lunedì 16 giugno 2014

Repubblica 16.6.14
Il giornale di Gramsci ora spera in Renzi
“Ma niente brand non è una mozzarella”
di Alessandra Longo


ROMA. Caro segretario ti scrivo. Sulla prima pagina dell’ Unità di ieri, i giornalisti si rivolgono direttamente a Matteo Renzi che, durante l’assemblea Pd di sabato, aveva riconosciuto «la sofferenza del giornale». Ventata di cauta speranza: il Rottamatore si è accorto di noi ma non per rottamarci, anzi: «Abbiamo ascoltato con grande attenzione le tue parole e ti ringraziamo... Le assumiamo come un impegno a lavorare, in tempi rapidi, al rilancio». Se Renzi ammette che «il brand Unità» funziona, tanto da ripristinare le Feste di partito con il loro vero nome, allora avanti tutta con il «brand», la scialuppa cui aggrapparsi per non morire. Solo una dovuta precisazione al segretario: «L’ Unità è una storia novantennale, è una comunità - giornalisti e lettori - orgogliosa di sé. Molto più di un “brand”...». Si gioca sul filo dei comunicati, si interpreta ogni segnale.
Il giornale fondato da Gramsci è in crisi da tempo (20.200 copie vendute a maggio), i 57 giornalisti hanno appena terminato due anni di solidarietà, preso l’ultimo stipendio in aprile (non si parla di rimborsi o straordinari), non firmano per protesta da oltre un mese, soprattutto non conoscono il loro destino. L’unica cosa certa è la messa in liquidazione della società editrice ratificata dall’assemblea dei soci di giovedi 12. Decisione comunicata non molto elegantemente, a brutto muso. Matteo Fago, detentore del 51% della Nuova Iniziativa Editoriale Spa (gli altri soci sono Soru, Maurizio Mian, dei fondi Gunther e, in piccolissima parte, il Pd), ha detto basta: «Mi sono ritrovato a sobbarcarmi da solo responsabilità non più sostenibili e gli altri soci si sono progressivamente defilati ».
Una botta, sia pur nell’aria. E non è sufficiente a rassicurare quell’accenno di Fago alla possibilità di un futuro rinascimento legato «ad un serio progetto editoriale accompagnato da un preciso piano industriale e finanziario ». Chi mette i soldi? Sabato, la sorpresa Renzi: «Dobbiamo tutelare un brand, abbiamo bisogno di ripartire... ». Certo, il presidente del Consiglio dice anche che l’Unità e Europa, giornale della defunta Margherita, dovranno fondersi, che «non possiamo più permetterci due giornali diversi, due storie diverse». Ma questo è uno scenario più in là, per il momento semirimosso, l’importante, per la redazione, è che qualcosa si muova, che il numero uno del Pd si accorga della «nostra sofferenza». Francesco Bonifazi, tesoriere del partito, assicura: «Stiamo lavorando perché l’Unità non scompaia, perché rimanga vivo un pezzo di storia della sinistra. Lo faremo in un’ottica di vero risanamento e con un approccio molto professionale, senza ripetere gli errori di un tempo». Niente finanziamenti tampone, aumenti di capitale per tirare avanti. Bisogna sfruttare «il marchio» e incassare diné.
«Se il “brand” è il nostro cuore che batte è ok, ma l’Unità non è solo un nome, non è una mozzarella», dice Luca Landò, direttore della testata, anche lui senza stipendio. In redazione l’atmosfera è tuttavia un po’ più leggera. Circola scodinzolando Pulci, il cane adottato dal giornale. Landò mostra cosa produce il «brand». L’inserto sulle 90 prime pagine dalla fondazione ha fatto vendere 120 mila copie ed è andato esaurito in due ore. «C’è una potenzialità da valorizzare», conferma Bonifazi. Il direttore ne ha parlato con Renzi? «Mai parlato con lui. I nostri rapporti sono molto british. Binari separati ». Non più quotidiano di partito, ma solo di «riferimento» ad un’area.
Bianca Di Giovanni, del Cdr, ammette che «il segnale politico» c’è stato: «Incassiamo l’attenzione di Renzi ma ovviamente aspettiamo di sapere che cosa si vuol fare del giornale, vogliamo garanzie sull’organico, sulle condizioni economiche». E il matrimonio con Europa? Sinergia, tu fai carta stampata, io web, fusione... I due direttori interessati, Landò e Stefano Menichini, mettono il freno a mano, ma nessuno alza barricate preventive. Intanto, ed è un primo risultato, questa faccenda è uscita dall’oblio. Forse grazie al «brand». «La parola non mi piace - dice Moni Ovadia collaboratore a gratis dell’ Unità quel “buco vuoto”, come Musil chiamava l’anima, è pur sempre un richiamo, produce sentimenti, emozioni, tiene viva la memoria. Se l’Unità ha una chance è dentro la sua storia, sarà grazie alla sua vera anima».

Repubblica 16.6.14
Pd: “Festa dell’Unità, niente dispute”
Guerini incontrerà l’ex tesoriere Ds Sposetti, proprietario del marchio
di Mauro Favale



ROMA. A Bologna, per evitare sorprese, avevano pure registrato il marchio: “FestUnità”, con un minuscolo simbolo del Pd alla base della “U”. «E non abbiamo mai smesso di usarlo», rivendica su Facebook Raffaele Persiano, responsabile organizzazione del partito sotto le Due Torri. A Roma, invece, di chi fosse il logo non è mai stato un problema. Nell’estate del 2008, dopo la bruciante sconfitta contro Gianni Alemanno, mentre nel resto d’Italia veniva rottamata la Festa dell’Unità, il neonato Pd della capitale continuava nel solco della tradizione. Unica concessione alla “modernità” il sottotitolo “Festa democratica”.
«Negli ultimi anni - racconta Lino Paganelli, responsabile “Feste e eventi” del Pd - l’85% degli appuntamenti estivi sul territorio ha preso la denominazione di “Feste democratiche”. Il resto, anche in Comuni importanti, ha preferito mantenere il nome di “Feste dell’Unità”. L’unica cosa certa è che erano tutte feste del Pd. Punto». Dopo le parole di Matteo Renzi, due giorni fa durante l’assemblea nazionale, Paganelli attende solo un via libera formale per decidere cosa scrivere sui manifesti.
Questa settimana verranno stabilite date e località della prossima festa nazionale, con Bologna che, dopo anni, torna in pole position. «È possibile che venga fatta lì - confessa Paganelli - io sono solo un mero esecutore, si vedrà a livello di segreteria. Dico solo che il brand “Festa dell’Unità” è un patrimonio di tutto il centrosinistra che si è radicato nel Paese grazie al lavoro di milioni di persone».
Sarà compito di Lorenzo Guerini, numero due del partito, andare a discutere con Ugo Sposetti, ex tesoriere Ds e “proprietario” del logo delle Feste dell’Unità: «E ora mi vengano a chiedere il marchio», aveva detto il senatore a caldo. Per telefono, però, va al di là delle battute: «Dovete guardare la sostanza politica: si ricomincia a parlare di Enrico Berlinguer quando fino a poco tempo fa era bandito, si rifanno le Feste dell’Unità, rispunta il termine “compagno”. Non so se in modo convinto o furbesco, queste parole si usano di nuovo. Registro soltanto che, per me è una rivincita».
E di «rinvincita» parla anche Marco Miccoli, deputato Dem ed ex segretario del Pd romano. Nel 2008, con il partito romano, decise di mantenere il nome tradizionale: «Non ci è mai venuto in mente di cambiarlo: anzi, insistemmo per organizzarla alle Terme di Caracalla, il luogo dove si svolse la prima festa dopo la seconda guerra mondiale. A inaugurar, la, nel 1946, venne Palmiro Togliatti in persona».
Sposetti, invece, negli ultimi anni ha girato l’Italia a presentare libri sulla memoria delle Feste dell’Unità: «Ed erano tantissimi i compagni che si sentivano sconcertati e umiliati per il cambio di nome. Vedrete che prima o poi si tornerà a parlare anche di partito e di risorse». E la questione del marchio di vostra proprietà? «Era un dettaglio per dire che noi, al contrario di altri, non abbiamo cancellato nulla, che la battaglia che avevamo fatto era giusta e corretta.
Guardi che io sono felicissimo se le feste tornano a chiamarsi “dell’Unità».

l’Unità 16.6.14
Democrazia e dissenso
di Luca Baccelli


A LEGGERE TWEET E DICHIARAZIONI DI CERTI SENATORI PD MOLTO VICINI A MATTEO RENZI QUALCUNO, che ne conosce il pedigree liberale, sarà rimasto un po’ sorpreso della loro conversione al maggioritarismo, per non dire al centralismo democratico. Chi ne ricorda il comportamento parlamentare si sarebbe forse aspettato più solidarietà con i colleghi che dissentono dalla linea del gruppo. E si potrebbero riscontrare echi inquietanti con espressioni come «abbiamo vinto le elezioni e non vogliono lasciarci governare» che risuonavano un paio di anni fa.
Vannino Chiti, Corradino Mineo e gli altri «dissidenti» denunciano l’attacco all’articolo 67 della Costituzione: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Quando Grillo ha proposto di abbandonare il principio del mandato libero dal Pd si sono levate critiche molto dure. Che sembrerebbero ancora più opportune quando si ha a che fare con la materia costituzionale in uno dei suoi snodi più delicati, ossia il ruolo di una seconda Camera con funzioni effettive di garanzia rispetto ad un sistema elettorale fortemente maggioritario.
Ma proviamo a ragionare come se vigesse il mandato imperativo, cioè come se i parlamentari dovessero rispondere direttamente ai loro elettori anche durante la legislatura, e non soltanto alla fine, quando si torna a votare. Qual è il mandato che gli elettori hanno affidato ai senatori del Pd in tema di riforme istituzionali? Il programma su cui sono stati eletti recitava: «Sulla riforma dell’assetto istituzionale, siamo favorevoli a un sistema parlamentare semplificato e rafforzato, con un ruolo incisivo del governo e la tutela della funzione di equilibrio assegnata al Presidente della Repubblica». Non si parlava di un Senato come dopolavoro di sindaci in tutt’altro affaccendati. Semmai si diceva che «sono poi essenziali norme stringenti in materia di conflitto d’interessi, legislazione antitrust e libertà dell’informazione », ma questa è un’altra storia.
Si dirà che dopo le elezioni europee tutto questo è superato. In effetti il Pd ha ottenuto 3 milioni di voti in più rispetto alle politiche 2013. In Italia l’ultimo partito a superare il 40% in un’elezione nazionale era stata la Dc di Fanfani, nel 1958. Ma appunto gli elettori - diciamo così - «mandatari» del 2013 non sono gli stessi del 2014. Qualcuno si sarà pure sfilato, magari perché non si è fatto convincere dalle sirene del voto utile per timore del sorpasso di Grillo. È troppo pretendere che si tenga un po’ di più conto di un’articolazione delle posizioni, e soprattutto che su temi così delicati si accetti di discutere a fondo senza imporre un accordo predefinito (e lasciamo perdere con chi)?
Troppo formalismo? Su queste pagine ho avuto occasione di citare Nadia Urbinati, che considera il mandato libero come l’architrave della democrazia rappresentativa fondata sulla diarchia volontà-opinione. Ma anche per lei l’architrave regge in quanto i partiti politici fanno da tramite fra gli elettori e i loro rappresentanti, vincolandoli politicamente.
Il punto è che in questa prospettiva - e nel quadro della Costituzione - i partiti sono strutture organizzate democraticamente, luoghi di discussione ed elaborazione che legittimamente richiedono una disciplina e vincolano gli eletti in quanto mantengono un rapporto con i propri militanti e il proprio elettorato. Se i partiti si riducono allo strumento dell’investitura plebiscitaria del leader - non necessariamente un oligarca dei media o un abile comunicatore del web - l’architrave si rompe.

Corriere 16.6.14
A Livorno
Civati lancia la «Leopolda di sinistra»


Riunione ieri a Roma al teatro Piccolo Eliseo della minoranza del Pd che fa riferimento a Pippo Civati. In questa occasione il deputato, su posizioni molto critiche nei confronti del segretario-premier Matteo Renzi, ha lanciato un nuovo appuntamento dall’11 al 13 luglio a Livorno «per discutere di diritti, Costituzione, democrazia» e per «costruire un’area non solo con esponenti del Pd ma anche con i fuoriusciti dei 5 Stelle e con la società civile». Sarà una «Leopolda di sinistra» — ha annunciato Civati, che nel 2010 fu artefice insieme a Matteo Renzi della prima edizione della convention fiorentina che reclamava un rinnovamento nel Pd. Poi le strade dei due giovani esponenti democratici si sono divise e — sostiene Civati — la Leopolda «si è ripiegata solo sulla leadership di Renzi». La scelta della sede per la prossima riunione dei civatiani, Livorno, non è casuale: «È un luogo simbolo della sinistra e della sua sconfitta» ha detto Pippo Civati, facendo riferimento alla recente vittoria dei Cinquestelle nella corsa per il sindaco della città

Corriere 16.6.14
Offerte di pace dal partito, oggi in campo Zanda
Ma i senatori dissidenti: devono cambiare i toni
D’Adda: non è detto che più di uno non possa uscire dal partito, qui siamo allo stalinismo puro
di Alessandro Trocino


ROMA — I segnali di pacificazioni sono arrivati ma non è detto che bastino. Oggi alle 15 il presidente dei senatori Luigi Zanda incontra i 14 autosospesi dal Pd, per provare una mediazione. E il neo presidente dell’assemblea democratica, Matteo Orfini, ha già annunciato come prima mossa del suo mandato, in chiave di pax interna, un incontro con i ribelli. Eppure le cose non sono così semplici e la durezza degli interventi all’Ergife lo ha dimostrato.
A rendere più complessa la situazione c’è la composizione variegata del gruppuscolo di senatori, che si sono autosospesi per protestare contro la rimozione di Corradino Mineo dalla commissione Affari costituzionali e per ribadire il dialogo sulla riforma del Senato. I civatiani sono una manciata, da Walter Tocci a Lucrezia Ricchiuti, da Sergio Lo Giudice a Mineo. Poi c’è una galassia composita, con cuperliani, bersaniani, ex dalemiani, parlamentari eletti all’estero e «cani sciolti». Felice Casson sembra frenare: «La sostituzione di Mineo era e rimane grave. Ma un passettino avanti è stato fatto. Renzi ha posto un freno ai colonnelli e non ci saranno provvedimenti disciplinari. Non c’è un problema su Renzi: non enfatizziamolo troppo, è il gioco democratico». Anche Pippo Civati non era entusiasta dell’autosospensione: «Io non l’ho suggerita. Mi pare tutto eccessivo in questa vicenda, a cominciare dalla drammatizzazione imposta con la sospensione di Mineo. Zanda è stato durissimo, dimenticandosi che in passato aveva contestato Schifani per un’analoga sostituzione in commissione. A me la vicenda pare eminentemente politica, non legata solo a Mineo. La domanda è: il Parlamento è sovrano o dobbiamo dire quello che dice il governo?». E l’ombra di Turigliatto? «Ma cosa c’entrano gli affossatori di Prodi? E poi le pare che usciamo dal Pd per questo motivo? Noi vogliamo starci in questo partito, ma starci a nostro agio».
Eppure molti tra gli autosospesi restano in posizione rigida. Lucrezia Ricchiuti, per esempio: «Non vedo nessun segnale positivo. L’espulsione dei due colleghi dalla commissione è stato un atto gravissimo. Se ora ci si vuole incontrare solo per far finta di discutere ma ci si viene incontro con pregiudizio e supponenza, allora non serve a nulla». A uscire dal partito, dice, non ci pensa ancora: «Ma altri può darsi che lo facciano». Non è escluso, perché molti sono senatori di lungo corso e probabilmente all’ultimo mandato, con poco da perdere. Tra i più arrabbiati c’è Claudio Micheloni, eletto all’estero, che sarebbe pronto a lasciare. E c’è Tocci, uno dei più applauditi all’Ergife. Storico vicesindaco di Roma, Tocci non è certo il tipo da colpi di testa, ma è rimasto molto colpito dalla durezza della risposta di Zanda. Il capogruppo ha perfino citato il craxiano «Ghino di Tacco» riferendosi ai suoi senatori. Decisamente infuriata è la senatrice Erica D’Adda: «Zanda deve spiegarci molte cose, a cominciare dalla sostituzione preventiva di Chiti dalla commissione, fatta di nascosto. Nessuno chiede mea culpa, ma in un mondo normale non succedono queste cose. Sì, abbiamo discusso, ma se non si poteva cambiare nulla, allora era meglio andare a mangiare un gelato». Uscire dal partito? «Io non ci voglio pensare, ma non è detto che più di uno o due non lo facciano. Del resto, quando una figura che dovrebbe essere di garanzia, come Valeria Fedeli, ti attacca, dicendo che mettiamo a rischio il Paese, come si fa? Qui siamo allo stalinismo puro».
Al di là dei toni, i senatori autosospesi vogliono chiedere conto del perché si sia tenuto quello che la D’Adda chiama «atteggiamento autoritario»: «Io non sono pagata per schiacciare un pulsante. E poi ora sento che parleremo con Grillo e riparleremo con Berlusconi e altri ancora. Ma non è che quando cambieranno la riforma verranno da noi a dire: è questa e non si discute, votatela».
La possibilità che qualcuno abbandoni c’è. E se lo facesse, potrebbe aggregarsi a una galassia ancora nebulosa ma che potrebbe concretizzarsi: quella dei 14 ex grillini e dintorni e dei sette di Sel. Anche solo con due o tre ex pd, arriverebbero ad avere una buona consistenza numerica. Un autosospeso, che ci sta pensando, riflette: «Se nascesse davvero un gruppo così, potrebbe anche far comodo a Renzi e diventare un’alternativa ai senatori di Alfano».

Corriere 16.6.14
I sospetti del premier: un asse sul proporzionale
I 14 ribelli alla linea del segretario
di Maria Teresa Meli


I timori che Grillo punti ad un’alleanza trasversale in Aula (anche) con i bersaniani
ROMA — Come dice il proverbio: «Hai voluto la bicicletta? E ora pedala». E così, come da proverbio, niente relax per Matteo Renzi, neanche la domenica, nemmeno a Pontassieve, con la sua famiglia. Chi fa il premier non può concedersi tregue. Tanto meno se ha preso il 40,8%, mettendo gli avversari interni ed esterni all’angolo.
Il più pronto a reagire, tanto per cambiare, è Beppe Grillo, che, con Casaleggio, ha proposto a Renzi un incontro sulla riforma elettorale. Apparentemente, un’offerta di pace; in realtà, una mossa insidiosa, su cui il leader del Partito democratico — che ha affidato al vice segretario Lorenzo Guerini la prima presa di posizione ufficiale del Pd — ha ragionato a lungo con i collaboratori e i fedelissimi.
Che Grillo non intenda fargli un piacere, proprio adesso che è fortissimo, il premier lo ha capito subito. Secondo lui l’iniziativa del leader dei 5 stelle nasce da due necessità. La prima, quella di uscire dalle «difficoltà» in cui si è cacciato. Cioè l’alleanza con Nigel Farage, che ha messo in fibrillazione il popolo grillino, e poi il rischio di «non essere incisivo, né decisivo a livello parlamentare». «Le uniche volte in cui riesce a esserlo — spiega un autorevole collaboratore del premier — è quando fa i blitz con Forza Italia, come quello sulla giustizia».
Ma c’è un’altra, ben più preoccupante ragione che spinge Grillo a fare questa mossa. Renzi sospetta che il comico genovese voglia «tentare di mettere in piedi un’alleanza trasversale in Parlamento favorevole al sistema proporzionale e alle preferenze». Un sistema, questo, che potrebbe attirare «anche settori della minoranza del Pd». Leggasi i bersaniani. Del resto, non è un mistero che da giorni Alfredo D’Attorre vada dicendo ai compagni di partito che dopo l’ottimo risultato ottenuto alle Europee, l’Italicum si possa rivedere in senso più proporzionale, abbassando le soglie e inserendo le preferenze.
«Ma tornare a un sistema in cui non si sa chi ha vinto — è il convincimento del premier — significa tornare alla palude parlamentare, ai tempi in cui i governi non riuscivano a sopravvivere più di dieci mesi ed erano in balia dei veti e di qualsiasi partitino. E se c’è una cosa di cui l’Italia ha urgente bisogno è quella di essere governata». Però Renzi non si poteva né si voleva sottrarre al confronto con i 5 stelle. Per diversi motivi. Per non farsi accusare di puntare solo all’inciucio con Berlusconi e perché intende usare i grillini, come la disponibilità mostrata da Salvini, nell’intervista al Corriere , per «pressare» il leader di Forza Italia e dimostrargli che lui ha più forni a cui potersi rivolgere. Perciò se Berlusconi «continua a cincischiare» rischia di restare «isolato».
Dunque, sì all’incontro con i grillini che, semmai avverrà, perché con il Movimento 5 stelle il condizionale è d’obbligo, avrà però dei paletti ben precisi: «Innanzitutto si manda in porto la riforma istituzionale in prima lettura al Senato e alla Camera, poi ci si occupa del sistema elettorale, che però deve essere maggioritario, perché un punto per il Pd è irrinunciabile: la sera stessa delle elezioni si deve sapere chi governa». Del resto, Renzi è convinto, e glielo dicono anche i sondaggi, che «sul maggioritario l’opinione pubblica stia con noi: nessuno vuole tornare al passato».
Nonostante questa mossa insidiosa di Grillo e le ritrosie di Berlusconi che si è inventato il referendum sul presidenzialismo, Renzi appare ottimista. «È vero, il presidenzialismo piace, ma un referendum non serve, e per una legge di iniziativa popolare ci vuole tempo, quindi procediamo intanto con quello che c’è: le riforme del Senato e del titolo quinto della Costituzione». Quello che il premier pensa e non può dire, lo affermano i suoi: «Per dare appeal al presidenzialismo ci vuole anche un leader carismatico, Berlusconi non lo è più e Alfano non lo sarà mai. Mentre noi abbiamo Matteo...».
Chiusa la questione, dunque, alla fine, nello staff del premier nessuno sembra troppo preoccupato che l’incontro tra Berlusconi e Renzi non sia stato ancora fissato («ci sarà», assicurano tutti) perché i dettagli sono in via di definizione: senatori eletti dai consigli regionali in base al peso demografico di ogni regione e un minor numero di sindaci per rassicurare il leader di Fi, vista la preponderanza del centrosinistra nei Comuni italiani.
Sullo sfondo, resta comunque lo spettro delle elezioni anticipate nel 2015, nel caso in cui tutto si impantanasse. Se invece si andasse avanti, allora potrebbe esserci un «ritocchino» (termine che i renziani preferiscono al vecchio rimpasto) in ottobre, con un posto in meno per Ncd e un cambio della guardia per il Pd.

