venerdì 13 giugno 2014

l’Unità 13.6.14
Il caso Unità
La Nie messa in liquidazione
Il comunicato

Si è svolta a Roma l’Assemblea straordinaria dei soci azionisti della società Nie spa, editrice del quotidiano l’Unità, che a norma di Statuto ha proceduto alla nomina di un collegio di liquidatori nelle persone del Prof. Emanuele D’Innella, titolare dello Studio omonimo in Roma che da oltre trent’anni opera nella consulenza in ambito societario e del dott. Franco Carlo Papa.
Il mandato affidato ai liquidatori dai soci della Nie spa è quello di massimizzare il valore degli asset societari.
A tal proposito, il socio di maggioranza dell’Unità, Matteo Fago, ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Risale, ormai, ad un anno e mezzo fa il mio ingresso nel capitale della Nie spa, prima come semplice azionista-sostenitore per evitare l’imminente chiusura, poi, a seguito di continue emergenze finanziarie, come socio di maggioranza.
In tutto questo tempo, nonostante i diversi progetti ipotizzati e messi in campo, ho assistito al progressivo defilarsi degli altri “attori” e soci di questa impresa. Mi sono ritrovato, così, da solo, a sobbarcarmi di responsabilità finanziarie e anche politiche che, ad oggi, non sono più sostenibili.
Lo stato patrimoniale, finanziario e gestionale del giornale era ed è molto grave. Era quindi necessario prendere una decisione difficile di fronte ad una situazione ormai insostenibile: fallimento della Società e conseguente chiusura de l’Unità oppure cercare una soluzione finanziaria e organizzativa che permetta al giornale di continuare a esistere per non disperdere un patrimonio culturale, politico e sociale che da novant’anni presidia gli interessi e i valori dei lavoratori e delle classi meno agiate.
Matteo Fago

l’Unità 13.6.14
Il Cdr ai lettori

Una proprietà che decide la messa in liquidazione della società editrice dell' Unità senza degnarsi di darne comunicazione puntuale e diretta alle rappresentanze sindacali e ai lavoratori, che da mesi si battono per garantire un futuro al vostro e nostro giornale e in difesa dei diritti e dei posti di lavoro di giornalisti e poligrafici. È un comportamento inaudito, inaccettabile, da padroni delle ferriere.
Prendiamo atto del comunicato che la società ha deciso di rendere pubblico e delle dichiarazioni dell'azionista Matteo Fago. Si tratta di un modo di procedere senza precedenti che rappresenta una gravissima violazione dei più elementari principi che regolano le relazioni sindacali. Quanto al merito, non c'è alcuna garanzia sul mantenimento degli impegni che Fago aveva assunto con la redazione. Così come mancano certezze sulla continuità delle pubblicazioni. Per questo lo sciopero delle firme prosegue, ed è convocata per oggi un'assemblea straordinaria dei giornalisti per decidere nuove iniziative di lotta.
Il Cdr

il Fatto 13.6.14
Liquidata l’Unità, a salvarla arrivano i “furbetti di San Marino”
di Salvatore Cannavò


Da una parte i lavoratori dell’Unità, dall’altra, il Pd. Ieri, la Nie, la società editrice del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, ha deciso di mettere in liquidazione il giornale. Ma durante i lavori della Direzione Pd, il tesoriere Francesco Bonifazi ha comunicato la decisione presentandola come “l’inizio di una rinascita” e assicurando “un impegno fortissimo del Pd per non spegnere una voce che resta un tassello fondamentale non tanto per la nostra storia quanto per la storia d’Italia”. Negli stessi minuti il Cdr dell’Unità pubblicava il proprio comunicato: “È un comportamento inaudito, inaccettabile, da padroni delle ferriere”.
LA DECISIONE della liquidazione è stata presa dall’assemblea della società editrice, riunitasi nel pomeriggio, che ha nominato i liquidatori Emanuele D’Innella, titolare dello studio omonimo in Roma e Franco Carlo Papa con l’obiettivo di “massimizzare” le proprie risorse. Matteo Fago, socio di maggioranza e amministratore del quotidiano, alza le braccia: “In tutto questo tempo ho assistito al progressivo defilarsi degli altri ‘attori’ e soci di questa impresa. Mi sono ritrovato, così, da solo, a sobbarcarmi di responsabilità finanziarie e anche politiche che, ad oggi, non sono più sostenibili”. L’accusa, velata, è agli altri soci, in particolare Maurizio Mian, titolare del fondo Gunther. Con la liquidazione, secondo Fago, il giornale continuerà a esistere. La Nie diventa così una “bad company” per fare spazio a una nuova società che riporterà l’Unità “ad essere il punto di riferimento politico e culturale della sinistra italiana”. “Sono convinto - continua Fago - che un serio progetto editoriale trasparente, accompagnato da un preciso piano industriale e finanziario e da una nuova squadra alla guida dell’azienda, possa riuscire a superare una crisi drammatica”. Le prime indiscrezioni, confermate dai lavoratori del quotidiano, individuano il nuovo supporto nella Pessina Costruzioni. Si tratta di un’azienda edile, capitanata da Massimo Pessina, con circa 70 milioni di fatturato, meno di un milione di utile e quasi 100 milioni di debiti, di cui 40 verso le banche (bilancio 2012). Si è distinta nella costruzione della nuova Regione Lombardia, di Malpensa 2000 e della nuova fiera di Milano. Per la cronaca, la Pessina Costruzioni, si può trovare tra le società che finanziarono l’ex presidente della Provincia di Milano, e dominus del “sistema Sesto”, Filippo Penati, con 15 mila euro. Il nome dei Pessina, inoltre, figura anche nella lista dei “furbetti di San Marino”, quei 1200 evasori che avevano nascosto decine di milioni di euro nelle banche del piccolo stato appenninico tra cui la Smi Bank. Nel corso di quell’inchiesta, del 2010, fu accertato anche che il nome di Massimo Pessina era già presente nell’elenco di altri “conti” di evasori, quelli di Vaduz, in Liechtenstein, pubblicato nel 2008.
Il Cdr del quotidiano ribadisce che “non c’è alcuna garanzia sul mantenimento degli impegni che Fago aveva assunto”. Per questo lo sciopero delle firme prosegue, ed oggi ci sarà un’assemblea straordinaria dei giornalisti.

Repubblica 13.6.14
“L’Unità” messa in liquidazione I giornalisti: nessuna certezza sul futuro


ROMA. La Nie, editrice dell' Unità, mette in liquidazione la società «per massimizzare il valore degli asset societari».
Secondo Roberto Fago, socio di maggioranza, la decisione «rappresenta quindi un passaggio inevitabile e necessario per uscire da una crisi altrimenti irreversibile». Fago spiega anche che «questa scelta non va intesa come la chiusura del giornale ma il suo esatto contrario. È necessario un “nuovo inizio” sia dal punto di vista imprenditoriale che editoriale ed ideale. Il progetto è che l'Unità non muoia ma, anzi, continui ad esistere e si sviluppi». Ma la decisione della proprietà non convince i giornalisti. «Quello della proprietà - dicono - è comportamento inaudito, inaccettabile, da padroni delle ferriere». Nel merito, spiega il Cdr «non c'è alcuna garanzia sul mantenimento degli impegni che Fago aveva assunto con la redazione. Così come mancano certezze sulla continuità delle pubblicazioni. Per questo lo sciopero delle firme prosegue, e decideremo nuove iniziative di lotta».

Il Messaggero 13.6.14
"L'Unità" in liquidazione, la redazione: «Comportamento da padroni delle ferriere»

qui, segnalazione di Francesco Maiorano

Formiche.net 13.6.14
Liquidazione per la Nie, Fago scommette sulla nuova Unità
di Carlo Patrignani

qui segnalazione di Nuccio Russo

Italia Oggi 13.6.14
Pd, divisi pure sulla loro stampa
di Cesare Maffi


l’Unità 13.6.14
Domani left con l’Unità
Il «marziano» Marino contro i poteri forti
di Giovanni Maria Bellu

direttore di left

Operazioni di questo genere si possono considerare riuscite quando il solo pronunciare il nome della vittima designata suscita un aggrottare le sopracciglia, un levare gli occhi al cielo. A Roma, quando parli di Ignazio Marino, succede spesso. Nella koiné politica della capitale è «il marziano». Un uomo onesto, ma un po' stravagante, e anche (attributo di sperimentata efficacia nei confronti di quanti fanno di testa loro) «narcisista». E se è vero - come scrive Andrea Ranieri nell'editoriale che apre il prossimo numero di left - che la Capitale è diventata il luogo dove il provincialismo politico tocca il culmine, la campagna politico-mediatica di delegittimazione di Ignazio Marino segna il passaggio del provincialismo dalla piaggeria alla scienza.
Il «provincialismo scientifico» ha agito sul sindaco di Roma su due fronti. Sul piano metodologico si è avviato un sapiente passa parola, dai vertici locali del Pd, per trasformare in senso comune il pregiudizio del «sindaco marziano»: non solo «strano» ma anche «provvisorio», destinato in tempi rapidi a salire sul suo disco volante per scomparire nello spazio. Sul piano politico-culturale si è contrapposto ai suoi tentativi di «volare alto» – che d'altra parte è una prerogativa tipicamente marziana – un volare bassissimo, rasoterra, a volte anche sottoterra, eludendo temi quali il ruolo dell'area metropolitana, la ricerca, la cultura, e anche le politiche del lavoro.
Diciamo che Ignazio Marino - come ogni buon marziano, ma anche come tutti gli umani - ha commesso degli errori ed è incorso in qualche gaffe. Ma l'errore più grave che ha compiuto - errore ancora rimediabile - è stato quello di non dare fuoco ai motori dell'Ufo e bombardare l'Urbe di idee sul suo futuro, accompagnate da atti subito idonei a prefigurarlo. A sua scusante va detto che, probabilmente, gli è venuto il dubbio che si sarebbe ritrovato a volare solo soletto. Perché quanti avrebbero dovuto accompagnarlo, erano troppo impegnati sulla terra, anzi sul territorio, più precisamente sulle aree fabbricabili. Problema emerso pubblicamente il 19 dicembre scorso quando il Pd votò insieme al centrodestra la delibera 70, che prorogava per un anno il rito urbanistico di Alemanno: via libera alle costruzioni prima di portare i servizi pubblici nei quartieri.
È stato questo che abbiamo trovato quando siamo andati nelle fabbriche del senso-comune contro il Mostro Marino che fa paura ai centri del potere romano, fino al punto di presentarsi all'assemblea degli azionisti dell' Acea ed essere bloccato all'ingresso dal portiere che gli chiede la carta d'identità. È perfido il provincialismo scientifico. Capace di presentare, nel passa parola, la scelta di un dirigente sulla base del solo curriculum - come si usa a Marte, ma anche negli Usa – alla stregua del capriccio di un narciso che non si confronta coi «compagni». I quali magari non mantengono un rapporto strettissimo con «la base», ma ne hanno uno indissolubile con «le fondamenta». Il sogno neanche tanto nascosto è commissariarlo: rottamare il rottamatore alieno. Anche col fattivo contributo di un consistente nucleo di ex rottamandi, diventati - da un momento all'altro - sostenitori del nuovo corso di Renzi. Roma, ancora una volta, è assieme capitale e metafora della nazione.

La Stampa 13.4.14
Le fosse comuni degli orfani di Tuam
Nuovo scandalo per i cattolici irlandesi
Rinvenuti i resti di circa 800 bambini ammassati in un vecchio serbatoio per le acque di scarico. Erano i figli di ragazze madri ospitati in un istituto delle suore del “Bon Sécours”. Il libro di Martin Sixsmith avverte: “Non è un caso isolato”
di Francesco Semprini

qui

La Stampa 13.6.14
Il rabbino e il Papa, l’alleanza mancata contro il nazismo
Riemergono i diari di David Prato, che nel 1936 incontrò Pio XI per chiedergli di fare causa comune di fronte alla marea montante del “neopaganesimo”
di Maurizio Molinari


L’incontro fra un esperto d’arte di Sotheby’s e l’allievo di Renzo De Felice attorno a un manoscritto inedito consente di ricostruire una pagina sorprendente della storia europea: negli Anni Trenta del Novecento i rabbini europei guardavano al Vaticano di Pio XI come possibile fonte di protezione e tutela dall’antisemitismo «pagano».
L’esperto d’arte è Angelo Piattelli, romano trapiantato a Gerusalemme, già al servizio di Sotheby’s per la Judaica in Israele ed Europa, che nel 2003, durante una visita in casa di Jonathan Prato per discutere dei diari del padre David che fu rabbino capo d’Alessandria dal 1927 al 1936 e di Roma nel 1937-38 (e dopo la guerra dal 1945 al 1951), trova casualmente una pagina manoscritta ingiallita dove in cima si legge «Capitolo XVI - La missione in Vaticano in favore degli ebrei polacchi». Piattelli trascrive oltre mille pagine dei diari e si rivolge a Mario Toscano, docente di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma dove fu a lungo a fianco di Renzo De Felice, invitandolo a studiarne assieme le ricostruzioni degli incontri con Mussolini, Ciano e i rapporti con il Vaticano. È proprio Toscano a riassumere ora le novità contenute nell’inedito «Capitolo XVI» in un articolo su Mondo contemporaneo che esce quasi in contemporanea con uno studio di Piattelli sulla Rassegna mensile di Israel dedicato a David Prato.
Ciò che emerge è, anzitutto, la ricostruzione della missione di Prato a Roma in favore degli ebrei polacchi. Siamo nel 1936, Adolf Hitler è al potere da tre anni in Germania, e l’atmosfera di odio antiebraico spazza il Vecchio Continente. A Varsavia il Parlamento approva una legge che vieta la macellazione religiosa ebraica del bestiame e per oltre tre milioni di ebrei polacchi significa restare senza carne. Per Prato si tratta di un’«infamia» e il 25 febbraio 1936 riceve dal rabbino di Dublino, Isaac Herzog, la richiesta di chiedere aiuto a Pio XI. «Sforzandomi di ragionare per trovare il modo di agire», scrive Herzog a Prato, «mi è venuto in mente che, in quanto nato in Italia e scelto per assumere la cattedra rabbinica romana, avrà conoscenze influenti ed altolocate che potrebbero raggiungere persino il Vaticano, quindi la prego di rivolgersi a loro affinché dal Vaticano provenga una direttiva riservata ai capi della Chiesa cattolica polacca».
Prato interpella i maggiori rabbini italiani dell’epoca - Gustavo Castelbolognesi, Adolfo Ottolenghi e Alfredo Sabato Toaff - esprimendo la convinzione che «il Vaticano ha un’enorme influenza sul governo polacco e potrebbe agire con speranza di risultato». Un’opinione sostenuta anche da Ottolenghi: «Il Vaticano ha una grande autorità religiosa internazionale». E il 17 marzo 1936 David Prato sbarca a Roma, ottenendo 48 ore dopo udienza in Vaticano, nel giorno del calendario che coincide con san Giuseppe. Varcata la soglia della Santa Sede, Prato manifesta stupore: «Una meraviglia, uno splendore, un incanto inverosimile. All’impressione provata che colpiva il mio animo si aggiungeva per aumentare il mio imbarazzo la completa ignoranza del protocollo e del cerimoniale». Vede il cardinale Eugenio Pacelli, che nel 1939 diventerà Pio XII, e monsignor Domenico Tardini, sottosegretario di Stato di Pio XI. «Non mi sarei mai immaginato che mi ricevessero in un giorno di festa, è stato un colloquio interessantissimo» annota Prato nel diario, aggiungendo di aver ricevuto la «promessa di intervento immediato presso l’ambasciatore polacco presso la Santa Sede». «Non potevo trovare comprensione più rapida e completa» osserva.
Così quando l’8 gennaio 1937 torna a Roma, il rabbino Prato fa recapitare un «reverente saluto a Tardini» e il 15 maggio 1938 incontra di persona Pacelli «per perorare la causa degli ebrei ungheresi» anch’essi alle prese con discriminazioni e sofferenze. Anche in questo caso Prato agisce con il consenso dei rabbini europei e italiani e parla della proibizione della macellazione rituale, come anche della normativa antisemita introdotta in Ungheria proprio in quelle settimane che introduce criteri proporzionali nella presenza ebraica nella società. «Certo è che noi dovremmo curare i rapporti col Vaticano perché siamo in questo momento compagni di sventura» appunta Prato nel diario, individuando un terreno di convergenza di interessi con il Vaticano: «Quanto avviene nel mondo rappresenta il fallimento del Cristianesimo» a causa del «neo paganesimo che rimonta con la sua marea», e l’ebraismo «deve lottare, come già lottò, contro il paganesimo che non è affatto scomparso e che si ripresenta oggi sia pure sotto un nuovo aspetto ma sempre temibile per l’umanità». «Questa è la nostra missione» aggiunge Prato, sottolineando la convergenza tra ebrei e Vaticano.
Il canale di comunicazione tra il rabbino di Roma e la Santa Sede funziona ancora nel maggio 1938 - a pochi mesi dalla promulgazione delle leggi razziali in Italia - grazie all’attenzione del Pontefice nei confronti dell’intolleranza religiosa e «della crescita del razzismo e della statolatria». Per Toscano «Prato coglieva nel neopaganesimo avanzante un pericolo che minacciava insieme il mondo ebraico e quello cattolico», e il 18 maggio 1938 lo spiega all’esponente sionista Moshe Waldmann, formulando la convinzione che l’aggravarsi della spinta neopagana in Germania avrebbe provocato una maggiore attenzione del Vaticano nei confronti delle «richieste ebraiche». Ma la situazione per gli ebrei in Europa precipita, Prato nel dicembre 1938 lascia l’Italia per rifugiarsi in Palestina e il pontificato di Pio XII, succeduto a Pio XI nel ’39, si sviluppa in un clima assai mutato. Ma «il nuovo rapporto, paritario, aperto e collaborativo del Vaticano con il mondo ebraico, vagheggiato da Prato in anni drammatici e terribili», conclude Toscano, «sarebbe sorto decenni più tardi, in un contesto drammaticamente e radicalmente mutato dalla Shoah e dalla nascita di Israele».

il Fatto 13.6.14
Stefano Rodotà
“Avevamo ragione: è svolta autoritaria”
intervista di Silvia Truzzi


Bisogna chiamarlo, Stefano Rodotà, per chiedergli un commento sull’epurazione democratica dei senatori dissenzienti, sapendo che alla fine si diranno cose molto simili alle ultime interviste? “Non bisogna essere pessimisti. Vede, la scomunica a noi professoroni è stata utile. Dopo si è innescato un circuito virtuoso di proposte e audizioni parlamentari. La vicenda dei senatori, quella di Mineo in particolare, è l’ennesima forzatura”.
Professore, da dove nasce l’insofferenza verso il dissenso?
Se Renzi e i suoi, la ministra Boschi soprattutto, avessero degnato di un minimo d’attenzione la discussione che c’è stata nell’ultimo periodo, sarebbero oggi in condizione di fare una riforma costituzionale davvero innovativa, considerando i suggerimenti che sono arrivati per la legge elettorale, per la composizione e le funzioni del Senato. Invece c’è stata un’indifferenza assoluta verso una discussione che ha visto coinvolti anche molti studiosi vicini all’area politica in cui si muove il governo: la conferma di una scarsissima cultura costituzionale.
Hanno fretta, dicono.
È questo lo sbaglio: la fretta non è solo cattiva consigliera, ma produce ritardi. Basta vedere tutto il tempo perso con il cronoprogramma del governo Letta, quando si voleva smantellare l’articolo 138 della Costituzione. In più occasioni, come altri colleghi, mi permisi di suggerire che forse era meglio partire da riforme molto condivise, come la riduzione del numero dei parlamentari e il bicameralismo perfetto, invece di mettere mano al procedimento di revisione. Se allora si fosse incardinata la discussione in Parlamento, oggi avremmo fatto passi avanti: per avere una fretta scriteriata, hanno buttato via molti mesi.
Il ministro Boschi ha detto: “Il processo delle riforme va avanti, non si può fermare per dieci senatori”.
Questa non è una riforma come tutte le altre, è la riforma della Costituzione. E nella Carta stessa è previsto un procedimento “contro la fretta”: le letture distanziate di almeno tre mesi nelle due Camere, l’eventuale referendum. Perché si deve poter discutere! I senatori di cui parla Boschi hanno fatto obiezioni e proposte che non sono l’espressione di un capriccio, ma registrano opinioni diffuse nel Pd. E comunque una discussione sulle riforme costituzionali dovrebbe dar conto dell’opinione diversa anche di un solo senatore.
I 14 senatori sostengono che sia stata “un’epurazione delle idee non ortodosse” e una “palese violazione
della Carta, riferendosi all’articolo 67 che prevede l’assenza di vincolo di mandato per i parlamentari.
Certo, il vincolo di mandato è rilevante. Quell’articolo dice anche che i parlamentari “rappresentano la Nazione”: chi rappresenta punti di vista diversi non deve certo essere allontanato. Aggiungo che sia il regolamento della Camera sia quello del Senato prevedono la sostituzione di un membro delle Commissioni facendo riferimento a singole sedute o a singoli disegni di legge. Ma la ratio di queste norme sono non è eliminare chi la pensa diversamente, bensì quello di aiutare il lavoro. Ossia di poter procedere in caso di assenza o in caso in cui ci siano competenze specifiche di un altro parlamentare.
Dalla Cina il premier ha ribadito:
“Contano più i voti degli italiani che il veto di qualche senatore”.
Quante volte abbiamo contestato la lettura del voto-lavacro a Berlusconi? Questi comportamenti gettano un’ombra molto inquietante sul futuro: Renzi non vuol negoziare con i membri del suo partito, ma continua a farlo con Berlusconi. Il Parlamento non è il luogo di ratifica delle scelte governative. Si confermano le mie enormi perplessità sull’Italicum, una legge elettorale studiata per questo. Temo che Renzi abbia già introiettato l’idea di una democrazia d’investitura. Credo si corra il rischio di rinnovati interventi della Consulta, anche sulla nuova legge elettorale. Attenzione però: sarebbe una delegittimazione dell’intero sistema, di un Parlamento non più in grado di legiferare in accordo con i principi costituzionali.
Avevate ragione a temere “la svolta autoritaria”?
La svolta autoritaria non è quella che nel Novecento ha portato l’Italia verso una dittatura. Una svolta autoritaria si può avere anche quando si dice “prendere o lasciare” o quando si eliminano istituzionalmente le voci fuori dal coro.

Dal blog di Corradino Mineo
Renzi si tenga il Paese e lasci al Senato la riforma

qui

La Stampa 13.6.14
Scontro totale nel Pd
Pd nel caos, 14 senatori autosospesi: “Solidali con i due colleghi epurati”
Renzi: “Non lascio il Paese a Mineo”

qui

La Stampa 13.6.14
Pippo Civati
“Lo ha cacciato perché l’accordo con Berlusconi evidentemente non c’è, solo così ha i voti in Commissione”
intervista di Antonio Pitoni


Il sillogismo di Pippo Civati, leader dell’indisciplinata minoranza Pd, ruota tutto intorno a Berlusconi. «Perché se c’è l’intesa con Berlusconi non serve creare il caso Mineo ma se l’intesa con Berlusconi non c’è più, non c’è più neanche la strategia di Renzi. Né sull’Italicum né sulle riforme».
Mineo estromesso dalla commissione Affari costituzionali: che analisi ne fa?
«Se Berlusconi ci fosse sempre stato, la nostra sarebbe solo una posizione di minoranza come altre. Se invece Berlusconi non c’è il fatto è politico».
Ce lo chiarisce?
«Perché la Boschi ha bisogno della Lega se ha Berlusconi? Perché continua a parlare di tutto con tutti tranne con noi di uno schema non troppo distante da quello che ha in mente? Questo è il punto politico vero, tutto il resto è noia»
Siete stati avvertiti: non saranno dieci senatori a fermare le riforme…
«Da parte nostra non c’è mai stata questa intenzione. Dovrebbero, piuttosto, spiegare perché siamo passati da un Senato dei sindaci e dei presidenti di Regione a un Senato elettivo di secondo livello. Poi ad un Senato alla francese che, però, non è francese senza farci mancare neppure un’apertura al modello dei lander tedeschi. E adesso spunta addirittura l’intesa con Calderoli, che notoriamente è uno che fa bene le riforme».
Ricapitolando: Mineo salta perché l’intesa con Berlusconi non c’è?
«Vado per induzione. Il problema su Mineo e Chiti non ci sarebbe se il patto con Berlusconi fosse inossidabile. Se, invece, l’intesa non c’è, ecco che Renzi deve sostituire Mineo per avere un seggio di vantaggio in commissione. Magari è un modo per far sapere a Berlusconi che, se non c’è l’intesa, va avanti da solo».
La sostituzione di Mineo ha violato l’articolo 67 della Costituzione?
«Per lo meno è finito tra parentesi».
Mineo l’ha definita una prova di vanità della Boschi.
«Con tutto il rispetto per la Boschi, la copertura politica per queste scelte la dà Renzi. D’altra parte, la sua propensione a dettare la linea non trova più nessun tipo di mediazione. Perché dice “ho preso il 40%”. Vero. Ma non è detto che basti per fare le cose bene».
Ora con tredici senatori Pd autosospesi l’incognita è l’Aula.
«Ovviamente, così si va allo scontro. Tra l’altro essere richiamati all’ordine dalla componente renziana fa ridere dopo che Renzi ha trascorso tre anni a sparare contro i vertici del Pd. Proprio ieri (mercoledì) Giachetti, che mi sembra faccia parte della maggioranza, ha votato in dissenso rispetto al gruppo sulla responsabilità civile dei magistrati. Facendo fare una figuraccia a Renzi, che è stato costretto a dire che la legge sarà corretta in quel Senato che vuole abolire. Dovremmo usare con lui lo stesso metro usato con Mineo?».
Non sarà che dietro ci sia l’intento di tornare alle urne?
«Potrebbe anche essere. Del resto Renzi assicura che si va avanti fino al 2018 e di solito quando dice una cosa la mantiene no?».

