martedì 17 giugno 2014

l’Unità 17.6.14
Il cdr ai lettori

Sono trascorsi cinque giorni dalla decisione dell'assemblea dei soci di mettere in liquidazione la società editrice del nostro giornale. Nonostante le ripetute richieste di chiarimenti avanzate dalle rappresentanze dei lavoratori, nessuno si è fatto vivo. Non c'è alcuna certezza sul futuro de l'Unità e dei lavoratori, giornalisti e poligrafici che continuano a far uscire il giornale senza ricevere gli stipendi. L'assemblea dei redattori ha indicato ai liquidatori la scadenza ultima di giovedì prossimo per una convocazione del Cdr. In caso contrario, fin da ora è indetta una giornata di sciopero, venerdì su sabato, a sostegno della nostra battaglia. IL CDR

il Fatto Lettere 17.6.14
Le strategia di Renzi: morte della democrazia
di Giampiero Buccianti

La Democrazia è gravemente ammalata, non solo in Italia; da noi si è raggiunto l’assurdo, fatto passare per “normale”, quando dal partito “democratico” si è visto balzare al Governo un Sindaco molto disinvolto che, per prima cosa, ha fatto fuori il compagno di partito Letta. Poi, pur proclamando una molto condivisibile intenzione di risanare al più presto tutti i mali del Paese, sta perseguendo i propri progetti con metodi via, via definibili “dittatoriali”. E’ vero che sia stato votato dal 40,8%, ma di chi è andato ancora alle urne: fatti i conti, non può pretendere di avere carta bianca dalla maggioranza dei cittadini neppure alle Europee, che non sono le ”politiche”. Democrazia ammalata, là dove si continuano a votare le promesse tanto più siano di improbabile realizzazione. Renzi, cinicamente, si appoggia al personaggio ed al partito più incostituzionali d’Italia; l’esausto Napolitano mette ancora più fretta di quella che mostri il Renzi stesso: il Capo dello Stato ed il Presidente del Consiglio, per motivi convergenti, sembrano privilegiare l’urgenza dell’approvazione delle riforme molto di più del loro contenuto. Equilibri, costituzionalità e probabili conseguenze negative future per la democrazia non interessano. Una democrazia, io credo, gravemente ammalata.

La Stampa 17.6.14
Qualcuno

In Italia c’è rimasto ancora qualcuno che non sia renziano?
Jena

La Stampa 17.6.14
Vestiremo alla Renzi con la benedizione di Pitti
Oggi parte la kermesse e molte linee sembrano ispirate al premier
di Maria Corbi


Quest’anno c’è aria di festa a Pitti, che celebra la sua 86esima edizione e i 60 anni del Centro di Firenze per la Moda italiana (la holding che organizza con Pitti Immagine i saloni di Pitti). Protagonista la moda, più di mille i marchi e i grandi nomi dello stile «born» in Florence: Salvatore Ferragamo, Emilio Pucci, Gucci ed Ermanno Scervino. Grande assente Roberto Cavalli che ha promesso di esserci il prossimo anno. 
E che festa sia con la voce di Andrea Bocelli che ieri sera riempiva il nuovo teatro dell’Opera, con la nuova illuminazione del Ponte Vecchio, entrambi regali di Stefano Ricci, presidente del Centro Moda.
E oggi per l’inaugurazione ci sarà anche Matteo Renzi che ha sempre un pezzo di cuore a Firenze, città che ha governato e sul cui modello vuole riformare l’Italia. «Pitti è il paradigma di ciò che l’Italia dovrà fare», disse a gennaio il premier aprendo la scorsa edizione. E che Renzi non sia solo un ex sindaco qualunque in città lo si capisce dall’appoggio che riceve dai grandi nomi dell’imprenditoria della moda, soprattutto quelli di casa. Che lui ricambia portando nel mondo le loro griffe: per vestirsi sceglie Ermanno Scervino, Stefano Ricci, Ferragamo. Fiorentina anche la marca dei jeans, i Rifle di Fratini. 
E sarà un caso ma quest’anno molte collezioni sembrano ispirarsi a lui. Lo stile «Renzi» contagia gli stand dove prevalgono i suoi colori preferiti, il blu e i toni dell’azzurro, le giacche di lino, le camicie extra slim per fisici allenati, i pantaloni a sigaretta ma non troppo corti, i giubbotti alla Fonzie. 
Firenze Hometown of Fashion (16-20 giugno 2014) è un progetto realizzato insieme a Pitti Immagine, con il contributo straordinario del Ministero dello Sviluppo Economico e di ITA Italian Trade Agency. Sfilate e performance d’autore, installazioni e musica, mostre e proiezioni cinematografiche.
Nell’affollato programma di Pitti, l’ospite è Z. Zegna con l’anteprima il 19 alla Stazione Leopolda di una collezione disegnata da Murray Scallon e Paul Surridge, che miscela eleganza formale e sportswear, il nuovo codice del guardaroba di «lui».
La moda che guarda al futuro, che disegna nuovi scenari di gusto e sociali, ma anche che non perde di vista il passato e trae ispirazione e memoria dall’Arte e dal Cinema. Per questo ieri nel foyer del Teatro dell’Opera è stata allestita la mostra sui Costumi della Sartoria Tirelli, che quest’anno compie 50 anni. In visione un film Rai con grandi protagonisti della lirica, del teatro e del cinema italiano. 
In mostra otto capi del celebre atelier romano, tra cui il vestito del primo atto della Traviata con Maria Callas, diretta da Luchino Visconti (1955), due costumi di Gabriella Pescucci disegnati per Michelle Pfeiffer ne «L’età dell’innocenza», il vestito del costumista da Oscar Piero Tosi indossato da Silvana Mangano nel film «Morte a Venezia». «Quello tra moda e grande schermo, ma anche con il teatro, è uno scambio mutuo», dice Dino Trappetti presidente della Fondazione Tirelli-Trappetti. 
«La moda è spesso ispirata dal cinema. Quando nel 1968 Piero Tosi disegnò i costumi per “La caduta degli Dei”, tutto Anni ‘30, anche gli stilisti riscoprirono quel periodo che da allora non è più stato abbandonato: tagli sbiechi e scivolati morbidi». Insomma, tanti auguri a tutti e che Pitti abbia inizio.