Corriere 16.6.14
Per sette italiani su dieci «la corruzione coinvolge tutto il sistema politico»
di Nando Pagnoncelli


Gli scandali delle tangenti dell’Expo di Milano e del Mose di Venezia rappresentano un banco di prova molto importante per Matteo Renzi, non tanto per le responsabilità riguardo ai fatti di cui si parla, che non vengono certamente imputate a lui o al suo governo, quanto piuttosto perché la domanda di palingenesi morale è largamente diffusa nell’opinione pubblica e la corruzione rappresenta simbolicamente la massima espressione della distanza tra cittadini e politica. Le inchieste in corso riportano l’Italia indietro nel tempo e tutto ciò potrebbe vanificare quanto sta cercando di fare il governo per modernizzare e trasformare il Paese, facendo prevalere la disillusione e la rassegnazione. L’onestà della politica, tanto reclamata dai cittadini, è una sorta di precondizione all’altrettanto reclamato cambiamento del Paese.
L’opinione pubblica sta reagendo alle vicende in questione con molta severità e cupo pessimismo: il 70% ritiene che si tratti di fatti che riguardano indistintamente tutto il sistema politico, mentre solo il 26% pensa che le responsabilità siano individuali e non sia coinvolta tutta la politica. È un’opinione che prevale nettamente tra tutti gli elettori, anche se tra quelli del Pd la quota di coloro che circoscrivono le responsabilità a casi singoli sale al 44%. E la prospettiva non appare rosea: solo un terzo degli italiani (35%) pensa che in futuro ci saranno meno scandali grazie al ricambio generazionale e all’impegno dei politici più giovani; al contrario, la maggioranza assoluta (61%) ritiene che la piaga della corruzione non potrà essere debellata e i giovani politici in futuro si faranno corrompere. A questo riguardo i più ottimisti risultano gli elettori del Pd (il 56% risulta fiducioso e il 41% è rassegnato), mentre stupisce che quelli del M5s siano i più scettici (76% di pessimisti), tenuto conto della straordinaria presenza di giovani politici nelle file del movimento e soprattutto della battaglia per la trasparenza e l’onestà portata avanti con convinzione e intransigenza. In generale gli atteggiamenti più negativi sono maggiormente diffusi tra gli uomini, nelle classi centrali d’età (tra 30 e 60 anni), tra le persone più istruite e tra gli imprenditori, i dirigenti e i lavoratori autonomi (artigiani e commercianti) che risultano più direttamente a conoscenza delle vicende delle imprese e delle gare pubbliche. A più di vent’anni da Tangentopoli la storia si ripete o, forse, non è mai cambiata e la corruzione suscita indignazione e livore, a maggior ragione in un periodo come quello attuale, nel quale le risorse sono scarse, i cittadini sono chiamati a fare grandi sacrifici, la pressione fiscale rimane elevata, si tagliano le spese e i servizi ma i costi di importanti opere pubbliche lievitano, senza che alcuno ne risponda. La corruzione contribuisce a minare il concetto stesso di contratto sociale e la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, soprattutto quando sono coinvolti non solo politici e imprenditori ma anche magistrati e esponenti della Guardia di finanza. In queste circostanze la tendenza alla generalizzazione è largamente diffusa e non tutti hanno le cognizioni per distinguere le responsabilità, districarsi tra le argomentazioni o attribuire le cause all’inefficacia delle norme, dei controlli o delle sanzioni. Che il denaro destinato al sindaco Orsoni sia stato utilizzato dal diretto interessato per fini personali o dal partito che ne ha sostenuto la candidatura, al comune cittadino poco importa. Come poco importa all’opinione pubblica discernere tra il politico che chiede denaro ad un imprenditore a fin di bene (per risanare un’azienda e salvare posti di lavoro, per esempio) o per arricchirsi. Qualunque sia il fine, l’imprenditore prima o poi ti presenterà il conto e chiederà qualcosa in cambio. Di fronte alla riprovazione sociale e all’esasperazione dei cittadini non è facile fare dei distinguo. Oggi appare più premiante, in termini di consenso, essere giustizialisti anziché garantisti.
La decisione di nominare il magistrato Raffaele Cantone a Commissario straordinario dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, conferendogli poteri speciali, tra cui il commissariamento ad hoc di appalti sospetti, indica la volontà del governo di reagire all’ennesimo scandalo delle tangenti, per porre un argine al fenomeno ma anche per non deludere l’aspettativa del cambiamento suscitata dal nuovo esecutivo, non dissipare il credito di cui gode e non sprecare la lieve ripresa di fiducia degli ultimi mesi. Ma tutto ciò non basta, dato che Renzi oltre ad essere premier è anche neosegretario del Pd, nelle cui file vi sono esponenti coinvolti nei fatti in questione e la distinzione tra vecchio e nuovo partito, per quanto utile nell’immediato per mettere in chiaro le responsabilità, alla lunga potrebbe perdere di efficacia. Pertanto non può permettersi di abbassare la guardia, perché bonificare la politica ha una rilevanza decisamente superiore a quella attribuita alle riforme, che pure sono molto importanti per l’opinione pubblica.

Corriere 16.6.14
Le troppe norme aiutano i corrotti
di Michele Ainis


Un grosso paio di forbici volteggia sulle nostre chiome. Le impugna il presidente del Consiglio, che ne ha fatto ancora uso lo scorso venerdì. Tagli alle prefetture (da 106 a 40). Tagli alle camere di commercio (ne sopravvivranno una ventina). Tagli alle sezioni distaccate dei Tar (amputazione totale). E poi sforbiciate sui permessi sindacali. Sulle propine degli avvocati dello Stato. Sui gettoni dei segretari comunali. Sui doppi incarichi dei magistrati. Sulle 5 scuole della pubblica amministrazione. Sui ruoli dirigenziali. Su ogni ufficio locale, centrale, interstellare. Risultato: ci era cresciuta sulla testa una zazzera leonina, rischiamo di finire pelati come un uovo.
Però l’Italia aveva bisogno d’un barbiere. Non solo perché troppi capelli non riesci a pettinarli, e infatti il nostro Stato è fin troppo arruffato. Anche perché sotto ogni ricciolo può ben nascondersi la pulce della corruzione. Quella che negli ultimi vent’anni ci ha fatto precipitare dal 33º al 69º posto nella classifica di Transparency International anche in virtù di scandali come quelli del Mose e dell’Expo. Non a caso la seconda lama della forbice s’infila proprio lì, rafforzando i poteri di Cantone sugli appalti. Quali? Soprattutto uno: l’Autorità nazionale anticorruzione potrà sospendere rami d’attività delle aziende, commissariarli, avviarne una contabilità separata.
Funzionerà? Lo sapremo presto. Anche se è lecito nutrire qualche dubbio — in termini economici, prima ancora che giuridici — sulla possibilità che un’impresa riesca a camminare con un piede o una caviglia congelati. Anche se bisogna sempre soppesare i costi sociali di ogni misura repressiva, a partire dall’occupazione: ricordiamoci dell’Ilva. Anche se l’eccesso di controlli può risultare altrettanto pernicioso rispetto al vuoto di controlli, contraddicendo le istanze di semplificazione che sorreggono quest’ultima manovra del governo Renzi.
Ma un intervento era comunque necessario. Magari per renderlo ancora più efficace servirebbe allungare i tempi della prescrizione, che mandano in fumo 130 mila processi l’anno. E ripristinare il falso in bilancio, depenalizzato nel 2002 dal governo Berlusconi. Però nessuna norma, nessuna authority , nessun gendarme ci potrà salvare l’anima se noi italiani non sapremo riconciliarci con la cosa pubblica, con l’etica pubblica. Anzi: c’è il rischio che la legge diventi un mantello che copre i malfattori. L’ha osservato, d’altronde, anche Cantone: gli appalti truccati sono sempre costruiti sul rispetto formale delle regole, come un abito cucito su misura per questo o quell’imprenditore. E quando le regole si contano a migliaia, il sarto non ha che da scegliere la stoffa migliore per accontentare i suoi clienti.
Ecco, qui entra in scena l’ossimoro, il paradosso della semplificazione. Sta di fatto che le forbici di Renzi fendono l’aria con due decreti legge omnibus (vietati dalla Consulta) e un disegno di legge delega. Totale: 120 articoli, un centinaio di pagine. Il solo comunicato stampa diramato da Palazzo Chigi inanellava 2.287 parole. Parole che reclamano altre parole di legge per ricevere attuazione (non prima del 2015). E del resto sono quasi 500 i provvedimenti attuativi fin qui rimasti in mezzo al guado. Il governo lo sa, e infatti aveva predisposto un meccanismo per rendere in futuro certa l’attuazione delle leggi. Dopodiché i meccanici (le burocrazie ministeriali) hanno bloccato il meccanismo, depennandolo dal testo approvato in Consiglio dei ministri.
Ma che cos’è l’attuazione, se non altro diritto che va ad aggiungersi al boccale del diritto? Nella legislatura in corso abbiamo già inghiottito 3.917 commi, 55 leggi, 41 decreti. E il gabinetto Renzi (con una media di 3,33 decreti al mese) ha superato di gran lunga i 4 esecutivi precedenti. È insomma la loro quantità che stroppia, non soltanto la loro qualità, non solo la collezione di norme astruse o strampalate di cui racconta Gian Antonio Stella nel suo ultimo volume (Bolli, sempre bolli, fortissimamente bolli ). Da qui la conclusione: per semplificarci l’esistenza, nonché per liberarci dai corrotti, serve una legge in meno, non un decreto in più.

Il Sole 16.6.14
La democrazia paga il conto di un mondo senza regole
di Guido Rossi

qui segnalazione di Annalina Ferrante

il Fatto 16.6.14
Grillo cambia linea: legge elettorale col Pd
di Luca De Carolis


Non è una svolta, è una rivoluzione copernicana. Ma vale anche come un trofeo per il rottamatore. E pure come un mal di pancia, per i tanti parlamentari a 5 Stelle che non hanno gradito la sorpresa: indigesta anche per Forza Italia. Reazioni diverse per il post di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, “Legge elettorale, Renzi batti un colpo”, che alle 10.48 di domenica compare sul blog. Trenta righe in cui i capi dell’M5S invitano il premier a “confrontarsi” in un incontro pubblico sulle legge elettorale dei 5 Stelle (proporzionale con preferenze, anche “negative”, e varie soglie di sbarramento). Con una premessa: “Renzi è stato legittimato da un voto popolare e non dai voti della sola direzione Pd”.
E BUONANOTTE ai Maalox, ai sospetti di brogli e ai “Renzie dimettiti” piovuti dal blog dopo le Europee. Conversione a u, in nome di quella che Luigi Di Maio battezza la “nuova fase del Movimento”. La richiesta formale di incontro partirà oggi, e c’è già l’accordo di massima sulla diretta streaming, invocata subito da Renzi. “Questa volta lo streaming lo chiediamo noi, è bene che non ci siano né patti segreti né giochini strani”, dice il premier al Tg5. Per aggiungere: “Con Grillo non ci si annoia mai”. La svolta nasce dalla gran fretta dell’M5S. Di anticipare l’incontro sulle riforme tra Renzi e Silvio Berlusconi che molti prevedevano in settimana. E di uscire dall’angolo, perché tra post contro Federico Pizzarotti e il caso Farage ai piani alti hanno capito di essersi incartati, per l’ira della base e di molti eletti. Così tentano di sostituire il Condannato come interlocutore sulle riforme. Provando a non farsi bruciare dalla Lega, che con Matteo Salvini ha messo nero su bianco sul Corriere della Sera l’offerta al Pd sulla riforma del Titolo V della Carta. Sullo sfondo, anche il retropensiero che Renzi possa mandare tutti alle urne entro un anno. E allora, meglio provare a incidere sulla legge elettorale.
IL PRIMO PASSO è il post di ieri, che inizia rievocando “il gennaio 2014, quando i giornaloni chiedevano a gran voce che il Movimento andasse a vedere le carte della legge elettorale”. I 5 Stelle passarono la mano, “e a provare a fare la legge fu Berlusconi, pregiudicato sbattuto fuori dal Senato per nostro merito esclusivo”. Da allora, “sono cambiate due cose, il M5S ha una legge approvata dagli iscritti (otto consultazioni con 220 mila votanti, ndr) e Renzi è stato legittimato da un voto popolare”. Quindi, “se il segretario del Pd ritiene che la legge M5S possa essere una base di discussione comune, che dovrà comunque essere ratificata dagli iscritti, batta un colpo”. All’incontro “parteciperanno i due capigruppo di Camera e Senato, oltre a Danilo Toninelli, estensore della versione definitiva della legge e Di Maio, come vicepresidente della Camera”. Niente Grillo. Ed è la conferma di un cambio di linea. A ilfattoquotidiano.it  , Di Maio aggiunge: “Ci prepariamo a sederci al tavolo per cambiare la legge elettorale e portarla a casa. Visto che dovremo stare in Parlamento fino al 2018, il Paese preferiamo cambiarlo noi piuttosto che Berlusconi”. “Prendiamo atto con soddisfazione che Grillo e Salvini stanno tornando sui loro passi, cercando un confronto con il Pd” commenta il vicesegretario dem Lorenzo Guerini. Batte le mani Michele Emiliano: “Da 2 anni chiedo al M5S un dialogo, finalmente Casaleggio e Grillo chiedono di incontrare Renzi per legge elettorale: sono felice”. I dem chiedono lo streaming, memori della diretta pretesa da Grillo per l’incontro con Renzi del 19 febbraio. Di Maio tentenna (“Non è essenziale), poi concede: “Si farà”. Monta l’irritazione di tanti parlamentari a 5 Stelle, all’oscuro della svolta. I dissidenti insorgono: “Ci accusavano di essere ribelli solo perché prendevamo un caffè con quelli del Pd, ora questo post fuori tempo massimo”. Colpisce il tweet della senatrice Elisa Bulgarelli: “Chiuso per lutto. Ora capisco il perché di tante pressioni contro Fede (Pizzarotti, ndr). Prove generali di tenuta del movimento e conta dei fedelissimi”. Traduzione: i vertici forzano per vedere quanti aderiscono (ancora) alla linea. Maurizio Buccarella, capogruppo in Senato: “Rispetto i malumori, ma la politica ha i suoi tempi, non potevamo aspettare. C’era l’esigenza di comunicare la nostra legge elettorale e di proporla al Pd: vedremo se ci diranno di no. Siamo già andati dal ministro Orlando con le nostre proposte sul ddl anti corruzione: lavoriamo per il Paese”. Rimane la distanza tra il testo proporzionale dell’M5S e l’Italicum renziano, maggioritario. Intanto Forza Italia protesta, ma il premier assicura: “Credo che il patto del Nazareno reggerà”.

La Stampa 15.6.14
Ecco la proposta di legge elettorale M5S
Proporzionale corretto con preferenze e possibilità di esprimere penalizzazioni
Nel testo dei grillini sono vietate le candidature plurime in più circoscrizioni

qui

La Stampa 15.6.14
Ecco il testo della proposta di riforma dei M5S

qui

La Stampa 16.6.14
Toninelli (M5S)
«Possiamo sostituire Forza Italia»

«Non si tratta di un’apertura globale ma di merito, materia per materia. La legge elettorale potrebbe essere sicuramente un passo avanti verso la sostituzione a Forza Italia, che oggi porta avanti un appoggio alla maggioranza che danneggia qualsiasi idea di buona riforma». È quanto sottolinea Danino Toninelli, deputato M5S ed estensore della legge elettorale prodotta dal M5S. «Renzi ha ricevuto una legittimazione politica dopo le europee ed è diventato un nostro interlocutore: noi siamo stati i primi a trasformare le elezioni europee in elezioni politiche, e se avessimo vinto avremmo chiesto la caduta del governo».

Corriere 16.6.14
Legge elettorale, la mossa di Grillo: dialogo con Renzi, è legittimato dal voto
L’obiettivo: discutere della «nostra proposta» e sostituire FI al tavolo
di Alessandro Trocino


ROMA — Sono passati pochi giorni dalle reiterate accuse di «colpo di Stato», «fine della democrazia» e «Parlamento delegittimato». Matteo Renzi fino all’altro ieri era l’«ebetino», «il buffone». Ma da ieri nelle strategie del Movimento 5 Stelle c’è una novità. Beppe Grillo fa una spericolata inversione di marcia e tende la mano al segretario del Pd: «Sono avvenute due cose importanti, il M5S ha una legge e Renzi è stato legittimato da un voto popolare e non dai soli voti della Direzione». Quindi, ecco l’invito: «Sulla legge elettorale Renzi batta un colpo, il M5S risponderà». Pronta la replica di Matteo Renzi, che apre: «Chi ci sta a scrivere le regole del gioco insieme, fa un piacere all’Italia e noi siamo pronti a discutere con tutti». Lega compresa. Ma avverte: «È bene che non ci siano né patti segreti né giochini strani. E questa volta, magari, lo streaming lo chiediamo noi».
Replica aperturista ma cauta, quella del Pd. Del resto, la giravolta di Grillo e Casaleggio è talmente improvvisa da meritare un approfondimento. I democratici sospettano che il post sia solo un tentativo strumentale di intralciare il cammino delle riforme, invece di favorirle. Non a caso Grillo e Casaleggio sottolineano nella loro proposta, che la legge decisa dal Movimento (approvata online dagli iscritti) è «di impronta proporzionale e non è stata scritta su misura per farci vincere, come è stato per l’Italicum, costruito per farci perdere». Tra i sorpresi dall’apertura dei 5 Stelle c’è anche Luis Alberto Orellana. Il quale ricorda che «l’espulsione, gli insulti e le minacce di morte» sono seguite alla sua «apertura al dialogo con il Pd». Proprio quel dialogo al quale bussa ora Grillo.
Il Pd è cauto, ma non chiude le porte. Dice il ministro Maurizio Martina a l’Intervista di Maria Latella su Sky Tg24: «Se davvero questa apertura di Grillo è sincera sarebbe impossibile sottrarsi a questo confronto. Se ha scelto di scongelare i suoi voti, bisogna andare a vedere le carte e verificare che non sia un bluff». «Molto positiva» è la valutazione anche del vicesegretario Lorenzo Guerini e dell’altro vicesegretario, Debora Serracchiani: «È confermata la centralità del Pd».
In realtà, pur consapevoli che i termini per un accordo sulla legge elettorale sono molto difficili, i democratici vedono nell’apertura dei 5 Stelle anche un modo per tenere sotto pressione gli altri partner, a cominciare da Forza Italia. Lo dice esplicitamente Osvaldo Napoli: «L’apertura di Grillo è solo l’ultimo forno messo a disposizione del premier. La tentazione di manovre di aggiramento verso altri interlocutori cresce proporzionalmente alle nuove disponibilità al dialogo»». Il rischio, aggiunge Napoli, «è che le riforme vadano bruciate se entrano nel forno sbagliato». Concorda Altero Matteoli, altro esponente di Forza Italia: «Renzi è un convinto bipolarista, il Movimento 5 Stelle è per il proporzionale, non perdiamo altro tempo e respingiamo questa ipotesi che ricaccerebbe il Paese indietro di 20 anni». Ne approfitta anche il deputato ncd Fabrizio Cicchitto per dire che «è evidente che tutto torna in discussione, dal Senato all’Italicum: la legge elettorale così come è uscita dalla Camera va cambiata da varie parti, dalle preferenze alle quote».
Dopo le reazioni di Renzi, parla anche Luigi Di Maio, che accetta lo streaming, ma prima di farlo indugia e dice: «Non credo che sia essenziale». Ma sulle riforme aggiunge esplicitamente: «Finora è stato Berlusconi l’ago della bilancia. Ora vogliamo esserlo noi». Renzi chiosa: «Fa un po’ ridere che fino a poco fa sembrava che le riforme le volessimo fare solo noi e ora ci cercano tutti». Quanto a Grillo: «Con lui non ci si annoia di certo».

Corriere 16.6.14
Grillo salta anche l’ultimo ostacolo sulle riforme
Nessuno ha più scuse
di Pierluigi Battista


Anche l’ultimo ostacolo è stato rimosso. Beppe Grillo apre la stagione del dialogo sulle riforme. Ora, se non si faranno, nessun alibi servirà a edulcorare un fallimento disastroso.
Ovviamente, la disponibilità di Grillo a incontrare Renzi sulla legge elettorale non significa che le divisioni si siano dissolte. Le distanze restano abissali. Anche Matteo Salvini ha detto che la Lega è pronta a discutere sulla riforma del Senato e sul titolo V, ribadendo però che l’opposizione all’Italicum non si ammorbidirà neanche un po’. Tra il Nuovo centrodestra e Forza Italia si assiste invece ai primi passi di un disgelo necessario. Non vuol dire che la concordia è vicina. Possibile (anzi, quasi sicuro) che tutte le forze politiche, nessuna esclusa, si stiano muovendo con una tattica felpata per stanare gli avversari.
Ma il doppio risultato delle Europee sta cominciando a orientare decisioni che sembravano impossibili fino a un mese fa. La vittoria di Renzi ha legittimato nelle urne, come riconosce lo stesso Grillo, il premier in carica. Inoltre, la percentuale elevatissima di elettori astenuti ha reso evidente il carico di delusione di tanti cittadini nei confronti di una politica inconcludente. Ora tocca alla politica concludere qualcosa, altrimenti l’astensionismo sarà una valanga.
Si spera in riforme serie e non raffazzonate. Non pasticciate, come c’è il rischio che diventino a furia di aggiustamenti, modifiche, rimaneggiamenti. Riforme che si facciano rispettando le regole, senza bruschi atti d’imperio, come si è visto nel Pd del Senato nei giorni scorsi. Ma speditamente. Non c’è contraddizione: si può procedere spediti senza manomettere le regole. In pochi mesi, si può avere la legge elettorale e anche una buona legge costituzionale che ridisegni le nostre istituzioni. Se poi prevalessero le furbizie e le acrobazie tattiche, le alleanze spurie per far fuori un avversario comune o un compromesso al ribasso, l’occasione migliore verrebbe perduta. E con essa la residua fiducia dei cittadini.
Non ci sono più scuse. E il tempo sta scadendo.

La Stampa 16.6.14
Il premier sente puzza di bruciato
Ma non può sottrarsi all’incontro
Dopo le aperture del capo M5s (e della Lega): vogliono solo la palude?
di Federico Geremicca


Il cambio di rotta, la correzione - insomma - è evidente: Beppe Grillo chiede a Matteo Renzi (detto Renzie o anche l’ebetino) di sedersi ad un tavolo per discutere di riforme, e non c’è bisogno di aggiungere parola per segnalare la novità. Novità positiva, naturalmente.
E interpretabile addirittura come l’avvio di un graduale e auspicato processo di “scongelamento”: non solo dei rapporto tra Pd e Movimento Cinque Stelle, ma della stessa forza parlamentare dei cosiddetti “grillini”.
L’apertura del più duro degli oppositori di Renzi, è stata però accolta con più di un qualche scetticismo nel quartier generale del premier per l’ottima ragione che il Presidente del Consiglio sarà pure giovane, i suoi collaboratori idem, ma padroneggiando con disinvoltura l’abc della politica e non ci vedono per niente chiaro. Infatti, si sono subito posti un interrogativo.
La domanda è prevedibile e semplice: Beppe Grillo vuole aprire un confronto per fare davvero le riforme (quella della legge elettorale innanzitutto) oppure per portare l’intero pacchetto nel “pantano” tanto temuto da Matteo Renzi? Detta in altre parole: fallita (o comunque non premiata dagli elettori) la via del muro contro muro - quella del “con voi non ci mischiamo”, insomma - non è che si intende provare a raggiungere lo stesso obiettivo semplicemente cambiando tattica?
Alla luce della storia recente, si tratta di interrogativi tutt’altro che oziosi. E rafforzati, anzi, da una singolare coincidenza (e in politica, si sa, le coincidenze generano subito sospetti): anche la “nuova Lega” di Matteo Salvini (pur essa da sempre durissima con il governo) apre a Renzi e si dice pronta ad un confronto sulla riforma del Senato, la modifica del Titolo V e magari la stessa legge elettorale.
Entrambi - cioè sia i leghisti che i “grillini” - fulminati sulla via di Damasco? Il premier sente puzza di bruciato, e ufficialmente si affida all’ironia: prima le riforme non le voleva fare nessuno - ha annotato - adesso è diventata una corsa... Meno ufficialmente, invece, si interroga sui possibili obiettivi delle due opposizioni e riflette, dunque, sulla via migliore da battere.
Naturalmente, da parte del Pd e del governo l’apertura al confronto è dichiarata “massima”: ma massima, come dicevamo, è anche la curiosità di capire se quella annunciata da Grillo sia una sincera disponibilità al dialogo o più semplicemente (e banalmente) una mossa da “vecchia politica”. Ai suoi tempi, Bettino Craxi era solito dire: quando non si vuol affrontare un problema, non c’è modo migliore per farlo che creare una bella Commissione. E oggi Matteo Renzi, quasi alla stessa maniera, è solito ripetere: convegni, seminari, tavole rotonde, commissioni, è trent’anni che si discute di riforme ma si trova sempre il sistema per non decidere mai.
E' a questo che punta Beppe Grillo? Cioè, portare il confronto dentro un labirinto di tavoli, streaming, confronti e audizioni dal quale non uscirebbero vive né le riforme né il governo in carica? In casa Pd e ai piani alti di Palazzo Chigi il sospetto è forte: ma è evidente che chiudere la porta alla richiesta di “avviare una trattativa” sarebbe certo più rischioso (e meno comprensibile) che andare a vedere le carte che Grillo intende giocare davvero. La partita, dunque, si farà: ma subito, con tempi certi, e senza supplementari...
Non solo. Essendo infatti evidente che l’annunciata svolta “grillina” è il risultato dell’insuccesso elettorale, delle sue cause e della discussione (perfino parzialmente autocritica) che ne è seguita, ecco, essendo evidente tutto questo, Renzi ora vuole che i cinquestelle bevano per intero e pubblicamente l’amaro calice. E’ una sorta di Canossa quella che il premier e il Pd provano a preparare per Grillo ed i suoi parlamentari: e dovrà avvenire via streaming. Sì, via streaming: a parziale riscatto di quel che Bersani prima e Letta poi hanno dovuto subire appunto via streaming...

