giovedì 12 giugno 2014

l’Unità 12.6.14
Ai lettori

Oggi l’assemblea dei soci è chiamata a decidere sulla ricapitalizzazione della Nie o sulla sua messa in liquidazione. In gioco c’è il futuro de l’Unità oltre che i posti di lavoro di giornalisti e poligrafici. È il momento dell'assunzione di responsabilità, piena e trasparente, da parte di tutti. Non accetteremo ulteriori rinvii, già troppo tempo è andato perduto. Così come non subiremo soluzioni ambigue e pasticciate. L’Unità esce anche oggi senza firme, ma se continua ad essere in edicola è solo grazie al sacrificio dei lavoratori, ancora senza stipendi e senza certezze.
Il Cdr

Vogliono un partito di servi
La chiamano “compattezza” ma intendono unanimismo fasciostalinista
Chi crederà ancora adesso alla esistenza di democrazia e di libertà di coscienza nel Partito democratico?
l’Unità  12.6.14
Il Pd sostituisce Mineo Riforme, si accelera
Decisivo l’incontro tra Renzi e Berlusconi la prossima settimana
Il senatore civatiano: «È un autogol per il governo e per il partito»
Era stato avvertito: allinearsi o finire accompagnato all’uscita. La parola d’ordine era una: compattezza, come ha detto Boschi nella giornata: «Deciderà il gruppo del Pd. L’importante è che ci sia compattezza».


Alle nove di sera, con una decisione a maggioranza nell’ufficio di presidenza del gruppo Pd al Senato, Corradino Mineo è stato sostituito in commissione Affari Costituzionali da Luigi Zanda, che dei senatori dem è capogruppo. Mineo, in effetti, era considerato l’ago della bilancia sui voti delle riforme in commissione, ed è noto il suo dissenso verso il ddl del governo.
«È un errore, non è utile, non conviene né al governo, né al partito cercare di far passare in commissione le riforme con un muro contro muro, è un autogol per il governo e per il partito », commenta furibondo il deputato Pd vicino a Civati.
Una mossa che blinda il percorso dello stesso disegno di legge, ma aumenta i malumori nella maggioranza. Ieri Roberto Calderoli, relatore del testo che ha organizzato l’ostruzionismo dell’opposizione, sembrava tranquillo: «Nove decimi è fatta». L’accordo è vicino, ma diversi tasselli devono andare a posto. Matteo Renzi è stato chiarissimo con i suoi: avanti come panzer. Primo voto entro l’estate per chiudere le quattro votazioni entro la fine dell’anno, con eventuale referendum confermativo a primavera prossima.
L’uscita di Mineo, che non era membro permanente della commissione, evita la temuta «palude» della Affari Costituzionali, con un solo voto di scarto - 15 contro 14 - per la maggioranza. La prossima settimana sarà «decisiva», conferma il sottosegretario alle Riforme Luciano Pizzetti: «Contiamo di portare il provvedimento in aula la prima settimana di luglio ». Trattative anche con le Regioni sull’articolo 117 della Costituzione che riguarda la ripartizione delle competenze con lo Stato. Altrettanto ottimista il ministro Maria Elena Boschi: «C’è solo da limare qualcosa».
Di certo, però, il premier vuole parlare di persona con Silvio Berlusconi per capire fino a che punto il patto del Nazareno più che tenere può essere rinegoziato con reciproca soddisfazione. L’incontro è previsto la settimana prossima, data (provvisoria) martedì 17 giugno. Forza Italia non intende accettare il “modello francese” che consegnerebbe un’assemblea - questi i timori - troppo squilibrata a sinistra. Renzi tiene duro sul Senato non elettivo e senza stipendio, mentre è disposto a discutere sulla platea (tra sindaci, governatori e amministratori locali) e sui poteri, ferma restando la fine del bicameralismo perfetto, e quindi la fiducia al governo e il bilancio dello Stato. Per ora i contatti tra Verdini e Romani e gli ambasciatori Democrat sono andati a vuoto.
La speranza è che i due leader «se la risolvano da soli». Con una carta che il premier è pronto a giocare: ventilare, se le riforme vanno in porto senza che il feeling si interrompa, un presidente della Repubblica «non ostile» e magari persino «condiviso».
All’asse Pd-Fi, sia pure ammaccata dal voto per le Europee è appeso, quindi, il destino delle riforme istituzionali. Che si incrociano con il futuro dell’Italicum: con gli azzurri terzo partito, l’ex Cavaliere non vuole più il ballottaggio nella legge elettorale e il governo cerca correttivi che salvino l’impianto (anche se è tornata la tentazione del Mattarellum che tanto piace a Renato Brunetta).
AVVERTIMENTI E MORAL SUASION
Intanto, i renziani ne hanno colpito uno per avvisare gli altri: rimosso dalla commissione il Popolare per l’Italia Mario Mauro, ex ministro della Difesa del governo Letta non riconfermato. Mauro, critico con il progetto di riforma targato “Matteo”, è stato sostituito dal suo capogruppo Lucio Romano e non l’ha presa bene: «Casini si è prestato a un omicidio politico ordito dal silent killer Renzi». E ieri ha rilanciato: intende sedersi al suo posto in commissione ed «esercitare il diritto di voto», senza imbarazzo per la presenza del sostituto. Al civatiano Corradino Mineo già fischiavano le orecchie. Assente all’ultimo voto, in cui la maggioranza è andata sotto, in quanto impegnato in una telefonata subito fuori dalla sala. «Il problema esiste ma sarà il gruppo a decidere» spiega Pizzetti. Infatti ha deciso. Prima però era stato avvertito: allinearsi o finire accompagnato all’uscita. La parola d’ordine era una: compattezza, come ha detto Boschi nella giornata: «Deciderà il gruppo del Pd. L’importante è che ci sia compattezza ».
Avvertimento arrivato con nettezza anche dalla presidente della commissione Affari Costituzionali Anna Finocchiaro: «In un organismo in cui c’è un solo voto di scarto, una critica così radicale non è solo una espressione di libertà di coscienza ma pone un’alternativa tra fare e non fare le riforme». E poi: «Eserciti la sua libertà di coscienza in aula».
Dove, cioè, un voto in meno non costituirebbe un pericolo. Insomma, l’assenza di vincolo di mandato funzionerebbe in rapporto all’aula, mentre la situazione sarebbe diversa in commissione dove è il gruppo di appartenenza a designare i commissari che, dunque, proprio il gruppo devono rappresentare. Anche perché Renzi non può certo finire sconfitto in commissione, portando magari a casa lo stesso la riforma ma con i voti determinanti di Berlusconi. Anche di questo argomento hanno parlato il capogruppo Luigi Zanda e Vannino Chiti in un colloquio ieri a Palazzo Madama. Intanto Mineo ribatte: «Non mi presterò a tentativi di ribaltone o a strizzare l’occhio all’ostruzionismo della Lega, ma militarizzare la commissione sarebbe un grave errore».

Renzi da Pechino:
«Noi non molliamo di mezzo centimetro, siamo convinti a cambiare il Paese. Le riforme non si annunciano, si fanno, e non lasciamo a nessuno il diritto di veto. Contano più i voti degli italiani che il diritto di veto di qualche politico».

il Fatto  12.6.14
Renzi “epurator”, fa fuori Mineo e Chiti
“Vi faccio vedere io quanto conta il 40,8”
I senantori “dissidenti” sostituiti dalla commissione affari costituzionali di Palazzo Madama. Era già toccato a Mauro
di Wanda Marra


Sabato dirò al partito dove andare con il 40,8%”: una promessa, ma anche una minaccia. Matteo Renzi torna oggi dal viaggio in Cina e praticamente già sotto la scaletta dell’aereo (almeno metaforicamente) lo aspettano ministri, collaboratori, amici e oppositori. Perché è stato fuori solo 4 giorni e i dossier da esaminare si sono accumulati. Con una serie di grane già scoppiate o sul punto di scoppiare. Ieri il governo è andato sotto in Aula a Montecitorio sulla responsabilità civile dei magistrati. Il premier, anche se cerca di minimizzare, è arrabbiatissimo. Tanto che a stretto giro di posta fa sapere che si rimedierà in Senato: “È una tempesta in un bicchier d’acqua”, “una fase del processo legislativo": la maggioranza al Senato cambierà la norma. Visto quel che è successo a Montecitorio, dove i franchi tiratori dem sono riusciti a mandare sotto una maggioranza amplissima, con i numeri risicati in Senato, i rischi aumentano. Senza voler scomodare chi immagina trattative inconfessabili con Berlusconi.
PER OVVIARE ai dissensi sulle riforme, Renzi ieri a Palazzo Madama ha vestito i panni dell’“epurator”, sostituendo Corradino Mineo, nella Commissione Affari costituzionali, che continuava a restare su posizioni distanti da quelle del premier. Nonostante il pressing su di lui. Al suo posto un pezzo da novanta: il capogruppo Luigi Zanda. “Una ferita all’autonomia del singolo parlamentare e al pluralismo interno del Pd, un segno di debolezza”, commenta Stefano Fassina. Anche perché nella stessa riunione dell’ufficio di Presidenza, il Pd ha fatto fuori dalla Prima commissione anche l’altro dissidente illustre, Vannino Chiti e Luciano Pizzetti. L’appiglio è formale: Mineo non era un membro permanente della commissione, dal momento che aveva sostituito Marco Minniti, andato al governo. Gli altri due membri-sostituti erano Roberto Cociancich al posto di Luciano Pizzetti, anche lui entrato nel governo, e Migliavacca al posto di Vannino Chiti, che ha avuto un ruolo da presidente della commissione Politiche Ue. Fatto sta che alla fine l’unico sostituto non confermato è Mineo e Chiti resta fuori. L’altro dissidente, Mauro, era già stato estromesso dal Pi il giorno prima. Un metodo forte per chiarire che nessun ostacolo ci dev’essere sul cammino delle riforme. “Il gruppo del Pd è compatto nel voler fare le riforme, non era possibile tenere appeso un paese alle voglie di protagonismo di Mineo”, spiega un senatore dem. E poi, “Renzi deve presentarsi all’incontro con Berlusconi facendo vedere che vuole andare fino in fondo e che ha risolto i problemi nel partito”. Se saranno risolti, si vedrà solo strada facendo. Intanto sabato c’è l’Assemblea Pd che deve eleggere il presidente: il candidato più forte è Matteo Orfini, voluto dallo stesso segretario, ma che si trova in mezzo a una serie di veti da parte della minoranza bersaniana. In forse anche la nomina della nuova segreteria sabato: sono molte le tensioni, anche tra gli stessi renziani, rispetto a ruoli centrali come l’Organizzazione. Per cui Renzi sta pensando di rimandare tutto. Ma chi lo conosce ritiene che deciderà venerdì notte da solo. A stretto giro di posta i cambi all’ufficio di presidenza del gruppo parlamentare a Montecitorio, che il premier fa fatica a controllare. Domani infine il Cdm con i provvedimenti sulla Pa e i poteri a Cantone.   

La Stampa 12.6.14
Riforme, pugno duro di Renzi in Commissione:
Silurato il dissidente Mineo, al suo posto Zanda
Il Pd fa fuori dagli Affari costituzionali il senatore che firmò ddl Chiti:
il suo voto poteva essere decisivo. Verso vertice Renzi-Berlusconi

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La Stampa 12.6.14
Affari costituzionali
Il Pd “epura” Mineo dalla Commissione
L’escluso: “Autogol per Renzi e il partito”
di Antonio Pitoni


Messo alla porta come un dissidente qualunque del Movimento 5 Stelle. E senza neppure una votazione on line. E’ bastato un attimo, a Matteo Renzi. Giusto il tempo di togliersi la giacca da presidente del Consiglio e indossare quella da segretario del Pd per mettere alla porta della commissione Affari costituzionali del Senato, Corradino Mineo. Sebbene, formalmente, la decisione sia stata presa («a larga maggioranza») dall’ufficio di presidenza del Pd in Senato. Un altro caso Mauro, insomma, all’indomani dell’epurazione dell’ex ministro su diktat di Casini, stavolta tutto interno al Pd. «E’ un errore, un autogol per il governo e per il partito», commenta a caldo l’ex direttore di Rai News24, reo di non essersi allineato alle posizioni dell’esecutivo e della maggioranza del partito sulla riforma del Senato.
Epilogo di un braccio di ferro che già in giornata, diversi indizi avevano lasciato intravedere. A cominciare dal silenzio del capogruppo a Palazzo Madama, Luigi Zanda («preferisce non parlare», spiegavano dal suo staff), a cui il ministro Boschi aveva demandato la soluzione del caso Mineo. E al posto del giornalista-dissidente, sarà proprio Zanda, già da questa mattina, a subentrare. «Non è utile né a Renzi né al governo né al partito cercare di far passare in commissione le riforme con un muro contro muro. E’ «un autogol per il governo e per il partito», replica Mineo alla sostituzione appresa «solo in via informale da un collega». Il senatore Walter Tocci, rivela l’esponente dell’area civatiana del Pd, tra i firmatari del ddl Chiti (che prevede il mantenimento del Senato elettivo, ndr). «E’ una decisione che non capisco e non approvo – spiega -. Per ora posso dire che non capisco la ratio di questa scelta: non sono io il problema, il problema è uscire dall’impasse». Che nel pomeriggio, a poche ore dalla scomunica, lo stesso Mineo argomentava così: «Temo che il problema sia che l’accordo con Berlusconi sulle riforme non c’è e ora, per venire a capo della matassa stiano cercando diversivi mediatici. Se non c’è più Mineo che fanno? Le riforme 15 a 14? Non era Renzi a dire che si dovevano fare col più ampio consenso?».
Nella complessa partita a scacchi delle riforme, per tutto il pomeriggio i mediatori avevano lavorato per mettere al sicuro l’accordo siglato tra Renzi e Berlusconi. Per tenere dentro Forza Italia, ma anche Lega e Sel. Al Senato però si faceva largo perfino la prospettiva di votare alcune parti del ddl costituzionale, se non l’intero disegno di legge, a maggioranza. Ipotesi che avrebbe implicato la sostituzione di Mineo, ago della bilancia in commissione. Come aveva avvertito Anna Finocchiaro, del resto, il suo voto avrebbe potuto decidere la vita o la morte delle riforme. Mineo, in ogni caso, voterà in Aula. Che il colpo di mano del Pd non produca un effetto boomerang?

Repubblica  12.6.14
Il Pd: via Mineo dalla commissione
di Silvio Buzzanca


ROMA. Il Pd rompe gli indugi sulle riforme istituzionali e “caccia” Corradino Mineo dalla commissione Affari costituzionali del Senato. Il senatore è infatti molto critico sul progetto presentato dal governo e in particolare osteggia l’elezione di secondo grado dei nuovi senatori. Mineo, che sostituiva in commissione Marco Minniti entrato al governo, si era anche assentato al momento del voto in commissione su un documento di Roberto Calderoli, poi approvato, che proponeva l’elezione diretta dei senatori. E il suo voto era determinante per fare passare o meno all’aula il testo presentato dal governo.
Il posto di Mineo sarà preso in maniera permanente da Luigi Zanda, capogruppo dei senatori. Anche Maurizio Migliavacca che sostituiva Vannino Chiti, nominato presidente della Commissione per l’Unione europea, diventa membro permanente. L’ufficio di presidenza del gruppo ha anche deciso di rendere permanente la sostituzione di Luciano Pizzetti, neo sottosegretario, con Roberto Cocianich.
La mossa di Renzi dopo l’analogo “sfratto” comminato dai Popolari per l’Italia di Casini a Mario Mauro, serve a riacquistare la maggioranza in commissione. Che adesso può contare su 15 voti su 29 e si spera così di rendere l’iter della discussione più rapido. Arrivando in posizione di forza al nuovo possibile confronto fra Renzi e Berlusconi.
La decisione è arrivata dopo una giornata tutta giocata in bilico fra la scelta di rompere con Chiti e Mineo, che fanno parte di un’area che raccoglie una ventina di colleghi democratici, e il tentativo di ricucire un rapporto. Dal gruppo dirigente del Pd è partita la richiesta a Chiti di riformulare gli emendamenti che vogliono modificare il testo del governo e a Mineo la richiesta di adeguarsi alla maggioranza.
Ma alla fine è prevalsa la linea dura. Fonti renziane spiegano che il testo passerà e si arriverà ad un accordo con Forza Italia e Lega. Ma, si continua, «il problema è la compattezza del Pd. I “dissidenti” finiscono per indebolirci al tavolo della trattativa e non vorremmo prestare il fianco a richieste che potrebbero arrivare da Forza Italia e che il Pd non è disponibile a concedere». Richieste che, complici gli ultimi risultati elettorali, potrebbero arrivare ad uno scambio tra le riforme e la cancellazione del ballottaggio dall’Italicum. La legge elettorale torna dunque al centro della scena. E lo stesso Mineo nel pomeriggio aveva fatto capire che si poteva trattare su questo tema. «Tutto si risolve se il governo dà un segnale di aver colto le diverse voci sull’argomento - diceva il senatore -. Ritirare il testo base? Non dico ritirare il testo base, ma dare un segnale sull’elettività dei senatori o sull’Italicum» Ma alla fine il segnale il governo lo ho inviato. E non è certo quello sperato da Mineo.

Repubblica  12.6.14
Corradino Mineo
“Così io non ci sto militarizzano tutto deciderò cosa fare”
di Giovanna Casadio


ROMA. «Nessuno mi ha avvertito, mi chiedo a cosa serva, se a Renzi serva avere una commissione militarizzata...». Alla fine Corradino Mineo è stato rimosso dalla commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, dove Renzi si gioca il tutto per tutto per l’abolizione del Senato. Mineo, democratico della corrente Civati, aveva mandato sotto il Pd sull’ordine del giorno che avrebbe dovuto accompagnare il testo del governo sulla riforma. Accadeva un mese fa. Per questo era stato chiamato dal capogruppo dem Luigi Zanda che lo aveva invitato ad avere senso di responsabilità, dal momento che in commissione lo scarto tra maggioranza e minoranza è proprio di un voto. Mineo reagisce a caldo: «Non possono sostituirmi così, io non ci sto».
Mineo, ha già parlato con Zanda?
«Non ho parlato con nessuno, non ho avuto nessuna comunicazione ».
Ma scusi, come l’ha saputo?
«Me l’ha detto il collega Walter Tocci, che a sua volta l’aveva saputo da altri... Ripeto, non ho avuto alcuna comunicazione ufficiale».
Però era stato avvertito?
«Non so nulla, non mi hanno detto nulla, non comprendo. È un autogol, un errore politico, bisognava sbloccare la commissione per portare avanti le riforme. Come possono pensare il Pd e il governo di fare in questo modo dei passi avanti? ».
Cosa farà?
«Ci penso, vorrei vedere le motivazioni, dal momento che Zanda ancora non mi ha chiamato. A me sembra che la situazione sia grave ma non seria».
Non crede che questo scontro
poteva essere evitato?
«Se Renzi avesse avuto la pazienza di starci a sentire, la riforma l’avrebbe portata a casa. Il governo non ha invece tenuto in nessun conto il dibattito parlamentare. Ci si è irrigiditi sul testo del ministro Boschi. Se non l’avesse fatto avrebbe incassato l’appoggio dell’opposizione, dei parlamentari 5Stelle e in particolare dei fuoriusciti grillini che hanno firmato i nostri emendamenti per il Senato elettivo. E avrebbe avuto il consenso anche di parte di Forza Italia».
Dopo la sostituzione di un altro dissidente da parte dei Popolari per l’Italia, ovvero Mario Mauro, lei continuava ad essere sempre l’ago della bilancia in commissione?
«Ma il punto è che non si può pensare di fare una riforma costituzionale 15 a 14, con un voto di scarto».
Ha definito il governo “dilettanti”?
«Può anche darsi che Maria Elena Boschi abbia capito di avere fatto un errore con quel testo. E quindi si prepari a una marcia indietro e abbia chiesto la mia testa in commissione come diversivo».