La Stampa 13.6.14
Quei due partiti in uno
Il commento di Andrea Malaguti

qui

La Stampa 13.6.14
Lo strano caso del "martire" Mineo
di Jacopo Iacoboni

qui

La Stampa 13.6.14
“Le epurazioni? Sono logiche da clan. Cancellano secoli di cultura politica”
Storici e politologi: “Per le nuove leve l’incompetenza è un valore”
di Mattia Feltri


Silvio Berlusconi aveva affrontato il problema con la classica schiettezza: «Che votino soltanto i capigruppo». Si sarebbero accelerate le procedure d’aula e «chi non è d’accordo potrà votare contro o astenersi». Questa complicazione della libertà di mandato (presente in qualsiasi costituzione occidentale, per cui il parlamentare rappresenta la nazione e non il partito, ed è libero di votare come crede) è stata poi risolta da Beppe Grillo, secondo il quale deputati e senatori dovrebbero votare secondo i desideri degli elettori, da verificare di volta in volta con consultazioni on line. «Fare come dicono duecento persone in rete?», si chiede oggi il costituzionalista Augusto Barbera. Il quale, però, non fa rientrare la vicenda del senatore Corradino Mineo nell’ambito proposto in apertura di articolo: «La libertà di mandato è sacra e inviolabile, ma si esprime in aula. Non nelle commissioni, dove deputati e senatori siedono perché designati dai gruppi parlamentari». Tanto è vero, aggiunge Barbera, che l’articolo 31 del regolamento del Senato prevede che «ciascun gruppo può, per un determinato disegno di legge o per una singola seduta, sostituire i propri rappresentanti in una commissione».
Accertata la costituzionalità della manovra d’espulsione di Mineo - ma anche una sua palese muscolarità - rimane l’impressione che le truppe del nuovismo italiano, da qualche tempo a questa parte, abbiano dimenticato e forse cancellato almeno un paio di secoli di cultura politica. «E non da ieri: direi da un ventennio, da quando sono nati i partiti della cosiddetta Seconda repubblica, che però stentano a prendere forma. Il Pd, per esempio, è un aggregato di tre o quattro partiti diversi», dice lo storico Luciano Canfora. Che aggiunge: «Ci sono giovanotti fastidiosi, diciamo così, che hanno preso a calpestare le regole perché fa comodo così». Il vincolo di mandato è spesso un’ipotesi, si contesta la segretezza del voto in aula, si impedisce con la tagliola (per la prima volta nella storia della Camera) l’ostruzionismo alle opposizioni. Canfora spiega che «non esiste più una scuola di partito». «E nemmeno un cursus secondo il quale si cominciava dai consigli comunali, per poi lentamente salire, e nel frattempo apprendere i grandi principi della democrazia occidentale», dice Augusto Barbera.
Il politologo Giorgio Galli ci ha appena scritto sopra un libro (Storia d’Italia tra imprevisto e previsioni, edizioni Mimesis) e a noi spiega che «la nuova classe politica sembra trascurare secoli di cultura politica e giuridica. È un processo che è cominciato negli anni Settanta e che sta arrivando a compimento, e coincide con la sostituzione di un’alta borghesia imprenditoriale con un’alta borghesia finanziaria, cioè speculativa e improduttiva. E anche con la nascita di un’alta borghesia burocratica. In poche parole, in Italia si sono imposti nuovi ceti sociali con una loro cultura e una loro morale». Galli parla del familismo amorale, concetto sociologico anglosassone, per cui si persegue solo il bene del proprio clan e le regole valgono solo all’interno del clan medesimo. Le norme che si credevano sacre e inviolabili non solo non valgono più, ma nessuno le conosce. «L’incompetenza è diventata un valore, una precondizione», ricorda Canfora pensando soprattutto ai cinque stelle. Essere incompetenti significa non essere inquinati dalla polvere dei secoli. «Oltretutto la poca preparazione suscita arroganza, specialmente se associata all’esercizio di un piccolo potere», aggiunge Canfora. E Galli conclude: «Nessuna conquista è per sempre. La nostra democrazia, per esempio, è stata un conquista faticosa e sanguinosa. Non voglio dire che Renzi la stia mettendo in pericolo, ma quando sostiene che col suo 41 per cento farà le riforme che riterrà di fare, bè, significa che qualcosa ci sta sfuggendo di mano».

La Stampa 13.6.14
Mille ostacoli nel tenere la linea dura nel partito
di Marcello Sorgi


Matteo Renzi ha trovato ad attenderlo, al suo rientro dalla Cina, due grane piuttosto grosse. La prima è la ribellione di quattordici senatori alla rimozione del loro collega Corradino Mineo dalla commissione Affari costituzionali dov’è in discussione la riforma del Senato. Dopo quella dell’ex-ministro Mario Mauro, la sostituzione di Mineo, irriducibile oppositore del disegno di legge del governo, rende possibile l’approvazione del testo, ma apre un problema all’interno del Pd. Renzi dovrà decidere se tener duro, come hanno fatto ieri i renziani Lotti, sottosegretario alla presidenza, e Boschi, ministro per le riforme, o cercare una composizione, forse impossibile, con i dissidenti, che se manterranno le loro riserve rischiano di indebolire non poco la maggioranza del governo al Senato.
Il secondo problema riguarda gli scandali e la linea dura (”Fuori a calci i corrotti”) enunciata in coincidenza con le inchieste sull’Expo e sul Mose. Ieri il sindaco di Venezia Orsoni, appena scarcerato, e dopo aver patteggiato una lieve condanna per finanziamento elettorale illecito che lo ha escluso dall’accusa di corruzione, ha detto che non sapeva nulla dell’illegalità dei finanziamenti accettati dal Pd, freddamente definito “mandatario”, e s’è pertanto reinsediato al suo posto di primo cittadino. In pratica Orsoni ha accusato il Pd veneto, o chi è andato a suo nome a chiedere soldi al Consorzio per il Mose, di averlo messo nei guai e avergli scaricato addosso la colpa. Renzi, per tornare alla linea dura, deve decidere se “prendere a calci” il sindaco, o i funzionari e i dirigenti del Pd che trattavano a suo nome, o se invece modificare l’atteggiamento di totale sostegno adottato nei confronti della magistratura, che ha portato tra l’altro mercoledì alla dissociazione e al voto contro il governo di una trentina, forse una quarantina, di franchi tiratori del Pd nel voto della Camera sulla responsabilità civile. Giorno dopo giorno, infatti, prende corpo il dubbio che i pm di Venezia abbiano con troppa facilità chiamato in ballo personalità del partito o dei governi precedenti, basandosi solo su riferimenti locali o di corrente che non consentono di formulare accuse precise. Anche di questo il premier dovrà tener conto.

l’Unità 13.6.14
Civati parla di metodi «bulgari» e di violazione dell’articolo 67 della Costituzione..
Caso Mineo, 14 senatori si autosospendono Boschi: i numeri ci sono
Bufera nel Pd dopo la sostituzione dell’esponente civatiano in commissione Affari costituzionali
Il giornalista contro la ministra: «Privilegia la sua vanità»
Ma nella minoranza lo seguono in pochi


Quattordici senatori autosospesi. È questa la bomba che di prima mattina scoppia dentro il Partito democratico. Viene lanciata a Palazzo Madama da Paolo Corsin con una comunicazione in Aula. Quattordici senatori, compreso Corradino Mineo, si autosospendono in forma di protesta per la sostituzione in commissione Affari costituzionali dell’ex direttore di Rainews 24 con Luigi Zanda e di Vannino Chiti, sostituito formalmente dato che è presidente della Commissione politiche Ue, di fatto due «dissidenti» rispetto alla bozza di riforma costituzionale presentata dal governo. Duro l’attacco che parte da Mineo e da Pippo Civati al premier Matteo Renzi e alla ministra Maria Elena Boschi, che comunque assicura: «Noi andiamo avanti. I numeri per fare le riforme ci sono. Le riforme non si possono bloccare». Dai civatiani volano parole grosse, «epurazione», metodi «bulgari », violazione dell’articolo 67 della Costituzione. Ma alla fine restano soli, (quasi) tutto il partito si compatta su una linea che dal Senato alla Camera è piuttosto trasversale: sbagliato ed esagerato autosospendersi. Sbagliate le motivazioni, legittima la sostituzione in Commissione se chi vi siede non rappresenta le posizioni della maggioranza del gruppo parlamentare e del partito stesso. I quattordici senatori (Casson, Chiti, Corsini, D’Adda, Dirindin, Gatti, Lo Giudice, Micheloni, Mineo, Mucchetti, Ricchiuti, Tocci, Turano e Giacobbe) vedranno Luigi Zanda nei prossimi giorni, di sicuro prima della riunione dell’Assemblea fissata per il 17, nel Pd si cerca di capire se è possibile una ricomposizione, ma il clima è tesissimo e Matteo Renzi è furibondo con i 14 senatori, con Mineo più di tutti,.«Non lascio il Paese in mano a Mineo», dice con i suoi annunciando che andrà avanti comunque perché i numeri ci sono. Ma Stefano Fassina prima e Gianni Cuperlo poi prendono le difese dei “dissidenti”. «Grande preoccupazione per la scelta di 13 senatori del Pd di auto-sospendersi dal gruppo dopo la sostituzione di Corradino Mineo e di Vannino Chiti dalla Commissione Affari Costituzionali del Senato. La sostituzione è stata un errore politico. Una ferita all'autonomia del singolo parlamentare e al pluralismo interno del Pd», per Fassina che chiede subito un chiarimento nel partito.
«Siamo davanti a un episodio serio che investe la qualità del confronto e del pluralismo al nostro interno, il rispetto dell`autonomia di ogni parlamentare e la natura della democrazia con cui si assumono decisioni vincolanti per tutti. La coscienza di ciascuno è un valore - dice Cuperlo -. Questo è fuori discussione. Allo stesso modo, non condivido un modello di partito dove chi dissente viene estromesso. Questa logica non fa bene al Pd e non fa il bene del governo. Proviamo a fare tutti un passo indietro e a cercare tutti una soluzione migliore». E poi, chiede un presidente del partito condiviso lanciando una sorta di appello sul metodo.
Mineo, dal canto suo, si dice meno ottimista di Renzi sui numeri per le riforme: «Al momento non c’è la maggioranza al Senato, è vero, ma ci saranno orde di berlusconiani o di altri che correranno in soccorso», il punto per il senatore, è che saranno proprio i «colonnelli a tradire le riforme» di Renzi che, a sua detta, ha appena fatto autogol. Respinge anche le motivazioni alla base della sua sostituzione, «non ho mai posto un veto e non affatto il fuoco amico del Pd», prosegue accusando la Boschi di aver messo tutto a repentaglio per «vanità». A rispondere è la collega Rita Ghedini: «Spiace che senatori attenti come Casson e Mucchetti vogliano stravolgere il senso di quanto scritto nel regolamento del nostro gruppo parlamentare. Il confronto democratico è stato ampiamente garantito dal gruppo. I senatori del Pd si sono confrontati su questi temi in numerose assemblee. Tutti e ciascuno hanno potuto esprimere le proprie convinzioni.
Alla fine della lunga discussione il voto in assemblea ha sancito che oltre l'80% del gruppo è a favore dell'impianto di riforma proposto dal governo». E sulla linea anche il bersaniano Migule Gotor, o il Giovane turco Francesco Verducci. Dal Nazareno il tesoriere Francesco Bonifazi considera «incomprensibile che un piccolo gruppo di senatori, ignorando le decisioni democraticamente assunte più volte dagli organismi del partito e del gruppo parlamentare, voglia bloccare il percorso delle riforme che ci chiedono gli elettori», mentre dal governo è la stessa Boschi a sembrare ultimativa: «Nessuno ha chiesto loro di autosospendersi. Ora sta a loro decidere se far parte del processo di riforme o fare una scelta diversa». Alfredo D’Attorre prova a gettare acqua sul fuoco: «Le riforme si devono assolutamente fare perché il contrario sarebbe un fallimento drammatico di questa legislatura. L’ufficio di presidenza del Senato ha fatto forse una forzatura sui tempi: era meglio mantenere il dialogo aperto con Mineo fino all’ultimo. Detto questo la posizione di Mineo non si può sostenere. Ora dobbiamo abbassare i toni da ambo le parti, riprendere il dialogo».

Corriere 13.6.14
Insofferenti e dissidenti
di Pierluigi Battista


Il Pd è, con merito, il partito italiano a più alto grado di democrazia interna. Non si capisce perché voglia compromettere questo primato, conquistato anche grazie all’insofferenza autoritaria per il dissenso interno degli altri due partiti maggiori, con un banale ma sintomatico gesto di prepotenza nervosa nei confronti di senatori contrari al progetto di riforma del Senato disegnato nell’incontro al Nazareno tra Renzi e Berlusconi. Il Pd è sembrato sin qui coltivare anche un peculiare senso delle istituzioni. Non si capisce allora perché abbia superficialmente scambiato una commissione parlamentare per una sede di partito, estromettendone i senatori come se fossero militanti tenuti a una disciplina interna e non a esponenti delle istituzioni che non devono rispondere a un segretario di partito ma ai cittadini nel loro complesso. Ecco perché Matteo Renzi e i dirigenti del Pd a lui più vicini hanno commesso un duplice errore «epurando» i senatori Mineo e Chiti dalla commissione Affari Costituzionali facendo così in modo che si aggregasse una pattuglia di 14 «dissidenti» che si sono autosospesi in segno di solidarietà con i loro colleghi messi fuori d’imperio.
È molto verosimile che i senatori del Pd accantonati fossero mossi da una forma di conservatorismo culturale che in questi anni ha ostacolato qualsiasi riforma impantanandola in un vortice di veti e di inconcludenza. Ma se Renzi ha il merito di aver impresso una brusca accelerazione alle riforme istituzionali, facendole uscire dalla palude degli eterni rinvii, non si può neanche pensare che su un tema così delicato e costituzionalmente rilevante qualunque discussione sia equiparabile a un «sabotaggio», qualunque dissenso a un «tradimento», qualunque perplessità a un «veto». Bisogna far presto, e Renzi ha ragione a essere insofferente di freni e dilazioni che in passato hanno fatto inabissare ogni riforma. Ma non ci si può «impiccare a una data», l’espressione è dello stesso presidente del Consiglio, e dunque un mese in più per fare una riforma del Senato non raffazzonata e rabberciata non è la fine del mondo: la campagna elettorale si è conclusa in modo trionfale, non c’è più una data tagliola oltre la quale l’immagine riformista del governo e del Parlamento possa risultare intaccata.
Stupisce perciò che proprio Renzi, protagonista di una battaglia democratica nel Pd che lo ha portato ai vertici del partito e del governo, e dal 25 maggio anche con un formidabile consenso elettorale, si mostri così irritato dal manifestarsi di una minoritaria «fronda» contraria a un progetto di riforma del Senato peraltro ancora vago nei dettagli. Stupisce, dopo aver ingaggiato una furiosa polemica con Grillo, che non voglia tener minimamente conto dell’imperativo costituzionale che non pone nessun vincolo di mandato ai parlamentari, e meno che mai un vincolo alle decisioni della segreteria di un partito. Se c’è un problema irrisolto tra una segreteria plebiscitata e un corpo parlamentare eletto quando gli equilibri nel Pd erano altri, la soluzione non può che essere politica, senza scorciatoie disciplinari, messe al bando e bavagli preventivi. La pratica punitiva della messa ai margini può dare l’impressione di un ostacolo rimosso, di un impedimento messo in condizione di non nuocere. Ma non fa un favore al Pd perché produce una confusione tra ammirevole rapidità «decisionista», capacità di convincere e cancellazione per decreto di ogni dissenso.

l’Unità 13.6.14
Felice Casson:
«Dal partito atto militarista che viola la Costituzione»


«Un atto di tipo militarista, politicamente violento, che viola palesemente il regolamento del gruppo Pd al Senato». Felice Casson, uno dei 14 dissidenti che si sono autosospesi dal gruppo democratico di palazzo Madama per protesta contro l’estromissione di Corradino Mineo dalla commissione che si occupa di riforme costituzionali, non usa giri di parole: «Siamo rimasti sbalorditi da questa decisione, che riguarda anche Vannino Chiti che mercoledì ha definitamente perso il posto in commissione per le stesse ragioni. Si tratta di una grave violazione dell’articolo 67 della Costituzione, che non prevede “vincolo di mandato” per i parlamentari e di ben tre norme del regolamento interno al nostro gruppo. In particolare, il regolamento riconosce il dissenso in tema di riforma della Costituzione e non prevede una sostituzione d’imperio di un membro di una commissione».
La vostra sospensione dal Pd è dunque un gesto di solidarietà? «Non si tratta di questo, ma di una reazione che ha come obiettivo primario la tutela del Parlamento e dei parlamentari ».
E tuttavia non si può negare che Mineo remava contro la riforma del Senato proposta da Renzi...
«Ma non è vero. Da parte nostra non c’era alcuna intenzione di porre veti. Si poteva benissimo andare avanti con le votazioni in commissione, si è scelto lo scontro consapevolmente, forse anche questo fa parte dell’accordo con Berlusconi... ».
Insisto, Mineo non ha votato il testo base del governo e ha fatto passare l’odg di Calderoli che era chiaramente ostile...
«Su quattro quinti della riforma proposta dal governo siamo tutti d’accordo. Resta il nodo della modalità di elezione dei senatori, e si poteva trovare una mediazione. Mineo non ha mai votato contro la linea del gruppo, non ha partecipato al voto. Così sull’ordine del giorno Calderoli, che presentava anche dei punti condivisibili».
Sta di fatto che dopo le europee la riforma si è incagliata in commissione, sepolta da migliaia di emendamenti...
«Quella mole di emendamenti è della Lega, noi ne abbiamo presentati una ventina, un numero che conferma che non c’è nessuna volontà di frenare. E scaricare ogni responsabilità su Mineo davvero è come nascondersi dietro un dito e non voler capire che c’è un problema politico». Dopo il 41% del Pd alle europee non le pare che sia arrivato dagli elettori un chiaro segnale a favore delle riforme, e a non perdere altro tempo?
«Quel risultato è un grande successo che va ascritto in primo luogo a Renzi. Ma va ricordato che in questa campagna elettorale il Pd è stato unito, nessuno ha remato contro. I cittadini hanno manifestato una volontà di speranza, ma non c’è stata nessuna pronuncia popolare diretta sul tema delle modalità di elezione del Senato. Anzi, io sono convinto che se i cittadini fossero ascoltati, ci sarebbe una chiara maggioranza a favore dell’elezione diretta. Una elezione indiretta ricorda troppo i meccanismi del Porcellum, che tutti a parole dicono di voler superare».
Dunque lei sostiene che dal voto europeo non è arrivato un via libera alle riforme di Renzi?
«Il popolo non è stato consultato su questo punto. Ed è evidente che, con un’elezione di secondo grado, saranno ancora i partiti a decidere gli eletti».
Mineo sostiene che in Aula non ci sono i numeri per la riforma di Renzi.
«Ad oggi anch’io ritengo che i numeri non ci siano».
Ma voi 14 adesso cosa farete? Uscirete dal gruppo?
«Questo tema non si pone. Noi vogliamo dare un contributo, ragionare nel merito. Martedì ci sarà una riunione del gruppo del Senato, vedremo cosa diranno ».
Esclude una vostra uscita?
«Siamo in una fase dialettica, non ha senso parlare di questo. Noi puntiamo a realizzare una riforma condivisa. Se non arriveranno risposte convincenti valuteremo. Per ora restiamo fuori dalle attività del gruppo».
Alcuni di voi sono tra quelli che non volevano dare la fiducia al governo Renzi a febbraio...
«Nell’area civatiana si pose questa questione, io però non ho mai avuto dubbi sulla fiducia. Il congresso è finito, e per me anche le aree congressuali».

l’Unità 13.6.14
Caso Mineo, Renzi deve fermarsi
di Pietro Folena


PRIMA CHE SIA TARDI MATTEO RENZI E I SUOI CONSIGLIERI, CON L'APPOGGIO DI LARGA PARTE DELL'EX-MINORANZA, dovrebbero evitare un cortocircuito traumatico nella coscienza del Paese. Non basta evocare i «voti», come si è fatto in queste ore: non c'è voto, né «plebiscito» che giustifichi atti di prepotenza e di intolleranza come quello che ha visto il Pd cacciare Vannino Chiti e Corradino Mineo dalla Commissione Affari Costituzionali perché non «allineati». Non ho memoria, in epoche recenti, di un atto di questa brutalità. Il tema va al di là del merito della riforma: viene messo in discussione un principio costituzionale sacro, e cioè la non esistenza di un vincolo di mandato del parlamentare, il quale non deve rispondere al Partito, ma alla sua coscienza, interpretando lì il senso del mandato ricevuto.
Ricordo le sacrosante polemiche bersanian-renziane contro Beppe Grillo quando a più riprese è intervenuto per imporre un vincolo agli eletti del M5S. Oggi Anna Finocchiaro, che presiede la Commissione, giustifica questa sostituzione affermando che il problema della libertà di coscienza esiste solo per l'Aula! Non si sta discutendo della fiducia al governo, né della legge di stabilità; né di temi come quelli del lavoro, su cui le sensibilità nel Pd sono molto differenti, e acute; e neppure della pace -chi scrive nei Ds, in Commissione e in Aula, votò a più riprese in dissenso all'epoca di controverse decisioni sulle missioni militari, senza mai subire atti di imperio paragonabili a questo.
Qui si discute di Costituzione, di una materia di per sé al riparo, più di ogni altra, da diktat delle nomenklature di Partito. Il Pci, nell'era del Cominform, affrontò la formulazione della Costituzione con un'apertura e una disponibilità ben superiori rispetto a quelle dimostrate ora.
I tredici senatori del Pd hanno fatto bene a autosospendersi. Bisogna chiamare i vertici del Partito a riflettere, e a tornare indietro, sperando che sia solo l'inesperienza ad aver provocato questo autogol. Bisogna invitare i circoli e gli iscritti a esprimersi sulla questione.
Matteo Renzi ha vinto largamente. Ma farebbe un errore a voler stravincere. Non c'è 41%, e neppure 50,1% che giustifichi sulla questione delle regole un'intolleranza per chi la pensa diversamente. Ora questo giovane leader deve dimostrare di non essere un altro capo populista, come altri che abbiamo conosciuto in questi anni, ma uno statista, e un leader che vuole promuovere una nuova stagione «democratica». Avere la forza di fermarsi non è un atto di debolezza, ma una dimostrazione di forza: la forza della ragione, contro le ragioni della forza.

Repubblica 13.6.14
Il pasticciaccio brutto di Palazzo Madama
di Sebastiano Messina



ERA dai tempi dell’ammainabandiera del Pci che la sinistra italiana non si ritrovava protagonista di un film così schizofrenico, così lacerante, così spettacolare. In una scena vediamo il sorriso della ministra Boschi, sempre allegra e sempre con un tailleur diverso, immancabilmente fiduciosa nelle magnifiche sorti e progressive della riforma del Senato.
RIFORMA che difende a passo di carica facendo la spola tra il partito e il Parlamento come una staffetta partigiana. Nella scena successiva suona invece una cupa sirena d’allarme, e rimbalzano parole da guerriglia, quelle del senatore Corradino Mineo che denuncia con tono grave che la «militarizzazione» della commissione Affari costituzionali e il pericoloso avvento del «renzismo-stalinismo », quelle del felpatissimo senatore Vannino Chiti - già ministro delle Riforme che non si fecero - che punta il dito contro «un partito autoritario e plebiscitario», e soprattutto quelle dei 14 senatori che ieri si sono autosospesi dal gruppo del Pd invocando la Costituzione, la Libertà e la Democrazia.
E dunque, mentre ci sono ancora da lavare i bicchieri per i brindisi alla vittoria-shock delle europee e per la conquista di due terzi dei municipi italiani, l’elettore del Pd si ferma frastornato e confuso a domandarsi se abbia ragione - scena prima - Pippo Civati, che getta in faccia all’ex amico Matteo l’accusa bruciante di aver rispolverato «la tradizione bulgara» delle epurazioni televisive berlusconiane, se il ribelle Mineo non abbia poi torto quando avverte che «non si può pensare di fare le riforme con un solo voto di scarto, 15 contro 14», se sia fondato l’allarme del sapore pre-resistenziale del senatore Paolo Corsini contro «l’epurazione delle idee non ortodosse», o se invece faccia bene Renzi - scena seconda - a tirare dritto, avvertendo che «i voti degli italiani contano più dei veti di qualche politico», e dicendo chiaro e tondo ai dissidenti che combattono una battaglia persa, «perché io non ho preso il 41 per cento per lasciare il futuro del Paese a Mineo».
E basta dare un’occhiata agli accorati messaggi postati su Facebook o su Twitter per capire che il popolo del Pd si è già diviso tra la difesa della riforma, costi quel che costi, e la difesa del sacro diritto al dissenso, da proteggere senza se e senza ma. I tifosi del Renzi decisionista contro gli avversari del Renzi decisore autoritario. Pochi perdono tempo a leggersi le carte, come quel noiosissimo regolamento del Senato dove c’è scritto che le commissioni non sono dei mini-senati ma dei comitati che devono rispecchiare fedelmente il rapporto tra maggioranza e opposizione, e infatti i capigruppo hanno il potere di sostituire in qualunque momento i commissari, i quali siedono lì come rappresentanti del gruppo e non a titolo personale. E si capisce. Altrimenti - caso limite ma non tanto - l’unico dissidente di un partito di maggioranza potrebbe, votando in commissione con gli avversari, bloccare all’infinito una legge che in aula sarebbe magari approvata in mezza giornata.
Certo, l’idea che il Parlamento debba approvare mettendosi sull’attenti la riforma che il ministro Boschi tira fuori con grazia dalla sua cartella di pelle sarebbe inaccettabile: i senatori, tutti i senatori, hanno il pieno e incomprimibile diritto di dire la loro e di votare - nell’aula di Palazzo Madama - come ritengono giusto. Ma chi grida al dittatore, chi parla di stalinismo, chi lancia l’allarme per la militarizzazione del Parlamento, chi evoca gli editti bulgari e chi non distingue tra decisionismo e autoritarismo sorvola un po’ troppo disinvoltamente su un dettaglio non proprio insignificante: la riforma che non piace ai dissenzienti non l’ha consegnata al buio e di nascosto Renzi alla fidata staffetta Boschi, ma è stata approvata prima dalla Direzione del partito e poi dall’assemblea del gruppo (dove ci furono solo 11 voti contrari e 4 astenuti, su 107 senatori). Ed è per questo che oggi Luca Lotti, il numero due di Palazzo Chigi, può difendere Renzi dall’accusa di despotismo, «perché siamo un partito democratico, non un movimento anarchico».
Non sappiamo come finirà il pasticciaccio brutto di Palazzo Madama, ma in quei corridoi solenni un occhio attento oggi può cogliere il sorriso di chi si gode le inedite scene delle autosospensioni di gruppo e degli insulti incrociati con l’inconfessabile speranza che la guerriglia antirenziana del subcomandante Mineo allontani il momento in cui tutti loro dovranno perdere quel seggio, quel titolo e quello stipendio.

il Fatto 13.6.14
“E se succede di nuovo? Epurazione continua?”
Gli autosospesi del Pd - 14 senatori su 108 – si appellano al regolamento interno: “su Costituzione e bioetica c’è libertà di voto”
di M. Pa.


