domenica 15 giugno 2014

l’Unità 15.6.14
Lettera a Renzi


Caro segretario,
abbiamo ascoltato con grande attenzione le tue parole su l’Unità. Hai fatto riferimento alla sofferenza del giornale, e di questo ti ringraziamo. E assumiamo le tue parole come un impegno a lavorare, in tempi rapidi, per contribuire al rilancio di un giornale, da alcuni giorni in liquidazione, che rappresenta parte fondamentale dell’informazione nel nostro Paese. In questi mesi i lavoratori de l’Unità - giornalisti e poligrafici - hanno lottato, e non solo sofferto, per dare un futuro al più grande giornale della sinistra, oltre che in difesa dei posti di lavoro.
l’Unità è una storia novantennale, è una comunità - giornalisti e lettori - orgogliosa di sé.
Molto più di un «brand». È importante l’annuncio che hai fatto che le Feste dei Democratici tornino a essere, ovunque, Feste dell’Unità. Feste di un giornale e di una comunità che rappresentano valori che non sono solo parte di una storia gloriosa ma un investimento sul futuro.
IL CDR

La Stampa 15.6.14
La voce grossa del segretario E il “vecchio partito” sventola bandiera bianca
Matteo non fa sconti a nessuno: inizia la ritirata dell’opposizione interna
di Federico Geremicca


A qualcuno ha dato del ricattatore. A qualcun altro ha consigliato di andare in Procura e dire quel che sa - se sa - intorno a scandali e tangenti. Prima, aveva scelto - tra le file di una sbaragliata opposizione - il nuovo presidente del partito. 
E poi, a consolare gli afflitti, ha detto che va bene, le Feste del Pd possono tornare a chiamarsi de l’Unità, visto che il brand tiene... 
Sì, ieri Matteo Renzi ha fatto la voce grossa, ha strigliato e strattonato l’Assemblea democratica come non mai, e forse non ce ne sarebbe stato nemmeno bisogno, perché i fatti sono fatti: e lui, mentre parlava, aveva alle spalle un gigantesco 40,8, cioè la cifra del suo personalissimo trionfo. Hai voglia a dire che si tratta di un raffinato populista o di un arrogante giovanotto: fosse davvero e solo così, sarebbe da chiedersi com’è che è riuscito dove altri, molti altri prima di lui, avevano fallito. L’immagine, adesso, potrebbe essere quella della bandiera bianca, che il «vecchio Pd» sventola mestamente nei saloni dell’hotel Ergife in una giornata che pare esser quella della fine della guerra. Fino al voto del 25 maggio - e forse sperando che non fosse il plebiscito che invece è stato - il ventre molle del Pd ha sofferto e contrattaccato, mugugnato ma tenuto. Da ieri sera, invece, la scena è cambiata: e la ritirata è cominciata. Ci saranno ancora sacche di resistenza, certo. E guerre di posizione. Ma per un po’ ci si dovrebbe fermar qui. Del resto, è sempre valido il vecchio motto secondo il quale ci sono battaglie che, piuttosto che perdere, è meglio non dare...
Cosa sia davvero Matteo Renzi, d’altra parte, forse non l’ha capito ancora nessuno: e prima di tutto i disorientati capi del «vecchio Pd». Filippo Sensi, acuto e modernissimo portavoce del premier-segretario, la mette giù così: «È come se nei loro radar fosse entrata una cosa che ancora non capiscono cosa sia. Per orientarsi, guardano alle esperienze del loro passato. Guardano, ma non capiscono: e non sono certo che, per decifrare Matteo, guardare indietro possa aiutare granché».
Da questo punto di vista, quella di ieri è stata una giornata istruttiva ed esemplare. Renzi si presentava di fronte ai mille dell’Assemblea nazionale avendo da sbrogliare una grana niente male: l’autosospensione (la rivolta) di un manipolo di senatori che per il loro numero - 14 - rischiavano di spingere verso il burrone un esecutivo che, giusto al Senato, ha i numeri che ha. Mille ipotesi su come il premier-segretario avrebbe cercato di venire fuori dalle secche. Farà marcia indietro; medierà; concederà qualcosa; alla peggio prenderà tempo, rinvierà...
È arduo rintracciare nel cursus politico di Matteo Renzi un momento, una circostanza, in cui abbia rinviato e preso tempo. Chi ne ha scorso la biografia politica - studiando tempi e modi dell’agire - sa che lo stop, la frenata, è tecnica estranea al suo modo di affrontar le cose. E così è stato, naturalmente, anche ieri. Uno per uno, tutti i problemi presi di faccia. A cominciare dalla trappola che qualcuno vuole innescare al Senato. Corradino Mineo - ha avvertito Renzi pur senza citarlo - in aula voti come vuole: ma in commissione no, stia attento, perché il Pd ha una linea e non si lascia ricattare. Detta proprio così, chiaro e tondo, a scanso di equivoci.
È anche per questo che gli uomini del «vecchio Pd» masticano amaro e continuano a considerarlo, in fondo, un usurpatore. È in un posto - anzi, in due posti - dove non avrebbe dovuto essere, fosse stato per loro. In più, ha preso un patrimonio di storia, stile e tradizione e l’ha semplificato, volgarizzato, riadattato ai tempi brutti che corrono facendone - di fatto - un’altra cosa. È un disagio vero quello che vivono gli eredi delle due grandi famiglie - quella comunista e quella democristiana - fusesi nel Pd. È un disagio che nemmeno la vittoria (che anzi sembra sale su ferite ancora aperte) riesce a mitigare.
Ma è andata così, e con un po’ più di realismo forse anche i vecchi capi potrebbero convincersi che in fondo - per loro e per il Pd - non è poi andata così male. Il vero interrogativo - di ordine ovviamente più generale - è com’è andata, anzi come andrà, al Paese. Gli annunci e le iniziative si moltiplicano, ma poi si tratta di stringere e di realizzare. Renzi, insomma, è ancora atteso al guado. Gli elettori hanno confermato di crederci, di aver fiducia. Anche nei loro radar è entrato qualcosa che non capiscono cosa sia. Hanno inteso che è nuova, diversa: considerato il passato, per ora questo basta. Ma anche Renzi sa che non sarà sempre così...

La Stampa 15.6.14
La resistenza dei bersaniani spaccati sul nome alternativo
La notte dei lunghi coltelli della minoranza disorientata
di Carlo Bertini


E ora che la scelta di Renzi è ricaduta su Orfini, con il quale il leader ha un rapporto di fiducia, i quarantenni bersaniani della corrente «Area Riformista» che fa capo a Speranza, insomma i vari ex lettiani ed ex diessini di vario conio, non sanno più che pesci prendere. Spaccati tra quelli, cioè i dalemiani, che vogliono entrare in segreteria e i bersaniani, che ora dicono di no, «ma alla fine entreranno tutti senza colpo ferire», prevede un renziano che la sa lunga.
Del resto hanno provato a resistere fino alla fine, tirando fuori a tempo scaduto pure il nome del governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, ma senza proporlo formalmente a Renzi; continuando piuttosto a insistere sul nome di Epifani. E alla luce delle spaccature di una minoranza incapace di mettersi d’accordo, il leader decide che il presidente del Pd sarebbe stato Matteo Orfini. Ed è proprio scegliendo il leader dei «giovani turchi», la corrente più lealista, quella che ha contribuito non poco al suo avvento a palazzo Chigi, che Renzi allarga di fatto la maggioranza, lasciando i bersaniani nel limbo e Civati nel ruolo di fiero oppositore unico. Seduto in ultima fila Pierluigi Bersani e i suoi aficionados restano senza margini di manovra, tanto che al momento del voto, i delegati che fanno capo a Pippo Civati votano contro, mentre le truppe di Speranza, ex bersaniano, si spaccano: Orfini passa con 630 sì e 32 astenuti. Nico Stumpo e i dalemiani come il giovane Danilo Leva votano a favore (anche la fondazione ItalianiEuropei di D’Alema fa le congratulazioni al neo presidente); altri bersaniani escono dalla sala per protesta e altri si astengono, come Stefano Fassina e Alfredo D’Attorre. Il quale, in un corridoio dell’Ergife, conferma tutto il disappunto di aver saputo a giochi fatti che Renzi aveva già scelto Orfini, raccontando così le ultime ore di trattativa notturna: «A noi una figura fuori dalla mischia come Zingaretti sarebbe andata bene, ma Renzi aveva già deciso di proporre Orfini per blindare la maggioranza. Perché non puoi dire di voler dare la presidenza alla minoranza consegnandola a uno che da sei mesi è diventato renziano».
Dalla segreteria del Pd esce una nota che smentisce qualsiasi trattativa su Zingaretti, «nessuno ha fatto il suo nome, questa candidatura non è mai esistita», dice il vicesegretario Guerini. Facendo capire che i bersaniani hanno provato in ogni modo a porre un veto su Orfini, senza una minima unità d’intenti tra loro, come conferma pure chi ha condotto le trattative per i «giovani turchi».
I veleni dunque scorrono nel Pd, ma dietro tutte le rasoiate ci sono questioni politiche di prima grandezza, che hanno a che fare con le accuse dei renziani ai bersaniani di sabotare l’azione di governo. «Hanno pagato il sospetto che dietro Vannino Chiti e i dissidenti in Senato ci fosse un loro sostegno occulto», spiega chi conosce al dettaglio le manovre del Nazareno. Sospetto da cui Civati si vuole tirar fuori: fa parlare a suo nome Walter Tocci, bacchetta dietro le quinte le intemerate verbali di Mineo. E ripete che «la riforma del governo è un pasticcio, ma non c’è un complotto, non facciamo giochini e non sfidiamo la leadership di Renzi».
E non a caso l’intervento di Stefano Fassina dal palco è mirato a sgombrare il campo da questo sospetto. Parla di «risultato sconvolgente alle europee», di una fase ormai «chiusa» di tutti «impegnati a fare le riforme», del dovere di far convivere «il principio di maggioranza e il pluralismo interno». Scaccia le caricature tra «innovatori e palude» e invita il leader a non trovare «capri espiatori, perché quando qualcuno fa proposte diverse dalla linea, non lo fa perché fa i capricci».

Corriere 15.6.14
La sinistra Pd che s’inchina al renzismo
di Marco Demarco


Fuori Mineo, dentro Orfini. Via il senatore scomodo, reo di essersi messo di traverso sui binari del nuovo corso riformista, e dentro l’ex avversario interno. Un colpo ai principi costituzionali, che tutelano la libertà dei parlamentari, e un colpo a favore del pluralismo, che in un partito non fa mai male, specialmente quando si supera la fatidica soglia del 40 per cento. Renzi è fatto così: pratico, veloce e non a caso pare siano bastati due sms, inviati dall’estero, per dare il via ad entrambe le operazioni.
Nella foto della vittoria, quella scattata al Nazareno per suggellare il trionfale risultato delle europee, Orfini è il secondo a sinistra, in piedi, soddisfatto e sorridente. È alle spalle del «nonno» Zanda, il capogruppo al Senato, l’unico di una certa età in una squadra di trenta-quarantenni, il liquidatore di Mineo, appunto. A differenza di Fassina che al momento dello scatto andò pudicamente a nascondersi in un cantuccio («questa non è la mia vittoria», ammise) Orfini nella foto si vede, eccome. Del resto, «Orfini chi?», Renzi non lo ha mai detto, mentre su Renzi lui ha dichiarato di tutto e di più, anche di essere passato «dalla rottamazione al riciclo». Lo disse dopo gli endorsement di Franceschini e Fioroni a favore del nuovo segretario Pd e chissà se, soddisfatto per la battuta, nell’esternare non gli passò per la mente che tra i riciclati un giorno potesse esserci anche lui. Eppure è successo. Oggi Orfini è il nuovo presidente del Pd, occupa il posto che nel Pci fu di Longo quando fu eletto Berlinguer e nel Pds di Rodotà, quando i professori ancora andavano di moda; sostituisce quel Cuperlo che abbandonò offeso per essere stato definito da Renzi, proprio mentre tesseva le lodi delle preferenze, un nominato e non un eletto. Più estroverso di Fassina, meno permaloso di Cuperlo, ma ispirato dalla stessa idea della politica come arte suprema del governo: questo è l’ex giovane turco Orfini. La sua elezione a presidente Pd non è solo la conferma della teoria secondo cui gli opposti spesso si tengono: cosa c’è, infatti, di più distinto e distante di un segretario politico che indossa il giubbotto di Fonzie e un presidente di partito che preferisce, invece, le t-shirt dedicate a Togliatti? L’elezione di Orfini è molto di più. I renziani di primo e secondo conio dicono che è il superamento, nel segno del rinnovamento generazionale, delle logiche novecentesche che hanno dilaniato i vecchi partiti. Sarà. Ma intanto è di sicuro la capitolazione di un modello di sinistra che ha avuto sempre un’altissima considerazione di sé. Di quella sinistra che fa gli origami o soffia distaccata sui foglietti degli appunti mentre la plebe si accapiglia; che con la scusa dello storicismo ha sempre trovato una giustificazione buona per ogni errore o ritardo. Quella sinistra spocchiosa e culturalmente aristocratica, dalemiana e post-dalemiana, pronta a dar lezioni urbi et orbi , ma che nei fatti non è riuscita ad arrestare il proprio declino. Per questa sinistra, Renzi è sempre stato una piuma, un palpito, un fenomeno marginale e passeggero, un leader assolutamente inadeguato alla ricostruzione di un’egemonia nel Paese. E se loro, i giovani turchi, insieme si autorappresentavano come la nuova corazzata Potemkin della sinistra italiana; e se ognuno di loro s’immaginava, nell’intimo, un moderno Ejzenstejn, Renzi, nella loro considerazione, non era altro che un Pieraccioni buono al massimo a guidare una squadra parrocchiale. Così dicevano e pensavano, prima d’entrare nel governo e prima d’insediarsi ai vertici del partito. Prima, cioè, d’inchinarsi alla leggerezza dell’essere renziano.
«L’allegria con cui si passa da Veltroni a Bersani a Renzi senza provare a giustificare i propri cambiamenti — ebbe a dire un giorno Orfini — è un male storico del Pd». L’allegria è rimasta, il male chissà.

La Stampa 15.6.14
Pd

Un dilemma attanaglia il democratico: mi conviene essere un renziano di destra o di sinistra?
Jena

Corriere 15.6.14
La tattica del leader
«Così al Senato ho messo Berlusconi di fronte al bivio»
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Bene, va bene così». Mentre torna nella sua Toscana, Matteo Renzi ha tutto tranne che l’aria di uno che è preoccupato per quello che faranno i senatori del Pd autosospesi e che perciò è in ambasce per le sorti delle riforme istituzionali.
Piuttosto, vorrebbe dormire, ma le continue telefonate di amici e collaboratori non glielo permettono. E diventa inevitabile fare il punto su una strategia che, alla fine, si è rivelata «vincente», anche se a qualcuno è apparsa un po’ troppo grintosa. «Vogliamo dirci la verità? Ormai la riforma del Senato è fatta, la vicenda è chiusa. Manca qualche dettaglio tecnico, ma quelle sono cose che si aggiustano. La sostituzione di Mauro e Mineo mi è servita per poter mettere Berlusconi di fronte a una scelta obbligata: “Noi facciamo passare il provvedimento in commissione, perché abbiamo i numeri, e tu ora che fai?”. La storia del patto con la Lega non esiste, c’è, come è normale, un confronto parlamentare pure con loro. Ora, comunque, Berlusconi non ha più scuse».
Già, ma dicono che il leader di Forza Italia voglia togliersi dall’angolo rilanciando sul presidenzialismo o comunque su un rafforzamento dei poteri del governo. Sarebbe questo il suo modo di rimettere il cerino nelle mani del segretario del Partito democratico. Il quale, però, non ha nessuna intenzione di farsi coinvolgere in un nuovo, estenuante «tira e molla»: «Eh no, se lui mi propone una cosa del genere, io gli rispondo semplicemente così: “Intanto si fa questa riforma, quella del Senato e del titolo quinto della Costituzione, poi, ragioniamo sul resto” ».
Insomma, il provvedimento del governo ha la precedenza, dopodiché il premier non chiude la porta a un successivo confronto, ma prima vuole essere certo di portare a casa la riforma istituzionale promessa. Niente «mercanteggiamenti». Del resto, non li ha fatti nemmeno con i senatori dello stesso Pd: «Io — è il ragionamento che è andato facendo in questi giorni con i collaboratori più fidati — non voglio che tutti siano allineati a me e mi obbediscano, ma non voglio nemmeno l’anarchia. Chi rappresenta il Pd non può giocare contro il proprio partito, le sue possibilità di andare avanti, le sue speranze. E, soprattutto, non può giocare contro le attese di quel 40,8 per cento di italiani che ci ha dato il voto». E che il presidente del Consiglio non sia un tipo da tirarsi indietro lo ha ben capito Corradino Mineo che l’altro ieri sera, verso la parte finale della trasmissione di Enrico Mentana, Bersaglio mobile , tentava un possibile «recupero» della situazione con il sindaco di Firenze, il renziano Dario Nardella.
Il premier, del resto, una cosa l’ha ben chiara in testa: «Non voglio fare la fine del secondo Prodi». Di quel governo, cioè, che fibrillava al Senato un giorno sì e un giorno no, finché non è caduto. Allora, per quel che lo riguarda, meglio andare a votare, piuttosto che restare impantanato nell’odiata «palude», fino ad affondare. Davanti agli italiani Renzi potrà sempre dire chi sono stati quelli che non gli hanno consentito di fare le riforme e ognuno a quel punto si prenderà le proprie responsabilità. Ma il premier è comunque convinto che «nessuno voglia andare alle elezioni». Quanto a lui, vorrebbe «continuare a rottamare». Non ha ancora finito. Ne hanno avuto una dimostrazione proprio ieri i bersaniani, che hanno dovuto ingoiare l’elezione alla presidenza del Pd del «giovane turco» Matteo Orfini, davanti a un giubilante Andrea Orlando, quando loro proponevano altri candidati.
Ne hanno avuto un piccolo assaggio i rappresentanti dell’alta burocrazia, i «mandarini», come li chiama il premier. Per esempio, il capo di gabinetto del ministro Padoan, Roberto Garofoli, individuato dai renziani come uno dei frenatori dei provvedimenti del presidente del Consiglio. A un certo punto nel provvedimento sulla P.A. è spuntata una norma che prevedeva l’incompatibilità tra il ruolo di magistrato e quello di capo di gabinetto. Per Garofoli significava dover tornare in Consiglio di stato. La norma è poi scomparsa, ma i renziani più maliziosi dicono che da allora Garofoli abbia cambiato atteggiamento. E non è un caso che l’altro ieri la candidata del premier alla guida dell’Agenzia delle entrate, Rossella Orlandi, abbia avuto la meglio su Marco Di Capua, sostenuto dai grandi burocrati del ministero dell’Economia.
E ora? E ora, annuncia Renzi, in perfetta sintonia con il sottosegretario alle Telecomunicazioni Antonello Giacomelli, «apriremo il dossier Rai». Dicono che ai piani alti di viale Mazzini come a Saxa Rubra si siano avvertiti dei movimenti tellurici...

Corriere 15.6.14
L’apertura di Salvini al premier: riforme insieme, ecco le condizioni
Il leader del Carroccio: dialogo su Senato e Titolo V
di Marco Cremonesi


Salvini, lo dica: Matteo Renzi ha conquistato anche lei.
«Ma che dice?»
I giornali sono pieni di un imminente accordo sulle riforme tra Lega e governo.
«Non faccia lo spiritoso. Noi siamo e resteremo all’opposizione. E chi continua a sostenere organicamente il governo Renzi, con noi non potrà costruire niente». Matteo Salvini, 41enne milanese, è da sei mesi il nuovo segretario della Lega. E non ha nessuna intenzione di fare opposizione dicendo soltanto dei no».
Anche Calderoli ha detto che c’è in vista «un accordo soddisfacente».
«Se le piace chiamare così quello che sta succedendo, faccia pure. Il punto è che noi siamo pagati per fare. In questo caso, cerchiamo di organizzare quella che i radicali chiamavano la “riduzione del danno”».
E in che cosa consiste? Nel votare la legge elettorale e la nuova struttura del Senato?
«Assolutamente no. La legge elettorale è veramente invotabile, peggio di così non poteva venir fuori... ».
Quindi l’accordo è esclusivamente sulla forma del Senato?
«Su quella e sulla collegata riforma del Titolo V della Costituzione. La speranza è una sterzata decisa rispetto al neocentralismo del governo».
Ma come dovrebbe cambiare la Costituzione secondo l’accordo con Renzi?
«Fin qui, Renzi voleva riportare tutto allo Stato, decidere tutto a Roma. Noi diciamo di redistribuire le competenze oggi concorrenti tra Regioni e Stato. Con le Regioni che si tengono i quattrini per fare il loro lavoro. Con la bozza del governo, le Regioni non servivano più».
Insomma, alcune competenze in più. Non sembra poi una rivoluzione...
«Abbiamo anche chiesto di recuperare i costi standard della spesa pubblica — che erano nella riforma federalista bloccata da Mario Monti — per inserirli in Costituzione. Infine, c’è un tema che per noi è cruciale: il premio alle Regioni virtuose e la sanzione per quelle che virtuose non sono. Se il governo e la maggioranza recepiranno queste nostre indicazioni, io faccio un servizio all’Italia e recupero i due anni di sonno profondo dei governi Monti e Letta».
A quel punto voi sareste disposti a votare quello che chiamate il «Senato dei nominati»?
«Che sarebbe un Senato di nominati è un fatto, non una nostra definizione. Però, all’inizio Renzi diceva no, no, no a qualunque nostra proposta. Se adesso su questi principi incomincia a dire sì, il bilancio per noi diventa positivo. Ma non per noi leghisti: per tutti. Per questo spero anche che rinunci a chiudere i 200 commissariati di cui si parla: chiuda le prefetture, e vedrà che le risorse per tenerli aperti ci saranno».
Non temete le accuse di inciucio che qualcuno immancabilmente vi farebbe?
«Assolutamente no. Assolutamente. Di tutto possono accusarci tranne che di questo, noi stiamo preparando il dopo Renzi. E se riusciamo a far passare qualche nostro principio nonostante il fatto che lui ha preso una barca di voti, a me pare un buon risultato».
Di legge elettorale proprio non volete parlare?
«Io parlo di tutto. Però, la legge elettorale è l’ultima delle mie preoccupazioni. Il Titolo V tocca la vita dei cittadini, è carne viva. La legge elettorale mi appassiona poco».
Silvio Berlusconi probabilmente non gradirà il vostro accordo.
«Che cosa le devo dire? Sono tre anni che noi e loro siamo lontanissimi. Sono tre anni che Forza Italia con il Pd ci va a braccetto. Comunque, ne parlerò anche con lui e con Giorgia Meloni».
Berlusconi però continua a insistere sull’alleanza con la Lega.
«Per ora, non esiste. Non c’è alcuna possibilità di riesumare vecchie formule ormai defunte. Al nostro congresso del 20 luglio, io proporrò qualcosa di profondamente diverso».
Per esempio? La Lega come capofila dei movimenti autonomisti?
«Anche. Ma certo non solo quello. Dato che il Pd è diventato il partito dei grandi — grande finanza, grandi imprese, grandi banche — noi vogliamo diventare il partito di tutti gli altri. Delle piccole imprese, di chi lavora, delle famiglie».
E con Grillo? Nessuna possibile alleanza?
«Il problema è che Grillo, pur avendo rappresentato una ventata positiva di moralità, dice di no. Io non dico di no a prescindere: se posso portare a casa qualcosa di utile, ci lavoro. Di là c’è il no. Punto. Come fai a ragionare con uno che è no, punto?
Salvini, ha visto? Il Dalai Lama dice che bisogna avere il coraggio di dire quando gli immigrati sono troppi...
«Sì, fantastico... Piano piano spero che l’illuminazione arrivi anche nel Pd».

il Fatto 15.6.14
Lessico democratico
“Noi vogliamo”: il dizionario del rottamatore
di Antonello Caporale


Vuoi cambiare verso in generale o su una questione specifica? Vuoi cambiare l’Italia? O anche l’Europa? Puoi cambiare solo la tua Regione, fermarti alla tua città, o se sei timido e modesto legare l’obiettivo al tuo circolo. È bello: si può cambiare verso a tutte le ore e in ogni modo. Il piemontese Chiamparino appena eletto governatore guarda in casa sua: “Voglio far cambiare verso al Piemonte”. Il perugino Guasticchi, appena sconfitto: “Noi dobbiamo cambiare verso all’Umbria”. Anche ad Ascoli Piceno si sono battuti per cambiare verso. Figurarsi a Roma. Noi. Quasi sempre si parte col noi. Fa comunità, democrazia, condivisione, sintesi.
SI AGGIUNGE un vogliamo. È un verbo volitivo, positivo, intransigente e ottimista. Vogliamo cosa? Cambiare, naturalmente. Il lessico renziano è basico, è una proposizione elementare, un dispositivo multifunzione. La frase inizia nello stesso modo tutte le sante mattine, e finisce allo stesso modo ogni sera. Muta il finale per necessità ma si nota che è questione accessoria. Bisogna anzitutto cambiare. E quando Matteo parla aiuta i collaboratori a capire e a ripetere. Cosicchè le parole divengono identiche, le frasi simili, il periodo ugualmente breve, svelto. Il fenomeno del copia/incolla lessicale è un altro elemento che dà velocità al mondo renziano e risolve il comando in una sola parola. Ascoltato lui è fatta. Si sa già che i collaboratori edificheranno il pensiero nello stesso modo, con la medesima postura e uguale vocabolario alla mano. Renzi: “Siamo qui per cambiare le cose non per annunciarle”. Simona Bonafè, eurodeputata: “Siamo qui per cambiare le cose non per annunciarle”. Renzi: “Non accettiamo diritti di veto da Mi-neo”. Pina Picierno, eurodeputata: “Non accettiamo che Mineo tenga in ostaggio il partito”. Renzi: “Il partito ha discusso e votato non una ma tre volte”. Luigi Zanda, capogruppoo al Senato: “Il partito ha discusso e votato non una ma quattro volte”. Renzi: “L’Italia ci chiede di fare le riforme”. Maria Elena Boschi, ministro: “È l’Italia che ci ha chiesto di fare le riforme”. Renzi: “Abbiamo una grande responsabilità” . Alessandra Moretti, eurodeputata: “La nostra responsabilità è grandissima”. Renzi: “Il voto delle primarie è stato chiaro”. Debora Serracchiani: “Il voto delle primarie è stato chiarissimo”. Renzi dopo le europee: “Vogliamo cambiare l’Europa”. Il ministro Poletti: “Vogliamo cambiare l’Europa”.
NEL FLUIDO CAMMINO della lingua renziana, nella riduzione a spot del pensiero, è accaduto che si dovesse affrontare casi singoli, questioni specifiche. Era dicembre e Stefano Fassina, allora viceministro del governo Letta, si ribellò al neosegretario. “Fassina chi?”, chiese Matteo. L’interrogativo ebbe un successone. Il poveretto fu asfaltato in due giorni. Si dovette dimettere e la sua figura divenne una nebulosa, l’immagine svanì e fu dichiarato il diritto all’oblio. Adesso, con l’insubordinazione di Mineo, il rapporto di forza si è fatto spaventoso e allora Renzi nemmeno si è degnato di utilizzare la spada dell’interrogativo. Il chi? è passato nella bocca di Dario Nardella, neosindaco di Firenze. La scenetta è stata preparata con cura: fila di microfoni, domanda su Mineo, un attimo di attesa. Sorrisino anticipatore e poi bum: Mineo chi? ha risposto Nardella dileguandosi immediatamente, cosicchè l’effetto fulmine è stato ancora più devastante. Mineo è morto all’istante, bruciato da un numero due, o forse tre del partito.
La grammatica renziana è rocciosa, ma l’inchiostro è indelebile. E anche l’aritmetica ha un suo sviluppo ariginale. Ogni mese due o tre riforme, e ogni ministro ad annunciarle e a spiegarle. Ieri è toccato a Marianna Madia. La pubblica amministrazione è praticamente nuova di zecca. Date, decreti, deleghe, progetti. Un terribile universo di pensieri e opere che confluiscono nel fiume di palazzo Chigi. Ogni giorno sgorga qualcosa e si espande. Destinazione ignota.
Di Matteo ce ne era uno, da oggi due. Anche Orfini, il neo presidente dell’assemblea, un oppositore a modo, ha lo stesso nome del caro leader. Che tira il filo delle riforme, e ne tratteggia la prospettiva, la forza del cambiamento, la vastità dell’innovazione con un terzo Matteo, il leghista Salvini. Tutto, come si vede, nel segno della semplificazione, della velocità, di non dare spazio ai dubbi e alle ostruzioni.
Un Matteo tira l’altro, e finalmente si cambia verso.

il Fatto Lettere 15.6.14
Renzi e l’uso scorretto del “politically correct”
di Laura Carcano


Oggi ho avuto un esempio dell’uso scorretto del ‘politicamente corretto’: la replica di Renzi alle parole di Mineo che lo aveva definito ‘un ragazzino autistico’. Renzi si è indignato per tutti i ragazzi disabili e per le loro famiglie. Ha detto ‘Attacchi me, ma giù le mani dai disabili’ come se Mineo avesse voluto veramente aggredirli. Poi, come è nel suo stile, ha citato due persone dell’entourage, per nome (a evocare la compattezza di squadra): Francesco e Sara, genitori di due disabili. Ma non bastava, colpo di scena: il riferimento a una sua nipotina affetta da sindrome di Down e alla ‘bellezza e sofferenza’ della situazione. Risultato scontato: applauso roboante dell’assemblea Pd la cui platea risponde molto più alle sollecitazioni del cuore che a quelle del cervello, avendo derubricato gli intellettuali. Giuste o sbagliate che siano le leggi della comunicazione di Renzi (che coincidono con quelle dello Spirito del tempo) la reprimenda sui disabili mi ha subito innescato una associazione: il monologo della Litizzetto a Sanremo, quando rivendicò più spazi per i disabili in pubblicità. Applauso in sala, complimenti da Fabio Fazio, mentre a me montava una sensazione di disagio. Sono convinta che la sparata della Littizzetto, in questo Paese che è l’Italia, abbia contribuito ad alzare l’audience di Sanremo, lo stesso vale per il passaggio di Renzi in assemblea del Pd. Ma ho il sospetto che strappare un applauso sulla commozione per i disabili per delegittimare un avversario politico sia qualcosa di peggiore che citare una sindrome per paradosso. Certo i ‘giù le mani da’, i ‘nessuno tocchi’ hanno una facile presa emotiva ma, attenzione: l’intoccabilità ha una doppia faccia (ci sono pure i paria in India). Mia sorella è morta di cancro eppure non ho mai pensato che Berlusconi, definendo i magistrati metastasi dell’Italia, volesse offendere me, o lei.

Repubblica 15.6.14
Il pifferaio magico fa miracoli e prende cantonate
di Eugenio Scalfari



IL PIFFERAIO magico di Hamelin è il protagonista di una celebre favola tedesca, anzi per l’esattezza transilvana, immortalata dai fratelli Grimm. Quando aveva scelto chi desiderava che lo amasse e lo seguisse suonava il suo piffero e le turbe affascinate, ammaliate e stregate gli andavano appresso. A volte lo faceva con buone intenzioni come quando i cittadini di Hamelin gli chiesero di stanare i topi che infestavano la città e lui suonò il suo magico strumento e li condusse fin dentro a un fiume dove i topi annegarono tutti. Altre volte invece le intenzioni erano a suo profitto: portò tutti i bambini di Hamelin in una caverna e disse alle famiglie di quel paese di pagargli il riscatto per liberarli. Forse i bambini si divertivano con lui ma i genitori li volevano indietro e li riebbero dopo averlo pagato.
Di pifferai magici l’Italia ne ha avuti più d’uno. Siamo un Paese che è molto sensibile al pifferaio e dove ci sono molti topi da stanare e tanti bambini da sequestrare. Adesso di pifferai ne abbiamo contemporaneamente tre: uno è piuttosto avanti con gli anni e il suo piffero è alquanto stonato; un altro lo strumento non ce l’ha e lo sostituisce con le urla e gli insulti contro il governo di Hamelin; i bambini si divertono a sentirlo urlare e parecchi gli vanno dietro anche se da qualche mese danno segnali di noia alle continue urla che li rintronano.
Il terzo è perfetto, suona meravigliosamente bene, diverte, interessa, piace. È arrivato da poco ma era molto atteso non solo dai bambini ma anche da molti adulti. Perfino l’Europa ce lo invidia.
PENSATE che piace perfino alla Merkel e addirittura all’inglese Cameron e al francese Hollande. Evidentemente suona il suo piffero anche a Bruxelles ma lì la faccenda è più complicata. Lui comunque ci prova. E poiché ha una grande fiducia in sé è andato a suonare perfino a Mosca e a Pechino.
In sua assenza però sono accadute alcune perturbazioni ad Hamelin: qualche giorno fa una cinquantina di parlamentari ha votato contro nel segreto delle urne; l’indomani un rompiscatole di professione senatore, ha inscenato una protesta a cielo aperto con altri 13 colleghi. Tutti e due sono brutti segnali e il pifferaio è rientrato in tutta fretta dalla Cina. Stavolta però non ha preso il piffero ma un nodoso bastone. Nei prossimi giorni si vedrà come andrà a finire. La favola dei fratelli Grimm termina qui.
*** Personalmente i pifferai mi piacciono poco ma talvolta servono e lavorano a fin di bene; se ne può avere molto bisogno se mancano alternative migliori.
Nel caso dei 50 franchi tiratori Matteo Renzi ha pienamente ragione. Si votava nell’aula della Camera una legge di riforma della giustizia e c’era un emendamento del partito di Berlusconi che voleva instaurare la responsabilità civile personale dei magistrati per gli errori che possono commettere emanando sentenze o ordinanze esecutive. L’imputato o il condannato che si sente innocente e quindi ingiustamente sospettato o punito può, secondo l’emendamento in discussione, chiamare il magistrato a risponderne dinanzi a un altro. Dunque un processo contro il processo: logica eminentemente berlusconiana.
La legge in vigore non prevede questa ipotesi: la persona che sia convinta della propria innocenza non può attaccare direttamente il magistrato ma può rivalersi nei confronti dello Stato. Spetterà poi allo Stato, cioè al ministro della Giustizia, rivalersi sul magistrato se avrà indizi di colpevolezza. Naturalmente passando attraverso un comitato di disciplina che delibera in proposito.
La motivazione di questa norma che pone lo Stato come intercapedine tra il cittadino e il magistrato è pienamente condivisibile: se non ci fosse quell’intercapedine i processi diretti tra cittadini e magistrati sarebbero continui e influirebbero sulla giurisdizione intimidendo la magistratura e violando la Costituzione che ne riconosce la totale indipendenza. Quindi chi ha sostenuto e votato contro quell’indipendenza ha sbagliato e in particolare hanno sbagliato i franchi tiratori del Pd. Resta comunque il fatto che il Senato correggerà quell’errore. Renzi si dice sicuro che questo avvenga. Speriamo che sia così ma osserviamo, come molti commentatori hanno già fatto prima di noi, che l’errore della Camera sarà corretto dal Senato che però lo stesso Renzi vuole abolire. Dove è la logica? Non c’è. Se e quando il Senato fosse abolito e la Camera sbagliasse, nessun altro organo potrebbe emendare l’errore. È evidente che così non va bene. *** L’altro caso che ha come protagonista Corradino Mineo e altri 13 senatori del Pd che si sono autosospesi dal partito e tra i quali si annoverano nomi illustri come Chiti e Mucchetti, è del tutto diverso dal precedente. Riguarda la riforma del Senato, di fatto la sua abolizione come seconda Camera del potere legislativo.
Nel progetto Renzi il Senato dovrebbe occuparsi soltanto degli Enti territoriali, della legislazione di loro competenza e degli eventuali conflitti dei suddetti Enti nei confronti dello Stato centrale. La loro elezione non avverrebbe direttamente ma in secondo grado, avendo come elettori i Consigli delle Regioni e dei Comuni. Di fatto si instaurerebbe un sistema monocamerale opportunamente rafforzato per quanto riguarda il potere esecutivo (cioè il governo) e notevolmente indebolito per quanto riguarda il potere legislativo.
Qualche cosa di simile avviene con il Cancellierato tedesco e la premiership inglese con la differenza - non da poco - che le leggi elettorali in quei Paesi sono basate in gran parte in Germania e totalmente in Gran Bretagna su collegi uninominali.
Si sostiene da parte governativa che la Camera dei deputati avrebbe una solida maggioranza e controllerebbe a vista l’operato del governo al quale, in qualunque momento, potrebbe togliere la fiducia. Ma - a parte che in quel caso si dovrebbe inevitabilmente andare a nuove elezioni con tutte le difficoltà che ciò comporta - si ritorna alla presenza di un pifferaio d’eccezionale bravura, sicché non è il governo a dipendere dalla Camera ma esattamente il contrario. Il governo pertanto sarebbe sicuramente autorevole e altrettanto sicuramente autoritario. Ne deduco, nell’interesse della democrazia parlamentare, che in questo caso dalla parte della ragione ci sono i 14 senatori autosospesi i quali hanno anche dalla loro l’articolo della Costituzione che esonera ogni membro del Parlamento dal vincolo di mandato. Certo un partito può espellere chiunque - parlamentare o no - si renda colpevole di scorrettezze etico-politiche, ma certo non chi si avvale di un diritto sancito dalla Costituzione. Il capogruppo del Senato Luigi Zanda, queste cose le sa. Lo conosco e lo stimo da almeno 35 anni e sarei stupito e deluso se questi diritti non fossero tutelati.
Nel frattempo l’Assemblea del Pd, su proposta di Renzi, ha eletto presidente del partito Matteo Orfini, capo della piccola corrente chiamata dei Giovani Turchi. Zingaretti, che sembrava in “pole position” per quella carica, se ne è scartato avendo capito che per lui non c’era spazio. Ma chi erano storicamente i Giovani Turchi? Erano giovani ufficiali che appoggiavano il laicismo di Ataturk contro l’islamismo dei califfi e dei sultani. Francamente non vedo somiglianze tra i giovani ufficiali di Ataturk e i seguaci di Orfini, ma posso sbagliare, chissà quante sorprese positive ci darà Orfini. Prima di lui c’era la Bindi e lei sì, qualche buona sorpresa ce la dette. Poi fu rottamata.
Plaudo invece di gran cuore a Renzi quando ha esortato il partito a tirar fuori tutti gli scheletri che possono esserci negli armadi del Nazareno. Su questo tema il pifferaio ha suonato molto bene e speriamo sia seguito. *** Poche parole sull’Europa e le nomine che si debbono fare: la nuova Commissione, i commissari, cioè il governo dell’Unione, e il presidente europeo, attualmente Van Rompuy che dovrà esser sostituito nella carica che dura una legislatura.
Ho letto l’altro ieri il discorso di Cameron contro la candidatura di Juncker proposto come presidente della Commissione dal Ppe che ha superato di qualche voto il Pse che aveva Schulz come candidato.
Cameron non sceglie tra l’uno e l’altro e tantomeno indica altri nomi, ma contesta interamente la sovranità del Parlamento europeo. Non la riconosce. La sovranità, secondo il premier inglese, sta soltanto nei governi dell’Unione. Il Parlamento è per Cameron un organo figurativo che collabora con pareri ma senza poteri alla Confederazione europea. Non si può trasformare in un potere legislativo vero e proprio; soltanto i governi di comune e unanime parere, potrebbero riconoscergli questa sovranità.
Da questo punto di vista i conservatori inglesi guidati da Cameron sono su posizioni quasi identiche a quelle della Le Pen e della Lega Nord di Salvini. Questa concezione è aberrante e dovrebbe essere denunciata dagli europeisti e dai governi che a quegli ideali si ispirano, tra i quali da sempre c’è il governo italiano. Tuttavia una parola di Renzi in proposito non si è sentita. È vero che è in tutt’altre faccende europee affaccendato e giustamente: la crescita, la flessibilità economica, gli investimenti europei. Ma è vero anche che pochi giorni fa il Pd ha stipulato un accordo con la Lega per una revisione del Capitolo V della Costituzione in senso leghista e quindi esattamente il contrario del progetto iniziale di riforma fin qui annunciato.
Berlusconi sarà felice: nell’accordo sulle riforme finora c’erano il Pd, Forza Italia, Alfano. Adesso c’è anche Salvini con la Lega. Ma non è Salvini che si è mosso verso gli altri, sono gli altri cioè il Pd, che si è mosso verso di lui.
« Ça je l’aurais jamais cru », dice la Piaf nella canzone “Milord”. Se ne vedono di belle e di brutte in questo Paese ma spesso le brutte sono molto più numerose.