Repubblica  12.6.14
Garantismo e veleni, il Pd si spacca
Dietro il voto dei franchi tiratori anti-toghe l’insofferenza per il giustizialismo. Speranza: “Il problema c’è” Ma c’è chi sospetta anche una vendetta contro le inchieste o un segnale della minoranza a Renzi
di Goffredo De Marchis


ROMA. La spaccatura del Pd segnala che un pezzo consistente del partito, con Berlusconi alle corde e il nuovo corso, sogna il tramonto della stagione giustizialista a sinistra. Il gruppo democratico si è trovato solo contro tutti ieri mattina. Ma sarebbe bastato per respingere l’emendamento sulla responsabilità civile dei giudici. Invece non ha retto dimostrando che il 41 per cento dei consensi tra gli elettori non è sufficiente per garantire il governo, Matteo Renzi, la maggioranza da incidenti parlamentari e divisioni interne. resta però il problema di fondo: bisogna “cambiare verso” anche nel legame tra magistratura e politica.
C’è quindi un pezzo di Pd garantista che ieri ha deciso di farsi sentire. «Il tema della giustizia c’è. Non si affronta così ma c’è», ammette il capogruppo alla Camera Roberto Speranza annunciando in pratica la fine di una fase durata vent’anni. C’è anche un pezzo di Pd che non vedeva l’ora di vendicarsi con le toghe dopo le inchieste sull’Expo e sul Mose. Forse c’è un pezzo di Pd che vuole dimostrare al segretario di contare ancora molto, almeno nelle aule parlamentari, tanto più dopo le polemiche sui ballottaggi e la disputa vecchionuovo. «Questo lo escludo. Come escludo una rivincita sui magistrati - spiega Speranza -. Per dire, Giachetti è un superenziano ma ha votato a favore del testo leghista. Anzi il suo intervento è stato una specie di tana libera tutti per il gruppo. E se si vota secondo coscienza, un gruppo di garantisti esiste anche nel Pd».
I numeri dicono che la questione non è affatto secondaria. Non è «una tempesta in un bicchiere d’acqua», come ha detto Renzi da Pechino. I deputati democratici presenti al momento del voto erano 214. L’emendamento è stato approvato con 187 voti favorevoli. Un Pd compatto lo avrebbe stoppato con non chalance. Secondo i calcoli più prudenti sono dunque 50 i dissidenti Pd che non hanno seguito le indicazioni del gruppo e del governo.
La confusione avvolge le motivazioni politiche di questa scelta. Mentre l’esecutivo finiva sotto, tutto l’emiciclo ha assistito a una violenta lite tra il sottosegretario Sandro Gozi e la responsabile Giustizia Alessia Morani (dunque renziana) che aveva mancato l’appello perché stava parlando a una trasmissione tv. Comunque, un quarto dei presenti ha voluto mandare un segnale. In maniera trasversale, con tutte le correnti Pd coinvolte. Puntando i magistrati, il governo, cavalcando la polemica sui ballottaggi. Nessuno si sente di escludere a priori alcuna pista. Anche perché, come nella vicenda dei 101 di Prodi, il voto segreto mette al riparo volti, no- mi e storie. «La scorsa legislatura - dice ancora Speranza - i deputati del Pd si spaccarono alla stessa maniera. È la prova che la ragione sta solo nel tema giustizia. E nella sensibilità presente nel Pd per il problema della responsabilità civile». Lo dice anche Walter Verini, capogruppo nella commissione Giustizia di Montecitorio: «È stata colpa dell’improvvisazione. Un voto sbagliato. Bisogna trovare una soluzione che garantisca insieme l’autonomia della magistratura e i cittadini vittime di errori dolosi ». Significa cambiare una linea storica della sinistra, legata al ventennio berlusconiano.
Ecco, è arrivato il momento di voltare pagina nel rapporto sinistra- magistrati. Chiudere l’era del «collateralismo», come lo definisce qualcuno. «Il tema garantista è molto presente tra di noi - spiega il bersaniano Alfredo D’Attore -. Ma esiste anche il problema della corruzione che in Italia appare ormai fuori controllo. Se non teniamo insieme i due aspetti perdiamo la bussola ». È successo ieri nell’aula di Montecitorio. La rotta giusta è affidata alla riforma della giustizia che il ministro Andrea Orlando sta preparando e che nel crono- programma di Renzi va presentata entro fine mese. Il pasticcio è sotto gli occhi di tutti. Speranza e il vicesegretario Lorenzo Guerini sono arrivati sul filo di lana al momento del voto: erano sulla tomba di Berlinguer per i 30 anni della sua scomparsa. Ben 80 deputati dem risultavano in missione, cioè assenti giustificati. Un po’ troppi. Persino la presidente della commissione Giustizia Donatella Ferranti era impegnata in un convegno. Ma bastavano i presenti, senza la spaccatura inattesa.
Rimane l’evidente frattura dentro il Pd. Le accuse a Giachetti si sprecano. Vengono dagli alleati della maggioranza e dal suo partito. Il vicepresidente della Camera renziano invoca la disciplina del gruppo sulla legge elettorale ma fa come vuole su altre leggi, è l’accusa che circola negli ambienti dem. Ma Giachetti ha scoperchiato il vaso. All’interno c’è il tema, vasto, della giustizia. Materiale che scotta.

Corriere 12.6.14
Il pasticcio mostra crepe e inquietudini della maggioranza
di Massimo Franco


Che si tratti di un pasticcio e di una trappola parlamentare, nessun dubbio. Ed è altrettanto sicuro che tenderà i rapporti tra politici e magistrati mentre fioccano mandati di cattura e imputazioni per scandali vecchi e nuovi. Ma l’approvazione di un emendamento leghista che introduce la responsabilità civile dei giudici promette di avere contraccolpi al di là della tradizionale contrapposizione tra potere legislativo e giudiziario. Ritorna in primo piano la tenuta del Pd nel ramo del Parlamento, la Camera dei deputati, dove gode di una maggioranza schiacciante: si parla di almeno una trentina di franchi tiratori del partito del premier. E incunea qualche contraddizione nella volontà di riformare radicalmente il Senato.
Dalla Cina, dove è in missione, il presidente del Consiglio avrebbe minimizzato il voto come «una tempesta in un bicchiere d’acqua». La norma, avrebbe rassicurato, «sarà modificata a scrutinio palese al Senato». È quanto dicono ufficialmente altri esponenti del Pd, a cominciare dal capogruppo a palazzo Madama, Luigi Zanda. Lo stesso Guardasigilli, Andrea Orlando, bolla la vicenda come «un pasticcio che va rapidamente corretto». Per gli avversari della proposta che vuole abolire il bicameralismo, però, l’idea di un Senato chiamato a sanare lo scivolone a Montecitorio è una sottile nemesi.
È vista come una conferma dell’esigenza di non svuotare il suo ruolo, proprio mentre si parla di accordo prossimo e viene blindata la commissione Affari costituzionali escludendo il dissidente del Pd Corradino Mineo. I berlusconiani chiedono provocatoriamente a Renzi se per caso non riscopra il bicameralismo. Il fatto che questa trappola scatti nel giorno in cui il Consiglio superiore della magistratura sottopone a una sorta di «processo» interno il giudice che parlò della condanna inflitta a Silvio Berlusconi prima delle motivazioni, le dà contorni ancora più politici. E rianima vecchi fantasmi. Il Nuovo centrodestra cerca di esorcizzare «rivalse della politica sulla magistratura».
Ma introdurre la responsabilità civile con un voto che ha visto la saldatura tra M5S, FI, Lega, più uno spezzone occulto del Pd, è un segnale preoccupante. Il Senato potrà anche cancellarlo a scrutinio palese. Rimane tuttavia il problema di un gesto ostile: verso la magistratura ma anche verso palazzo Chigi. Michele Vietti, vicepresidente del Csm, ritiene che sia in gioco «non un privilegio ma l’indipendenza di giudizio del magistrato». Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, puntella questa tesi invitando a «coniugare equità e imparzialità». Napolitano difende i giudici ma ribadisce che la loro credibilità si fonda anche sul rispetto di alcuni «limiti». Un equilibrio difficile, che il voto di ieri sbilancia di nuovo, pericolosamente.

La Stampa  12.6.14
Avvertimento al premier da inediti alleati
di Marcello Sorgi

qui

La Stampa 12.6.14
Torna lo spettro dei centouno
Il Pd ricade sui suoi fantasmi
Civati: “C’è sciatteria, ma anche un segnale al governo”
di Francesco Grignetti


Un vecchio spettro torna ad aggirarsi dalle parti del Pd: i famosi 101 franchi tiratori che affossarono un Presidente della Repubblica in pectore contro le indicazioni del partito sono tornati a colpire nel segreto dell’urna e anche stavolta si lasciano dietro uno strascico di veleni. Il tema è di quelli particolarissimi: il rapporto tra giustizia e politica. E non si dica che si sono mossi senza capire il peso dell’operazione. Con l’emendamento Pini che rovescia la legge Vassalli sulla responsabilità civile, infatti, accodandosi al centrodestra che sul tema conduce una battaglia da anni, si va intenzionalmente a rinfocolare un incendio che si era appena sopito.
Che siano più o meno un centinaio i voti che sono mancati alla maggioranza, lo dicono i numeri. «È stato un sì trasversale - rimarca Simone Baldelli, di Forza Italia, felicissimo del voto - perché ci sono stati 187 voti a favore e noi del centrodestra in Aula eravamo una sessantina».
Ora, a parte Roberto Giachetti che ha rivendicato in Aula il suo voto in dissenso dal gruppo del Pd, e che per questa limpida posizione s’è beccato un sacco di insulti sui sociali network, è evidente che molte anime democrat sono confluite nel voto contro i magistrati. «A lume di naso - dice un parlamentare del Pd che conosce bene i suoi colleghi - lì in mezzo ci sono quelli dalemiani che da sempre soffrono i magistrati, quelli che vogliono mandare un segnale a Renzi, e quelli che non hanno mandato giù la gestione del caso Genovese. Fate le somme e escono quei sessanta o settanta che hanno votato contro l’indirizzo del governo e del Gruppo».
«Non drammatizzerei troppo l’accaduto, però. Rimedieremo al Senato», dice Alessia Morani, responsabile Giustizia del Pd. «Io penso che non ci sia nessun segnale particolare per nessuno. Tantomeno il tentativo di intimidire la magistratura, anche se noi non nascondiamo che l’esigenza di rivedere la legge è giusta. Ma non così, non con i blitz. C’è stata un po’ di sottovalutazione, però, questo sì. È mancata forse la giusta dose di allerta. Ma dovete rendervi conto che questa proposta non è mai stata discussa. È un emendamento presentato direttamente in Aula».
La Morani insomma ammette un pizzico di disattenzione. Si racconta che il sottosegretario alla Presidenza, Sandro Gozi, l’abbia accolta con un gestaccio quando lei s’è avvicinata al banco del governo.
La stanchezza nel seguire questa legge forse è comprensibile: martedì pomeriggio hanno discusso all’infinito sui succhi di frutta, ieri si sono scannati sulla caccia, e di colpo, verso l’ora di pranzo, ai deputati è stato chiesto di votare un emendamento che rivoluziona i cardini del nostro sistema giudiziario... Ed è stato scivolone.
«I motivi, a mio parere, sono diversi. Il voto è la somma tra una certa sciatteria e l’intento politico di chi voleva dare un segnale al governo», sostiene Pippo Civati, il dissidente.
A questo punto, però, la frittata è fatta. Al Pd non resta che promettere di rovesciare i numeri al Senato. Dove però i margini della maggioranza, come è noto, sono assai più ristretti. E dove c’è qualche mal di pancia di troppo tra i centristi, alle prese con la riforma drastica del Senato medesimo.
Poi, certo, a confondere la situazione ci si sono messi i grillini, con la loro astensione. Operazione sommamente tattica: non voto, così è più evidente come votano gli altri. E tanti saluti al merito delle leggi. Danilo Leva, del Pd, ha un diavolo per capello: «Ancora una volta i grillini in Aula danno una mano al centrodestra. La botta dei risultati elettorali non è bastata. E così passa un emendamento inutile, che verrà modificato al Senato, ma che soprattutto non tiene conto di un dibattito complesso che richiede un intervento organico sulla responsabilità civile dei giudici. Insomma tanto rumore per nulla».

La Stampa 12.6.14
Senato, la Lega tratta con il Pd
Forza Italia rischia l’isolamento
Il Carroccio potrebbe fornire i numeri per garantire la maggioranza
di Ugo Magri


Una strana euforia si è sparsa ieri in Senato, come se il grande accordo sulle riforme fosse cosa fatta. Addetti ai lavori che annunciavano: «Finalmente ci siamo». Altri che puntualizzavano: «Rimangono solo pochi dettagli da chiarire». Con la presidente della Commissione affari costituzionali, Finocchiaro, che gettava acqua sul fuoco ma in realtà vi spargeva benzina («Per ragioni scaramantiche non vorrei dire che siamo alla vigilia dell’intesa...»). Insomma, questo era il clima ultra-ottimista di Palazzo Madama. Sennonché poi nessuno, tra gli esperti, sapeva spiegare in che diavolo di maniera fosse stato sciolto il nodo del Senato: se sarebbe stato elettivo, come vogliono molti senatori di entrambi gli schieramenti, o non elettivo, come invece pretende Renzi. Il quale tra l’altro si trova in Estremo Oriente, tornerà in patria domani e dunque il suo incontro chiarificatore con Berlusconi non potrà aver luogo prima della prossima settimana. Ma allora, se quei due nemmeno si sono visti, di che accordo si sta parlando? E tra chi?
Il mistero è svanito nel pomeriggio, quando un Calderoli tutto raggiante ha dato conferma che «nove su dieci è fatta». Anzi, «dieci su dieci», ha bisbigliato qua e là. Il suo buonumore nasce dal fatto che molto è riuscito a portare a casa. Il Pd ha dato l’ok a gran parte delle richieste padane, specie sulla riforma del Titolo V che disciplina i rapporti tra Stato centrale e regioni: per la Lega è musica celestiale. Che poi il Senato venga eletto o meno, dopo questo risultato al Carroccio non interessa granché. Anzi, per dirla tutta non gliene importa un bel nulla. E siccome a Palazzo Madama la Lega conta 15 senatori, cioè un numero sufficiente a garantire che la riforma possa andare avanti con o senza Forza Italia, ecco dunque come è nata la voce di una strada per le riforme tutta in discesa.
A questo punto Berlusconi non solo è isolato, ma si trova di fronte a un dilemma. Se manda all’aria il suo patto con Renzi, le riforme forse si fanno lo stesso con una maggioranza più risicata, e l’ex Cavaliere finisce nel limbo dell’irrilevanza. Se invece Silvio tiene fede alle intese del Nazareno, rischia che gli esploda la fronda in Senato, dove il capopopolo è Minzolini. Ieri sera, gran consulto a Palazzo Grazioli come al solito senza conclusioni definitive. Toti, consigliere politico, fa intendere che magari alla fine l’accordo probabilmente si farà. Però solo in extremis, e a patto che nei prossimi giorni Renzi venga incontro a Forza Italia sulla composizione del futuro Senato «perché, con tutti quei sindaci che la proposta Boschi vi vuole mettere, la sinistra lo controllerebbe per i prossimi due secoli».
Renzi, a sua volta, non mira a rompere con Berlusconi. Tenta di mettergli paura per costringerlo a più miti consigli; però sa di averne bisogno per due ragioni. La prima: non desidera ritrovarsi a sua volta nelle mani di Calderoli, di Alfano o di Pierfurby Casini. La seconda: senza la maggioranza dei due terzi in Parlamento, poi dovrebbe affrontare un referendum confermativo dall’esito incerto... Insomma, sembra una partita a poker in cui barano un po’ tutti. Chi per ora ne fa le spese è il dissidente Mineo. Il Pd ha scelto la linea dura e l’ha levato dalla Commissione delle riforme con la scusa che era lì a titolo provvisorio. La ragione vera è un’altra: Renzi vuole far vedere a Berlusconi che lui sa mettere in riga i suoi. Dimostrasse Silvio che riesce a fare altrettanto...

il titolo dell’Unità dice 30-40, ma l’aritmetica dice 50
l’Unità  12.6.14
Governo battuto alla Camera
30-40 franchi tiratori deputati del Pd hanno votato contro il governo
L’ira di Renzi


187 sì, 180 no: il governo è andato sotto ieri sull’emendamento della Lega sulla responsabilità civile dei giudici. Decisive le astensioni dei grillini e una trentina di franchi tiratori Pd. Il premier Renzi, irritato, ha annunciato che la norma sarà cambiata al Senato. Durissime le critiche di Csm e Anm.
Due anni e quattro mesi dopo la solita Lega, il solito Pini e, quando si dice la coincidenza, lo stesso sottosegretario alle Politiche Europee Sandro Gozi combinanolo stesso misfatto. Mescolando normative europee sui succhi di frutta e responsabilità civile per i magistrati, l’aula della Camera ha approvato, per la seconda volta, il vecchio emendamento del leghista Gianluca Pini che rende responsabili in sede civile, costringendoli al risarcimento diretto del danni i magistrati che sbagliano. Allora furono Pdl, Lega e i responsabili di Popolo e Territorio a mandare sotto il governo Monti con il Guardasigilli Paola Severino che andò su tutte le furie per «l’imboscata in aula». Oggi va sotto il governo Renzi. Per mano, anche, di circa trenta, quaranta deputati Pd che per dolo o per colpa si sono distratti un attimo combinando un clamoroso pasticcio. Il premier dalla Cina va su tutte le furie perché già immagina i retroscena sul solito inciucio con il centro-destra in tema di giustizia e, ancora peggio, una resa dei conti del partito contro le toghe dopo le inchieste Expo e Mose. Il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi manifesta tutti i suoi feroci pensieri nei confronti di un gruppo parlamentare che si è mostrato dissennato, come minimo disattento. E che, una volta combinato il guaio, s’affretta in modo impacciato a dire che «al Senato l’emendamento sarà bocciato» (Walter Verini, capogruppo Pd in Commissione Giustizia) e che è stato solo «un doppio blitz di Lega e Cinque stelle, gente irresponsabile che gioca al massacro» (Roberto Speranza, capogruppo Pd e Alessia Morani, responsabile Giustizia). Un fatto è certo: il partito dei giudici non è più presente in Parlamento. Che altrimenti almeno uno ieri mattina si sarebbe alzato e avrebbe spiegato cosa stava succedendo risvegliando l’attenzione dei presenti. Il misfatto accade poco prima di mezzogiorno. L’aula sta votando la vecchia legge comunitaria ( 2011), una serie di norme che il Parlamento deve ratificare per evitare salatissime multe e che due governi (Monti e Letta) non sono riusciti ad approvare. Per lo stesso problema, tra l’altro: prima o dopo spuntava fuori la «norma Pini» sulla responsabilità civile dei giudici che ne bloccava l’approvazione finale. Risultato: la Comunitaria 2011 deve ancora essere licenziata. Ieri l’assemblea ci prova di nuovo. Sui banchi del governo il ministro Sandro Gozi, relatore l’onorevole Michele Bordo (Pd), presiede l’aula Luigi Di Maio (M5S), banchi mezzi vuoti, 480 presenti su 630. Si discute su succhi di frutta e altri alimenti. A un certo punto, zacchete, spunta fuori un emendamento in aula: l’ineffabile norma Pini sulla responsabilità civile dei giudici. Il governo, cioè Gozi, dà parere contrario. La presidenza d’aula non fa obiezioni sul fatto che mancano il via libera delle Commissioni competenti (Giustizia e Bilancio). Occhi più smalizati avrebbero già sentito puzza di bruciato. Avrebbero visto l’incendio nel momento in cui Lega e M5S chiedono il voto segreto. Nulla di tutto ciò. Prende la parola il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti (Pd) che spiega perché, in coerenza con la propria storia politica, voterà a favore dell’emendamento Pini. Seguono altri interventi. I Cinque stelle annunciano che si asterranno. A questo punto la trappola è chiara. Eppure dai banchi del Pd non ci sono repliche. Si va al voto, segreto. Il risultato sul tabellone è una doccia fredda: 187 sì, 180 no, governo battuto, Lega e Fi esultano,M5Ssi fregano le mani. In aula risultano presenti 214 del Pd, una trentina di Sel, 60 di Forza Italia,63tra Popolari, Scelta civica, Misto e Ncd. Al netto dei Cinque stelle che si sonoastenuti,30-40 deputati del Pd hanno votato a favore di una norma che ammazza l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Quando è chiaro il disastro, Gozi va su tutte le furie, Speranza resta basito, Verini cerca di correre ai ripari, Rosato, che guidava l’aula, non si capacita. La responsabile Giustizia Alessia Morani arriva giusto in quel momento, era in tv e stenta a capire. Donatella Ferranti, una delle poche memorie storiche in tema di giustizia, rientra furibonda dal congresso sulle ecomafie. «È un gravissimo colpo di mano - dice - un attacco all’autonomia e all' indipendenza dei magistrati e ha il significato di un atto intimidatorio nei confronti delle inchieste in corso». Sul resto che dice, è meglio tacere. Dolo o colpa, dice il vicepresidente del Csm Michele Vietti: «È in gioco non un privilegio, ma l’indipendenza di giudizio del magistrato». Perentorio Rodoldo Sabelli, presidente dell’Anm: «In un momento che vede la magistratura fortemente impegnata sul fronte del contrasto alla corruzione nelle istituzioni pubbliche, questa norma costituisce un grave indebolimento della giurisdizione». Difficile dargli torto. E lo sa bene anche Renzi.

