mercoledì 11 giugno 2014

La Stampa 11.6.14
Il diritto “incoercibile” di avere figli
di Vladimiro Zagrebelsky


Incoercibile. Un diritto incoercibile. Con un aggettivo inusuale se posto accanto al sostantivo diritto, la Corte Costituzionale ha felicemente colto l’essenza della questione. La scelta di una coppia di formare una famiglia con figli è incoercibile. Incoercibile in diritto, ma prima ancora nella realtà.
Una coppia assolutamente sterile o infertile, che decide di sottoporsi alla lunga, onerosa, penosa trafila della procreazione medicalmente assistita, dimostra una volontà (una rivendicazione del proprio diritto) che nessun legislatore può contrastare.
Non può il legislatore, come ha detto la Corte Costituzionale, perché la Costituzione lo vieta, ma non può ancora prima perché quella coppia cercherà ogni via possibile per realizzare la sua scelta di vita privata e famigliare. Infatti il legislatore italiano, vietando la fecondazione con gameti estranei alla coppia, aveva dovuto prendere atto che il divieto che imponeva sarebbe stato facilmente aggirato, semplicemente varcando il confine e recandosi in una delle tante cliniche che si trovano sui siti internet. Ipocrisia: qui te lo vieto, vai a farlo fuori. Ipocrisia tanto più intollerabile quando pretende di muovere da esigenze etiche.
La Corte Costituzionale ha ricondotto la determinazione di una coppia di ricorrere alla fecondazione eterologa alla fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi riguardo alla sfera privata e famigliare: una libertà che deriva dalla Costituzione, dalla Convenzione europea dei diritti umani, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e discende dal rispetto dovuto alla dignità umana. In più in questa materia entra in discorso anche il diritto alla salute della coppia, che non è la sola salute fisica.
La Corte analiticamente ha dimostrato che la sua sentenza, che rende possibile alle coppie di sesso diverso la fecondazione anche eterologa, non lascia vuoti di disciplina, ma ha comunque avvertito che spetta alla saggezza del legislatore eventualmente provvedere. Dopo che con la legge 40 del 2004 il legislatore italiano aveva abbandonato ogni saggezza, sostituendola con l’arroganza di chi crede, sol perché dispone di una maggioranza in Parlamento, di poter comprimere senza ragione i diritti e le libertà fondamentali delle persone, il richiamo alla saggezza è importante. In materia il primo dato di saggezza è il senso del limite, che anche la legge trova nel rispetto della libertà delle persone. Tra queste, come stabiliscono i trattati internazionali che l’Italia ha sottoscritto, c’è anche quella di avvalersi del progresso della scienza e delle conquiste della medicina, che rendono ora possibile realizzare il diritto di dar vita a un figlio, anche quando un tempo ciò sarebbe stato impossibile.

l’Unità 11.6.14
Consulta: «Tutti hanno diritto ad avere un figlio»
La Corte Costituzionale spiega il suo sì alla fecondazione eterologa
Per i giudici non è la «discrezionalità della politica» che può decidere la cura


Essere genitori è un diritto incoercibile e costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi. Qualunque legge che crei un vulnus introducendo una differenziazione di trattamento come ha fatto la legge 40 vietando l’eterologa non è ammissibile, discriminatoria e irragionevole. È una delle motivazioni con cui la Consulta ha bocciato dichiarandola incostituzionale la legge che vietava l’uso di gameti esterni per le coppie sterili. La bocciatura del divieto di fecondazione eterologa sancita dalla Corte Costituzionale nell'aprile scorso va però riferita «esclusivamente» al caso in cui «sia stata accertata l'esistenza di una patologia che sia causa irreversibile di sterilità o di infertilità assolute». Il ricorso all'eterologa cioè «deve ritenersi consentito solo qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità e sia stato accertato il carattere assoluto delle stesse ». Tali «circostanze - spiega la Corte - devono essere documentate da atto medico e da questo certificate». Il ricorso alla fecondazione eterologa «non diversamente da quella di tipo omologo, deve, inoltre, osservare i principi di gradualità e del consenso informato».
La sentenza numero 162 è stata depositata ieri sera e illustra in maniera chiara l’illegittimità di tutti i no all'eterologa contenuti nella legge 40. In primo luogo il principio costituzionale che che dice che la formazione della famiglia, che include la scelta di avere figli, costituisce un diritto fondamentale della coppia rispondente a un interesse pubblico riconosciuto e appunto non coercibile. L’obiettivo della legge 40 - dicono i giudici - sarebbe quello di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o infertilità della coppia mediante il ricorso alla procreazione medicalmente assistita. Ed è proprio tale finalità della legge che il divieto di eterologa costituirebbe un vulnus perché tratterebbe in modo opposto coppie con limiti di procreazione. Non si tratta, si legge nelle motivazioni, «di soggettivizzare la nozione di salute, né di assecondare il desiderio di autocompiacimento dei componenti di una coppia, piegando la tecnica a fini consumistici», ma di tenere conto che la nozione di patologia, anche psichica, «la sua incidenza sul diritto alla salute e l'esistenza di pratiche terapeutiche idonee a tutelarlo vanno accertate alla luce delle valutazioni riservate alla scienza medica, fermala necessità di verificare che la relativa scelta non si ponga in contrasto con interessi di pari rango». Un intervento sul merito delle scelte terapeutiche, in relazione alla loro appropriatezza, «non può nascere» quindi «da valutazioni di pura discrezionalità politica del legislatore », ma deve tenere conto anche «degli indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi a ciò deputati ».
Non solo, il divieto di eterologa creava una discriminazione tra le coppie infertili anche dal punto di vista economico. realizzava - dicono i giudici - un ingiustificato diverso trattamento delle coppie affette da patologie in base alla capacità economica poiché anche la possibilità di recarsi in altri Paesi dove l’eterologa consentita risulta essere una discriminazione. «Ed è questo - è scritto nella sentenza - non un mero inconveniente di fatto bensì il diretto effetto delle disposizioni in esame conseguente a un bilanciamento degli interessi manifestamente irragionevole». Quanto al vuoto normativo che si sarebbe venuto a creare con la cancellazione del divieto di eterologa, i giudici esplicitano che tale vuoto non esiste perché «sono identificabili più norme che già disciplinano molti dei profili di più pregnante rilievo già opportunamente regolamentati». Sul numero delle donazioni è invece possibile un aggiornamento delle Linee guida, eventualmente anche alla luce delle discipline stabilite in altri Paesi europei.
Prima dell’intervento della Corte costituzionale nell’aprile scorso sulla legge 40 erano già intervenuti 28 diversi tribunali con 19 bocciature. Oggi sono già diverse centinaia, circa 700, le coppie pronte ad accedere alla fecondazione eterologa. «La Corte è stata più coraggiosa della politica - è il commento di Marilisa D’Amico, legale di una delle coppie che aveva fatto ricorso alla Consulta - . A differenza della politica ha affermato pienamente i diritti costituzionali e garantito quelli dei cittadini».1

il Fatto 11.6.14
“Avere un figlio non è un diritto da ricchi”
Fecondazione, le motivazioni della Consulta sull'eterologa e le 9mila coppie in attesa
Il medico: “La politica resti fuori”
di Chiara Paolin


La sentenza della Corte Costituzionale sulla inseminazione eterologa è stata pubblicata ieri sera, e da oggi diventa legge per chi non riesce ad avere un bimbo con i materiali biologici della coppia e deve quindi cercare un donatore di sperma o - più frequentemente - una donatrice di ovulo.
La Corte ha detto cose semplici. Primo: tutti hanno diritto a farsi una famiglia. Secondo: genitori sono gli adulti che si occupano di un figlio, per esempio adottivo, perciò il fattore biologico non conta. Terzo: chi soffre di sterilità deve poter contare sulle tecniche più avanzate senza alcuna distinzione di classe sociale, perché avere un bimbo non può essere roba da ricchi.
“Questo è l’aspetto che mi piace di più” dice Carlo Bulletti, capo dell’Unità operativa di fisiopatologia della riproduzione dell’Asl Romagna, a Cattolica. Un centro pubblico d’eccellenza, che vuole offrire a costi accessibili le sue cure: “Adesso cambia tutto, perché il dispositivo chiarisce un punto fondamentale: non c’è un vuoto normativo, l’impianto delle leggi sul trapianto di organi sono già sufficienti a normare la materia. L’unico vero rischio è che si metta di mezzo la politica”.
IN EFFETTI Eugenia Roccella, deputato Ncd, ha subito bollato come incompleta la sentenza: “Sarà possibile la donazione di gameti tra consanguinei, per esempio tra sorelle o tra madre e figlia? Se vale l’accostamento con l’adozione, non è logico che il figlio avuto con l’eterologa abbia diritto a conoscere le proprie origini, come quello adottato?”. Il medico Bulletti scuote la testa: “Per fissare i dati minimi della questione, come i limiti di età dei donatori o la quantità di materiale da donare (soprattutto per le donne), basta una semplice valutazione di merito adattando i nostri protocolli a quelli già in uso in Europa. Se invece i partiti volessero aprire una battaglia sulle regole si tornerebbe immediatamente al Medioevo che abbiamo appena lasciato”.
“Ora il ministero della Salute aggiorni le linee guida previste dalla legge 40 e ferme dal 2008, e convochi un tavolo con le società scientifiche, con le organizzazioni civiche e le associazioni di pazienti infertili per costruire indicazioni minime necessarie” aggiunge Maria Paola Costantini, referente nazionale per la Pma di Cittadinanzattiva. Intanto le associazioni dei centri fertilità informano che già 9mila coppie italiane sono in lista d’attesa per valutare l’eterologa. In concreto, ogni struttura reagirà a modo proprio: non essendoci più divieti derivanti dalla Legge 40 sarà possibile impostare percorsi diversi.
MOLTI GIURANO di avere a disposizione gameti femminili utili a tentare l’inseminazione con una semplice donazione spermatica del maschio. “Non è semplicissimo - frena Bulletti -, perché il materiale crioconservato non ha passato tutti i controlli utili alla fecondazione eterologa. Naturalmente se le donatrici e i donatori si presentassero nei centri fertilità spontaneamente potremmo procedere subito, ma il meccanismo è impegnativo, perciò servirà un ulteriore passaggio tecnico per avviare in modo seriale la cura”.
Le ipotesi più semplici sono l’egg-sharing (chi riceve gli ovuli in “omaggio” paga la stimolazione della donatrice, dividendo con lei gli ovuli stessi) o l’indennizzo, cioè una somma di denaro offerta alla donatrice per il tempo e le cure dedicate alla donazione (oggi in Gran Bretagna l’indennizzo si aggira sui 700 euro).

l’Unità 11.6.14
Da Renzi stop alle polemiche seguite al voto
Via alla gestione unitaria del partito
La minoranza entrerà in segreteria


«Qui ci sono troppi renziani più renziani di Renzi».Adirlo è uno dei collaboratori più stretti del premier. E non è affatto contento perché, spiega, «avrebbero fatto meglio a stare zitti invece di iniziare la polemica sul vecchio e nuovo, con il 40,8% c’è da lavorare sodo». Ore 12.30, al Nazareno dentro la sala conferenze si parla di terzo settore, ma sul terrazzo infuocato dal sole è il dibattito interno a tenere banco.
Da Shanghai Matteo Renzi parla di Expo ma sembra riferirsi anche ad altro quando con i suoi commenta che non se ne può più dei «professionisti del pessimismo ».O quando dice: «Ognuno di noi ha dentro Pinocchio, non perché diciamo bugie. Se ognuno fa il suo dovere, se prova a mettersi in gioco e a cambiare, allora viene davvero fuori l’Italia».
Sabato e domenica ci sarà l’Assemblea nazionale che dovrà dare la benedizione al nuovo presidente, ma ormai l’accordo sulla gestione unitaria è siglato, ci sono tutti, a parte Pippo Civati che si tira fuori. Di sicuro ci sono due caselle assegnate finora per la segreteria: l’Organizzazione passa dal sottosegretario Luca Lotti al fedelissimo vicesegretario Lorenzo Guerini, gli Enti locali restano a Stefano Bonaccini. «Renzi lo considera davvero bravo e queste elezioni lo hanno ulteriormente rafforzato», assicura una fonte ben informata.
Il resto delle caselle, 14 in tutto, verranno decise soltanto la notte tra venerdì e sabato perché il segretario vorrà metterci mano, come è accaduto anche con le liste delle europee. Tante le ipotesi, poche le certezze. Si parla di Micaela Campana a Scuola e Istruzione; Enzo Amendola agli Esteri, Vinicio Peluffo (oggi in Vigilanza Rai), Davide Faraone al Welfare e di uno spostamento di Francesco Nicodemo al sottogoverno, ma il mago dei social preferirebbe restare al suo posto, la Comunicazione. Al Nazareno invitano alla cautela nel totonomi perché l’ultima parola la dirà il segretario. Guerini ieri ha incontrato Gianni Cuperlo, ha sentito al telefono Matteo Orfini, Roberto Speranza e Pier Luigi Bersani, mentre oggi Area Riformista, che fa riferimento al capogruppo alla Camera, si incontra per mettere il sigillo finale alla gestione unitaria. I Giovani turchi l’hanno messo da tempo. Circolano nomi diversi anche per la presidenza, si va da Orfini a Paola De Micheli a Nicola Zingaretti. «Renzi ha chiesto alla minoranza di avanzare una loro proposta che li veda tutti d’accordo, ma se alla fine il nome non arriva allora decide il segretario », raccontano dal quartier generale dei democrat. Sulla segreteria è probabile che si riparta da zero, con i nomi di Guerini e Bonaccini nei posti chiave, ma è evidente che ci saranno anche altri renziani in entrata. È possibile anche che le nomine arrivino dopo la direzione, «non abbiamo fretta», dice il vicesegretario che vuole evitare tensioni ulteriori. D’altra è il segretario a doverla nominare, all’Assemblea spetta solo il presidente.
Intanto il tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi, sta chiuso nella sua stanza in vista della Direzione di domani perché ci sarà da approvare il bilancio e non sono proprio rose e fiori, ben oltre 8 milioni di euro in passivo. Ma nessuno scuce una parola perché ci vuole niente a far scoppiare un’altra guerra intestina su chi c’era prima e chi c’è adesso. Così bocche cucite. Renzi è stato chiaro dalla Cina: basta alimentare polemiche. E non gli sono piaciute quelle dichiarazioni a caldo che proprio i deputati e le deputate a lui più vicini hanno fatto commentando il dato delle amministrative. È evidente che se ne parlerà sabato e domenica, ma al premier, che è anche alla guida del partito, in questo momento preme molto più la tenuta dei gruppi parlamentari in vista di Italicum e riforma del Senato e ha preso le distanze da certi toni.
Ieri Debora Serracchiani, l’altra vice alla segreteria, ha corretto il tiro, non a caso: «Abbiamo perso dove abbiamo sbagliato gli uomini o, a volte, l’offerta politica. Non ho detto che abbiamo perso dove c’era il vecchio, era solo il titolo di una mia dichiarazione». E Enrico Letta con un twitter getta acqua sul fuoco: «Vedo che mi si tira dentro polemiche Pd. Tronco sul nascere equivoci perché non partecipo a polemiche. Esprimo solo dispiacere per Livorno». Interviene anche il padre di Renzi, in risposta a chi ha visto nella deblace della sinistra nella città dove tutto è nato un segnale di chi teme lo spostamento al centro del Pd: «Le sconfitte di Livorno e Perugia sono imputabili a mio figlio Matteo? Non lo so, quel che so è che il 40,8% è un dato significativo. Poi c’è chi per guardare la luna si sofferma a guardare il dito che la indica».

La Stampa 11.6.14
Orfini: “Vinciamo grazie a Matteo e anche alle radici”
“Io presidente Pd? Deciderà lui”
intervista di Carlo Bertini


Matteo Orfini, possiamo chiamarla presidente?
«No, assolutamente, sulla presidenza del Pd deciderà Matteo Renzi e non mi risulta che questa voce sia un’ipotesi concreta. Io non sono candidato a nulla e non c’è una trattativa in corso. Non ci sono posti che spettano alla minoranza in quanto tale, c’è da costruire tutti insieme un gruppo dirigente unitario».
Ma questa gestione unitaria ora non è minata dalle polemiche post-ballottaggi?
«No, in campagna elettorale si è visto un partito unito che è piaciuto ai nostri elettori e sarebbe un delitto ricominciare a dividerci, peraltro non si sa su che cosa».
Da come parla sarebbe un ottimo presidente superpartes. Anche stavolta la scelta ricadrà su una donna? È ormai un dogma per le cariche apicali?
«Credo che i risultati delle elezioni dimostrino che la scelta di assumere il tema della parità come un tema politico sia stato premiato: nell’azione di governo si stanno affermando nel fuoco della battaglia politica varie personalità che dimostrano quanto questa scelta sia di merito più che una battaglia di genere».
Nello scontro tra giovane e vecchio Pd che va per la maggiore dopo i ballottaggi, lei dove si iscrive?
«Mi sembra una lettura semplicistica. Il Pd ha ottenuto uno straordinario risultato, ci sono state eccezioni dove hanno pesato molto dinamiche locali. Ci sono casi in cui si è rinnovato e si è perso o in cui non si è rinnovato e si è vinto».
E ci sono casi in cui si fa una festa di corrente come la vostra e si vedono magliette con la foto di Togliatti che si mangia un gelato...
«Ci prendiamo in giro e siamo sempre stati per la via ironica al socialismo, vogliamo anche scherzare con la caricatura che fanno di noi. Ma al di là delle battute è chiaro che nella storia dei partiti che danno origine al Pd c’è una parte importante delle radici della nostra storia, personalità che hanno scritto la costituzione».
Quando non si vede bene il marchio di Renzi si fatica a vincere dunque?
«No, in alcuni casi è mancata l’innovazione, non credo in una regola generale. C’è un solo Pd che deve ragionare insieme su come correggere gli errori che ci hanno portato a perdere in alcuni casi».
Allora sbaglia Renzi quando dice che non ci sono più rendite di posizione, che si è perso dove non si è cambiato?
«No dice una cosa sacrosanta: la sfida dell’innovazione va raccolta anche dove si può immaginare di avere vantaggi storici. Non è più così e dobbiamo avere il coraggio di rinnovare sempre e ovunque. E dobbiamo costruire un Pd nelle periferie che corrisponda il più possibile al messaggio di innovazione che stiamo dando a livello nazionale. Stando attenti ai fenomeni di trasformismo del notabilato locale. Va restituito ai cittadini uno strumento di vera partecipazione, non basta un partito che viva solo quando si costruiscono i gazebo delle primarie».

