martedì 10 giugno 2014

l’Unità 10.6.14
Livorno
Il dramma di un partito che si sentiva invincibile
La disfatta annunciata apre la resa dei conti


Come diceva Lenin: per fare una frittata bisogna rompere le uova. Ea Livorno la frittata è storica. Il giorno dopo il ballottaggio vinto dal grillino Filippo Nogarin il sole picchia duro, ma a picchiare ancora più duro sul Pd e sul suo sfidante Marco Ruggeri è il cocente ko di domenica notte.
Consegnare il Comune al Movimento 5 Stelle probabilmente non era nelle previsioni, con il centro sinistra forte del suo vantaggio di oltre venti punti, ma tutto è stato ribaltato dalla metà dei livornesi che è andata a votare. Infatti il primo punto che balza agli occhi è proprio il crollo dell’affluenza, che sembrava potesse nuocere a Nogarin, invece conti alla mano a mancare sono stati proprio i voti del Pd. La scarsa affluenza, di poco superiore al 50,3 per cento contro il 64,5 per cento del primo turno, sembrava dovesse favorire il centro sinistra. Ma così non è stato. E ora Ruggeri si lecca le ferite e da buon capitano si assume tutte le responsabilità di questa disfatta, che porta per la prima volta dopo 68 anni la sinistra all'opposizione. Nella tornata elettorale in cui i democratici hanno ottenuto alle europee un successo considerevole con il 40 per cento in Italia, più del 53 per cento a Livorno, la città che vide nascere il Pci nel 1921, decide di voltare pagina consegnando l'amministrazione comunale proprio al M5S, unica vera opposizione a Renzi in Parlamento. Quella di Livorno «è una sconfitta ad alta carica simbolica» commenta il deputato Pd e segretario regionale Dario Parrini. Più che un graffio è una ferita profonda. E per rendersene conto basta andare alla sede del Pd livornese di via Donnini, a poche centinaia di metri dalla stazione centrale. Fuori capannelli di persone a commentare la sconfitta, le facce sono la fotografia del dramma che sta vivendo il partito, che da queste parti sembrava invincibile. Al centralino da oltre vent’anni c’è Bruno ancora sbigottito per quanto è successo «ora questo partito si deve interrogare per capire come mai è accaduta questa cosa» commenta. In due decenni ne ha vista passare di politica. Ma aggiunge «non pensavamo che si potesse arrivare ad un risultato del genere». «Se c’è stata questa svolta è perché le ultime amministrazioni non hanno poi funzionato tanto bene» è l’analisi di Elio, con in tasca la tessera del Pd. Al piano superiore c’e’ il segretario cittadino dei democratici livornesi, Yari De Filicaia, ancora incredulo. Parla a voce bassa, non riesce a capacitarsi come sia stato possibile perdere pur partendo con un vantaggio di venti punti sui grillini «onestamente è stata una sorpresa» dice.
Sentendo in giro i livornesi però per loro la disfatta di Ruggeri e del Pd non lo è. «Era ora, dopo settant’anni ci erano venuti a noia» commenta un tassista fermo con la sua macchina fuori dalla stazione. «Livorno è allo sbando» rincara un suo collega «le navi le portano tutte a La Spezia, le strade sono rovinate, la gente non lavora, dopo settant’anni basta». Evidentemente il Pd non è riuscito a calamitare la voglia di cambiamento che si respirava in città e lo stesso Ruggeri non è apparso un candidato di rottura con un apparato che a molti è sembrato ingessato. «Penso che lui abbia pagato colpe non sue» osserva De Filicaia «in città è passato il messaggio che non ci doveva più essere un governo del Pd locale». E ora? Il segretario fa un passo indietro e mette sul tavolo le sue dimissioni. E sul futuro, sulla possibilità di una scalata renziana dentro il partito spiega «abbiamo la capacità di fare una riflessione serena, non è il caso di mettere il carro davanti ai buoi». Ma l’impressione è che dopo la domenica “bestiale” nel partito sia già pronta la resa dei conti. Il primo ad uscire allo scoperto è il sindaco uscente Alessandro Cosimi: «Ruggeri non era il candidato giusto» dichiara il giorno dopo il ballottaggio e le ragioni della sconfitta «vanno ricercate innanzitutto all’interno del Pd. Ci sono poi fattori di sofferenza locale, di un modello di sviluppo giunto al capolinea». In realtà quella di Nogarin è stata una rimonta colossale, che si spiega solo con un voto trasversale anti-Pd e anti-Ruggeri. E lui lo aveva capito subito già domenica notte via via che arrivavano i risultati dei seggi «non hanno neppure guardato i programmi, c’era troppa voglia di cambiare, siamo stati investiti da un’ondata». Ruggeri con quel suo “Punto e a capo” aveva annusato che a Livorno si era rotto qualcosa, che il feeling con il partito non era più lo stesso. Ma non è bastato, beffardamente il punto e a capo c’è stato. Ma non come pensava lui.
Per tastare il polso alla città basta andare al mercato centrale. Il solito via vai. «Tanti credono che cambi qualcosa, vedremo. Secondo me stare fermi un giro può essere salutare, qui tutti nel Pd erano seduti convinti di vincere sempre, la gente francamente è stufa, anche chi ha votato Ruggeri come me, vediamo se cambia qualcosa» dice un giovane che ci tiene a definirsi un “compagno”. C’è anche chi se la prende con Renzi, non come premier, ma come leader nazionale del Pd, «perché non è venuto qui a Livorno, forse sapeva di perdere e non ci ha voluto mettere la faccia».
Ora tocca a Nogarin. Ha già confermato di voler scegliere i futuri assessori, il segretario comunale e i vertici delle società partecipate attraverso un bando pubblico. Ovviamente via web, curricula spediti entro il 17 giugno. Chiuderà il rigassificatore di Livorno? «Magari, si». E il nuovo ospedale? «No, non lo faremo costruire» dice parlando ai giornalisti. Rivela di aver ricevuto una telefonata da Grillo, che gli ha chiesto anche 50 euro forse per una scommessa vinta «mi sento come un gatto nella centrifuga». A proposito il direttore del Vernacoliere, Mario Cardinali, gli ha già consigliato di cambiare cognome perché a Livorno quelli veneti non hanno mai funzionato granché

La Stampa 10.6.14
Livorno la rossa si risveglia grillina e sussurra: “Era ora”
Nogarin ha raccolto molti voti del centrodestra ma anche di buona parte del Pd e della sinistra
di Jacopo Iacoboni


«I livornesi si sono emancipati dal Pd, ora bisognerà vedere se riusciranno a emanciparsi da se stessi». La chiave migliore la dà Simone Lenzi, scrittore, cantautore, leader di una band di culto italiana (livornese) i Virginiana Miller, bevendo un caffè davanti alla statua dei quattro mori, nascosta sotto le impalcature: un po’ come le terme del Corallo assurdamente celate da un cavalcavia, simbolo di una città dove il Pd ha fallito.
Lenzi era stato indicato come assessore alla cultura del candidato sindaco Pd, lo sconfitto, Marco Ruggeri, ma è chiaro che è un esterno, che parla senza remore della Sconfitta. «Tutti in città, se chiedi, ti dicono “era ora”, c’è questo senso di necessità profonda di cambiamento. Se quel cambiamento l’avesse intercettato il Pd sarebbe stato graduale, ora io temo ci siano elementi di salto nel buio; per una ragione: mentre a Parma se azzeri il comune e l’economia legata al pubblico resta un tessuto industriale solido, qui a Livorno se azzeri da un giorno all’altro il comune e il sottobosco delle aziende partecipate, non resta nulla». Il deserto.
Ma che Livorno sia questo deserto è cosa effettivamente imputabile al Pd, che governa da sempre - nelle sue varie trasmutazioni. Così è abbastanza naturale che il neosindaco cinque stelle, Filippo Nogarin, presentandosi in piazza il giorno dopo la vittoria - jeans, bici, camicia bianca, braccialetto di perline, orologio da vela con cinturino azzurro, dica, testuale: «Noi siamo molto più di sinistra del Pd; nei fatti, non a parole. Il Pd non è più sinistra». Frase curiosa, in un Movimento che fa un mantra del «non siamo né di destra né di sinistra», ma è evidente che per vincere qui serviva riscoprire la tendenza-franchising.
Perché è certo che Nogarin al ballottaggio è stato votato da pezzi compatti di elettorato di centrodestra, e di destra; ma non solo da quelli. Ci sono pezzi interi di Pd locale. C’è una lista, «Buongiorno Livorno», che aveva il 17% e prima del secondo turno ha fatto un’assemblea e votato che la sua indicazione era per i cinque stelle: nonostante sia una lista di «sinistra civile». Gli ultras del Livorno, comunistissimi, hanno fatto campagna attiva per Nogarin: «Sì, l’abbiamo votato», dicono i loro capi storici. Nel Pd diverse aree sono assai sospette di voto pro M5S. Prendete Lamberti, il predecessore del sindaco uscente Cosimi: la moglie di Lamberti, per dire, entrando in un negozio una settimana fa sussurrava che avrebbe votato cinque stelle. E lo stesso Ruggeri, chiacchierando con qualcuno prima del ballottaggio, confidava: «Chi me l’ha fatto fare di candidarmi...».
È la cronaca di una morte prevista: del Pd, più che della sinistra, nella città col tasso di disoccupazione doppio rispetto alla media toscana. Renzi lo sapeva e se n’è stato alla larga, non ha neanche mandato il ministro Boschi; anche perché il Pd che perde è quello classicamente antirenziano: Ruggeri era in Regione col governatore Rossi (dalemiano storico); ed è apparso - nonostante l’età - in totale continuità con Cosimi, l’ex sindaco ormai inviso, considerato il terminale del sistema di potere locale. «E invece - riflette Lenzi - serviva una chiara rottura». Diciamo che la rottamazione, a Renzi, qui gliel’ha fatta Grillo.
Naturale che Paolo Virzì abbia rifiutato l’offerta di candidatura a sindaco Pd (come le giornaliste Concita De Gregorio e Eva Giovannini); e in campagna elettorale il regista di Ovosodo ha detto agli amici che avrebbe voluto un candidato più capace di far percepire «un cambiamento, un rinnovamento forte». Così non è stato.
Nogarin non appare un fulmine, ma neanche - il che potrebbe giovargli - un esagitato. Per Diego Bianchi, Zoro, è il sosia del cronista Rai Mazzocchi. Insomma, uno rassicurante. Dice «sceglierò la giunta con un bando», all’inglese. Oppure «ci batteremo
contro l’ospedale nuovo». Dice - questo davvero inedito - «voglio che Livorno faccia rete con Pisa». Il che - per uno oltretutto nato a Castiglioncello - sarebbe l’unica rivoluzione certa nel regno dei campanili. «Ne vedrete delle belle», promette. E in redazione al Vernacoliere, tempio satirico e anticlericale, il direttore Mario Cardinali (che pure ha votato Grillo) già sfotte: «Ci basterebbero delle discrete; anche se non sono la nipote di Mubarak».
Ps, a proposito di anticlericali: a Livorno persino il vescovo Simone Giusti ha già scritto al sindaco cinque stelle: «Se farà correre e volare il nostro territorio, confidi nella nostra collaborazione». Ma Livorno, si sa, è il mondo capovolto.

La Stampa 10.6.14
Il direttore del “Vernacoliere”
“L’ho votato perché qui serviva una svolta vera”


Eccolo qua, Mario Cardinali. Il direttore del leggendario Vernacoliere. Un uomo mite, elegante, ma vero spiritaccio anarchico, molto livornese. E’ lui l’autore di titoli celebri in cui non ce n’è per nessuno.
A partire da Grillo, di cui lei scrisse «Minacciato Grillo. N’hanno caato sur blogghe». Ma è vero che ha votato M5S?
«Grillo non mi convince, l’ho votato perché serviva qui una ventata, l’unica possibilità sono questi giovani. A Livorno siamo nel pantano totale, la condivisione di responsabilità è diventata correità politica».
Certo il M5s vi darà materia, no?
«E ti credo! Qui siamo liberi pensatori, con Grillo già mi sono sbizzarrito, ma ormai “Un Grillo in ulo” è vecchio. Ora però c’è quasi poco da scherzare, ha visto Livorno? Ha visto il porto? Gli scempi edilizi? Il deserto?».
Immagino già che avete varie ipotesi per il prossimo numero.
«Ma sa, la battuta viene sul momento. A Nogarin direi “Il primo sindaco livornese non rosso l’è veneto”. Gira quest’altra “Le scie imiche fanno bene!”».
E su Renzi?
«Sa come si dice da noi? I fiorentini hanno orecchi (lui lo dice al maschile) polverosi, so’ un po’ gay... Leggo che questo voto è la fine della sinistra... ma da mo’ che era finita, direbbe un napoletano...».
Un titolo per loro?
«Si stanno già caando addosso: “State sereni”».

il Fatto 10.6.14
Epopea livornese
La rivolta dei trinariciuti
di Giorgio Meletti


Non è dato sapere quanto abbia faticato il pisano Enrico Letta per non ridere mentre distillava la pensosa dichiarazione: “La sconfitta del Pd a Livorno merita una riflessione profonda perché del tutto inattesa”. Forse aveva in mente la sconfitta di un renziano livornese, soddisfazione doppia.
MA LA COLORITA chiave della rivalità con i pisani impallidisce di fronte alla catastrofe simbolica che si abbatte non su Livorno ma sulla casta post-comunista. La città simbolo della sinistra italiana festeggia la liberazione da un sistema che anche Il Tirreno, custode delle tradizioni politiche locali, ha accusato di “consociativismo, autoreferenzialità e immobilismo”.
È la storia stessa di Livorno a chiedere ai boss del Pd locale come abbiano potuto ridursi così. Non solo per quel monumento della memoria che è il congresso di fondazione del Pci, il 21 gennaio 1921, con Amadeo Bordiga, Antonio Gramsci e Umberto Terracini che guidano la scissione dal Psi (Palmiro Togliatti ancora pedalava nelle retrovie). Livorno è stata anche una piccola capitale del fascismo, a dispetto di una forte e radicata comunità ebraica e di un altrettanto fiorente presenza massonica. Era la patria dei Ciano, che negli anni del regime portarono alla città soldi e raccomandazioni, e costruirono la celebre terrazza Mascagni, che però fino alla Liberazione si chiamò terrazza Costanzo Ciano, padre di Galeazzo, genero del Duce e ministro degli Esteri.
Martoriata dai bombardamenti “alleati” (illogici come i bombardamenti alleati di cui si lamenta oggi lo sconfitto Marco Ruggeri), nel 1944, poche settimane dopo la fucilazione di Galeazzo Ciano ordinata non dai partigiani ma dal suocero, Livorno fu affidata dal Cln a un intellettuale comunista ventottenne , Furio Diaz, poi celebre come storico. Fu l’inizio di una serie ininterrotta: fino a domenica, per 70 anni Livorno ha avuto solo sindaci comunisti, o post, eletti a furor di popolo.
LO SCAMBIO era virtuoso. Il Pci affidava la sua città natale ai migliori livornesi in circolazione (dopo i dieci anni di Diaz ci furono i dieci del grande filosofo Nicola Badaloni). La città affollata di operai e portuali rispondeva con tale generosità da farsi sfottere con allegria come patria dei trinariciuti. Non solo con prestazioni in natura, come quella di accorrere al tribunale di Pisa quando c’era da dare qualche spallata ai radicali che tentavano per sfregio di togliere al Pci il posto in alto a sinistra della scheda elettorale (i pisani, avendo l’Università al posto del porto non avevano il fisico). Ma soprattutto con il voto. Lo score di Livorno è impressionante: il 18 aprile 1948, quando il Fronte popolare travolto dalla Dc si ferma al 31 per cento, a Livorno prende il 56 per cento. Nel 1976 il tentativo di sorpasso della Dc porta Enrico Berlinguer al massimo storico del 34 per cento, ma in valuta livornese fa il 53 per cento.
I livornesi sono pronti a svenarsi per qualsiasi cosa appaia anche vagamente di sinistra, dove però per sinistra si intende un profumo di pulito. Acclamano il concittadino Carlo Azeglio Ciampi, presidente della Repubblica non comunista, ma laico e antifascista senza ombre, eletto nel 1999 un po’ a sorpresa mentre la burocrazia del partitone trama per portare al Quirinale il democristiano Franco Marini. Si fanno piacere l’ex democristiano Romano Prodi, senza se e senza ma: alle politiche del 2006, praticamente l’altro ieri, le liste dell’Ulivo prendono a Livorno 81 mila voti, il 70 per cento.
I LIVORNESI continuano a crederci, ma con fatica. Nel 2004 eleggono sindaco Alessandro Cosimi al primo turno con 54 mila voti, nel 2009 lo rieleggono ancora al primo turno ma con soli 46 mila voti. E domenica, al primo ballottaggio della storia di Livorno, il delfino di Cosimi si è fermato a 34 mila voti. I livornesi si sono stufati. Perché la fedeltà ai simboli è fatta anche di memoria. E a Livorno ricordano che Bordiga era sì ingegnere, ma non aveva amici costruttori. E Diaz e Badaloni non andava in ferie sugli yacht degli appaltatori... Come si dice? Ah sì, progressisti.

il Fatto 10.5.14
Mario Cardinali
Vernacoliere vs Renzi
“Faccia a culo se lo merita”


Che botta! Boia che batosta. Oh, ma qui non ha perso la sinistra, ma il consociativismo democristiano”. Parola di Mario Cardinali, 77 anni, al secolo mister Vernacoliere: è lui il fondatore e ideatore del mensile satirico più famoso e scurrile d'Italia, dove la “topa” e il “pisano di merda” sono dei must imprescindibili.
Quindi soddisfatto...
Molto, alla faccia delle larghe intese volute da quel Renzi con il condannato.
Ecco il suo antiberlusconismo.
Ma scherziamo!? Questo atteggiamento al “volemose bene”, “andiamo avanti”, “aspetta che vengo ad Arcore, un pasticcino?” Ma per favore! E poi parlano di ideologia morta...
Nessuna ideologia.
Nessuna, hanno cancellato tutto. Ma ha contato molto la crisi... Prima ognuno tirava fuori il suo pane quotidiano, ora no.
Renzi non le piace proprio.
No dico, ma lo vede? Con quella faccia a culo da fiorentino saputello. Piuttosto cerco la speranza nei giovani.
Renzi non è proprio un vecchio.
Non lo vede vecchio? Allora cambi occhiali, lei non ci vede bene! Renzi è il vero Gattopardo, un Gattopardo che si è permesso di infangare la nostra storia di sinistra.
Anche Nogarin non si dichiara di sinistra.
Io voglio i giovani, voglio la speranza, voglio poter cancellare questo atteggiamento livornese dove tutto era deciso da prima, tutto già distribuito, mentre la gente sta con le pezze sul sedere. Io ho votato Nogarin al secondo turno.
Prossimo titolo del Vernacoliere?
Ci devo pensare, mancano ancora venti giorni. Ma ora c’è da divertirsi.

il Fatto 10.6.14
Paolo Virzì La versione del regista
“Vendetta tribale contro capi inerti”
di Malcom Pagani


A un figlio di Livorno cresciuto nella brusca culla di Ovosodo: “Vivevo in un mondo che non ammetteva sfumature. Un congiuntivo in più, un dubbio esistenziale di troppo ed eri bollato per sempre come finocchio” le urla fanno sempre un relativo effetto. La festa dei sostenitori di Filippo Nogarin, però, non gli è piaciuta: “Invece di essere contenti per l’elezione del sindaco del M5S si son prodotti nell’insulto e nello spintone. C’era anche uno striscione sgrammaticato. ‘Cambia la musica e cambiano i sonatori’. Senza u. Il degrado di Livorno è visibile e il declino è anche lessicale. Una decadenza del garbo e della compostezza intellettuale che nello sventolio del becerume trasforma il Vernacoliere in letteratura aulica”.
Virzì, sembra il copione di un film. Dopo 70 anni di incontrastato dominio del Pci e dei suoi eredi, Livorno cambia strada.
Non posso che rallegrarmi. Non credevo che la città mi avrebbe dato uno spunto simile per ritornare a Livorno e dire tutto il male
possibile dei livornesi. Comunque me lo aspettavo. Quel che è accaduto era ineluttabile.
Perché?
Il sindaco uscente, Cosimi, con somma ineleganza ha attribuito il tracollo del partito alla campagna elettorale , ma per 5 anni aveva governato con pigrizia e arroganza in una costante guerra fratricida con l’apparato locale del Pd.
Il candidato del Pd, Ruggeri, si è preso le proprie responsabilità.
L’ha fatto con grande dignità, ma non ne aveva. È un capro espiatorio. Aveva proposto una squadra forte e credibile con un assessore, Simone Lenzi, che avrebbe rappresentato per la città una straordinaria possibilità di ripensarsi- in una generale disperazione in prevalenza affrescata da disoccupati, pensionati e cassintegrati- anche in termini culturali. Le fabbriche hanno chiuso,
prospettive non esistono, ma i livornesi che hanno le loro enormi colpe, si sentono ancora i più ganzi di tutti. Quando sento parlare di turismo da implementare o di accoglienza da riservare al visitatore mi vien da ridere. I livornesi sono i primi nemici del turismo e non amano che qualcuno si sdrai sul loro scoglio. Livorno è un posto strano. Una riserva indiana. Un microcosmo che si illude di bastare a se stesso. E lo dico con il cuore ferito, guardando da lontano una città che per me un tempo significava qualcosa e che adesso osservo imbarbarita. Qui comunque non ha vinto Grillo né perso Renzi. Leggere la realtà con gli occhi della politica nazionale non aiuta. Chi lo fa non ha capito niente.
Allora, guerre fratricide a parte, cosa è successo a Livorno?
È come quando il marito per indispettire la moglie se lo taglia. Abbiamo assistito a un autodafé, non c’è stata una sfida destra-sinistra, ma una ribellione della tribù contro i propri referenti politici che hanno dormito gestendo la cosa pubblica con protervia. E Livorno, storicamente impermeabile ai trend nazionali degli ultimi anni, è rimasta impermeabile anche di fronte al grande cambiamento in corso nel Pd.
Così ha vinto Nogarin.
Ruggeri gli ha fatto i complimenti e dall’altra parte, non ha risposto con lo stesso stile. La solita canizza scomposta. In diretta su Sky, a qualche civile domanda, ha replicato urlando al complotto della stampa con claudicanti slogan che mi spingono a consigliargli un primo urgente impegno.
Quale Virzì?
Ha seri problemi con l’italiano. Il combattimento corpo a corpo con la lingua d’origine mi ha stretto il cuore. I cronisti chiedevano cose semplici. Lui si è innervosito reagendo come l’ultimo dei troll del blog di Grillo.
Ora sarebbe bello se qualcuno spiegasse a Nogarin che è il Sindaco di tutta la città e siede sulla stessa poltrona che fu di Furio Diaz e Nicola Badaloni. Mi dicono che questo ingegnere di Castiglioncello con il braccialetto al polso sia una brava persona. Lo spero perché ad ora, un programma di governo non mi pare esista. Ha vinto con il qualunquismo, urlando “tutti a casa”, profittando di una situazione di sconfinata sofferenza della città che con il tempo è mutata in insofferenza. Comunque non lasciamoci così. Voglio provare a essere ottimista.
Ci provi.
Mi auguro che Nogarin abbia cura di un luogo a cui voglio bene, che impari a fare il Sindaco e che non si faccia dettare la linea dal Blog di Beppe. Imparare l’arte della politica - ascoltare, dialogare e mettere d’accordo pezzi di società diversa, in quel Movimento, di solito trascina a un solo finale.
Ultima scena.
Entrare in collisione con Grillo e con le dinamiche semplicistiche, demagogiche e relazionali del Grande Fratello. Vista l’alba, dubito che Nogarin governi per 5 anni. Ma spero di essere smentito. La responsabilità è grande, l’onere notevole.

il Fatto 10.6.14
Ripensamenti?
La roccaforte rossa ora è spaventata dal suo voto
dall’inviato a Livorno
di Al. Fer.


Discussioni sul posto di lavoro, liti tra amici, fratture in famiglia. Accuse di tradimento. “Io non sono neanche riuscito a confessarlo a mio padre il voto per i grillini, mi avrebbe massacrato”, racconta un ragazzo di ventidue anni, livornese da generazioni, di sinistra (“meglio dire comunista”) da altrettante. Accade così che il giorno dopo la vittoria del Movimento in una delle roccaforti “rosse”, il clima per molti è plumbeo, carico di paure e di interrogativi su come sia stato possibile, “eppure gli indici c’erano stati - si sfoga un dirigente del Pd - i famosi ‘campanelli d’allarme’ erano suonati, ma nessuno è stato in grado di recepirli. Come nei quartier operai”. E si riferisce a zone con nomi orientali, Shangai o Corea, quelli della Livorno alle prese con le maggiori difficoltà economiche, dove la disoccupazione va oltre il 17 per cento, dove la terza settimana del mese è rossa, ma si riferisce solo al conto in banca. “Io mi sono rotto le scatole - racconta Guido, 55 anni, ex portuale - Qui non si fa nulla, non c’è nulla e al potere sono sempre gli stessi. Cosa votavo? Comunista, ma questi del Pd non c’entrano niente con quel passato”. Come lui la pensano Fausto e Giancarlo, camminano tra i viali e discutono, anche loro sono stupiti, si sentono quasi in colpa “è come aver tradito la propria storia, non ce lo aspettavamo. Ma qui è un casino vero e siamo incazzati”. Poi i due abbassano la voce, poco lontano passa un altro uomo “è il segretario della sezione, guarda in che stato è...”. Grigio in volto, con in mano una cartellina e nell’altra il cellulare discute dei dati, chiede conto delle sezioni, si interroga se è il caso di dimettersi. “Non è solo cascato tutto - continuano i due - ma si è preso coscienza di quello che realmente siamo a Livorno. Ma lei lo sa che gruppi di immigrati si affrontano in città? Qui c’è un grosso problema immigrazione ma la gente si riempe la bocca solo di antirazzismo perché siamo livornesi. Non è più così”.

Repubblica 10.6.14
Democrat sotto shock: si dimette il segretario cittadino
Viaggio nell’ex feudo rosso “Vaffa al Pd, non volevamo morire democristiani”
di Simona Poli


LIVORNO. Crede di sognare e invece succede davvero, Livorno si risveglia grillina. Dopo 68 anni di fedeltà assoluta la città più rossa d’Italia volta le spalle al partitone della sinistra e, come è suo stile, sdrammatizza persino la cerimonia degli addii. Su un muro del quartiere Shangai, presidio democratico fino a domenica notte, si legge “Il Pd ci ha un grillo per capello” e sul web gira una battuta che sembra scritta apposta per il Vernacoliere: «Livorno ha visto nascere il Partito Comunista Italiano. Quasi un secolo dopo, comprensibilmente, non ce l’ha fatta a veder rinascere la Democrazia Cristiana».
Una frecciata a Renzi, che però alle Europee anche qui è volato oltre il 53 per cento, mentre il candidato sindaco Marco Ruggeri si fermava al 40. «Mica erano tutti voti di elettori di sinistra quelli là», sostiene Lenny Bottai, 37 anni, pugile e allenatore sul ring, uno che dice di amare “la politica dal basso”, quella delle fabbriche e dei centri sociali. «Renzi ha beccato anche il consenso del centrodestra e alle comunali non ha vinto Grillo, ma ha perso il Pd», è la sua analisi. «Non sarà un caso che la prima volta che il partito di maggioranza va al ballottaggio tutto il resto dell’elettorato gli voti contro. Io non condivido la politica dei Cinque stelle ma ho messo la croce su Nogarin per disarcionare questo sistema di potere che ha affossato la città». Nei circoli Arci dei quartieri Corea, La Guglia e Salviano, alla periferia sud, chi torna dalla spiaggia si ferma al bar per i commenti del day after. «Clientelismi, favori, la svendita totale del porto che da dieci anni tiene fermo il cantiere navale più grande d’Europa mentre la disoccupazione galoppa, questo è stato il Pd per Livorno», dice Plinio detto il Vecchio che fino al ’56 in camera da letto al posto della Madonna teneva l’altarino di Stalin. Questa storia per lui non ha niente a che vedere con quella del Pci. Suo figlio Andrea invece spera che il rinnovamento promesso da Renzi arrivi anche da queste parti, prima o poi. «È stata una doccia fredda, nessuno se lo aspettava un tonfo così ma alla fine forse per Livorno sarà un bene questa scossa».
Vinicio, 70 anni, il volto abbrustolito dal sole racconta di avere un pollaio nel suo terreno in campagna: «Ci devo pagare l’Imu e lo faccio volentieri, figuriamoci. Ma poi quando vedo passare quei papaveroni col Suv che sono tutti dirigenti pubblici mi chiedo dove vadano a finire i soldi delle tasse. Qui c’è gente che ha i rubinetti d’oro in bagno, altro che crisi». Con le infradito ai piedi e i bermuda arriva un ragazzo a torso nudo, tatuaggi sulle braccia e sul petto, un collo da rugbysta. Dice la sua: «Avete mai visto un politico con gli addominali in Italia? Neanche uno, sono sempre al ristorante a mangiare. A spese nostre ». L’atmosfera si scalda. «L’ultimo comunista in Italia è Bergoglio, ce l’avessimo noi uno che parla di uguaglianza», dice Franco, ex campione di ciclismo che come seconda casa abita il circolo Carli, una delle sezioni dei Democratici in cui Nogarin ha avuto la meglio. Sembra quasi che lo abbia ascoltato il vescovo Simone Giusti, che si congratula con il neosindaco mandandogli un biglietto che va oltre il semplice augurio. «Non si lasci abbattere dalle difficoltà che incontrerà », scrive il monsignore. «Confidi nella collaborazione di tanti e affidi questo suo ruolo di primo cittadino al Signore, in cui, so, lei crede profondamente. Lei che come ingegnere sa progettare strutture ultraleggere, alleggerisca la burocrazia che asfissia la città». La benedizione del vescovo suona come una sorta di colpo di grazia sulla classe dirigente locale. Il segretario del Pd livornese Jari de Filicaia annuncia le dimissioni a metà pomeriggio: «Chi sta alla guida deve prendersi la responsabilità della sconfitta, è giusto così», dice. «Non siamo stati capaci di comunicare neppure la nostra preoccupazione in vista del ballottaggio, molti elettori non sono andati ai seggi perché con una distanza di venti punti non immaginavano che potesse finire così. Certo che se fosse venuto Renzi a fare un comizio ci avrebbe aiutato tanto, chissà... ». Ma il premier aveva altri impegni e neppure Grillo del resto si era scomodato per Nogarin, che non ha certo insistito per farsi riprendere accanto al leader sul palco.
Qui la campagna dei Cinque stelle è stata fatta sottovoce, un porta a porta quasi silenzioso spalleggiato negli ultimi quindici giorni da parecchi militanti delle liste che al primo turno sostenevano Andrea Raspanti, uno di sinistra che piace molto a Nogarin e che invece il Pd non ha mai digerito. Al bar “I quattro Mori” all’ora dell’aperitivo il dibattito è aperto. «Per me», dice Giuseppe, medico in pensione, «Livorno ha detto un “vaffa” gigantesco e ora si sente meglio ». Per me, gli risponde Rino, più o meno la stessa età, la sedia del potere resta attaccata al culo di tutti. Deh, vediamo se invece questi grillini ci hanno il solvente».

l’Unità 10.6.14
Perugia
La sconfitta di Boccali apre lo scontro nel Pd


Racconta, divertito e un po’ sprezzante, l’ex senatore di Forza Italia Franco Asciutti: «A Perugia c’era il detto che la sinistra poteva candidare anche una gallina, tanto veniva eletta lo stesso. Ecco, da oggi la gallina non basta più». Sono le undici di mattina, Corso Vannucci, la via dello struscio, è lento e sonnacchioso. Il rumore della slavina che ha seppellito il sindaco uscente del Pd, Wladimiro Boccali, e settanta anni di giunte di sinistra, si è acquietato. Ma il fronte si sta ancora muovendo.
Davanti a Palazzo dei Priori, sede del Comune, quasi increduli, stazionano alcuni esponenti di Forza Italia reduci dalla baldoria della sera precedente, sfociata in un piccolo assalto alle sale, vuote, di consiglio e giunta. Oltre all’ex senatore Asciutti, c’è Catia Polidori, segretaria regionale di Forza Italia, intenta a cercare un contatto telefonico con Silvio Berlusconi. Accanto a sé quello che lei stessa definisce come «la sua scoperta», Andrea Romizi. Trentacinque anni, magro, capelli neri e ondulati, in giacca, camicia e jeans, il neo sindaco è stato eletto con numeri inimmaginabili per una città come Perugia. Con il 58% delle preferenze, diecimila voti di scarto rispetto al suo concorrente, l’avvocato Romizi ha trionfato nei quartieri operai (come quello della Perugina a San Sisto), nelle roccaforti periferiche, come Ponte San Giovanni, ma soprattutto nel centro storico (dove ha ottenuto percentuali bulgare, 70 a 30).
«Ho saputo dare un progetto alle paure della città», ci dice. «Ho cercato di smarcarmi da una classe politica chiusa nel palazzo e incapace di parlare alla società». E pensare che al primo turno Forza Italia, con il 23%, aveva raggiunto il minimo storico in città. Decisivo, dunque, è stato l’astensionismo di sinistra (14mila voti in meno rispetto a 15 giorni fa). Segno che la città ha voltato le spalle a Boccali.
«L’analisi della sconfitta - spiega la vicepresidente del Senato Marina Sereni nella sede del Pd in Piazza della Repubblica - ha molte sfaccettature». La prima, sottolinea, Guido Perosino, manager pubblico ed esperto di economia locale, è legata alla crisi. «Quando questa incombe, e non sembra dare spazio alla ripresa, è abbastanza naturale che vada a rimetterci la politica che ha governato. In più, in questa regione, la presenza della mano pubblica è stata più forte che altrove. E questo ha indirizzato critiche e scontento verso chi governava». Se poi ci si infila «un diverso approccio di comunicazione, con Boccali che ha solo sottolineato cosa ha fatto e Romizi che ha spiegato cosa avrebbe voluto fare», il gioco è fatto.
Ma se fosse solo un problema legato alla crisi, la slavina avrebbe coinvolto tutta l’Umbria. Invece, con la sola eccezione di Spoleto (dove ha pesato lo scandalo della Popolare), nelle altre città, come Foligno, Terni, Orvieto e persino Gubbio, dove però ha vinto un professore appoggiato da Sel, la sinistra ha tenuto.
«Questo di Perugia - dice Carlo Pagnotta, ideatore di Umbria Jazz - è stato soprattutto un voto anti: anti apparato, anti sistema, anti Boccali. È stato un referendum contro l’ex sindaco e un certo vecchio modo di fare politica. Qui non ha trionfato la destra, ha perso la sinistra. È mancato un progetto, un’idea di città. Sembra assurdo, ma il voto ha soprattutto avvantaggio Renzi ». E i renziani.
Questo perché Boccali, assessore per due legislature prima di diventare sindaco, è espressione della minoranza attuale del partito, della “ditta”, per dirla alla Bersani. A sostegno della sua campagna elettorale, giocata senza l’apporto di un valido ufficio comunicazione, si erano mossi Fassina, Cuperlo e D’Alema.
«Il caso di Perugia - ci dice Marco Guasticchi, presidente della Provincia, renziano della prima ora - ha dimostrato il fallimento di un modello dove contano solo circoli e sezioni. Oggi non bastano più, ci si deve aprire. A Perugia, nelle primarie nazionali del Pd di due anni fa, Renzi ha stravinto. Era un segnale, non colto, che questo sistema stava traballando. Se la più votata del Pd in città è stata Emanuela Mori (sua attuale compagna, ndr) con oltre 1300 preferenze, senza che questa fosse espressione di un circolo, capirà da solo che qualcosa è cambiato. Il mito dell’Umbria rossa non c’è più». Il voto di Perugia, dunque, apre nuovi scenari. Perché espressione della minoranza, e dell’“apparato”, è anche l’attuale presidente della Regione Catiuscia Marini. E fra otto mesi si vota. «Le gravi sconfitte di Perugia e Spoleto coinvolgono tutto il Pd dell’Umbria », sottolinea il governatore in una nota d’agenzia. Chiamando in causa soprattutto il neo segretario regionale Giacomo Leonelli, giovane renziano eletto appena tre mesi fa. L’unico, va detto, a metterci la faccia in una conferenza stampa quasi solitaria.
«A Perugia è stata una sconfitta tremenda, ma in questa partita io sono entrato all’85esimo, a cose già fatte. Contro Boccali - spiega ancora Leonelli - avrebbe vinto chiunque avesse avuto meno di quarant’anni. Questo deve essere chiaro. Non c’è un secondo tempo assicurato per nessuno. Bisogna avere il coraggio di avviare una sana rottamazione». Tra litigi e regolamenti di conti, il fronte della slavina si sposta piano piano. In otto mesi può trasformarsi in una valanga.