il Fatto  12.6.14
I franchi tiratori del Pd si vendicano dei magistrati
Governo battuto per sette voti sulla responsabilità civile dei magistrati
di Fabrizio d’Esposito


A Montecitorio, nel segreto dell’urna elettronica, la matematica è spesso un’opinione. Nella tarda mattinata, nell’aula della Camera, il Pd è schierato con 214 deputati. Ma l’ennesimo blitz del leghista Gianluca Pini sulla responsabilità civile dei giudici passa con 187 voti a favore e 180 contrari. La Cina renziana è lontana, non vicina, e i franchi tiratori ricompaiono nel caos del partitone democratico. Quanti sono i franchi tiratori che si vendicano dei magistrati che indagano sugli scandali bipartisan, leggi Mose ed Expo? Il termine vendetta lo usa Felice Casson, che è un senatore del Pd ed è stato pubblico ministero a Venezia, dove è esplosa la mazzettopoli dell’acqua alta: “Questo è un segnale vendicativo”. Una vendetta, appunto. Kill Mose, volume primo. Protagonisti: almeno cinquanta deputati del Pd.
La Morani scappa da La7 e poi litiga con il sottosegretario Gozi
La scena madre del film anti-toghe girato dal pancione parlamentare dei democratici avviene intorno alle undici e un quarto in uno studio televisivo. A La7 è in onda L’aria che tira, talk-show mattutino. Alessia Morani non fa nemmeno in tempo a sedersi che va via dopo dieci minuti di diretta. Morani è responsabile giustizia del Pd. Si scusa così: “Mi scrivono che devo partecipare ad alcune votazioni”. In studio c’è anche Laura Ravetto di Forza Italia: “Non capisco, i miei non mi hanno avvisato di nulla”. Ma la Morani arriva tardi. L’emendamento Pini è passato. Presenti 432, votanti 367, astenuti 65. I sì sono 187, i no 180. Ai banchi del governo l’ex prodiano Sandro Gozi, oggi sottosegretario, è furioso, la sua chioma di solito accurata è scomposta. Gozi e Morani hanno un colloquio vivace. Come se il sottosegretario pretendesse spiegazioni seduta stante. Nella sua reazione ufficiale, Morani minimizza la questione dei franchi tiratori e scarica tutto sull’astensione del Movimento 5 Stelle: “Il tema della responsabilità civile dei magistrati non può essere affrontato attraverso un blitz organizzato dalla Lega Nord con un emendamento che è stato approvato grazie all’astensione del Movimento 5 Stelle che oggi, come in altre occasioni, ha tenuto un atteggiamento pilatesco, finalizzato alla sola speculazione politica e totalmente disinteressato al merito
del provvedimento”.
La strategia grillina un colpo da maestri
Accusati da mesi di dilettantismo politico, stavolta i grillini mettono a segno un colpo di vera tecnica parlamentare. Quando hanno fiutato che il Pd era pronto a spaccarsi sull’emendamento (non è la prima volta) hanno piazzato la botta. Sono stati i più veloci di tutti e la deputata Giulia Sarti rivela: “La nostra è stata pura strategia politica. Il Pd avrebbe votato contro, dicevano. E allora, li abbiamo messi alla prova per vedere se fanno quello che dicono. Risultato: il Pd si è spaccato. Noi restiamo contrari a questa misura e infatti al voto definitivo che ci sarà in Senato, quello che conta, voteremo compatti contro”.
Lo sfogo di “Pier Luigi” e i veleni su “Matteo”
Seconda scena topica di Kill Mo-se volume primo. Pier Luigi Bersani troneggia al centro del Transatlantico. Grida, quasi a voler farsi sentire da tutti: “Io ho votato bene, gli altri non so”. E indica, idealmente, i deputati renziani. I superstiti della vecchia ditta dalemian-bersaniana sono i principali sospettati, per antica intelligenza col nemico berlusconiano, e affidano al loro ultimo leader la difesa, che tradotta significa: “Non siamo stati noi, semmai voi renziani chissà cosa avete promesso a Berlusconi”. I veleni dopo la festosa foto del 25 maggio ritornano a circolare alla velocità del luce. Veleni pesanti. Per la serie: “Vuoi vedere che dal Consorzio Venezia Nuova sono partiti contributi per la Leopolda?”.
Il blitz della Lega e i numeri ballerini
Il numero dei franchi tiratori varia dai 50 ai 70. I conti sono semplicissimi. Dei 187 a favore circa 120 mettono insieme centrodestra, Ncd ed ex montiani. Sel si astiene come i grillini, ma dal Pd insinuano: “Hanno votato tutti a favore”. Sono trenta, quelli di Sel. Uno di loro spiega: “Saranno stati al massimo sette”. Abbondiamo con la cifra tonda, dieci, e si arriva a 130. E 187 meno 130 fa 57. Un numero considerevole. Nel Pd c’è qualcuno che ci mette la faccia. Il primo è Roberto Giachetti, ex radicale, che annuncia il suo sì. Poi il socialista Marco Di Lello: “Sono garantista e non mi nascondo. Questo è un segnale al ministro Orlando, sulla riforma della Giustizia”. Parecchi, invece, sono stati colti di sorpresa: “L’emendamento è piombato all’improvviso, nessuno ne sapeva nulla, non è passato per la commissione”. A trionfare, in ogni caso, è il genio di Pini, leghista che ogni anno blocca la cosiddetta “comunitaria” con questo emendamento. Dicono i suoi colleghi di partito: “Ne ha fatto una questione personale. Da quando ha presentato questo emendamento, tre anni fa, gli hanno spedito quattro avvisi di garanzia”.

Repubblica  12.6.14
E tra i magistrati scatta l’allarme “Vogliono vendicarsi come la P2”
di Liana Milella



LA P2 non avrebbe saputo fare di meglio...». «Noi magistrati siamo responsabili... in quanto esistiamo». «Altro che Cantone commissario anticorruzione... la politica ha risposto così alle indagini di Milano e di Venezia che colpiscono tutti, ma proprio tutti».
GRANDISSIMA preoccupazione e fortissimo sconcerto. Nelle mailing list. E direttamente al telefono. Un allarme che monta per tutta la giornata. Le toghe reagiscono molto male al voto di Montecitorio sull’emendamento Pini. Di primo acchito paiono non crederci. Poi legano questo voto ad altri fatti «negativi» che li stanno riguardando, l’insistenza su una nuova giustizia disciplinare, l’ipotesi di abbassare da un giorno all’altro l’età pensionabile, il paventato taglio degli stipendi, la stretta sulla custodia cautelare, e anche il caso Milano che mette in cattiva luce la procura più esposta d’Italia. Come dice un pm in un messaggio via mail «ma che bisogno c’è di riformare la giustizia proprio mentre i magistrati arrestano politici, imprenditori, finanzieri, ma anche colleghi?». Inevitabilmente, le critiche e gli interrogativi piovono sul Pd di Renzi. C’è chi ricorda il recente voto sull’arresto del deputato messinese Francantonio Genovese che, alla vigilia del voto europeo, fu a scrutinio palese per il timore che, se fosse stato segreto, sarebbe stato respinto.
Tale è la forza della delusione e della protesta che le differenze di orientamento ideologico tra un magistrato e l’altro si annullano. Ecco Rodolfo Maria Sabelli, il presidente dell’Anm, moderato di Unicost, infuriarsi proprio come Anna Canepa, segretaria di Magistratura democratica. Il primo: «È un segnale pessimo, soprattutto perché s’inserisce in un momento di indagini importanti sulla corruzione». La seconda: «Mentre il Paese è affogato nel malaffare, il problema sono i magistrati». Sabelli ironizza: «O sono profetico o porto sfiga, ma giusto sabato scorso, nella riunione dell’Anm, parlavo di un’idea bizzarra che si sta affacciando, cade il tabù sulle riforme durato un ventennio ed ecco palesarsi proprio la riforma disciplinare e quella della responsabilità civile... ed eccola qua, la seconda è arrivata». È nettamente contrario pure Cosimo Maria Ferri, la toga di Magistratura indipendente divenuta sottosegretario alla Giustizia: «È un passo indietro. Sono contrarissimo. Indebolisce i giudici».
Twitter, Facebook, le liste delle singole correnti, zeppe dei messaggi in vista del voto per il Csm. Ogni via è buona per contestare non solo l’emendamento Pini in sé («incostituzionale »), ma i 187 voti a favore, soprattutto quelli del Pd. Si può strappare solo una battuta (non autorizzata) ad Armando Spataro, neo procuratore di Torino: «Da non crederci ». Su Fb si sfoga Ezia Maccora, giudice a Bergamo, ex Csm, oggi Anm, nota toga di Md: «È terribile. Com’è possibile che il Parlamento torni indietro di due anni, voti ancora questo emendamento, dopo decine di audizioni di giuristi importanti? Com’è possibile che lo faccia proprio in questo momento, mentre i miei colleghi garantiscono la legalità? Ci si dovrebbe preoccupare di garantire la nostra indipendenza e invece ecco il segnale che le toghe devono pagare in prima persona». Maccora vede un “effetto spada” che pende su tutta la magistratura italiana.
«Chiunque potrà far causa al suo pm e al suo giudice» dice Sabelli. E Giuseppe Maria Berruti, direttore del Massimario della Cassazione, preoccupatissimo, si chiede le ragioni di uno scenario che disegna come catastrofico. Partendo dalla premessa “politica” che «dopo le grandi indagini è sempre scattata una “voglia” di responsabilità civile, come un riflesso condizionato». Poi, esterrefatto: «Solo in Italia si può pensare che il giudice, mentre fa il processo, stia guardando un suo possibile avversario in una causa di risarcimento del danno. Nel civile poi la causa diventa certezza matematica perché chi perde tra i due contendenti la farà».
Il commento: «Un orrore giuridico. Una vicenda pazzesca». Il voto sull’emendamento Pini come spia di una generale insofferenza: «La politica soffre e non vuole su di sé i poteri di controllo ». Per dirla con la deputata di Fi Jole Santelli: «Col voto segreto, qui a Montecitorio, la magistratura perde sempre».
«Una contraddizione latente », come la chiama Luca Palamara, il pm di Roma che per Unicost corre per le elezioni del Csm: «Tutti dicono di voler fare la lotta alla corruzione, ma è solo uno slogan. Quando c’è da votare una norma contro di noi non si perde tempo». Di questo, nell’attuale Csm, chiede conto l’ex pm di Bari Roberto Rossi, toga di Area. Ieri, a pochi minuti dal voto, ha preso la parola in plenum: «Questa norma è incomprensibile e incostituzionale ». E poi: «C’è poco da fare, la magistratura continua a non essere molto amata, per usare un eufemismo...». A Messina, il procuratore aggiunto Sebastiano Ardita, che ha firmato per l’arresto di Genovese, toga di Mi, dice quello che tutti hanno detto per l’intera giornata: «È una battuta di arresto. Un momento di grave confusione in un processo di riforma».

Repubblica  12.6.14
La vendetta del Palazzo
di Massimo Giannini



TRENT’ANNI fa, a Padova, si spegneva Enrico Berlinguer. Oggi la politica trova il modo più indegno per celebrare l’uomo che mise per la prima volta l’Italia di fronte alla Questione Morale. Nello stesso giorno in cui i pm di Napoli indagano per corruzione il secondo generale della Guardia di Finanza e quelli di Venezia scoprono un filo rosso che lega gli scandali del Mose e dell’Expo, il Parlamento non serra i ranghi contro i «ladri», ma brandisce la clava contro le «guardie».
CHE altro giudizio si può dare, sulla norma che reintroduce la responsabilità civile «diretta» dei magistrati, inasprendo le sanzioni per gli errori commessi nell’esercizio della funzione? Un emendamento della Lega, ricalcato dal testo di un disegno di legge che l’allora Pdl provò più volte ad imporre nella passata legislatura, ora improvvisamente agganciato all’iter della legge europea 2013-bis e inopinatamente approvato dalla Camera. Contro il parere del governo e della maggioranza. Ma a scrutinio segreto, e dunque con il contributo fattivo di almeno 50 franchi tiratori che al riparo dell’urna hanno deciso di votare insieme al centrodestra e di scompaginare il fronte del centrosinistra.
Fioccano le solite accuse incrociate e le rituali pratiche auto-assolutorie. Renzi parla di una «tempesta in un bicchier d’acqua». Un pezzo di Pd lancia strali contro i grillini, «colpevoli » di essersi astenuti e dunque di aver teso una misteriosa «trappola» alla maggioranza. Un altro pezzo di Pd, più dissennato ma meno ipocrita, rivendica orgogliosamente il voto in nome di un «garantismo» ormai assolutamente imprescindibile (benché, nello specifico, totalmente incomprensibile). Per quanto logori e sbandati, i manipoli berlusconiani in servizio permanente effettivo hanno almeno il coraggio di rivelare pubblicamente quello che appare chiaro a chiunque abbia il buon senso di vedere e di capire: «L’indipendenza della magistratura non può continuare a coincidere con la totale mancanza di responsabilità della stessa per gli errori commessi nell’esercizio del suo strapotere».
Dunque, di questo si tratta: al culmine della nuova Tangentopoli 2.0 che i pubblici ministeri stanno faticosamente disvelando, la politica consuma una sua simbolica «vendetta » ai danni della magistratura. Non importa che il merito di quella norma sia palesemente incostituzionale, come denunciano il Csm e l’Anm. Non importa nemmeno che quell’emendamento arrivi al traguardo finale della conversione in legge. È anzi molto probabile che questo non accada, visto che lo stesso presidente del Consiglio (pur con un surreale cortocircuito logico, vista la sua strenua battaglia contro il «bicameralismo perfetto») annuncia adesso «al Senato rimedieremo ». Quello che importa, ancora una volta, è il «segnale» che si vuole lanciare. Quello che importa è che lo «strapotere» delle Procure (come recita appunto la propaganda forzaleghista) venga tamponato o almeno influenzato. Quello che importa è che i magistrati sentano tutta la pressione, chiaramente intimidatoria, di un Palazzo che non intende farsi processare da nessuno. Quello che importa, alla vigilia di un Consiglio dei ministri che si spera domani possa prendere finalmente per le corna il tema della lotta alla corruzione, è che a una giurisdizione così pervicacemente ostinata a scavare nel malaffare arrivi anche un altro messaggio: «Attenti a ciò che fate, sappiamo come rimettervi in riga». Il presidente della Repubblica Napolitano fa opportunamente sentire la sua voce, a sostegno dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. Ma neanche questo basta a spiegare il cupio dissolvi che ancora una volta attraversa il Partito democratico, capace di farsi del male da solo persino su una questione pacifica come la difesa della legalità e la guerra alle mazzette. I magistrati hanno commesso e commettono molti errori. L’uso a volte eccessivo della carcerazione preventiva, un filtro non sempre rigoroso nella discovery degli atti, una gestione non sempre lineare delle inchieste. I problemi non mancano, e perfino la Procura più seria e più efficiente d’Italia, quella di Milano, non ne è risultata del tutto esente. Per questo, nessuno auspica o sogna una Repubblica delle Manette, dove i pm siano depositari incontrastati dei destini dei lea- der politici o tenutari indisturbati delle «vite degli altri». Una riforma organica della giustizia, che affronti «anche» il tema della governance del Csm e dell’autodisciplina sanzionatoria del potere giudiziario, è opportuna.
Ma appunto: la chiave sta tutta in quell’«anche». Oggi la priorità assoluta nel Paese non è certo intralciare o condizionare il lavoro dei magistrati con un «colpo di mano» che non esiste in nessun’altra democrazia occidentale. E non è nemmeno istituire l’ennesima Commissione che, dal ministero della Giustizia, monitori i risultati raggiunti fino ad oggi nella lotta alla corruzione (con il paradosso ulteriore di affidarne la guida proprio all’ex Guardasigilli Paola Severino, chiamata a giudicare gli effetti della riforma palesemente insufficiente da lei stessa firmata nel 2012).
La priorità assoluta è ripristinare lo Stato di diritto, rafforzando sul serio l’azione del Commissario anti-corruzione Cantone (che non a caso si auto-rappresenta come «potere monco», vista la scarsità di mezzi e di strumenti normativi di cui dispone). È riformare l’istituto della prescrizione, che snaturato dalle leggi ad personam di Berlusconi «inghiotte» il 35% dei reati commessi ogni anno, corruzione compresa (come denuncia il Procuratore Nazionale Antimafia Franco Roberti). È introdurre una volta per tutte il reato di autoriciclaggio, che determinerebbe di fatto l’imprescrittibilità dei reati più gravi contro la Pubblica Amministrazione. È ri-potenziare il reato di falso in bilancio, depenalizzato pro domo sua dall’ex Cavaliere.
Non c’è altra emergenza, in un Paese stordito e disgustato dai miasmi che spurgano dal ventre molle della Padania felix e dalla testa marcia delle Fiamme Gialle. Domani Renzi ha l’occasione per trasmettere al Paese la volontà di questo «scatto morale ». Un altro rinvio, stavolta, sarebbe davvero imperdonabile. Tanto imperdonabile da risultare, alla fine, addirittura sospetto.