Repubblica 11.6.14
Il Pd diviso
Bersani: non è vero che perde il vecchio, chi dice che la vittoria è tutto merito del nuovo lo dimostri
Cuperlo: con questo clima il partito si chiude anziché allargarsi
I big si ribellano al processo “Non sono nostre le sconfitte”
D’Alema chiama Guerini “Offese ingiuste ai perdenti”
di Goffredo De Marchis



LA “ditta” si ribella. Non ci sta al gioco del vecchio e del nuovo, a leggere i risultati delle amministrative con questa logica: lì dove è arrivato il cambiamento si vince, là dove le candidature erano legate al passato, cioè al precedente segretario, si perde. Eccolo qui il segretario prima di Matteo Renzi.
ECCO l’ex Ds al quale oggi i fedelissimi del premier vogliono intestare le sconfitte in alcune città simbolo: Livorno, Perugia, Padova e Potenza. Pier Luigi Bersani sorride in un corridoio della Camera. Con una certa malizia usa subito il termine che il renzismo gli rinfaccia come se fosse una parolaccia: «Io lavoro per la ditta, tifo per la ditta. Quindi non mi metto a battibeccare con i miei colleghi di partito». Si vede che quel tipo di accusa lo infastidisce molto. Lo irrita. «Ma sono in posizione off per le dichiarazioni. Non faccio polemiche. Loro dicono che ha vinto il nuovo e ha perso il vecchio? Se lo dicono, lo dimostrino. Non voglio farlo io ma persino un giornalista può andare a leggere i dati comune per comune e vedere se la loro analisi ha qualche fondamento ». Come dire: è una balla, una solenne fesseria. Alimentarla è un errore.
Massimo D’Alema lo ha spiegato a Lorenzo Guerini la mattina successiva ai ballottaggi, dopo la nota del vicesegretario, che è sembrata finalmente mettere un punto allo scontro. Con una buona dose di equilibrio. «Non si fa così, non si offendono i candidati che ce l’hanno messa tutta e che adesso vivono anche il dolore di non avercela fatta. Se volete un Pd unito, non è questo il modo», è stato il senso della telefonata del presidente della Fondazione Italianieuropei. Gianni Cuperlo dice che si sta smarrendo «una grammatica del partito, che il linguaggio sbagliato trasforma le persone e i loro rapporti », che così il Pd si chiude invece di allargarsi.
Il tentativo di trasformare il Partito democratico pre Renzi in una bad company va respinto. Questo è l’impegno della minoranza, questo hanno fatto capire a Renzi e ai suoi collaboratori in un momento di tensione che però non è esploso. Il 40,8 per cento di due settimane fa non lo ha dimenticato nessuno. Sarebbe davvero impossibile immaginare una scissione da sinistra. Nemmeno i pasdaran ci pensano. Ma quell’area va rispettata, deve avere cittadinanza anche nel Pd renziano. Per fortuna, dicono alcuni dirigenti, sono arrivate le parole di Matteo Renzi e soprattutto del vice Guerini a calmare gli animi. «Parole equilibrate - dice il bersaniano Alfredo D’Attore - . Hanno perso e vinto sia i renziani sia i candidati più di sinistra. In base alle dinamiche delle realtà locali. Il resto appartiene a una polemica ridicola, che dimostra l’inadeguatezza di una parte del gruppo dirigente, la sua debolezza, la sua impotenza».
C’è una cenere che è ancora brace nel Pd. Una guerra sotterranea, alla vigilia di un’assemblea che dovrà al contrario sancire l’unità definitiva, la fine delle ostilità. È vero, come dice D’Attore, che non si governa un partito del 41 per cento dividendolo. Non si può rappresentare un popolo tanto trasversale con le fratture tra vecchio e nuovo. «In quel risultato c’è anche il Pd», disse D’Alema all’indomani del 25 maggio. Vale a dire anche gli ex Ds, anche gli ex comunisti, anche gli amministratori locali legati di più a quel mondo.
La verità è che i veleni del congresso e del passaggio traumatico da Letta a Renzi tornano a galla. L’ex premier, per smentire qualsiasi vena polemica, fa un tweet in cui dice «non partecipo a polemiche. Esprimo solo dispiacere per Livorno ». Al Nazareno non prendono bene questa precisazione. «Un’ovvietà», commenta Guerini. Che contiene un sottotesto, però. Il sindaco uscente della città è Alessandro Cosimi e sarebbe renziano secondo la versione della minoranza. Quindi Letta vuole sottolineare che il vecchio e il nuovo, almeno lì, non c’entrano niente. Anzi. L’analisi di Guerini è opposta: «Alle Europee il Pd ha preso il 53 per cento a Livorno e il 40 alle amministrative. Sono problemi locali». Ma l’effetto Renzi colma il divario, semina consenso. Questo è il succo del ragionamento che si fa al Nazareno.
Non si capisce come i non detti del Pd possano partorire un presidente unitario o di garanzia sabato all’assemblea nazionale. Eppure sarà così perché il giocattolo del 41 per cento, nessuno se la sente di romperlo. E la minoranza non è compatta, è divisa in tre aree, ognuna propone un candidato diverso. Finirà per decidere il premier al suo ritorno dall’Asia. Dimostrando ancora una volta che oggi comanda lui, che le primarie e il risultato del 25 maggio sono pietre miliari. Almeno per ora.

Repubblica 11.6.14
Per la prima volta dal 1951 a Urbino vince clamorosamente il centrodestra
Sgarbi: a Urbino ho vinto con la sinistra
di Tommaso Ciriaco



ROMA. Per la prima volta dal 1951 a Urbino vince clamorosamente il centrodestra, espugnando uno storico fortino rosso. E invece no, quasi urla al telefono Vittorio Sgarbi: «Alt, fermi tutti, non è vero! Dite al nuovo sindaco che ha vinto la destra e vedrete, si infurierà come una bestia. Qui, nella città di Raffaello, ha vinto una sinistra liberale e verde. E ha perso la nomenklatura ». Di più, sostiene il critico d’arte a lungo nel cuore del Cavaliere: «C’è un sindaco che ha lasciato da poco il Pd ed è sostenuto dai Verdi. È una non vittoria del Partito democratico, piuttosto». Non sarà che pure Sgarbi è diventato renziano? «È stato sconfitto il vecchio apparato dem. Quello che a differenza di Renzi ha una mentalità così stretta da non allargare il partito a nessuno».
La storia ha inizio nel 2010: «Presentavo un libro a Urbino. Si alza un consigliere comunale, mi chiede di candidarmi a sindaco in questa straordinaria città d’arte. Rispondo no, grazie. Passano 3 anni, mi chiama il vicesindaco Tempesta, milita nei Verdi. Mi propone di candidarmi alle primarie di centrosinistra. Fanno una riunione e il Pd decide che Sgarbi proprio non può correre. In 47 votano contro. Solo 3 ragazzi renziani, poveretti, a favore».
E qui - a sentire il critico d’arte - inizia il secondo tempo, quello centrato su una scalata ostile (al Pd) per la conquista del Comune: «I Verdi non sanno cosa fare. Candidarmi da solo? Prenderei il 10%, sarebbe una mossa velleitaria. Con gli ambientalisti inventiamo una lista, “Verdi - articolo nove con Sgarbi”. Sfidiamo il Pd e ci alleiamo con Maurizio Gambini, candidato sindaco per una lista civica. È uno che viene dal Pci, è un ex assessore del Pd. Al secondo turno, poi, ci sostiene un’altra candidata sindaco, pure lei ex assessore del Pd». E il centrodestra? «Io neanche li volevo. Dicevo: “Ci inquineranno”, nel senso che diranno che siamo di destra. Comunque Gambini aveva già dato la parola e restano in coalizione, prendendo il 9%. È l’unica cosa di destra, ma il resto della lista proprio no! E parliamo del 45% dei voti...». Sgarbi non si candida, tesse la tela e si prepara a diventare assessore: «Della rivoluzione, della cultura e del centro storico».
A dare retta all’ex sindaco di Salemi, insomma, a Urbino vince ancora la sinistra. Soltanto una nuova, con tratti renziani: «Esatto. Abbiamo fatto un Cnl, come nel 1943, per liberare la città dal vecchio Pd. Sa, con me sono stati fascisti: per loro va bene candidare Tabacci - che stava con Berlusconi fino al 2008 - ma io che ho rotto con Silvio nel 2001 proprio no... ».

Corriere 11.6.14
«Presa Urbino sarò assessore La mia delega? La rivoluzione»
di Marco Cremonesi


MILANO — «Ma come? Io batto il Pnd, il Partito Non Democratico, e voi non ne parlate? Lo batto a Urbino, la città più importante dell’Italia centrale dopo Firenze, e nessuno ne parla». Vittorio Sgarbi è carico come un petardo. Il «suo» candidato, Maurizio Gambini, dopo 70 anni di governi di sinistra (ma anche il neo sindaco proviene dalla “famiglia” pd) ha espugnato Urbino. E così, Sgarbi sarà «assessore alla rivoluzione» della città di Raffaello.
Il fatto nuovo è che lei e Gambini stavate con i Verdi.
«Ma certo. E lei sa il perché? Perché il vicesindaco di Urbino, un Verde, si mette in testa che io dovrei fare il sindaco. Solo che a quel punto nel Pd impazziscono, le primarie diventano di partito e non più di coalizione e così tengono fuori i Verdi... ».
Perché c’era lei oppure i motivi erano diversi e locali?
«Hehe, veda lei... Ma non importa. Ad ogni modo questo è successo».
Perdoni: per molti lei resta il simbolo di un certo berlusconismo.
«Io con loro non c’entro più nulla. Ho rotto con Forza Italia quando hanno messo Galan alla presidenza della commissione Cultura, il mio posto. Stimo Berlusconi, ma lasciamo perdere Verdini e tutti gli altri... ».
Vabbé, ma perché il Pd avrebbe dovuto mettersi in fila dietro a Vittorio Sgarbi?
«Ma guardi che io anche a Lucera stavo con il Pd. Solo che a Urbino il Pd non è quello di Renzi. È quel partito lì, incrostato da sempre. Questa era un’occasione per rianimare la sinistra. Per dimostrare che c’è solo il Partito Non Democratico».
La sua prima dichiarazione è stata sulla necessità di rendere capoluogo delle Marche Urbino invece che Ancona.
«Mi pare ovvio, Urbino è una delle città più belle e importanti dell’Italia centrale. Una vera capitale. Ancona è soltanto un posto dove vai se hai lì qualcosa da fare. Nel mondo conoscono Urbino, non Ancona. Ma quando l’ho detto, ad Ancona si sono offesi».
Strano. Ma è strano anche che lei si stupisca dell’importanza data dai giornali al cambio di colore a Livorno.
«A Livorno l’unica cosa buona era Modigliani, e se n’è andato... ».

La Stampa 11.6.14
Boschi: “Accordo vicino sulle riforme” Ma Berlusconi aspetta Renzi
Senza intesa, passaggio in Commissione a rischio: subito il voto in Aula
Dissidenti all’angolo: sostituito Mauro (PI), ora teme anche Corradino Mineo
di Carlo Bertini


Berlusconi non ha deciso cosa fare, prima deve stabilire come procedere su queste riforme benedette dal Capo dello Stato e a tal scopo convocherà una riunione allargata ai notabili di Forza Italia. Denis Verdini ha fatto sapere che è pronto a lasciare il ruolo di sherpa con Renzi se questo potrà oliare l’ingranaggio e quindi l’incontro a tu per tu dell’ex Cavaliere col premier sarà conseguente: quando sarà decisa la linea i due si vedranno, ma ancora non c’è una data certa, solo ipotesi, come quella di un appuntamento per il 17 giugno. 
Sul piatto di un confronto col premier finirebbe di certo pure l’Italicum, oltre alla riforma del Senato. E c’è chi scommette che l’ex Cavaliere sarebbe tentato da un sistema che o riporti alle origini la soglia dell’Italicum al 35%, in modo da evitare il ballottaggio o addirittura tornare al turno unico, tipo Mattarellum riveduto e corretto.
Nel frattempo è tutto fermo: in Senato non c’è ancora un accordo tra le parti: malgrado l’ottimismo della ministra Boschi, dalle parti del Pd non risulta esserci già sul tappeto una nuova formula che possa accontentare i pasdaran dell’elezione diretta dei futuri senatori sparsi in tutti i partiti. Quella alla francese di far eleggere i senatori ad una vasta platea di amministratori locali, è caduta in disgrazia. 
La Boschi non retrocede, la linea di Renzi è che non dovranno esserci senatori eletti dai cittadini: «Si tratta di trovare le modalità tecniche nello specifico su questo tema, che non è frutto di un’impuntatura ma è funzionale al nuovo Senato che stiamo disegnando e che rappresenterà gli interessi di Regioni e Comuni». 
Se non si troverà un’intesa si profila uno sbocco inedito per una riforma costituzionale di tale portata: che si arrivi in aula scavalcando il voto in commissione, facendo cioè andare avanti i lavori sugli emendamenti senza arrivare ad un voto risolutivo, che verrebbe lasciato alle cure dell’aula: dove i numeri sono più larghi e gli equilibri potrebbero mutare in favore del governo. «Non c’è nessuna novità, in commissione sono stati illustrati i vari emendamenti per un’ora, poi basta», raccontano quelli che seguono la pratica. Che in verità ieri ha subito una parvenza di accelerazione, grazie a un blitz del gruppo «Per L’Italia», che ha sostituito Mario Mauro in commissione Affari Costituzionali con il capogruppo Lucio Romano. Mauro furioso se la prende con Renzi, «mi epura perché non sono il suo Dudù». E ora il governo può contare su una maggioranza di 15 a 14, ma solo in teoria: perché un ruolo decisivo lo mantiene l’altro senatore dissidente, Corradino Mineo del Pd. La cui rimozione dalla commiss ione è temuta al massimo dal compagno di partito Vannino Chiti, che porta avanti la sua battaglia per un Senato eletto, ma che non fa parte della Commissione. Mineo già mette le mani avanti e sul sito Huffington Post avverte il premier: «Se mi sostituiscono fanno un errore politico. Che fanno, votano tutto con quindici voti contro quattordici? Non è stato lo stesso Matteo Renzi a dire che non vuole fare le riforme a colpi di maggioranza?» Insomma per ora anche il caso Mineo è congelato. «Io ho presentato emendamenti per l’elezione diretta e nessuno può chiedermi di non votarli, la libertà di mandato è insindacabile. Io non li ritiro, rimangono lì, e chiunque voglia valutarli è il benvenuto», avverte lui. La Boschi fa capire che se non si allinea potrebbe essere rimosso, perché «su un tema come le riforme costituzionali è fondamentale avere la compattezza del gruppo ». 

Corriere 11.6.14
Riforme e Colle
Un unico metodo nella trattativa tra Pd e Forza Italia
di Francesco Verderami


ROMA — Il suo auspicio è che il «temporaneo prolungamento del mio mandato al Quirinale» si concluda all’alba del nuovo anno e dopo il semestre europeo a guida italiana: se così fosse, vorrebbe dire che il Parlamento ha trovato un’intesa sulle riforme, che marcia spedito per approvarle, e che dunque la sua missione è terminata. Ma la speranza di Napolitano deve oggi fare i conti con le difficoltà della mediazione, perciò si mostra «preoccupato» ai suoi interlocutori, perché teme che le forze politiche non riescano a chiudere l’accordo
L’esito della vertenza vivrà nelle prossime due settimane la fase decisiva. E non c’è dubbio che un’intesa sulle riforme si porterebbe appresso un’intesa sul prossimo presidente della Repubblica. Almeno è questo «il metodo» che Renzi intende applicare, e di cui c’è traccia nei suoi colloqui con i leader degli altri partiti: «Se facciamo insieme una cosa, faremo insieme anche l’altra», ha detto a Berlusconi. E se finora non è filtrato nulla sulla corsa al Colle, è stato per una forma di rispetto verso Napolitano ma anche per non accavallare il delicatissimo tema con le trattative sulle modifiche alla Costituzione e sulla nuova legge elettorale. Ma è chiaro a tutti che le due questioni sono strettamente collegate, e il primo a saperlo è proprio il capo dello Stato, diventato in questi mesi per Renzi «un punto fermo di riferimento», dopo un inizio di rapporto alquanto burrascoso.
Quanto al futuro che verrà, l’idea del leader democratico è che il prossimo presidente della Repubblica torni a essere un presidente da Prima Repubblica, cioè un notaio, garante degli equilibri politici, non più attore e gestore dei suoi processi. Si chiuderebbe così quella che il vicesegretario del Pd, Guerini, definisce «la lunga stagione dell’eccezionalità e della supplenza» esercitata da Napolitano, «a cui tutti dobbiamo gratitudine e riconoscenza per essersi caricato sulle spalle le debolezze della politica, al punto da avergli chiesto di restare al Quirinale».
Dopo la fase «dell’eccezionalità» e dopo l’eccezionalità di una rielezione, Renzi immagina anche un cambio generazionale e magari di genere. Ma è inutile attardarsi adesso sul possibile successore di Napolitano, sul valzer di nomi, di ambizioni e di promesse. Come dice il segretario dell’Udc, Cesa — che ne ha visti tanti di papi rimasti poi cardinali — «in questa fase le bugie si sprecano». Anzitutto c’è da chiudere l’altra intesa, quella sulle modifiche al bicameralismo e sull’approvazione dell’Italicum. E le preoccupazioni di Napolitano sono dettate dallo stallo nelle trattative tra Renzi e Berlusconi, a cui è arrivata l’altra sera l’ultima proposta di mediazione sulla riforma del Senato, messa a punto dal ministro Boschi. Il testo non convince l’ex Cavaliere e ieri l’incontro riservato tra l’esponente del governo e il capogruppo azzurro al Senato, Romani, ha confermato le distanze. Entrambi alla fine hanno concordato sul fatto che spetterà al premier, di ritorno dall’Asia, cercare una soluzione con il leader di Forza Italia nell’incontro che si preannuncia decisivo.
E la decisione di Berlusconi di avocare a sé il «dossier riforme» è legato anche all’intenzione di trattare in prima persona con il capo democrat sulla presidenza della Repubblica. Ma sono evidenti al momento le perplessità dell’ex presidente, sottolineate dal suo consigliere politico, Toti: «Non vorremmo che l’idea della condivisione, di cui parla Renzi, sia che tutti debbano condividere le sue idee. Sul testo della legge elettorale ha cambiato gli accordi per motivi legati agli equilibri nella sua maggioranza, sul nuovo Senato ha voluto presentare a tutti i costi il suo testo nonostante le nostre obiezioni. Se ha già fatto così su questi due temi, chi lo dice che non faccia così anche sul resto?». Il «resto» è il Quirinale. Di qui le (ulteriori) difficoltà.
Ma resta il fatto che Renzi vorrebbe dare un segnale al Paese con il futuro inquilino al Colle, dimostrando che la fase di transizione è finita. Questo presupporrebbe però stabilità e partiti forti. Ed è davvero così? Basterebbero la riforma del Senato e il varo del nuovo sistema di voto a chiudere un’epoca? Con l’Italicum, ad esempio, come si concilierebbero i poteri attuali del presidente della Repubblica — che decide e incide sulla composizione del governo — con i poteri del presidente del Consiglio, che in base al ballottaggio sarebbe di fatto eletto direttamente dal corpo elettorale? «Stiamo lavorando proprio per garantire un sistema equilibrato», dice il coordinatore del Nuovo centrodestra, Quagliariello: «E noi daremo non una mano, ma due mani, perché in questo passaggio decisivo la maionese non impazzisca e si arrivi a un’intesa». È un messaggio che l’ex ministro delle Riforme rivolge (anche) al Colle, dove c’è chi vorrebbe porre fine al «temporaneo prolungamento» del suo mandato.

il Fatto 11.6.14
Senato. Il Pd impantanato
di Wanda Marra

(...) In Senato la situazione non è rosea: in uno degli ultimi annunci di Matteo Renzi, il primo voto sulla riforma costituzionale doveva essere ieri. Ma l’accordo non c’è, tanto che nella Prima Commissione invece di un voto c’è stata la sostituzione di Mario Mauro (Popolari italiani), che a maggio aveva votato l’odg Calderoli facendo andare sotto il governo. Con la rimozione del senatore (sostituito da Lucio Romano) viene meno uno dei potenziali dissidenti nel fronte della maggioranza. A nulla sono valse le proteste di Lega e Sel. Anzi, il Pd vorrebbe sostituire pure il ribelle Corradino Mineo, che ha confermato l’intenzione di votare i propri emendamenti. La maggioranza ci sarebbe solo con Mineo dentro, ma costringerlo a lasciare la Commissione, viste le tensioni generali potrebbe essere controproducente. “Ma che basta un solo voto per fare le riforme? - commenta un senatore democrat - tutto sta a vedere se si chiude l’accordo con Forza Italia”. L’accordo per ora non c’è, anche se Maria Elena Boschi, ministro per le Riforme, lo vede “vicino”. Si aspetta il ritorno di Matteo Renzi dalla Cina e magari un nuovo incontro con Berlusconi. (...)

l’Unità 11.6.14
Mauro sostituito in commissione al Senato:
«Una purga staliniana»


«Rimozione, purga staliniana, imboscata fascista...», è fuori di sé Mario Mauro, perché ieri, a sorpresa, il gruppo dei Popolari per l’Italia ha deciso di sostituirlo in commissione Affari Costituzionali al Senato con il capogruppo Lucio Romano. Il percorso delle riforme potrebbe essere più facile, perché Mauro aveva firmato l’ordine del giorno Calderoli sull’elezione dei senatori, ma ora l’ago della bilancia è Corradino Mineo, Pd, critico sul ddl renziano. Mauro in una conferenza stampa ha accusato tutti: «Se non ci si concepisce come il Dudù di Renzi difficilmente si può partecipare a questo lavoro». Casini? «È lui il Torquemada che ha chiesto la mia rimozione», ma è convinto che sia stato «un obbligo che muove direttamente dal premier Renzi» con metodi cinesi... Mauro potrebbe uscire dal gruppo e formarne un altro.