La Stampa 17.6.14
Il galateo del 40 per cento
di Marcello Sorgi


Più di qualsiasi discorso, slogan o esercizio di comunicazione, vale quel 40,8% issato a cifre cubitali alle spalle di Renzi all’assemblea del Pd.
Quel numero stava a sottolineare il messaggio principale che il leader vuol mandare a un partito rimasto rissoso, come s’è visto la scorsa settimana alla Camera e al Senato, e per nulla pago dello storico risultato del 25 maggio. Renzi ha poi spiegato anche a parole, in termini piuttosto perentori, che il Pd deve abituarsi alla grande responsabilità che viene dal rappresentare una parte così ampia dell’elettorato. Come questo compito vada svolto, nell’Italia del 2014 e rispetto a una società civile spezzettata e divisa come l’attuale, però, non lo ha detto. Né è affatto facile immaginarlo.
Esempi recenti non ce ne sono. Com’è stato già osservato all’indomani delle elezioni europee, per trovare un precedente occorre risalire, nientemeno, alla Dc di Fanfani del 1958 o addirittura a quella di De Gasperi del ’48. Altri tempi, altro mondo, altra Italia, quella in cui trovarsi al 40 per cento, o anche più, voleva dire aver tutto, il presidente del consiglio ma anche quello della Repubblica e quelli delle Camere; il governo e buona parte dell’opposizione (attraversata, non a caso, da forti correnti filo-Dc); la Confindustria, i sindacati (non tutti), i datori di lavoro e i dipendenti, pubblici e privati, le banche e i banchieri, i sindaci, le città, i comuni (le regioni non c’erano ancora).
Un potere pervasivo, totalitario, un’altra forma di regime che, forse proprio perché lo avevano ereditato dal fascismo, i democristiani facevano grande attenzione ad usare in modo morbido, flessibile, aderente alle mutevoli esigenze del Paese, per segnare la differenza tra dittatura e democrazia. Erano loro i primi ad aver capito che arrivare al 40 per cento significa esser stati votati per convinzione, sì, ma anche per disperazione, nel senso della mancanza di alternative. Quando Indro Montanelli, nel ’76, consigliò ai suoi lettori di votare Dc, ma «turandosi il naso», i Dc, invece di offendersi (non era proprio un complimento), furono contenti. E si dispiacquero, al contrario, quando Gianni Agnelli che pure si erano ritrovato vicino in tante occasioni, e al fratello del quale, Umberto, avevano offerto un seggio in Senato -, si schierò con i repubblicani.
Un potere assolutamente inclusivo, nel senso della capacità di sopportare qualsiasi genere di dissenso, interno o esterno, e ascoltarlo, misurarlo, blandirlo, corrompendolo con altre quote di potere date o promesse, con rinvii (il decisionismo non era affatto di moda), capovolgimenti di scenario in cui i punti cardinali di ogni trattativa venivano ripensati, riscritti, capovolti e cancellati attraverso le liturgie dei congressi e delle crisi di governo, che ad anni alterni, ma praticamente tutti gli anni, riassestavano i valori percentuali delle correnti e quelli personali dei diversi leader.