Corriere 10.6.14
Da Perugia a Spoleto la rossa Umbria si risveglia azzurra
Il segretario regionale pd: sconfitta epocale
Processo a «una sinistra divorata dai clan»
di Fabrizio Caccia


PERUGIA — «Una sconfitta epocale e terrificante»: usa queste parole, il giorno dopo, il segretario regionale del Pd umbro Giacomo Leonelli. Che poi prova a consolarsi con «Orvieto e Gualdo Tadino strappati al centrodestra», ma la logica del «prendi due, perdi una» con Perugia funziona poco, qui non si tratta di fustini per lavatrice, qui c’è un’intera regione, l’Umbria rossa e polmone verde d’Italia che in poche ore è scolorita parecchio. Altro che rosso sangue o rosso vermiglio: a Perugia, il capoluogo di Regione, 180 mila abitanti, il centrodestra ha vinto per la prima volta dal 1946 e con una percentuale di voti, più del 58 per cento, che ha il sapore della batosta forte e adesso incorona il sindaco-ragazzino, Andrea Romizi di Forza Italia, già ribattezzato «il Renzi della destra».
Ma la debacle è enorme e arriva fino a Spoleto, col suo celeberrimo festival dei Due Mondi, città consegnata anche qui a un sindaco di centrodestra, Fabrizio Cardarelli. «Sconfitta epocale e terrificante» che si allarga poi a Bastia Umbra, raggiunge Montefalco, senza contare Assisi, dove non s’è votato ma che pur sempre resta l’inossidabile roccaforte bianca e perenne dei frati e dei moderati.
«Ora è suonato un bel campanello d’allarme per Catiuscia...», accusa Diego Dramane Wague, scrittore del Mali trapiantato a Perugia dall’87, tra i fondatori del Pd cittadino dopo un passato nella Margherita e apparentatosi alla vigilia del ballottaggio con il candidato Romizi di Forza Italia in aperta polemica con il suo partito di riferimento. La Catiuscia di cui parla Wague è Catiuscia Marini, la governatrice rossa dell’Umbria e il «campanello d’allarme» sta suonando per lei, perché tra otto mesi qui si voterà per le Regionali. E quella davvero sarà la prova del nove: «Il voto di Perugia mostra un preoccupante allontanamento dell’elettorato del Pd dal candidato sindaco (Wladimiro Boccali, ndr) ma coinvolge il Pd dell’Umbria nella sua interezza — ammette Catiuscia Marini — ed impone ora un’analisi franca e trasparente».
Parole sante. Anche perché «il preoccupante allontanamento dell’elettorato del Pd», secondo Diego Dramane Wague, è dato dal sistema di potere nato in vent’anni intorno alla nomenklatura democratica regionale. «Un partito divorato dalle beghe tra clan, sempre più lontano dalle aspettative delle persone e attento solo alla distribuzione delle poltrone e dei posti pubblici», attacca a testa bassa il dissidente italo-maliano che domenica ha spostato da solo con la sua lista più di 2 mila voti e dice di aver convinto a votare per Romizi perfino dei vecchi partigiani. «Catiuscia Marini e Wladimiro Boccali, il sindaco uscente, sono figli diretti di Maria Rita Lorenzetti e del suo collaudato modello di gestione...», continua Wague. Già: Maria Rita Lorenzetti, la zarina di Foligno, deputata del Pci nel lontano ‘87 e poi dal 2000 eletta governatrice dell’Umbria per due mandati, al centro di un sistema complesso di interessi e di relazioni, finita un anno fa agli arresti domiciliari (poi revocati) nell’ambito dell’inchiesta sul passante del Tav in costruzione a Firenze.
E sebbene il sindaco uscente di Perugia, Boccali, adesso si assuma «interamente la responsabilità» della sconfitta, Marina Sereni, vicepresidente della Camera e parlamentare umbra di spicco del Pd, sembra guardare oltre: «Nel Paese la geografia politica è cambiata. Per la sinistra non esistono più da tempo zoccoli duri né zone sicure. Ma il Pd e il centrosinistra vincono là dove riescono ad interpretare la voglia di cambiamento». Al Pd umbro, insomma, servirebbe un Renzi. «I mali del partito io li conosco bene — conclude con un sorriso Wague il Dissidente —. Se Matteo vuole, sono a disposizione».

il Fatto 10.6.14
“Gotham City” si ribella Il Pd perde pure Perugia
Reati, droga, crisi economica e un sistema politico moribondo. Dpo 70 anni li capoluogo umbro passa alla destra grazie a Romizi, candidato per caso
di Marco Palombi


Le mura di Perugia sono crollate. Per la prima volta nella storia della Repubblica la città non sarà amministrata dalla sinistra, nemmeno nella forma edulcorata del Pd. Nella notte di domenica, infatti, è accaduto l’imponderabile: Andrea Romizi - giovane avvocato, due mandati da consigliere comunale per Forza Italia, candidato sindaco dall’intero centrodestra perugino per la sola ragione che erano convinti di non avere speranze di vittoria - ha stracciato al ballottaggio il sindaco uscente, Wladimiro Boccali, tesserato Pd ma dotato di coalizone che andava da Rifondazione e Sel ai “moderati”. I due s’erano presentati al secondo turno staccati di venti punti: il 25 maggio Romizi aveva preso 23.375 voti (26,3%), Boccali 39.582 (46,55%). Due settimane è la situazione, letteralmente, si rovescia: il giovane candidato del centrodestra mette assieme 35.469 consensi, l’oramai ex sindaco 25.666 (58,02 contro 41,98%). Tredicimila voti che passano da una parte all’altra in neanche 15 giorni: persi con l’astensionismo da un lato, guadagnati nell’elettorato grillino (16mila voti al primo turno) e delle liste civiche (altri 8mila).
PER L’ANTICA e bellissima cittadina da cui Aldo Capitini fece partire nel 1961 la marcia per la pace verso Assisi è uno choc: un repentino, quanto inaspettato, cambio di regime. Romizi, infatti, non solo è di centrodestra, ma è un estraneo per il suo stesso partito, che in questi anni s’è accodato al pervasivo sistema di potere messo in piedi dal partito (coi suoi vari nomi), ritagliandosi spazi di dignitosa sopravvivenza, per così dire, quanto più sprofondava nell’irrilevanza politica. Romizi è l’uomo nuovo anche rispetto ai suoi, persino antropologicamente lontano com’è dallo stereotipo tanto del candidato “Mediaset” che del notabile conservatore medio-italico: in questo senso è davvero, come dicono i fans, il Matteo Renzi di Perugia.
Questo sconvolgimento, per quanto inaspettato, non è però senza padri. Il modello Perugia è moribondo da tempo e su più fronti. Uno, forse il più rilevante per chi ci abita, è quello della sicurezza. Qualche mese fa un reportage di Panorama a firma Riccardo Parisi l’ha ribattezzata “Gotham City”, l’oscura città di Batman: “Perugia è una città violenta, una delle più pericolose d’Italia secondo i dati del ministero degli Interni: criminalità , droga e degrado le hanno strappato la serenità di cui aveva goduto fino a una quindicina d’anni fa”. La descrizione prosegue col centro storico desertificato (i perugini che ci abitano sono passati in trent’anni da 30mila a seimila) e in mano a bande di spacciatori nordafricani o sudamericani, cui si somma il relativo “record nazionale di morti per droga: 36 ogni anno” col più alto indice morti per overdose/popolazione.
Al di là delle legittime paure dei perugini, esagerate che siano o meno, non è di sole ossessioni securitarie che si nutre questo sacrificio rituale del centrosinistra a Perugia. Conta altrettanto anche l’implosione dell’intero modello di sviluppo della città che trascina con sé quello di potere: l’alleanza tra partitone, costruttori (Coop in testa), industria e università non basta più.
LE GRANDI IMPRESE, tipo Perugina e Ellesse, che tra gli anni Settanta e Ottanta garantirono sviluppo alla città grazie anche all’indotto del commercio, sono passate in mani straniere perdendo i centri direzionali e impoverendo l’area. Il mercato immobiliare langue, laddove non tracolla, e mette in crisi uno dei tradizionali poteri della città. Anche le università non risultano più attrattive: gli studenti erano circa 36mila nel 2004, dieci anni dopo ce ne sono all’ingrosso diecimila in meno. Pure il settore pubblico - e non è solo un problema di Perugia - non è più in grado di garantire alla politica un controllo accettabile del territorio.
L’intero sistema socio-politico è insomma in discussione e l’elezione di Andrea Romizi, più che la cura, ne è il sintomo più fragoroso dopo l’arresto della ex governatrice Maria Rita Lorenzetti, zarina dalemiana in regione, nel settembre scorso spedita ai domiciliari nell’ambito di un’inchiesta sul passante Tav di Firenze (in quel momento Lorenzetti era presidente Italferr, una società di Ferrovie). I fatti si riferiscono ad un periodo successivo alla presidenza dell’Umbria di Lorenzetti, ma portano in chiaro quel sistema di rapporti tra politica, imprenditoria e burocratja centrale e regionale che, reati o no, i cittadini di Perugia (e di Spoleto, e di Livorno, eccetera) hanno messo domenica nel mirino.

l’Unità 10.6.14
Debacle a Padova
Il centrosinistra paga le sue divisioni


La debacle del centrosinistra a Padova rispetta in modo quasi scientifico il manuale della sconfitta annunciata.
Del resto, quando a un ballottaggio il favorito arriva con molti meno voti del previsto (33%) e lo sfidante con molti di più (31%), il destino sembra già scritto: la prima squadra difende il risicato vantaggio con difficoltà, la seconda si lancia nella rimonta con entusiasmo. Il centrosinistra padovano poi ce l’ha messa tutta per arrivare ammaccato alle urne. Basti pensare che Francesco Fiore (già iscritto Pd e vicino all’area ecodem di Realacci), sconfitto alle primarie di febbraio dal sindaco reggente Ivo Rossi (che nel 2013 ha preso il posto di Flavio Zanonato, diventato ministro con Letta), ha deciso di correre da solo, con una sua lista civica, definendo il Pd padovano «un partito padronale e non democratico ». «La mia conclusione è che questa classe dirigente del centrosinistra è evidentemente irriformabile», spiegava Fiore nei giorni della sua candidatura in solitaria. Dopo una campagna molto dura contro Rossi, ha sfiorato il 10%.
Per non farsi mancare niente, pochi mesi prima del voto anche un assessore di Rossi, Andrea Colasio, ha deciso di correre da solo con Scelta civica, rosicchiando un altro 2% al sindaco reggente. Ed è facile capire perchè la decisione di Fiore e Colasio di fare l’apparentamento con Rossi, due settimane fa, abbia trasmesso ai padovani l’idea di qualcosa di appiccicaticcio, di un’unione senza convinzione, solo per allontanare lo spauracchio del barbaro leghista Massimo Bitonci.
Sembra di rivedere il film di Bologna 1999, o anche della sfida tra Alemanno e Rutelli del 2008: quando negli ultimi giorni lo sfidante di destra si avvicina al colpaccio, ecco che scatta l’allarme democratico, viene evocata la «marea nera », ma gli elettori non ci cascano mai. Poi, certo, il problema è più politico. La successione di Zanonato, sindaco per oltre 15 anni in due riprese, non era una pratica semplice, e ora su Rossi vengono riversate accuse contrastanti: «Troppo poca discontinuità», ma anche il contrario.
Di certo, l’effetto Mose non sembra aver pesato tantissimo se, come ricordano la deputata veneta Giulia Narduolo e l’europarlamentare Alessandra Moretti, «il Pd ha vinto i ballottaggi a Spinea e Noale, vicino a Venezia, dove l’effetto Mose poteva pesare ben di più». Di certo l’effetto Mose, osserva il deputata padovano Alessandro Naccarato, «ha pesato moltissimo sugli elettori grillini, che al secondo turno si sono riversati in massa sul leghista, per una volontà di cambiamento radicale».
Il matrimonio nelle urne tra Lega e M5s è un altro dato chiave di questa elezione. I grillini al primo turno hanno sfiorato il 9% e Bitonci nelle ultime due settimane ha fatto di tutto per corteggiarli: promesse di trasparenza e bilanci online, parole d’ordine molto dure sugli scandali veneziani, persino la promessa di un «assessore all’opposizione». Infine, la sicurezza. Per anni è stata uno dei cavalli di battaglia di Zanonato, criticato da sinistra per il famoso muro antispaccio di via Anelli, che è parso discriminatorio verso gli immigrati. Rossi, su questo tema, è parso meno convincente. E non solo su questo. Rispetto al carisma di Zanonato (che alle europee del 25 maggio ha fatto il pieno di preferenze) è parso una figura meno forte e comunque non innovativa, nonostante la fama di buon amministratore e di persona onesta.
Bitonci, dal canto suo, è riuscito a entrare nel cuore dei padovani nonostante sia di Cittadella (dove è stato sindaco per 10 anni) e non possa neppure votare in città. Un sindaco paracadutato, dunque. «I miei figli vanno a scuola a Cittadella, mi trasferirò a Padova quando la città sarà più sicura per loro», ha detto ieri. Accanto alla formula di rito «sarò sindaco di tutti», Bitonci ha caratterizzato la sua festa nella notte con una serie di cori stile Pontida, con «Padova» a sostituire «Padania» e il grido della folla «Liberaaaa». «Abbiamo mandato a casa i comunisti, ripuliremo la città», grida il neosindaco, scortato da Maurizio Saia, già senatore di An e poi con Fli, che dovrebbe riprendere l’assessorato alla Sicurezza che aveva avuto con il sindaco Giustina Destro. In piazza anche il governatore veneto Luca Zaia, che regala una bandiera della Serenissima al neosindaco, che a sua volta promette di lasciare subito il seggio al Senato. «Qui a Padova noi leghisti rappresentiamo la discontinuità», ragiona il governatore.
Un’analisi condivisa anche da parte del Pd, consapevole di non aver interpretato adeguatamente «una richiesta di cambiamento che è la vera cifra di questa tornata elettorale, europee e comunali », spiega Naccarato. «È una sconfitta che parte da lontano e oggi ognuno deve assumersi le proprie responsabilità », dice Antonio Bressa, segretario padovano del Pd. «Ho sbagliato a non imporre maggiori istanze di cambiamento ». Rossi si commuove salutando i ragazzi del suo comitato: «Ora bisogna riflettere in profondità su quello che è successo ». La Lega intanto annuncia il suo congresso federale per il 20 luglio. A Padova.

il Fatto 10.6.14
Urbino battezza patto Fi-Ncd: battuti i democratici

Altro risultato significativo per l’analisi del voto di Renzi quello di Urbino, dove il candidato di centrodestra Maurizio Gambini (alleanza tra Fi-Ncd e anche Verdi ha battuto la rappresentante del centrosinistra Maria Clara Muci al ballotaggio 56 a 44.

La Stampa 10.6.14
Dopo il voto scatta la resa dei conti nel Pd
I renziani preparano l’attacco:  “Hanno perso gli ex comunisti”
Dubbi anche sulle primarie per l’influenza delle correnti
di Carlo Bertini

qui


Corriere 10.6.14
Le critiche di Bersani e Letta
Il voto riapre le ferite nel Pd
E l’ala sinistra vuole una «rigorosa analisi» dei risultati
di M. Gu.


ROMA — Se la vittoria storica del 25 maggio aveva pacificato il partito e silenziato i capicorrente, il risultato in chiaroscuro dei ballottaggi riapre antiche ferite e rianima la minoranza. Il tentativo di alcuni renziani di spaccare il Pd tra nuova guardia che vince e vecchia guardia che perde ha colpito nell’orgoglio l’ala sinistra del partito, che ora chiede a Matteo Renzi una riflessione profonda sulla natura del partito e sulla gestione delle realtà locali. All’ultima direzione il silenzio dei «big» rottamati era stato assordante, ieri invece si sono fatti sentire uno dopo l’altro, per rimarcare quanto dolorosa sia stata la perdita di storiche roccaforti e sottolineare, più o meno esplicitamente, che il Pd ha un problema a sinistra. «Ci sono delle spine — chiede di studiare “a fondo” la situazione Pier Luigi Bersani — e Livorno è una di queste». Dove il non detto, per i bersaniani, è che dove la sinistra non va a votare il Pd perde.
Persino Enrico Letta, che non era mai intervenuto nel dibattito politico nazionale dalla traumatica staffetta con Renzi, a margine di un seminario a Pisa ha commentato il dato meno felice dei ballottaggi: «La sconfitta del Pd a Livorno merita una riflessione profonda, perché del tutto inattesa». E Perugia, Padova, Potenza? L’ex premier non entra nel merito delle sconfitte incassate dal suo partito, ma da toscano insiste su Livorno: «È la sconfitta più clamorosa e non solo per il suo valore simbolico, per questo credo che necessiti di una riflessione nazionale».
Parole che suonano molto distanti dalla posizione di Renzi, che dal Vietnam ha definito «straordinario» il risultato. Anche questa volta il premier tira dritto sulla via della rottamazione e non si volta indietro. «Dove non abbiamo creato cambiamento abbiamo perso — è il ragionamento che ha condiviso con i suoi —. Paghiamo un prezzo dove siamo stati individuati come un partito strutturalmente al potere». Per lui non esistono città «rosse» e non esistono roccaforti: il voto di domenica dimostra che le rendite di posizione non valgono più e che il Pd i voti deve andarseli a cercare di volta in volta, anche a destra e senza puzza sotto il naso. Una strategia molto distante da quella che la minoranza ex diessina ha portato avanti per anni.
L’ala sinistra chiede di affrontare già nell’assemblea di sabato una rigorosa analisi del voto e contesta l’approccio dei renziani, i quali insistono nel buttare la croce sulle spalle della vecchia guardia. Dario Nardella, sindaco di Firenze, la mette così: «Il risultato negativo si è verificato nelle città dove il Pd non si è rinnovato».
Giudizi che Gianni Cuperlo contesta con forza. In un post accorato su Facebook scrive che «alcune ferite pesano e bendarsi gli occhi è ingiusto» e si dice colpito da alcuni commenti dei renziani: «Davvero c’è chi pensa si possa dire che si vince dove il corso renziano si è fatto strada e si perde altrove? E quale sarebbe la vecchia guardia da rottamare?». Marco Ruggeri, il «dem» sconfitto a Livorno, «ha l’età di Renzi» ricorda l’ex sfidante delle primarie, Wladimiro Boccali (Perugia) ne ha poco più di 40 e quando si perde «la prima cosa da fare non è preoccuparsi di dire che ha perso “uno degli altri”».
Al Nazareno assicurano che le reazioni a catena innescate dai ballottaggi non avranno ripercussioni sulla nuova segreteria a gestione unitaria, la cui composizione Renzi annuncerà entro sabato. Eppure i nomi ballano. Prima di indicare le sue scelte Cuperlo aspetta un incontro con Renzi. Uno dei nodi è che il leader non vuole in squadra chi ha fatto parte della segreteria di Bersani, come Nico Stumpo o Matteo Orfini. Anche la questione della presidenza si è riaperta. La lettiana Paola De Micheli, partita favorita, sa che niente è ancora deciso: «Sono una donna di partito, il resto lo vedremo...». E anche l’ipotesi che il successore di Cuperlo possa essere una figura forte della sinistra ex ds come Nicola Zingaretti, appare adesso più lontana.

il Fatto 10.6.14
Democratici
Ballottaggi, la rendita non basta
Roccaforti perse, i renziani contro “la ditta”
di Wanda Marra


Sono finite le posizioni di rendita elettorale”. Matteo Renzi è in Vietnam in visita ufficiale, tra autorità e potenziali investitori stranieri, mentre commenta i ballottaggi: “Finisce 20 a 1 altro che frenata”, ci tiene però a precisare. Il Pd ha perso alcune roccaforti storiche, prima tra tutte Livorno. E poi Civitavecchia, Padova, Perugia. "A Livorno si è oggettivamente perso", commenta con i suoi. Al Nord però sono del Pd i nuovi sindaci di Bergamo, Biella, Cremona, Verbania, Vercelli e Pavia, tutte strappate al centrodestra, così come Pescara; si aggiungono le conferme di Bari, Modena e Terni. Un risultato che il premier sottolinea.
PERÒ, quella battuta, “non si vive di rendita” in realtà mette il dito su un punto nodale: si è perso dove si è pensato di poter vincere sempre e comunque. E con chiunque. A Livorno il candidato era un cuperliano, così a Perugia. A Padova era l’ex vice sindaco del super bersaniano, Zanonato. Tanto per citare solo qualche caso. Il vice segretario Lorenzo Guerini getta acqua sul fuoco: “La netta vittoria alle amministrative è merito di tutto il Partito democratico. Così come tutto il Pd rifletterà e si confronterà sui pochi casi in cui il risultato non è stato soddisfacente. Il resto sono chiacchiere”.
Però le chiacchiere tra i renziani avanzano. Di prima mattina il senatore renzianissimo Andrea Marcucci lo dice chiaro e tondo: dove il Pd "ha avuto il coraggio di cambiare, ha vinto". "Il risultato negativo si è verificato nelle città dove il Pd non si è rinnovato", rincara la dose Dario Nardella. E a microfoni spenti - per non alimentare troppe polemiche - è questa l’analisi un po’ di tutti i renziani. Anche di chi non arriva a dirlo, come il segretario della Toscana, Dario Parrini, che però chiarisce: “Si perde dove i partiti si dimostrano non in grado di dare risposte agli elettori”. Si ripete quello che era già successo dopo il Mose, con i renziani che scalpitavano, indicando nel vecchio corpo del Pd il vero colpevole degli scandali e la vecchia guardia pronta a salire sugli scudi e a richiamare tutti alla loro responsabilità. Se è per Gianni Cuperlo, si chiede: “Ma davvero c'è chi pensa che dopo il ballottaggio di ieri si possa dire che si vince dove il corso renziano si è fatto strada e si perde altrove?”. Se è per Matteo Orfini: “Un’analisi come questa è una stupidaggine, ci sono stati risultati diversi anche a pochi chilometri di distanza”. E Nico Stumpo: “Si perde e si vince tutti insieme, il resto sono commenti di peones da Transatlantico”.
Il punto è che intorno all’analisi dei risultati si gioca anche il futuro. Sabato l’Assemblea del Pd deve eleggere la nuova segreteria. Ci stanno lavorando lo stesso Guerini, Luca Lotti e Davide Faraone. Che sarà una gestione unitaria Renzi l’ha chiarito. Ma sarà unitaria per quel che conviene a lui: qualche contentino alle minoranze per tenere buoni i gruppi parlamentari, che effettivamente restano il suo tallone d’Achille. E nella sostanza, tutto ancora in mano al segretario e ai suoi uomini. L’Organizzazione, che era di Lotti, resterà a Guerini, per dire. Per la presidenza sono bloccati da veti incrociati Paola De Micheli e Matteo Orfini. C’è Nicola Zingaretti che vorrebbe farlo, ma in molti giurano che alla fine il segretario, come al solito, scompaginerà il tavolo con un nome a sorpresa. Questo nell’immediato. Nel futuro c’è già chi tra i renziani comincia a sostenere che bisognerà scegliere bene i candidati alle prossime regionali.
MA QUANDO Renzi dice che non si può vivere di rendita si riferisce anche a quello che effettivamente il suo governo riesce (o non riesce) a fare. E sabato all’Assemblea ribadirà che quel 40,8% è un voto anche per le riforme. Ieri il Ministro Boschi è andato da Napolitano. Oggetto la riforma del Senato: il primo voto in Commissione sarebbe previsto per oggi, ma sull’accordo si stenta a chiudere. E Renzi ha davanti due strade: o cedere qualcosa sui contenuti (la questione cruciale è l’eleggibilità) oppure cedere sui tempi. Di certo per ora non è una passeggiata.

il Fatto 10.6.14
A Nichelino Riggio batte il Pd: aveva già vinto le primarie

La vendetta degli ex ds abbandonati. È la fiction andata in scena in due comuni. A Nichelino, grosso comune vicino Torino, ieri ha vinto Angelino Riggio: dirigente ex Pds, aveva vinto le primarie del Pd, ma l’avevano estromesso a favore di Santo Cistaro, superato per 300 voti al ballottaggio. Pure a Colle Val d’Elsa (Siena) il vincitore - Paolo Canocchi - è un ex diessino che ha battuto la candidata del Pd.

il Fatto 10.6.14

I Giovani Turchi
La minoranza dem più dialogante con il premier Matteo Renzi, quella dei Giovani Turchi, che dopo la vittoria del segretario alle primarie aveva chiarito che era giunto il momento di collaborare festeggia. E lo fa con il secondo appuntamento annuale della kermesse della rivista “Left Wing”, da oggi a venerdì al Circolo degli Artisti di Roma. Musica e dibattiti. Si inizia oggi con Maria Elena Boschi e Andrea Orlando, si chiude venerdì con Lorenzo Guerini e Matteo Orfini.

l’Unità 10.6.14
La nuova sfida del voto mobile
di Michele Ciliberto


L’OSSERVAZIONE PIÙ OVVIA, DI FRONTE AI RISULTATI DI DOMENICA, È LA CONFERMA DI UN ELETTORATO diventato fluido, capace a distanza di pochi giorni di cambiare orientamento e votare in modo differente. Come dicono tutti, l’elettorato è diventato volatile e privo di riferimenti stabili. Resta però da capire perché questo sia accaduto.
E, nello stesso tempo, come cercare di rendere stabile l’elettorato, posto che questo sia possibile, intorno a una piattaforma di sinistra. Tanto più è necessario cercare di capirlo quando cadono roccaforti storiche del movimento democratico e popolare - insisto su questo termine: popolare come Livorno e quando l’astensione tocca vertici come quelli di domenica. Non cito per caso, in successione, questi due fenomeni: vanno considerati perché manifestano, al fondo, una medesima tendenza di crisi e di distacco, non dalla politica in genere, ma - cosa più grave - dalla democrazia rappresentativa e dalle sue istituzioni più significative. Come diceva Tocqueville, il comune è la cellula originaria della vita politica. Da questo punto di vista è significativo il successo a Livorno del Movimento 5 Stelle che solo poche settimane fa aveva pagato un prezzo assai alto all’insensata campagna elettorale condotta da Grillo e Casaleggio, arrivati a minacciare tribunali popolari in quella nuova Piazza della Bastiglia che sta diventando la Rete. Ricondotto sul terreno dei problemi concreti, e rappresentato da figure che non incutono terrore ma accendono la fiducia in una prospettiva di cambiamento, il Movimento ha ripreso energia, mentre il Pd livornese è apparso una forza vecchia da troppo tempo al potere e da mandare all’opposizione.
Proprio il risultato di Livorno - la città di cui sono stati sindaci Furio Diaz e Nicola Badaloni - aiuta a rispondere al quesito iniziale: alla base della fluidità degli elettori c’è una eccezionale, e non più contenibile, esigenza di cambiamento (di figure, di strutture, di politiche). Il passato, anche quando è stato nobile, viene avvertito come un peso insostenibile di cui liberarsi. E se l’esigenza di cambiamento non viene soddisfatta, i cittadini cambiano posizione o si rifugiano nell’astensione, magari facendo l’una e l’altra cosa in tempi rapidi, da un giorno all’altro. La politica è essenzialmente “tempo” e oggi il ritmo delle decisioni, anche di quelle elettorali, è diventato velocissimo: quello che ora appare positivo e degno di fiducia, fra un attimo può diventare senza interesse, da respingere. O si capisce questo, oppure oggi in Italia non si fa politica. In Italia c’è stata, e si potenzia giorno dopo giorno, una sorta di radicale “laicizzazione” della politica, che alla fine travolge tutto, anche simboli e bandiere come Livorno e Perugia. È la stessa idea della politica che, in profondità, è cambiata: i vecchi vincoli “popolari” si sono spezzati ed altre forme politiche si stanno, in modo tumultuoso, formando. Proprio nelle elezioni di Livorno c’è un punto su cui varrebbe la pena riflettere: il nuovo sindaco candidato del M5s è stato sostenuto anche dalle forze della sinistra radicale, oltre che da forze di centro e di destra. Questione non da poco, perché ripropone, ma in termini nuovi, il tendenziale sviluppo in senso bipolare del sistema politico italiano. Ma qui, ad aprirsi, è un problema di carattere strategico. La fluidità del voto e la connessa esigenza di un mutamento radicale nasce dalla rottura delle forme ideali, politiche, organizzative con cui nella Prima Repubblica si è costituito il rapporto tra governanti e governati (non parlo della Seconda che non è un ente storicamente autonomo essendo solo una degenerazione della Prima).
Questo fenomeno colpisce in modo frontale le basi della nostra democrazia rappresentativa: quella che infatti abbiamo di fronte non è la crisi della democrazia in quanto tale, ma la consunzione in atto della concezione rappresentativa della democrazia che, certo, è la migliore forma di democrazia, ma non è l’unica né sul piano storico né su quello teorico. È una distinzione importante, se si vogliono capire i termini della lotta politica oggi in Italia e anche questi ultimi risultati. Anzi, se dovessi dire in cosa consiste - e consisterà nei prossimi tempi - lo scontro politico e ideale in Italia, direi che esso è rappresentato proprio da differenti concezioni della democrazia, della funzione delle istituzioni democratiche e in ultima analisi del rapporto fra governanti e governati, e delle nuove forme in cui esso deve essere ricostituito. Una partita cruciale, per il futuro della Nazione, che la fluidità dell’elettorato rende, per molti aspetti, imprevedibile. E che è ulteriormente complicata da una crisi sociale senza precedenti.
Il Pd ha capito questo, o più correttamente, l’ha capito la gente che ha sostenuto Renzi alle primarie, liquidando un intero ceto politico della sinistra storica incapace di comprendere quello che stava accadendo nel mondo e nel proprio partito. In questo modo si sono cominciati a ristabilire nuovi rapporti con la realtà politica e sociale utilizzando nuovi modelli di comunicazione, un nuovo linguaggio politico, una nuova forme di leadership in grado di mettersi maggiormente in sintonia con i “mondi della vita” e le loro trasformazioni. Ci si è messi all’altezza del problema, riuscendo ad incrociare l’ansia di rinnovamento che agita nel profondo la Nazione. Ma come dimostrano i risultati di domenica, il lavoro è all’inizio e richiede forza, lungimiranza e tempo. Proprio quando il tempo è diventato fluido, volatile, imprevedibile.