Quattordici senatori che si auto-sospendono, nonostante le spacconate dei renziani, non sono pochi: è il 13% della forza del Pd in Senato. Queste sono le loro voci e l’articolo del regolamento a cui si appellano per criticare la decisione di Luigi Zanda e dei vertici del gruppo democratico a palazzo Madama.
Il regolamento del Pd in Senato: “Su questioni che riguardano i principi fondamentali della Costituzione repubblicana e le convinzioni etiche di ciascuno, i singoli Senatori possono votare in modo difforme dalle deliberazioni dell’Assemblea del Gruppo ed esprimere eventuali posizioni dissenzienti nell’Assemblea del Senato a titolo personale, previa informazione al presidente del Gruppo” (articolo 2, comma 5).
Il documento degli autosospesi: “La rimozione dei senatori Chiti e Mineo dalla commissione Affari costituzionali, decisa ieri dalla presidenza del gruppo del Pd, rappresenta di fatto una epurazione delle idee considerate non ortodosse dal processo di formazione della più importante delle leggi, la legge costituzionale (...) Un Parlamento meno libero non aumenta la libertà dei cittadini”.
Felice Casson: “Abbiamo preso questa decisione perchè è stato violato l’articolo 67 della Costituzione”.
Paolo Corsini: “Nella mia terra è vissuto in tempi molto oscuri, assolutamente non paragonabili a quelli di oggi, un ignoto parroco, che poi Paolo VI fece cardinale, uno dei vertici della spiritualità cristiana del Novecento, padre Giulio Bevilacqua, il quale, in un testo molto noto, scrisse testualmente che le idee valgono per quel che costano, non per quel che rendono”
Lucrezia Ricchiuti: “Sono per il superamento del bicameralismo perfetto e per la trasparenza dei poteri e della burocrazia, ma non mi sento trasparente al punto di non essere né vista né ascoltata. Sono anche per una politica che si confronta e vota e non per una politica vuota di confronto, perché credo che un partito debba essere una comunità di persone vive e che partecipano, ma soprattutto sono convinta che esprimere il proprio punto di vista non significhi tradire”.
Massimo Mucchetti: “La logica chiede di rispondere al seguente quesito: che cosa accadrà in futuro nel caso dei senatori del Pd maturassero idee differenti da quelle del Capo e della sua maggioranza su qualche materia che il Capo ritiene rilevante? I dissidenti verrebbero spostati da una commissione all’altra? Vi sembra seria l’epurazione continua? Già che ci siamo - viva la faccia - sarebbe più trasparente abolire del tutto l’articolo 67 della Costituzione. Nella post democrazia dei partiti proprietari o leaderistici, è diventato un inutile orpello”.
Walter Tocci: “Se il premier si concentrasse sulle formidabili scadenze di governo che ha annunciato e lasciasse fare al Parlamento si potrebbe, in poche settimane, correggere l’Italicum e riformare il bicameralismo. I testi attualmente in discussione sono curiosamente d’accordo nel togliere potere agli elettori proprio mentre questi chiedono di eliminare la Casta. Con la legge Boschi i cittadini non eleggono i senatori e con la legge Verdini non eleggono i deputati”.

il Fatto 13.4.14
Autostrada Renzi: caduta massi
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBONon ti sembra un pò sgangherata la nostra situazione politica? Alla Camera il Pd vota con la Lega contro il governo ( e contro i giudici ) e Renzi non se la prende. Al Senato Renzi ordina di scardinare la Commissione affari costituzionali, caccia Mineo, che non stava al gioco, e ottiene l'autosospensione di 13 senatori. Un bel pasticcio.
Roberto
IL PASTICCIO È SOPRATTUTTO nella misteriosa incoerenza del famoso velocista giovane. Sarà stato uno scherzo quello che un bel gruppo dei suoi gli hanno fatto alla Camera, votando un emendamento anti-giudici con gli amici della signora Le Pen e del suo papà antisemita, un gruppetto secessionista detto La Lega Nord, celebre per la menzogna: "non esiste la ndrangheta a Milano"? O si tratta di qualcosa che anche lui voleva (vedi la " parabola del secondo Silvio "alla Leopolda ) e che ha fatto accadere come un finto incidente mentre tutti i controllori del voto del gruppo, Pd, guarda caso, non erano in aula? Si noti che non colpisce la natura dell'emendamento, ma il giorno (mentre scoppiano i peggiori scandali bi- partisan della Repubblica), i compagni di strada (La Lega, partito di tradimenti, ruberie e manifestazioni squilibrate che hanno il loro simbolo in Borghezio), e la frase del Presidente della Repubblica che per prima cosa rimbrotta i magistrati (come andare a dire ai soldati in trincea che rischiare per la patria non è un privilegio). Intanto al morituro Senato, il buon soldato Zanda, ligio agli ordini del partito e del governo, scompiglia una commissione chiave sposta, punisce, destituisce, sostituisce, violando la separazione dei poteri e l'autonomia "senza vincolo di mandato" degli eletti. Tutto ciò solo perché il senatore Mineo (che, insieme a Chiti, non si nasconde e non finge) ha dichiarato apertamente il suo no a un paio di leggine tascabili, buttate li in tutta fretta dal velocista capo, tipo l'Italicum e la trasformazione in dopo-lavoro gratuito del Senato. Difficile dire, dato che Renzi parla quando vuole, dai cieli di Sky alla TV di Stato, assomiglia a Berlusconi quanto a uso libero e personale dei media, (salvo che poi si vendica di chi si piega subito, e sta già accadendo alla Rai) e continua a dirci, dal Vietnam, dalla Cina e dal Kazakhistan, che va tutto bene ed è tutto in orario. Però alla Camera c'è un crollo e al Senato è stato assegnato il ruolo di luogo in cui si porrà rimedio a quel crollo. E, sempre al Senato, che pure è " delendum", è stata piazzata un brutta trave bene in vista, come si fà negli edifici pericolanti, in modo da essere sicuri che la libertà di decisione della "Camera alta" si conformi, parola per parola, alla volontà del leader, usando l'espediente di cacciare i dissidenti. I lettori capiranno che non stiamo discutendo dei testi votati o da votare ma del contesto. Sarebbe bello vedere in faccia quelli del Pd che, alla Camera, hanno votato in segreto con gli amici e alleati di Le Pen, con quelli che, negando la ndrangheta al Nord, la hanno immensamente favorita. Fa differenza il voto dichiarato di Giachetti in un giorno di voto segreto? Si, in peggio. Perché Giachetti ha una buona reputazione, perché è vice presidente della Camera e perché ha mostrato di non capire il contesto marcio in cui si è collocato. Sarebbe come celebrare la Resistenza in Casa Pound. Ed è bello poter vedere in faccia, invece, coloro che al Senato si sono autosospesi, denunciando lo stesso contesto marcio e affermando la propria dignità di politici eletti. Alla fine però resta chiaro che il velocista, questa volta, ha sbandato di brutto.

l’Unità 13.6.14
Riforma del Senato, un brutto spettacolo
di Claudio Sardo


Stavolta il Pd ha offerto un brutto spettacolo. Il problema non è il dissenso: il Pd non può che essere un partito plurale. Se così non fosse, tradirebbe la sua natura. Il problema non è neppure la sostituzione di un senatore in commissione: nessuna libertà costituzionale è stata violata e un gruppo parlamentare avrà pure il diritto di intervenire nella formazione della legge, prima che l’aula si pronunci.
Il vero problema è che questo «nuovo» Senato non riesce a uscire dalle nebbie, le lacune e le contraddizioni da più parti evidenziate non hanno trovato ancora soluzioni convincenti, e questo scontro interno al Pd si consuma mentre restano indeterminati il contesto istituzionale e le intese politiche che dovrebbero fare da cornice. La prova di forza tra il premier e i senatori dissidenti è così proiettata in un immaginario simbolico, in una narrazione distante dalla realtà. La palude, la libertà di mandato, il rischio-dittatura: parole esagerate, che purtroppo mostrano difficoltà e debolezze. Bisognerebbe fare come Renzi ha chiesto di fare in Europa: prima chiarire bene la rotta delle riforme, poi compiere le scelte conseguenti sui nomi. Invece in Senato si è fatto l’inverso. Mineo, come già Mauro (sostituito in commissione dai Popolari per l’Italia), sarebbe risultato determinante per definire il testo-base solo nel caso che Forza Italia e Lega si fossero collocati all’opposizione insieme ai Cinquestelle. Ma questo non è scontato, e forse neppure probabile. Sono in corso trattative (martedì Renzi dovrebbe vedere Berlusconi) per giungere a una nuova intesa con tutto il centrodestra. E se si arrivasse all’accordo, l’eventuale dissenso di Mineo o di un altro senatore Pd diverrebbe irrilevante ai fini del risultato. Così come il dissenso in aula di 14 o 20 senatori Pd di fronte a un’intesa globale tra la maggioranza, Forza Italia e la Lega.
È questo che rende lo spettacolo particolarmente brutto. Il Pd sarebbe dovuto intervenire con determinazione sulla sua squadra in commissione, solo in seguito alla rottura con Forza Italia. Altrimenti, che senso ha occultare il dissenso (non determinante) in commissione quando questo, legittimamente, si manifesterà in aula? Peraltro se Renzi confida di stringere un nuovo accordo con Berlusconi, che utilità può avere alzare la tensione interna ed esasperare una polemica? Non è vero che, così facendo, il premier avrà maggior potere contrattuale con Berlusconi. Il rischio è invece di importare nel Pd elementi di diffidenza e sospetti, che non aiuteranno certo il lavoro comune, reso necessario dalle responsabilità conseguenti al voto europeo. E ieri sera c’era già chi diceva che Renzi ha bisogno di crearsi il nemico interno per tenere alto il proprio ritmo comunicativo, come c’era chi, per riflesso, dilatava le differenza sulle riforme fino a rendere impossibile una ragionevole composizione.
Invece le riforme sono necessarie, anche se le proposte in campo vanno corrette. E il lavoro di mediazione non può che partire dal Pd. Parliamo di leggi costituzionali, dove la ricerca di un consenso ampio è un dovere per tutti e dove la libertà dei singoli parlamentari non potrà mai essere compressa. Questo non vuol dire che i partiti svaniscono di fronte alle riforme, lasciando il campo a mille liberi pensatori. I gruppi parlamentari hanno i loro poteri e i loro doveri. Tanto, alla fine, in aula ognuno compirà la sua scelta. Comunque non è tempo perso quello che serve per convincere, per persuadere, per accogliere i rilievi che vengono mossi. La qualità delle riforme non sarà indifferente al suo esito. Ma questa pazienza, questa saggezza ancora deve manifestarsi. Renzi vuole un Senato delle Autonomie. Ha buone ragioni dalla sua, compresa quella che da vent’anni diciamo che il bicameralismo perfetto va superato, affidando al Senato il compito di guidare il federalismo cooperativo. Al progetto di Renzi sono stati opposti svariati modelli di Senato: è stata persino tirata in ballo la Camera dei Lords. Nessuna di queste ipotesi ha convinto davvero. Il Pd insista pure sul Senato delle Autonomie: ma deve eliminare storture e incoerenze presenti nel testo del governo (dai 21 senatori nominati dal Capo dello Stato all’enorme, e inspiegabile, numero di sindaci che dovrebbero fare i senatori come dopolavoro). E deve rispondere sul tema delle garanzie costituzionali come finora non ha fatto.
È avvilente, mortificante che la discussione sia concentrata sull’elezione diretta o indiretta dei senatori. Come se la Costituzione e il funzionamento della nostra democrazia dipendessero dagli stipendi dei senatori e da chi li paga. Altre sono le priorità per migliorare la riforma del Senato. La prima: gli istituti di garanzia e la platea dei grandi elettori del presidente della Repubblica. Se la Camera verrà eletta con una legge maggioritaria, non si può affidare ad essa la scelta del Capo dello Stato e degli organi di garanzia. La seconda priorità riguarda proprio l’Italicum, a cominciare dalla restituzione ai cittadini del potere di scelta dei deputati. Un Senato delle Autonomie può benissimo avere senatori eletti in secondo grado. Ma sarebbe inaccettabile che, ai senatori eletti da consiglieri regionali e sindaci, si affiancassero deputati scelti dai leader di partito. Quanto sono state migliori le elezioni europee, dove i cittadini hanno potuto dire la loro sia sui partiti che sui candidati!

Repubblica 13.6.14
Massimo Mucchetti
“C’è troppa arroganza l’epurazione nasconde la controriforma”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA. «C’è arroganza...». Massimo Mucchetti è uno degli autosospesi. Giornalista, senatore dem, dall’inizio della discussione sulle riforme si è schierato per il Senato elettivo.
Mucchetti, lei si è autosospeso per solidarizzare contro la sostituzione di Mineo?
«Sostituzione di Mineo? L’epurazione di Mineo! E c’è stata anche l’epurazione preventiva di Vannino Chiti. Come dire: sono state messe le mani avanti caso mai Chiti si dimettesse da presidente della commissione per le politiche europee e tornasse al suo seggio originario in commissione Affari costituzionali ».
Ma undici milioni di elettori che vogliono riforme e ammodernamento del paese, come ricorda Renzi, valgono forse più di Mineo e di 13 senatoridissidenti?
«C’è già stato un altro che parlava di otto milioni di baionette... Usare il voto per le europee come un voto a favore della soluzione pasticciata che il ministro Boschi e il premier Renzi propongono per il Senato mentre sono in atto trattative, non vorrei sottobanco, con Forza Italia e la Lega, mi pare una forzatura demagogica. E mi pare che il premier e i suoi colonnelli, personalizzando la polemica contro un singolo senatore o contro anche un manipolo di 14 autosospesi, sparano con il cannone contro una frotta di rondinelle».
Dopo l’autosospensione è scontro. Siete al muro contro muro?
«No, la nostra è una forma “non violenta “ di protesta contro una misura che lede prima di tutto lo spirito del regolamento del gruppo del Pd».
In questo modo vi mettete di traverso alle riforme?
«Questa è volgare propaganda. Noi siamo per le riforme. Ma togliere il diritto di voto ai cittadini sul Senato non è una riforma, ma una controrifoma».
Siete il Pd dei veti, delle cattive abitudini, senatore Mucchetti?
«Ma cosa vuol dire, sono battute che non corrispondono alla realtà. Noi abbiamo fatto la proposta di dimezzare il numero dei deputati, è un veto? Intanto siamo in attesa di un chiarimento: con Zanda ci vedremo lunedì».

Repubblica 13.6.14
Le trincee di Corradino, da Telekabul al Senato
Da direttore di Rainews24, Mineo combatté contro l’ostracismo del Pdl oggi continua a far parlare di sé coltivando il ruolo di bastian contrario
di Filippo Ceccarelli


«NON posso più uscire di casa - raccontava Corradino Mineo con qualche autocompiacimento - senza che qualcuno mi interrompa, mentre sbircio un giornale o mi occupo del cane, per dirmi con tono imperativo: “Resista!”».
Come cambiano le cose, lasciando immutabili le parti e spesso anche i protagonisti. Era l’estate del 2010 e l’invocazione alla resistenza riguardava il direttore di Rainews24, assediato allora dai berlusconiani che a viale Mazzini cercavano in tutti i modi di togliergli la poltrona e - forse anche peggio - la presenza in video.
Perché Mineo s’era costruito e poi anche conquistato un suo pubblico di affezionati e non faceva un brutto giornale. Capelli argentati, occhiali a lenti scomponibili negligentemente abbandonati dalle parti del taschino, maglioni anche arditi, «fluorescenti» li definiva la stampa di centrodestra, e poi quella tazza di caffè che sulla scrivania dava il titolo al programma mattutino. «Caffè rosso », accusavano, «l’ultimo dei curziani», da Sandrino Curzi, storico rappresentante del Pci in Rai; come pure «l’ultima raffica di TeleKabul », che con «TeleNusco» (Tg1) e «TeleCraxi» (Tg2) completava la triade delle culture politiche applicate all’informazione del servizio pubblico, per così dire.
Ma Rainews24 è stata davvero un’isola di opposizione, la classica spina nel fianco del governo del Pdl.
Per le interviste e soprattutto per le dirette: pure il «No B-day» e addirittura «Rai per una notte» di Santoro aveva mandato in onda. Il vice ministro Romani sosteneva: «Il Tg3 fa danni per 30 minuti, Rainews per 24 ore». A lungo il direttore generale Masi lo pedinò cercando il colpo definitivo. Ora gli voleva mettere al fianco uno dei loro, per esempio Masotti; ora tentava di spedirlo sul satellite. Ma Mineo resisteva, appunto. La cosa un po’ buffa, oggi, è che proprio il Pd lo difese con energia. Così Franceschini scrisse al presidente della Camera e la Finocchiaro a quello del Senato. Fini e Schifani, a loro volta, si rivolsero al presidente della Vigilanza Zavoli. «Con la rimozione di Mineo - sosteneva l’ex ministro Gentiloni, divenuto acceso renziano - si profila una Rai a pluralismo zero». E Mineo, che nel fortino stava asserragliato dal 2007, restò lì fino al gennaio 2013, quando Bersani gli chiese di correre come capolista al Senato in Sicilia.
Diceva in quegli anni, con sospetta modestia, di sentirsi «un palloncino gonfiato dal conflitto d’interessi». Se n’è uscito ieri, dopo l’intemerata cinese di Renzi: « Domine, non sum dignus ». Eppure, diversi elementi possono far credere che stare al centro del dibattito, se non del «futuro» politico dell’Italia, non gli sia poi così dispiaciuto.
Ora, la questione del Senato sarà importantissima, anzi decisiva. Ma il punto, forse sottovalutato dal premier e ancor più dai suoi accaldati mandatari, è che i giornalisti, specie quelli televisivi, non solo sono piuttosto bravi a far parlare di sé, ma quando si accorgono di essere loro, «la notizia», si può star certi che la coltivano, la allestiscono e quindi finalmente la somministrano con una cura pari all’alta considerazione politica che hanno di se stessi.
In altre parole, le grane sono all’ordine del giorno. Vicedirettore del Tg3, poi corrispondente da Parigi e New York, Mineo ci è abituato, fin da ragazzo. «Vengo da una famiglia di intellettuali siciliani » è l’esordio che si può leggere nel suo sito alla voce «Chi sono ». Il nonno, che si chiamava Corradino come lui, è stato un celebre matematico, accademico dei Lincei. Lo zio, Mario Mineo, un grande economista marxista e uomo politico della sinistra rivoluzionaria, anche d’ascendenza trotzkista e dunque ereticale, fondatore della rivista Praxis.
Corradino il giovane si è fatto le ossa nei gruppi a Palermo. Sempre dall’autobiografia: «Mi ha scelto Luigi Pintor e il mio primo giornale è stato il Manifesto ». Adesso ha 64 anni e una vita abbastanza piena di successi. Pure questo, insieme alle sue rispettabili convinzioni, può averlo spinto ad assumere la figura del bastian contrario o almeno, in sottordine, del guastafeste. Non ha votato il bis di Napolitano, ha votato obtorto collo per Letta, si è opposto, con complicati calcoli, al versare la quota associativa dei parlamentari - lui in verità l’ha definita «il pizzo» - al Pd.
Ieri è divenuto ufficialmente una risorsa narrativa. E’ difficile che lo ammetta, ma sarebbe troppo pretenderlo.

Repubblica 13.6.14
“Rientreranno, non hanno sbocchi”
Il partito chiude la porta alla trattativa
di Goffredo De Marchis


ROMA. Quella è la porta, ma ce l’avete un’altra casa? In puro stile renziano, la risposta di Lorenzo Guerini ai 14 autosospesi del Pd è secca: «Alla fine rientreranno tutti, perché non sanno dove andare». Non è dunque aria di trattativa, di pontieri, di canali diplomatici. È invece un’aria cattiva di rapporti deteriorati, di scontro a tutto campo se persino il vicesegretario usa questo tono. Proprio lui che nella settimana del viaggio in Asia di Matteo Renzi, ha risolto un paio di questioni delicate con le sue doti di equilibrista e di persona di buon senso. Prima la disputa tra “vecchio” e “nuovo” seguita ad alcuni insuccessi nei ballottaggi, poi il pasticcio del voto sulla responsabilità civile dei giudici.
Può darsi che adesso sia il momento della sfida, del muro contro muro, della voce grossa e che anche Guerini si adegui. In gioco c’è la riforma istituzionale, madre di tutte le battaglie del premier, la chiave per capire l’accelerazione nell’impallinamento di Letta e soprattutto la clamorosa vittoria delle Europee. Pier Ferdinando Casini ha mandato il suo segnale cacciando dalla commissione Mario Mauro. Il Pd ha rincarato con la sostituzione di Mineo. Messaggi destinati a Silvio Berlusconi per fargli capire che sull’abolizione del Senato si fa sul serio. L’alternativa (sottotesto per gli ammutinati) è tornare al voto, con la conseguente perdita dello scranno al Senato.
Non bisogna subito avviare una trattativa, dunque. Semmai è più utile mostrare i muscoli e aspettare l’effetto che fa. Vedere dove creano una breccia le minacce, gli ultimatum. Osservare come si muovo le correnti. Se è possibile, far assaggiare ai dissidenti il pane dell’isolamento. O peggio ancora dei pezzi che si perdono uno a uno. Magari già entro domani quando è convocata l’assemblea nazionale del partito, la prima dopo il 41 per cento. Meglio ancora se non rientrano tutti.
Se in un angolo rimangono 4 o 5 senatori, i più vicini a Pippo Civati, e gli altri tornano nei ranghi ottenendo qualche modifica alla legge del Senato e una promessa sulla legge elettorale.
Quel che è certo è che Corradino Mineo non sarà reintegrato nella commissione. Questo il capogruppo Luigi Zanda lo ha spiegato bene ai senatori solidali. Gianni Cuperlo chiede un gesto di pace clamoroso, cioè un ripensamento. Un passo indietro dello stesso Zanda e Mineo che riprende il suo posto in commissione. Ma il presidente dei senatori è molto chiaro: «Quello di Mineo non è un caso di coscienza. È invece un caso esemplare in cui una minoranza può determinare una maggioranza contraria alle linee del suo gruppo e del suo partito. Partito che ha fatto due direzioni e una decina di assemblee dei senatori per decidere la sua strada».
La questione democratica, ovvero la torsione autoritaria del Pd e del suo leader Renzi, sono tesi campate per aria. È il senso delle parole di Zanda. Il gruppo del Pd sembra pronto ad assorbire anche la defezione dei più arrabbiati: Mineo, Felice Casson, Walter Tocci, Paolo Corsini . Gli altri dieci non faranno colpi di testa e la loro autosospensione finirà già martedì quando è convocata la riunione dei senatori Pd. Quattro dissensi la maggioranza può reggerli. Quattordici no, però. Lo dicono i numeri di Palazzo Madama. Renzi ha ottenuto la fiducia al governo con 169 voti. Senza gli autosospesi si fermerebbe a 155, sei voti sotto il quorum. Forza Italia diventerebbe determinante per le riforme e persino per la tenuta dell’esecutivo. Un bel problema. Anzi, il problema principale, dice il bersaniano Alfredo D’Attorre: «La posizione di Mineo è indifendibile. Non solo. Il paradosso è che chi non vuole fare le riforme con Berlusconi ci consegnerebbe più deboli proprio a Berlusconi». Ma l’invito di D’Attorre è non sottovalutare il caso. «Renzi ha dimostrato di saper trovare un punto di mediazione, deve provarci anche stavolta ». Il deputato bersaniano, già nella notte di martedì, era stato avvertito della rivolta. Che aveva contorni anche più drammatici: «Volevano uscire dal gruppo. Ho cercato Guerini per dirglielo». Bisogna fare attenzione perciò a usare l’ultimatum del voto. «Penso a Mucchetti. Non si spaventa se Renzi ci porta alle elezioni. Da parlamentare guadagna un terzo del suo stipendio da giornalista».
Hanno fatto male le parole di Lotti, quel riferimento ai 14 senatori che non devono “disturbare” i 12 milioni di voti del Pd. Come dire: sono voti di Renzi e Mineo deve stare zitto. Si dice che questo messaggio sarà graficamente presente domani nella scenografia dell’hotel Ergife dove si tiene l’assemblea democratica. Un gigantesco “40,8” campeggerà alle spalle degli oratori. «Ma dentro gli 11 milioni e 100 mila voti - avverte Stefano Fassina, precisando maliziosamente i numeri assoluti - ci sono anche le posizioni di Chiti, le modifiche al decreto lavoro, le correzioni dell’Italicum. Ci siamo tutti, c’è il Pd. I rapporti di forza interni sono scontati. Ma Renzi deve capire che il patto con Berlusconi è morto, con il suo partito deve fare i conti. Se vuole una prova muscolare ne avrà un vantaggio sul breve termine. Sul medio gli si ritorcerà contro ».
È possibile che nelle prossime ore i toni saranno meno battaglieri. Zanda prepara un appello ai 14 ammutinati per siglare la tregua. Senza arretrare però sulle riforme, anzi chiedendo ai senatori se vogliono davvero andare avanti. Il clima è questo alla vigilia dell’assemblea. Non è buono, ma gli elettori hanno detto da che parte stanno. Il significato delle dichiarazioni di Lotti in fondo è questo.

Corriere 13.6.14
Appello di Tonini ai dissidenti: «Spero si fermino sull’orlo del burrone. Io credo nella mediazione, ma la pazienza ha un limite»
«Dobbiamo stare uniti O i cittadini ci portano tutti in manicomio»
intervista di Monica Guerzoni


Giorgio Tonini, vicecapogruppo del Pd, si appella a Mineo e agli altri dissidenti: «Il Pd non può caricarsi della responsabilità storica tremenda di far fallire il governo Renzi, dopo il gigantesco carico di speranza che ha suscitato negli italiani».
Pensa che gli autosospesi vogliano far saltare il banco?
«Non vedo proporzione tra il danno che si rischia di fare e la materia del contendere. È una follia mettere in discussione l’unità del gruppo e del Pd per una questione secondaria, che attiene alla disciplina e non alla libertà di coscienza. Di fronte alle sfide enormi che il governo sta affrontando, ci dividiamo sul Senato eletto alla spagnola o alla francese?».
La situazione del Paese giustifica la sostituzione di Mineo?
«Parlano di epurazione, ma qui nessuno è stato cacciato da nulla. Mineo ha votato in maniera difforme e poiché siamo alla vigilia di un passaggio decisivo, le prime votazioni sugli emendamenti, il partito ha il diritto di sapere se in commissione c’è la maggioranza oppure no. Al Senato i numeri sono risicati, ognuno ha in mano la chiave per far saltare tutto».
Per Mineo i numeri non ci sono.
«Con la sua sostituzione, i numeri ci sono. E siccome si deve fare un accordo piu ampio, un conto è andare al confronto con Berlusconi forti di una maggioranza autosufficiente, altra cosa è chiedere i voti a Forza Italia col cappello in mano. Trovo singolare che proprio coloro che accusano Renzi di eccessive aperture a Berlusconi stiano lavorando per indebolire il Pd davanti ai nostri interlocutori».
L’ipotesi espulsione esiste?
«Noi non cacciamo nessuno. Loro si sono autosospesi e spero chiariscano cosa voglia dire. Mineo ha deciso di fare della sua presenza in dissenso in Commissione uno strumento di battaglia politica ed è stato quindi giorni sui giornali da par suo. Il caso andava risolto e si è trovato un escamotage».
Per Lotti, Mineo ha tradito.
«A me non piacciono queste parole forti, né condivido l’idea di decisioni disciplinari. In questo assomiglio a Zanda, credo nella mediazione e mi considero un allievo ideale di Aldo Moro. Ma la pazienza a un certo punto finisce. Dopo 15 assemblee di gruppo a discutere di Senato, si tira una linea e chi è in dissenso si adegua. Lo dice uno che è stato quasi sempre in minoranza e al quale non è mai passato per l’anticamera del cervello di sfasciare l’unità».
Il Pd rischia la scissione?
«Il merito non giustifica una posizione così dura e incongrua, contro la maggioranza del gruppo e contro il governo, quindi non posso che rubricare la vicenda come un episodio di lotta politica contro il premier. Una parte del gruppo e del Pd è contro le riforme e intende opporsi con tutti i mezzi. È bene chiamare le cose col loro nome».
Gli autosospesi si appellano al regolamento del gruppo e impugnano l’articolo 67 della Costituzione.
«Il regolamento prevede la libertà di coscienza nel voto in assemblea, non in commissione, sui principi della Costituzione. Dunque non è questo il caso. L’articolo 67 poi non c’entra niente, perché garantisce al parlamentare che nessuno possa revocarne il mandato. Ma non è scritto da nessuna parte che i membri delle commissioni sono inamovibili».
Vede una relazione con i franchi tiratori alla Camera sulla giustizia?
«Non credo ai complotti. Ma se nel voto non ci si adegua tutti alla linea che prevale, i partiti non riescono a stare insieme. Se davanti a una crisi storica in Europa facciamo saltare tutto sulle modalità di elezione dei senatori, gli italiani ci rincorrono coi forconi e ci portano tutti in manicomio».