Repubblica 11.6.14
Mauro fuori dalla commissione: “Opera di Casini, il Dudù di Renzi”
Forza Italia rilancia l’elettività dei nuovi membri di Palazzo Madama
Ultimo avviso del premier “Sul Senato basta palude o riforma subito in aula”


ROMA. «Sulle riforme stiamo per chiudere, siamo vicini all’accordo, c’è solo da limare qualcosa». Maria Elena Boschi, ministro per le Riforme, sparge ottimismo a piene mani sul cammino dei progetti all’esame del Senato. E avverte che l’elezione di secondo grado non si tocca. Tesi che cozza con la posizione uscita dall’assemblea forzista che si è pronunciata a maggioranza per l’elezione diretta dei nuovi senatori. E come se non bastasse ieri Il gruppo dei Popolari per l’Italia ha deciso di rimuovere il senatore Mari Mauro dalla commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, dove l’ex ministro aveva fatto pendere l’ago della bilancia a favore dell’elezione diretta dei senatori. Naturalmente Mauro non l’ha presa bene e ha accusato Pier Ferdinando Casini di avere ordito un complotto contro di lui per favorire Matteo Renzi. Sono volate accuse di stalinismo, fascismo, autoritarismo. Il senatore ha definito Casini come «il Dudù di Renzi». I Popolari per l’Italia rinfacciano a Mauro il progetto di tornare nel centrodestra e il presunto risentimento per avere perso la poltrona di ministro.
La questione avrà una coda perché Mauro minaccia di uscire dal gruppo dei Popolari per l’Italia, che a quel punto diventerebbero nove e il gruppo non esisterebbe più, con relativa perdita del posto in commissione Affari costituzionali. La vicenda, inoltre, fa tornare di attualità il destino di Corradino Mineo. Nei giorni scorsi si era ventilata anche la sua sostituzione con un democratico più vicino alle posizioni del segretario del partito. Lui dice di essere tranquillissimo. La Boschi, per il momento, rimanda ad una decisione del gruppo. Nel frattempo Vannino Chiti invita i leghisti a ritirare gli emendamenti per avviare un confronto serio.

Repubblica 11.6.14
Il retroscena
di Francesco Bei


L’ORDIGNO è innescato, Matteo Renzi è pronto a premere il bottone rosso. Di fronte a quella che considera la “palude” della commissione affari costituzionali del Senato, che ha sommerso il testo di riforma del governo sotto una valanga di 5000 emendamenti, il premier è intenzionato a usare l’arma finale.
«ANDIAMO subito in aula». Se non dovesse bastare l’avvertimento dato ieri con la sostituzione del dissidente Mario Mauro, il governo tirerà fuori il testo della commissione così com’è, senza alcuna mediazione, e lo porterà subito all’esame del plenum.
La decisione - senza dubbio una forzatura ma consentita dal regolamento in caso di ostruzionismo - non è stata ancora presa. Ma il ministro Maria Elena Boschi e il sottosegretario Graziano Delrio ne hanno già discusso con il capo del governo.
Tutto ormai è appeso al faccia a faccia con Silvio Berlusconi, atteso per martedì prossimo. Se il leader di Forza Italia terrà fede al patto del Nazareno, che prevedeva un Senato non elettivo, la riforma procederà in commissione spazzando la montagna di emendamenti. Altrimenti il premier darà via libera al “piano B”: estrarre il disegno di legge dalle «sabbie mobili» e sfidare il Senato chiedendo un voto d’aula. Dove i numeri sono più favorevoli al governo. L’avvertimento, ovviamente, è rivolto anche alla minoranza interna di Vannino Chiti, Corradino Mineo e Walter Tocci. Lo scalpo di Mauro serve da monito per loro. In commissione la maggioranza si regge soltanto su un voto di scarto - 15 contro 14 - e in caso di parità è il governo ad andare sotto. È evidente che l’ombra di una sostituzione si allunga da ieri anche sul civatiano Corradino Mineo. Boschi non fa nulla per smentire la linea dura, anzi: «Valuterà il gruppo del Pd e il capogruppo se confermarlo o meno ma c’è un tema fondamentale, quello della compattezza del gruppo».
Il primo a essere consapevole che la sua vicenda deve servire come “warning” per gli altri ribelli è proprio Mario Mauro, furibondo con Casini per essersi prestato a un «omicidio politico ordito dal silent-killer Renzi». «Hanno fatto questa operazione - spiega Mauro quando si spengono i riflettori della sua conferenza stampa - per evitare di dover ingaggiare una rissa dentro il Pd. A questo punto, secondo me, nemmeno gli serve la sostituzione di Mineo. Come farà a opporsi da solo?».
Ma la battaglia intorno alla riforma del Senato è solo un episodio delle grandi manovre in corso a palazzo Madama. Qualcosa Mauro si lascia sfuggire: «C’era un progetto al centro per mettere insieme tutto quello che non è Pd per contare di più. Non escludo che questa operazione contro di me sia stata pilotata da palazzo Chigi anche per danneggiare questo progetto ». L’ex ministro della Difesa si riferisce a un tam-tam che si rincorre da qualche settimana, precisamente da quando Berlusconi ha riaperto le porte a un’intesa con l’Ncd e l’Udc. Nei corridoi di palazzo Madama, nei ristoranti intorno al Senato, a piccoli gruppi hanno preso a parlarsi esponenti di Ncd (la componente di Renato Schifani) dell’Udc (Lorenzo Cesa era tra gli sponsor), moderati rimasti in Forza Italia e Gal. Lo scopo? Creare un gruppo unico di centro «non subalterno a Renzi», una massa di manovra in grado di condizionare pesantemente il governo e, magari, accelerarne la fine al momento giusto. Per poi presentarsi alle elezioni con una rinnovata federazione berlusconiana. Fantapolitica? Nemmeno troppo se già si discuteva sul capogruppo, nella persona di Renato Schifani. E la prima mossa di questo «fronte delle minoranze » sarebbe stata proprio l’insabbiamento della riforma Renzi in commissione. Con l’avallo della minoranza dem. Un progetto che ha perso molta forza dopo che le Europee si sono trasformate in un plebiscito per il premier. Anzi, la decapitazione di Mario Mauro può essere proprio il segno che l’intera operazione si è sgretolata sul nascere. Nell’incontro riservato avuto due giorni fa con Gaetano Quagliariello per concordare una battaglia comune in commissione, Mauro del resto già aveva avuto la netta sensazione di essere rimasto solo. L’ex ministro delle Riforme, ora braccio destro di Alfano, gli aveva infatti spiegato chiaramente alcuni limiti invalicabili: «Noi Ncd vogliamo migliorare il testo e trovare un punto di equilibrio. Ma non siamo per sfasciare, giochiamo nella squadra della maggioranza e intendiamo rimanerci a lungo». Pier Ferdinando Casini, ormai battitore libero al Senato e regista dell’estromissione di Mauro dalla commissione, avrebbe dunque solo scritto l’epitaffio su una manovra che non aveva più spinta politica. Certo, resta da chiedersi perché l’abbia fatto. Perché, per dirla con le parole rancorose di Mauro, Casini si sia fatto «docile strumento alla corte di Renzi». L’ex presidente della Camera lascia cadere nel silenzio le accuse di Mauro. Ma a palazzo Madama anche i muri sanno che Casini non ha affatto rinunciato alla corsa più importante che si aprirà tra qualche mese, quando Napolitano metterà fine al «temporaneo prolungamento » del suo mandato. «Casini - ridacchia il senatore Paolo Naccarato - sa che ci sono scadenze importanti per il Quirinale... e nella vita non si sa mai».

La Stampa 11.6.14
I nuovi equilibri conseguenza dei risultati delle elezioni
La sostituzione di Mario Mauro in commissione affari costituzionali il primo effetto
di Marcello Sorgi


La sostituzione di Mario Mauro in commissione affari costituzionali al Senato può in qualche modo essere considerata il primo effetto dei risultati elettorali, e insieme il segno che il governo intende procedere speditamente all’approvazione della riforma del Senato, modificando, ma non più di tanto, il disegno di legge Boschi, e facendolo approvare al più presto in prima lettura a Palazzo Madama. Mauro accusa Renzi di essere il mandante della sua rimozione da parte del gruppo di Scelta civica, sopravvissuto alla cancellazione del partito avvenuta in questa tornata elettorale.
Ma all’interno della commissione, dove la maggioranza è debole e il Pd annovera una serie di oppositori interni, Mauro si era distinto per la sua resistenza al disegno riformatore. Specie dopo la mancata riconferma nel nuovo governo come ministro. Una sua assenza in una votazione assai delicata, sommata al voto contrario di un altro senatore bersaniano, l’ex direttore di Rainews 24 Corradino Mineo, aveva fatto andare sotto il governo.
Circolano ovviamente altre versioni sulla sostituzione di Mauro con il più disciplinato Lucio Romano. A partire dalla possibilità che il gruppo senatoriale della fu-Scelta civica abbia deciso l’espulsione dell’ex ministro dalla commissione, non solo per mantenere buoni rapporti con Palazzo Chigi, ma anche per evitare che in un prossimo rimpasto, di cui gira voce anche se il premier smentisce, la delegazione possa essere ridotta a causa della sproporzione tra la forza reale che ha rivelato nelle urne e il peso degli incarichi che attualmente ricopre.
Tra l’altro, dopo le dimissioni dalla segreteria del ministro Stefania Giannini, che aveva preso il posto di Mario Monti quando l’ex premier aveva annunciato che si sarebbe dedicato solo a fare il senatore a vita e al suo nuovo incarico europeo, il partito è praticamente privo di guida e in attesa di ritrovare un assetto in una prossima assemblea.
In ogni caso la sostituzione di Mauro non sarà risolutiva per i precari equilibri della commissione incaricata di ostruire la riforma. Corradino Mineo infatti ha annunciato che voterà i propri emendamenti, i quali, in caso di convergenza di tutti i senatori dell’opposizione, potrebbero passare per un voto, e sfidando Renzi a sostituire anche lui e ad approvare il testo della riforma costituzionale a stretta maggioranza.
Ma prima che nuove prove di forza si verifichino al Senato, probabilmente ci sarà un nuovo incontro tra il premier e Berlusconi, per capire se il patto del Nazareno del 18 gennaio regga ancora e in cosa eventualmente vada modificato. Circola già una data per l’appuntamento: il prossimo 17 giugno.

il Fatto 11.6.14
Il Pd è rosso, ma nei bilanci: 10 milioni di buco, ora i tagli
Il tesoriere Bonifazi vuole ridurre le spese del 40%
Domani si vota sui conti
di Wanda Marra


Dieci milioni e mezzo di euro di perdita: il bilancio del Pd del 2013 - che verrà votato domani dalla direzione - certifica una situazione di profondissimo rosso. “Rosso” anche nelle responsabilità, secondo i nuovi vertici democratici renziani (arrivati a dicembre, e quindi alla fine del 2013), che nei mesi passati hanno denunciato spese e sprechi oltremisura da parte della precedente gestione bersaniana. Fatto sta che se la perdita del 2013 è di 10 milioni, quella del 2012 era di 7,4. Un’eredità difficile da gestire. Il tesoriere Francesco Bonifazi, renziano doc, della cerchia più vicina al segretario-premier, quella dei fiorentini, però, se lo aspettava. Soprattutto davanti ad alcuni conti. Nel bilancio 2012 la cifra totale delle uscite era di poco superiore ai 45 milioni di euro, con voci significative per spese elettorali, di propaganda e comunicazione politica (circa 9 milioni di euro), consulenze e collaboratori (2 milioni di euro), viaggi e trasferte (1,5 milioni), costi per il personale dipendente (12 milioni di euro), sostegno a strutture ed associazioni (oltre 10 milioni di euro).
E ALLORA, BONIFAZI, che sta perfezionando la sua relazione, sono mesi e mesi che sta tagliando da tutte le parti. Addirittura raccontano dal Pd che per il 2014 sta lavorando a una mission impossible: il pareggio di bilancio. Come, visto che peraltro il finanziamento pubblico è pure diminuito? Tagliando, tagliando, tagliando. Su tutto. Riducendo le spese del 40%.
E allora, via le consulenze. Via le auto blu. E - con un ferreo regolamento
interno - tagli agli alberghi, ai pasti per dirigenti in giro per impegni di partito. Per esempio, per la segreteria nazionale e i forum, nel 2012 la spesa era di un milione di euro, nel 2013 di 250mila, per il 2014 la previsione di 80 mila.
In tutto questo, i 207 dipendenti del Pd (ognuno di loro ha un costo medio di 67 mila euro lordi) che fine faranno? Nel 2014, possono stare tranquilli, assicurano dal Nazareno. Una sicurezza a termine. E dopo? I propositi di Bonifazi si devono scontrare col fatto che i finanziamenti pubblici, che erano di 24 milioni nel 2013, nel 2014 saranno di 12. I partiti dovranno sopravvivere con i contributi di società e privati sino a 300.000 euro e donazioni tramite Irpef (tassa sui redditi) del 2×1000. Una legge che ha sostenuto Enrico Letta e che Matteo Renzi voleva ancora più netta. Il segretario s’immagina un partito più leggero, più legato ai capitali privati. Ne ha fatto una bandiera, sin dalle primarie. E continua a sostenere che la normativa in vigore è una soluzione di compromesso. Evidentemente necessario, dato anche lo stato in cui versano le casse del suo partito.
MA INSOMMA, quanto ci si aspetta dai finanziamenti privati? Al Nazareno hanno deciso di non fare bilanci preventivi. Troppe le variabili in gioco, dicono. Intanto, il Pd ha varato un video nuovo di zecca per pubblicizzare la possibilità di dare ai partiti il 2 per 1000. E poi soprattutto in questo momento il tema del finanziamento privato pone una serie di questioni. La vecchia guardia si è sempre dichiarata contraria all’abolizione di quello pubblico. Nonostante il fatto che scandali come quello che riguardava l’ex tesoriere Luigi Lusi abbiano evidenziato quale uso distorto se ne possa fare. Il privato, però, pone altri problemi, come l’inchiesta del Mose sta facendo emergere: come è possibile renderlo trasparente e non oggetto di scambi? Dal Nazareno assicurano che si sta varando un regolamento, che verrà reso noto a tempo debito. Magari dopo l’estate, per quando si pensa di avere una stima credibile dei possibili finanziamenti privati.

Corriere 11.6.14
Per i dem aumenta il rosso nel bilancio
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ROMA — Potrebbe registrare una perdita di oltre 10 milioni di euro il bilancio del Partito democratico relativo al 2013. Secondo le prime indiscrezioni, tutte da confermare, la direzione del Pd convocata per domani alle 19 approverà un bilancio con perdite superiori ai 7 milioni che erano stati ipotizzati dal tesoriere Francesco Bonifazi. Intanto ci si prepara all’assemblea nazionale di sabato. La parola d’ordine, dopo il voto delle Amministrative, è gestione unitaria. Ma è probabile che l’annunciata modifica della nuova segreteria (con l’ingresso della minoranza) slitti di qualche settimana. I risultati delle urne hanno acceso un dibattito interno all’insegna del vecchio refrain , nuovo contro vecchio. La sconfitta del Pd in alcune roccaforti rosse, con candidati cuperliani, è stata attribuita da alcuni renziani a uno scarso rinnovamento della classe dirigente. Marina Sereni spiega: «Abbiamo perso dove siamo stati percepiti più come un elemento di freno che come un attore del cambiamento». La stessa vicepresidente della Camera si affretta però a dire che non è il caso di costruire «polemiche laceranti», né di «far volare gli stracci». Non solo perché si ritorcerebbero contro il Pd, ma anche perché, come dice Pippo Civati, «non si può riproporre la dialettica giovane e nuovo versus vecchio e passato: le cose sono più complicate di così». Anche Enrico Letta si smarca dalle contrapposizioni: «Vedo che mi si tira dentro polemiche interne. Tronco sul nascere equivoci perché non partecipo a polemiche. Esprimo solo dispiacere per Livorno».

Corriere 11.6.14
Sbarchi, Italia travolta
L’ipotesi delle caserme usate per l’accoglienza
Pinotti: finiti i soldi per i soccorsi in mare
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Un provvedimento urgente per affrontare l’emergenza legata agli sbarchi dei migranti in Sicilia. Un piano per obbligare i Comuni di tutta Italia ad accogliere gli stranieri e per ottenere dall’Economia lo stanziamento dei fondi necessari a garantire l’assistenza delle migliaia di persone già arrivate e di quelle che nelle prossime settimane continueranno ad approdare sulle nostre coste. Soprattutto per trovare adeguata sistemazione alle centinaia di minori giunti negli ultimi mesi, spesso da soli.
È l’impegno preso dal ministro dell’Interno Angelino Alfano al termine dell’incontro con il presidente dell’Anci Piero Fassino e con i sindaci dell’isola Enzo Bianco di Catania e Leoluca Orlando di Palermo, che ieri sono tornati a invocare misure immediate «di fronte a una situazione ormai fuori controllo», come ricorda proprio Bianco. Un quadro che diventa drammatico se si ascoltano le parole del ministro della Difesa Roberta Pinotti quando spiega che «tutto il peso dell’operazione “Mare Nostrum” ricade sulle spalle del dicastero, ma noi non ce la facciamo più, quindi se deve continuare bisogna inserirla nel decreto Missioni». Oppure se si assiste a quanto accade ogni giorno nelle stazioni ferroviarie di Milano e Roma dove decine di profughi vengono smistati dai volontari nelle strutture provvisorie, in attesa di ricevere lo status di rifugiati.
C’è anche chi rimane senza assistenza, come denuncia l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati che esprime «sconcerto per il trattamento riservato a circa 400 persone provenienti principalmente da Siria, Somalia e Africa Sub Sahariana che dopo essere stati sbarcati ieri a Taranto, sono stati caricati su pullman e, dopo aver viaggiato tutta la notte, sono stati abbandonati nei parcheggi di Roma Anagnina e Milano Rogoredo».
Ecco perché bisogna trovare nuove strutture e a questo punto non si esclude che anche le caserme possano andare bene per dare sistemazione a chi, altrimenti, rischia di trascorrere l’estate in tenda.
Il piano sarà messo a punto oggi e presentato domani alla Conferenza Stato-Regioni. L’ipotesi è di portare dagli attuali 9 mila a 20 mila il numero di posti previsti dal sistema Sprar per l’accoglienza di profughi e rifugiati, potendo però contare anche su strutture pubbliche e private messe a disposizione da prefetture ed Enti locali. La circolare firmata ad aprile da Alfano prevedeva il reperimento di circa 5 mila posti in tutte le città italiane. Se le previsioni di questi giorni saranno confermate e gli arrivi supereranno durante l’estate quota 100 mila, bisognerà trovarne almeno il doppio. Moltissimi migranti dopo aver ottenuto asilo preferiscono infatti spostarsi verso altri Paesi europei, ma chi rimane ha diritto a ottenere una sistemazione adeguata.
Certamente sono necessari nuovi stanziamenti e su questo è già stata avviata la trattativa tra Viminale e ministero dell’Economia. Indicazioni certe sulla cifra non sono state fornite durante la riunione di ieri, ma la stima dei sindaci, fatta propria da Bianco, parla di «almeno 300 milioni di euro». Del resto bisogna tenere conto che gli arrivi hanno già superato quota 50 mila e i numeri forniti dalla Sip, la Società italiana pediatria, dimostrano che «rispetto agli anni precedenti il numero di minori migranti in arrivo sulle coste italiane è aumentato di dieci volte».
All’accoglienza bisogna aggiungere i servizi di assistenza, tenendo conto che queste persone arrivano nella maggior parte dei casi da Paesi in guerra, fiaccati da epidemie. Ieri il capo di Stato maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi, ha confermato che otto militari impegnati nell’operazione “Mare Nostrum” «non hanno sintomi della malattia, ma sono positivi al test della tubercolosi».

il Fatto 11.6.14
Leggi speciali
Tavolino selvaggio, Franceschini dice sì
Debora Serracchiani pressata dai commercianti trova un accordo col ministero
in barba al parere negativo della Soprintendenza
di Tomaso Montanari