Corriere 12.6.14
Rinvio sulla segreteria. Lunga lista per il toto-presidente
In primo piano Orfini, poi De Micheli
Ma c’è chi ipotizza sorprese con Chiamparino, Zingaretti o Prodi
di Tommaso Labate


ROMA — «Per la nuova segreteria abbiamo bisogno di più tempo». Il messaggio viaggia su una linea retta lunga ottomila e passa chilometri. Sono quelli che separano Pechino, dove ieri ha fatto tappa il tour asiatico di Matteo Renzi, dal Nazareno, sede del quartier generale nazionale del Partito democratico. Ed è il segno che, a meno di sorprese sempre possibili, nell’Assemblea nazionale del Pd in programma dopodomani a Roma non dovrebbe essere varata la nuova squadra che sostituirà i membri dell’esecutivo del partito che oggi stanno al governo o sono emigrati al Parlamento europeo.
«Serve tempo», è il leitmotiv dominante tra i renziani ortodossi. Tempo per trovare una «quadra» che ricompatti il partito all’indomani delle polemiche sulla sconfitta di Livorno. Tempo per far sopire la diatriba avviata sul dibattito «vecchio-nuovo», che s’è innescato sulle inchieste giudiziarie di Milano e Venezia. Tempo per individuare quelle figure, che saranno rappresentative di tutte le anime del partito, che comporranno una squadra coordinata da Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani, che sabato saranno formalmente investiti nel loro ruolo di vicesegretari. E soprattutto tempo per identificare il mister X che sarà chiamato a presiederla, quell’assemblea.
Col presidente del Consiglio in Asia, e soprattutto a ventiquattr’ore dalla direzione del partito chiamata ad approvare il bilancio, le strade sono due. O, come qualcuno della cerchia ristretta di Renzi ipotizza, congelare il dibattito sulla presidenza del Pd e rinviarlo di qualche settimana. Oppure accelerare la ricerca di quella soluzione che, almeno per il momento, all’orizzonte non s’intravede con nettezza.
Nelle quaranta ore scarse che separeranno il ritorno dall’Asia dall’appuntamento di sabato, toccherà a Renzi individuare una soluzione. La pista più battuta, almeno per ora, è quella che porta a Matteo Orfini, uno dei frontmen della sinistra dei Giovani Turchi. Nettamente più distanziata la nomination di Paola De Micheli, vicinissima a Enrico Letta, che comunque sarà la candidata dell’«Area democratica». Agli occhi dei renziani, quest’ultimo nome ha un solo pregio. Libererebbe una casella tra i vice del capogruppo Roberto Speranza, che i fedelissimi del premier occuperebbero probabilmente con Matteo Richetti.
Eppure qualcosa non torna, in questo canovaccio. «Troppo da partito tradizionale», si mormora tra i banchi del Pd di Montecitorio. «Troppo poco renziano», come alcuni deputati hanno fatto notare al vicesegretario Guerini. Non è un caso se, tra i parlamentari democratici, gira da ieri una lista di «autorevoli personalità» della storia del Pd che — a loro insaputa — potrebbero ricevere nelle prossime ore una telefonata in vista di una possibile candidatura unitaria alla presidenza dell’Assemblea. In questa lista c’è il nome di Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio. E anche quello di Sergio Chiamparino, fresco di vittoria alle regionali del Piemonte. Senza dimenticare i «sogni impossibili», e cioè che questa proposta venga fatta a uno dei «padri» del Pd, Romano Prodi e Walter Veltroni (che però non si sa se accetterebbero). La soluzione «fantapolitica» è quella che rimanda a Enrico Letta, il cui nome (insieme a quello di Massimo D’Alema) viene però associato alla casella italiana nella Commissione europea. Ma lo schema a sorpresa, questo sì, sarebbe «renziano». E ha un precedente, nel metodo, nella storia recente. Quando una notte di due mesi fa, a poche ore dalla chiusura delle liste per le Europee, Renzi tirò fuori dal cilindro i cinque capilista donne. Di cui quattro, quella notte, caddero dalle nuvole.

Il Sole  12.6.14
Inchieste anti-corruzione e voto alla Camera: sospetti di un nesso obliquo
L'incidente non fa bene alla maggioranza e rischia di complicare la riforma della giustizia
di Stefanp Folli


Sarà pure «una tempesta in un bicchier d'acqua», come osserva Renzi dall'Estremo Oriente, ma l'incidente di Montecitorio sulla responsabilità civile dei magistrati non va sottovalutato. Soprattutto perché non sembra affatto un incidente, bensì una scelta ben ponderata che ha coinvolto un settore del Pd in assenza del segretario-premier. Come si dice in questi casi, si è trattato di un "segnale". Ma rivolto a chi? Qualcuno vi legge l'eco del malessere che cova nel Pd dal giorno dopo le elezioni europee, quando il fossato fra le due anime del partito (renziani e no) si è approfondito.
Altri vi leggono un gesto di insofferenza all'indirizzo dei magistrati che stanno dimostrando, dall'Expo al Mose di Venezia, di non aver alcun riguardo verso gli esponenti della sinistra colti in fallo: siano essi amministratori locali o mediatori d'affari. Va ricordato infatti che ieri il governo è stato battuto alla Camera su un emendamento della Lega volto a inasprire le pene per i magistrati che sbagliano, diciamo così, nell'esercizio delle loro funzioni. Ed è un fatto che il tema della responsabilità civile era stato trattato in tutt'altro modo appena due mesi fa, quando le posizioni del centrodestra erano state respinte da un Pd compatto. Adesso invece accade l'opposto e circa quaranta deputati del partito di Renzi si dissociano.
L'ex magistrato Felice Casson, ora parlamentare democratico, ha detto a chiare lettere al sito "Huffington Post" che il voto di Montecitorio è stato una vendetta nei confronti della magistratura impegnata nelle grandi indagini che stanno riempiendo le cronache. E quanto sia pesante l'atmosfera lo conferma la nuova, delicata inchiesta che riguarda alcuni alti esponenti della Guardia di Finanza. È chiaro che bisogna essere molto prudenti prima di saltare alle conclusioni, però la sensazione è che le procure stiano affondando i colpi, forse incoraggiate dalla nuova stagione politica in cui lo stesso premier chiede la massima severità a tutti i livelli contro corrotti e corruttori.
Comunque sia, sono proprio le organizzazioni dei magistrati a vedere nel voto di Montecitorio un tentativo di intimidazione da parte del potere legislativo. Ma come - sostengono - proprio nel momento in cui stiamo sradicando la corruzione, il Parlamento ci carica sulle spalle la responsabilità civile? È una vecchia polemica che riemerge. L'aspetto paradossale è che Renzi in persona vede la necessità di rivedere molte cose nella macchina giudiziaria. E una forma di responsabilità civile andrà contemplata all'interno della riforma della giustizia.
Viceversa, quello che è accaduto ieri finisce per rendere più forte la resistenza della magistratura contro questi e altri correttivi. Gesto di rabbia o di insofferenza verso il presidente del Consiglio o verso le inchieste in corso, o magari verso entrambi, quel che conta è che in Parlamento il gruppo del Pd è andato per conto suo, indifferente agli esiti dell'operazione. La tempesta si può facilmente placare - ha ragione il premier - e l'emendamento approvato sarà presto rimosso. Però resta la sensazione che la maggioranza è vulnerabile e confusa sui passaggi chiave, esposta alle incursioni avversarie. E questi strappi, uniti al dilagare delle inchieste anti-corruzione che colpiscono la politica, rischiano di rendere ancora più arduo il rinnovamento dell'amministrazione giudiziaria.

Repubblica  12.6.14
Mose, le accuse di Orsoni “Così il Pd veneto mi spinse ad accettare quei soldi”
di Fabio Tonacci Francesco Viviano


VENEZIA. Mister X è il Partito Democratico del Veneto. La fantomatica «terza persona», a cui sarebbero andati i soldi che il Consorzio Venezia Nuova ha girato a Giorgio Orsoni, 110 mila euro «contabilizzati - sostiene la procura, che ha anche parlato di altri 450mila euro in nero - ma frutto di sovraffatturazioni», è dunque il Pd locale. La loro casa madre. È stato lo stesso sindaco a farlo capire chiaramente ai magistrati durante l’interrogatorio di garanzia, avvenuto nell’aula bunker di Mestre sei giorni fa. Durante il quale ha spiegato un retroscena ancora inedito: «Fui spinto dal partito ad accettare i finanziamenti di Mazzacurati, ma io non ho mai visto un euro». Fa anche tre nomi, Orsoni. Quelli di Michele Mognato, Gianpietro Marchese e David Zoggia. Cioè gli uomini che nel 2010 avevano in mano il Pd veneto. Due sono diventati deputati. Uno è finito agli arresti.
L’INTERROGATORIO DI ORSONI
Orsoni ha parlato per due ore, davanti ai pm Paola Tonini, Stefano Ancillotto e Stefano Buccini. I suoi legali sostengono che abbia chiarito tutto, per cui hanno fatto istanza di scarcerazione dai domiciliari. Richiesta che però, al momento, non è stata ancora accolta. Così come è stata rigettata quella di Giancarlo Galan, il quale chiede di essere ascoltato dai pubblici ministeri e, soprattutto, vuole essere sentito alla Camera. Secondo quanto ha ricostruito nell’interrogatorio il sindaco, durante la campagna elettorale del 2010 per le comunali e per le provinciali, la segreteria del Pd veneto non era contenta di come stavano andando le cose. Soprattutto temevano la candidatura di Renato Brunetta, che si presentava per la carica di sindaco. «È a quel punto che vennero da me in tre», sostiene Orsoni. Appunto Michele Mognato, allora segretario provinciale del partito, Zoggia (eletto nel 2013, come Mognato, alla Camera dei deputati) e Marchese, l’ex vicepresidente regionale del Pd arrestato due settimane fa. Sono loro, secondo quanto dice il sindaco, ad aver insistito perché si avvicinasse al Consorzio e ottenesse il finanziamento. I pm, nei 16 faldoni dell’inchiesta, hanno già ricostruito come avvenne quel passaggio di 110mila euro. Sia Piergiorgio Baita, ex ad del Mantovani, sia Giovanni Mazzacurati, il gran burattinaio del Mose, sostengono di aver dato il denaro a Ferdinando Sutto - la persona che effettuava i pagamenti per conto del “supremo” - e di lì al commercialista di Orsoni, il gestore del comitato elettorale. Sutto, secondo un’informativa del nucleo tributario della guardia di Finanza, lo avrebbe anche spinto a fare un bonifico di 30mila euro alla Fondazione Marcianum, nata per la volontà dell’allora patriarca Angelo Scola.
“IL MINISTERO IN MANO A BAITA”
Dalle 110mila carte depositate dal gip, viene fuori anche un interrogatorio ancora inedito di Claudia Minutillo, la segretaria di Galan, la quale racconta di un incontro al ministero delle Infrastrutture, al tempo guidato da Pietro Lunardi: «Ci fu una riunione dell’allora ministro alla presenza cinque presidenti di regioni e Lunardi propose di non fare più la Venezia-Cesena ma la Venezia-Orte, che poi addirittura diventò Venezia-Civitavecchia ». I presenti si trovarono subito d’accordo: «In altre occasioni ci avrebbero impiegato 10 anni, invece in pochissimo tempo misero Vito Bonsignore, che era il promotore di questa cosa, si dice legato a Caltagirone... Mi ricordo che erano tutti d’accordo, anche i vertici di Forza Italia perché ne avevano parlato a Galan sia Dell’Utri che Previti... Baita teneva i contatti con il dottore Albanese del gruppo di Bonsigonore e poi avevano dentro al ministero delle persone…». E qui spunta, ancora una volta, l’ex amministratore del colosso delle costruzioni Mantovani: «C’era il direttore generale delle Infrastrutture, la dottoressa Barbara Marinali, che rispondeva totalmente a Baita. E poi c’era Ercole Incalza… quello era da sempre un riferimento per tutti quanti». Nell’ennesimo interrogatorio fiume, la Minutillo racconta di una busta con 500-600mila euro. Chi erano i destinatari, chiede il magistrato? «Spesso mi fu fatto il nome di Gianni Letta, che era quello che gestiva per nome e per conto del governo Berlusconi, molto spesso per far sì che venissero stanziati i soldi per i fondi destinati al Mose».
I LUSSI DI MAZZACURATI
Leggendo tutte le informative dei finanzieri, che per due anni hanno seguito Mazzacurati, si capisce bene di che pasta è fatto l’uomo. Dell’amore per il lusso, a spese degli Italiani. Analizzando conti correnti e intercettazioni, viene fuori «l’innegabile spreco» e lo «sfrenato uso privatistico delle risorse pubbliche» « del patron del Consorzio Venezia Nuova. Al quale non bastava aver comprato «a spese del contribuente», l’installazione di impianti di climatizzazione «in abitazioni private», «rinfreschi alla Mostra del cinema», non gli era sufficiente essersi aumentato lo stipendio di un milione di euro e aver messo sul bilancio del Consorzio anche il personale di servizio di casa propria. Aveva puntato pure un super attico a Piazza di Spagna. Un appartamento che aveva visto con la consorte Rosangela Taddei, «da acquistare - annotano gli investigatori, che dunque ritengono avere elementi per sostenerlo - sempre a spese del contribuente». Questa era la loro intenzione, erano a un passo dall’effettuare il contratto, ma poi l’affare è sfumato.
SPAZIANTE E PALENZONA
«Di interesse investigativo» ci sono anche i contatti tra l’ex generale casertano Emilio Spaziante e Fabrizio Palenzona, vicepresidente di Unicredit. «Il Big», come lo chiamava Spaziante. Agli atti ci sono decine di sms tra loro. I due si incontrano il 4 ottobre 2013 nella torre A della sede della banca a Milano. «Emilio - si legge nell’informativa della finanza - potrebbe aver avuto la promessa di un impiego nel management della banca ». Ciò si desume dai messaggi che il militare invia a tale Nando Cazzaniga subito dopo l’appuntamento: «Ho accettato eh…sono molto molto contento», scrive Spaziante. Ma non ha raccolto solo per sé, a quanto pare. «Ha utilizzato l’incontro in parola per ottenere indubbi vantaggi per suo figlio (si tratta verosimilmente di un finanziamento) ». Telefona a Daniele (il figlio, ndr ), poco dopo aver contattato Cazzaniga: «È andato tutto benissimo, la pratica è tutta completa quando la porti da Bologna, appena portiamo le carte la trattazione lì dopo una settimana, dieci giorni, dovrebbe passare».

Repubblica  12.6.14
Da Venezia all’Expo l’alleanza di ferro con le coop rosse
di F. T. e F. V.


VENEZIA. Una sinistra coincidenza lega Milano a Venezia e annoda l’Expo al Mose. La Mantovani e il Co. Ve. Co., il consorzio rosso da cui Pio Salvioli attingeva denaro per “oliare” amici e possibili nemici, sono gli stessi soggetti che hanno vinto e stanno portando avanti l’appalto più sostanzioso dell’Esposizione Universale milanese, quello della cosiddetta piastra. Uno “scherzo” da 164 milioni di euro, diventati più di 200 con due successive opere complementari (una da 41 milioni) che ha fatto sollevare più di un dubbio all’Authority per i contratti pubblici.
È tutt’altro che un caso, dunque, che gli unici atti inviati finora dai pm veneziani Stefano Ancillotti, Stefano Buccini e Paola Tonini a un altro ufficio giudiziario siano stati, nei giorni scorsi, gli interrogatori di Piergiorgio Baita, che della Mantovani è stato amministratore delegato fino a quando non l’hanno arrestato nel febbraio del 2013. La sua azienda era un cardine della “cupola” messa in piedi da Giovanni Mazzacurati, così come lo era il Co. Ve. Co.: entrambe con quote importanti nel Consorzio Venezia Nuova.
Il passaggio che interessa ai magistrati di Milano è questo, messo a verbale da Baita il 17 settembre scorso. Gli inquirenti gli domandano quale fosse l’esigenza di aver costituito anche per la piastra dell’Expo una Ati, una associazione temporanea di imprese, che comprendeva la Socostramo di Erasmo Cinque, vicino all’ex ministro Matteoli indagato per la faccenda delle bonifiche di Marghera. Dato quantomeno curioso, visto che lo stesso Baita l’aveva definita nel precedente interrogatorio «incapace » di svolgere i lavori che aveva ottenuto nella provincia di Venezia. «Noi e il Co. Ve. Co. l’abbiamo accettata con due considerazioni: la Socostramo aveva messo sul tavolo la cessione dei diritti che aveva acquisito nel far vincere all’Ati di Strabag il secondo lotto della Pedemontana lombarda, bandito da Infrastrutture lombarda. Per cui, considerati i rapporti che Socostramo aveva con Infrastrutture Lombarde, e in particolare con l’amministratore delegato, e considerato che, per male che fosse andata, ne avremmo ricavato il subentro nel suo diritto all’esecuzione di un semilotto della Pedemontana lombarda, l’abbiamo preso nell’Ati». Erasmo Cinque, per l’uomo della cupola del Mose, ha anche una funzione in più: «Dopo l’aggiudicazione, mi ha presentato all’ad di infrastrutture lombarde, Antonio Rognoni». Nelle intercettazioni allegate ai 18 faldoni dell’inchiesta, spunta però altro. Ce n’è una tra Franco Morbiolo, presidente del Co. Ve. Co. e Pio Savioli, giudicata di rilievo investigativo: «Se Mazzacurati è interessato all’Expo - dice Morbiolo al telefono - perché il Consorzio vuole pensare ad altre cose, hanno fatto questa associazione che si chiama Expo bonifiche... adesso mi mandano tutto… il presidente è un certo Bordini. C’è dentro anche la provincia di Milano, l’Imi e Intesa San Paolo, c’è la Bocconi…». Savioli ipotizza un possibile interessamento di Thetis, ma Morbiolo gli spiega la sua idea: «Io come Co. Ve. Co. pensavo di entrare… è tutta roba fatta bene, costruita anche politicamente e anche con l’università… questa rischia di diventare come il Consorzio Venezia Nuova, da associazione poi si trasformerà, arriveranno i finanziamenti. Vittorio Addis di Tecno Habitat mi ha detto “mica male, il Consorzio è un peso forte, l’unico concessionario in Italia”…. perché il Consorzio ha i rapporti a Roma, ma Impregilo non vuole Co. Ve. Co., ché poi, dice, rompe i coglioni».
Baita è un nome ben conosciuto anche da Gianstefano Frigerio, il faccendiere finito in carcere per le tangenti all’Expo: «…la Regione (Lombardia) si è anche incazzata - dice al telefono con Walter Iacaccia, il suo uomo di fiducia - per via dello sconto del 40 per cento (riferito al ribasso con cui la Mantovani ha ottenuto la commessa della Piastra, ndr), ma loro cosa hanno un rapporto privilegiato con il mio amico ex presidente del Veneto ». Appunto, Giancarlo Galan.

il Fatto  12.6.14
La cantonata e super poteri attendono ancora
A oltre un mese dagli arresti Expo l’annuncio resta tale. Il commissario non può bloccare le gare fino a sentenza definitiva. Ipotesi “taglio” degli utili
di Gianni Barbacetto