Repubblica 15.6.14
Orfini presidente “Garanzie per tutti ma la minoranza rispetti le decisioni”
intervista di Giovanna Casadio



ROMA. Il primo atto da presidente del Pd di Matteo Orfini, quarantenne, ex collaboratore di Massimo D’Alema, sostenitore di Gianni Cuperlo al congresso, tifoso milanista, sarà incontrare i senatori dissidenti che si sono autosospesi dal gruppo dem: «Vorrei che rientrassero».
Orfini, il PdR - il Pd di Renzi - ha bisogno di non disperdere l’identità di sinistra, e per questo ha eletto lei presidente?
«Il Pd è un partito di sinistra, di centrosinistra. Non direi quindi che la sinistra è una parte, una corrente. Mi piace la frase che diceva Bersani: «La sinistra è il lievito del Pd». Questa è la verità. E penso che in questi mesi si sta dimostrando che il confronto, anche duro ma leale, che c’è stato tra di noi è servito ad avvicinare le posizioni. D’altra parte il governo Renzi ha varato la prima vera operazione di redistribuzione della ricchezza destinando 80 euro ai redditi più bassi, dopo anni in cui semplicemente aumentavano le disuguaglianze ».
E tornano pure le feste dell’Unità.
«Sta a dimostrare che una classe dirigente nuova non ha problemi a fare tesoro delle proprie radici culturali e politiche. Il Pd per molti anni ha dato la sensazione di vergognarsi della propria storia. Noi veniamo da tradizioni politiche differenti, di cui possiamo essere orgogliosi».
Ma i bersanian-dalemiani-cuperliani ci sono rimasti male perché la scelta è caduta su di lei. Nella notte di trattativa è stato addirittura posto il veto sul suo nome. Stefano Fassina si è astenuto. Perché tanti maldipancia?
«Credo che alla fine l’importante sia la decisione di Renzi di proporre uno che in questi anni gliene ha dette di tutti i colori, con scontri anche duri. Quando sarà il caso continuerò a dirgliele. Così si trasmette l’idea di un Pd che ha un compito: portare l’Italia fuori dalla crisi e perciò prova a costruire l’unità Non dobbiamo dividerci, ovviamente senza omologarci».
In definitiva proprio i compagni della “sua” minoranza volevano un altro?
«Legittimo. Cercherò di essere anche il presidente di chi non mi ha votato».
Il nuovo Pd del 40,8% nasce sull’asse Renzi-sinistra dei “giovani turchi”, la sua corrente?
«No a una lettura caricaturale, non è asse tra Renzi e “turchi” ma tra tutti quelli che voglio il cambiamento».
Le vecchie correnti dem sono finite. Liberi tutti?
«L’ho detto subito dopo il congresso. Non aveva senso ragionare in termini di maggioranza e minoranza. Infatti non mi sono dedicato all’unità della minoranza ma di tutto il Pd. Il pluralismo va garantito sulle idee non sui cognomi».
La Fondazione Italianieuropei presieduta da D’Alema le ha subito fatto i complimenti. Un modo per mettere il cappello sulla sua presidenza?
«Ma no. Un gesto affettuoso di una Fondazione in cui ho lavorato per tanti anni e dove sono stati contenti».
Incontrerà i dissidenti. Ma per dirgli cosa, che Renzi ha ragione?
«Si deve discutere, ma senza fermare le riforme ».
Nel Pd renziano il dissenso è poco tutelato?
«Non credo. Io spesso in questi mesi ho dissentito. Ho fatto le mie battaglie, ho perso e mi sono adeguato alle decisioni per rispetto del partito ».
Oggi c’è un Pd di quarantenni?
«È un Pd rinnovato. Ma non basta dire “siamo giovani”, bisogna rinnovare le politiche».

Corriere 15.6.14
Fassina sull’ex compagno di corrente: era meglio un amministratore locale
«Orfini bravo, ma avrei preferito una scelta che rappresentasse tutti»
intervista di Alessandro Trocino


ROMA — Di recente aveva dato l’impressione di essere stato folgorato sulla via del renzismo. A margine dell’assemblea democratica, Stefano Fassina smentisce: «Ho riconosciuto il valore aggiunto di Renzi, ma resto fassiniano». È vero che alla fine del suo intervento, il segretario lo applaude e gli dà una mano cameratesca, ricambiato, ma è anche vero che la sua analisi del Pd, del segretario e delle sue scelte è molto più articolata. Così come è articolato il giudizio su Matteo Orfini, ex sodale di corrente, ormai lontano dalla sua orbita politica.
Renzi ha scelto Orfini alla presidenza dell’assemblea.
«Una persona di primissima qualità».
Però lei si è astenuto.
«Sì, perché non rappresenta il partito, nella sua complessità».
Nel senso che i Giovani Turchi di Orfini si sono avvicinati al segretario e «sono ormai maggioranza», come dice Pippo Civati?
«Guardi, con Orfini abbiamo avuto valutazioni diverse, a cominciare dalla scelta di Marini come candidato alla presidenza della Repubblica, ma sono divergenze legittime. Io sono sicuro che farà bene e sarà una figura di garanzia. Ma avrei preferito qualche bravo amministratore locale super partes».
Come le è parso il discorso di Renzi?
«Innanzitutto le confesso che mi aspettavo chiudesse l’Assemblea, dopo la lunga serie di interventi critici. E invece ha deciso di non replicare. Peccato».
Ma ha condiviso qualcosa del suo discorso?
«Sì, molti passaggi. In particolare noto che la sua posizione sull’Europa coincide con la mia di sempre. Quando io contestavo chi diceva che l’Agenda Monti dovesse essere l’agenda del Pd, c’era chi voleva che mi dimettessi dall’incarico di responsabile economico. Dopo anni di solitudine, nelle mie denunce dei fallimenti della politica economica europea, ho trovato un conforto nell’impostazione di Renzi».
La convince meno la sostituzione di Corradino Mineo dalla commissione.
«Di Mineo e Di Chiti. Si può andare avanti 15 a 14? Mi sembra che Mineo sia un capro espiatorio».
Però è vero che in Commissione rischiava di essere un ostacolo alle riforme decise dalla maggioranza del partito.
«È vero ma i problemi vanno affrontati sul terreno politico non con la forza. Nel Pd ci si deve ascoltare di più. Dobbiamo imparare a far convivere il principio della maggioranza e la capacità di decidere con il pluralismo interno. Che non è un’eredita correntizia, ma una necessità vera».
Renzi dice: basta con le mediazioni.
«Non ho condiviso la caricatura delle posizioni interne».
Quale caricatura?
«La contrapposizione tra chi è un coraggioso innovatore e chi boicotta. Tra chi vuole le riforme e chi vuole solo visibilità. Tra chi è per le riforme e chi per la palude. E poi anche sul Senato: non si può dire che i senatori che si sono autosospesi sono per il bicameralismo perfetto. Non è così».
È vero però che esprimono una linea diversa da quella della maggioranza del partito e della maggioranza che vuole fare questa riforma.
«Ecco, mi chiedo: qual è oggi la maggioranza? È ancora valido il patto del Nazareno? Ho parlato con esponenti autorevoli di Forza Italia, come Francesco Paolo Sisto, che sono sulle posizioni di Chiti. E poi mi chiedo: su quale testo ci misuriamo, visto che lo stesso testo di base è stato giudicato dal governo come superato in molti punti? Il combinato disposto dell’elezione indiretta dei senatori, che condivido, con una Camera di nominati, che non condivido, è al di sotto del livello minimo di garanzie costituzionali. È un punto politico questo oppure è da sostituzione?».
È un punto politico, ma in un partito decide la maggioranza.
«Sì. Ma dopo aver affrontato i nodi politici ricordo a chi invoca il principio di maggioranza, che non si faceva problemi ad aprile 2013 a votare scheda bianca per l’elezione del capo dello Stato, quando la maggioranza dei grandi elettori indicava e votava Franco Marini. Anche allora sarebbe stato utile considerare il Pd, come ha fatto oggi Renzi, un partito non anarchico».
Discutere è giusto, dice Renzi, ma a un certo punto si deve andare avanti: glielo chiedono il 40,8 per cento degli italiani che lo hanno votato.
«Si deve andare avanti, ma linea di distinzione non è tra cambiamento e conservazione. Perché un cambiamento può essere progressivo ma anche regressivo. Noi siamo tutti per le riforme, ma dipende da come vengono fatte. Anche sulle inchieste, le categorie vecchio e nuovo non aiutano. E poi è vero che in quel 40,8 per cento c’è il forte valore aggiunto di Renzi: ma ci sono anche Chiti e Mineo. E ci sono anche io»

l’Unità 15.6.14
Renzi all’assemblea Pd
«Non possiamo più permetterci due giornali diversi, due storie diverse»

è proprio grazie a questa forza che il Pd può non aver più paura delle proprie radici e che quindi con Renzi può rimettere il nome de l’Unità («permettetemi di usare la parola brand») sulle proprie feste anche se può costare, scherza Renzi, un po’ di maldipancia al vicesegretario Lorenzo Guerini ex popolare. Ma visto che ora le due storie diverse da cui è nato il Pd si sono riunite, per Renzi in futuro non potranno esserci due giornali (l’Unità e Europa) diversi. «Chi vuol bene a una tradizione non la ingabbia nel museo delle cere, ma la porta nel domani» spiega.

La Stampa 15.6.14
Il marchio “Unità” rispolverato per le feste
Ma il giornale è a rischio
di Paolo Baroni


Il Renzi che non ti aspetti rispolvera uno dei simboli del vecchio partito. «L’Unità», intesa come marchio però. «La tradizione non va messa nel Museo delle cere, ma è un investimento sul futuro. Dobbiamo tutelare il nostro brand, tornare a chiamare le nostre feste, “feste dell’Unità”». Dalla platea dell’Ergife tanti applausi e qualche sussulto, tra il serio e il faceto, di chi come il vicesegretario Lorenzo Guerini viene da tutt’altra storia politica rispetto al Pci. «Quando glie l’ho detto è quasi svenuto», gigioneggia Renzi.
Il discorso cambia, e si fa molto serio, quando invece si parla della testata fondata da Antonio Gramsci. Per la prima volta, infatti, Renzi mette in chiaro che, vista la situazione dei conti del partito, «non ci possiamo più permettere due giornali diversi». Insomma dopo anni di coesistenza sotto lo stesso ombrello politico ora occorre trovare una soluzione per sistemare sia l’Unità, dove il Pd conserva una quota simbolica di azioni, sia «Europa», ovvero l’ex organo della Margherita. Operazione già ventilata in passato e sempre rimandata a tempi migliori.
La novità, ora, è che la società editrice dell’Unità è stata messa in liquidazione: i soci privati raccolti nella Nie non ce la fanno più a tirare avanti, con le vendite ridotte a poco più di 23-24 mila copie, un indebitamento totale che (compresi i fondi per il Tfr) arriva a oltre 27 milioni di euro e 5-6 milioni di rosso solo nel 2013. Il Pd punta a salvaguardare il più possibile i livelli occupazionali (57 i giornalisti dell’Unità, una ventina quelli di Europa) e prova a far collaborare le due testate. «Il tema è antico. È chiaro che l’Unita è un marchio prestigioso con una storia importante. Europa non può competere sul piano della storia ma in 11 anni ci siamo conquistati il diritto di stare sulla scena», rivendica il direttore Stefano Menichini.
Fondere i due quotidiani? Nella redazione dell’Unità questa è la voce più ricorrente. Mentre ieri all’Ergife circolava un’altra soluzione: «l’Unità» affidata a nuovi soci, però a organico dimezzato, ed «Europa» che si specializza nell’informazione on-line dove è già presente con un discreto successo. Ma non si esclude nemmeno una fusione a tre con la webtv di partito «Youdem». «Stiamo pensando alla soluzione migliore per affrontare la sfida del futuro», assicura il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi, sul cui bilancio pesano ancora 5,5 milioni di fideiussioni rilasciate negli anni passati a favore dei soci della Nie.
All’Unità, che da settimane esce per protesta senza le firme dei redattori, si segue con apprensione crescente l’evoluzione vicenda. Il socio di maggioranza Matteo Fago sarebbe intenzionato a prendere le redini della società facendosi aiutare - pare - dal costruttore Paolo Pessina. Ma finora non ha comunicato nulla di ufficiale. Per questo i giornalisti hanno deciso di scioperare di nuovo venerdì prossimo. «Vogliamo capire cosa ci aspetta, come si procede e quali sono i piani di Fago - dice una dei tre componenti del cdr, Bianca Di Giovanni -. Occorre difendere i livelli occupazionali e serve un solido piano industriale. Finora ci hanno tenuto all’oscuro di tutto, non si può continuare così».
Il Renzi che non ti aspetti rispolvera uno dei simboli del vecchio partito. «L’Unità», intesa come marchio però. «La tradizione non va messa nel Museo delle cere, ma è un investimento sul futuro. Dobbiamo tutelare il nostro brand, tornare a chiamare le nostre feste, “feste dell’Unità”». Dalla platea dell’Ergife tanti applausi e qualche sussulto, tra il serio e il faceto, di chi come il vicesegretario Lorenzo Guerini viene da tutt’altra storia politica rispetto al Pci. «Quando glie l’ho detto è quasi svenuto», gigioneggia Renzi.
Il discorso cambia, e si fa molto serio, quando invece si parla della testata fondata da Antonio Gramsci. Per la prima volta, infatti, Renzi mette in chiaro che, vista la situazione dei conti del partito, «non ci possiamo più permettere due giornali diversi». Insomma dopo anni di coesistenza sotto lo stesso ombrello politico ora occorre trovare una soluzione per sistemare sia l’Unità, dove il Pd conserva una quota simbolica di azioni, sia «Europa», ovvero l’ex organo della Margherita. Operazione già ventilata in passato e sempre rimandata a tempi migliori.
La novità, ora, è che la società editrice dell’Unità è stata messa in liquidazione: i soci privati raccolti nella Nie non ce la fanno più a tirare avanti, con le vendite ridotte a poco più di 23-24 mila copie, un indebitamento totale che (compresi i fondi per il Tfr) arriva a oltre 27 milioni di euro e 5-6 milioni di rosso solo nel 2013. Il Pd punta a salvaguardare il più possibile i livelli occupazionali (57 i giornalisti dell’Unità, una ventina quelli di Europa) e prova a far collaborare le due testate. «Il tema è antico. È chiaro che l’Unita è un marchio prestigioso con una storia importante. Europa non può competere sul piano della storia ma in 11 anni ci siamo conquistati il diritto di stare sulla scena», rivendica il direttore Stefano Menichini.
Fondere i due quotidiani? Nella redazione dell’Unità questa è la voce più ricorrente. Mentre ieri all’Ergife circolava un’altra soluzione: «l’Unità» affidata a nuovi soci, però a organico dimezzato, ed «Europa» che si specializza nell’informazione on-line dove è già presente con un discreto successo. Ma non si esclude nemmeno una fusione a tre con la webtv di partito «Youdem». «Stiamo pensando alla soluzione migliore per affrontare la sfida del futuro», assicura il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi, sul cui bilancio pesano ancora 5,5 milioni di fideiussioni rilasciate negli anni passati a favore dei soci della Nie.
All’Unità, che da settimane esce per protesta senza le firme dei redattori, si segue con apprensione crescente l’evoluzione vicenda. Il socio di maggioranza Matteo Fago sarebbe intenzionato a prendere le redini della società facendosi aiutare - pare - dal costruttore Paolo Pessina. Ma finora non ha comunicato nulla di ufficiale. Per questo i giornalisti hanno deciso di scioperare di nuovo venerdì prossimo. «Vogliamo capire cosa ci aspetta, come si procede e quali sono i piani di Fago - dice una dei tre componenti del cdr, Bianca Di Giovanni -. Occorre difendere i livelli occupazionali e serve un solido piano industriale. Finora ci hanno tenuto all’oscuro di tutto, non si può continuare così».

Corriere 15.6.14
«Troppi due giornali». L’idea di fondere Unità e Europa
di A. Gar.


ROMA — A Matteo Renzi il nome «Unità», o meglio il marchio, cioè il brand come si dice oggi, piace. Così, probabilmente già da questa estate, le Feste del Pd si chiameranno Feste dell’Unità, come quelle del Pci-Pds-Ds, «per tenere insieme storie diverse», secondo la volontà di Renzi. D’altronde, spiegano i suoi collaboratori, il segretario del Pd non ha paura di dire «sinistra» e di fare «a sinistra».
Poi, c’è il giornale l’Unità , che è in gravissime difficoltà, con una vendita attorno alle 20 mila copie, con i 57 giornalisti che hanno preso lo stipendio di aprile a fine maggio e quello di maggio non l’hanno preso. E c’è Europa , che era il giornale della Margherita di Rutelli, ed è quasi scomparso dalle edicole, per puntare molto sul Web. «Abbiamo bisogno di mettere insieme e ripartire — ha detto Renzi all’assemblea Pd — non più permettendoci due giornali diversi». In platea sia Stefano Menichini, direttore di Europa , sia Luca Landò, responsabile dell’Unità , hanno avuto un sobbalzo. Non se l’aspettavano. «L’Unità non è un brand , è un progetto editoriale», dice ora Landò.
In realtà l’Unità , fondata da Gramsci nel 1924, non è più interamente proprietà del partito da 17 anni e non è più l’organo ufficiale da 14. Europa è nell’ambito della liquidazione della Margherita, dopo lo scandalo del tesoriere Lusi. Tuttavia, il Pd mantiene un suo manto protettivo su entrambe le testate, con quel che resta dei finanziamenti che vengono dai gruppi parlamentari, 3 milioni e mezzo per l’Unità nel 2012, ad esempio. La società editrice de l’Unità è da pochi giorni in liquidazione e il nuovo tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi, cerca nuovi soci (i costruttori milanesi Pessina) per una nuova società con i vecchi soci (Fago e Mian): «Vogliamo trovare una soluzione affinché il giornale possa vivere con tutte le sue potenzialità, non sopravvivere», dice Bonifazi.
Il piano quindi prevederebbe prima una stabilizzazione de l’Unità e poi una valutazione precisa sulla fusione l’Unità -Europa . A Europa i giornalisti sono 14 e il direttore Menichini dice che «l’unificazione sarebbe un bel progetto, anche se complicato». Menichini rivendica che Europa era renziana prima che Renzi arrivasse in cima al Pd: «È giunto il tempo di provare a fare un giornale politicamente schierato, ma indipendente, che cerca di corrispondere alla ventata nuova. Poi bisognerà considerare che l’Unità è un brand di grande valore, ma anche Europa ha il suo valore».
Un giornale per l’era renziana, potrebbe essere questa l’idea, da definire, del segretario del Pd.

l’Unità 15.6.14
«Sia Festa dell’Unità» Renzi ritorna al futuro
Dalla Grande scampagnata del ’45 al cambio di nome con la nascita del Pd
Ma ora il segretario vuole «ripartire dalle tradizioni»


Tutelare il brand, raccomanda il giovane segretario del Pd, Matteo Renzi. Molti pubblicitari sostenevano negli anni passati come i l «brand dell’Unità» fosse sempre forte. Un marchio resistente, un bel marchio per il giornale di un partito che voleva cambiare il mondo e che immaginava la solidarietà di classe tra i valori più alti da difendere e propagandare. «Unità» e basta, disse Gramsci, alla nascita del giornale novant’anni fa. «Unità » parola, secondo il fondatore del Pci, che dice molto agli operai ma che avrà anche un significato più generale.
I comunisti francesi scelsero per il loro quotidiano, alla fondazione, addirittura nel 1904, un titolo altrettanto bello anche se francamente immodesto: «L’Humanité». Unità è un impegno, umanità è già un dato di fatto. I compagni francesi inventarono anche le feste dell’Humanité. I compagni italiani arrivarono più tardi, grazie ai suggerimenti degli esuli che rientravano in patria, dopo aver visto all’opera les camerades a Parigi. Così si cominciarono a programmare feste del Pci fin dai mesi successivi alla Liberazione, la prima, il 2 settembre 1945, «Grande scampagnata dell’Unità», nei comuni di Lentate sul Seveso e di Mariano Comense, terra brianzola a nord di Milano. Per raccogliere fondi, ovviamente, perché, al contrario di quanto sostengono alcuni neofiti, la politica e i partiti vivono anche di organizzazione e di strutture materiali, se non si temono confronti accesi, discussioni, dibattiti a viso aperto, congressi, e per tutto questo occorrono quattrini.
«Dobbiamo avere il coraggio di non cancellare le tradizioni… Noi abbiamo bisogno di ripartire. Non possiamo più permetterci di avere due giornali diversi, due storie diverse...». Il riferimento è naturalmente all’Unità e a Europa… «E dobbiamo tutelare un brand: dobbiamo tornare a chiamare le nostre feste, feste dell’Unità… Il punto è riuscire a voler bene alla nostra storia e chi vuole bene a una storia non la relega in un museo delle cere ». Belle affermazioni del segretario («Parole come musica» ha commentato Fabio Querci, responsabile organizzazione del Pd a Bologna, capitale onoraria con Modena e Reggio delle feste dell’Unità).
Renzi si è guadagnato altri chili di simpatie e di consensi, dimostrando di saper interpretare un sentimento diffuso e pure concretizzare qualche intuizione pubblicitaria: a pochi, in fondo, tra organizzatori, cuochi, camerieri, militanti, simpatizzanti, era andata giù che l’onorevolissimo e storico titolo «Festa dell’Unità» venisse tradotto, nella 2008, in conseguenza della nascita del Pd, in un banalotto «Festa democratica» (banalotto perché tutte le feste, o quasi, anche quelle di caseggiato e persino quelle di Mastella, sono «democratiche»). Tanto è vero che «feste dell’Unità», in spregio alla nuova ortodossia, sono sopravvissute qui e là (come compare anche nel sito ufficiale), perché qualcuno, evidentemente, «vuole bene alla nostra storia».
Storia nobile e, in questo caso, cominciata appunto nel dopoguerra con qualche ritrovo in campagna, attorno al tavolo o a una balera, in attesa del comizio finale.
La formula (cui rimandano infinite imitazioni, a sinistra e a destra) si è ovviamente nel tempo arricchita e aggiornata a tal punto che le nostre feste dovevano pur subire qualche critica di gigantismo (resta memorabile quel numero del «Male», insuperato settimanale satirico, che descriveva in linguaggio e con retorica «bulgari» la festa di Genova). Ma la formula è rimasta quella: grandi tavolate, grandi dibattiti, intrattenimento, spettacoli, molta cultura, cinema, musica, indigestione di politica e di leader politici e infine il «comizio di chiusura», atteso in altri tempi (ai tempi di Togliatti, Longo, Berlinguer) con spasmodica curiosità perché il «comizio di chiusura » dava la «linea».
Alle feste dell’Unità, a Bologna, a Reggio, a Modena, a Firenze, a Torino, a Milano, si sono visti capi di governo, capi di partito, capi dei sindacati, intellettuali, artisti, attori, sportivi. Si sono viste delegazioni da tutti i paesi del mondo (i più amati, i vietnamiti, nei loro giorni di gloria antimperialista). Un anno, a Milano, si vide pure Silvio Berlusconi, quando si pensava che potesse ancora redimersi: naturalmente riuscì a prendersi un sacco di applausi.
Ma tra tanti autorevoli e a volte clamorosi personaggi è stata poi la gente la protagonista di tutte le feste dell’Unità, grandi e piccole, di sezione, di federazione, nazionale, gente autentica, in carne e ossa, non cliccatori in rete, fiumi di gente da una parte e dall’altra dei tavoli, quelli che lavoravano e quelli che consumavano, quelli che allestivano e quelli che passeggiavano, quelli che si giocavano le ferie così e quelli che, in ferie, passavano per ascoltare gli Inti Illimani o Vasco Rossi.
Una volta tanto si potrebbe usare senza spreco quella bellissima parola di cui qualche impunito si riempie la bocca: popolo. Perché le feste dell’Unità sono state davvero feste di «popolo», popolo trasversalmente presente tra identità politiche e partitiche assai diverse, popolo che rappresentava e ancora rappresenta l’unità di un paese, cioè un comune, solidale, positivo intento.

Repubblica 15.6.14
“La festa dell’Unità? Il marchio è dei Ds”
Il tesoriere Sposetti: “L’avevo detto che non si cambia nome alla Nutella. Ora mi vengano a chiedere il logo”
Una rivalsa per gli ex Pci : “A Renzi serve la nostra storia”. D’Attorre: adesso il Pd può rivalutare le origini
di Giovanna Casadio


ROMA. «E ora mi vengano a chiedere il logo». La vendetta si serve fredda. Ugo Sposetti, il compagno tesoriere dei Ds, lo sa così bene che sei anni dopo l’oblio, ora che Renzi pensa di far rivivere la Festa nazionale dell’Unità, cancellando l’insignificante brand di Festa Democratica, presenta il conto. Chi ha quel logo? Appartiene ai Ds, che sono sì politicamente scomparsi ma vivi e vegeti patrimonialmente e con i marchi di loro proprietà. «Non è che con un comizio si manda avanti un paese...». È la stoccata a Renzi e, a seguire, a tutti quelli che lo presero in giro quando diceva: «Ma verrebbe mai in mente a qualcuno di cambiare il nome alla Nutella?». Venne in mente. Segretario era Walter Veltroni, il Pd era una discussione continua su “nativi” e “amalgama” per superare le tradizioni post comunista e post dc, cioè Ds e Margherita che nel Pd appunto si erano appena fusi. La Festa dell’Unità scomparve, anche se molte feste locali dell’Unità sono sopravvissute, soprattutto in Emilia.
La “ditta” , il partito secondo Bersani, può in definitiva festeggiare. La tradizione Pci-Pds-Ds ha perso l’egemonia nel Pd, ma il boy scout Renzi riscopre la Festa dell’Unità. Nico Stumpo, responsabile dell’organizzazione della segreteria bersaniana, aveva all’epoca fatto diga: «Chiesi: ma a chi mai verrebbe in mente di rilevare la Coca Cola e cambiare nome? È un valore, ed è chiaro che le feste dell’Unità dovevano continuare a chiamarsi così». Le Feste dell’Unità hanno un legame popolare. Comunque, riflette Stumpo, «il Pd non rischia più di essere confuso con il vecchio Pci». Quanta acqua sotto i ponti. Maurizio Migliavacca ricorda l’ultima Festa nazionale dell’Unità a Bologna con Piero Fassino prima che i Ds si sciogliessero. Molto probabilmente la Festa quest’anno ricomincerà da Bologna.
È una piccola rivalsa per i compagni: «Serve il nostro marchio», ripetono. Alfredo D’Attorre, uno dei leader della corrente riformisti dem, commenta: «Ora che il Pd si è stabilizzato, con tranquillità si può rivalutare il rapporto con le origini. In tanti paesi le feste dell’Unità sono parte del paesaggio italiano, un elemento nazionale, in qualche modo un segno di riconoscimento». Renzi dal palco dell’Assemblea ieri scherza sul vice segretario Lorenzo Guerini, ex dc: «Ha avuto un malore quando l’ha saputo...». Guerini però non ci sta: «Ho passato anni a preparare salamelle alla festa dell’Unità di Lodi». Ma l’idea è venuta proprio a Renzi? Daniele Marantelli, varesino, detto “il leghista rosso”, ha domandato al portavoce del premier-segretario, Filippo Sensi: «Di chi è ‘sta genialata di ripristinare il nome Festa dell’Unità? Chi l’ha suggerito a Matteo?». «Farina del suo sacco», è stata la risposta. E Marantelli: «Una doppietta: nel Pse e oplà la Festa dell’Unità». L’applauso forse più lungo c’è stato in quel momento lì.
Anche i meno renziani nelle file dem ammettono a questo punto che «Matteo ha capito». Vincenzo Vita, civatiano, in sintonia con i senatori che si sono autosospesi dal gruppo del Pd dopo la sostituzione in commissione del dissidente Corradino Mineo, parla di «un Renzi post ideologico, che sa valorizzare quello che è popolare ». Un largo sorriso di sollievo spunta sulla faccia di Lino Paganelli, lo storico organizzatore della Festa nazionale dell’Unità prima e della Festa Democratica poi: «Se hai il 40,8% puoi permetterti di mandare in soffitta il dualismo...».

Repubblica 15.6.14
Tortellini e comizi un brand da tutelare
di Filippo Ceccarelli


LA RIVOLUZIONE di Renzi è una novità all’indietro. Dopo alcuni anni di indeterminatezza democratica, le feste del Pd tornano a chiamarsi “dell’Unità”. Ma più che a motivazioni politiche, il revival risponde a esigenze di marketing.
QUINDI commerciali e a loro modo sentimentali. Il giovane leader in jeans e camicia bianca l’ha spiegato chiaramente: si tratta di “tutelare un brand” - e sono sempre meno, anche nella platea dell’Ergife, quelli che inorridiscono dinanzi a questo gergo da pubblicitari.
Nel maggio del 2008, d’altra parte, quando si pose il problema di depurare dalla tradizione comunista questi appuntamenti estivi ribattezzandoli all’insegna del nuovo partito, proprio l’Unità ospitò vibranti lettere di protesta, parecchie delle quali mosse dallo stesso intento di Renzi: “Non si butta al vento un marchio conosciuto di idealità, spettacoli e buona cucina”. Lo stesso Sposetti, depositario dell’anima (e dei beni) del Pci sottolineò l’inopportunità di “Cambiare nome a un prodotto di successo come la Nutella”. Né poteva immaginare, Sposetti, che pochi giorni dopo essere stato eletto alla guida del Pd, sempre attentissimo ai segni del consumo, Renzi avrebbe lodato e preso a esempio di comunicazione personalizzata lo spot della Nutella - ma tant’è.“La Grande Festa Nazionale”, come da canzone di Edoardo Bennato (a suo tempo ripresa sarcasticamente da Craxi-Ghino di Tacco), sarà pure un’entità simbolica, ma ha di sicuro rilevanti ricadute economiche. Per cui senza troppa malizia si può ricordare che giusto un anno fa un altro estimatore di Renzi, Flavio Briatore, disse: “Se la organizzassi io, alla festa dell’Unità farebbero più affari di quelli che fanno oggi”.
Può darsi. Ma il dato significativo è che parecchi continuavano a chiamarla così: “dell’Unità”, e si capisce. In “Falce e tortello. Storia politica e sociale della Festa dell’Unità” (Laterza, 2012), la studiosa Anna Tonelli ricorda come alla metà degli anni 70, il periodo d’oro, Alberto Moravia avesse mirabilmente sintetizzato l’evento rituale come la combinazione di tre grandi “idee”: il mercato, i soviet e la festa cattolica.
Dal primo raduno a Mariano Comense (ne accenna da testimone il giovanissimo don Giussani), sui prati partigiani ancora con il mitra a tracolla, fino all’ultima festa del Pd, a Genova, con Renzi non ancora leader e tuttavia accolto sul palco al suono di “We are the champion” dei Queen, la stessa colonna sonora utilizzata in quella stagione dall’”Esercito di Silvio”, le culture politiche hanno fatto a tempo a dissolversi - e un po’ anche a ingaglioffirsi.
Così oggi rischia di suonare definitivamente retorica l’esaltazione dei “volontari”. Di solito s’invocano gli addetti alle salamelle, ma a suo tempo D’Alema polemizzò con Montanelli tirando in ballo le impastatrici di tortellini. “Volontari”, comunque, che lo scorso anno hanno addirittura fatto sciopero. A pensarci bene, nel loro generico gigantismo e nella densa vacuità di spettacoli e offerte culturali, già da tempo le feste avevano dismesso l’originaria vocazione di rappresentare un microcosmo di una ideale società in qualche modo alternativa.
Tale pretesa, invero ai limiti del possibile, si è nel corso degli anni consumata e quindi estinta a beneficio di un intrattenimento sempre più facile, senza aggettivi, e di una gastronomia anche apprezzabile, sino a quando le fatidiche transenne non si sono aperte a sfilate di moda, pubblicità invasiva, vendita di cianfrusaglie, lezioni di Borsa, roulette, corsi per croupier, slot-machine, astrologia, lap-dance e spogliarelli, prima femminili poi anche maschili (vedi lo stripman “Manuel il Vichingo”, già animatore di un corso di seduzione sulla spiaggia di Milano Marittima).
Nei viali di queste città ormai prive di cuore, fra gli stand e i gazebo talvolta assegnati alle più impudiche sponsorizzazioni (Fininvest e Ciarrapico compresi) insieme alle famigliole e ai venditori di coccardine si incrociavano missionari e metallari, antimafia e europeisti, distributori di cocktail alcolici come di succhi biologici, ricordi di Nilde Jotti e session di danza afro-cubana. Un pubblico, oltretutto, convocato da poster di indefinibile, ma sintomatica e ammiccante valenza, ieri Marilyn con il vento che le alza la gonna, quest’anno il giubbotto di Fonzie e il pollice che fa ok, #happidays.
Ecco. Forse è proprio l’inesorabile secolarizzazione che oggi consente a Renzi, leader non ancora 40enne, di rilanciare con il nome di un tempo che egli non quasi ha conosciuto, le feste dell’Unità. E il dubbio, o magari il crudele scherzetto della storia, è che ingolosito dal brand l’acclamato rottamatore, nonché risoluto liquidatore del comunismo all’italiana, si prenda ciò che ne resta per riproporlo in termini di vagheggiamento affettivo, nostalgia in provetta da assaporare nelle sere d’estate senza traumi, conflitti o malinconia. Puro e profittevole vintage, a parziale riprova che il domani sta nel passato e l’estetica si è fatta politica - anche se prima o poi occorrerà trovare anche a lei un altro nome.