Corriere 13.6.14
Una resa dei conti che rischia di acuire le tensioni nel Pd
di Massimo Franco


Il metodo appare discutibile e presta il fianco all’accusa di autoritarismo, per quanto strumentale. Mischiare ruolo del governo e del Parlamento genera confusione e malumori. E contrapporre «dodici milioni di voti a tredici senatori» suona un po’ troppo enfatico: anche perché non è accertato che le riforme istituzionali siano la ragione per la quale il Pd ha ricevuto tanti consensi alle Europee (non alle Politiche) di fine maggio. Sulla sostanza, però, è difficile dare torto al governo quando decide di andare avanti, rifiutando di essere bloccato dai veti di un pugno di dissidenti. «Non ho preso il 41 per cento dei voti per lasciare il futuro del Paese a Corradino Mineo», ha detto ieri Matteo Renzi, riferito al capofila della protesta, sostituito in commissione dopo ripetuti avvertimenti. «Il partito non è un taxi».
A ruota i vertici del Pd hanno invitato a non rallentare le decisioni «per motivi personali», come hanno detto i vicesegretari Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini. Insomma, il ritorno del presidente del Consiglio dal viaggio in Asia significherà il pugno duro contro gli oppositori interni. Né cambia molto il quadro nell’eventualità che siano più degli attuali. Tuttavia, l’idea che il partito sia agitato da una tempesta in un bicchiere d’acqua, secondo le parole iniziali di Renzi, non convince fino in fondo. E non perché un altro dei «ribelli», Vannino Chiti, esponente di peso, intraveda una sorta di deriva autoritaria. Il sospetto è che dietro la filiera dei senatori usciti allo scoperto esista un fronte più esteso, sebbene silenzioso.
Probabilmente non mette a rischio l’approvazione della riforma, perché il Pd può contare sull’appoggio del Nuovo centrodestra di Angelino Alfano: un aiuto che invece l’asse istituzionale tra Renzi a Silvio Berlusconi non garantisce sulla riforma del Senato. Ma questo può condizionarne la stesura, sottolineando una volta di più l’impossibilità di Palazzo Chigi di contare su un gruppo parlamentare docile. Proietta ombre su altre leggi, a partire da quella sul nuovo sistema elettorale. E peggiora inutilmente i rapporti interni, accentuando il dualismo tra il Pd-partito e la sua rappresentanza alle Camere.
Sotto voce, ci si chiede se uno scontro esasperato come quello delle ultime ore non nasca da un certo difetto di esperienza e di capacità di mediazione. Nella cerchia del premier si ascoltano critiche sotto voce anche nei confronti del ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, alla quale si imputa una certa durezza con alcuni senatori del Pd. Responsabilità individuali a parte, di nuovo, nonostante la vittoria del 25 maggio e quella più sfaccettata dei ballottaggi di domenica scorsa, la principale forza di governo trasmette segnali di nervosismo. Renzi rimane molto forte: ha il 68 per cento dei voti in Direzione.
La riunione di domani potrebbe chiudersi, dunque, con una gestione unitaria destinata ad assorbire ciò che resta dell’opposizione. Le convulsioni al Senato e lo scivolone dell’altro giorno alla Camera sulla responsabilità civile dei magistrati, col governo battuto anche grazie ai franchi tiratori del Pd, non vanno però sottovalutati. Forza Italia, Lega e Movimento 5 Stelle ironizzano su quanto accade. Attaccano il premier anche per il ritorno del sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, indagato nell’inchiesta sul Mose e di nuovo al suo posto dopo avere patteggiato una pena di quattro mesi: una contraddizione, è l’obiezione, rispetto alla linea renziana della «tolleranza zero» sui casi di corruzione.

Il Sole 13.6.14
Il punto
Dissenso e debolezza
Il caso Mineo e il dissenso nascono dalle debolezze del progetto riformatore
di Stefano Folli


A ben vedere, la confusione intorno alla riforma del Senato produce anche singolari contraddizioni. Perché in attesa che l'assemblea di Palazzo Madama sia trasformata nelle sue funzioni e il bicameralismo sepolto, proprio al Senato si guarda per cancellare l'emendamento sulla responsabilità civile approvato l'altro giorno alla Camera grazie a una frangia di deputati Pd in dissenso.
Come dire che il bicameralismo in questo caso è utile; ed è anzi invocato dallo stesso presidente del Consiglio per correggere l'errore, chiamiamolo così, di Montecitorio. S'intende che questo argomento non vale per difendere un assetto costituzionale in via di superamento. Tuttavia resta la domanda: cosa accadrà nel regime monocamerale quando un emendamento o una legge sfuggirà all'attenzione del governo? Non ci sarà modo di rimediare e dunque il controllo sui gruppi della maggioranza dovrà essere ancora più ferreo.
Si vedrà. Al momento i problemi sono altri. Dal caso Mineo (e prima di lui Mauro) è derivata una questione politica che investe i 14 senatori da ieri ufficialmente dissidenti e in contrasto con il metodo Renzi. In sostanza, per un senatore escluso dalla commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama a seguito di una brusca direttiva del premier, si arriva a un gruppetto di parlamentari che sono usciti allo scoperto e sfidano Renzi in nome dell'articolo 67 della Carta, quello che garantisce «libertà di mandato» al rappresentante del popolo.
Molti non sono d'accordo con questa interpretazione e ritengono che la disciplina di partito debba essere rispettata, visto che sulla riforma del Senato il Pd è impegnato in via prioritaria. La «libertà di mandato» ha i suoi limiti e non può essere sfruttata da un parlamentare per accreditare un "fronte" contrario agli interessi o alla volontà del suo partito.
Senza dubbio c'è del vero in questo ragionamento. Come è noto, anche l'inglese Gladstone ai suoi tempi sosteneva che «tra la propria coscienza e il proprio partito si deve scegliere il secondo». Tuttavia è singolare che il Pd renziano stia riscoprendo oggi una forma di «centralismo democratico» che riporta a una tradizione politica alla quale egli è estraneo.
Ma c'è dell'altro. Nel momento in cui s'intende riformare il Senato, è pericoloso dare l'impressione di voler soffocare il dibattito e zittire le voci fuori dal coro: specie quando si tratta di abolire o trasformare radicalmente un'assemblea legislativa. Sotto questo aspetto, il caso Mineo diventa il paradigma di un errore politico. Magari un errore dettato da eccessiva fretta. O da eccessivo disprezzo verso tutti coloro che si mettono di traverso rispetto all'uomo del 40,8 per cento. Quando invece proprio il grande successo elettorale dovrebbe consigliare al presidente del Consiglio di cercare qualche mediazione e di appianare i contrasti, anziché esacerbarli.
Può darsi che la fretta sia a sua volta figlia di una debolezza politica. È opinione diffusa, infatti, che il progetto di riforma debba ancora essere precisato e messo a punto. Allo stato delle cose, le ombre prevalgono di gran lunga sulle luci e questo impone una trattativa più o meno sotterranea. L'interlocutore di Renzi non è però da ricercare all'interno della maggioranza e tanto meno nel Pd, bensì all'esterno: è il leghista Calderoli, figura che si è sempre distinta per pragmatismo e capacità istituzionale.
Vedremo. Anche se è chiaro che il negoziato con Lega e naturalmente Forza Italia apre ulteriori incognite. Sta di fatto che la trasformazione di Palazzo Madama dovrà andare di pari passo con la nuova legge elettorale. E l'ipotesi del cosiddetto Italicum si avvia a essere profondamente rivista.

Il Sole 13.6.14
Palazzo Madama. Numeri sempre più a rischio: si cercano sponde tra gli ex M5S, gli azzurri e i leghisti
Ora la maggioranza a quota 161
di M. Se.


ROMA L'autosospensione di 14 senatori del Pd non aiuta certo a rafforzare quei numeri che al Senato sono definiti "risicati" già dall'inizio della legislatura.
Con Renzi sono schierati i 33 senatori del Nuovo centrodestra; i 108 del Pd che vanno però depurati del presidente Grasso (che per prassi non vota) e adesso dei 14 "autosospesi" che - si presume - non si sentiranno più in dovere di votare in modo organico al partito; i 12 del gruppo "Per le autonomie"; i 10 di Per l'Italia (che però ha al suo interno quel Mario Mauro sostituito anche lui in commissione Affari costituzionali perché ostile alla riforma del Senato) e gli 8 senatori di Scelta civica. Il totale fa 156. E solo con i cinque senatori a vita si arriva a equiparare il quorum necessario di 161 su 320.
La domanda che, dunque, in queste ore assilla i senatori della maggioranza è: da dove arriveranno i voti per le riforme e non solo a Palazzo Madama?
A fine serata ieri, in molti fra i democratici si erano convinti che alla fine il premier - al di là dei toni durissimi della giornata - riuscirà a recuperare se non tutti, una buona parte dei senatori "dissidenti".
C'è poi la Lega che - raccontano - attraverso Roberto Calderoli, sulle riforme ha mandato segnali di apertura.
Infine, in casa democratica, sottotraccia, da settimane si lavora per provare a gettare un amo ai fuoriusciti del Movimento Cinque Stelle e più d'uno dà per scontato che gli ex grillini formino un proprio gruppo parlamentare al Senato. Un gruppo che potrebbe essere interessato ad alcuni emendamenti che, per esempio, valorizzino le leggi di iniziativa popolare, quegli strumenti di democrazia diretta tanto cari al movimento.
Tra i senatori renziani, comunque, si fa anche avanti l'ipotesi di un patto – non si sa ancora se in chiaro o meno – con Forza Italia che riesca a garantire i numeri per approvare le riforme (e forse non solo). I 14 "dissenzienti", infatti, vengono descritti come senatori «che non hanno più nulla da perdere» perché sanno che non verranno più ricandidati. Dunque, inutile illudersi sul loro sostegno. Tanto vale far perno su voti "garantiti" da Forza Italia, un partito che – al momento – avrebbe invece moltissimo da perdere da una fine anticipata della legislatura. Nei prossimi giorni si vedrà quale di questi scenari avrà il sopravvento.

Il Sole 13.6.14
Il Quirinale. Colloquio Napolitano-Boschi
«Stupore» del Colle sulle nuove divisioni
di Lina Palmerini


ROMA Sala della Regina a Montecitorio, è appena terminata la commemorazione per i trent'anni dalla morte di Enrico Berlinguer. In prima fila Giorgio Napolitano ma anche il ministro Maria Elena Boschi con la quale il presidente si intrattiene per qualche minuto mentre esce dalla sala. Un colloquio fitto anche se molto breve di cui si intuisce facilmente l'argomento visto il nuovo caso del giorno: quello dei senatori Pd "autosospesi" in dissenso con la linea del partito sulla riforma. È sulla notizia di giornata che il capo dello Stato chiede e si informa con il ministro Boschi, qualche domanda per capire meglio che piega prenderà il confronto, se il cammino della riforme andrà verso lo sblocco o una nuova impasse. «Non riferisco i contenuti della conversazione con il presidente Napolitano, abbiamo parlato brevemente degli ultimi sviluppi, si è detto stupito». Risponde con poche parole il ministro delle Riforme a chi la incalzava su quei minuti di conversazione: nessun dettaglio sullo scambio di opinioni ma piuttosto la sensazione di uno "stupore" del capo dello Stato per quanto accaduto a Palazzo Madama. Del resto l'istituto dell'autosospensione, come spiega il costituzionalista ed ex senatore Pd Stefano Ceccanti «non esiste né nei regolamenti né nella prassi dei gruppi, è solo un'affermazione politica, una sorta di limbo». Insomma, un vero inedito almeno nella storia recente di Palazzo Madama che però ha prodotto nuove fibrillazioni. Fibrillazioni che preoccupano il Colle per le possibili conseguenze politiche soprattutto se lo strappo dei senatori Pd dovesse diventare definitivo. Tuttavia margini di trattativa sembrano esserci ancora visto che è previsto un nuovo incontro tra i "dissidenti" e il capogruppo Luigi Zanda nei prossimi giorni.
Uno scenario che ancora non si era prospettato tre giorni fa quando da Giorgio Napolitano è arrivato l'ennesimo richiamo alla politica affinché si portino al traguardo le riforme promesse: «Il Paese ha bisogno di cambiamenti e riforme in molti campi anche istituzionali, è necessario liberarsi degli schemi del passato», aveva detto alla consegna dei David di Donatello al Quirinale solo martedì scorso e ieri già è scoppiato un nuovo intoppo al Senato. Naturalmente il merito della riforma è nelle mani e nella competenza esclusiva del Parlamento ma è del tutto naturale lo scambio di informazioni che c'è stato ieri tra il capo dello Stato e il ministro Boschi sull'iter delle riforme. Così come è stato di prassi il colloquio di ieri al Quirinale con il ministro Martina e con il sottosegretario Delrio che hanno riferito degli ultimi provvedimenti che andranno al Cdm di oggi, in particolare sulle norme anti-corruzione e sui poteri di Raffaele Cantone.

Corriere 13.6.14
Il buco dei Democratici. Un team di avvocati per tagliare gli sprechi
di Maria Teresa Meli


ROMA — 10.812.480 euro: quando Francesco Bonifazi, il nuovo tesoriere del Pd versione renziana, si è trovato di fronte a questa cifra — a tanto, alla fine della festa, ammontavano le perdite complessive delle casse del partito che gli venivano consegnate — non ha avuto uno svenimento, ma poco ci è mancato. Dopodiché, il lato pragmatico dell’uomo ha preso il sopravvento sui numeri disastrosi che andava scorrendo sullo schermo del computer, e ha capito che c’era un’unica cosa da fare.
Anzi tre: chiudere con la gestione poco accorta del passato, guardare al futuro e affidare a un’entità terza, e quindi imparziale, la valutazione degli sprechi e dei possibili tagli. Ha individuato uno studio legale, il DLA Piper, i cui membri hanno vinto diversi «Top Legal Awards», in modo che la precedente dirigenza del Pd non potesse accusarlo di faziosità, quindi è andato avanti nella sua difficile e delicata opera di risanamento. E si è posto subito un obiettivo ambizioso per la fine del 2014: quello di arrivare al pareggio di bilancio. Già, ma come? Con un taglio del 40 per cento dei costi dell’onerosa e ponderosa macchina del Pd.
Operazione chirurgica e difficile, che non avverrà con tagli lineari, ovviamente, che toccherà anche il personale, inevitabilmente, ma senza nessun licenziamento, perché quello il partito di Renzi non può permetterselo. Operazione complessa sì, ma fino a un certo punto, perché lo studio a cui Bonifazi ha affidato la «due diligence» per venire a capo dei buchi neri del Pd ha scoperto che gli sprechi erano tanti. E inspiegabili.
Oltre alla sede nazionale del Nazareno, dove ci sono tutti gli uffici più importanti, il Pd ne ha una in via Tomacelli, sempre nel centro di Roma, praticamente disabitata, affittata per una «bazzecola»: 900 mila euro l’anno. Contratto disdettato, ovviamente. Ma, di sede, più piccola, c’è n’è un’altra ancora, tanto per non farsi mancare niente. Nella centralissima via del Tritone, a due passi dal Nazareno, quella costa un’«inezia», solo 100 mila annui, e nel contratto d’affitto non è prevista la disdetta. Buon esempio di gestione oculata dei soldi del partito. Tra spese della segreteria e dei diversi forum (i dipartimenti del Pd, che l’anno scorso erano un’infinità e avevano altrettanti sotto-dipartimenti), nel 2013 se ne sono andati allegramente un milione e 20 mila euro. Come se non bastasse, c’è poi il buco nero dell’Unità : ieri sono stati nominati due liquidatori, l’iniziativa non spettava al tesoriere ma lui si è occupato di coordinare l’operazione per salvare il salvabile e rilanciare il giornale, che altrimenti rischiava la chiusura definitiva.
Bonifazi, che non vede l’ora di togliere non tanto dalle sue spalle quanto da quelle del Pd il peso del passato, ha già ridotto, e di molto, i costi della politica. Le elezioni europee del 2009, tanto per fare un esempio, costarono al giovane Partito democratico 13 milioni e 500 mila euro . Quest’anno il Pd di Matteo Renzi ne ha sborsati tre milioni e duecentomila. «Tutti soldi ben spesi, visti i risultati», osservano i sostenitori del segretario, forti di quel 40,8 per cento ottenuto il 25 maggio. Ma al tesoriere non basta: nel 2012 i costi della segreteria dell’epoca Bersani si aggiravano sui 640 mila euro, nel 2014, ha deciso Bonifazi, che ieri si è fatto approvare il bilancio dalla Direzione, non si andrà sopra gli 80 mila, perché, come direbbe Renzi, non è più tempo di scherzare nemmeno con i costi della politica.

Il Sole 13.6.14
Squinzi. «Perciò da noi niente critiche»
«Il bonus 80 euro? Il risultato elettorale era importante»
di Nicoletta Picchio


ROMA Il voto europeo, e aver sconfitto gli euroscettici, è valso la scelta del governo di aver messo in busta paga il bonus di 80 euro. Giorgio Squinzi è tornato ieri sull'argomento, parlando sul palco dell'assemblea degli industriali di Modena. «Non eravamo esattamente d'accordo con l'incentivazione degli 80 euro. Continuiamo a pensare che un intervento sull'Irap per abbassare il costo del lavoro avrebbe dato un risultato sicuramente più forte se non nell'immediato, nel medio termine», ha affermato il presidente di Confindustria. Uno spot elettorale, è stata la domanda dell'intervistatore, Dario Di Vico, del Corriere della Sera: «Accetto – ha risposto Squinzi – ma non mi sono azzardato ad avanzare alcun tipo di critica perché ritenevo che un risultato importante per l'Europa fosse fondamentale in questo momento della vita del paese. Ho compreso la necessità del governo di bloccare un voto anti europeo».
Ora grazie alla legittimazione ottenuta alle europee «e con la voglia di fare che traspare da un esecutivo che sembra pieno di energia, deve mettere mano alle riforme e alla semplificazione del paese, è un dovere ineludibile cui non si può sottrarre». Solo se l'Italia cambia, semplificando «balzelli e orpelli» si potrà consentire «alle nostre aziende di investire».
Tra le riforme, occorre rivedere «profondamente» le relazioni industriali. «In Italia il mercato del lavoro va ancora in bicicletta, negli altri paesi va in Formula Uno», ha detto Squinzi. «Il contratto a tempo indeterminato deve essere competitivo, con tutte le flessibilità in entrata, in uscita e nel corso del lavoro. Ognuno sa quanto è difficile spostare un lavoratore da una posizione all'altra». Squinzi ha ascoltato il senatore Pd, Pietro Ichino, spiegare la formula del contratto a tutele crescenti, che sarebbe il vecchio contratto a tempo indeterminato, più leggero. Un ragionamento tutto da fare, insieme alle politiche attive e passive del lavoro: la cassa in deroga o straordinaria che si prolunga per anni «non deve più esistere, sono disincentivi a ritrovare una nuova possibilità di lavoro». Squinzi ha anche aggiunto di non essere tifoso della concertazione: «Ho sottoscritto sei contratti di lavoro dei chimici senza un'ora di sciopero. Dobbiamo trovare soluzioni che diano competitività al paese». E sulla Ue, ha rilanciato gli Stati Uniti d'Europa, e sulla necessità di avere una Bce con poteri di vera banca centrale, regole omogenee per welfare, fisco, energia e politiche infrastrutturali.

l’Unità 13.6.14
Orsoni torna sindaco
Nel Pd veneziano è il caos


Dialogo di fine mattinata tra i calli di Venezia, al netto del dialetto lagunare: «Orsoni sindaco…». «Ma vai mona, è agli arresti domiciliari per finanziamento illecito…». «No, è tornato sindaco ed è già a Cà Farsetti in una conferenza stampa...». Uno pensa a una magia veneziana, a una di quelle visioni che prendono corpo sulla laguna per un gioco di rifrazioni.
Tutto vero, invece. Ed estremamente concreto. Orsoni è tornato sindaco ieri mattina, appena allo studio legale del professor Daniele Grasso, suo difensore, è arrivato l’ok del giudice Alberto Scaramuzza al ritiro della misura cautelare per cessate esigenze. Automaticamente è anche decaduta la norma della legge 190/12 (la Severino) che obbliga l’amministratore pubblico a sospendere l’incarico se raggiunto da una misure restrittiva (è stato il caso di Orsoni) salvo poi recuperare quando la misura decade. Ed è quello che è successo ieri mattina.
Dopo l’interrogatorio di garanzia lungo tre ore avvenuto sei giorni fa nell’aula bunker di Mestre, il giudice ha ritenuto che non ci siano più i motivi di tenere Orsoni agli arresti domiciliari. Libero, quindi. Sempre indagato per finanziamento illecito ai partiti ma libero. Il giudice si è riservato sulla richiesta dei legali di patteggiare l’accusa con quattro mesi di pena. Se giudice e pm accetteranno, significa che Orsoni ammette l’accusa. «È vero, ho ricevuto quei soldi, ma non sono un esperto di finanziamenti e credevo fossero tutti legittimi» ha detto ieri. Significa anche che la procura cessa ogni tipo di indagine. Una pietra tombale. Almeno su questo filone. Una cosa alla volta. Intanto da ieri mattina il professor Orsoni, ordinario di diritto amministrativo a Cà Foscari e praticamente un’istituzione a Venezia, è tornato libero cittadino. E per sua specifica scelta, sindaco.
Alle 12 e 30 un motoscafo è andato sotto il palazzo di famiglia, la sua cella per una settimana, e l’ha portato di là del canale, a Cà Farsetti. Lo ha accolto una piccola clac di dipendenti e di giornalisti a cui ha detto: «Molto felice di incontrarvi dopo una settimana di riposo in cui immagino che voi siate stati molto occupati nel seguire la Biennale di Architettura ». Poi con tono molto più serio ha precisato: «Credo che questo provvedimento di revoca dei domiciliari si commenti da solo. Per quello che mi riguarda ho chiarito credo nel modo più inequivocabile la mia posizione». Orsoni, accusato dalla procura di aver ricevuto in maniera illecita e in più tranche 560 mila euro di finanziamenti dal Consorzio venezia Nuova all’epoca della campagna elettorale che nel 2010 lo fece diventare sindaco contro una macchina da guerra come poteva essere considerato all’epoca Renato Brunetta, oggi è ritenuto un indagato che ha chiarito la sua posizione. Convoca una conferenza stampa all’ora di pranzo, dà la sua versione e risponde alle domande dei cronisti. Che ridotto all’osso è la seguente: «Ho ricevuto i soldi ma mai mi sono occupato se la loro provenienza fosse lecita» e «non sono un esperto di norme sui fondi elettorali ». Non solo: di soldi ne sono stati chiesti tanti, molti di più di quelli che potevano servire a lui, perché questa era la richiesta dei partiti che hanno sostenuto la candidatura del Professore.
«Non ho mai immaginato che venissero utilizzati sistemi illeciti per finanziare la campagna elettorale» dice in un’affollata conferenza stampa. C’era un incaricato per la riscossione dei danari, «il mio mandatario (arrestato, ndr), ma non potevo sapere che i fondi fossero illeciti né come le aziende del Cvn reperissero quel denaro». Quella del 2010 è stata la sua prima campagna. È vero, è un esperto di diritto amministrativo – e dunque si presume informato su cosa prevede la legge per il finanziamento –ma tolto dagli arazzi e dagli affreschi di Cà Foscari per essere prestato alla politica si è fidato di altri. «Durante la campagna elettorale - ha aggiunto – ho incontrato imprenditori o sedicenti tali che mi hanno detto che mi avrebbero sostenuto e votato senza sapere come e perché». Nell’interrogatorio al gip Orsoni ha spiegato di essere stato pressato da Marchese (arrestato), Mognato e Zoggia, gli uomini che nel 2010 avevano in mano il Veneto. Ieri si è limitato a dire: «Non avevo un mio comitato elettorale, sono stato sostenuto dai partiti: il maggior sostegno è venuto dal Pd e poi dagli altri con cui ho interloquito». Mazzacurati, poi, è vero che l’ha incontrato molte volte ma è «un millantatore».
Nel pomeriggio, alle 17, davanti alla sua giunta dice che non ci pensa proprio a dimettersi: «Nulla da rimproverarmi». Qualcuno non ci sta. Tiziana Agostini (Pd), assessore alla Politiche educative, si dimette. Il senatore Russo lo invita a lasciare, via Facebook, perché» non ci può essere una doppia morale». È il nuovo fronte bollente in casa Pd. Grillo gongola provoca: «Renzi è bugiardo, manda a casa Mineo ma si tiene Orsoni».

Repubblica 13.6.14
Orsoni: “Non mi dimetto, deluso da Renzi
Si è comportato come un fariseo
intervista di Fabio Tonacci


Seduto nel suo ufficio a Ca’ Farsetti Giorgio Orsoni si prepara alla battaglia dei prossimi giorni. Che riguarda soprattutto il suo partito di riferimento: “Adesso dicono che non mi conoscevano ma fino al giorno prima dell’arresto mi hanno chiesto di ricandidarmi. Anche il premier sa chi sono, io apprezzavo il suo modo di fare politica e ho anche pensato di prendere la tessera. A questo punto non credo che lo farò: l’unico che mi ha chiamato dopo la revoca dei domiciliari è stato Fassino. Gli altri sono spariti”. Per il futuro una sola certezza: “Alle prossime elezioni non sarò in campo”. E per il passato, nessun rimprovero: “La sola cosa che ho sbagliato è stata accettare di fare il sindaco di questa città.”
Sindaco Orsoni, si dimette o no?
«Al momento no, non ci sono le condizioni. In realtà non ho ancora deciso definitivamente, potrei anche mandare tutti a quel paese. Ma mi sono dato qualche giorno di tempo per riflettere. Non sono come qualcun altro che si fa consigliare dalla fretta e reagisce alle cose con impeto. C’è tanto da fare qui, al comune, ci sono atti da approvare fondamentali per la città di Venezia. Probabilmente cambieremo la giunta. Ma sa cosa mi ha veramente amareggiato di tutta questa storia?».
Cosa?
«Il comportamento inaccettabile del Partito democratico, il modo superficiale e farisaico con cui hanno trattato la mia vicenda, e in particolare mi riferisco al suo vertice, Matteo Renzi. Sui giornali ho visto certe dichiarazioni… vabbé, se ne occuperanno i miei avvocati».
Cioè sta dicendo che vuole querelare Renzi, il presidente del Consiglio?
«Valuteremo. Loro dicono che non mi conoscevano, che non ero del Pd. Si sono cavati fuori come delle anime belle. Renzi, poi, lo conosco da quando faceva il sindaco a Firenze. E devo dire che ho sempre apprezzato il suo modo di fare politica. Per un periodo ho pure pensato di prendermi la tessera. Ma, dopo come mi hanno trattato, non credo che lo farò».
Qualcuno l’ha chiamata, dopo la revoca dei domiciliari?
«L’unico a manifestarmi solidarietà è stato Piero Fassino. A questo punto non credo che mi telefonerà qualcun altro. Se penso a quante volte mi hanno chiesto di candidarmi alle comunali. E fino al giorno prima dell’arresto dal Pd mi spingevano a presentarmi ancora alle prossime elezioni. Pressioni dal partito locale, ma anche da Roma.
Forse finisco il mio mandato, poi smetto definitivamente ».
Sindaco, la sua è stata una detenzione dorata, nel suo palazzo di quattro piani davanti al Municipio.
«Beh, in effetti ho una casa confortevole, forse l’unica a Venezia affacciata su tre lati sul Canal Grande, e ho dell’ottima musica».
A cosa ha pensato in quegli otto giorni?
«Se dovessi dire veramente quello a cui ho pensato…».
Lo dica.
«Qualcuno è stato troppo frettoloso nel giudicarmi, nell’accomunarmi a chi ha rubato o è stato corrotto».
Si riferisce ad Alessandra Moretti, che la considerava “il sindaco ideale”, poi, dopo lo scandalo Mose, ha detto che lei rappresenta il “modo vecchio e deleterio di fare politica”?
«La Moretti è stata bersaniana, lettiana, renziana… non credo che la coerenza sia esattamente il suo forte».
Orsoni, non ci vuole un genio per percepire il suo astio verso il Pd. Ma lei, che ha appena patteggiato una pena a quattro mesi per finanziamento illecito, non ha proprio niente da rimproverarsi?
«No. Sono innocente ».
E perché ha accettato di patteggiare?
«È stata una goccia di sangue che ho dovuto versare, poco più di un incidente… ».
Giovanni Mazzacurati sostiene, in un suo interrogatorio, di averle portato denaro, 400-500 mila euro, a casa sua.
«È un millantatore, non mi ha mai dato un euro. L’ho incontrato più volte, è vero, e fu lui a propormi di sostenere la mia campagna elettorale attraverso canali che ho sempre ritenuto leciti. Tant’è che ho consegnato anche a lui, come ad altri, il numero del conto corrente per la campagna. Ero convinto che tutto fosse a posto».
Ai magistrati lei ha detto di essere stato spinto, nel 2010, a chiedere fondi a Mazzacurati da tre uomini del Pd veneto, Davide Zoggia, Giampietro Marchese (arrestato, ndr ) e Michele Mognato.
«Così è stato. Ma ho spiegato ai pm che non sapevo dei meccanismi messi in atto dal Consorzio per creare dei fondi destinati alle campagne elettorali di tutti, e sottolineo tutti, i partiti».
Ma non c’è proprio niente che non rifarebbe? Non ha fatto nessuno sbaglio?
«Ho sbagliato a fare il sindaco, questo sì. Non dovevo farlo. Ho capito subito dopo l’elezione che mi sarei scontrato con una serie di situazioni border line, moltissime zone grigie che ho cercato di portare sul bianco. E per questo mi sono fatto dei nemici».
Di quali situazioni border line sta parlando?
«La convenzione per l’aeroporto, la storia del commissariamento per il Lido, il sistema delle concessioni che ho sempre considerato sbagliato. Dare la concessione unica a un soggetto, quale il Consorzio Venezia Nuova, che ha dentro di sé anche ditte private non credo sia la scelta migliore ».
Si ricandiderà?
«No, ma lo avevo deciso già da tempo. Forse mi sono fidato troppo del Partito democratico, forse troppo poco. Se mi ricapitasse di fare politica formerò una mia struttura».