Ecco il primo, vero antipasto dello Sblocca Italia. Debora Serracchiani ha ottenuto che Dario Franceschini mettesse la museruola politica alla soprintendenza architettonica del Friuli Venezia Giulia, estendendo di fatto la speciale autonomia della sua regione a un ambito in cui non è affatto prevista: quello dei Beni culturali.
L’antefatto è questo. Alla fine di aprile alcuni commercianti di Trieste avevano sfilato sotto le finestre del Comune, accusando la giunta di aver chinato la testa di fronte alle prescrizioni della Soprintendenza in fatto di verande, dehors, ombrelloni e fioriere. In quell’occasione il presidente della Confesercenti friulana aveva attaccato anche la Serracchiani, sostenendo che era “mancato l’intervento politico che, ad esempio, la Regione che ha competenza in materia, poteva fare direttamente a Roma”. Ecco fatto, ora che la Serracchiani è nella segreteria del Pd renziano, l’intervento politico c’è stato: “La Regione Friuli Venezia Giulia e il ministero dei Beni culturali hanno sottoscritto un accordo che sancisce la ‘non assoggettabilità’ ai pareri vincolanti della Soprintendenza regionale su attività e strutture temporanee allestite in luoghi monumentali. L’intesa permetterà di superare il potere di “veto” degli uffici periferici del ministero, in particolare nella materia dei cosiddetti ‘dehors’, strutture come tavolini od ombrelloni di esercizi commerciali, e di manifestazioni sportive o fieristiche di breve durata. Nell’impossibilità di un dialogo con la Soprintendenza regionale ci siamo rivolti al ministro Franceschini, che ci ha ascoltato”. Eccome, se ha ascoltato: e nei delicati equilibri della tutela del patrimonio culturale si tratta di una notizia bomba.
OGNI soprintendente ha il mandato di difendere il territorio dalle pretese, spesso stravaganti, dei poteri locali. E se un soprintendente esagera, o travalica i suoi poteri, il ministro può e deve rimuoverlo. Ma lasciarlo in prima fila e poi sparargli alla schiena direttamente dal suo stesso quartier generale è la più vigliacca delle alternative. Ed è proprio quel che è successo, visto che all’ultimo punto dell’accordo si legge che
– “al fine di accogliere le esigenze manifestate dalle categorie economiche”, – non è più richiesta l’autorizzazione del soprintendente per occupare le piazze in vista di manifestazioni inferiori a un mese.
PENSATE alle roventi polemiche che hanno recentemente opposto il sindaco di Napoli Luigi De Magistris, che voleva dare Piazza Plebiscito alla Nutella, al soprintendente Giorgio Cozzolino, che si opponeva alla commercializzazione della piazza in nome del decoro pubblico dei monumenti: ebbene, se avesse potuto ricorrere al ‘metodo Serracchiani’, De Magistris non avrebbe nemmeno dovuto comunicare alla soprintendenza la sua brillante idea.
E il punto è proprio la balcanizzazione della tutela: grazie al duo Serracchiani-Franceschini siamo oltre i sogni proibiti della Lega. Fino ad oggi l’articolo 9 della Costituzione ha imposto di mantenere un eguale livello di tutela su tutto il territorio nazionale. Ma ora l’accordo separato Friuli-Mibact apre una falla potenzialmente enorme: sia sul piano della disparità regionale, sia su quello della commistione politica-tutela. Come ha puntualmente notato l’Associazione Bianchi Bandinelli, in un duro comunicato: “L’accordo, rivendicato come vittoria personale dalla presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, smentisce clamorosamente, oltre tutto, l’art. 4 (Disposizioni urgenti per la tutela del decoro dei siti culturali) del decreto sulla cultura e il turismo trasmesso la scorsa settimana alla Commissione Cultura della Camera dallo stesso ministero. Inoltre riporta in luce il pericoloso principio ‘silenzio assenso’, già sventato ai tempi del ministro Urbani, ben consapevoli delle difficoltà in cui versano gli uffici periferici del ministero, oberati di pratiche e carenti di personale... Ma la gravità di un simile provvedimento risiede, in questo caso, ancor più nel metodo: attraverso un patto politico, si decide che quanto stabilito dal Codice non è più valido e che la competenza tecnico-scientifica sia non solo scavalcata, ma addirittura abolita”.
Insomma, l’articolo 9 della Costituzione da oggi suona un po’ così: “La Repubblica tutela il patrimonio storico e artistico della nazione, secondo gradi che variano in ragione della vicinanza di ciascun presidente di regione con la segreteria del Pd”.
Matteo Renzi è stato di parola: le soprintendenze cominciano a morire.

Repubblica 11.6.14
“Non liquidate i soprintendenti storico-artistici”
Un appello a Franceschini che vuole ridurre i dirigenti creando strutture miste con l’architettura
di Francesco Erbani


Le acque sono agitate al ministero per i beni culturali. Il ministro Franceschini ha in animo di ridurre il numero delle soprintendenze (deve eliminare 32 posti di dirigente) e fra le ipotesi prevale quella di accorparle e di creare strutture miste (beni storico-artistici, architettonici e paesaggistici insieme). Ma quest’idea è osteggiata dai soprintendenti storico-artistici che hanno firmato una lettera al ministro in cui chiedono che non venga perduta una specificità che risale al 1907, quando quelle soprintendenze vennero istituite.
La lettera reca firme molto autorevoli, da Maria Vittoria Marini Clarelli (Galleria d’arte moderna di Roma) a Lucia Arbace (Abruzzo), da Luca Caburlotto (Friuli Venezia Giulia) a Marta Ragozzino (Basilicata), da Cristina Acidini (Polo museale fiorentino) a Fabrizio Vona (Polo museale di Napoli più Reggia di Caserta), da Giovanna Damiani (Polo veneziano) a Daniela Porro (Polo romano), da Marica Mercalli (province di Venezia, Treviso, Belluno e Padova) a Maura Picciau (direttrice dell’Istituto centrale per la Demoetnoantropologia). In totale 23 firme, quasi tutti i soprintendenti storico-artistici italiani.
Anche i dirigenti archeologi hanno sottoscritto un documento (Maria Rosaria Barbera, Simonetta Bonomi, Adele Campanelli, Elena Calandra e altri ancora). Le soprintendenze archeologiche sembra non siano coinvolte negli accorpamenti. Resta comunque l’appello a «non mortificare un quadro di professionalità così articolate e specialistiche».
Ieri una delegazione di storici dell’arte ha incontrato Giuliano Volpe, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, al quale i soprintendenti hanno espresso il loro disagio che, assicurano, non ha ragioni corporative. Resta però la loro preoccupazione che alla guida delle eventuali soprintendenze miste, come accade già nelle sette esistenti, possano accedere solo architetti, più titolati ad avere competenza sul paesaggio. Nessuna guerra con gli architetti: la richiesta è però di non marginalizzare la tutela del patrimonio storico-artistico e almeno di mantenere una soprintendenza in ogni regione. Preoccupa, infine, l’idea di sganciare i musei dalle soprintendenze: tra i primi 30 istituti culturali più visitati in Italia, 18 sono musei gestiti da storici dell’arte che svolgono anche funzioni di tutela sul territorio.

Repubblica 11.6.14
Rifondiamo dal basso questa Europa Dell’élite
di Ulrich Beck



L’EUROPA è un moving target; l’Europa come tale non esiste. C’è soltanto un processo di europeizzazione. Gli stranieri diventano indigeni, nascono nuove istituzioni politiche, altre mutano. Le elezioni europee lo hanno di nuovo dimostrato, in modo sorprendente. Sono stati soprattutto i socialdemocratici a tentare di democratizzare le elezioni europee con l’indicazione di candidati di punta per la carica di presidente della Commissione europea. In questo modo questa carica ottiene una ben diversa legittimazione e rilevanza. Ciò incontra l’opposizione nel Consiglio dei capi di governo eletti democraticamente, il cui spazio di negoziazione viene in tal modo limitato. Non solo: le loro scelte in materia di presidenza della Commissione si rivelano non trasparenti e non democratiche. Perciò, assistiamo a un conflitto tra due democrazie - cioè tra la democrazia a livello europeo e la democrazia a livello nazionale. È in gioco il potere del Parlamento europeo e dei capi di governo. Nessuno lo aveva messo in conto. Ora questo balzo in avanti nella democratizzazione deve essere completato. Per la nomina alla presidenza della Commissione europea non c’è alternativa al candidato eletto Jean-Claude Juncker. Se i capi di governo proponessero qualcun altro che non è stato eletto, sarebbe un attentato alla democrazia in Europa.
SE così fosse, in futuro quasi nessuno andrebbe più a votare. E questo significa anche che il Consiglio europeo, compresa Angela Merkel, deve depotenziarsi parecchio. Più precisamente, deve depotenziarsi appunto con l’elezione di Juncker. Questa spinta verso la democratizzazione, che equivale a un passo in avanti verso l’europeizzazione, non era stata prevista. È questa la sorpresa di queste elezioni. Benché l’esito del voto sia stato interpretato da molti come un successo degli antieuropei, si è improvvisamente aperta una finestra per un significativo “di più” di democrazia nell’Unione Europea. Hegel la chiamava “astuzia della ragione”.
Tuttavia, per molti l’Unione Europea rimane pur sempre un progetto elitario. Abbiamo, sì, cittadini nazionali, nati e socializzati come tali. Ma non abbiamo cittadini europei. L’Europa esiste soltanto sulla carta, in parte nell’esperienza di singoli gruppi. L’Europa dall’alto non basta, dobbiamo creare un’Europa dal basso, un’Europa dei cittadini.
La crescita del gruppo degli euroscettici e degli euroantagonisti nel Parlamento europeo impone di procedere in questa direzione. Il grande gruppo dei partiti amici dell’Europa deve continuamente porsi la domanda - da intendere come un monito e una sfida permanente: Come dobbiamo rapportarci ai cittadini? Come possiamo fare in modo che il singolo individuo comprenda cosa significa per lui l’Europa e si accorga che la sua posizione migliora grazie alla partecipazione al processo europeo? Quello che i cittadini chiedono è più libertà, più sicurezza sociale, più democrazia concreta: non solo gli Stati Uniti d’Europa, ma anche le città unite d’Europa.
In conseguenza della crisi dell’euro ci sono diverse classi di europei - i privilegiati dei Paesi donatori, in particolare i tedeschi, e i cittadini di seconda classe dei Paesi in declino del Sud. Il potere nell’Unione Europea è suddiviso in modo corrispondente. La Germania domina. Questa dinamica è stata determinante nel provocare la disillusione nei confronti dell’Ue. Anche in Francia. E senza la Francia l’Europa crolla. È una grande preoccupazione. L’idea d’Europa è sempre stata quella di equilibrare gli squilibri di potere e di consentire a ciascuno la medesima opportunità di partecipazione. Il compito più importante dei prossimi anni sarà quello di rinnovare in modo credibile questa visione.
Come si spiega la grande comprensione dell’Europa occidentale per Putin, che porta avanti una politica quasi sciovinistica? C’è un nuovo contrasto tra una concezione etnica della nazione e una cosmopolitica. Il pensiero territoriale, etnico ha una lunga tradizione. Si sente sfidato dall’europeizzazione. Per questo nella crisi dell’Ucraina la critica si rivolge contro l’Unione Europea, alla quale viene rimproverato di mettere in questione le aspirazioni territoriali della Russia. A ciò si aggiunge la paura di un conflitto militare e delle conseguenze economiche delle sanzioni contro la leadership moscovita. Alcuni temono che tali conseguenze - com’è accaduto con la crisi dell’euro - colpiscano proprio loro. E tutto questo si mescola in modo pericoloso.
Un’Europa che si concepisce come un progetto di pace non può difendersi militarmente dall’aggressione russa. Giusto. Ma ha altri mezzi. Nei contrasti geopolitici oggi non sono più in gioco in primo luogo aspirazioni territoriali, ma la partecipazione alle relazioni economiche internazionali e alle organizzazioni e istituzioni internazionali. È una necessità vitale a spingere le nazioni alla cooperazione e quindi al riconoscimento dei diritti degli altri nello stesso interesse nazionale. Perciò l’Europa e l’Occidente nel suo complesso possono benissimo colpire la Russia con le loro sanzioni. La concezione cosmopolitica delle nazioni può forse fallire a breve termine di fronte ai mezzi militari, ma a medio termine si dimostrerà più efficace dell’impiego delle armi. Nello stesso tempo assistiamo a un dibattito intellettuale sulla giusta forma di democrazia e di dominio statale, come un conflitto tra le due forme di modernità. Anche qui c’è bisogno dell’Europa come contromodello rispetto al dominio autoritario di Putin.
L’Unione Europea si trova dunque ad un bivio, sotto un duplice profilo. Da un lato, riguardo alla sua ulteriore evoluzione. Dall’altro, riguardo a come affronterà la sfida di questa forma autoritaria di modernità. Ciò dipenderà anche da come verranno ripartite tra i diversi Paesi e tra i singoli cittadini le conseguenze delle sanzioni economiche. La questione sarà se - come nella crisi dell’euro - ogni Paese dovrà arrangiarsi per conto suo, oppure ci sarà una ripartizione degli oneri all’insegna della solidarietà europea, ad esempio nel caso in cui fossero a rischio i rifornimenti di gas dalla Russia. In questo caso Putin, contro le proprie aspettative, potrebbe addirittura provocare una più forte europeizzazione. Lo si può osservare anche nella reazione della Gran Bretagna, che di colpo, in conseguenza del conflitto con la Russia, realizza di avere in comune con l’Unione Europea ben più di quanto finora non si fosse voluto riconoscere.
Tuttavia, il tentativo britannico di minacciare la fuoriuscita dall’Unione Europea per impedire l’elezione di Juncker è molto ambivalente per il premier Cameron. Cosa significa, propriamente, “fuoriuscita dall’Unione Europea”? Questa domanda mira al tallone d’Achille degli antieuropei. Fuoriuscita non può certamente significare che la Gran Bretagna esce dal mercato europeo. Ciò comporterebbe un danno enorme per l’economia britannica. Dunque, si vuole continuare a godere dei vantaggi del mercato comune e possibilmente contribuire come membro associato alle decisioni di Bruxelles, senza però condividere le conseguenze democratiche. Questo conflitto deve essere risolto all’interno dell’Europa e in Gran Bretagna. Come professore a Londra ascolto le discussioni che vi si svolgono. Sono convinto che, se si votasse, alla fine una netta maggioranza degli inglesi sceglierebbe la permanenza nell’Unione Europea. Perché allora diventerebbe chiaro quanto fortemente la Gran Bretagna è legata al continente e trae profitto da ciò. Ma una fuoriuscita britannica dall’Unione Europea sarebbe anche un colpo per gli americani, che tramite i loro alleati speciali esercitano un’influenza sull’Ue. Una Gran Bretagna che non fosse più membro dell’Unione Europea perderebbe importanza per gli Stati Uniti. ( Traduzione di Carlo Sandrelli)

Repubblica 11.6.14
Un percorso condiviso per un progetto federale
di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini



L’EUROPA occidentale si è impegnata, seppure con molte ambiguità, in un processo di unificazione di competenze. Si tratta di trasferire a un livello più elevato funzioni fondamentali che oggi vengono esercitate dai singoli Stati. Ciò significa eliminare o ridurre prerogative degli Stati nazionali, un processo che alimenta forti conflitti poiché implica nuovi assetti di poteri. Ma questa è l’unica strada non solo per mettere in moto quelle economie di scala che permettono di abbattere i costi e di aumentare l’efficienza, ma anche per ridurre la concorrenza distruttiva tra i paesi europei e quindi per rafforzare una cooperazione feconda che possa realmente far progredire il Vecchio Continente verso un più vigoroso sviluppo economico e civile.
È indubbio che un progetto di tale portata richiede una forte unità d’intenti e di conseguenza deve essere chiaro quali sono gli obiettivi che l’Europa federale intende perseguire. Crediamo che la priorità sia quella di una piena occupazione equamente retribuita in tutti i paesi che hanno aderito alla moneta unica.
Occorre dunque fissare chiaramente i settori e le funzioni che saranno oggetto del trasferimento di poteri e risorse verso un livello sovranazionale. Pensiamo alla difesa e cioè alla creazione di un esercito comune e alla politica dell’energia per quel che riguarda le importazioni di gas e petrolio che dovrebbero essere gestite da una unica centrale europea per acquisire un maggiore potere contrattuale nei confronti dei paesi fornitori, in primis la Russia. Poi certamente c’è il fisco perché bisognerebbe armonizzare i regimi fiscali dei vari paesi al fine di evitare una concorrenza sleale nelle attività produttive. Lo stesso discorso vale per la politica dei redditi: è necessario stabilire dei livelli retributivi minimi validi per tutti i paesi appartenenti all’area euro.
Sarebbe opportuno, inoltre, affrontare il problema della ristrutturazione e della mutualizzazione dei debiti, perché fino a questo momento i paesi in difficoltà sono stati penalizzati rispetto ai paesi ricchi che hanno tratto un enorme vantaggio dall’esistenza di una moneta unica con tassi d’interesse differenziati. La soluzione del problema del debito potrà consentire di porre fine a una concorrenza distruttiva e di aprire una nuova fase di solidarietà tra i paesi europei.
Un discorso particolare riguarda l’immigrazione: andrebbe istituito un centro europeo dotato di risorse adeguate per gestire gli sbarchi, il trasferimento e l’eventuale rimpatrio dei migranti.
Il percorso verso la costruzione di uno Stato federale dunque richiede che siano messe in comune le varie competenze che oggi sono prerogativa dei singoli Stati europei. Un progetto di questo genere potrebbe essere promosso da un gruppo di paesi propulsori. È giunto il momento di unire le forze e di rompere l’immobilismo che sta trascinando a fondo il Vecchio Continente.

