’Italia escono allo scoperto, creando blog, come Il club delle zitelle, scrivendo libri, come “Le scelte che non hai fatto” (di Maria Perosino, già autrice di “Io viaggio da sola”, in uscita per Einaudi il 17 giugno), chiedendo di essere chiamate semplicemente “signore”, come tutte le altre. E ricordando che sono proprio loro, le donne single e felici di esserlo, quelle che hanno alimentato generazioni di professioniste italiane: una ricerca recentissima della Fnomceo, la Federazione degli Ordini dei medici italiani, dice che il 30 per cento delle donne medico non ha figli, mentre per i colleghi maschi la percentuale precipita al 13 per cento. Ma la scelta alla sliding doors, figli o carriera, matrimonio o lavoro stabile, non basta più alle donne sole che decidono di restarlo e che si sentono o dovrebbero sentirsi libere di farlo, in una società che non vede più né il matrimonio né i figli al centro dei suoi valori. Ora chi non vuole sposarsi, chi vive bene in solitudine, chi non sente alcuna vocazione alla maternità chiede rispetto: “Siamo l’unica minoranza che non si è ancora ribellata”, scrive Connell, e ribadisce Adele, una delle blogger di “Amore di zitella”: “Mi chiamo Adele Reale, ho cinquant’anni e sono una zitella.
Mi chiamo Adele, ma potrei chiamarmi Mae Chest, Josephine Lafitte, Inge Bidermehier, Lola Cervantes, Naj Chen, potrei persino chiamarmi Antonella Cavallo come la mia autrice; i miei cinquanta ce li ho e non me li toglie nessuno. A dire il vero, potrei averne quaranta o anche trentacinque, non farebbe alcuna differenza.
Zitella, questo sì, la differenza la fa eccome!. A rendere difficile la vita di donne altrimenti appagate è lo stigma sociale, quello che circonda le donne sole più di qualunque altra forma di famiglia: «Lasciatemi dire a chi come voi porta con orgoglio una fede al dito, a chi la sta per infilare e a chi sa che presto accadrà; ai portatori sani di sguardi di invidia, di pietà, di compassione, di rimprovero o di monito — come quelli di mia madre — ai vari: “Tu pretendi troppo”, “Sei troppo selettiva”, “Sei esigente”, “Tu sì che hai capito tutto dalla vita”, “Stai troppo bene così”, “Ma ti piacciono le donne?”, “Sei troppo indipendente”, “Goditi la libertà”. In altre parti del mondo va anche peggio: nella Cina che rimpiange le politiche anti-natalità, per esempio, le donne non sposate si chiamano leftover, letteralmente “avanzi”, sheng nuin ideogrammi. E Leta Honger Fincher, sociologa cinese, ha denunciato il loro dramma: spesso si sentono costrette a cercare un marito qualsiasi (un marito finto, come i finti fidanzati proposti su Facebook alle ragazze italiane, come raccontato nell’articolo accanto) nonostante una carriera promettente e una buona autonomia economica, perché altrimenti l’isolamento sociale sarebbe troppo forte.
In Italia, la pressione è meno forte, prevale l’idea della decisione: «Credo che sia un 49 per cento, la scelta che mettiamo da parte per un soffio — racconta Maria Perosino, che nel suo nuovo libro confronta i propri passaggi esistenziali di donna senza figli a quelli di amiche d’infanzia, intervistate da lei, che invece li hanno fortemente voluti, insieme a un marito — Le cose che lasciamo indietro, fidanzati che non diventano mariti, amori che finiscono, bambini ai quali abbiamo pensato ma che non sono nati, fanno parte delle nostra storia. Che però è andata diversamente, senza che la si debba rimpiangere». Ma le domande indiscrete di amici e parenti disturbano, e molto, come rivela l’ultima indagine italiana di Meetic, il più grande sito di incontri: il 69 per cento è infastidito dalle domande sul suo status sentimentale, il 43 per cento mette in cima all’elenco «perché sei ancora single?», seguito da «dovresti provare a essere meno selettiva» (raccomandazione rivolta soprattutto alle donne). Un terzo non gradisce essere invitata insieme a altri single, mentre il 74 per cento preferisce non rispondere e lasciare che l’inquisitore si renda conto del “disagio” che ha provocato. Ma l’11 per cento si alza e se ne va: basta zitelle, spinster, vieille fille (in francese) e santerona (in spagnolo). La vita è mia e la decido io, e pazienza se, come avverte l’ultimo rapporto di Coldiretti, la libertà costa cara, fino al 66 per cento in più per cibo e affitto: vivere soli costa 320 euro al mese soltanto per il cibo e le bevande, contro i 240 delle famiglie di 2/3 persone, colpa delle confezioni troppo grandi e dell’impossibilità di riciclare gli avanzi. In molte pensano che ne valga la pena, e tengono sul comodino Emily Dickinson e Barbara Pym.