La Stampa 13.6.14
Orsoni: “Pd superficiale e farisaico Sono stato calpestato e scaricato”
Lo sfogo dopo la scarcerazione: “Nulla da rimproverami, non mi dimetto”
intervista di Fabio Poletti


Quando dopo otto giorni di arresti domiciliari Giorgio Orsoni torna a Cà Farsetti parte l’applauso. Di dimettersi non se ne parla per ora. Ma il mezzo sorriso sul volto del sindaco di Venezia nuovamente in carica nasconde un terremoto.
Sindaco Giorgio Orsoni, alla fine ha dovuto patteggiare... 
«Quattro mesi sono una goccia di sangue che ho dovuto versare. Alla fine è poco più di un incidente stradale...».
Sembra che non sia questa la cosa peggiore che le è capitata. 
«La cosa peggiore l’ha fatta chi ha anteposto un atto giudiziario della Procura alla conoscenza della persona».
Con chi ce l’ha con il Pd veneto, con il Pd nazionale... 
«Ci sono stati molti atteggiamenti superficiali e farisaici da parte di alcuni esponenti del Pd. C’è chi si è affrettato subito a sottolineare che non ero nemmeno iscritto al partito. Si sono comportati come anime belle. Fino al giorno prima del mio arresto mi chiedevano di ricandidarmi a marzo dell’anno prossimo. Poi, di colpo, mi hanno calpestato e scaricato».
Anche Matteo Renzi ha avuto parole dure dopo gli arresti. Sia verso i politici coinvolti che gli imprenditori. I suoi giudizi sono arrivati immediatamente... 
«Mettere in relazione le accuse che mi riguardavano con le persone coinvolte nella vicenda MOSE è stato superficiale. Non si è minimamente tenuto conto della mia storia personale. Ci vuole responsabilità. La fretta è una caratteristica dei nostri tempi ma va a discapito della verità. Chi è abituato ad andare troppo in fretta perde la sostanza delle cose. Qualcuno che mi conosceva bene doveva almeno riflettere prima di parlare. Mi sento molto offeso per essere stato accomunato a dei malfattori».
Alessandra Moretti del Pd due mesi fa la elogiava dicendo che il suo era «un modello politico che andava esportato». Due giorni dopo l’arresto ha sostenuto che lei era la «rappresentazione di ciò che più è vecchio nella politica...».
«Alessandra Moretti è stata bersaniana, poi renziana, sulla sua coerenza c’è poco da dire...».
Dopo la sua scarcerazione non ha sentito nessuno del Pd nazionale? 
«Il sindaco di Torino Piero Fassino e questo mi ha fatto molto piacere».
Lei nel corso dei due interrogatori, davanti al giudice e poi lunedì coi pm, ha sempre sostenuto   di non aver preso soldi direttamente nè di essersi occupato dei finanziamenti... 
«Non ho mai pensato che i versamenti sul conto del mio mandatario elettorale non fossero leciti. Io non potevo sapere come si procurassero i soldi. Solo dopo la campagna elettorale ho saputo chi aveva contribuito. Io ho incontrato decine di persone, imprenditori o sedicenti totali, che dicevano che mi avrebbero sostenuto. Li ringraziavo senza sapere se poi lo avrebbero fatto».
Giovanni Mazzacurati del Consorzio Venezia Nuova giura di averle dato dei soldi personalmente... 
«Mazzacurati è un millantatore. Ho spiegato ai magistrati che non ero al corrente in alcun modo dei meccanismi messi in atto per creare dei fondi destinati poi anche a contribuire alla campagna elettorale di tutti i partiti. Conosco Giovanni Mazzacurati è stato anche un cliente del mio studio legale. Lui diceva che mi sosteneva, Che sosteneva sempre tutti i candidati perché non voleva essere incolpato da nessuno. Ho consegnato a lui come ad altri il numero di conto corrente del mio mandatario elettorale pensando che tutto fosse lecito».
Lei a verbale ha detto che altri del suo partito si occupavano di soldi... 
«Chi organizzava la mia campagna elettorale sosteneva che il mio avversario aveva una maggiore disponibilità economica. Ma non ho mai immaginato che venissero utilizzati dei sistemi men che leciti per il mio finanziamento. Ai magistrati ho confermato che la mia campagna elettorale non è stata gestita da nessun comitato che rispondesse a me ma è stata gestita direttamente dai singoli partiti e che non sono a conoscenza di come il Consorzio Venezia Nuova si comportasse».
Ma perchè Giovanni Mazzcurati dovrebbe accusarla allora? Che idea si è fatto? 
«Dopo la mia elezione ha cercato con insistenza di parlarmi dei problemi della città, del MOSE, dell’Arsenale. Argomenti che ci hanno visto spesso contrapposti. Non mi meraviglierei se avesse deciso di vendicarsi in qualche modo anche per questo. Mi ripeto: io non ho mai gestito direttamente la mia campagna elettorale. Il maggior organizzatore della mia campagna elettorale è stato il Pd».
A questo punto intende dimettersi? 
«No. Ho deciso di non dimettermi perché non ci sono le condizioni oggettive per farlo. Non ho nulla personalmente di cui rimproverarmi. Potrei con impeto dare le dimissioni e mandare tutti a quel Pese ma non sono impetuoso e non lo faccio anche per un senso di responsabilità verso la mia città. I miei assessori mi hanno manifestato la solidarietà e consegnato le loro deleghe. Voglio ragionare a mente fredda. Mi auguro che non ci siano delle intromissioni da chi ragiona troppo a caldo e che ci sia il rispetto delle decisioni locali».
Ma se per qualche motivo le chiedessero di ricandidarsi nuovamente? 
«Io ho sicuramente sbagliato ad accettare di fare il sindaco. Io sono più abituato a vedere i bianchi e i neri che i grigi. Ma di sicuro non medio sul malaffare. Mi sono fatto troppi nemici. Sono sicuramente innocente. Sono una persona che sicuramente non ha un passato politico e nemmeno un futuro».

Corriere 13.6.14
Orsoni:

«Mi hanno usato, ero la Madonna pellegrina Il Pd disse di chiedere i soldi a Mazzacurati»
di Giusi Fasano e Andrea Pasqualetto


VENEZIA — Sembra di vederlo, seduto davanti ai pubblici ministeri Stefano Buccini e Stefano Ancilotto: «Sì, sono Giorgio Orsoni, il sindaco». È stato quattro giorni fa. In 26 pagine di verbale Orsoni racconta della sua avventura elettorale del 2010. Lui che di mestiere fa l’accademico e che mai si era dedicato alla politica fino a quella volta. Premette quanto gli fossero estranei quegli ambienti: «Nessuna esperienza». E giura di essere stato «abbastanza a digiuno» anche su come reperire risorse.
«Mi venivano a dire: guarda che c’è il tuo concorrente (Renato Brunetta, ndr ) che è in vantaggio. Si dice che ha un milione di euro, quindi tu fai la figura del pezzente... E poi insistevano perché fossi io stesso a finanziare... Mi dicevano: datti da fare per far arrivare risorse adeguate perché sennò rischiamo di andar male (...) Io mi sono adattato, questo non lo nego. E ho insistito con Mazzacurati».
Avevano chiesto a lui di farsi avanti con l’allora presidente del Consorzio Venezia Nuova perché lo conosceva bene. Il re del Mose alla fine gli ha dato 560 mila euro. Finanziamento illecito, dice la procura. Ma Orsoni inizia il suo racconto ai magistrati precisando che «ho scoperto solo dalle carte giudiziarie che la mia campagna elettorale è stata finanziata in modi non corretti». Dice molto di più, il sindaco: «Pur ponendomi problemi di opportunità accettai che il finanziatore fosse Mazzacurati, quindi lo sollecitai (...) Le pressioni per avere soldi si sono fatte sempre più forti, quasi esclusivamente da parte di esponenti del Pd». Chi erano? chiedono i pm. Risposta: «Il segretario Mognato (Michele, all’epoca segretario provinciale, ndr ) e poi attorno c’erano un po’ tutti, in particolare Zoggia (Davide, allora presidente della Provincia, oggi deputato, ndr )» e «tanti altri minori della segreteria». Proprio a Mognato e Zoggia Orsoni ricorda di aver «espresso i miei dubbi sull’opportunità del finanziamento del Consorzio».
Orsoni racconta di chi gli chiese di candidarsi: per esempio l’ex sindaco Massimo Cacciari e, fra gli altri, Giampietro Marchese, consigliere regionale del Pd. A proposito di Cacciari, non fa il nome esplicitamente ma ricorda cosa gli disse Mazzacurati e lo fa mettere a verbale: «Io mi sono sempre occupato delle campagne elettorali, anche quella del tuo predecessore» gli avrebbe ripetuto. Il professore-sindaco dice che il gran capo del Mose, parlandogli della campagna elettorale che lui finanziava «da una parte e dall’altra» gli aveva anche detto: «Brunetta si è già fatto vivo per chiedere congrui finanziamenti». E gli aveva confidato: «Conosco tanti imprenditori e posso metterci una parola buona». Così Orsoni si era persuaso a dargli, come racconta lui stesso «il conto corrente del mio mandatario e gli dissi: se conosci qualcuno eccolo qua...».
Domanda successiva: Mazzacurati le ha mai consegnato brevi manu del denaro? «Mai» risponde lui. E spiega poi: «Può anche essere che mi abbia lasciato dei plichi da qualche parte e che io li abbia mollati lì». Una versione che convince i pm, i quali nel dare parere favorevole alla richiesta di patteggiamento di quattro mesi (deciderà il giudice dell’udienza preliminare) scrivono: «Tra persone di mondo questi affari si regolano con comportamenti concludenti e discreti, senza formule sacramentali e atteggiamenti grossolani (...) è plausibile che la consegna a domicilio sia stata la semplice collocazione di una busta anodina in una stanza qualunque, con vereconda indifferenza e reciproche cavalleresche cortesie». Escludono, dunque la possibilità di «una frusciante mazzetta», ritengono «poco plausibile» che «un candidato del prestigio di Orsoni potesse raccattare fondi con iniziative personali diffuse e petulanti». Ma dicono anche che «si è prestato, non opponendosi, a una strategia di finanziamento occulto elaborata dai vertici del partito», che aveva minacciato di non occuparsi più della campagna elettorale se lui non avesse provveduto a reperire fondi, «anche con risorse personali». Nell’interrogatorio i magistrati obiettano a Orsoni: «Lei non ha detto al partito “andateci voi a chiedere i soldi a Mazzacurati”». E lui: «È vero, questa è stata una mia debolezza, non mi sono opposto...». In un altro passaggio spiega: «In tutto questo io sono stato usato, mi pareva di essere la Madonna pellegrina...».
Uno dei punti chiave dell’accusa riguarda la consapevolezza di aver avuto i finanziamenti considerati illeciti. Domanda: «Le hanno dato conto poi del fatto che fossero arrivati i soldi?». «Non in modo esplicito, l’ho potuto desumere dal fatto che tante manifestazioni messe in dubbio poi sono state fatte e quindi ho capito che le risorse ci fossero...». Nella parte finale del verbale si parla di una lettera depositata da Orsoni il 19 marzo al procuratore capo Luigi Delpino. Dalle domande dei pm si intuisce che la mossa non è piaciuta ai magistrati. E il sindaco spiega: «Non c’era da parte mia alcuna intenzione di muovervi accuse (...) mi ero molto seccato per le voci che giravano (...) credevo fosse giusto informare il procuratore di questo mio stato d’animo che mi sembrava di non meritare».

l’Unità 13.6.14
La corruzione uccide la politica
di Alfredo Reichlin


Il dilagare della corruzione è impressionante. Sta provocando guasti profondi. Se vogliano combatterla sul serio dobbiamo capire meglio di che cosa si tratta. Sembrano lontani i tempi di «mani pulite». Allora un ceto politico potente (i famosi «tesorieri») imponeva le tangenti alle grandi imprese, le quali poi si rifacevano facendo pagare un chilometro di autostrada il doppio che in Francia. Cose vergognose, la legge veniva violata ma almeno era chiara la differenza tra corrotto e corruttore, tra pubblico e privato. Adesso le cose non stanno più così. Che cosa sono diventati questi grandi «consorzi» di imprese retti da una vera e propria «cupola» dove si distribuiscono gli appalti e alla quale partecipano generali della Guardia di Finanza, «magistrati delle acque», grandi notabili e dove qualche ricca briciola viene elargita non ai partiti in quanto tali che non contano più nulla ma a singole persone - assessori e «sbriga faccende» - per quanto essi volta a volta servono?
Non voglio anticipare sentenze che spettano alla magistratura. Dico solo che siamo oltre la corruzione politica. Siamo alla morte della politica. Cioè di quella cosa che tiene insieme una società sulla base di una idea dell’interesse generale e di regole certe, per cui i ricchi hanno tanti più privilegi dei poveri ma questi accettano di convivere perché la legge è uguale per tutti. Arrivati a questo punto un grande partito con le ambizioni e le responsabilità di governo che ha il Pd deve cominciare a porsi qualche domanda. Tutti conoscono il degrado sociale ed economico imposti alla società multimediale da certi poteri oscuri e indefinibili (le mafie). Pochi ancora si chiedono che tipo di società si sta formando nel ricco Nord, a causa del peso crescente di ciò che si chiama il «capitalismo delle relazioni». Sembrava una anomalia questo connubio tra banche, politica e affari tipica di un capitalismo che non rischia grandi capitali e preferisce formare «consorterie». Ma è ancora una anomalia? Dopotutto, la traccia lasciata dal berlusconismo è ancora così profonda e purulenta perché si è nutrita di questo connubio.
Abbiamo davvero bisogno di una svolta. Che non sarà indolore perché si tratta di affrontare quel groviglio di compromessi sociali, e anche politici e sindacali, il cui risultato è questo insieme di rendite e corporazioni, di lavoro nero e di esclusione relativa delle donne e dei giovani delle attività produttive, di eccessivi guadagni speculativi e di arretratezza della rete dei servizi moderni, della scuola, della ricerca, della giustizia, della pubblica amministrazione. Perciò la democrazia italiana è così difficile. Perché il riformismo italiano deve sapere che, da un lato sono proprio questi compromessi che rendono vacue e astratte le illusioni sui miracoli del mercato e sulla necessità di evitare ogni intervento pubblico, ma dall’altro lato sono essi che rendono vani anche molti discorsi sulla giustizia sociale e sulla redistribuzione del reddito, in assenza di quelle condizioni essenziali che sono la legalità, la giustizia fiscale, la buona amministrazione, la formazione del capitale umano, il premio di merito. È da tutto ciò che deriva la necessità di porre su nuove basi la costruzione dello Stato. Il che significa che abbiamo bisogno di un partito certamente articolato ma che sia un partito vero. Con una testa che esprima una volontà e una strategia e che sia insediato nella società e capace di dare ad essa una nuova «forma».
Ha ragione Renzi quanto ci ricorda che alla fin fine la prima cosa da fare di fronte alla corruzione è arrestare i ladri. Ma perché i ladri sono tanti? Perché gli italiani sono quelli che sono? Non mi convince più questa risposta. Forse la riflessione si dovrebbe spostare su un terreno più ampio nel quadro di una analisi meno economicistica della mondializzazione. È il problema che ha posto Alberto Melloni, lo storico del cristianesimo, quando rivolgendosi alle gerarchie cattoliche, le invitava a rendersi conto che «lo stile di vita tenuto dall’Occidente, nel quale il debito aveva sostituito altri sistemi di dominio, è finito. Per sempre. Come il colonialismo in India, come il bolscevismo in Russia. Non è la fine del mondo: è la fine di un mondo».
Che cosa è diventata la corruzione nel mondo attuale? Sono state scritte pagine illuminanti da Paolo Prodi. La trasformazione della finanza da infrastruttura dell’economia in una industria bancaria che fa denaro col denaro in quanto emette una alluvione di «titoli» senza copertura nell’economia reale sta provocando guasti profondi. Di fatto, il mondo è stato inondato di debiti e quindi di rendite che la società reale della produzione e della creatività umana non può pagare. Già oggi gli attivi finanziari a livello mondiale superano di molto gli attivi dell’economia reale, e in più le attività finanziarie pretendono rendimenti mediamente molto superiori a quelli della produzione di merci. L’Italia sta tutta in questo dramma. Quella che dopotutto è una grande economia è caduta - a causa del suo alto debito pubblico - nelle mani della speculazione. Per sostenere il costo crescente del sostegno del debito è costretta a bruciare i mobili di famiglia. E ciò in quanto sacrifici, tagli, austerità non servono a nulla se non riparte lo sviluppo reale. Ma questo non può ripartire se non si spezza il circolo vizioso per cui il costo degli interessi sul debito è superiore alla crescita del Pil. Conclusione. Leggete i giornali. Crescono i guadagni di borsa e aumenta la miseria della povera gente. Gli scandali dilagano. Ma il più grave degli scandali sta in questo nodo che ci strozza.

Corriere 13.6.14
Rosa di dieci nomi per l’Anticorruzione
Cantone non avrà poteri da magistrato
di Dino Martirano


ROMA — Quasi 40 giorni dopo gli arresti scattati a Milano per l’affaire Expo, il Consiglio dei ministri si appresta a varare il decreto legge che, rispondendo ai requisiti di «necessità e urgenza», rende immediatamente operativi i correttivi capaci di non bloccare i cantieri affidati alle ditte finite nella bufera delle inchieste, a partire dalla Maltauro di Vicenza che si trascina dietro almeno 4 consociate. Nel decreto affidato alle cure di Antonella Manzione, capo del dipartimento affari giuridici di Palazzo Chigi, oltre a salvare «il buono che c’è» ci saranno quelli che ormai vengono evocati con un pizzico di enfasi i «super poteri» del magistrato Raffaele Cantone messo a capo dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) più di due mesi fa: il presidente dell’Anac che oggi può contare su 26 persone e una manciata di computer potrà disporre di una aliquota della Guardia di finanza ma solo per quel che riguarda glia accertamenti amministrativi». In altre parole, l’ampliamento dei poteri ispettivi ci sarà ma Cantone e
le Fiamme Gialle che collaboreranno con lui si dovranno fermare là dove inizia la riserva di caccia delle procure e dalla polizia giudiziaria. Come ha ribadito lo stesso Cantone, per ora «l’Autorità anticorruzione è un potere monco». Per questo oggi pomeriggio il premier Matteo Renzi e il ministro Marianna Madia (dopo aver sentito Cantone e con un occhio al parere che dovranno dare le commissioni parlamentari) comunicheranno i nomi dei 4 commissari che affiancheranno il magistrato nella sua impresa di controllo preventivo degli appalti. Su 230 curricula inviati al governo, il ministro Madia ha sottoposto Renzi una «short list» di 10 nomi sulla quale verrà fatta la scelta finale. Un altro «super potere» riguarda poi la possibilità per il commissario di incidere veramente sui meccanismi (mai attuati) della legge Severino-Cancellieri-Patroni Griffi: quel testo anticorruzione stabiliva infatti già due anni fa che ogni «centro di spesa» di denaro pubblico avrebbe dovuto produrre un piano anticorruzione con tanto di responsabile per la sua attuazione. Ora, dunque, ci si è accorti che i decreti attuativi della legge anticorruzione sono rimasti al palo. Rinviato a fine mese, invece, il pacchetto giustizia con l’annunciata riforma del falso in bilancio (tornerebbe la pena massima oltre i 5 anni, in modo da consentire le intercettazioni a chi indaga, e la procedibilità d’ufficio), l’introduzione del reato di autoriciclaggio e la delega al governo per allungare i tempi della prescrizione. Renzi, che oggi vara in consiglio la riforma della Pubblica amministrazione, ha chiesto di evitare sovrapposizioni.
Ma il governo, su proposta del ministro della Giustizia Andrea Orlando, oggi presenta due provvedimenti importanti contenuti nel decreto sulla Pubblica amministrazione: il primo riguarda l’«adozione di interventi immediati» per agevolare «l’entrata in vigore del Processo telematico obbligatorio» a partire dal 30 giungo; il secondo introduce i «rimedi compensativi» per i detenuti che secondo la Corte di Strasburgo sono reclusi in condizioni non tollerabili di sovraffollamento: il testo prevede lo «sconto» di un giorno ogni 10, per chi è ancora in carcere, e il risarcimento di 8 euro per ogni giorno già scontato.

il Fatto 13.6.14
Poteri a a Cantone, ma il falso in bilancio fa litigare il governo
Con 78 giorni di ritardo, il CDM affida dei Compiti precisi all’autorità. La protesta del ministro Guidi fa slittare il decreto contro la corruzione: il M5S incontra Orlando
di Gianni Barbacetto


Oggi dovrebbe essere il gran giorno. Arrivano i superpoteri. Dopo settimane di annunci, attese e proclami, il consiglio dei ministri dovrebbe finalmente varare il decreto che definisce i nuovi poteri dell’Autorità nazionale anti-corruzione (Anac) e del suo presidente, Raffaele Cantone: nominato 78 giorni fa al vertice dell’Authority per scelta diretta del presidente del Consiglio Matteo Renzi, ma rimasto per tutto questo tempo senza collaboratori, senza strumenti, senza deleghe. Con l’Autorità restata finora “un potere monco”, come ha denunciato Cantone: “Abbiamo solo 26 persone e dopo l’attività istruttoria non possiamo irrogare sanzioni”. Oggi si vedrà se si apre invece una nuova fase. Il decreto del governo dovrebbe definire le nuove competenze dell’Autorità, ampliare i suoi poteri ispettivi e di controllo e assegnarle facoltà sanzionatorie. Anche in relazione a Expo, a cui dovrebbe essere dedicato un capitolo del decreto. Secondo il commissario di Expo 2015, Giuseppe Sala, il decreto potrà sciogliere il nodo di “aziende che lavorano con noi e hanno problemi come la Maltauro, che oggi non sono in condizione di estromettere dai lavori: bisogna trovare una soluzione e il decreto ci aiuterà a regolare questo rapporto”. Ma potrebbe anche dare la possibilità a Expo di instaurare “un rapporto diretto con Italferr, che abbiamo scelto perché le Fs hanno una competenza dei lavori straordinaria e perché dietro hanno una macchina organizzativa, legale e amministrativa che potrà supportarci”. Su proposta del ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, dovrebbero intanto essere nominati anche gli altri quattro componenti dell’Autorità che affiancheranno il presidente Cantone. La scelta sarà fatta da una lista di 230 persone che hanno presentato la loro candidatura al governo. Tra queste, burocrati che hanno attraversato tutte le stagioni, consiglieri di Stato, capi di gabinetto, dirigenti ministeriali, ex procuratori generali, magistrati della Corte dei conti...
CIRCOLA, per fortuna, anche una short list di candidati più “motivati” a far parte di una squadretta che dovrà lavorare ventre a terra, mostrando una discontinuità netta con il passato burocratico e inefficace della vecchia commissione anticorruzione (Civit) e della sua potente “cugina”, l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (Avcp). Domani il governo non varerà invece il disegno di legge anticorruzione che era stato da tempo annunciato: slittato ancora una volta, a venerdì prossimo o forse più in là. Avrebbe dovuto contenere le proposte di riforma su falso in bilancio, autoriciclaggio e tempi di prescrizione. Non tutti nel governo Renzi sono d’accordo sulle misure da adottare. Anzi, il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, ha chiesto di rivedere il testo, opponendosi nettamente alla reintroduzione del reato di falso in bilancio. A questo punto, ieri il Movimento 5 stelle ha cercato di sparigliare le carte, incontrando il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e proponendo di fatto sulla giustizia una maggioranza alternativa a quella del governo. I parlamentari Maurizio Bucarella, Giuseppe Brescia, Andrea Colletti e Mario Giarrusso hanno proposto al ministro di non presentare il più volte annunciato (e rimandato) disegno di legge governativo, che farebbe rallentare la corsa del testo sulla giustizia già in discussione in Parlamento; e di puntare invece ad approvare, insieme e rapidamente, quel testo di riforma, ora a Palazzo Madama. “Su falso in bilancio, autoriciclaggio, concussione e raddoppio dei tempi di prescrizione”, propone Bucarella, “siamo pronti ad approvare al Senato anche gli emendamenti del Pd, presentati da Felice Casson e Giuseppe Lumia, e poi mandare il testo alla Camera: entro la fine di giugno potremmo avere la riforma anticorruzione”. Oggi il giorno della verità: per scoprire che cosa potrà fare davvero Cantone; ma anche per capire come potrà essere realizzata quella riforma anticorruzione annunciata, ma trasformata via via in una interminabile gimkana.