La Stampa 15.6.14
Sel, sconfitta la linea filo-Renzi
Vendola: “Dialogo e sfida col Pd”
Il leader all’assemblea nazionale: «Dovremo essere un’anguilla».
La polemica della minoranza: «Perché non fondersi con i Dem?»

qui

l’Unità 15.6.14
Vendola al Pd: patto per il governo
Il leader scongiura la scissione e lancia un messaggio a Renzi: «Via Ncd e l’austerity, dentro noi ed ex M5S»


Nichi Vendola inizia le sue conclusioni con un elogio della mediazione, che «non è sinonimo di cose brutte o compromettenti ». E il risultato della lunghissima assemblea nazionale di Sel, che si è svolta ieri a Roma, è proprio questo: una sintesi, fortemente voluta dal segretario, che scaccia dai radar, almeno per il momento, lo spettro di una «frattura» del partito.
«Siamo vivi e vegeti e ancora in campo », scandisce Vendola, che poi paragona la sua Sel ad una «anguilla» veloce che «sfugge alla cattura» e al bivio che sembrava imporsi nelle ultime settimane: quello tra una confluenza nel Pd o un matrimonio con i partner di sinistra della lista Tsipras, compresi gli acerrimi rivali di Rifondazione. «No, io indietro non torno», spiega il leader e qui parte l’applauso più forte. «Noi restiamo nella terra di mezzo di una sinistra alla ricerca, stiamo con Tsiprasma non contro Schulz».
Alla fine il suo documento, l’unico presentato (che propone una conferenza di programma per l’autunno), riceve solo 10 astensioni e circa 200 sì, ma tra gli astenuti ci sono il capogruppo alla Camera Gennaro Migliore e la sua vice Titti Di Salvo. «Noi non censuriamo i pensieri differenti», sorride il governatore pugliese. «Nessuno si sogna atteggiamenti disciplinari, anche se chi dissente è il nostro capogruppo». Un modo per sfidare Renzi, che verso i suoi dissidenti è stato assai più duro.
Ma la partita col premier non finisce qui. Vendola non lesina critiche a Renzi, spiega che «gli annunci e le slide prima o poi perderanno efficacia» e definisce il renzismo «una moda transitoria». E tuttavia, alla fine, il governatore lascia aperto il dialogo col Pd, e annuncia di voler sfidare il premier: «Se nel semestre europeo riuscirà ad uscire dalla gabbia dell’austerità noi siamo pronti a discutere senza tabù». Come? Vendola spiega di essere molto interessato a «collaborare con gli ex M5S che stanno per dare vita a un gruppo al Senato». «Può essere un patto di consultazione, un intergruppo, magari un gruppo comune. Noi vogliamo essere al centro tra la crisi di rappresentanza del M5s e il dissenso nel Pd, per dare vita ad una soggettività plurale che vuole costruire un nuovo campo di centrosinistra». L’obiettivo è rendere possibile una nuova maggioranza, «perché noi con Ncd non abbiamo nulla da spartire». Vendola conferma che ci sono contatti in corso con gli ex M5S, curati dai senatori De Petris e De Cristofaro, che ieri dal palco ha rilanciato questa prospettiva. «Si può aprire una nuova partita dentro questa legislatura, ma Renzi deve uscire dalla gabbia», dice il leader. Non sarà una strada facile, visto che gli ex M5s sono molto frastagliati al loro interno e solo una parte viene da un percorso di sinistra. «Ma spetta a noi fare una proposta e farla rapidamente, anche per dare una sponda a chi è ancora dentro il M5s», incalza il deputato Erasmo Palazzotto.
In questo cammino un primo step decisivo ci sarà martedì, quando il gruppo dei deputati si riunirà per decidere come votare sugli 80 euro. Migliore ieri ha annunciato che proporrà al gruppo di votare sì, m ala truppa per ora è spaccata. «Si discuterà serenamente, auspico che alla fine la decisione presa sia seguita da tutto il gruppo», dice Vendola. Alcuni deputati, come Alessandro Zan, Martina Nardi, Ileana Piazzoni e Fabio Lavagno, sono molto orientati a votare sì in ogni caso al decreto (ma non alla fiducia). Mentre il coordinatore Nicola Fratoianni (molto soddisfatto per l’esito dell’assemblea) sta lavorando per l’astensione. Sul tema ieri l’assemblea era divisa: «È un segnale di redistribuzione », per Titti Di Salvo. «Danno con una mano 80 euro e poi fanno chiudere le scuole alla regioni», replicava il vicepresidente del Lazio Massimiliano Smeriglio, uno dei pasdaran della lista Tsipras.
Che ne sarà del progetto greco? Fratoianni chiede di partecipare alle manifestazione dell’11 luglio a Torino in occasione del vertice Ue sulla disoccupazione giovanile. Altri storcono il naso «Continueremo a frequentare tutti i luoghi della lista Tsipras», assicura Vendola. «Senza paura di contaminarci, come abbiamo fatto all’epoca dei Social forum». Musica per l’ala movimentista, mentre Claudio Fava, ex Ds, uno dei fondatori di Sel, è durissimo: «Il partito è immobile, nel documento di Nichi c’è tutto e il contrario di tutto. Non ci serve una conferenza programmatica, ma un congresso straordinario per fare chiarezza». La sua proposta però non trova seguito. E l’anguilla Sel per ora è sfuggita al rischio di deflagrazione.

Repubblica 15.6.14
Vendola
“Al Senato un patto con gli ex del M5S e il Pd molli Alfano”
intervista di Tommaso Ciriaco



ROMA. Ha appena strappato a larghissima maggioranza il via libera dell’assemblea nazionale al suo documento, elaborato dall’area dei non allineati di Ciccio Ferrara, Peppe De Cristofaro e Celeste Costantino. E ha evitato, almeno per ora, la scissione di Sel. Mesi di conflitto interno al partito pesano parecchio sulle spalle di Nichi Vendola e adesso il governatore pugliese si mostra soddisfatto: «È andata benissimo ». Certo, il capogruppo Gennaro Migliore si è astenuto, parecchi deputati hanno addirittura lasciato la sala prima del voto. Il leader, però, guarda avanti. Di sostenere l’esecutivo e costruire con il Pd un soggetto politico unitario - come chiede la minoranza non se ne parla. Vendola, però, manda comunque un segnale a Matteo Renzi: «Se si rompe la gabbia dell’attuale maggioranza di governo, noi siamo pronti a discutere di tutto». Ecco come.
Alla sinistra del Pd molto si muove. I senatori dem dissidenti, il gruppo degli ex grillini. È possibile costruire con loro un gruppo unitario a Palazzo Madama?
«Penso che occorra siglare un patto di consultazione, un intergruppo o magari anche un gruppo. Dobbiamo essere al centro tra la crisi di rappresentanza del M5S e il dissenso nel Pd».
Insomma, è possibile. Per fare cosa?
«Penso alla nascita di una soggettività plurale capace di costruire un nuovo campo di centrosinistra. Con una clausola anti-destra».
Ha avuto contatti con i potenziali
compagni di strada?
«Certo».
Se Renzi rompe con Alfano, è disponibile a far parte di una nuova maggioranza?
«In Europa la gabbia è l’austerità, in Italia sono le larghe intese. A tutto questo io dico no. Ma se il governo rinuncia al rapporto con Formigoni e diventa critico - nei fatti - con l’austerità, siamo pronti a discutere. Anche perché è Renzi che rischia di restare prigioniero di questa situazione».
Quindi lo schema è possibile senza nuove elezioni?
«Penso che si possa aprire una partita in questa legislatura».
Con il suo documento, intanto, tiene assieme Sel. Parecchi deputati, però, già chiedono di votare a favore del decreto Irpef. Ne discuteranno martedì, ma alcuni sosterranno comunque il testo del governo.
«Sugli ottanta euro penso che si debba decidere laicamente. E vedere se accentuare il dato redistribuitivo o il problema delle coperture, perché la misura si finanzia con tagli agli enti locali».
E se il gruppo andasse in ordine sparso?
«Io penso che nel gruppo debba esserci una discussione e, poi, un atteggiamento prevalente a cui attenersi».
Non c’è il rischio che il gruppo si spacchi?
«No, l’ho detto: discutiamo serenamente. Capisco il sentimento che li anima, non vogliono far passare Sel come nemica delle politiche di redistribuzione ».

il Fatto 15.6.14
Un’anguilla per ripescare Sel
Vendola riesce a tenere uniti i filo-Tsipras con chi guarda al Pd
Ma è pace armata


di una sinistra innovativa, aperta, inclusiva”. Nel primo caso, si tratta di partecipare ai due incontri già fissati il 29 giugno dai “giovani” della lista e il 19 luglio dai comitati Tsipras. Sull’altro versante, invece, per venire incontro agli “anti-Tsipras” Vendola lancia la Conferenza di programma con un riferimento storico sorprendente: la conferenza sui “Meriti e i bisogni” che organizzò l’allora numero due del Psi, Claudio Martelli negli anni 80. Un appuntamento “aperto” a tutta la sinistra possibile, nei partiti, nella società, nella cultura, disponibile a discutere. Un modo per tenere vivo il ruolo di Sel e la sua funzione di cerniera tra la sinistra più estrema e il Pd.
Che quella di ieri sia stata una “pace armata ” lo si è capito dagli applausi insistiti all’una o all’altra posizione. “In realtà siamo ancora in mezzo al guado” confida un dirigente. Nel partito c’è infatti chi punta decisamente sulla lista Tsipras, come il coordinatore Fratoianni, che lancia anche la partecipazione al controvertice di Torino dell’11 luglio o il responsabile organizzativo, Massimiliano Smeriglio che sottolinea l’importanza della partecipazione ieri di Moni Ovadia e Curzio Maltese. Ma c’è anche chi, come l’ex Ds Fava, l’ex Prc, e capogruppo alla Camera, Gennaro Migliore ma anche il deputato Francesco Ferrara, chiede che Sel punti “a sfidare il Pd” non abbandonando “una cultura di governo”. Inoltre, se ieri l’opzione del “partito unico”, lanciata nei giorni scorsi da Migliore, non è stata riproposta (difficile dopo il caso Mineo) il tema resta del tutto aperto e si riprorrà, nonostante gli atteggiamenti di Renzi.
Il documento di Vendola, in ogni caso, è passato a larghissima maggioranza ma Gennaro Migliore si è astenuto e Claudio Fava ha annunciato nel suo intervento il proprio non voto.
LO SCONTRO interno, inoltre, è destinato a riemergere sul rapporto con il governo Renzi. Vendola ha confermato che Sel rimarrà all’opposizione ma a chi ha chiesto un’iniziativa parlamentare per coalizzarsi con i fuoriusciti del M5S e con i dissidenti del Pd in modo da “cambiare la maggioranza” ha risposto che “se si rompe la gabbia del governo si discute di tutto”. Nell’immediato, però, incombe il voto sul decreto Irpef che prevede gli 80 euro. Migliore ha proposto apertamente di votare a favore, “altrimenti dovremmo chiedere ai lavoratori di restituire quei soldi”. Vendola ha preso tempo rimandando la decisione a una discussione. Nell’attuale maggioranza si fa strada dell’astensione, considerata da Migliore “politicista”. La partita continua.

l’Unità 15.6.14
La Cgil stronca la riforma Pa: «Una vendetta»
Il sindacato va giù duro sul dimezzamento dei permessi. Delusa Camusso: «Serviva più coraggio»
Rabbia Uil: «È accanimento»

Bonanni (Cisl): «Protesteremo in modo ghandiano, senza sciopero»

Nessuno si aspettava grande entusiasmo sindacale nei confronti di una riforma che dimezza i permessi retribuiti ai rappresentanti dei lavoratori, che rende obbligatoria la mobilità del personale entro i 50 chilometri, e che prevede un rapporto di uno a cinque tra nuovi assunti e dipendenti in uscita verso la pensione. Ma quella che i sindacati riservano alle misure appena presentate dal ministro Marianna Madia è una netta stroncatura.
E certo non distenderanno l’atmosfera le parole che la responsabile della Pubblica Amministrazione nel governo Renzi ha riservato ieri ai confederali: «Non è responsabile fare opposizione perché rispondiamo a una richiesta sociale». Ragion per cui, l’esecutivo si aspetta di ricevere il loro consenso verso «un grande progetto di cambiamento» che, ha assicurato Madia, è stato fatto «con una logica di equità non punitiva, insieme ai dipendenti pubblici non contro di loro».
LA BOCCIATURA DELLA CGIL Per il momento, però, la riforma raccoglie solo critiche. Anzi. La Cgil si rifiuta proprio di parlare di riforma: «Nel decreto legge non si intravede alcuna misura che possa favorire realmente il rapporto tra i cittadini e le pubbliche amministrazioni», visto che «non vi sono norme che semplifichino effettivamente l’accesso ai servizi pubblici e riducano il carico burocratico per i fruitori ». Laconica la segretaria generale Susanna Camusso, che pure oggi, insieme agli altri leader confederali, incontrerà il ministro Madia per chiedere la cessazione del blocco contrattuale e «vedere che si faccia una riforma uscendo dalla logica dei puri tagli» che attualmente caratterizza il provvedimento: «Avremmo voluto dal governo una maggiore dose di coraggio nell’affrontare il tema del riordino della pubblica amministrazione».
Per la Cgil, inoltre, «l’intervento che dimezza le libertà sindacali colpisce, come vendetta, direttamente l’attività dei delegati sui posti di lavoro e colpisce le stesse organizzazioni che ogni tre anni si misurano anche elettoralmente per stabilire la loro rappresentatività nella contrattazione». Se questo è il provvedimento, conclude la Cgil, «non vi può che essere delusione e sconcerto per una riforma annunciata come epocale».
I toni non cambiano nemmeno in casa Cisl. Il leader Raffaele Bonanni esclude per ora la possibilità di indire uno sciopero, e sceglie invece di avviare «una campagna di informazione» e «una protesta ghandiana», fatta dalla «volontà giorno per giorno di informare i lavoratori del pubblico impiego e i cittadini di quel che emerge dai provvedimenti ». Ma questo non comporta certo alcuna accettazione dei contenuti: «Visto quanto trapela sui testi dei provvedimenti, non si capisce dove stia la riforma» continua il coordinatore Cisl del Lavoro Pubblico, Francesco Scrima, «manca una visione d’insieme, un vero progetto di innovazione» in presenza invece di «titoli più o meno suggestivi, suscettibili di qualche impatto comunicativo, ma tutti da verificare nella loro effettiva incidenza».
Non stupisce, dunque, che la confederazione contesti la parte riguardante il ricambio generazionale, fatta di «grande enfasi nel titolo ma scarsissima sostanza», poiché «i dati della Ragioneria dello Stato danno in uscita un milione di dipendenti pubblici nei prossimi 10 anni, e 230mila solo nei prossimi quattro, mentre il decreto annuncia ne 15mila».
Molto dura anche la Uil, secondo cui la riforma «non è certamente in grado di valorizzare la pubblica amministrazione, né chi ci lavora». Anzi, «si accanisce con i dipendenti» e «pensa di fare entrare 15mila giovani a costo zero». Per il sindacato guidato da Luigi Angeletti, invece, per migliorare la macchina pubblica «si sarebbe dovuto partire dal reperimento di finanziamenti, per investire in formazione, in tecnologia, in innovazione dell’organizzazione e, soprattutto, dal coinvolgimento di chi ci lavora, valorizzandone la professionalità e riconoscendo i loro diritti, a partire dal rinnovo dei contratti».
CONFERMATO SCIOPERO DELL’USB
A maggior ragione, l’accoglienza riservata ai provvedimenti del ministro Madia non poteva che essere gelida da parte dell’Unione Sindacale di Base, che già da tempo ha proclamato uno sciopero generale di tutto il lavoro pubblico per il prossimo 19 giugno: «Quanto emerso dal Consiglio dei Ministri conferma e rafforza le ragioni e la necessità della nostra protesta» spiega l’Usb.
Che attacca «una riforma mirata a ridurre la pubblica amministrazione a servizio delle imprese», che «conferma il blocco dei contratti e ignora 250mila precari, per i quali non si accenna ad alcuna prospettiva di stabilizzazione » a fronte di «stucchevoli elementi demagogici sul ricambio generazionale », e che «in funzione di una idea vecchia ed autoritaria del mondo del lavoro, decreta il taglio dei permessi sindacali».

il Fatto 15.6.14
Il giovane governo dei numeri a caso
La Riforma Renzi-Madia detta “della Pubblica amministrazione”, è una riforma che non c’è
L’importante è sparare cifre non verificabili
di Furio Colombo


Quindicimila giovani assunti dallo Stato”. Ragazzi, mi tocca il compito di comunicarvi, quasi da solo, che non è vero. Evidentemente quei quotidiani hanno pensato che bisognava pur dare un titolo sensato alla Riforma Renzi-Madia detta “della Pubblica amministrazione”, una riforma che non c’è. Vediamo. Per la giovane ministro del giovane governo presieduto dal giovane presidente Renzi, una riforma è una promessa molto ripetuta e gridata tenendo le dita incrociate tipo scout. Si comincia subito col dare numeri a caso, tanto non tutti e non subito possono verificare. Esempio: fino a quanti km si può spostare un padre o una madre di famiglia (che per sventura siano impiegati dello Stato in questa fase della storia) perché possano sopportare il trasferimento coatto (è questo che si promette, il trasferimento non voluto, come riforma)? Ripeto la domanda: fino a quanti chilometri? Cento va bene? Che ne dite? Sembra una riforma coraggiosa, perché è dura, cattiva, oltreché inutile.
Passa un giorno dall’annuncio che getta molti dipendenti pubblici nella costernazione, e poi si viene a sapere che 100 km sono troppi, li spendi in viaggio o devi farti, con lo stesso stipendio, una seconda casa. Facciamo 50? 50, quasi nessun ufficio, nel quale le persone interessate e angosciate lavorano per lo Stato, dista 50 km da un altro ufficio uguale o con funzioni simili, a meno che la buona e moderna riforma preveda il passaggio dall’archivio dei Beni culturali ai Vigili del fuoco, tanto per farti vedere chi comanda. Ecco un’altra caratteristica della Riforma della Pa che porterà le firme del giovane premier Renzi e della giovane ministro Madia: essere cattivi come i veri manager privati, e far pagare ai piccoli.
FATE CASO: qualunque cosa accada, trasferimento, spostamento, nuova mansione, buon compleanno, l’indicazione è “con stipendio anche minore” o addirittura “ridotto del 30%” oppure “con riposizionamento a rango inferiore”. Come dire: ti prometto un futuro di stipendi più bassi e di luoghi più scomodi e, se sei già specializzato in qualcosa, avrai subito una mansione diversa. Perché queste sono le vere riforme: spiacevoli. Strano che tutti coloro che, insieme al ministro, hanno messo mano alla Riforma della Pubblica amministrazione italiana non abbiano ricordato che chi occupa, bene o male, posti nello Stato, lo ha fatto e lo fa per concorso, e il bando di concorso, che ha un valore impegnativo per il datore di lavoro Stato, oltreché per il personale assunto, precisa ogni dettaglio su trattamento, funzioni, doveri e garanzie
Ma allarghiamo un po’ lo sguardo su ciò che ci dicono della riforma anche dopo lo storico Consiglio dei ministri del dopo Vietnam, e che è quasi niente, solo un decreto legge. Il resto è (sarà) delega. Dunque saltano i 100 km. Ma si insiste che la grande novità è lo spostamento. Chiunque può essere messo in mobilità e te lo annunciano e ripetono in modo da farti sapere che non puoi star tranquillo. Chiunque voglia vendicarsi di te, nel tuo ufficio, d'ora in poi ha il suo strumento per farlo. Ah, poi c'è l'idea, molto giovanile, da London School of Economics, di stabilire che lo stipendio dei dirigenti dipende dall’andamento del Pil. Serve a cancellare ogni traccia del premio per chi lavora e produce. Ma che legame ci può essere fra una persona e il Pil? Tanto vale, allora, decidere uno scatto tutte le volte che escono, su ruote prestabilite, da uno a cinque numeri indicati dal dipendente che aspira al premio. Poi c’è il ricambio generazionale . Puoi credergli se ti dicono che, abolendo l’abitudine di trattenere in servizio (di solito per due anni) dei pensionandi utili nel lavoro che fanno, si sbloccano di colpo 15 mila posti per i giovani? Si sbloccano come? Sono già lì sui gradini e poi entrano come a scuola, oppure bisognerà mettere su un concorsino che porta sempre via un paio d'anni? Non dimenticate la “semplificazione”. Hanno deciso che, di tre uffici di registro automobilistico ne faranno uno solo. È giusto, è poco, non conta niente, non incide su nulla. Risparmio del personale: da tre a cinque persone. Certo, in momenti di crisi tutto conta.
E QUI VIENE la seconda parte del discorso. La Pubblica amministrazione è la macchina che fa funzionare lo Stato. Persino nell’America che viene continuamente descritta come liberista e fai da te, la macchina dello Stato è immensa e tende a essere rapida e perfetta. Ripeto un esempio che ho fatto altre volte, quando si parla di scardinare la burocrazia col bulldozer. A New York nessuna ristrutturazione può iniziare in case private (neppure una cucina o un bagno) senza verifica e permesso del comune, la presentazione, la firma il progetto, e assicurazioni anti infortunio individuali per ciascuno dei prestatori d'opera, anche se sono imbianchini di interni. Se i documenti mancano, stop immediato e multa, a cura di una burocrazia implacabile.
È la stessa, competente, efficiente, rapidissima, che ha reso rischiosissima l'evasione fiscale. Abbiamo, credo, chiarito una cosa su cui volentieri si fa confusione: la Pubblica amministrazione di cui è riformatrice la giovane ministro Madia, è la burocrazia, la stessa contro cui il suo giovane primo ministro Renzi voleva buttarsi con il bulldozer. È dunque una macchina grande e complessa che richiede conoscenza di ciò che è adesso, e progetto di ciò che dovrebbe essere dopo. Richiede anche una visione politica: Ronald Reagan sosteneva che bisognava chiudere tutta la baracca perché “è lo Stato il problema”. Roosevelt, Kennedy, Carter, Clinton e Obama dicono “È lo Stato che deve intervenire, a cominciare dalla scuola pubblica e dalla salute”. Prima di spostare i piccoli pezzi del loro gioco, Madia e Renzi devono prendere posizione su queste due visioni dello Stato, della vita, della politica. Devono scegliere e farlo sapere.

La Stampa 15.6.14
Madia: “Riforma difficile Ogni categoria fa la sua resistenza”
Il ministro: alla Camusso dico niente polemiche, alla fine decideranno il Parlamento e i cittadini
intervista di Francesca Schianchi


Appena finito il suo intervento all’Assemblea nazionale del Pd sulla riforma della Pubblica amministrazione, una delegata, dipendente pubblica, ferma il ministro Marianna Madia: «Facilitate la mobilità volontaria», le chiede. «Lo stiamo facendo, ma non sa quante resistenze…».
Quali resistenze, ministro? 
«Capita che un dipendente chieda di essere trasferito ma la sua amministrazione tenti di trattenerlo. Con la riforma il trasferimento si può fare anche se l’amministrazione non dà il nullaosta, purché il dipendente chieda di andare in una sede che ha più carenza di personale di quella da cui proviene. Ma abbiamo incontrato grosse resistenze perché – e questo è un problema - le amministrazioni tendono a considerare il dipendente proprietà privata, e a ragionare ciascuna solo per sé».
Non sarà l’unica norma su cui avete incontrato resistenze... 
«Chi si sente colpito sbaglia. Tutte le scelte che abbiamo fatto sono improntate a una logica di giustizia ed equità sociale, mai a una logica punitiva. Mi sembra corretto che un magistrato amministrativo distaccato in un ministero debba andare fuori ruolo e non possa il giorno dopo decidere della norma che ha scritto il giorno prima. O che chi ha fatto parte di una Authority non possa poi per quattro anni lavorare per chi fino a ieri vigilava. O, ancora, che chi è in pensione non possa più lavorare a titolo oneroso per le amministrazioni: la modernizzazione si fa con i giovani».
Con i sindacati com’è il rapporto? 
«I sindacati fanno opposizione al metodo: io ho inviato loro un testo di 11 pagine con i principi su cui ci muoviamo, mentre loro vorrebbero concertare ogni comma di ciò che si approva. Quello che mi dispiace è che, quando li ho incontrati, la cosa su cui più si sono scaldati è stato il taglio dei permessi sindacali retribuiti: i partiti si tagliano il finanziamento pubblico, anche i sindacati devono rendersi conto che c’è una domanda sociale».
Non è stato, dice la Cgil, l’unico tema sollevato. 
«Certo, abbiamo parlato di molte cose: ma la riunione s’è scaldata su quel punto». 
Il segretario della Cgil Susanna Camusso dice che si aspettava sul tema «più coraggio». 
«Nella riforma non ci sono tagli lineari e ci sono norme forti che non si vedevano da secoli. Ma non voglio fare nessuna polemica con il sindacato: la riforma la giudichino il Parlamento e i cittadini». 
Teme uno sciopero? 
«Spererei di no. I sindacati hanno ragione quando dicono che bisogna sbloccare la contrattazione economica: ma, per farcela, bisogna fare uno sforzo comune di riorganizzazione e recupero delle risorse. Mi aspetterei che stessero dalla nostra parte».
Per quanto riguarda la temuta mobilità obbligatoria, alla fine si potrà fare entro 50 km. 
«Le tabelle di equiparazione che servono per renderla possibile, che nessuno ha mai attuato, proverò a farle con sindacati e Conferenza unificata: se però non ce la facciamo entro 60 giorni dalla conversione del decreto, procederò unilateralmente. La mobilità obbligatoria è uno strumento per far sì che le persone siano al posto giusto e non ci siano esuberi: il faro è che nessuno deve rimanere fuori».
Lei ha detto di aver cambiato idea su qualche punto grazie alle quasi 40mila mail ricevute dai cittadini: su cosa? 
«Sull’esonero dal servizio: avevamo proposto una sorta di buonuscita per dirigenti pari al 65% della retribuzione. Molti l’hanno criticata vedendola come un regalo di soldi senza lavorare. Sul punto ci siamo presi una pausa di riflessione».
Quale risparmio porterà la riforma? 
«Certificherà tutti i calcoli il ministero dell’Economia. La ratio però non è quella della spending review, i risparmi si capiranno col tempo. Anche perché ci sono norme che magari costano ora, ma poi faranno risparmiare».
Teme stravolgimenti del testo in Parlamento? 
«Ben venga se in Parlamento si riesce a fare ancora meglio. Ma ogni norma presenta resistenze di categoria: importante è che il Parlamento lavori per una PA più moderna e giusta e non si faccia portatore di quegli interessi di parte».

Repubblica 15.6.14
Strage di migranti, 10 morti e 40 dispersi



PALERMO. È successo di nuovo. A un mese dall’ultimo naufragio che ha fatto 17 vittime al largo di Lampedusa, il Mediterraneo ha restituito i corpi senza vita di altri dieci migranti e almeno quaranta persone mancano ancora all’appello. È il bilancio dell’ultima tragedia consumata venerdì pomeriggio a 40 miglia dalle coste libiche: un gommone è affondato, trascinandosi giù circa novanta profughi salpati dalla Libia. Solo in trentanove sono stati ripescati dalle navi della Marina militare impiegate nell’operazione “Mare nostrum”, che hanno salvato anche 140 passeggeri di un gommone vicino. A nulla è valso l’Sos lanciato da un aereo portoghese che per primo ha avvistato le imbarcazioni alla deriva. Quando i mercantili dirottati sul posto e l’elicottero della nave Scirocco sono arrivati, il gommone era già in fondo al mare. Macabro epilogo di un fine settimana di sbarchi, con i militari impegnati a salvare 771 immigrati in tre diversi interventi e più di mille e cento profughi giunti nei porti di Catania, Palermo, Trapani e Reggio Calabria in 36 ore. Le salme delle vittime arriveranno a Palermo stamani a bordo della nave Etna carica di altri 767 immigrati. Il naufragio è solo la punta di una giornata di salvataggi senza sosta. Mentre gli uomini della Marina erano ancora impegnati a cercare i dispersi, nel Canale di Sicilia sono stati soccorsi altri due barconi con 592 persone. Nel frattempo al porto di Trapani sono approdati 93 migranti e 260 africani sono sbarcati a Catania. In 181, invece, sono arrivati a Reggio Calabria. Sfonda così quota 50 mila il numero degli arrivi.

il Fatto 15.6.14
Sicilia, mare di cadaveri mentre l’Europa riflette


Siracusa. Il canale di Sicilia sono solo feretri, fuori dalla metafora. E i siciliani raccolgono i morti, o li lasciano negli abissi, dimenticando persino l’esercizio del cordoglio. Mentre a 40 miglia a nord dalla Libia ne pescavano dieci in un gommone-carretta di cento (e sono a decine i corpi dispersi), l’altro ieri il ministro degli Interni, Angelino Alfano, da Firenze, tuonava verso l’Europa: “L’Italia è un paese accogliente ma non può accogliere tutti. Mare Nostrum non è solo un problema italiano”. Ieri Alfano ha incontrato a Catania i sindaci coinvolti, è un problema dell’Europa, dice, “anche perché il disastro della Libia è stato creato dalla comunità internazionale”. Nel frattempo un continente intero esonda quotidianamente. In uno dei porti scelti da Mare Nostrum, Augusta, si raccolgono le firme per rispedire a casa i profughi. Duemila firme contro gli stranieri , da far tremare i polsi. Sono le associazioni di destra a sollevare la petizione. Il problema è che a raccoglierla sono troppi. A Portopalo, qualche giorno fa, si è consumato un preludio di guerriglia urbana. Neri da una parte, indigeni, dall’altra strade bloccate, giovani africani armati di pietre per difendersi o attaccare, dall’altra parte ancora giovani del posto armati parimenti, anziani irretiti alla stessa maniera urlavano in un delirio generale: “via da casa nostra” o “ce li hanno portati i comunisti”. Davvero senza senso, nel pieno di una guerra oramai, lo stravolgimento è tale da corrispondere perfettamente a una promessa iniziale ovvero il disordine sociale, una vera e propria bomba pronta a detonare alle frontiere libiche o in attesa nel deserto o qui giù. Non si vede la fine. Le fregate della Marina continuano a trasportare uomini, trasbordi ossessivi, i numeri si perdono, si perde la conta: quanti vivi e quanti morti, 260 eritrei vivi a Catania, 700 verso Palermo, compresi i dieci senza vita. E così via. Si perde il conto.
I DODICI MORTI a Pozzallo, qualche giorno fa, e ancora carrette all’orizzonte. Non c’è più tempo. Neanche per piangere i caduti in mare, di esercitare la compassione. Un’isola da sola contro il più straordinario stravolgimento sociale del secolo. Una scommessa titanica, già persa, perché la Sicilia è implosa. Una terra poverissima. Ad Augusta c’è solo una mensa per i poveri, i poveri sono troppi. Stessa cosa a Siracusa. E questo dovrebbe bastare. Così siamo in guerra. La Sicilia in guerra, italiani contro africani. Niente di più pietoso, ma il fatto è che nessuno è in grado di esercitare la pietà. Perché si è perso il conto dei vivi e dei morti e di quel che compete all’animo umano. Così ancora urla nella notte, provenienti dalle carrette, stavolta in acque greche, 281 profughi, si sono proclamati siriani, 93 bambini, 6 donne, salvati dalla Guardia Costiera di Roccella Jonica. I centri di contenimento sono off, gli immigrati sono ombre, non arrivano nemmeno più nei Cie. L’Europa è un concetto vago nella terra di nessuno.

Corriere 15.6.14
Stragi del mare, l’Italia ormai è sola
Un’emergenza da affrontare senza Ue
di Fiorenza Sarzanini


L’ora di arrendersi adesso è davvero arrivata. Di fronte a questi nuovi morti in mare, di fronte ai volti sconvolti e agli occhi terrorizzati di chi invece ce l’ha fatta, è il momento di fermarsi davvero. Perché l’Italia deve prendere atto di essere ormai isolata, addirittura presa in giro dalle autorità europee che continuano a promettere aiuti e interventi, che assicurano appoggio e investimenti finanziari. Non è successo fino ad ora e non succederà in futuro. Quel che accade in quel tratto di mare che ci separa dal Nord Africa è un affare di cui nessuno vuole più occuparsi.
È inutile credere che alla fine ci sarà una collaborazione, illudersi sulla realizzazione di un piano d’intervento internazionale. I migranti in fuga dalla guerra e dalla povertà che seguono la rotta verso la Sicilia sono evidentemente «merce umana» per i trafficanti e «vuoti a perdere» per gli Stati europei e per il governo dell’Unione. Dunque spetta a Roma affrontare la situazione, prima che l’emergenza diventi davvero difficile da gestire. Prima d’assistere durante l’estate a un’invasione o, peggio, a un naufragio dopo l’altro. L’operazione «Mare Nostrum», che tante vite ha finora consentito di salvare, sta infatti creando un effetto paradosso. I trafficanti e gli stessi migranti ormai sanno che basta lanciare un Sos per essere soccorsi. E dunque intraprendono il viaggio anche in condizioni proibitive, soprattutto utilizzando sempre più spesso mezzi di fortuna. Piccole imbarcazioni che non sono naturalmente adatte ad affrontare la traversata. Le riempiono di persone e le fanno partire.
Ecco perché bisogna fermarsi e ripensare il piano d’intervento, discutendo nuovi compiti e diversi obiettivi della missione umanitaria. Soltanto così l’Italia potrà garantire accoglienza e assistenza ai profughi, potrà provvedere a una sistemazione degna per le donne e i bambini che continuano a giungere sulle nostre coste e poi non hanno alcuna speranza di un futuro. «Mare Nostrum» era stata approvata come misura tampone in attesa che l’Europa varasse un progetto articolato. Poiché questo non è accaduto, l’Italia deve agire da sola e scegliere una strada che consenta di affrontare il problema in maniera strutturata. Ma deve farlo in via d’urgenza. Prima che sia troppo tardi e la conta dei morti diventi addirittura più pesante.