La Stampa 11.6.14
L’ira di Le Pen contro Marine
“Mi hai pugnalato alle spalle”
Il patriarca tagliato fuori dal partito, ormai è guerra aperta in famiglia
di Paolo Levi


Oscurato, censurato, ammutolito. Per Jean-Marie Le Pen è l’umiliazione più grande. Da ieri, il presidente onorario del Front National non potrà più esprimersi sul sito Internet del partito da lui stesso fondato oltre 40 anni fa, nel 1972, insieme a un gruppo di neo-nazisti e nostalgici dell’ex impero coloniale. Nello psicodramma politico-familiare che scuote la galassia lepenista, dopo l’ultima provocazione del «patriarca» nei confronti del popolare cantante di origini ebraiche Patrick Bruel («Critica il Fronte? La prossima volta ne faremo un’infornata...»), la decisione più drastica e inattesa l’ha assunta ieri la figlia Marine, che ha scelto di censurare il padre.
Come? Togliendoli il «Journal de Bord», il videoblog settimanale, pubblicato ogni venerdì sul sito del Fronte. Una finestra in cui il vecchio parlamentare di 85 anni - appena rieletto per un terzo mandato all’Assemblea di Strasburgo - discettava di massimi sistemi, magari ricorrendo alla notevole verve linguistica per pronunciare battute di stampo razzista e antisemita. Un vero problema per la figlia Marine, che nel 2011 ha preso le redini del Front National e sta facendo di tutto per dargli un’immagine più moderata e moderna, anche se il nazionalismo, l’eurofobia e la lotta all’immigrazione restano il marchio di fabbrica. Sincera o tattica che sia, l’opera di maquillage politico messa in campo dalla «dama nera» - che dopo l’exploit nel voto europeo del 25 maggio sogna l’Eliseo nel 2017 - non poteva più essere messa a repentaglio dalle provocazioni di papà.
Di qui l’estremo ricorso alla museruola. Una decisione che il diretto interessato non ha preso nel migliore dei modi. «Mia figlia - ha tuonato Le Pen in un’intervista a “Les Inrockuptibles” - mi ha pugnalato alle spalle. A 85 anni non ho alcuna intenzione di cambiare. Se gli do fastidio, possono anche uccidermi. Io di certo non mi suicido». In questo sorta di «Dinasty» dell’estrema destra questioni politiche e famigliari sono legate. «Marine non mi ha neanche onorato di una telefonata - protesta Le Pen -. Penso che si vergogni perché in qualche modo ha accreditato il processo alle intenzioni degli avversari del Fn. Sa che ho il senso del dovere e che odio il tradimento». L’annuncio della rimozione del «Journal de Bord» è arrivato ieri dall’avvocato del Fronte, Wallerand de Saint-Just, che ha invocato problemi giuridici. «Marine non può più permettersi di ricevere denunce per le parole del padre», hanno spiegato fonti vicine al partito.

il Fatto 11.6.14
Cremlino forever
Ritorna Stalingrado nella ‘piccola Urss’ dello zar nostalgico
Proposto referendum per ridare il nome sovietico anche a San Pietroburgo
Pietroburgo: Leningrad
di Giulia Merlo


Per alcuni espressione degli antichi fasti, per altri esercizio retorico di un passato culto della personalità. Sull’onda di un patriottismo da nuova piccola Urss rilanciato dalla crisi in Ucraina, potrebbero tornare nella toponomastica le eroiche Stalingrado e Leningrado, teatri delle vittorie dell’Armata Rossa contro l’esercito nazista durante la Seconda Guerra Mondiale. Inizialmente il revisionismo riguardava solo Volgograd, la città sul Volga a cui il presidente russo Vladimir Putin la scorsa settimana ha proposto un referendum, per ritornare alla denominazione di era sovietica Stalingrado, teatro di uno degli scontri più cruenti dell’intero fronte orientale e cantata dalle canzoni della resistenza. Poi, però ci ha pensato il leader del partito comunista Gennady Zyuganov a ricordare che anche San Pietroburgo - Leningrado fino al 1991 - merita di tornare a essere la città di Lenin. “Stalingrad e Leningrad sono conosciute in tutto il mondo - ha dichiarato Zyuganov - ora bisogna rivolgersi anche ai cittadini di San Pietroburgo”. L’idea può suonare nostalgica ma non è nuova tra i nazionalisti russi, oggi gode della non ostilità del governo ed è sostenuta da un’insolita alleanza tra comunisti e Chiesa ortodossa - questo sì, dettaglio tutto fuorché veterosovietico.
PER SAN PIETROBURGO si tratterebbe del secondo referendum sul nome della città in 23 anni, dopo quello promosso nel 1991 - anno del crollo dell’Unione Sovietica e in cui si votò contemporaneamente anche il sindaco della città e il presidente russo - che ripristinò per la Venezia del Nord il toponimo “Sankt Petersburg”, scelto dal fondatore Pietro Il Grande nel 1703.
Salutare dopo 70 anni Leningrado - era il 1924 quando, alla morte del leader comunista, la città prese il suo nome - fu un trauma che superò i confini cittadini, scatenando un acceso dibattito che vedeva contrapposto il partito comunista e i veterani della Seconda Guerra Mondiale, con artisti e nazionalisti russi. I primi consideravano il cambio di nome un affronto alla memoria dello stesso Lenin, per i secondi invece si trattava di restituire l’orgoglio alla città, che andava liberata dalle macerie del crollo dell’Urss. Anche in quel caso la chiesa ortodossa Russa si schierò ma, forse più coerentemente rispetto ad oggi, l’allora patriarca Alessio II si spese per la dicitura imperiale, sostenendo che “Leningrado è solo una copertura, una carcassa ideologica che alla città fondata da Pietro il Grande è stata costretta a indossare”. Il dibattito toccò il cuore di una generazione di russi: nonostante la città fosse colloquialmente sempre rimasta semplicemente “Peter”, il referendum rappresentò una scelta di campo.
Oggi, la proposta di referendum controrevisionista fa leva sul patriottismo anti-nazista, ancora molto radicato nella coscienza nazionale e riportato in auge dallo zar Putin e dai media ufficiali. In quest’ottica, infatti, rientra la politica di Mosca nel conflitto ucraino, scatenata contro quelle che vengono ritenute le forze “naziste” di Kiev. Durante la Seconda Guerra Mondiale, infatti, gli indipendentisti ucraini guidati dal nazionalista Stepan Bandera combatterono al fianco dell’esercito di Hitler sul fronte russo orientale. L’onta, mai perdonata dai patrioti sovietici, è tornata tra le giustificazioni all’intervento di Putin nella crisi ucraina: tutelare le popolazioni russe contro il Pravi Sektor, il movimento di ultradestra e braccio armato della rivoluzione, che si richiama pubblicamente all’indipendentismo di Bandera.
Per un fantasma del passato che ritorna, ecco che il Cremlino ne richiama altri due: Leningrado e Stalingrado eroici baluardi di nuovo eretti contro Kiev e contro tutti i nemici di una Russia che vuole tornare a esser potenza egemone. Per questa nuova impresa, contro gli indipendentisti ucraini, serve anche la memoria del compagno Lenin.

Repubblica 11.6.14
“La letteratura salverà l’Ucraina dalla ferocia”
Yuri Andrukhovych parla del suo paese, che da cent’anni è epicentro della catastrofe europea. Dai pogrom alla crisi con la Russia
di Wlodek Goldkorn


Yuri Andrukhovych è uno scrittore nato 52 anni fa. Vive in Ucraina, Paese che da cent’anni è l’epicentro della catastrofe europea. L’Ovest, la Galizia, dove una volta abitavano polacchi, ebrei, ucraini e che faceva parte dell’Impero austro-ungarico e successivamente della Polonia, è stato teatro dei pogrom e dei più brutali tra gli episodi della Shoah, per poi essere annesso all’Urss. Ad Est negli anni Trenta si consumò un altro genocidio: tre milioni di contadini fatti morire di fame per volontà di Stalin. Oggi, l’Ucraina vive un conflitto che la oppone alla Russia. E allora come si fa a fare letteratura e ad aver fiducia nel potere della parola in un luogo come questo, dove la storia ha spesso oltrepassato i confini di ogni immaginazione umana?
Andrukhovych, oltre a essere un autore di culto in Europa centrale (da noi ha pubblicato un solo romanzo Moscoviade con l’editore pugliese Besa), è attivista del movimento democratico del Maidan. Risponde quindi partendo dalla cronaca e dalla politica. Il 25 maggio è stato eletto presidente Petro Poroshenko. «Io l’ho votato», dice. «È un filoccidentale e non è estremista. Sarà capace di trattare con il Cremlino. Ma preferisco parlare di letteratura. E della Galizia dove sono nato e che amo raccontare».
Nei suoi libri lei inventa una Galizia che non esiste se non come luogo dell’anima; nostalgico sogno di una pacifica convivenza tra culture, lingue, fedi.
«Esiste, invece. Ma oggi è parte del contesto ucraino: è fucina di idee per il futuro. È il nostro Piemonte. Ma questo ha a che fare con le tracce dell’Impero asburgico. Leopoli, la capitale della regione, è la mecca del turismo interno. La gente viene dall’Est per vedere una città occidentale. L’aura di questo luogo rende possibile un discorso democratico e multiculturale».
La città però è cambiata. Gli ebrei sono stati ammazzati, i polacchi cacciati via. È arrivata gente nuova, ucraini dalle campagne.
«La sua anima è la stessa. Questione di patriottismo locale. Anche da immigrati ci si identifica con la storia, l’architettura, la tradizione del luogo in cui si vive».
Lei è nato in una città asburgica, la polacca Stanislawow che ai tempi sovietici ha cambiato nome in Ivanofrankivsk, in onore di un poeta ucraino.
«La gente usa ambedue i nomi. Quando a febbraio stavamo assaltando la sede dei servizi di sicurezza del passato regime, la gente urlava: “Onore e gloria agli eroi di Stanislawow”. Nel nome sta l’onore della città. Nella nostra memoria collettiva ci sono decine di lingue e dialetti».
E Kiev, la capitale dell’Ucraina ma anche culla dello Stato russo, cosa è?
«È una città eterna. E le città eterne non possono avere un’unica identità. A metà dell’800, la maggior parte della popolazione colta di Kiev parlava il polacco meglio del russo. Però già alla fine del secolo Kiev era russificata, mentre c’erano solo due salotti buoni in cui si parlava l’ucraino. Oggi nella città si usa sia il russo che l’ucraino. E bilingue è stata anche piazza Maidan: là non abbiamo difeso una lingua, ma la libertà e l’indipendenza nazionale. A chi dice che l’Ucraina è divisa tra i russi e gli ucraini, rispondo: non esiste un problema etnico nel mio Paese, è solo una certa politica a voler rendere ideologici istinti di potere brutali».
C’è però una tradizione di ferocia in Ucraina. Nel 1941 quando entrarono i tedeschi molti ucraini hanno massacrato gli ebrei in modi raccapriccianti. Nella civilissima Leopoli sono successe cose inenarrabili.
«Trovo orribile che queste storie non facciano parte del dibattito pubblico. Dobbiamo chiedere scusa agli ebrei. Ma le brutalità commesse oggi non c’entrano con quella storia».
Ne è sicuro?
«Forse è una questione del Karma. Un peccato senza punizione né pentimento torna sotto forma di altra violenza, in un contesto diverso».
In Ucraina abitava il Messia.
Qui è nato il hassidismo; l’idea che la redenzione sia vicistia, na. Qui esistevano migliaia di sinagoghe. Cosa è rimasto?
«Luoghi pieni di un silenzio assordante che interpella noi tutti. Da studente andavo in palestra in una ex sinagoga a Leopoli. E sapevo che l’aula magna dell’Accademia medica a Stanislawow era una ex sinagoga. In un mio libro , Lessico delle città intime , parlo delle macerie della sinagoga a Ostrog. Intorno ci sono graffiti blasfemi e simboli nazisti. E poi, a Stanislawow, dove abito, nel burrone dove ebbe luogo il massacro degli ebrei, i sovietici hanno realizzato un lago artificiale. Da bambino ci andavo a nuotare».
Nei suoi libri lei parla pochissimo di “holodomor”, la care- provocata da Stalin.
«A un certo punto le autorità del nostro Stato hanno cominciato a costruire monumenti alle vittime. Quei monumenti sono stati oltraggiati proprio nelle località dove “holodomor” ha colpito più duramente. Come se la popolazione volesse negare la storia o non volesse conoscerla. Sembra la vergogna delle vittime. C’è però un’altra ipotesi: quei luoghi sono oggi abitati dagli eredi di coloro che sono stati portati lì da altre parti dell’Urss per vivere nelle case di chi era morto. Io non li condanno, li capisco».
Ora l’Ucraina è in conflitto con la Russia. Dai suoi libri si deduce però che lei ama la Russia.
«Amo la letteratura russa. Posso recitare a memoria le poesie di Lermontov. E mi dispiace sentirmi impegnato nella promozione della mia lingua a scapito del russo».
Può la letteratura redimere il mondo e gli umani?
«Sì. È uno strumento di resistenza. Può resuscitare chi non c’è più, e può restituirci il mondo degli sconfitti. Pensi a Bruno Schulz, ammazzato da un Ss nel ghetto di Drohobycz. Era un modesto insegnante. Ha scritto romanzi che allora pochi erano in grado di apprezzare. Ma oggi è considerato un maestro dai più grandi scrittori viventi. Ha cambiato la maniera di raccontare lo spazio e il tempo. Era capace di farlo, perché abitava negli stessi luoghi dove fino alla catastrofe dimorava, come dice lei, il Messia»

il Fatto 11.6.14
Casa Pound e Brigate Garibaldi italiani della guerra ucraina
Nel ‘contingente internazionale’ che combatte con i filo-russi anche spagnoli e francesi. Esponenti ‘neri’ con nazionalisti di Pravi Sektor
di Stefano Citati


Venite in Ucraina voi che volete combattere per difendere una patria, un’ideologia. Voi che volete lottare a ruba bandiera con il nemico d’opposta fazione. Voi che volete menar le mani e salire sulle barricate armi in pugno. Il luna park della violenza nel cuore d’Europa fa ormai il paio con quello nel centro del Medio Oriente, la Siria, dove sarebbero oltre 3.000 gli occidentali infiltrati oltre-confine per unirsi alla ribellione dei gruppi jihadisti contro Assad. Ma l’Ucraina è più vicina, in chilometri e pensieri, per i giovani fascisti o comunisti che dir si vogliano, e il suo destino più strettamente legato a quello dei ragazzi (od ormai uomini) che cercano gloria sul campo di battaglia non solo virtuale dei social network o delle strade del resto d’Europa.
ERA OTTANT’ANNI FA in Spagna, è ora in Ucraina che sorgono le brigate internazionali contro il regime ‘fascista’ di Kiev, difeso dai nostalgici di oggi, nel ricordo delle milizie inviate dai regimi nazifascisti a sostenere i nazionalisti di Franco.
Su Internet appaiono le immagini di ragazzi che reggono la bandiera italiana con la stella a cinque punte, quella della Brigata Garibaldi che i partigiani comunisti inalberavano nella lotta contro i nazisti; ma anche quella della testuggine simbolo di Casa Pound sotto il pennone che regge una bandiera ucraina.
Quanti siano i combattenti - ribattezzati i Comunardi - che si starebbero unendo alle forze filo-russe dell’autoproclamata repubblica indipendente di Donetsk per ora non si sa, ma i media russi, come Lifenews che coprono capillarmente le violenze nell’est ucraino diffondono le immagini dei membri delle nuove brigate internazionali venute a sostegno: reparti paramilitari inviati da Jobbik, il partito nazionalista xenofobo ungherese inquadrati nella ‘Legione San Istvan’ (Santo Stefano, ndr), e poi i polacchi anti-Nato, fotografati in balaklava (passamontagna, ndr) che hanno scelto il lato orientale dell’Ucraina, mentre l’ovest è legato proprio alla Polonia ‘ufficiale’. Truppe di contorno a personaggi come Igor Strelkov, ufficiale del servizio segreto militare russo Gru o Aleksandr Kiefel, ex ufficiale dell’esercito dell’ex Germania Est. E poi reduci dell’Afghanistan, che combatterono con l’Armata Rossa e sono ora tornati in servizio nelle cittadine insorte contro il nuovo potere di Kiev che ha scacciato l’ex presidente filo-russo Yanukovich. E ancora esponenti di gruppi anarchici e sinistrorsi spagnoli, francesi, canadesi.
Dall’altra parte della barricata, tra le milizie di Kiev, sotto la bandiera del nazionalista Stepen Bandera (‘alleato’ dei nazisti per cacciare i sovietici da Kiev negli anni 30-40) riesumata dalle centurie inquadrate in Pravi Sektor, Settore destro, nazional-fascisteggiante servizio d’ordine di piazza Maidan durante i giorni della rivolta di novembre-febbraio, ci sarebbero invece esponenti del mondo ‘nero’ italiano come Francesco Saverio Fontana (nome di battaglia Stan), definito ‘ufficiale’ di collegamento con gli squadristi italiani in diversi siti e blog. E ad addestrare le truppe di Kiev ci sarebbero contractor della Blackwater, e anche istruttori Cia.
Sul lato sinistro dello schieramento che spacca in due l’Ucrain, l’organizzazione Millennium (il cui manifesto è intriso di ‘comunitarismo e identità’, contro ‘l’alienazione voluta dai canoni borghesi’) si starebbe occupando del reclutamento dei volontari pronti a partire verso il fronte che sta facendo risorgere la Cortina di Ferro in Europa.
Una guerra prima di tutto di propaganda, un tam-tam continuo di messaggi e foto che scorre come una corrente neppur sotterranea sul web, con difficili conferme sul terreno, dove i due blocchi continuano a spararsi e ad accusarsi delle peggiori nefandezze belliche.

il Fatto 11.6.14
Brasile, il Mondiale non è il benvenuto
Domani il via al torneo, ma la maggioranza del paese ne avrebbe fatto a meno
di Giuseppe Bizzarri


Il Brasile non spenderà un centesimo di denaro pubblico per la costruzione e la riforma degli stadi destinati alla Coppa del mondo”. L’affermazione era stata fatta nel 2007 dall’ex ministro dello Sport Orlando Brito, il quale esultò, assieme all’ex presidente Inácio Lula e altri 12ministri del suo governo, quando Joseph Blatter, il presidente della Fifa, comunicò al mondo che il paese sudamericano aveva ottenuto il Mondiale di calcio.
Le cose non sono andate esattamente come forse avrebbe voluto Brito, poiché l’85 per cento dei 30 miliardi di reais spesi per organizzare il travagliato Mundial sono usciti dalle casse dello Stato brasiliano. Pochi avrebbero potuto pensare che, nell’auge dell’era Lula, quando i potenti della Terra osannavano il miracolo economico brasiliano, il calcio, la passione nazionale del Paese, sarebbe poi diventato la miccia di un’onda di rivendicazioni sociali e salariali da parte di milioni di cittadini, i quali avrebbero voluto che i fondi destinati alla Coppa fossero invece diretti verso la disastrosa educazione pubblica, la decadente sanità, lo sconquassato trasporto e la giustizia sociale. São Paulo, la città che Nunca para, non si ferma mai, è rimasta paralizzata per 6 giorni a causa dello sciopero dei trasportatori della metro, ma anche delle manifestazioni a favore dei lavoratori in sciopero.
Tredici scioperanti sono stati arrestati, 61 licenziati e gli uomini della Pm, la polizia militare, controllano in stato operativo le stazioni della subway. I leader dello sciopero hanno sospeso per due giorni l’agitazione. I paulisti sono oggi più preoccupati per il futuro della metropoli e della nazione, che per l’apertura della Coppa che avverrà giovedì nel nuovo stadio Itaquerão, dove avverrà la cerimonia di apertura del Mondiale, ma è anche morto l’operaio Fabio Hamilton da Cruz a causa dei disumani turni di lavoro. Per Hamilton e altri 7 lavoratori deceduti non ci sarà nessuna Coppa, e tantomeno per circa 170 mila carioca, i quali sono stati rimossi dalle loro case per fare posto a stadi, impianti sportivi, vie espresse, parcheggi e shopping center.
LO SCIOPERO della metro e il caos del transito cittadino che ha intrappolato nei giorni scorsi anche alti esecutivi della Fifa nel loro arrivo a São Paulo, sembra non preoccupare il segretario generale della federazione calcistica , Jérôme Valcke, ma secondo quanto rivelano fonti della Fifa al giornale Estado de São Paulo, lo sciopero, se dovesse riprendere, potrebbe diventare un incubo per la Fifa e la torcida. Lo sperpero del denaro pubblico usato per organizzare il business privato della Coppa ha innescato in tutto il paese, un’incessante onda di proteste che diventano sempre più imprevedibili soprattutto con l’accentuarsi dell’aggressiva campagna elettorale per le elezioni del 5 ottobre, quando i brasiliani saranno chiamati alle urne per eleggere il nuovo presidente e il futuro assetto politico (governatori, deputati e senatori) che guiderà nei prossimi quattro anni il gigante sudamericano.
“Não vai ter Copa”. Lo slogan è divenuto una hit molto popolare nell’eterogeneo mondo della protesta brasiliana, dove la stessa Fifa ammette che, secondo le statistiche di Datafolha, il 50,7 per cento della popolazione è contraria alla scelta del paese come sede della competizione mondiale. Il test di allenamento contro il Fluminense, vinto dalla Nazionale italiana 5-3, si è giocato a Volta Redonda nello Stato di Rio de Janeiro. La cittadina è un crocevia molto conosciuto anche alla Polizia federale brasiliana, dove sequestra carichi di cocaina e armi provenienti da São Paulo e diretti alle gang narcotrafficanti della Capitale carioca. A Rio de Janeiro è in atto un impressionante spiegamento di forze militari e civili. Durante la Coppa avverrà il maggior schieramento di militari e polizia mai avuto nella storia dei Mondiali.
L’esercito brasiliano occupa i punti strategici della città e la favela della Maré, dove lunedì i militari sono entrati in confronto con residenti e trafficanti della comunità. Le scaramucce armate tra narcos e militari, nonostante l’installazione dell’Upp, le Unità di pacificazione militare, non sono mai cessati anche nella Rocinha e nell’immenso agglomerato di favelas che compongono il Complexo do Alemão. Saranno l’esercito brasiliano, la polizia militare, la polizia federale, civile e municipale a tenere lontani fino a cinque chilometri di distanza dagli stadi, i manifestanti. All’interno di questo perimetro di sicurezza saranno invece i contractor della Fifa a mantenere l’ordine.
Preoccupano anche gli assalti di strada, le rapine sono aumentate del 40%. I pochi addobbi gialloverdi sono apparsi all’improvviso nelle strade di Rio de Janeiro, la città in cui la gente sembra più preoccupata a far quadrare i conti familiari a causa dell’inflazione galoppante e l’inadempienza bancaria che non era stata così alta sin dal 2010.
L’ATMOSFERA è tesa anche per le garotas de programa, le prostitute che lavorano in maniera indipendente e non nei bordelli camuffati da saune e discoteche. A Niteroi, la città turistica sulla sponda della baia de Guanabara opposta a quella di Rio de Janeiro, le prostitute sono scese ripetutamente in strada per protestare contro la polizia militare e la prefettura che hanno fatto sloggiare con forza e illegalmente circa duecento prostitute, le quali– nonostante affittassero regolarmente i propri appartamenti – sono oggi impedite di lavorare nel celebre bordello verticale autogestito dell’avenida Amaral Peixoto, meglio conosciuto come palazzo della Caixa