il Fatto 9.6.14
Quei 1.653 tesori rubati da Hitler
Rischiare la vita per  salvare un quadro
All’appello mancano oltre duemila opere, che nessuno richiede alla Germania
di Tomaso Montanari


Operazione salvataggio è un libro che riesce a dire con forza e con chiarezza la verità più importante (e però più difficile da fare passare) sul patrimonio artistico: e cioè che le opere d’arte non sono importanti in se stesse, ma sono importanti per la relazione che hanno con gli esseri umani.
Salvatore Giannella ha saputo cucire in un unico racconto le storie degli eroi senza uniforme che hanno salvato le opere d’arte italiane e spagnole durante la Seconda guerra mondiale e durante la Guerra civile, e quelle di altri eroi più recenti: i custodi temporanei della memoria storica dell’Afghanistan, i salvatori del fittissimo tessuto artistico della ex Iugoslavia, quelli che in queste ore lottano per difendere l’enorme e cruciale patrimonio della Siria, in gravissimo pericolo. Il messaggio è chiarissimo: queste non sono storie del passato. Chi si è appassionato vedendo Monuments Men di George Clooney deve sapere che quello è solo un prezioso, ma piccolo, tassello di un mosaico in divenire.
Il tesoro ancora nascosto
E questo è vero anche in senso letterale. La notizia più clamorosa contenuta nel libro di Giannella è che l’Italia deve ancora recuperare 1653 opere d’arte elencate nel famoso rapporto di Rodolfo Siviero (il più celebre cacciatore di opere d’arte trafugate durante la guerra), e con ogni probabilità ancora disseminate per la Germania e l’Europa dell'Est. E nemmeno il pugno di addetti ai lavori che ne è al corrente, sa forse che da anni nessuno lavora per tentare di riportarli in patria. Il libro contiene una rarissima intervista all’avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli, che fino al suo recente pensionamento è stato a capo della commissione che si occupa del recupero delle opere d’arte esportate illegalmente dall'Italia. E se Fiorilli parla dei successi ottenuti nel contrasto ai furti d’arte recenti, egli denuncia il totale disinteresse nei confronti di quelle 1653 opere inghiottite dalla Germania hitleriana: “Sono in difficoltà a dire queste cose, ma il mio dovere di cittadino me lo impone. I ministri che si sono succeduti alla guida dei Beni culturali non si sono assolutamente interessati di questi problemi, anzi si sono opposti a queste attività. Il neoministro Dario Franceschini si avvale della diretta collaborazione degli stessi personaggi che affiancavano i precedenti ministri. Il che mi fa essere pessimista sul futuro”.
In effetti i politici, ma anche i diplomatici, non hanno alcun interesse a mettere sul tavolo delle relazioni internazionali una questione potenzialmente assai imbarazzante: e così il dossier di Siviero rimane in attesa di tempi e uomini più coraggiosi e più giusti.
Uomini come quelli che, per nostra fortuna, non mancarono durante l’ultima guerra. Quello che esce dal libro con maggior vivezza è Pasquale Rotondi, il grande amore di Salvatore Giannella, che ne ha pubblicato l’avvincente diario degli anni della guerra e gli ha dedicato una puntata della Storia siamo noi. Proprio nell’anno - il 1939 - in cui vara la grande (e per nulla fascista) legge di tutela numero 1089, il ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Bottai prepara un piano segretissimo per mettere al sicuro il patrimonio artistico italiano, minacciato dalle bombe ma anche dalle razzie ordinate da Hermann Göring, numero due del regime nazista e avidissimo collezionista. L’idea è scegliere alcune fortezze storiche particolarmente inattaccabili e concentrarci le opere dei musei e del territorio: ma per attuare l’operazione occorre poter contare su soprintendenti e funzionari fedeli, fantasiosi e coraggiosi. Uomini