Un potere fortissimo eppure discreto, rigorosamente mai messo in mostra e sempre condiviso con altri. Da De Gasperi che pure, nel ’48, avendo avuto la maggioranza assoluta il governo avrebbe potuto farselo da solo -, con repubblicani e liberali, che la Chiesa considerava pericolosi mangiapreti, e con i socialdemocratici, che i comitati civici e i clericali che tanto avevano contribuito alla vittoria assimilavano ai cosacchi. Da Fanfani con i socialisti. Da Moro anche con i comunisti, e da Andreotti con tutti. Mai e poi mai la Dc di quei tempi avrebbe esibito le sue percentuali, come ha fatto qualche giorno fa Pina Picierno, laureatasi tra l’altro con una tesi su De Mita, vantandosi di aver preso oltre duecentomila preferenze. La sensazione che i capi democristiani volevano dare all’esterno era sempre di sofferenza e precarietà nell’esercizio del potere. Non a caso apparivano pallidi, curvi, cagionevoli (anche se avevano una salute di ferro), sempre fasciati in abiti scuri e lisi. Di Moro, Fanfani o Andreotti non si troverà mai una foto in maniche di camicia, o in jeans, o con il colletto sbottonato.
Un potere che non gli apparteneva e che si dicevano consapevoli di poter perdere da un giorno all’altro. Infatti, benché laici, i democristiani ritenevano che il vero potere fosse quello divino e non avevano alcuna intenzione di far concorrenza al Papa e ai vescovi, che lo rappresentano in terra (a condizione, beninteso, che anche il Vaticano li lasciasse in pace). Pur facendone di tutti i colori, temevano l’inferno. Non a caso quando a Martinazzoli, ultimo leader della Dc, toccò assumersi la guida di un partito malconcio e ormai destinato allo scioglimento, in un discorso rimasto famoso, sospirò: “Dio si è girato da un’altra parte”.
Un potere da non contrapporre, senza avversari, tranne in campagna elettorale quando c’era da suonarle ai comunisti. La Dc non “scendeva in campo”, non lanciava sfide né ultimatum, evitava fino all’impossibile il muro contro muro. E infatti, la prima volta che ci si trovò, con il referendum radicale sul divorzio del 1974, cercò fino all’ultimo, con l’aiuto dei comunisti, di aggirare il voto; e quando alla fine dovette andarci, fu sconfitta. A nulla valse lo storico comizio in cui Fanfani si rivolse ai mariti siciliani, considerati più sensibili sull’argomento, ammonendoli dal rischio di ritrovarsi cornuti il giorno dopo l’apertura delle urne. E tuttavia, con un decalogo di regole del potere come quello illustrato fin qui, la Dc riuscì a restare al governo in posizione preminente per altri vent’anni, pur avendo perduto per sempre il 40 per cento, ed essendosi, negli ultimi tempi, pericolosamente avvicinata al 30.
Tutto ciò fa capire come il 40 per cento democristiano di oltre mezzo secolo fa e quello contemporaneo di Renzi e del Pd siano in realtà molto diversi. Non foss’altro perché allora a votare ci andavano quasi tutti gli italiani e oggi appena la metà. Tra l’arcifamosa «Italia del boom», oggetto di studio e di rivalutazione storica, e quella eternamente in crisi di oggi, non c’è quasi più rapporto: si fatica davvero a trovare un filo di collegamento.
Questa è anche la ragione per cui Renzi, che in quell’epoca non era manco nato, delle regole di potere, di sapienza, di discrezione, dei suoi furbissimi avi democristiani, può decidere di farne a meno. Di contraddirle, se gli va; oppure, a sorpresa, di restaurarle: chi lo sa. Il potere nel 2014 è diventato volatile. E il 40 per cento del 25 maggio non è detto che si ripeta, la prossima volta.

Corriere 17.6.14
Il premier alla «settimana decisiva»: non mollo, sono l’ultima spiaggia
di Marco Galluzzo