La Stampa 11.6.14
Israele, è Rivlin il nuovo presidente
Eletto l’esponente storico dei conservatori del Likud, “falco” da sempre contrario allo Stato palestinese
di Maurizio Molinari

qui

La Stampa 11.6.14
Berline di lusso, abiti firmati La Cina che fa gola all’Italia
Meno corruzione e prodotti falsi, più innovazione e spinta ai consumi La nuova frontiera è “affordable”: alta qualità a prezzi non troppo alti
di Alessandro Barbera


A dispetto della coltre di nebbia che incombe sulla città, a Pechino è ormai estate. L’ordine e la pulizia regnano sovrane a terra, non si può dire altrettanto dell’aria che si respira. Agli arrivi internazionali ti accoglie un funzionario di polizia al quale puoi dare un voto sul controllo del passaporto: molto soddisfatto, mediamente soddisfatto, poco o per niente soddisfatto. Un’enorme pubblicità della Maserati segnala che il consumatore cinese ormai nutre gli stessi desideri di quello occidentale. Dieci anni fa le strade di Pechino erano colme di auto di piccola cilindrata, ora si notano le berline di lusso. La capitale cinese è un concentrato di modernità finché non si prende in mano lo smartphone per accedere a Twitter o Facebook. Il browser fa credere di tentare la connessione, poi ammette che «la pagina non è disponibile». Qui i social si chiamano Weibo e Weixin, con buona pace del pluralismo ad ogni costo. Il collegamento a Google funziona a tratti, secondo una regola misteriosa da comprendere. 
Le grandi aziende statali sono ancora l’ottanta per cento, ma il mercato è ormai popolato da più di 40 milioni di imprenditori privati. L’uomo simbolo del capitalismo di Stato è Ren Zhengfei, ex ufficiale dell’Esercito di Liberazione del Popolo e numero uno di Huanwei, l’azienda che controlla un terzo del mercato mondiale di server, telefonia cellulare e sistemi di telecomunicazione. La società è accusata di essere il grande orecchio del regime, in ogni caso produce ventimila brevetti l’anno e l’11 per cento del fatturato è speso in ricerca e sviluppo. L’alfiere dell’impresa cinese aperta al mondo è Jack Ma, il 49enne inventore di Alibaba, il colosso della distribuzione online che ha appena deciso di quotarsi a Wall Street. L’altro volto di un Paese in cui, persino nella capitale, è ancora difficile trovare un tassista in grado di riconoscere l’indirizzo di un albergo in inglese. 
La Cina è sempre più la somma di molte contraddizioni: un capitalismo pianificato ma inesorabilmente destinato a diventare aperto, un regime illiberale spinto a promuovere rapidamente il miglioramento della qualità della vita dei cinesi, l’unico modo per giustificare ancora ai loro occhi l’esistenza del partito unico. L’ultimo congresso ha promosso lotta dura alla corruzione, più mercato, innovazione e consumi all’insegna di una crescita «armonica». L’hanno ribattezzata «decelerazione controllata»: poiché l’aria nelle città è irrespirabile, il governo di Xi Jinping ha ridotto i cementifici e di almeno il 20 per cento la produzione di acciaio. Il fondo sovrano nel frattempo investe nelle società occidentali come Eni ed Enel per imparare l’uso delle rinnovabili e le pratiche di risparmio energetico. 
«La cultura d’impresa è migliorata, le regole ora esistono, la contraffazione è ormai un problema concentrato su alcune fasce di prodotti», racconta Antonio Laspina, uno degli italiani più esperti di Cina. 
Vive a Pechino da più di dieci anni, da quando l’Istituto per il commercio estero lo mandò lì a dirigere l’ufficio. Laspina non crede alle teorie catastrofiste, ai rischi dovuti all’invecchiamento della popolazione o alle bolle speculative. «Fior di esperti hanno previsto disastri inimmaginabili. Invece questo Paese si conferma un’opportunità enorme. Se in Italia il calo della produzione industriale ha toccato il 25 per cento, l’interscambio ha tenuto». Oggi l’Italia è il quarto partner commerciale della Cina dopo Germania, Francia e Gran Bretagna. L’Ice calcola uno stock di investimenti italiani in Cina di dieci miliardi di dollari, più di quaranta miliardi di fatturato all’anno fra import (25) ed export (17). 
I problemi non mancano: «Le imprese italiane restano troppo piccole, poco capitalizzate e incapaci di fare squadra». La nuova frontiera per i prodotti italiani qui si chiama «affordable luxury», ovvero cose di marca, costose ma non troppo. «I cinesi oggi chiedono qualità», sintetizza Laspina. Basti citare l’aumento di importazione di farmaci europei (quelli italiani valgono 1,3 miliardi di dollari di fatturato annuo) o il boom nell’importazione di latte in polvere dopo lo scandalo scoppiato nel 2011 per via di una partita contaminata. Dopo l’ondata di suicidi nelle fabbriche cinesi della Foxconn, l’ultimo piano quinquennale del governo ha previsto un aumento medio annuo dei salari del 13 per cento annuo. Insomma, nei prossimi anni la Cina cambierà ancora pelle. Le produzioni di materie prime a basso costo si sposteranno verso altre zone dell’Asia - Vietnam e Bangladesh su tutte - mentre aumenterà la concorrenza verso chi finora ha garantito manodopera più specializzata come Corea del Sud, Giappone e Taiwan. Le previsioni scommettono su un aumento del peso del renminbi come valuta globale. Oggi è la settima più scambiata, per alcuni è già una valuta di riserva. 

La Stampa 11.6.14
L’impero del Dragone conta 10 mila dipendenti italiani e un giro d’affari da 6 miliardi
Le imprese individuali cinesi in Italia sono quasi 40 mila
Oltre la metà sono distribuite in tre Regioni: Toscana, Lombardia e Veneto
di Marco Sodano


La Cina grande e la Cina piccola: in Italia ci sono le banche, i cantieri navali e i grandi investitori da una parte, le piccole manifatture tessili, l’artigianato e la ristorazione dall’altra. I primi sono molto meno visibili dei secondi. Non costruiscono chinatown e non appendono lanterne rosse alle finestre dei loro uffici eppure il loro impatto sulla nostra economia è robusto.
Basta ricordare che solo qualche mese fa la Banca centrale cinese ha speso più di due miliardi per assicurarsi il 2% di Eni ed Enel. E State Grid of China, il gestore statale di circa l’80 per cento della rete elettrica cinese, ha fatto sapere di essere molto interessata a una quota di Cdp Reti. Lo stesso Renzi, qualche settimana fa, ha battezzato l’intesa con cui Shanghai Electric ha rilevato il 40 per cento di Ansaldo Energia dal Fondo strategico italiano.
Sono quasi duecento le imprese italiane controllate o partecipate con quote importanti da società cinesi o di Hong Kong: il giro d’affari complessivo vale circa 10mila dipendenti e 6 miliardi di fatturato annuo. Negli ultimi due anni gli arrivi sono in frenata, in conseguenza della crisi che morde l’Europa, ma il flusso degli investimenti è pronto a ripartire. Si va dagli yacht di lusso di Ferretti, il cui controllo è stato acquisito nel 2012 dal Shandong Weichai alla finanziaria Crescent HydePark, che ha comprato il marchio di abbigliamento Sixty. Nell’edilizia è in Italia ormai da tempo Changsha Zoomlion, che si è assicurata il gruppo Cifa nel 2008.
È mezzo cinese il terminal container del porto di Napoli (controllato da Coscon). E poi Haier, primo produttore mondiale di elettrodomestici: ha acquisito nel 2003 la Meneghetti e nel 2009 la Elba e ha una sede commerciale italiana a Varese. È invece di Hong Kong Hutchinson Wampoa, il gruppo che controlla la società di telefonia H3G: i telefonini contano in Italia la bellezza di 2.700 dipendenti e realizzano 2 miliardi di fatturato, sono la prima impresa italiana a controllo cinese per grandezza. Hutchinson controlla anche la catena di profumerie Marionnaud Parfumeries Italia (nel 2005 aveva acquisito la casa madre francese).
Gli squilibri ovviamente non mancano: importiamo merci cinesi per 23 miliardi ed esportiamo per appena nove. Anche il bilancio degli investimenti diretti è ancora pesantemente a favore della Cina, anche se negli ultimi due anni il gap si va riducendo.
Ma è chiaro che i rapporti con il paese del Dragone sono ormai imprescindibili. E dopo il lusso, viene ovviamente il turismo. Che cerca i cinesi, conosciuti come i più spendaccioni del mondo: il viaggio di un cinese in un paese europeo, secondo gli operatori, vale in media intorno ai 5mia euro. Tra il 2011 e il 2012 il flusso di turisti cinesi è cresciuto del 20%, tra il 2012 e l’anno scorso addirittura del 29%: con ripercussioni sull’intero made in Italy perché i nostri marchi del lusso, in Cina, pagano ancora una tassazione molto pesante. Venire a comprare qui è un affare: e infatti tutti gli outlet italiani stampano brochure in cinese. L’Italia è la sesta meta preferita dai turisti in arrivo dal Celeste impero, un filone sul quale conviene scommettere. Nel 2013 in Europa sono arrivati quattro milioni di cinesi.

Corriere 11.6.14
«Saranno le donne a cambiare l’Islam e io tornerò a fare l’avvocato in Iran»
Shirin Ebadi: lapidazioni e maschilismo interpretazioni sbagliate della Sharia
intervista di Gian Antonio Stella


Alla fine chi vincerà: i buoni o i cattivi? «Vinceranno i buoni. Vincono sempre i buoni. Solo che ci vuole più tempo». Shirin Ebadi, 66 anni, l’iraniana Nobel per la pace nel 2003 per le sue battaglie legali in difesa dei diritti umani e in particolare delle donne vittime degli abusi della Sharia, avrebbe buoni motivi per non essere ottimista. Costretta all’esilio dal regime islamico, vive da cinque anni sotto scorta in un luogo segreto forse in America o forse in Gran Bretagna («diciamo che pago le tasse negli States, lavo i vestiti a Londra ma vivo dieci mesi l’anno in una valigia in transito negli aeroporti»), ha difficoltà a vedere le figlie anche loro costrette a scappare e dal 2009 non può tornare a Teheran dov’è rimasto, vecchio e malandato, suo marito. Eppure, alle centinaia di persone di buona volontà accorsi al festival della convivenza «Ritmi e Danze nel Mondo» promosso da anni da don Bruno Baratto a Giavera del Montello (Treviso), è tornata a battere sul suo tasto: vinceranno i buoni. E un giorno o l’altro, chissà, anche lei tornerà a Teheran. Della quale le manca tutto, «anche lo smog». Ma più ancora suo marito: «Ha 75 anni. La sua vita è lì. Quando il regime ha capito che non sarei tornata se l’è presa con lui».
Lo hanno torturato?
«Sì. Torturato. Lo hanno costretto ad andare in tv a lanciarmi le stesse accuse che mi lanciava il regime. Che non sono una brava iraniana. Che ho tradito».
L’ha perdonato?
«Anche mia sorella fu arrestata. Incarcerata. Torturata. Si ammalò, per le torture. Al punto che furono costretti a liberarla. Tutti i beni che avevo sono stati sequestrati. Tutti. Non ho più niente, nella mia patria. E mentre confiscavano mi facevano sapere: stattene zitta e ti restituiamo tutto».
E lei, no.
«Non potevo cedere. Io amo mio marito. Amo mia sorella. Amavo le cose che mi sono state tolte. Amo il mio paese. Ma la mia idea di giustizia mi impone di non tacere. Non starò mai zitta. Mai».
Riceve ancora minacce quotidiane di morte?
«Sì. La paura c’è. Ma va vinta».
Deve essere stato un trauma vedere suo marito accusarla in tv…
«Quando l’ho visto su YouTube sono stata malissimo. Per lui. Sapevo quanto dovevano averlo torturato per fargli dire quelle cose. Aveva perso dieci chili. Era irriconoscibile».
Ci ha parlato, poi?
«Il giorno dopo. Gli ho detto: ho fatto l’avvocato per anni, so cosa ti hanno fatto».
Quindi l’ha perdonato?
«Subito. Sapevo cos’era successo».
A parti rovesciate, avrebbe potuto lei accusare lui?
«Nessuno può sapere quanto riuscirebbe a resistere sotto tortura. Nessuno».
Con il moderato Rohani qualcosa potrebbe cambiare…
«Ma Rohani non è affatto un moderato. La sua storia dice che è un fondamentalista. Con lui nei primi mesi le esecuzioni capitali sono raddoppiate. Hanno giustiziato persone detenute per motivi politici o reati di opinione».
Quanto ha rimpianto le feste per la fuga dello Scià e il rientro di Khomeini dall’esilio?
«Eravamo felici, in quel febbraio del 1979. Felici».
Finché …
«Finché l’8 marzo 1979, sei settimane dopo il ritorno dell’ayatollah, arrivò l’ordine che tutte le dipendenti pubbliche si dovevano coprire la testa con il foulard. Per tutte noi quell’ordine fu uno shock».
Scelsero apposta l’8 marzo, festa della donna?
«Credo di sì»
Lei faceva il giudice, allora, giusto?
«Sì. Ero presidente di sezione del tribunale civile».
Cosa fece: cominciò a fare i processi con il velo?
«All’inizio mi misi in ferie. Dopo una settimana il velo diventò obbligatorio per tutte le donne. Tutte. Anche per uscire di casa. Fui costretta anch’io. Ovvio».
Fino a quando non venne espulsa dalla magistratura.
«Fu due mesi dopo l’arrivo di Khomeini. Fummo tutte retrocesse a impiegate. Mi ritrovai segretaria della stessa corte che avevo presieduto».
Durissima…
«Inaccettabile. Ma questo mi spinse a lavorare ancora di più. Mi dissi: farò di tutto perché il regime debba rimpiangere questa nostra umiliazione. Ho cominciato a scrivere libri. A fondare Ong per i diritti civili. Lavoravo giorno e notte. Giorno e notte».
Lei porta i pantaloni: secoli fa sarebbe stata processata come Giovanna d’Arco, che sui calzoni fu sottoposta a un violento interrogatorio. Sul tema dei diritti la differenza fra il cristianesimo e l’Islam è solo sui tempi?
«Può essere. Non c’è molta differenza, tra quei processi antichi e quelli ai tempi di Khomeini».
Insomma, è solo una sfasatura di secoli.
«Sì».
Quindi pensa che l’Islam possa anche essere liberale.
«Certo».
Lei è ancora islamica?
«Sì. Credente».
Un po’ in crisi, forse?
«Assolutamente no».
Pensa che possa arrivare un papa Francesco, un riformatore, anche nel mondo islamico?
«Certo. Perché no?».
Quando?
«Chi lo sa? Per quanti secoli la Chiesa ha aspettato papa Francesco? Lo so che l’Islam è in ritardo. Voi avete avuto il Rinascimento. Ma i tempi sono cambiati, e crediamo che per recuperare ci vorrà meno tempo».
Grazie al web?
«Anche».
Gli inquisitori di Giovanna d’Arco la processavano in quanto fanatici ma anche in quanto maschi: che peso ha il maschilismo nell’Islam?
«Questo è un nodo importante: tutte le religioni sono, da sempre, più o meno ostili alle donne. Perché sono state interpretate da maschi. La prima peccatrice è stata Eva e tutte le donne devono essere punite per questo. È arrivato il momento che anche le donne possano interpretare la loro religione. Magari fra qualche decennio ci spiegheranno che forse fu Adamo ad offrire il frutto proibito ad Eva».
Insomma, le donne devono occuparsi di teologia.
«Le donne devono conoscere bene le loro religioni. Perché sono le prime vittime delle interpretazioni maschili. E devono imparare a difendersi».
Davanti a una lapidazione come quella in Pakistan di maggio si sente peggio come donna o come islamica?
«Come essere umano».
Se fosse lei il giudice di quel padre e di quei fratelli che hanno lapidato quella ragazza, come si regolerebbe?
«Omicidio volontario».
Cosa pensa dei giudici che in Sudan hanno condannato a morte Meriam, colpevole di essere cattolica?
«Sono sempre molto colpita da tutti i delitti che si commettono in nome della religione».
È la Sharia…
«No, è un’interpretazione sbagliata della Sharia. Io credo nel laicismo. Nella giustizia laica. La religione deve essere separata dallo Stato».
Nell’Ontario la legge riconosce il diritto della comunità islamica di applicare alcuni elementi della Sharia…
«Sono assolutamente contraria. Un Paese, una legge, un diritto per tutti. Le donne vittime di questo codice parallelo sono spesso fuggite dei loro Paesi proprio per sfuggire alla Sharia. Ritrovarsela in Canada è assurdo».
Fino a che punto il rispetto della cultura originaria di un immigrato deve essere tradotto nella nostra legge?
«Il rispetto delle tradizioni deve fermarsi dove viola i principi generali dei diritti umani».
Pensa all’infibulazione?
«La legge deve bloccare queste cose. Insisto: il rispetto per le tradizioni tribali deve fermarsi dove cominciano i diritti umani».
Possono essere le donne a cambiare l’Islam?
«Secondo me sì. Le religioni sono state create per la felicità delle persone o per la loro infelicità?»
Sembrano parole di papa Francesco.
«Mi fa molto piacere».
Su YouTube c’è il video d’una lapidazione in cui proprio altre donne sembrano le più fanatiche…
«La prima condizione per cambiare questo mondo è la conoscenza. Per questo insisto che le donne devono conoscere la loro religione. Devono trovarne lo “spirito”. Devono studiare».
Quello che non vogliono i fanatici di Boko Haram che hanno rapito quelle ragazze in Nigeria…
«Quelli non hanno niente a che fare con l’Islam. Niente. È il massimo degrado di una certa interpretazione maschilista del Libro».
Ha conosciuto Malala, la ragazzina pakistana ferita dai talebani perché rivendicava il suo diritto a studiare?
«Sì. L’ammiro. Ma più ancora ammiro suo padre. Fu lui a insegnarle a leggere e scrivere, lui a spingerla a studiare, lui a incoraggiarla. Lui a spingerla a tenere un diario sul web. Lui a metterla in contatto con la Bbc. Malala è la vittima di un delitto ma il vero eroe è il padre. Che è riuscito a crescere una ragazza così decisa, così forte, in una realtà difficilissima. Una città piccolissima dove i fondamentalisti dominavano tutto. Per quel padre sarebbe stato naturale, comodo, essere come tutti gli altri maschi. Invece non ha voluto. Ha voluto che la sua famiglia fosse diversa. Ecco l’eroismo: si è chiamato fuori».
Lei che il Nobel lo ha vinto, l’avrebbe dato a Malala?
«L’avrei dato a suo padre».
Se tornerà a Teheran, un giorno, qual è la prima cosa che farà?
«Prenderò in affitto un ufficio vicino a dove facevo il giudice e ci metterò un cartello: Shirin Ebadi, Avvocato dei diritti umani».