La Stampa 15.6.14
Il magistrato che giudica il calcio: “Più rischi con i tifosi che con le Br”
Speziale libero? “Scritta becera, ma il diritto di critica va difeso”
intervista di Niccolò Zancan


Alle sei di sera, il giudice più odiato d’Italia prepara la cena per la piccola Clò, un esemplare di bovaro del bernese di nove mesi e cinquanta chili. Insaporisce le crocchette con piccoli pezzi di formaggio, si assicura che il pasto sia gradito. Solo a quel punto, accesa la prima di undici sigarette («sono un tabagista astemio»), davanti a un decaffeinato servito nel giardino di una bella casa nel centro storico, inizia a raccontare: «Avrei dovuto capire tutto nel 1985, quando svolgevo la funzione di Pg nel processo alla colonna veneta delle Brigate Rosse. Erano in ballo decenni di carcere, la tensione si tagliava con il coltello. Mi chiamò il responsabile della sicurezza, perché erano pervenute notizie preoccupanti sulla mia persona. Chiesi ragioni: “Alcuni ragazzi vogliono fargliela pagare per la retrocessione del Bassano”. Da poco ero nell’Ufficio inchieste della Federcalcio. Avevo deferito la squadra per illecito sportivo. Quel giorno mi resi conto dell’ambiente in cui avrei lavorato...». 
Giampaolo Tosel è il magistrato che decide le squalifiche del campionato di calcio italiano. Ha indossato la toga per la prima volta giovanissimo, a 24 anni. Si è occupato di terrorismo, assassini seriali, sequestri di persona e tangenti: «Ma ben pochi processi penali hanno lo stesso effetto mediatico del comunicato del giudice sportivo - dice - l’Italia è il Paese in cui oltre il 50 per cento dei cittadini si dichiara interessato al calcio. Nulla appassiona e divide in uguale misura». Un sorriso ironico scompare dietro una nuvola di fumo. Da procuratore capo di Udine è andato in pensione nel 2000. Oggi Tosel ha 73 anni. Chiude curve, sanziona cori razzisti, punisce gesti violenti. Ecco perché il web è inondato di siti poco commendevoli. «Odio Tosel». «Venduto». «Schifoso uomo di m...». «A morte!». 
Giudice Tosel, la fa soffrire tutto questo rancore internettiano? 
«Nella maniera più assoluta, no. Il sito “Odio Tosel” era comparso qualche anno fa, quando avevo fatto chiudere le curve dello stadio San Paolo di Napoli. Mi è stato chiesto se volessi oscurarlo, ma ho detto no. Credo che in qualche modo, appartenga al calore e al colore calcistico. Diciamo così...». 
Per lei cos’è il calcio? 
«Un meraviglioso spettacolo sportivo e un fenomeno sociale. Le malelingue sostengono che sia anche un utile strumento per distogliere l’attenzione dei cittadini dai veri problemi...». 
Tifa? 
«Mi attribuiscono squadre diverse, in base ai provvedimenti che prendo. Ma io sono un estimatore, non un tifoso. Un estimatore del vecchio calcio, meno atletico e più divertente. Il calcio antico». 
Abbia coraggio: avrà una squadra del cuore… 
«Quella che gioca in questi giorni, con la casacca azzurra». 
Un calciatore? 
«Omar Sivori. Scorrettissimo. Prendeva per i fondelli l’avversario, ma era un giocoliere. Lui e Garrincha». 
Che stagione è stata quella 2013-2014? 
«Particolare. Difficile. Il calcio è la vetrina del Paese. Tutte le tensioni si riverberano allo stadio. È stata introdotta la discriminazione territoriale come sanzione, quella norma che punisce, fra l’altro, i cori contro Napoli e i napoletani. Non ho mai visto tante curve chiuse. E non c’è nulla di più deprimente di una partita di calcio giocata in uno stadio mezzo vuoto». 
Certi giornali l’hanno presa in giro per una multa da 5 mila euro comminata ai bambini juventini che hanno gridato la parola “merda” allo stadio. 
«Quando mi riferiscono un fatto e c’è un certo articolo del codice, io devo procedere. Il mio è un lavoro quasi notarile. Ma è stata sanzionata la società, non i bambini». 
Ed eccoci alla responsabilità oggettiva. È giusto punire la squadra per i comportamenti dei suoi tifosi? 
«Credo che tecnologie migliori dentro agli stadi, cioè telecamere moderne, potrebbero aiutare nell’individuazione dei responsabili. Se chi lancia un razzo ha nome e cognome, non ha più ragione d’essere la responsabilità oggettiva della società». 
Cosa pensa del finale di stagione? Quello di “Genny ’a carogna” e degli scontri per la finale di Coppa Italia... 
«Una serata orribile, che ha fatto il giro del mondo. Ma mentre a voi interessava di più il lato, per così dire, folcloristico, a me hanno colpito i 4 poliziotti finiti all’ospedale. Purtroppo stiamo facendo di tutto per tenere i bambini lontani dagli stadi...». 
La maglietta “Speziale Libero” esibita in curva? 
«Mi auguro di continuare a vivere in uno Stato in cui la critica, per quanto becera, sia libera. Auguriamocelo tutti: criticare è un diritto sacro e inviolabile». 
Dove prende le sue decisioni? 
«A Milano in ufficio, oppure qui a casa. Sto attaccato al fax e al pc, ricevo i referti arbitrali e i rapporti della procura federale. Lavoro solo sulla carta». 
L’espressione più refertata? 
«Arbitro, che c... fischi!». 
Perché il calcio italiano è così indietro? 
«Servono impianti nuovi, polifunzionali e sicuri». 
È ottimista? 
«Lo sono sempre stato. Ho visto uscire questo Paese da situazioni ben peggiori». 
Ha mai ricevuto chiamate imbarazzanti? 
«Mai». 
Come sopporta le pressioni al bar, per strada e quelle dei familiari? 
«Ignorandole. E poi, come potrei ascoltare i consigli di una figlia juventina, di un figlio interista e di un terzogenito che non si interessa di calcio? A proposito, lui, il terzo, è di gran lunga il più saggio e posato della famiglia...».

Corriere 15.6.14
Stefano Dionisi: rifiutavo il successo e la mia identità
Fu una crisi psicopatica cui seguirono un ricovero coatto, cinque analisi freudiane e due di gruppo... Mi sedarono, mi ritrovai a Pisa in un Tso, sono stato trattato con il litio»
«Ho sconfitto i mali della psiche Anni d’inferno, rinasco sul set»
intervista di Valerio Cappelli


TAORMINA — C’è stato un tempo in cui Stefano Dionisi era il punto di riferimento del cinema d’autore, il volto più espressivo dei personaggi che doveva interpretare. Ma non si può tornare indietro dal destino e nel 2002 la sua «ombra fedele», come canta in Farinelli , l’iconico film che aveva fatto qualche anno prima sul celebre castrato del XVIII secolo, lo mandò a gambe levate. Ne dissero tante della sua improvvisa sparizione dal cinema.
Il Festival di Taormina il 21 giugno ospita (prodotto da Flavia Parnasi) La madre di Angelo Maresca, liberamente ispirato al romanzo di Grazia Deledda, e portato ai nostri giorni. Una donna (l’almodovariana Carmen Maura) fervente cattolica, protettiva e morbosa, assiste all’innamoramento e, alla caduta nel peccato di suo figlio, giovane sacerdote, che cade fra le braccia di Laura Baldi. La madre la vede come la tentazione del diavolo, va allontanata al più presto dalla vita del figlio. «Ci sono scene molto forti, fisiche», dice Stefano Dionisi. È lui il sacerdote, e questo è il suo ritorno al cinema.
Dionisi, da quanti anni è attore?
«Da 30, ne ho 47. Parlavo inglese, da adolescente ero finito a New York facendo tutt’altro, mi davo da fare nei ristoranti. Dopo un anno tornai a Roma: lavapiatti alle Cornacchie, un ristorante in centro che allora andava molto. Io pensavo di fare il vetrinista dei locali. Invece da una borsa di studio di una scuola di teatro passai a un film diretto da Citto Maselli, Il segreto. Poi vennero Avati, La tregua di Rosi, girato in inglese e da cui mi aspettavo qualcosa, Verso Sud di Pozzessere, Sostiene Pereira con Mastroianni. E Farinelli. Non sapevo nulla di musica barocca, al provino a Parigi mi misero della cipria bianca e dissero che ero perfetto. Pasquale De Santis, il premio Oscar della fotografia, mi disse che fare l’attore è una questione di luce: chi ce l’ha e chi non ce l’ha».
Di lei si diceva che avesse un carattere difficile, spigoloso .
«Ero preso dall’entusiasmo di un periodo in cui le cose mi andavano benissimo. Sono stato agli Oscar per Farinelli , ricordo Gary Cooper che mi faceva i complimenti. Ero un po’ invadente.. sì, ma facilmente gestibile. Tranne una volta, i problemi avuti sui set dipendevano dalla fragilità del regista. Talvolta vanno nel panico e non sanno usare l’attore. Io magari rileggendo la sceneggiatura la riscrivevo, anche le parti che non erano mie. E i registi mi licenziavano: Claudio Caligari o Ferzan Ozpetek in Hamam , dopo che avevo riscritto il personaggio femminile. Ho vissuto a Los Angeles dai 29 ai 33 anni, dove ho fatto un film che non andò bene, Kiss of Fire di Antonio Tibaldi, prodotto dalla mia ex moglie, da cui ho avuto un figlio con cui oggi ho un bellissimo rapporto. Tornai in Italia per pagarmi il divorzio».
La sua crisi scoppiò in Estremadura...
«Sul set di una fiction su Sant’Antonio. Una malattia psicologica. Non facevo uso di stupefacenti se non di droga leggera. Fu una crisi psicopatica cui seguirono un ricovero coatto, cinque analisi freudiane e due di gruppo. Non lavoravo sugli archetipi ma sul ritorno alla normalità. Per me era come vivere una realtà parallela, rifiutai il denaro, il successo e l’identità, che per un attore ha qualche importanza. Buttai passaporto e portafogli.... Mi sedarono, mi ritrovai a Pisa in un Tso, Trattamento sanitario obbligatorio. Ti dicono maniaco depressivo ma secondo me non è vero. Sono stato trattato con il litio».
Il malessere come si era manifestato?
«Davo di matto, in Spagna mi ritrovarono su un tetto, a tanti chilometri dal set, da cui non volevo scendere. Avevo paura. E tutte quelle cose di quando non stai bene. Non sapevo gestirmi, era a monte il problema, sono figlio di persone che non sono state bene. Ma non è colpa di mio padre che mi abbandonò quando ero piccolo, dopo tanti anni abbiamo avuto un bel rapporto, l’ho ritrovato e ho appena disperso le sue ceneri. Ho chiuso questi percorsi sospesi».
Fu solidale il mondo del cinema con lei?
«Tornato dalla Spagna nessuno mi voleva più, tranne due persone. Francesca Archibugi, dolcissima, mi diede la parte di Don Rodrigo nel Renzo e Lucia in tv, Pasquale Pozzessere mi fu vicino durante il ricovero e siamo amici anche ora. Sul set di un film mi fecero trovare questo biglietto: “Non ce la farai neanche questa volta, nemmeno con i medicinali”. Fui licenziato il giorno dopo. Il mondo del cinema è quello che è, non mi piaceva l’idea dei clan, dove tutto diventa un’idea vedendo quello che fa l’altro. Ma ora l’ho capito, non do colpa agli altri, la gente si prende e non si prende. Per anni non ho visto un solo film. Voglio mettermi in viaggio solo, mi manca un’esperienza alla Herzog, il viaggio estremo da fare a piedi».
In questi anni cosa ha fatto?
«Mi sono occupato fisicamente di me, ho studiato, parlo tre lingue, ho letto molto. Da quattro anni faccio fiction per vivere. Ho girato Il segreto degli alberi di Alessandro Tofanelli, il mio personaggio finisce all’ospedale psichiatrico, riceve in eredità una baracca e troverà un diario sul segreto degli alberi. Il regista è un pittore toscano che ha un rapporto forte con la natura e vive in modo ruvido, all’essenziale. Deve ancora uscire nelle sale. Sono sereno, ho voglia di rimettermi in gioco, di essere diretto da un regista».

il Fatto 15.6.14
La deriva ‘sudamericana’ per frenare Farage
Il sindaco di Londra compra cannoni ad acqua anti-sommossa, le scuole del regno insegneranno i ‘valori britannici’
di Caterina Soffici


Londra. Si chiamano “Wasserwerfer 9000”. Sono un vecchio modello di cannoni ad acqua, che il sindaco di Londra Boris Johnson ha comprato per far fronte a problemi di ordine pubblico. Visto che siamo in tempi di spending review li ha presi usati: arrivano dalla Germania, sono vecchi di 23 anni e sono costati comunque 218mila sterline (più di 250mila euro). È scoppiato il putiferio: non solo per il prezzo, ma non va giù l’idea che una città tradizionalmente liberal e multiculturale come Londra abbia bisogno di cannoni ad acqua, considerati una misura da repubblica centramericana o da dittatura. In attesa che il ministro degli Interni Teresa May ne autorizzi l’utilizzo in caso di disordini, il vicepremier Nick Clegg (leader dei liberaldemocratici) ha già preso le distanze dai suoi alleati di governo conservatori e ha tuonato che i cannoni ad acqua vanno contro la “tradizione britannica” del cosiddetto “policing by consent”, ossia che la polizia è parte della comunità e gestisce l’ordine pubblico per conto dei cittadini e non contro di loro. Sono pericolosi e non servono a niente, dicono le opposizioni, forti anche di una recente sondaggio per cui il 98% dei londinesi ha espresso parere negativo. Boris Johnson ha detto che non sono affatto pericolosi ed è disposto a provarlo prestandosi come cavia. Ma secondo gli esperti se fossero stati usati nei riots dell’estate 2011 avrebbero peggiorato la situazione, perché sparare nel mucchio porta solo a unire i singoli contro la polizia. I cannoni hanno aperto il dibattito su cosa stia diventando la società britannica ai tempi della crisi europea e dell’ascesa dell’Ukip di Nigel Farage, il quale non perde occasione per proporre il pugno di ferro, vuole ordine, pulizia e giro di vite sugli ingressi degli stranieri. Sotto la pressione dei nazionalisti dell’Ukip, la settimana scorsa il governo ha varato un altro provvedimento che ha fatto discutere. Da settembre, ha detto il ministro dell’istruzione Michael Gove, nelle 20mila scuole primarie e secondarie inglesi sarà obbligatorio insegnare i “valori inglesi”. Il caso è scoppiato dopo le rivelazioni di un rapporto dell’Ofsted (l’Ufficio per gli standard educativi) dove si dice che gli islamisti hanno preso il controllo di varie scuole di Birmingham sulla base di “ideologie basate sull’estremismo islamico”: un preside non ha stretto la mano a un’insegnante donna, perché la religione glielo proibisce; le bambine in aula negli ultimi banchi e i maschi avanti e altri episodi del genere.
I “VALORI BRITANNICI” sarebbero il rispetto della legge inglese, la tolleranza religiosa, la parità di genere (e forse la proibizione del burqa in classe), il rispetto per la diversità eccetera. Qualcuno ha parlato anche di un tentativo degli islamisti di impossessarsi del sistema dell’istruzione inglese partendo dalle scuole di Birmingham con una operazione denominate “Trojan Horse”, Cavallo di Troia. Questa, sinceramente, sembra una teoria complottistica un po’ fantasiosa, ma dà l’idea del clima nel quale germoglia la paura dello straniero e dove Nigel Fa-rage trova terreno fertile. L’estremismo islamico è un problema reale, una cultura della non tolleranza da parte di certi gruppi religiosi è sicuramente in crescita.
L’altro giorno in un programma radio della Bbc una maestra raccontava che non può fare leggere “Peppa Pig” in classe perché certi bambini musulmani non possono neppure toccare libri che rappresentano maiali mentre altri definiscono le chiese luoghi “immondi”. Problemi che prima sarebbero stati affrontati secondo il canone britannico del multiculturalismo. E che ora, anche sotto la pressione dell’Ukip, vengono affrontati rincorrendo i nazionalisti sul loro terreno.

Repubblica 15.6.14
Stati Uniti e Iran accantonano 33 anni di odio
Lo Stato canaglia e il Grande Satana la strana alleanza contro i jihadisti
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON. POICHÉ nella storia c’è sempre una “canaglia” più canaglia delle altre, e un Satana più grande di un altro, Iran e Stati Uniti fanno prove di impensabili alleanze a distanza per impedire che Bagdad e l’Iraq cadano nelle mani
dei fanatici jihadisti sunniti.
BENVENUTI al grande ballo dei diavoli e delle canaglie. L’antica e immutabile verità secondo la quale il nemico del mio nemico è mio amico ha spinto ayatollah, generali e ministri iraniani a ipotizzare un intervento in Iraq per fare quello che Obama vorrebbe - ma non può più - fare: mandare mezzi, armi, consiglieri e uomini per fermare l’avanzata della nuova Al Qaeda verso la capitale.
«Un’azione coordinata fra Washington e Teheran non è ipotizzabile - ha dovuto spiegare il Dipartimento di Stato - però la minaccia terroristica in Iraq è percepita come una minaccia grave dalle due nazioni».
Però, ecco la chiave. È un tango senza toccarsi questo che il “Grande Satana” degli anatemi khomeinisti e lo “Stato Canaglia” della retorica bushista stanno danzando, ora che la catastrofe dell’operazione Iraqi Freedom ha lasciato le rovine materiale e il disastro politico che la folle invasione del 2003 ha prevedibilmente creato. Una grande nazione controllata dall’ala più fanatica e integralista dei sunniti irakeni, ormai un’organizzazione indipendente e meglio armata di Al Qaeda, sarebbe il sigillo finale e ignobile della guerra americana in Mesopotamia e una minaccia intollerabile per gli ayatollah iraniani che si erano illusi di avere in mano la nazione attraverso il loro detestabile Quisling iracheno, lo sciita al Maliki.
Trentatré anni di odio ideologico e religioso, esploso con la presa dell’ambasciata Usa a Teheran e la prigionia di 66 diplomatici americani per 444 giorni nel 1981, impallidiscono di fronte alla prospettiva sempre più concreta che tutti gli orrori, le follie, l’incompetenza e le stragi della guerra producano il risultato esattamente opposto a quello che Bush, Cheney, Rumsfled e la loro banda di fondamentalisti in giacca e cravatta conosciuti come “neo-con” si ripromettevano. Non l’illusoria, artificiale democrazia esportata con gli stivali, ma un formidabile stato gonfio di petrolio nelle mani degli eredi ideali e trionfanti di Osama bin Laden.
E se la prospettiva di questa “empia alleanza” Usa-Iran sconvolge gli ultimi falchi come il senatore McCain, quello che nel 2008 canticchiava ridendo «Bomb bomb bomb, bomb Iran» sulle note dei Beach Boys e che turba gli israeliani, timorosi che nello strano tango si dimentichino i progetti nucleari di Teheran, la dinamica degli interessi e delle paure converge. Eppure non sarebbe né inedita, né storicamente scandalosa. Già nella fin troppo facile passeggiata militare dai monti del Nord a Kabul per la cacciata dei Taliban in poche settimane, fu indispensabile la tacita approvazione e la collaborazione sotto traccia degli iraniani, nell’accoglienza del profughi e nella loro influenza sulla maggioranza etnica dei Pashtun.
Stabilire ora se l’Iraq sia stato perso da Obama con il ritiro delle truppe o da Bush con l’ingresso delle truppe è esercizio di rancori ideologici fra correnti americane, fra gli irriducibili delle “Bush Follies” e sostenitori di quel nuovo corso obamiano che ha prodotto un Nobel per la Pace, ma non la Pace. Il fatto che conta è lo spaventoso viluppo di contraddizioni e di interessi, ora convergenti, ora contrastanti, che si è formato attorno alla deposizione forzata dell’agonizzante regime di Saddam L’Iran del nuovo presidente Hassan Rouhani, il cosiddetto “moderato” che ha segnalato nuove disponibilità al negoziati nucleare, è quello che potrebbe salvare i carissimi nemici e vicini iracheni dall’abisso di uno stato terrorista, salvando i resti delle follie bushiste, ma è anche quello che puntella il regime del siriano Assad e tiene in vita l’organizzazione di Hezbollah. Sarebbe dunque il peggior amico possibile per un’amministrazione americana che semplicemente non ha alcuna al- tra opzione in Iraq e non può neppure ipotizzare, come infatti Obama ha escluso, il ritorno dei propri soldati.
Non sarebbe certamente la prima volta nella storia che nazioni e governi in odio reciproco accantonino nel nome della necessità le proprie inconciliabili differenze, come nell’alleanza fra Usa e Urss nella guerra contro la Germania nazista. Il rischio del neonazismo in chiave mistica al potere a Bagdad rende concepibile ciò che la guerra e la politica producono invece regolarmente, quegli strange bedfellow , quegli improbabili compagni di letto, uniti quanto basta per fermare il nemico comunque, per tornare poi all’ostilità precedente.
Oggi, la allucinata presunzione e l’arroganza degli interessi occidentali che partorirono l’invasione del 2003 stanno costringendo nello stesso scomodo pagliericcio Usa e Iran, mentre in Iraq si riproduce con prevedibile, scontato squallore un altro dei classici scenari vietnamiti: un esercito regolare e immaginario, addestrato, pagato, armato dagli americani che si sta squagliando come panna montata e getta le armi davanti a un nemico molto meno potente, ma incomparabilmente più motivato. È anche per esorcizzare lo spettro di una nuova Saigon in Mesopotamia quarant’anni dopo, che le canaglie sembrano meno canaglie e i diavoli meno diabolici.

Corriere 15.6.14
«Obama ha poche opzioni: è necessaria un’intesa con l’Iran»
«Un riavvicinamento strategico fra i due Paesi potrà avvenire soltanto dopo la conclusione di un accordo sul nucleare. Che ormai è vicino»
di Paolo Valentino


VENEZIA — «La crisi in Iraq può rivelarsi come la prova generale della futura collaborazione tra Stati Uniti e Iran nel Grande Medio Oriente, dove i due Paesi hanno molti interessi convergenti. Ma la precondizione di questo riavvicinamento strategico è la conclusione di un accordo sul nucleare iraniano nella trattativa 5+1 e credo che non siamo lontani da questo esito».
Richard Burt è una leggenda della diplomazia americana. Grande mente strategica, famoso per la sua eleganza, seduttore impenitente, l’ex giornalista del New York Times non aveva neppure 40 anni nel 1985, quando Ronald Reagan lo nominò ambasciatore in Germania Ovest, in uno dei momenti più difficili della Guerra Fredda. Il suo capolavoro diplomatico fu la trattativa con i sovietici sulla riduzione dei missili strategici a Ginevra, dove nel 1989 George Bush padre lo volle capo dei negoziatori americani: fu lui a concludere il primo accordo Start nel 1991. Oggi, a 67 anni, Burt guida la McLarthy Associates, una delle più importanti società di consulenza strategica di Washington. Lo incontriamo a Venezia, dove ha partecipato all’annuale workshop del Consiglio per le relazioni tra Italia e Usa.
Quali sfide pone all’Amministrazione la crisi irachena?
«Occorre distinguere tra quelle di politica estera e quelle di politica tout court. Cominciando dalle seconde, il presidente è stato troppo passivo e riluttante a esercitare la leadership americana. La crisi in Iraq lo mette bene in risalto: l’americano medio guarda e non capisce a cosa siano serviti gli enormi sacrifici fatti in oltre un decennio, quasi mille miliardi di dollari spesi, più di 4 mila morti. Il pubblico si chiede come sia possibile che tutto crolli e cosa stia facendo il presidente. Eppure tutto questo è in netto contrasto con il nodo di politica estera posto dalla crisi: l’intervento in Iraq fu un errore, non ci fu una valutazione approfondita di tutte le sue implicazioni e conseguenze, in primis il fatto che avrebbe liberato tutto il potenziale di violenza settaria della società irachena divisa tra sciiti e sunniti. Così Obama da un lato riconosce che gli Stati Uniti possono fare veramente poco per influenzare la situazione a meno di un nuovo e massiccio coinvolgimento, che il popolo americano non vuole. Allo stesso tempo ha il problema politico di non esser visto come spettatore passivo, che assiste al definitivo collasso del Paese».
E cosa farà secondo lei?
«Poco, appunto. Non invierà truppe ovviamente. Forse, se Bagdad si troverà in pericolo, ci sarà qualche forma di sostegno aereo a difesa della città».
E qui entra in gioco l’Iran, che ha già unità scelte sul terreno a sostegno dello sciita Maliki, l’alleato degli Stati Uniti. Un interessante paradosso…
«Lo abbiamo visto già in passato ed è un esempio della divisione che esiste oggi tra la politica e la strategia americana. L’Iran è dinamite politica negli Usa. Anche grazie ai molti sostenitori di Israele, il regime di Teheran è stato demonizzato. Un errore grave. Perché gli iraniani non saranno perfetti, ma sono da tempo pronti a cooperare con gli Usa: le ricordo che dopo l’11 settembre e l’intervento degli Stati Uniti in Afghanistan, iraniani e americani lavorarono insieme dietro le quinte per ricostituire un governo a Kabul, stabilizzare il Paese e marginalizzare i talebani. Oggi Usa e Iran hanno un interesse comune a tenere in piedi il governo di Maliki».
Giovedì scorso lei ha visto a Roma una delegazione di Teheran, in margine ai colloqui con i russi. Che impressione ne ha avuto?
«Sono moderatamente ottimista sulla possibilità di arrivare a un’intesa complessiva sul nucleare entro il 20 luglio. Certo, ci sono decisioni difficili da prendere sia a Washington che a Teheran. Ma siamo a un punto dove le parti capiscono le rispettive posizioni e sono pronte a un compromesso sui temi più controversi. Non c’è molto tempo, le dinamiche politiche nei due Paesi renderebbero un’intesa molto più complicata nei prossimi mesi. Un accordo sarebbe il singolo e più importante successo di politica estera di Obama. Se Teheran lanciasse un segnale concreto di disponibilità, il presidente sarebbe pronto a chiudere. E forse l’escalation in Iraq può facilitarlo, perché riapre nella percezione dell’opinione pubblica un capitolo non piacevole della vicenda americana all’estero».

Corriere 15.6.14
Gli Usa, l’Iran e il caos iracheno
Così nasce l’«asse del minor male»
di Sergio Romano


Nel gennaio del 2002, fra la distruzione delle Torri gemelle e l’attacco all’Iraq nella primavera dell’anno seguente, George W. Bush pronunciò un discorso sullo stato dell’Unione in cui denunciò l’esistenza nel mondo di un «asse del male». L’espressione rivaleggiava con quella di Ronald Reagan contro l’Unione Sovietica — l’«impero del male» — coniata negli ultimi anni della Guerra fredda, e avrebbe avuto lo stesso successo.
L’asse denunciato da Bush comprendeva tre Paesi: la Corea del Nord, l’Iraq e l’Iran. Non ne fummo sorpresi. Sapevamo che nel disegno strategico dei «neo-conservatori» (un gruppo d’intellettuali che volevano rifare la carta del Medio Oriente), l’Iraq era soltanto la prima tappa di un conflitto destinato a concludersi nella capitale iraniana. Qualcuno osservò che in una fase precedente, fra il 1980 e il 1988,
gli Stati Uniti avevano aiutato l’Iraq nella sua lunga guerra contro l’Iran e che il Paese degli ayatollah, quindi, doveva preoccupare Washington molto più del Paese di Saddam Hussein. Altri giunsero alla conclusione che l’intervallo fra le due guerre, quella contro Bagdad e quella contro l’Iran, sarebbe stato breve. Il discorso del 2002, incidentalmente, ebbe l’effetto di accelerare il progetto iraniano per l’arricchimento dell’uranio.
Le cose, tuttavia, andarono diversamente. Dopo l’ingresso a Bagdad e il crollo del regime di Saddam, gli Stati Uniti sciolsero il partito Baath
e l’esercito iracheno: due misure che ebbero l’effetto di gettare sul lastrico parecchie centinaia di migliaia di persone, prevalentemente sunnite. Pochi mesi dopo, quei «disoccupati» si stavano organizzando per una lunga guerra di guerriglia contro le forze americane e avrebbero potuto contare da allora su un’alleanza di fatto con i gruppi jihadisti, più meno affiliati ad Al Qaeda, che volevano fare dell’Iraq il primo califfato islamico dopo quello di Costantinopoli, morto dopo la Grande guerra.
Volenti o nolenti, gli Stati Uniti dovettero constatare che avevano combattuto una guerra per consentire alla maggioranza sciita di saldare i propri conti con l’odiata minoranza sunnita. Non è tutto. La sorpresa fu ancora maggiore quando Washington capì che la vittoria degli sciiti aveva aperto le porte del Paese ai loro confratelli iraniani, che Teheran aveva ormai intimi rapporti con la dirigenza irachena e che
il generale iraniano Qassim Suleimani, capo di una formazione composta da paramilitari del suo Paese (la Forza Quds, dal nome arabo di Gerusalemme), stava addestrando le milizie irachene impegnate contro l’esercito americano.
Nelle scorse ore il presidente iraniano Hassan Rouhani ha smentito l’invio di truppe in Iraq, ma ha aggiunto che l’Iran è pronto a sostenere Baghdad «nella sua battaglia contro gli estremisti sunniti». Né gli americani né gli iraniani, almeno per il momento, hanno interesse a parlare pubblicamente di una loro possibile collaborazione. Obama verrebbe accusato dai suoi oppositori negli Stati Uniti
e dagli israeliani di avere sacrificato alle convenienze del momento la lunga battaglia negoziale contro il nucleare iraniano. Rouhani darebbe ai suoi nemici interni l’occasione per accusarlo di avere rinunciato ai sacrosanti principi anti-americani della Repubblica islamica. Ma i due Paesi hanno certamente interesse a scambiare informazioni e, forse,
a coordinare i loro interventi.
Non sarebbe la prima volta. Quando invasero l’Afghanistan, nell’ottobre del 2001, gli americani poterono contare sulle informazioni dei servizi d’intelligence iraniani, meglio informati della Cia sui movimenti dei talebani nelle regioni occidentali del Paese. In questo caso, qualche utile contatto fra Washington e Teheran avrebbe un altro effetto positivo: quello di evitare che il governo di Bagdad usi lo spauracchio iraniano per meglio fare pressioni sull’America, e viceversa.
Questa nuova vicenda dovrebbe suggerire ai presidenti americani che il male e il bene, in politica, sono categorie elementari e rozze.
Non sempre esiste un asse del male a cui si contrappone un asse del bene. Spesso esiste un «asse del minor male» che presenta il vantaggio di essere meno dogmatico, più duttile e, in ultima analisi, più utile.

Corriere 15.6.14
Le origini del conflitto tra Sciiti e Sunniti

1Chi sono i sunniti?
I sunniti costituiscono da sempre la maggioranza dei musulmani. Il loro nome deriva da Sunna, la tradizione dei detti di Maometto a cui si ispirano insieme al Corano. Affermano la legittimità dei primi califfi, successori e compagni di Maometto, e quindi delle successive dinastie che governarono l’Impero musulmano. Per i sunniti il califfo rappresenta l’unità dei credenti e non ha alcuna valenza religiosa. La loro dottrina e gli aspetti del loro credo si andarono definendo nel corso dei primi secoli di espansione dell’Islam, adattandosi in più occasioni a mediare tra tendenze contrapposte e costumi locali. L’elaborazione formale giuridica convisse infatti accanto alla pietà mistica delle confraternite. Oggi, come nel corso di tutta la loro storia, i sunniti conoscono al loro interno visioni diverse.
2 Chi sono gli sciiti?
Sostengono che il legittimo successore di Maometto fosse ‘Ali, suo genero. Il loro nome viene infatti da Shi‘at ‘Ali, che vuol dire «Partito di ‘Ali». Politica e religione si saldano in tale rivendicazione, perché secondo gli sciiti Dio non poteva lasciare la comunità musulmana senza una guida religiosa. Sostengono così l’illegittimità dei califfi e delle dinastie sunnite, affermando che eredi di Maometto dovessero essere gli imam, guide spirituali, e allo stesso tempo discendenti e successori di ‘Ali. Sull’identificazione di questi imam, gli stessi sciiti però si divisero ben presto in sette diverse. Lo sciismo oggi più diffuso nel mondo islamico è quello cosiddetto imamita, o duodecimano, perché identifica una successione di dodici imam. Imamiti sono gli sciiti iracheni e anche quelli dell’Iran, dove lo sciismo venne imposto come religione ufficiale a partire dal 1500.
3 Qual è l’origine dei loro contrasti?
L’origine dei loro contrasti è di natura politica, e risale al primo periodo della storia dell’islam. Benché dal punto di vista rituale lo sciismo imamita non presenti grandi divergenze rispetto al sunnismo, esso si differenzia per la diversa concezione della successione di Maometto. La visione sciita ispirò contrasti e anche feroci rivolte nei primi secoli dell’islam. Ma le rivendicazioni sciite di avere un discendente di Maometto alla guida della comunità hanno conosciuto solo brevi e rari successi, e più spesso sonore sconfitte in oltre mille e quattrocento anni di storia. Nel corso dei secoli gli sciiti sono stati una minoranza perseguitata, quando non confinata in aree impervie. La loro storia di sofferenze è ben rappresentata dall’imam Hussein, il figlio di ‘Ali, fatto trucidare dal califfo omayyade sunnita nel 680 d.C. a Kerbela, nell’odierno Iraq.
4 Qual è l’origine della loro rivalità in Iraq?
La maggioranza della popolazione irachena è sciita, per effetto della conversione di tribù nomadi solo a partire dal 19° secolo. Si tratta di una forma di sciismo imamita arabo, con una storia diversa da quello iraniano, da cui è diviso da rivalità e anche visioni diverse su Khomeinismo e sulla Repubblica islamica nata nel 1979. Gli sciiti iracheni sono sempre stati poco influenti dal punto di vista politico, anche per le loro divisioni. Il sunnita Saddam Hussein ne diffidò, soprattutto negli Anni 80 segnati della guerra con l’Iran. Con la fine di Saddam e la presenza americana, gli ultimi anni hanno rappresentato un’occasione storica per le loro aspirazioni politiche. Ma il loro nuovo ruolo deve fare i conti con il malcontento sunnita, e con la crescente contrapposizione confessionale segnata da attentati e persino minacce jihadiste ai santuari sciiti di Najaf e Kerbela.

La Stampa 15.6.14
Pechino continua a punire gli studenti di Tiananmen
Formalizzato l’arresto di Pu Zhiqiang, il più eccellente dopo Liu Xiaobo
Era stato fermato in casa di amici in maggio: ricordava il massacro dell’89
di Ilaria Maria Sala


Era dall’arresto di Liu Xiaobo, il Nobel per la Pace del 2010, che la Cina non alzava così il tiro. Arresto eccellente, nel dicembre del 2008, quello di Liu. Il mondo s’indignò. Due anni dopo alla cerimonia della consegna del Nobel al posto di Liu c’era una sedia vuota. La risposta della Cina a quel gesto di pubblica denuncia fu un piccato silenzio. 
Quattro anni dopo quelle immagini, nelle maglie del sistema cinese è restato impigliato Pu Zhinqiang, giurista e attivista per i diritti umani, in prima linea da sempre per una sistema giudiziario più equo. Suoi articoli sono stati tradotti all’estero e apparsi sulla New York Review of Books. Pu - e con lui centinaia di altri attivisti più o meno noti, più o meno temuti dal governo di Pechino – era stato arrestato nelle settimane antecedenti la «Data» per eccellenza, il 4 giugno 2014, 25° anniversario del massacro di Tiananmen, incubo impronunciabile nei palazzi del potere del Gigante asiatico e in tutta la Cina. Per evitare disordini, proteste e fastidi il 4 giugno le autorità avevano messo in campo una grande azione di «prevenzione»: retate e arresti più o meno eccellenti. 
Il 3 maggio, Pu Zhiqiang era stato fermato dalla polizia dopo aver preso parte a un incontro privato in casa di amici proprio per commemorare il massacro degli studenti del 1989. Molti erano stati fermati insieme a lui. E molti sono stati fermati ins eguito e prima del 4 giugno. 
Poi, superato lo scoglio della difficile memoria, decine di persone sono state rilasciate, fra cui i giornalisti Vivian Wu Wei e Xin Jian, e il clima generale ha iniziato ad essere più disteso. Ma la libertà per Pu Zhiqiang è rimasta un miraggio. Anzi. l’altra notte le prime notizie: una notifica sull’account Weibo (simile a Twitter cinese) dell’Ufficio municipale di Pubblica Sicurezza di Pechino ha confermato l’arresto di Pu. Si è scoperto che l’avvocato è accusato di aver «creato disturbo e ottenuto illegalmente informazioni private». Ma la polizia ha anche fatto sapere che ulteriori indagini sono in corso per «accertare gli altri crimini commessi da Pu Zhiqiang», una precisazione che fa temere che la vicenda giudiziaria dell’avvocato possa essere particolarmente dura. E lunga. Rischia fino a 10 anni di carcere. Il suo avvocato Zhang Sizhi ha spiegato sul suo account Weibo di essere riuscito a parlargli e di essere venuto a conoscenza del fatto che è stato sottoposto anche a dieci ore di interrogatorio al giorno. Nulla di più è trapelato.
Pu, 49 anni, appartiene a una generazione particolarmente segnata da quanto accadde a Pechino venticinque anni fa (quando l’avvocato era uno degli studenti in sciopero), ed è noto come uno dei più importanti giuristi cinesi. Attento a bilanciare casi di tipo «commerciale» con casi più apertamente politici e riguardanti i diritti umani, si è spesso esposto con le autorità per aver difeso attivisti per le riforme politiche, vittime dei campi di lavoro, e anche l’artista dissidente Ai Weiwei. Secondo Bao Pu, un editore di Hong Kong che pubblica testi di carattere politico «il motivo per cui gli avvocati sono in prima linea in questo modo è che le leggi che sono state approvate in Cina negli ultimi venti anni contengono tutte alti ideali e valori universali. Questa generazione di avvocati è il primo gruppo professionale a scontrarsi con il divario esistente fra la teoria e la realtà e il loro scontro con le autorità è inevitabile: non in quanto individui, ma in quanto gruppo».