Repubblica 16.6.14
Il retroscena
E il premier incassa “Non ci casco, ma ora siamo più forti con Forza Italia”
di Francesco Bei


«Se pensano che cadiamo in questa trappola...». Matteo Renzi, in una mezza giornata di riposo a Pontassieve, elabora la risposta a Grillo che affiderà ufficialmente ai suoi vice, Guerini e Serracchiani. Ovvero: ben vengano i 5stelle al tavolo delle riforme, ma le condizioni stavolta le dettiamo noi. E sono dei “caveat” pesanti, studiati apposta per bloccare sul nascere quello che il premier considera l’ultimo «giochino » elaborato nelle stanze della Casaleggio associati.
PER questo, se e quando ci sarà l’incontro con i grillini (escluso comunque che partecipi Renzi in prima persona), la prima cosa che verrà messa sul tavolo è la richiesta di una legge elettorale che garantisca la «governabilità ». La proposta elaborata dai 5stelle - di fatto un proporzionale puro - è all’opposto. «Il principio maggioritario - chiarisce il vicesegretario Guerini - per noi non si tocca. Non possiamo tornare indietro di 25 anni al tempo in cui i partiti facevano e disfacevano i governi in barba agli elettori». A quel punto il vertice «in streaming» potrebbe dirsi concluso prima ancora di iniziare.
E tuttavia, incassata con un certo gusto la promozione da «ebetino» a leader «legittimato dal voto popolare», Renzi è deciso a non farsi sfuggire l’occasione per ritorcere la «trappola » contro quelli che l’hanno congegnata. Anzitutto rafforzando la sua posizione negoziale nei confronti di Forza Italia. Un rischio che alcuni, come Osvaldo Napoli, hanno compreso benissimo riandando con la memoria a quella «politica dei due forni» praticata da Andreotti. Una fonte del Pd vicina alla trattativa sulle riforme la spiega in questo modo: «Grillo ci regala inaspettatamente un secondo tavolo che rafforza la nostra capacità negoziale sul primo, quello con Berlusconi. Proprio nel momento in cui Forza Italia sembrava sbandare». Un vantaggio tattico non da poco visto che mercoledì, nella commissione affari costituzionali di palazzo Madama, si inizierà a votare sul disegno di legge Boschi. In fondo anche rispetto alla dissidenza interna, quella dei quattordici senatori dem che si sono autosospesi, l’apertura di Grillo e Casaleggio rappresenta un punto di forza per Renzi. È la digionamento mostrazione di quella «centralità delle proposte del Pd» di cui parla Debora Serracchiani. E la convinzione che la «determinazione» mostrata nei riguardi del “ribelle” Mineo sia servita a chiarire a tutti che la maggioranza andrà comunque avanti sulle riforme, lasciando a bocca asciutta i contestatori.
Questo apre il secondo ra- che riguarda invece “casa Grillo”. Uno degli uomini più fidati di Renzi osserva infatti con crescente interesse i movimenti in corso nel M5S dopo la sconfitta elettorale. «L’alleanza di destra con Farage ha creato un grande malessere nei gruppi parlamentari - spiega il renziano doc - e questa proposta di dialogo con noi serve a dare un contentino a quelli che contestano i vertici per l’impasse politica del movimento. Ormai rischiano di essere tagliati fuori da tutto, per toccare palla sono costretti a fare dei blitz insieme a Brunetta, come sulla responsabilità civile dei magistrati. Ma alla loro base questi giochetti non piacciono ». Insomma, se l’offerta di dialogo sulla legge elettorale è davvero «un’arma di distrazione di massa» (copyright Roberto Giachetti), è il segnale che forse qualcosa si sta muovendo nei gruppi parlamentari grillini. Qualcosa che, unito alla dissidenza di Sel e a quelli che sono già stati sbattuti fuori da Casaleggio, potrebbe tornare utile a palazzo Chigi. Che ormai attrae come una calamita. Stando alle antenne renziane a Montecitorio, il prossimo ad abbandonare l’opposizione dovrebbe essere in settimana il deputato salernitano Michele Ragosta, pronto a uscire dal gruppo Sel.
Se a sinistra la situazione appare in movimento, sul fronte destro la confusione è massima. Tanto che i berlusconiani doc, come Giovanni Toti e Maria Stella Gelmini, preferiscono parlare d’altro. «Domani gli italiani saranno in fila per pagare le tasse - osserva Gelmini - e dubito che a qualcuno di loro interessi la legge elettorale. Comunque la nostra disponibilità resta». Tra i forzisti, in attesa di una parola chiara di Berlusconi, l’incertezza è massima. Il patto del Nazareno è ancora in piedi? Nessuno lo sa. Verdini e Bruno pensano di sì, Minzolini lo vorrebbe stracciare, Romani almeno ricontrattare. Molto meglio sparare la palla in tribuna, parlando di un improbabile referendum sul presidenzialismo. Gaetano Quagliariello, ex ministro delle riforme e coordinatore del nuovo centrodestra, affonda il coltello nel burro quando ricorda agli “amici” di Forza Italia quanto ci vorrebbe prima di arrivare al voto popolare: «Quattro letture dell’iter di revisione costituzionale solo per far sì che il referendum possa essere svolto, dunque la celebrazione del referendum stesso e poi un’altra legge costituzionale con ulteriori quattro letture che ne traduca in norme le indicazioni». Se tutto va bene si arriverebbe al 2018, ma servirebbero comunque i voti del Pd in Parlamento.

La Stampa 16.6.14
Partiti, le nuove strategie
Berlusconi, il caso Ruby frena le riforme
Venerdì al via l’appello del processo: l’ex premier pronto a mettere da parte gli accordi presi con il Pd
di Ugo Magri

qui

Repubblica 16.6.14
La paura della solitudine
di Ilvo Diamanti



BEPPE Grillo e Gianroberto Casaleggio si sono detti disponibili a confrontarsi sulla legge elettorale con Renzi. Legittimato dal voto europeo. Così, Grillo è uscito dall’isolamento, in cui si era rifugiato per inseguire un elettorato eterogeneo.
DAL punto di vista sociale e ancor più politico. Equamente distribuito fra sinistra, destra e antipolitici. Anche se la polemica con Renzi e il Pd l’aveva spinto, sempre più, verso destra. Per questo, comunque, Grillo ha sempre evitato di scegliere un alleato stabile. Accettando il rischio di finire fuori gioco. Di apparire, comunque, dis-interessato ad assumersi responsabilità, a influenzare scelte e decisioni. Soprattutto, insieme ad altri soggetti politici. Così ha pagato un prezzo alto, alle elezioni europee. Ma anche alle amministrative. Alle europee. Aveva “minacciato” il sorpasso ai danni del Pd di Renzi. Con il risultato di convincere molti elettori di centro, ma ancor più di sinistra, incerti se e per chi votare, a recarsi alle urne. E a raccogliersi intorno a Renzi. Non solo, ma la stessa, aggressiva “profezia” statistica di Grillo - vinciamo noi! - ha trasformato un risultato ragguardevole, il 21%, in una sconfitta. Mentre il 40,8% ha fatto del Pd di Renzi il primo partito in Europa.
Alle amministrative, i successi conseguiti a Livorno, anzitutto, ma anche a Civitavecchia e in due altri comuni, sono significativi. Ma anche molto marginali, di fronte al successo del Pd, e del Centrosinistra. Che hanno vinto in 167 comuni (con oltre 15 mila abitanti) su 243. Mentre prima ne amministravano 128. Restare nell’ombra, per questo, è divenuto molto più rischioso che “prendere posizione”. Soprattutto di fronte alla prossima discussione - e decisione - in merito alla legge elettorale. Orientata, come prevede l’Italicum, verso un proporzionale con premio di maggioranza al partito o alla coalizione che ottenga più voti. Oppure vinca il ballottaggio. Se davvero si realizzasse, per quanto riveduta e corretta, questa scelta metterebbe, davvero, fuori gioco il M5s. Protagonista del singolare sistema politico italiano. Un bipartitismo imperfetto. Perché oggi il Pd supera il 40%. E otterrebbe la maggioranza dei seggi in Parlamento, senza bisogno di ricorrere a ballottaggi. Perché, la principale alternativa, il M5s, almeno fino a ieri, ha sempre, decisamente negato ogni “compromesso” con i partiti e i politici nazionali. Si è, dunque, posto e imposto come partito anti-partiti. Da ciò il suo successo, nel passato. Ma anche il suo limite. Perché non è credibile come “alternativa”, vista la sua indisponibilità ad assumersi responsabilità di governo. Vista, inoltre, la sua vocazione all’isolamento e la sua allergia verso ogni alleanza. Tanto più perché la logica maggioritaria spinge alla coalizione. E potrebbe indurre il Centrodestra a ricomporsi. Per necessità, anche se non per affinità. Mentre oggi è diviso, frammentato e rissoso. Decomposto dall’esilio e dalla marginalità di Berlusconi. È questo il vantaggio competitivo del M5s, a livello nazionale, ma anche locale. Visto che, dove riesce a superare il primo turno, intercetta gran parte del voto di centrodestra (come ha rilevato ieri Roberto D’Alimonte sul Sole 2-4 Ore ).
Ma se il Centrodestra si aggregasse di nuovo, indotto, o meglio: costretto, dalla Legge elettorale, allora il quadro cambierebbe profondamente. Per il M5s. Perché, insieme, le liste di Centrodestra (cioè, Fi, Ncd, Fdi, Lega e Udc), alle elezioni europee, hanno superato il 31%. Cioè, 10 punti più del M5s. Mentre, se passiamo all’ambito comunale, i limiti della solitudine del M5s appaiono ancor più espliciti. Infatti, se consideriamo i tre principali schieramenti (ipotetici), i rapporti di forza negli 8057 Comuni italiani, in base ai risultati delle recenti europee, appaiono molto evidenti. La coalizione di Centrosinistra prevarrebbe in 5238 Comuni (65%), quella di Centrodestra in 2585 (32%), il M5s in 95 (1,2%). Naturalmente, queste stime (realizzate in base a simulazioni a cura dell’Osservatorio Elettorale del Lapolis-Università di Urbino) sono del tutto ipotetiche. Hanno, cioè, finalità esemplari e servono a discutere sugli scenari politici del Paese. Ma per questo sono utili. A sottolineare il “problema” del M5s. Che ha grande capacità di attrazione, se marcia da solo. Tanto che è primo partito in 303 comuni (3.8% sul totale) e secondo in 3981 comuni (49.4%). Tuttavia, appare svantaggiato in una competizione che preveda e, anzi, imponga le coalizioni. Dove il Centrodestra, oggi scomposto e anonimo, potrebbe riemergere e “scendere in campo” di nuovo. Anche senza Berlusconi.
Per questo Grillo e Casaleggio hanno ri-aperto il gioco. Cercando alleanze, in ambito (anti) europeo, dove si sono accordati con l’Ukip. Secondo la logica: meglio male accompagnati piuttosto che soli.
Mentre in Italia si sono rassegnati al confronto con il Pd e, anzitutto, con Renzi. In parte, riprendendo il discorso avviato con la partecipazione di Grillo a “Porta a Porta”, insieme e accanto a Bruno Vespa. Il testimonial in grado, più di ogni altro, di “sdoganarlo”, di normalizzarlo sul piano politico. Come oggi, a maggior ragione, può avvenire incontrando, in forma ufficiale, Renzi. Con, oppure meglio, senza streaming. Per rientrare nel gioco politico, da cui si era, fino ad oggi, auto- escluso. E, prima ancora, per promuovere una legge elettorale diversa. Non maggioritaria. Che non favorisca le coalizioni. E non ri-evochi il Centrodestra, come avverrebbe con l’Italicum - e i suoi derivati. Negoziato da Renzi, non a caso, con Berlusconi e con gli alleati di centrodestra della maggioranza. Grillo e Casaleggio, per restituire un ruolo e un peso al M5s, rivendicano una legge elettorale di impronta “proporzionale”. Com’è, in fondo, quella attuale, dopo la sentenza della Consulta. Per non rischiare l’espulsione dal gioco politico. Isolati, in Europa, insieme a Farage. In Italia, soli contro tutti. Dunque, semplicemente soli.

Repubblica 16.6.14
Serracchiani
“Ma il loro proporzionale non va bene”
intervista di U. R.


ROMA. «Finalmente. C’è voluto il 40,8 per cento del Pd per scongelare Grillo. Se è sincero, porte aperte al confronto sulla legge elettorale. Ma se è una trovata delle sue per uscire dall’angolo, allora lascia davvero il tempo che trova».
Onorevole Serracchiani, è sospettosa dopo la valanga di insulti a Renzi e al Pd.
«Lo vedremo alla prova dei fatti. Per il momento stiamo al colpo che Grillo e Casaleggio hanno battuto sul blog. Dovevano spazzarci via, ora chiedono un incontro col segretario. Una bella differenza».
Però Grillo vuol discutere a partire dalla sua proposta di riforma di elettorale.
«Cominciamo allora col mettere un paio di paletti precisi. Si ragiona a partire dall’Italicum, dalla legge approvata già alla Camera, dall’intesa con Forza Italia, il Nuovo centrodestra e Scelta civica».
Perché?
«Perché la proposta presentata dai Cinquestelle ruota tutta attorno al proporzionale. L’Italicum va in direzione opposta. E per noi, che la sera stessa delle elezioni vogliamo che si sappia chi ha vinto e chi ha perso, il sistema proporzionale certo non può andar bene».
Il faccia a faccia con i grillini rischia allora di non andare lontano.
«Dipende da loro. Noi abbiamo dei punti fermi ma, d’altra parte, siamo pronti a discutere con tutti sulla legge elettorale, Lega compresa. Lo abbiamo fatto con Berlusconi, quando tutti ci davano addosso per il presunto patto col diavolo».
Ma regge quell’intesa, dopo la mano tesa dei grillini? Forza Italia inquieta già minaccia rappresaglie.
«La linea del segretario resta ferma: determinazione assoluta a fare le riforme e a farle nel modo più chiaro, anche se siamo disponibili a discuterne con tutti».
Renzi potrebbe ricorrere ai “due forni, se Grillo entra in partita...
«Vecchi schemi andreottiani».
Sembra che si siano invertite le parti anche sulla diretta web dell’incontro: i grillini contrari, voi invece la volete.
«Leggo con sorpresa che Di Maio ha cambiato idea: adesso dice che non sono più così essenziali le dirette in streaming dal Palazzo. Per noi, che le trasmissioni dal vivo delle nostre riunioni le facciamo da tempo, e ben prima che arrivassero i grillini, andrebbe benissimo mandarlo in rete».
Se il M5S resta sul no?
«Non ne facciamo una condizione, tale fa dar saltare il faccia a faccia. La politica-spettacolo la fanno altri».

La Stampa 16.6.14
Serracchiani: “L’Italicum si cambia con gli altri ma niente perdigiorno”
“Sì al confronto, anche in diretta web. E si parta dal lavoro fatto da noi”
intervista di Francesca Schianchi


«Finalmente!»
Soddisfatta vicesegretario Debora Serracchiani dell’apertura di Grillo e Casaleggio?
«Era ora che ci si accorgesse della necessità di partecipare al cambiamento».
È voglia di partecipare al cambiamento o è solo una mossa tattica per mostrare che il M5S non è il partito del no a prescindere?
«Io credo che quest’apertura sia il risultato del 40,8% preso alle elezioni dal Pd, e della sua gestione successiva, quando siamo riusciti ad acquisire una centralità politica nuova e a dettare l’agenda in Italia e in Europa. È un’apertura che serve più a loro che a noi: se è solo tattica politica lascia il tempo che trova e vorrà dire che deluderanno i loro elettori, se invece c’è una volontà sincera di partecipare alla riscrittura delle regole del gioco, allora si tratta di una maturazione politica, ben venga».
Quindi Renzi è pronto a un incontro con Grillo e il M5S?
«Già in passato noi siamo sempre stati pronti a ragionare con tutti: Renzi ma anche il ministro Boschi hanno ripetuto più volte di essere disponibili a parlare con tutti quelli che vogliono essere attori protagonisti delle riforme».
In streaming?
«Noi non abbiamo nessuna paura di mandare in streaming le nostre Direzioni o l’Assemblea nazionale: mi pare che un arretramento ci sia da parte loro, leggo che Di Maio definisce lo streaming “non essenziale”, mi sembra strano visto che sono quelli della trasparenza…».
Grillo e Casaleggio però dicono di cominciare la discussione a partire dalla loro proposta di legge elettorale. Siete d’accordo?
«Se una trattativa è seria e sincera, si ascolta prima di tutto chi ha fatto il lavoro prima di te: chi, come noi, ha cercato una proposta che mettesse d’accordo altre forze politiche».
Quali sono i vostri paletti sulla legge elettorale?
«Prima di tutto la governabilità: come abbiamo sempre detto, la sera delle elezioni vogliamo sapere chi ha vinto e governerà. Per questo siamo contrari a una riforma di tipo proporzionale, il che non mi sembra in linea con la proposta presentata dai Cinque stelle. Su questo siamo stati fermi finora e non cambiamo idea ora perché Grillo ha battuto un colpo. E, naturalmente, solo se ci sono le condizioni di un accordo ampio con i contraenti del patto del Nazareno si può modificare l’Italicum. Però, ripeto, se la richiesta di confronto è sincera, noi ci siamo».
Il M5S apre a una discussione sulla legge elettorale, il segretario della Lega Salvini su Senato e Titolo V: riaprire trattative significa che le riforme slitteranno avanti nel tempo?
«No, noi abbiamo preso un impegno con gli italiani, che hanno votato chi corre veloce verso le riforme e non sta fermo. Il nostro primo obiettivo sono le riforme istituzionali, e i tempi li ha ripetuti chiaramente anche Renzi sabato all’Assemblea nazionale. Se c’è la volontà di un serio confronto politico, in poco tempo può compiersi. Se serve solo a ridare fiato a chi non ha vinto le elezioni, allora è una strada che non porta da nessuna parte».
Anche quest’apertura del M5S segna una differenza tra il «vecchio» Pd, con quel difficile streaming con Bersani, e quello nuovo?
«La nuova rotta l’hanno imposta gli italiani a tutta la politica. E hanno affidato al Partito democratico il compito di cambiare il Paese: non credo sia una questione di nuovo o vecchio, la differenza sta in una sinistra che vince e detta l’agenda».

Repubblica 16.6.14
Il boomerang della rete
di Sebastiano Messina


LA FRASE rivelatrice l’ha detta Luigi Di Maio, che con la sua solita faccia da bravo ragazzo napoletano prima ha lasciato trapelare un piano dal sapore craxiano, dietro la stupefacente richiesta di una trattativa con Renzi («Vogliamo essere l’ago della bilancia»).
POI ha aggiunto con aria da scugnizzo furbetto: «Lo streaming non credo sia essenziale». E già, perché lo streaming, spacciato come massimo strumento di trasparenza quando si trattava di trasformare gli incontri chiesti da Bersani, da Letta o da Renzi in maxispot propagandistici, appuntamenti dove si andava non per trattare e neanche per ascoltare ma solo per ironizzare in diretta sull’avversario («Mi sembra di essere a Ballarò» disse sfacciatamente a Bersani l’ex capogruppo Roberta Lombardi) adesso che una domenica mattina Grillo e Casaleggio si sono svegliati e hanno scoperto che tre settimane fa Renzi «è stato legittimato da un voto popolare» e dunque si può trattare con lui, con «l’ebetino», con «Renzie», con «Pittibimbo», insomma con quel «figlio di troika», adesso che i cinquestelle hanno deciso che è ora di fare una vera trattativa con quelli che fino a ieri erano una mandria di tangentisti, pregiudicati, inciuciari, mafiosi, ladri e inquisiti, ecco che lo streaming ha perso improvvisamente il suo preziosissimo valore democratico, l’oro è diventato stagno, stavolta «non credo sia essenziale ».
E si sentono rispondere da Matteo Renzi che no, «magari lo streaming questa volta lo chiediamo noi», mossa fulminea e disarmante che non lascia allo scaltro Di Maio nessuna via d’uscita, essendo assolutamente impossibile tirarsi indietro dopo aver fatto della diretta web un totem della trasparenza: «Lo streaming si farà». Forse è presto per dire che chi di streaming ferisce di streaming perisce, ma come si fa a non sorridere di fronte alla trappola che i grillini si sono pazientemente costruiti con le loro mani - pretendendo lo streaming per tutte le trattative che non volevano fare e aggirandolo per quelle che invece andavano concluse alla svelta, come l’accordo a tavola con il «simpaticissimo » Farage - e nella quale si ritrovano adesso ingabbiati, proprio ora che Grillo e Casaleggio avevano deciso di far uscire i loro voti dal frigorifero e offrire al partito che ha appena preso il doppio dei loro voti la straordinaria opportunità di scrivere insieme una legge elettorale, naturalmente adottando «come base per una discussione comune» il cervellotico sistema proporzionale progettato da un oscuro professore, votato da quattro simpaticoni e solennemente promulgato sul blog di Grillo?
Dunque la trattativa si farà, ma sarà una trattativa con streaming. Magari non sarà un monologo di dieci minuti come quello che Grillo fece alle consultazioni di Renzi, gridandogli in faccia «Non ti faccio parlare!», lasciando all’allora presidente incaricato solo lo spazio per un appello inascoltato («Beppe, esci da questo blog!»), ma di sicuro non sarà l’occasione che permetterà ai cinquestelle di diventare «l’ago della bilancia», perché - come Grillo ha imparato più rapidamente di tutti - i veri accordi si fanno chiudendo la porta, non accendendo la lucetta dello streaming.

l’Unità 16.6.14
A Palermo 800 migranti «La Ue deve aiutarci»
Arrivati in città i superstiti salvati dalla Marina Militare. La Procura della città apre un’inchiesta sul naufragio
Il grido di allarme del sindaco Orlando


Sulla nave Etna sono giunti tutti. Tutti sulla stessa imbarcazione, vivi e morti. Quelli del naufragio di tre giorni fa - che al largo del canale di Sicilia ha provocato dieci morti certi, 41 dispersi e 39 superstiti - e chi invece è stato recuperato dalla Marina Militare. In tutto 777. Chi ce l’ha fatta ha raccontato le ore di terrore trascorse a bordo di due gommoni che dalla Libia facevano rotta verso la Sicilia. Secondo le ricostruzioni uno dei due gommoni si è bucato durante la traversata. In Libia, ha spiegato un superstite, «siamo stati divisi su due gommoni, anche le nostre famiglie sono state divise. Un gommone è partito per primo, poi è partito il secondo, dopo qualche ora dal viaggio siamo stati raggiunti da una motovedetta. I migranti a bordo del primo gommone si sono spostati tutti sullo stesso lato e il gommone si è capovolto e si è bucato ».
Da lì il panico e il terrore in acqua, molti degli occupanti del gommone sarebbero morti. Tra i migranti salvati, alcuni hanno ustioni da contatto con il carburante. «Non c’è stato alcun incendio a bordo - ha ricostruito uno degli ustionati - siamo tutti caduti in mare». Tra le testimonianze più toccanti quella di un naufrago che, per le gravi ustioni chimiche questa notte è stato portato a Mazara del Vallo. L’uomo, sotto shock, ha raccontato di avere perso nel naufragio la moglie e il figlio.
«L'arrivo di questa nave è la conferma della gravità della situazione. Nell’ultima settimana a Palermo sono arrivati 2mila migranti. L’Europa continua a guardare dall'altro lato» ha detto il sindaco di Palermo Leoluca Orlando che ieri è andato al porto ad accogliere la nave Etna. «Abbiamo organizzato - aggiunge - un gruppo unico di gestione dell'emergenza, da un punto di vista dell'organizzazione tutta funziona, quello che non funziona è l'indifferenza dell'Europa, tutto si è scaricato sulla cultura dell'accoglienza dei siciliani ». Sulla riunione con il ministro Alfano il sindaco di Palermo dice: «Abbiamo chiesto un tavolo come Anci sull’emergenza immigrazione. Servono tante cose. Abbiamo apprezzato la sua denuncia nei confronti dell'Europa, in tre ore di lavoro abbiamo predisposto un dossier che è sul tavolo del presidente del Consiglio. L'operazione Mare Nostrum ha funzionato ma è impensabile che a farsene carico sia solo l'Italia. Perché i migranti non devono essere distribuiti in tutta Europa? E perché non ci sono le navi degli altri paesi europei?».
La Procura di Palermo aprirà un'indagine per far luce sul naufragio. «Sarà aperto un fascicolo - spiega il procuratore Francesco Messineo- perché Palermo è stato il primo porto di approdo dei profughi. Cercheremo di far luce sulle circostanze dell’affondamento sulla base delle pochi fatti che si conoscono ». Al momento non ci sono ipotesi di reato specifiche. Gli investigatori dovranno ascoltare i superstiti dell'ennesima tragedia del mare con l'aiuto dei mediatori culturali per raccogliere informazioni su quante persone vi fossero a bordo del gommone naufragato ed accertare la presenza tra i sopravvissuti di eventuali scafisti. Sull'imbarcazione affondata, secondo le prime testimonianze raccolte dai soccorritori, vi sarebbero state una novantina di persone, di cui solo 39 sono state tratte in salvo, mentre dieci corpi senza vita sono stati recuperati. All'appello, dunque, mancherebbero 40 persone. Numeri, però, su cui gli investigatori dovranno fare luce.
Per chi ce l’ha fatta l’arrivo a Palermo è stato una liberazione. Lacrime e gioia sulla banchina tra i migranti arrivati vivi ma che in mare hanno perso i loro cari. Le forze dell'ordine hanno deciso di chiudere la zona con alcuni container «per assicurare che la sistemazione dei corpi delle vittime avvenisse lontano dai fotografi». Al cimitero dei Rotoli saranno eseguite le perizie medico- legali. Grosso dispiegamento di soccorritori per il primo intervento al porto con gazebo, sette ambulanze, un centinaio tra forze dell'ordine, medici dell' Asp, Protezione civile, l’Unhcr, la Caritas e i medici e i volontari del 118. Diciannove i feriti, tra loro una donna incinta, portati negli ospedali cittadini: 7 al Civico, 6 al Policlinico, 2 all'Ingrassia, 2 a Villa Sofia, uno al Cervello e uno al Buccheri La Ferla. Segnalati casi di scabbia e tubercolosi. I naufraghi sono originari di Costa d’Avorio, Ghana, Mali, Guinea.