La Stampa 13.6.14
Il nodo giustizia frena Berlusconi sulle riforme
L’ex premier teme le norme su prescrizione e falso in bilancio
di Ugo Magri


Represso il dissenso, ora Renzi ha la strada sgombra. Si è garantito la maggioranza nella Commissione del Senato che di riforme sta discutendo (Affari Costituzionali), dunque è in grado di far passare un testo come piace a lui. E pure in Aula, sulla carta, avrebbe i voti sufficienti, con o senza l’apporto di Berlusconi. Nondimeno il premier ha una certa preferenza per le riforme condivise, specie con Forza Italia. La ragione è questa: se l’ex Cavaliere ci stesse, non sarebbe un’impresa superare a palazzo Madama l’asticella dei 213 voti, pari ai due terzi dei senatori. Una volta che la soglia fosse scavalcata, le riforme entrerebbero in vigore senza bisogno del passaggio previsto dalla Costituzione all’articolo 138, vale a dire il referendum confermativo. Non che Renzi ne abbia un sacro terrore. Però tra un anno e mezzo, quando l’Italia sarebbe eventualmente chiamata a pronunciarsi sulle riforme, gli umori potrebbero essere un po’ diversi. E in quel caso l’irritazione collettiva potrebbe scaricarsi proprio sulle riforme (già accadde nel 2006).
Insomma: Renzi punta ancora su Berlusconi. Ne potrebbe fare a meno, ma tirandolo dalla sua parte si sentirebbe più sereno. Un tam-tam ripete insistente che l’intesa con l’ex Cav è dietro l’angolo, nel weekend ci sarà la stretta finale in modo che martedì prossimo Matteo e Silvio possano incontrarsi vis-à-vis per chiudere definitivamente sulla riforma del Senato e del resto. C’è ottimismo nell’accampamento renziano, sul presupposto che Berlusconi non ci guadagnerebbe a mettersi di traverso. Nel quartier generale forzista, invece, la musica è un po’ diversa. Il calcolo delle convenienze varia a seconda dell’interlocutore. Se parli con Verdini, ufficiale di collegamento col premier, ti conferma che l’intesa è a portata di mano, che le divergenze sulla riforma del Senato sono tutte superabili con un minimo di buona volontà («Ci si mette intorno a un tavolo e in un’ora risolviamo», è il suo motto). Non piace a Forza Italia la quantità di sindaci che Renzi vorrebbe infilare nel nuovo Senato, ma per venirne a capo basta ridurli. E contemporaneamente accrescere il peso dei delegati regionali, in modo da rispecchiare con più equilibrio le varie tendenze politiche...
Però Verdini l’altra sera non era a cena «chez» Berlusconi: doveva prepararsi per l’interrogatorio di ieri mattina davanti al gup, a proposito del fallimento della sua banca fiorentina. Cosicché, in sua assenza, intorno al desco di Palazzo Grazioli ha fatto scintille il nemico «number one» del patto con Renzi, vale a dire Brunetta; con l’ala trattativista un po’ alle corde, nonostante l’impegno dell’altro capogruppo, Romani. E il padrone di casa, cosa ha deciso? Niente. Una sfinge. Silvio vuole le riforme, confermano i suoi, ma... Ci sono due «ma». Il primo lo segnala con una certa durezza Toti, il consigliere politico, ribadendo che sul Senato Renzi deve venire a patti e riportare «il cammino delle riforme su un progetto davvero concordato e condiviso». Il secondo «ma» berlusconiano riguarda la giustizia. Le novità annunciate da Renzi, specie in materia di falso in bilancio e di prescrizione, hanno molto dato ai nervi del Condannato. Il quale guarda con sospetto alla riunione odierna del governo e a quella del 27 prossimo. Pronto a rivalersi sulle riforme, se il premier dovesse fargli questo affronto.

La Stampa 13.6.14
L’allarme delle banche estere sull’Italia
“Troppa corruzione nelle grandi opere
Meglio abbandonare gli investimenti”
In un anno il peso dei soggetti stranieri nel finanziamento dei lavori pubblici
è crollato dal 55% al 10%
di Giuseppe Bottero

qui

il Fatto 13.6.14
Renzi e i franchi tiratori
Senato: domani non serve, oggi sì

Il Senato non serve, un intralcio. I senatori neanche, soprattutto se dissentono. Ma se Il Senato non serve, un intralcio. I senatori neanche, soprattutto se dissentono. Ma se 70 franchi tiratori Pd fanno passare un emenda- mento leghista che sa di vendetta contro i magistrati, proprio in questi giorni di inchieste e arresti eccellenti, Matteo Renzi - l’uomo che asfalta gli avversari - rassicura: “L’errore sarà rimediato al Senato”. Ma non lo vuole abolire, il Senato? Non vuole andare in buca con la prima occasione senza il rimpallo - che significa anche equilibrio democratico - fra palazzo di Montecitorio e il non distante palazzo Madama? Anche al Senato, in proporzione, ci sarà un bel nugolo di franchi tiratori (stimati a oltre 101 in totale, ricordate Romano Prodi?). Più che eliminare il Senato, Renzi - per sconfiggere i franchi tiratori - dovrebbe istituire una terza Camera. Ovvia- mente, non quella che resiste in tv.

il Fatto 13.6.14
Rodolfo Sabelli, Presidente Anm
“Così l’imputato di omicidio potrà denunciare il giudice”
intervista di Beatrice Borromeo


Ma davvero l’Europa ci vuole trasformare nel Paese dei Balocchi? “Ce lo chiede Bruxelles”, ci dicono. Ladri, assassini e corruttori non soddisfatti del proprio processo devono potersi rivalere, oltre che sullo Stato, direttamente su giudici e pm. Lo impone l’Unione, sostengono. E non solo per dolo o colpa grave, come prevede oggi la legge, ma pure per “manifesta violazione del diritto”. E gli scandali Expo e Mose? “Bisogna conformarsi agli altri Paesi membri”, insistono. Si giustifica così la Camera dei deputati, che ha approvato, con voto a scrutinio segreto (187 a 180, di cui almeno una cinquantina erano franchi tiratori del Pd), un emendamento voluto dalla Lega Nord. In vista del passaggio a Palazzo Madama, che potrebbe trasformare in legge “il provvedimento vendetta contro i pm” (copyright Felice Casson, Pd), vale la pena ricordare quel che veramente ci ha chiesto l’Europa e cosa succede fuori dai nostri confini. Una norma di questo tipo non ha eguali all’estero – come spiega il professore di diritto comparato dell’università Bocconi, Lorenzo Cuocolo – e avrebbe gli stessi effetti della “medicina difensiva”, dove il chirurgo, per paura delle conseguenze, evita proprio di operare. E soprattutto, come dice al Fatto il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Rodolfo Sabelli, “sarebbe incompatibile col principio di indipendenza della magistratura”.
Presidente Sabelli, cosa ci chiede davvero la Ue?
L’Europa, con almeno tre sentenze, ha detto che lo Stato, e solo lo Stato - e dunque non il singolo magistrato - è chiamato a rispondere dei danni causati dalla manifesta violazione del diritto comunitario legata a decisioni di organi giurisdizionali di ultima istanza.
Non è dunque Bruxelles a insistere sulla responsabilità diretta di giudici e pm?
Assolutamente no. E dico di più: il Consiglio d’Europa, nella raccomandazione numero 12 del 2010, ha proprio escluso la possibilità di un’azione diretta del privato nei confronti del magistrato. Ha specificato che soltanto lo Stato può rivalersi sui magistrati, escludendo positivamente le azioni dirette.
Come si spiega allora la lettura distorta che è stata data?
È una falsificazione che risale a molto tempo fa. Anche perché la responsabilità civile esiste già: il famoso referendum voluto dai radicali non è mai stato tradito. Vogliono strumentalizzare una sentenza che dice altro per fini ben precisi.
Quali?
È passato alla Camera un provvedimento che potrebbe portare alla paralisi di qualunque processo sia civile sia penale. Che consentirebbe anche a chi è già stato condannato di agire direttamente nei confronti del giudice. Una cosa degna del paese degli acchiappacitrulli. Ha presente le avventure di Pinocchio?
È l’Italia la “vera cuccagna”?
Con questa legge sì, perché vorrebbe dire che i ladri vengono scarcerati e in galera ci finiscono le vittime. Immaginate la scena: l’imputato di pedofilia, di omicidio o di mafia potrebbe agire nei confronti del magistrato che lo sta giudicando. Basterebbe questo per scatenare una situazione di incompatibilità.
Quanto danneggerebbe il vostro lavoro?
Avrebbe un forte ed evidente effetto intimidatorio. Noi facciamo parte dell’Associazione internazionale delle magistrature, e uno dei principi fondamentali che tuteliamo è proprio l’indipendenza. Stiamo facendo molta attenzione, per esempio, alla magistratura turca.
Andiamo a farle compagnia ?
Spero proprio di no. Questo provvedimento è talmente contrario al buon senso che non potrà tradursi in legge dello Stato. Ma già il segnale lanciato dalla Camera merita un’attenzione molto forte.

l’Unità 13.6.14
Pochi sul blog di Grillo: Cinque stelle con Farage
Sì all’alleanza con lo xenofobo Ukip: a favore 23.000 su 29.000 votanti, esclusa l’opzione per i Verdi
Il britannico: «Saremo la voce del popolo»


Hanno votato in pochi, solo 29mila iscritti al blog di Grillo, meno di un terzo degli aventi diritto. E ha stravinto l’alleanza con il gruppo europeo di Nigel Farage, l’alleato prescelto di Grillo, l’unico che il leader aveva incontrato di persona. Per lui il 78% dei voti, il 12% ha optato per nessuna alleanza e il 10% ha scelto l’Ecr, il gruppo di cui fanno parte i conservatori inglesi del premier Cameron. «Sono estremamente soddisfatto. Sarò lieto di lavorare con il M5s, saremo la voce del popolo al parlamento europeo», commenta Farage. «Il Gruppo Efd (quello di Farage, ndr) ha rappresentato nella scorsa legislatura l’opposizione più strenua al federalismo basato sull’austerity e alla concentrazione del potere nelle mani dei burocrati non eletti a Bruxelles», si legge nella presentazione sul blog. «L’Efd è contro l’euro che ha generato povertà e disoccupazione. L’Ukip crede nella democrazia diretta ed è un partito contrario a ogni forma di discriminazione ».
Una presentazione decisamente generosa, e tuttavia l’alleanza con Farage ha lasciato molti militanti e parlamentari con l’amaro in bocca. La deputata Giulia Sarti si è fotografata al momento del voto, a favore dell’asse coi Tories, con il naso turato: «Voto per i conservatori nipotini di Churchill, solo per non far vincere Farage». Ma i malumori più forti riguardano l’esclusione dell’alleanza con i verdi anche dalla griglia delle opzioni possibili. Mercoledì sera, la co-presidente del gruppo verde al Parlamento europeo, Rebecca Harm, dopo settimane di tira e molla, aveva spiegato che, in caso di una maggioranza a favore dell’alleanza con i verdi nel referendum del M5S, «siamo aperti al dialogo con il Movimento».
E invece niente. La decisione di escludere i verdi non era stata comunicata ai parlamentari, neppure a quelli europei. Molti parlamentari italiani non hanno neppure votato. Come la dissidente Paola Pinna, che su twitter dice che tra «destra populista, destra conservatrice e il nulla, anche l’astensione ha valore di voto». Per tutti i cosiddetti dissidenti, in ogni caso, la modalità del voto online con l’esclusione dei Verdi è «una presa in giro». Alcuni fedelissimi, invece, difendono la scelta e annunciano il voto per Farage. In una nota ufficiale, il gruppoM5Sdell’Europarlamento spiega che «quella dei Verdi non era un’opzione reale, visto che non c’era stata una disponibilità unitaria e ufficiale ad accogliere il M5s nel gruppo, neppure una illustrazione delle condizioni. Come se un venditore chiedesse di firmare un contratto prima di mostrare la merce e indicarne il prezzo». «Era come voler fare un matrimonio con chi non sapeva se sposare te o qualcun altro. I Verdi erano spaccati. È stato giusto escluderli», dice il senatore Alberto Airola. Ma anche tra i fedelissimi si sono registrati molti malumori, che spesso si sono tradotti in un non voto, come per il deputato Alfonso Bonafede.
Malumore anche tra i militanti, che sul blog se la sono presa direttamente con Grillo: «Basta giochini e dirottamenti. Qui vogliamo applicare un vero modello di democrazia dal basso, altrimenti ce lo costruiamo da un’altra parte ». Un militante, Alessio di Milano, ricorda a Grillo un problema di non poco conto: «Il gruppo con Farage è fuffa. Dall’Edf sono usciti quasi tutti. Il gruppo è vuoto. Sono un elettore del M5S dall’inizio ma questa piega, ame come a tanti, non piace».
Nell’ultima settimana Cameron e Marine Le Pen hanno sottratto alleati a Farage: il primo ha affiliato il Partito dei finlandesi e il Partito del popolo danese, mentre la destra francese ha arruolato il partito lituano Ordine e giustizia. Dunque per ora Farage, a parte Grillo, può contare solo sugli alleati olandesi e della repubblica Ceca: ma per fare un gruppo servono sette nazionalità. Al di là dei numeri, la base sul blog non gradisce l’Ukip. «Oggi il movimento è morto», scrive Fabrizio.

Repubblica 13.6.14
Se i grillini sposano la destra xenofoba
di Gad Lerner


TRASCINARE a destra il Movimento 5 Stelle è l’azzardo politico con cui Grillo e Casaleggio confidano di poter sopravvivere al doppiaggio subito dal Partito Democratico lo scorso 25 maggio. Occupare lo spazio lasciato libero dalla crisi del berlusconismo, monopolizzare la protesta euroscettica rintuzzando la risorgente concorrenza leghista.
SONO calcoli domestici di questa natura a spiegare una scelta che i due padripadroni hanno perseguito fino in fondo, a costo di provocare lacerazioni in un elettorato per sua natura trasversale.
Il comico italiano che si affianca all’istrione britannico, lo ha fatto cercando accuratamente lo scandalo, il colpo di scena. La propaganda di Nigel Farage contro gli immigrati e i musulmani, le sue uscite volgari contro i gay e contro la parità femminile, vengono minimizzate da Grillo quando sul blog deve rintuzzare le cri- tiche. Ma in realtà egli spera di giovarsene. Spera che Grillo-Farage divenga l’accoppiata grottesca ma devastante sul palcoscenico della crisi dell’Unione Europea. Tutto fa brodo, dopo l’emorragia di quasi tre milioni di voti e la conseguente ingestione di Maalox, per rinnovare su scala continentale la scommessa antisistema fallita in Italia. La parola magica è: euroscetticismo. Per questo dal referendum pilotato ieri sul blog sono stati anticipatamente esclusi i Verdi come possibile approdo grillino. Il partito ambientalista ha per sua natura una fisionomia cosmopolita, europeista, sovranazionale, che lo rendeva inadatto a catalizzare la spinta reazionaria dei noeuro e dell’egoismo delle piccole patrie. Una cultura green che Grillo rinnega, dopo che per anni l’aveva valorizzata nei suoi spettacoli, perché trova più redditizio l’abbinamento col nuclearista britannico.
Quella operata ieri, ma preparata fin dal giorno successivo a un risultato elettorale che fa del M5S la principale forza d’opposizione, è una scelta di campo precisa e senza ritorno. Se il Pd di Matteo Renzi occupa saldamente lo spazio riformista dell’innovazione politica, è da destra che Grillo ritiene di controbatterlo. Optando con il reazionario Farage per l’ideologia dei popoli ribelli all’Unione, non da riformare ma da mandare a gambe per aria. Un’alleanza spaccatutto, nelle intenzioni di chi la battezza sperando che l’architettura dell’Ue non regga questo passaggio difficile.
Il referendum online è stato una caricatura imbarazzante della cosiddetta democrazia della rete. Basta leggere le argomentazioni con cui si valorizzava l’alleanza con l’Ukip di Farage, rispetto all’unica altra ipotesi di alleanza ritenuta ammissibile: quella strampalata con i conservatori inglesi di Cameron. Certo, una volta esclusa a priori l’alleanza coi Verdi, la terza opzione appariva come la più ragionevole: non iscriversi a nessun raggruppamento, mantenere la propria indipendenza. Nessuno infatti obbligava i grillini a apparentarsi nel Parlamento europeo. L’argomento secondo cui ciò li avrebbe condannati all’irrilevanza non risulta coerente per un movimento che ostenta disinteresse alle poltrone e che, nel parlamento italiano, pretendeva addirittura di sedersi in tutta la parte alta dell’emiciclo pur di non schierarsi fra destra e sinistra.
Stavolta il M5S si è schierato, eccome. A destra, al fianco di una destra che non si vergogna certo di definirsi tale. Grillo e Casaleggio lo hanno fatto orientando sul voto per l’Efd 23 mila sostenitori su 29 mila partecipanti al referendum. Ricordiamocelo, quando da quelle parti si lanciano proclami democratici, magari rivolti a un partito come il Pd che bene o male coinvolge nelle sue scelte fondamentali di leadership tre milioni di cittadini. 23 mila grillini, con tutto il rispetto, hanno “deciso” ieri la collocazione a destra di un movimento votato da circa sei milioni di cittadini. Ma in realtà lo hanno deciso in due.

Repubblica 13.6.14
Grillo ha scelto, sì a Farage ma la base è in rivolta e al Senato il gruppo degli ex prova l’intesa con Sel e Civati
di Tommaso Ciriaco


ROMA. Sliding doors a cinquestelle. Nel giorno in cui gli attivisti scelgono di allearsi con la destra euroscettica e xenofoba britannica, i senatori ex grillini varano il nuovo gruppo. Insieme a civatiani e Sel lavorano a quel “Nuovo centrosinistra” che nel medio periodo punta a bilanciare al senato la pattuglia di Angelino Alfano.
Come ampiamente previsto, i militanti di Beppe abbracciano l’intesa con l’Ukip. Un copione già scritto, dopo il prolungato bombardamento ordinato dal blog. L’alleanza con i Conservatori di David Cameron è troppo improvvisata per non sembrare una provocazione. Per mancanza di alternative trionfa allora Nigel Farage, l’unica opzione sponsorizzata fin dall’inizio dalla Casaleggio associati. Votano in trentamila, cinquantamila almeno disertano invece lo scrutinio telematico. L’Ukip ottiene 23.121 voti, 3.533 preferiscono il no a ogni alleanza mentre 2.930 scelgono i conservatori dell’Ecr. Farage non può che esultare: «Sono estremamente compiaciuto. Con il M5S daremo voce all’opposizione nel Parlamento europeo ».
Il referendum neanche contempla i Verdi. La base protesta, al pari di diversi parlamentari. «L’esclusione degli ambientalisti - sostiene infastidito il deputato Francesco D’Uva - non è normale». Cristian Iannuzzi è infuriato: «Sono davvero avvilito per le modalità con le quali è gestito il portale del M5S. Soffriamo una mancanza di regole, di obblighi e di doveri di trasparenza e democraticità interna al Movimento». E mentre il verde Angelo Bonelli si indigna, due eurodeputati grillini con trascorsi ambientalisti comunicano in via informale al quartier generale pentastellato di essere a un passo da un improbabile e clamoroso addio.
Come se non bastasse, Beppe Grillo continua a martellare dal blog Federico Pizzarotti. Vuole buttarlo fuori e non lo nasconde: «Il sindaco risponda nel merito. Perché non ha indetto referendum per stabilire se Parma preferisce le penali o l’inceneritore come promesso?». Di fatto, lo accusa di evitare la consultazione solo per restare aggrappato alla poltrona. Il primo cittadino replica piccato: «Se mi avessi chiamato invece di scrivere, ti avrei spiegato che non esistono penali che permettono la chiusura dell'impianto ». E poi c’è l’altra faccia del grillismo. Sono gli espulsi dal Movimento. Oggi, salvo sorprese, nascerà il gruppo di almeno dodici epurati, guidato da Adele Gambaro. È solo il primo passo nella direzione del Nuovo centrosinistra, un progetto che mira a costituire in tempi non lunghi un unico contenitore per ex grillini, Sel e fuorusciti del Pd. Non esclude nulla il senatore ex M5S Francesco Campanella, che da tempo tesse la tela con Peppe De Cristofaro (Sel): «Siamo pronti, su molte cose siamo d’accordo. Con loro già dialoghiamo e sarebbe un peccato sprecare questa possibilità».
Strappi e tensioni fra i democratici, insomma, avvicinano la meta: «Qualcuno dei senatori potrebbe addirittura uscire dal Pd - profetizza Pippo Civati - . Lo schema del Nuovo centrosinistra c’è, bisogna capire se il nostro partito è interessato o reagisce invece in modo scomposto, guardando solo a destra ». Un primo segnale potrebbe lanciarlo Felice Casson, candidandosi a sindaco di Venezia con una lista civica.
Il sogno dei civatiani è sostituire in fretta Angelino Alfano, modificando gli equilibri del governo. All’inizio, comunque, il Nuovo centrosinistra non mira a sostenere organicamente l’esecutivo. Musica per le orecchie dei vendoliani che, intanto, si trovano di fronte a un bivio. Divisi tra chi combatte il Pd e l’ala filo renziana, guardano al risiko del Senato come all’opportunità per superare lo stallo. Nel corso dell’assemblea nazionale di sabato toccherà a Nichi Vendola cercare una sintesi, lasciando aperta la prospettiva della ricostruzione di un centrosinistra di governo. Il deputato Stefano Quaranta (Sel), intanto, è netto: «Con tutti questi movimenti non possiamo restare in mezzo al guado». Tutto, in effetti, è in rapida evoluzione. Nel Movimento si sussurra pure di tre senatori - tra i quali Francesco Molinari - pronti a rompere con la Casaleggio associati. La partita, a Palazzo Madama, è appena iniziata.

La Stampa 13.6.14
Ma alla scommessa di Nigel mancano ancora (almeno) deputati di due paesi
Ora sfida alla Le Pen per trovare gli alleati mancanti
di Marco Zatterin


Beppe Grillo ha un solo colpo in canna, adesso. Si chiama Nigel Farage, è un politico a cui lo accomuna la dialettica tagliente e il senso dell’umorismo corrosivo. Una volta il britannico ha chiesto in aula a Herman Van Rompuy «chi sei? perché non ti ho mai visto?», dopo averlo definito portatore «del carisma di uno straccio bagnato». I due leader avranno ora modo di negoziare la loro alleanza e scambiarsi battute, ma forse non sarà sufficiente. Perché l’indipendentista dell’Ukip che ha preso il 31% dei voti in Patria, non è ancora sicuro di formare un gruppo all’Europarlamento. Se dovesse fallire, gli M5S si sono impegnati a accettare la seconda opzione. I non iscritti. Ovvero il nulla. «Il suicidio politico», per usare la formula grillina.
Secondo lo spot grillino messo in rete prima del referendum, avere un gruppo a Strasburgo «offre numerosi vantaggi», «garantisce l’autonomia decisionale» e «da più fondi per finanziare la propria attività». Notato che una volta i fondi pubblici non li volevano, e che l’autonomia e relativa, per fondare una squadra politica occorrono 25 deputati di sette paesi. Raggiunto il quorum, si entra nel grande meccanismo delle spartizioni regolato dall’indiscusso metodo D'Hondt, il manuale Cencelli europeo che distribuisce oneri e onori con precisione algebrica. Se sei in un gruppo puoi avere un vicepresidente, una commissione e qualche carica sparsa, più finanziamenti ricchi. In una parola, sei a pieno titolo membro della società. Sennò, no.
E’ l’esigenza di «fare gruppo» che unisce anzitutto Farage e Grillo. L’inglese la sua squadra ce l’aveva, l’Europa delle libertà (Efd). Erano quelli contro tutto e tutti, irrispettosi delle regole, amanti dello sberleffo, nemici della moneta unica. Una bella banda formata, dagli xenofobi di Wilders, dagli anti-euro Leghisti, più tutti i populisti ed estremisti dell’assemblea, al netto della Le Pen. Ma ora l’Efd è in difficoltà visto che il Carroccio e gli olandesi, come i Veri Finlandesi e i democratici danesi, se ne sono andati, i primi per unirsi al Fronte nazionale, i secondi per sposarsi ai conservatori.
L’Efd ha oggi, sulla carta, solo cinque soci potenziali, e due gliene mancano per chiudere la partita, problema che anche la trionfatrice Le Pen non ha risolto. Per questo Farage ha promesso ponti d’oro ai grillini e il leader delle Cinque Stelle, come il suo grande guru della comunicazione europea, Claudio Messora risultano averne fatte di tutte per favorire le nozze all’inglese. «Se Farage avesse la testa del gruppo, una vicepresidenza del parlamento andrebbe ai "Crickets", come li chiama l’Ukip», stima fonte Ue. Sarebbe un buon risultato. 
Ma sarà? Il finale è da scrivere. Il referendum ha messo al secondo posto l’opzione «non iscritti» (3.533 voti, il 12%) e al terzo i Conservatori (2.930, 10%). Se saranno coerenti, qualora senza gruppo, i grillini dovranno accettare di non iscriversi, lasciando qualcuno a chiedersi "i verdi perché no?". La base questo voleva, il vertice non l’ha seguita. «Non c’è stata una richiesta formale, non potevamo far votare a scatola chiusa», tiene la linea il capodelegazione europea Ignazio Corrao. «Risultato scontato, abbiamo fatto bene a dubitare», dicono a GreenItalia. «Grillo ha temuto d’essere risucchiato», assicura un osservatore bruxellese. Così ora tratta con uno che non vorrebbe un romeno come vicino di casa ed è nuclearista. Per rimanere sull’odiata giostra europea, dovrà turarsi il naso come non mai.

il Fatto 13.6.14
All’incontro di pace organizzato in Vaticano c’era una sedia vuota: quella delle donne
di Pino Corrias


Tra le molte cose che si sono dette sull’incontro di preghiera organizzato da Papa Francesco con il premier israeliano Simon Peres e il leader palestinese Abu Ma-zen, una è stata tralasciata. Eppure saltava agli occhi nelle inquadrature che celebravano l’evento tra il verde dei giardini vaticani: la totale, assoluta, imperdonabile mancanza di donne. Non una, neppure in omaggio a uno sbrigativo aggiornamento d’antropologia culturale, trattandosi non solo della metà del mondo, ma proprio il simbolo stesso della vita – che custodisce nel grembo – il simbolo stesso della pace che proprio lì, quella cinquantina di maschi adulti, credeva di celebrare. Anzi di invocare. Sedevano uno di fianco all’altro, insieme con i patriarchi delle tre religioni, la cristiana, la musulmana, l’ebraica. Tutti esibendo vesti d’antica tradizione, gesti ancestrali, nenie d’alta meditazione, preghiere. Ognuno rivolto al proprio Dio scontroso con barbe e sguardi adatti alla circostanza.
MA PER QUANTA maschile solidità esibissero era la fragilità di quei volti a prevalere, la solitudine, lo smarrimento di quegli sguardi, l’inadeguatezza di fronte a quel tema insormontabile, se pensato senza donne e dunque senza quei legami d’amore e di vita condivisa che stanno alla radice della pace, della convivenza, dell’idea di futuro comune. Sembravano, quegli uomini, pateticamente quello che erano: maschi adulti interamente ostaggio di antiche mistiche, antiche religioni, elaborate da tribù di nomadi pastori, molti mondi fa. Basate su una verità rivelata che è diventata legge scritta. Sul potere di un libro, la Bibbia, la Torah, il Corano. E su un dio monoteista che molto prima di essere il dio della misericordia è il dio maschile della guerra, della vendetta, delle sette piaghe inflitte ai nemici, della guerra santa, del paradiso riservato ai guerrieri, del popolo eletto che deve prevalere sugli altri. E prevalere impugnando sempre la santa spada della sola verità ammessa, che è quella rivelata. Chiamata a purificare nel sangue dei nemici ogni eresia, ogni infedeltà, ogni peccato.
Seduti intorno a quell’errore non si sono accorti che quella voglia di pace era minata già nelle premesse del rito, nel suo allestimento. Nei tre ulivi, scelti come simboli inanimati di un sentimento inanimato. Assai più carico di frutti sarebbe stato convocare tre madri – o tre figlie o tre amanti o tre vedove - e starle per lo meno ad ascoltare.