come Rodolfo Siviero, Bruno Molaioli, Emilio Lavagnino, Giulio Carlo Argan e, appunto, Pasquale Rotondi. A quest’ultimo, soprintendente di Urbino, tocca allestire, riempire e sorvegliare la Rocca di Sassocorvaro e il Palazzo dei Principi a Carpegna: tra il 1940 e il 43 questi due luoghi si trasformano nei più favolosi musei della storia umana. A Sassocorvaro si concentrano circa 10.000 opere: l’intero patrimonio delle Marche e una grande parte di quello di Venezia. A Carpegna arrivano ancora opere veneziane (l’intero Tesoro di San Marco, per dire), quelle di Brera da Milano, 43 casse da Roma, contenenti tra l’altro i Caravaggio di San Luigi dei Francesi e di Santa Maria del Popolo.
In fuga da Goering
Ma dopo l’8 settembre del 1943 anche queste fortezze sono in pericolo. Così Rotondi è costretto a improvvisare, e carica sulla sua Balilla sgangherata le cose che gli sembrano più preziose, tra cui il San Giorgio di Mantegna e un gruppo di Madonne di Giovanni Bellini e Cosmé Tura. Un giorno di ottobre porta tutto a casa, e lo nasconde sotto il letto. La prima notte la trascorre sveglio, con la moglie, a contemplare ammutolito la Tempesta di Giorgione, appesa in camera. E qui si arriva diritti al presente: quanti veneziani, quanti italiani, quanti turisti che si commuovono di fronte a questo picco della creatività umana sanno che devono questa esperienza unica anche a Pasquale Rotondi, che Giannella definisce felicemente uno “Schindler dell’arte”? È importante ricordarlo con forza oggi, quando le soprintendenze sono al centro dell'attacco più violento della storia repubblicana. Matteo Renzi si è scagliato contro “la casta delle sacerdotesse e dei sacerdoti delle sovrintendenze”, scrivendo che “Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che?”. Ora, da presidente del Consiglio, Renzi sta coerentemente mettendo le premesse per l'abolizione dei ruoli a cui appartenne Pasquale Rotondi. Certo, le soprintendenze hanno sempre avuto come nemico il sottofinanziamento, gli organici scarsi (mentre salvava tutto quel ben di Dio, Rotondi supplicava inutilmente il Ministero: “Non ho un ispettore, non un segretario, non un assistente!”), gli stipendi da fame. Ma non si era mai registrato un simile odio da parte della politica: e il libro di Giannella ci aiuta a ricordare che gli entusiasmi stritolati dalle soprintendenze furono anche quelli di Hermann Göring.
Tra i tanti messaggi attuali di Operazione salvataggio ce n’è specialmente uno che non dobbiamo dimenticare, ed è racchiuso nella storia della salvezza di Borgo Sansepolcro. Nel 1944 il capitano inglese Anthony Clarke aveva solo 28 anni, e si trovava a comandare la squadra di artiglieria incaricata di stanare i tedeschi dalla cittadina toscana. Mentre Clarke guarda col binocolo verso il suo bersaglio, e dopo che aveva già ordinato alcuni tiri, venne assalito da un dubbio: “Sansepolcro non mi era nuova - racconterà poi - Perché conoscevo il nome di quella città?”. Dopo qualche minuto il capitano ricordò che dieci anni prima aveva letto, diciottenne, un libro in cui Aldous Huxley diceva che il più bel dipinto del mondo era la Resurrezione di Piero della Francesca, proprio a Sansepolcro. Terrorizzato all'idea di averlo già colpito, e forse distrutto per sempre, Clarke disobbedisce agli ordini e (rischiando la corte marziale) sospende il fuoco. Il giorno dopo gli americani entrano in città, per fortuna senza conseguenze, e Clarke si precipita a vedere l'affresco di Piero: intatto. Morale: la più efficace difesa del patrimonio culturale è quella che si costruisce con le idee, le parole, i libri. È per questo che siamo grati a Salvatore Giannella, e al suo amore per gli eroi sconosciuti che hanno salvato e continuano a salvare l'arte (e con essa la civiltà e la democrazia) dalle guerre.