Corriere 16.6.14
Sicilia
Lo sbarco dei superstiti «Senza le nostre navi sarebbero morti tutti»
Accolti nelle chiese. Inchiesta sui naufragi
di Fabrizio Caccia


La Procura di Palermo ha aperto un’inchiesta sul naufragio avvenuto venerdì scorso davanti alle coste libiche del gommone con circa 90 migranti a bordo, di cui solo 39 sono riusciti a salvarsi. Dieci i corpi finora recuperati: nove delle vittime erano donne. I superstiti (con le 10 bare) sono arrivati ieri nel porto di Palermo a bordo della nave militare Etna, che ha sbarcato sul suolo italiano 767 immigrati, tutti salvati negli ultimi giorni nel Mediterraneo (alcuni, una trentina i casi più gravi, subito ricoverati in ospedale per ustioni, disidratazione, ma anche scabbia e sospetti di tubercolosi). «L’arrivo di questa nave è la conferma della gravità della situazione — ha detto a caldo il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando —. Nell’ultima settimana qui sono arrivati 2 mila migranti. Mentre l’Europa continua a guardare dall’altro lato». Non mancano per fortuna le persone di buona volontà: «Accoglieremo nelle nostre chiese 550 immigrati — annuncia don Sergio Mattaliano, presidente della Caritas di Palermo —. Ma faccio un appello: ci servono vestiti e scarpe perché sono in arrivo nelle prossime settimane altre migliaia di profughi e non abbiamo più nulla da dare».
A Palermo numerose chiese sono già state svuotate e al posto delle panche per i fedeli sono stati sistemati dei lettini. La chiesa sconsacrata di San Carlo, dov’è annesso il centro Caritas Santa Rosalia, ora presenta tra le statue e gli stucchi decine di brande allineate per i superstiti del mare. Anche l’ex scuola di Villaggio Ruffini è stata riempita di letti dove riposano ancora sotto choc ghanesi, maliani, nigeriani. «Grazie alla rapidità delle unità navali dell’operazione Mare Nostrum abbiamo potuto soccorrere i naufraghi. Se non fossimo stati lì, di sicuro sarebbero morti tutti», ha raccontato ieri Marino Baldari, il comandante della nave Etna, appena sbarcato a Palermo. I magistrati del capoluogo interrogheranno adesso i superstiti di venerdì scorso per tentare di capire quante persone realmente siano salpate dalla Libia. Ma le loro testimonianze serviranno, si spera, a identificare anche chi pilotava il gommone e verificare, così, se lo scafista si sia salvato o meno. Inoltre, resta da chiarire il mistero legato a un altro scafo, partito forse insieme a quello naufragato, che si teme possa essersi inabissato provocando altri morti. Il comandante Baldari ricorda che «uno dei poveretti tratti in salvo era molto scosso. Aveva ustioni sul corpo e portato a Lampedusa ha raccontato di aver perso la moglie e il figlio nel naufragio e di essere l’unico superstite». Forse, appunto, l’uomo era uno dei passeggeri del secondo gommone sparito. E mentre l’Europa latita, ben 1.812 migranti (tra cui più di 300 minori) sono stati soccorsi nell’ultimo weekend, solo nel Canale di Sicilia, dalle nostre navi: la fregata Scirocco, il pattugliatore Orione, la corvetta Chimera... Così il ministro dell’Interno Angelino Alfano, che oggi sarà a Pozzallo, domenica ha posto l’altolà: «L’Italia non può lasciare sola la Sicilia. Ma anche l’Europa deve fare la sua parte. O se ne prende carico o la nostra proposta sarà quella di non proseguire con l’operazione Mare Nostrum».

La Stampa 16.6.14
Il Papa: «Aiutiamo l'Europa stanca a ritrovare le sue radici»
Papa Francesco a Trastevere(©Afp)
Nella visita alla Comunità di Sant'Egidio Francesco incontra i poveri. "La cultura dello scarto? Un'eutanasia nascosta"
E la comunità ebraica gli consegna l’invito in Sinagoga
di Gicomo Galeazzi

qui

l’Unità 16.6.14
L’importanza di un’etica laica
di Carlo Flamigni


Il primo commento alle motivazioni della sentenza della Corte Costituzionale che ci restituisce il diritto a ricevere gameti da un donatore o da una donatrice l’ho ricevuto al telefono da Marilisa D’Amico.
Insegna Diritto Costituzionale all’Università di Milano e che è stata una delle maggiori protagoniste di tutta questa vicenda: «Bellissima sentenza, una delle più belle che siano state scritte», mi ha detto. «Evviva», ho pensato io. Il mattino dopo, sull’Avvenire, ho però letto che non era così, che c’era bisogno di una legge, che c’era un vuoto da colmare, cose del genere. Ne ho parlato a un mio amico romano che si occupa di diritto costituzionale e che mi ha risposto, un po’ distrattamente, che «nun ce vonno sta»; ho chiesto ulteriori lumi all’avvocato Massimo Clara, altro fondamentale protagonista della vicenda, dal quale non mi aspettavo battute di spirito e che in effetti mi ha ricordato che: a) la Procreazione medicalmente assitita (Pma) di tipo eterologo è immediatamente eseguibile, non appena la sentenza viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale e che questo non lo dice l’interprete, ma lo scrive la Consulta; b) sempre la Consulta scrive che: «è possibile un aggiornamento delle linee guida » (possibile, non necessario né tantomeno pregiudiziale all’esecuzione della Pma “eterologa”) per problemi minori per i quali è conveniente un charimento; c) a proposito dell’identità dei donatori, la Corte ribadisce quanto indicato nella sua sentenza 278 del 2013, che tutela l’anonimato della madre che abbia deciso di non riconoscere il figlio, a condizione della «perdurante attualità della scelta compiuta» (testo Consulta) e che quindi non sussiste alcun obbligo di riconoscibilità dei donatori, né obbligo di intervento legislativo quale condizione per procedere. È proprio vero, «nun ce vonno sta».
Ho poi ricevuto dalla professoressa D’Amico un breve documento che riporta i punti salienti della sentenza, e in questo documento ho trovato un passaggio che ha bisogno di un commento specifico: «In relazione al diritto alla salute ed in linea con la sua giurisprudenza pregressa in materia, la Corte costituzionale ribadisce il principio secondo il quale la discrezionalità legislativa, qualora intervenga sul merito di scelte terapeutiche, non è assoluta, ossia «non può nascere da valutazioni di pura discrezionalità politica del legislatore, ma deve tenere conto anche degli indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi a ciò deputati». In tale ambito, pertanto, «la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali. (...) Si tratta di tenere conto che la nozione di patologia, anche psichica, la sua incidenza sul diritto alla salute e l’esistenza di pratiche terapeutiche idonee a tutelarlo vanno accertate alla luce delle valutazioni riservate alla scienza medica, ferma la necessità di verificare che la relativa scelta non si ponga in contrasto con interessi di pari rango».
Tempo fa, a proposito di donazione di gameti, ho scritto su questo giornale che la sollecitazione più importante e più utile per lo sviluppo del bio-diritto in Europa è arrivata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu: sentenza della Grande Chambre del 2011): in materia di Pma il diritto è in costante evoluzione - anche perché la ricerca scientifica in questo campo è in rapido sviluppo e altrettanto rapidamente si modifica il sentire comune - e ciò richiede una attenzione permanente da parte degli Stati contraenti.
Questa sentenza della Cedu propone un quesito di grande rilievo, che ci riguarda tutti, cattolici e laici: come si forma la regola morale? Se si risponde a questa domanda, si genera spontaneamente un secondo interrogativo, che riguarda questa volta la scienza, come deve essere considerata e come deve essere regolata, ammesso che esista tale necessità. E questo ci rinvia a una analisi del senso comune, al suo significato, ai suoi diritti e ai suoi limiti.
Il senso comune era presente nella nostra specie molto prima dell’inizio di quella che definiamo “civiltà”. Già in epoche antichissime gli uomini sapevano riconoscere le sostanze con le quali si dovevano e si potevano nutrire; avevano imparato a coltivare la terra e ad accendere il fuoco; potevano comunicare tra loro e riuscivano a darsi una organizzazione sociale, che comportava, ad esempio, l’elezione di un capo; trasportavano oggetti pesanti su carri muniti di ruote. È dunque evidente che l’acquisizione di un grande numero di conoscenze non attese l’arrivo della scienza moderna né l’uso consapevole dei suoi metodi.
Per percorrere la via della conoscenza è dunque sufficiente il semplice uso del senso comune: il che ci costringe a ragionare su quale sia il contributo ulteriore della scienza.
Esiste una evidente continuità storica tra le convinzioni del senso comune e le conclusioni della scienza, tanto che alcuni studiosi hanno creduto di poter definire le scienze come «senso comune organizzato e classificato». È una definizione che non soddisfa perché esistono produzioni dell’intelligenza che sono certamente entrambe le cose ma non sono scientifiche. E perché non vi è alcun cenno ai limiti delle informazioni acquisite dal senso comune: ad esempio esse non sono quasi mai accompagnate da una spiegazione razionale (le ruote sono utili per muovere grandi pesi, ma il senso comune non ha mai preso in esame il problema delle forze di attrito) e in molti casi ne hanno trovato di irragionevoli e sbagliate (l’azione della digitale purpurea sul sistema cardio-circolatorio è stata per secoli attribuita al fatto che le sue foglie avevano forma di cuore).
Sappiamo invece per certo che la scienza viene generata dal desiderio di trovare spiegazioni che siano al contempo sistematiche e controllabili alla prova dei fatti e che quello che la distingue è proprio l’organizzazione e la classificazione delle conoscenze sulla base di principi esplicativi, tutte cose che implicano l’applicazione del cosiddetto metodo scientifico, per sua natura rigoroso e antidogmatico. Mi si potrebbe obiettare che anche la religione e la superstizione sono prolungamenti del senso comune, ma non credo che qualcuno ritenga ancora che la religione sia dotata di metodo e che la superstizione, metodo a parte, sia intelligente.
Queste definizioni mi dicono molto su come opera la scienza, ma non mi dicono in realtà cosa è la scienza. Ho dunque bisogno di un’altra definizione, eccola: la scienza è il maggiore degli investimenti sociali, un investimento in cui la società si impegna per migliorare la propria qualità di vita (e in particolare quella delle persone più fragili e sfortunate); si potrebbe aggiungere che avendo capito che la natura distribuisce la sofferenza disordinatamente e stupidamente, gli uomini si sono affidati alla loro ragione strumentale, la scienza, per mettere ordine e diminuire la sofferenza.
Si tratta adesso di stabilire le norme alle quali i ricercatori si debbono attenere e decidere chi deve stabilire queste norme.
La prima proposta è stata quella di affidare questo compito alla religione, o alle religioni, una scelta sulla quale mi dichiaro molto dubbioso: le morali religiose sono generalmente lente, ossificate, inadeguate a rispondere ai quesiti che sempre più spesso la ricerca scientifica propone. Si tratta di posizioni morali che non sono condivise da tutti, e che nei Paesi laici dovrebbero avere lo stesso peso di tutte le altre posizioni con le quali sono costrette a confrontarsi: la sentenza della Corte, in qualche modo, lo ribadisce.
Per ragionare in termini più concreti, si può immaginare che a considerare le scelte della ricerca scientifica e a limitare la libertà di ogni singolo operatore possa essere chiamata una generale disposizione della coscienza collettiva dell’uomo che definirò, per semplicità, «morale di senso comune»: sarebbe del resto impensabile che la scienza, prolungamento del senso comune, diverso da questo solo per essere dotato di rigore metodologico, dovesse affidarsi a una etica di differente origine. La «morale di senso comune», che si forma per molteplici influenze dentro ognuno di noi, ha sempre avuto un dialogo utile con la scienza e, pur essendo molto restia ad accettare le più elementari proposte di cambiamento, ha generalmente ceduto di fronte a quelle che vengono definite «le intuizioni delle conoscenze possibili» purché riesca a trovare, in esse, indicazioni precise sui vantaggi impliciti e garanzie nei confronti di rischi possibili. Per queste ragioni si è continuamente modificata nel tempo adattandosi al nuovo, con molta cautela e superando molte perplessità. Credo dunque che si possa dire che è così che si modifica nel tempo la dottrina ed è per queste ragioni che anche le morali religiose non possono restare immodificate col trascorrere dei secoli, ma debbono trovare il modo di adattarsi, anche se di malavoglia e malgrado le accuse di rappresentare in questo modo l’alito del demonio. Si tratta, dunque, di un’etica laica, alla quale spetterà il compito, in avvenire, di prendere importanti decisioni che riguarderanno non più tanto cosa dobbiamo fare, ma cosa vogliamo fare, decisioni che ci riguardano tutti, ma alle quali non siamo ancora preparati. È, naturalmente, un problema di democrazia: tutti i cittadini debbono conoscere le conseguenze possibili degli scenari immaginabili.

l’Unità 16.6.14
Coppie gay, stessi diritti del matrimonio. Ma no alle adozioni
A settembre la legge del governo sulle unioni civili
Il modello è il civil partnership tedesco: adottabile il figlio del partner
Per gli etero non sposati previsti invece i «patti di convivenza»


«Alle unioni civili tra persone dello stesso sesso si applicano tutte le disposizioni previste per il matrimonio...» escluso il diritto di poter adottare. È questo il principio fondamentale che regolerà i rapporti fra coppie omosessuali. Principio contenuto nella disciplina che da settembre il Parlamento si troverà ad approvare. Come promesso dal premier.
Renzi le aveva già messe fra i suoi obiettivi alla Leopolda (sia quella delle primarie poi perse contro Bersani che l’ultima vincente). Poi, da segretario Pd, l’aveva chieste (assieme allo ius soli) al governo Letta e, una volta diventato premier, le aveva scritte nel proprio programma spiegando, nel discorso sulla fiducia che andavano fatte ascoltandosi e poi trovando un compromesso. Dunque adesso sembra che il momento delle unioni civili sia arrivato visto che sabato all’assemblea del Pd Renzi ha annunciato che a settembre, chiusa la pratica Italicum, verrà portata in Parlamento e approvata una legge sulle civil partnership. «Dobbiamo realizzare quell’impegno che abbiamo preso durante la campagna delle primarie» ha spiegato il premier spiegando che cercherà ovviamente un accordo «con gli esponenti della nostra maggioranza» e col Parlamento ma ribadendo che non ci sarà spazio per ripensamenti.
Il modello a cui fa riferimento il premier quando parla di civil partnership è quello nato in Gran Bretagna (dove poi è decaduto in quanto il governo Conservatore Cameron ha introdotto il matrimonio gay) e in Germania. Sostanzialmente prevede che la coppia omosessuale che decide di “sposarsi” possa iscriversi all’ufficio dello stato civile in un apposito registro delle unioni civili. Da quel momento sono una coppia ufficiale con tutti i diritti e i doveri simili a una coppia eterosessuale unita in matrimonio. Quindi ad esempio sarà previsto il diritto alla reversibilità della pensione in caso del decesso del compagno/compagna. Il diritto alla successione e quelli in materia assistenziale e penitenziaria. E a cascata tutti quei diritti e doveri che dipendono dalle legislazioni regionali come ad esempio la possibilità di partecipare ai bandi di assegnazione delle case popolari.
Del resto questa normativa, che andrà a modificare il codice civile nel libro primo, quello cioè dedicato a regolare i diritti e doveri della persona e della famiglia, è figlia diretta dell’articolo 2 della Costituzione che riconosce e tutela i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali, tra cui appunto anche la coppia, in cui si svolge la sua personalità. Diritti che oggi a chi voglia vivere in una coppia omosessuale non sono garantiti. E infatti la Corte Costituzionale con due sentenze, la prima del 2010 e la seconda di pochi giorni fa sull’uomo diventato donna e rimasta unita in matrimonio alla moglie, ha sottolineato questo vuoto legislativo invitando il Parlamento a intervenire. Intervento che però non potrà essere l’estensione del vincolo matrimoniale alle coppie gay.
Da qui appunto le unioni civili che forniscono una condizione omologa ma non uguale al matrimonio. La differenza più grande è che la coppia omosex non potrà adottare bambini. Tuttavia verrà introdotto l’istituto della «stepchild adoption» preso dal sistema inglese. Cioè sarà possibile a uno dei soggetti della coppia gay adottare il figlio (anche adottivo) dell’altra parte dell’unione. Potrà portarlo e andarlo a prendere a scuola, accompagnarlo e assisterlo in ospedale e continuare a fargli da padre/ madre nel caso in cui il genitore naturale dovesse venire a mancare. In Germania ad esempio è stata introdotta anche la totale equiparazione fiscale. Il che significa che se in Italia si arriverà al quoziente familiare, come promesso dal premier sabato, riguarderà anche le future unioni civili.
Tutta questa disciplina riguarderà solo le coppie omosex e non le coppie etero che convivono e non si vogliono sposare. Perché la filosofia è che mentre le coppie omosessuali non possono unirsi in matrimonio, le coppie etero possono sposarsi e quindi se non si sposano è perché non lo vogliono fare e quindi non possono essere estesi a loro i diritti ma anche i doveri che discendono dal matrimonio. Per queste coppie (anche dello stesso sesso) sarà prevista un’altra forma, più lieve, di unione: i cosiddetti patti di convivenza. Con doveri (e diritti) meno “pesanti” di quelli matrimoniali.
Al momento, almeno, questa è la strada che hanno imboccato in commissione giustizia del Senato dove le varie proposte avanzate (soprattutto da Lumia, Marcucci eLo Giudice del Pd) i sono state riunite in due testi separati (ma che poi potrebbero ritornare a far parte di un unica proposta di legge) dalla relatrice Daniela Cirinnà. La discussione partita lo scorso marzo, il 6maggio s’è fermata. «Ma i testi sono pronti per andare in aula» sottolinea la democratica Cirinnà che spiega che nel momento in cui il governo deciderà politicamente il via tutta la procedura subirà una accelerazione. Il nodo quindi resta politico. È vero che su questi temi i senatori del Pd hanno trovato sponde anche nei 5Stelle, tuttavia servirà un’intesa col Nuovo centrodestra (in commissione c’è Giovanardi) che nutre dubbi sulla possibilità di far adottare al partner il figlio naturale del proprio/a compagno/a. Perplessità coltivate anche nella parte cattolica del Pd che ritiene anche che i più lievi patti di convivenza non possano riguardare le coppie omosex che già avrebbero a disposizione la più vincolante unione civile.

l’Unità 16.6.14
Diritti civili, Roma deve muoversi
Riccardo Magi e Paolo Izzo

consigliere comunale Radicale a Roma e segretario Radicali Roma

DA ALMENO CINQUE ANNI LE DELIBERE DI INIZIATIVA POPOLARE CHE RIGUARDANO I COSIDDETTI TEMI «ETICAMENTE SENSIBILI », DALLE UNIONI CIVILI AL REGISTRO DEL TESTAMENTO BIOLOGICO, su cui come Radicali abbiamo raccolto migliaia di firme dei cittadini romani, giacciono in stato vegetativo nei cassetti del Campidoglio.
Era il 2007 quando consegnammo una prima delibera di iniziativa popolare per una regolamentazione delle Unioni civili. Dopo una lunga battaglia per il rispetto dello Statuto (che prevede la calendarizzazione delle proposte entro sei mesi dal deposito) la delibera almeno arrivò in aula Giulio Cesare, dove non ebbe però il voto della maggioranza dell’allora sindaco Walter Veltroni che proprio in quei giorni ebbe un incontro con il cardinal Tarcisio Bertone anche su quel tema. Miriam Mafai definì quel voto romano «la prima sconfitta per il Pd» che in quei mesi stava nascendo. Oggi possiamo dire di essere ancora fermi a quel punto. Altre due proposte, quella per l’istituzione di un registro comunale dei testamenti biologici (depositata nel 2009 da Mina Welby, Emma Bonino, Beppino Englaro) e quella del 2012, di nuovo sulle Unioni civili, non vengono calendarizzate per volontà politica del presidente del Consiglio Mirko Coratti (Pd) e del gruppo del Pd, sebbene siano state sottoscritte da oltre 15 mila romani.
La presidenza dovrebbe solo prendere atto del deposito delle proposte e fissare la discussione. Dopo il dibattito, ogni consigliere è libero di votare come meglio crede tali proposte che da regolamento sono inemendabili e non decadono con la fine della consiliatura. Per questo lo scorso 16 maggio ho inviato alla Presidenza dell’aula una richiesta di autoconvocazione ai sensi del Testo Unico degli Enti locali sottoscritta a norma di legge da un quinto del Consiglio - i colleghi della Lista civica, di Sel e del M5s - per uscire dallo stato di palese violazione dello Statuto. Giovedì 5 giugno è scaduto il termine di 20 giorni previsto dalla legge entro cui il presidente pd Coratti era tenuto a convocare tale seduta. Quello che ci allarma è, per l’ennesima volta, la mancanza totale di rispetto della legalità da parte delle stesse istituzioni.
Nonostante la rivoluzione interna al Partito democratico, che a livello nazionale - dalle recenti promesse di Matteo Renzi - sta tentando dei passi in avanti sulle unioni civili, la «questione romana», intesa come Pd di Roma e come rapporti con la Chiesa, resta ancora un’anomalia.
La nostra battaglia per il rispetto della legalità e per un voto sulle delibere popolari al di là delle logiche interne ai partiti (non c'è possibilità di garanzia per i diritti fuori dal diritto, dovrebbe essere chiaro ormai) forse potrà servire anche a sciogliere questi nodi sui diritti civili e a sincronizzare il Partito maggioritario sul «fuso orario» della maggioranza del Paese, che in tutti i sondaggi è pronto per nuove riforme laiche. Del resto non ci si può nascondere che persino l’altra sponda del Tevere si stia dimostrando meno incline alle ingerenze secolari.

Corriere 16.6.14
Francesca Chiavacci
L’Arci per la prima volta elegge un presidente donna


Sarà una donna a guidare la più grande associazione culturale italiana, l’Arci. Ed è la prima volta. Dopo aver trovato un’intesa che mancava da tre mesi è stata eletta alla presidenza Francesca Chiavacci, che per dieci anni ha guidato l’Arci Firenze. Chiavacci, 53 anni, ex deputata e relatrice del ddl sull’obiezione di coscienza, è stata votata da 160 dei 168 nuovi esponenti del Consiglio nazionale eletto dall’assemblea congressuale, su proposta unitaria. Chiamata alla «sfida del cambiamento — commenta la neo presidente — nei prossimi anni l’Arci dovrà avere un rinnovato protagonismo, a cominciare dalla questione dei diritti civili e della promozione della cultura, e per questo ci attende un profondo lavoro di riorganizzazione della nostra struttura nazionale, a partire dalla valorizzazione dei territori, autentico punto di forza». La scelta di una donna, frutto di «una convergenza molto ampia — ha aggiunto — è un passaggio importante per noi e la società italiana». Il Consiglio nazionale, su proposta della neo presidente, ha inoltre eletto Filippo Miraglia vicepresidente, mentre l’assemblea congressuale ha scelto per acclamazione Luciana Castellina come presidente onorario.