Corriere 11.6.14
Come Ben e Claretta. Ma partigiani
Gianna e Neri, ribelli uccisi dall’avversione dei compagni
di Pierluigi Battista


Mirella Serri è una studiosa di letteratura che ha scoperto con il tempo una vena di storica capace di padroneggiare documenti e testimonianze e di dare nuove interpretazioni a momenti cruciali della vicenda culturale nazionale. Ora, con Un amore partigiano (Longanesi, pp. 224, e 16,40), la Serri intreccia narrativa e storiografia con il gusto letterario del dettaglio anche psicologico e la ricostruzione di una storia sinora dimenticata nell’epopea della Resistenza. I soliti, arcigni sacerdoti del dogma potranno gridare per l’ennesima volta allo scandalo e si mostreranno indignati per la profanazione. Ma nelle pagine di Mirella Serri non c’è nessuna profanazione, nessun giudizio storico viene rivoltato, nessuna attenuazione viene a nascondere o minimizzare le turpitudini commesse dalle bande che spadroneggiavano nella Repubblica di Salò. Viene invece raccontata una storia straordinaria di politica e di passione, di tradimenti e di soprusi, di spietatezza e di vendette che si consumano nei luoghi e nei giorni in cui Benito Mussolini verrà raggiunto e giustiziato insieme alla sua Claretta Petacci: un amore partigiano perseguitato nel crepuscolo violento dell’epoca fascista.
I due protagonisti del romanzo storico di Mirella Serri sono i partigiani Gianna e Neri. Sono antifascisti, comunisti, animatori della Resistenza, apprezzati e ammirati dai loro compagni con cui dividono la lotta clandestina. Non tutti i compagni li ammirano però: i più grigi maggiorenti del partito comasco e lombardo non li apprezzano, diffidano del loro ardore, deplorano l’amore che li unisce, fuori dagli schemi convenzionali che la morale del tempo considera invalicabili. Sospettano di due giovani liberi, poco inclini alla disciplina dottrinaria, ardimentosi, nient’affatto lugubri.
Nel fuoco dell’attività partigiana i detrattori di Gianna e Neri non fanno che diffondere tra i loro compagni un’avversione inspiegabile per i due amanti, un’ostilità aspra e dura che nemmeno nella febbre epica di una grande battaglia della libertà riuscirà a sciogliersi. Poi arriva il dramma, che la Serri racconta senza omettere nessun dettaglio terrificante. I due protagonisti dell’«amore partigiano» vengono catturati (presi per qualche soffiata?), trascinati nella Casa del Fascio progettata dal grande architetto Terragni e adibita a luogo di tortura dai complici italiani del sadismo nazista. Qui vengono sottoposti a sevizie inenarrabili. Gianna viene picchiata, violentata, rinchiusa in un armadio disgustoso dove hanno campo libero topi e scarafaggi. Neri è torturato con crudeltà inaudita, riesce a scappare, ma la sua fuga viene paradossalmente usata dai nemici del movimento partigiano per denunciarlo come traditore, come uno che ha ceduto agli aguzzini e ha «parlato».
Non è vero. Ma il partito dei persecutori interni alla Resistenza riesce a far spiccare una condanna a morte per Neri e per Gianna. La vendetta interna al movimento partigiano riesce a strappare un verdetto scandalosamente privo di ogni aggancio con la realtà e con il diritto a difendersi di chi è stato raggiunto da sospetti infamanti.
La forza narrativa del libro di Mirella Serri riesce a intrecciare i destini di due «coppie» che stanno agli antipodi in questo culmine drammatico della storia italiana. A pochi chilometri di distanza un Mussolini cupo, lugubre, alla fine della sua parabola politica, praticamente tenuto prigioniero dai tedeschi in una villa sul lago di Garda, vive la sua storia sempre più tempestosa con Claretta. La fine è vicina, ma Mussolini sente di doversi aggrappare alla sua esuberanza mascolina per segnare una supremazia che oramai non è più scontata. E lei, Claretta, si avvia inconsapevole verso il cruento epilogo che la porterà insieme a Ben, dentro una tragedia in cui non mancheranno momenti di atrocità e di dolore. Saranno i giorni che porteranno all’assassinio di Neri, e poi di Gianna. Nei giorni della Liberazione dell’Italia, un duplice efferato delitto insanguina la Resistenza che trionfa. Ma per anni, anzi per decenni, la sorte di Neri e Gianna verrà occultata, tenuta nell’ombra di un dramma che doveva essere cancellato. Come se la verità di quel duplice assassinio, dentro un’atmosfera corrusca di vendette, rese dei conti e giustizia sommaria, potesse «infangare» la guerra di liberazione. Come se la rappresentazione mitologica di una Resistenza granitica e segnata da una purezza incontaminata non dovesse essere messa in discussione da delitti che richiedono una spiegazione convincente da tanti anni.
Questa storia oggi viene riscritta da Mirella Serri. Un riconoscimento che non risarcirà le famiglie di due caduti della lotta partigiana infamati e barbaramente uccisi dai loro stessi compagni. Ma che permette di rileggere quel passaggio drammatico della storia italiana con occhi più penetranti e meno offuscati dalla faziosità ideologica e dall’omertà politica.

l’Unità 11.6.14
Berlinguer e gli incontri notturni con Aldo Moro


La situazione politica in Italia era sempre caotica, si doveva formare il Governo della “non sfiducia” (o anche detto “delle astensioni”. Si trattava di un Governo monocolore DC, guidato da Giulio Andreotti, che vedeva l’astensione o la non partecipazione al voto di Pci, Psi, socialdemocratici, repubblicani e liberali n.d.r.) e si tennero molti incontri segreti a casa di Tonino Tatò. Le giornate di lavoro erano sempre più lunghe.
In Direzione avevamo allestito uno spazio in cui si poteva cucinare perché non c’era il tempo di andare a casa, e in via dei Polacchi avevamo arredato una cameretta per far riposare Berlinguer. Il 17 febbraio del ‘77 ci fu la cacciata di Lama dall’Università dopo gravi incidenti, scontri furibondi e auto incendiate da parte del movimento universitario. Berlinguer chiuso nel suo ufficio non volle neanche mangiare. Noi eravamo giù nella saletta autisti a guardare la tv che registrava l’ennesima giornata di violenza. Erano circa le 20Anna mi chiamò e salii al secondo piano perché Berlinguer mi voleva parlare. Entrai nel suo ufficio e lui mi consegnò un biglietto con un indirizzo, chiedendomi di mandare via la scorta di polizia e, se possibile, anche la nostra seconda macchina. E mi disse: «tra quindici minuti scendo». Agii di corsa e lasciai la nostra prima macchina all’ingresso di Via di Botteghe Oscure.
Con la seconda Franceschini ed io uscimmo dal garage di Via Aracoeli, scese Berlinguer e andammo al posto indicato. Mi fermai di fronte a un portoncino, Franceschini scese con Berlinguer e suonarono al portoncino che si aprì immediatamente. Erano le 20.30, parcheggiai e davanti a noi c’era un’Alfetta bianca con tre uomini a bordo; davanti all’Alfetta una Fiat 130 nera.
Dopo poco scese un signore dalla 130 e si avvicinò, ci salutò e rispondemmo al saluto. Si presentò, era il Maresciallo Leonardi (capo della scorta di Aldo Moro, poi ucciso con gli altri agenti di scorta in via Fani n.d.r.) con cui iniziammo una piacevole conversazione. Anche lui era preoccupato della situazione politica ed era affascinato dalla nostra macchina corazzata, la considerava efficiente. Ma la piacevole conversazione venne interrotta dall’accensione di una lucetta sopra il portoncino: era il segnale che uno dei due stava scendendo. Dopo pochissimo, infatti, arrivò Berlinguer. Erano già passate cinque ore.
A distanza di pochi giorni dovemmo ripetere quel percorso. Arrivammo alla stessa ora nello stesso posto e noi della scorta continuammo la conversazione con la scorta dell’onorevole Moro. Leonardi infatti scese subito, ci salutammo e ci chiese come mai non avessimo la stessa macchina dell’altra volta. Esclamò «beati voi» quando gli spiegammo che l’Alfa non era dal carrozziere né dal meccanico, mache era nostra abitudine usare due auto diverse per non essere immediatamente riconoscibili. La riunione durò più a lungo dell’altra volta, era notte fonda e noi stavamo chiusi dentro le auto mezzi addormentati.
Alle 2.30 del mattino la luce sul portoncino si accese, qualcuno stava scendendo. Ci fu uno scatto generale, Franceschini schizzò fuori dalla macchina e aprì lo sportello posteriore. Dal portoncino uscì l’onorevole Moro che trovando lo sportello aperto entrò nella nostra auto. Subito corse Leonardi per avvisarlo «Presidente non è questa la nostra macchina» e lui, un po’ spaesato e chiedendo mille volte scusa, scese. Dopo poco arrivò Berlinguer a cui raccontammo la scena che lo divertì molto (...).

l’Unità 11.6.14
Berlinguer oltre il compromesso storico
di Pietro Folena


IL TRENTENNALE DELLA MORTE È GIÀ STATO UN' OCCASIONE MOLTO IMPORTANTE PER MEDITARE SULL'OPERA DI ENRICO BERLINGUER. A Walter Veltroni occorre riconoscere il merito di aver costruito, col film di cui è stato regista e col libro che ha seguito quella produzione, un evento popolare, di memoria collettiva. Tuttavia Veltroni, in compagnia di molti altri, compie un'operazione revisionistica a senso unico, dando quasi l'impressione di voler iscrivere Enrico Berlinguer al Partito Democratico, venticinque anni prima della sua fondazione; identificando il leader del Pci col solo compromesso storico, e dipingendo la sua ultima stagione -salvo che per la questione morale- come un ripiegamento settario.
Proprio sulla questione morale -nelle ore degli scandali del Mosee dell'Expo, e del coinvolgimento di settori dello stesso Pd in questi scandali- occorrerebbe prima di tutto riflettere: e domandarsi quanto la personalizzazione estrema della politica del tempo presente (coi costi che comporta) e il venir meno di un'etica condivisa abbiano aperto la strada ad una nuova tragica degenerazione della politica. Chissà che parole avrebbe usato Berlinguer a fronte di scandali come questi!
Per me il 30° anniversario della morte di Enrico Berlinguer, è l'occasione per tornare sulla questione morale e il rinnovamento della politica, che ho sempre considerato la più importante eredità che ci ha lasciato questo grandissimo leader del '900. Ne I ragazzi di Berlinguer(Dalai editore) ho cercato di ricostruire le ragioni per le quali un'intera generazione divenne comunista: perché Enrico Berlinguer era segretario, e incarnava, con la sua sobrietà, col suo stile di vita, con la sua accurata ricerca di parole sempre dense di significato, un'idea di politica alternativa rispetto a quella arrogante che trasmetteva il Potere, soprattutto quel Potere che agli inizi degli anni 80, col pentapartito, strinse una gabbia sulla società e sul suo bisogno di libertà e di protagonismo. Tutti ricordano la sua magistrale intervista a Eugenio Scalfari.
Non si può avere una visione edulcorata o buonista di Enrico Berlinguer. Egli fu osteggiato - dalla stessa definizione di «questione morale» alla proposta di un radicale rinnovamento del Partito e della politica fino alla linea dell'alternativa democratica da una parte del Partito, custode di un'idea più tradizionale dell'organizzazione politica, più diffidente rispetto all'interlocuzione coi movimenti-a partire da quello femminista fino al nuovo ambientalismo che allora cominciava a prendere forma- e con le tematiche innovative di cui essi erano portatori. La Fgci degli anni 80 accompagnò prima queste scelte di Enrico Berlinguer e poi, dopo l'84, raccolse l'eredità di questo suo lascito. Di quegli ultimi cinque anni della vita di Berlinguer, tra il '79, fine dell'unità nazionale e la sua scomparsa a Padova -davanti ai miei occhi, giovanissimo segretario cittadino del Pci-, rimarrà certamente la storia del duro scontro con Bettino Craxi e di quello che poi sarà chiamato l' «antisocialismo» di Berlinguer. Né vi è dubbio che Berlinguer resistette ad una trasformazione in senso socialdemocratico del Partito: ma questo avvenne non in nome di dogmi del passato, ma di una ricerca aperta sui problemi del mondo, e proprio sul socialismo.
In realtà con questa parte del pensiero e dell'opera di Berlinguer non si sono fatti i conti. È passata l'idea, nella vulgata degli anni '90, poi nel momento della fondazione del Partito Democratico e soprattutto nelle celebrazioni di oggi, che l'unico Berlinguer da rivendicare fosse quello del compromesso storico e dell'incontro, mai compiuto, con Aldo Moro. Vorrei dire che si è un po' abusato del vezzo tipico della sinistra italiana di tirare la storia alle proprie contingenti convenienze. Intendiamoci. Vedo una relazione tra il compromesso storico e la questione morale: non chiedo che si faccia un'operazione speculare a quella compiuta nell'ultimo ventennio. La relazione, tuttavia, non sta nella proposta di alleanze politiche; sta nei contenuti della politica e nei caratteri della società nuova per cui Berlinguer intendeva operare: un diverso modo di consumare e produrre («perché, cosa, come produrre »), anticipando la grande questione ecologica, il rifiuto della violenza e della guerra come soluzione dei problemi, una nuova idea della libertà delle donne, un uso umano delle nuove tecnologie, un' idea diversa della politica. Su questi punti Berlinguer propose un riorientamento del programma fondamentale del Pci, che così faceva sue tante istanze provenienti dal pensiero religioso, soprattutto di quello cristiano sociale, e da una critica umanistica al capitalismo. Berlinguer, già nel corso del periodo in cui si venne logorando la stagione della solidarietà nazionale, cominciò a guardare con occhi nuovi a quello che si muoveva fuori dal Partito e dalla politica. Chissà se davvero, come hanno scritto alcuni suoi biografi, le folle oceaniche di giovani sotto le Botteghe Oscure che nel 1977 contestavano aspramente il Pci, non furono la scintilla di questa riflessione nuova.
Proprio oggi, quando il Partito Democratico è impegnato in una transizione politica, ed esplode una nuova questione morale che, goccia dopo goccia, è stata scavata trasversalmente nel ventennio berlusconiano del conflitto di interessi e della privatizzazione della politica, si tratta di riflettere sulla lezione di Berlinguer: sulla necessità di aprirsi alla società, al mondo del lavoro, e di connettere la transizione politica alla transizione sociale. Questa è l'epoca in cui un diverso modo di produrre e di consumare si impone come necessità non di un'élite, ma sentita a livello popolare, e soprattutto giovanile. È l'unica via d'uscita alla gravissima crisi iniziata nel 2008. Se in onestà si deve fare l'identikit di una parte dei militanti grillini -non certo del loro leader populista-, si trova soprattutto questa idea alternativa di organizzazione della società e della vita, e questo vale ancor più per i comitati e i movimenti che stanno ponendo all'ordine del giorno il tema dei beni comuni, a partire da quello dell'acqua.
Ma più delle parole per Berlinguer contavano i gesti e gli atti. Oggi la sua figura appare agli antipodi di quella del leader vincente, anche nello schieramento progressista: furbo, aggressivo, ipermediatico, un po' guascone. Chissà se non sia molto più grande un comunicatore che non ha un'overdose quotidiana da video, ma che quando parla, tocca i cuori, fa riflettere, lascia il segno. C'è una sola figura contemporanea che, pur meno timida e più espansiva di Berlinguer, sembra incarnare un analogo stile di vita: Papa Bergoglio. Francesco fa della questione morale, nella Chiesa e fuori di essa, non un'armadi demagogia, ma la sferzata per dimostrare col buon esempio che si può esercitare il Potere con la minuscola, in modo sobrio, umile, «modesto » (della modestia che caratterizza il vero democratico, come scriveva Albert Camus). Occorre un Partito Democratico meno arrogante quando esercita il Potere, meno schiacciato sul Palazzo e più aperto e ricettivo nella società. E con Francesco, Berlinguer coltivava una passione per il Santo di Assisi, fino a portare tutto il Pci -e a spingere la nostra Fgci- alla testa del movimento contro il riarmo nucleare e per la pace. «Il folle Francesco», dice ad Assisi Enrico Berlinguer, si batte per convincere i potenti a non fare la guerra: l'utopia dell'uscita dalla guerra nella storia -nell'epoca delle armi nucleari, chimiche, batteriologiche, ipertecnologiche- è uno dei grandissimi lasciti, il più francescano, di Berlinguer. La lezione che ci lascia Enrico Berlinguer sulla questione morale, sul rinnovamento della politica e sulla necessità di mettere al centro i contenuti e le idee forti - i «pensieri lunghi»- può aiutarci davvero molto in questa stagione difficile.

La Stampa tuttoScienze 11.6.14
“Mille luci in diretta: i miei viaggi nel cervello e la voglia di guarirlo”
«Quando lo metti sotto il microscopio a due fotoni, scopri che stai osservando costellazioni di cellule luminosissime»
Intervista di Gabriele Beccaria


«Quando lo metti sotto il microscopio a due fotoni, scopri che stai osservando costellazioni di cellule luminosissime».
Gian Michele Ratto, fisico di formazione ed esploratore dei territori della biologia, racconta che spettacolo sia osservare un cervello in attività, anche se è quello - ingiustamente sottovalutato dai profani - di un topolino da laboratorio, dal Dna manipolato. Le differenze con il nostro non sono poi così abissali e le scintille generate con una molecola fluorescente rappresentano una strada per accedere alle circonvoluzioni degli umani e iniziare a capire i meccanismi di molte malattie, come quella - terribile - che si chiama sindrome di Rett. «Il nostro rappresenta un primo passo, ma necessario, per sperare in una cura per tanti bambini».
La storia di questa ricerca non è affatto conclusa ed è la mancanza di un finale già scritto a rendere tutto più coinvolgente. Il luogo è un laboratorio d’avanguardia, il «Nest» di Pisa - acronimo di «National Enterprise for nanoScience and nanoTechnology» - in cui interagiscono le competenze della Scuola Normale Superiore, dell’Istituto italiano di tecnologia e dell’Istituto Nanoscienze del Cnr. I protagonisti sono Ratto, ricercatore di quest’ultimo ente, con i suoi collaboratori e studenti, mentre tra i personaggi principali ci sono alcuni topolini e a recitare nel cameo è una medusa, la Victoria aequorea. Quanto alle scene madri, sono proprio quelle cerebrali le più spettacolari, là dove le osservazioni dei segnali di luce si intrecciano con misurazioni tanto complesse quanto snervanti.
«E’ da quattro anni che inseguiamo l’obiettivo e ormai siamo vicini», dice Ratto, che oggi sarà protagonista di uno degli incontri della serie «Virtual immersions in science», organizzati dalla Normale per svelare quante emozioni e quanta creatività ci siano accanto alla classica razionalità degli scienziati. «C’erano dei momenti in cui disperavo». Ma da un po’ gli incubi notturni si sono placati e l’entusiasmo del team va al massimo. «Stiamo imparando a fare le misure, misure che nessuno prima di noi ha fatto, in un cervello in vivo».
Ratto ha avuto l’idea di utilizzare una molecola fluorescente, ricavata dalla medusa e scoperta proprio al «Nest». In gergo si tratta di una molecola geneticamente modificata, «addestrata» per uno scopo preciso. Dopo averla fatta produrre dalle cellule cerebrali di un topolino attraverso un gene manipolato, è in grado di emettere un segnale luminoso che «porta all’esterno due tipi di informazione molto importanti: i livelli di pH, vale a dire l’acidità, e quelli di cloro nei neuroni».
Fondamentali per il team sono i messaggi contenuti in una sostanza così elementare come il cloro. Quando nei neuroni sale a concentrazioni troppo alte, il sistema inibitorio del cervello tende ad andare in tilt, lasciando mano libera all’altro sistema, quello eccitatorio, e induce così uno squilibrio che assomiglia molto alle crisi epilettiche. Nei topolini - e si pensa nell’uomo - i giusti livelli si stabilizzano solo durante le prime fasi dello sviluppo, da cuccioli, purché qualche anomalia - per esempio genetica - non si manifesti, mandando in frantumi la fragile architettura dualistica ideata dalla Natura e con la quale si dosano senza sosta colpi di acceleratore e altri di freno. In questo caso le conseguenze sono gravi: l’ipotesi più accreditata è che sia coinvolta non solo l’epilessia. Anche patologie come l’autismo, la sindrome dell’X fragile e la sindrome di Down sono associate a errori nello sviluppo della regolazione del cloro. Ma a Pisa si ipotizza che una situazione simile possa verificarsi anche nella sindrome di Rett: in questa malattia avviene un blocco dello sviluppo nei primi anni di vita, seguito da una sconvolgente regressione, che fa perdere le abilità già acquisite, come la capacità di camminare e il controllo del linguaggio.
Ecco perché riuscire a calcolare con precisione infinitesimale le quantità di cloro diventa così importante. Ma la misura si è rivelata difficile: i cambiamenti di cloro e di pH, infatti, sono «codificati» dal colore della proteina e il problema con il quale il gruppo di Ratto si è scontrato è che il tessuto cerebrale modifica il colore stesso: «Avviene una distorsione cromatica come quando si guarda un paesaggio sottomarino. La proteina che abbiamo progettato cambia continuamente, a volte perfino di topolino in topolino». E’ stata quindi necessaria un’ulteriore idea: associare una seconda proteina che permettesse di evidenziare tutte le metamorfosi della tinta. Come uno spettatore che osserva una serie di oggetti salire e scendere dalle profondità del mare, sorprendendosi delle loro trasformazioni e poi decifrandole, così Ratto si sta finalmente avvicinando alla meta: capire i tempi esatti con i quali il cloro si stabilizza e consolida il sistema inibitorio del cervello.
Grazie alla collaborazione inconsapevole della medusa e dei topolini - spiega - si potranno trasferire i dati ottenuti dall’analisi dei modelli genetici di molte malattie neurologiche a noi umani e la speranza - un giorno non troppo lontano - è portare alla luce tutti i meccanismi in gioco, quelli standard e quelli alterati. Se un primo finale si intravede all’orizzonte, con la preparazione di un articolo su una rivista scientifica, altre storie possibili prendono forma. «Adesso la mia grande curiosità - aggiunge Ratto - è proprio scoprire se la sindrome di Rett sia legata a un’alterazione dei livelli di cloro durante lo sviluppo. Non è ancora detto che sia così, ma dobbiamo scoprirlo».
Il fisico-biologo si prende una breve pausa nel racconto della sua avventura di confine tra discipline diverse e ringrazia la fondazione Telethon, «senza i cui finanziamenti sarebbe stato difficile arrivare fin qui». La ricerca, infatti, si alimenta di intelligenza come di fondi e si sviluppa lungo vaste reti di possibilità e perfino di casualità. Ed è così il cloro riemerge sulla scena. «Esistono diversi farmaci che modificano la sua regolazione e che sono ben sperimentati e ben tollerati: si tratta dei diuretici. Se si avesse la conferma che la patologia è accompagnata o favorita dagli scompensi di questa sostanza, allora avremmo a disposizione un nuovo bersaglio terapeutico. L’individuazione del meccanismo, di fatto, si traduce in un’opzione di cura». Tradotto in parole più semplici: «Ripescare farmaci già esistenti e trovare utilizzi che in origine non avevano: ecco la risposta più veloce che si possa immaginare per affrontare una malattia».
E’ la prova, questa, che non c’è un finale predeterminato. Le sorprese sono continue e richiedono cervelli più che pronti, in cui le costellazioni di cellule sono spinte al limite delle prestazioni. «Non esagero a dire che i nostri studenti sono tra i migliori d’Italia. A loro chiediamo sia un background in fisica sia uno in biologia, con salti di paradigma scientifico davvero impegnativi. Ed è una ragione per la quale i tassi di insuccesso sono elevati. Ma quelli che ce la fanno ti sfidano in ogni momento. Non hanno pietà ed è giusto che non l’abbiano». E quando si affaccia l’ultima domanda - «trovano sempre lavoro?» - la risposta suona, purtroppo, scontata: «Sì. Ma quasi mai in Italia».