«M5S? Un mese fa sembrava avessi la peste, ora tutti favorevoli» ROMA — In alcuni casi li ha snobbati, non ha risposto agli inviti, ha disertato gli appuntamenti istituzionali, ma ieri pomeriggio, agli imprenditori riuniti da Confindustria in provincia di Vicenza, a Gambellara, il presidente del Consiglio ha offerto un’altra immagine di sé: «Chiedo il vostro aiuto, o lo cambiamo insieme questo Paese o non lo cambia nessuno».
Mentre Beppe Grillo per la prima volta gli offre collaborazione (ma anche un modello elettorale totalmente diverso dal suo) Matteo Renzi elenca obiettivi e un approccio diverso alla platea di imprese riunite da Giorgio Squinzi, consapevole che una collaborazione può essere virtuosa, «visto che voi siete capaci di fatti e non di chiacchiere e visto che è il momento di passare ai fatti».
Il passaggio politico offre spunti per considerare questi giorni come decisivi, «so che gli italiani non hanno votato me o per il partito, ma dicendo proviamo anche questo, è l’ultima spiaggia», e dunque il dialogo che si apre con il movimento di Grillo, quello a intermittenza con Berlusconi, le diverse anime di un Pd tentato da fratture interne, tutte queste dinamiche comunque non azzerano una convinzione del premier: il clima non è mai stato più positivo, «il risultato elettorale non lo lasciamo in frigo, non lo consideriamo un trofeo da esibire, dobbiamo trasformarlo in energia», e del resto «un mese fa sembrava che io avessi la peste, ora invece sono tutti favorevoli alle riforme».
Insomma quella che si è appena aperta, continua il premier, «è una settimana decisiva» per le riforme istituzionali, che devono avere una prima lettura parlamentare in via prioritaria rispetto alla riforma elettorale, «anche se a voi imprenditori, e giustamente, interessano poco i dettagli, ma soprattutto che voltiamo pagina, a cominciare dal bicameralismo perfetto, ereditato da una Costituente» in cui comunisti e democristiani, «e pochi lo ricordano, non riuscirono a mettersi d’accordo sulla necessità di superarlo».
Il primo a stringere la mano al premier, al momento dell’ingresso nel capannone che ospita le Confindustrie di Vicenza e Verona, è l’imprenditore vitivinicolo Vito Finato, che lo sprona a proporre l’ex ministro Paolo De Castro come commissario europeo («per noi ha sempre avuto un ruolo fondamentale»). Renzi dice semplicemente che farà «il possibile», ma non è poco.
Poi una lunga sfilza di obiettivi dei prossimi mesi, una riforma della giustizia penale «in cui vai in carcere quando sei condannato in via definitiva», entro fine luglio il decreto sblocca cantieri, contro gli ingorghi della burocrazia («le tangenti nascono non dalle semplificazioni ma da un sistema complicato»), regole diverse per le infrastrutture in Europa, tempi certi per la giustizia civile.
In questo quadro gli abboccamenti con i grillini sono soltanto sfiorati. L’incontro con i rappresentanti del movimento di Beppe Grillo potrebbe essere mercoledì prossimo, il format è ancora da decidere, ma l’unica certezza è che non ci sarà lui. Una decisione che non è una sottovalutazione, il presidente del Consiglio vuole prendere sul serio l’offerta di M5S, «non lo considero un bluff o una mossa per uscire dall’angolo», ha ragionato con i suoi.
Questo non significa che passa in secondo piano l’accordo con Berlusconi, anzi: per Renzi resta fermo e centrale il patto del Nazareno, e ovviamente maggiori saranno i contributi, più ampia la platea degli attori delle riforme «meglio sarà per il Paese». Proprio ieri lunga chiacchierata con Zaia, l’auspicio che anche la Lega possa in qualche modo partecipare e offrire un contributo, nella consapevolezza che molto dipenderà dalle scelte del Cavaliere.
Alla fine dell’assemblea di Confindustria Giorgio Squinzi ha paragonato il governo «a una Formula 1 che ha una potenza formidabile che però deve ancora scaricare sul terreno per competere e vincere». Da uomo di sport («Ho appena finito di discutere di calcio con Renzi», ha ironizzato Squinzi) il numero uno di viale dell’Astronomia sceglie un paragone automobilistico per descrivere come gli imprenditori italiani vedono la nuova guida politica del Paese. «Renzi non mi sembra un premier a scadenza, è difficile dare dei tempi ma certamente bisogna agire. Qualcosa è stato avviato e da oggi a fine luglio avremo un pacchetto di nuove riforme. Certo non sarà facile recuperare il ritardo ma siamo fiduciosi».
Oggi Renzi sarà a Firenze, per un appuntamento con gli investitori e gli imprenditori del tessile.

Corriere 17.6.14
Il governo, le tasse e la luna di miele con gli industriali del Nordest
di Dario Di Vico