il Fatto 9.6.14
Gli eroi di George Clooney


AL CINEMA L’azione di salvataggio delle opere d’arte in tempo di guerra, in questo caso la Seconda mondiale, ha il nome di un film diretto e interpretato da George Clooney, Monuments Men. Mentre le forze alleate stanno sferrando il loro attacco alla Germania lo storico dell'arte Frank Stokes ottiene l'autorizzazione da Roosevelt in persona per mettere insieme un gruppo di esperti che cerchi di recuperare le opere d'arte che Hitler ha fatto portare via e nascondere in previsione della costruzione del Museo del Fuhrer. In caso di sconfitta del Reich l'ordine è di distruggerle. L’azione è assicurata dal team che si viene a formare: due storici e un esperto d'arte, un architetto, uno scultore, un mercante, un pilota britannico e un soldato ebreo tedesco. Dopo aver ingaggiato i vari componenti del gruppo, chiamati appunto "Monuments Men", il team si sposta in Inghilterra per l'addestramento base e in un accampamento in Normandia, dove i soldati hanno sorpreso alcuni tedeschi intenti nella rapina di alcuni quadri di Claude Monet, vengono a sapere che questi erano diretti a Siegen, in Germania. Si saprà poi che Hitler ha diramato una direttiva che ordina la distruzione di tutti i tesori in caso di sconfitta del Reich. Ovviamente sarà un successo e, a guerra finita, l'amministrazione statunitense provvede a catalogare tutte le opere ritrovate e a restituirle ai rispettivi luoghi di appartenenza.

il Fatto 9.6.14
La mostra a Villa Torlonia
Le opere dei lager, bellezza rimasta come memoria


C’è un aspetto del rapporto tra l’arte e la Seconda Guerra Mondiale che è stato pressoché totalmente trascurato: ed è quello che Giannella chiama dell'”arte dell’Olocausto”. Il libro racconta la storia di Roberto Malini (Milano 1959), uno scrittore che dal 1995 ha cominciato a raccogliere opere d'arte realizzate da artisti ebrei subito prima e durante la prigionia nei campi di sterminio nazisti. Malini ha messo insieme una collezione di centosettanta opere, che ha poi donato al Museo della Shoah di Roma e che l’anno prossimo saranno esposte a Villa Torlonia, residenza di Benito Mussolini.
Malini è stato ispirato da una frase sovrumana del diario di Anna Frank: “Non penso a tutta la miseria, ma alla bellezza che rimane”. Ed è questo il punto: la mostruosa furia del nazismo non è riuscita a distruggere del tutto quella bellezza, purché ci siano occhi disposti a vederne, raccoglierne, amarne i frammenti. Occhi come quelli di Malini.
LE OPERE VISIBILI A ROMA sono testimonianze assai interessanti di quella che si può forse chiamare l’arte popolare yddish della metà del XX secolo, ricca di molti elementi che ricorrono nel linguaggio di Marc Chagall (una cui opera è presente nella raccolta): e la loro qualità è un’ottima ragione per raccoglierle e conservarle.
Ma un motivo forse più grande è il loro valore memoriale e storico: si tratta di assicurare un’altra vita, e una vita potenzialmente illimitata, a esseri umani dei quali Hitler avrebbe voluto cancellare anche il ricordo. Non si tratta solo di un progetto educativo, ma del tentativo (tragicamente vano, ma necessario, vitale, ineludibile) di risarcire quelle vite, di contrastare la cecità della distruzione fine a se stessa. Le opere d’arte sono sempre individui: in questo caso sono individui che vivono al posto di coloro che le hanno create. E per questo sono doppiamente, atrocemente preziose.
Insieme alle opere, Malini è riuscito a raccogliere alcune testimonianze degli ultimi artisti sopravvissuti ai lager. Una particolarmente toccante è quella di Jacob Vassover, nato in Polonia nel 1926 e oggi vivo, e artisticamente attivo, in Israele: conviene lasciargli la parola. “Eravamo felici, finché non iniziarono le persecuzioni . All’inizio dell’occupazione trovammo rifugio in una mansarda, a casa di amici. ... Le giornate in quella mansarda non finivano mai. Me ne stavo seduto tutto il giorno alla finestra e disegnavo tutto ciò che vedevo. Disegnavo su carta, su legno, dappertutto. Mi sentivo incaricato a documentare quel che succedeva nel Ghetto, le cose che vedevo con i miei occhi: gente che veniva uccisa, cadaveri che venivano trasportati sui carri, per essere seppelliti nelle fosse comuni. Disegnavo tutto ciò che vedevo e sentivo, ogni volta che c'era un'impiccagione. qualsiasi cosa succedesse nel Ghetto”. Nonostante una disperata ricerca, Vassover non è poi mai riuscito a ritrovare quei duecento, terribili disegni.
MA QUELL’INCUBO NON È MAI FINITO: “Rivivo tutte le brutture che ho passato durante l’Olocausto giorno dopo giorno, ogni notte, anche nei sogni. Il colore dominante dei miei quadri è il rosso perché è il colore che mi appare nei sogni. Qualcuno si chiede se sia giusto dipingere la Shoah. per me è una missione, non una questione di volontà, lo farà finché vivo. ... Amo dipingere i rabbini. Due dei nostri vicini di casa erano rabbini. Uno dei due aveva un viso molto particolare. In ebraico si chiamano Nadra Panim, sono i volti che incutono rispetto. Chiunque lo incontrasse per strada si toglieva il cappello. Ricordo che sua moglie preparava torte e biscotti squisiti per tutti i bambini del vicinato».
Poter rivedere quel volto, poter sentire di nuovo il profumo di quei biscotti: l'arte di Vassover cattura e rende eterni quegli ultimi momenti di vita, travolti dall'Olocausto. È una forma di resistenza, di affermazione di umanità nonostante tutto.
E in questo caso ad essere salvata non è l'arte: è la nostra anima. Per quanto possibile.