Corriere 10.6.14
Effetto ballottaggi sull’Italicum
Berlusconi: il doppio turno mai
Verso un incontro con Renzi il 17
L’ex premier: con lui tratto solo io
di Tommaso Labate


ROMA — «Da adesso con Renzi tratto direttamente io…». È diventata quasi una cantilena quella che Silvio Berlusconi sta ripetendo ai dirigenti del partito da qualche giorno a questa parte. Gliel’hanno sentita dire in tanti, anche nelle ultime ore, questa frase. Peccato che l’ormai ex Cavaliere abbia omesso, almeno nella gran parte delle sue chiacchierate riservate, il «dettaglio» più importante. E cioè che un «contatto diretto» tra Arcore e Palazzo Chigi ci sarebbe già stato, nei giorni scorsi. Prima che il presidente del Consiglio lasciasse l’Italia alla volta dell’Asia. Ci sarebbe, condizionale d’obbligo, anche una «data indicativa» per la prossima volta che Renzi e Berlusconi si ritroveranno faccia a faccia. E questa data, che entrambi avrebbero già appuntato sulle rispettive agende, sarebbe tra una settimana esatta. Martedì 17 giugno. A Roma.
Se si volesse intercettare la tela del dialogo che il presidente del Consiglio del Pd e il suo predecessore forzista tesseranno a breve, allora bisognerebbe spostare l’attenzione su quello che è successo nella villa di Arcore ieri mattina. Dopo la lettura dei giornali, infatti, un paio di parlamentari di Forza Italia — che avevano contattato Berlusconi per chiedergli una sua «analisi del voto» — hanno ascoltato dalla viva voce del «Presidente» la considerazione che segue. «Io lo sapevo già», è stata la premessa dell’ex Cavaliere. «Ma questi ballottaggi mi confermano che questo Paese non può permettersi una legge elettorale nazionale a doppio turno. Troppo rischiosa per tutti. Noi non potremmo certo votarla…». Un vero e proprio epitaffio dell’Italicum, insomma. Di più, la marcia funebre nei confronti di quella legge elettorale che era nata proprio dall’incontro al Nazareno con Renzi. E a cui gli stessi protagonisti, martedì 17, potrebbero dare il colpo di grazia. Per favorire un ritorno all’antico, magari al Mattarellum? Probabile. E con quali ricadute sulla riforma del Senato? Chissà.
«Questo è stato un voto molto strano. In cui l’astensione ha danneggiato soprattutto noi», ha ripetuto ieri mattina l’ex premier ai suoi interlocutori. «Per esempio», ha aggiunto, «sono rimasto molto deluso dalla sconfitta di Pavia. Ma Alessandro Cattaneo non doveva essere il sindaco più amato d’Italia? E ha perso così?». Per un dolore, due gioie. La prima è la rimonta di Padova, dove la vittoria del leghista Massimo Bitonci «ha dimostrato che la strada del dialogo con la Lega è quella giusta». La seconda è la storica «presa di Perugia», per giunta arrivata grazie a un giovanissimo (Andrea Romizi, classe ’79), che l’ex Cavaliere avrebbe già invitato ad Arcore.
Ma se le elezioni sono alle spalle e l’incontro con Renzi già fissato, le grane interne di Forza Italia sono tutto fuorché risolte. L’ala Fitto potrebbe usare l’ufficio di presidenza di oggi (l’unico tema all’ordine del giorno è l’approvazione del bilancio) per tornare alla carica con la richiesta di convocare le primarie interne. «È necessario affrontare con coraggio un percorso di rifondazione del nostro partito», è stato il siluro mandato da Mara Carfagna. «Non possiamo dire che in questo ballottaggio abbiamo avuto un grande risultato, chi lo dice non prende il dato della realtà», ha rincarato la dose Laura Ravetto, altra «colonna» dell’area che fa capo all’europarlamentare pugliese. Che subito dopo, tra l’altro, è tornata a chiedere la consultazione interna, seppur implicitamente: «Io sono per un rinnovamento che parta dalla base. Dobbiamo metterci tutti in gioco». Il tutto mentre Fitto in persona, ieri mattina, ha annullato la sua manifestazione prevista per venerdì a Napoli, che avrebbe creato un cortocircuito con la kermesse ufficiale del partito, in programma nella stessa città e alla stessa ora. «Ancora una volta, faccio prevalere il mio senso di responsabilità e il lavoro dell’unità», è stata la versione pubblica dell’annuncio dell’ex governatore pugliese. Che in privato, però, ha spiegato ai suoi che «adesso non possiamo cedere alle provocazioni, visto che quella di convocare una manifestazione in contemporanea alla nostra era una provocazione bella e buona».
Di fronte alla controffensiva della «fronda», i colonnelli dell'ex Cavaliere reagiscono in maniera soft. «Ci sono stati risultati deludenti. E dobbiamo affrontare anche una questione morale», è stata l’analisi del consigliere politico Giovanni Toti, che paradossalmente ha utilizzato un’argomentazione non troppo distante da quella del M5S («In Italia ci sono tre grandi opere in costruzione. E due su tre sono condizionate dalla malapolitica»). «Gli elettori moderati sono rimasti a casa», ha aggiunto Mariastella Gelmini. E Berlusconi? C’è chi lo racconta come «indifferente» ai movimenti dell’area Fitto. E chi, al contrario, lo descrive a tratti come «furibondo» rispetto a «come si stanno comportando Raffaele, Mara e tante altre persone che ho creato io…». Prima che gli confermassero della rinuncia di Fitto alla sua manifestazione napoletana, tra l’altro, l’ex Cavaliere s’era abbandonato a un commento a limite del beffardo. «Che facciano pure quello che credono. Poi voglio vedere se la gente segue me o loro…». Ma una strategia a colpi di «stop and go» difficilmente reggerà allo stress test a cui sarà sottoposta Forza Italia a partire da oggi. Quando i maggiorenti dell’ufficio di presidenza, seppur per ragioni di bilancio, si troveranno di nuovo seduti allo stesso tavolo.

La Stampa 10.6.14
Questi risultati rischiano di anticipare le politiche
di Marcello Sorgi


Se serviva una conferma dell’importanza del sistema elettorale, per valutare gli effettivi rapporti di forza, specie in fase di forte cambiamento, i risultati del ballottaggio l’hanno data. E non perchè la corsa di Renzi ha rallentato o s’è fermata, come è stato osservato a caldo - tra l’altro, pur perdendo Livorno, città simbolo, il centrosinistra aumenta il numero dei comuni conquistati -, piuttosto, perché, con il ritorno al maggioritario, e soprattutto in un ballottaggio, il centrodestra e il Movimento 5 stelle, dati per sconfitti al primo turno, in questo caso sono apparsi competitivi. Se si tornasse a votare per le politiche con un sistema elettorale simile a quello dei comuni, nonché a quello che la Camera ha già approvato, nessuno potrebbe scommettere facilmente su un nuovo trionfo di Renzi.
Anche a motivo che - ed è la seconda novità uscita dal voto di domenica - pur di non far vincere il centrosinistra, gli elettori di centrodestra e quelli grillini sono stati pronti ad allearsi come avevano già fatto più volte i parlamentari dei due schieramenti nell’attuale Parlamento. Ma mentre è possibile, seppur tutt’altro che facile, governare due gruppi parlamentari portandoli verso convergenze occasionali, non era prevedibile che lo stesso potesse verificarsi tra gli elettori, e senza neppure un grande impegno da parte dei leader. Invece è accaduto a Livorno, e non solo lì, e questo vuol dire che il “voto contro”, così come l’astensione, rientra tra le scelte ragionate dell’elettorato, esattamente come nei paesi in cui la democrazia maggioritaria e più radicata, e come era cominciato ad accadere anche in Italia ai tempi del Mattarellum e del voto nei collegi uninominali: se il candidato presentato non era gradito, i cittadini, per punire il partito che l’aveva imposto, votavano per l’avversario.
Valutazioni come queste sono all’ordine del giorno ai vertici dei tre maggiori partiti, che comunque escono stralunati da questa tornata di europee e amministrative. Renzi, di sicuro, ne trarrà motivo per accelerare l’ondata di rinnovamento e di ricambio generazionale all’interno del Pd. I parlamentari di centrosinistra che sentiranno di nuovo il vento della rottamazione cercheranno di fargliela pagare in Parlamento. Dove poi, c’è da scommetterci, Berlusconi e il centrodestra da una parte, e Grillo dalla sua, di favorire la marcia delle riforme avranno poca voglia, e cercheranno di scaricare sul premier l’incapacità di arrivare ai risultati che aveva promesso entro i tempi annunciati.
La verità è che, come già si era avvertito dopo il 25 maggio, e forse ancora di più per via dei risultati variegati delle città, questo voto chiama altre elezioni. Non sarà per l’autunno, ma per la prossima primavera, sono in tanti a pensarci.

Corriere 10.6.14
Le vittime di un’elezione imprevedibile e radicale
di Michele Ainis


Il caro estinto avrà anche lasciato qualche vedova. Non molte, a giudicare dagli ultimi risultati elettorali, dove i funerali del Centro si sono consumati in una chiesa vuota di fedeli. Tracollo dei centristi e dei centrini, astensionismo record (50,5%); e i due fenomeni sono indubbiamente collegati. Però sul primo non abbiamo letto neppure un necrologio, mentre il secondo riceve per lo più letture minimali, quando non venga addirittura sventolato come un indice di maturità della democrazia italiana. Difficile da credere, se c’è da credere alla verità dei numeri.
Mettiamo pure in un cassetto i ricordi della nonna, dimentichiamoci le prime otto elezioni generali (1948-1979), con un’affluenza mai inferiore al 90% del corpo elettorale. Ma sta di fatto che le Politiche dell’anno scorso hanno segnato il minimo storico in Italia (75%). E sta di fatto inoltre che, fra il primo e il secondo turno di queste Amministrative, si è dileguato un elettore su cinque (21% in meno di votanti). Se è il passaggio alla maturità, suona fin troppo repentino: nessun adolescente imberbe si sveglia con la barba lunga dalla sera alla mattina.
Ma è altrettanto fulminante — di più: brutale — la scomparsa dei partiti di centro, equidistanti fra la destra e la sinistra. Perché non è affatto vero che quello spazio politico sia stato risucchiato dai gorghi della Prima Repubblica. Non è vero che la Democrazia cristiana morì senza lasciare eredi. E non è vero che la Seconda Repubblica abbia poi allevato un bipolarismo duro e puro. In questi vent’anni si sono sempre fronteggiati un centro-destra e un centro-sinistra, ecco com’è andata. Alleandosi ora con l’uno ora con l’altro, Casini, Mastella, Dini, Segni, Follini, Buttiglione ne hanno determinato le fortune. Marciavano divisi, ma le loro truppe non erano affatto esigue: per dirne una, alle amministrative del 1998 le formazioni di centro raccolsero il 25% dei consensi. Ciascuna fiera della propria identità centrista, come testimonia per esempio lo slogan elettorale dell’Udc nel 2006 e nel 2008 («Io c’entro»).
Semmai la differenza con mamma Dc stava negli atteggiamenti, nelle strategie politiche. La prima — per usare le categorie di Norberto Bobbio — formava un centro «includente», con la pretesa d’assorbire la Destra e la Sinistra, d’annullarle in una sintesi superiore. Mentre i suoi nipotini hanno rappresentato un Centro «incluso», cercando il loro spazio fra le ali, senza però negarne la legittima esistenza. Ma adesso?
L’ultima incarnazione del Centro – quella tecnocratica di Monti – ha rastrellato alle Europee un misero 0,71%, passando in un anno da 3 milioni a meno di 200 mila voti. Ormai Scelta civica ha più eletti che elettori. E in generale il Centro incluso è stato escluso, il Centro includente è diventato inconcludente.
Sicché la domanda è una soltanto: perché? Quale virus letale ha sterminato quest’antica dinastia politica? Può darsi sia lo stesso virus che in Italia sta uccidendo il ceto medio, tradizionale serbatoio di voti per i partiti moderati. Può darsi che agisca il disincanto rispetto ai troppi fallimenti dei politici centristi nel passato. O può darsi che la colpa sia dei pensionati, dato che alle nostre latitudini ospitiamo la popolazione più vecchia del pianeta (ci supera soltanto il Giappone). È la diagnosi di Grillo per spiegare il suo deludente risultato, anche se lui non è di centro: la Dc praticava la politica dei due forni, Grillo invece cuocerebbe i suoi avversari al forno. Però è indubbio che i vecchi dovrebbero essere assennati, mentre i nostri vecchi sono disperati. Ed è altrettanto indubbio che nel corpaccione della società italiana circola una rabbia livida, impaziente, che erompe nelle urne attraverso scelte estreme.
Da qui un umore instabile e nevrotico, che ad ogni elezione ci consegna una sorpresa. A sinistra cade Livorno dopo settant’anni, espugnata dal Movimento 5 Stelle. A destra cade Pavia, ma in tutto i ribaltoni sono stati 13 nei principali capoluoghi. Ormai la sorpresa sarebbe l’assenza di sorprese. Non è più troppo sorprendente, tuttavia, la direzione del voto, o anche del non voto. L’uno e l’altro esprimono una furia iconoclasta, un anelito alla rottamazione universale, per usare la parola più alla moda. Gli italiani sono diventati radicali, ecco perché il Centro non trova più seguaci. Di conseguenza sono diventati radicali anche i politici italiani, senza più mezze misure.
Magari è meglio così, la nostra crisi non si cura con il misurino. Tutto sta a non perdere il senso della misura.

Corriere 10.6.14
Il Pd rimane forte però rischia di trovarsi da solo contro tutti
di Massimo Franco


È difficile dare torto al premier Matteo Renzi quando avverte che i ballottaggi di domenica «segnano la fine delle posizioni di rendita elettorale». L’analisi del segretario del Pd va completata con quella del suo predecessore, Pier Luigi Bersani, che evoca «delle spine, dei problemi. Siamo in una situazione in cui il Pd è un po’ contro il resto del mondo». Non esiste più il bipolarismo, ma tre tronconi politici dai contorni ideologici più liquidi del passato; e la tendenza di FI e M5S a non disdegnare l’alleanza per battere la sinistra. Insomma, il partito del presidente del Consiglio non arretra. Eppure avanza perdendo qualche colpo, in un panorama nel quale gli avversari cercano antidoti per frenarne la vittoria.
Se un meccanismo del genere si trasferisce a livello di elezioni nazionali, l’idea di un sistema che prevede il ballottaggio evoca scenari imprevisti. L’ipotesi che al secondo turno la competizione sia tra Renzi e Beppe Grillo, con un centrodestra tentato di appoggiare quest’ultimo, fa riflettere. È vero che alle europee è successo il contrario: è stata proprio la paura di un’affermazione grillina a contribuire al trionfo del Pd anche con l’apporto di alcuni spezzoni moderati. Ma la sconfitta nella roccaforte storica di Livorno rappresenta la conferma che non si può più dare per scontato nulla. L’ex capo del governo, Enrico Letta, sostiene che l’esito è stato così bruciante da suggerire «una riflessione nazionale».
La preoccupazione del Pd, tuttavia, è che l’analisi si trasformi in una guerra tra vecchia guardia e nuovo corso renziano. Indubbiamente, si intravede una certa omogeneità di giudizio sulla tendenza dell’elettorato a premiare il cambiamento e a punire le nomenklature del passato. Il partito cerca di smussare la tesi, cara ad una parte dei renziani, secondo la quale la sinistra ha vinto dove sono emerse candidature e logiche nuove, mentre si è ritrovata isolata e perdente in alcune delle tradizionali «zone rosse», avulse dai cambiamenti imposti dal premier. Il timore palpabile, però, è che un’impostazione del genere ricrei tensioni interne.
Per questo il capo del governo preferisce sottolineare il «risultato straordinario». Le sconfitte in città come Livorno, Potenza, Perugia e Padova, a suo avviso non lo offuscano. L’idea di una «frenata» dell’effetto Renzi dopo le europee viene scansata con una punta di fastidio: anche perché le disomogeneità locali rendono difficile tirare somme sul piano nazionale. E gli ultimi risultati arrivati ieri dalla Sicilia sono confortanti per il Pd. In questa fase, è indubbio che il partito del premier si presenti come una sorta di unico perno del sistema. Il problema è che si tratta di un sistema in crisi. L’unico elemento sul quale quasi tutti si ritrovano d’accordo, infatti, riguarda il crollo della partecipazione, arrivata al 49,5 per cento.
Colpa degli scandali emersi nelle ultime settimane, che configurano responsabilità trasversali; e di una risposta inadeguata nei confronti di una corruzione endemica. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, propone «una rigida semplificazione delle regole per ricostruire un senso di responsabilità delle persone». Ma la percentuale crescente dei non votanti prefigura una massa di scontenti che può fluttuare da uno schieramento all’altro, da una forza all’altra a seconda delle circostanze; e dunque sconvolgere equilibri di potere e alleanze in maniera imprevedibile. È un «partito» eterogeneo eppure potenzialmente maggioritario, in attesa di trovare nuovi punti di riferimento: un universo volatile e per questo incontrollabile.

Il Sole 10.6.14
L'affluenza in calo di 20 punti ha ribaltato i risultati
Ecco perché a Potenza, Livorno, Pavia, Padova e Perugia i candidati favoriti dopo il primo turno hanno perso
di Roberto D'Alimonte


A lla fine possono essere tutti contenti o tutti scontenti. Chi più, chi meno. Motivi di soddisfazione e motivi di rammarico si sono equamente distribuiti. Le amministrative rappresentano una sfida difficile e imprevedibile. Soprattutto quando si decidono al ballottaggio. Fattori locali e clima nazionale si mescolano in maniera spesso indecifrabile. E poi, sopra tutto, pesa l'affluenza che nei 18 capoluoghi in cui si è votato domenica è calata mediamente di 20 punti percentuali. Non tutti tornano a votare a distanza di due settimane dal primo turno. Chi per indifferenza, chi per convinzione che la partita sia già chiusa, chi per l'assenza dei candidati sindaco preferiti, chi per la mancanza dei candidati di lista che sono presenti al primo turno ma non al secondo. E così l'elezione può diventare in certi casi una sorta di roulette. È capitato anche questa volta.
Per il Pd queste elezioni sono state tutto sommato un successo, ma non travolgente. Ha vinto e ha perso. In questa consultazione il fattore Renzi non ha giocato o ha giocato poco. Pd e alleati hanno vinto in 19 capoluoghi su 27. Otto al primo turno e 11 al secondo. Cinque anni fa erano stati 15. Ma hanno perso male a Livorno, a Potenza e a Perugia, roccaforti del centro-sinistra, oltre che a Padova, Urbino e Foggia dove avevano vinto 5 anni fa. Le sconfitte a Potenza e Perugia sono una spiacevole sorpresa. Qui al primo turno i candidati del Pd avevano sfiorato la vittoria distanziando largamente i loro rivali. Il vero motivo di soddisfazione per il partito di Renzi sono le vittorie in 6 capoluoghi su 7 al Nord. Ha vinto dovunque era all'opposizione e ha perso a Padova dove governava.
Per lo schieramento di Berlusconi queste elezioni rappresentano uno scampato pericolo. Nelle condizioni di incertezza in cui si trova l'esito avrebbe potuto essere peggiore. Certo, bruciano le sconfitte in tutti i capoluoghi del Nord dove governava, soprattutto Bergamo e Pavia. Ma si può consolare con le vittorie a Padova, dove il sindaco sarà Massimo Bitonci della Lega, oltre che a Perugia, Urbino e Foggia. Cinque anni fa aveva vinto in 12 capoluoghi. Adesso sono 6 più Potenza che è un caso particolare. Non è proprio un bel risultato ma, come si è detto, poteva andare peggio.
In fondo anche il M5s può cantare vittoria. Avrebbe potuto restare a bocca asciutta e invece porta a casa un risultato clamoroso con la vittoria di Nogarin a Livorno. Per questo deve ringraziare il Pd e le sue divisioni interne. Ma una rondine non fa primavera. A livello locale l'Italia resta un paese bipolare, con un terzo polo scomodo ma poco influente. In questa arena la competizione è tra coalizioni e non tra partiti come alle europee. Il M5s può vincere solo in circostanze molto particolari, come a Livorno e qualche anno fa a Parma.
Tra tutti il più contento deve essere Fdi, il partito della Meloni, che - dopo la sconfitta alle europee - è salito agli onori delle cronache locali per aver vinto a Potenza presentandosi con il solo appoggio dei Popolari di Mauro e senza quello dei suoi alleati tradizionali del centro-destra, Fi-Ncd-Udc, che avevano puntato su un altro candidato. Insieme a Livorno e a Perugia, la sconfitta del Pd qui rappresenta la maggiore sorpresa di queste elezioni. Il candidato del centro-sinistra aveva ottenuto il 47,8% al primo turno contro il 16,8% di quello di Fdi. Il secondo turno è finito con il vincente De Luca che ha preso il 58,5 per cento. Anche qui come a Livorno hanno pesato le divisioni del Pd, ma qui più che a Livorno ha giocato un ruolo determinante l'astensione. Dopo Terni, Potenza è il capoluogo dove è aumentata di più, ben 26,7 punti percentuali. Il 75,1% degli elettori ha votato al primo turno, e solo il 48,4% al secondo. A Livorno invece l'affluenza è calata di 14 punti.
I veri perdenti di queste elezioni sono i sindaci. Se ne sono ripresentati in 13 su 27 e solo 4 sono stati riconfermati, due di centro-destra (Ascoli Piceno e Teramo) e due di centro-sinistra (Terni e Ferrara). Gli altri sono stati puniti da un elettorato che è diventato sempre più insofferente nei confronti di chi governa. Alle europee il fenomeno non si è verificato grazie al fattore Renzi. Invece le amministrative hanno largamente punito le amministrazioni uscenti. In 16 capoluoghi su 27 il governo locale ha cambiato colore.
Adesso si volta pagina. Per un po' non ci saranno elezioni alle porte. Renzi potrà dedicarsi totalmente alla sua agenda riformista. Berlusconi avrà il tempo per decidere come rilanciare il suo partito. E anche il M5s potrà riflettere su cosa fare da grande.

Il Sole 10.6.14
Rendite finite ma il Pd dovrà evitare faide fra vecchio e nuovo partito
Livorno caso simbolico e le inutili polemiche sull'effetto Renzi che non poteva esserci
di Stefano Folli


Difficile dar torto al premier Renzi quando osserva, a commento dell'esito dei ballottaggi, che «le posizioni di rendita sono finite». Senza dubbio egli pensa al Pd, ma è una verità che vale per tutta la politica italiana. La rendita è finita perché l'elettorato è sempre più inquieto e mobile, depone la scheda nell'urna seguendo lo stato d'animo o la frustrazione del momento, non appartiene più a una forza politica consolidata. O a un movimento. Si votano le persone assai più che le sigle. E allora l'effetto Renzi, l'effetto Grillo o in passato l'effetto Berlusconi si rivelano una veloce scorciatoia per il successo, ma sono anche una fragile piattaforma su cui non è raccomandabile adagiarsi.
In ogni caso, in queste elezioni amministrative non c'era ovviamente da attendersi alcun effetto Renzi, considerando le caratteristiche peculiari del voto locale. Molti risultati, specie al Nord e al Centro, non erano prevedibili. Lo stesso Grillo, che non ha fatto campagna elettorale ed era concentrato, semmai, sulla grana dell'alleanza con Nigel Farage, si è trovato fra le mani la vittoria di Livorno (nonché quelle di Civitavecchia e Bagheria) come un regalo abbastanza inaspettato.
Ne deriva che le polemiche da destra circa il presunto esaurirsi dell'ascendente renziano sugli elettori sono poco convincenti. Semplicemente non era il terreno adatto: come sa bene proprio Berlusconi che per anni cercò di trasferire nelle ammiistrazioni locali i successi personali raccolti su scala nazionale. Questo non esclude che il Pd non debba riflettere con attenzione su quanto è avvenuto domenica. E non perchè l'esito di queste comunali sia stato negativo. È stato un successo, grazie ai 160 comuni confermati o conquistati. Eppure, proprio perché non esistono più rendite, come dice il premier-segretario, c'è bisogno di un serio lavoro di rinnovamento. E non solo a Livorno o a Perugia.
Detto questo, sarebbe un grave errore banalizzare la questione. Ovvero avviare una resa dei conti fra «vecchio» partito e «nuovo» partito. Primo, perché i dati complessivi, come abbiamo visto, parlano di una vittoria e renderebbero incomprensibile una faida interna. Secondo, perché in questo momento uno scontro avrebbe riflessi negativi e, anzi, autolesionistici sulla stabilità del governo, ossia il fattore più positivo che il 41 per cento delle europee ha portato con sé.
Renzi ha tutti gli strumenti per avviare la riflessione, in particolare sul caso emblematico di Livorno e su altri incidenti di percorso in Italia centrale (ma anche a Padova e a Potenza). Ovvio che tale passaggio non sarà affatto semplice e tenderà a intrecciarsi con la questione morale che si è riaffacciata con prepotenza, portando in primo piano anche i volti del Pd. Ci sono ottime ragioni quindi perché il dibattito del dopo-voto si svolga con serenità e non si trasformi in un'arma impropria per annientare l'avversario.
In sostanza, il «vecchio» partito dovrà rassegnarsi. Né la perdita di Livorno né quella di Perugia o di Padova sono da ascriversi alla responsabilità dei «renziani». Almeno non in forme tali da autorizzare un regolamento di conti. Il che vale anche viceversa: una sorta di notte dei lunghi coltelli nel Pd non si giustifica con esigenze di potere, visto che Renzi ne dispone in abbondanza. Sarebbe semplicemente un errore.

il Fatto 10.6.14
Renzi non c’entra, ha perso il Pd
di Antonello Caporale


Una minoranza attiva di italiani ha falcidiato le rendite di posizione e abbattuto i bastioni del potere immobile, perpetuo, definitivo. Ha opposto col suo voto una resistenza, ha forzato la mano, domandato un cambiamento e l'ha ottenuto. Sebbene rovesciata la piramide contiene le stesse ragioni di fondo che due settimane fa condussero Matteo Renzi al successo. Il paradosso è che il leader del nuovo verso è anche il segretario del partito espugnato nei suoi fortilizi storici. Il Pd infatti avanza nella sua forza organizzata, conquista posizioni sia al nord che a sud. Perde invece dove il suo volto coincide con un ceto dominante ed escludente, un sistema ereditario e conservatore, un punto di raccolta di una classe dirigente formata attraverso le relazioni amicali e clientelari più che nei confronti in sezione.
NON È UN VOTO contro Renzi ma contro il suo partito. Non è la stessa cosa anche se i motivi di allarme esistono, e il premier in effetti sembra aver già colto. Per Renzi è una lezione che può fargli bene e che deve indurlo a riflettere sulla impossibilità di praticare il cambiamento raccogliendo sia i voti di chi quel cambiamento lo chiede sinceramente, sia di coloro che lo avversano. Il capitale totalizzato alle Europee rappresenta infatti la somma aritmetica degli uni e degli altri, del diritto e del rovescio della rottamazione. Somma l’aspirazione di militanti sinceri o di elettori che puntano ad aprire un credito all'idea che qualcuno possa oggi fare meglio di ciò che fino a ieri si è visto, con quella dei cacicchi impenitenti, dei ras locali che hanno tutt’altre mire, dei grumi di potere immarcescibili, impermeabili nella catena di comando conservativa e circolare, chiusa a qualunque avvicendamento.
Il bastione rosso di Livorno cade sotto il peso della sua insostenibilità ambientale. I livornesi non ne potevano più, così come i perugini che hanno accettato di affidare la città alle mani di un giovane e timido avvocato, chiamato a immolarsi in sostituzione del candidato ufficiale del centrodestra che si era ritirato alla vista di un fronte già diviso in partenza. Se nonostante tutto Andrea Romizi in Umbria ce l’ha fatta, vuol dire che il potere rosso è collassato, deflagrato nella plancia di comando. Pari pari a ciò che è accaduto a Potenza, ma qui con l’ala popolare e democristiana del partito, che ha perso la città di cui è padrona assoluta dal dopoguerra per esaurimento di ogni suggestione ideale, o peggio, per il venir meno - causa crisi - dell'offerta clientelare.
È un bel segnale per la democrazia, significa che è viva e riesce a offrire, malgrado tutto, una speranza, una possibilità a coloro che sono chiamati a raccoglierla. È un’ottima chance per il Movimento 5 Stelle che ottiene un successo lucente, una conferma del suo peso specifico, proprio nell’ora in cui i leader carismatici, Grillo e Casaleggio, se la passano peggio. Nelle ultime elezioni, e ancor di più in quelle precedenti, Beppe Grillo ha dovuto coprire col suo volto e le sue urla la voce e la faccia dei suoi candidati. Per la prima volta invece la base del movimento si mostra autosufficiente e inanella undici sindaci (ancora pochi per un movimento così popolare ) senza il tutoraggio del capo. Anzi sembrerebbe che l’astenia del capo sia stata fruttuosa, abbia permesso ai militanti di avanzare la propria proposta di governo senza l’apocalisse lessicale del comico, la violenza dei suoi paradossi, l’ira funesta che lo distingue. E questa è una novità di non poco conto. E così un grillino oggi guida Livorno, un altro Civitavecchia, città in cui il Pd aveva appaltato alla famiglia Tidei il governo di ogni minuzia, un terzo espugna Bagheria, e qui siamo in Sicilia. Sono luoghi importanti e annunciano sfide straordinarie. E se è vero che sui 5Stelle, come è la natura dei ballottaggi, sono confluiti i voti del centrodestra, è certo che i profili personali dei candidati sono nettamente progressisti, ambientalisti, con una storia personale aperta soprattutto a quelle istanze.
NEL CONTO dei vincitori si deve mettere la Lega di Matteo Salvini che conquista lo snodo cruciale di Padova e irrobustisce nel Veneto una forza che andava rifluendo. Come straordinario è il successo di Renato Natale, simbolo dell'anti camorra, a Casal di Principe, il luogo dell'Authority del crimine organizzato. È uno schiaffo possente e liberatorio, a cui si aggiunge la vittoria di un sindaco libero da amicizie pericolose a Castel Volturno, altro luogo della violenza criminale. Infine Forza Italia: perde ovunque, persino a Pavia, città del suo golden boy Cattaneo. Vince a Perugia, ma sembra un caso.

il Sole 10.6.14
Il politologo Mauro Calise
Media e magistratura: i «rischi» del premier senza più opposizioni
di Lina Palmerini


Un premier senza più opposizioni o almeno con opposizioni assai deboli: debole è il suo stesso partito, deboli sono gli altri partiti, deboli le parti sociali, debole perfino quel partito dei sindaci che tanto ha pesato nella storia della sinistra. È una novità che Matteo Renzi ha anche reso più evidente con quella frase "Ci metto la faccia" che scalza il rapporto con i cosiddetti corpi intermedi per un corpo a corpo solo con l'elettorato. Di questo inedito momento politico parliamo con Mauro Calise professore di scienza della politica e autore di libri tra cui "Il partito personale". «La sua domanda sull'assenza di opposizioni è legittima ma fa riferimento a una fase passata. Non siamo più in un sistema classico in cui ciascun partito si definiva nella relazione con l'altro. Con populismo e personalizzazione della politica si è superata la contrapposizione tra partiti fondata su fratture storiche: non c'è più, quindi, destra/sinistra perch é U il populismo tende alla trasversalità degli elettorati mentre il personalismo carica di aspettative e responsabilità solo il leader».
In sintesi: se Renzi è arrivato al 41% pescando tra i voti moderati di Scelta civica , U ma anche tra i delusi berlusconiani e grillini pentiti questo è dovuto a un populismo che diluisce i confini tra partiti e da una leadership forte che carica solo su di sè le attese dell'elettorato. Punti di forza che hanno però le loro trappole. E non solo quelle che si vedono a occhio nudo: cioè che l'assenza di alternative azzera gli alibi e identifica con chiarezza la responsabilità del leader. Non a caso Renzi nel suo "patto" con gli elettori mette sul tavolo la sua stessa poltrona e dice: «Posso andare a casa domani». Oltre a questo ci sono fattori di rischio che Calise chiama "fattori M". «Il fattore media e il fattore magistratura. Le spiego. L'esposizione personale del leader crea molte attese alimentate dai media che, però, con la facilità con cui si innamorano riescono a disinnamorarsi. Si ricordi, poi, che Berlusconi aveva ed ha i suoi media di riferimento, Renzi no». E l'altro? «È il fattore magistratura. La personalizzazione della politica espone un leader all'azione investigativa molto più di prima anche perchè privo dello scudo-partito. Uno scudo che ha avuto sempre la sinistra ma che Renzi non ha più».
Insomma, spariscono gli alibi e compare l'i n Usidia di diventare «preda» dei "fattori M". Con qualche contromisura che Renzi può – o forse deve assolutamente – prendere. «Direi che i punti di fragilità sono due: da un lato quella carica di aspettative che deve indurre il premier alla formazione di una squadra solida che lavori sui tanti e complicati dossier. Il presidente americano si prende qualche mese per la definizione del team. Sull'altra fragilità, quella che lo rende preda della magistratura, serve una corazza istituzionale. Non è un caso che sistemi di personalizzazione della politica abbiano assetti costituzional i U coerenti: parlo di presidenzialismo, semipresidenzialismo o premierato forte. Se Sarkozy fosse stato in Italia sarebbe finito in galera e se Hollande fosse stato italiano con il 16% delle ultime europee a quest'ora staremmo già discutendo di elezioni a ottobre».
Esempi chiarissimi, che hanno una logica , U ma che è stata sempre stata rifiutata. «Guardi quando sento parlare di deriva autoritaria mi viene da ridere. C'è invece una responsabilità chiara, imputabile e dunque serve autorità. Ma siamo ancora in un dibattito vetero-costituzionalista mentre U già tutto è cambiato: i partiti si sono sgretolati, l'elettorato è diventato volatile e trasversale catturato da quello che chiamiamo populismo e leaderismo». E del resto la prova del nove sta proprio in quel balzo del Pd fatto solo in un anno, dal 25% circa al 41% circa. «Renzi ha fatto approdare la sinistra a una fase post-sistemica in cui il punto politico non è la contrapposizione – berlusconismo e anti-berlusconismo – ma la capacità operativa del leader». E che dice a Susanna Camusso che chiede un partito unico della sinistra?
«Auguri».