GAMBELLARA (Vicenza) — Da boy scout gli devono avere insegnato che il toro è sempre meglio prenderlo dalle corna e così Matteo Renzi, invitato alla prima assemblea congiunta degli industriali di Vicenza e Verona, non solo non ha eluso il tema-chiave del fisco ma ne ha fatto il centro del suo intervento. La frase-calembour che sarà ricordata a lungo da queste parti è: «L’Agenzia delle Entrate deve essere il consulente delle aziende. Più che Stato di polizia facciamo pulizia». Poco prima il presidente della Confindustria veronese, Giulio Pedrollo, aveva definito l’insostenibile pressione fiscale italiana come «un esproprio legalizzato». E il premier si è messo in sintonia con lui e la platea dei 3 mila industriali presenti nel grande capannone dell’azienda Perlini, portando a casa un numero imprecisato di applausi. La luna di miele tra Renzi e l’imprenditoria veneta continua, dopo il voto alle europee ieri se ne è avuta una nuova conferma, anche se è stato lo stesso premier a introdurre nel clima dei festeggiamenti un elemento di realismo: «So che molti di voi hanno votato Pd non perché ci considerate bravi, non mi illudo. L’avete fatto con l’animo di chi dice “proviamo pure questa, Renzi è l’ultima spiaggia”». Se il Pil italiano fatica a rimettersi in moto, a sentire i discorsi fatti sul palco da Pedrollo e dal suo collega vicentino Giuseppe Zigliotto, il Veneto qualche deciso passo in avanti già l’ha fatto. Le ore di cassa integrazione sono state dimezzate, a Vicenza gli indicatori della produzione nel primo trimestre 2014 hanno fatto segnare addirittura +2,5%, a Verona il tasso di disoccupazione è addirittura a livelli tedeschi ovvero sotto il 6%. «Vada avanti, presidente — ha detto Pedrollo — non ascolti le corporazioni e conti pure su Confindustria. Non si preoccupi se nel breve dovesse perdere consenso perché se farà le riforme lo riavrà con gli interessi». Per favorire il business e aiutare la ripresa gli industriali veneti vorrebbero fortemente la Tav tra Milano e Venezia e Zigliotto si è spinto a proporre a Renzi un patto: «Voi ci tagliate le tasse del 30% e noi aumentiamo gli investimenti del 50%». In un ambiente così orientato all’ottimismo Renzi è stato attentissimo a non passare il segno. A non apparire come un venditore di pentole. «Non vi posso dire che abbasserò le tasse ma posso promettervi che ne renderò più semplice il pagamento. Perché sulla Tasi ad oggi ci ho capito poco anch’io». Assieme a norme più snelle il premier ha indicato come prioritario «un rovesciamento culturale» che non porti più a considerare «il cittadino come un evasore fiscale» solo perché magari fa un errore formale compilando la dichiarazione dei redditi. Musica per le orecchie degli industriali veronesi e vicentini che non hanno avuto remore a sottolineare il proprio consenso. Sulle infrastrutture il premier ha promesso un decreto sblocca Italia entro il 30 luglio, ha invitato la platea a non contrapporre la Tav del Nord Est a quella che dovrà collegare Napoli e Bari («abbiamo bisogno di un Sud che riprenda a correre») e comunque ha fatto capire di essere favorevole ad investimento di modernizzazione della linea ferroviaria tra la Lombardia e il Veneto. Nelle prime file ad ascoltare Renzi c’era l’euro-deputata Alessandra Moretti indicata dalla vox populi come la carta che il Pd potrebbe giocare nel 2015 per strappare la Regione alla Lega. Il sindaco di Verona, il leghista Flavio Tosi, invece non si è fatto vedere. La politica in senso stretto però è rimasta fuori dall’assemblea e l’esplosione del caso Mose non è sembrata preoccupare più di tanto né gli speaker né la platea. La convinzione comune dei 3 mila imprenditori che hanno affollato il capannone di Gambellara è quella di rappresentare «il Veneto di mercato» che chiede allo Stato poche regole e meno tasse ed è dispostissimo a fare il suo mestiere. A far ripartire gli investimenti e a dare occupazione. Renzi lo ha captato e in un passaggio ha riconosciuto esplicitamente il valore dell’antropologia positiva in salsa Nord Est. «Voi fate impresa non solo per gli sghèi altrimenti avreste chiuso le aziende e investito nella finanza. Siete qui perché creare aziende è un elemento che trascina la vostra comunità». E così, almeno per una sera, la polemica sul ruolo dei corpi intermedi è rimasta a Roma.

Il Sole 17.6.14
Tutti bussano a Palazzo Chigi e Renzi ha nuove carte da giocare
di Stefano Folli