La Stampa 15.6.14
Lo Stato islamico e il paradosso di Obama
di Roberto Toscano

qui

Repubblica 16.6.14
Lo Stato islamico
Grano, petrolio e fede Sei anni di preparativi dietro l’avanzata dei jihadisti dell’Isis
Grazie a una duplice strategia calibrata per Siria e Iraq, il gruppo ha consolidato la sua avanzata fino a entrare in competizione con la rete del terrore di Al Qaeda
di Tim Arango, Kareem Fahim e Ben Hubbardjune Erbil


QUANDO i militanti islamici sono entrati a Mosul la settimana scorsa e hanno rapinato le banche di centinaia di milioni di dollari, aperto i cancelli delle prigioni e bruciato i mezzi militari, una parte della popolazione li ha accolti come liberatori, con tanto di lancio di pietre ai soldati iracheni in ritirata. Ma sono bastati due giorni ai combattenti dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria per imporre le dure norme della legge islamica in base alla quale intendono governare e per procedere a esecuzioni sommarie di agenti di polizia e operatori governativi. Il blitz ad opera di poche migliaia di combattenti spintisi fino a Mosul e più a Sud sembra aver colto di sorpresa i militari iracheni e americani, ma si tratta in realtà dell’esito di un strategia di statebuilding che il gruppo porta avanti da anni senza farne alcun mistero, anzi, promuovendola pubblicamente.
«Oggi in Iraq assistiamo alla realizzazione degli obiettivi che l’Isi si è posta dalla sua fondazione, nel 2006», spiega Brian Fishman, esperto di antiterrorismo della New America Foundation. L’organismo di cui parla, lo Stato Islamico dell’Iraq, è il predecessore dell’attuale Isis. Il gruppo estremista sunnita si è prefisso di ritagliarsi un califfato, cioè uno stato religioso islamico, che comprenda le regioni irachene e siriane a maggioranza sunnita, documentando ampiamente i progressi realizzati e addirittura pubblicando rapporti annuali sull’avanzamento della strategia.
Sotto la guida di Abu Bakr al-Baghdadi, in passato prigioniero in una struttura di detenzione americana, il gruppo si è dimostrato violento e risoluto nel perseguire i propri obiettivi religiosi, ma anche pragmatico nello stringere alleanze e nel conquistare e cedere territori. È del 2007 un opuscolo che espone la visione del gruppo per il futuro dell’Iraq. La religione ha la precedenza sull’amministrazione e uno dei principali compiti dei militanti è liberare i sunniti dalle prigioni.
Ai tempi della guerra settaria iniziata nel 2006, i jihadisti si inimicarono la cittadinanza con i loro tentativi di imporre la legge islamica e subirono una serie di sconfitte per mano dei combattenti tribali aderenti alla campagna americana di controinsurrezione, che li costrinsero a ritirarsi dall’Iraq occidentale alle regioni attorno a Mosul. Ma con lo scoppio della guerra civile oltreconfine in Siria tre anni fa, il gruppo individuò nuove opportunità di crescita. Lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria «ha invaso la Siria da Mosul ben prima di invadere Mosul dalla Siria», dice Fishman.
Il gruppo si è rafforzato in Siria grazie a una doppia strategia che prevede da un lato attacchi con l’obiettivo di conquistare risorse come depositi di armi, pozzi di petrolio e granai, evitando dall’altro gli scontri prolungati con le forze governative che hanno polverizzato gli altri ribelli siriani. In Iraq, la resistenza del governo è crollata in molte zone conquistate. A sorpresa, come nel blitz su Mosul, il gruppo ha consolidato il proprio controllo su Raqqa, in Siria, da più di un anno e su Falluja, nell’Iraq occidentale, da sei mesi.
Nei primi mesi dell’anno Al Qaeda ha ripudiato il gruppo, dopo che il leader dell’organizzazione, Ayman al Zawahiri, ne aveva ordinato il ritiro in Iraq per lasciare le operazioni in Siria all’organizzazione locale affiliata ad Al Qaeda, il Fronte Nusra. La frattura ha portato a un’aspra rivalità tra i due gruppi e lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria è entrato in competizione con Al Qaeda per le risorse e per un ruolo preminente nella più ampia comunità jihadista internazionale.
Illuminante per comprendere l’idea che il gruppo ha di se è un video promozionale pubblicato recentemente dal titolo “Il suono delle sciabole”. Vengono mostrati combattenti barbuti, armati, provenienti da tutto il mondo arabo che ripudiano il loro paese d’origine strappando i passaporti, oppure in preghiera nelle moschee o manifestanti la propria fedeltà a Baghdadi. In altre scene si vedono i combattenti che sparano contro presunti appartenenti all’esercito iracheno, li inseguono per i campi, li catturano e quindi li giustiziano.
Il gruppo porta avanti strategie diverse calibrate per la Siria e per l’Iraq. In Siria si è concentrato soprattutto sulla conquista di territori già strappati al governo ma scarsamente controllati da altri gruppi ribelli. In Iraq ha sfruttato la delusione diffusa tra i sunniti rispetto al governo di Al Maliki, per allearsi con altri gruppi militanti sunniti, come un’organizzazione guidata da ex funzionari del partito baahtista di Saddam Hussein.
Benché molti di questi gruppi, inclusi i baahtisti ed altre milizie tribali si siano apparentemente unite all’Isis per combattere il comune nemico, l’organizzazione e le risorse del gruppo potrebbero invogliarle a stringere un’alleanza più duratura, rendendo ancor più arduo per il governo di Maliki ristabilire il controllo.  (New York Times News Service. Traduzione di Emilia Benghi)

La Stampa 16.6.14
“L’Iran è pronto a collaborare Ma dipende dall’America”
Il ministro dell’Economia Ali Tayyebnia: vediamo il loro atteggiamento
intervista di Fra. Sem.


Il sostegno dei Paesi stranieri alle formazioni terroristiche che operano in Siria ha creato una destabilizzazione regionale le cui conseguenze sono oggi sotto gli occhi di tutti». È perentorio Ali Tayyebnia, ministro dell’Economia dell’Iran, il quale avverte che le formazioni jihadiste causeranno danni agli stessi governi che le hanno foraggiate.
Cosa sta accadendo nella regione?
«La presenza di forze straniere in Siria e il sostegno di alcuni governi ai gruppi terroristici ha creato il caos nella regione e le conseguenze che sono oggi sotto gli occhi di tutti. Devono essere mandati via dal Paese e la risoluzione dei problemi lasciata ai soli siriani. Oggi è seriamente compromessa la pace non solo in Siria, ma in tutta la regione e nel mondo».
Tutti sono a rischio?
«Noi per primi abbiamo paventato il rischio di “spillover”, ed è quello che vediamo oggi in Iraq. Sono sicuro che col tempo queste formazioni terroristiche causeranno danni anche a chi li ha sostenuti».
Assad non ha colpe?
«Non sto dicendo che non ha commesso sbagli, dico che ci deve essere l’autodeterminazione del popolo siriano».
Neanche l’Onu dovrebbe occuparsi del problema?
«L’Onu non si è dimostrata molto rispettosa degli equilibri politici interni. Dovrebbe inviare qualcuno realmente neutrale».
Sulla collaborazione con gli Usa è fiducioso?
«Dipende da come gli Usa si comporteranno con noi, attualmente c’è una certa fiducia da parte del popolo iraniano nei loro confronti. Gli Usa hanno le loro responsabilità, ma se dimostreranno che il loro atteggiamento è cambiato siamo pronti a collaborare».
In merito al negoziato sul nucleare che riparte oggi siete ottimisti?
«Siamo moderatamente fiduciosi sul risultato dei negoziati, perché consci delle nostre intenzioni e della nostra trasparenza. Ora dipende dalla flessibilità delle parti, ma una soluzione potrebbe arrivare entro la fine del round».
Quanto pesano le sanzioni ancora?
«Hanno effetti negativi, ma anche sugli Stati che le impongo. Noi comunque abbiamo sviluppato una certa resilienza».
Cosa intende dire?
«Quando il nuovo governo iraniano si è insediato la situazione economica era compromessa, l’inflazione era quasi al 45%, e il Pil era pari a -6%. Questo per la stretta dipendenza dal petrolio, politiche sbagliate, sanzioni ed embargo. Il nuovo governo ha varato una serie di misure per risolvere la situazione ed oggi l’inflazione è sotto il 20%. Misure per le quali abbiamo raccolto molti apprezzamenti all’Astana Economic Forum».
Spera nella presidenza italiana della Ue?
«L’Italia è sempre stata interlocutore privilegiato, le relazioni sono accettabili e speriamo in un ruolo come ponte per l’Europa».
Il ministro Zarif ha incontrato il segretario di Stato Kerry, lei incontrerà il ministro del Tesoro Lew?
«Non escludo che possa accadere. Adesso però la nostra priorità è risolvere il dossier nucleare».

Repubblica 16.6.14
“Gilad, Eyal e Naftali Israele vi ritroverà” Retata di palestinesi
Il governo teme un nuovo caso Shalit, tensione sempre più alta
di Fabio Scuto



GERUSALEMME. I ragazzi della yeshiva “ Merkor Haim”, si sono abbracciati ieri pomeriggio nella palestra del seminario, hanno pregato insieme per Gilad, Naftali e Eyal, i loro compagni e amici scomparsi da giovedì sera. Inghiottiti dal buio mentre in autostop cercavano di andare a passare la serata da un gruppo di amici a Modiin, una new town a metà strada fra Gerusalemme e Tel Aviv. Alle loro preghiere si sono uniti ieri sera centinaia di studenti delle yeshivot al Muro del Pianto.
Israele prega, spera e indaga. Il primo ministro Benjamin Netanyahu punta l’indice contro i miliziani di Hamas come responsabili del rapimento. «Quelli che hanno rapito i nostri tre ragazzi sono uomini di Hamas» e Israele farà di tutto per riportarli a casa. Anche il segretario di Stato Usa, John Kerry, accusa il movimento islamico, «organizzazione terrorista conosciuta per i suoi attacchi a civili innocenti, che ha usato l'arma del ricatto in passato». Per ritrovare Eyal, Gil e Naftali, Israele ha sferrato un’imponente operazione militare e la scorsa notte sono stati arrestati 80 sospetti palestinesi, tutti islamisti ben noti allo Shin Bet, il servizio segreto interno israeliano. Tra loro, alcuni militanti della Jihad islamica e di Hamas e anche un deputato palestinese del gruppo islamico.
In giornata è stato completato un cordone di sicurezza intorno alla Cisgiordania e a Gaza per il timore che i tre ragazzi possano essere trasferiti nella Striscia. Valichi e check-point fra i Territori e Israele sono chiusi per i palestinesi; macchine, puldella lman, camion passano solo dopo un’attenta perquisizione. La tensione sale pericolosamente anche nella città di Hebron, da sempre focolaio di tensioni, dove proseguono da ieri notte le perquisizioni casa per casa, nei magazzini, nelle fattorie delle campagne circostanti. Ogni risorsa possibile, ogni informatore, ogni fonte, assicura il capo Difesa Moshe Yaalon «è stata messa in campo». Sono migliaia gli uomini in divisa che battono le campagne intorno a Hebron, mentre la città è stata sigillata: non si entra e non si esce. Questo nella convinzione che i tre ragazzi siano ancora tenuti nascosti in zona.
Tutti e tre i ragazzi - Eyal Yifrach, Gilad Shaer e Naftali Frankel, che è anche cittadino americano - studiano in istituti talmudici nella zona di Hebron. Gilad e Naftali hanno 16 anni e studiano nella yeshiva “Mekor Haim” (Fonte di vita) che si trova nell’insediamento di Kfar Etzion. Un istituto collegiale che ospita oltre 300 liceali. Eyal Yifrach, il più grande dei tre ha 19 anni, studia invece in un collegio universitario, che si trova all’interno della città.
D’abitudine nelle scuole talmudiche durante il weekend - che inizia il giovedì pomeriggio - i ragazzi sono liberi di lasciare l’istituto per raggiungere le famiglie e trascorrere con loro lo shabbat. Eyal, Gilad e Naftali avevano invece deciso di raggiungere Modiin in autostop. I seminaristi delle yeshivot fra le prime raccomandazioni che ricevono c’è sempre quella di non fare l’autostop, considerato “molto pericoloso”. Ma nonostante i rischi resta sempre il modo più utilizzato dai religiosi per muoversi in Israele. Ieri è stato chiarito anche che uno dei tre ragazzi è riuscito a chiamare aiuto, prima che il suo cellulare diventasse muto. «Ci stanno prendendo », ha urlato nel telefono. Ma il centralino della Polizia dopo la telefonata ci ha messo quasi quattro ore prima di dare l’allarme all’Esercito e ai servizi sicurezza.
Hamas finora non ha rivendicato la responsabilità del rapimento dei tre ragazzi e il premier Netanyahu non ha rivelato quali prove Israele ha in mano. L’incidente mette alla prova i già difficili rapporti tra il governo israeliano e il presidente palestinese Abu Mazen, sfarinati dopo la “riconciliazione” con Hamas e il nuovo governo. E quelli fra l’Anp e Hamas, poiché i servizi segreti palestinesi stanno collaborando con quelli israeliani nel cercare di identificare la “cellula” che ha colpito.
Per allargare le ricerche l’esercito israeliano ha convocato nelle ultime ore una parte dei riservisti, che andranno a rinforzare i ranghi dei battaglioni impegnati lungo la Striscia per sigillarne in confine, nel Negev per controllare i transiti verso il Sinai, e per le decine di checkpoint volanti messi praticamente su tutte le strade. Il timore è che si ripeta il caso del soldato Gilad Shalit, rapito sul confine fra Israele e Gaza il 25 giugno 2006 e liberato solo 5 anni dopo in cambio della liberazione di un migliaio di detenuti palestinesi. Distrutti dall’ansia i genitori dei tre ragazzi. Ieri Rachel Frankel - la madre di Naftali - ha trovato la forza di mandare un messaggio al figlio attraverso una tv israeliana. «Naftali, il tuo papà e mamma e i tuoi fratelli ti amano all’infinito, devi sapere che il popolo di Israele è pronto a rovesciare il mondo per riportarti a casa»

La Stampa 16.6.14
Isole contese, la Cina costruisce una scuola
di Ilaria Maria Sala


La Cina costruirà una nuova scuola per 40 bambini. Nulla di strano se non che l’edificio sarà edificato sull’isola di Yongxing, nell’arcipelago delle Paracelse, conteso da Vietnam, Brunei, Filippine e appunto la Cina. Che noncurante delle proteste dei vicini di casa – le più veementi sono quelle del Vietnam dove lo scorso mese i malumori contro Pechino sono sfociati in scontri e assalti alle fabbriche cinesi dislocate ad Hanoi e dintorni – tira dritto con i suoi progetti. L’ultimo è quello di mettere a disposizione una scuola nuova di zecca ai figli del personale militare che Pechino ha stanziato alle Paracelse.
Un pezzo dopo l’altro, dunque, continua l’occupazione de facto di Yongxing, che dovrebbe servire a Pechino a rafforzare la sua pretesa territoriale: la scuola sorgerà a Sansha, città creata dalla Cina due anni fa, dove sono state mandate a vivere 1443 persone. Creando l’avamposto Pechino ha dunque stabilito un nuovo «polo amministrativo» per le acque contese. L’intera isola di Yongxing (come del resto le Paracelse tutte) è a sua volta amministrata dall’isola di Hainan, che si trova nel Mare Meridionale cinese. È stato proprio il governo di Sansha ad annunciare sul suo sito web la costruzione della scuola: si aggiungerà ad altri edifici già esistenti, un ospedale, un aeroporto, e una biblioteca, nonché un massiccio ufficio governativo.
Nel frattempo, continuano gli scontri in mare fra navi vietnamite e cinesi, che cercano di spingersi via a vicenda dalle acque a sovranità contesa. La determinazione cinese appare sorda ad ogni protesta: proprio due giorni fa, nelle Filippine, una Corte di giustizia, dopo aver esaminato diverse antiche carte geografiche ha concluso che la pretesa territoriale di Pechino «non è basata su nessun documento storico». L’Onu si è proposta come mediatrice. Intanto però le azioni cinesi hanno avuto come effetto immediato il rafforzamento per la prima volta dal dopoguerra, delle le relazioni militari fra Usa, Giappone, Filippine e Vietnam.

Repubblica 16.6.14
Sarajevo, la biblioteca della rinascita
di Luca Rastello



SARAJEVO. A VOLTE i simboli accecano. Paradossalmente, soprattutto a guardarli da lontano. Certo, è impossibile tenere a freno l’emozione, all’annuncio della riapertura della Biblioteca Nazionale di Bosnia ed Erzegovina, la Vijesnica bruciata nel 1992 sotto i bombardamenti di una notte di agosto.
Oltre due milioni di volumi perduti, l’epopea dei cittadini che lavorarono settimane sotto il fuoco per mettere in salvo quel che restava delle collezioni, la storia del poliziotto Fahruddin Cebo, che portò al sicuro una preziosa Haggadah ebraica del XV secolo, l’immagine malinconica e severa di Vedran Smajlovic in frac che si ostinava a suonare il violoncello fra i calcinacci: la Biblioteca divenne subito un simbolo. Di ciò che nella tragedia di questa città stava andando perduto, non solo per la Bosnia, ma per l’uma-nità. Un marchio in stile neomoresco da imprimere nelle coscienze di tutto il mondo. Ovvio quindi che la riapertura suoni come un risarcimento. Costato 18 anni di lavori, 11,5 milioni di euro e tanto scrupolo filologico: «Abbiamo lavorato - racconta l’architetto capo Ferhad Mulabegovic - incrociando vecchie foto e documenti ritrovati a Sarajevo, Zagabria e altre città. E per ricreare lo stile turcheggiante abbiamo dovuto cercare artigiani dai saperi dimenticati ». Eppure alla cerimonia per l’annuncio della riapertura spicca l’assenza di Ismet Ovcina, il direttore della Biblioteca, che dichiara: «Non accettiamo di tornare da ospiti in casa nostra, dopo esserne stati cacciati a colpi di proiettili incendiari » . Ospiti: perché il Consiglio della Città si è appropriato dell’edificio per usarlo a scopi di rappresentanza, e alla Biblioteca viene offerto soltanto un minuscolo spazio, simbolico, inadeguato anche per una collezione insignificante. Il Consiglio si fa forte della destinazione d’uso di epoca austroungarica, che assegnava lo stabile al Municipio, mentre Ovcina si appella agli accordi di Dayton che, a fine guerra nel 1995, prevedevano la restituzione degli immobili distrutti.
Da simbolo a “brand” il passo è breve: si preparano le elezioni, e la Biblioteca, come le vittime delle alluvioni di metà maggio, passa nel tritacarne della propaganda mentre i cittadini sanno che Vijesnica, non riaprirà mai. Va perso un simbolo multiculturale? «Ma quale multiculturalità?» l’artista Zoran Herceg si inalbera: «Qui c’è sempre stata una sola cultura, quella bosniaca, resa ricca da mille influenze. Le tre tradizioni sono un racconto expost, che puzza di nazionalismo. Meglio chiusa: ora sarebbe solo un simulacro gestito da un potere inaffidabile. Chi selezionerebbe i volumi in un paese dove a scuola si usano libri di storia diversi a seconda dell’appartenenza nazionale? ».
E il nazionalismo torna a farsi ingombrante in vista del 28 giugno, San Vito, data dell’inaugurazione ufficiale (ma il giorno dopo verrà chiusa di nuovo per inagibilità), inquadrata nelle celebrazioni per il centenario dell’attentato che diede il via alla prima guerra mondiale: «Non sfilerò davanti a una lapide che definisce aggressore il popolo serbo!», tuona il premier serbo Aleksandar Vuèiæ, che invece in un primo tempo aveva accettato l’invito delle autorità bosniache. Festeggerà il suo San Vito ad Andricgrad, la nuova Disneyland neo-tradizional-nazionalista di Emir Kusturica a Visegrad.
In questo clima potrebbe finire per sempre la storia della Biblioteca, sequestrata due volte: dalle bombe e dalla politica politicante. Ma lo spirito cosmopolita che quella storia incarnava è vivo: si è solo trasferito sulla riva opposta della Miljacka, in un magazzino del vecchio Centro Olimpico dove, fra trucioli e pallet stanno, fintamente accatastate in un allestimento provvisorio di grande efficacia, decine di opere dei più grandi artisti contemporanei. È Ars Aevi, “arte dell’epoca”, qualcosa che cambierà la storia della città.
Molti giornalisti ricordano l’uomo gentile che nel 1992 li avvicinava all’Holiday Inn per esporre il suo sogno: «Di guerra non parlava. Solo del museo che voleva costruire», racconta il fotoreporter Mario Boccia, «pensavamo fosse un po’ matto ». Era Enver Hadziomerspahic, direttore degli eventi culturali alle olimpiadi del 1984 e direttore di Ars Aevi, il gentiluomo che ora mi accoglie sotto la pioggia e mi offre una maglietta di ricambio: «Sarei a disagio a lasciarla con la camicia bagnata». E racconta una storia che sarebbe incredibile, se non fosse testimoniata da una collezione del valore di almeno 20 milioni di euro: «La notte in cui fu distrutto il Museo Olimpico mi venne l’idea di chiedere ai massimi artisti del mondo di donare opere per Sarajevo. Una follia, dato che in città nessuno sapeva neanche se si sarebbe svegliato la mattina dopo».
Ma il sindaco Kresevljakovic ci credette e riuscì a portare Enver in Italia per promuovere l’iniziativa alla Biennale di Venezia ‘93. Le risposte furono superiori alle aspettative: con Enrico Comi, direttore di “Spazio Umano” a Milano, Enver ideò la serie di esposizioni le cui opere sarebbero andate ad Ars Aevi. Taglio cosmopolita: in ogni mostra opere di artisti di almeno dieci paesi. Dopo Milano arrivarono le massime istituzioni artistiche europee con le collettive di Lubiana, Venezia, Vienna, Istanbul, per citarne solo alcune, che portarono opere, fra gli altri, di Pistoletto, Kounellis, LeWitt, Kapoor, Viola, Boetti, Beuys: quanto basta a togliere il fiato al visitatore che in mezzo al truciolato capisce di trovarsi in un secondo Guggenheim, in grado di sottrarre l’immagine di Sarajevo all’accostamento con sangue e guerra.
Enver incassa poi anche il patrocinio Unesco, il sostegno del governo italiano e l’entusiasmo di Renzo Piano, che progetta gratuitamente il nuovo museo destinato a sostituire il “magazzino concettuale”: i lavori partono quest’estate e in quattro anni sarà aperto al pubblico il primo modulo. C’è già un partner privato: l’italiano Illy. «È anche una storia vostra», dice Enver. Molte delle opere usciranno dal magazzino per «invadere la città», una è destinata proprio a Vijesnica, come una specie di vendetta: arte al posto dei libri scacciati.
In fondo è una storia ben sintetizzata nel motto di Ars Aevi, una frase del 1793 di rabbi Avigdor Pawsner: «Se cerchi l’inferno, chiedi la strada a un artista. Se non trovi artisti sei già all’inferno». Un perfetto biglietto da visita per la città irriducibile che oggi archivia con una risata i tanti reporter che continuano a rappresentarla fotografando le buche dei proiettili e il minareto allineato con il campanile, e guarda altrove.