Corriere 10.6.14
Tre ore dai magistrati, l’ira di Orsoni sul Pd
Consiglio sospeso per le proteste
di Marco Imarisio


VENEZIA — E poi siamo arrivati al casino organizzato. «Manca solo Alì Babà», «La vostra trasparenza è come l’acqua dell’Oselin», che sarebbe un fiume molto inquinato di Mestre. Erano una quindicina, armati di manifesti e cartelli dai quali risultava una certa fantasia negli slogan e altrettanta aggressività. I soliti noti veneziani, motoscafisti abusivi, reduci dalle breve stagione dei Forconi, scissionisti della Lega Nord, presenze abituali delle proteste contro i campi rom.
Le loro telegeniche urla hanno coperto il vuoto pneumatico e l’indifferenza che gravava sul primo consiglio comunale veneziano dopo l’arresto del sindaco Giorgio Orsoni. «Mai vista così poca gente» diceva sconsolato Beppe Caccia dei Verdi, prima di scambiarsi qualche manata con i contestatori. «Voi dove eravate quando abbiamo fatto le battaglie contro il Mose? Dove eravate quando c’era il vostro Galan?». I solerti vigili urbani hanno evitato scontri ancora più ravvicinati.
L’episodio vale soltanto come indicatore dell’attuale precarietà del governo cittadino, con sindaco ai domiciliari e conseguente paralisi istituzionale, poca responsabilità nei fatti di questi giorni a causa dei suoi scarsi poteri, ma pur sempre un simbolo sul quale lanciare strali e rancori assortiti, tanto più oggi che risulta debole come non mai. A Ca’ Farsetti, storica sede della giunta cittadina, va in scena la rappresentazione posticcia di una indignazione che non c’è nei fatti. Le partite che contano, quelle vere, si giocano altrove.
Giorgio Orsoni è entrato in procura alle undici del mattino, per uscirne solo tre ore dopo, proprio quando stava per cominciare la finta rissa nel suo ormai ex consiglio comunale. La versione più accreditata di questo suo nuovo interrogatorio parla di un incontro di natura quasi «istituzionale», con l’inoltro della richiesta di «poter gestire la misura con gli impegni d’ufficio», ovvero il permesso di poter incontrare vicesindaco e assessori per mandare avanti almeno l’ordinaria amministrazione della città. Ma c’è dell’altro.
L’ormai ex sindaco considera chiusa la sua esperienza politica. Quel che gli interessa è soltanto un rapido ritorno alla rispettabilità, camminare a testa alta per poter ricominciare il suo lavoro di amministrativista. Orsoni è furioso con il Pd veneziano, non solo perché a suo parere non gli avrebbe concesso neppure il beneficio del dubbio. All’origine delle sue disgrazie, un finanziamento illecito da 450 mila euro, ci potrebbe essere qualcuno che sa ma non dice. L’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova Giovanni Mazzacurati racconta di otto diversi incontri mirati a determinate l’importo e le modalità di versamento di un contributo alla sua campagna elettorale.
L’imprenditore sostiene di aver consegnato i soldi «in nero» a Ferdinando Sutto, ex socialista, nei fatti il suo ufficiale pagatore, che gli avrebbe dati a un’altra imprecisata persona incaricata di girarli al futuro sindaco, il quale sostiene di non averli mai ricevuti. Ammesso e non concesso che Orsoni e Sutto dicano entrambi la verità, l’unica alternativa possibile è quella di un emissario infedele. Il problema, secondo la sua difesa, non è quel che ha ricevuto lui, ma qualcun altro a suo nome. Ieri in consiglio comunale si scommetteva su un pesante intervento pubblico di Orsoni nei confronti del Pd, se e quando tornerà a piede libero.
Gli umori sono questi, tendenti alla cupezza, in un clima di sospetti e paure. Difficile che il sereno venga dalle prime, parziali ammissioni di indagati o arrestati, in una inchiesta che sembra più si configura a cerchi concentrici. Ieri Patrizio Cuccioletta, ex presidente del Magistrato alle Acque, accusato di aver incassato dal Consorzio uno stipendio annuale da quattrocentomila euro e vacanze pagate in cambio di limitati controlli sull’attività del concessionario unico del Mose, ha riconosciuto di aver ricevuto «qualcosa». Ma ha aggiunto di averle sempre considerato quegli omaggi come «piccole regalie» che mai avrebbero interferito con il suo lavoro. Giancarlo Galan ha invece fatto sapere di essere pronto a rilasciare dichiarazioni spontanee davanti ai giudici. L’appuntamento potrebbe essere per giovedì.
Ieri il consiglio comunale ha votato un ordine del giorno nel quale si chiede al governo una Commissione d’inchiesta sulle attività del Consorzio Venezia Nuova, il suo scioglimento, il superamento del regime di concessione unica e l’abolizione della figura del Magistrato alle Acque. Ripartire da zero. Forse è l’unico modo per ritrovare l’onore perduto di una città.

Il Sole 10.6.14
In arrivo il decreto Cantone È braccio di ferro sui poteri
di Marco Ludovico


ROMA. Un decreto legge sui nuovi poteri a Cantone. E un pacchetto di altre norme anticorruzione da inserire nella riforma della pubblica amministrazione. Tempo a disposizione: 72 ore o poco più. Venerdì, infatti, è il termine ultimo, al Consiglio dei ministri il premier Matteo Renzi dovrà portare all'approvazione i provvedimenti annunciati. Di certo, per ora, è che per questo genere di interventi non si affronterà l'esame del pre-consiglio, la riunione a Palazzo Chigi con i capi gabinetto e degli uffici legislativi dei ministeri interessati.
Del resto su un tema come l'anticorruzione, oltre alla presidenza del Consiglio, hanno titolo a intervenire almeno cinque ministri di rango: Pier Carlo Padoan (Economia), Maurizio Lupi (Lavori pubblici), Marianna Madia (Funzione pubblica), Angelino Alfano (Interno) e Andrea Orlando ( Giustizia). Il percorso sarà accidentato. Per sostenere l'azione di Raffaele Cantone, numero uno dell'Authority anticorruzione, ieri è sceso in campo il vicepresidente di Confindustria Ivan Lo Bello: «Cantone fa bene a richiedere più poteri. Ha delle idee che condivido pienamente. Speriamo che venerdì si concedano più poteri con il decreto per l'affidamento dei poteri speciali al presidente dell'autorità anticorruzione». Il tema resta comunque delicato. Occorre definire per il numero uno Anticorruzione quali sono i poteri ispettivi e come è possibile intervenire, per esempio, su contratti già avviati, come nel caso dell'Expo a Milano.
I maggiori gradi di movimento per Cantone devono essere compatibili con gli altri attori, come la magistratura o l'Autorità di controllo per i lavori pubblici. Alessia Morani (Pd) osserva: «Dobbiamo evitare che si sovrapponga l'autorità anticorruzione al lavoro della magistratura. È un equilibrio molto delicato». Morani aggiunge che «in questo momento non possiamo permetterci che le opere si blocchino e non possiamo neppure permetterci - rammenta la responsabile giustizia ddel Pd - che tutti questi soggetti che ruotano nel malaffare siano ancora ad una distanza siderale». Il commissario di Expo Giuseppe Sala si augura che «il decreto del governo, che dovrebbe essere emanato venerdì prossimo, metta il magistrato Cantone nella condizione di poter svolgere la sua attività di controllo».
Tra le norme in discussione si ipotizza un inasprimento delle condanne per il reato di corruzione. E dovrebbe essere definito anche un pacchetto di articoli per regolare i rapporti tra l'Anac, l'autorità nazionale anticorruzione, e il ministero della Funzione pubblica. In ballo c'è anche una sorta di Daspo ai politici e agli imprenditori macchiatisi di corruzione. Non solo: nel quadro complessivo degli interventi, ma con tempi lunghi, dovrebbero comparire un inasprimento della disciplina sul falso in bilancio e l'introduzione del reato di autoriciclaggio. Venerdì, invece, almeno secondo gli auspici di Cantone, dovrebbe sciogliersi anche un altro problema non da poco con la nomina dei quattro componenti dell'Authority, due uomini e due donne

Corriere 10.6.14
La solitudine del commissario
Raffaele Cantone ha buone ragioni per essere preoccupato
di Gian Antonio Stella


«Raffaele stai sereno», continua a rassicurarlo Matteo Renzi. Ma Raffaele Cantone ha buone ragioni per essere preoccupato. Molto preoccupato. I giorni passano. Inesorabili. Ne sono trascorsi già trentatré, dalla retata che vide l’arresto di Frigerio, Greganti, Maltauro e degli altri figuri coinvolti nell’inchiesta sull’Expo 2015. E già trenta dalla scelta del premier di spedire a Milano il giudice campano (già messo a marzo alla testa dell’Autorità anti corruzione da anni abbandonata al ruolo di guscio vuoto) perché ficchi il naso nei cantieri e nelle imprese dell’Esposizione, dove l’angoscia per i ritardi e il tempo che scorre velocissimo s’impasta col timore delle tangenti, dei lavori fatti male, dell’esplosione dei costi.
Sono tanti, 30 giorni. Bastarono ai californiani per riparare l’arcata del Bay Bridge, il ponte che unisce San Francisco a Oakland, crollata per il terremoto del 1989. Non sono bastati a un capo del governo che va di fretta per definire quali poteri avrà quello che dovrebbe essere il suo plenipotenziario sul fronte anti mazzetta.
Lo stesso Cantone, intendiamoci, spiega a tutti che se c’è uno di cui si fida è Renzi. Ma la ragnatela di quello che Charles Dickens chiamava il «Ministero delle Circonlocuzioni» dedito a «immischiarsi di tutto» perché nulla si muova, si è andata via via tessendo fino ad avvolgere con morbide tenaglie ogni svolta riformatrice. Ma chi è, il ragno? Meglio: quanti sono, dove sono, che volto hanno i ragni che con sottile e pignola pazienza sembrano voler infiacchire gli sforzi contro i corrotti?
È questo che Cantone non capisce. Questo che lo intimorisce. Fino al punto di fargli confidare agli amici di avere quasi più paura di questi oscuri tessitori che dei camorristi. Dei Casalesi, dopo anni di sfida frontale, sa tutto. Sa come ragionano, come si muovono, come puntano i nemici. Dei ragni annidati negli interstizi della cattiva politica, della cattiva amministrazione, della cattiva burocrazia, non sa niente. O quasi niente. Ed è difficile combattere un nemico invisibile. Anche se si sa di avere il consenso di tantissime persone perbene.
Per questo lo slittamento, sia pure di pochi giorni, delle regole più dure sulla corruzione e della definizione dei poteri del «supervisore» sull’Expo («urgentissime» ma evidentemente non troppo), non è un bel segnale. Perché mostra incertezze, divisioni e ambiguità sulle competenze che la dicono lunga su come manchi, in questa trincea, il cemento che fa vincere le guerre: la compattezza.
Vale per l’Expo, vale per tutte le grandi opere, vale per il Mose. È stupefacente il silenzio con cui si dà per scontato che il Consorzio Venezia Nuova, benedetto da tre decenni di deroghe e di proroghe e di mancati controlli, debba finire ormai il lavoro iniziato a dispetto del coinvolgimento in un vorticoso sistema di tangenti. Non c’è padrone di casa al mondo che, accortosi che l’idraulico ha fatto il furbo, ha speso una tombola in bustarelle e non ha ancora finito il lavoro, gli confermi la fiducia e gli dia altri soldi. Non ce n’è uno che non cercherebbe subito altri professionisti, con una gara internazionale e non casereccia, per capire se, come, dove, quanto si è sbagliato. E come eventualmente si possa rimediare. Venezia viene prima degli interessi di un cartello di potentati che, si è visto, purtroppo, non meritava tanta fiducia.

Corriere 10.6.14
La corsa dei burocrati a caccia di un posto nel pool di Cantone
La lista dei 213 candidati
di Sergio Rizzo


La legge parla chiaro. I componenti dell’autorità anticorruzione devono essere scelti «tra esperti di elevata professionalità, anche estranei all’amministrazione, con comprovate competenze in Italia e all’estero, sia nel settore pubblico che in quello privato, di notoria indipendenza e comprovata esperienza in materia di contrasto alla corruzione». A far riflettere, semmai, è la procedura: i candidati vengono indicati dal governo ma le nomine sono subordinate al «parere favorevole delle commissioni parlamentari competenti espresso a maggioranza dei due terzi dei componenti». Il che potrebbe inevitabilmente aprire spazio ad accordi sottobanco fra i partiti. Secondo il ben noto meccanismo: «Due scelti da me, uno da te e uno da lui».
Inutile dire che per la piega che hanno preso le cose, con le inchieste sull’Expo e sul Mose che stanno squarciando il velo su un cancro dalle metastasi diffuse in profondità nel mondo degli affari, della politica e anche dell’alta burocrazia, la faccenda è delicatissima. Così delicata da richiedere tempi di reazione rapidi. Forse più di quelli a cui stiamo assistendo. I termini per la presentazione delle candidature da parte degli interessati sono scaduti il 14 aprile, due mesi fa. In un paese nel quale abbiamo subito il proliferare di authority di ogni tipo, questa è quella che ha avuto la vita più travagliata. E dopo lo spettacolo sconcertante che ci hanno offerto in questi giorni le cronache non è molto difficile capire perché.
L’autorità anticorruzione viene istituita con poche risorse umane e pochissimi soldi sette anni fa, soltanto perché c’è lo impongono gli accordi internazionali. A capo ci mettono il prefetto Achille Serra, che l’anno seguente sceglierà di candidarsi alle elezioni con il Partito democratico passando poi all’Udc. È il 2008, Silvio Berlusconi ritorna a palazzo Chigi, e una delle prime iniziative del nuovo governo è quella di sopprimere l’authority, bollata come inutile. Ma siccome i trattati ne prevedono comunque l’esistenza, le funzioni vengono assegnate alla Civit, meglio nota come autorità anti fannulloni. Si tratta di un organismo che dovrebbe vigilare sulla trasparenza e l’efficienza della pubblica amministrazione, ma lo stato in cui versa la nostra burocrazia dice tutto sulla sua efficacia. Lo capisce immediatamente uno dei suoi componenti, Pietro Micheli, che se la dà a gambe appena può. Nel frattempo l’unica cosa che marcia sono le assunzioni. Si arriva così a oggi. La Civit diventa Anac, che sta per Autorità nazionale anticorruzione, e alla sua testa viene nominato il magistrato Raffaele Cantone. A cui viene affidato un compito da far tremare le vene ai polsi, in un clima non proprio confortevole per chi vuole stroncare la corruzione.
E qui torniamo alle decisioni che governo e parlamento sono chiamati a prendere in questi giorni. Scelte cruciali, visti i precedenti. Le autorità indipendenti, che dovevano rappresentare il baluardo dei cittadini contro i soprusi dei poteri economici e in qualche caso anche del malaffare, hanno in gran parte fallito la propria missione. Un caso per tutti, quello dell’authority per la vigilanza sugli appalti. Organismi che dovevano essere rigorosamente separati dal politica e dai partiti non sono rimasti estranei alle pratiche della lottizzazione, risultando talvolta un comodo approdo per alti burocrati pubblici a fine carriera, spesso esponenti di quella magistratura amministrativa competente a giudicare sui ricorsi avverso le stesse authority, in un conclamato conflitto d’interessi.
Al governo sono arrivate 213 candidature regolarmente pubblicate sul sito. Ma senza i curriculum e i riferimenti anagrafici, così da rendere difficilmente identificabili persone dai nomi piuttosto comuni come il candidato Ciro Esposito. Nella lista non mancano tuttavia numerosi esponenti riconoscibili della burocrazia pubblica. Come il magistrato del Tar Alfredo Allegretta. E il consigliere di Stato Michele Corradino, già capo di gabinetto di Giulio Santagata (governo Prodi), Stefania Prestigiacomo (governo Berlusconi) e Mario Catania (governo Monti). E Carlo D’Orta, già consigliere dei ministri Maurizio Sacconi, Sabino Cassese, Franco Frattini e Franco Bassanini. E Manin Carabba, classe 1937, presidente onorario della Corte dei conti, già capo di gabinetto di vari ministri per un decennio consecutivo ai tempi della Prima repubblica. E Caterina Cittadino, capo dipartimento di Palazzo Chigi. E Stefano Passigli, ex sottosegretario alla presidenza nei governi D’Alema e Amato. E Livio Zoffoli, ex presidente del Cnipa, già authority per l’informatica pubblica. E Costanza Pera, direttore generale del ministero delle Infrastrutture. E Sergio Basile, già capo di gabinetto dell’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno. E il consigliere della Corte dei conti Ermanno Ranelli. E Diana Agosti, capo del dipartimento delle politiche europee di palazzo Chigi, consorte dell’ex presidente dell’Antitrust ed ex viceministro Antonio Catricalà. E Salvatore Sfrecola, magistrato della Corte dei conti che dirige il giornale online www.unsognoitaliano.it sulla cui home page campeggia il motto di Marco Porcio Catone: «I ladri di beni privati passano la vita in carcere e in catene, quelli di beni pubblici nelle ricchezze e negli onori». Nell’elenco dei candidati c’è anche un certo Francesco Merloni. Che sia lo stesso Merloni, 89 anni a settembre, autore da ministro dei Lavori pubblici della famosa legge per stroncare Tangentopoli, subito tradita?

il Fatto 10.6.14
Cantico Repubblicano
Il colpo d’anca e l’ermeneuta


Il novantenne barbuto elegante e saggio. L’artista irrequieto, scapestrato e affamato di vita. Merlino e l’Artù. Napoli acclamava quello stile, quel gusto, quella cultura. Lo Scalfari che distingueva il passo di rumba dal colpo d’anca del mambo. Il Benigni uomo di genio, filologo dantista, ermeneuta del pensiero, custode della Costituzione. Il Merlino che ha il passo leggero come una carezza, un puro spirito che non dà tregua a nessuno. La canzone della Spada nella roccia: “per ogni su c’è sempre un giù/per ogni se c’è sempre un ma”. Un duetto che incita alla sovranità del riso, del fascino, dello spettacolo. Troisi e Calvino e Berlinguer. Karl Valentin, Totò, Brecht. Collodi, Sartre e Schopenauer. Cinema, musica, eleganza formale, grammatica etica ed estetica, un modo di vestire di leggere, di viaggiare, di scrivere e di far scrivere”. Certo, scrive Francesco Merlo su Repubblica, “è facile esagerare con la retorica quando repubblica deve parlare di repubblica, ma ieri mattina mi sono staccato da me stesso per godermi il dialogo di Scalfari e Benigni, come se mi fossero lontani”. Pensate voi se fosse rimasto in se.

il Fatto 10.6.14
La guerra di Tsipras
È una donna autorevole e limpida: giusto che Barbara Spinelli accetti
di Roberta De Monticelli


È inconcepibile ma vero: invece di esultare per la notizia meravigliosa che avremo in Europa la migliore rappresentante possibile dell’idea di un’Europa nuova, la più autorevole e limpida testimone dell’altezza della posta in gioco europea, alcuni si affannano a scrivere appelli perché Barbara Spinelli rinunci ad accettare la sua elezione al Parlamento europeo. Nonostante sia stato proprio Tsipras a insistere perché non si vanifichi il risultato di questo sforzo. Perché si tratta di costruire una vera democrazia parlamentare europea , basata sui principi costituzionali di Dignità, Libertà, Eguaglianza, Solidarietà, Giustizia e Cittadinanza accolti da una Costituzione europea che non è né approvata né tanto meno applicata, ancora. Non dovrebbero essere gli stessi valori della piccola anche se ammirevole minoranza politica italiana che ha sostenuto la lista L’Altra Europa per Tsipras? Una lista che Barbara Spinelli ha concepito, promosso e guidato nella campagna elettorale per il Parlamento dell’Unione europea - che non esisterebbe senza di lei.
È SOPRATTUTTO a questi critici che rivolgo questo messaggio accorato, ma ancora carico di speranza che le tensioni possano essere superate. È vero, molte persone si sono impegnate per ottenere il superamento della soglia del 4%. E tuttavia senza il pensiero di Barbara Spinelli, che ha lanciato l'iniziativa, ne ha scritto il programma, conosce la geopolitica e la situazione europea in particolare come nessuno oggi (almeno come nessuna persona capace di un così grande impegno etico-civico)
- non sarebbe stato neppure immaginabile raggiungere quella soglia.
Voi stessi infatti vi siete stupiti del risultato: che certo si deve a tutti, in quanto entusiasmo, lavoro, contributo. Ma in quanto pensiero e iniziativa che tutta Europa, dall’Inghilterra alla Francia alla Germania alla Grecia, ha conosciuto fin dal primo momento: a chi si deve?
Ma tutte queste considerazioni sono secondarie di fronte alla sola che vorrei tanto fosse ascoltata da tutti i critici: ma come è possibile! Tutti noi abbiamo supplicato Barbara Spinelli - che certo non ha personalmente bisogno di altri riconoscimenti o incarichi! - di “sacrificarsi” alla sua stessa idea, perché che questo fosse un sacrificio personale non è cosa da mettere in dubbio. E ora che potrebbe riaccendere un lume di speranza, dando con la sua presenza e la sua parola, in una posizione molto visibile, un'ultima chance a quest'Europa che sta morendo ; ora che possiamo avere in Europa la rappresentante di gran lunga più importante del nostro progetto, la sola capace di attirare alla lista L'Altra Europa nuovi consensi e alleanze, ora che lei decide di accogliere la sfida, proprio ora voi anteponete a questa insperata chance considerazioni molto locali, e del tutto inadeguate all’altezza storica della posta in gioco? La sfida è gravosa: e non li avete visti gli eventi che si sono verificati dopo le elezioni? E non lo vedete che tutto il nostro progetto europeo rischia di essere ancora una volta travolto dalla mediocre Europa intergovernativa che c'è? E non avete visto la spaccatura che positivamente può prodursi in seno ai Cinque Stelle attirando a noi quelli che non sono razzisti? E vi sembra che si farebbero attirare da esponenti dei vecchi piccoli partiti? Ora che una svolta vera è di nuovo possibile, voi anteponete i nomi di persone che - se ci credono veramente - hanno una vita davanti per contribuire alla causa, ma non avranno più occasioni di farlo se la causa sarà perduta? E lo sarà, senza dubbio, senza chi veramente può guidarla con assoluta credibilità internazionale. Chi lo può fare con efficacia incomparabilmente maggiore di chiunque altro: per peso, esperienza, sostanza, pensiero, conoscenza, conoscenze, eredità e nome.
I VIALI E I PALAZZI di Strasburgo portano il nome di un uomo, Altiero Spinelli, a far vivere la cui eredità Barbara Spinelli ha dedicato la sua vita. Lo sanno, questo, i ragazzi che hanno firmato la petizione? Conoscono, questi ragazzi, la terribile storia che ci ha portati fin qui? Vi prego, amici, compagni di questa avventura, considerate a che cosa voi volete sacrificare quest’ultima nostra speranza.

il Fatto 10.6.14
“Spinelli che tradimento”
La delusione corre sul web
di Salvatore Cannavò


Leggendo l’autentico putiferio scatenato dalla scelta di Barbara Spinelli di accettare l’elezione a europarlamentare la si potrebbe buttare sul ridere. “Furfaro come Cerci” il giocatore del Torino che all’ultimo minuto del campionato ha sbagliato il rigore che avrebbe portato la sua squadra in Europa. Oppure si possono cercare le vendette personali come fa Paola Bacchiddu, famosa per “il lato B” su Facebook, e per questo criticata da Spinelli, che esibisce, sempre in Rete, un cartello con su scritto #iostoconmarco, imitata da decine di altri sostenitori. O, ancora, ricorrere alla satira ruvida come fa Valigia Blu, il collettivo di giornalisti che presenta il “nuovo caso per il Commissario Montalbano: Una campagna elettorale difficile tra bikini e parenti gelosi, parole date e non mantenute. Un covo di vipere è il successo dell’estate 2014, scontatissimo”.
QUELLO CHE PREVALE, sul we e non solo, è un sentimento corposo di delusione, amarezza e sconforto. Come scrive Alessandro Giglioli, giornalista dell’Espresso, e convinto sostenitore del progetto, “quando ti deludono i ‘tuoi’, senti dentro il vuoto”. Perché quello di Spinelli è vissuto come un vero “voltafaccia”, uno schiaffo al “collettivo” si sarebbe detto una volta. Trasuda delusione e senso del tradimento, ad esempio, la lettera, pacata ma tagliente, della dirigente Arci, Raffaella Bolini che parla di “giorni sbagliati” e della necessità, ora, di una pausa di riflessione.
Enrico Mentana sul proprio profilo Facebook, va controcorrente e chiede: “Dove sta il dramma? È come se un campione , dopo aver accettato di giocare qualche minuto si rendesse disponibile a restare in campo per tutto l’incontro, e i compagni invece di ringraziarlo cominciassero a polemizzare: ‘Eh no, avevi detto che poi uscivi, non sei coerente”’. Ma nonostante le parole amiche, i giudizi sono taglienti. Soprattutto nei confronti di coloro che si erano fatti “garanti” del processo: “Avete mentito sapendo di mentire. Altro che garanti...”. Oppure: “Candidarsi come specchietto per le allodole è già abbastanza meschino, ma addirittura cambiare idea a seconda dei voti che si prendono...”. “Vi siete messi sullo stesso livello dei peggiori dirigenti dei partiti”. “Siamo già post-morti”.
I PIÙ ARRABBIATI sono quelli di Sel. Il coordinatore della campagna di Furfaro, Enrico Sitta, dopo aver dato alla Spinelli della “borghese radical-chic”, scrive di “rivalutare addirittura la figura di Marianna Madia, che quando l’hanno chiamata per fare il ministro stava guardando Peppa Pig. Almeno è una che ha più senso della realtà”. Lo stesso Furfaro, sempre in Rete, aveva detto di essere stato trattato come “carne da macello” insieme alla “collega” Eleonora Forenza. Da cui, però, non si registrano analoghe solidarietà. “Pretendo immediatamente le scuse”, scrive invece un altro, rispondendo al tentativo di limitare i danni da parte di Massimo Torelli, coordinatore della lista: “Non a me, ma alle centinaia di militanti che hanno reso possibile un sogno che è stato trasformato nella più enorme delusione”. Laura Eduati, giornalista non ostile alla lista, consiglia a Furfaro di “alzarsi in piedi e fare Kill Bill. Così come ha fatto Matteo Renzi”.
Sono i più giovani a insistere sul tema del ricambio generazionale, come il giornalista di Repubblica e autore del libro Tsipras chi?, Matteo Pucciarelli: “Per una volta, smaltita la delusione, spero che soprattutto la nuova generazione, che ha tempo ed energie davanti a sé, abbia la forza e il coraggio di concepire e mettere al mondo la sinistra che ha in mente, ambiziosa e coerente, nelle pratiche e nelle idee”.
Molto più tagliente è Christian Raimo con un commento, seguitissimo, apparso sul blog Minima&Moralia, della casa editrice Minimum fax: “Quello che la prima volta si manifesta in tragedia, la seconda lo fa in farsa. E la terza - la definitiva, la terminale - come lettera da Parigi. Lo psicodramma Spinelli e l’esperienza della lista sono finiti ieri, nel modo peggiore che si poteva immaginare: un suicidio mascherato da sopravvivenza”.
Poi c’è chi ricorda che “il modo in cui la lista Tsipras ha preso le sue decisioni fa apparire il duo Grillo-Casaleggio come giganti della partecipazione e della democrazia”. E improvvisamente, le tanto sbeffeggiate “parlamentarie” del M5S sembrano ora meno assurde. Solidale con Barbara Spinelli si dice senza mezzi termini il segretario del Prc, Paolo Ferrero, “anche se diranno che faccio questa affermazione perché Rifondazione viene favorita”. Il dubbio in effetti è “comprensibile” per lo stesso Ferrero anche perché dal suo partito non si sono viste solidarietà nei confronti di Furfaro.
MA QUESTE SONO beghe fra i partiti della sinistra che, anche in questa occasione, non sono riusciti a legare. A prevalere su tutto, resta un clima surreale che potrebbe provocare una generale dissolvenza. Citando Le braci di Sandro Maroi, Antonella Marrone, anche lei giornalista, di area Sel, sintetizza questa opinione diffusa: “Sono estremamente rare le persone le cui parole coincidono alla perfezione con la realtà della loro vita. Forse è il fenomeno più raro che esista al mondo”.

il Fatto 10.6.14
Il giornalista eletto Curzio Maltese
“Basta, non serve terapia di gruppo”
di Sa. Ca.

Com’è andata veramente la vicenda delle dimissioni, poi ritirate, di Barbara Spinelli, lo chiediamo a chi da subito ha voluto che l’editorialista di Repubblica, di cui è collega, sedesse a Strasburgo: “Ci siamo trovati dopo le elezioni - spiega Curzio Maltese, neo-parlamentare europeo - con Barbara che, piena di dubbi, ci ha comunicato che sarebbe andata al Parlamento europeo. Noi tutti, chiamati a dare la nostra opinione, abbiamo detto che eravamo contenti e che non era giusto non fare il candidato di bandiera.
Parliamo dei garanti?
Parliamo di Moni Ovadia, Marco Revelli, Guido Viale, Massimo Torelli e me. In quella riunione non ho sentito Luciano Gallino, ma mi dicono che la pensasse così. Noi pensavamo di chiedere a Barbara di non scegliere il collegio e di trovare un accordo o un sorteggio. Lei ha sostenuto invece che avrebbe scelto il collegio del Centro perché trovava inaffidabile Sel. Una cosa che ci ha sorpreso perché sia Sel sia Rifondazione sono stati entrambi leali e se non lo fossero stati non ce l'avremmo fatta.
Perché questa idea?
Perché c’era il rischio che Sel non rispettasse la scelta del gruppo europeo (il Gue-Ngl e non il Pse, ndr).
Quindi, è stata una decisione collettiva?
Sì, certo. Difficile da gestire, come è evidente, ma c’è stata anche una richiesta di Tsipras in tal senso ed eravamo tutti d’accordo che lei accettasse di fare la parlamentare. Anche se in disaccordo sulla polemica dura con Sel.
Difende comunque questa decisione?
Sì, anche perché non credo sia la cosa più importante a livello politico. Come garanti, io e Moni Ovadia, ci abbiamo messo un'ora a decidere. Per me è finita lì. Sono contento che venga al Parlamento europeo, anche se trovo ingiusto muovere accuse a Sel.
E qual è il futuro di questa lista?
La lista è nata fuori dai partiti e in collaborazione con loro. Credo che continuerà così. Parlando però di problemi seri e concreti. Siamo partiti male perché siamo alla terapia di gruppo su scelte personali. Ora occorre dedicarsi ai temi concreti. Pochi sanno, ad esempio, che si vogliono privatizzare le tv pubbliche in tutta Europa.
Eppure in Rete lei viene accusato di non essere andato, come unico eletto certo, alla riunione dei comitati Tsipras, lo scorso sabato.
Vengo anche accusato di voler passare con i socialisti del Pse. Sabato, come è noto, ero alla festa di Repubblica a Napoli, impegno preso da due mesi. Forse ho il difetto di fare quel che dico.