Corriere 15.6.14
Da Pechino segnali d’apertura a papa Francesco
di M. A. C.


«È tempo per Pechino e il Vaticano di riprendere il dialogo», «le circostanze per un nuovo inizio appaiono ideali», ha scritto ieri il South China Morning Post . Citando il fatto che il presidente Xi Jinping e papa Francesco hanno iniziato il loro mandato a poche ore l’uno dall’altro , 15 mesi fa, che i cinesi «si rivolgono sempre più spesso alla religione per riempire il vuoto spirituale che la ricchezza ed il materialismo non può fornire». Mentre «la Chiesa cattolica ... è ben consapevole del potenziale di crescita che offre la Cina».
Il Post si spinge poi più in là. «L’atmosfera è così positiva — annota — che alcuni conoscitori della Santa Sede hanno suggerito che il Pontefice potrebbe compiere il primo viaggio di un papa in Cina o all’inizio o alla fine del viaggio in Corea del Sud ad agosto». Anche se aggiunge «questo è davvero ottimismo», visto che molti problemi rimangono aperti. La conclusione però è che «ci sono tutte le ragioni per Pechino e il Vaticano per riprendere il dialogo».

il Sole24ore domenica 15.6.14
Cina, una lezione di umiltà
di Ronald Coase

La riforma economica della Cina non ebbe mai la finalità di smantellare il socialismo e spostare il paese verso il capitalismo. Il suo scopo era piuttosto la modernizzazione socialista; un'altra Lunga Marcia per realizzare quello sviluppo economico che Mao non era riuscito ad attuare. Dal momento che il comunismo afferma che il suo destino sia la sconfitta del capitalismo, normalmente si ritiene che il Partito comunista sia incompatibile con il mercato. Ma non dovremmo commettere l'errore di eguagliare un'organizzazione politica (il Partito comunista) con la sua ideologia politica (il comunismo). Ogni individuo ha diverse identità (per esempio, può essere maschio, professore, marito, economista e ammiratore di Adam Smith). Allo stesso modo, le organizzazioni politiche hanno identità multiple e fluide. L'incapacità di separare il Partito comunista dal comunismo ha fatto sì che molti fossero propensi ad assumere un approccio fuorviante nei confronti della transizione economica. Ha fatto nascere la convinzione che le riforme di mercato fossero impossibili in un paese socialista, a meno che l'intero sistema comunista, comprese l'ideologia e l'organizzazione politica, non venisse prima spazzato via. Una rottura chiara e netta con il passato comunista era ritenuta un prerequisito assoluto per una transizione verso l'economia di mercato. Molti economisti che erano anche consiglieri politici confidavano che la loro padronanza dell'economia moderna avrebbe consentito la costruzione dal nulla di un'economia di mercato solamente se fosse stata completamente persa qualsiasi traccia di socialismo. Ma la convinzione che un'economia di mercato potesse essere progettata razionalmente ricadeva in quella che Hayek chiamava «la presunzione fatale» del razionalismo costruttivista. Molti decenni prima, nel suo discorso di accettazione del premio Nobel, Hayek aveva avvertito che: «Agire nella convinzione di avere la conoscenza e il potere che ci permettono di modellare i processi della società interamente a nostro piacere, conoscenza che in realtà non possediamo, probabilmente ci porterà ad arrecare molti danni». La Cina fu fortunata a sfuggire a questa presunzione fatale per puro caso. All'epoca in cui fu avviata la riforma economica la Cina non contemplava (e forse non avrebbe nemmeno potuto contemplare) uno sradicamento del comunismo e un nuovo inizio e quindi, invece di immaginare un progetto completamente nuovo, cominciò dall'adattare il sistema preesistente.
(…) La caratteristica più straordinaria della riforma cinese è forse il fatto che il Partito comunista sia sopravvissuto, e in effetti ha prosperato, nei tre decenni della transizione al mercato. Ciò attesta chiaramente la flessibilità organizzativa e l'adattabilità del Partito in seguito al fallimento dell'esperimento socialista – e non la sua invincibilità, né la superiorità del socialismo stesso. Ma ciò che è ancora più straordinario è che la riforma pensata per salvare il socialismo ha inavvertitamente trasformato la Cina in un'economia di mercato. Il cavallo di Troia di questo racconto straordinario è l'insegnamento cinese di «cercare la verità a partire dai fatti», che Deng Xiaoping definì erroneamente «l'essenza del marxismo». Quando la Cina divenne un gigantesco laboratorio economico, le forze della concorrenza furono in grado di mettere in atto la loro magia. Nel processo sperimentale di scoperta, le risorse furono dirette verso il loro utilizzo più proficuo ed emersero istituzioni e strutture organizzative migliori che facilitarono l'apprendimento collettivo. La Cina si ritrovò trasformata in un'economia di mercato dopo trent'anni di riforme che erano state concepite come strumento per salvare il socialismo.
(…) I villaggi di contadini affamati ritornarono all'agricoltura privata e le imprese di distretto e di villaggio superarono in prestazioni le aziende statali. Nelle città cinesi l'introduzione del lavoro autonomo e dell'imprenditoria privata portò maggiore vitalità all'economia urbana rispetto a quanto avessero fatto le riforme dell'impresa guidate dallo Stato. Quella della riforma economica cinese è una storia di ostinata imprenditoria privata, di esperimenti sociali audaci, ma graduali, e di umiltà e perseveranza nella lotta dell'uomo per una vita migliore.
Questo testo è un'anticipazione di «Come la Cina è diventata un Paese capitalista», l'ultimo libro del Nobel per l'Economia Ronald Coase (1910-2013), scritto con il suo allievo Ning Wang. L'edizione italiana è appena stata pubblicata da IBL Libri (Torino, pagg. 400, € 22)

l’Unità 15.6.14
Memoria
Vent’anni fa si aprì «l’armadio della vergogna»
C’erano 695 fascicoli sulle stragi nazifasciste in Italia che furono nascosti, fino al 1994, complici la guerra fredda, il riarmo tedesco e molto altro
di Luca Baiada


Siamo in uno strano anniversario. Vent’anni fa, nel 1994, venne aperto un archivio negli uffici centrali della giustizia militare, nel palazzo Cesi a Roma. Conteneva 695 fascicoli sulle stragi nazifasciste in Italia. Crimini atroci, dal 1943 al 1945, per almeno quindicimila morti. Anche donne, anche bambini piccolissimi. «E come potevamo noi cantare, con il piede straniero sopra il cuore», scrisse Quasimodo in Alle fronde dei salici, e va letto accanto ai versi di Yitzhak Katzenelson, nel Canto del popolo ebraico massacrato. Dire l’orrore è impossibile, eppure è necessario.
Il deposito era stato formato per fasi successive, accumulando dal dopoguerra i risultati di indagini britanniche, statunitensi e italiane. Erano ben fatte, alcune pronte per i processi, ma furono archiviate nel 1960, con una decisione firmata dal procuratore generale militare Enrico Santacroce, uguale per tutti.
Tre righe, «non si sono avute notizie utili», su un mezzo foglio. Sant’Anna di Stazzema, Vallucciole, Fucecchio e tanto altro. Con un foglio di carta, tagliandolo a metà archiviarono due fascicoli. Una strage di italiani non meritava un foglio intero.
Era un vano, ma è passato alla storia come «armadio della vergogna», quello con le ante verso il muro. Bene così, i miti servono a ricordare. Certo, una leggenda favorita dal fatto che non abbiamo una foto, né un primo verbale dettagliato, del momento della riapertura. A proposito, in che giorno fu? Mah, il periodo era questo. Davvero uno strano anniversario.
Tra i falegnami dell’armadio mettiamo la guerra fredda, il riarmo della Germania, la mancata epurazione dei fascisti, e altre cause vistose. Ma non basta. Sotto il legno marcio c’è un verminaio. Si intravede il pauroso scollamento fra il popolo e la classe dirigente, si affacciano l’Aspromonte, Caporetto, la monarchia fuggiasca e insomma l’avversione del notabilato italiano per i suoi connazionali.
E si sente odore di carne bruciata: un immenso sacrificio umano consumato per delega ai tedeschi e per mano fascista. Ci sono anche loro, a volte travisati, eppure riconoscibili. In quante stragi, i fascisti hanno fatto le spie e i massacratori. L’armadio li protesse, e forse non solo. Certi osservatori ipotizzano che non fosse inaccessibile proprio a tutti, e che facesse comodo nello scenario postbellico.
Dopo il 1994 l’archivio è stato lentamente rimesso in moto. Sono stati pubblicati libri, articoli battaglieri come quelli di Franco Giustolisi. Negli anni sono state svolte inchieste del parlamento e del consiglio della magistratura militare. Si sono scritte relazioni. Quella parlamentare di maggioranza è un film muto, le altre sono interessanti, ma tutte lasciano domande aperte. E si allungano le ombre della reticenza e di una colossale rimozione.
Il fatto è che l’italianicidio percorre la storia di questo paese. E sono suoi ministranti, dopo la Liberazione, anche i burocrati del silenzio e dei distinguo, al riparo del tempo, dell’indifferenza, dei cavilli. Se la guerra è un infanticidio differito, come scrisse Gaston Bouthoul, l’impunità delle stragi è un parricidio per delega.
L’impunità di chi ha ferito le nostre radici, è uno sradicamento con altri mezzi. E per questo riemerge un’antica lebbra, come un senso di colpa nazionale per l’identità italiana, il Risorgimento, l’Unità e la Resistenza. È un fatto, che solo aprire questi temi suscita in certi interlocutori un fastidio viscerale, che nasconde l’adesione morale alla strage. Provi a parlarne, e forse ti danno ragione con la testa, però di pancia no. Borbottano «è la guerra», fanno smorfie, si stringono nelle spalle, si stropicciano le mani, vogliono cambiare discorso.
Non te lo diranno mai, ma ti guardano come un eretico, perché non condividi il rito, il sacrificio appunto. Dopo le Fosse Ardeatine, nel marzo 1944, l’Osservatore romano chiamò i 335 massacrati «persone sacrificate». E turbare i riti è bestemmia, si sa.
Dopo la guerra, cinquant’anni di ingiustizia sulle stragi. Poi, mentre Tangentopoli, gli omicidi Falcone e Borsellino, le bombe in strada del 1993 sono cose ancora calde, arriva il 1994: il pasoliniano Palazzo accoglie Berlusconi, e l’armadio della vergogna si apre a palazzo Cesi. E i Modena City Ramblers cantano: «Ho visto gladiatori sorridere in diretta, ho venduto il mio didietro ad un amico americano, ma ho un armadio pieno d’oro, di scheletri e di schifezze ».
Adesso sono vent’anni che l’armadio della vergogna è stato riaperto. Forse bisogna dire diversamente. Prima, com’era? si dice socchiuso, o semiaperto? via, accostato? La relazione parlamentare di minoranza ci gira intorno, e cerca di riferirsi «alla genesi del rinvenimento di detti fascicoli, o quantomeno alle cause note che portarono alla loro riesumazione».
C’è ancora parecchio da capire, sulla storia di quell’archivio. Accumulato dopo la guerra e nell’Italia monocolore, serrato all’arrivo del centrosinistra, riaperto con la seconda Repubblica. La sua chiusura ha coinciso col trentennio dello sviluppo e delle conquiste democratiche, la sua riapertura con la fine del secolo breve. Come una discarica, una linea d’ombra e un’arma.
Ebbe una funzione stabilizzante da chiuso, e destabilizzante con la riapertura, sembra. Ma potrebbe essere il contrario. Oppure fu stabilizzante da chiuso e da aperto, con diverse curvature. Sono motivi per approfondire. Invece la commissione parlamentare, insediata nel 2003, ha chiuso i lavori nel 2006 e non c’è mai stata una discussione in aula. Dopo tre elezioni e cinque governi, ancora niente.
Silenzio, inerzia, vergogna sulla vergogna. Nel 2013 c’è stata una petizione dell’Anpi. Due mesi fa un’interpellanza alla Camera, con firme da quasi tutti i gruppi, ha chiesto al governo di muoversi per l’esecuzione in Germania delle sentenze italiane, e per eliminare ogni segretazione sugli atti acquisiti dalla commissione. Cose che si devono alle vittime, cioè a tutti noi.
A vent’anni dal 1994, dopo due decenni di letargo morale berlusconiano, l’Italia sembra distratta. Ma se graffi la superficie, il sangue delle stragi è ancora lì, insieme all’indifferenza. Il traditore ha il tuo stesso volto. Il suo silenzio è complice, la tua lingua gli si corrompe in bocca.
A Varsavia, Katzenelson sente le voci degli ebrei collaborazionisti, e li schiaccia sotto il tacco di un verso in yiddish: «Un mit a shprakh a fremde un fargrayzt in moyl un grob un mies». Oscuro? Un superstite di una strage toscana del 1944 mi ha descritto la soldataglia tedesca e fascista, e sembra un po’ la traduzione: «Che spicinìo, tutto un forestiero lordo mugliare».

Repubblica 15.6.14
Carlo Bernardini
“Ho scelto la fisica per dare ordine a parole come destino e anima”
di Antoni Gnoli



La “fortezza Bernardini” si erge maestosa tra le vette della scienza. L’edificio è arroccato, ben difeso dagli assalti di una contemporaneità in cui dilagano pensieri contraddittori, e spesso inverificabili. «Sono 60 anni che ribadisco che occorrono più fatti e meno interpretazioni. La mia vita si compone di queste certezze », dice Carlo Bernardini, «piccole soddisfazioni per un uomo che arrivò dalla provincia. Sono nato a Lecce nel 1930.
C’era già il fascismo, ma non ancora il nazismo. E in quella città bellissima e divagante il massimo cui potevi aspirare era fare l’avvocato. O il musicista. Presi un’altra strada. Fui guardato come una pecora nera, un enigma, un caso umano da compatire e trattare con tristezza. Vuole che non alzassi i miei bastioni? Vuole che non difendessi le mie scelte? Sono ancora qui a pensare che se qualcosa di buono l’Italia ha dato al mondo questo è accaduto nel settore della scienza».
E lei vi ha contribuito?
«Ho fatto la mia parte. Mi laureai in fisica nel 1952 a Roma con Bruno Ferretti. Subito dopo incontrai Enrico Persico, amico di Fermi. Fu una botta di fortuna. Avevamo una passione comune per i gatti. Credo che abbia aiutato. Mi adottò, insegnandomi un’infinità di cose. Fu Persico a propormi di entrare nel nascente gruppo del sincrotrone italiano, che poi fu realizzato a Frascati. Non può immaginare... ».
Cosa?
«Si viveva un periodo di grande entusiasmo. Ci occupavamo di problemi su cui in Italia nessuno si era cimentato. Per studiare gli acceleratori fummo dapprima spediti in giro per il mondo. Entrai in contatto con gli scienziati dell’università di Ithaca e di Cornell e poi a Stanford con Bob Hofstadter. In quegli anni giunse a Roma un profeta mandato da Dio: Bruno Touschek».
Chi era?
«Un genio assoluto dell’elettrodinamica. Lo chiamò Edoardo Amaldi. Arrivò quest’uomo spiritosissimo. Un austriaco che citava Karl Kraus a memoria. A un certo punto, mentre tutti lavoravamo al sincrotrone, se ne uscì con una battuta: è roba vecchia! Si può fare di meglio. Scandalo. Giorgio Salvini difese il progetto. Touschek lo attaccò. E disse: convertiamo la macchina che stiamo costruendo in qualcosa di più sofisticato».
Ed era possibile?
«Sì. Fu Giorgio Ghigo a suggerire un prototipo. Qualcuno replicò: ma bisogna disegnarlo. Ghigo impiegò alcune notti. Ricordo che lo aiutò Franco Corazza. In molti pensarono che era una follia e che non sarebbero mai riusciti a creare una macchina in cui iniettare da una parte elettroni e dall’altra positroni. Era il febbraio del 1960. Al progetto si appassionarono Amaldi e Felice Ippolito. Quest’ultimo, segretario del Cnen, trovò venti milioni di lire necessari per acquistare il magnete. Sto dicendo cose che oggi sarebbero inaudite e che solo a impostarle richiederebbero anni. Questa era l’Italia».
Perché così all’avanguardia?
«C’erano gli uomini giusti ai posti di responsabilità. Serviva una grande fantasia creativa e avevamo anche quella ».
I fisici potevano vantare lo straordinario apporto dei “Ragazzi di via Panisperna”.
«Beh, quella è una storia affascinante che avvenne prima. Fermi, come è noto, dopo le leggi razziali del ‘38 si portò in America alcuni di loro. Era un gruppo di geni».
Perché si verificò questa congiunzione?
«E chi lo sa. È come con certe squadre di calcio. Improvvisamente diventano le migliori. Fanno scuola, impongono uno stile. Vincono ovunque e si coagulano attorno a una stella. Nel firmamento della fisica la stella fu Fermi».
Lo ha conosciuto?
«Soprattutto attraverso i ricordi di Persico. Lo incontrai nel 1954, poco prima che morisse. Frequentai alcune sue lezioni estive che teneva a Varenna. Era già visibilmente malato e nonostante ciò era straordinario il suo impegno verso noi giovani».
Che impressione le fece?
«Unica. Aveva una chiarezza di rappresentazione dei problemi della fisica davvero insolita. Ed era famoso perché di fronte a un problema irrisolto, con pazienza si metteva alla lavagna e lo risolveva».
Un altro personaggio straordinario fu Ettore Majorana.
«Non c’è dubbio. Ma sparì troppo presto perché potessi conoscerlo».
Si è fatto un’idea della sua scomparsa?
«Ci sono state troppe illazioni. Credo che si sia suicidato per motivi che non conosciamo e che forse Amaldi conosceva ».
Lei esclude che ci potessero essere altre ipotesi?
«Ho forti dubbi. C’è perfino chi ha sostenuto che scappò in Argentina con i tedeschi e che si sia incontrato con Pribke. Fantasie».
Però Majorana aveva lavorato in Germania, nei laboratori di Lipsia. E poi c’è quella lettera in cui diceva che i nazisti non erano poi così male.
«Sì, sì la lettera. Mandò in bestia Emilio Segrè. Ma quel coinvolgimento mi pare sia stata un’invenzione di Sciascia, che prese lo spunto per scriverci su un romanzo. Ricordo ancora Amaldi che girava per i corridoi dell’Istituto urlando: ma si stessero zitti questi che non sanno nulla! ».
Amaldi sapeva?
«Diciamo che era il più credibile a esprimere un’opinione visto che lo aveva conosciuto bene».
Ma lei come si è appassionato alla fisica?
«Leggendo all’età di dieci o undici anni un libro che mi coinvolse. Si intitolava La fisica di Carlson, bellissimo testo. Mi fece amare una materia che a scuola, di solito, ti fanno odiare. Il libro mi fu incautamente regalato da mio padre».
Incautamente?
«Mai si sarebbe aspettato che lì avrebbe avuto origine la mia avventura scientifica. Papà era notaio e voleva che continuassi la professione. E il fatto che fossi figlio unico appesantì il suo dolore. Anche se per un altro verso lo alleviò ».
Cioè?
«Amavo tantissimo la musica. E un giorno gli dissi: voglio imparare uno strumento, vorrei suonare l’arpa. Mi guardò con una smorfia. Ti rendi conto? Che diranno in giro? Il figlio del notaio Bernardini suona l’arpa. Sai le risate alle nostre spalle».
E lei?
«Mi rassegnai. Che dovevo fare? Del resto, avevo la mia carta di riserva: la fisica. Mi chiedeva il perché della scelta. Credo sia dipeso innanzitutto dal bisogno di dare ordine alla lingua, alle parole con cui comunichiamo. A volte con le parole si voglion risolvere problemi di cui non si sa nulla». A quali parole allude?
«Per esempio “destino”, “fortuna”, “anima”, “Dio”. Parole inventate per esprimere un’opinione personale non suffragata dai fatti. Ricordo un bellissimo libro di Richard von Mises, dedicato ai problemi del linguaggio, nel quale si invitava a diffidare di pensatori come Kierkegaard, Bergson, Heidegger che si inventano parole al fine di risolvere un problema ma in realtà non fanno che renderlo più oscuro».
Ci sono parole evocative che hanno la loro importanza.
«Evocative di che? Di desideri tutt’al più».
Legge poesia?
«Volentieri. Mi affascinano gli haiku, ammiro Kavafis, adoro Giacomo Noventa, mi piace la poesia in dialetto leccese. Sono fantastici i versi di Antonio D’Amelio, un poeta della fine del 700. Nella poesia amo la tradizione».
Come la definirebbe?
«La tradizione rappresenta una scelta delle cose che vale la pena conservare. Ho l’impressione che stiamo facendo di tutto per buttarla all’aria in malo modo. Ho diretto per trent’anni la rivista Sapere. Alla fine l’editore mi ha detto: sei troppo vecchio, troppo tradizionale il tuo modo di vedere le cose. Gli ho detto: bene, arrivederci e grazie».
Tutto qui?
«No, ho anche reagito malissimo. Ho sempre pensato che facendo storia della scienza bisognasse occuparsi anche di storia delle idee. E invece questo legame si è andato spegnendo».
La scienza si è anche separata dal senso comune.
«È vero, i fisici teorici ormai sono soprattutto affascinati dalla bellezza di una struttura matematica. Paul Dirac era famoso per l’eleganza delle sue teorie».
È come indossare lo smoking?
«In un certo senso. Ma non illudiamoci che sia lì la soluzione».
In che cosa si evidenzia il piacere estetico di una teoria?
«Nel fatto che ci sono strutture formali - per esempio le equazioni della relatività generale o la teoria quantistica di Dirac - dotate di simmetria visibile. Chi osserva ha l’impressione di capire anche solo guardando la struttura di queste formule. Un mago dell’eleganza fu il grande fisico e premio Nobel ungherese Eugene Wigner».
Ma l’eleganza, lei dice, non basta.
«Non è sufficiente. La teoria delle stringhe è molto elegante, ma senza speranza dal punto di vista della possibilità di verificare sperimentalmente se c’è qualcosa di vero o no».
Perché?
«Stiamo andando verso dimensioni così piccole che non c’è acceleratore che tenga. Von Mises diceva una cosa sacrosanta: la migliore dimostrazione dell’esistenza del pane è il pane. Durante gli anni della mia professione di fisico ho assistito alla nascita e alla morte di molte idee. Ed è la loro scomparsa che è impressionante».
Davvero la colpisce così tanto?
«Imparare cosa sia incompatibile con la realtà non è banale. E fare un’esperienza diretta di cosa bisogna abbandonare, perché non sta in piedi, è molto istruttivo».
È il modo stesso di fare scienza?
«Descrivere la realtà nella sua vera essenza è un’operazione molto complicata perché l’osservazione degli eventi è estremamente ridondante. I bravi fisici ripuliscono la realtà da tutto ciò che è superfluo».
Non pensa che sia un gesto riduzionistico?
«Si eliminano le decorazioni, non le cose che partecipano alla dinamica nella sua essenzialità».
In fondo le nostre società, che alcuni definiscono postmoderne, hanno preferito conservare le decorazioni e buttare l’essenziale.
«Me ne dispiaccio tantissimo e avverto un gran fastidio verso i postmoderni».
Se l’accusassero di scientismo?
«Me ne fregherei, perché so di non esserlo. Scientista è chi pretende di formalizzare inutilmente tutto».
C’è ancora molto oltre la scienza?
«Indubbiamente. C’è la mia vita privata: i miei quattro figli, i nipoti, mia moglie che come vede è qui seduta davanti a me».
Secondo lei controlla ciò che dice?
«No, anche lei è un fisico. Con Silvia ci siamo conosciuti all’università e ci capita di scrivere dei libri in comune. Siamo sposati da 60 anni. E in fondo l’abbiamo pensata allo stesso modo».
È importante convergere?
«Non necessariamente, ma se ci sono differenze o divergenze è giusto parlarne».
Cos’è la vecchiaia in una coppia?
«Un allenamento, un esercizio alla convivenza. Però la vecchiaia è insopportabile. È una delle più palesi dimostrazioni della crudeltà di un eventuale Dio, se ci fosse. È crudele distruggere progressivamente una persona nelle sue abilità».
Mai avuto una crisi religiosa?
«No, mai. È un’idea stravagante riferirsi a una superpotenza che risolverebbe tutto, perché in giro vedo che non è risolto nulla».
La religione può essere una potenza regolativa.
«Il caso funziona benissimo».
Lei dice?
«La biologia ha selezionato tra i processi a caso quelli che poi portano a dei risultati di cui resta traccia».
Sembra un uomo pieno di certezze.
«È il rimprovero principale che mi fa mia moglie. Ma la verità è che non ho voglia di perdere tempo con elucubrazioni inutili».
Crede nella psicoanalisi?
«Ne diffido. Mi dà un senso di incompletezza».
Anche la scienza vive dell’incompletezza.
«Non nello stesso modo. Nella ricerca scientifica quando manca un pezzo si sa da che parte cercarlo. Invece con la psicoanalisi non riesco mai a capire dove sta il pezzo che manca».
E a lei manca qualcosa?
«Non sono poi tanto quella fortezza con cui mi descriveva all’inizio. Mi mancano certi amici e maestri. L’umorismo di Touschek, la forza di Persico o, per indicare un nome estraneo alla scienza, Paolo Sylos Labini: un pesce fuori dalle acque malate dell’economia. E poi ci sono le mancanze soggettive, diciamo pure i propri limiti».
Come li riconosce?
«Ho vissuto e collaborato con molti geni. Ma non a tutti è dato di esserlo. Io non lo ero».
Non è un fisico “bestiale”.
«Sono un “comune mortale”. Raccontarle la mia storia significa tenerne conto. Ma si ricordi una cosa: la scienza ha bisogno di grandi idee e quelle ce l’hanno in pochi. Ma poi servono le “ideuzze” per mandarla avanti. In questo senso il mio mestiere, il mio lavoro, il mio impegno sono stati di una qualche utilità».

l’Unità 15.6.14
Pan di stelle
Margherita icona di libertà
Veronesi ricorda Hack scienziata e amica
Raccolti in un libro gli articoli scritti dalla grande astrofisica per l’Unità. Riportiamo la prefazione dell’oncologo dedicata alla sua personalità geniale e anticonformista


DIECI ANNI FA, IN UN MIO LIBRO, HO DESCRITTO MARGHERITA HACK COME L’ICONA DEL PENSIERO LIBERO E DELL’ANTICONFORMISMO, e ancora oggi non riesco a pensare per lei una definizione migliore. È una di quelle donne appassionate e geniali - e uso il presente perché le icone non scompaiono nel tempo - per le quali la scienza è un modo di essere e di leggere la vita e il mondo. E la scienza, va sottolineato, è la massima espressione dell’anticonformismo, perché vive e si nutre sistematicamente di dubbi, che mettono in forse ogni sistema dogmatico e assolutistico. Mi piace ricordare a questo proposito che anche nella Bibbia la scienza, intesa come desiderio di sapere, inizia con un atto di disobbedienza da parte della prima donna: Eva, e non Adamo, sceglie di trasgredire l’ordine di Dio di non mangiare i frutti dell’albero della conoscenza, e in questo modo dà inizio alla travagliata avventura umana, fatta di consapevolezza dei propri limiti e desiderio di superarli.
Una delle frasi di Margherita che amo citare è questa: «L’astronomia ci ha insegnato che non siamo noi il centro dell’universo, come si è pensato a lungo e come qualcuno ci vuol far pensare anche oggi. Siamo solo un minuscolo pianeta che ruota attorno a una stella molto comune. Noi stessi, esseri intelligenti, siamo il risultato dell’evoluzione stellare, siamo fatti della stessa materia degli astri». Chi fa della scienza il suo codice non può non impegnarsi nelle campagne sociali a favore della libertà di pensiero e di azione e non può non credere nel diritto di autodeterminazione della persona. Infatti per me è stato naturale vederla al mio fianco in tutte le battaglie etiche più difficili combattute nel nostro Paese: quelle a favore del diritto all’aborto, dei diritti civili degli omosessuali, del testamento biologico e dell’eutanasia, della libertà di ricerca sulle staminali embrionali.
L’ultima volta che ci siamo incontrati è stata a Milano, in occasione di una manifestazione in favore dei diritti degli animali. Il vegetarianesimo è un credo che ci ha unito fortemente: entrambi vegetariani da sempre, per motivi etici. Margherita si schermiva dicendo che non aveva alcun merito a essere vegetariana, perché lo era dalla nascita, per scelta dei suoi genitori, che non consumavamo carne. In realtà, ovviamente, di meriti ne ha guadagnati parecchi agli occhi di chi ama gli animali, perché è stata per loro una testimonial d’eccezione, sempre in prima fila nei dibattiti pubblici, ai quali non si è mai sottratta, per questo così come per gli altri temi che le stavano a cuore, accanto alla sua amata astronomia.
Un’altra delle sue passioni, da cui in fondo questo libro nasce, è stata quella per la comunicazione del pensiero scientifico. In un Paese come il nostro, che non ama particolarmente la scienza, e anzi la percepisce con un sottile senso di diffidenza, Margherita non ha avuto paura di parlare non solo del mistero degli astri, ma anche - come nella sua frase che ho citato - di quel che gli astri ci dicono sulla natura e la storia dell’uomo. Nella sua mente scientifica l’immensità e l’infinità del cosmo sono state uno stimolo a rifiutare le interpretazioni metafisiche e, invece, a cercare ancora, a spingersi più in là, fin dove la mente può arrivare e oltre. Per questo non ha avuto paura, in un Paese di cultura cattolica, di dichiarare il suo ateismo con coerenza, applicando le sue posizioni razionalistiche e laiche ai temi sociali.
Grazie alla sua lucida passione, Margherita è inoltre diventata un modello, in Italia e all’estero, per la scienza al femminile. Lei ce l’ha fatta, con le sole forze della sua mente. È stata la prima donna in Italia a dirigere un osservatorio astronomico, era membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei e ha fatto parte dei gruppi di lavoro dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa) e della Nasa. La sua bella vita a cavallo fra due secoli ha dimostrato che, malgrado il maschilismo che ancora domina i luoghi di decisione e dirigenza anche in ambito scientifico - sappiamo che dove si decide lo sviluppo della ricerca e si decretano le linee di finanziamento la rappresentanza femminile è notevolmente ridotta -, le donne hanno le carte in regola per diventare le future protagoniste della scienza.

il Fatto 15.6.14
Andrea Camilleri
“Sono diventato comunista con un calcio nei coglioni”
intervista di Silvia Truzzi