Non solo la riforma del Senato. Grillo ha colto la centralità della legge elettorale
C'è una novità di fondo nel dibattito sulle riforme: l'arco delle forze che vogliono essere coinvolte nel processo in corso si è allargato all'improvviso. Non è più Renzi che deve aprirsi agli altri, non è più solo il segretario-premier a dover cercare il confronto in nome dell'ovvio principio che le riforme hanno bisogno di una solida base parlamentare. Adesso sono in tanti a bussare alle porte di Palazzo Chigi. Al punto che il partner iniziale, Berlusconi, si è fatto risucchiare dagli eventi e rimane sullo sfondo, incerto sul da farsi: ha rilanciato, non si sa con quanta convinzione, la vecchia tesi dell'assetto presidenzialista (senza accorgersi che il presidenzialismo lo sta facendo Renzi "de facto"), ma lascia per ora che la scena sia occupata da altri soggetti.
I più lesti a cogliere le opportunità del momento sono stati i leghisti. Ma Salvini deve ringraziare Calderoli, attento e astuto negoziatore che sta riuscendo a stabilire un nesso non banale fra la riforma del Titolo V e quella assai complessa del Senato. E questo è il punto tatticamente più interessante per il presidente del Consiglio, benché sul piano simbolico è chiaro che il radicale cambio di rotta di Beppe Grillo è destinato a fare più rumore. Eppure oggi quello che conta davvero per Renzi è la possibilità di stringere un accordo con il Carroccio sulle modifiche alla Costituzione. Soprattutto perché eviterebbe al Pd la scomoda posizione di dover in qualche misura dipendere dagli umori di Berlusconi, o meglio dalle dinamiche interne di un partito in profonda crisi come Forza Italia.
In realtà la Lega può essere la chiave di volta per obbligare l'intera area di centrodestra a muoversi sul terreno parlamentare con un convincente senso di responsabilità. Del resto sembra che Salvini e Calderoli accettino un punto assai rilevante nella logica "renziana": sganciare la riforma del Senato dalla nuova legge elettorale. Più i due piani si sovrappongono, più i problemi del premier aumentano. Cosa che Grillo, da parte sua, ha compreso molto bene. Più si riescono a tenere separati i due aspetti, lasciandoli scivolare su strade parallele che non s'incontrano mai, maggiori saranno le probabilità di successo finale.
È evidente quindi che il vero banco di prova, la riforma da cui dipenderanno gli equilibri venturi, è la nuova legge elettorale. Il suo carattere più o meno maggioritario, il tipo di rapporto fra elettore ed eletto, la possibilità che attraverso di essa venga ridisegnata l'identità politica del paese: sono tutte ragioni che rendono cruciale questo passaggio. L'era Renzi si delinea all'orizzonte in modo abbastanza netto, a partire dal quel 40,8 per cento; ma l'atto di fondazione della nuova stagione sarà senza dubbio la riforma elettorale, accanto al superamento del bicameralismo. Lo hanno capito un po' tutti, anche se Berlusconi o quello che resta del Berlusconi politico è tentennante.
Lo ha capito da ultimo anche Grillo, la cui apertura non è solo un gioco di prestigio tattico, come pensano molti, ma la mossa obbligata di un personaggio in difficoltà di fronte a un possibile cambio di sistema che lo esclude, rubandogli per di più una bella fetta di elettorato. E bisogna ammettere che il capo dei Cinque Stelle, sia pure dall'angolo in cui si trova, ha avuto l'intelligenza di concentrarsi proprio sul tema elettorale. La vera e decisiva partita.

l’Unità 17.6.14
Grillo giura: «Faccio sul serio» Renzi: «Ieri ero un appestato»
L’ironia degli espulsi: «Ecco la nuova linea del M5S: credere, obbedire, dibattere»