Repubblica 10.6.14
Maltese: “Basta con gli istinti suicidi ora dobbiamo dialogare con il Pd”
di Giovanna Casadio


ROMA . «Abbiamo parlato troppo di noi stessi, ora discutiamo di cosa andiamo a fare in Europa e con chi. Il successo ha riportato a galla i vecchi istinti suicidi della sinistra». Curzio Maltese, giornalista di “Repubblica”, neo eletto europarlamentare con Tsipras, parla della rissa scoppiata dopo il ripensamento di Barbara Spinelli, che ha tolto il seggio in Europa al candidato di Sel e compagno di lista, Marco Furfaro. Maltese invita Pd e socialisti di Schulz a sedersi attorno al tavolo europeo per cambiare il fiscal compact e anche i 5Stelle a discutere di conflitto di interesse.
La lista Tsipras sembra una deriva di particolarismi e ripicche. Non è un bel vedere a sinistra?
«Da una parte pensavo di dover parlare dei problemi per cui ci hanno votato gli elettori e non di noi stessi. Avere avuto il quorum, il successo ha riportato a galla vecchi istinti suicidi, con i quali bisogna fare i conti. C’è un’area che preferisce sbranarsi invece che parlare della disoccupazione o del fiscal compact».
Giusto il ripensamento di Barbara Spinelli?
«Io cambio idea difficilmente. Comunque è successo questo. Dopo le elezioni Barbara ha cambiato idea sul fatto che la sua fosse solo una candidatura di bandiera. L’ha comunicato ai garanti, a me e a Moni Ovadia che eravamo gli altri candidati capilista del movimento civile. Io e Moni eravamo contenti della scelta, che lei venisse al Parlamento europeo per moltissime ragioni. Visti anche i parlamentari che di solito mandiamo, anche quelli che abbiamo mandato a questo giro. Il fatto che ci sia Spinelli dovrebbe piacere a tutti. E infatti abbiamo detto tutti “bene, brava”».
Com’è allora che è finita così male?
«Essendo un ripensamento, e come tale difficile da spiegare, secondo noi non doveva essere lei a scegliere il collegio, ma delegare la scelta ai garanti. E se non si fosse trovato l’accordo tra Sel e Rifondazione, andare al sorteggio».
Ma non ha fatto cosi.
«No, non l’ha fatto. Su Spinelli aggiungo che non capisco perché si sia fatta l’idea di una slealtà di Sel. A noi tutti sembra che Sel sia stata generosa. Senza Sel non avremmo raccolto le firme».
Eravate più preparati alla sconfitta che alla vittoria?
«Alla fine eravamo scomparsi dai radar mediatici e tv, e capivo chiaramente che molti elettori che avevano paura del sorpasso di Grillo avrebbero votato per il Pd. La nostra area è tuttavia molto più vasta del 4%, soprattutto se torniamo a occuparci di cose serie» .
Quindi quale sarà il rapporto con Schulz?
«Vediamo quale sarà il rapporto di Schulz con Tsipras. Tsipras vuole dialogare con i socialisti nella speranza che i socialisti si rendano conto che le politiche di austerità in coalizione con la destra, sono sbagliate».
Ma la Sinistra europea potrebbe aprire le porte a Grillo?
«Dopo la birra bevuta da Grillo con Nigel Farage, nessuno dei leader europei vorrà incontrarlo. Però con i parlamentari grillini, che non riusciranno a entrare in nessun eurogruppo, possiamo discutere su temi specifici. Non è campagna acquisti, sia chiaro. Qualche vecchio settario della sinistra dirà “Maltese vuole accordarsi con questo e con quello...”. Ma in modo pulito parliamo di informazione, ad esempio ».

l’Unità 10.6.14
Tra governo e sindacati sfida sulla riforma Pa
Il ministro Madia li convoca, ma a sole 24 ore dal varo, venerdì, della riforma
Dettori (Cgil): così è solo un’informativa


Nello sprint finale per presentare venerdì la riforma della Pubblica amministrazione, Marianna Madia mantiene la promessa e convoca anche i sindacati. Lo fa però solo dopo che le categorie del pubblico impiego di Cgil, Cisl e Uil avevano già convocato una conferenza stampa per sfidare il governo e a sole 24 ore dal Consiglio dei ministri che dovrà varare la riforma.
SÌ AL RINNOVO DEL CONTRATTO
Insieme alla convocazione, il ministro della Pubblica amministrazione ha inviato ai sindacati un documento in cui esplicita meglio i 44 punti della riforma e - a sorpresa - apre al rinnovo contrattuale. Erano stati infatti gli stessi sindacati a presentare due settimane fa le loro osservazioni ai 44 punti, aggiungendo però il 45esimo: la richiesta del rinnovo del contratto nazionale, bloccato ormai dal lontano 2009. Su questo Madia, a nome del governo, risponde: «Riteniamo che il blocco della contrattazione abbia prodotto un danno ingiusto ai lavoratori pubblici, soprattutto in riferimento alle fasce di retribuzione più basse. Per questo - continua - riteniamo che l’intervento degli 80 euro realizzato dal governo sia stato di notevole utilità anche nel pubblico impiego. Il tema del rinnovo della parte economica del contratto merita di essere affrontato a partire dal prossimo anno: è evidente - conclude - che occorra uno sforzo comune utile a costruire le soluzioni migliori per garantire il rilancio del paese e la crescita economica». Parole che se da una parte accolgono le richieste di Cgil, Cisl e Uil, dall’altra condizionano il rinnovo a partire dal 2015.
Per il resto nelle 11 pagine dal titolo «Il cambiamento comincia dalle persone», slogan scelto per la riforma, vengono ribaditi i punti principali del testo, senza però specificare quali faranno parte del decreto legge - dunque immediatamente efficaci e quali della delega - dunque aperti alla discussione - che verranno varati dal Consiglio dei ministri venerdì. Uno dei punti chiave inseriti nella bozza di riforma della pubblica amministrazione riguarda la modifica dell'istituto della mobilità volontaria e obbligatoria. Sotto questo punto di vista i cittadini italiani sembrano avere le idee chiare sulle misure da adottare. Lo hanno spiegato in occasione della consultazione online promossa dal Ministero della Funzione Pubblica.
Dalla consultazione pubblica - le 35mila mail inviate al governo - arriva invece la marcia indietro sulla «reintroduzione dell’esonero dal servizio», la norma che avrebbe potuto sostanzialmente licenziare personale in eccesso. Ebbene, scrive Madia, «recependo talune perplessità emerse dalla consultazione pubblica», «analizzando gli effetti prevedibili misurandone un ritorno marginale oltre che il rischio di talune distorsioni».
Sulla mobilità la riforma prevede che «sia possibile disporre il passaggio di un lavoratore da una amministrazione ad un’altra, senza che sia necessario l’assenso del lavoratore stesso», ma con «il mantenimento del medesimo trattamento economico e precisi limiti geografici, grazie a «tabelle di equiparazione ».
«DA NOI PROPOSTE CORAGGIOSE»
«La nostra convocazione di giovedì è semplicemente un’informativa - commenta Rossana Dettori, segretario generale Fp Cgil - . Noi il giorno prima invece presenteremo le nostre proposte si riforma coraggiose ed unitarie, a partire per esempio dall’idea di un unico ufficio per i Servizi all’impiego per chi cerca lavoro che metta assieme Province, Regioni e Inps». La principale critica che i sindacati fanno all’impostazione della riforma del governo riguarda «il fatto che c’è qualcosa che si fa subito e qualcosa che si fa dopo, manca dunque un disegno organico », chiude Dettori.
Molti interventi riguardano poi i dirigenti: «possibilità di licenziamento per il dirigente che rimane privo di incarico, oltre un termine» e «abolizione delle fasce per la dirigenza e carriera basata su incarichi a termine». La seconda parte della riforma riguarda il capitolo dei «Tagli agli sprechi e riorganizzazione dell’Amministrazione» e prevede la centrale unica degli acquisti, l’accorpamento di Motorizzazione, Aci e Pra, l’abolizione del Covip sui fondi pensione - contrastato dai sindacati perché sarebbe «un favore alle assicurazioni - e l’introduzione di un unico Pin per il cittadino per entrare in rapporto con tutte le varie amministrazioni.

Repubblica 10.6.14
Che cosa alimenta la disoccupazione
di Luciano Gallino



NON è affatto vero che lo Stato spende troppo e bisogna quindi tagliarne le spese per tornare sul terreno virtuoso dello sviluppo. È vero invece che lo Stato spende troppo poco rispetto a quanto incassa, venendo così a mancare all’impegno di restituire ai cittadini le risorse che da loro riceve. Il danno maggiore questo squilibrio lo reca all’occupazione. Di fatto, da quasi due decenni la disoccupazione è spinta in alto dal fatto che lo Stato preleva ogni anno dal reddito degli italiani decine di miliardi in più di quanti non ne restituisca loro in forma di beni e servizi, mentre per lo stesso motivo l’economia è spinta in basso. Stando ai dati del ministero dell’Economia sul bilancio dello Stato relativi al 2013, ad esempio, lo Stato stesso ha imposto ai cittadini di versargli 516 miliardi in forma di tributi e altro. Però ha messo in conto di spendere a loro favore, sotto forma di spese correnti (al netto degli interessi sul debito) e in conto capitale, soltanto 431 miliardi. La differenza a scapito dei cittadini è di 81 miliardi. Le previsioni, stando ai dati ufficiali del bilancio dello Stato, sono anche peggiori. Per il 2014 esse dicono che ai cittadini saranno sottratti 55 miliardi, rispetto a quanto loro dovuto, che saliranno a 86 nel 2015 e a 104 nel 2016.
I governi in carica degli ultimi vent’anni e la maggior parte dei media sono riusciti a diffondere nella popolazione l’idea insensata che la spesa dello Stato serva quasi soltanto a mantenere un po’ di burocrati dei quali non si vede bene che lavoro svolgano. In realtà la spesa dello Stato è costituita dagli stipendi di insegnanti e medici, ricercatori e forze dell’ordine; da un fiume ininterrotto di acquisti di beni e servizi; da investimenti infrastrutturali come scuole e ponti, argini dei fiumi e tutela dei beni culturali. Sottrarre a tutto ciò decine di miliardi l’anno significa per l’intera economia un colossale salasso, insieme con una forte spinta alla disoccupazione, perché ogni stipendio o salario speso in consumi crea altri stipendi o salari, e ogni acquisto di merci, materiali o servizi serve a dar lavoro a qualcuno. Se vengono tagliate o soppresse le risorse che equivalgono, direttamente o indirettamente, a parecchie centinaia di migliaia di posti di lavoro, i risultati sono quelli drammatici che ormai riempiono le cronache.
Il suddetto squilibrio tra le maggiori risorse sottratte agli italiani e le minori risorse ad essi restituite sotto forma di beni e servizi si chiama, nel linguaggio della contabilità, “avanzo primario”. Da questo punto di vista l’Italia è il paese più virtuoso d’Europa. Infatti nessun altro paese europeo fa registrare da così tanti anni un avanzo primario così elevato. Sarebbe forse il caso di cominciare a riflettere se questo primato supposto positivo non abbia qualche relazione con un altro primato sicuramente negativo: il tasso di disoccupazione, giovanile e non, visto che a parte casi marginali come Irlanda o Grecia, quello italiano, in piena sintonia con l’andamento dell’avanzo primario, risulta pur esso il più alto d’Europa.
Dobbiamo far fronte all’onere del debito, si obbietterà, e per ridurre questo serve appunto un crescente avanzo primario. Di certo gli interessi sul debito sono colossali. Quasi 90 miliardi nel 2013, più di 93 previsti per il 2014, mentre quasi 97 e poco meno di 99 figurano nel bilancio di previsione dei due anni successivi. Il punto è che il debito, al pari della possibilità di ripagarlo, sono fortemente influenzati dall’andamento dell’economia. Se lo Stato insiste nel sottrarre sistematicamente ad essa varie decine di miliardi l’anno, dopo averli tolti dal portafoglio dei cittadini che in tal modo non li possono spendere, lo Stato stesso comincia ad assomigliare a un maratoneta che per correre più in fretta si spara sui piedi.
Quanto al debito, si può osservare che a forza di asfissiare l’economia perseguendo un avanzo primario sempre più elevato, con relativa caduta della domanda aggregata (consumi più investimenti) perché il cosiddetto “avanzo” assorbe risorse sia pubbliche che private (che sono i soldi sottratti ai cittadini con le imposte e non restituiti in veste di beni e servizi), lo Stato italiano potrebbe essere ormai caduto nella spirale infernale dell’interesse composto. Sebbene sia difficile scomporre contabilmente i due elementi, l’irrefrenabile aumento del debito a fronte di spese dello Stato stagnanti induce a sospettare che lo Stato sia costretto a prendere a prestito denaro non solo per pagare gli interessi sul debito, ma pure per pagare gli interessi sugli interessi - che è appunto l’inferno in cui cadono sovente coloro che contraggono prestiti da qualche usuraio. In forza della spirale dell’interesse composto, combinata con le politiche economiche regressive che questo governo appare perseguire come tutti i precedenti dalla fine degli Anni 90, il debito pubblico italiano appare ormai impagabile.
Proviamo a tirare le fila. Dopo quasi due decenni in cui il tenace perseguimento di un sempre crescente avanzo primario si è accompagnato a un disastroso aumento della disoccupazione; una situazione dell’economia che appare in complesso gravemente deteriorata; un rilevante aumento del debito pubblico, più un cospicuo incremento dell’interesse sul debito, parrebbe giocoforza riconoscere che la strada sin qui seguita è del tutto sbagliata. Trovare alternative non sarà facile, tenuto anche conto che i burocrati di Bruxelles e i maggiori governi Ue non sembrano avere imparato niente dal risultato delle recenti elezioni per il Parlamento europeo, per cui continuano a battere e ribattere sui loro rugginosi - e ormai pericolosi - chiodi del pareggio di bilancio e simili. Quanto a idee provocatorie: se i 55 miliardi di avanzo primario previsti per il 2014 venissero spesi per assumere subito 3 milioni di disoccupati e metterli al lavoro in numerose opere di interesse collettivo - una tra tante: la messa in sicurezza delle scuole, ad esempio, visto che se ne parla - qualcuno può essere sicuro che l’economia, l’occupazione e la questione del debito andrebbero peggio di quanto non stiano andando al presente?

l’Unità 10.6.14
Filomena Gallo
«Cosa aspetta il ministero a bloccare Stamina?»
Il segretario nazionale dell’associazione Coscioni:
«La politica se ne è lavata le mani, lasciando i giudici in balia di loro stessi». Oggi si insedia la commissione


Questo pomeriggio si insedia il nuovo Comitato scientifico nominato dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin per vagliare il metodo Stamina. Alla vigilia della prima riunione i genitori dei pazienti hanno scritto una lettera aperta al presidente Michele Baccarani: «Fate presto - dicono - . Perché ancora non avete mosso un dito?». Dopo la sentenza del tribunale di Pesaro che ha autorizzato Marino Andolina, indagato per somministrazione di farmaci pericolosi ad entrare in un ospedale per eseguire proprio quella terapia sotto inchiesta su Federico, un bimbo di 3 anni, minacciano tutti di rivolgersi ai giudici. Ne parliamo con Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Coscioni.
Partiamo dalla cronaca di oggi. I genitori di Ginevra, una bambina malata come Federico, chiedono le stesse cure. Come è possibile convincere la gente che insiste contro ogni evidenza?
«Blaise Pascal scriveva che “il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce”. Nel caso Stamina le ragioni della scienza si sono sin da subito scontrate con le ragioni del cuore. Il linguaggio da laboratorio non è riuscito ad imporsi su quello della sofferenza e dell’emotività di alcuni malati e delle loro famiglie. Purtroppo anche se il lessico della scienza ha dalla sua la certezza delle evidenze empiriche, non significa che riesca ad imporsi sulla collettività. Ed è quello che è successo: un dialogo costruttivo tra le parti ha lasciato il posto alle tifoserie. Le cause sono molteplici: Davide Vannoni che aizza le piazze, portando i malati a dissanguarsi sulle immagini del Presidente Napolitano, che grida al complotto delle lobby degli scienziati e delle case farmaceutiche che vogliono boicottare la sua “cura”, venendo poi a scoprire i suoi interessi commerciali con la Medestea. Poi c’è la politica, tutta italiana, che a partire da Balduzzi ha commesso un gravissimo errore: quello di aprire le porte del parlamento alle infusioni della Stamina Foundation. Per non parlare di quello che è avvenuto tra Regione Lombardia e Spedali Civili di Brescia su cui ci sono una inchiesta in corso e le audizioni della Commissione Sanità di Regione Lombardia che potrebbero confermare come l’interesse pubblico si sia piegato a quello privato, facendo entrare in un ospedale pubblico qualcosa di indimostrato scientificamente, e forse anche dannoso. Come non citare la disinformazione affrontata su programmi di intrattenimento? Il danno era oramai compiuto e qualsiasi altro approfondimento di carattere scientifico non è servito a togliere dalla mente di molti cittadini che quelle infusioni facessero bene».
Questi genitori dicono: «Vogliamo che anche nostra figlia abbia una speranza di vita». Lei cosa risponderebbe loro?
«Da quando è balzata alla cronache la vicenda Stamina, come Associazione Luca Coscioni abbiamo sempre chiesto la pubblicazione del metodo, abbiamo sempre preteso trasparenza, abbiamo anche sperato che le infusioni potessero funzionare per condividerle con tutti i malati che ne avessero potuto usufruire. Ciò che ci ha mosso da sempre è la libertà di ricerca scientifica che non è equiparabile all’anarchia. Libertà di ricerca scientifica vuol dire rispetto delle regole di sperimentazione che sono state create per tutelare i pazienti. Vuol dire fare il possibile, nella garanzia dei protocolli. Non significa creare un mercato indisciplinato del “qualsiasi cosa” prodotta da “chiunque”. Portando avanti queste richieste, molte persone ci hanno accusato di essere collusi con le lobby, di tradire la lotta di Luca Coscioni: nulla di tutto questo. Luca aveva seguito una sperimentazione ufficiale, era stato correttamente informato su quello a cui si stava sottoponendo. Invece nel caso Stamina ai pazienti è stata iniettata una “pozione magica” di sconosciuta ricetta. Dunque a questa mamma direi che è indegno chi alimenta false speranze, lasciando le persone accecate dall'ignoranza ».
Cosa deve fare la scienza perché non si ripetano casi del genere?
«La scienza non ha responsabilità, anzi ha tutti gli strumenti per contrastare tali situazioni. È la politica, in tutte le sue forme, che deve dotarsi degli strumenti per non reiterare casi simili. La scienza dovrebbe essere consigliera della politica, anzi gli scienziati dovrebbero poter governare».
La senatrice Cattaneo dice: è in atto un impazzimento giudiziario. Che ne pensa?
«Prima Balduzzi, poi Lorenzin: abbiamo assistito e stiamo ancora assistendo ad uno smarcamento pericolosissimo dei ministeri competenti dalla vicenda. Cosa dobbiamo aspettare affinché ci sia una ordinanza di blocco ministeriale del metodo Stamina? Ci rendiamo conto che in un ospedale pubblico, non si sa ancora a quale costo pubblico, quindi di ognuno di noi, si sta somministrando qualcosa di sconosciuto? Domani vi dico che ho trovato una cura per l’Alzheimer che però non posso far vagliare alle autorità competenti perché perderei troppo tempo prima di poter salvare molti pazienti e pretendo di entrare nel sistema sanitario nazionale: chi mi può fermare visto questi precedenti? Il pericolo è un sistema sanitario che rischia il collasso e la salute dei cittadini in serio pericolo. Credo che l’impazzimento originario è quello della politica che se ne è lavata le mani, lasciando i giudici in balia di loro stessi. Secondo il Tar della Lombardia nel settembre 2012, il metodo Stamina non avrebbe dovuto essere somministrato, perché mancante dei requisiti necessari secondo il Decreto del 5 dicembre 2006. Credo che ora che il Csm ha disposto l’azione disciplinare contro i giudici di Pesaro i tribunali si fermeranno. Nel frattempo se ne potrebbe uscire con un intervento ministeriale: il ministro non dovrebbe più esitare intervenendo tassativamente con un atto che blocchi qualsiasi altro tentativo di far passare per cura ciò che non ha nulla di scientifico».

Repubblica 10.6.14
La teste di Magherini: “Io intimidita”
Firenze, la ragazza che aveva denunciato le violenze dei carabinieri all’ex calciatore morto dopo il fermo rivela “Mentre raccontavo quello che avevo visto un militare mi disse: ti verremo a cercare ovunque sarai”
di Laura Montanari


FIRENZE. C’è la testimone intimidita dal carabiniere: «Prima che iniziassi a rispondere alle domande che avevano preparato ha definito il mio atteggiamento immorale». La ragazza, in un’intervista a Repubblica, è stata la prima a parlare di calci da parte dei militari a Riccardo Magherini a terra già ammanettato. C’è poi l’altra, convocata all’alba del 3 marzo e neppure informata che quell’uomo, fermato in strada a San Frediano dai militari che lo volevano arrestare, era già morto: «Come sta il ragazzo? È in ospedale?». «Eh, sì» risponde il maresciallo. Infine ci sono i file audio mancanti, mai consegnati ai familiari. Sono le nuove ombre che si aggiungono all’inchiesta sulla morte di Riccardo Magherini, ex speranza del calcio viola, arredatore, morto una notte a Firenze mentre chiedeva aiuto e dopo aver dato in escandescenze probabilmente sotto l’effetto della cocaina. Un’inchiesta che vede 4 carabinieri indagati per omicidio preterintenzionale e altri 7 fra medico e soccorritori per omicidio colposo.
L’esposto, preparato dall’avvocato Fabio Anselmo, è stato
presentato ieri dal fratello di Riccardo, Andrea Magherini, in procura a Firenze. La testimonianza delle due ragazze è stata al centro dell’iniziativa, organizzata dal senatore Luigi Manconi al teatro del Cestello, «un rito civile per riportare questa dolorosa vicenda dove è nata, cioè a San Frediano». Erano presenti alcuni parlamentari fra cui il sottosegretario Ivan Scalfarotto: «Quando Riccardo è morto lo Stato non c’era, sono qui per un risarcimento morale forse un po’ tardivo ma necessario ».
La teste che aveva assistito al fermo, è stata svegliata alle 5,15 del 3 marzo e convocata subito in caserma «per deporre in vista del processo per direttissima », perché erano state «infrante delle vetrine» e c’era stato un furto (di un cellulare). In realtà Riccardo Magherini era stato dichiarato morto alle 3 di notte e certo non poteva essere processato. «Gli faranno un Tso (trattamento sanitario obbligatorio)? » chiede lei. Risposta: «Mi sa che glielo hanno già fatto ». E quando, nel corso della deposizione, dopo aver detto che il fermo era avvenuto senza violenza, riferisce di aver visto dei calci tirati mentre l’arrestato era a terra, si accorge che il maresciallo non preme più sui tasti del computer. Lei protesta. «Ho dovuto insistere. Gli ho detto incredula: scusi, ma dei calci non lo scrive? “Non so, la deposizione è la sua, signorina, lo vuol scrivere?” mi ha risposto il maresciallo ». E lei conferma: «Certo che lo voglio».
L’altra testimone, rimproverata per aver rilasciato l’intervista, piange, è provata da quello che ha visto: chiede tempo per rispondere alle domande. In lacrime spiega «che l’atteggiamento del carabiniere» la mette «in soggezione». «Faccio notare che ero stata avvisata della convocazione in tribunale con pochissimo preavviso e che sarei dovuta partire per Roma il giorno stesso. A questo punto — riferisce la giovane in una mail all’avvocato dei Magherini — lo stesso carabiniere mi ha detto con tono arrogante e minaccioso che ovunque mi fossi trovata sarebbe lui stesso venuto a cercarmi ».
Quanto alle chiamate “mancanti” ce n’è una delle 2,41 fra l’operatore della centrale 118 e una volontaria della Croce Rossa: «Siamo scesi dall’ambulanza e c’hanno detto: “Se non siete un medico, noi s’ha bisogno di un medico...” per cui noi non si è né valutato né nulla» spiega la volontaria.
Ieri il padre e il fratello di Riccardo si sono presentati alla festa dell’Arma dove erano stati riservati loro due posti, ma poi, saputo che non era aperta al pubblico, hanno preferito non entrare: «Vogliamo soltanto dire che i valori dell’Arma sono i nostri stessi valori, il nonno di Riccardo era un carabiniere deportato in Germania dai nazisti ».

Repubblica 10.6.14
Uva, dietrofront della procura: “Forze dell’ordine innocenti”
di Massimo Pisa


MILANO . Proscioglimento per i reati più gravi: niente omicidio preterintenzionale, niente lesioni dolose o percosse, nessun abbandono di incapace o arresto abusivo. Rinvio a giudizio per abuso di potere. L’ultima svolta del caso Uva è un coup de théatre che rischia di essere tombale per la battaglia di chi, da sei anni, sostiene che l’allora 43enne artigiano morì per la notte di sevizie nella caserma dei carabinieri di Varese, e non per la somministrazione di farmaci sbagliati al ricovero in ospedale.
Stavolta è il procuratore reggente Felice Isnardi a chiedere al giudice per le udienze preliminari Stefano Sala di prosciogliere il carabiniere (un secondo ha chiesto il giudizio immediato e andrà a processo) e i sei poliziotti delle volanti in ausilio che portarono Pino Uva e l’amico Alberto Biggiogero al comando di via Saffi quella maledetta notte tra il 13 e il 14 giugno 2008. Tace in aula Lucia, la sorella di Giuseppe, che stavolta non ce la fa a commentare. Spiazzato anche Fabio Anselmo, il legale della famiglia: «Decisione strana che ciha colti di sorpresa, soprattutto tenendo conto che pochi giorni fa lo stesso pm aveva addirittura aggiunto l’imputazione per percosse, che sarebbero avvenute in un secondo momento in ospedale. Per me non se lo aspettavano neanche gli imputati, ma si tratta delle richieste del pm, che non condividiamo, contiamo di portare al giudice argomenti convincenti affinché gli accusati vengano rinviati a giudizio per tutti i reati».
Se ne riparlerà in aula il 30 giugno, ma il passo indietro del procuratore Isnardi lascia il segno. Perché arriva a nemmeno tre mesi dall’imputazione coatta ordinata dal gip Giuseppe Battarino, che per la terza volta aveva bocciato la richiesta di archiviazione dei pm Agostino Abate e Sara Arduini, da sempre convinti che nelle perizie e nelle testimonianze sulla notte in caserma non c’erano gli elementi per accusare i due carabinieri e i sei agenti chiamati a supporto di aver pestato o — peggio — violentato Uva. E perché lo stesso Isnardi, dopo che i due pm avevano proceduto a incriminare gli otto appartenenti, aveva avocato a sé il fascicolo per i «profili di illogicità e contraddittorietà » nei capi di imputazione formulati da Abate e Arduini: intenzionalmente deboli, insomma, perché alla colpevolezza non avrebbero mai creduto. Non ci crede più nemmeno il procuratore. E se il gup, come logica vuole accoglierà la sua richiesta, resteranno per sempre le ombre sulla morte di Giuseppe Uva: le due ore in caserma, dalle 3 alle 5 di notte, portati via con Biggiogero per aver tirato transenne in strada alla fine di una serata alcolica, ma mai formalmente arrestato; la testimonianza dell’amico, che chiamò il 118 dopo aver udito colpi e grida nella stanza di fianco in caserma; l’ambulanza rifiutata dai militari e il Tso richiesto un’ora dopo per i presunti gesti di autolesionismo di Uva; le macchie di sangue al basso ventre ufficialmente attribuite a emorroidi; gli slip spariti e mai trovati.

Corriere 10.6.14
Chiesti sei anni per la madre di una delle ragazze dei Parioli
Il pm: spingeva la figlia a prostituirsi invece di studiare
Le colpe della donna e l’indulgenza sui clienti
di Fiorenza Sarzanini


È accusata di aver sfruttato il corpo di sua figlia per mantenere tutta la famiglia. Sospettata di aver utilizzato i soldi che la ragazzina di appena 14 anni guadagnava vendendosi a decine di clienti, per comprare cibo, vestiti, ma anche divertimenti visto che almeno in un’occasione l’aveva spedita a ritirare i biglietti per un concerto. Per questo il pubblico ministero che ha condotto l’inchiesta sulle giovani prostitute dei Parioli ha sollecitato per la donna accusata di sfruttamento della prostituzione una condanna a sei anni di carcere. La pena è dura, ma appare adeguata alla gravità dei fatti. Anche tenendo conto che si tratta di un giudizio abbreviato e dunque deve essere conteggiato lo sconto pari a un terzo. Ciò che appare incomprensibile è l’entità delle condanne sollecitate per i clienti. Perché nel caso ritenuto più grave, quello del commercialista che aveva foto e filmini pedofili, si chiedono cinque anni. E nei due giudicati più lievi, appena otto mesi. Possibile che per fare sesso a pagamento con una minorenne si rischi così poco? Possibile che non si ritenga necessaria una linea dura che possa servire da deterrente?
C’è uno strano atteggiamento nei confronti degli uomini che frequentavano Azzurra e Aurora. Non si tratta di invocare la gogna, ma è ben strano che di loro non si sappia quasi nulla, che la maggior parte abbia potuto godere dell’anonimato e che in alcuni casi si sia addirittura ipotizzato di poterli far uscire di scena con un patteggiamento. Quando i difensori di alcuni avevano prospettato questa eventualità, i vertici della Procura assicurarono che nessuna decisione era stata presa perché ogni singolo caso sarebbe stato valutato. Opportuno sarebbe non concedere alcun beneficio a chi, nonostante sappia di incontrare una minorenne, non si fa scrupoli e poi facendo finta di niente torna alla sua vita normale. O almeno così crede.

Il Sole 10.6.14
Soros in corsa per le caserme italiane
All'asta da 800 milioni pronti a partecipare anche Blackstone e Cerberus
di Carlo Festa


Anche il magnate George Soros fa rotta sul patrimonio dello Stato italiano. Soros, tramite il suo fondo Quantum Strategic Partners, avrebbe infatti fatto un'offerta per il portafoglio di palazzi che fanno parte del fondo immobiliare Fip (Fondo immobili pubblici), gestito dalla Sgr Investire Immobiliare (la società controllata dalla Banca Finnat della famiglia Nattino). Ma Soros non sarebbe solo nell'offerta: sarebbe infatti alleato al fondo Kennedy Wilson e sarebbe assistito dagli advisor di Beni Stabili.
Nel pacchetto di immobili ci sono uffici ministeriali e dell'Agenzia delle entrate ma anche caserme e uffici della Guardia di Finanza e dell'esercito. Per il Quantum Fund di George Soros è la seconda operazione allo studio in Italia dopo quella conclusasi con successo il marzo scorso quando i veicoli di George Soros hanno acquistato il 5% di Igd - Immobiliare Grande Distribuzione Siiq, cioè uno tra i principali player in italia nel settore immobiliare della grande distribuzione controllato dalle cooperative. Soros, negli ultimi mesi, ha infatti accresciuto il peso dei suoi investimenti nell'immobiliare in Europa, valutando che ci siano soprattutto buone occasioni in Italia e Spagna.
Quantum Strategic Partners sarebbe uno dei tre soggetti in lizza nell'asta: gli altri due contendenti sarebbero i fondi americani Blackstone e Cerberus. Di recente è infatti finito sul mercato un portafoglio di Fip di oltre una ventina di immobili. I portafogli in vendita avrebbero diversi perimetri: il pacchetto più corposo di asset avrebbe un valore che sarebbe attorno agli 800 milioni di euro.
Dei tre contendenti, secondo indiscrezioni, proprio Blackstone sarebbe quello al momento più aggressivo: il fondo Usa punterebbe a fare massa critica in Italia, dove è rappresentato dal manager Paolo Bottelli, puntando sugli immobili che hanno la garanzia di avere lo Stato come affittuario. Il processo di vendita sul Fondo immobili pubblici, affidato all'advisor Cbre, è partito nel maggio scorso e i fondi statunitensi sembrano avere il ruolo di protagonisti.
Di pari passo con la cessione di questi portafogli principali, sarebbe in corso un'asta su alcuni pacchetti minori: fra questi sarebbe in svolgimento la cessione di tre caserme dislocate a L'Aquila, Roma e Bari. La caserma di L'Aquila della Guardia di Finanza, tra le strutture risparmiate dal terremoto, è nota per essere finita sotto i riflettori della cronaca nel 2009 quando nella città abruzzese si tenne il G8 organizzato da Silvio Berlusconi. Proprio per questo sotto-portafoglio sarebbe stato selezionato per una trattativa in esclusiva il fondo opportunistico statunitense Och Ziff, uno dei maggiori investitori americani con cassa disponibile per l'Europa per 8 miliardi di dollari. Och Ziff, che investe in equity, debito e real estate, ormai da qualche mese ha concentrato le sue strategie in Italia rilevando pacchetti di gruppi bancari come Mps e ora sembra interessato anche ad opportunità nell'immobiliare.
Fip è il primo fondo immobiliare promosso nel 2004 dallo Stato italiano, che vi ha inserito 394 immobili sul territorio nazionale per un valore di portafoglio di circa 3,9 miliardi. Le prime cessioni sono iniziate nel 2007, quando Investire Immobiliare ne ha dismessi in modo progressivo circa 150 per un controvalore di oltre un miliardo di euro. I 21 asset del portafoglio, che sono oggetto dell'asta gestita dall'advisor Cbre, sono distribuiti su tutto il territorio italiano e a occuparli sono in particolare uffici della pubblica amministrazione (agenzia delle Entrate, agenzia delle Dogane, Inail, Inps, ministero dei Trasporti, ministero del Lavoro) oltre a caserme e uffici della Guardia di Finanza.