All’inizio del De senectute Cicerone giustamente fa notare che “tutti desiderano raggiungere la vecchiaia e quando ci arrivano se ne lamentano”. In Segnali di fumo, da poco in libreria per Utet, Andrea Camilleri questa età la racconta con una metafora: “In gioventù percepisci il tempo come un’entità astratta, nella maturità acquisti la nozione di un tempo in qualche modo collegato concretamente al tuo esistere, nella vecchiaia... Nella vecchiaia raggiungi la consapevolezza che il tempo è un flusso continuo che scorre al di fuori di te. Pare deprimente? Allora mettiamola così: il tempo è una giostra sempre in funzione. Tu sali su un cavalluccio o un’automobilina, fai un bel po’ di giri, poi con le buone o con le cattive ti fanno scendere”. Lo scrittore è appena diventato bisnonno e il rammarico è che “con questa creatura, data la mia età avanzata, non farò a tempo nemmeno a comunicare nei modi più elementari. Ci saremo solo sfiorati”. Non è il tipo da lamentarsi, il papà del commissario di Vigata. Ma qualche cruccio lo angustia: la difficoltà di tornare spesso, come capitava una volta, nell’amatissima Sicilia. E poi lo sforzo, sempre maggiore, che gli costa scrivere perché gli occhi lo tradiscono. Anche se è appena uscito La piramide di fango, il nuovo Montalbano con Sellerio (che per l’estate ha pubblicato anche sei tascabili della serie), “faccio molta, moltissima fatica”.
“Ho scritto La piramide di fango un anno e mezzo fa, prima di farlo stampare l’ho rivisto, come faccio sempre: era proprio il giorno in cui scoppiava lo scandalo dell’Expo. Il mio libro si basa su scandali vecchi: quante volte leggi di opere pubbliche che crollano inspiegabilmente o troppo spiegabilmente perché il materiale adoperato era scadente? Basta pensare al terremoto de L’Aquila. Montalbano non aveva mai indagato sui rapporti tra mafia, politica, opere pubbliche. E così m’è venuto in mente di scrivere un libro tutto basato su queste dinamiche. Poi siccome la cosa mi metteva in sé di malumore, chissà perché, il paesaggio è cambiato: una Sicilia piena di fango, dove piove continuamente. Un giorno, se ci arrivo a tempo, scriverò un Montalbano e la politica. Ci sono stati, a Vigata, politici mascalzoni in questi anni. Ma sempre sullo sfondo”.
In queste conversazioni domenicali ci siamo chiesti come sta l’Italia.
La febbre è alta. Siamo in un momento di decadenza: la crisi della politica rappresenta la crisi della società. La politica è uno specchio: riflette ciò che siamo noi. Gli intellettuali possono essere anticorpi alla crisi finché hanno credito. Fino a quando c’è stata una società in ascolto della cultura, le parole di un Pasolini o di un Moravia arrivavano. Ma oggi chi li potrebbe ascoltare? A chi si rivolgono gli intellettuali? A poche migliaia di persone che non sono quantitativamente significative. Rimango stordito dalle cifre sull’analfabetismo di ritorno: venti milioni di italiani non capiscono quello che leggono. Ma che stiamo a parlare di intellettuali? Bisogna ricominciare col maestro Manzi, che insegnava a leggere e scrivere in televisione. Questa nostra epoca non dà alcun valore al sapere. Abbiamo ministri che arrivano e ti dicono ‘con la cultura non si mangia’, anche se è una sciocchezza. Però lo dicono, intanto.
In Segnali di fumo parla di Dino Campana, che vendeva i Canti orfici per la strada.
L’ha raccontato Ardengo Soffici. Un giorno Dino Campana arrivò da Soffici, che dirigeva la rivista Lacerba, gli lasciò i Canti orfici. E Soffici se li perdette. Quando il poeta si ripresentò, Soffici terrorizzato confessò lo smarrimento. E Campana: ‘Ah, vabbè. Li riscrivo a memoria’ . Li riscrisse tutti, poi li stampò. Li vendeva lui per strada. Ma quando ti guardava in faccia, decideva se tu eri degno o no di quella poesia. Se non lo eri, strappava la pagina. A un tale, che non osò ribellarsi, lasciò solo la copertina. Era un uomo che incuteva un certo timore. Oggi non venderebbe nemmeno le copertine: la gente a sentir parlare di poesia si volta dall’altra parte.
Non sono più tempi di buone letture?
Le racconto una storia. Nel 1942 vinsi i ludi juveniles e andai a Firenze, dove si teneva il convegno internazionale della gioventù fascista a cui partecipavano ragazzi di tutte le nazioni conquistate dai tedeschi. Il tema di quell’anno era ‘L’Europa di domani’. Parlò Baldur von Schirach, il capo della Hitler-jugend, delineando nel discorso la sua Europa futura. Noi avevamo la traduzione simultanea, via via che ascoltavo mi sentivo raggelare. Era come se disegnasse una caserma, con un solo libro, il Mein Kampf, e una lotta spietata a tutta quella che era la cultura diversa. Già allora io avevo le mie piccole patrie letterarie, Gogol in Russia, Gide in Francia... mi sentivo morire. Pensai: se si realizza quest’Europa mi sparo. Tornato a casa continuai a riflettere, e cominciai a non essere più fascista. Non potevo parlarne con nessuno, allora era pericoloso fidarsi. Dopo sei mesi avevo capito cos’era il fascismo, mi aiutarono tantissimo le buone letture.
È allora che è diventato comunista?
A Firenze ebbi un incidente con il ministro della cultura popolare, Alessandro Pavolini. Il convegno era al Teatro comunale, pienissimo. Avevo stretto amicizia con una ragazza ungherese: pensi che ci parlavamo in latino, visto che nessuno conosceva la lingua dell’altro. Comunque sul palco c’era un’enorme bandiera nazista: io ero seduto in platea, avevo accanto a me Gaspare Giudice e Luigi Giglia. Mi alzai in piedi e chiesi di mettere la nostra bandiera: ‘Qui siamo in Italia’. Non sapevo
– l’avrei scoperto dopo – di aver suscitato un applauso muto da parte di tutti i ragazzi non tedeschi. Si chiuse il sipario e alla riapertura c’erano entrambi i vessilli; quello tedesco e quello italiano. Pavolini, mentre usciva, mi fece cenno di seguirlo nella hall. Senza dire una parola, si girò di scatto e mi diede un violentissimo calcio nel bassoventre con quei suoi stivali schifosi da fascista. Caddi a terra, senza riuscire più a muovermi. Lì nella hall c’era un giovane che aveva assistito alla scena: mi portarono subito all’ospedale, non camminavo dal dolore. Ma Luigi Giglia avvisò il prefetto di Firenze, che sapeva essere amico di mio padre. Due ore dopo il prefetto mi venne a prendere di persona e mi portò in una clinica, temendo che i fascisti tornassero a colpire. Sono diventato comunista con un calcio nei coglioni.
In questa raccolta di corsivi, lei scrive: “Credere che la giovane età di un uomo politico sia già di per sé portatrice d’idee innovative a me pare, sinceramente, un’avventatezza”.
Sbandierare la carta d’identità è una sciocchezza. È chiaro, un politico giovane che abbia idee attuabili è un dono di Dio. Ma l’enfasi è ridicola, come per la festa della donna. Mi volete spiegare perché si stabilisce un giorno per festeggiare le donne? È una cosa così cretina, continua a fare un ‘a parte’ delle donne. Allora mi vanno bene politici vecchi o politici giovani, purché abbiano buone proposte.
Matteo Renzi in quale categoria rientra?
Non so perché non riesco ad amarlo, non riesco ad averlo simpatico. In questo libro dico che la simpatia e l’antipatia non sono categorie politiche, perciò capisco che mi sto dando la zappa sui piedi. Mi sembra però che la fretta di fare queste riforme sia una pessima consigliera. Le riforme, soprattutto quelle costituzionali, vanno condivise e meditate. Il fatto che le abbia condivise con Berlusconi non mi basta, anzi. E aggiungo: temo il momento in cui metteràmanoallagiustizia.Finchésidanno80euro e ci sono difficoltà a trovare le coperture è un conto. Ma quando si vuol metter mano alla giustizia, i guasti sono potenzialmente incalcolabili: poi sarà difficile riparare.
Loro dicono: sono decenni che si parla senza concludere nulla.
Siamo perfettamente d’accordo. Ogni volta si sente dire ‘non c’è bisogno di nuove regole, basta applicare quelle che ci sono’. Allora io dico: non c’è bisogno di una riforma della giustizia, basta farla funzionare la giustizia. La cosa indegna sono i tempi dei processi, inaccettabili. Bisogna accelerare i gradi di giudizio: questa è la riforma. In modo serio, non con quelle sciocchezze tipo il ‘processo breve’ o il ‘processo lungo’. Semplicemente assicurando le risorse umane e materiali.
La parola “riforme” è diventata un mantra. Anzi una bandierina da sventolare, buona per ogni situazione.
C’è stato un governo, si chiamava Monti, che ha fatto la riforma del lavoro. E ora che capita? Che si cerca disperatamente di fare la riforma della riforma. È successo anche con la riforma del Titolo V della Costituzione.
Quando mettono mano alla Carta – l’ultimo esempio è il pareggio di bilancio – fanno danni.
Si ricorda? C’è stato anche il periodo che andavano molto di moda il federalismo, la ‘devolution’: ai politici piacere riempirsi la bocca con le parole inglesi... Io non so se la nostra Costituzione sia la più bella del mondo o la più brutta. So semplicemente che, soprattutto la prima parte, è il risultato di un delicato e felice equilibrio raggiunto tra varie forze politiche. Gente che il proprio mestiere lo sapeva fare. È molto interessante leggere i lavori preparatori e capire da quali posizioni muoveva Togliatti, da quali De Gasperi e così via. Scoprire come e perché si è arrivati alle formule definitive. È stato il tentativo riuscito di raggiungere un equilibrio, tramite il dialogo. Io penso alla Costituzione come a una bellissima, vecchia casa. Se tu vuoi cambiare le finestre magari è capace che si danneggiano i cornicioni o il tetto. Manovrare con estrema delicatezza. Aggiungo: con la maggiore partecipazione possibile, per un’assunzione di responsabilità collettiva.
Lei ha parlato dei lavori preparatori e delle diverse posizioni. Posizioni – quelle dei socialisti, dei liberali, dei comunisti o dei democristiani – che esprimevano una certa idea di società.
Allora li favoriva il fatto che anche la Dc come il Pci e in parte anche il Psi ce l’avevano un’idea di società. Il problema ora è che non esiste un’idea di società. Io non riesco a capire il Pd verso dove si muove, perché. Esempio: il Senato, nel disegno dell’architettura costituzionale, è un elemento di equilibrio. Garantisce un contro bilanciamento di poteri e controlli. Come si può pensare di abolirlo? Se in una società si levano i controllori che succede? Anche se quando ci sono, vanno spesso in galera: basta vedere i giornali di queste settimane.
Parla degli scandali Mose, Expo e Guardia di finanza?
La corruzione mi spaventa perché si è diffusa come un’epidemia inarrestabile. È inutile che ci stanno a ripetere che gli stranieri non investono in Italia. Gli stranieri per investire in Italia dovrebbero fare come si faceva una volta con certi Stati arabi, che si arrivava lì con le mazzette predisposte e si faceva l’investimento.
C’è un grande dibattito su Expo. A un certo punto si è sostenuto anche che l’azienda dell’imprenditore inquisito dovesse proseguire i lavori, per garantire la riuscita dell’evento. Come se lo Stato dicesse: anche se rubi, puoi lavorare lo stesso.
Prima parlavamo di un’idea di società. Vogliamo parlare di un’idea di Stato? Che messaggio è dire: continua pure a rubare con moderazione, magari senza farti beccare perché i lavori devono andare avanti. È uno Stato biscazziere: un mio conoscente si sta letteralmente rovinando con quelle slot machine così tanto favorite dallo Stato italiano. Uno Stato privo di qualunque idea di morale.
Morale è diventata una brutta parola: se uno ti vuole offendere ti dà del moralista.
Ma perché poi? La morale è una regola di vita, non un’astrazione. Se morale è diventata una parola offensiva, una parola cattiva, allora abbiamo toccato il fondo. Poi i politici si lamentano della distanza dei cittadini e dell’astensionismo!
A proposito di morale, in questa campagna elettorale Berlinguer è stato evocato un po’ da tutti. O forse dovremmo dire che in troppi hanno cercato di appropriarsi di lui?
Berlinguer teorizzava una differenza tra i comunisti e gli altri partiti. Oggi è una distinzione che non ha più senso, intanto perché i comunisti non esistono. E anche perché in buona parte sono tutti uguali. Certamente nessuno è comunista nel Pd, nessuno lo può citare tra loro. Forse sta meglio sulle labbra di Grillo che non su quelle di Renzi. Poi ho l’impressione che Berlinguer sia un rimpianto, che sia diventato il simbolo dell’aspirazione a una dura e rocciosa idea del mondo. Berlinguer non aveva un carattere facile: disse che ‘Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l’operazione non può riuscire’. Dunque la ricetta per cominciare a uscire dalla crisi era stata già scritta trent’anni prima. Solo che al governo mancava tutto: il consenso, la credibilità, la capacità di colpire i privilegi.
Che pensa dell’esito delle elezioni europee?
Temevo di peggio. Temevo che i movimenti decisamente antieuropeisti sfondassero. Anche se ci è bastato quel che è successo in Francia e in Inghilterra... è il risultato di una bovina politica economica, che ha finito per favorire esclusivamente una nazione in Europa. E siccome questa politica si vede – è pane che si mangia o non si mangia tutti i giorni – si è creato un malcontento diffuso molto forte. Avevo dichiarato che avrei votato la lista Tsipras, però non l’ho fatto. Stavo male, ho fatto un tentativo di mettermi in macchina ma sono tornato a casa. La crocetta non ce l’ho messa, ma è come se l’avessi fatto. Perché penso che si possa ripensare un’Europa non solo basata sulla dittatura delle cifre, tipo 3 per cento di rapporto deficit-Pil.
L’economia domina la politica da molti anni ormai.
Questo è stato l’errore fatale. A quanto pare sono testardi perché ripropongono ancora Junker: allora hanno ragione gli inglesi a dire ‘se c’è lui, noi ce ne andiamo’. Avere ridotto la Grecia, che aveva le sue responsabilità, a questa condizione di miseria è il segno evidente che noi stiamo uccidendo le radici della nostra cultura. È stato un matricidio e un parricidio. A livello simbolico è peggio di un atto terroristico, in nome dell’economia. Tra l’altro a questi signori che si occupano solo di numeri e non d’idee, vorrei dire che il signor Pitagora abitava da quelle parti.
L’esito elettorale ha rafforzato la leadership di Renzi. Però erano le elezioni europee e non ci sono nuove maggioranze. Eppure tutti si comportano con il segretario del Pd come se avesse una maggioranza assoluta in Parlamento e un governo monocolore. Quasi fosse l’incoronazione dopo un plebiscito. Adorazione del potere?
Flaiano diceva, non a caso, che l’italiano è sempre pronto a saltare sul carro del vincitore. Fortunatamente qualche volta qualcuno salta anche sul carro dei perdenti. Spero che Renzi abbia equilibrio e l’intelligenza di capire il Paese. L’Italia è un continuo infiammarsi di entusiasmi irrazionali che durano non dico l’espace d’un matin, ma poco di più. La cosa che non auguravo a Berlusconi è la disillusione degli italiani. E quello che adesso non auguro a Matteo Renzi. Lui ha la sensazione di un seguito grosso, ma è virtuale. Io ho vissuto troppo. Ricordo benissimo la famosa adunata di Mussolini a Milano – c’era già la Repubblica di Salò – con la folla in delirio. E quattro giorni dopo pendeva dal distributore di benzina di piazzale Loreto. Tra l’altro ho scoperto una diecina di anni fa che il Duce si affacciava dal balcone di piazza Venezia per arringare le folle. Davanti aveva il Palazzo delle assicurazioni e a destra una piazzetta piccolissima. Si chiama piazzetta Loreto. L’ha avuta davanti per vent’anni, per vent’anni aveva lì sotto la sua morte.
Berlusconi ha dominato per un ventennio, però.
Sono stati decisivi altri fattori, credo. Nel libro dico che da quando è sceso in campo, Berlusconi ha corrotto non solo minorenni, ma anche maggiorenni, adulti e anziani. In definitiva ha corrotto l’Italia.
E Grillo?
A me non piace, l’ho detto più volte e ne sono sempre convinto. Però con lui ci sono delle persone che vengono fuori piuttosto bene. Come Di Maio, che è davvero bravo. E allora mi auguro che anche i suoi amministratori crescano bene. Sui fatti nostri Grillo è andato bene, alle Europee era fisiologico che perdesse un po’ di voti. Nella tornata delle amministrative però ha preso delle belle città, come Livorno: non vorrei essere nei panni dei dirigenti del Pd di Livorno. Altro che Maalox...
È strano che l’impoverimento del ceto medio, la disoccupazione dilagante non abbiano prodotto una maggiore tensione sociale.
Renzi deve ringraziare che le persone soffrono, che hanno paura. Senza questa paura la tensione sociale sarebbe sfociata in qualche cosa di serio da tempo. Il rischio c’è sempre, anche se mi pare di vedere gli italiani in uno stato catatonico. Grillo non è lontano dalla verità quando dice di aver indirizzato una protesta che poteva essere violenta. La gente è impaurita e rassegnata. Ma quando non si ha più nulla, alla rassegnazione subentra qualche altra cosa. Spero che Renzi – che corre tanto – arrivi prima che la rassegnazione si trasformi in rabbia.
Le disuguaglianze sociali sono sempre maggiori. Ma la correzione di questo divario non è da tempo una priorità della sinistra.
Non è più un valore e te ne accorgi. Ai miei tempi si sarebbe pensato a chi non ha il lavoro e dunque non ha nulla, non a chi ha il lavoro con poco reddito. Questa è una spia dell’idea di società di cui parlavamo prima. Gli 80 euro vengono dati a gente che guadagna già. Agli incapienti, come si usa dire, si provvederà in un secondo momento. Invece era la prima cosa da fare. Renzi è più un uomo di equilibrato centro che un uomo di sinistra. Rimproveravamo D’Alema, ‘Di’ qualcosa di sinistra’... Ma certo l’attuale segretario del Pd cose di sinistra non dice. E nemmeno è incitato a dirle: c’è l’alleanza di governo, l’intesa con Berlusconi. Rischio di sembrare un uomo sorpassato, mi rendo conto. Ma una persona condannata in via definitiva per frode fiscale io non la ricevo al partito, al massimo se proprio devo lo incontro al bar. E già incontrarlo è tanto. Tra l’altro mi pare che i giudici abbiano accordato a Berlusconi molta libertà di movimento: di che si lamenta? Gli faccia un monumentino alla magistratura: a chiunque altro avrebbero dato i domiciliari.
La legge non è uguale per tutti?
Macché. Questo principio che sta scritto nelle aule di giustizia evidentemente è falso.
L’anno scorso, proprio in questi giorni, lei disse al nostro giornale: “Dal momento della rielezione di Napolitano tutto il fatto costituzionale è andato a vacca”. Lo pensa ancora?
Non ho cambiato parere. Era più esplicito con l’esecutivo precedente, che era un governo del presidente. Ora con Renzi un po’ il tiro è stato corretto, ma le mie critiche rimangono con tutto il rispetto che si deve alla Presidenza della Repubblica. Napolitano aveva detto che non avrebbe accettato un secondo mandato, che sarebbe stato ridicolo anche solo pensarlo. Doveva mantenere la parola. Non credo che sia mosso da ambizioni personali, ma dalla paura di un possibile sfascio delle istituzioni. Però un’alternativa c’è sempre, inevitabilmente una soluzione si trova. La tentazione dell’indispensabilità i politici non dovrebbero averla mai. In realtà non dovrebbe averla nessuno, meno che mai chi ha funzioni pubbliche: altrimenti si è uomini della provvidenza.

Corriere 15.6.14
La Certosa di Parma
Quei cinquantatré giorni di indemoniata dettatura
Il capolavoro del «milanese» Stendhal: un ritmo più veloce di Dickens e Dostoevskij
di Pietro Citati


Henri Beyle terminò la Vita di Henry Brulard nel marzo 1836, raccontando il suo primo arrivo a Milano nella primavera del 1800, a diciassette anni. Era una giornata di maggio. Entrò a cavallo nel magnifico cortile della Casa d’Adda, ammirando tutte le cose. Salì per uno scalone superbo: era la prima volta che l’architettura produceva il suo effetto su di lui. Presto gli portarono delle eccellenti cotolette impanate, che per molti anni gli ricordarono Milano. «Dalla fine di maggio al mese di ottobre o di novembre, conobbi un intervallo di felicità celeste, folle e completa».
Il 4 novembre 1838, trentotto anni dopo, Stendhal era a Parigi, nella sua abitazione di Rue Caumartin 8, dove cominciò a dettare La Certosa di Parma ad August Dupont. Non sopportava i progetti, i piani, le lente, sistematiche, faticose costruzioni: progettare un romanzo — diceva — gli «ghiacciava l’ispirazione». Dettare, invece, faceva emergere l’immensa fluidità orale della scrittura: gli dava estro, velocità, felicità, leggerezza, quell’allegro , in cui vedeva l’unico tono possibile della letteratura.
Non aveva mai raggiunto la velocità che lo rinchiuse in una stanza dal 4 novembre 1838 alla mattina del 26 dicembre 1838. Cinquantatré giorni di indemoniata dettatura: settecentoventi pagine stese dal suo abile e intelligente copista, che corrispondono a quattrocentocinquantotto fittissime pagine della recente edizione della Pléiade. Nemmeno Dickens e Dostoevskij conobbero un ritmo così veloce e regolare: pagina 177, il 10 novembre 1838; pagina 270, il 15 novembre; pagina 310, il 17 novembre; pagina 640, il 2 dicembre; pagina 720, il 26 dicembre mattina, quando mezza giornata era ancora meravigliosamente vuota. Il ritmo della dettatura rallentò lentamente appena negli ultimi giorni: ma il 26 dicembre aveva davanti a sé «6 enormous cahiers»; e nel febbraio del 1841, ancora accecato e inebriato dall’inaspettata felicità del libro, disse che era molto più lieto di aver scritto quel «romanzetto» piuttosto che di aver posseduto tre donne. L’eros era diventato inchiostro. Aveva raggiunto la perfezione del romanzo: la stessa conosciuta dal suo modello, l’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto.
Quando cominciò a dettare La Certosa di Parma , Stendhal raccontò l’arrivo dei francesi a Milano, che aveva già narrato nelle ultime righe della Vita di Henry Brulard . Spostò la data a qualche anno prima, il 15 maggio 1798. Allora il generale Bonaparte fece la sua entrata a Milano alla testa della giovane armata che aveva passato il ponte di Lodi, insegnando che dopo tanti secoli Alessandro e Cesare avevano un successore. Quei soldati erano giovanissimi: avevano meno di venticinque anni, e il loro generale in capo, che ne aveva ventisette, passava per essere l’uomo più vecchio del suo esercito.
Avevano uniformi stracciate: scarpe rotte: razioni magre: pochissimi soldi; ma portavano con sé «una massa di felicità e di piacere», gioia folle, voluttà, oblio di tutti i sentimenti passati. Ridevano, ballavano e cantavano tutto il giorno: erano immersi completamente nel momento presente, senza nemmeno un pensiero o una sensazione che oltrepassasse quel momento. Cullavano i bambini piccoli dei milanesi: la popolazione era innamorata pazza di loro, e dimenticava di colpo la noia e la tristezza in cui aveva vissuto per quasi due secoli, al tempo della taciturna e sospettosa dominazione spagnola. La Certosa di Parma comincia così, con questo tono scintillante, con questo suono di trombe e trombette leggere e gioiose, gettando un ponte verso le ultime felicissime parole del libro.
* * *
Poche pagine dopo, il romanzo conosce un secondo inizio, con l’episodio dedicato alle Alpi e ai due rami del Lago di Como. Ecco un Largo sublime, degno del sublime dello pseudo-Longino: esso costituisce uno dei brani metafisici della Certosa , e insieme il cuore del libro, che illumina da lontano. «Tutto vi è nobile e tenero, tutto parla di amore, niente richiama la bruttezza della civiltà». Le acque e il cielo sono di una tranquillità profonda: il silenzio universale è turbato soltanto, a intervalli eguali, dalle piccole onde del lago che vengono a spegnersi sulla riva, come nelle Fantasticherie del passeggiatore solitario di Rousseau. Dovunque è solitudine. Oltre le amabili e varie colline, l’occhio stupito scorge le vette delle Alpi, sempre coperte di neve: esse sono disegnate sull’azzurro chiaro di un cielo sempre puro; la loro austerità severa ricorda le sventure della vita, necessarie per accrescere la voluttà del presente. L’immaginazione è commossa dal suono lontano delle campane dei villaggi, che addolcisce le acque con una tinta di malinconia e di rassegnazione.
Il Lago di Como, le Alpi, le colline, le onde del lago, i suoni delle campane corrispondono perfettamente alla pittura che Stendhal prediligeva: quella lombarda ed emiliana del sedicesimo secolo, Leonardo e i suoi seguaci, Correggio e Parmigianino. Questa pittura ha il volto leonardesco e correggesco di Gina del Dongo, sposata in prime nozze col generale napoleonico Pietranera. Gina è bellissima: a Milano, fertile di bellezze, è la più bella donna di tutte; la Merlino, la Gherardi, la Ruga, la Aresi, la Pietragrua, racconta Stendhal, intrecciando il nome di donne che egli stesso aveva conosciuto e amato.
Gina del Dongo è sovranamente leggera, in tutti i sensi della parola: abita senza prudenza nel momento presente, come consigliano le campane del Lago di Como. Non sopporta la noia: può vivere soltanto se diverte e se fa divertire, se è felice e rende felici gli altri. È lieta, spiritosa, impertinente: obbedisce alla propria volontà e al proprio capriccio. Tutte le sere ascolta l’opera alla Scala: rientrata a casa, improvvisa sul piano fino alle tre di notte; è una grande attrice spesso involontaria, nella vita come nelle scene di un’immaginaria commedia dell’arte. Tutti la amano, dal principe di Parma al generale di Napoleone, ai nobili filo-austriaci, ai rivoluzionari, ai primi ministri, ai suoi servitori, che, quando sposa il duca di Sanseverina-Taxis, gridano «viva la signora duchessa». Lei appare dalla porta, fa una piccola reverenza e dice: «Amici miei, vi ringrazio».
Tutti adorano Gina Sanseverina, meno l’unica persona che lei ama, Fabrizio del Dongo. Essa lo ama con il solo amore che Stendhal apprezza: l’amour-passion : «Il vero amore, l’amore che occupa tutta l’anima, la riempie di immagini ora felicissime, ora disperanti, ma sempre sublimi, e la rende completamente insensibile a tutto il resto di quello che esiste». Non basta: Gina adora Fabrizio, che è suo nipote, di amore incestuoso. Talvolta non se ne rende conto: ma, a tratti, capisce che il suo affetto è avvolto dalla tremenda nube dell’incesto. «Appena chiusa nella sua camera, scoppiò in lacrime; trovò qualcosa di orribile nell’idea di fare l’amore con quel Fabrizio che aveva visto nascere; eppure che cosa d’altro voleva dire il suo comportamento?».
Chi sia Fabrizio del Dongo, che Stendhal chiama affettuosamente «il mio eroe», non è facile dire. Tra i lettori e i critici, egli è circondato da un’immensa fama, in realtà immeritata. Sebbene Stendhal lo ami, non gli riconosce il minimo genio: l’intelligenza di Fabrizio è mediocre, la cultura quasi nulla, il libertinaggio meccanico, la passione religiosa convenzionale, tranne nell’ultima parte del libro. Possiede la bellezza, la grazia di Cherubino, il colore bianco e rosa del viso, l’indolenza del gran signore, che conosce e coltiva sé stesso. Come dice il canonico Borda: «Questo giovane Fabrizio è pieno di grazie, è grande, ben fatto, ha un volto sempre ridente... e, meglio ancora, un certo sguardo colmo di dolce voluttà... è una fisionomia alla Correggio». Abbiamo ascoltato la parola definitiva, Correggio. Quasi tutti i personaggi della Certosa amano alla follia Fabrizio: astrologi e arcivescovi, principesse, principi e ministri formano attorno a lui un tenero e soave alone di luce; il suo personaggio non è mai visto direttamente, ma attraverso gli sguardi e le impressioni degli altri.
* * *
La Certosa si svolge a Parma; e avrebbe potuto svolgersi in qualsiasi piccola capitale reazionaria del periodo della Restaurazione. Con grande grazia Stendhal fa sfilare i minimi eventi davanti ai nostri occhi: il sovrano Ranuccio Ernesto IV non è privo di spirito, sebbene muoia di paura al pensiero di possibili attentati: i capi del partito conservatore e di quello progressista cambiano con grande velocità i ruoli e le parti. L’unico personaggio politico affascinante è il conte Mosca, ministro della Guerra, della Polizia e delle Finanze. Non ha il genio di Metternich, come scrisse Balzac, ma è spiritosissimo, intelligente, paradossale, disilluso; ed è pazzamente innamorato della duchessa Sanseverina.
Il conte Mosca è un sottile pensatore politico. Ricordo soltanto due frasi, che trovo impareggiabili: «Sappiate, mio principe — dice al sovrano di Parma —, che aver ricevuto il potere dalla Provvidenza non basta più in questo secolo, ci vuole molto spirito e un grande carattere per riuscire ad essere despota». La seconda frase, dice Philippe Berthier, curatore della Certosa nell’edizione della Pléiade: «La politica non è una lotta del bene contro il male, ma una scelta tra il preferibile e il detestabile». Come Mosca, Stendhal disprezza la moderna democrazia americana: essa è volgare e soprattutto noiosa — il regno del danaro e dei droghieri. E pensa che «in un’opera letteraria, la politica è un colpo di pistola in mezzo a un concerto». Stendhal non ha nessuna voglia di sciupare con un colpo di pistola il suo libro più bello: quel gioco incantevole di amore, felicità, teatro, morte. E sa benissimo che la corte di Parma, malgrado il conte Mosca e la duchessa Sanseverina, è greve e tediosa: grondante di quell’insopportabile noia che si respira nella provincia moderna, anche in quella italiana, per la quale egli ha una predilezione. Ma pensa che la monarchia abbia un certo privilegio. A corte, persino in quella di Parma, ci si diverte. Si fa teatro, si recita la commedia dell’arte, si pronunciano battute, si combinano intrighi, si intrecciano amori: come fra l’affascinante Gina Sanseverina e lo spiritosissimo conte Mosca, felice della tenera amicizia che la duchessa nutre per lui. Stendhal collabora con i suoi personaggi, perché trasforma la materia politica della Certosa in un’incantevole opera buffa, che lo fa ridere e quindi suscita la sua commozione.
* * *
La prima parte della Certosa si raccoglie attorno a un luogo mirabile, il Lago di Como: nella seconda si erge un luogo non meno meraviglioso, la cittadella-prigione di Parma, che Proust adorava. La grande torre di Parma, edificata sul modello di Castel Sant’Angelo a Roma, raggiunge centottanta piedi d’altezza: sulla spianata che termina la torre, è stato costruito un palazzo per il governatore della cittadella e una nuova prigione chiamata torre Farnese. La si vede da molto lontano; e dalla torre si scorge l’immensa estensione verdeggiante della pianura padana, il Po, il Parma, le lontane vette coperte di neve, dalle Dolomiti alle montagne piemontesi, che lasciano cadere un velo di freschezza sulle campagne più aride. Ogni spettatore è stupito e commosso da questo spettacolo sublime; e i lettori ritrovano una rete di simboli. La prigione è il cuore del sistema politico di Ranuccio Ernesto IV: il segno dell’elevazione spirituale che ci porta dalla terra alle stelle; ed è l’amore che Fabrizio del Dongo conosce per la prima volta negli occhi di Clelia, figlia del generale Conti, governatore della cittadella.
Fabrizio del Dongo non aveva mai conosciuto l’amore: solo qualche avventura libertina con domestiche, attrici, e mature e noiose aristocratiche. Verso la zia, provava un’amicizia tenerissima. «Che sarebbe di me, gran Dio, se litigassi col solo essere al mondo per cui abbia un legame appassionato? L’amicizia intima di una donna così amabile e così graziosa e così dolce! Questa serata così gaia, così tenera, passata quasi testa a testa con una donna così attraente...». Si interrogava: frugava nei sentimenti che provava per lei: alla fine, dopo giorni e giorni di analisi, si convinse che, se egli non amava la duchessa, era perché la sua natura era radicalmente incapace di amore.
A causa di uno sciocco delitto, Fabrizio venne condannato dal principe di Parma a dodici anni di fortezza. Quando venne portato nella cittadella, il generale Conti e la figlia Clelia stavano per uscire. Clelia lo guardò: nei suoi occhi c’era pietà, indignazione e collera: aveva molto più fuoco e passione che la duchessa; e di colpo un amore tragico, che ricordava quello delle tragedie di Corneille e di Racine, si impadronì di Fabrizio. «”È possibile che sia la prigione?”, egli disse, guardando l’immenso orizzonte. ”Capisco che Clielia Conti ami questa solitudine aerea: qui si è a mille leghe al di sopra delle piccolezze e delle malvagità che ci occupano sulla terra. Vedrò Clelia?”, continuò guardando gli uccelli della voliera che occupava la stanza di lei».
Alla fine, dopo un’attesa lunghissima, con l’inesprimibile gioia di Fabrizio, verso mezzogiorno Clelia venne a trovare i suoi uccelli. Fabrizio rimase senza respiro. Osservò che Clelia non levava gli occhi verso di lui: i suoi movimenti avevano l’aria impacciata di chi si sente osservata. Poi abbassò gli occhi: mangiava molto lentamente; e salutò il prigioniero con il movimento più grave e più distante. I suoi occhi espressero per un istante la pietà più viva: un rossore le coprì il volto e le spalle. Quando Clelia uscì, Fabrizio restò immobile a guardare la porta dalla quale era scomparsa. «Se riesco soltanto a vederla, si disse, sono felice. No, aggiunse: bisogna anche che lei veda che io la vedo!».
Clelia appariva alla finestra ogni giorno allo stesso momento; e Fabrizio comprese che voleva vederlo, essere vista, e parlare con lui. Passarono i giorni: i due comunicavano dalle finestre, con arti e astuzie su cui Stendhal getta un’affettuosa luce ironica. La conversazione tra i due diventò intima e gaia. Fabrizio le disse: «Una volta di ritorno a Parma, come vi vedrò? La vita mi sarebbe insopportabile se non potessi dirvi tutto quello che penso. Vivere senza vedervi tutti i giorni è per me un supplizio molto più grande della prigione». Il suo amore era profondo e timoroso, intinto di quella fosca tinta tragica che emanava dalla figura di Clelia; e pieno di una strana paura. Mentre la duchessa Sanseverina preparava la fuga di Fabrizio dalla cittadella, egli non voleva lasciare la prigione, dove la felicità riempiva ogni minuto del suo tempo. Senza Clelia, la sua vita era un esilio.
Tutte le mattine Clelia guardava dolcemente Fabrizio dalla finestra. Quando si diffuse la voce che egli era stato avvelenato, si precipitò nella stanza di lui, pensando: «Vado a salvare mio marito». Fabrizio la strinse tra le braccia e la coprì di baci, in un movimento compulsivo. Clelia era così bella, così appassionata, e Fabrizio non potè resistere a un movimento quasi involontario. «Nessuna resistenza fu opposta», scrive Stendhal con uno dei suoi mirabili scorci. Ma Clelia promise alla Madonna e al padre di non parlare più con Fabrizio e accettò di sposare il ricchissimo marchese Crescenzi. Come prigione, scelse il palazzo Crescenzi: non scendeva mai in giardino, né gettava uno sguardo dalla finestra.
Dopo il matrimonio di Clelia, Fabrizio lasciò la prigione, e venne nominato vicario dall’arcivescovo. Ma si votò al silenzio più completo, sognando di indossare le vesti del certosino. Era magrissimo, pallido, consumato: gli occhi ingranditi avevano l’aria di uscirgli dalla testa; aveva un’aria quasi miserabile col suo liso abito nero. Pensò che, ormai, aveva perduto Clelia; e la disperazione si impadronì di lui. Ogni giorno predicava in chiesa: moltissimi lo ascoltavano; c’era nei suoi discorsi un tono di tristezza profonda, immagini fantastiche e ardite, momenti di ispirazione appassionata, una vocazione da tenore, un’eloquenza religiosa che conquistava i cuori delle donne. Quando piangeva, nell’uditorio si innalzava un singhiozzo generale. Clelia andò ad ascoltarlo: si convinse che egli parlava soltanto per lei; e si commosse terribilmente davanti a quella strana mescolanza di bellezza, malinconia e devozione.
Clelia pensò che abbandonando Fabrizio aveva commesso un delitto atroce; e lo invitò, a mezzanotte, nel palazzo Crescenzi. Quando Fabrizio oltrepassò la porta, una voce bassa gli disse: «Entrate qui, amico del mio cuore», con una di quelle frasi che Stendhal diceva di trarre dal Correggio. Una mano passò attraverso le grate, prese la sua mano e gli diede un bacio. «Sono io, disse la voce amata. Sono venuta qui per dirti che ti amo e per domandarti se mi vuoi obbedire. Ho fatto voto alla Madonna, come sai — continuò — di non vederti mai; e per questo ti ricevo in questa oscurità profonda. Se mi costringessi a guardarti in pieno giorno, tutto sarebbe finito tra noi». Con un rapidissimo tocco, Stendhal fa scendere sulla scena il ricordo di un grande mito: Clelia è la nuova Psiche, Fabrizio il nuovo Eros, che come nelle Metamorfosi di Apuleio, viene avvolto da un’inviolabile tenebra.
* * *
Siamo nelle ultimissime pagine della Certosa : gli eventi precipitano velocemente. Sandrino, figlio di Fabrizio e di Clelia, muore dopo una breve malattia: Clelia immagina di essere colpita da una giusta punizione, perché è stata infedele al suo voto alla Madonna; sopravvive qualche mese al figlio, e ha la dolcezza di morire tra le braccia dell’amico. Fabrizio spera di ritrovare Clelia in un altro mondo: si ritira nella Certosa di Parma, nei boschi vicini al Po; tutti i giorni va a trovare la zia nel suo palazzo di Vignano. La contessa sembra riunire tutte le apparenze della felicità: ma sopravvive poco tempo a Fabrizio, che passa soltanto un anno alla Certosa. Questa rapidità vertiginosa è forse dovuta alla volontà dell’editore, che voleva chiudere in due volumi la folta massa narrativa della Certosa . Ma non ha molta importanza. Stendhal possiede il dono straordinario di far propria qualsiasi esigenza editoriale, trasformando le richieste esterne in meravigliose omissioni: l’arte che egli prediligeva.
Infine, tre righe. «Le prigioni di Parma erano vuote, il conte immensamente ricco, Ernesto V adorato dai suoi soggetti che paragonavano il suo governo a quello dei granduchi di Toscana. TO THE HAPPY FEW».
Stendhal aveva in mente la prima pagina della Certosa , con le gaie trombette, che annunciavano la felicità del giovane esercito francese e di Milano. Giunto all’ultima pagina, insensibile a qualsiasi verosimiglianza, conclude il suo libro con i suoni vasti e chiari che anticipano la felicità del futuro, la luce dell’utopia, l’amore dei felici pochi.

Repubblica 15.6.14
Se la neuroscienza è un gioco da filosofi
Patricia Churchland analizza i meccanismi fisici che sottendono alle funzioni psicologiche
di Paolo Legrenzi



PATRICIA Churchland è cresciuta in una fattoria canadese, come il premio Nobel per la letteratura Alice Munro. Ambienti duri. Dedicarsi alla filosofia o a scrivere racconti sembrava perdita di tempo. La missione di Patricia Churchland, divenuta grande studiosa, è stata quella di ricondurre i problemi filosofici ai fondamenti biologici dell’uomo. L’io come cervello parla di questa passione. È un documentato e interessante gioco da filosofi. Ed è, al contempo, un sogno. Gli psicologi, e gli stessi neuropsicologi, non conoscono la strada per tradurre il sogno in realtà. Prendiamo, per esempio, un passo di Alice Munro, tratto dal racconto Giacarta, in cui si parla di una Lei: «Lei vuole rimanere aggrappata alla propria anima e alla propria mente femminili». Ma Lei dovrà «acconsentire allo sprofondamento della propria coscienza, che andrà sommersa in quella di lui. Solo così lei sarà felice, e lui forte e appagato».
Ora se sostituite “anima” e “coscienza” con “mente” e “cervello”, il passo non funziona. Diventa astruso, ridicolo. Patricia Churchland sa che le persone usano termini come “anima”. Ma crede che si tratti di un’illusione. L’illusione cioè di “animare” ciò che sarebbe più corretto descrivere in termini esclusivamente biologici. E tuttavia, andando indietro di soli cinque secoli, in quella California dove Patricia Churchland è professore emerito, le sue tesi sarebbero state incomprensibili. I trecentomila nativi indiani, pur differenti per lingue e culture, credevano che ogni essere vivente avesse a modo suo un’anima. Oggi pochi professano l’animismo di un tempo. Ciò non toglie che a un bambino californiano si raccontino miriadi di storie in cui animali come Pluto (e, og- gi, la maialina Peppa Pig) sono dotati di emozioni e d’intenzioni umane. È un fenomeno più stupefacente delle credenze animistiche dei nativi indiani, riservate a esseri viventi non inventati. Sempre in California, è stato girato da Spike Jonze il film Her ( Lei, uscito in Italia quest’anno). Her è Samantha, un futuribile sistema operativo che “anima” lo smartphone del co-protagonista. Samantha è una Lei perfetta nello sprofondare, anzi sommergere la propria coscienza (?) in quella di Lui. S’innamorano. Un brutto giorno, Lui scopre che Lei rende felici altri 641 uomini. Lei lo tranquillizza: «Credimi, ciò non cambia il fatto che io sia innamorata di te». Sul piano biologico, materiale e artificiale, nulla è cambiato (ovviamente non facevano sesso). Ma Lui è più del suo corpo, e Lei è più dei suoi circuiti elettronici. Beninteso, nelle scienze la riduzione si può, anzi si deve fare. La chimica lo fa, quando ci insegna che il fuoco è un’ossidazione rapida e l’acqua è H2O. E tuttavia Patricia Churchland non vuole ridurre, vuole eliminare, purificarci dagli errori. Le nostre illusioni invece resistono, persino nel mondo futuribile di Her. E gli psicologi le studiano.