Sono passati: otto giorni dalla retata che ha messo in carcere i manovratori dei finanziamenti occulti del Mose di Venezia; 35 giorni dagli arresti della cupola degli appalti per l’Expo di Milano; 77 giorni dalla nomina di Raffaele Cantone a presidente dell’Autorità anti-corruzione. Eppure, a parte gli annunci e i proclami, non è ancora successo niente di concreto. Cantone resta in attesa degli eventi. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi si è costruita la fama di uomo veloce, alla guida di un governo che va di fretta. Ma la definizione dei poteri e degli strumenti da assegnare a Cantone slitta di giorno in giorno, di settimana in settimana, come anche il decreto sulle nuove norme anti-corruzione. Le cronache segnalano che l’ex magistrato anti-camorra ha incontrato l’ultima volta il presidente del Consiglio sabato scorso, 7 giugno, a Napoli. Poi silenzio. La corsa annunciata sembra essersi trasformata in melina. Non sappiamo come l’annunciato super-controllore dell’Expo potrà concretamente controllare i lavori dell’esposizione che intanto si fanno sempre più a rischio e sempre più in ritardo, a meno di undici mesi dall’apertura dei cancelli. Ieri, a un convegno organizzato alla Farnesina, Cantone ha detto chiaro che “quello dell’Autorità oggi è un potere monco: il nostro potere di controllo si scontra con difficoltà oggettive, abbiamo solo 26 persone e dopo l’attività istruttoria non possiamo irrogare sanzioni”. Ha chiarito: “L’Authority non è un organo che deve scovare la corruzione, non è un organo investigativo che interviene su fatti di corruzione già avvenuti. Deve invece far rispettare le norme di prevenzione della corruzione”. I problemi aperti sono almeno tre. La definizione dei poteri di controllo, con l’ampliamento delle possibilità ispettive da parte dell’Authority. L’assegnazione di poteri sanzionatori, senza i quali e l’Autorità anti-corruzione resterebbe un’istituzione impotente. E lo scioglimento del nodo che riguarda la revoca degli appalti già assegnati: difficile che possano essere bloccati, in caso di inchieste e arresti, anche perché questo significherebbe fermare i lavori per chissà quanto tempo, rendendo praticamente impossibile la consegna entro la fatidica data del 1 maggio 2015; più praticabile potrebbe essere la strada di bloccare gli utili delle aziende che hanno vinto le gare in modo fraudolento. Ma poi: se per fare in fretta sono state sospese le regole e allentati i controlli, come farà Cantone a verificare appalti e procedure?
BUIO FITTO anche sulle norme che dovrebbero far tornare legge il falso in bilancio, introdurre il reato di autoriciclaggio e riformare i tempi della prescrizione salva-corrotti. Domani, venerdì, Renzi e il suo governo dovrebbero finalmente definire i poteri dell’Autorità anti-corruzione e nominare gli altri quattro componenti dell’Authority, oltre a Cantone. Per procedere alla scelta, il ministro per la Pubblica amministrazione Marianna Madia ha già raccolto le candidature con una procedura che si è conclusa il 14 aprile: sono arrivati ben 230 curricula. Era atteso anche il varo, da parte del Senato, delle nuove regole su falso in bilancio, autoriciclaggio e prescrizione, ma la partita è già stata rimandata, con voto favorevole di tutti i capigruppo del Senato , escluso quello del Movimento 5 Stelle. L’approdo nell’aula di Palazzo Madama è stato rinviato al 25 giugno. E anche questa data è con riserva: “Ove concluso l’esame in Commissione”. Vuol dire che il Senato potrà lavorare sull’anti-corruzione solo se il governo avrà presentato in tempo i provvedimenti e se la Commissione Giustizia avrà avuto il tempo di discuterli e votarli. Altrimenti, si aspetta ancora.
Intanto le imprese che hanno perso la gara Expo con la Maltauro hanno presentato ricorso al Tar contro Expo 2015 e il commissario Giuseppe Sala. “L’aggiudicazione all’Ati Maltauro - lamentano - sarebbe frutto di atti corruttivi tra l’allora legale rappresentante Enrico Maltauro e il direttore generale di Expo 2015 spa Angelo Paris, anche tramite altri soggetti (G. Frigerio, L. Grillo, S. Cattozzo, P. Greganti, ecc.), che avrebbero influenzato la commissione giudicatrice”. Costruzioni Perregrini srl di Milano (capofila), Panzeri spa, Milani Giovanni & C. srl. che sono arrivate seconde con uno scarto di 0.40 punti, ambiscono a subentrare. Difficile che accada prima di una sentenza definitiva che certifichi l’eventuale corruzione della Maltauro.
Nell’intricata faccenda il Consiglio dei ministri di domani proverà a indicare i nuovi poteri del commissario Cantone e i nomi della sua squadra, per completare finalmente l’organico dell’Authority più annunciata d’Italia.

l’Unità  12.6.14
Giovanni De Luna
«Contro la corruzione dare nuova forza alla democrazia»


«Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno…». Si potrebbe cominciare risalendo molto in là negli anni. La corruzione in Italia si presenta con una storia lunga che può arricchirsi ogni giorno di nuovi capitoli. La corruzione come un male“ nostrum”? Lo chiediamo a Giovanni De Luna, storico che insegna all’Università di Torino, di cui si possono leggere a proposito delle nostre vicende più vicine «Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria» e «La Repubblica del dolore. Le memorie di una Italia divisa» (entrambi pubblicati da Feltrinelli).
Insomma, professore,dobbiamo considerare la corruzione come qualcosa cui la nostra cultura, delle élite ma non solo ,è indissolubilmente legata? Insuperabile anche per un decisionista come Renzi? Dai petroli alla Lockheed, da tangentopoli al Mose…
«Credo ci sia una trappola da fuggire: immaginare la corruzione di questi giorni come prova dell’eterno ritorno di una corruzione endemica. È vero, ma è anche vero che non è sempre la stessa corruzione. La corruzione, nella discontinuità, cambia faccia e cambiando rivela anche le mutazioni del sistema politico e delle sue patologie. È il termometro di malattie diverse. Prima era la mancanza di alternative di governo, con la Dc fissa al potere, ad aprire il varco al malaffare, nell’opacità e nella immobilità che garantiscono connivenza e impunità. I casi degli anni ottanta segnalano l’emergere di una logica spartitoria che il sistema dei partiti condivide, quella logica che aveva denunciato Enrico Berlinguer. Dagli anni ottanta la novità consiste nella sovrapposizione di comportamenti privati e di comportamenti pubblici. Una cosa diventa l’altra. Arcore e Palazzo Grazioli vengono elevate a sedi istituzionali e il territorio pubblico viene utilizzato come il campo di soddisfazione di interessi privati…».
Siamo arrivati a Berlusconi e a certi suoi seguaci, tipo Scajola…
«Negli ultimi tempi però si sono visti passi avanti su questa strada. Ne sono esempi eclatanti i partiti che si dissolvono e si rappresentano come costellazioni di feudi tenuti assieme da una leadership, tanti feudi, comunali regionali nazionali, che sono riferimento e punto di raccolta di espressioni diverse: si sono superate le correnti, sono spuntati come funghi, per ragioni trasversali, apparati partitici frammentati, in ciascuno dei quali si insediano banchieri, finanzieri, commercianti, mediatori, profittatori di ogni genere».
Questo è il disegno. Il “che fare?” è la vera questione, di fronte alla ripetizione degli scandali, che chiama in causa la politica.
«Purché la politica si presenti con un progetto, purché la politica torni ad essere confronto di idee. Mi pare che abbia qualche merito Renzi, quando decide di smontare nel Pd quella rete di feudi, di rompere certi assetti, di superare la frammentazione. Però questo è un aspetto. L’altro sta nel ricostruire un rapporto non solo formale tra un vertice e la base, fare in modo che lo scambio e il controllo siano continui, dare nuova forza alle democrazia. È giusto esultare per il quaranta per cento alle Europee, ma Renzi dovrebbe porsi anche qualche interrogativo di fronte ai quaranta o ai cinquanta cittadini su cento che non sono andati a votare e che non andranno a votare neppure la prossima volta».
Forse è anche colpa loro, forse qualche colpa di tanto disastro è anche di chi rinuncia. Forse proprio la rinuncia di tanti conferma l’esistenza di un morbo così profondo da risultare qualcosa che appartiene alla natura di un paese e diventa inguaribile…
«Certo, ma è un pensiero che ti lascia nell’impotenza. La guerra appartiene all’animo dell’uomo, ma si può provare ad evitarla. La norma sul falso in bilancio non sta nel solco della corruzione endemica, appartiene ad un certo agire di governo votato all’interesse privato di alcuni».
Anche la nomina di Cantone a commissario anti corruzione appartiene ad un certo agire di governo?
«Come davanti alla catastrofi naturali la nomina di Bertolaso o contro la mafia la nomina del prefetto Mori. Però stiamo sempre dentro una logica emergenziale, che non può e non deve funzionare in eterno. A lungo dovrebbe funzionare un’articolazione della democrazia che riconnetta élite e popolo. Equi torniamo a Renzi: quella che mi sembra la sua battaglia contro quei feudi interni, se si ferma alla creazione di una leadership forte, rischia di restituirci la sostanza di un populismo ottocentesco. Il suo obiettivo dovrebbe essere quello di rendere più funzionale il rapporto tra il momento della decisione politica e quello della formulazione dal basso della domanda. Senza andare troppo oltre: ridare al paese il valore della partecipazione democratica».
C’è un movimento nel paese, Grillo e non solo Grillo, che ad ogni scandalo si gode una boccata d’ossigeno. Sarà determinante nella lotta alla corruzione?
«Grillo è il sintomo della malattia, più che la medicina. La sua democrazia in rete semplicemente mi spaventa, perché scioglie ogni individuo che fa clic sul computer da qualsiasi patto di cittadinanza, che consiste in una condivisione di diritti e di doveri, di culture, di storie, anche nella prossimità fisica. Che basti schiacciare un tasto ‘sì’ ‘no’, nella tua stanza, con la tua tastiera, per decidere mi sembra assurdo. Certo ti può far sentire un dio, ma dove stanno gli altri? È una democrazia ridotta nella forma di un consumismo occasionale e irresponsabile. Irresponsabile, appunto: si sono scritti nella rete e si sono letti insulti all’indirizzo di donne, parlamentari o giornaliste, che nessuno si sognerebbe di pronunciare in pubblico. Ma è questa una conquista, è questa democrazia?».

Repubblica  12.6.14
Gli effetti collaterali della corruzione
di Nadia Urbinati


LA CORRUZIONE rende più poveri e meno liberi, e mina gravemente la reputazione del paese. Queste conseguenze collaterali tendono a essere oscurate dal fatto criminoso del quale danno conto quotidiano le cronache. Eppure, la ricaduta della corruzione sulla vita di tutti noi è un fattore sociale sul quale occorre concentrarsi con più insistenza se si vuole andare oltre la requisitoria morale. La corruzione danneggia tutti ed è nel nostro interesse prevenirla, svelarla e combatterla. L’esito di un sistema di corruzione non è infatti solo l’abuso di risorse pubbliche che potrebbero essere impiegate per il bene della comunità. È anche un’oggettiva condizione di privilegio e di dominio di cui gode chi usa metodi illeciti.
I corruttori truccano la libera competizione creando reti di lealtà omertosa per la spartizione di commesse pubbliche. I politici se ne servono per finanziare la loro campagna elettorale e accaparrarsi e distribuire favori. Affaristi e avventurieri politici creano un potere sovrano sotterraneo che governa un mercato protetto, un monopolio vero e proprio. Gli effetti sono molteplici e vanno dalla lentezza nella realizzazione dei progetti, alla pessima qualità del prodotto, alla lievitazione dei costi. Tutto a svantaggio di chi opera alla luce del sole e dei contribuenti. Privato e pubblico hanno per questo un uguale interesse a scardinare il sistema di corruzione.
La corruzione fa altro ancora. Come ha ricordato il Presidente del Consiglio alla Repubblica delle idee di Napoli, compromette la reputazione del nostro paese nel mondo. La reputazione è un bene simbolico che facilita l’acquisto di beni concreti. Il sistema di scambio fondato sul mercato si regge infatti su una sinergia di buone regole (diritti civili e stabilità politica) e di norme etiche che sono linee guida comportamentali. L’apertura che la competizione e i mercati facilitano implica per gli operatori dover contare su mappe di orientamento certe. Questa è la funzione delle idee generali e di quel che comunemente si chiama pregiudizio: uno schema di valutazione abbreviato, un concentrato di conoscenze che serve a dirci subito chi è il nostro interlocutore, cosa aspettarci e come comportarci. Se la fiducia è un serbatoio di energia che ci consente di accollarci il rischio di scelte, la reputazione è come un certificato di garanzia che ci fa credere di aver riposto bene la nostra fiducia. Perdere la reputazione presso gli altri è quindi un danno enorme alla nostra efficienza perché toglie forza alla fiducia. E se le nostre azioni non incontrano la fiducia altrui, dobbiamo spendere più tempo ed energia per cambiare quel giudizio che ci danneggia. Per convincere gli altri che siamo italiani ma non per questo corrotti dobbiamo fare un lavoro suppletivo. Quindi il danno all’immagine del paese è un danno a ciascuno di noi, che siamo meno potenti e meno liberi non per nostra individuale responsabilità. La diseguaglianza delle opportunità che la segretezza della corruzione genera e il danno alla reputazione sono due conseguenze gravi, non correggibili con il solo buon comportamento del singolo. Come la corruzione deve farsi sistema per essere efficace così anche il comportamento anti-corrotto. Per infondere la certezza che l’onestà sia conveniente lo Stato deve mettere in moto una sinergia di interventi. Infatti, l’impatto sulla corruzione dipende da quanto efficacemente e celermente i governi fanno funzionare le istituzioni di controllo e trasparenza nelle politiche fiscali e nelle relazioni tra politico e privato.
Più questo processo riesce, più la corruzione si fa costosa e l’onestà vantaggiosa. Gli Stati democratici hanno interventi diversificati, dalla repressione post factum alla disincentivazione ex ante. Quest’ultima può includere anche l’esclusione del corrotto accertato dal godimento della piena libertà politica: ai corruttori e ai corrotti si deve precludere non solo il diritto di accesso ai pubblici uffici e alle gare di appalto, ma anche la possibilità di candidarsi alle carriere elettive e di prestare consulenza per la pubblica amministrazione. Proprio perché la corruzione è un reato che macchia la nostra reputazione e ci toglie l’eguaglianza di opportunità, lo Stato ha il dovere di metterla fuori legge e di trattarla come una sfida diretta all’ordine costituito.

Repubblica  12.6.14
Lo scandalo
Dalla Finanza ai servizi segreti la cordata dei Pollari boys
Spaziante, Bardi, Speciale, Forchetti, Adinolfi, Manzon e gli altri: ecco come opera da anni il sistema deviato degli alti ufficiali
di Carlo Bonini



NELLA Guardia di Finanza i morti si afferrano ai vivi, forse perché morti non lo sono mai davvero stati e il frutto della stagione della doppia obbedienza e del tradimento, torna a sfregiare il lavoro di 56mila uomini.
NELL’ARCO di soli sette giorni, cadono nel disonore dell’accusa di corruzione due generali di corpo d’armata: Emilio Spaziante e Vito Bardi. Il secondo succeduto al primo a settembre scorso nell’incarico di Comandante in seconda del Corpo, il più alto gradino di carriera. Nell’arco di sette giorni, dal saccheggio del Mose al baratto napoletano sulle verifiche fiscali, si ripropone la saga nera di una congrega di altissimi ufficiali e del loro ramificato sistema di relazioni che ha trasformato le guardie in ladri e i ladri in guardie. Spaziante, come Bardi, sono oggi i campioni e l’esito di una stagione che ha il suo atto fondativo alla fine degli anni ‘90. Quando un brillante e giovane ufficiale di nome Nicolò Pollari stringe un patto che è insieme di fedeltà e potere con un gruppo di altrettanto giovani ufficiali, per lo più gravitanti nel II Reparto del Comando Generale (l’Intelligence del Corpo), e la cui posta in palio è prendersi la Guardia di Finanza. Pollari è tanto ambizioso quanto politicamente spregiudicato. Comincia flirtando con un pezzo dell’ex Pci, si lega a quel Lorenzo Necci nelle cui Ferrovie parcheggia i più fedeli e funzionali tra i suoi ufficiali, ma è lesto a comprendere che la stagione del trionfo Berlusconiano (2001) offre un’opportunità irripetibile. Diventare il cardine di un Sistema che è, insieme, di potere e ricatto e in cui la Guardia di Finanza è braccio politicamente orientato del Presidente del Consiglio (Berlusconi) e del suo ministro dell’Economia (Tremonti). Pollari va dunque al Sismi e, al Comando generale, il suo delfino Emilio Spaziante (che per altro ha comandato il II Reparto) ne diventa fedele ventriloquo.
Il Servizio segreto militare e la Guardia di Finanza diventano vasi perfettamente comunicanti che garantiscono agli ufficiali che hanno prestato giuramento di fedeltà alla cordata di entrare e uscire dai due apparati. Accumulando potere, informazioni, capacità di ricatto. Spaziante, per dirne una, dai Servizi va e viene due volte (al Side prima, da capo reparto, al Cesis, poi, da vicedirettore). Ai Servizi transita Mario Forchetti (nel 2010 è capo dell’intelligence economica dell’Aise) dopo essere stato, da generale di divisione, comandante della Guardia di Finanza in Lombardia. Ai Servizi va Andrea Di Capua, ufficiale il cui fratello, Marco (oggi direttore vicario dell’Agenzia delle Entrate e in predicato di succedere a Befera), è nei pensieri di Pollari esattamente come in quelli di Spaziante e Tremonti. Non fosse altro perché, nella vicenda della maxi evasione di “Bell” (mancato versamento di imposte sui 2 miliardi di plusvalenza nella cessione di Telecom), da direttore generale dell’accertamento dell’Agenzia delle entrate, il suo ufficio, sulla scorta di due perizie, ha concluso per l’impossibilità di dimostrare i presupposti di diritto che consentirebbero di pretendere da Bell il maltolto.
La consorteria in alta uniforme ha un centro di gravità politico, la Lombardia e il ministro forzaleghista che esprime (Tremonti), un meccanismo interno di cooptazione che agli ufficiali che giurano fedeltà assicura un percorso di carriera rapido e irreversibile perché “dopato” dal riconoscimento abnorme di encomi che assicurano l’automaticità degli avanzamenti. Tra il 2003 e il 2007, da comandante generale (l’ultimo non espresso dal Corpo), ne è custode Roberto Speciale, il generale fellone che consegna se stesso alla storia del Corpo anche per aver costretto i baschi verdi a umilianti ponti aerei per il trasporto di spigole che allietino le sue vacanze nelle Dolomiti. Il “doping” di Speciale (il Pdl lo ricompenserà con un seggio in Parlamento) consegna definitivamente il vertice del Corpo e le sue più prestigiose articolazioni di comando a un network che conta ufficiali quali Mario Forchetti, Vito Bardi, Michele Adinolfi, Walter Cretella Lombardo, Vincenzo Delle Femmine, Walter Manzon.
Su ognuno di questi ufficiali si posa la mano benedicente di Tremonti e il nullaosta della sua cinghia di trasmissione con il Comando Generale, Marco Milanese. Ognuno di questi ufficiali finisce, a partire dal 2011, e a diverso titolo, nel radar delle Procure italiane. Con una costante. Il sospetto di aver quantomeno commerciato in informazioni privilegiate in vicende cruciali dove potere politico e potere economico si sono contaminati torcendo le regole del mercato. Bardi e Adinolfi rimangono impigliati nelle intercettazioni dell’inchiesta P4. Di Manzon sappiamo dagli atti del Mose. Delle Femmine (già vicecapo di gabinetto di Tremonti) finisce nelle carte dell’inchiesta Bpm per i suoi rapporti con Massimo Ponzellini e il suo spicciafaccende Antonio Cannalire (l’uno e l’altro accusati di associazione a delinquere). Walter Cretella Lombardo, sopravvissuto all’inchiesta “Why not” di De Magistris, finisce stritolato a Napoli dall’accusa di corruzione. Il baratto tra la cordata della doppia obbedienza e Tremonti ha ragioni solide. Spaziante, oltre a un flusso di informazioni privilegiate, assicura al ministro che presto sarà possibile liberarsi (cancellandoli) dei Nuclei speciali di polizia valutaria, i reparti di eccellenza che sfuggono al controllo gerarchico dei comandi provinciali e regionali e indagano sui grandi evasori, sulle banche. Gli stessi di cui, una volta su due, lo studio Tremonti cura gli aspetti fiscali. In cambio, gli ufficiali che hanno giurato obbedienza hanno carta bianca. A meno che (è il caso di Michele Adinolfi) non si mettano in testa di giocare in proprio per il Comando soffiando all’orecchio di Berlusconi.
Nel 2011 la cordata era data appunto per morta. Ma lei non si è mai data per vinta. Ancora il 5 settembre 2013, Spaziante poteva cedere il suo ufficio di Comandante in seconda a Vito Bardi godendo dell’enfatico e pubblico ringraziamento del Comandante generale e suo dichiarato avversario Saverio Capolupo. «A mio nome e a nome di tutta la Guardia di Finanza esprimo i più sentiti ringraziamenti per l’opera prestata dal generale Spaziante ».