Il Sole 10.6.14
Nella capitale
Roma guarda a congressi e Cina
Possibile la svolta sulla vecchia sede
di Andrea Marini


Prende corpo il piano di rilancio della Nuova Fiera di Roma. L'obiettivo è il pareggio di bilancio nel 2014 e poi macinare utili dal 2015 (i primi dalla nascita del nuovo polo nel 2006). Per l'ente di via Portuense già si stanno consolidando le diversificazioni sul turismo congressuale e l'espansione in Cina. Poi sono in corso incontri per dedicare parte della struttura a eventi sportivi. Ma soprattutto il 2014 potrebbe essere l'anno buono per la vendita della sede della vecchia Fiera, in via Cristoforo Colombo (tra il quartiere Eur e il centro storico). Un passo fondamentale per ripianare il debito con le banche (170 milioni) frutto degli investimenti per costruire la nuova Fiera.
Il problema del debito, con la crisi iniziata nel 2008, ha tagliato le gambe al polo espositivo. Fiera di Roma spa (oggi Investimenti spa), partecipata da Camera di Commercio di Roma, Campidoglio e Regione, con un investimento di 355 milioni assistito da credito bancario, ha completato nel 2006 i 14 padiglioni sulla Portuense. Avendo in gestione anche i capannoni sulla Colombo, si puntava a rientrare dall'investimento vendendo la vecchia Fiera. Ma il progetto è rimasto sulla carta, anche per l'accavallarsi dei piani di valorizzazione delle giunte capitoline e le proteste dei residenti per il rischio "colata di cemento". Così si sono accumulati gli oneri passivi legati al debito, che hanno prosciugato le risorse di Investimenti spa e costretto la Camera di commercio, con aumenti di capitale, a salire al 58,5% nell'azionariato (il Comune è al 21,8% e la Regione e Sviluppo Lazio sono entrambe al 9,8%). Tuttavia, la giunta Marino dovrebbe approvare questo mese la variazione di destinazione d'uso da non residenziale a residenziale: l'edificazione riconosciuta dovrebbe essere inferiore ai 288mila metri cubi dell'originario progetto della giunta Veltroni (il piano regolatore consente oggi 216mila metri cubi), ma dovrebbe garantire le risorse per l'estinzione del debito. L'ok definitivo dell'Assemblea capitolina è atteso per settembre-ottobre.
Intanto, dopo un fatturato 2013 di 23 milioni (in calo, anche per la mancanza di alcuni eventi biennali, rispetto ai 26 milioni del 2012) i primi mesi del 2014 sono stati incoraggianti: Motodays, una delle manifestazioni più importanti, ha chiuso con 143.800 visitatori, contro i 141mila del 2013. Secondo Mauro Mannocchi, amministratore di Fiera di Roma srl (al 100% di Investimenti spa, si occupa di gestire l'attività fieristica) nel primo trimestre la Fiera ha ottenuto risultati superiori alle previsioni. «A fine luglio – dice Mannocchi – organizzeremo in Cina (nella Contea di Yanqing, a Pechino, ndr) Wine Expo. Il nostro obiettivo è portare lì altri eventi legati al settore moda e hi-tech». A Roma, invece, nel 2015 sono attesi 12mila partecipanti per il congresso europeo di reumatologia e nel 2016 arriveranno 32mila cardiologi. Con il Coni sono in corso trattative per creare nei 4 padiglioni ovest un'area per eventi sportivi. Ma il riordino dei conti è passato anche per tagli dei costi. A febbraio era stata avviata una procedura di mobilità per metà dei 75 dipendenti, poi si è adottata una misura meno dolorosa: contratti di solidarietà al 50% (garantendo un risparmio di 1,3 milioni nel 2014).

Il Sole 10.6.14
Firenze aspetta il vertice dei Grandi
Il premier Matteo Renzi vuole tenere nella città il summit del 2017, ospitare l'evento potrebbe sbloccare i lavori alla Fortezza da Basso
di Silvia Pieraccini


Alla vigilia del Pitti Uomo - la più importante rassegna internazionale ospitata nel complesso espositivo della Fortezza da Basso (dal 17 giugno oltre 1.000 marchi di moda maschile presentano le nuove collezioni), che in questa 86esima edizione ha come tema-guida il ping pong - Firenze Fiera prova a rimettere a posto i tasselli dello sviluppo. Con un nuovo piano industriale triennale, appena elaborato e inviato ai soci, e una promessa fatta dal neo presidente Luca Bagnoli: il bilancio 2014 della spa fieristica chiuderà in pareggio, dopo anni di rosso cronico. Nel 2013 la perdita è schizzata addirittura a 2,3 milioni, per effetto di accantonamenti fatti in via prudenziale dai nuovi amministratori a fronte di contenziosi in atto, con un fatturato rimasto fermo a 15,2 milioni (per il 63% proveniente dalle fiere e per il resto dai congressi).
Ora il riequilibrio dei conti farà leva sul taglio dei costi: non tanto quelli del personale, quanto la spesa per fornitori (10 milioni all'anno), ai quali è stata chiesta una sorta di "solidarietà" che si tradurrà in sconti sulle fatture. Sul fronte dei ricavi e dello sviluppo commerciale, invece, Bagnoli non si sbilancia, ben sapendo che prima c'è da risolvere il nodo dell'adeguamento strutturale rimandato da troppi anni: «Il piano industriale 2014-2016 prevede il mantenimento del fatturato - spiega il presidente - che anzi sarà "ripulito" per riportare al core business le attività della società. Punteremo sul potenziamento della Mostra dell'artigianato (l'unica fiera organizzata direttamente, ndr) e investiremo sul congressuale rafforzando il rapporto con il Convention bureau». Per il resto Firenze Fiera continuerà ad affittare spazi prestigiosi nel cuore della città - le fiere di Pitti Uomo, Bimbo e Filati, che si svolgono due volte all'anno ciascuna, danno il 25% dei ricavi - in attesa di rendere più funzionale il polo fieristico-congressuale che comprende la cinquecentesca Fortezza da Basso, il Palazzo dei congressi e il Palazzo degli affari. Per queste ultime due strutture è previsto un intervento di restyling da 16-17 milioni da finanziare con un aumento di capitale già deliberato che, se i soci – tra i quali Regione Toscana (31,8%), Camera di commercio di Firenze (28,7%), Comune e Provincia di Firenze (9,2% a testa) - avranno le risorse e se il bilancio tornerà in pareggio, potrà essere sottoscritto nell'aprile 2015. Per i più corposi lavori di ristrutturazione dei padiglioni della Fortezza da Basso, investimento previsto sugli 80 milioni di euro, le speranze - dopo anni e anni di rinvii e rimpalli - sono ormai riposte nel G8 (tornato G7 nei giorni scorsi) del 2017, che il premier Matteo Renzi ha annunciato di voler tenere a Firenze. In questo caso potrebbe essere nominato un commissario governativo che avrebbe il compito di portare avanti il progetto, da realizzare per lotti senza chiudere il polo fieristico, mentre Firenze Fiera rivestirebbe il ruolo di consulente per la progettazione degli spazi espositivi, insieme con la società Pitti Immagine organizzatrice delle rassegne del Pitti. «Il G8 potrebbe davvero essere la soluzione per fare i lavori attesi da anni in tempi rapidi - dice Raffaello Napoleone, ad di Pitti Immagine -. Mi auguro che il commissario venga nominato entro luglio».
La prospettiva è dunque più rosea per il polo fieristico fiorentino, tutelato da tre Soprintendenze, anche se le (non) scelte politiche del passato pesano sulle possibilità di rilancio in un mercato fieristico-congressuale altamente competitivo. «Questo complesso - dice Bagnoli - proprio per la sua particolarità è in grado attrarre grandi congressi internazionali e fiere di medie dimensioni, frequentate da chi ha un interesse commerciale e anche un interesse per la città: e infatti la scommessa di medio-lungo termine è proprio quella di "unire" Firenze alla Fortezza».

Il Sole 10.6.14
La Cina scopre il mattone italiano
Il gruppo Vanke, quotato a Shenzhen, guarda alle opportunità nel real estate di Milano e Roma
di Paola Dezza


MILANO Come moderni Marco Polo che percorrono la rotta Italia-Cina a ritroso, oggi a scoprire l'Europa, e l'Italia nel dettaglio, sono gli investitori cinesi. In veste privata, dopo aver assaporato uno stile di vita più glamour fatto di abiti firmati, scarpe di marca, vini d'annata, puntano adesso al mattone. Nel nostro Paese hanno fatto incetta di poderi del Chianti, con cantina, di edifici cielo-terra nella capitale, e ora guardano a Venezia e ad altre città d'arte. Con l'Expo 2015 la presenza aumenterà, come ha confermato la delegazione cinese del gruppo Vanke, che realizza uno dei tre padiglioni del Paese in preparazione per l'attesa kermesse.
Vanke è il primo gruppo in Cina e nel mondo per lo sviluppo e le vendite di abitazioni che alla Borsa di Shenzhen, dove ha debuttato nel 1991, capitalizza quasi 11 miliardi di euro, numeri che per noi europei non sono la quotidianità. In totale Vanke ha realizzato, nel 2013, vendite per 1.157 milioni di metri quadrati - per il 90% di case già arredate - nelle 14 maggiori città cinesi, tra cui Shanghai, Guangzhou, Shenzhen, Beijing, Suzhou, e la provincia. Con revenue 2013 di 127 miliardi di renmimbi (15 miliardi di euro), in crescita del 31% sul 2012, e l'utile netto di 15,12 miliardi (1,8 miliardi di euro), Vanke fornisce oltre mezzo milione di case e servizi di gestione a 1,5 milioni di cinesi. E punta a diversificare all'estero. Dato che lo slow down del mercato della Repubblica popolare è già nei numeri del gruppo, in calo del primo trimestre 2014.
La società ha già attraversato i confini per investire nel real estate all'estero. «Siamo presenti negli Stati Uniti – dice il chairman del gruppo, Wang Shi –, controlliamo con RFR Realty la torre al 610 di Lexington avenue, sviluppata insieme ad Hines (progetto dello studio Foster per questa torre snella e panoramica con 61 appartamenti di lusso), ma siamo presenti anche a San Francisco, a Hong Kong e Singapore. All'estero abbiamo il 20% degli investimenti e intendiamo salire al 30% del totale nei prossimi anni». E in Europa? «Guardiamo a Londra e, in Italia, a Milano e Roma. Troviamo che siano molte le occasioni interessanti nel vostro Paese – continua Wang Shi –, ancora di più oggi che proprio per l'Expo arriverà qui un elevato flusso di turisti dalla Cina. Non escludiamo di guardare all'investimento nel mattone, anche nel segmento hotel. Ma con partner locali, come abbiamo già fatto negli Usa e in realtà come Singapore. E ci ispiriamo all'Italia anche per l'architettura e il design». E il numero uno di Vanke non esclude di aprire un headquarter magari proprio nella capitale britannica, dove non conferma né smentisce di aver fatto investimenti di recente. E dove nel 2013, secondo Cbre, sono arrivati investimenti dall'Asia per 8 miliardi di euro, di cui quasi 2 miliardi solo dalla Cina.

Corriere 10.6.14
L’Italia vista dalla Cina? «Il paradiso dei pigri»
di G. Sant.


PECHINO — Che cosa pensa l’establishment cinese dell’Italia? Un vecchio Paese con tanta storia e poco futuro nel mondo globalizzato oppure ancora una potenza industriale con la quale si possono fare affari? Zhang Lihua, direttrice del Centro di ricerca sui rapporti tra Cina ed Europa dell’Università Tsinghua di Pechino non gira intorno alla domanda: «L’Italia è un Paese di grande storia e civiltà che purtroppo è stato lasciato indietro dagli altri. Penso che i problemi dell’Italia siano molto simili a quelli della Grecia, cioè un’eccessiva democrazia e un welfare troppo alto che rendono meno efficienti i servizi pubblici e meno ordinata l’amministrazione politica. Ho visto che i negozi in Italia chiudono molto presto la sera e spesso rimangono chiusi per il fine settimana, questa secondo me è mancanza di flessibilità. Una volta sono incappata in uno sciopero dei treni: per ottenere il rimborso del biglietto ho dovuto aspettare un anno. In Cina mi avrebbero ridato subito i miei soldi. Così alla fine questo sistema diventa il paradiso dei pigri».
La visita di Renzi sarà molto breve, altri leader come il francese Hollande e l’inglese Cameron sono rimasti per una settimana in Cina: pensa che questo sia visto male dalla leadership cinese?
«Non si offenderà. L’Italia industrialmente è ancora potente: per stringere accordi serve soprattutto stabilità politica, tempo per costruire rapporti di fiducia».
La Cina si è impegnata con una partecipazione importante all’Expo 2015 di Milano: lei ha sentito dello scandalo di corruzione negli appalti?
«Anche la Cina soffre molto per fatti di corruzione. Trovo che per l’Italia l’inefficienza sia un problema anche più grave della corruzione».

La Stampa 10.6.14
L’ultimo inganno di un mare nemico
di Domenico Quirico


Ecco, ancora, di nuovo: lo scandalo universale di queste esistenze che vanno alla morte guardando la vita, uomini donne bambini di terra e di deserto, navigatori loro malgrado, eroi della sopportazione come Ulisse; ma, loro, senza nome e senza gloria. In quanti modi possono morire i migranti del Mediterraneo, onnipresente e detestato, mare di burrasche improvvise e di naufragi sconciamente beffardi, creditore rancoroso e definitivo! Addensati sulle murate lungo i parapetti, la mani aggrappate alle corde e ai bordi a guardare di fuori con occhi monotoni e di tanto in tanto gesti di incomprensibile eloquenza, gesti sprofondati in una prospettiva senza suono come di un film muto: sembrano, i passeggeri di questi viaggi, davvero come il lento remeggio delle erbe lunghe nel fondo del mare, un mondo disperato di esser nato. Muoiono travolti da venti improvvisi di tempesta, o traditi dai loro vascelli marci; da un motore che si incendia, da un movimento tropo brusco per paura o insipienza marinara che li capovolge. O come domenica, quando il loro battello ormai sembrava arrivato alla fine dell’odissea, avvistato e preso a traino da una grande nave pietosa. La piccola barca ormai rulla abbondantemente, ma con gran bonomia, il rullio più innocente e cordiale del mondo che non fa più paura, pieno di scricchiolii familiari, di rintocchi in sordina. La grande nave salvatrice è lì come una mamma fervorosa, il pericolo è finito: è bello questo dolce mare pallido, quasi una stoffa tinta. E invece… la morte beffarda, la cappa della dannazione. Non ci sono per loro, mai, avventure a lieto fine. Come se la Provvidenza li avesse guidati esattamente a quel punto, per indicare il suo dispettoso potere.
Il mare questi uomini, siriani o africani delle terre interne, spesso non l’hanno mai visto: il mare che non sopporta, come la terra, le tracce del lavoro e della vita umana. Niente vi rimane, neppure i morti, tutto vi passa fuggendo e delle navi che lo solcano, la scia stessa è subito scomparsa. Da questo deriva la sua grande purezza negata alle cose terrestri. Un’altra manciata di uomini è ingoiata dal caso crudele e subito ogni segno svanisce ed esso torna calmo come al principio del mondo.
L’uomo stanco delle strade terrestri o che indovina quanto sono aspre e volgari (la sanno bene questi migranti che hanno camminato nel dolore, nell’ansia, nel delitto che mille hanno consumato su di loro e sul loro cammino, costringendoli a fuggire e depredandoli) è attratto dalle pallide strade del mare. Più pericolose e più dolci, più incerte e più salutari. Tutto in esso è misterioso, senza ombre. Il mare è la fine del loro viaggio.
Uno dei migranti con cui ho attraversato il Mediterraneo mi raccontò questa attrazione terribile che esercita su di loro l’ultimo balzo. Mi ricordo come guardavano, i partenti, i loro sciancati battelli: nulla è cambiato. Lo sfasciume degli scafi parlava delle avarie e delle fatiche sopportate sulle strade del Mediterraneo antiche come il mondo e nuove, con i passaggi che lo solcano. E del viaggio che rimaneva da fare. Fragili e resistenti erano volte con fierezza al largo come l’acqua che dominano e dove pure sono sperdute.

Repubblica 10.6.14
Dietro una pistola antisemita
di Guido Ceronetti


ALLA precipitosa pioggia di commenti italiani alle elezioni europee del 25 maggio (già ne sarà stata dimenticata la data) arrivo buon ultimo con queste osservazioni, perfettamente non richieste ma di uomo pensante libero che con gli occhi ateniesi di una civetta scruta e scruta davanti a sé, nobile ozio, la semovente notte.
Un evento tanto grave, quanto ripugnante, come l’attentato antisemita del 24 maggio, in giorno di sabato, al Museo Ebraico di Bruxelles, mi pare valesse la pena di essere strettamente collegato col clima e gli esiti del voto europeo. Un terrorista solitario piomba nelle pacifiche sale, uccide tre persone, altre ne avrà ferite, nessuno lo ferma, si dilegua. Fortunatamente non del tutto: sei giorni dopo la polizia francese lo arresta e lo identifica alla stazione centrale di Marsiglia. Lui confessa: è sulla trentina, cittadino francese, si chiama Mehdi Nen-
mouche, delinquente comune convertito in carcere al guerrasantismo islamico, guerrigliero in Siria, dove non valgono più i principii umani, tornato “per uccidere ebrei” dappertutto, ma attirato evidentemente dall’opportunità di fare un colpo straordinario. Non gli bastava uccidere: aveva con sé un apparecchio di ripresa per documentare la gesta e farla nota per diffusione televisiva (destinazione Al-Jazeera). Impressiona, nelle foto scattate, una povera innocente stesa al suolo che ha nel palmo aperto della mano la guida del museo comprata poco prima.
Non è tanto metafisico, collegare l’atto sanguinario al voto del giorno dopo. (Mi viene a caldo un pensiero lacerante: che il giorno dopo, coi morti all’obitorio, l’attentato fosse già dimenticato, o comunque da dimenticare). Come in Oriente così in Occidente.
Una donna a terra, come la giovane vittima di Bruxelles, l’avevo intravista in rue des Rosiers (quartiere di deportati, quarant’anni prima) un giorno d’agosto del 1982, diretto alla Libreria Judaïca, a Parigi. Seppi che era la cassiera, di nome Irene, e che le stavano praticando sul posto una trasfusione.
Orribile, quell’attentato, dalla strada al ristorante cashèr dei Goldenberg, padre e figlio, che accoglievano fraternamente sia ebrei che musulmani. Sei vittime sotto il lenzuolo, nel vicino cortile. Fu un attentato alla specie umana, perché un crimine contro un luogo pubblico dove è ospite l’Amicizia è un crimine contro tutto ciò che è umano. Così al Museo di Bruxelles. Così alla scuola ebraica di Tolosa. Così — incancellabile nefandezza — alle Olimpiadi di Monaco del 1972: su cui vergogna eterna perché i giochi non vennero sospesi.
L’attentato antisemita del 24 maggio non determina il voto europeo del 25, ma ne è il ferro magnetico d’ombra, il polo radiante emanato da un fanatico religioso di sciagura: il voto è nella bisettrice dilatata di quello e degli altri ricordati attentati, ed è da orbi (poiché la mentalità materialistica ci vede così poco, è inutile deplorarla) farsi sfuggire questa connessione non visibilmente e brutalmente fattuale. E tuttavia, quella domenica 25, una mobilitazione di cripto e aperti antisemiti di tutta Europa e delle isole britanniche, grassa di consensi d’urne, si mette in marcia alla conquista di una consistente fetta del Parlamento, finora mai preso sul serio, di Strasburgo. E dall’Italia, prontamente, due pensatori del calibro di Beppe Grillo e Matteo Salvini, volano a Parigi e a Londra ad offrire i loro decisivi contributi a due vette dell’intelligenza come Marina Le Pen e il Farrage delle bianche scogliere. Se mai li si volesse vedere, i segni ci sono.
Con capi all’altezza del tempo e meritevoli dei loro stipendi, Strasburgo potrebbe diventare una capitale assembleare da 1789. Trovatemi un Mirabeau. Trovatemi dei Lussu, dei Salvemini in quest’ultima fienatura. Qualcuno che davvero capisca che l’anti Europa- unita è un fronte di pericolose larve, un bagno di coltura dove i Nenmouche e i Merah potranno acquattarsi con le loro macchine da ripresa e le loro pistole automatiche. Nella distanza, la fibbia è fibbiata.

il Fatto 10.6.14
L’albero della pace senza radici
Dopo gli abbracci in Vaticano, quali sono le possibilità concrete di un accordo in Medio Oriente: dai colloqui romani esce rafforzato Abu Mazen e soprattutto il papa
di Giampiero Gramaglia


Hanno pregato insieme, ciascuno il loro dio. Che è poi prevedibilmente lo stesso, perché grasso che cola se ce n’è uno. Ma dopo l'incontro di raccoglimento, domenica, nei giardini vaticani, tra papa Francesco, il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo e i presidenti di Israele e Palestina Shimon Peres e Abu Mazen, la pace in Medio Oriente è più vicina d’un centimetro? Di sicuro, la preghiera male non fa: la pace non s’è allontanata. Ma che si sia avvicinata davvero, non ci crede neppure Francesco, che, affaticato da viaggi e incontri, si prende una pausa su ordine dei medici. Il suo portavoce, padre Lombardi, dice, alla Radio Vaticana, che “la pace certo non scoppierà da un giorno all'altro”, anche se credenti e persone di buona volontà hanno dato, con la loro invocazione, “un contributo nuovo, un contributo forte, al dono della pace”. Più ottimista il direttore dell’Osservatore Romano, Vian, che pone la domanda stalinista: “Quante divisioni ha il Papa?” e risponde “Innumerevoli”, citando l'eco internazionale della giornata per la Siria e dell’incontro di ieri. Per Vian, Francesco, Shimon Peres, Mahmoud Abbas e Bartolomeo “si sono così incamminati con sereno coraggio su una strada antica e sempre nuova, la via di Abramo che, secondo la parola dell'apostolo Paolo, credette nella speranza contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli", che si sono fatti nei millenni e si fanno tuttora la guerra.
I PALESTINESI Abu Mazen è il leader che ricava di più dall’iniziativa di Francesco: torna ad avere visibilità e prestigio, due elementi che non lo hanno sempre caratterizzato e che, anzi, da un po’ di tempo pareva avere smarrito. La preghiera nei giardini vaticani può, però, servigli sul fronte interno più che su quello dei negoziati di pace; e potrebbe pure rivelarsi su un boomerang, se, a termine, non ne ricavasse nulla in termini di concessioni da Israele, sblocco delle trattative.
GLI ISRAELIANI Shimon Peres non porta a casa nulla che già non avesse: Nobel per la Pace nel 1994, il leader laburista è la maggiore icona del dialogo israelo-palestinese, ma conta il 2 di picche nel Paese governato da Netanyahu. Ci fosse stato il premier nei giardini vaticani, l’impatto dell’iniziativa del papa sarebbe stato maggiore. Ma l’assenza di Netanyahu e la presenza di Peres non sono casuali: quello era un atto simbolico, non una trattativa concreta, che, ora come ora, non si fa.
ITALIA, USA E UE non paiono pronti a raccogliere il testimone del gesto di Francesco per rilanciare il processo di pace, un ginepraio dove nessuno quasi più s’avventura, specie dopo i cambi apportati alla geografia politica dell’area dalle Primavere arabe e i loro contraccolpi. Gli americani mantengono alta l’attenzione e, fin quando la crisi ucraina non l’ha distratto, il segretario di Stato Kerry s’è dato da fare. Gli europei, spaventati dalla Libia, preoccupati dalla Siria, incerti sull’Egitto, si tengono alla larga. L’Italia accoglie gli ospiti come un terreno neutro. Ma il calendario che le attribuisce a ripetizione un ruolo nelle dinamiche mediorientali non è casuale: dopo la preghiera, il 12 giugno iraniani e russi s’incontreranno a Roma sul nucleare; e il 17 giugno ci sarà la conferenza sul Libano.
IL DIALOGO ECUMENICO Forse, il frutto più concreto del momento di raccoglimento in Vaticano è che il riavvicinamento tra cristiani prosegue. Per la pace in Medio Oriente, è poco. Ma, almeno, cattolici e ortodossi non si piglieranno più a colpi di ramazza sulla soglia del Santo Sepolcro. Anche se, ieri, sono stati gli zeloti a prendersela con i cristiani nel conteso presunto luogo del Cenacolo, a Gerusalemme.

il Fatto 10.6.14
Cerimoniale pazzo
La ‘scomparsa’ dello Stato palestinese
di G. G.


Forse, è solo l’incidente di percorso, o meglio l’eccesso di prudenza, di un’agenzia di stampa, perché il sito del Quirinale evita, con una capriola lessicale, la trappola diplomatica della Palestina che è uno Stato, ma è scomodo dirlo quando hai gli israeliani in casa. Ieri, verso le 12, le agenzie di stampa - tutte, Ansa, Agi, Adnkronos, etc - battono un comunicato del Quirinale: “Il presidente della Repubblica Napolitano ha ricevuto il presidente dello Stato di Palestina Mahmoud Abbas. Era presente all'incontro il ministro degli Esteri Federica Mogherini”. Mezz’ora dopo, solo l’Adn ci ripensa: Napolitano ha ricevuto “il presidente **della Palestina** Mahmoud Abbas”, senza Stato e con gli asterischi . Forse, a qualcuno quello Stato è parso un dito nell’occhio del presidente israeliano Shimon Peres, arrivato pure lui in visita con un’onorificenza per Napolitano. Il sito del Quirinale se la cava brillantemente: notizia e foto dell’incontro con Peres e annessa onorificenza; notizia e foto dell’incontro con Abbas, che diventa sobriamente “il presidente palestinese”.

Repubblica 10.6.14
Grossman: “La preghiera, un lampo di luce ma noi israeliani siamo ormai sfiduciati”
di Fabio Scuto



GERUSALEMME. UN LAMPO di speranza, una breve luce che si accende nel buio. Difficile non dare una valenza positiva alla preghiera comune in Vaticano fra Papa Francesco il presidente israeliano Shimon Peres, il palestinese Abu Mazen e il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo. Ma le parole di David Grossman, tra i più grandi scrittori contemporanei e “voce” di generazioni di israeliani che alla pace non hanno mai smesso di credere, costringono ad un bagno di realtà «perché gli israeliani sono sfiduciati su un possibile accordo di pace ». «Che certamente - dice l’autore di Vedi alla voce: amore - non ci sarà non con un governo come quello che abbiamo attualmente».
Che cosa ha provato quando ha visto questi tre grandi vecchi insieme nei giardini del Vaticano?
«È stato senz’altro un avvenimento fuori dal comune, che dà un minimo di speranza che il processo di pace possa in qualche modo riprendere. In un periodo in cui gli europei e gli americani, dopo il fallimento del segretario di Stato Usa John Kerry, hanno deciso di tirare i remi in barca e di aspettare che siano gli israeliani ed i palestinesi a rivolgersi a loro dopo che avranno trovato un accordo, l’iniziativa del Papa, per quanto non più che dichiarativa, è consolante. Francesco è una persona molto intelligente, ha influenza ed è riuscito a ricavarsi uno spazio in cui poter agire. Ma in Israele questo evento non ha avuto molta risonanza: Haaretz, il giornale politicamente più rilevante, vi ha dedicato appena quattro righe...».
Perché gli israeliani hanno mostrato così scarso interesse?
«Sono sfiduciati: hanno perso la speranza che qualcosa possa veramente cambiare, che si possa arrivare ad un progresso, ad un accordo di pace. In questi anni abbiamo visto troppe speranze andare in fumo».
Questo è stato probabilmente l’ultimo atto rilevante di Peres, che fra un mese terminerà il suo incarico presidenziale. Peres è stato ed è ancora il motore dietro il processo di pace negli ultimi 25 anni. Sarà possibile riempire il vuoto che lascerà?
«È vero, Peres è la persona che ha maggiormente spinto in direzione di un accordo con i palestinesi, ma di fatto anche lui non ha avuto successo. Tutte le volte che sembrava avesse fatto un passo avanti, il primo ministro Netanyahu ha fatto in modo di bloccarne l’iniziativa».
Netanyahu, il grande assente in questo incontro...
«Ritengo che il premier non creda veramente alla possibilità di un accordo con i palestinesi e tantomeno nella soluzione dei due Stati. Non si tratta solo dell’accordo con i palestinesi: la sua è una visione del mondo cupa, difensiva, in cui non c’è posto per la fiducia necessaria ad andare avanti per arrivare ad un’intesa. Non che non abbia precedenti storici su cui basarsi, gli ebrei sono stati perseguitati per migliaia di anni, ma proprio in questo periodo la situazione potrebbe essere favorevole. Dei Paesi vicini ad Israele, che ne invocavano la distruzione, è rimasto solo l’Iran. Tutti gli altri, Siria, Egitto, Iraq adesso sono troppo impegnati nelle loro faccende interne per aprire un nuovo fronte».
Nel governo ci sono forze, come il “Focolare ebraico”, che propugnano il ritiro unilaterale da una parte dei Territori occupati e l’annessione dell’altra parte.
«Sarebbe veramente un disastro, la fine dello Stato ebraico e democratico. Lei pensa davvero che la maggioranza ebraica cederebbe ai cittadini arabi il comando dell’esercito o dell’aviazione o dei servizi di sicurezza? Si arriverebbe probabilmente ad uno sviluppo mostruoso di tali apparati, destinati a controllare la parte araba della popolazione, sempre sospettata di qualcosa. No, l’unica soluzione è la separazione, i due Stati. Ci sentiremo a nostro agio, protetti e sicuri nel nostro paese solo quando i palestinesi avranno il loro».
Che ne pensa dell’iniziativa di Netanyahu di proporre ad Elie Wiesel di candidarsi alla presidenza, in mancanza di un candidato più vicino al premier?
«Con tutto il rispetto e l’ammirazione che ho per Wiesel, non credo che una persona che non è vissuta qui con noi, che non abbia vissuto ciò che abbiamo vissuto noi, che non abbia avuto contatto con la realtà e la gente d’Israele possa essere un presidente adatto. Il presidente deve essere uno che è stato e sta qui con noi».

il Sole 10.6.14
Israele, l'Anp e la ricerca del coraggio


Gli autorevoli partecipanti e tutti coloro che hanno coltivato una speranza sul bellissimo incontro in Vaticano si staranno ponendo la stessa domanda: e ora? È il medesimo dubbio che hanno avuto gli ultimi sei presidenti degli Usa, dopo avere incontrato israeliani e palestinesi. Più di cento anni dopo l'inizio del problema e a 23 dall'avvio del processo di pace, una risposta convincente non è stata trovata. La soluzione non c'è. Papa Francesco ha constatato quello che già tutti i negoziatori (Usa, Onu, Urss/Russia, Ue, norvegesi, Quartetto, Lega Araba) avevano scoperto: la pace ha bisogno di coraggio. Nella fattispecie il coraggio significa leader che sappiano fare accettare a israeliani e palestinesi il costo della pace. Ogni pace è dolorosa: richiede che i contendenti rinuncino a una parte delle aspirazioni nazionali per le quali migliaia di loro sono morti; concedano una parte della sicurezza, della terra, della giustizia storica e attuale. Di eroi guerrieri il conflitto ne ha prodotti tanti. Di eroi della pace pochi e sfortunati: uccisi, eliminati dal destino o dal voto popolare. Nella loro carriera politica Shimon Peres e Abu Mazen, partner nell'incontro col papa e poi ieri con il presidente Giorgio Napolitano, hanno avuto l'occasione di mostrare coraggio: un po' hanno provato a esercitarlo ma non è stato abbastanza a causa delle «complessità del problema». Il primo quando aveva reale potere e il secondo che ancora ne ha non si sono mai spinti oltre il politicamente corretto. I loro eredi non sembrano migliori. Anzi. I papi possono guarire i malati, rendere migliore l'animo degli uomini. Ma per i miracoli della diplomazia servirebbe davvero l'intervento divino. (U.T.)

La Stampa 10.6.14
“Antisemita”. “Conformista” Scoppia la guerra dei Le Pen
Figlia contro padre per le frasi razziste. In forse la svolta verso la destra “rispettabile”
di Aline Arlettaz

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Repubblica 10.6.14
San Paolo. Nella città sotto assedio la guerra dei nuovi poveri
«Così ci hanno tradito»
di Concita De Gregorio


SAN PAOLO. L’ASTRONAVE della Fifa atterra a San Paolo su una città in guerra. Un enorme uccello con le piume verdi e fucsia, estraneo regale e impassibile, che plana tra i grattacieli abbandonati di un centro deserto, abitato da spettri miserabili, fumatori di crack e puttane, mendicanti.