Né «Renzie» né «Ebetino» bensì «Gentile presidente del Consiglio Matteo Renzi.... ». Come si cambia, canterebbe la Fiorella nazionale, per non morire. Non è stata solo la bomba politica domenicale sganciata tra le tante bombe d’acqua che hanno messo in ginocchio l’Italia. Tutto vero. Dalla proposta choc, che ti spiazza, alla richiesta ufficiale. Compare sul blog di Beppe Grillo subito dopo l’ora di pranzo.
«Noi facciamo sul serio. Questa è la lettera che abbiamo appena mandato a Renzi. Diffondete» scrive il leader su Facebook rinviando al post che illustra il Democratellum, la proposta dei parlamentari M5S al premier sulla riforma elettorale. Che, conviene dirlo subito, dista anni luce dall’Italicum su cui faticosamente Renzi, la maggioranza di governo e Forza Italia hanno trovato l’accordo in Parlamento (già votato alla Camera, è in stand by al Senato). Tanto questo è un sistema fortemente maggioritario, con collegi piccoli ma senza preferenze; tanto quello pentastellare è un proporzionale puro con sbarramento al 5% che difficilmente potrebbe dare un unico vincitore (il pallino di Renzi). Ma c’è un’altra caratteristica della proposta grillina che deve essere subito messa in evidenza: il Democratellum strizza l’occhio alle intenzioni sulle preferenze della minoranza Pd, di Ncd e dei centristi. Il premier guarda la scena, osserva e sorride: «Un mese fa sembrava avessi la peste, ora invece... tutti che vogliono fare le riforme». Miracoli del 40 per cento. Gongola ma non si fida. Tanto per cominciare manderà altri all’incontro-confronto. Mettendo rigorosamente da parte pregiudizi e scetticismi, conviene leggere con attenzione questa ventina di righe. Che iniziano appunto «Gentile presidente del Consiglio...». La premessa è dedicata alla sentenza della Corte Costituzionale che il 4 dicembre scorso ha dichiarato incostituzionale il Porcellum e ha lasciato in vita un sistema proporzionale con preferenze.
La lettera-invito chiarisce subito un punto: non è l’Italicum l’unico modo di garantire la governabilità. Anzi, il sistema di voto uscito dall’accordo Pd-Forza Italia (Renzi-Berlusconi) «ripropone - scrive Grillo - gli stessi profili di incostituzionalità del Porcellum: premio di maggioranza abnorme e impossibilità per i cittadini di esprimere la preferenza». Il Democratellum, invece, «assicura la rappresentatività del Parlamento e rafforza il rapporto tra eletti ed elettori. Infatti - spiegano - si tratta di un sistema proporzionale con circoscrizioni di dimensioni intermedie che consente l’accesso in Parlamento anche alle forze politiche più piccole, prevede la possibilità di esprimere un voto di preferenza» ma anche di esprimere il proprio sdegno nei confronti di un candidato cancellandone il nome in lista. Sempre secondo i Cinque stelle, la loro proposta «non richiede coalizioni prelettorali» evitando così ai partiti di «annacquare le rispettive proposte in nome di scelte tattiche obbligate». Non solo: «Non si tratta di un proporzionale puro bensì di un sistema che consente ad una forza politica che ottiene il 40% dei consensi di avere oltre il 50% dei seggi». Ecco perché, precisano, «non è una proposta che favorisce M5S» ma ha come obiettivo «una democrazia compiuta».
Con identica serietà, ieri pomeriggio il vicepresidente Luigi Di Maio, il capogruppo alla Camera Giuseppe Brescia e al Senato Maurizio Buccarella e il vicepresidente della commissione Affari Costituzionali della Camera Danilo Toninelli hanno illustrato il Democratellum ai giornalisti. Anche questa è a suo modo una novità: metterci la faccia, al di là del blog e dei post, oltre lo stesso Grillo che non dovrebbe far parte della delegazione che incontrerà il team di governo. «Dopo il risultato delle elezioni europee si è determinata una situazione per cui ci si trova davanti a una nuova legislatura: prima lavoravamo per fare cadere il governo Renzi, ora la maggioranza sembra avere vita più lunga» ha detto Di Maio.
Fin qui la proposta. In chiaro, con tanto di ipotesi delle circoscrizioni: 42 di dimensione intermedia che assegneranno 1 seggio alla valle d’Aosta, 3 al Molise, tra i 5 e i 9 seggi in 13 circoscrizioni e via di questo passo sino alle tre circoscrizioni metropolitane che assegneranno dai 32 ai 42 seggi.
Ma lo scetticismo continua a prevalere. In casa Pd si attribuisce al premier una vaga e cauta soddisfazione perché in questo modo «ho due forni in cui trattare»: centrodestra e Forza Italia da una parte;M5Sdall’altra. Il sottosegretario Angelo Rughetti mette in guardia da «trovate comunicative» che tanto sarebbero presto messe a nudo e dal tipo di proposta che darebbe «instabilità» e impedirebbe una vera maggioranza in Parlamento. I più diffidenti restano gli ex. Che ne sanno qualcosa dei colpi di testa del leader: «I prodi e proni capigruppo obbediscono ai Capi Supremi e come un sol uomo dichiarano: credere, obbedire, dibattere!» scrive in un velenosissimo tweet Francesco Campanella, il senatore ex M5S espulso per le sue continue richieste di aprire un confronto con il governo e più in generale con il Pd. Maurizio Romani, un altro epurato, la mette così: «Sai che c’è? Andiamo noi a trattare con il Pd che lo diciamo da mesi».
Al di là di come andrà a finire, con questa mossa Grillo ha ottenuto tre risultati: ha silenziato la base furibonda per l’alleanza europea con Farage; ha sminato i progetti di nuovi gruppi a sinistra tra i suoi ex eletti, i dissidenti Pd e Sel; sta facendo saltare i nervi alla maggioranza di governo e a Forza Italia che si trovano spiazzati da una possibile maggioranza diversa. Grillo-cavallo di Troia nel governo potrebbe essere solo l’ultimo dei tanti copioni.

Repubblica 17.6.14
Renzi pronto al dialogo con Grillo “Ma la via resta il patto del Nazareno” Tra una settimana l’incontro col M5S