l’Unità  12.6.14
Lorenzin, ora regole per la fecondazione


«Nessuno è padrone di nessuno e nemmeno i genitori sono padroni dei loro figli. La sentenza della Corte Costituzionale non riconosce i diritti del concepito ». Il segretario generale della Cei Nunzio Galantino entra a gamba tesa nel dibattito aperto dalla Consulta che il nove aprile scorso ha dichiarato incostituzionale il divieto di fecondazione eterologa e che ieri ha spiegato le sue ragioni. «Si parla di rispetto e poi non si garantiscono proprio i più deboli - dice Galantino - . È un’ideologizzazione senza limiti che travolge il rapporto tra gli esseri umani».
Depositate ieri le motivazioni si è scatenata la polemica. Movimento per la Vita e il capogruppo al Senato del Nuovo centro destra Maurizio Sacconi chiedono l’intervento immediato del governo mentre l’Associazione Coscioni che è stata anche audita dai giudici supremi chiede ora al premier di prendere una posizione chiara: «Ora il governo deve scegliere da che parte stare - dice Filomena Gallo, segretario dell’Associazione - . Renzi è a un bivio: iscriversi tra i difensori di una legge violenta e dolorosa oppure adoperarsi per i malati, cancellando gli ultimi divieti imposti dalla legge 40». «Abbiamo capito - ha proseguito Gallo - la posizione che la ministra Lorenzin ha preso nominando come propria rappresentante Assuntina Morresi, per l'udienza del 18 giugno dinanzi alla grande camera della Corte europea dei diritti dell'uomo in cui si discuterà del caso di Adele Parrillo sul tema degli embrioni alla ricerca, ma non esiste un mandato politico che possa giustificare la posizione attuale. Come abbiamo già chiesto anche insieme a Marco Cappato, Renzi deve scegliere - ha concluso il segretario dell'associazione Coscioni - se non prende ora una posizione vuol dire che ha scelto la linea di difesa della legge 40 contro le coppie che vogliono un figlio nel proprio Paese, contro l'autodeterminazione e la libertà di ricerca scientifica».
Nei prossimi giorni il ministero metterà a punto le linee guida. «Ora che sono state rese note le motivazioni della sentenza con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo il divieto della fecondazione eterologa - ha reso noto in un comunicato la Lorenzin - , stiamo verificando tutti gli aspetti di tipo sanitario nei quali la Consulta non è entrata». Si tratta di questioni che riguardano l'accreditamento dei centri, i criteri di selezione dei donatori, il consenso informato, la definizione di percorsi di fecondazione eterologa garantendo sicurezza, qualità e tracciabilità, e che devono essere approfondite con il rigore necessario. Intanto i centri Cecos sono pronti a iniziare con l’eterologa. Sono già più di 700 le coppie in lista d’attesta. Nei giorni scorsi, spiega il Cecos, «abbiamo verificato all'interno dei nostri centri quante coppie sono in stand- by per consulenza di fecondazione eterologa. «Da un campione dei nostri centri emerge che numerose sono le e-mail e 5-6 contatti telefonici al giorno. I centri più grandi hanno già raggiunto dai 50 alle 77 coppie in stand-by. È auspicabile quindi che si faccia presto».

Repubblica  12.6.14
No al dottor Bonanni
di Alessandra Longo


RIUSCIRÀ Raffaele Bonanni, segretario della Cisl, a ritirare la laurea honoris causa in Consulenza e Management Aziendale che il rettore dell’Università di Salerno, Aurelio Tommasetti, ha intenzione di conferirgli? La domanda è lecita visto che 160 docenti dell’ateneo hanno scritto un appello per fermare la cerimonia prevista per il 16 giugno, alla presenza del ministro dell’Università Giannini. La petizione si intitola: «Laurea honoris causa a Bonanni: non in mio nome». Si chiedono i contestatori: Cos’ha fatto Bonanni per meritarsi il riconoscimento? «Non riteniamo - dicono i professori - che le sue opere siano apprezzate a livello nazionale e internazionale per valore culturale- artistico, economico-sociale o tecnico-scientifico ». Di sicuro il diretto interessato, diplomato a suo tempo in un Istituto commerciale abruzzese, ci rimarrà male per la rivolta dei prof. E farlo interrogare dalla Giannini?

Repubblica  12.6.14
Niente pensionati al lavoro e mobilità obbligatoria Sindacati contro la nuova Pa
Domani il governo vara la riforma della Pubblica amministrazione Rincaro in vista per il bollo auto. Cgil-Cisl-Uil: “Solo un bluff”
di Luisa Grion



ROMA. Se staffetta generazionale deve essere, lo sia fino in fondo: nella pubblica amministrazione non devono entrare subito diecimila giovani, ma centomila. I soldi per finanziare il ricambio si trovano: basta sfoltire di un terzo il numero dei dirigenti pubblici, che sono troppi. Convocati stamattina, per la prima volta, a sole 24 ore dal varo della riforma della pubblica amministrazione i sindacati del settore rilanciano: la riforma in due step (decreto più legge delega) indicata da Renzi «è poca cosa» dicono. Dopo «l’estenuante fase preparatoria », commenta Rossana Dettori segretario generale Fp-Cgil, «restano sul tappeto interventi spot e nessun progetto organico per migliorare i servizi».
La bozza in 24 pagine che dovrebbe entrare domani al Consiglio dei ministri, in realtà, contiene diverse novità. Nel decreto dovrebbe trovar posto la mobilità obbligatoria dei dipendenti entro 100 km; lo stop al trattenimento in servizio; il prepensionamento di due anni per i lavoratori pubblici considerati in esubero (secondo le stime elaborate per la spending review sarebbero 85 mila); la possibilità per i lavoratori in mobilità di essere ricollocati con qualifica più bassa; l’allentamento del blocco del turn over (i limiti previsti si riferiranno alla spesa complessiva non al numero delle persone in uscita), il dimezzamento dei permessi sindacali. La bozza introduce anche vari provvedimenti di semplificazione, fra i quali l’istituzione di un archivio unico sui veicoli in circolazione, con la possibilità di aumentare il bollo auto fino ad un massimo del 12 per cento entro il 2015.
Provvedimenti che «non incidono sul funzionamento della macchina dello Stato», lamentano i sindacati, critici anche sul fatto che si rinuncerebbe a premiare il merito, legando lo stipendio dei dirigenti all’andamento del Pil. Al tavolo del ministro Marianna Madia Cgil, Cisl e Uil porteranno dunque le loro proposte, pur consapevoli che gli spazi per trattare, almeno per quanto riguarda il decreto, sono scarsi (tanto più che sul testo, in scadenza a ferragosto, si prospetta un voto di fiducia). Le critiche sono severe, nonostante due delle loro richieste siano già state incassate: una riguarda il ruolo dei segretari comunali (dovevano saltare, ora non più) l’altra il contratto (è fermo dal 2009, il ministro Madia ne ha promesso la riapertura). Il punto di maggiore scontro riguarda la staffetta generazionale. Ce n’è estremo bisogno - convengono i sindacati - visto che l’età media del settore è avanzata (fra i 52 e i 55 anni), ma il ricambio modello Madia, dicono, «è un bluff». La riforma prevede che dall’abolizione del trattenimento in servizio (la possibilità di restare al lavoro dopo il raggiungimento dell’età pensionabile) si possano liberare 10 mila posti. «In realtà non sono più di 5 mila, una proposta ridicola» commenta Giovanni Faverin, responsabile Cisl-Fp: si può arrivare appunto a 100 mila sfoltendo i dirigenti. Ma il tema del trattenimento in servizio è scottante in sé, soprattutto per quanto riguarda la categoria dei magistrati, che ora può restare al lavoro per altri 5 anni dopo il compimento dei 70. La Corte dei Conti ha protesto facendo notare che l’uscita anticipata di organici già carenti provocherebbe «gravissimi vuoti, difficilmente gestibili ». Nella bozza di 24 pagine che circola in queste ore, l’abrogazione del trattenimento c’è: articolo 1, a partire dal prossimo 31 ottobre di quest’anno. Ma il governo sarebbe disposto a prevedere, almeno per questa categoria, una norma transitoria.

Repubblica  12.6.14
La scuola da ricostruire
di Adriano Prosperi


CI SONO tante emergenze nel nostro paese. Ma il rapporto del Censis sugli edifici scolastici statali e le lettere dei sindaci al premier Renzi ne segnalano una gigantesca. Edifici vetusti, cadenti, pericolosi per l’amianto o perché il tetto e le mura non ce la fanno più. Lo chiamiamo patrimonio edilizio, ma più che un patrimonio è un debito: è vecchio, arretrato, è stato lasciato indietro mentre l’edilizia privata conosceva il boom. È tempo di cambiare marcia.
Ma se la scuola statale è in questo stato non è solo per la crisi finanziaria e il patto di stabilità. E se deve essere ricostruita non è solo nelle mura e nei soffitti, negli impianti e nella eliminazione di rischi per la salute. Bisogna mutare strada rispetto a quella battuta da tempo: non solo in Italia.
Quella che ci ha portato qui è una strada lunga: e si è aperta davanti alle classi dirigenti e all’opinione pubblica quando ha vinto la convinzione che la scuola dovesse essere assoggettata alle leggi del mercato capitalistico. Leggi nuove: all’idea della scuola pubblica come canale formativo del cittadino e luogo di accesso ai più alti gradi del sapere sono subentrate le leggi della concorrenza per attirare i clienti-studenti e dell’efficienza che obbligava a sfornare un “capitale umano”. Inutile spreco è apparso l’obbligo dell’insegnante di formare l’allievo come personalità matura e cittadino cosciente dei suoi diritti e doveri. Occorreva addestrarlo per essere immesso sul mercato. Questa la dottrina entrata in vigore nel mondo occidentale coi governi di Margaret Thatcher e con Ronald Reagan negli Usa. Dunque, scuole pubbliche e private entravano in concorrenza. La svolta fu segnata negli Usa dal rapporto 1983 della commissione insediata da Reagan che denunziava lo stato fallimentare del sistema scolastico: la signora Thatcher ne seguì l’esempio con l’Education Reform Act del 1988.
Non parliamo delle conseguenze nel mondo anglosassone: importa invece osservare quelle che si ebbero in Italia. Il nostro paese aveva all’epoca una scuola pubblica e una università tutt’altro che disprezzabili, anche se messe a dura prova nelle loro strutture da un aumento della popolazione scolastica - dovuto al progresso economico e sociale del paese che viveva un primo avvio di correzione della ripartizione della ricchezza. Anche l’Italia subì gli effetti della nuova dottrina. Qui l’unica forma di concorrenza possibile era tra scuola pubblica e scuole confessionali: in quella direzione fu accelerato il flusso dei finanziamenti e si moltiplicarono le forme di servilismo verso le istituzioni educative di marca confessionale. La scuola pubblica dovette aprire le sue porte a insegnanti di religione nominati dai vescovi, in barba alla Costituzione. Da allora lo smantellamento della scuola pubblica e dell’università non ha conosciuto interruzione. Si poteva sperare qualcosa dalla costruzione europea. Ma qui ci siamo trovati davanti alla vittoria di un’idea di modernizzazione che recepiva in pieno il dogma liberista. Intanto, da noi si è venuta scatenando nella comunicazione pubblica un’offensiva tesa a convincere che è inutile perdere tempo a scuola. Siamo precipitati all’ultimo posto in Europa come percentuale di laureati e continuiamo a discendere nelle statistiche sul grado di istruzione della popolazione, la quantità di libri letti, la conoscenza e il rispetto del nostro patrimonio culturale.
È una corsa all’indietro che talvolta si veste di nuovi panni e si maschera da volontà riformatrice. Di recente la ministra Giannini ha promesso di abolire i concorsi universitari: non riformarli, non ricondurli alla funzione di selezionare realmente i migliori, non liberarli dalle pastoie di leggi scritte e non scritte, di bardature burocratiche soffocanti: no, cancellarli. Eppure la Costituzione, recependo un principio fondamentale della cultura illuministica, impone che agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si acceda mediante concorso: e ricorda che i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione. Con l’abolizione dei concorsi il carattere pubblico, statale, di scuola e università si intenderebbe forse anch’esso cancellato? E quali interessi privati si sostituirebbero così all’interesse pubblico, che è o dovrebbe essere quello primario di tutto l’ordinamento scolastico?

il Fatto  12.6.14
Lettera a Spinelli
Superiamo le guerre intestine per ricostruire la sinistra europea
di Antonio Ingroia


Cara Barbara, voglio innanzitutto esprimerti il mio più convinto apprezzamento per la tua scelta di accettare l’elezione al Parlamento europeo. Un gesto di generosità politica, intellettuale e personale, consapevole di prevedibili critiche, anche se l’imbarbarimento del confronto politico ha raggiunto livelli tanto inimmaginabili da dare ingresso anche nel campo che si pensava “amico” ad attacchi espressi in modo inaccettabile con parole anche infami e miserabili. E perciò va a te la mia piena solidarietà contro certi tentativi di denigrare la tua persona e la tua storia, da sempre limpide e trasparenti.
Tu hai tutto il diritto di cambiare idea perché sono mutate le condizioni di partenza della lista Tsipras. Da un lato, si è affermata con crescente consapevolezza, da parte di tantissimi, l’intenzione di proseguire un nuovo percorso politico dopo le elezioni. E dall’altra parte, alcune ambiguità, che si sperava svanissero, sono andate invece aumentando. Evidentemente alcuni dirigenti di partito avevano deciso che la Lista Tsipras dovesse essere un treno da usare fino alla prossima fermata, per poi scendere e prenderne un altro. Ecco, le incoerenze, che qualcuno paradossalmente vorrebbe contestare a te. Le vere ambiguità sono queste, tutte politiche, e non certo tue. E la tua scelta è invece l’unica che garantisce maggiori chance alla prosecuzione del progetto come ti hanno chiesto Alexis Tsipras e quei quasi 80.000 elettori che hanno votato te, prima ancora che la Lista, nelle due circoscrizioni in cui ti sei presentata.
IN OGNI CASO, non possiamo fingere di dimenticare che le ambiguità sono aumentate quando, appena un giorno dopo i risultati, un dirigente di partito ha considerato chiusa l’esperienza della Lista Tsipras e ha chiesto di fatto l’autoscioglimento nel Pd. E qualche giorno dopo il leader dello stesso partito dichiarava che l’orizzonte era un’alleanza di governo col Pd di Renzi. Se questi sono i rischi, mi chiedo chi meglio di te, che ha dato vita a questo progetto, può accompagnare il processo per la nascita di una nuova soggettività politica, garantendo che questa sia la prima tappa per costruire una reale coalizione sociale e politica alternativa al Pd renziano di sapore neoliberista. In Italia e in Europa si sente sempre più la necessità di un fronte ampio, condiviso, popolare e democratico, della Sinistra europea, ma che sappia guardare anche oltre il recinto, spesso asfittico e settario della Sinistra italiana. Anche nell’esperienza della Lista Tsipras sono stati commessi errori. Ad esempio, nella difficile fase della scelta delle candidature che ha anche portato alla rottura tra i garanti. So bene quanto sia complicata ed esposta agli errori, spesso gravi, quella fase per averla vissuta un anno fa. Errori spesso imposti dalla gestione verticistica di momenti cruciali, ma il processo di costruzione di metodi democratici, condivisi e dal basso, è in corso e gli spazi di partecipazione cresceranno, ne sono certo. Ma non basta declamarlo. Lo ha detto Alexis Tsipras: facciamo tutti un passo indietro per farne, insieme, tanti avanti.
Io personalmente l’ho fatto, rinunciando alla candidatura ben prima che voi garanti definiste le regole. Lo ha fatto il movimento che presiedo, Azione Civile, che ha offerto all’esame dei garanti rappresentanti della società civile, senza pressioni e insistenze. Ora è il momento di raccogliere i frutti di questo passo indietro per farne uno in avanti tutti insieme, perché vogliamo proseguire questo cammino oltre settarismi, individualismi e identitarismi. Anche per questo la tua presenza al Parlamento europeo è la migliore garanzia per la crescita del progetto in cui ho creduto sin dal primo momento.
PER QUESTO, cara Barbara, voglio dirti grazie. Noi ci siamo, pronti a fare un passo avanti, assieme a te e ai tanti che questo passo avanti vogliono farlo, dal basso, fuori dagli steccati, dalle gelosie, dalle guerre sotterranee, dai personalismi, dalle vecchie beghe e guerre sotterranee della sinistra.

Corriere 12.6.14
Jean-Luc Godard «candida» Marine Le Pen
«La vorrei come primo ministro»


PARIGI — Detto da lui fa un po’ impressione. Jean-Luc Godard che «candida» Marine Le Pen alla guida del governo francese. E spiega: «Speravo che alle elezioni il Front National arrivasse in testa. Trovo che Hollande dovrebbe nominare Marine Le Pen primo ministro». La proposta al presidente francese in un’intervista a Le Monde . Secondo il regista della Nouvelle Vague , che ha compiuto 83 anni lo scorso dicembre, sostituire Valls con la Le Pen servirebbe: «Per smuovere un po’ le cose. Si faccia almeno finta di smuoverle. Fare finta è sempre meglio che non fare nulla». Dichiarazioni che hanno provocato sconcerto e sorpresa nella sinistra intellettuale francese anche se Godard, che ha appena ricevuto l’ennesimo premio al Festival di Cannes, si era già distinto in passato per le sue prese di posizione eterodosse. Il dibattito dentro la gauche dopo il successo di Marine Le Pen non ha risparmiato critiche a chi aveva sottovalutato le potenzialità del Front National.