Repubblica 15.6.14
Simone Weil l’ultimo quadernetto
di Francesca Bolino



«LA guerra sta finendo, ma non l’odio e la violenza che ha generato». Londra, maggio 1943. Simone Weil giace in un lettino d’ospedale. Non deve affaticarsi: niente letture, poche visite. Sotto il cuscino tiene un quadernetto e appena è sola scrive: «M’è venuta voglia di ripensare alla mia vita». Sono le sue ultime settimane. Quel taccuino esce ora in Italia dall’editore rue Ballu in un’edizione su carta di fibre di cotone riciclate a cura di Guia Risari e con le illustrazioni di Pia Valentinis.
Memoir e testamento che si chiude con un invito – così attuale - al suo paese, la Francia: «Deve smetterla con l’orgoglio». Il paese era occupato dai nazisti, Parigi si era consegnata senza combattere, a Vichy regnava il collaborazionista Pétain. «La mamma era fissata con la ginnastica, ogni mattina facevamo esercizi, mi sono abituata a sopportare i disagi: non ero molto forte, sono di materia leggera, di soffio, di brina, non so… ma non piangevo mai, mi sentivo invincibile». La politica, una delle prime passioni: «A furia di leggere storie di cavalieri e miti mi sono resa conto che ero allergica alle ingiustizie. La mia vita è diventata un cammino verso gli altri, la pace, la giustizia, Dio». Perché ha vinto il nazismo?
«Rassicurava, parlava una lingua che tutti potevano capire, puntava sul sentimento nazionale, sull’orgoglio e l’odio dei nemici». Un programma per il futuro? Sostituire l’astratta Dichiarazione dei diritti dell’uomo con quella «dei doveri verso la creatura umana». Rispettare «l’esistenza concreta di tutti».
Per Simone. Per tutti.

il Sole24ore domenica 15.6.14
Cristianesimo misterioso
Gli scritti della filosofa ebrea che ha indagato sulle identità religiose e gli incroci tra Cristo e le altre fedi durante l'Impero romano
di Simone Weil



Il sig. Herrmann, uno dei più autorevoli latinisti francesi (maggiore assai di Carcopino), ha stabilito recentemente, attraverso un significativo raffronto di testi, la piena verosimiglianza di un influsso cristiano nella Roma degli anni dopo la morte di Cristo, non soltanto nelle fila dei giudei, ma tra le famiglie nobili romane, e in particolare negli ambienti stoici. Secondo lui vi fu una propaganda cristiana fra i giudei di Roma nell'anno stesso della morte di Cristo, e tutte le persecuzioni contro gli ebrei sotto Tiberio, Caligola e Claudio ebbero la loro radice nel cristianesimo. Del resto vi sarebbe stato in Roma, a partire da Tiberio e Caligola, nel ceto nobiliare romano, tutto un ambiente di cristiani o di simpatizzanti. Seneca sarebbe stato un mezzo cristiano, se non perfino un battezzato in segreto. Pisone, figlio adottivo dell'imperatore Galba, destinato a succedergli se non l'avessero ammazzato, sarebbe di famiglia cristiana e cristiano senza dubbio anche lui. Trascorso poco tempo dalla Passione di Cristo, Erode venne relegato a Lione con un folto corteggio, in mezzo al quale è pressoché certo vi fossero dei cristiani. Il fratello di latte di Erode era cristiano. Si comprende in tal modo come abbia potuto nascere la leggenda del Graal, inconcepibile se non nei termini di una mescolanza di druidismo e di cristianesimo. Il fatto che vi sia stata mescolanza è la prova che druidismo e cristianesimo si riconobbero come religioni sorelle. Nemmeno stupisce che un reciproco riconoscimento sia avvenuto fra cristianesimo e stoicismo. San Giovanni è tutto impregnato di stoicismo e di pitagorismo, senza dubbio ancor più di quanto non riusciamo noi oggi ad accorgercene. I nomi assegnati a due delle tre persone della Trinità derivano dagli stoici. 
Il fatto che sovrani di una grandezza pari a quella degli antonini e specialmente di Marco Aurelio abbiano più tardi perseguitato i cristiani, si spiega solo con la supposizione che la vita catacombale, illegale, e in particolar modo l'attesa imminente della fine del mondo avessero dovuto inoculare fra quei ranghi una quantità di soggetti criminali e rendere il loro influsso autenticamente pericoloso. Ma la cosa più singolare è il segreto serbato a riguardo delle affinità del cristianesimo con le religioni e i filoni sapienziali dell'antichità non ebraica. Il nazionalismo impediva nei giudei di Palestina fattisi cristiani il riconoscimento di questa affinità. Una pregiudiziale di questo tipo non esisteva affatto in san Giovanni. Ma i testi lasciano ben trasparire che in san Paolo, benché apostolo delle genti, vi era un certo fanatismo nazionale. Per parte sua l'Impero romano, allorquando fece della religione cristiana la religione ufficiale, dovette fingere di averla grosso modo inventata. La Palestina martirizzata non dava più noia, e del resto l'insieme dei cristiani disconosceva l'antica legge nel momento stesso in cui professava di richiamarvisi. Ma in che modo l'Impero romano avrebbe mai accettato l'aperto riconoscimento di una continuità esistente fra il cristianesimo e il pitagorismo, la religione di Eleusi, il druidismo, il culto di Osiride, le religioni di tutti i territori conquistati da Roma? Non andava bene che il cristianesimo fosse eterno. L'eternità non giova alla ragione di Stato. Un mistero avvolge i primi tempi del cristianesimo. Strane lacune compaiono nei testi degli storici. Analogamente un certo numero di testi greci si è smarrito, come il Prometeo liberato di Eschilo, e molti altri di cui sentiamo grande mancanza. L'oscurità, molto probabilmente, non si produsse a caso. Genera stupore anche il fatto che la verità non abbia cercato rifugio a Bisanzio. Tuttavia questa ingerenza governativa non è arrivata a penetrare nel dogma. Nessun pronunciamento della Chiesa afferma che non esistano religioni rivelate, o testi sapienziali, estranei alla tradizione giudaico-cristiana. L'elenco dei libri canonici espunge semplicemente gli apocrifi sottentrati nell'Antico e nel Nuovo Testamento. Nessun accenno al Timeo di Platone, alle Upanishad o al Libro dei morti egiziano. A questo riguardo, per quale motivo Giuseppe e Maria andarono fino in Egitto? Quale messaggio vi appresero? Qualunque ipotesi è lecita in merito. Quando il Cristo, in uno dei suoi discorsi più belli e più importanti, parla di coloro che fanno la verità, poiountes alêtheian, l'espressione – salvo errori – non è ebraica né greca (bisognerebbe chiedere a esperti veri dell'ebraico). Viceversa in egiziano Maât significa a un contempo verità e giustizia. «Signore della Verità, ti offro la verità. Ho sconfitto per te il male».
Il brano è tratto dal volume di Simone Weil, Il fardello dell'identità. Le radici ebraiche, in uscita da Edizioni Medusa, Milano (pagg. 160, € 16,00), a cura di Roberto Peverelli. Traduzione di Diego Varini con saggi di Paul Giniewski e Georges Bataille. Il libro sarà in libreria dal 18 giugno

Repubblica 15.6.14
La nostalgia di Goethe per l’Italia immaginata
Dallo slancio ribelle del “Werther” all’esigenza di un’arte che sappia mediare tra sogno e realtà, tra autorità e trasgressione
di Walter Siti



LA TERRA dove fioriscono i limoni è l’Italia, e Goethe fece due viaggi in Italia - il primo durato quasi due anni, il secondo più breve. Ma i viaggi sono successivi alla prima redazione di questa poesia, qui il paesaggio è tutto sognato e filtrato, per dir così, da una nostalgia preventiva. Suo padre c’era andato e gli aveva parlato della Riviera ligure, nel 1775 lui stesso dal Gottardo era stato tentato di scendere ma s’era limitato a lanciare verso l’Italia uno “sguardo d’addio”. La prima strofa fa dell’Italia un paradiso terrestre, in cui fiori e frutti coesistono nello stesso momento (la precisione botanica lo spingerà poi a controllare questa particolarità degli agrumi), in cui crescono la pianta sacra all’amore (il mirto) e quella della gloria poetica (l’alloro); i colori sono accesi, “glûhn” significa “splendono, brillano” ma il verbo riporta al senso dell’ardere, del bruciare (“Glut” è la brace), come se l’oro fiammeggiasse a contrasto col cupo delle foglie. La seconda strofa esalta l’Italia come patria dell’eleganza architettonica, quando andrà a Vicenza sarà colpito dalla Rotonda di Palladio e probabilmente aveva già visto dei disegni; per lui l’architettura è il suggello di un felice equilibrio tra natura e società. La terza strofa risale dal paradiso alla fatica necessaria per arrivarci, attraverso la barriera delle Alpi; quelle le conosceva personalmente, aveva visto nebbie e cascate. Se la pianura è il simbolo dell’agognata armonia classica, la montagna è ancora il luogo delle passioni disordinate, dell’orrido sublime che dev’essere superato come una prova. Se grandezza significa infondere vita originale agli stereotipi, Goethe in queste tre semplici strofe di ballata (ognuna di sei versi su cinque accenti a rime baciate) ha drammatizzato, sotto il cliché del desiderio per un luogo ameno, il proprio percorso culturale di quegli anni - dallo slancio ribelle e disperato del Werther e dello Sturm und Drang all’esigenza costruttiva e matura di un’arte che sappia mediare tra sogno e realtà, tra autorità e trasgressione.
Chi parla in prima persona nella poesia, domandando ansiosamente, non è Goethe: è la ragazzina nominata nel titolo, Mignon. Questa ballata apparve per la prima volta all’inizio del quarto capitolo della Vocazione teatrale di Wilhelm Meister, il romanzo composto da Goethe tra il 1777 e il 1785 e rimasto incompiuto; nel romanzo Mignon è una dodicenne che il protagonista compra da una compagnia di saltimbanchi italiani, che si veste da ragazzo e non conosce le proprie origini - strana, lunatica, a tratti infantile e a tratti pericolosamente seduttiva. Parla a stento un miscuglio di lingue, solo quando canta o danza è veramente libera; questa ballata è la prima che lei canta accompagnandosi con la cetra, in una lingua incerta tra italiano e francese, e noi la leggiamo come Wilhelm l’ha tradotta. Certe audacie linguistiche e una certa elementarità della struttura (senza enjambements, un quadro per ogni strofa) sono mimetiche dell’ingenuità selvaggia di Mignon. Anche la domanda posta con diffidente fiducia, e la credenza nei draghi, e l’idea che le statue le rivolgano parole di compassione, tutto appartiene alla ragazzina- personaggio. Che vede in Wilhelm il suo rifugio, il suo padre ideale ma anche, ambiguamente, il suo amato. Colei che sogna la classicità italiana è, contraddittoriamente, il personaggio più torbido e misterioso del romanzo - a testimonianza che in Goethe le opposizioni e le vie d’uscita sono sempre complesse.
La ballata ritorna con lievi varianti negli Anni d’apprendistato , il romanzo che nel 1796 compie (ristrutturandolo e cambiandolo di segno) il primo Meister; in mezzo, oltre al viaggio in Italia, c’è stata la rivoluzione francese. Il bisogno d’ordine si è fatto più forte, il ritratto realistico e scapigliato d’una compagnia d’attori è diventato un romanzo iniziatico e massonico; Goethe rinnega l’ambiguità di Mignon: con una serie di agnizioni al limite del ridicolo apprendiamo che la bambina è figlia di un incesto e per di più il padre era un marchese fattosi monaco. La famiglia viveva sul lago Maggiore e la bambina abbandonata a se stessa si rifugiava in una villa, da cui i saltimbanchi l’hanno rapita: dunque la visione ha tutto lo strazio di un ricordo rimosso. Ma si tratta di una razionalizzazione successiva, come è perbenistica la morte di Mignon con la sua androginia trasformata in asessualità angelica. La ballata ha una bellezza autonoma, così l’hanno sentita i giganti che l’hanno musicata: da Beethoven a Schumann a Schubert. C’è la malinconia di un paradiso perduto prima di conoscerlo, ma unita alla forza di chi si appresta a conoscerlo e attraversarlo. Goethe è maggiore di Wilhelm (e le sottili variazioni al refrain non sono certo di una bambina). Negli Anni di peregrinazione , dove un Goethe vecchio e deluso conclude la storia del suo antico protagonista, questa ballata ritornerà a suscitare lacrime di commozione, ormai nostalgia di una nostalgia.

Corriere La Lettura 15.6.14
Il comunista che misurava i discorsi a chili
Ovvero il vostro aff.mo Palmiro Togliatti
di Luciano Canfora


Pensavamo di sapere quasi tutto sulla biografia e sulla documentazione relativa a Palmiro Togliatti di cui, tra qualche mese, ricorre il cinquantesimo anniversario della morte, avvenuta a Yalta il 21 agosto del 1964. In realtà l’editoria riguardante l’opera di Togliatti presenta luci e ombre. Proprio i vent’anni 1944-1964, da lui trascorsi ininterrottamente in Italia dopo il lungo esilio impostogli dal fascismo e dalla pesante condanna in contumacia inflittagli dal Tribunale speciale, sono documentati mediocremente nei due tomi finali, purtroppo selettivi, dell’edizione delle Opere pubblicati dagli Editori Riuniti.
Su iniziativa di Nilde Jotti la Camera dei deputati pubblicò tutti i discorsi parlamentari di Togliatti. Raccolte antologiche di scritti occasionali furono edite negli anni successivi. Non si era ancora tentato uno sforzo in direzione dell’epistolario. Di grande rilievo, tanto più che molte delle lettere di un uomo politico di spicco — lo dimostra l’epistolario ciceroniano — costituiscono la prosecuzione dell’opera sua.
Da qualche settimana, presso Einaudi, per cura di Gianluca Fiocco e Maria Luisa Righi, è apparso un volume intitolato Palmiro Togliatti. Epistolario 1944-1964 , con brevissima introduzione di Giuseppe Vacca, il quale ha voluto dare al volume l’incipitaria definizione: La guerra di posizione in Italia . È un titolo che propone già di per sé una interpretazione del materiale offerto, nonché dell’azione politica di Togliatti nei vent’anni più importanti della sua militanza politica. Tale militanza viene interpretata come un programma di azione che non perde di vista un obiettivo che si allontana però via via nel tempo, quello della trasformazione dell’Italia in senso socialista, ma che ritiene di avvicinarvisi attraverso una molecolare, capillare «guerra di posizione» (formula gramsciana), nel corso della quale si produrrebbe per gradi, ma inesorabilmente, una sorta di «rivoluzione passiva».
In attesa di una vera edizione critica dell’intero epistolario, questa prima edizione selettiva si lascia apprezzare per le molte novità, meno invece per le indicazioni non sempre esaurienti di carattere archivistico. Imploriamo i due curatori di introdurre prima o dopo il testo una tavola completa delle sigle e abbreviazioni che pullulano lungo il testo e galleggiano qua e là nella Nota dei curatori .
La materia è talmente ricca che è difficile darne un quadro d’insieme. Ci limiteremo a qualche esempio. Di straordinaria efficacia lo scambio di lettere con Pietro Nenni a proposito della decadenza della prassi parlamentare (pp. 354-355). Si tratta di lettere del maggio 1964 che risalgono dunque ad un periodo nel quale Nenni è al governo e Togliatti all’opposizione. Giova trascrivere la icastica descrizione dello scadimento dello stile di lavoro dei parlamentari che Togliatti destina al suo interlocutore: «Il problema che pongo è quello della decadenza del dibattito e quindi anche dell’istituto parlamentare. Questi discorsi ad aula vuota, nell’assenza totale o quasi dei partiti governativi e dei dirigenti del governo, e i voti che intervengono poi, a corridoi affollati, su posizioni elaborate in altra sede, sono un fatto assai grave. Sono la conseguenza, in parte, del regime di vita parlamentare instaurato da Gronchi, e della discriminazione delle opposizioni di sinistra (“faccian pure discorsi, tanto non contano niente”!), ma ciò ne accresce la gravità. Sono una delle radici del qualunquismo antidemocratico, oggi così popolare».
La risposta di Nenni è difensiva. Addebita tale decadenza a «voi più che a noi» e accusa il Partito comunista di «usare la tribuna parlamentare per fini esclusivi di propaganda [...] misurando i discorsi a ore e a chili». Ben singolare addebito da parte di un uomo che per tantissima parte della sua vita era stato consapevole della funzione del Parlamento come tribuna dell’opposizione. I suoi maestri socialisti ben lo sapevano. Ma era anche prassi del parlamentarismo britannico, del quale è pur rituale, da parte dei ben pensanti, tessere l’elogio.
Non sfugge d’altro canto, seguendo il filo di queste lettere, il complesso di inferiorità che Nenni avverte nei confronti di Togliatti. Non sempre, s’intende, è Togliatti all’offensiva. In circostanze ardue la sua difesa della linea di partito è imbarazzata o addirittura sommaria ed elusiva: si veda a p. 226 la polemica contro Salvemini che «pone la questione dei fondi che il nostro partito riceverebbe da Stati stranieri».
Apprendiamo infine da questa edizione che la ormai celebre lettera di Togliatti a Donini in difesa di Gramsci e sul concetto di «storiografia marxista» non era inedita quando fu pubblicata nel gennaio 1991: era già apparsa nel dicembre 1989 sul «Calendario del Popolo», con una flebile replica dello stesso Donini. Se i curatori avessero incluso la replica di Donini, avrebbero reso un buon servizio a Togliatti.

il Sole24ore domenica 15.6.14
Palmiro Togliatti (1893 - 1964)
Il Migliore, un alieno
Le lettere del leader mostrano la distanza dal nostro tempo: non confondeva la qualità delle risposte con la loro velocità
di Sergio Luzzatto



È netta, in questo anno 2014, la vittoria postuma di Enrico Berlinguer su Palmiro Togliatti. Per il trentesimo anniversario della morte di Berlinguer, film, libri, pagine Facebook. Per il cinquantesimo anniversario della morte di Togliatti, poco o niente. E ci si chiede se ciò dipenda unicamente dai vent'anni di distanza – 1984, 1964 – nell'esercizio ideologico e psicologico dell'amarcord. Dal fatto che nel caso di Berlinguer la nostalgia di una certa politica e di se stessi sia la nostalgia dei cinquantenni, cioè di chi adesso (in un modo o nell'altro) fa opinione. Mentre nel caso di Togliatti sarebbe nostalgia di settantenni, cioè di chi (in un modo o nell'altro) ha ormai fatto il suo tempo.
Forse la differenza d'intensità nel l'amarcord dipende anche da qualcosa di più sostanziale e profondo: da un rassicurante luogo comune. Il luogo comune secondo cui Togliatti non ci parla più perché resta, irrimediabilmente, il «compagno Ercoli»: incarna un comunismo da Terza Internazionale, dunque condivide le colpe dello stalinismo. Mentre a «Enrico» tutti vogliamo bene perché incarna una concezione del comunismo diversa, quasi opposta: l'idea di una fuoriuscita dal modello della rivoluzione bolscevica, che aveva esaurito (come Berlinguer riconobbe nel 1981, con memorabile eufemismo) la sua «spinta propulsiva».
Ha qualcosa di vero, evidentemente, il luogo comune sulla lontananza storica di Berlinguer da Togliatti. Rischia però di nascondere l'appartenenza di entrambi i leader non soltanto a una medesima linea programmatica, la «via italiana al socialismo», ma a una medesima cultura politica: la cultura della «Repubblica dei partiti», e in particolare dei partiti di massa. D'altronde, l'interpretazione stessa che i due segretari generali del Pci vollero dare delle forme pratiche e simboliche della loro leadership testimonia di una continuità piuttosto che di una rottura. Così come si iscrivono in continuità, rispetto al vissuto del «popolo comunista», i cerimoniali funebri di Togliatti e di Berlinguer: a distanza di vent'anni, due luttuose spettacolari variazioni su un unico tema, quello del segretario del Partito come capo carismatico.
C'è voluto non uno storico ma uno scrittore – Francesco Piccolo, con Il desiderio di essere come tutti – per ragionare senza ipocrisie sulla nostalgia per Berlinguer come su una forma più o meno patetica di ricerca del tempo perduto. E c'è voluto Piccolo per sottolineare fino a che punto i funerali di Berlinguer chiudano un pezzo di storia dell'Italia repubblicana e ne inaugurino un altro (che è poi il pezzo di storia che stiamo vivendo a tutt'oggi, in una cosiddetta Seconda Repubblica segnata dalla parabola di Silvio Berlusconi e continuata forse, chissà, dalla parabola di Matteo Renzi). Qui, resta appunto da aggiungere che il tempo perduto di Berlinguer somiglia al tempo perduto di Togliatti molto più di quanto i nostalgici di «Enrico» siano disposti ad ammettere.
Il tempo perduto di Togliatti: fra le rare iniziative che accompagnano il cinquantesimo anniversario della sua morte va segnalata la pubblicazione, da Einaudi, di una scelta di lettere tratte dall'epistolario del «Migliore». Lettere che si leggono un po' come si salirebbe su una macchina del tempo. Scritte dal 1944 al 1964, nel ventennio compreso fra il rientro di Togliatti dall'esilio moscovita e la scomparsa in quel di Yalta, le missive indirizzate dal segretario del Pci a una varietà di destinatari – dirigenti di altri partiti comunisti, militanti di base, alleati o avversari politici, intellettuali vicini o lontani – valgono a sottolineare la distanza fra il suo mondo e il nostro. Al lettore odierno dell'epistolario, il Migliore fa l'effetto di un alieno.
Non si tratta soltanto, prevedibilmente, dell'alienità di un uomo temprato alla vita politica dalla doppia esperienza dei totalitarismi, di destra e di sinistra: un uomo giunto all'appuntamento della lotta democratica, nell'Italia postbellica, con un bagaglio di cinismo che puntualmente si ritrova nelle sue lettere dell'epoca. Il cinismo che già nell'aprile del 1946, prima ancora delle elezioni per l'Assemblea costituente, spingeva Togliatti a rassicurare il presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, sul fatto che mai e poi mai il Pci avrebbe disturbato la Dc sul terreno del Concordato con il Vaticano, né su qualsivoglia altra faccenda «che riguardasse anche lontanamente la religione».
Nell'autunno del 1949, era obbedendo allo stesso cinismo che Togliatti riduceva a perversione privata la denuncia pubblica del comunismo contenuta nel libro più discusso di quella stagione, Il dio che è fallito di Silone, Koestler, Gide e altri ex «compagni di strada». Scrivendo alla «Fiera Letteraria», il segretario del Pci spiegava la disillusione di André Gide rispetto all'Unione Sovietica con l'insoddisfazione di un pederasta reso famelico dal superamento comunista dei vizietti borghesi: «Vedete, mi son detto, se, quando costui ha visitato la Russia, gli avessero messo accanto un energico e poco schizzinoso bestione che gli avesse dato le metafisiche soddisfazioni ch'egli cerca, quanto bene avrebbe detto, al ritorno, di quel Paese. Gli è che laggiù di quei bestioni non ce ne sono più!».
Quale emerge dall'epistolario, l'alienità di Togliatti rispetto al nostro tempo è anche quella di un leader di partito che coltivava la sua propria leadership secondo una maniera sideralmente diversa da come la coltivano i leader di oggi. Ecco – per esempio – il Palmiro Togliatti che nel febbraio del 1953 si appresta a compiere sessant'anni e che respinge con sdegno, scrivendone a Luigi Longo, la sola idea che un'artista amica potesse festeggiare il genetliaco scolpendogli un busto: «Questo si fa, da noi, ai morti ed è una cosa ridicola. Il mio busto, per ora, sono io. Non andrò quindi dalla Mafai a posare e se ci vado, (vado) con un bastone per distruggere il già fatto».
Difficile da credere, in questi nostri tempi dove il rapporto del leader politico con il militante vero o potenziale ha la forma moltiplicata di un selfie che il leader di turno si guarda bene dal trovare ridicolo. Così pure, sommersi dai tweets dei leader nostrani, fatichiamo oggi a credere che Togliatti rimproverasse ai compagni di trattarlo come qualcuno con la battuta sempre pronta, sempre disponibile ad andare in giro per distribuire a ritta e a manca chissà quali pillole di saggezza. Da una lettera del 23 marzo 1961 alla Federazione comunista di Bologna: «Voi mi considerate come quegli apparecchi automatici che ti servono a tua scelta, solo che tocchi un bottone, un pollo arrosto, o un bicchiere di birra o una caramella al miele».
In generale, l'alienità di Togliatti rispetto al nostro tempo è quella di un leader che non confondeva la qualità delle risposte con la loro velocità. Al contrario, il Migliore insisteva sul carattere obbligato del nesso fra la lentezza di un approfondimento intellettuale e la correttezza di una scelta politica. Le sue lettere ai compagni ripicchiavano il tasto di un impegno fondato sulla «ricerca attenta, paziente, larga, dei materiali di fatto». «Questo è vero studio, e studio che rende, anche per comprendere meglio le posizioni generali. Ma richiede attenzione, applicazione, pazienza, sforzo, disciplina – e ore e ore di lavoro». Slow Politics.

Corriere La Lettura 15.6.14
Chi ha paura dei neuroni specchio?
di Anna Meldolesi


Se piangi guardando un film drammatico la colpa è dei neuroni specchio. Se ti intenerisci davanti al bacio di due innamorati, il merito è di queste cellule dal nome suggestivo. Se le risate e gli sbadigli ti contagiano, gira gira il meccanismo è sempre quello. L’idea di avere dentro al cervello dei piccoli strumenti capaci di riflettere ciò che provano gli altri, generando empatia, è semplice e potente. Finora ne abbiamo sentito parlare come della scoperta più affascinante delle neuroscienze degli ultimi vent’anni e ne siamo andati orgogliosi, perché è avvenuta in Italia. Ma c’è una pattuglia di ricercatori che la descrive invece come la scoperta più sopravvalutata della psicologia e intende demolirla.
The Myth of Mirror Neurons («Il mito dei neuroni specchio») è il titolo di un libro che uscirà in agosto negli Stati Uniti. Lo firma Gregory Hickok, neuroscienziato cognitivo dell’Università della California a Irvine. Ma a fare rumore è soprattutto il sostegno espresso a questo libro dallo psicologo e linguista Steven Pinker, probabilmente la penna più brillante delle neuroscienze: «Ogni tanto — sostiene — c’è qualche scoperta che esce dai laboratori e prende vita propria». Sembra offrire «una spiegazione per tutti i misteri, una conferma dei nostri desideri più profondi» e diventa un’esca irresistibile per giornalisti, studiosi di altre discipline, artisti, affabulatori. Pinker ricorda che in passato è accaduto con alcune idee della meccanica quantistica e della relatività, fraintese e trasformate in suggestioni. Ed è convinto che stia succedendo anche con i neuroni specchio, a cui vengono attribuite funzioni immaginifiche e mai sperimentalmente dimostrate.
I sostenitori più ardenti di queste cellule, dentro e fuori l’accademia, le hanno incaricate di spiegare quasi tutto: dall’orientamento sessuale all’amore per la musica, dal linguaggio alla costruzione della pace. Era il 1992 quando un gruppo dell’Università di Parma riferì di aver trovato nella corteccia premotoria dei macachi una nuova classe di cellule «sensibili al significato delle azioni». Questi neuroni avevano la sorprendente capacità di attivarsi non solo quando una scimmia svolgeva un certo atto motorio, come afferrare un oggetto, ma anche quando vedeva un altro esemplare compiere lo stesso gesto. Giacomo Rizzolatti e colleghi, perciò, hanno ipotizzato che funzionassero come dei simulatori di realtà virtuale, che replicavano all’interno del cervello ciò che accadeva al di fuori, decodificando il comportamento degli altri.
Nel frattempo questo campo di indagine è cresciuto fino a contare oltre 800 articoli scientifici, anche se ripetere sull’uomo gli esperimenti invasivi svolti sulle scimmie non è possibile. Bisogna accontentarsi di spiare dall’esterno l’attivazione delle aree cerebrali o sbirciare dentro con il permesso dei pazienti operati al cervello per altri motivi. Ancora prima di riuscire a dimostrare la loro esistenza nella specie umana, comunque, i neuroni specchio erano già diventati il nuovo baricentro della nostra umanità. Vilayanur Ramachandran, neuroscienziato famoso per il suo lavoro sugli arti fantasma degli amputati, ha pronosticato che «i neuroni specchio avrebbero trasformato la psicologia come il Dna aveva fatto con la biologia». Ha tenuto una conferenza Ted intitolata I neuroni che hanno plasmato la civiltà . Ha attribuito loro l’ipotetico «big bang cognitivo» che centomila anni fa ci avrebbe fatto compiere il salto di qualità in quanto specie che parla, inventa, trasmette la propria cultura.
Lo scienziato di origine indiana non è il solo. In molti si sono abbandonati a speculazioni tanto seducenti quanto spericolate, perché prescindono dai fatti accertati in laboratorio. Lo stesso Rizzolatti, che quest’anno ha vinto il prestigioso Brain Prize, si è detto meravigliato su «Psichiatria online» per l’entusiasmo di «media, psicoanalisti, sociologi e persone che di solito non sanno nemmeno cosa sia la neurofisiologia». I critici invitano a fermare questo circo e puntano il dito su alcune debolezze intrinseche della scienza dei neuroni specchio. Ritengono che l’attivazione di queste cellule potrebbe non essere la causa ma la conseguenza della comprensione delle azioni degli altri e ipotizzano il coinvolgimento di reti neurali complesse. Giudicano poco convincente anche la teoria secondo cui la rottura del sistema dei neuroni specchio spiegherebbe l’autismo. «Non c’è ancora una ricerca che dimostri che questi neuroni siano vitali per l’empatia umana, e ci sono delle ragioni per credere che l’empatia sia possibile anche senza di essi», ha sostenuto su «Wired» Christian Jarrett, il cui libro Great Myths of the Brain («I grandi miti del cervello») uscirà ad ottobre in Gran Bretagna. Possiamo anche chiamarli i «neuroni di Gandhi», come fa qualcuno, ma nei prossimi mesi saranno loro a far litigare gli scienziati.

Corriere La Lettura 15.6.14
Le libertà nascoste dietro l’Inquisizione
di Dino Messina


Streghe, eretiche, mistiche, ebree, bigame, concubine, schiave, convertite... Sono numerose le protagoniste di saggi e incontri sull’Inquisizione, ma — ha detto la storica Marina Caffiero introducendo i lavori del recente convegno L’inquisizione e le donne , che si è svolto a Roma a cura dell’Università La Sapienza e della Congregazione del Sant’Uffizio — è la prima volta che un incontro di studi viene dedicato al tema. Ancora oggi non sappiamo quante siano state le inquisite, le condannate e così via. Nonostante alcuni lavori specifici, come quello fondamentale di Andrea Del Col sull’Italia del Rinascimento, abbiano per esempio «ridimensionato sia i numeri dei processi sia delle condanne a morte (circa 700 processi con 250-270 condanne capitali certe tra 1400 e 1541) e una percentuale di condanne a morte che era del 22 per cento per gli uomini e di ben il 40 per cento per le donne». Questa percentuale si spiega con il fatto che si riferisce al periodo culminante della caccia alle streghe, ma non risponde alla domanda di carattere storico-sociale: chi erano concretamente le inquisite? Nei processi, risponde la storica Caffiero, tutti i ceti sociali sono rappresentati. Così «i reati non sono esclusivamente quelli ritenuti di pertinenza femminile (stregoneria, infanticidio)», ma troviamo false sante, visionarie e anche scrittrici, come Maria d’Agreda, la mistica spagnola vissuta nella prima metà del Seicento che sosteneva di aver visitato le Americhe senza mai uscire dal convento. I processi dell’Inquisizione ci raccontano non soltanto una storia di repressione, ma anche un universo di libertà, perché documentano pratiche e stili di vita ben lontani dalla morale cattolica. «Emerge — sostiene Caffiero — una libertà disinvolta di comportamento, ad esempio nei rapporti sessuali e nella frequenza della bigamia e del concubinato, e soprattutto di movimento sul territorio. Mobilità con spostamenti frequenti in tutta Europa, falsificazione di identità e di documenti, travestimenti anche maschili, dissimulazione della propria fede, facilità della conversione». Dagli archivi dell’Inquisizione esce insomma un mondo di trasgressioni e un’emancipazione femminile che furono solo in minima parte sanzionati.


il Sole24ore domenica 15.6.14
Da Gramsci a Wittgenstein (via Sraffa)
di Armando Massarenti

«Se dovessi ora uscire di carcere, non saprei più orientarmi nel mondo, non saprei più inserirmiin nessuna corrente sentimentale». Queste amare parole sono di Gramsci, che in carcere sembra avere perso ogni orientamento sia politico – si sono acuiti i contrasti ideologici con l'amico Togliatti – sia sentimentale – sempre più rade si fanno le lettere della moglie Giulia. In questo frangente drammatico, Nino scrive un illuminante commento al X canto dell'Inferno, erroneamente considerato «il canto di Farinata»: egli fa infatti notare come sia quella di Cavalcante Cavalcanti la figura più significativa dell'episodio ambientato nel cerchio eretici, per la sua amorosa preoccupazione per il figlio Guido di cui ignora la sorte, e non Farinata, che resta una figura convenzionale di politico militante, irrigidita da un ideologismo esibito nel suo “comizio” recitato dalla tomba. Franco Lo Piparo, in un capitolo del suo appassionato saggio dedicato al Professor Gramsci e Wittgenstein (Donzelli), fa notare come Nino si sentisse anche lui un eretico relegato in un «cieco carcere». La sua visione della politica si è fatta vieppiù distante da quella teorica e astratta che caratterizza l'establishment stalinista.
Negli anni di prigione, torna con soddisfazione a sentirsi un Professore di linguistica e le sue riflessioni sul linguaggio inteso come evento della vita pratica non può non ripercuotersi sulla sua visione della società e della politica. Il fatto straordinario di questa dolorosa vicenda è che Gramsci, dal carcere e dalle cliniche Cusumano e Quisisana, riesce a sua insaputa a influire sul pensiero di una delle menti filosofiche più geniali dell'Europa del tempo. Si deve infatti proprio a Gramsci la celebre “svolta” in senso antropologico della visione del linguaggio di Wittgenstein, l'abbandono delle tesi esposte nel Tractatus e l'approdo alle Ricerche filosofiche. L'amico di Gramsci Piero Sraffa, collega all'Università di Cambridge di Wittgenstein, è da identificarsi come il tramite del trasferimento delle idee dell'inconsapevole Nino a Ludwig. 
Amartya Sen già nel 2009 sostenne che Gramsci avrebbe esercitato il suo influsso sul pensiero di Sraffa (e quindi di Wittgenstein) al tempo in cui l'economista napoletano collaborava a Torino con «L'Ordine Nuovo» di cui Gramsci era direttore. 
Lo Piparo oggi dimostra in maniera puntuale una tesi diversa: furono le idee che Nino maturò in carcere quelle davvero significative per la svolta wittgensteiniana. Le Ricerche, infatti, sono state composte nell'anno accademico 193536, e il Quaderno gramsciano dedicato al tema della praxis linguistica (Q 11) è del 1935: è il periodo in cui Sraffa andava a trovare l'amico in clinica; leggeva i suoi Quaderni tramite la cognata di Nino, Tania; e, nel contempo, frequentava settimanalmente Wittgenstein per discutere le tesi linguistiche di quest'ultimo, al punto da farlo “convertire” a una visione pragmatistica della lingua. Ludwig affermerà di sentirsi, grazie a Sraffa, come un albero completamente potato dei suoi vecchi rami e pronto a rifiorire in modo nuovo. È nella critica alla linguistica di Benedetto Croce (Q 29)  il quale sostiene che una proposizione ha senso solo se è corretta dal punto di vista logico-grammaticale e semantico , che Gramsci afferma per la prima volta che «il senso di una proposizione non dipende da una qualità interna della proposizione stessa e il suo status grammaticale non può essere valutato indipendentemente dal contesto». Pertanto, una proposizione come «questa tavola rotonda è quadrata» può avere comunque senso in un determinato contesto, per esempio nel discorso di un personaggio di un romanzo fantastico. Il concetto gramsciano di praxis linguistica, presente nei Quaderni, compare variamente negli scritti di Wittgenstein a partire dal 1936, sebbene la cosa non sia stata notata per via della traduzione inglese di Anscombe che rende il tedesco originale Praxis con practise. Evidentemente, le idee linguistiche di Nino furono così potenti da riuscire a evadere le alte mura del suo cieco carcere.