La Stampa TuttoScienze 11.6.14
Cosa si nasconde dentro la cometa?
La missione con una trivella made in Italy
“Porteremo alla luce i mattoni della vita”
di Antonio Lo Campo


Dopo l’ultima «virata», avvenuta la scorsa settimana, la sonda «Rosetta» dell’Esa, l’Agenzia spaziale europea, si appresta a compiere l’ultimo tragitto verso il suo obiettivo, la cometa «67P/Churyumov-Gerasimenko».
Dopo la lunga traversata nel Sistema solare (il lancio avvenne nel 2004), l’appuntamento si avvicina e scatterà il prossimo novembre: dal corpo principale verrà rilasciato un piccolo modulo di atterraggio, che dovrà «aggrapparsi» con le proprie gambe al nucleo della cometa, quasi come le fiocine del capitano Ahab con Moby Dick. Così il «lander» tenterà - per la prima volta nella storia - l’atterraggio sul nucleo. Un’impresa al limite, condotta su un corpo celeste particolarmente turbolento. Tanto che Enrico Flamini dell’Asi, l’Agenzia spaziale italiana, ha voluto intitolare con ironia la relazione - «Rosetta e Philae: sono pazzi questi europei» - presentata al convegno organizzato venerdì scorso al Campus Bovisa del Politecnico di Milano: «“Rosetta”-“Philae”: pizzicare una cometa!».
Se c’è ironia, c’è anche la consapevolezza che l’atterraggio è ancora più rischioso del famoso «rendez-vous» tra la sonda «Giotto» e la cometa di Halley nel 1986. «In realtà sappiamo poco o nulla della cometa 67P, della sua composizione e anche del punto su cui atterreremo - spiega Amalia Ercoli Finzi del Politecnico di Milano, responsabile del progetto della trivella “SD2” installata proprio sul modulo d’atterraggio batezzato “Philae” -. D’altra parte andiamo là proprio per fare nuove scoperte. Finora tutto è andato bene e i dati telemetrici ci hanno indicato che gli strumenti, compresa la nostra trivella, stanno bene e funzionano».
“SD2” - nota in gergo tecnico come «driller» - è stata ideata e sviluppata dalla Selex ES, società del gruppo Finmeccanica, e rappresenta lo strumento-chiave della missione. «L’idea è nata nel 1997 - sottolinea Piergiovanni Magnani, l’ingegnere che ha studiato questo strumento unico - assieme all’idea rivoluzionaria di una sonda destinata a “colpire” una cometa. E abbiamo realizzato tutto in tempi brevi: in appena tre anni il “driller” è stato consegnato. La grande sfida tecnologica è stata quella di realizzare un sistema di trivellazione che dovrà operare su un nucleo a -160° centigradi, in un ambiente decisamente ostile e sconosciuto».
La trivella pesa 4 chilogrammi, più un chilo di parti elettroniche. A bordo - aggiunge Magnani - «un’unità elettronica a 4 schede che ne gestisce le operazioni e può fronteggiare eventuali anomalie. Ha anche una sorta di “girello”, con 26 piccoli contenitori, per i campioni che dovranno essere recuperati: prima verranno scaldati da speciali fornetti, i cui vapori verranno in seguito analizzati dagli strumenti». La punta dello strumento potrà perforare la superficie fino a 25 centimetri di profondità.
«L’idea iniziale - spiega Ercoli Finzi - era quella di realizzare una missione che recuperasse 10 chili di ghiaccio cometario e lo riportasse a Terra. La versione attuale, invece, prevede di recuperare i campioni per studiarli direttamente sulla cometa. E, quindi, si capisce come il “driller” sia un vero e proprio gioiello tecnologico, in tutti sensi. D’altra parte - dice - le lame sono di diamante, i fornetti di platino e le lenti di zafiro...».
I campioni forniranno informazioni inedite. «La speranza - osserva - è quella di trovare elementi che permettano di risalire ai cosiddetti “mattoni della vita”. Il sogno sarebbe di riuscire ad arrivare alla scoperta di gruppi di aminoacidi. Ma, nell’attesa, incrociamo le dita e concentriamoci sull’arrivo sulla cometa. Poi tutto ciò che arriverà dopo sarà comunque un successo».

Corriere 11.6.14
Nella nostra galassia
Cento milioni i pianeti in grado di ospitare forme di vita complessa
Superiore a quella di organismi microscopici. Ma gli stessi scienziati precisano: «Non intendiamo “vita intelligente” e nemmeno l’effettiva presenza»
di Paolo Virtuani

qui

La Stampa TuttoScienze 11.6.14
Il nostro volto modellato a forza di pugni


Che cosa ha contribuito all'evoluzione dei volti tra gli antenati scimmieschi degli esseri umani? La versione preistorica di una scazzottata al bar per questioni di donne e cibo, secondo uno studio dell’Università dello Utah, pubblicato sulla rivista «Biological Reviews». La ricerca sostiene che il volto umano - in particolare quello dei nostri antenati australopitechi - si sia evoluto per minimizzare i danni da colluttazione durante i combattimenti tra maschi. L’ipotesi mette in discussione la teoria di lunga data che attribuisce l'evoluzione della morfologia facciale umana alla necessità di masticare cibi resistenti e duri, come le noci. «Quando gli umani moderni combattono, il volto è il primo obiettivo - spiegano gli autori - e ciò che abbiamo scoperto è che le ossa che subivano i tassi maggiori di fratture appartenevano alle stesse aree del cranio che avevano aumentato la propria robustezza nel corso del tempo. Le ossa sono anche quelle che mostrano le maggiori differenze tra maschi e femmine». E infatti questi tratti sono apparsi nei reperti fossili approssimativamente nello stesso periodo in cui i nostri antenati hanno sviluppato le «giuste» proporzioni della mano per sferrare un pugno.

l’Unità 11.6.14
Il viaggio a zig zag di Luigi Malerba
A otto anni dalla scomparsa è più vivo che mai tra ristampe e grandi omaggi
di Sandra Petrignani


«HO SEMPRE DESIDERATO VIAGGIARE A ZIG ZAG, FARE DIGRESSIONI E DEVIAZIONI COME I NOSTRI ANTENATI CHE VIAGGIAVANO IN DILIGENZA» scriveva Luigi Malerba introducendo Il viaggiatore sedentario, la raccolta del 1993 dei suoi scritti sulla Cina e «altri Orienti» per dirla con Giorgio Manganelli, un altro scrittore che lui amava e che lo amava. E aggiungeva: «Un tempo si partiva per viaggiare, oggi nella maggioranza dei casi si parte per arrivare ». A otto anni dalla sua scomparsa (è morto a Roma a 81 anni, nel sonno, per le conseguenze di un enfisema e altri sconquassi) questo viaggiare a zig zag, questo partire per viaggiare e non per arrivare – dunque controcorrente – mi sembra una precisa rappresentazione del suo lavoro, in un momento in cui la sua opera, dopo un periodo di indecoroso inabissamento, torna massiccia per la felicità di chi non l’ha mai dimenticato e per conquistare, come immagino avverrà, tanti nuovi lettori.
In attesa del Meridiano Mondadoriano, nella primavera 2015, ha cominciato la Quodlibet proponendo nei giorni scorsi, nella collana «Compagnia Extra» diretta da Ermanno Cavazzoni, le spettacolari Galline pensierose del 1980, definite «zen» da Italo Calvino. Nato come testo per bambini si è subito rivelato «uno specchio deformante della generale stupidità umana», così lo definisce Cavazzoni, che riconosce in Malerba «uno dei migliori scrittori italiani del secondo ‘900» e, per quanto lo riguarda, fra gli autori che lo hanno influenzato di più «per la sua maniacalità», per il suo tono «leggero e punzecchiante». Oggi le Galline- vecchie e nuove più 15 inedite - sono in tutto 155: c’è quella che, finita in mezzo al trambusto di uomini e cavalli in una strada, si convince di aver partecipato alla battaglia di Waterloo e va in giro orgogliosa perché testimone di un fatto storico; quella che inventa la ruota, ma nessuno ne capisce l’importanza; quella che cerca in cielo la Costellazione della Gallina che però la delude perché l’uovo non lo fa; quella che pensa di avere un profilo etrusco; quella pazza che si crede chicco di grano, e scappa davanti alle altre galline, poi guarisce ma scappa lo stesso, perché pensa che le compagne la vedano ancora come chicco di grano...
LE INVENZIONI LINGUISTICHE
Paradossi, capovolgimenti, mise en abyme, scatole cinesi, situazioni labirintiche, invenzioni linguistiche, una comicità sottilmente amara sono gli ingredienti principali di una scrittura che ha trovato subito sistemazione in libri come La scoperta dell’alfabeto, Il serpente, Salto mortale piovuti negli anni Sessanta con una forza innovativa e sperimentale capace però di non alienarsi completamente il pubblico, grazie a un modo stralunato, vagamente infantile, ma sornione, di vedere il mondo. Tutti e tre questi importanti titoli sono sbarcati in questi giorni in libreria e in e-book o lo saranno entro giugno per Mondadori, insieme a Il pianeta azzurro, Il fuoco greco, Testa d’argento, Il circolo di Granata, Dopo il pescecane.
«Il fatto che, in tempi di sfrenata omologazione quali sono i nostri, torni in commercio così massicciamente un autore tanto originale, è un buonissimo segno» osserva Paolo Mauri che ha scritto nel 1977 il primo studio monografico dedicato a Malerba nella celebre collana Il Castoro della Nuova Italia (volumetti adorati dagli studenti che li chiamavano i castorini). Mauri è stato anche legato da un’amicizia più che trentennale all’autore del Pataffio (a proposito ritroveremo questo romanzo storico, ambientato nel Medio Evo, il prossimo febbraio dalla Quodlibet come pure il saggio Strategie del comico) e lo ha avuto fra i collaboratori più significativi quando diresse il trimestrale Cavallo di Troia, negli anni ’80 che «spiritoso e goliardico, si proponeva di esplorare l’illecito in letteratura, passando dal gioco di parole alla delazione, dalla recensione piratesca all’intervento allegorico o giocoso». Era il periodo di un’avventura editoriale, la Cooperativa degli Scrittori – che pubblicava la rivista - tentata dal Gruppo ’63 in polemica con la grande editoria, per ridare agli scrittori il potere di scelte «dal basso» nel clima di controcultura sessantottesco ancora diffuso. Un’avventura in cui Gigi, così gli amici chiamavano sempre Malerba, si era buttato con entusiasmo, ma destinata a un rapido fallimento.
Il fallimento non è del resto inevitabilmente iscritto nell’orizzonte di una lingua letteraria che procede per sottrazioni, menzogne, camuffamenti, isterie, sarcasmi? E non è la sua comicità un modo amaro e insieme demistificante di farvi fronte? «Certo quando si parla della comicità di Malerba» spiega Paolo Mauri «non si deve pensare alla declinazione contemporanea, sfottente e caricaturale che strappa risate meccaniche e superficiali. La sua era una comicità liberatoria e paradossale, problematica, fredda. Non a caso amava un comico che non ride mai, Buster Keaton».
«Gigi era spesso scontento degli altri» dice la moglie Anna Lapenna. «Era un solitario, litigioso, impaziente e intollerante. Intollerante nel senso che non tollerava le ingiustizie, le cose storte. Di se stesso diceva: “Sono antipatico, e potrei essere odioso se mi ci metto”. Veniva percepito scostante, perché era molto timido. Ma era leale, coraggioso e generoso». Ricorda con un brivido dell’antica paura le battaglie ambientaliste del marito a Orvieto, dove abita tuttora la loro antica casa. «Si beccò cinque processi, e li vinse tutti, ma che fatica!» Orvieto gli deve molto, se ha conservato il suo borgo medievale che la speculazione edilizia voleva far fuori, ma non c’è nemmeno una strada in città dedicata allo scrittore…
«È la riconoscenza che l’Italia riserva ai suoi artisti» osserva Mario Fortunato, uno scrittore che, essendo vissuto parecchio in Germania, constata come i tedeschi abbiano conservato interesse per Malerba, continuando a pubblicarlo senza interruzioni, anche quando da noi veniva lasciato uscire dal catalogo. «Gli stranieri amano quel tipo di comicità popolare e stralunata, felliniana se vogliamo, che era una caratteristica della nostra cultura e che abbiamo perso quasi del tutto». E un altro poeta e narratore più giovane - è del ’63 - Paolo Nori, che con Cavazzoni ha tenuto recentemente a Bologna delle letture di Malerba, dice che da subito, da quando scoprì Il serpente solo nel ’96, lo colpì nella sua scrittura «la misura nell’ardimento» e una capacità di essere originale lasciandoti però la traccia di un pensiero che diventa «strumento per stare al mondo».
Il Meridiano mondadoriano è una consacrazione che viene da lontano. Gigi firmò il contratto riluttante («ma i Meridiani sono per i morti!» diceva) senza una scadenza precisa. Negli anni si sono accumulati altri titoli, che non entrano tutti in un volume solo. La scelta è stata sofferta, difficile. Qualche titolo è ancora incerto. «Ma il saggio introduttivo di Walter Pedullà è bellissimo » annuncia Anna, e la cronologia, «di grande respiro, puntigliosa», è curata dall’italianista Giovanni Ronchini, autore di Dentro il labirinto (Unicopli), studi sulla narrativa di Luigi Malerba. Il cui vero nome era Bonardi, ed è l’immagine di un uomo buono, coi denti stretti intorno alla pipa e le magre gambe accavallate, acido solo con i cattivi, che mi piace, concludendo, ricordare.

Corriere 11.6.14
«Masters of Sex» ritratto di psicologie
di Aldo Grasso


«Masters of Sex» è un gioco di parole fra «master» (maestro) e Masters William, il ginecologo statunitense che con la psicologa Virginia Johnson redasse il primo studio approfondito sul sesso, un lavoro durato 11 anni e sfociato nel famoso libro La risposta sessuale umana (1966), scritto in freddo linguaggio medico e pubblicizzato solamente fra gli addetti ai lavori, ma che divenne subito un best seller. Era la prima volta che la medicina si occupava non del dolore ma del piacere.
Ispirata al romanzo biografico di Thomas Maier, Masters of Sex: The Life and Times of William Masters and Virginia Johnson , scritta da Michelle Ashford e interpretata da Michael Sheen e Lizzy Caplan, la serie racconta gli anni ardimentosi delle ricerche (su cui incombeva l’interdetto della depravazione) e la tortuosa vicenda sentimentale dei due (Sky Atlantic, lunedì, ore 21,10).
Dato l’argomento, la serie poteva scadere nel racconto pruriginoso, in una sorta di pornografia «scientifica» giustificata dal camice bianco. Se le prime due puntate appaiono eccessivamente didascaliche, la serie prende quota dal momento in cui le psicologie dei singoli vengono meglio individuate e descritte. William è un uomo complesso, mosso da una grande intuizione (esplorare la sfera più privata dell’uomo) che si ritorce spesso contro di lui, prigioniero com’è di una cultura maschilista. Più sfumata e complessa la figura di Virginia Johnson, figura di donna indipendente, emancipata, anche se deve fare i conti con i suoi fallimenti privati e due figli da crescere.
Come spesso succede nelle serie americane, la ricostruzione è impeccabile (persino la fotografia ricorda i film hollywoodiani degli anni 50, con gli immancabili letti separati, come imponeva il Codice Hays) e la scrittura riesce a dispiegarsi in molti registri.

il Fatto 11.6.14
Cannes sbarca nella Capitale
di Anna Maria Pasetti

All’insegna del ritorno dell’Associazione Nazionale Esercenti Cinematografici (ANEC) Lazio (nel 2013 assente) si ripropone quest’anno Le vie del cinema – Cannes a Roma, ovvero il meglio del principale festival del mondo che la Capitale offre fino al 16 giugno in quattro cinema. Diretta e voluta da sempre da Georgette Ranucci, la rassegna giunge alla sua 18ma edizione grazie anche al supporto dell’assessorato alla Cultura di Roma Capitale e della Regione Lazio: per quest’ultimo si è espressa l’assessore Lidia Ravera, salutando l’iniziativa quale “uno dei modi migliori di spendere i soldi pubblici”. Accanto alla Capitale sono coinvolti altri comuni laziali, per ridurre il gap tra Roma e il resto del Lazio. Nel programma 8 titoli del concorso, 10 dalla Quinzaine des Realisateurs, 1 da Un Certain Regard e uno dal fuori concorso. Da segnalare la presenza della Palma d’oro Winter Sleep del turco Nuri Bilge Ceylan e dei premiati (prix du Jury) Mommy di Xavier Dolan e (miglior sceneggiatura) Leviathan del russo Andrey Zvyagintsev, ma anche di Ken Loach (Jimmy’s Hall) e i fratelli Dardenne (Deux jours, une nuit). Come nel 2013 il Fatto è partner dell’iniziativa, accanto a Radio Dimensione Suono, La Nottola e per la prima volta ai Venice Days – Giornate degli Autori. Il programma intero su www.aneclazio.it