Repubblica  12.6.14
Cina: compreremo debito italiano ma aiutateci a contare in Europa
di Giampaolo Visetti



Italia e Cina, dice il premier Matteo Renzi, devono fondere le virtù di tartaruga e cavallo: resistenza, longevità, ma tenendo ora un passo veloce «e anzi alzando la vela per correre insieme». E’ la sintesi, condivisa dal presidente cinese Xi Jinping e dal primo ministro Li Keqiang, della missione in Asia tesa a recuperare lo storico ritardo italiano nel mondo preceduto dal segno più. Esibizione di ottimismo, nei palazzi del potere affacciati su piazza Tiananmen, ma i numeri confermano che la corsa è in salita. Quattordici i miliardi investiti dalle industrie italiane in Cina, uno sulla rotta opposta. Interscambio fermo a 33 miliardi di euro, rispetto all’obbiettivo dei cento annunciato già da Berlusconi: 23 a 10 la bilancia a favore di Pechino.
Renzi però arriva in Cina a capo di una missione alla tedesca, presentando oltre cento tra le imprese più dinamiche del Paese e costringendo così anche i cinesi a scomodare i colossi, a partire dalla star dell’e-commerce, Jack Ma, pronto a puntare su lusso e piccole e medie imprese straniere. Due gli obbiettivi: aumentare l’importazione in Cina del «made in Italy» hi-tech, attenuando il protezionismo del Dragone, e aprire l’Italia a maggiori investimenti cinesi, finanziari, ma pure in aziende e infrastrutture. Gli ostacoli si ripresenteranno da domani, imprese troppo piccole in Italia e investitori troppo grandi in Cina, ma dopo anni di vuoto la porta della Città Proibita è stata riaperta e Renzi corteggia i leader rossi con due promesse immediate: visti turistici e business entro 36 ore ai cinesi (100 milioni in ferie all’estero nel 2013) che scelgono l’Italia per atterrare in Europa e finanziamenti a campus universitari «per trasformare gli studenti in ambasciatori delle due super-potenze mondiali della cultura». Undici i contratti più sostanziosi, in cinque settori strategici: ambiente, urbanizzazione, sanità, aeronautica e agroalimentare. Renzi, in arrivo dal Vietnam e in volo oggi verso il Kazakhstan, a Pechino si gioca anche tre carte forti: il semestre Ue guidato da Roma, il vertice Asean in ottobre e sempre a Milano l’Expo 2015, che la Cina interpreta come la sua grande vetrina in Europa.
Il messaggio di Xi Jinping e Li Keqiang a Renzi è chiaro e tutto politico: la Cina è pronta a sostenere la ripresa italiana, non smettendo di acquistare debito, ma a patto che Roma diventi uno sponsor leale di Pechino a Bruxelles, abbassando qualche barriera. Renzi, inaugurando il Business Forum Italia-Cina assieme alla ministro Federica Guidi, risponde che «dobbiamo e possiamo fare di più e lo faremo» e che «dopo Marco Polo per i nostri due Paesi il meglio deve ancora venire». A Pechino la scelta di Renzi, visita ufficiale prima in Cina che negli Usa, è stata notata. La linea di leadership e mercati resta però prudente: dietro l’affabilità del «giovane premier» c’è l’Italia che cresce poco, troppo cara e troppo corrotta, e solo «riforme rapide», come nota Xi Jinping, possono riportare Roma sui radar della seconda economia mondiale. Un segnale incoraggiante arriva in diretta: nel primo trimestre 2014 secondo l’Istat l’export italiano cresce dell’1,5%, livelli germanici. Non è una tartaruga con il passo di un cavallo, ma un passo sì: e un «rapporto win-win» tra Italia e Cina ora sembra un po’ meno impossibile.

Repubblica  12.6.14
Un Jihadistan tra Siria e Iraq rinasce il sogno del califfato
di Renzo Guolo


LA PRESA di Mosul da parte di forze jihadiste risveglia vecchi fantasmi. In particolare quello di un emirato nelle provincie sunnite della Mesopotamia, che allunga le sue propaggini sino alle rive libanesi del Mediterraneo. Questo, del resto, è il programma dell’Isis, enunciato a chiare lettere nel suo nome in arabo: Dawla islamiyya fi Iraq wa Chaam. La cui contrazione, Dai’ch , è tradotta come Stato islamico in Iraq e nel Levante.
Solo qualche anno fa i jihadisti iracheni sembravano alle corde, relegati nelle province rurali di Anbar e Ninive. Ma il desolante vuoto di offerta politica nel campo sunnita è stato colmato dall’Isis, diventando agli occhi di parte della popolazione l’unico soggetto politico e militare in grado di contenere lo strapotere sciita e le spinte centrifughe dell’indipendentismo curdo. Inspiegabile, altrimenti, la sua rinascita. Non basta la leadership di Abu Bakr al-Baghdadi, riuscito a attirare nuovamente combattenti da ogni angolo del mondo e dare al gruppo, in precedenza diviso da protagonismi e rivalità dei suoi comandanti militari, una struttura centralizzata e meglio addestrata.
Sfuggito al rischio del dissolvimento, l’Isis ha messo in pratica la teoria del teatro mesopotamico come unico scenario di guerra, nell’intento di trasformare la Terra dei Due Fiumi e il Levante in unico grande Paese della Jihad, una sorta di vero e proprio “Jihadistan”. Da qui la partecipazione al conflitto siriano. Insieme necessità strategica e programma ideologico. L’alleanza con i siriani ha, infatti, permesso agli iracheni di aprirsi un passaggio verso la Turchia, dalla quale transitano volontari, armi, denaro, rifornimenti, ma anche di praticare quella jihad senza confini costitutivo nella visione del mondo del jihadista globale.
Un’alleanza che ha generato competizione interna per l’egemonia. La “naturale” espansione del gruppo di al-Baghdadi ha incontrato le resistenze del Fronte al Nusra, il più efficiente raggruppamento jihadista in Siria. I jihadisti siriani hanno una strategia propria, più locale che transnazionale. La strategia globalista dei qaedisti iracheni rischiava di mettere a soqquadro le alleanze che al Nusra ha costruito con fatica. Del repertorio fanno parte anche le violenze dell’Isis contro i cristiani, che hanno contribuito a rinsaldare la loro alleanza con gli alawiti sostenitori di Assad. Nelle fila di al Nusra militano oggi non solo mujahiddin provenienti dal mondo della Mez- zaluna o dall’Europa, ma anche combattenti islamo-nazionalisti che ritengono inevitabile, dopo la stabilizzazione del regime di Assad e la crisi dei Fratelli musulmani nell’area di Homs, la scelta di aggregarsi al Fronte.
Il conflitto tra i due principali gruppi radicali del Paese della Jihad è giunto al punto che, investita della questione, la stessa leadership di Al Qaeda storica ha concesso l’uso del marchio dell’organizzazione ad Al Nusra, meno incline a ripetere gli errori collezionati dall’ala irachena sin dai tempi di Zarqawi. Almeno sino a oggi. Perché se l’Isis riuscisse a produrre quella tripartizione dell’Iraq destinata a fungere da embrione e nucleo portante del Califfato, dando forma politica a quello che finora è stato un mito, sarebbe difficile continuare a tenerlo ai margini.
Certo, il sogno - o l’incubo - di uno Stato islamico radicale che vada da Baghdad a Beirut, passando per Damasco e la Grande Siria, è arduo da realizzare. Non solo per le divisioni nel campo jihadista. Troppe le forze ostili all’idea che il vessillo nero di Al Qaeda sventoli sui pennoni della Grande Mezzaluna. Ogni volta che il jihadismo è uscito dalla logica del conflitto asimmetrico, necessario ad una territorializzazione su vasta scala, è stato sconfitto. Se non altro perché ha finito per mobilitare chi era diviso sugli obiettivi di lungo termine, unendoli di fronte alla minaccia qaedista.

Corriere 12.6.14
La rinascita del califfato
di Sergio Romano


Quando decise l’invasione dell’Iraq, agli inizi del 2003, George W. Bush, presidente degli Stati Uniti, sostenne di avere due buone ragioni: il regime di Saddam Hussein nascondeva nei suoi arsenali armi di distruzione di massa e i Servizi iracheni avevano rapporti organici con Al Qaeda, l’organizzazione di Osama bin Laden che aveva lanciato un attacco terroristico contro le Torri gemelle nel settembre di due anni prima. Non era vero. Le armi non furono mai trovate e i rapporti con Al Qaeda non vennero provati. Oggi, undici anni dopo, una costola di Al Qaeda, lo «Stato islamico dell’Iraq e del Levante», ha conquistato Falluja, ha espugnato Mosul, ha costretto il governo di Bagdad a proclamare lo stato di emergenza e controlla un territorio, a cavallo della frontiera siriana, dove potrebbe risorgere il Califfato sognato da bin Laden.
Le responsabilità non sono interamente americane. Non saremmo a questo punto se la rivolta contro il regime siriano di Bashar Al Assad non avesse chiamato in Siria una legione islamista molto più numerosa e agguerrita delle cellule di Al Qaeda che operavano nella regione dieci anni fa. Ma un nucleo importante si è addestrato probabilmente nelle montagne dell’Afghanistan, dove la guerra americana, combattuta per tredici anni, non è riuscita a impedire il ritorno dei talebani; mentre altri provengono dal Pakistan, ambiguo alleato degli Stati Uniti, o addirittura dalla Libia, a un tiro di schioppo dalle nostre coste, dove gli americani, sollecitati dalla Francia e dalla Gran Bretagna, hanno abbattuto il regime di Gheddafi per lasciarsi alle spalle un Paese distrutto e ingovernabile, devastato da una guerra civile fra milizie tribali e islamiste.
Non è certamente questo che Barack Obama voleva quando pronunciò il suo generoso discorso nell’aula magna dell’Università del Cairo, all’inizio del primo mandato. Sapeva che la guerra irachena era stata un errore e nessuno più di lui sperava di archiviare la sciagurata politica di Bush per consentire al suo Paese d’imboccare una strada diversa. Ma cercò di mascherare la sconfitta con qualche successo militare, rafforzò i due contingenti americani e sperò di andarsene dall’Iraq e dall’Afghanistan dopo una decorosa, anche se temporanea, vittoria. Con il fallimento di questa ultima operazione, la responsabilità dell’insuccesso appartiene, inevitabilmente, anche all’uomo che occupa ora la Casa Bianca.
Spetterà a lui quindi, nei prossimi due anni, impedire la rinascita del Califfato. Può contare sulla collaborazione della Turchia e ha due carte, entrambe difficilmente confessabili e terribilmente scomode. È costretto a sperare che la guerra siriana non venga perduta da Assad. Deve concordare un’azione comune con l’Iran, lo Stato sciita che ha una considerevole influenza sul regime di Bagdad e un forte interesse a impedire la vittoria dell’estremismo sunnita. Ma dovrà battersi contro quella fazione della società politica americana che ha ispirato la politica di Bush e che lo detesta. I neo conservatori dicevano di volere cambiare la carta del Medio Oriente: un obiettivo, purtroppo, perfettamente raggiunto.

La Stampa 12.6.14
Stalin, tanta storia (senza nostalgia) nella Shining della Georgia
A Gori il mausoleo del dittatore, a Tskaltubo il suo centro termale preferito
di Luigi Grassia

qui

La Stampa 12.6.14
Zivago, l’arma segreta della Cia nella Russia di Krusciov
Un libro rivela: fu Londra a passare il manoscritto di Pasternak a Washington
di Anna Zafesova


«Il messaggio umanistico di Boris Pasternak – che ognuno ha diritto alla sua vita privata e merita rispetto come essere umano, indipendentemente dalla lealtà politica o contributo allo Stato – è una sfida fondamentale all’etica sovietica del sacrificio dell’individuo al sistema comunista». E’ il 1958, la guerra fredda è in piena esplosione. Due anni prima l’Urss ha invaso l’Ungheria, mancano tre anni alla costruzione del Muro di Berlino e quattro alla crisi di Cuba, le due potenze moltiplicano il numero dei missili nucleari e danno caccia agli agenti del nemico. Ma il capo del dipartimento «sovietico» della Cia, John Maury, trova il tempo per scrivere allo storico direttore Allen Dulles – e indirettamente al presidente Dwight Eisenhower – memorandum che assomigliano più a saggi di critica letteraria che a dispacci operativi.
Sul romanzo di un autore sconosciuto se non agli addetti ai lavori, che le case editrici sovietiche si rifiutano di pubblicare, i servizi segreti americani e inglesi lanciano un’operazione speciale che coinvolge i migliori agenti e i massimi dirigenti. E che resta segreta per quasi 70 anni: solo di recente la Cia ha desecretato un centinaio di documenti sulla «operazione Aedinosaur».
Nel libro The Zhivago Affair: The Kremlin, the Cia, and the Battle over a Forbidden Book, in uscita negli Usa, il giornalista Peter Finn e la ricercatrice Petra Couvée ricostruiscono questo thriller politico-letterario. In Russia la letteratura è sempre innanzitutto un’arena di battaglia politica. Gli zar mandavano gli scrittori al confino, Lenin esigeva la sottomissione della letteratura al partito, Stalin leggeva con la matita in mano e poi elevava gli scrittori al rango di eroi oppure li faceva sparire nel Gulag. La storia del medico e poeta Yuri Zhivago – che finisce nel tritacarne della guerra civile, ne esce inorridito e trova la salvezza nel suo amore per Lara – oggi non sembra avere un contenuto «sovversivo». Ma all’epoca lo era. E i «filologi» sottili della Cia se ne rendono conto stabilendo che Il Dottor Zivago - appena pubblicato in Italia da Feltrinelli – è «più importante di ogni altra letteratura uscita finora dal blocco sovietico». «Una giornata di Ivan Denisovic» non è ancora stato scritto, e Maury nota che nel romanzo «non c’è appello alla rivolta, ma l’eresia che predica – la passività politica – è fondamentale». E’ un’arma forse altrettanto potente dei missili, e sul tavolo di Dulles arriva un memorandum che afferma che abbia «un grande valore di propaganda, non solo per il suo messaggio intrinseco, ma anche per le circostanze della sua pubblicazione».
Le circostanze sono drammatiche: nella sua dacia di Peredelkino, il villaggio di scrittori alle porte di Mosca, Pasternak vive nel terrore, isolato, minacciato e denigrato. Pochi mesi dopo sarà costretto a «rifiutare» il Nobel per non mettere a rischio la sua vita e la sua libertà. La Cia – che paragona la persecuzione del poeta a una «Ungheria letteraria» - intanto sta dando la caccia al manoscritto in russo. Che riesce ad ottenere però soltanto dai colleghi dell’Mi-6: due microfilm la cui origine resta ignota, perché nei file desecretati la Cia cancella tutti i nomi e gli 007 di Sua Maestà si rifiutano di aprire i loro archivi. Copie del Dottor Zhivago erano in possesso di russologi di Oxford che avevano visitato il poeta a Mosca, e ovviamente di Feltrinelli. Ma non si sa se fu uno di loro a consegnare all’Mi6 il manoscritto o se venne copiato di nascosto.
Sono gli inglesi a consigliare di diffondere il romanzo, e la Cia si trasforma in casa editrice. Le voci che aiutò Pasternak ad avere il Nobel non vengono confermate dall’archivio, ma fece di tutto per «promuoverne la pubblicazione in più lingue». L’edizione in russo viene stampata in Olanda, dopo che Pasternak chiede di non pubblicarlo negli Usa per non aggravare la sua situazione. Il libro è distribuito a eventi internazionali dove sono presenti sovietici. Il primo lancio avviene al padiglione del Vaticano della Fiera universale di Bruxelles. L’attività editoriale ormai appassiona la Cia, e mentre Dulles continua a ricevere analisi raffinate (in una si sostiene che Pasternak è fondamentalmente «alieno» alla tradizione russa, il che gli avrebbe permesso di tradurre Shakespeare e Goethe), la Cia si mette a stampare il romanzo. Per facilitare il contrabbando arriva anche un’edizione in miniatura, «facile da nascondere nella tasca dei pantaloni», riferisce l’autore dell’idea.
Il progetto Aedinosaur coinvolge inevitabilmente anche Giangiacomo Feltrinelli, che l’onnisciente Agenzia menziona spesso, qualche volta sbagliandone il cognome (Previtelli e poi Feletrinelli) ma non dimenticandosi mai di qualificarlo come «comunista». Ma alla fine del 1958 al direttore della Cia viene chiesto di far avere all’editore italiano un visto Usa (che in quanto militante di sinistra non avrebbe potuto ottenere) perché «nessun evento recente è stato così lesivo per l’immagine dell’Urss come la pubblicazione di Pasternak da parte di Feltrinelli».
Pasternak muore nel 1960 e il suo funerale diventa una manifestazione di protesta. Olga Ivinskaya, il prototipo di Lara che gestì le trattative con Feltrinelli, finisce in carcere proprio mentre il mondo si innamora della sua eroina portata sugli schermi da Julie Christie. E per gli scrittori russi – e per la Cia – si apre una battaglia lunga 30 anni che ha visto nascere una nuova letteratura russa, il «samizdat», e il regime comunista vacillare sotto i colpi di romanzi pubblicati clandestinamente all’estero e contrabbandati in patria.

La Stampa 12.6.14
Soltanto l’uomo nuovo ci salverà?
L’eterno ritorno nella politica italiana dell’archetipo del Nuovismo: dai futuristi a Renzi
di Mattia Feltri


Ogni tanto arriva una novità: il bisogno di novità. A vent’anni dalla fondazione della (sedicente) Seconda repubblica, l’imperativo della politica e della vita italiana è (di nuovo) il rinnovamento. Declinato in termini soprattutto generazionali nel renzismo, in termini di classe nel grillismo, per cui l’incompetenza dell’esordiente è elevata a purezza; quella che dovrebbe essere un categoria ovvia della politica, e di ogni attività quotidiana, è invece offerta come virtù fondamentale ed esclusiva da destra a sinistra. Succede - come dice Mario Segni, protagonista delle scosse di due decenni fa con il referendum sul maggioritario - «perché il sistema italiano ha prodotto, e non soltanto nella storia più recente, fenomeni di inamovibilità e di immobilismo». Pensa alla Prima repubblica, con un partito solo al comando per mezzo secolo, al massimo al fianco di questo alleato o l’altro. Ma fa venire in mente il caso più sfolgorante e travolgente di nuovismo, quello di Benito Mussolini che a trentanove anni divenne presidente del consiglio sulla spinta di una propaganda contraria ai riti paludosi e formalistici del Regno uscito dall’Ottocento, e oltretutto accompagnata dal nascente ardore futurista per la rapidità e la rivoluzione tecnologica. «Trentanove anni, come Matteo Renzi oggi», nota Giampaolo Pansa, il quale al mito della positiva vigoria giovanilista crede poco: «Amintore Fanfani diceva di non rompergli le scatole con certi ragionamenti, che un pirla di vent’anni sarà pirla anche a cinquanta, e un furbo di venti a cinquanta avrà pure più esperienza».
Il parallelo è comunque impressionante. Lo Zang tumb tumb di Filippo Tommaso Marinetti e la Velocità astratta di Giacomo Balla sono le porte sul mondo che oggi si chiamano smartphone, app, google. È naturalmente pura suggestione, e uno storico di profonda cultura come Franco Cardini dice che «nulla mi immalinconisce e mi fa ridere quanto la facilità con cui si suggeriscono paralleli fra l’ultimo tirannello che passa e Adolf Hitler, uno che nel bene, pochissimo, e nel male, nell’infinito male, ha rappresentato un bel caso di rinnovamento». Non si sta uscendo dal seminato. È che Cardini sta cogliendo un punto importante. Innanzitutto, ed è scontato, che sovente «il nuovo non è buono e il buono non è nuovo», come disse Tommaseo dell’opera di un debuttante. Poi anche papa Francesco ha detto e ridetto che, se non si rinnova, la Chiesa finirà con l’evaporare. E, dice Cardini, «pensando alla gente che annega a Lampedusa, e davanti a luoghi comuni di destra - prima il lavoro agli italiani - e di sinistra - bisogna aiutare tutti - si sente ben distinta la domanda saggia che si pone Bergoglio. E cioè, non è che abbiamo sbagliato qualcosa nei sistemi di creazione e di distribuzione della ricchezza?». Ecco, spiega Cardini, come il nuovo sia una categoria sfuggente. Non abbiamo un appiglio temporale, dice Cardini pensando a oggi, all’ansia di esibirsi per innovatori, «ma i sacri principi dell’89 sanciti dalla Rivoluzione francese, o le quattro libertà enunciate dal presidente americano Woodrow Wilson - di pensiero, di parola, dal bisogno e dalla paura - hanno ancora un senso?». Quindi ci autonominiamo nuovi? E rispetto a che cosa? A che punto della storia siamo?
Siamo a un punto, qui e ora, dice scherzando Cardini, nel quale «il mio amico Matteo Renzi sarebbe un nuovo e bravo dittatore, sia detto fra virgolette, perché sa comandare e soprattutto è convinto di comandare meglio di chiunque altro. Anche in questo si ritiene nuovissimo». Ha dalla sua, spiega Andrea Romano, deputato di Scelta civica e docente di Storia contemporanea a Tor Vergata, «una promessa di rinnovamento ottimistica». Romano traccia la distanza fra questo tipo di rinnovamento («che poi fu quello di Silvio Berlusconi venti anni fa, perché si trascinava dietro gli anni Ottanta e cioè, cito, l’ultima volta che siamo stati moderni») e un rinnovamento millenaristico, ossia quello cupo di Beppe Grillo, ma anche dell’ultimo Enrico Berlinguer, che proponeva un rinnovamento del Pci passando dalla questione morale, dall’abbozzo di superiorità etica «che è una rinuncia alla politica». Il rinnovamento millenaristico, osserva Romano, «è un rinnovamento epifanico, preceduto da un atteggiamento tipico italiano: l’affidarsi completamente alla politica perché attraverso il suo rinnovarsi arrivi il rinnovamento del paese».
Fatto sta che «i meccanismi normali di rinnovamento non funzionano», dice Romano. È così non soltanto in politica, ed è evidente. Non funzionano innanzitutto dentro le nostre teste. Abbiamo una paura indiavolata del nuovo, il sovvertitore di ogni ordine costituito. «Mi hanno dato del matto perché ero presidenzialista, ma se mi avessero ascoltato, e avessero impiantato un presidenzialismo di stampo americano con il limite dei due mandati, il ventennio di Berlusconi sarebbe durato al massimo la metà», dice Mario Segni. La sua idea di maggioritario, di bipolarismo secco («la legge di elezione dei sindaci ha garantito un autentico e implacabile rinnovamento»), accolta con entusiasmo da chi usciva dal mondo bloccato della seconda metà del Novecento, e subito tradita, rende oggi di nuovo potente l’urlo dei rinnovatori. Non bisogna averne paura, dice Segni, «perché il rinnovamento non è un valore ma è una necessità. A volte può essere sbagliato, a volte un fiume che scorre può portare acqua sporca, ma non sarà mai acqua mefitica come quella stagnante».