il Fatto 9.6.14
Gian Lorenzo Bernini, Cappella Cornaro Roma, Santa Maria della Vittoria, 1647-51
Pasticcio di marmo, ricetta capolavoro
di Tomaso Montanari


NIENTE VA PERDUTO
Se nella grande cucina delle rovine della Roma antica trovate un po’ di marmi vecchi, rotti, mescolati, consumati: ebbene, potete riusarli per costruire un mondo, tutto nuovo, di colori, di macchie, di disegni fantastici. È una vecchia ricetta di maestro Gian Lorenzo: il più gran pasticciere del marmo avanzato.
Allora, se avete, diciamo, un blocco abbastanza grande di Verde antico di Tessaglia (è meglio, ma non essenziale, che sia chiazzato di bianco), tagliatelo a fette per la lunghezza: mi raccomando, fette sottili. Vi deve bastare e non si sprecano gli avanzi!
Con queste fette procedete ad impiallacciare alcune lesene (che sono delle cugine delle lasagne, ma più dure), già preparate allo scopo. Cioè incollatele su dei rettangoli lunghi e stretti, per capirsi.
Per le paraste (che sono lesene più serie), invece, tagliate del Giallo antico di Numidia, stando attenti a mettere a partito le venuzze nere. Davanti alla paraste, ci vogliono, è ovvio, delle colonne: se riuscite a trovarne alcune – tutte intere s’intende: non scherziamo – in Breccia africana, sarà davvero perfetto. Ora bisogna pensare alle specchia-ture : e andrà benissimo dell’Alabastro tartarugato (o, se proprio, non ne avete, va bene anche dell’Alabastro a nuvola: ma non ci accontentiamo di altri sostituti), con un nonnulla di Breccia rosa, o di Semesanto. Infine, completate con del Bianco e nero di Aquitania, con del Rosso di Francia, con dell’Alabastro bruno di Sicilia. E, se ne avete, anche con un poco di Lapislazzuli. Che costano: e dunque vanno usati con molta, ma molta, oculatezza. Ora potete servire: ecco la Cappella Cornaro.
Vi diranno che manca l'unica cosa che tutti conoscono di questo piatto: la statua di Santa Teresa. O almeno i ritratti dei cardinali. O l'angioletto dolce e cattivo. È vero: ma questo, appunto, lo sanno tutti (o quasi). E noi oggi vogliamo goderci quello che ci perdiamo sempre. E se le figure sono importanti, anche i marmi che le incorniciano lo sono. E alla fine non li degniamo di uno sguardo. Eppure, una ragnatela di mani ha per millenni reincollato la Roma antica nella Roma moderna. È come se la luce e il colore non si fossero mai spenti: anche quando le figure parlavano ormai una lingua tanto diversa da essere incomprensibile.
Allora, voi non fatevi spaventare. Servite il vostro pasticcio di marmi colorati.
Accompagnatelo con una luce da ottobrata romana, e con la voglia di giocare con gli occhi. Buon appetito. E attenti ai denti.