Repubblica 16.6.14
Karl Marx e quella talpa nell’orto
Un racconto di Ernesto Ferrero quasi una favola sul presente e su cosa aspettarci dal futuro
di Alberto Asor Rosa



AUTORE di numerosi romanzi e testi narrativi di grande successo (N. ha vinto lo Strega nel 2000) e uomo dell’editoria e dei libri da una vita (è direttore del Salone di Torino), Ernesto Ferrero si concede una pausa corroborante (per lui e per noi) con Storia di Quirina, di una talpa e di un orto di montagna (Einaudi).
Quirina è un’anziana professoressa di materie classiche in pensione, che vive ritirata in un paesino di montagna ai piedi delle Alpi, in una bella casa di famiglia circondata da un orto-giardino, cui lei accudisce con cura estrema, quotidiana. Un bel mattino, sul prato che ne costituisce la parte più rilevante, compaiono delle montagnole di terra fresca, che nei giorni successivi si moltiplicano in tutte le direzioni. Cosa diavolo è successo? Evidentemente, argomenta Quirina, una talpa (o più d’una, ma lei suppone una) ha preso possesso del sottosuolo, e lo penetra e sconvolge, con sorprendente capacità perforatoria. Comincia una dura battaglia, che Quirina conduce con tutti i mezzi, e con l’ausilio di devote collaboratrici locali e di alcuni famigliari, lontani ma partecipi, per estirpare il piccolo animale così distruttivo. Non ne riferisco la conclusione, affinché il lettore la scopra da solo, e, suppongo, con buone ragioni, con grande godimento da parte sua.
Se non temessi di danneggiarlo, in tempi di testi sovente trucidi e talvolta persino indecenti, direi che la Storia di Quirina è un libro delizioso (accompagnato e interpretato con grande fedeltà al testo dai bellissimi disegni di Paola Mastrocola). Ferrero si affida a una lingua italiana al tempo stesso impeccabile e di rara efficacia, per illustrare i diversi passaggi del racconto: i tremori e le preoccupazioni della vecchia signora; le discussioni che nel merito vengono impostate e affrontate, sia in loco sia telefonicamente; il trasmutare degli atteggiamenti affettivi, che pertengono però anche al pensiero e alla cultura dei protagonisti. Se si volesse ridurre l’esperimento a una semplice formula, si potrebbe dire che la Storia di Quirina è una moderna (modernissima) favola, che nel finale (da leggere, appunto) sconfina e svaria nell’apologo. Nel racconto, infatti, nonostante la sua apparente semplicità, si può ravvisare più di un senso, talvolta contrastanti, talvolta convergenti. Ma nel finale i diversi fili si riannodano non meccanicamente, e qualcuno di noi che legge potrebbe persino trarne giovamento (per esempio: che se si fa attenzione alle cose, si vedono cose che prima non si vedevano - la talpa, ovviamente, ne rappresenta il simbolo, cieca com’è, e Quirina, con la sua cultura non ossificata e la sua vigile attenzione al mondo interno a lei, anche).
Aggiungo due motivi più personali di simpatia per far capire come io sia stato preso dal racconto. Ferrero, fra gli altri numerosi (ma sempre «leggeri ») richiami culturali ricorda che Karl Marx «in uno dei suoi scritti aveva paragonato la rivoluzione a una vecchia talpa che scava avvedutamente nel terreno per preparare la vittoria finale, una volta uscita allo scoperto» pagg. 30-31). Per un tempo assai lungo, ma molto, molto tempo fa, mi sono regolato, a fianco di altri, di sforzarmi di adeguarmi all’implicito insegnamento del vecchio (anche lui) Marx, e ho considerato perciò la talpa (o il talpismo) come un vivente insegnamento da seguire.
Il secondo è più terra terra (appunto) e perciò anche più empirico e materiale, ma non perciò meno significativo (almeno per me). Credo di essere uno degli ultimi, fra i lettori di Storia di Quirina e anche fra i lettori di questa mia presentazione, ad aver visto emergere fra i propri piedi di bambino una talpina, con la sua proboscide e le sue poderose zampette. Posso dire che si tratta di un’emozione senza pari, che Ferrero rende, per conto di Quirina, con abilità e partecipazione straordinarie. Chi legge questa Storia non desidererà altro, nel corso restante della sua vita, che incontrare una talpa che gli sbuca sotto gli occhi dalla terra circostante, a significare, bene o male, marxianamente parlando, che qualcosa si buono e d’imprevisto può ancora accadere.

Repubblica 16.6.14
Quando Spinoza sognava il modello di un’altra Europa
Un romanzo e una monografia dedicate al filosofo rilanciano l’idea della repubblica federale olandese
di Roberto Esposito



E se fosse Spinoza l’autore in cui cercare un punto di riferimento in una fase in cui è sempre più difficile orientarsi sul piano filosofico e soprattutto politico? E se perfino questa Europa, sospesa tra vecchi nazionalismi e nuovi populismi, prestasse qualche attenzione alla Repubblica delle Sette Province Unite olandesi in cui egli visse, godendo di insolita libertà intellettuale all’interno di un continente insanguinato da guerre ininterrotte?
Certo, quella sorta di zona franca, di felice anomalia, che furono i Paesi Bassi rispetto agli Stati assoluti, si chiuse presto, come la condanna e l’espulsione di Spinoza dalla comunità ebraica testimoniano. Eppure Il sogno di Spinoza - come s’intitola il romanzo di Goce Smilevski appena tradotto da Guanda - continua ad interpellarci non solo sul nostro passato, ma anche sul nostro futuro.
In verità esso non tratta di questioni politiche e considera solo di scorcio la prospettiva filosofica di Spinoza. Di cui delinea, però, con maestria, il mondo interiore - turbamenti, emozioni, ossessioni. La vita, in continuo transito tra Amsterdam, Rijnsburg e l’Aia; il mestiere, singolare per un filosofo, di tornitore di lenti; le amicizie, tra cui quella, forse sul punto di scivolare in passione, con la sua giovane maestra di latino Clara Maria Van den Enden, e l’altra con l’allievo, studioso di Cartesio, Joan Casearius.
Forse nulla più del libro di Robert Burton sulla malinconia, insieme al celebre dipinto di Rembrandt Lezione di anatomia del dottor Tulp , in cui lo scalpello del medico penetra nelle carni aperte di un cadavere, restituiscono il clima di quegli anni e anche qualcosa della psicologia di Spinoza - pensatore della vita perché perennemente ossessionato dalla caducità dell’esistenza. La sua stessa idea di una sostanza infinita ed eterna, in cui Dio coincide con la natura delle cose, può essere interpretata anche come il punto di resistenza nei confronti di qualcosa che ci viene sottratta in un modo inaccettabile e prepotente.
La resistenza all’oppressione e all’intolleranza è, d’altra parte, la cifra dell’intero pen- siero di Spinoza. In particolare di quel saggio contro ogni forma di teologia politica che curiosamente ha proprio il titolo di Trattato teologicopolitico.
«Un libro forgiato all’inferno», come fu definito dai nemici del filosofo e adottato come titolo della monografia spinoziana, adesso tradotta da Einaudi, di Steven Nadler. Autore già di un altro lavoro su Spinoza e l’Olanda del Seicento, nonché di un originale saggio su Descartes, dal titolo Il filosofo, il sacerdote e il pittore , entrambi editi da Einaudi, Nadler riesce nella difficile impresa di presentare il complesso pensiero di Spinoza ad un ampio pubblico senza tradirne i contenuti peculiari.
Ma che cosa c’è di tanto scandaloso nel suo Trattato? Cosa ne fa un libro maledetto destinato alla distruzione e all’oblio? Si tratta di una coraggiosa, almeno per allora, difesa dell’autonomia della filosofia, e anche della politica, dalla invadenza della religione. Rifiuto dei miracoli e del ruolo divino dei profeti, riduzione della provvidenza all’insieme delle leggi di natura, attribuzione della Bibbia all’opera dell’uomo sono i contenuti blasfemi in base ai quali Giordano Bruno era stato bruciato appena pochi decenni prima. Qualcosa di non meno pericoloso delle scoperte astronomiche che Galileo fu costretto ad abiurare. Ma l’elemento forse più rilevante in termini politici sta nella maniera in cui la negazione del carattere trascendente ed onnipotente della Persona divina si traduce nel rifiuto di quella del monarca. Ecco ciò che differenzia Spinoza da Hobbes. Come questi, anch’egli è alla ricerca di una forma politica che metta fine al caos delle guerre di religione. Ma anziché individuarla nello Stato Leviatano, vale a dire nel potere assoluto che condiziona la protezione dei sudditi alla loro obbedienza, lo individua in una forma di democrazia che, contro il modello monarchico e aristocratico, rispetta la libertà dei cittadini. Con ciò Spinoza non intende negare il principio di autorità politica, ma sottoporlo ad una legittimazione diffusa in base alla quale il diritto di definire quello che è nell’interesse di tutti spetta al popolo stesso.
Per certi versi Spinoza non fa che riprodurre in forma radicale il regime politico della Repubblica olandese della seconda metà del secolo, assediata dagli eserciti delle monarchie assolute. Essa era governata, in forma federale, dai rappresentanti delle Sette Province Unite, provenienti dal ceto mercantile delle città olandesi, gelose della propria indipendenza nei confronti sia della Chiesa che, almeno entro certi limiti, dello Stato centrale. Allorché Johan de Witt, deputato permanente di Dordrecht e punto di riferimento politico dei democratici radicali, fu assassinato, quel modello che rappresentava un’eccezione vistosa nell’Europa del tempo crollò, perdendo le sue connotazioni più peculiari. La messa al bando dell’opera di Spinoza fu anche conseguenza di questa restaurazione. Ma tale esito non cancella, né sul piano filosofico né su quello politico, il significato di quello straordinario esperimento. Al suo centro era il progetto, fino allora inaudito, di una federazione costituzionale che escludeva ogni carica centralizzata e onnipotente. Ad ogni provincia era invece riconosciuto il diritto di avere i propri rappresentanti, senza per questo indebolire la loro unione, cui restavano le competenze della politica estera e finanziaria.
Quali suggestioni tale modello costituzionale possa contenere per un mondo, come il nostro, che ha conosciuto la crisi di tutti i Leviatani, non è difficile intuire. Persino l’Unione europea potrebbe riprodurne qualche tratto, nel difficile equilibrio tra unità e differenze nazionali. Naturalmente senza omologare situazioni e problematiche separate da secoli di storia e di pensiero. Se però ricordiamo l’insistenza di Spinoza sulla necessità di contenere le inevitabili spinte passionali nei limiti della razionalità, possiamo ricavarne un’indicazione che muove in direzione contraria sia a un’idea di sovranità trascendente - al potere assoluto degli Stati sovrani - sia agli impulsi anarchici e irrazionali che alimentano la crescita dei nuovi populismi.

La Stampa 16.6.14
Sanità, il rinnovamento mancato
Ospedali, rapporto choc: apparecchiature vecchie ed edifici a rischio crolli
Nord e Sud Italia uniti da ritardo tecnologico e sprechi
Uno dei punti critici del sistema sanitario italiano: la scarsa innovazione tecnologica
di Paolo Russo

qui

La Stampa 16.6.14
«Ma il vero problema è la mancanza di visione»
intervista di Pa. Ru.


Lorenzo Leogrande è presidente dell’Associazione italiana ingegneri clinici.
E’ vero che si investe sempre meno per acquistare macchinari diagnostici al passo con i tempi?
«Purtroppo sì. Le regole regionali di finanziamento che limitano il ricorso alle spese di ammortamento stanno fermando tutti gli acquisti in tecnologie. Dovendo fare i conti con una penuria di risorse dobbiamo affrontare il problema con un po’ di strategia. Ad esempio concentrando l’alta tecnologia dove più serve. Stando attenti anche al fatto che non conta solo l’età di Tac o risonanze ma anche la loro affidabilità».
Che significa per un paziente essere controllato con una Tac a meno di 16 strati e vecchia di 10 anni anziché con uno strumento più nuovo?
«Non è detto a priori che una macchina recente sia migliore di quella vecchia. Ma di solito un’apparecchiatura obsoleta è meno affidabile dal punto di vista clinico e diagnostico. E poi si peggiora il servizio, perché più facilmente occorre ripetere l’esame e questo aumenta le liste d’attesa. Ma la corsa dell’industria a Tac a sempre più strati e più costose va calmierata, utilizzandole dove veramente servono, ad esempio per i controlli cardiologici».
Anche i dati sui mammografi sono demoralizzanti. Che rischi corrono le donne?
«Il problema è identico a quello della Tac. Però i mammografi digitali di prima generazione erano meno performanti e meno affidabili di quelli tradizionali. Per questo dico che l’innovazione va gestita. Anche formando meglio il personale che deve utilizzare le apparecchiature».
Da un lato non si investe, ma dall’altro non si spreca per acquistare macchinari inutilizzati?
«Le nuove tecnologie sono efficaci ma non sempre vengono introdotte dove servono. Se acquisto una risonanza ad altissima definizione dove alcuni accertamenti non si fanno, è certamente uno spreco. Non di rado si punta all’alta tecnologia, configurandola al top della gamma, per fare operazioni di immagine. Poi magari, mancano le risorse per la gestione quotidiana di quel che già c’è. Dobbiamo essere aperti all’innovazione in sanità. Ma a quella che serve».

Corriere 16.6.14
Scienza più arte, la nuova medicina
La ricerca avanzata e una buona pratica, insieme, funzionano
Soprattutto se l’ospedale diventa un hub, una cittadella della salute
di Claudio Magris


Esculapio o Ippocrate, il mitico dio della medicina quale arte «che aggiunge vita alla vita, guarisce i mali, riportando in vita i morti e garantendo una vita non solo più lunga ma migliore», oppure lo scienziato «che ha portato nella medicina lo spirito laico, tramite l’indagine razionale e l’osservazione dei segni delle malattie?».
Così scrive Marco Confalonieri, che incontro a Trieste, dove egli, primario di pneumologia all’ospedale di Cattinara, è stato il promotore di un recentissimo documento scritto da quarantuno primari, direttori di strutture complesse, relativo al progetto della Cittadella della Salute, che sta trasformando l’ospedale università di Cattinara come hub transfrontaliero affiancato dal nuovo istituto di ricerca e cura materno-infantile, che prosegue una delle più grandi tradizioni mediche triestine, l’ospedale infantile Burlo Garofolo in via di trasferimento a Cattinara. Unendo specialità di ricerca, insegnamento, collaborazione con strutture estere e attività in un vasto territorio al di qua e al di là della frontiera, la Cittadella della Salute si propone di rinnovare assistenza, ricerca, affrontando creativamente la crisi e l’universale restrizione di fondi. Ma c’è davvero contrapposizione fra Esculapio — per i greci, Asclepio — e Ippocrate, fra arte e scienza nella medicina?
Confalonieri — Nessuna contrapposizione, ma un cambiamento ancora in atto. Quando ho iniziato i miei studi all’università, si diceva che occorreva imparare l’arte per fare il medico; le basi conoscitive erano scientifiche ma diventavano sempre più presto obsolete. Si pensi a com’è svanito il dogma della biologia, «un gene, una proteina» dopo la scoperta che l’uomo ha un numero di geni simile ai vermi e che a fare la differenza è il modo in cui i geni sono regolati, non il loro tipo.
La diagnosi da anni è meno affidata alle percezioni sensoriali del clinico che alle tecniche d’immagine frutto dell’ingegneria e dell’informatica, ma oggi con il laboratorio molecolare possiamo andare oltre, individuando tra malati con la stessa malattia quelli che in base alle loro caratteristiche molecolari risponderanno a specifiche terapie. Un grandissimo scienziato come Einstein riconosceva che «la nostra scienza, raffrontata alla realtà, è primitiva e infantile», ma aggiungeva che essa è «la cosa più preziosa che abbiamo». Anche — forse soprattutto — la medicina ha bisogno di rigore metodologico, senso critico; ha bisogno di sottoporre ogni risultato al criterio di falsificabilità, rifiutando il «pensiero debole» e il relativismo del «politically correct». Certo, l’approccio clinico del medico rimane fondamentale...
Magris — Credo che la parola «arte» possa prestarsi ad equivoci, se viene intesa, falsificando la concezione romantica — in realtà molto rigorosa — quale illuminazione irrazionale, folgorante e magica intuizione priva o non bisognosa della ragione. Ma nella parola «arte» c’è pure la competenza tecnica del mestiere, l’attenzione all’oggetto, la precisione dell’orafo, del poeta o del costruttore di barche esperto dei moti delle onde, delle correnti e del vento. Anche una Tac ha bisogno di un individuo — di un medico — capace, con la sua competenza, la sua esperienza e la sua intuizione, non solo di leggerla, ma anche di collegare ciò che essa dice ad altri aspetti del paziente che essa non dice.
Ho avuto la fortuna di frequentare grandi medici, la cui irripetibile umanità è un elemento essenziale della loro intelligenza scientifica e diagnostica. Sottovalutare l’arte significa abbandonarla alle mani dei fumosi ciarlatani, dei mistificatori magari sinceri ma che diffondono il virus della paccottiglia irrazionale, delle speranze miracolistiche, di un pasticcione e deleterio pensiero misticheggiante. Che cosa può dare oggi alla medicina, scienza dell’uomo, la scienza dura, la fisica, scienza dell’universo e del mondo subatomico? Lo chiedo a Renzo Rosei, che è stato professore di fisica all’Università di Trieste ed ha avuto un ruolo fondamentale nell’apertura del Sincrotrone.
Rosei — La fisica, con Galileo, ci ha dato il metodo scientifico, che nel corso del tempo ha permeato le altre discipline — la chimica, poi la biologia e infine la medicina, seguendone l’ordine di complessità. È ai fisici che si devono le principali tecniche diagnostiche oggi in uso (Tac, Risonanza Magnetica, Pet). Anche la struttura della doppia elica del Dna ha avuto origine dalla scoperta dei raggi X da parte di Roentgen e dal fenomeno della diffrazione studiato da Fraunhofer. La fisica ha creato il primo transistor da cui sono nati gli strumenti di calcolo senza i quali non è concepibile affrontare la complessità della «scienza dell’uomo», scienza destinata a diventare sempre più precisa e oggettiva...
Magris — In un cammino, penso, peraltro mai definitivamente concluso; talora forse pure contraddittorio e dunque sempre bisognoso dell’intelligenza dell’individuo... Vorrei chiedere a entrambi di commentare la tua espressione, Marco, «aggiungere vita agli anni piuttosto che anni alla vita», che presuppone una visione dell’esistenza che condivido e che si contrappone sia alla smania di pseudoeternità che le attuali tecnologie sembrano promettere, in una irreligiosa negazione della nostra finitezza (le mani, non più contratte, lasciano la presa, ha scritto il teologo evangelico Thiede) sia alla petulanza eutanasica che assume talora un tono da rivendicazione burocratica. Cosa significa dare più vita agli anni, in quale modo nuovo si può concepire l’assistenza, anche tenendo conto dei tagli imposti dalla crisi? A quale futuro puntare? Come si colloca, sotto questo profilo, la situazione triestina?
Confalonieri — Quando nel 2000 arrivai a Trieste quale primario in un sanatorio costruito in un’epoca in cui non esistevano farmaci per la tubercolosi, faticai a chiudere quell’ospedale obsoleto. Si temeva che ciò avrebbe portato alla diffusione della Tbc, che invece oggi, più che dimezzata in 10 anni, è curata a domicilio. L’attività si è spostata su day hospital e ambulatori, con aumento delle prestazioni e sviluppo dell’integrazione fra assistenza, didattica e ricerca. Per garantire l’eccellenza sono necessari un ospedale scientifico e una medicina personalizzata, predittiva e rigenerativa. La ristrutturazione dell’ospedale di Cattinara, affidata a un progettista australiano, implica portare più cultura medico-ospedaliera sul territorio, creare un ospedale con tutte le specialità di un hub , unire cura e ricerca (come ora nel caso delle malattie infantili) e scambi di pazienti e medici con Slovenia e Croazia, vista anche la presenza di rispettive minoranze. Le difficoltà di tale cambiamento sono rilevanti, ma dare più vita alla vita significa ad esempio pure ridurre i costi dell’assistenza e della burocrazia sanitaria, chiudere in futuro alcune residenze protette per anziani e curare i cittadini con una medicina rigenerativa e personalizzata, che certo potenzia la vita.
Rosei — La scienza inquadra il corpo umano come un immenso network di molecole biologiche (Dna, Rna, proteine, ormoni e così via) in continua interazione reciproca, che nell’individuo sano portano a una naturale autoregolazione che fa funzionare l’organismo, mentre all’insorgere di una malattia la concentrazione di molteplici metaboliti è distorta e molti nodi della rete evolvono verso valori anomali.
Le nuove, avanzate tecniche di analisi molecolare — simili a quelle che permettono di determinare il genoma di ogni singolo individuo — presto consentiranno di discernere ogni anomalia nel funzionamento dell’organismo; scoprire quali nodi, nelle interconnessioni del network di molecole, sono perturbati, fornirà una sorta di impronta digitale della malattia e della sua localizzazione nell’organismo. L’inserimento della molecola-farmaco come nuovo nodo nel network permetterà di osservare con precisione e in tempo reale l’effetto del farmaco; tutto ciò avrà implicazioni ancora incalcolabili sulla concezione della medicina e della salute pubblica.
Implicherà pure una riduzione dei costi della sanità, perché la rigenerazione dei tessuti e la remissione della malattia sostituiranno le cronicizzazioni. Infine, la crescente obiettività degli strumenti diagnostici e la scienza portata al letto del malato toglierà spazio ai venditori truffaldini o esaltati di rimedi miracolosi a base di «olio di serpente» e di false speranze, alimentate dalla disperazione dei malati e dalla credulità prodotta dalla disperazione...
Magris — È raro, in questi tempi di crisi e di mancanza o paurosa spettralità del futuro, sentire voci così solidali e pacatamente fiduciose...

il Fatto 16.6.14
Oggi anche in Italia ci si presta per sperimentare i farmaci
Per 200 euro al giorno
Nel nostro Paese il 19% degli esperimenti europei
“Io cavia umana per pagare l’affitto”
di Alessandro Madron


Non sto qui a dire perché, ma ne ho bisogno urgente, mi servono i siti dove posso trovare le offerte per cavie, no moralisti grazie”. Questo è solo uno dei tanti messaggi postati in rete da persone che, in cambio di denaro, sono disposte a sottoporsi a sperimentazione farmaceutica. Cavie umane, insomma. Persone spinte dal bisogno o attratte dai guadagni facili che scelgono di candidarsi. Bastano pochi clic per capire come fare. Un computer e una connessione: “Come diventare volontario sano”. Le possibilità ci sono. Non solo in Svizzera (Canton Ticino) ma anche in Italia. Si scopre presto che i centri che effettuano ricerche su volontari sani sono un po’ ovunque. Verona, Milano, Pavia, Cagliari, ma non solo. Si compila un modulo fornendo informazioni su abitudini alimentari, malattie pregresse, allergie, farmaci assunti. Si forniscono i dati, compreso il contatto del proprio medico curante, e il gioco è fatto. “Chiaramente - ci racconta Gianluca, ex cavia in Svizzera - non basta compilare un’informativa in maniera dettagliata, occorre sottoporsi a una visita accurata, la selezione è seria, se non sei sano non ti prendono, quando lo racconto qualcuno lo trova inconcepibile, ma sempre più spesso mi chiedono i contatti”.
L’istituto di Sanità coperto di richieste
Che il tema sia più che mai attuale lo dimostra anche un “avviso urgente” pubblicato lo scorso 6 febbraio sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità: “Facendo seguito a ripetute richieste di informazioni relative all’arruolamento di volontari sani per sperimentazioni cliniche, si precisa che l’Istituto Superiore di Sanità non conduce sperimentazioni cliniche e pertanto non arruola volontari per le stesse”. Insomma, la spinta verso questo tipo di attività è così forte da indurre gli aspiranti volontari a cercare informazioni direttamente all’Iss, anche per candidarsi. Difficile ricostruire con precisione l’entità del popolo delle cavie in Italia (secondo CMR International 2013 Thonson Reuters siamo il ventitreesimo paese al mondo con meno di 5 mila soggetti arruolati in sperimentazione, ma non esistono dati disaggregati che distinguano cavie sane e malati). Il fenomeno trova però conferme che vanno oltre i messaggi postati nei forum online. Ad esempio all’associazione Difesa consumatori raccontano come ogni settimana decine di persone chiedano informazioni ai loro centralini su come diventare volontari sani.
Se è pacifico che ai centri di ricerca servano volontari (le norme internazionali lo impongono), lo è meno l’idea che siano in molti, sempre di più, a guardare con interesse alla possibilità di prestare il proprio corpo alla sperimentazione. Non per amore della ricerca, si intende, ma con la speranza di racimolare qualche euro in un periodo in cui i soldi sono un miraggio. Poche centinaia di euro a titolo di “rimborso spese” possono fare gola a chi si trova in condizioni di bisogno, anche solo per arrotondare stipendi che non bastano più.
“Mai avuto problemi di salute - racconta Francesco, 28 anni, quattro vissuti da cavia e sette test all’attivo - Sono soldi facili, con una settimana mi pago due mesi di affitto, lo faccio una o due volte l’anno e continuerò finché mi chiameranno o finché non interferirà con la mia vita lavorativa”. Una settimana in clinica può valere 1200 euro, circa 200 euro al giorno, questo lo standard europeo dei rimborsi riconosciuti ai volontari come risarcimento per il tempo trascorso in clinica: “Dimmi un lavoro che ti fa guadagnare così tanto senza fare nulla!”.
In Italia si effettua oltre il 16% delle sperimentazioni di tutta Europa (XII rapporto sperimentazione clinica Aifa) e i dati raccontano di un progressivo spostamento della ricerca verso le fasi precoci. Nel nostro paese le sperimentazioni di Fase I (quelle che richiedono il reclutamento volontari sani) nel 2007 erano solo il 2,9% del totale, nel 2011 la percentuale era salita al 6,8. Tuttavia i posti disponibili per le aspiranti cavie sono in numero limitato: “Non esiste una banca dati puntuale che raccolga i volontari sani in Italia - ha spiegato la dottoressa Patrizia Popoli dell’Istituto Superiore di Sanità -, si tratta di poche decine di soggetti all’anno, dai 10 ai 20 per ogni studio”. Nel 2012 in Italia sono stati effettuati 41 studi di Fase I: “Va però precisato - continua Patrizia Popoli - che ci sono studi di Fase I che non si avvalgono di soggetti sani, ad esempio per gli antitumorali e per tutti i principi attivi con un elevato profilo di tossicità ci si rivolge a soggetti con una patologia specifica in atto già nelle prime fasi di sperimentazione”.
Ora tocca a Cina e India
Il Bengodi delle cavie italiane, soprattutto nei territori di confine, è sempre stata la vicina Svizzera. Negli anni passati si era arrivati a toccare la quota dei mille volontari sani all’anno a disposizione dei tre centri un tempo operativi in Canton Ticino (oggi ne sopravvive uno solo). “Nel 2013 i volontari sani che hanno partecipato a studi clinici con medicamenti in Ticino sono stati 403 (85% gli italiani)” ha spiegato il farmacista cantonale Giovan Maria Zanini, un numero in netto calo rispetto al passato: “L’offerta di studi è diminuita. Anche l’industria farmaceutica risente della crisi e ha meno farmaci da sviluppare. È possibile che il numero di persone interessate a mettersi a disposizione oggi sia maggiore, ma qui la domanda non ha proprio nessun influsso sull’offerta”. Una valutazione che forse vale nel ristretto mercato elvetico, ma i dati e le stime sugli investimenti globali delle industrie farmaceutiche indicano invece un trend in costante aumento. Gli investimenti mondiali ammontavano a 88 miliardi di dollari nel 2004 e sono arrivati a 136 nel 2013. Per il 2018 sono stimati in 149 miliardi (dati EvaluatePharma 2013).
L’indicatore dell’attrattività della sperimentazione nei vari paesi (A. T. Kearney Clinical Trial Attractiveness Index) racconta della crescita di nuove realtà come la Cina o l’India, che stanno rosicchiando posizioni su posizioni al colosso americano, facendo perdere terreno anche ad altri storici protagonisti dell’industria farmaceutica (come Germania, Inghilterra o Francia) in una classifica che non contempla il nostro paese entro le prime trenta posizioni mondiali. Quindi in Italia il mercato delle cavie non decolla perché il paese non è sufficientemente attrattivo per la sperimentazione. Troppo complesse le procedure burocratiche, troppo alti i costi, così gli investimenti restano relativamente bassi. L’esercito delle aspiranti cavie deve quindi mettersi l’anima in pace: il contesto non gioca a loro favore e il futuro della sperimentazione sarà sempre più lontano dal vecchio continente.