La Stampa 13.6.14
Fecondazione: “L’Italia non è pronta”
La preoccupazione degli esperti: «Le richieste sono già aumentate,
la pubblicazione della sentenza farà cadere anche l’ultimo ostacolo,
ma gli ovociti disponibili per l’eterologa sono pochi, il rischio è che
i viaggi all’estero continuino»
di Flavia Amabile

qui

l’Unità 13.6.14
Dal Cda nomine al Gr Nasce RaiCultura
Protestano i sindacati

Il Cda della Rai non ha deciso se ricorrere o no contro il decreto sul prelievo dei 150 milioni, e ieri ha fatto molte nomine, ma con la logica degli accorpamenti che però non convince i sindacati.
Alla guida di RadioDue va Paola Marchesini (ora c’era Nicola Sinisi responsabile Radiofonia): al Giornale Radio, unito ora al Gr Parlamento, accettate le proposte del direttore Flavio Mucciante (diventano 6 vice in meno): confermati Vittorio Argento, Maria Teresa Torcia e Onofrio Dispenza; più Gianfranco D'Anna, Francesco De Vitis e Maria Lepri.
Il Cda ha accorpato in Rai Cultura, affidata a Silvia Calandrelli già a capo di Rai Educational, con Rai Scuola, Rai Storia e Rai5 (qui resta direttore D’Alessandro). Ma i sindacati dei lavoratori protestano: mentre si «indicano i lavoratori come fannulloni e privilegiati, è paradossale che i vertici aziendali nominino dei nuovi dirigenti e chiedano ulteriori sacrifici ai lavoratori».

l’Unità 13.6.14
India
Sedicenne stuprata e impiccata

Una 16enne è stata trovata impiccata a un albero in Uttar Pradesh, dopo essere stata stuprata. È accaduto in un villaggio ad appena due ore di distanza da Badaun, dove pochi giorni fa due cugine adolescenti erano state vittime di uno stupro di gruppo, uccise e impiccate a una pianta di mango. Mercoledì scorso una 45enne era stata trovata morta, anch’essa appesa a un albero, nello stesso Stato.

il Fatto 13.6.14
India, il macabro rito delle stuprate impiccate
Quattro episodi in un mese in Tuttar Pradesh. Il paese si indigna ma la violenza contro le donne ha radici lontane nella struttura sociale
di Marta Franceschini


L’ultima vittima della mattanza indiana aveva 16 anni. Il suo corpo è stato trovato senza vita, appeso a un albero, nelle campagne dell'Uttar Pradesh. Un massacro che sembra senza fine. Stuprate, seviziate, costrette a bere dell'acido, soffocate, impiccate, uccise. Di fronte al calvario delle donne indiane il mondo, giustamente, inorridisce. L’escalation rimbalza dalle pagine dei giornali agli schermi televisivi, e l'audience rabbrividisce. Non era il paese della non-violenza? La patria del Mahatma Gandhi? Il regno della spiritualità?    
La prima cosa che bisognerebbe chiarire è che l'India, prima che dello spirito e del Satyagraha, è la patria delle contraddizioni. Come una Grande Madre primigenia, comprende nel suo grembo tutto e il contrario di tutto. Chiuderla dentro una definizione significa o sbagliare o mentire. All'interno della sua identità millenaria convivono gli opposti più stridenti. Ma una cosa è certa: dall'era patriarcale in poi nel caravanserraglio indiano le donne sono sempre state ultime dopo gli ultimi. 
LA VIOLENZA DI OGGI non è una novità. Trenta anni fa, quando arrivai a Delhi per la prima volta, il sistema di divorzio piu' diffuso era l'omicidio della moglie. Solo nella capitale c'erano una media di tre casi al giorno. Per secoli, millenni addirittura    , stupro, abuso, violenza e omicidio sono stati la norma, e non solo in India. A chi inorridisce di fronte alle recenti cronache indiane, ricordo che a Firenze le donne si crocifiggono. E che la frequenza dei casi è proporzionale agli abitanti, che in India sono 30 milioni di volte gli italiani. 
Lo stupro è stato usato in tutto il mondo come arma di guerra da tempo immemorabile. Solo che il termine è stato censurato dai libri di testo per ipocrisia mascherata da sensibilità. Tutti abbiamo studiato sui banchi di scuola secoli e secoli di saccheggi, nel corso dei quali è improbabile che alle signore fosse chiesto gentilmente di sgombrare il campo. 
La guerra è roba da uomini, ma le donne hanno sempre pagato un prezzo molto alto. Per secoli nelle campagne, in occidente come in oriente, le contadine sono state prede alla mercé di chiunque: padri, padroni, coltivatori, stallieri, servi, garzoni, fratelli e mariti. Durante la rivoluzione industriale le operaie ottenevano e conservavano il posto in fabbrica a una condizione ben precisa, e lo stesso valeva per i bambini. Nemmeno i conventi e i collegi religiosi sono stati risparmiati dal flagello, come hanno provato gli scandali venuti alla luce negli ultimi decenni. L'abuso sessuale è il crimine più antico e più universale della terra. I tentativi di localizzare e periodicizzare il fenomeno servono solo a ridimensionare l'ampiezza del dramma e, di conseguenza, a contenere le nostre ansie. Certo è più rassicurante pensare che in India ci sia una improvvisa e inspiegabile escalation di violenze, oppure che in Italia, da quando ci sono gli immigrati, gli stupri siano aumentati. Ma sono bugie. Per millenni stupri e abusi sono stati taciuti con vergogna, come un marchio d'infamia sepolto nel buio della ferita, come una disgrazia e un'onta. L'imperialismo della cultura dominante aveva regalato alle vittime la     colpa e ai carnefici l'impunità. L'unico vero cambiamento rispetto al passato è che oggi, in India come altrove, le donne hanno cominciato denunciare i loro stupratori. E che il loro grido, amplificato dai media, è diventato “notizia”. 

il Fatto 13.6.14
Ritorno al futuro
Goodbye Lenin, viva Putin: i giovani russi e l’orgoglio nostalgico dell’impero rosso
di Giulia Merlo


Un’impero sterminato, sopra cui sventola la bandiera rossa con la falce e il martello. Poi la conquista dello spazio a bordo dello Sputnik, l’Armata Rossa e il mito del socialismo. I giovani russi non hanno mai conosciuto l’Unione Sovietica, ma sperano di ritornare ai fasti del suo impero. Ne sono certi: il collasso dell’Urss fu un disastro, e la Russia putiniana di oggi ha tutto il diritto di ambire a ricreare la nazione che fu.
Secondo un sondaggio condotto dal Levada Centre, un’organizzazione indipendente moscovita, il presidente Putin gode di un appoggio quasi plebiscitario tra i giovani, che supera anche quello delle generazioni vissute nel periodo sovietico. Non solo, i nuovi russi considerano la Crimea - da poco annessa alla Russia
- e anche l’Ucraina - dove l’esercito è intervenuto contro gli indipendentisti - non come territori invasi, ma stati russi su cui riprendere il controllo. L’86% degli intervistati, ragazzi dai 18 ai 24 anni, appoggiano la politica del presidente, contro l’82% dei loro padri.
SECONDO IL SONDAGGIO, ad affascinare maggiormente l’immaginario delle nuove generazioni innamorate della gloria perduta dell’Urss sono stati proprio i loro genitori, che raccontavano di una Russia forte militarmente, in grado di competere ad armi pari con l’eterno avversario a stelle e strisce, temuta e rispettata. “In cui il cibo era buono e il gelato economico”, ha raccontato Oksana Chernysheva, una 18enne di Mosca al primo anno della scuola di giornalismo, grande sostenitrice della politica imperialista di Putin e nostalgica di un’Unione Sovietica caduta 5 anni prima che lei nascesse. Non solo giovani simpatizzanti, però. Il partito di Putin Edinaja Rossija, la Russia Unita, ha un forte radicamento tra gli under30, grazie a un’ala giovanile del partito attiva e molto organizzata. Nella “Giovane Guardia per una Russia Unita” quasi nessuno ha vissuto durante l’Urss, ma tutti ricordano com’era la Russia durante i primi anni ‘Novanta’90. Dopo la caduta del Muro di Berlino anche la patria del socialismo si stava sgretolando, e tantissimi persero il lavoro, mentre il Paese scivolava verso un capitalismo iniquo e senza freni. “La nostra generazione supporta Putin perchè ci ricordiamo molto bene com’era prima il Paese, e come è diventato grazie a lui”, ha spiegato il 26enne attivista Maksim Rudnev.
Il rovescio della medaglia del plebiscito su Putin e delle sue nemmeno troppo nascoste velleità di ripristinare il culto della personalità, è che oltre a lui non esistono, a oggi, molte alternative. L’opposizione, infatti, denuncia da tempo che la svolta autoritaria del presidente, al potere ormai da 15 anni, ha ridotto la libertà di espressione, e Internet è più controllato, mentre molti attivisti anti-Putin sono tenuti lontani dalla vita pubblica, agli arresti domiciliari.

il Fatto 13.6.14
Tunisia
13enne bruciata dal padre per empietà


Eya era tredicenne tunisina come tante: scuola, famiglia, Internet, musica. Il padre, per lavare quella che riteneva un’offesa al suo onore, l’ha bruciata viva. La tragedia è avvenuta non in uno sperduto paesino di periferia, ma nella moderna Tunisi. All’origine del gesto un raptus di rabbia, dopo aver visto dalla finestra di casa la figlia ritornare da scuola accompagnata da un compagno maschio, con cui stava parlando. L’uomo è sceso in strada e si è avventato contro la ragazzina, aggredendola. Poi l’ha cosparsa di benzina e le ha dato fuoco. Lei è bruciata viva, uccisa dopo giorni di agonia e con ustioni su tutto il corpo. Il padre, arrestato e ora detenuto nel carcere di Mornaguia, ha continuato a sostenere di averlo fatto per onore.
La vicenda ha colpito duramente l’opinione pubblica del Paese, che si è divisa non sulla condanna - unanime - dell’accaduto, ma sulle motivazioni che hanno spinto il gesto. L’anima laica della Tunisia ah definito quanto successo l’ennesima conferma di come l’Islam vada spesso fuori controllo, portando ad episodi di violenza aberranti, soprattutto contro le donne.

Repubblica 13.6.14
Le Pen, i “fondi neri” del padre che fanno infuriare Marine
di Anais Ginori


Trionfatrice delle elezioni europee, unica vedette nel disastrato mondo politico francese, Marine Le Pen scopre di avere un nemico in casa. Dopo la gaffe antisemita sulla «infornata» di artisti che criticano il Front National, Jean-Marie Le Pen è ora accusato di «sospetto arricchimento personale». La commissione per la trasparenza della vita politica sta indagando sul patrimonio del fondatore del partito, con somme non giustificate pari a 1,1 milioni di euro. Un caso che provoca nuovo imbarazzo nell’estrema destra in cerca di rispettabilità. Per la prima volta, la figlia prediletta, diventata leader del partito nel 2011, ha preso le distanze dal padre, colpevole di aver commesso un «errore politico ». Il compagno di Marine, Louis Alliot, è andato oltre, parlando di «stupidità». Non solo, il videoblog in cui Le Pen senior ha fatto la battuta antisemita è stato ritirato dal sito e la sua rubrica settimanale cancellata dal palinsesto.
«Mi sento tradito» risponde Jean-Marie Le Pen, 86 anni, tuttora presidente onorario del partito. Il voltafaccia di Marine è stato improvviso. Ancora qualche settimana fa, erano andati insieme a Marsiglia per la campagna elettorale. Lei lo aveva appoggiato per la candidatura a un sesto mandato all’europarlamento e poi difeso dopo una frase su «Monsieur Ebola» che avrebbe risolto in tre mesi i problemi dell’immigrazione. Questa volta, però, la giovane Le Pen ha capito che l’ambizione di diventare forza di governo non è più compatibile con le provocazioni del padre. La figura del patriarca ostacola anche la sua ascesa internazionale. L’alleato olandese Geert Wilders, leader del Pvv, si è scandalizzato per le ultime battute antisemite, mentre il britannico Nigel Farage ha escluso accordi con il Fn proprio per la presenza di un personaggio controverso come Le Pen padre.
L’inchiesta sul patrimonio del fondatore del Fn rischia di far esplodere i difficili equilibri familiari. Tra i fondi sospetti ci sono un bonifico bancario di300mila euro nel 2008 sul conto del suo mini-partito Cotelec (presieduto da Le Pen e destinato a raccogliere fondi presso i simpatizzanti del Fn) e oltre a 400mila euro ottenuti dal fisco nel 2006 in seguito a una mediazione per i ricavi della casa di Montretout, a Saint-Cloud, nell’ovest di Parigi. È il maniero di quasi cinquecento metri quadri, più due dependance, in cui attualmente vive Marine Le Pen con la sorella e la madre. Una dimora aristocratica donata negli anni Settanta da un ricco militante del Fn in condizioni non chiare.
Figlio di una modesta famiglia bretone, Jean-Marie Le Pen ha accumulato durante la sua carriera un notevole patrimonio personale. Oltre alla proprietà di Montretout, vive con l’ultima moglie Jany in una villa a Reuil-Malmaison, con piscina e parco di 1800 metri quadrati, ed è azionista di una società che produce champagne. «Quest’inchiesta è la ciliegina sulla torta», ironizza il patriarca, che grida alla «persecuzione ». Di certo non immaginava di trovare l’ostilità anche nel suo clan. La resa di conti dentro al partito-famiglia, costruito per quarant’anni sulla forza di un cognome, può diventare fatale.

Repubblica 13.4.14
San Paolo spaccata tra angeli e demoni black bloc e feriti nel cuore della festa
di Concita De Gregorio


SAN PAOLO. PERCHÉ a febbraio c’è il Carnevale e «nessuno è fedele a nessuno», ride il barista senza denti del barrio Bixiga, il quartiere degli immigrati italiani, dunque sarebbe assurdo, no?, fare la festa degli innamorati nel tempo del liberi tutti. Le coppie scendono in strada da casa mano nella mano, a Bixiga, mentre la polizia in armi presidia le fermate della metropolitana che porta, unica via di transito, all’Itaquerao.
La polizia brasiliana si comporta come le comparse dell’Aida. Arrivano i plotoni a cavallo, alla fermata Carrao dove i manifestanti si sono dati convegno, sfilano in formazioni militari motociclistiche, avanzano scudi alla mano in schieramento a tartaruga ad uso quasi esclusivo dei fotografi e delle telecamere di tutto il mondo. Si fanno volentieri fotografare, monumentali e spesso neri in divisa, poi sparano a vuoto, nelle strade semideserte, lacrimogeni che hanno lo scopo di evitare la manifestazione prima che nasca. Dissuasivi. Gli abitanti del quartiere attraversano davanti alla testuggine senza batter ciglio portando le borse della spesa, in periferia i super asiatici restano aperti anche quanto è festa nazionale perché il Mondiale comincia. Cinquanta manifestanti, quasi tutti giovani dei movimenti dei senza terra e senza casa, non fanno nemmeno in tempo a urlare «senza istruzione non c’è democrazia, meno pallone più istruzione» che già il quartiere è grigio di fumo, due impavide inviate americane si sono avventurate verso la testuggine e si feriscono con schegge di vetro, una resta travolta dall’avanzata
del plotone assai convinto della sua missione e subito sui social e in internet rimbalzano le immagini di uno scontro che, in definitiva, non c’è. Il metodo brasiliano della polizia militare, cresciuta nella dittatura, è quello di disperdere i manifestanti prima ancora che si riuniscano. I superstiti si radunano nella fermata della metro più vicina, in sostanza per strada c’è uno show di poliziotti che sparano per le telecamere della Cnn. Migliaia e migliaia di tifosi camminano accanto ai militari bevendo coca cola, li salutano raggiungono a piedi lo stadio lontano 20 chilometri dal centro. Pochi croati simili a scacchiere vengono invitati, nel mare di maglie canarino, a fare selfie ricordo.
Il biglietto per lo stadio ce l’hanno solo i ricchi. Tutti bianchi, i brasiliani che marciano coi figli in braccio, i capelli dei bambini dipinti di verde, tutti neri gli addetti alle biglietterie. La festa vera, la festa paulista è nei quartieri, per strada.
Nella sede della tifoseria Corinthians, i Gavioes de fiel che hanno il quartier generale al Bom Retiro, i bambini giocano felici col pallone di gommapiuma nel campo della squadra il cui nome onora l’apertura del mondiale. Lo stadio è loro, prima o dopo lo ripagheranno. “Lealtà, umiltà e metodo” dice lo striscione in alto, il motto della squadra di Socrates. A Valle Maddalena, il quartiere boheme degli artisti, la via dei bar di design è chiusa al traffico, oggi, migliaia e migliaia di brasiliani sono scesi in strada con le infradito ai piedi, è un inverno mite, e la maglia di Neymar addosso. Si mangia riso e fagioli, si beve caipirinha, le coppie si baciano. Nuove coppie nascono, come è sempre bello vedere. La grande festa del Fifa Fan club, in centro, è moltitudinaria ma ben più triste, coi suoi uomini sandwich pagati per fare la pubblicità alla nuova Coca cola dietetica, della strepitosa fantastica festa di strada del quartiere Bixiga, sotto le insegne della più grande e antica scuola di samba della città, la Vai Vai. Anche qui si mangia fejioada, portata in strada dalle donne e servita in piatti di coccio, non di carta. Ci sono santoni sincretisti, leader religiosi, politici in ciabatte e donne in vestito da sera. Qui puoi intervistare con tranquillità, birra in mano, il ministro della salute in carica, Alexandre Padilha, lulista membro del governo di Dilma, candidato alla poltrona di governatore dello stato di San Paolo. Padilha porta la maglia col suo nome, bacia la moglie, abbraccia il santone. È sceso da casa così, questo è il suo quartiere la Vai Vai la sua scuola di samba. Cosa dice delle proteste ministro? «Son sempre legittime e benvenute, siamo in democrazia. Io in gioventù ho partecipato al movimento che ha portato all’impeachment del presidente Collor de Mello. Sono stato caricato dalla polizia. Il problema è la violenza, da entrambe le parti. La polizia, in specie, in questo paese ha un assetto di guerra permanente. È qualcosa che dobbiamo sconfiggere».
Padilha ha portato in Brasile migliaia di medici da Cuba, col suo programma Mais medicos, più medici. I dottori brasiliani sono scesi in piazza a manifestare coi nasi rossi da pagliaccio contro i colleghi cubani. E poi? «E poi adesso l’80 per cento del processo di integrazione ha avuto successo, e milioni di brasiliani hanno un medico di base. I nostri non volevano farlo, abbiamo chiamato chi voleva». E queste proteste, faranno male a Dilma? Vincerà le elezioni di ottobre? «Sono molto ottimista. Vincerà. E vincerà il Brasile. La squadra, il paese». Adaleke, nigeriano laureato in filosofia proprietario di un negozio di oggetti religiosi africani, esce e porta in dono una statuetta di un angelo protettore. Angeli e demoni sono la stessa cosa, dice ridendo. È il minuto esatto in cui il Brasile segna il pareggio con la Croazia. I manifestanti sono tornati a casa, la polizia dell’Aida ha finito il suo show. Compaiono dai balconi le prime bandiere del Brasile, finalmente. La Coppa comincia.

Repubblica 13.6.14
I corrotti e gli sfruttatori “non saranno felici dall’altra parte” e “dovranno rendere conto a Dio”. Così le parole del Papa riaprono la questione teologica e morale del giudizio
Inferno
Perché l’uomo ha bisogno che il male venga punito
di Vito Mancuso


Esiste l’Inferno? E se esiste, quali sono i criteri per esserne rinchiusi o scamparne? Sono queste le due grandi questioni sollevate dal potente discorso di papa Francesco due giorni fa, quando ha levato alta la voce contro chi «vive nel male, bestemmia Dio, sfrutta gli altri, li tiranneggia, vive soltanto per i soldi, la vanità, il potere»; quando ha messo in guardia dal «riporre la speranza nei soldi, nell’orgoglio, nel potere, nella vanità»; quando ha detto che i corrotti non saranno felici «dall’altra parte» e per loro «sarà difficile andare dal Signore»; quando ha tuonato contro quelli che «fabbricano armi per fomentare le guerre» dicendo che «sono mercanti di morte e fanno mercanzia di morte». Contro questi operatori di iniquità il Papa ha proclamato «che un giorno tutto finisce e dovranno rendere conto a Dio».
Parole che mi hanno ricordato la mano alzata di fra Cristoforo a casa di don Rodrigo e il suo celebre «verrà un giorno» del capitolo sesto dei Promessi sposi. Ma verrà davvero quel giorno? Esiste il giudizio e l’Inferno che ne può derivare? Esiste cioè una logica del mondo cui la libertà deve rendere conto? Oppure quel giorno non verrà e non ci sarà giudizio, perché non esiste logica più grande dell’uomo e il mondo è solo dei potenti e dei furbi? Ben lungi dal rimandare a lugubri e grotteschi scenari con diavoli e arroventati tridenti, l’esistenza dell’Inferno rimanda al senso complessivo del mondo: se esso sia ultimamente governato da una logica di bene e di giustizia cui la libertà deve rispondere (divenendo responsabile), oppure no, perché c’è solo l’arbitrio e la volontà di potenza dei singoli in competizione tra loro.
Già Platone nutriva la convinzione che l’aldilà riservi «qualcosa di molto migliore per i buoni che non per i cattivi» (Fedone, 63 C) e Kant a sua volta ha affermato: «Non troviamo nulla che già sin d’ora ci possa fornire ragguagli sul nostro destino in un mondo futuro se non il giudizio della nostra coscienza, quello che il nostro stato morale presente ci permette di giudicare in maniera razionale» ( La fine di tutte le cose ).
Tutte le grandi religioni insegnano che l’anima sarà giudicata: gli egizi mediante l’immagine della psicostasia o pesatura dell’anima (ripresa anche nel medioevo cristiano), lo Zoroastrismo e l’Islam mediante il simbolo del ponte escatologico sottile come un capello su cui le anime appesantite dal peccato precipiteranno senza scampo, l’Induismo e il Buddismo mediante il concetto di karma che determina le successive reincarnazioni. Lo scenario è comunque lo stesso: 1) c’è una logica che struttura il farsi del mondo; 2) la libertà umana è chiamata a rispondervi; 3) la qualità della risposta determinerà il giudizio che l’attende, quando la libertà verrà meno di fronte alla logica cosmica; 4) il giudizio può avere esito negativo. Ciò che il cristianesimo chiama Inferno, laicamente è il fallimento, nel senso che la libertà può fallire e un’intera esistenza rivelarsi sprecata.
Richiamando corrotti, trafficanti di uomini, mercanti di morte e in genere tutti coloro la cui interiorità è abitata dall’avidità e dalla brama, papa Francesco non ha fatto altro che ribadire la sovranità del bene e della giustizia (che un cristiano chiama Dio) su questo mondo, e la conseguente responsabilità che ne scaturisce, quella di impostare la vita all’altezza di questo nobile ordinamento. Naturalmente da ciò non consegue per nulla la sicurezza sull’esistenza dell’Inferno- Paradiso e di Dio, tutto ciò rimarrà sempre e solo oggetto di fede. Da ciò consegue piuttosto una domanda per ogni persona responsabile: l’amore per il bene e per la giustizia che talora si accende in noi è solo un personalissimo anelito oppure è la manifestazione di una logica più grande a cui originariamente apparteniamo?
Vengo alla seconda questione sollevata dal profetico discorso del Papa, quella dei criteri che nel giudizio finale determinano la perdizione o la salvezza. La tradizione cristiana afferma da un lato che ci si salva grazie alla fede, dall’altro grazie al bene compiuto. A cosa però spetta il primato: alla fede professata o al bene praticato? E chi andrà all’Inferno: i non credenti o gli iniqui? Ancora oggi alcuni cristiani sostengono il primo polo dell’alternativa sottolineando l’irrilevanza della dimensione etica per il destino finale, giocato interamente sull’adesione allo “scandalo” della fede di cui parlava san Paolo esemplificata dal noto detto di Lutero che invitava pure a peccare ma a credere ancora di più ( pecca fortiter sed fortius crede ). Il Papa l’altro giorno ha detto esattamente il contrario: all’Inferno ci andranno gli iniqui, i corrotti, chi vive solo per il denaro e fa male al prossimo. È il pensiero di Gesù quale appare dal Vangelo con i criteri del giudizio finale basati non sull’adesione dottrinale ma sulla pratica del bene: «Avevo fame e mi avete saziato, avevo sete e mi avete dato da bere…» (Mt 25, 35 e 42).
Anche questa è una convinzione universale. Per limitarmi alla religione dell’antico Egitto, nella pesatura dell’anima del defunto il contrappeso era la piuma della dea Maat, personificazione della Giustizia. Ma ancora più notevole è la somiglianza tra il brano evangelico citato e un passo del Libro dei Morti: «Ho soddi- sfatto Dio con ciò che ama. Ho dato pane all’affamato, acqua all’assetato, vesti all’ignudo, una barca a chi non ne aveva». Queste parole risalgono a 1500 anni prima di Cristo. Da testi come questo emerge la verità del cristianesimo, verità come universalità a cui tutte le religioni attingono e che mai è mancata agli uomini. Ed è parlando questo linguaggio che papa Francesco raggiunge tutti coloro che amano la giustizia, a qualunque fede o popolo appartengano.

Repubblica 13.6.14
Inferno
di John Milton

ED IN un punto, quanto lungi il guardo D’un Angelo si stende, ei l’occhio manda Su quell’atroce, aspro, diserto sito; Carcere orrendo, simile a fiammante Fornace immensa; ma non già da quelle Tetre fiamme esce luce; un torbo e nero Baglior tramandan solo, onde si scorge La tenebrosa avviluppata massa E feri aspetti e luride ombre e campi D’ambascia e duol, dove non pace mai, Non mai posa si trova, e la speranza Che per tutto penétra, unqua non scende. Quivi è tormento senza fin, che ognora Incalza più, quivi si spande eterno Un diluvio di foco, ognor nudrito Da sempre acceso e inconsumabil solfo.