La Stampa 9.6.14
Jack London barbone tra i barboni
Il popolo dell’abisso: un reportage dello scrittore americano armato di macchina fotografica nella Londra derelitta di inizio ’900
di Maurizio Cucchi


Jack London è stato un grande scrittore amato dagli uomini di cultura ma anche, e molto, dal popolo. Un tempo i suoi libri erano ben presenti nelle stesse case degli operai, per la sua capacità di mettere insieme realismo e avventura, osservazione del mondo e vivacità inventiva. D’altra parte la sua curiosità del mondo e delle cose, del modo in cui vivevano gli esseri umani del suo tempo, e in diversi paesi, è ben testimoniata, oltre che dalle vicende della sua breve esistenza (1876-1916), anche da alcune sue opere, come Il popolo dell’abisso, straordinario reportage che ora appare, a cura di Mario Maffi, nei nuovissimi Meridiani paperback di Mondadori (pp. XXVIII-273).
Nel 1902, a ventisei anni, London cominciava ad affermarsi come scrittore, quando ricevette dall’American Press Association la proposta di andare in Inghilterra e visitare i poverissimi quartieri londinesi dell’East End. Partì dalla sua casa di East Oakland, in California, portando con sé una macchina fotografica. Tanto è vero che in questo libro, pressoché sconosciuto in Italia, l’autore di Martin Eden propone alcune foto da lui scattate per meglio illustrare – per farlo in modo più diretto, visivo – l’ambiente miserabile in cui si trovò precipitato. E in una vediamo proprio lui, lo scrittore, accanto a un suo occasionale amico, un povero ciabattino, con il quale si era avventurato nella raccolta del luppolo, per constatare di persona quali fossero le tremende fatiche e i pochissimi spiccioli raccolti dai derelitti dediti a quel misero lavoro.
Immergersi nella realtà della Londra dei derelitti porta Jack London a condividere personalmente e quasi totalmente le loro stesse condizioni e abitudini di vita. Cerca per esempio un alloggio miserabile, va a comperarsi vestiti da autentico straccione, si mette più volte in coda per entrare di notte in un ospizio per disoccupati, vagabondi, lavoratori occasionali poverissimi, dormendo come loro in brande sudice e mangiando la loro stessa «broda», vale a dire un misto di acqua e farina che alle prime cucchiaiate gli provoca un vivissimo senso di schifo. Questi disgraziati andavano a mettersi in coda per ore davanti alla porta dell’ospizio, già nel primissimo pomeriggio, e se i posti disponibili erano venticinque e gli aspiranti trentacinque, gli ultimi dieci dovevano rassegnarsi a una notte all’aperto. E cioè a una notte senza dormire, perché i poliziotti giravano impedendo persino un sonno da barboni su una panchina o sotto un albero nel parco. In ogni caso, chi veniva accolto nell’ospizio, doveva poi ripagare, lavorando, l’ospitalità e il buon cibo offerto. London riuscì anche a intrufolarsi nel ricovero dell’Esercito della Salvezza, regalandoci una foto molto eloquente della folla dei poveracci in attesa di poter entrare.
Ci racconta poi delle donne che la mattina presto si mettevano in strada con sacchi di pane secco, per venderlo agli operai in cammino verso il lavoro; ci presenta un giovanotto anche lui immerso nella miseria dell’East End al quale chiede quale sia lo scopo della sua vita. E questa è la risposta agghiacciante: «Ubriacarmi». La birra è come un fiume che scorre in questi derelitti, per i quali il pub è l’unico autentico rifugio: «Si può dire che le classi lavoratrici inglesi siano immerse fino al collo nella birra. Dalla birra sono rese apatiche e inebetite, la loro capacità lavorativa tragicamente spezzata e indebolita». E quanto mai diffusa era anche la tendenza al suicidio, come solo mezzo definitivo per liberarsi della quotidiana sofferenza, per annullare la disperazione. E chi tentava di darsi la morte senza successo veniva anche processato.
Come ci dice Maffi nel saggio introduttivo, «affiora in questo libro […] quell’ostinata immagine dell’America come contraltare a un Vecchio Mondo ormai incapace di produrre nuova linfa vitale» e il giovane scrittore socialista si mostra «inorridito alla vista dell’abisso dell’East End londinese per sognare i “grandi spazi aperti del West”, il “West vario e luminoso”, e celebrare con nostalgia la giovane razza vigorosa che si moltiplica al di là dell’Atlantico». E conclude però interrogandosi sulla Civiltà, rilevando come abbia «accresciuto di almeno cento volte la capacità produttiva dell’uomo, ma a causa di una cattiva gestione gli uomini che di questa Civiltà fanno parte vivono peggio delle bestie».
Ma in questa perlustrazione fitta e appassionata di una realtà sociale sprofondata nell’abisso della miseria disperata – oltre le illusioni di un mondo nuovo e realmente nuovo, l’America – ci incanta la voce dello scrittore, la sua capacità di oltrepassare i confini del semplice reportage, per darci l’emozione di entrare insieme con lui nell’inferno di una condizione umana che ha spazzato via innumerevoli esseri senza neppure dare loro il privilegio della parola, della testimonianza di un lamento.