il Fatto 16.6.14
Il prezzo del principio attivo
Fare profitti con l’epatite C, il tariffario della vita
di Chiara Daina


L’industria farmaceutica dà un prezzo alla vita umana. Un malato di epatite C, per esempio, vale 60 mila euro per 12 settimane, il tempo di cura previsto con il Sovaldi (sofosbuvir è il principio attivo), il nuovo antivirale prodotto dalla Gilead Sciences, autorizzato al commercio lo scorso dicembre negli Stati Uniti e a gennaio nell’Unione europea. Il farmaco è in grado di eliminare il virus dal sangue, evitando il trapianto di fegato e, nel peggiore dei casi, la morte. In Italia si contano dai 300 ai 500 mila pazienti e circa novemila morti l’anno a causa della malattia. Per garantire il trattamento a tutti lo Stato dovrebbe sborsare 25 miliardi di euro più o meno, in pratica la somma che oggi serve per sostenere l’intera spesa farmaceutica.
Il ministro della Salute Beatrice Lorenzin aveva promesso entro il 19 giugno la contrattazione del prezzo tramite l’Aifa, ma la ditta per ora ha deciso di sospendere le trattative e di fornire gratis la terapia ai pazienti più urgenti come “uso compassionevole”. Gli altri, se va bene, aspettano.
UNA COSA È CERTA: la lista delle molecole proibitive lievita ogni volta che si scopre un antitumorale o un farmaco salvavita. L’Aifa ha stilato una classifica dei trenta principi attivi più costosi a carico dello Stato. In testa c’è il Dexrazoxano, un antitumorale, oltre 20 mila euro. Il Treprostinil, un antiipertensivo, quasi dieci mila euro. Come il Canakinumab, usato per la cura di una malattia rara (un trattamento annuale, sei somministrazioni da 150 mg, costa circa 58 mila euro). Il resto non scende sotto i tre mila euro.
Da 240 milioni di euro a 60 milioni il conto totale all’anno per i 30 cicli terapeutici più cari. Al primo posto c’è quello con il Trastuzumab per il carciroma al seno (mille euro solo un flaconcino). Seconda, la terapia contro l’artrite reumatoide con l’Etanercept (4 fiale 1600 euro), e terza, per lo stesso disturbo, quella a base di Adalimumab (dieci mila euro l’anno). A fine maggio 30 mila oncologi da tutto il mondo riuniti a Chicago in occasione del congresso della Società americana di oncologia hanno lanciato un grido d’allarme. “Non possiamo andare avanti così, con i prezzi che continuano a salire" ha detto Richard Pazdur, della Food and drug administration. Stefano Cascinu, presidente dell’associazione italiana di Oncologia medica, presente anche lui al meeting, avverte: “Il costo totale del cancro in Europa è ogni anno di 126 miliardi di euro, di cui 16 in Italia. Nel 2030 il 30 per cento degli italiani sarà over 65 e i pazienti con il cancro dai 2,8 milioni attuali passeranno a 4,5 milioni. È chiaro che le risorse a disposizione non basteranno”.
IL PROBLEMA È ALLA RADICE: come si determina il prezzo di un farmaco? C’è un caso che fa scuola, quello del Glivec (imatinib), l’antitumorale della Novartis per la leucemia mieloide cronica, in commercio dal 2001. Costo: 30 mila dollari a paziente per un anno di terapia. La molecola nella maggior parte dei casi garantisce la perfetta guarigione dal tumore. Prima invece si moriva. Nel giugno 2013 un gruppo di cento oncologi da tutti i continenti ha firmato un articolo uscito su Blood, la rivista della Società americana di ematologia (e ripreso dal New York Times), denunciando il costo eccessivo del farmaco e spiegando come il gigante svizzero starebbe facendo profitto da capogiro sui malati. La polemica è scivolata nel silenzio dei governi di tutto il mondo.
Due anni fa negli Stati Uniti il costo del Glivec è cresciuto a 92 mila dollari all’anno, “nonostante i costi di ricerca fossero già compresi nella tariffa iniziale” e “la popolazione che stava assumendo il farmaco era aumentata”. Morale, “nel 2012 l’azienda fattura 4,7 miliardi di dollari”. Il prezzo di un farmaco oggi si basa soprattutto sul valore terapeutico previsto, anche se non risolve la patologia e prolunga soltanto di qualche mese la vita di una persona con effetti collaterali molto pesanti. La conclusione dei medici è che “il prezzo riflette il contesto geopolitico e socioeconomico” del Paese dove viene venduto “che non dipende dai costi di ricerca e sviluppo della molecola”. Il Glivec costa 24 mila dollari all’anno in Russia, 54 mila in Germania, 40 mila in Francia, 29 in Messico, per esempio. Il brevetto del Glivec è scaduto il 28 maggio del 2013. La Food and drug administration ha preferito prorogarlo fino a gennaio 2015. L’Ema (l’agenzia del farmaco europea) addirittura fino a marzo 2016. Intanto in Sud Corea, Canada e Israele esiste già il generico equivalente. La Novartis vorrebbe spingere il Tasigna (nilotinib) come farmaco di prima linea, finora usato nei pazienti intolleranti all’imatinib. “Il farmaco ha molte controindicazioni - spiega Carlo Gambacorti, ematologo e oncologo all’ospedale San Gerardo di Monza, che ha contribuito allo sviluppo preclinico e clinico del Glivec -: può causare ictus, infarti e trombosi negli arti”. A segnalare gli effetti collaterali del Nilotinib sono decine di oncologi di tutto il mondo che da oltre tre anni pubblicano gli inconvenienti del principio attivo sui loro pazienti su importanti riviste, dall’Americanjournal of hematology al Journal of the National Cancer Institute, punti di riferimento per la comunità scientifica internazionale. “Dopo aver scritto due articoli sugli effetti collaterali del Nilotinib - racconta al Fatto quotidiano un ematologo tedesco in anonimato - sono stato subito contattato dai responsabili della Novartis: ‘non avresti dovuto dire quelle cose a tutti’ mi hanno detto. E poi: ‘Dovevi aspettare e al massimo usare il condizionale’. L’azienda non mi ha più fatto collaborare con lei”.

il Fatto 16.6.14
“Anti-tumorali troppo cari, si cura chi può”
di Chiara Daina


La corsa al rialzo dei prezzi degli antitumorali (il 25% della spesa farmaceutica) è insostenibile. Di questo passo, il Sistema sanitario nazionale non tutelerà più il diritto alla salute. “La legge prevede l’obbligo per l’Aifa di valutare le domande dei farmaci innovativi entro cento giorni perché siano rimborsabili dallo Stato. Ma la scadenza non viene rispettata - spiega Stefano Cascinu, presidente dell’associazione italiana di Oncologia medica - e c’è il rischio di creare discriminazioni tra chi può curarsi e chi no. L’ospedale non ha sempre i soldi per il farmaco e tende a privilegiare i pazienti assicurati”.
BIG PHARMA si difende così: “Ricerca e sviluppo di un farmaco ci costano un miliardo di dollari”. È un dato trasparente e accessibile? No. “Quella cifra è uno dei grandi miti dell’industria”: a dirlo è stato Andrew Witty, direttore dell’ufficio esecutivo di Glaxo Smith Kline, casa farmaceutica inglese sesta al mondo per giro d’affari. “Per registrare un farmaco si parte dall’analisi di 10 mila molecole in vitro, ma solo una alla fine verrà sviluppata. Il costo quindi include anche gli esperimenti falliti” spiega Gabriella Varallo Bedarida, direttore medico di Pfizer Italia. Ma molti esperti di economia farmaceutica non sono convinti della cifra. Tra questi, Donald Light, professore di Politica sanitaria all’Università del New Jersey e al Centro etico di Harvard, che sfata le stime di Big Pharma con la strategia della spirale dei prezzi: “Le ditte aumentano la tariffa di anno in anno e poi fissano il prezzo di un nuovo prodotto partendo dal livello di mercato aggiornato”.
IL CALCOLO delle industrie non tornerebbe. Nel 2013 la spesa globale per farmaci anticancro ha raggiunto i 91 miliardi di dollari (+5% l’anno). “Più dell’84% della ricerca di base è finanziata dal pubblico - spiega Light -. Nel caso degli antitumorali, l’investimento maggiore arriva dal National cancer institute (una delle 11 agenzie all’interno del dipartimento della Salute degli Usa, ndr). Quindi le ditte farmaceutiche spendono solo l’1,3% dei loro ricavi in questa fase”. “Metà del costo rivendicato dalle ditte si basa sulla stima dei profitti che avrebbe fatto se non si fosse impegnata nella ricerca. Se si sottraggono questi ‘mancati profitti’ la spesa scende a 650 milioni di dollari circa”. Ci sono altri due fattori da considerare: “I contribuenti sostengono metà della ricerca attraverso le deduzioni fiscali e la stima dell’industria viene fatta solo sui primi 5 medicinali più costosi e impropriamente attribuita al resto della produzione. Pochi progetti costosi distorcono il costo medio, andrebbe usato il valore più frequente”. Risultato: la stima scende a 125 milioni di dollari. “Una legge americana del 2003
- aggiunge Light - impedisce al sistema sanitario pubblico di negoziare i prezzi, che infatti hanno iniziato a gonfiarsi da allora”.
SILVIO GARATTINI , farmacologo dell’Istituto Mario Negri di Milano, mette a fuoco cosa non funziona in Europa. “Il dossier per la registrazione del farmaco presentato all’Ema è frutto delle industrie, che producono e vogliono vendere il farmaco: questo è uno dei più evidenti conflitti di interesse. Un ente super partes dovrebbe eseguire almeno una parte degli studi clinici”. Altra opacità. “Il prezzo viene deciso dall’industria. È vero, l’Aifa lo negozia sulla base del rapporto costo/benefici ma come si calcola il beneficio? Ci sono cure da 20 mila euro che allungano la vita di pochi mesi ma ne peggiorano la qualità perché tossici, ha senso spendere così tanto per così poco?”. Infine, il peso del marketing: “Incide circa del 30%. Ma le aziende tengono segreti i dati”.

il Fatto 16.6.14
L’esperta
Le malattie rare non fanno gola a Big Pharma
intervista di Chia. Da.


Le malattie rare non fanno gola a Big Pharma. Oltre duemila potenziali farmaci, detti “orfani” (perché non sono immessi nel mercato), potrebbero curarle ma sono 72 quelli autorizzati dall’Agenzia del farmaco europea (Ema), di cui appena 55 sono disponibili sul territorio italiano. Degli altri, le case farmaceutiche non hanno ancora presentato all’Aifa la richiesta per la messa in commercio.
Per esempio, l'Ivacaftor (nome commerciale Kalydeco prodotto dalla Vertex) per la fibrosi cistica, autorizzato dall’Ema nel luglio 2012, in Italia è irreperibile. Oppure il Crizotinib, (Xalkori) registrato e venduto dalla Pfizer per il tumore al polmone, ma altrettanto efficace contro il linfoma Alk, come dimostrano gli studi clinici dell’equipe guidata dall’ematologo Carlo Gambacorti al San Gerardo di Monza, uno degli otto centri al mondo impegnati nella sperimentazione del farmaco. Le malattie rare riconosciute sono tra settemila e ottomila. In Europa ne soffrono 30 milioni di persone, di cui tre milioni in Italia. Il mercato quindi potrebbe non essere interessante per l’azienda, che si difende dicendo che le sue priorità sono altre. La spesa che grava sulla finanza pubblica è comunque elevata: 670 milioni di euro all’anno. Una cura con farmaci biologici (cioè sviluppati grazie all’ingegneria genetica) arriva a costare anche 40 mila euro all’anno a paziente per tutta la vita. Domenica Taruscio, che dirige il Centro nazionale malattie rare dell’Istituto superiore di sanità, spiega l’origine di un paradosso.
Fino a che punto è lecito per l’industria farmaceutica fare profitto sulla vita e la morte di una persona?
Il farmaco non è una merce qualsiasi. Un rossetto è un rossetto, un foulard è un foulard, un anello è un anello. Averlo o non averlo è una questione di migliorare il proprio aspetto, si può scegliere di comprarlo o di farne a meno. Un farmaco invece non si sceglie, è una necessità. L’accesso ai farmaci per tutti i cittadini è un diritto. Certo, il farmaco non può non avere un prezzo, ma il valore economico del principio attivo non potrà mai corrispondere al valore dell’esistenza di una persona. L’azienda non deve mai dimenticare la natura etica del suo lavoro.
Perché le aziende del farmaco non investono nella ricerca delle malattie rare?
La scusa che servono a poche persone è un falso problema. La base genetica di queste patologie renderebbe gli stessi farmaci adatti a più prescrizioni, moltiplicando quello che le aziende e gli esperti di marketing chiamano il target. La cosa peggiore è quando il farmaco off label, cioè usato fuori dalle indicazioni terapeutiche del foglietto illustrativo, viene ritirato dal mercato e la persona non ha alternative terapeutiche. Il nostro centro ha attivato un servizio di denuncia: basta mandare una mail all’indirizzo farmaciorfani@iss.it   indicando nome del prodotto e ditta.
In Italia se a una persona viene diagnosticata una malattia rara a ottobre, rischia di ricevere le prime cure dopo sei mesi perché l’ospedale è a corto di budget. Oppure deve trasferirsi in un'altra regione.
Un dramma. Fra due giorni verrà presentato il Piano nazionale delle malattie rare, finora precario, che definirà una strategia di intervento comune e pianificherà le attività.

il Fatto 16.6.14
Cosa mi hanno iniettato?
Quell’insostenibile insonnia da cavia
di Antonio Morabito


Di nuovo non ho dormito. Sceso per strada, maglietta spiegazzata, capello dritto, verso il solito bar equivoco, inequivocabilmente per il cappuccino di fine nottata insonne. Succede troppo spesso ormai, insonnia e mal di testa. Mi do ancora una settimana, poi li richiamo, quei bastardi. Giro l’angolo, il sole bassissimo, appena dietro la tettoia del binario dodici. Bello. Attraverso e entro.
Da dietro il bancone il barista ossuto e rigato da vene che dovrebbero correre su un corpo grande il doppio cerca di essermi amico, non mi vuol dare lo strudel ma la sfoglia alle mele. Non capisco, anche se lui continua a guardarmi. Aveva ragione, lo strudel fa schifo. Lo mangio quasi tutto, mentre un ubriaco magrebino sta portando avanti una discussione con la sua bottiglia. Scommetto che farò prima io ad uscire che lui a convincerla. Compro le gauloises rosse. Questo bar è comodissimo, sta aperto tutta la notte e vende tutte le sigarette che possono interessare un avventore appena uscito dalla stazione e venuto da chissà dove. Il Señor Lopez può trovare il suo pacchetto di Popular Tobaco Nigro, aspettare il primo treno per Fiumicino Aeroporto, e tornare al suo taxi anni cinquanta de L'Habana spipettando fumo amico. Dorota Pascataru può passare di qua, comprare le bianchissime Ronhill Superlight e cominciare a lavare le scale di via Ostiense ventidue aspirando fumosi ricordi di quando si laureava in Economia all’università di Bucaresti, tesi sulla scala mobile nell'Italia del '77. E mentre uscendo considero che fumo la marca più comune, le fiatpanda del tabagismo, le allstars della dipendenza, noto con soddisfazione che ho vinto la scommessa: la bottiglia sembra ancora perplessa. Mi fa male la testa. Neanche oggi riuscirò a studiare. Io non ho mai sofferto di mal di testa. Ma perché ci sono tornato? Ora mi passa. Mi passa. Mi do ancora una settimana, se non mi passa li denuncio, quei bastardi. Accendo la sigaretta poco prima del ponte, per poter indugiare indifferente e spizzare due romene sedute sul guard rail. Forse sono prostitute. Forse una si chiama Dorota Pascataru. Ormai il sole è abbastanza alto, comincia a darsi delle arie, lo preferivo prima. Indispettito dal sole arrogante, mi tuffo in via Matteucci, ancora una volta pensando con rabbia a martedì scorso, a quel medico qualcosa non è andato come doveva, meglio interrompere il test, nulla di grave capita. Neanche mi hanno pagato per intero, visto che non ho terminato. La prima volta era andata meglio. Millequattrocento euro per stare cinque giorni a non far niente. E lanciarsi in questa follia col Paolone era stato pure divertente. La macchina di notte, la frontiera, la clinica. Corridoi immacolati, belle stanze, mica i nostri ospedali. Colloquio col reclutatore: nessun rischio. Esame urina, esame sangue. Si procede con la prima flebo. Comodo fare la cavia, stai a letto tutto il giorno, non puoi uscire dalla clinica. Guardi la tivù, leggi, scherzi, dormi. Pieno di italiani, non è un secondo lavoro per svizzeri. Professione cavia. - Buongiorno, sono commerciante e cavia. - Salve, io impiegato e cavia. Lei com’è arrivato qui? - Uno studente, lui campa così. E lei? - Pensi, a me l’ha detto un medico. E giù esami, esami, esami. Sbalzi di pressione, caldo, freddo, febbriciattola, euforia, sonnolenza. Tutto controllato. “Effetti collaterali praticamente nulli. Non ci sono rischi”, dicono. Però poi alcuni non arrivano a finire il test. Test lo chiamano, volontari sani ci chiamano. Certo era sano il tipo di Como. E se non è un effetto collaterale riempirsi di bolle sulle palpebre allora io sono il papa. Poveraccio, ma che c’aveva da sorridere sempre? Quello è uno che il camice lo venera a prescindere. Militari, clero e medici. Veneriamoli, come i nostri nonni, ora come allora. Stavolta è toccata a me. Ha fatto bene Paolo. Perché io non sono così? È capace d’imparare da ciò che vede, lui. Io solo da quello che vivo sulla mia pelle. In stanza con quel ragazzo c’eravamo tutti e due. Noi stavamo bene, lui no. A Paolo è bastato, non ne ha più voluto sapere, io invece sono tornato a fare queste porcherie. Perché sono tanto idiota? No. No così no. Non devo fare così. Calma. Devo solo restare calmo e non diventare paranoico. Stavolta sono io che non ho finito la sperimentazione. Può succedere. Non significa nulla, non significa che sono contaminato da chissà cosa. Eppoi in 90 giorni torno pulito. Così hanno detto. C’è un’assicurazione, dei testimoni, una transazione di denaro registrata. Bella fregatura, tre giorni per solo quattrocento euro. Ne accendo un’altra, giusto per fumare mentre mi preoccupo per la mia salute. No, non l’accendo. Voglio tornare a casa e cercare di dormire. Davanti all’ascensore rotto mi ricordo che oggi è impossibile farsi issare in cima al settimo ramo dell'albero, mi tocca arrampicarmi per le scale.
Mentre salgo mi dico che devo stare tranquillo, gli esperimenti più rischiosi li fanno in Africa, in India, non in Europa (secondo piano), che come me ci sono migliaia di ragazzi che si fanno iniettare farmaci sperimentali per pagarsi gli studi (terzo piano), che ero in mezzo a fior di dottori, mica saranno davvero così corrotti da mettere a rischio la salute di gente sana per gli interessi loro e di qualche farmaceutica (quarto piano), che i fogli che mi hanno fatto firmare non sono una trappola (quinto piano), che magari quest’insonnia non è dovuta al Deltabitofene che ho ancora in vena, che ai sei ragazzi di Londra non si è triplicata la dimensione della testa dopo l’assunzione volontaria di un antinfiammatorio, che nessun chirurgo ha mai operato inutilmente e solo per soldi, che la clinica degli orrori non è mai esistita, che gli informatori scientifici non corrompono più i medici, che i medici non hanno interesse a prescrivere i farmaci, che Farmatruffa, Derma affare fatto, Do ut Des, Farmamarket, sono tutte invenzioni dei complottisti, che mio zio non ha dovuto allungare tremila euro avvolti in un calzino alla segretaria di un primario di Roma per farsi curare gli occhi (settimo piano). È così, è così, devo stare tranquillo. Mi sono fatto usare come cavia, adesso posso pagare l’affitto, anche se mi hanno dato meno soldi. Ero in mezzo a medici. È andato tutto bene. È andato tutto bene. Siamo in Europa, siamo in Occidente, siamo nel Nord del Mondo. È andato tutto bene. Entro in casa, ho sete. È andato tutto bene. Forse bevendo mi passa questo cazzo di mal di testa.