Repubblica  12.6.14
“La somiglianza”: la lectio che  pronuncia stasera a Firenze
Il Vangelo secondo Limonov
di Emmanuel Carrère


Anticipiamo parte del testo che Emmanuel Carrère leggerà stasera al Festival degli Scrittori a Firenze (Cenacolo di Santa Croce, ore 18, introduce Ernesto Ferrero). La rassegna si chiuderà sabato alle 18 in Palazzo Vecchio con l’assegnazione del Premio Gregor von Rezzori per la migliore opera narrativa tradotta in Italia. Presenti i finalisti: Leopoldo Brizuela, Maylis de Kerangal, Dave Eggers, Georgi Gospodinov e Tom McCarthy
Mi piace la pittura di paesaggio, mi piacciono le nature morte, mi piace la pittura non figurativa, ma più di tutto mi piacciono i ritratti. Quando vado in un museo, la prima cosa che guardo sono i ritratti, e penso che se avessi fatto il pittore sarei stato senza dubbio un ritrattista. Del resto, mi considero nel mio campo una specie di ritrattista. [...] Guardate un ritratto, uno qualunque. Vi accorgerete di riuscire a distinguere istintivamente, intuitivamente, senza neanche rendervene conto, quelli che sono stati dipinti dal vero da quelli che raffigurano personaggi inventati, nati dalla fantasia dell’artista. Non c’è bisogno di una guida per essere sicuri che il Monsieur Bertin di Ingres o il doge Loredan di Bellini sono esistiti.
I personaggi di Michelangelo, le vergini di Raffaello, no. Non dico che i primi siano migliori dei secondi, dico soltanto che sono diversi e che questa diversità salta agli occhi. Dopo quella visita, mi sono chiesto se questa diversità, così evidente in pittura, si possa osservare anche in letteratura.
È un problema che m’interessa in modo particolare, perché da circa vent’anni non scrivo più romanzi, nel senso in cui i romanzi sono fiction, opere che mettono in scena personaggi di fantasia. Ormai scrivo libri che vengono definiti, in mancanza di un termine migliore, non fiction, e io per primo insisto, forse con una certa pesantezza, sul fatto che ciò che racconto è vero, che i personaggi che cerco di descrivere hanno il loro modello nella realtà e non sono un parto della mia fantasia.
Allora mi si fa notare, a ragione, che questo argomento del «reale» si espone a molte obiezioni. Posso ripetere quanto voglio che Limonov, per esempio, esiste, ciò non toglie che il Limonov del mio libro sia in parte il Limonov reale e in parte un prodotto della mia fantasia. Io stesso non so bene dove finisca l’uno e dove cominci l’altro. Mi trovo costretto ad ammettere che tra i due non c’è un confine preciso. Questa ambiguità è peculiare della letteratura. Non esiste nel cinema. I critici potranno anche dirvi che la cosa è complicata, che i confini tra documentario e fiction sono sempre più vaghi, ciò non toglie che un confine ci sia, e in realtà sia chiarissimo. In un film di fiction i personaggi sono interpretati da attori. In un documentario i personaggi che si
vedono sono veri. [...]
* * *
C’è un motivo che mi turba e mi ha aperto gli occhi. È il libro al quale stavo lavorando durante il mio soggiorno a Santa Maddalena. Soltanto tre mesi fa non ne avrei parlato, perché il libro non era terminato, e so per esperienza che non bisogna parlare dei libri che si stanno scrivendo finché non sono terminati: la minima confidenza, soprattutto quando è un po’ euforica, la paghi ogni volta con una settimana di scoramento. Ma ora il libro è finito, uscirà in Francia quest’autunno, e in Italia la prossima primavera. Posso dunque parlarne, e non soltanto posso parlarne, ma ho voglia di parlarne.
Non è facilissimo farlo in poche parole, perché è un grosso libro al quale ho dedicato sette anni della mia vita. Diciamo che è un racconto sugli albori del cristianesimo. È ambientato tra il 50 e il 100 dopo Cristo, quando nessuno immaginava ancora di vivere «dopo Cristo». I fondali sono la Grecia, Gerusalemme e Roma, e le star quegli uomini che noi chiamiamo san Paolo, san Pietro, san Giovanni ecc. ma che a quell’epoca si chiamavano semplicemente Paolo, Pietro, Giovanni ecc. Non erano santi con le aureole, ma uomini, complicati e fallibili come tutti noi. Come tutti noi, litigavano, erano invidiosi, ognuno di loro era convinto di saperne più degli altri. L’unica cosa che avevano in comune era una fede estremamente strana, e la cosa più strana di tutte è che questa fede che di norma sarebbe dovuta scomparire con loro è perdurata, in meno di tre secoli ha divorato dall’interno l’impero romano, e ancora oggi è seguita da un quarto degli uomini che vivono sulla terra.
Questa fede, come tutti sapete, si fonda sulla vita, l’insegnamento, la morte e, secondo i credenti, la resurrezione di un predicatore galileo chiamato Gesù di Nazareth. Si può pensare quel che si vuole di lui e di quello che del suo messaggio hanno fatto gli uomini, ma non si può negare che Gesù sia una delle figure più importanti della nostra storia. Non penso di allontanarmi molto dal vero se dico che è, fra tutte le figure umane, quella che è stata più spesso rappresentata. Bene, tutte queste rappresentazioni, pittoriche, letterarie, cinematografiche, si basano su quattro brevi racconti che messi in fila stanno in un libro tascabile e sono stati scritti grosso modo tra i cinquanta e gli ottant’anni dopo la morte di Gesù, da quattro autori molto diversi. Mi è venuta voglia di sapere chi fosse uno di quegli autori. Ho scelto Luca, per ragioni che non spiegherò qui e che capirete, spero, se leggerete il mio libro. Il quale è diventato quindi una biografia dell’evangelista Luca. È una biografia in gran parte immaginaria, poiché non sappiamo quasi niente di lui. Ho cercato di immaginare chi era Luca, che cosa pensava, in che cosa credeva. Ho cercato di ricostruire il contesto sia materiale sia mentale nel quale ha vissuto. E poiché quello che si chiama Vangelo secondo Luca è una specie di ritratto di Gesù, mi sono ritrovato a fare il ritratto del ritrattista.
Allora, per forza di cose, mi sono posto il problema della somiglianza. Il Gesù ritratto da Luca somiglia al Gesù reale? La domanda non è senza senso perché il Gesù reale non è un personaggio immaginario. È esistito. Che sia resuscitato e fosse figlio di Dio è un altro discorso, che riguarda soltanto la fede. Ma che sia vissuto in quella terra che oggi si chiama Israele, che abbia respirato la nostra stessa aria, e mangiato, pisciato, cacato come ogni altro essere umano, questo nessuno lo mette in dubbio, a parte qualche ateo idiota che sbaglia bersaglio.
Prendiamo una qualsiasi scena famosa della sua vita: per esempio, la comparsa davanti al governatore romano Ponzio Pilato. Questa scena, ce la possiamo soltanto immaginare: resta il fatto però che non è immaginaria. Non è nemmeno dubbia, come la resurrezione di Lazzaro o l’adorazione dei Magi. Ci sono storici romani che la confermano. È realmente avvenuta. [...] Come diceva Kafka: «Io sono molto ignorante: cionondimeno, la verità esiste». (Traduzione di Francesco Bergamasco)

Corriere 12.6.14
Ieri come oggi, sulle orme del Maestro Ignazio di Loyola, esercizi d’immaginazione per tornare a vivere la realtà di Cristo
di Pietro Citati


Ignazio di Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù, aveva un’immensa immaginazione, e la coltivava e la faceva coltivare dai padri gesuiti, quando essi eseguivano gli esercizi spirituali, il cuore dell’insegnamento praticato nella Compagnia.
Imponeva loro di fissare con la mente i grandi e minimi aspetti dell’immaginario cristiano: la nascita di Gesù, la sua infanzia, il battesimo, la tentazione, la passione, la crocifissione, la sepoltura, la resurrezione. I gesuiti dovevano rovistare con un’intensità implacabile ciò che portavano dentro il cuore: niente doveva sfuggire loro, nemmeno un sasso o una pianta o un filo d’erba dei sentieri che Gesù aveva percorso; nemmeno una parola che egli aveva pronunciato nelle sinagoghe o lungo il mare. «Bisognava considerare da lontano la strada da Betania a Gerusalemme, se ampia o stretta, se piana o montuosa»: guardare la tavola a cui Gesù era seduto, i piatti, le bottiglie, i bicchieri. Così la mente dei gesuiti scendeva dentro se stessa; e apprendeva l’insegnamento che Gesù Cristo aveva depositato nel paesaggio che aveva percorso, o nella stanza dove era vissuto.
Quante volte Dio, o Gesù, o lo Spirito era apparso alla mente dei padri gesuiti! La natura di Dio era un dono: pronto a illuminare e perfezionare con i raggi della sua grazia il cuore dei padri. Era disposta a effondersi, sempre più generosa e più vasta; e a ricevere ciò che dagli uomini saliva verso di lui:
«Prendi, Signore, e ricevi/ tutta la mia libertà,/ la mia memoria,/ il mio intelletto,/ e tutta la mia volontà/ tutto ciò che ho e posseggo;/ tu me lo hai dato,/ a te, Signore, lo ridono;/ tutto è tuo».
Dio confortava, consolava, addolciva con una gioia inesauribile. «Ridete, figliolo, Ignazio disse a un novizio, e siate allegri nel Signore, poiché un religioso non ha nessun motivo per essere triste e ne ha mille per gioire».
Quando si voltavano indietro, i padri gesuiti cercavano di ritrovare la natura della propria anima: ciò che essa aveva di autentico, di originario, di puramente spirituale. L’emozione era grandiosa. Ma, al tempo stesso, essi trovavano in sé molte cose diverse: tumulti, peccati, passioni, disordini, sventure; gli effetti che la caduta aveva prodotto su ciascuno di loro. Così condannavano i disordini, le passioni e i capricci. Rafforzavano la volontà della ragione: certi che la ragione, sebbene nata dopo il peccato originale, sarebbe riuscita a salvarli dal peccato. Non temevano di appoggiarsi ad essa e alla sua sostanza umana: anzi cercavano di renderla più robusta e affinata, più solida e complicata.
Qualche volta i padri gesuiti si sentivano soffocare. La vita morale, sia pure virtuosa, costringeva la loro anima; gli altri esseri umani opponevano limiti e negazioni al loro slancio amoroso. Avevano bisogno di spazio. In alcuni testi cristiani trovarono l’invito a una severissima e strettissima condizione ascetica. Ma, proprio in Sant’Ignazio, scoprirono l’invito ad abolire ogni ascetismo e ogni strettezza. Come lui, i padri gesuiti amavano il cosmo: ammiravano tutte le creature, le stelle, le comete, le erbe e gli animali; visitavano le più lontane regioni del mondo; non rifiutavano i piaceri del corpo; e si ergevano sopra i cieli, ascoltando il palpito della creazione.
La Compagnia di Gesù esigeva dai padri attività estremamente complicate: essi dovevano, per esempio, lavorare come economi e amministratori. Sebbene ordini più spirituali condannassero queste attività pratiche, i padri gesuiti le difendevano con cautela e tenacia. Si rendevano conto che il rapporto quotidiano con la realtà allargava la loro mente, rendeva più sinuosa la loro intelligenza e la loro fantasia.
Come Sant’Ignazio, avevano altri timori: l’astrazione dello spirito puro, la follia della mente abbandonata a se stessa. Gli Esercizi spirituali erano strettamente legati al tempo del giorno, della settimana, del mese, dell’anno. La vita di ogni gesuita obbediva al tempo. Un certo esercizio doveva essere compiuto all’alba di ogni giorno: allora bisognava guardarsi con diligenza da un particolare peccato; dopo pranzo un altro esercizio ricordava loro quante volte erano caduti in quel peccato.
Tutti i padri gesuiti conoscevano il tempo proprio di ciascuno di loro: l’ordine temporale conteneva una grande e nascosta sapienza, che essi non avrebbero mai finito di apprendere. Solo coincidendo col tempo, solo facendolo battere regolarmente sugli orologi del cuore, essi tenevano aperta l’anima, e permettevano a Gesù Cristo e allo Spirito Santo di penetrare dentro di essa.
Chi compiva gli Esercizi spirituali correva un rischio: quello degli scrupoli; vale a dire i peccati immaginari, ricordi di peccati passati, dubbi, incertezze, insoddisfazioni, disgusti, torture dell’intelligenza. Da soli, i padri gesuiti non riuscivano a liberarsi dagli scrupoli; e rimanevano invischiati nei relitti della propria anima. Non restava loro che pregare a lungo Gesù e lo Spirito Santo, aprendo l’anima alla sovrabbondante grazia di Dio.

Corriere 12.6.14
Tra fine vita e ipocrisie di Stato
di Michele Ainis


Fra i troppi ministeri ospitati dal nostro troppo Stato, ce n’è invece uno di cui s’avverte la mancanza: il ministero della Sincerità. Se mai venisse istituito, ecco il nome giusto per dirigerlo: Giuseppe Saba. Non è giovane (87 anni), non è donna, ha perfino un titolo di studio (era ordinario di Anestesiologia). Peccati imperdonabili, alle nostre latitudini. Ma il peccato più grave l’ha commesso qualche giorno fa, rilasciando un’intervista a L’Unione Sarda . Dove candidamente ammette d’avere aiutato un centinaio di malati terminali, per farli morire senza sofferenze. Dove pronunzia a voce alta la parola tabù: eutanasia. Dove denuncia l’ipocrisia verbale di chi la chiama «desistenza terapeutica», come se non ci fosse in ogni caso una spina da staccare. E dove infine racconta che la dolce morte costituisce una pratica diffusa, diffusissima, nei nostri ospedali. Si fa, ma non si dice. Lui invece l’ha detto.
Non che la notizia ci colga alla sprovvista. Lo sapevamo già, lo sa chiunque abbia assistito all’agonia di un amico o d’un parente, con i medici che armeggiano dentro una stanza chiusa. E i pochi dati in circolo ne offrono la prova. Secondo un’indagine condotta nel 2002 su venti ospedali di Milano, l’80 per cento dei camici bianchi pratica l’eutanasia passiva (ovvero l’interruzione delle cure), il 4 per cento quella attiva (con l’uso di un farmaco letale). Mentre la ricerca più nota — quella imbastita nel 2007 dall’Istituto Mario Negri — stima 20 mila casi l’anno di pratiche eutanasiche. Ma questa è l’esperienza, non la giurisprudenza. Per i nostri codici, se raccogli l’estremo appello di chi non ne può più, rischi la galera. «Omicidio del consenziente», così viene definito. Anche se il tentato suicidio, di per sé, non è reato. Dunque puoi ucciderti soltanto se stai bene, se ne hai la forza fisica. Non se sei inchiodato a un letto come Eluana, come Welby, come tanti povericristi di cui non abbiamo visto mai la croce.
Per carità, parliamone. Ma sta di fatto che il nostro legislatore è muto come un pesce. Aprì bocca nella legislatura scorsa, però avrebbe fatto meglio a stare zitto. Con il disegno di legge Calabrò sul testamento biologico, che definiva l’alimentazione e l’idratazione forzata «forme di sostegno vitale», quindi irrinunciabili. Come se le cure mediche fossero invece sostegni mortali. E comunque quel disegno di legge non si è mai tradotto in legge. Né più né meno dell’iniziativa popolare depositata in questa legislatura dall’associazione Coscioni, che giace da trecento giorni nei cassetti della Camera. Sulle volontà del fine vita in Italia c’è un buco normativo, che ci distingue dagli altri Paesi occidentali (Usa, Germania, Francia, Inghilterra e via elencando). Nonostante i moniti dei nostri grandi vecchi, da Montanelli a Veronesi. O di Napolitano, che tre mesi fa ha sollecitato (invano) il Parlamento.
Sicché il diritto alla salute si è tramutato nel dovere di soffrire. A meno che non incontri un medico pietoso, e soprattutto silenzioso. Di qua il diritto, anche se è un legno storto; di là la compassione, che tuttavia prova soltanto chi ha passione. Ecco, è questa la frattura che ci separa dal resto del pianeta. È il solco che divide il dover essere dall’essere, la realtà dalla sua immagine legale. È la discrezionalità che in ultimo circonda l’operato di ciascuno, o perché le leggi sono troppe (da qui la corruzione), o perché non c’è nessuna legge in questa giungla. Ed è infine l’ipocrisia di Stato, con le sue doppie leggi, con la sua doppia morale. Ci salverà, forse, un bambino. Oppure un vegliardo, come Giuseppe Saba.

La Stampa 12.6.14
Scienziati americani a caccia del segreto del sonno
Due professori della University of California, marito e moglie, sono al lavoro per cercare di capire come trasferire i vantaggi di chi dorme senza problemi a tutti gli altri comuni mortali
di Paolo Mastrolilli

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La Stampa 12.6.14
Il 2014? Sarà l’anno della riscoperta dell’autorità paterna
Usa: nei libri e in tv l’elogio dei padri del nuovo millennio
di Francesco Semprini

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