Corriere 9.6.14
Thomasius

l diritto naturale viene dalla ragione
di Armando Torno


Influenzato da Ugo Grozio e Samuel Pufendorf, anzi continuatore di quest’ultimo, il tedesco Christian Thomasius (1655-1728) è un pensatore non particolarmente di moda ma al quale la filosofia moderna deve la distinzione tra diritto e teologia morale. Egli testimonierà con la sua opera che il diritto naturale va considerato indipendente dalla volontà di Dio e si basa esclusivamente sulla ragione. Il suo principio supremo è evangelico: «Non fare agli altri quanto vuoi non sia fatto a te». Ora, a cura di Gianluca Dioni (con una postfazione di Vanda Fiorillo), esce presso Franco Angeli la prima traduzione italiana de I Fondamenti del Diritto di Natura e delle Genti(pp. 256, e 32). Sono stati traslati il Caput Prooemiale e il primo libro, «perché essi rappresentano — nota il curatore — il cuore del “nuovo” giusnaturalismo thomasiano». È il pensiero della maturità: in quest’opera si deducono «dal senso comune» quei fondamenti del diritto di natura e delle genti e sono in essa distinti i principi dell’onesto, del giusto e del decoro; le pagine sono del 1718.

La Stampa 9.6.14
Svolta storica, un computer supera
il test di Turing sull’intelligenza
Un software si presenta come essere umano, la Royal Society non riesce a smascherarlo
di Bruno Ruffilli

qui

Repubblica 9.6.14
In onda su Sky Atlantic
A lezione di sesso da Masters e Johnson

TRA falsi miti e tabù, il sesso è ancora oggi un mondo sconosciuto. Se molti faticano a raccapezzarsi, di certo non avevano questa difficoltà il ginecologo William Masters e la sua assistente Virginia Johnson. Furono loro infatti, nei morigerati anni 50, a compiere le prime ricerche sulla sessualità umana. Ai due pionieri dello studio del sesso e alla loro storia è dedicata la serie Masters of sex, che da stasera approderà su Sky Atlantic HD (canale 110) alle 21.10. Ispirata al libro di Thomas Maier Masters of Sex: The Life and Times
of William Masters and Virginia Johnson, Masters of sex , interpretata da Michael Sheen e Lizzy Caplan, racconta gli 11 anni durante i quali William e Virginia realizzarono le loro ricerche, senza paura di essere considerati depravati. Ma la serie documenta anche la relazione sentimentale che li legò, e che li portò al matrimonio nel 1971. Oltre a scoprire (con qualche scena hot) un mondo di pregiudizi di sfatare, di cui spesso si parla poco e male, la serie permette al pubblico di entrare all’interno delle dinamiche familiari.