Repubblica 13.6.14
Il nemico della società, identikit del diavolo secondo Francesco
“Il demonio c’è anche nel secolo XXI”
Il pontefice riafferma la tradizione dei suoi predecessori
di Agostino Paravicini Bagliani



QUALCHE giorno fa, il primo giugno, nel suo discorso allo Stadio Olimpico, a Roma, papa Francesco ha detto che il diavolo «non vuole la famiglia, ecco perché cerca di distruggerla». Qualche mese prima (primo aprile), durante l’omelia mattutina a Santa Marta, il papa si era riferito al diavolo per riaffermarne l’esistenza: «Il diavolo c’è. Il diavolo c’è. Anche nel secolo XXI». Già nella sua prima omelia nella Cappella Sistina, all’indomani della sua elezione (13 marzo 2013), davanti ai cardinali che lo avevano eletto, Francesco, parlando a braccio, ricordò il demonio, affermando che «quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del demonio».
Questo frequentissimo riferirsi al demonio potrebbe a prima vista sorprendere, se non fosse che tutti i papi di questi ultimi decenni hanno parlato del demonio. Paolo VI scelse persino il 29 giugno 1972, festa di san Pietro, per sostenere con gravità che «da qualche fessura sembra essere entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio». Giovanni Paolo II avrebbe persino celebrato due volte il rito di esorcismo nella sua cappella privata. Anche per papa Woytila, l’esistenza del demonio era reale. Lo disse il 24 maggio 1987 a Monte Sant’Angelo, nel luogo in cui nacque il culto dell’Arcangelo Michele: «Il demonio è tuttora vivo e operante nel mondo». Il male non è soltanto la conseguenza del peccato originale, ma «l’effetto dell’azione infestatrice e oscura di Satana ». Benedetto XVI avvertì un giorno (26 agosto 2012) i fedeli accorsi a Castel Gandolfo per l’Angelus che la «colpa più grave di Giuda fu la falsità, che è il marchio del diavolo ». Leone XIII (1878-1903) formulò persino una preghiera a San Michele Arcangelo affinché proteggesse i cristiani «in questa ardente battaglia contro tutte le potenze delle tenebre e la loro spirituale malizia».
Rispetto ai suoi predecessori, Papa Francesco usa però uno stile diverso per parlare del demonio, più moderno, meno retorico, diretto e semplice. Poche parole bastano. «Il diavolo c’è. Il diavolo c’è. Anche nel secolo XXI». Se il linguaggio di papa Francesco è così semplice, la sostanza è in perfetta sintonia con la tradizione. Anche per Francesco, il demonio è una realtà, quella «realtà terribile, misteriosa e paurosa» di cui aveva parlato Paolo VI. Anche per Francesco, il demonio è il nemico principale della società, a tal punto che potrebbe anche distruggerne le fondamenta, come ad esempio la famiglia. In questo senso la continuità attraversa i secoli. Già per i primi scrittori cristiani, il demonio è, ad esempio, l’istigatore dei sensi, a tal punto che si riteneva che il demonio facesse perdere il controllo della ragione attraverso il riso.
Per descrivere i primi casi di eresie medievali, il monaco Rodolfo il Glabro, “lo storico dell’anno Mille”, attribuisce al demonio un ruolo di protagonista grazie anche al suo potere di trasformarsi. La “follia” del contadino Leutardo di Vertus, che «si liberò dalla moglie» e volle giustificare il divorzio «adducendo le prescrizioni del Vangelo » incominciò quando «un enorme sciame d’api» - metafora del demonio - entrò nel suo corpo. Il colto Vilgardo di Ravenna, che aveva letto con passione gli autori classici, divenne «sempre più insensato» per causa di «certi diavoli che presero l’aspetto dei poeti Virgilio, Orazio e Giovenale». Nei grandi momenti di trasformazione della società medievale, il demonio appare sempre come il principale nemico della società. Quando intorno al 1430, in Italia (Roma, Todi) e al nord delle Alpi appaiono le prime cacce alle streghe, a capo della presunta setta del “sabba” viene posto il demonio, cui streghe e stregoni rendono omaggio compiendo orge e quant’altro. Il tragico fantasma del sabba delle streghe ha avuto bisogno del demonio per esistere, e così funzionò per più di tre secoli nell’Europa cristiana, cattolica e protestante.
Se la tradizione cristiana che attribuisce al demonio un ruolo di assoluto pericolo per la società è antichissima, il modo con cui papa Francesco parla del demonio è moderno. Il demonio non è più un nemico generico della società. I temi sono quelli che parlano alla gente, la famiglia, il denaro. Per di più il papa lo fa usando parole semplici, chiare, dirette. Con maggiore efficacia dei suoi predecessori, ma non discostandosene nella sostanza.

Repubblica 13.6.14
Primo Levi lo scrittore morto due volte
di Martin Amis


La prosa di Primo Levi, uno dei più illustri figli di Torino, esemplifica le virtù della moderazione, della finezza di intuito e della temperanza intrinseche dell’animo piemontese; possiede «una qualità tesa, rigorosa, distillata», per citare le parole dello storico Tony Judt, che prosegue: «In contrasto con lo stile sintatticamente involuto, sperimentale, florido di alcuni dei suoi contemporanei e commentatori, [quello di Primo Levi] ha il fascino di un cantofermo medievale».
E come uomo fu sempre fedele ai sobri principi della vostra bellissima città: mai cedere, il dovere fino alla morte e, più familiarmente, non fare il passo più lungo della gamba . Cito qui un altro detto torinese: Esageruma nen.
Non esageriamo ? Non mi pare un motto tipicamente italiano; ma, pur con una certa cautela, si potrebbe affermare che i torinesi siano i Protestanti, perfino i Puritani, d’Italia; sono misurati, laconici, onesti e succinti. Nel suo libro Il sistema periodico Levi dipinse così i suoi antenati: «Le vicende che loro vengono attribuite, per quanto assai varie, hanno in comune un qualcosa di statico, un atteggiamento di dignitosa astensione, di volontaria (o accettata) relegazione al margine del gran fiume della vita ».
Tuttavia, malgrado il suo riserbo Levi rimane un narratore insolitamente intimo. La sua è un’intimità che si tiene a una certa distanza; è decorosa; è giusta. Come si sa, Primo Levi aderì alla resistenza partigiana antifascista durante la guerra; fu catturato nel dicembre del 1943 e, due mesi più tardi, fu deportato a Auschwitz. Dei 650 ebrei italiani arrivati con lui al campo, solo 20 fecero ritorno alle loro case. Ricordiamo anche che Levi intitolò la sua ultima meditazione sui campi di sterminio I sommersi e i salvati . E così non possiamo che porci domande inevitabili e spiacevoli. Quale fu la differenza, la differenza come esseri umani, tra coloro che furono sommersi e coloro che non lo furono? Cosa bisognava avere per sopravvivere?
Ciò che era necessario avere si può riassumere succintamente così: fortuna, un’abilità ad adattarsi immediatamente e in modo assoluto; il dono di passare inosservati; solidarietà nei confronti di un altro individuo o di un gruppo; la salvaguardia del decoro (come disse un prigioniero, «coloro che non avevano saldi principi cui attenersi generalmente soccombevano», malgrado avessero lottato spietatamente per la sopravvivenza); il nutrire costantemente la convinzione della propria innocenza (requisito essenziale e ripetuto con enfasi da Solgenitsyn in Arcipelago Gulag ); l’essere immune alla disperazione; e, di nuovo, fortuna, grande, grandissima fortuna.
Dopo aver fatto nostre le opere di Primo Levi e le testimonianze di molti altri sopravvissuti, con il loro stoicismo e la loro eloquenza, con la loro saggezza gnomica, il loro umorismo, la poesia e quel livello di percezione sempre costantemente alto, si può ancora suggerire un desideratum. In una condanna definitiva dell’idea nazista, questi “subumani” si rivelano essere il fior fiore del genere umano. E quella ricca, delicata, sensibilità percettiva (quanto ci sorprende questo fatto?) non costituì un ostacolo ma bensì una forza. Assieme a un rifiuto quasi unanime della vendetta (e a un rifiuto completamente unanime del perdono), i testimoni hanno qualcosa d’altro in comune. Una corrente subliminale di colpevolezza, la sensazione che, mentre loro si sono salvati, qualcun altro più degno, qualcuno “migliore” sia stato tragicamente sommerso. Ma è una magnanima illusione: con il dovuto rispetto per tutti, nessuno avrebbe potuto essere migliore. E questo si riferisce in particolare a Primo Levi.
È anche risaputo che Levi non sopravvisse fino alla fine. Nel 1987, a tre mesi dal suo sessantottesimo compleanno, si uccise gettandosi nella tromba delle scale della sua abitazione di Torino. Per me, e penso per molte persone, certamente in Inghilterra e in America, questo fu un momento in cui il suicidio, ciò che i Romani chiamavano felo de se (“fellonia su se stessi”), si staccò da ogni censura morale in modo netto e decisivo.
Forse è stato, ed è, diverso qui in Italia. Forse qualcuno di voi avrà già sentito quanto sostenuto un secolo fa dal saggista e romanziere inglese G. K. Chesterton: il suicidio è un’impresa ben più ardua dell’omicidio; l’uomo che uccide un uomo, uccide un uomo, mentre l’uomo che uccide se stesso uccide tutti gli uomini. Anche Vladimir Nabokov fece la stessa considerazione in modo molto più artistico nel suo romanzo breve L’Occhio (1930). Qui Smurov, il narratore umiliato oltre ogni speranza, sistema le proprie faccende: «Ho visto ora quanto fossero convenzionali le mie vecchie idee sui preparativi pre-suicidio; un uomo che ha optato per l’autodistruzione è ben lungi dalle faccende banali e sedersi a scrivere il proprio testamento sarebbe, in quel momento, un atto equiparabile in assurdità a quello di caricare l’orologio, poiché, insieme all’uomo, l’intero mondo viene distrutto; l’ultima lettera si riduce istantaneamente in polvere e, con essa, tutti i postini; e come il fumo, svanisce tutto ciò che era destinato a una progenie inesistente».
“Tutti i postini”: questo è il genio. Ma penso che Nabokov avrebbe ammesso che il suicidio può in qualche modo sottrarsi al nostro giudizio. Le punizioni e gli anatemi del passato si stanno estinguendo - i cumuli di pietra ad indicare le tombe in terra sconsacrata, i cadaveri profanati. Perché trafiggerli con un palo nel cuore quando, come ben sapeva James Joyce, i loro cuori sono già stati spezzati?
«Primo Levi era morto ad Auschwitz quarant’anni prima», ha affermato Eli Wiesel, anch’egli scrittore e sopravvissuto all’Olocausto. Bene, i commentatori sono discordi sulla questione. Come disse Cesare Pavese, un altro figlio di Torino (un altro genio, un altro autodistruttore), «non manca mai a nessuno una buona ragione per uccidersi »; e la situazione in cui si trovava Levi non mancava certo di buone ragioni, tra le quali una profonda depressione. «Sto peggio di quando ero ad Auschwitz », disse a un amico; come sappiamo, i piemontesi non esagerano mai, e penso che possiamo prenderlo in parola. Lasciatemi aggiungere questo pensiero, o questa speranza. Durante gli anni trascorsi ad Auschwitz- Birkenau-Monowitz, Levi avrebbe potuto morire in qualsiasi momento; la sua vita non valeva proprio nulla. Forse nel suo atto di autodistruzione, Levi volle affermare qualche cosa. Qualcosa come: La vita è mia, e spetta solo a me il diritto di togliermela. Nella morte di Primo Levi percepisco una sfida, e io lo onoro.
Ecco un’altra ragione per trarre conforto. Mi pare che la moderna scienza medica abbia gettato una sorta di maledizione sulla vocazione letteraria. Charles Dickens morì a cinquantotto anni, Shakespeare a cinquantré, Jane Austen a quarantadue, Charlotte Brontë a trentanove, Percy Shelley a trenta, John Keats a ventisei. Tuttavia ai giorni nostri gli scrittori tirano avanti fino a ottant’anni e oltrepassano anche i novanta. Il risultato è che muoiono due volte: muoiono quando muore il loro talento (come più o meno inevitabilmente accade), e muoiono ancora quando anche il loro corpo muore. Come tutti gli scrittori che si avvicinano ai settant’anni, Levi non pensava certo che le sue opere migliori dovessero ancora arrivare. Forse anche questa fu una buona e pressante ragione.
Muoiono due volte. Fortunatamente, però, l’estinzione non è sempre definitiva. Nel Ghetto di Varsavia c’era un dottore che condusse uno studio scientifico sul processo che porta alla morte per inedia: si trovava nel posto ideale per farlo. Nascose le sue scoperte in un thermos e, dopo aver ripiegato il manoscritto, scrisse cinque parole: cinque parole che dovrebbero essere incise sulla lapide di tutti gli scrittori. Non tutto di me morirà . I libri rimangono, continuano a vivere. Nel caso di Primo Levi, il corpo fisico può essersene andato, ma il corpus dello scrittore è pronto per l’immortalità. (Traduzione Giuliana Dorrity)

il Fatto 13.6.14
Così sta morendo il cinema italiano
di Roberto Faenza


Si è da poche ore celebrata la kermesse dei David di Donatello, che qualche buontempone ha definito gli Oscar italiani e a vedere la pioggia di premi ci sarebbe da credere nell’ottima salute del cinema nostrano. Purtroppo non è così. Box Office, l’unica rivista sopravvissuta per occuparsi di economia del cinema nel numero di fine maggio fa il bilancio della passata stagione, incassi 2013. Già il titolo non è rassicurante: “Crollano gli investimenti”. Nel 2012 gli investimenti sommavano a 493,14 milioni di euro, mentre nel 2013 sono scesi a 357,60. Una differenza di 136 milioni di euro non è davvero poca cosa. Se allarme deve essere, va però detto che tutto il paese è in profondo rosso. Dunque non si vede come l’industria cinematografica possa chiamarsi fuori.
OSSERVIAMO le cifre. Nel 2012 abbiamo prodotto 166 film di nazionalità italiana, intendendo per tali quelli che hanno ottenuto il nulla osta alla proiezione in pubblico nel corso dell’anno solare. Nel 2013 ne sono stati prodotti 167, quindi siamo quasi pari. Ma mentre nel 2012 ci sono state 37 coproduzioni, nel 2013 sono scese a 29. Anche in questo caso una differenza non da poco. Il costo medio di produzione di un film interamente italiano è stato 1,99 milioni nel 2012 ed è sceso a 1,69 lo scorso anno. In Francia il costo medio è più del doppio, ma laggiù lo stato investe complessivamente circa mille milioni l’anno, quasi dieci volte più che da noi! Crescono in tempo di crisi i film cosiddetti low budget, prodotti con un investimento inferiore a 200.000 euro: 53 nel 2013, contro 37 nel 2012. Il che non è un buon segno, perché la maggior parte di questi titoli non si possono davvero definire opere cinematografiche. Infatti una volta realizzati vanno a sbattere contro il muro della distribuzione, che a torto o a ragione tende a rifiutarli. Sul piano dell’investimento pubblico, i contributi statali per i film “di interesse culturale” (ridicola dizione che andrebbe si spera presto sostituita e meglio definita) nel 2013 sono stati 10,80 milioni e 31 milioni i crediti di imposta alla produzione, affiancati da 16,88 milioni per il “credit esterno” e da 4,75 milioni per il credito di imposta ai distributori. Infine sono stati 6,67 milioni i contributi regionali. I film che hanno ottenuto il contributo in base all’articolo di legge dell’“interesse nazionale” sono stati 23. Sorge naturale una domanda: chi sono gli investitori “esterni” (cioè esterni all’industria cinematografica) che credono nel cinema? Prevalentemente banche e assicurazioni.
Se però si andasse a una verifica approfondita, si scoprirebbe che costoro investono, in pieno accordo con le produzioni, solo una quota “garantita” e non l’intera somma come richiede la normativa. Se dopo il Mose si passasse al cinema ne vedremmo delle belle. C’è poi il capitolo dei passaggi dei film in tv: 4.442 nel 2012 contro 4258 nel 2013. I film italiani programmati in prime time, prima serata, sono stati però parecchio di meno. Sorprende trovare al primo posto Canale 5 con 48 passaggi, seguito da Rai 3 con 47 e Rete 4 con 36. Fanalino di coda, e sorprende ancora di più, la rete ammiraglia della tv pubblica, Rai Uno, con soltanto 13 prime visioni.
RECORD di ascolti per l’ever green “La vita è bella” di Benigni con 7,3 milioni di spettatori, distaccato da “Benvenuti al sud” con 5,6 milioni. Nel 2103 Sky Cinema ha programmato 513 film italiani contro i 649 del 2012. I canali multipiattaforma di Mediaset hanno trasmesso 1.073 titoli italiani contro 584 della Rai. Se confrontiamo questi dati, si potrebbe dire che a prestare servizio pubblico è rimasto soltanto l’impero di Berlusconi. Ma davvero vogliamo continuare a pagare il canone per una televisione che si proclama pubblica e poi perde il confronto con quella commerciale? Il neo ministro della Cultura Dario Franceschini ha detto che interverrà a correggere il trend Rai in difesa del cinema italiano. Speriamo che le sue promesse siano più concrete di quelle di un suo predecessore a Via del Collegio Romano, l’ex ministro Giancarlo Galan. Ma forse lui era troppo impegnato a batter cassa.

Corriere 13.6.14
Novant’anni e una vita da vivere La Capria, scrivere come metafora dell’esistenza

Fallimenti e successi servono solo per ricominciare
di Emanuele Trevi


«Dove comincia l’opera di La Capria?». Terminando la sua memorabile introduzione alla prima edizione del «Meridiano» di Raffaele La Capria, Silvio Perrella aveva trovato una risposta dal sapore vagamente taoista, privilegiando il movimento e la metamorfosi ai danni di un’idea tradizionale di «opera» lineare nel suo progresso e raggelata in una successione di titoli. L’opera di La Capria, infatti, a parere del critico, «comincia da dove finisce, e da lì riparte da capo». Era il 2003, e il «Meridiano» in questione festeggiava degnamente gli ottant’anni appena compiuti dello scrittore napoletano.
Tutto sommato, poteva sembrare una partita chiusa, e chiusa in bellezza. Non perché, ovviamente, non si possa scrivere ancora, e scrivere cose importanti, dopo gli ottant’anni e la pubblicazione di un «Meridiano». Si dice che Giorgio Caproni considerasse un segno di malaugurio la raccolta delle sue poesie complete. E rimise tutto in questione con un ultimo capolavoro, capace di modificare il senso di tutto quello che aveva fatto. Ma il caso di La Capria, meno incline a cogliere presagi funesti nelle occasioni della vita, non solo è diverso, ma unico negli annali della nostra letteratura. Tanto da rendere assolutamente necessaria questa nuova edizione delle Opere «rivista e accresciuta», come recita il sottotitolo. Paradossalmente, se La Capria avesse deciso di andare in pensione a ottant’anni, non scrivendo più nemmeno un rigo, con una decisione simile a quella presa di recente di Philip Roth, anche in quel caso i suoi lettori più fedeli sarebbero stati in grado di cogliere nell’assenza il fantasma di una presenza, come il dolore prodotto da un arto amputato. Perché è assolutamente impossibile immaginare un La Capria non in grado di scrivere, e che trovi un buon motivo per astenersene.
Altro che pensione! Sono fermamente convinto che La Capria scriverà anche in Paradiso, quando traslocherà dall’altra parte, dedicando agli angeli e ai cori dei beati osservazioni mai concepite da nessun teologo. Ma per capire bene l’importanza della scrittura di La Capria nell’ultimo decennio, non basta affermare che tra il 2003 e il 2014 sono state scritte e pubblicate alcune delle sue pagine più importanti, come L’amorosa inchiesta del 2006, senza dubbio uno dei suoi libri miliari, e una manciata di prose brevi straordinarie, prima fra tutte, a mio parere, quella struggente Ultima passeggiata con Guappo (che è il nome del cane più amato) apparsa per la prima volta, come un perfetto fiore di carta ed inchiostro, nelle pagine dell’Estro quotidiano .
Non si tratta, insisto su questo punto decisivo, di un semplice allungarsi di una bibliografia già di per sé straordinaria all’altezza del 2003. Conviene ancora una volta seguire le indicazioni di Perrella, che mette in luce la figura della spirale come emblema di un modo di procedere che, pur andando avanti, torna sempre nella direzione della sua origine. Il fatto è che La Capria, con tutti i suoi anni, non ha raggiunto nessuna di quelle pacificate saggezze senili che sono l’esito quasi scontato di tantissime carriere di scrittori e pensatori. Se a un certo punto c’è stato qualcosa come un patto con la vita, è rimasto identico a se stesso nel mutare delle contingenze, nella felicità e nel dolore. In questo patto c’è molto di buono, a partire da quella potenza dell’anima tipicamente mediterranea che è la capacità di afferrare il bello, nel momento che passa, perché quando è passato non c’è più nulla da fare.
Ma questa stessa suprema capacità di felicità non può che accompagnarsi ad una, non diversamente innata, predisposizione all’ansia. Non sto facendo dell’inutile psicologismo, perché questi due poli, la felicità e l’ansietà, determinano il movimento fondamentale della scrittura di La Capria, sono i due poli del suo inimitabile campo magnetico. La Capria è un uomo che sente intensamente che la bellezza della vita ha un prezzo, e questo prezzo consiste nel fatto che in essa tutti i problemi rimangono aperti, ogni soluzione consistendo in un fantasma provvisorio, nell’illusione di una perfezione momentanea. Ed è da questo stato d’animo che, a metà strada fra gli ottanta e i novanta, La Capria si è accinto a quell’impresa che ha voluto intitolare L’amorosa inchiesta .
Il titolo viene da un’ottava di Ariosto, che racconta di quando Orlando parte alla ricerca di Angelica — è appunto questa l’«amorosa inchiesta». Ma nei versi di Ariosto c’è un altro particolare che di sicuro ha colpito La Capria: l’eroe si accinge alla sua impresa «tra il fin d’ottobre e il capo di novembre», quando le piante perdono le foglie e gli uccelli migrano. Non c’è un’immagine più adeguata alla vecchiaia di La Capria: tutto consiglierebbe di restarsene a casa davanti al fuoco, eppure si parte ancora, perché finché si vive ci sono conti da regolare, e tutto ciò che si è imparato va imparato ancora ancora una volta. L’amorosa inchiest a consiste di tre lettere, inviate a un amore di gioventù, alla prima figlia, al padre. In un certo senso, questi tre legami così importanti sono considerati dallo scrittore alla stregua di fallimenti, e l’autobiografia che ne scaturisce è tanto più vera quanto noi siamo sempre costretti ad ammettere che la nostra vita è fatta anche di tutto ciò che non siamo riusciti a fare, non siamo riusciti a scrivere. Ma se non avessimo quest’ombra, questa quantità perduta di pienezza, noi non saremmo quello che siamo e molto probabilmente non saremmo nulla.
Fa bene Silvio Perrella a raggruppare sotto il titolo complessivo L’amorosa inchiesta non solo il libro che porta questo titolo, ma tutto quanto La Capria ha scritto in quest’ultimo decennio. Anche libri come A cuore aperto e Doppio misto trovano la loro ragion d’essere in questa caparbia volontà di andarsene in giro nella stagione sbagliata. Perché davvero La Capria non sa vivere diversamente, ed è questa la suprema garanzia della necessità di ciò che scrive. Il suo mi sembra un caso esemplare di quella che Michel Foucault, in un grande libro, ha definito «la cura di sé», intesa non solo come costante attenzione ai propri limiti e alle proprie possibilità, ma anche come esercizio spirituale che ha bisogno, per esistere davvero, di tramutarsi in una forma, di venire scritto senza mai stancarsi di cercare la soluzione più efficace.
E se qualcuno chiedesse a La Capria qual è la posta in gioco di tutta questa sua «inchiesta», credo che una definizione splendida la troverebbe in una delle sue prose più recenti, intitolata Novant’anni . È la speranza improvvisa e immeritata, che lo assale certe mattine aprendo la finestra, di un «lieto fine indefinibile». Nessun altro lieto fine lo interessa davvero. Se è indefinibile, infatti, significa che c’è ancora qualcosa di sorprendente da aspettarsi, qualcosa che sarà «lieto» proprio perché non eravamo riusciti a immaginarlo. E La Capria non intende perdersi lo spettacolo.

Corriere 13.6.14
Quell’utopia di Olivetti e Le Corbusier

Fabbrica a misura d’operaio, ambizione sfumata negli Anni 60
di Vittorio Gregotti


 I l 20 settembre 1961 Le Corbusier e Roberto Olivetti, dopo la morte di suo padre Adriano nel febbraio dell’anno precedente, firmavano a Parigi il contratto per il progetto e la costruzione del centro per il calcolo elettronico presso Milano. Ma la storia di quel progetto comincia molti anni prima, con l’interesse di Le Corbusier per il nuovo «villaggio industriale» di Olivetti del 1934 e quello di Adriano Olivetti per l’architettura del Movimento Moderno, un interesse espresso nello steso anno con l’incarico a Figini e Pollini del primo ampliamento della fabbrica Olivetti di Ivrea. Non si deve dimenticare la relazione di Adriano Olivetti con la migliore architettura italiana proseguì negli anni successivi con il piano della valle d’Aosta nel 1943 e, dopo il conflitto, con le collaborazioni con Quaroni, i BBPR, Ridolfi, Cosenza e anche alcuni più giovani.
E’ l’incontro necessario tra i più alti ideali rivoluzionari dell’internazionalismo critico del movimento moderno e quelli profondamente civili della fondazione di Comunità capaci di partecipazione collettiva profonda che Adriano Olivetti vuole concretamente proporre.
A questo incontro è dedicato nel nuovo bel libro di Quodlibet (pp. 125, e 32) dal titolo Le Corbusier e Olivetti: la usine verte per il centro di calcolo di Silva Bodei (che fa anche giustizia della volonterosa, ma molto approssimativa, serie televisiva dedicata di recente alla vita di Adriano Olivetti).
Il libro, ben illustrato ed ottimamente documentato, descrive con precisione i rapporti concreti tra le due personalità, gli incontri, le relazioni nonostante le difficoltà politiche e del conflitto europeo, e soprattutto le ragioni delle relazioni tra gli ideali Corbusierani dell’«usine verte», dei «trois établissements humains» e degli ottimistici «appels aux industriels», con quelli degli ideali politici di «Comunità» (e delle sue connessioni con gli scritti di Simone Weil).
Nell’introduzione sono analizzate le condizioni generali sia politiche che culturali, ed in particolare dell’architettura, in cui questi incontri avvengono e come maturano le trattative per la decisione del progetto di una sede per il futuro dell’elettronica con le sue diverse componenti di servizi già nella seconda metà degli anni cinquanta, nonché per le diverse fasi del progetto che nel 1962 è terminato. Dopo due anni però è la società ad entrare in crisi, e la morte di Corbusier nel 1965 metterà definitivamente fine all’iniziativa.
La crisi della società (a cui segue la morte di Roberto Olivetti nel 1986) sembrano essere i sinistri segni di una crisi in quanto mutazione interrogativa, senza risposta né politica né culturale che sta progressivamente mettendo da parte gli ideali e le utopie concrete che avevano attraversato nel ventennio precedente la stessa cultura architettonica oltre che industriale. Non a caso il titolo della prima parte del libro è la descrizione di una relazione storica tra due persone che decidono di un progetto, una relazione ormai difficilmente rintracciabile: «L’architetto ed il cliente», una relazione a partire da fondamenti ed obbiettivi comuni che il progetto deve concretamente rappresentare. Oggi, come è noto, in genere gli obbiettivi son quelli del mercato e della provvisorietà di cui l’architetto è illustratore di decisioni già prese.
Nel celebre libro di Francis Donald Klingender del 1947, Arte e rivoluzione industriale , segue un’analisi precisa delle questioni che alla metà dell’Ottocento molti intellettuali e artisti si erano posti, dopo mezzo secolo di sviluppo organizzativo della produzione di fronte alla consolidata rivoluzione industriale.
Ma un altro mezzo secolo sarà necessario perché tale rivoluzione divenga per gli architetti «civilisation machiniste» nel significato di rivoluzione sociale, del confronto tra le arti e della loro benjaminiana «riproducibilità tecnica», problemi le cui proposte di soluzioni ideali sarebbero durate non più di mezzo secolo. Sappiamo bene invece che la cultura del capitalismo finanziario globale (che come l’idea di produzione industriale ha radici molto lontane nel tempo) in pochi anni offre alla società ed alle arti nuove questioni e nuove possibilità che, in breve tempo, pur nell’accelerazione incessante degli eventi, hanno proposto anche nuove profonde incertezze e provvisorie mitizzazioni ancora ben lontane dall’essere risolte in positive prospettive. E forse i nostri Olivetti ed i nostri Corbusier devono ancora nascere.