La Stampa 16.6.14
Il soldatino di Neruda
L’intervento dell’autore algerino al festival Letterature di Roma
“Quand’ero cadetto, alla scuola militare, preferivo i versi alle armi E ancora oggi scrivo perché il poeta resusciti in ciascuno di noi”
di Yasmina Khadra


La prima volta che ho sentito parlare di Pablo Neruda è stato all’inizio degli anni Settanta alla scuola cadetti di Koléa – una scuola militare, inizialmente destinata ad accogliere gli orfani della guerra di Liberazione, poi aperta ai figli degli ufficiali e infine a tutti i giovani algerini. Disponevamo di professori di prim’ordine, perché il regime ci teneva a fare di noi l’élite del domani. Tra i nostri insegnanti c’era un rifugiato politico spagnolo di nome Dingra. Era un tipo schivo e mingherlino, sempre riservato, quasi scialbo, ma quando ci parlava di Pablo Neruda nei suoi occhi si accendeva il sacro fuoco della passione. Nutriva una venerazione assoluta nei confronti del poeta. Benché si professasse ateo, per lui Neruda era più che un profeta, era una divinità a tutti gli effetti.
Tra noi cadetti, io e qualcun altro preferivamo i versi alle armi. Nelle ore libere andavamo nella foresta che circondava la scuola, e lì, nascosti nel folto degli alberi, aprivamo i nostri libri e sparivamo dal pianeta. Viaggiavamo su tappeti volanti attraverso universi romanzeschi, fremendo insieme ai personaggi e dissetandoci alla fonte di belle citazioni, folgorati da improvvise illuminazioni. Ma erano letture individuali, vivevamo la passione letteraria ciascuno per proprio conto. A volte però ci capitava di condividere qualcosa, per esempio la poesia. Mi ricordo che improvvisavamo veri e propri certami al riparo degli alberi e declamavamo versi a squarciagola facendo scappare gli uccelli.
Le poesie di Pablo Neruda tornavano spesso nelle nostre scelte. Per la semplice ragione che in quell’epoca di rivoluzioni eravamo più affascinati dall’impegno militante che dalle rime melodiose. Neruda era una sorta di mentore che dava spessore ai nostri giuramenti di soldatini. Adoravamo la sua lucidità capace di risvegliare le coscienze e nutrivamo il suo stesso disprezzo nei riguardi della stupidità e dell’insensatezza. All’epoca sognavo di diventare poeta. Ogni volta che aprivo una raccolta firmata Neruda mi ritrovavo a cercarvi non il suo genio, ma la via d’accesso alla mia maturità. Neruda faceva cadere le maschere, mandava in frantumi i pregiudizi, demistificava i preconcetti e ci istruiva sulla realtà degli uomini e delle cose con strabiliante imparzialità. Non gli piaceva l’ipocrisia, svelava l’inconsistenza delle vanità, riconduceva gli Icari sulla terra, ricordava a tutti quanti la necessità di essere se stessi in ogni circostanza e di trovare la propria strada nelle avversità.
Credo che la mia fede nell’Uomo venga da Pablo Neruda. Forse perché ai miei occhi incarnava la quintessenza della saggezza. Era sincero come il giuramento di uno scout, e nello stesso tempo aveva una forza di carattere inaudita. Le sue poesie non andavano recitate, ma intonate come inni. Là dove metteva il dito, le piaghe si cicatrizzavano. Neruda aveva il dono del Cristo, resuscitava in noi i sogni morti. È grazie a lui che conservo vivi i miei sogni. C’è da dire che nell’Algeria degli anni Settanta tutti i sogni erano permessi, nessuna sfida ci intimidiva. Eravamo giovani e pieni di speranze per il nostro Paese, e prendevamo per oro colato qualsivoglia mirabolante promessa. Come dubitare del futuro, se Neruda ci iniziava alle trappole che ci aspettavano, fornendoci le armi per sventarle? Era il tempo delle anime pure, della parola sacra e dei gesti generosi. Ogni verso di Neruda suonava come un versetto.
Che dire invece del mondo di oggi? Che cosa è rimasto dell’eredità lasciata dal poeta? Domande a cui si può rispondere solo con un sospiro. Quando se n’è andato, Neruda ha portato via con sé la magia del verbo, la rettitudine d’intenti e il codice del fattore umano. Oggi il genio è sospettato di tutti i mali, il talento viene messo in quarantena e i certami oratori riecheggiano di spudorate adulazioni e reciproci scambi di favori. Il mondo dei poeti è pieno di lettere all’antrace e di lettere di credito; le luci della ribalta illuminano i ciarlatani e oscurano il vero talento per farlo marcire nel buio. Ormai i network e le lobby hanno soppiantato l’Accademia: sono loro a decidere che cosa è bello e che cosa è brutto – stiano in guardia i cantori imprudenti.
Qual è dunque il posto dell’Uomo in un mondo in cui il poeta è morto? Che cosa ci si può aspettare dalle coscienze se sono incarnate da chi non ne ha?
«Scienza senza coscienza è solo rovina dell’anima» recita l’adagio. Che dire allora dell’uomo senza coscienza e senz’anima se non che rappresenta la fine dei sogni e dei risvegli? Che senso ha il mondo, se il suo centro è privo di consistenza, se il pedante soppianta l’erudito, se la consorteria ha la meglio sul talento? Dopo aver imparato a guardare la Luce negli occhi, imparo a diventare daltonico. Ciò che ho amato dell’uomo ora mi angoscia e mi deprime. Credevo nella bellezza delle cose, oggi i lifting e i travestimenti si arrogano la dignità del sublime. La menzogna cadenza la marcia inesorabile delle derive, il chiasso occupa abusivamente lo spazio dell’intelletto e nel silenzio dei poeti echeggia la cacofonia degli uomini.
L’Umanità ha barattato le proprie responsabilità con una miserabile rinuncia. Si adatta a ciò che le conviene e allontana ciò che la disturba. Da quando ha affidato il proprio libero arbitrio ai ciarlatani non è più in grado di difendere alcun valore. Si nutre di calunnie come i fallimenti si nutrono del vizio. L’autodafé la esalta come un fuoco di bivacco e il martirio dei suoi prodigi non la commuove più.
No, l’uomo non è più l’agente aggregante delle sue aspirazioni. Non è più l’asse attorno al quale gravitano le sue speranze. Ha voltato le spalle al poeta per guardare in faccia la notte.
Poiché mi rifiuto di essere un semplice ostaggio di preconcetti, poiché non sopporto di somigliare a una ritrattazione, poiché mi vieto di credere anche solo per un istante che le brutture siano più forti della bellezza, ho scelto di essere poeta. Se i miei versi sono insignificanti, la fiamma che mi arde dentro basta a rendermi felice. Non lascerò che sia la mediocrità a decidere della mia sorte.
Allora scrivo… Scrivo con la forza della disperazione… Scrivo con le mie viscere… Scrivo per mantenere vivi gli ultimi barlumi che ci restano, perché la Valle delle tenebre non ci assorba come una spugna funesta. Scrivo per resistere alle turbolenze di un’epoca ingrata e pericolosa, per continuare a credere, a dispetto delle tante delusioni, che niente è definitivamente perduto.
Scrivo perché l’uomo torni a essere il cuore del suo mondo.
Scrivo perché il poeta resusciti in ciascuno di noi.
Per me Neruda è il faro che continuerà a illuminarmi quando oscure trame cercheranno di indurmi al vizio. Mi rifiuto di rinunciare ai canti che hanno cullato la mia adolescenza, mi rifiuto di pensare che quella malia non tornerà più. A volte, tra le mie fibre sensibili, mi capita di percepire il tocco del poeta e mi dico che, dopotutto, la gioia è una mentalità e che ogni persona sulla faccia della Terra è posta davanti a una scelta: essere il becchino dei propri sogni o l’artefice della propria felicità. Chi avrà scelto il poeta come guida saprà trovare all’inferno la sua parte di paradiso.
[Traduzione di Marina Di Leo]

Corriere 16.6.14
Afropolitan domani al Festival di Roma: insieme con l’algerino Yasmina Khadra


Alain Mabanckou è domani ospite di Letterature Festival Internazionale di Roma, alle 21 in piazza del Campidoglio (in caso di pioggia al Teatro Argentina). Lo scrittore congolese partecipa all’incontro «Afropolitan» con Yasmina Khadra (pseudonimo femminile dello scrittore algerino Mohamed Moulessehoul) e Stefano Benni; musiche dei percussionisti del Conservatorio di Santa Cecilia diretti da Gianluca Ruggeri. Dopo Roma, Mabanckou sarà a Padova (il 18) e a Bassano del Grappa (il 19). Le luci di Pointe-Noire è uscito per le edizioni 66thand2nd (traduzione di Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco, pp. 256, e 17). Lo stesso editore ha pubblicato alcuni dei precedenti lavori: Zitto e muori (2013) Domani avrò vent’anni (2011) e Black Bazar (2010). Altre sue opere tra cui il premiato Memorie di un porcospino sono uscite per Morellini.

l’Unità 16.6.14
Wu Ming, storie tra strada e archivio
Ecco uno dei motti di riferimento del collettivo di scrittori bolognesi
di Wu Ming 1


FIN DAGLI ESORDI UNO DEI NOSTRI MOTTI È: «RACCONTARE LE NOSTRE STORIE CON OGNI MEZZO NECESSARIO». Solitamente queste storie le peschiamo dai «luoghi oscuri», dai coni d’ombra e dai rimossi della storia (nazionale ma non solo), e/o le troviamo interrogando le cicatrici del paesaggio. Un altro nostro motto è: «Stare tra l’archivio e la strada». Su quel materiale ci sforziamo di esercitare uno sguardo il più possibile «obliquo», sghembo, spiazzato.
Se di fronte alla storia ci limitiamo alla visione frontale, quella di primo acchito, inerziale, che avviene by design, della storia non vedremo che il monumento, ovvero ciò che è stato selezionato per produrre una retrospezione «ispirante» e dunque rosea. La storia monumentale vorrebbe dirci che «la grandezza, un giorno esistente, fu comunque possibile e perciò sarà anche possibile di nuovo; (l’uomo) percorre più coraggioso il suo cammino, poiché ora è sgominato il dubbio, che lo afferra nelle ore di maggior debolezza...» Sto citando dalla seconda delle Considerazioni inattuali di Nietzsche, che subito dopo avverte: «Quanta diversità dev’essere al riguardo ignorata (...) Come violentemente l’individualità del passato deve essere compressa a viva forza entro una forma universale e smussata, ai fini della concordanza, in tutti gli spigolosi angoli e linee!» Un monumento vuole sempre raccontarci una sola storia a scapito di tante altre, imporre un unico punto di vista su tanti altri.
Faccio un esempio che conosco bene, essendo ormai triestino d’adozione: se andiamo a Basovizza, presso la più celebre delle «foibe» (che in realtà foiba non è, trattandosi di un pozzo minerario), e quivi rimiriamo il monumento, eccoci esposti a un racconto unico, quello dei «barbari slavocomunisti » e delle «vittime italiane», uccise - come vuole la più banale delle vulgate - «solo perché italiane». L’Italia è un paese incapace di raccontarsi se non come vittima, gli italiani sono sempre innocenti, nella tragedia hanno un ruolo e non è consentito che ne interpretino altri, lo dimostrano le vicende del film Il leone del deserto e del documentario Fascist Legacy. Cosa viene rimosso dal monumento a Basovizza, come del resto da tutti i monumenti dedicati ai «martiri delle foibe»? Viene rimossa l’intera storia del confine orientale dalla Grande guerra al maggio 1945: l’italianizzazione forzata, l’esproprio delle terre di sloveni e croati, l’invasione nazifascista della Jugoslavia, i crimini di guerra del Regio Esercito, la trasformazione di Lubiana in un grande campo di concentramento, l’annessione di Trieste e dintorni al Terzo Reich... Tutti «spigolosi angoli e linee» che è meglio far scomparire. L’esempio è estremo, ma non c’è monumento che non faccia questo, anche partendo dalle migliori intenzioni. Quanti monumenti alla Resistenza risultano bolsi, tronfi, ridondanti, e finiscono per allontanare quell’esperienza trasformandola in cliché?
Tuttavia, se un monumento lo aggiriamo, può capitarci di scoprire una storia diversissima, una storia alternativa. Non la consueta, banalissima, «storia nascosta», esoterica, occulta, quella che piace ai complottisti, ma la storia del conflitto che viene ogni volta rimosso, del molteplice ricondotto a forza all’Uno. Non c’è «smussatura» che possa cancellare il molteplice, perché è insopprimibile. In ogni società e fase storica il conflitto è endogeno, endemico, inestirpabile, e basta davvero poco perché l’Uno torni a essere (come minimo) due.
(...) Molti lettori si sono fermati ai nostri romanzi storici di gruppo, da Qad Altai, ma è nell’altro filone - meno seguito - che hanno avuto luogo le sperimentazioni importanti e fondative. Sperimentazioni che hanno influenzato il nostro ultimo (in tutti i sensi) romanzo storico, L’Armata dei Sonnambuli, nel cui «quinto atto» irrompe il perturbante e si realizza la convergenza dei due percorsi. Abbiamo cercato di raccontare la Rivoluzione francese aggirandone il monumento (peraltro abbandonato e pieno di sterpaglie), il contromonumento reazionario (la solfa sulla povera Maria Antonietta, su Robespierre assetato di sangue e così via) e l’antimonumento revisionista eretto a suo tempo da Furet e dai Nouveaux Philosophes, che è forse la costruzione più impositiva e mononarrativa di tutte. Se il contromonumento reazionario ci dice che la Révolution fu crudele, asserzione a cui si può sempre rispondere con un plebeo «Grazie al cazzo!», l’antimonumento revisionista ci dice che la Révolution fu inutile, ed è un enunciato ben più pericoloso. Noi abbiamo cercato di mettere in campo il molteplice, le diverse rivoluzioni dentro la Rivoluzione. Fino al quinto atto si può credere di aver letto un «semplice» romanzo storico (per quanto selvaggio e plurilingue esso sia), poi nel quinto atto succede qualcosa...
Da anni ci muoviamo in una terra di nessuno tra il «romanzo di non-fiction», la saggistica, il giornalismo, la poesia, il travelogue e chissà cos’altro. La tradizione è qualcosa che si sceglie, e noi rivendichiamo il carattere distintamente italiano della nostra «non-fiction creativa». La storia della letteratura italiana, per quanto possa sembrare strano, è in larga parte una storia di non-fiction scritta con tecniche letterarie, o di ibridazione tra fiction e non-fiction. (...) Dal nostro laboratorio, nel 2010, è uscito Il sentiero degli dei di Wu Ming 2. Si tratta di un romanzo di viaggio composto da racconti collegati tra loro, e al tempo stesso è - a tutti gli effetti - una guida per escursionisti con tanto di mappe, foto, consigli, indirizzi e contatti utili - e simultaneamente, senza soluzione di continuità, una controinchiesta su com’è stato deturpato e devastato l’Appennino tosco-emiliano. Ci sono tutti i danni e gli scempi causati da Tav e Variante di Valico. Qualche tempo dopo sono usciti il «romanzo meticcio» Timira, diWu Ming 2 e Antar Mohamed, e Point Lenana, scritto da me e Roberto Santachiara. Questi ultimi due libri, usciti rispettivamente nel 2012 e nel 2013, compongono un dittico: entrambi affrontano il nostro rimosso post-coloniale, l’amnesia selettiva della nazione, i crimini del colonialismo italiano in Africa, anche se non parlano solo di questo. Point Lenana racconta il nazionalismo italiano, il fascismo, le guerre mondiali, le vicende del confine orientale, facendo passare ogni raggio attraverso un particolare prisma, quello del rapporto tra gli italiani e la montagna. È anche un libro sull’alpinismo, e sulla sua dimensione politica. Tommaso De Lorenzis lo ha definito «il risultato più estremo del lavoro di Wu Ming sull’ibridazione dei tipi testuali», ed è vero che abbiamo utilizzato tutte le tecniche che ci venivano in mente, tutti i tropi della scrittura saggistica, narrativa, lirica... In realtà in L’Armata dei Sonnambuli andiamo oltre, solo che la faccenda è più sottile.
In fondo a molti nostri libri c’è una sezione chiamata Titoli di coda, dove segnaliamo le nostre fonti, elenchiamo le letture fatte, i viaggi, gli archivi consultati. In un certo senso «rilasciamo il codice sorgente del libro», affinché il lettore possa intraprendere un suo percorso di approfondimento, o andare alla deriva, oppure fare verifiche, fact-checking, «ingegneria inversa». Sebbene anche nei Titoli di coda le narrazioni proseguissero, il titolo e un certo salto stilistico li collocavano fuori dalla cornice del testo principale. Erano un addendo, un’appendice. Invece, in L’Armata dei sonnambuli, i titoli di coda sono diventati il quinto atto dell’opera. Li abbiamo portati dentro la cornice del romanzo. Manzoni chiama «Introduzione» la parte iniziale de I promessi sposi, ponendola fuori dall’intelaiatura del romanzo, ma quel testo è dentro la finzione dell’opera, l’estratto del documento secentesco è invenzione, è scritto imitando l’italiano di duecento anni prima. Oggi siamo smaliziati, sappiamo bene che quello stratagemma narrativo è frequente nel romanzo storico (...). Oggi sappiamo anche distinguere il documento simulato dai documenti realmente reperiti negli archivi (le grida contro i bravi riprodotte nel primo capitolo). Anche i famosi «venticinque lettori» a cui Manzoni si rivolgeva erano smaliziati e in grado di cogliere la finzionalità e lo stratagemma, perché Manzoni lo riprendeva da Cervantes e Walter Scott. Il romanzo, dopo un lungo periodo di estrema «elasticità» nel definirlo, aveva da tempo trovato la propria forma e andava formando il proprio canone. Tempo addietro, la confusione tra fiction e non-fiction era frequente: nel 1719 De Foe aveva pubblicato il Robinson Crusoe spacciandolo per storia vera. È una volta terminata la confusione, una volta che il romanzo conquista la distinguibilità da altre forme, che può interrogarsi a fondo e con rigore su tale distinguibilità, e quindi sui confini tra fiction e non-fiction. Su questo Manzoni rimane un punto di riferimento, anche oggi, nell’era della testualità «liquida», dell’archivio infinito, della radicale prossimità e reciproco, rapidissimo interpellarsi di autori e lettori.
Il quinto atto de L’Armata dei sonnambuli non è chiamato «quinto atto» a caso, ma per segnalare che siamo ancora dentro la cornice del romanzo: gli scrittori entrano nel romanzo, il gioco prosegue e il lettore è sfidato a compiere le proprie esplorazioni, per capire dove passano i confini dopo la nostra ibridazione di archivio e finzione. Ci rivolgiamo a lettori partecipi e attivi, ai lettori «smaliziati» di oggi. Pensando a loro, abbiamo cercato di scrivere un libro che fosse pieno di bombe a tempo, di mine che esplodessero solo al secondo o terzo passaggio. Un libro che, una volta terminato, prima o poi chiamasse alla rilettura, grazie all’ultima parte «perturbante». Siamo lieti che questo stia succedendo. Quella che vogliamo far detonare è la consapevolezza del molteplice, contro ogni «smussatura» mononarrativa. L’alternativa all’imposizione di una storia è raccontarne mille altre possibili. (...)

La Stampa 16.6.14
La British Library mette online i tesori letterari di William Blake e Oscar Wilde
Sono consultabili gratuitamente 1200 tra libri, manoscritti, stampe e documenti del Romanticismo inglese e dell’età vittoriana
di Richard Newbury

qui

il Fatto 16.6.14
Quell’Arco che unisce l’Italia
di Tomaso Montanari


DALLA VAL D’AOSTA ALLA CAMPANIA
Cosa unisce Aosta e Benevento, divise dai chilometri, dalla lingua, dal clima? Le unisce la presenza, in entrambe, di un arco onorario: i monumentali giocattolo che nacquero a Roma e che gli imperatori diffusero in tutte le province. E anche questo nesso diretto tra Aosta e Benevento - ma potremmo dire tra Rimini e Susa - ci aiuta a ricordare perché siamo diventati italiani.
Gli archi sono simpatici perché sono dichiaratamente inutili. Sì, certo, spesso lungo la loro storia millenaria sono stati collegati alle mura delle rispettive città, e quindi trasformati in porte: succede proprio a Benevento, dove l'Arco diventa, durante il regno dei Longobardi, la Porta Aurea. Ma non sono nati con una funzione pratica, bensì con una vocazione simbolica, celebrativa, rappresentativa. Si costruiva un arco non per fare qualcosa, ma per dire qualcosa: con il linguaggio dell'architettura e della scultura. Una poesia, non una prosa.
L'Arco di Benevento fu fatto costruire (tra il 114 e il 117 dopo Cristo) dall'imperatore Traiano, e fu terminato sotto Adriano. Sorge dove partiva una specie di autostrada antica, che permetteva di arrivare più velocemente a Brindisi, e dunque in Grecia: una strada voluta proprio da Traiano, che attraverso l'arco ricordava se stesso ai viaggiatori grati.
Le storie scolpite sull'arco non raccontano minutamente le imprese dell'imperatore (come invece succede nella grande colonna di Roma: la Traiana, appunto), ma ne rappresentano le virtù. Molto tempo dopo, Gian Lorenzo Bernini disse che gli edifici sono il ritratto dell'anima dei principi: ecco, nel caso dell'Arco di Benevento questo è vero letteralmente. Si può dire che è un grande ritratto dell'anima di Traiano, quell'anima che sembrò tanto giusta e nobile che Dante la collocò nel Paradiso anche se apparteneva ad un imperatore pagano.
Intendiamoci, non tutti erano convinti che fosse giusto esaltare così tanto un uomo come gli altri. Un po' prima che fosse costruito l'Arco di Benevento, Plinio scrisse che gli archi erano una trovata moderna che esaltava fino al cielo, sopra tutti gli altri mortali, un cittadino romano. Da come lo dice, non pare che ne fosse entusiasta. Oggi sarebbe contento, Plinio: perché l'Arco di Benevento non parla più solo della sovranità di Traiano, ma esalta quella di ogni cittadino italiano, per povero e piccolo che sia. Dopo la Costituzione, quell'Arco rappresenta anche il trionfo della Repubblica sulla diseguaglianza e sull'ingiustizia sociale. E forse anche Traiano il Giusto, da qualche parte, è contento.

Corriere Economia 16.6.14
Pompei: ora i soldi ci sono, i lavori ancora no
Nulla è stato fatto e a fine 2015 andranno restituiti i foindi
di Sergio Rizzo


Li aspettavamo come una manna dal cielo, quei soldi per Pompei.
Ricordate le polemiche su quell’assurdo commissariamento che aveva distribuito 105 mila euro perfino per censire 55 cani randagi e dotare ciascuno di loro di relativa pagina web mentre il sito archeologico andava in malora? Censirli, sia chiaro: non farli traslocare. Tanto che un mese fa sono dovuti accorrere fra i turisti gli accalappiacani. E ricordate il coro di indignazione che si levò dalla stampa mondiale quando venne giù la famosa scuola dei gladiatori? Ricordate poi il lamento di esperti e soprintendenti perché non c’erano quattrini, dopo tutti quelli che erano già stati spesi e sprecati?
Ebbene, i quattrini un giorno finalmente arrivarono. Il 29 marzo del 2012 l’Unione europea approvò un finanziamento di 105 milioni per il Grande Progetto Pompei , un piano d’interventi che era stato messo a punto quasi un anno prima, nel giugno del 2011 quando al ministero dei Beni culturali c’era ancora Giancarlo Galan. Tutto scritto, firmato, protocollato. Mai di milioni se n’erano visti tanti. Così, magari per paura di fare indigestione, per due anni nessuno li ha toccati. Fino a quando qualcuno ha dato un’occhiata al calendario realizzando che il tempo passava velocemente. E la data entro la quale i fondi comunitari si sarebbero dovuti tassativamente spendere pena il definanziamento del progetto, il 31 dicembre 2015, si avvicinava a grandi falcate. Al soprintendente degli scavi Massimo Osanna, arrivato lo scorso mese di marzo, non è rimasto dunque che lanciare l’allarme: «Serve una proroga dall’Europa. Sarà impossibile completare i lavori entro il prossimo anno».
Ma invece della proroga è arrivato un decreto legge con dentro una sorpresina, sotto forma di una pioggia di deroghe. Un classico, per il nostro sistema degli appalti. Siccome si è perso un sacco di tempo senza fare un bel niente e adesso bisogna fare in fretta, ecco spuntare le misure straordinarie. Di che tipo? In questo caso il meccanismo per accelerare i lavori è stato l’innalzamento della soglia al di sotto della quale si può ricorrere alla cosiddetta procedura negoziata, che assomiglia tanto alla trattativa privata. Più o meno quello che è stato fatto con il controverso commissariamento, sfociato fra l’altro in una inchiesta sui lavori di restauro del Teatro Grande, con lo scandaloso impiego di cemento e mattoni. Inchiesta che ha portato al rinvio a giudizio della titolare della ditta che ha eseguito i lavori, Annamaria Caccavo, nonché del commissario Marcello Fiori, già stretto collaboratore di Francesco Rutelli, spedito a Pompei dall’ex ministro Sandro Bondi, e successivamente nominato coordinatore nazionale dei club «Forza Silvio».
Il limite è stato portato dal decreto «cultura», come quel provvedimento è stato battezzato, a 3,5 milioni. Risultato: secondo una stima che hanno fatto gli esperti dell’associazione costruttori, il 91 per cento delle opere infrastrutturali, per un importo pari al 75 per cento del totale, verrà appaltato al di fuori degli ordinari meccanismi concorrenziali.
Sarà questo il caso dei lavori di restauro della Casa di Giulia Felice (1.050.071 euro), della Casa di Sirico (1.822.990 euro), della Casa del Marinaio (1.589.912 euro) e della Casa dei Dioscuri (1.769.002 euro). Per non parlare della quasi totalità delle opere di messa in sicurezza.
Così il copione si ripete, fra furti di affreschi (tre mesi fa nella Casa di Nettuno) e di mosaici («volevo un ricordo», ha detto ai carabinieri il turista georgiano dopo essere stato pizzicato), cani randagi e liquami che escono dai punti di ristoro (l’ha denunciato la Cisl il 12 giugno), il copione si ripete. C’è almeno da sperare, con esiti diversi da quelli della rappresentazione precedente. Del resto, che cosa avrebbe potuto fare di tanto diverso l’attuale governo di Matteo Renzi per metterci una pezza? E quello precedente di Enrico Letta, che ci ha messo dieci mesi per passargli la patata bollente? E quello ancora precedente di Mario Monti, che dopo aver incassato il via libera ai finanziamenti europei ha avuto appena un anno di tempo per porgere i nostri ringraziamenti a Bruxelles?