I NUOVI abitanti, giovani, dell’antico quartiere dell’alta borghesia paulista innamorata dell’Europa sono oggi i senza lavoro, senza diritti. Sono arrivati dalle periferie coi fagotti e hanno riordinato, spazzato le macerie, costruito sale conferenze per l’attività politica nei vecchi auditorium, asili nei garage. Hanno preso possesso della città lasciata vuota. Manifestanti dei movimenti dei senza casa e senza terra sono ogni mattina respinti con proiettili di gomma dalla polizia statale in armi. Metro in sciopero, trasporti pubblici bloccati. Blade runner, il mondo dopo la fine del mondo.
I dirigenti in doppiopetto della Fifa sono arrivati in auto dall’aeroporto, giorni fa, e sono rimasti per ore intrappolati in una coda di 600 chilometri. Non è un errore: 600. La città estesa conta 18 milioni di abitanti, come l’Olanda. Per arrivare allo stadio dal centro, in condizioni normali, ci vogliono due ore. Con lo sciopero dei mezzi semplicemente non si arriva. Hanno detto, spazientiti, nel loro inglese: «Bisogna trovare un piano B». Mancano due giorni all’inaugurazione e non ci sono lettere dell’alfabeto per indicare nessun altro piano possibile che non sia quello di rendersi conto, almeno per un attimo, di cosa c’è fuori dai finestrini oscurati delle auto. Del posto in cui l’astronave e i suoi sponsor globali è atterrata.
Qui la mattina ci si sveglia col rumore degli elicotteri che volano radente ai tetti. Pensi: l’esercito, e invece no. Ogni giorno è così. Ogni giorno mille persone, nel centro di San Paolo, escono da casa dopo colazione e vanno al lavoro in elicottero, centrano quella specie di cestini da pane sistemati sui tetti, aggiustano il doppiopetto e scendono in ufficio. Mille elicotteri privati in città, il record del mondo. Giù di sotto, per strada, c’è un’altra guerra.
Non esiste un’altra città al mondo dove nel centro storico, quello dove nel bel teatro rosa dei primi Novecento danno, stasera, la Carmen di Bizet, si affaccino sulla piazza sei grattacieli occupati, abbandonati e occupati. Vuoti, gli occhi bucati fino al ventesimo piano, le finestre senza vetri, le bandiere dei movimenti che sventolano dai bagni comuni. Davanti al municipio dove lavora il sindaco. La leader del movimento per la casa Mmpt (Movimento moradia para todos) si chiama Welita Caetano, ha 28 anni e allatta sua figlia di 3 mesi, Anita, nell’appartamento numero 314 dell’edificio occupato di via Marconi, di fronte al luogo che la Fifa ha scelto per fare la sua grande ininterrotta festa, il Fifa Fun Fest. E’ laureata in Economia, sta ancora studiando Diritto, è figlia di immigrati brasiliani che hanno cominciato ad occupare quando lei aveva 9 anni per la semplice ragione che non avevano dove vivere. Ha studiato coi soldi del Movimento, adesso è lei che va in tribunale a difendere le 400 famiglie che rappresenta. «Ci sono a San Paolo 700 mila famiglie iscritte alle liste di attesa per avere una casa, e nel centro quasi 400 edifici abbandonati. Il piano del governo ‘Minha casa minha vida’ non riesce a tutelare chi guadagna meno di 1500 reais, 500 euro al mese, perché a San Paolo il suolo è troppo caro, prezzi lievitati anche a causa della Coppa, e il sussidio non basta. Le liste di assegnazione degli alloggi estraggono a sorte e non tutelano chi ha davvero bisogno. Nel centro abbiamo occupato, noi ed altre associazioni, 60 edifici, grattacieli e non. In questo di via Marconi vivono 120 famiglie. Diamo la precedenza a donne sole con figli che fuggono da situazioni di violenza domestica. Un portiere vigila che non arrivino i mariti a riprenderle. Poi molti haitiani, la nuova immigrazione, ma anche moltissimi paulisti con redditi bassissimi. Qui non si può bere né fumare, le regole sono molto severe e chi sgarra esce, abbiamo 70 bambini che vivono nel palazzo. Il Mondiale della corruzione non ha portato ricchezza né opportunità a chi ne ha bisogno, ha portato soldi ha chi già ne aveva. Dilma ha fatto molte cose buone, ma col mondiale ha sbagliato».
Dilma col mondiale ha sbagliato. L’hanno fischiata, all’inaugurazione della Confederation cup, e oggi - dice il suo ministro dello sport Aldo Rebelo - «non deve aver paura di essere fischiata ancora, i fischi fanno parte del gioco. Abbiamo fatto quel che dovevamo. Il calcio è sempre stato un grande veicolo di emancipazione sociale in questo paese, specie per i neri, i nostri eroi sono stati Fausto, Garrincha e Pelè. Il Mondiale non è stato mai contestato neppure durante gli anni della dittatura, non capisco perché debba esserlo oggi ». E invece è contestato o almeno non applaudito nella capitale neppure dalla classe media, che al contrario di sempre non espone bandiere ai balconi, non compra magliette e gadget gialloverdi, «persino i bambini scaricano dai youtube i video coi rap che attaccano Dilma sulla corruzione, poi le canticchiano a scuola e se non finiscono l’album delle figurine pazienza», dice Claudia, madre di due gemelli decenni.
Oggi la presidenta arriva da Brasilia ad aprire i lavori del congresso Fifa. A poche centinaia di metri di distanza ci sarà il sit in del movimento Copa pra quem, Mondiale per chi?, che riunisce i movimenti popolari (per la casa, per la terra, contro la militarizzazione della polizia) che Rousseff ha sempre difeso e sostenuto. Un paradosso. Fra pochi mesi si vota di nuovo e la stessa sinistra teme che la contestazione del mondiale possa rivelarsi alla fine un boomerang, un asso nella manica della destra. Il leader socialdemocratico Josè Serra, già governatore e sindaco di San Paolo, ex ministro della Salute e storico antagonista di Dilma, da lei sconfitto nella corsa alla presidenza alle ultime elezioni, dice, in gran relax a una festa di compleanno, che «Dilma ha sovrapposto la sua immagine a quella del mondiale dopo aver sbagliato le principali scelte di politica economica, nessun investimento reale, ha solo planato su una fortuna effimera, il paese oggi ristagna. Se il Brasile, inteso come squadra, andrà bene lei potrà ancora cavarsela, forse. Se la squadra affonda Dilma perde il mondiale e la sua corsa».
I lavori, allo stadio Itaquerao, sono ancora in corso. Gli operai dormono in mezzo alla strada nella pausa pranzo, esausti. Sulla collina che domina lo stadio è comparsa nel giro di una settimana una favela enorme, si chiama Copa du povo, la Coppa del popolo. I bambini giocano al pallone in mezzo alla plastica nera delle loro capanne guardando in basso le bandiere Fifa issate sullo stadio nuovo. Ci sono cinquemila famiglie, dona Elena è la leader del Movimento lavoratori senza tetto, accoglie chi arriva. C’è una cucina comune per ogni lotto, 4 reais un pasto, poco più di un euro. Al lotto due cucina Carla: ha 28 anni anche lei come Welita Caetano, due bambini piccoli, Stefany e Mikael. Prima pagava 450 reais di affitto, dice, ma non lavora e suo marito non abbastanza, non ce la fanno. «Qui si sta bene», dice. Dorme coi bimbi per terra. «Fa solo un po’ freddo». Alla manifestazione di oggi no, non potrà andare perché non sa a chi lasciare i figli, e poi c’è sciopero dei mezzi, non ci si muove, bisogna partire a piedi la notte. Quando è buio gli invisibili si incamminano verso il centro. Contano di arrivare all’alba. Proprio quando i piloti degli elicotteri controllano se sia tutto a posto per il decollo dei signori di denari, chi cerca lavoro si incammina verso l’antica via pedonale dei caffè per un ingaggio diario, i bambini nei grattacieli occupati si svegliano e la giornata comincia di nuovo.

Corriere 10.6.14
Scontri, scioperi e proteste. Tutta San Paolo bloccata
La polizia carica, 3 feriti. Per la Fifa scorte e velocità
di Roberto Perrone


SAN PAOLO — Joseph «Sepp» Blatter scende nella hall del Grand Hyatt alle 12.45 per il pranzo. Grisaglia d’ordinanza, ma scarpe da ginnastica, perché, anche se nel 64esimo congresso della Fifa (oggi e domani) annuncerà la sua ricandidatura e, soprattutto, stroncherà ogni tentativo di mettere un limite d’età, a 78 anni i piedi bisogna che stiano comodi. Chiuso in quello che viene considerato l’hotel più lussuoso della città, tra le varie forze di polizia a proteggerlo c’è anche la Prf, la Policia Rodoviaria Federal, la polizia stradale, qui per favorire i rapidi spostamenti dei dignitari Fifa. Quasi una beffa, per i 4 milioni di persone appiedate dallo sciopero della metropolitana giunto alla sesta giornata e per gli imbottigliati nei 251 km di coda che hanno scosso la megalopoli.
È stata una giornata di lacrime e sangue a San Paolo. Davanti alla stazione di Ana Rosa, nella zona sud della città, si è combattuta una battaglia tra la polizia in assetto anti-sommossa e gli scioperanti che picchettavano l’entrata della metro, bloccando chi voleva lavorare. Ana Rosa come Paraiso, teatro degli scontri di sabato, è uno snodo chiave della circolazione. La polizia ha caricato lanciando lacrimogeni e granate stordenti, sparando proiettili di gomma e manganellando senza distinzioni scioperanti ed esponenti dei movimenti sociali arrivati a sostegno. Bilancio: 13 persone arrestate (poi rilasciate) tre feriti, quattro in totale con l’autista dell’autobus ustionato domenica per l’incendio del suo mezzo nella zona dell’aeroporto di Guarulhos. Guai anche qui con code mostruose all’immigrazione, al recupero bagagli e nel nuovissimo Terminal 3 a scartamento ridotto. Altri momenti caldi quando 200 dei movimenti sociali, tra cui i «Senza tetto», hanno bloccato la centrale avenue Vergueiro incendiando cassonetti al grido: «Non ci sarà nessuna Coppa». Alle 8 la circolazione è ripresa, anche se lentamente.
Malgrado la decisione del Tribunale Regionale del Lavoro di dichiarare illegale lo sciopero (ammenda di 30 mila euro per giorno d’infrazione al sindacato), gli scioperanti, che guadagnano 450 euro al mese, non mollano. Ad aumentare i disagi il crollo di una struttura della linea 17 che ha provocato la morte di un malcapitato che passava nelle vicinanze. Tre linee su cinque hanno funzionato a sprazzi, 24 stazioni su 65 erano chiuse. Egoisticamente parlando, per il Mondiale, tutto si riduce a una sola linea, la Vermelha e a una sola stazione la Corinthians-Itaquera, quella dello stadio dell’apertura, chiusa da giorni. Ora, però, sul tavolo della trattativa, ripresa alle 20 italiane, non più c’è solo l’aumento salariale del 12,2 per cento ma anche il reintegro dei 61 licenziati per giusta causa. Secondo le ultime notizie la discussione si sarebbe nuovamente interrotta. Il timore è che molte categorie di lavoratori (impiegati federali, autisti di bus, insegnanti) utilizzino il Mondiale per forzare la mano rendendo trasversale la protesta.
A San Paolo i controllori del traffico (che risolvono le situazioni da incidente o corrono a riparare un semaforo rotto), agganciandosi alla legge per cui se doni il sangue hai un giorno di permesso, si sono fermati per due giorni al prezzo di uno, contribuendo al venerdì nero della città. Il problema è ormai politico: il sindacato che guida la metà più agguerrita dei manifestanti appartiene a un’area anti-governativa. In ballo c’è il lavoro ma anche le spese abnormi, in esseri umani e soldi, del Mondiale: 9 operai morti nei lavori, 11 miliardi di dollari spesi.
Al ministro dello sport, Aldo Rebelo, è sfuggito: «Il Brasile non è pronto». Ma il colonnello con le scarpe da ginnastica, minimizza: «Sarà il miglior Mondiale di sempre». Però lui, a Itaquera, ci va in elicottero.

La Stampa 10.5.14
Curdi, si riaccende la protesta
Battuta d’arresto per il processo di pace
La gente nell’est ha ripreso a morire, i guerriglieri del Pkk sono tornati sul suolo turco
I tentativi di Erdogan per i negoziati sono entrati in fase di stallo
E il leader dell’opposizione turca chiede ai partiti curdi l’appoggio alle prossime elezioni presidenziali
di Marta Ottaviani

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La Stampa 10.6.14
Politkovskaia, ergastoli che non fanno giustizia
Cinque condanne definitive, ma restano troppi misteri irrisolti
di Anna Zafesova


Ergastolo per gli assassini di Anna Politkovskaia: quasi otto anni dopo l’omicidio della giornalista il tribunale di Mosca mette la parola «fine» a uno dei processi più lunghi, tormentati e torbidi della storia della Russia putiniana. Il ceceno Lom-Ali Gaitukaev, legato a clan criminali del Caucaso, è stato riconosciuto colpevole di aver organizzato il delitto e il suo connazionale Rustam Makhmudov di aver sparato quattro colpi il 7 ottobre 2006. Entrambi non usciranno più dal carcere, mentre i due fratelli di Makhmudov che hanno pedinato la vittima sono stati condannati a 12 e 14 anni. Condanne pesantissime anche per Serghey Khadzhikurbanov e Dmitry Pavliuchenkov, due ex poliziotti: il primo sconterà 20 anni per aver mediato tra il mandante e i killer e il secondo ha patteggiato 11 anni dopo aver confessato di aver organizzato dietro pagamento il pedinamento di Anna.
Un verdetto che arriva dopo tre processi, di cui il primo si era concluso con l’assoluzione degli imputati e il secondo con la fuga uno dopo l’altro dei giurati. In mezzo c’era stato di tutto, prove falsificate, latitanze internazionali, testimoni e giurati che denunciavano minacce, insulti tra giudici e avvocati, e soprattutto tanti sospetti mai espressi. I condannati continuano a proclamarsi innocenti e denunciano i magistrati che avrebbero impedito la cattura dei «veri colpevoli». Ma soprattutto, mentre in aula è stata fatta una ricostruzione complessa e plausibile dell’omicidio, nessuno ha mai spiegato perché quattro ceceni in odore di mafia e due poliziotti corrotti si sono messi a progettare l’assassinio di una donna, colpita a bruciapelo mentre caricava in ascensore la spesa. I figli e i colleghi di Anna sembrano – anche grazie ai risultati dell’indagine parallela condotta dalla «Novaya Gazeta» per la quale Politkovskaia lavorava – convinti della colpevolezza di Gaitukaev e soci. «Restano tante domande sul mandante», dice il figlio della giornalista, Ilya. La storica dissidente Liudmila Alexeeva ritiene che il caso «resti aperto»: «Nessuno dei condannati aveva motivo di uccidere, qualcuno li ha spinti, li ha pagati per sfogare il suo odio con le loro mani».
Chi è questo qualcuno resta un mistero. Il motivo appare evidente: gli articoli della Politkovskaia con le denunce della violenza contro i civili nella seconda guerra cecena, delle torture e dei sequestri per mano delle truppe russe e delle bande del leader filorusso di Grozny, Ramzan Kadyrov. Con le sue testimonianze Anna era riuscita a portare diversi militari russi sul banco degli imputati e a far ottenere a molte famiglie cecene vittorie al tribunale europeo di Strasburgo. Ma se i suoi colleghi e amici ritengono che chi l’abbia uccisa con modalità da esecuzione mafiosa, proprio nel giorno del compleanno di Putin, volesse farla tacere e lanciare un segnale intimidatorio, esponenti della giustizia russa hanno fatto capire di sospettare una provocazione proprio dei nemici del presidente, un delitto clamoroso che avrebbe gettato ombra su un Cremlino già criticato per la repressione della libertà di stampa.
Il rappresentante del Comitato per le indagini Vladimir Markin ieri ha annunciato «procedure esaurienti» per identificare il mandante. In precedenza la giustizia russa aveva fatto capire di cercarne le tracce all’estero, sospettando il coinvolgimento di Boris Berezovsky, l’oligarca nemico di Putin legato alla guerriglia cecena della prim’ora. Che però si è tolto la vita nel suo esilio londinese un anno fa, in circostanze ancora oscure. Kadyrov continua a governare la Cecenia con pugno di ferro. E il mistero della morte di Anna Politkovskaia non è stato risolto.

La Stampa 10.6.14
Successione al trono di Spagna:
spunta un presunto figlio illegittimo
Un cameriere di 58 anni, Albert Solà, chiede il test del Dna di Juan Carlos.
Se la versione fosse vera, sarebbe il primogenito della casa reale e la corona toccherebbe a lui
di Gian Antonio Orighi

qui

(Probabilmente per Lo Piparo Gramsci oltre che liberale era anche gay...)
l’Unità 10.6.14
L’anticipazione
Gramsci e Wittgenstein la stessa lingua
L’incontro a distanza di due intellettuali
Un libro racconta e documenta la sorprendente storia dello scambio culturale avvenuto tra il filosofo austriaco e il leader del Pci tramite l’economista Piero Sraffa, sul tema
del linguaggio e i suoi usi
di Franco Lo Piparo


IN UNA NOTA SCRITTA NEGLI ANNI 1939-40 WITTGENSTEIN TRACCIÒ UN SINTETICO E PENETRANTE RITRATTO DEL PROPRIO STILE FILOSOFICO USANDO UN’IMMAGINE BOTANICA. Si considerava, più che un seme da cui si forma una nuova pianta, un terreno particolarmente fecondo, capace di far crescere e sviluppare in maniera inedita semi provenienti da altri terreni. «La mia originalità (ammesso che questa sia la parola giusta) è, credo, una originalità del terreno, non del seme. (Io forse non ho un seme proprio). Getta un seme nel mio terreno e crescerà in modo diverso che in qualsiasi altro terreno». Non è dato sapere a chi pensasse. I semi gramsciani che Sraffa gettò nel terreno di Wittgenstein negli anni che vanno dal 1930 agli anni quaranta del secolo scorso si adattano bene a questa immagine. Fu, del resto, lo stesso Wittgenstein che, ricorrendo a un’altra immagine botanica, paragonò il proprio stato mentale, dopo le chiacchierate filosofiche con Sraffa, a «un albero al quale fossero stati tagliati tutti i rami».
Il libro racconta la storia della inseminazione gramsciana della mente di Wittgenstein tramite l’economista italiano Piero Sraffa. Non vuole fare di Wittgenstein un filosofo gramsciano né di Gramsci un filosofo wittgensteiniano. Gramsci e Wittgenstein sono due grandi e autonome personalità teoriche, due giganti direi, e ciascuno insegue i propri problemi teorici. A noi interessa qui portare alla luce un imprevisto canale di interazione intellettuale tra il carcere e le cliniche italiane da una parte, la grande Università di Cambridge dall’altra. È un nuovo capitolo, finora non studiato, della storia culturale europea. Siamo all’inizio di un percorso. Riletture di documenti noti e nuove ricerche d’archivio potrebbero in futuro riservare sorprese. Perché proprio Gramsci, da tutti conosciuto come il politico fatto arrestare da Mussolini in quanto esponente di spicco del Partito comunista? Il segretario del Partito comunista italiano come fonte robusta di un’opera unanimemente considerata un classico della filosofia, le Ricerche filosofiche? Stiamo per proporre, nostro malgrado, la riedizione del triste modello «Lenin o Stalin e l’arte, Lenin o Stalin e la biologia, Lenin o Stalin e la meccanica quantistica, Lenin o Stalin e la linguistica, eccetera»? Il libro dà una risposta che risulterà scandalosa ad alcuni studiosi: Gramsci fu anzitutto un grande intellettuale, votato alla filosofia della politica e del linguaggio, che solo per otto anni (1919-26) fu totus politicus, probabilmente anche con pochi poteri reali. Perfino Mussolini, nel discorso parlamentare del 1° dicembre 1921 ne parla come «professore di economia e filosofia, un cervello indubbiamente potente».
Il professor Gramsci non è incompatibile col compagno Gramsci. È però il tratto prevalente grazie al quale leggiamo i Quaderni per ricevere indicazioni su come orientarci nel grande e complicato mondo contemporaneo. In carcere, e poi nelle cliniche, lo studioso Gramsci riprese für ewig il progetto, interrotto per otto anni, di una ricerca scientifica ruotante su due poli complementari: il potere nelle sue varie articolazioni e il linguaggio.
Prima di iniziare le nostre analisi e ricostruzioni un dato va posto in primo piano. Gramsci e Wittgenstein condividevano la stessa passione filosofica per il linguaggio, i suoi usi, il suo funzionamento, la sua non accessoria presenza in tutte le attività che rendono specifico l’animale umano. Entrambi sono guidati dall’idea che col concorso ineliminabile del linguaggio si formino le pratiche e i problemi di cui l’esistere umano, individuale e/o collettivo, è intessuto. Interrogare il linguaggio non è quindi, per entrambi, affare di una categoria di specialisti. Il teologo, l’epistemologo, il matematico, lo storico, il teorico del potere politico e delle società maneggiano manufatti linguistici e in essi e con essi vanno alla ricerca dei segreti che si propongono di esplorare. Il linguaggio, con i suoi poteri ma anche i suoi limiti, è per entrambi i pensatori la pratica da cui è impossibile prescindere.
Il linguaggio è il luogo della specificità umana sia per il primo che per il secondo Wittgenstein, per l’autore del Tractatus e per l’autore delle Ricerche. Lo è anche per il Gramsci «giovane compagno, filosofo e glottologo», per il Gramsci che ricopre cariche politiche, per il Gramsci dei Quaderni.

l’Unità 10.6.14
Lo Piparo una ricerca da seguire
di Gaspare Polizzi


FRANCO LO PIPARO, ORDINARIO DI FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO ALL’UNIVERSITÀ DI PALERMO, HA DEDICATO NEGLI ULTIMI DUE ANNI DUE VOLUMI AD ANTONIO GRAMSCI: I due carceri di Gramsci (2012), vincitore del premio Viareggio, e L’enigma del quaderno( 2013), entrambi pubblicati da Donzelli e tradotti in volume unico quest’anno in francese da Cnrs Éditions. Due volumi che hanno fatto molto discutere, per la ricostruzione di manomissioni effettuate nella conservazione dei Quaderni del carcere, che potrebbero far ipotizzare un quaderno mancante, e più in generale del rapporto difficile di Gramsci con Togliatti, con Stalin e con il Comintern. Alle polemiche, anche aspre, è seguita una perizia per individuare tracce di sostituzione nelle targhette apposte per la numerazione dei trentatré Quaderni, condotta da una commissione promossa dalla Fondazione Istituto Gramsci di Roma. Al momento, i risultati non consentono di accettare o meno l’ipotesi di un quaderno mancante. Sulla questione Angelo D’Orsi ha promosso una «Inchiesta su Gramsci. Quaderni scomparsi, abiure, conversioni, tradimenti: leggende o verità? », che uscirà a breve su Historia magistra.
Oggi Lo Piparo pubblica, sempre con Donzelli, Il professor Gramsci e Wittgenstein, volume dal quale presentiamo la Prefazione. Si tratta dell’avvio di un’indagine tra le più significative in merito al pensiero «linguistico» di Gramsci, studiato da Lo Piparo già nel volume Lingua, intellettuali, egemonia in Gramsci (1979). Qui si intende dimostrare - sulla scia di un’indicazione fornita da Amartya Sen - il peso che la riflessione gramsciana sul linguaggio avrebbe avuto per la definizione della filosofia del linguaggio comune di Ludwig Wittgenstein espressa nelle Ricerche filosofiche, tramite l’«inseminazione» prodotta da Piero Sraffa tra il 1935 e il 1936 (nel 1935 Gramsci scrive dieci pagine di appunti sulla nozione di grammatica nel Quaderno 29).
L’analisi proposta nel libro consente di riconoscere la persistenza della dimensione linguistica in tutta l’opera di Gramsci, secondo una linea interpretativa che Lo Piparo persegue dal 1979 e che ha ribadito nella sua relazione al Convegno Gramsci e la questione dell’identità nazionale (Firenze, 15-17 novembre 2007, promosso dall’Istituto Gramsci Toscano (gli atti sono stati pubblicati, a mia cura, in Tornare a Gramsci. Una cultura per l’Italia, Avverbi, Grottaferrata 2010). Ma consente anche di collocare la riflessione gramsciana sulla lingua al centro della filosofia europea, in quanto se Gramsci ha orientato la «svolta» di Wittgenstein verso l’analisi del linguaggio comune, pubblicata postuma nelle Ricerche filosofiche (1953), si potrà dire che grazie a Gramsci prende avvio quella filosofia analitica del linguaggio comune che trionferà nella cultura filosofica di lingua inglese nel secondo dopoguerra. Un primato filosofico che porrebbe Gramsci non soltanto tra i maggiori filosofi politici, quale appare oggi per la sua larghissima diffusione internazionale, ma anche tra i principali filosofi del linguaggio del Novecento, secolo caratterizzato, nella filosofia (e non solo), proprio dalla scoperta della centralità del linguaggio. Ci si augura che questo libro di Lo Piparo possa essere apprezzato per l'originalità interpretativa, nel superamento di polemiche a volte preconcette.

Corriere 10.6.14
La libertà canta al femminile attraverso le note di Mozart
Susanna e la contessa sono rivoluzionarie, Figaro no
di Paolo Mieli


Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais (1732-1799) fu segretario di Luigi XV, istruì alla musica le sue figlie, aiutò i ribelli americani, ideò il diritto d’autore, ebbe vivaci scontri con alcuni maggiorenti del suo tempo, ma soprattutto scrisse una fortunatissima trilogia: Il barbiere di Siviglia (1755), Le nozze di Figaro (1778, ma messo in scena solo nel 1784) e La madre colpevole (1790). Le nozze di Figaro (La folle journée ou le mariage de Figaro) è da sempre considerata una pietra miliare lungo la strada che portò alla Rivoluzione francese per come rappresentò la transizione dal feudalesimo alla modernità e la modificazione dei rapporti sociali nella Francia dell’epoca. La vicenda apparentemente giocosa e innocua del conte D’Almaviva che insidia Susanna, la cameriera della moglie, promessa sposa a Figaro, contiene evidenti elementi di satira contro le usanze di corte e le gerarchie sociali del Settecento.
L’imperatore austriaco Giuseppe II ne vietò la messa in scena, accusando la commedia di seminare l’odio tra le classi sociali. Tant’è che Wolfgang Amadeus Mozart e il librettista Lorenzo Da Ponte decisero — nel ricavarne un’opera (1786) — di attenuarne gli aspetti più corrosivi, togliendo dal testo originario il lungo monologo dell’atto V in cui Figaro denuncia, appunto, le rigide regole della gerarchia feudale. Ma — sostiene Martha C. Nussbaum nel libro Emozioni politiche. Perché l’amore conta per la giustizia , che sta per essere pubblicato dal Mulino — questa è solo apparenza. Secondo Nussbaum, l’opera di Mozart (che l’autrice analizza alla stregua di un testo filosofico cogliendovi anticipazioni di quel che poi si troverà in Jean-Jacques Rousseau, Johann Gottfried Herder, John Stuart Mill, August Comte e addirittura Rabindranath Tagore) è ancora più politica e rivoluzionaria di quella di Beaumarchais. Ed è stato un grave errore considerarla fin qui «meramente domestica» anziché «fortemente politica».
Le nozze di Figaro , ricorda l’autrice, «sono considerate un testo chiave nella storia del liberalismo per il modo in cui vi si immagina la sostituzione dell’antico regime con un nuovo ordine basato sulla fratellanza e sull’uguaglianza». Ma in genere «chi è interessato alla vicenda di Figaro si rifà alla commedia di Beaumarchais e ignora l’opera di Mozart e di Da Ponte». E invece, sostiene con decisione, è «l’opera ben più della commedia il testo filosofico che chiunque rifletta sul futuro della democrazia liberale dovrebbe studiare con attenzione… L’opera, assai più della rappresentazione teatrale, riesce a reggere il confronto con i maggiori interventi filosofici settecenteschi sul tema della fratellanza, e in particolare con quelli di Rousseau e di Herder, perché, a differenza della commedia, ma appunto al pari di Rousseau e di Herder, essa attribuisce un ruolo centrale alla cura delle emozioni, necessarie a fare della fratellanza qualcosa di più di una bella parola». Le nozze di Figaro mozartiane, secondo Nussbaum, a dispetto di quel che Da Ponte disse a Giuseppe II per convincerlo ad autorizzarne la rappresentazione, «è politica e radicale tanto quanto la commedia, e ben più profonda, perché indaga i sentimenti umani che sono i fondamenti necessari di una cultura pubblica di libertà, uguaglianza e fraternità». Le tre parole chiave della Rivoluzione francese.
Stando alla versione corrente, Beaumarchais avrebbe messo in scena «l’opposizione fra un antico regime basato sulla gerarchia e la subordinazione (impersonato dal conte D’Almaviva) e una nuova concezione politica democratica, basata sull’uguaglianza e la libertà (incarnata da Figaro)». Per questo il monologo del V atto in cui Figaro denuncia il privilegio ereditario sarebbe il momento chiave del testo di Beaumarchais; Mozart, avendolo eliminato, avrebbe depoliticizzato l’opera, trasformando il conflitto fra il conte e Figaro in una banale competizione per una donna. Ma Nussbaum ritiene che Mozart non abbia affatto individuato nel contrasto tra il conte e Figaro «il cuore del conflitto politico» e, pur accettando che il conte sia l’emblema dell’antico regime, non abbia dato per scontato che Figaro rappresenti la nuova cittadinanza. Anzi, secondo Nussbaum, «Figaro e il conte sono del tutto simili, tanto musicalmente quanto tematicamente». Di «che cosa cantano quando sono soli? Di onore oltraggiato, di desiderio di vendetta, di piacere del dominio; le energie che muovono questi due uomini non sono diverse, bensì profondamente coincidenti (tanto che un unico baritono potrebbe in teoria, cantare entrambe le parti il cui linguaggio è così simile che si rischia di confonderle)». La cavatina iniziale di Figaro, Se vuol ballare , segue la sua scoperta che il conte ha in progetto di sedurre Susanna. Ma se si sta ad ascoltare semplicemente quello che Figaro canta, non sapremo mai dell’esistenza di un essere umano di nome Susanna. Tutti i suoi pensieri sono «rivolti alla rivalità con il conte», e le sue reiterate negazioni («non sarà, non sarà») anticipano quelle perentorie del conte alla fine dell’opera.
Il conte immagina Susanna posseduta da Figaro, che egli considera «un vile oggetto», ed è questo a tormentarlo, non perché egli provi amore o un desiderio particolarmente intenso per Susanna, ma perché gli risulta intollerabile che gli sia, appunto, preferito un mero «oggetto». Proprio come Figaro, è assillato dall’idea di un altro uomo che ride di lui, insulta il suo onore, lo costringe a vergognarsi. Anche musicalmente, oltre che testualmente, l’aria del conte è affine a quella di Figaro: piena di una furia dirompente che esplode quando la voce arriva alle parole «felice un servo mio», e poi ancora «ah non lasciarti in pace»; la rabbia nella musica è accompagnata da una sprezzante ironia (la frase calante che accompagna «un vile oggetto»). Il libretto, osserva l’autrice, «ci fornisce qualche indicazione sulla similarità fra i due uomini, ma l’arco espressivo della musica va ben oltre nel sottolineare la loro affinità ritmica e di accenti che spazia in entrambi dal disprezzo beffardo alla rabbia furiosa». Mentre sono del tutto assenti emozioni, amore, meraviglia, piacere, ma anche dolore e desiderio.
Secondo la lettura politica convenzionale del testo di Beaumarchais, Figaro diventa nell’atto V «l’apostolo di un nuovo tipo di cittadino, emancipato dalla gerarchia». Il Figaro di Mozart non compie questo passo avanti. Come ha osservato Michael Steinberg, che molto si è dedicato a questo tema, per tutta l’opera (quantomeno fino alla conclusione dell’atto IV) Figaro «balla», musicalmente, al ritmo imposto dal conte: «Egli non ha trovato un idioma musicale suo proprio; e così anche il suo vocabolario politico ed emotivo è una riproduzione di quello del conte», sia in Non più andrai , alla fine dell’atto I (dove impersona «l’autorità con la quale il conte ha appena mandato Cherubino in servizio presso uno dei suoi reggimenti, impostando le sue frasi sul tempo di una marcia militare»), sia in apertura dell’atto IV, quando, desideroso di cogliere Susanna in flagranza di infedeltà, egli canta ancora dell’onore offeso, chiedendo a tutti gli uomini di «aprire un po’ gli occhi» sui modi in cui le donne sanno umiliarli. Ancora una volta, sono gli uomini, non le donne e meno che mai una donna in particolare, i destinatari delle sue parole. Potrebbe darsi che Mozart non sia riuscito a cogliere l’opposizione tra Figaro e il conte che Beaumarchais ci ha proposto. «Ma non corriamo troppo», scrive Nussbaum, «forse, al contrario, Mozart vede qualcosa che Beaumarchais non percepisce: che l’antico regime ha formato gli uomini in una certa maniera, di modo che la loro preoccupazione sia il rango, lo status, l’onore offeso, e che tanto i signori quanto i servi rivelano questa impostazione; ciò che uno non vuol perdere, l’altro desidera ottenerlo. In entrambi i casi, data questa ossessione, non esiste spazio per la reciprocità né men che meno per l’amore».
A conferma di quanto detto, due personaggi secondari dell’opera, Bartolo e Basilio, intervengono a rafforzare questa percezione. Le loro arie (Bartolo nell’atto I, Basilio nel IV) spesso tagliate nelle rappresentazioni, non richiamano nulla del testo di Beaumarchais. Bartolo è, «in termini emotivi», affine sia a Figaro, sia al conte. «Diverso dal punto di vista vocale, essendo un basso, tuttavia egli canta con le stesse espressioni: analoghi scoppi di rabbia e livore, temperati da quel tono malizioso che già conosciamo in Se vuol ballare di Figaro». Quanto al testo, il suo personaggio sembra offrire la teoria generale di ciò che intendono sia Figaro che il conte: «La vendetta, oh la vendetta/ È un piacer serbato ai saggi:/ L’obliar l’onte, gli oltraggi/ È bassezza, è ognor viltà». Quindi la vita «è quasi completamente incentrata sulla competizione fra maschi per ottenere status ed evitare la vergogna, e la cosa più intelligente da fare è giocare la partita fino in fondo». Il comportamento consigliato non solo fa sì che la rabbia e l’umiliazione cancellino l’amore e il desiderio (Bartolo, come Figaro e il conte, non si cura affatto di Rosina, che nel Barbiere di Siviglia ha ceduto al conte con un intrigo di Figaro), ma impedisce anche ogni tipo di perdono o riconciliazione. È questo atteggiamento che porta ai sei «no» consecutivi del conte alla fine dell’opera. Bartolo ci mostra anche qualcosa riguardo alla cittadinanza e alla ragione, perché egli è molto interessato al diritto. La sua convinzione è che il diritto sia uno strumento della vendetta maschile, e chiunque ne sia esperto la spunterà sempre su chi non lo conosce, perché riuscirà in ogni occasione a trovare «qualche garbuglio» con cui sconfiggere il suo nemico.
Basilio, maestro di musica che nella precedente commedia di Beaumarchais, Il barbiere di Siviglia , espone con entusiasmo il potere devastante della calunnia al fine di sconfiggere un nemico, inizialmente sembra capovolgere l’etica di Bartolo, che però in fin dei conti rafforza. Da Ponte lo presenta «come un uomo malevolo e debole, carente delle risorse che ci vorrebbero per competere alla pari con i nobili, e privo anche dell’intelligenza necessaria a gareggiare con un Figaro». La sua aria nell’atto IV, «offre suggerimenti agli uomini che si trovano in questa stessa posizione di debolezza». Esordisce affermando che è troppo rischioso entrare in competizione con i «grandi», dal momento che loro sono destinati a vincere. Sempre. Ma… racconta un episodio della sua giovinezza quando era impulsivo e non sentiva ragioni. «Donna flemma» gli regalò una pelle d’asino che usò per coprirsi dalla pioggia. E, sorpresa, il lezzo nauseabondo di quella pelle bagnata ebbe poi il benefico effetto di tener lontano un animale feroce. Morale: «Così conoscere/ Mi fe’ la sorte/ Ch’onte, pericoli/ Vergogna e morte/ Col cuoio d’asino/ Fuggir si può». Quest’aria, secondo l’autrice, apparentemente «offre un consiglio diametralmente opposto a quello di Bartolo, che ci suggerisce di usare il sapere e il diritto per sopraffare la persona che ha causato la nostra umiliazione; ma la somiglianza è evidente: entrambi vedono il mondo nello stesso modo, come un gioco a somma zero per la difesa dell’onore e dello status. La sola differenza è che Basilio è consapevole che alcuni sono destinati ad essere perdenti, ed egli vuole suggerire loro come limitare i danni». Fin qui gli uomini.
È con i personaggi femminili che entrano in scena i valori della Rivoluzione francese. Susanna e la contessa potrebbero essere rivali: dopotutto il conte sta cercando di tradire la moglie seducendo la futura sposa di Figaro. Ma «il pensiero non le sfiora nemmeno». Esse «capiscono di avere finalità comuni, perché ciò che ciascuna desidera è che i due uomini, Figaro e il conte, diventino mariti innamorati e fedeli mossi da affetto e piacere, anziché da vendetta e gelosia». Come i due baritoni, le due donne condividono un idioma musicale — al punto che possono essere scambiate l’una per l’altra anche dagli uomini che affermano di amarle (è però interessante che Figaro riconosca alla fine Susanna proprio dalla voce, «la voce che adoro»). Qui però Nussbaum non coglie che c’è tra le donne una lieve differenza sotto il profilo della voce: la contessa è un soprano lirico, mentre Susanna è un soprano leggero. In ogni caso, prosegue l’autrice, a differenza degli uomini, le donne utilizzano la loro affinità non per combattersi ma per cooperare e, in particolare, per la complessa messinscena che alla fine svela l’ipocrisia del conte. Osservando la loro intesa «si nota chiaramente che non c’è nulla di tutto ciò tra gli uomini». L’accordo fra le due donne, inoltre, nonostante la differenza di classe, appare come del tutto privo di gerarchie, basato sul vantaggio derivante a ciascuna da un’amicizia condivisa e genuina («Susanna, per esempio, nell’atto III è sorpresa di essere proprio lei — forse non molto istruita — a dover scrivere la lettera al conte per proporre l’incontro»). La reciprocità si vede nella natura dei loro scherzi, senza trucchi maliziosi o beffardi sottintesi; vi è solo solidarietà l’una verso l’altra e lo stesso desiderio di giungere a un buon fine.
Tutto questo è nel libretto, ma, come ha fatto notare Wye Jamison Allanbrook, «la musica porta ben oltre l’impressione di reciprocità e di uguaglianza». Man mano che la contessa detta la lettera e Susanna scrive, «le donne traggono ispirazione dalle rispettive frasi musicali, scambiandosi idee con una sinuosa capacità di risposta e un’immediata consapevolezza dell’altezza, del ritmo e anche del timbro dell’altra». Iniziano «con uno scambio di frasi come in una normale conversazione; con il procedere del duetto, però, la loro intesa diviene più intima e più complessa, il loro avvolgersi l’una nell’altra raggiunge un’intensa armonia. Il loro sodalizio musicale «esprime una sorta di amichevole accordo, che è, potremmo dire, manifestazione di reciproco rispetto, ma anche di un affetto profondo; nessuna delle due cerca di prevalere sull’espressività dell’altra, e ciascuna contribuisce con qualcosa di proprio, che poi è riconosciuto dall’altra e sviluppato ancora.
La promessa del duetto non è la semplice promessa di una libertà come mero rovesciamento delle parti, libertà di umiliare colui che ti ha umiliato. È una libertà che — ha scritto Allanbrook — ci porta oltre l’immagine, fonte di ansia e di insicurezza, di ciò che dovrebbe essere la libertà per gli uomini. È invece la libertà di essere felici, di avere accanto qualcuno uguale a te: la libertà di non doversi preoccupare di chi sta sopra e chi sta sotto. In altre parole, conclude non senza una qualche enfasi Nussbaum, «questa musica ha inventato la reciprocità democratica». Battersi per la libertà senza la fraternità, come fa il Figaro di Beaumarchais, significa solo capovolgere la gerarchia, non sostituirla con qualcosa di fondamentalmente diverso. Se ci deve essere un nuovo ordine, se mai ci sarà a questo mondo qualcosa che assomigli a una politica di rispetto ed equità, dovrà iniziare come il canto di queste due donne, e ciò significherà diventare un nuovo tipo di essere umano, radicalmente diverso. Ne viene fuori che il mondo maschile del Figaro «è una prigione dove ogni uomo passa la vita dominato dall’ansia del rango». La promessa non può che essere quella di rivoluzionarlo. Anche se, ad inficiare l’apoditticità di queste tesi, va osservato che l’anno successivo all’inizio della Rivoluzione francese, vale a dire nel 1790, gli stessi Mozart e Da Ponte misero in scena Così fan tutte , un’opera che — eccezion fatta per l’aria di Despina In uomini, in soldati — è sostanzialmente maschilista e contraddice buona parte delle teorizzazioni di Nussbaum sul rapporto contessa-Susanna. Ma non fermiamoci qui.
È il personaggio di Cherubino, che non canta con voce maschile ed è impersonato da un mezzo soprano, che, sostiene Nussbaum, porta con sé il messaggio positivo dell’opera tutta. In genere Cherubino è descritto superficialmente come un saltimbanco il quale (per come lo aveva presentato Beaumarchais) non ha un ruolo ben definito. Ma è l’unico personaggio maschile in tutta l’opera che esprima interesse nei confronti dell’amore. Ed è il suo idioma musicale, ben più del testo di Beaumarchais, che ci fa intendere che la sensibilità di Cherubino (Voi che sapete ) è poetica e romantica e che il suo slancio nei confronti del genere femminile non è frutto di mera eccitazione. Cantando meravigliosamente, Cherubino candida se stesso alla fraternità, all’eguaglianza e alla libertà. Quelle femminili, beninteso. Tanto che, prima di essere promosso, deve ancora superare la prova decisiva: travestirsi da donna.
«Certo, è la trama della storia che richiede questo trucco», osserva Nussbaum, «ma Mozart collega tale momento ai sentimenti più profondi del cuore». E l’aria di Susanna che lo aiuta a realizzare tale travestimento, Venite… inginocchiatevi , rende il senso di quel che l’autrice intende sostenere. Sostiene che ciò che Mozart vuole dirci, rendendo l’aria così stringente, e allo stesso tempo giocosa, è che «proprio qui, in un intimo momento di tenerezza, vengono gettati i semi del rovesciamento dell’antico regime». A cominciare dall’inginocchiarsi. Nel corso dell’opera quest’azione compare spesso; «in tutte le altre occasioni (fino agli istanti finali) è simbolo di gerarchia feudale: superiorità da una parte, obbe dienza dall’altra». Nel «mondo democratico delle donne, invece, la genuflessione è semplicemente l’atto di mettersi in ginocchio». Ci si inginocchia, come fa Cherubino, di fronte alla persona che ci aggiusta cuffia e colletto. L’inginocchiarsi «non ha valenza simbolica; è soltanto un’azione utile». E con Mirate il bricconcello Susanna spiega che Cherubino è attraente proprio perché, sebbene maschio e appassionato alle donne, non ne è attratto per controllarle e usarle come pedine nelle competizioni con altri uomini. Bensì per poterle amare. Invece del dominio, ci sono fascino e grazia; invece dei complotti per nascondere la vergogna o vendicare l’insulto, ci sono «furbe guardature» che rendono il ragazzo simile alle donne nel loro amore per gli scherzi e i pettegolezzi.
Così, osservando Cherubino, ci rendiamo conto di quanto poco rivoluzionario sia l’apparente radicalismo di Figaro. Non solo perché egli mutua dall’antico regime l’atteggiamento del suo padrone verso le donne, ma per qualcosa di più globale. Figaro semplicemente vede il mondo nello stesso modo in cui lo vede il conte: in termini di ricerca dell’onore e di fuga dalla vergogna. Se il nuovo mondo avrà cittadini come lui, il cammino verso l’uguaglianza e la fraternità non cesserà di essere pieno di ostacoli. Le vecchie gerarchie saranno rimpiazzate dalle nuove, come tanti bastioni a difesa dell’io maschile. Ed è sul personaggio di Cherubino che, secondo Nussbaum, Mozart incontra Rousseau e soprattutto Herder. Entrambi, fa notare Nussbaum, «condividono con Mozart la convinzione che una nuova cultura politica necessiti del sostegno di sentimenti nuovi, ed entrambi ritengono, come lui, che questi sentimenti debbano includere non solo quelli pacati del rispetto e dell’amicizia, ma anche, a sostegno e a stimolo di questi, qualcosa di più come l’amore, diretto alla nazione e ai suoi scopi morali».
Cherubino ha posto le basi di quello che sarà l’«amore civile» che si trasformerà, presto, in «religione civile». Un’«emotività civile» che smuoverà e travolgerà l’Ottocento. Contagiando Mill sul tema delle libertà: «Mozart e Da Ponte compresero che non era sufficiente disporre di buoni documenti fondativi, nemmeno di buone istituzioni» e che la libertà doveva «penetrare nelle pieghe profonde della personalità, allentando i vincoli interiori della rabbia e della paura, vincoli che conducono a forme di dominio gerarchico». Inesorabilmente. «Il Cherubino di Mozart ci offre un’immagine affascinante del cittadino che non cerca di dominare gli altri attraverso un rapporto di tipo gerarchico… ma tende a uno scambio che è insieme giocoso e impegnato».
Sarà Comte a «sviluppare le promettenti prospettive del Figaro», avanzando una riforma della politica di genere che ponga lo spirito «femminino» al cuore della società. Anche se Comte poi si dirà contrario all’uguaglianza uomo-donna. Ma saranno proprie le idee di Comte a diffondersi in India e a far presa su Tagore, padre spirituale del Mahatma Gandhi e di Indira Gandhi. «Tagore e Mozart», scrive la Nussbaum, «sono spiriti affini, entrambi convinti che la cittadinanza abbia bisogno di uno spirito ludico e dell’imprevedibilità individuale». Tesi originali, affascinanti che inducono a ripensare i tortuosi percorsi lungo i quali siamo giunti nella modernità. E il debito che, anche per questo tragitto, abbiamo nei confronti di Mozart e Da Ponte.

Corriere 10.6.14
Tedeschi contro Hitler. La Resistenza nel Terzo Reich
risponde Sergio Romano


Ci fu nella Germania nazista una Resistenza (civile) paragonabile a quella della Francia e dell’Italia? Ciò al di là degli attentati a Hitler, con riferimento ad una organizzazione della popolazione tedesca che abbia preso consapevolezza degli orrori nazisti: esisteva questa consapevolezza? Fu un fatto di massa?
Giulio Portolan

Caro Portolan,
Nella sua domanda ritrovo l’eco di una tesi storica che fu molto usata dagli Alleati durante la guerra per ragioni di propaganda ed ebbe una forte influenza sulla opinione pubblica europea anche dopo la fine del conflitto. Secondo questa tesi, il nazismo era il più recente stadio di una storia nazionale dominata da autoritarismo e militarismo. Il Grande Federico, creatore della Prussia moderna, il cancelliere Bismarck, l’imperatore Guglielmo II e lo stesso Hitler erano quindi i personaggi di una stessa storia e dimostravano una sorta di naturale allergia della nazione tedesca ai principi e ai valori delle società democratiche. Dimenticammo per qualche anno che la Germania aveva avuto un importante partito liberale, che era stata la patria della social-democrazia tedesca e del sindacalismo moderno nell’Europa continentale, che il suo giornalismo e la sua editoria, con le loro grandi tirature, avevano contribuito alla nascita di una opinione pubblica informata e libera.
Dimenticammo soprattutto la rapidità e la brutalità con cui Hitler, dopo la conquista del potere, si era sbarazzato degli apparati politici dei partiti di opposizione e dei sindacati. L’incendio dei Reichstag, il 27 febbraio 1933, probabilmente appiccato da un comunista olandese fuori di mente, gli permise di fare arrestare e incarcerare l’intero stato maggiore del partito comunista tedesco. Prima ancora di servire alla detenzione degli ebrei tedeschi, i lager furono usati per «ospitare» i social-democratici e altri oppositori del regime. Molti scrittori, giornalisti e artisti furono costretti all’esilio. In Olanda nacque addirittura una casa editrice tedesca che pubblicò per qualche tempo le opere degli esuli.
Non è sorprendente quindi che la Resistenza tedesca, durante la guerra, non abbia avuto le dimensioni e l’importanza di quelle che si organizzarono in Francia e in Italia. Vi furono gruppi clandestini come la Rosa bianca, composto da studenti cattolici della università di Monaco, e il circolo di Kreisau, formato da esponenti della nobiltà prussiana. E vi fu infine il grande complotto dei generali contro Hitler nel luglio 1944. Ma non esistevano le condizioni perché nel territorio tedesco, durante la guerra, si costituissero gruppi combattenti come nei Paesi occupati.

La Stampa 10.6.14
Luca Canali tra Lucrezio e il comunismo
di Mario Baudino


Ha scritto moltissimo, inesauribilmente, dai romanzi alle poesie, dai memoir ai saggi accademici sugli amati latini. Luca Canali, scomparso domenica a Roma, a 88 anni, rappresenta un caso estremo, se non unico, del rapporto tra letteratura e malattia, dove l’una si nutre dell’altra in una corsa a perdifiato verso il feticcio della realtà. Che nel suo caso era dominata dalla sofferenza psichica, continuamente sublimata e sempre provvisoriamente tenuta a bada, costretta a arretrare ma mai sconfitta. Tutte insieme, le sue opere, sembrano raccontare una monumentale biblioteca dell’infelicità. E nello stesso tempo una sfida al caos attraverso la lingua.
Fermamente materialista, comunista espulso dal partito nel ’56 per le sue prese di posizioni eterodosse dopo l’invasione dell’Ungheria, traduttore straordinario dei latini ma anche consulente di Federico Fellini per il Satyricon, era uomo bellissimo e dal fascino irresistibile, che rifluisce nella sua strepitosa Autobiografia di un baro (1983), storia appunto autobiografica di un ragazzo romano bello e talentuoso che a guerra finita, «stanco di sfiducia e malattie e di frequenti postriboli [...], sfinito da errori, dolori, amori raminghi, guardinghi impotenti furori», si iscrive al partito comunista e si getta nella politica, cercando disperatamente di dare senso all’esistenza, di tenere lontana la psicosi che lo minaccia e sembra poterlo distruggere.
La sua prosa, e la sua sintassi volutamente inattuale, latineggiante, lo rappresentano in pieno: fra tragedia e virtuosismo. Perché fra tutti questi libri (da La Resistenza impura, 1965, che molto piacque a Montale, a Il sorriso di Giulia, 1979; da Spezzare l’assedio, 1984, al Diario segreto di Giulio Cesare, 1994, per non citarne che alcuni), insegna letteratura latina all’Università di Pisa – fino al 1981 – e come studioso lascia pagine fondamentali su Cesare e Lucrezio. Quest’ultimo divenuto col tempo molto più che un oggetto di studio, forse una sorta di alter ego.

La Stampa 10.6.14
L’impegno dell’Italia per i restauri a Tiro e Baalbeck


L’Italia parteciperà con un investimento di oltre 4 milioni di euro a un progetto per il restauro e la valorizzazione del patrimonio archeologico libanese, in gran parte di epoca romana, nelle città di Tiro e di Baalbeck. L’iniziativa è stata presentata durante una cerimonia a Tiro, nel Sud del Paese. Il progetto, che prevede un finanziamento anche della Banca mondiale per un ammontare di 8 milioni di euro, consentirà tra l’altro il restauro di monumenti simbolo del Libano, come i templi di Bacco e di Giove a Baalbeck, e l’Arco monumentale, la necropoli, le terme, l’arena e la palestra a Tiro.

Repubblica 10.6.14
L’assassinio di Matteotti 90 anni dopo un martirio che divise la sinistra
di Massimo l. Salvadori



Il 10 ottobre 1922, dopo che i riformisti erano stati espulsi dal Partito Socialista Italiano ed avevano dato vita al Partito Socialista Unitario, Giacomo Matteotti comunicò alla moglie Velia: «Intanto per annegare del tutto, ho accettato anche il segretariato del Partito». A fare poi rimanere per poco segretario del Psi ci pensarono gli assassini fascisti.
La sua uccisione il 10 giugno 1924 provocò una tempesta politica, portò il governo fascista alle soglie della crisi ed ebbe un’eco enorme in Italia e all’estero. Egli entrò nel mito.
Lussu, Rossetti, Carlo Rosselli e Tarchiani nel settembre 1929 avrebbero scritto: «Il mondo intero conosce di tutta la tragedia fascista due soli nomi in antitesi: Mussolini-Matteotti; il carnefice e la vittima; il despota coperto di sangue e il Martire vestito di Luce».
Matteotti era nato il 22 maggio 1885 a Fratta Polesine, in una famiglia assai agiata. La visione dei poveri braccianti e contadini della sua terra lo portò giovanissimo, per una reazione insieme umana e politica, a diventare socialista. Nel 1912 fu decisamente contrario alla guerra libica e, nel 1915, all’intervento dell’Italia nel conflitto europeo. Scoppiata la crisi del dopoguerra, guardò con allarme alla scissione del Partito socialista che nel gennaio 1921 portò alla nascita del Partito comunista, considerata un grave colpo all’unità della sinistra.
Nel 1922, l’anno in cui l’Italia naufragò, Matteotti — odiato dagli agrari perché “un traditore di classe” e dai fascisti perché un rosso pericoloso — era al tempo stesso profondamente avversato dai socialisti massimalisti e dai comunisti che lo consideravano un collaborazionista della borghesia, essendosi egli convinto che — divenuta del tutto inattuale la parola d’ordine della rivoluzione socialista in cui in un primo tempo aveva anch’egli creduto — l’unico obiettivo razionalmente perseguibile per fermare il fascismo e «ridonare la libertà civile al proletariato» fosse l’appoggio a un governo espressione di tutte le forze politiche decise a difendere le istituzioni parlamentari e a riportare il paese ad un clima di libertà.
Quando il 3 ottobre 1923 la maggioranza massimalista li espulse dal Psi, i riformisti diedero vita al Partito Socialista Unitario; e Matteotti ne fu eletto segretario. Alla fine del mese, mentre i partiti della sinistra si erano ridotti a fazioni nemiche, seguì la nomina di Mussolini a capo del governo. Matteotti denunciò subito che la logica che animava il fascismo era stabilire una dittatura. Le elezioni del 6 aprile 1924 costituirono per lui, pur nell’angoscia che l’opprimeva, un motivo di soddisfazione: il partito degli espulsi risultò il primo della sinistra lacerata. Toccò a Matteotti il 30 maggio levare in Parlamento l’implacabile atto di accusa contro la truffa della legge elettorale, le violenze fasciste nei confronti degli oppositori e il risultato truffaldino. Pagò con la vita.
Matteotti definì se stesso un “riformista rivoluzionario”, volendo sottolineare che il suo intendeva essere un riformismo inteso ad affrontare i problemi alla radice. Scoppiata la grande guerra europea — il cui esito inevitabile, disse, sarebbe stato seminare nel vinto la volontà di rivincita e quindi nuove guerre — non esitò a evocare la necessità che le classi lavoratrici impiegassero tutti «i propri mezzi che vanno dalla semplice protesta allo sciopero generale, alla ribellione». Per questa via fu condotto esprimere il più netto disaccordo non soltanto con la nota formula del Psi «non aiutare, non sabotare la guerra», che definì «protesta imbiancata », ma anche con Turati: per aver questi prima affermato che i socialisti avrebbero sostenuto un governo che si adoperasse per uscire dal conflitto, poi lanciato l’invito agli italiani, di fronte alla disfatta di Caporetto, a unirsi in difesa della patria in nome della responsabilità nazionale.
Nel 1919-21, negli anni del parallelo emergere e gonfiarsi da un lato dell’ondata socialista massimalistica e dall’altro del fascismo, Matteotti diede al suo riformismo rivoluzionario un connotato non privo di oscillazioni e contraddizioni rispetto alle posizioni che avrebbe in seguito assunto. Condivise l’idea che si prospettasse la possibilità per le classi lavoratrici di arrivare al potere; prese posizione a favore dell’adesione del Psi alla Terza Internazionale, pur difendendo il diritto del partito a prendere le proprie decisioni in autonomia. E su un punto significativo si avvicinava a Gramsci, e cioè nell’insistere che l’avvento del socialismo sarebbe stato reso possibile unicamente dal crescere della coscienza delle masse, dalla loro maturità e capacità di iniziativa. Non escluse neppure il ricorso alla dittatura, a patto che fosse intesa non «come una dittatura di pochi sul proletariato, sebbene come una dittatura politica transitoria del proletariato» e che l’uso della violenza fosse concepito unicamente come «mezzo di difesa contro la reazione e il fascismo». Ma respinse l’idea che la dittatura bolscevica potesse costituire un modello, da lui considerata un «potere autocratico (…), formato da pochi che comandano».
Il 1923 fu per la sinistra italiana un anno orribile, che trovò nel contrasto di strategie che oppose massimalisti, comunisti e riformisti il suo specchio nero. In particolare si inasprì oltre ogni limite lo scontro tra Matteotti e il Partito comunista quando al fronte unico di classe anticapitalistico invocato da quest’ultimo egli in novembre rispose insistendo sul fronte unico di tutte le forze antifasciste diretto alla «riconquista della libertà e della democrazia». Il culmine dello scontro venne raggiunto nel marzo-aprile 1924. Matteotti uscì col pronunciare queste parole: «Il fascismo trova nel suo avversario, che gli somiglia, un naturale alleato. Se il Comunismo non ci fosse, il Fascismo lo inventerebbe, poiché esso è il pretesto alla sua Violenza e alla sua Dittatura».
I modi in cui Turati da un lato e Gramsci dall’altro guardarono alla figura dell’ucciso testimoniarono appieno il fossato incolmabile che divideva le opposte sponde della sinistra. Il vecchio capo riformista pianse il «figliolo prediletto», «il nostro migliore », divenuto «un simbolo», e affermò che «dall’eccidio di Giacomo Matteotti la nuova storia d’Italia incomincia». Il commento di Gramsci, in un articolo del 28 agosto, fu di segno opposto: con freddo pedagogismo politico, definì Matteotti «pellegrino del nulla», in quanto aveva incarnato il fallimento storico della componente del movimento operaio incapace di comprendere che all’ordine del giorno stava iscritto il trionfo della rivoluzione socialista.
Una commemorazione penetrante fu dovuta alla penna di Gobetti nel luglio 1924. Mise in luce del leader ucciso la forza di carattere, l’amore per la concretezza, l’intransigenza. E notò: «Matteotti non fu mai popolare. Tra i suoi compagni era tenuto in sospetto per la ricchezza; gli avversari lo odiavano come si odia un transfuga. Invece Matteotti era un aristocratico di stile, non di famiglia ». E così il giovane torinese colse il senso del “riformismo rivoluzionario” di Matteotti: «la sua attenzione era tutta a un momento d’azione intermedio e realistico ». Egli «rimane come l’uomo che sapeva dare l’esempio. Era un ingegno politico quadrato, sicuro».

il Fatto 10.6.14
Reportage
Festa zombie, anime nere nel cuore di Haiti
A Souvenance si tiene ogni anno il raduno voodoo dove gli stregoni fanno riapparire i ‘non morti’
di Marco Dolcetta


Souvenance (Haiti). Ogni anno ad Haiti si tiene nella località di Souvenance, nel nord-est dell’isola, una grande cerimonia in cui tutti i praticanti del voodoo, che è la religione ufficiale dell’isola, si incontrano per un grande festival. Souvenance è una località decaduta ma che ha avuto un passato glorioso. Lì, infatti, l’esercito francese agli inizi dell’800 fu sconfitto in una epica battaglia finale dall’orda degli schiavi neri che venivano trattati disumanamente nelle coltivazioni di tabacco, caffè e canna da zucchero, e che così permisero per la prima volta di realizzare nell’allora ricca Haiti la prima Repubblica indipendente dal colonialismo europeo.
Lì fu proclamato un re, nero, che guidò il suo popolo verso la lunga e travagliata storia di Haiti, che si trascina ancora oggi in maniera soprattutto drammatica.
Ho partecipato al Festival di Souvenance dove molte situazioni sono al limite dell’umana credibilità, esorcismi, presenza degli zombie, magie bianche e nere, e soprattutto i bianchi sono una rarità assoluta. Quest’anno eravamo in due, io e il mio assistente cameraman di fronte a decine di migliaia di neri locali. Abbiamo proiettato il film Souvenance di Thomas Harlan, regista tedesco di recente scomparso, figlio di Veit Harlan il più grande regista del Terzo Reich. Thomas realizzò questo film, epopea dell’indipendenza haitiana, con soli attori locali e parlato nella lingua creola. È stato un successo strepitoso per gli occhi increduli delle decine di migliaia di uomini donne, vecchi e bambini che, in una settimana di proiezione hanno visto e rivisto questo film.
La zombificazione è un delitto ai sensi del Codice penale haitiano (Articolo 246) ed è equiparato all’omicidio, anche se l’individuo, trasformato in zombi, è ancora vivo. Secondo l’interpretazione locale, in seguito all’avvelenamento o alla magia nera, una persona giovane si ammala improvvisamente; dopo la constatazione del decesso da parte della famiglia, la persona viene tumulata per poi essere sottratta dal boko (stregone) nei giorni successivi e risuscitata, in segreto, in modo da poter vivere e agire, ma priva di consapevolezza e di autonomia. Invece della sepoltura sottoterra, gli haitiani utilizzano tombe di famiglia, pitturate e sopraelevate; nelle zone rurali si trovano sul terreno di famiglia vicino alle case. Sono a rischio intrusione. Secondo le credenze locali riguardo a corpo, mente e spirito, esiste la separazione tra il corps cadavre (corpo fisico) con il relativo globo anj (principio animatore) e il ti-bon anj (autonomia, consapevolezza e memoria).
Nel caso della zombificazione, quest’ultima parte viene tenuta prigioniera dallo stregone, in genere all’interno di una bottiglia o di una brocca sigillata, e chiamata l’astral dello zombi. Il boko la “estrae” poi attraverso la magia nera, per lasciare la vittima in uno stato di morte apparente, oppure la cattura, dopo la morte naturale, prima che si sia allontanato troppo dal corpo. Il corpo rianimato resta senza volontà e autonomia come cadavre zombi, che diventa lo schiavo del boko: lavora in segreto sulla sua terra oppure viene venduto a un altro boko allo stesso scopo. La persona è costretta a restare schiavo solo grazie all’incatenamento e alle percosse, oppure l’ulteriore avvelenamento e la magia nera.
Questo cadavre zombi è quello zombi reso popolare dal cinema del mondo occidentale e viene chiamato in questo modo in Haiti; il termine viene anche usato come metafora in riferimento a una condizione di estrema passività e controllo da parte di un’altra persona. Ecco le spiegazioni su come uno cadavre zombi possa fuggire per tornare alla famiglia di origine: si rompe la bottiglia contenente l’astral dello zombi; il boko per sbaglio fa mangiare al suo zombi il sale; il boko muore e lo zombi viene liberato dalla famiglia; oppure, in casi rari, lo zombi può essere rilasciato attraverso l’intervento divino.
Al momento del rilascio la loro condizione mentale e fisica resta uguale, e sono vulnerabili alla nuova cattura e alla continuazione della servitù. Si riconoscono gli zombi dallo sguardo fisso, l’intonazione nasale, nonché dalle azioni ripetitive, goffe e senza scopo, e dalla parlata limitata e ripetitiva. Vengono visti con un senso di compassione; la paura è suscitata dal rischio di diventare zombi. La preoccupazione che un parente deceduto possa essere a rischio zombificazione giustifica la prevenzione attraverso la decapitazione del cadavere prima della sepoltura, oppure la collocazione dentro la bara di veleni e di amuleti.
Il legame con il ‘boko’.
La liberazione e il ritorno a casa
Marie, di 31 anni, era la sorella minore del nostro accompagnatore principale: secondo lui si trattava in origine di una donna cordiale, tranquilla, modesta e non molto intelligente. All’età di 18 anni, Marie si era aggregata con alcuni amici per pregare per un vicino trasformato in zombie. Poi si ammalò di diarrea e di febbre, il corpo si gonfiò, e morì dopo qualche giorno. La famiglia sospettava un’operazione di magia nera per vendetta. Dopo 13 anni, Marie riapparve nel mercato della città, solo due mesi prima del nostro incontro con lei; raccontava di essere stata trattenuta come zombi in un villaggio 100 miglia a nord, e di aver partorito un figlio con un altro zombi (o forse con il boko). Alla morte del boko, il figlio di quest’ultimo la liberò e ritornò a casa. Il fratello di Marie, al ritorno della sorella la riconobbe come zombi e intraprese una sessione giornaliera di guarigione con il resto della famiglia e gli amici, con la pratica dell’imposizione delle mani. Marie appare così più giovane della sua età effettiva, dalla testa e dalle orecchie minute, magra e di corporatura minuta. Risponde volentieri, fa domande autonomamente, e ride spesso e in momenti inappropriati.
Ho intervistato due stregoni e partecipato alle cerimonie del pilay fèy (magia nera protettiva) del primo stregone. Come la maggior parte degli stregoni, ha il proprio tempio, oltre a essere organizzatore di una delle società segrete coinvolte nelle accuse di zombificazione, pratica illegale ai sensi degli articoli 224 e 227 del Codice penale di Haiti. Il secondo boko si era convertito al protestantesimo evangelico ed è ora un noto avversario del voodoo; conduce assemblee in chiesa di tenore drammatico in cui declama racconti coloriti sul suo passato da stregone. Il primo boko ci ha esibito bottiglie contenenti zombi astrals in cattività, ma ci ha detto di aver venduto tutti i suoi zombi cadavres ai coltivatori locali e ad altri boko.
Secondo il punto di vista locale, la morte improvvisa di un giovane adulto non è mai una morte veramente naturale (mo bondiay); e con i ricorrenti sospetti di magia nera e la quantità di persone che ci hanno dichiarato di intentare la zombificazione, fanno pensare alla diffusione della violazione delle tombe da parte dei boko. Visto che la morte viene constatata a livello locale, senza alcuna certificazione medica, e visto che la sepoltura avviene in genere entro un giorno dalla morte, non è improbabile che una persona disseppellita possa essere vivo. L’uso della Datura stramonium per risuscitarli e l’eventuale somministrazione ripetuta durante il periodo di servitù da zombi potrebbe produrre uno stato di estrema passività psicologica. Non possiamo escludere l’uso di una tossina neuromuscolare, in cui il boko opera la somministrazione topica insieme con un irritante locale in modo da indurre la catalessi seguita dal recupero clandestino della persona avvelenata. Risulta improbabile che i boko abbiano effettivamente zombi schiavizzati in campi clandestini, vista l’alta densità demografica.
Sotto i Duvalier, che mobilitavano gli oungans come polizia segreta, nel lungo periodo di terrore politico, instabilità sociale e il blocco economico, e dopo la caduta del regime Duvalier, vi furono numerosi casi di sequestro, tortura, schiavitù sessuale e omicidi segreti sotto le spoglie del voodoo sostenuto dal terrore di Stato e sospetti di magia nera.

Repubblica Salute 10.6.14
Sesso sicuro i teenager “analfabeti”
Dal summit europeo di Lisbona l’appello dei ginecologi per corsi a scuola dal prossimo anno
In aumento le malattie, anche l’Hiv, e le false credenze tra i giovani
di Elvira Naselli

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