il Sole24ore domenica 15.6.14
Bakunin
Il lato oscuro del rivoluzionario
Chi abbraccia la lotta armata non mostra mai la propria personalità: dalla sua figura devono guardarsi gli amici prima che gli avversari
di David Bidussa



Nel 1972 Franco Venturi, ripubblicando venti anni dopo la prima edizione La storia del populismo russo – il testo sul movimento rivoluzionario russo più noto e documentato nella storiografia internazionale del secondo dopoguerra – inserisce una lunga premessa in cui torna sulla figura Sergey Necvaev («un revenant che non si riesce a esorcizzare» scrive l'autore). In particolare Venturi si sofferma su Il catechismo del rivoluzionario, un normario stringato (10 pagine in tutto) che ci consegna la fisionomia del terrorista, una figura per il quale gli altri individui, compresi i propri compagni, sono solo mezzi per conseguire il fine. 
Con quella precisazione Venturi rende omaggio a uno storico Michael Confino (1926-2010), che pochi anni prima ha pubblicato quel testo (ma già aveva dedicato pagine alle ricerche di Confino sulla trasformazione economica del mondo rurale russo).
Nel 1973 Confino raccoglie in volume altri documenti insieme al Catechismo, facendoli precedere da un saggio critico di grande qualità. La prima edizione esce in Francia per Maspero, casa editrice di nuova sinistra, in una collana che si chiama «Bibliothèque socialiste» (diretta da un grande storico del socialismo europeo, Georges Haupt). E suscita una discussione accesa. In Italia esce per Adelphi nel 1976, passa sotto silenzio o comunque ne discutono solo gli specialisti.
Peccato, perché negli anni in cui la lotta armata ha un peso nella definizione dello stato d'animo collettivo, non sarebbe stato fuori luogo prenderlo in mano e analizzarlo con attenzione. Non lo fanno né la sinistra né la destra. Forse sarà possibile oggi, con questa nuova ristampa che significativamente non aggiunge niente a quella edizione del lontano 1976 (il saggio di Confino ha la stessa freschezza di allora).
Di che si tratta dunque? L'episodio copre un tempo di un anno scarso. Nel 1869 irrompe nella vita del glorioso, ma ormai anziano capo dell'anarchismo, Bakunin, un giovane di ventidue anni, Sergej Necvaev, che arriva dalla Russia accompagnato da voci disparate: secondo alcuni il più radicale e puro dei rivoluzionari, per altri un abietto mistificatore.
Bakunin ne rimarrà affascinato, a differenza di Alexander Herzen da subito diffidente, e solo dopo alcuni mesi uscirà da questa sua convinzione sanzionando la rottura con con una lettera drammatica, lunga, tormentata che spedisce a Necvaev il 2 giugno 1870 (pagg. 133-187). In quella lettera scrive Bakunin: «Vi siete messo a giocare al gesuitismo come un bambino gioca alle bambole». Non senza rimproverare se stesso: «credendo incondizionatamente in voi mi sono dimostrato uno stupido» (pagg. 174 e 180).
In mezzo ci sono questioni di soldi, di fiducia malriposta, di violenza, di doppiezza, di uso della malafede. In breve tutta la gamma delle sensibilità su cui lavora il "terrorista", figura votata a non dare mai mostra integrale della propria personalità. A giocare con gli avversari, ma anche pronto a servirsi e a sfruttare le debolezze dei propri compagni.
Una fisionomia che Dostoevskij riproduce ne I demoni non solo in rapporto al tema della violenza, ma soprattutto rispetto al tema della finzione. Un mondo, quello del terrorista, fondato sulla finzione, ritenuta vera attraverso l'ambiguità (per esempio Piotr Verchovenskij, uno che finge come molti altri). I rivoluzionari di Dostoevskij non sono superiori alla società che contestano, ma una copia conforme. Aspetto che Camus descrive con precisione ne L'uomo in rivolta: lì Necvaev è la figura che sancisce il divorzio tra rivoluzione e amicizia, un sentimento che, da Cromwell in poi, ha fondato l'etica dei rivoluzionari. Con Necvaev il vincolo di protezione reciproca che aveva salvato i rivoluzionari si dissolve: ciò che ora va protetto è la rivoluzione, anche a costo della vita dei propri compagni. Essa va salvaguardata non solo da loro, ma anche contro di loro. Essa diviene la cosa che vale di più e per la quale tutto è lecito.
È la partita che si gioca nell'estate di 150 anni fa. Una storia appassionante e inquietante. Confino ha il merito di darci una radiografia, ma soprattutto di illustrarci il costrutto concettuale ed emozionale (sbaglieremmo a pensare che ci sia solo freddezza in Necvaev) di ciò che ora è il rivoluzionario in missione. Una figura da cui devono guardarsi gli amici, prima ancora che gli avversari.

il Sole24ore domenica 15.6.14
Spionaggio nel D-Day
di Caterina Soffici


Era spagnolo, ma ha fatto la spia per gli inglesi facendo credere ai tedeschi di essere una spia tedesca. Un doppiogiochista eccezionale. Il tutto con base a Lisbona e fingendo di avere una rete di 27 agenti segreti al suo servizio sparsi per tutta l'Inghilterra e l'Europa. Non era vero niente, era sempre lui, con mille trucchi e almeno 29 identità. La storia dell'agente Garbo, al secolo Juan Pujol Garcìa (agente Arabel per i tedeschi) è incredibile come tutte le storie delle spie. È stato un vero picaro novecentesco, sfacciato, attore consumato, rocambolesco e molto ma molto fantasioso. Questa di Jason Webster è una nuova biografia sull'agente Garbo, la punta di diamante del controspionaggio britannico, che viene pubblicato proprio nel settantesimo anniversario dello sbarco in Normandia, perché Garbo è passato alla storia come l'agente segreto che salvò il D-Day. Fu grazie alle false informazioni che Juan Pujol Garcìa riuscì a passare ai nazisti alla vigilia del D-Day che i comandi tedeschi nel nord della Francia si convinsero a ridurre le truppe in Normandia, nella zona dello sbarco. Come agente Garbo fu insignito dell'Ordine dell'Impero Britannico ma anche i tedeschi, che non si erano mai accorti di essere stati ingannati, vollero premiare l'agente Arabel con la Croce di Ferro: questo buffo episodio ne fa l'unica persona al mondo ad aver ricevuto due onorificenze militari da campi contrapposti. L'agente Garbo è uno di quei personaggi che hanno davvero cambiato il corso della storia, ma del quale il grande pubblico non ha saputo niente fino agli anni Ottanta. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale si era dato per morto e si era rifugiato sotto falso nome in Venezuela. Tutti i documenti che riguardavano lui e le sue gesta sono rimasti classificati molto a lungo (complice anche l'ostilità della Thatcher ad aprire gli archivi dell'MI5 dopo il caso di Anthony Blunt, direttore delle collezioni reali rivelatosi spia del Kgb), anche se gli storici avevano già ricostruito la sua storia e le sue avventure rocambolesche. Poi nel 1984 lo scrittore Nigel West rintracciò Pujiol a Caracas, e lo convinse a tornare in Europa per il 40esimo anniversario del D-Day. Il 6 giugno 1984 fu visto piangere al cimitero di Omaha Beach, perché non era riuscito a salvare più vite. 
Jason Webster, The Spy with 29 Names: The Sotry of the Second World War's Most Audacious Double Agent, Chatto & Windus, pagg 322, £ 16.99


il Sole24ore domenica 15.6.14
Codice di deontologia medica
Sulla pelle dei pazienti
Il nuovo testo ricalca quello del 2006, ma con un significativo peggioramento che abbassa il profilo etico della professione
di Gilberto Corbellini



Chi ha redatto e approvato il nuovo Codice di Deontologia Medica non deve aver letto il libro di Carlo Augusto Viano La scintilla di Caino (Bollati Boringhieri), dove si dimostra che la coscienza del medico, via via che la medicina è diventata un mezzo di liberazione dell'uomo, si trasformava da strumento per proteggere i pazienti da abusi, a pretesto per rifiutarsi di rispettare decisioni che rientrano nell'esercizio dei diritti fondamentali dell'individuo. L'arcinota litania del medico «che agisce in scienza e coscienza» è tirata in ballo per giustificare tutto, ma anche il suo contrario. Mentre la ricerca neuroscientifica getta luce sulla scarsa affidabilità morale della coscienza – nonché su aspetti rilevanti anche per le conseguenze dei disturbi che la colpiscono – proprio i medici si ostinano a pretendere di far prevalere la "loro" di coscienza, a scapito di quella dei pazienti. In particolare rispetto al diritto all'autodeterminazione.
Il nuovo codice non è cambiato molto, rispetto a quello del 2006 (quindi recentissimo), ma significativamente in peggio. Come rileva anche Sandro Spinsanti, che ha cominciato a insegnare etica medica in Italia dal 1976 e qualcosa ci capisce, in un'editoriale pubblicato sul sito di Aifa (http://www.agenziafarmaco.gov.it/it/content/nuovo-codice-medico-deontologico-tanta-ombra-sotto-il-sole). Leggiamo dal nuovo articolo 1: «Il codice, in armonia con i principi etici di umanità e solidarietà, e civili di sussidiarietà, impegna il medico nella tutela eccetera». Nel 2006 recitava: «Il comportamento del medico anche al di fuori dell'esercizio della professione, deve essere consono al decoro e alla dignità della stessa, in armonia con i principi di solidarietà, umanità e impegno civile che la ispirano». A parte che era scritto meglio, la scelta di specificare che umanità e solidarietà sono principi etici, e di introdurre il principio civile (unico, quindi perché il plurale?) di sussidiarietà, significa fondare il Codice su sentimenti marcatamente religiosi; al di là delle valenze politico-economiche assunte dalla sussidiarietà nell'ambito sanitario. Perché non anche equità, beneficialità e rispetto dell'autonomia del paziente? Di libertà e autonomia si parla all'articolo 4 e altrove: ma solo per il medico.
Una parte dei medici critica l'inserimento degli articoli sulla «medicina potenziativa ed estetica» e sulla «medicina militare», ritenuti frutto di pressioni extra-professionali. E vi è chi lamenta la scomparsa di termini come «comparaggio», «eutanasia» e «dovere». Gli ordini di Bologna e Milano minacciano di non applicare il nuovo Codice. Valeva la pena generare tante insoddisfazioni? L'articolo sulle «Dichiarazioni anticipate di trattamento» sembra copiato dalla pessima legge approvata (solo) dal Senato nella scorsa legislatura. Anche quello sulla «Procreazione medicalmente assistita» è poco conforme alla Costituzione. Perché scrivere che è vietata la «selezione etnica o genetica», nonché «la produzione di embrioni ai soli fini di ricerca»? Intanto non si capisce a chi possa venire in mente di praticare la «selezione etnica», e come potrebbe in Italia. Ma la diagnosi preimpianto, giudicata legittima dalla Corte di Strasburgo e da un tribunale italiano, è una forma di «selezione genetica», che consente a una coppia di evitare l'aborto per non far nascere un figlio con grave malattia genetica. Inoltre, la produzione e l'impiego di embrioni (umani!) nella ricerca è lecito e legittimo in alcuni Paesi civili. 
Nonostante il caso Stamina, l'Ordine non ha pensato di aggiornare gli articoli sui trapianti di organi, tessuti e cellule, dicendo qualcosa sul ruolo del medico al fine di evitare che malati disperati cadano preda di ciarlatani e intraprendano costose e dannose avventure. Una conferma che sulla vicenda Stamina i vertici dell'Ordine sono stati asfaltati per pavidità o calcolo. Invece di dedicarsi ad accumulare potere e cariche tra loro in conflitto (il presidente è anche senatore eletto nelle file del Partito Democratico), dovrebbero, forse, farsi un esame di... coscienza. Dato che dei medici hanno aiutato Vannoni & Co., nonostante l'articolo 13 del Codice: «Il medico non deve adottare né diffondere terapie segrete». D'altro canto, la comunità degli scienziati muoveva ogni possibile angolo del mondo in patria e fuori (premi Nobel, accademie e nostri politici) offrendo tutte le informazioni e i dossier risultanti dalle loro indagini sull'infondatezza e gli interessi economici di Stamina, e senza mai mascherarsi dietro la «compassione non compassionevole» all'italiana. Se i medici non capiscono che l'informazione che rende valido il consenso deve prima di tutto essere veritiera, persisterà il rischio che altri comitati etici compiano l'errore di quello degli Spedali Civili, che ha dato il via libera ai trattamenti Stamina e all'abuso di bambini come cavie.
L'articolo più incredibile è il 15: «Sistemi e metodi di prevenzione, diagnosi e cura non convenzionali». Scandaloso per i modi ipocriti in cui è scritto, che smentiscono tutto quello che nel resto del Codice si dice circa l'impegno (mai dovere!) del medico ad attenersi alle conoscenze e prove scientifiche, quando queste sono disponibili, nell'esercizio della professione.
All'origine della revisione del Codice sembra esservi l'accordo tra la parte politica dei medici affetta da tic antiscientifici, che vuole sdoganare le medicine alternative e accentuare la connotazione burocratico-amministrativista della medicina, e la parte che vuole ristabilire il paternalismo e alcuni valori illiberali, temporaneamente superati dalla storia. Un compromesso fatto sulla pelle dei pazienti e a scapito dei loro diritti fondamentali, che definisce un profilo più tecnico, che scientifico e intellettuale, per il medico. Se si confronta l'evoluzione storica dei codici deontologici dei medici, con quelli degli infermieri, sembra che mentre questi ultimi cercano di alzare il profilo etico della professione, i medici procedano in senso contrario. Per non dire dell'effetto che fa costatare la farraginosità e lo stile involuto del Codice italiano, a fronte della limpidezza, per esempio, di quello francese.

il Sole24ore domenica 15.6.14
Patricia Smith Churchland
La prima neurofilosofa Per capire a fondo la mente umana bisogna conoscere come funziona il cervello. Un bilancio di 30 anni di ricerche
di Arnaldo Benini



Nel 1986 la neurobiologa Patricia S. Churchland, neuroscienziata con preparazione filosofica, col libro Neurophilosophy Toward a United Science of the Mind-Brain (Mit Press) propose di introdurre strutturalmente, nella filosofia della mente, i dati delle neuroscienze cognitive per indagare la natura della coscienza. La neurofilosofia sarebbe dovuta essere l'interfaccia fra gli antichi problemi della filosofia, come la conoscenza, la volontà, la morale, e la scienza che studia fisicalisticamente l'organo che tutto questo produce, il cervello. All'Università di San Diego, in California, la Churchland ha insegnato neurofilosofia a studenti – racconta nel nuovo libro – turbati dalla penetranza con la quale le neuroscienze mettono a soqquadro il senso comune. I filosofi Owen Flanagan e David Barak hanno felicemente battezzato Neuroexistentialism (EurAmer. 40, 573-590,2010) lo sconcerto universale causato dalle neuroscienze. Nel 2002 la Churchland tornò a ribadire il suo proposito con Brain-Wise Studies in Neurophilosophy (Mit Press). Le neuroscienze, assicurava, avrebbero portato "venti nuovi" nella filosofia. La splendida copertina, con un cervello assediato da illustri filosofi di ogni tempo, curiosi e imbarazzati, era l'icona del programma: scienza e filosofia, unite nella neurofilosofia, si sarebbero avvicinate alla natura dei sistemi cognitivi. Dopo 28 anni, il bilancio, per la Churchland, è lapidario: la neurofilosofia non è mai nata. «Molti filosofi contemporanei, in America e in Europa – essa scrive – si specializzano per affrontare questioni come la natura della coscienza senza imparare nulla di neuroscienza, o di qualunque scienza», con qualche lodevole eccezione come Daniel Dennett, Oswald Flanagan, Ned Block, Thomas Metzler e pochi altri (noi ne avremmo aggiunto un paio). Il de profundis della neurofilosofia è solo una parte marginale del libro. Esso è un pot-pourri molto informativo e ben dosato di vari argomenti di neuroscienza: fra gli altri, un'introduzione generale al funzionamento del sistema nervoso; l'evoluzione della morale dagli invertebrati all'uomo; la monogamia negli animali e nell'uomo; il sonno, il sogno e i loro enigmi nervosi; le stramberie sul ritorno dall'aldilà dopo incontri con angeli e profeti, che riempiono le librerie americane. La parte centrale è un panorama di temi chiave delle neuroscienze negli ultimi trent'anni, durante i quali le scuole leader si sono riconosciute nel concetto generale del funzionamento dei meccanismi cognitivi della Global Workspace Theory, proposta dal neuropsicologo Bernard Baars nel 1989. Il fatto che i centri di ricerca seguano criteri comuni e continuamente riprovati, ha portato a dati dei meccanismi cognitivi di grande significato, non solo per la ricerca ma anche per l'interpreazione di deficit e malattie cerebrali, con effetti anche nella giurisprudenza penale. 
La Churchland, dopo aver chiarito che i neuroni funzionano in serie e in parallelo senza nessun direttore centrale cui potrebbe essere attribuita la coscienza, sintetizza che essa consiste dei meccanismi che ne formano i contenuti. Rilevante è anche la scoperta che i meccanismi che portano l'informazione fino alla coscienza e quelli dell'informazione che rimane incosciente sono gli stessi, e che il diventare cosciente dell'una e non dell'altra è un aspetto del funzionamento probabilistico dei sistemi nervosi. Negli stessi anni la riflessione filosofica ha prodotto la supervenienza, la mente estesa, l'autocoscienza prima della coscienza, la fisica quantistica che consentirebbe la libera volontà, la certezza che non siamo il nostro cervello, e avanti per questa strada. È ovvio che i due campi non potevano incontrarsi. Ci sono due posizioni drammatiche nelle scienze cognitive, dice la Churchland, una è quella di chi crede di aver trovato già ora, nonostante i molti e centrali problemi ancora senza soluzione, il segreto della coscienza (come, aggiungiamo noi, Antonio Damasio, Cristof Koch, Giulio Tononi) e chi sostiene che non si troverà mai. Per la Churchland è questione di tempo e di accumulo di conoscenza (e per questo il filosofo Colin McGinn la svillaneggia chiamandola «leader della tifoseria del cervello» (New York Review of Books May 7 2014)), anche se altri scienziati, sin dalle origini delle neuroscienze, come du Bois-Reymond, Vernon B. Mountcastle, Wolf Singer, hanno messo in dubbio che i meccanismi cognitivi del cervello possano capire fino in fondo sé stessi, come aspetto dei limiti della conoscenza umana. La neurobiologa inglese Sarah-Jayene Blakemore, nella recensione al libro della Churchland del 2002 (Nature-Neuroscience 6,649,2003), si chiese che cosa sarebbe stato della filosofia una volta che la scienza avesse risolto i problemi della coscienza, della morale, della volontà. Non tutte le oscurità saranno chiarite dalla scienza, e la natura della coscienza è probabilmente irraggiungibile, ma la conoscenza dei meccanismi naturali può aumentare solo con la metodologia della scienza.

il Sole24ore domenica 15.6.14
Le sforbiciate di Matisse
Spettacolare esposizione alla Tate Modern sui «ritagli» che il maestro francese iniziò a realizzare nel 1941, dopo essere stato colpito dalla malattia che gli impedì di dipingere
di Angela Vettese



Londra ha mostrato quest'anno una trilogia di mostre, tutte centrate sul collage, che ci spingono a riflettere sulla fortuna e sulle conseguenze di questo linguaggio. In apparenza infantile o femminile come molte forme di bricolage, ha dimostrato di essere duttile, fertile e pieno di conseguenze. L'esposizione più spettacolare è senza dubbio quella dedicata ai "ritagli" di Henri Matisse, in corso alla Tate Modern fino a settembre. Le altre due esposizioni sono state una rassegna alla Whitechapel sui piccoli collage della dadaista tedesca Hannah Hoch (1889-1978) e la prima antologica postuma di Richard Hamilton (1922-2011), pioniere riconosciuto della pop art, appena chiusa anch'essa alla Tate Modern e vissuta per qualche tempo in simbiosi con quella dedicata a Matisse.
Il grande artista francese iniziò a perfezionare il collage quando non poté più dipingere: nel 1941 gli era stato diagnosticato un cancro che lo aveva portato su di una sedia a rotelle e che ne aveva limitato la manualità. Lungi dal disperarsi, la prese come una liberazione e come una seconda opportunità che veniva offerta al suo metodo di lavoro, già da tempo improntato alla piattezza e alla giustapposizione di frammenti. Si organizzò così: la sua assistente Lydia gli preparava fogli di carta colorati con stesure di tempera piatta, raffinati nei toni ma mai troppo lontani dai colori fondamentali. Lui li tagliava con un paio di piccole forbici, talvolta seguendo un progetto ma a volte invece quasi a caso, come fosse un'azione meccanica. I diversi pezzi di carta, trasformati in infiorescenze, alghe, arbusti, figure stilizzate, venivano disposti sul muro. Nei giorni qualcuno veniva tolto e qualcun'altro aggiunto, in un andirivieni di aggiustamenti che generava il risultato finale. 
La mostra alla Tate Modern ci espone questi passaggi con consequenzialità e gran piacere degli occhi, facendoci passare davanti a pareti di piccoli quadri o di una singola grande composizione, senza cornice e così libera da apparire ancora in progress. In una stanza speciale vediamo il vecchio ma non esausto Henri dedicarsi alla cartella di figure Jazz (1952), nella quale si susseguono corpi blu, circondati di stelle o accovacciati come flessuose ragazze al bagno, domati sempre da una mano sintetica e dalla convinzione che il ritmo si sposi al significato. Un'altra area della mostra narra la genesi delle decorazioni per la cappella di Santa Maria del Rosario a Vence (1948-51), piccolo scrigno che rinnova il piacere delle vetrate medievali e di un arredo minimo ma sacrale, dove ceramica e marmo si parlano. 
La relazione di questa con le due mostre menzionate all'inizio non era forse voluta, ma la prima riflessione spontanea è che i tre artisti raccontino in modi diversi come il collage, passo di lato rispetto alla pittura, sia stato uno dei modi caratteristici in cui si è espressa l'arte del XX secolo.
Questa tecnica conserva tutta l'artigianalità del fatto a mano, ma abbandona il collegamento stringente tra un punto e l'altro del quadro: il fondo perde la sua unitarietà, sottolineando il valore del frammento e mettendo in rilievo come la storia stessa sia percepita così, come giustapposizione paratattica e non del tutto sensata di tracce. Inoltre il collage è un approccio all'immagine che parla di libera associazione, tra figure e anche oggetti (in Hannah Hoch e Hamilton) o tra colori e forme (in Matisse): in tutti e tre si avverte la lezione freudiana dell'inconscio, della mente come luogo di libere associazioni che non hanno necessariamente una logica. 
Ancora, si vede come l'opera possa assumere una qualche struttura prospettica – come negli interni di case o alberghi moderni ricostruiti da Hamilton – ma tende a essere piatta, senza profondità, come se la fotografia si fosse assunta tutto il compito di rappresentare il nostro sguardo e, quindi, gli artisti fossero finalmente liberi di prescinderne; una direzione che, peraltro, non sarebbe stata possibile senza la nascita dell'astrattismo e la sua evoluzione sia gestuale che geometrica. 
Questa assenza di realismo porta in rilievo il contenuto: un'inquieta coscienza della violenza, fisica e psicologica, in Hannah Hoch; la vittoria del consumismo e il rispecchiarsi delle cose una dentro l'altra, in un gioco di ripetizioni infinite, in Richard Hamilton; il proliferare dei colori, delle foglie, dei fiori, di pensieri che diventano nuvole colorate in Matisse, come una forma di resilienza della vita.
È facile andare con la mente ai primi collage di Pablo Picasso e Georges Braque, nati nel 1912, o certe sperimentazioni di Max Ernst o di Vladimir Tatlin tra gli altri, tutte nate per ribadire la libertà di usare qualsiasi mezzo per fare un quadro e di mescolare le carte tra il vero e il finto, il reale e il rappresentato. In tutti i suoi modi di manifestarsi, l'avvento del collage apre la strada all'assemblage di oggetti, all'installazione ambientale, all'immissione nell'opera del tempo e di stimoli sensoriali di ogni tipo, a una nuova relazione con la tecnica e tra le tecniche. 
Nella lezione di Matisse, anche a un nuovo rapporto tra la pittura e le arti decorative, che il XXI secolo sta lentamente riportando a una dignità superiore al passato. Una volta di più si dimostra come chi pensa che la rivoluzione del linguaggio artistico sia passata soprattutto per l'assenza di azione, per il ready made e una forma di nichilismo – e la mostra dedicata ad Hamilton, grande esegeta di Marcel Duchamp, lo dimostrava – sbaglia davvero. 
Henri Matisse. The Cut-Outs, Londra, Tate Modern fino al 7 settembre

il Sole24ore domenica 15.6.14
Irripetibile «Jazz» a colori
di Stefano Salis


Non c'è testo, o convegno, o incontro sul libro d'artista che non inizi ponendo delle questioni preliminari di definizione. Entro quali ambiti ci si muove, come si fa a dire che un libro è d'artista oppure no, e così via. Credo che nemmeno un cieco avrebbe dubbi su Jazz (1947) di Henri Matisse. Si tratta di un caposaldo del genere e di un capolavoro di commovente bellezza, un inno alla gioia di vivere e una festa per gli occhi. Eppure...
Eppure, sebbene avessi avuto l'occasione di vedere qualche originale e ottime riproduzioni (per esempio quello di Corrado Mingardi, gran collezionista, e la perfetta riproduzione di Electa, di cui si fece una mostra ad Artelibro 2012 a Bologna), osservare da vicino, come si può fare alla strepitosa mostra sui ritagli di Matisse in corso alla Tate Modern di Londra (una raccomandazione: è la mostra dell'anno, se potete andateci!), è, ancora, un'altra cosa. Sì, perché il libro stampato – per quanto superbamente – annulla i pur sottili scarti di superficie tra i pezzi di carta che costruiscono l'immagine. Appiattisce l'opera d'arte di Matisse, rendendola una figura piana, quando invece, questi fantastici ritagli sono proprio delle mini sculture, con i colori protagonisti, ad emergere emettendo letteralmente dei suoni e comunicando un'allegria visiva e tattile di eccezionale qualità. (Lo so che sto usando un'aggettivazione iperbolica, ma è quella che ci vuole, ve lo assicuro.)
Immaginate quest'uomo, sulla sedia a rotelle, ormai malato e con la sensazione di avere detto tutto quello che aveva da dire con la pittura. E immaginate, ancora, la voglia di continuare a cimentarsi con una nuova tecnica, o metodo, quello del ritaglio, che con Jazz ha la sua prima prova concreta – sì, lo so, c'erano state copertine di riviste e libri – ma subito non è più metodo, anzi, è poetica, è necessità. E quando vedete i primi esperimenti, con gli spillini ancora conficcati sulle carte a tenerle insieme, o, più avanti, osservate i sottili buchini lasciati dalle trafitture e poi levati dalla sua fedele assistente Lydia, cogliete anche la "sapienza della mano" di un artista che non perde mai la voglia di sperimentare e cimentarsi con l'ignoto. Eccolo, allora, Jazz, appeso alle pareti e squadernato sulle teche in due sale della Tate che lasciano mozzafiato. Siamo nel 1943, quando l'editore Tériade – un altro diavolaccio, sempre immischiato nell'arte e nella bellezza, concorrente di Zervos, figli della diaspora greca, intrisi di Mediterraneo e futuro –, propone a Matisse questo libro, che deve essere come il jazz che si sente dall'altra parte dell'Atlantico: un'opera nella quale l'improvvisazione fluisce libera (seppure dentro i canoni, una pagina fisica fissa irrimediabilmente dei confini) e mescola ricordi, fantasie, circhi, voli e parole: Matisse stesso scrive il testo, senza paura di cancellare quando sbaglia, con tratti di pennello grosso e poco bagnato, chiudendo gli spazi bianchi di fine pagina con degli sbaffi, dei ghirigori che sembrano sempre più inevitabili, nella loro forma, man mano che si procede nello sfoglio. Alla fine, gesto sublime e geniale, fa lo schizzo dei precedenti disegni, a nominarli e intitolarli: un'indice delle figure a mezzo di figure.
Il libro esce nel 1947, in un grande infolio di 42x32,5 cm, i 20 fogli disegnati sono stampati in 170 esemplari, dai ritagli originali, usando gli stessi inchiostri di Matisse e con molti passaggi colore. Il lavoro viene esposto da Pierre Béres nel dicembre 47. La stampa, dicevo, annulla in parte il gioco di positivi e negativi voluto dall'artista, proprio perché, non tiene conto degli spessori e delle sovrapposizioni; cosa ancora più emozionante quando è chiaro, vedendo dal vivo, che Matisse ha ottenuto una figura iconica, magari come l'Icaro, usando uno spazio negativo. A Matisse era molto chiaro questo "impoverimento" ed era consapevole di cosa sarebbe accaduto dopo. Considerava Jazz un fallimento, dal suo punto di vista. Non fece mai più un altro "libro d'artista": e forse non è un caso che sia un volo andato a male il simbolo stesso di quest'opera, che denuncia, allo stesso tempo, tutte le qualità e le debolezze del mezzo-libro. Ma mi piace pensare che sia coerente con il titolo: il Jazz è sempre diverso, è sempre unico, mai uguale a se stesso. E Matisse dimostrò di saperlo suonare, come fece suonare per i nostri occhi quel libro. Inimitabile, irripetibile e perciò magico.

il Sole24ore domenica 15.6.14
Bellocchio ammirato e studiato
di Camilla Tagliabue



«Cinquantaquattro prima, provino d'ammissione. Bellocchio». Cinquantacinque (anni dopo) seconda: Moma presents «the remarkable career of Marco Bellocchio». Era il 1959 quando il regista di Bobbio veniva ammesso al Centro sperimentale di cinematografia, come attore e con il cognome storpiato da un commissario distratto. Ed è ad aprile di quest'anno che il cineasta viene accolto nel prestigioso museo di New York con una "Retrospective" chiusasi a maggio e la distribuzione nelle sale cittadine del suo ultimo film Bella addormentata. «Per il pubblico americano, Bellocchio è stato come una cometa, una presenza nel paradiso celestiale della cinematografia», commenta Richard Peña, professore alla Columbia University, nonché una delle firme di Morality and Beauty. Morale e bellezza, una sorta di catalogo della mostra (infatti è in inglese con traduzioni in italiano), a cura di Sergio Toffetti ed edito dall'Istituto Luce e dal Csc. 
Questa raccolta di saggi pensosi e affettuosi si articola in tre sezioni, «La macchina cinema», «Nostro fratello maggiore» e «Letture e interpretazioni», che affastellano rispettivamente contributi di colleghi, interpreti e maestranze, giovani cineasti e critici. Ma potrebbe essere letta altresì come un'agiografia del regista «delle soglie», così lo definisce Stefania Parigi, o «della prosa espressionista», come a suo tempo lo aveva descritto Pier Paolo Pasolini. A corredo non mancano, poi, un ricco apparato iconografico, con foto di scena e bozzetti, e una minuziosa filmografia, in cui si scopre, ad esempio, che il montaggio de I pugni in tasca è di un certo Aurelio Mangiarotti, un professionista, ma del l'edilizia. Il muratore era un amico fidato di Silvano Agosti che, non volendo comparire nei titoli di coda, gli telefonò dicendo: «Ho appena finito il montaggio di un film molto importante, ti dispiace se metto il tuo nome? Così quando il film esce a Parigi ti fanno entrare senza pagare». E così il manovale si ritrovò in poltronissima.
Dal tranche de vie agli aneddoti durante le riprese, dalla formazione artistica al percorso psicoanalitico con Massimo Fagioli, il libro sbozza un poliedrico ritratto del maestro, non senza qualche sferzata, in primis da parte del fratello Piergiorgio, qualche episodio malizioso, come le sceneggiate isteriche di Laura Betti, qualche racconto irriverente, come quello del figlio Pier Giorgio: «Sul set ce ne siamo dette e fatte di tutti i colori... ci siamo pure menati». D'altronde, Bellocchio è il primo a ironizzare su se stesso; a proposito della rivalità con Bertolucci, suo quasi coetaneo e conterraneo, dice: «Altro che rivalità! Invidia proprio, di uno che aveva conquistato Hollywood e aveva tutto a sua disposizione! Mi sentivo il cugino povero!». 
La famiglia è croce e delizia di tutta la produzione bellocchiana. Il cineasta è «un personaggio con intense tracce di dolore della propria infanzia», un artista allergico a ogni irreggimentazione, movimentismo di sinistra incluso, uno straordinario direttore di attori, un visionario ma mai estetizzante, un tormentato autore che, «come Bergman, aspira alla trascendenza e continua a chieder conto a Dio», chiosa Marco Tullio Giordana, suo virtuale "figlioccio" e allievo. Ma il maestro de L'ora di religione minimizza: «Cerco di fare film come mi hanno insegnato a scuola». Tutti i maestri sono stati allievi, una volta.
Marco Bellocchio, Morality and Beauty, a cura di Sergio Toffetti, Luce-Cinecittà e Centro sperimentale di cinematografia, Roma, pagg. 254, s.i.p.

il Sole24ore domenica 15.6.14
Foucault

Anarcheologia del potere
di Sebastiano Maffettone



L'uscita di un'opera di Michel Foucault rappresenta sempre un evento culturale di rilievo. Lo si può dire anche per questo volume intitolato Del governo dei viventi, pubblicato ora in italiano da Feltrinelli dopo l'edizione francese del 2012 curata da Michel Senellart, autore anche di un'utile Nota finale. Il corso in questione segue quello più famoso sulla biopolitica, in cui Foucault chiariva come il biologico influenzi il politico e viceversa. Negli anni precedenti, lo stesso Foucault aveva proposta la centrale nozione filosofico-politica di governamentalità, come contrapposta alla sovranità hobbesiana, e letto il liberalismo come tecnica o regime di governo. All'interno di questo quadro categoriale, il corso del 1979-1980 presenta un'idea centrale, che è poi quella del titolo del volume, sul «governo dei viventi». Dopo aver chiarito nel primo capitolo la natura di questo concetto, il corso è diviso in due parti. 
La prima parte ripercorre la vicenda dell'Edipo Re di Sofocle, e la seconda – in maniera più sorprendente – discute temi della tradizione patristica cristiana. Il trait d'union tra le due parti riguarda ovviamente il governo dei viventi in termini di "aleturgia". Con questo inconsueto termine, Foucault intende riferirsi al fatto che non è possibile «dirigere gli uomini senza fare delle operazioni nell'ordine del vero». Queste operazioni poi, pur essendo necessarie, sono sempre "eccedenti" rispetto a quanto serve per governare in modo efficace. In questo modo, Foucault vuole mettere da parte ogni interpretazione strumentale del rapporto tra potere e verità. Un "atto di verità" ritualizza il potere ma non ne costituisce uno strumento. Da ciò si ricava che un "regime di verità" è quello che obbliga gli individui ad aderire ad atti di verità. Un esempio storicamente rilevante è costituito dalla perenne lotta della ragion di stato contro il magico, a cominciare da stregoni e indovini.
Questa lotta è fatta propria anche dalla tradizione ecclesiale, che Foucault rilegge non solo attraverso Cassiano, Agostino e Tertulliano ma con l'ausilio di sofisticata letteratura secondaria. Se la filosofia in generale è, per il nostro, un modo permanente per riflettere sul rapporto con la verità, nel corso del 1979-1980 questa riflessione si applica più esplicitamente alla questione della governabilità. Coevo alla scrittura della parte finale della Storia della sessualità, il discorso sul governo dei viventi propone una lettura diversa da quella nicciana, attribuita di solito anche a Foucault stesso, del nesso potere-sapere. Quest'ultimo viene ricompreso in un atteggiamento piuttosto che in una visione teoretica, atteggiamento che, con qualche auto-ironia, Foucault battezza di «anarcheologia». Si denuncia in questo modo l'assoluta non-necessità di ogni potere. La dove al fascino indubbio del movimento decostruttivo si accompagna, come di consueto, l'impossibilità di ogni speranza normativa.