di Francesco Bei
AL MOMENTO «il “contratto” con Berlusconi resta in vigore ». Per Renzi è ancora quella «la via maestra» per le riforme, nonostante l’improvvisa inversione a U dei 5Stelle. Certo, complice anche il colloquio mattutino con il capo dello Stato, il premier non può chiudere la porta a chi si offre di dialogare.
PER questo da palazzo Chigi filtra una valutazione di Renzi che non collima con quella maggioritaria nel Pd. Nel senso che il presidente del Consiglio semmai proverà a ingaggiare i grillini, senza considerare preventivamente «un bluff» o «un espediente per uscire dall’angolo » la richiesta di un incontro sulla legge elettorale. Ma da qui a mollare l’accordo con Forza Italia sull’Italicum ce ne corre.
Anzi, benché non ancora fissato, sembra che l’ora di un nuovo faccia a faccia con Berlusconi stia per scoccare. Ci sono infatti alcune cose da mettere definitivamente a punto, prima tra tutte il nuovo sistema di elezione/ designazione dei futuri senatori. Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli ci hanno lavorato, hanno buttato giù un ventaglio di soluzioni possibili in vista dell’inizio delle votazioni in commissione. «Ferma restando l’elezione di secondo grado - spiega il senatore renziano Andrea Marcucci - c’è da parte del governo e del Pd un’ampia disponibilità a trovare la formula che raccolga la maggiore adesione tra le forze politiche». Insomma, a Renzi basta che sia scritta la parola «fine» sul Senato elettivo, i dettagli tecnici contano meno. «Però è giunta l’ora che Berlusconi si decida», ammoniscono i renziani, forti dell’accordo con la Lega. In effetti, trovata l’intesa con il Carroccio sul Titolo V e sostituiti i senatori recalcitranti della maggioranza, Renzi oggi si gode «il clima mutato dopo aver spianato la strada in commissione». Il patto con la Lega regge, a Vicenza lo stesso governatore Zaia l’ha confermato al premier a margine dell’assemblea di Confindustria, ma anche per il Carroccio molto dipende dall’atteggiamento di Berlusconi. Il problema è che il leader forzista appare una sfinge impenetrabile da giorni, mentre i suoi spaziano tra i guastatori che vorrebbero far saltare tutto e chi scommette su un ingresso di Forza Italia nella maggioranza.
La gestione dell’incontro con i cinquestelle è comunque la partita più delicata. Renzi, come anticipato ieri da Repubblica, non prenderà parte alla riunione che potrebbe tenersi la prossima settimana, forse mercoledì. Il format è ancora da decidere, ma sembra che il quartetto designato sarà composto dal ministro Maria Elena Boschi, dal vicesegretario Guerini e dai capigruppo Zanda e Speranza. Da parte grillina l’investimento politico è enorme: «Noi - confida Carlo Sibilia, un deputato tra i più ascoltati del gruppo - abbiamo preso atto del 40% conquistato da Renzi e quindi vogliamo entrare nel merito. Mi auguro comprendano tutti, renziani compresi, l’importanza della cosa».
E tuttavia, nonostante il premier voglia incoraggiare con il suo atteggiamento quella parte dei grillini che si spendono per il dialogo con il governo, il timore di un «trappolone» è forte. La guardia resta alta. «Se la loro fosse un’effettiva volontà di concorrere alle riforme - riflette a voce alta il sottosegretario Angelo Rughetti, renziano di ferro - si sarebbero presentati dicendo: ecco le nostre proposte di modifica all’Italicum, discutiamone. Invece arrivano con un proporzionale puro con le preferenze, che è l’opposto della legge già approvata dalla Camera, e pretendono che sul tavolo ci sia solo la loro proposta». E se invece fosse soltanto tattica? Se cioè la proposta del “democratellum” nascondesse la vera mossa da scacco matto? Il sospetto che si sta facendo strada in queste ore tra i renziani è infatti quello di una manovra a sorpresa dei cinque stelle. Che una volta incassato il prevedibile rifiuto del Pd sul “democratellum”, sarebbero pronti a gettare sul tavolo la vera proposta avvelenata: il ritorno al Mattarellum. «E a quel punto - ammette un renziano - per noi potrebbero essere dolori ». La vecchia legge Mattarella - 75% maggioritario uninominale, 25% di proporzionale - è infatti molto rimpianta dai nostalgici dell’Ulivo e dalla stessa nuova leva renziana. Nell’assemblea del gruppo Pd della Camera, al tempo della discussione sulla mozione Giachetti (che appunto prevedeva il Mattarellum come legge di salvaguardia nel caso si fosse tornati al voto anticipato), tutti i renziani si schierarono a favore, salvo poi votare “no” in aula in obbedienza all’ordine impartito dal governo Letta. Cosa accadrebbe domani se Grillo e Casaleggio riesumassero il Mattarellum? Il timore degli uomini del premier è che non solo potrebbe saltare l’Italicum, ma si riprodurrebbe una spaccatura interna alla maggioranza e allo stesso Pd. Come avvenne appunto sulla mozione Giachetti. Per questo la regia della trattativa con i grillini è stata avocata dal premier in prima persona. Non sono ammessi errori.

Corriere 17.6.14
Lo scetticismo del Pd riflette  il timore di una melina di Grillo
Grillo pensa alle riforme ma anche ai giochi sul Quirinale
di Massimo Franco

qui

l’Unità 17.6.14
Il Quirinale: «Coinvolgere il più ampio arco di forze»


Un lungo colloquio, quasi due ore, tra il presidente della Repubblica e il premier Matteo Renzi salito al Colle nella mattinata per illustrare al Capo dello Stato le “novità” sul piano politico, lo stato delle riforme a cominciare da quelle costituzionali, gli impegni del futuro prossimo che vedrà l’Italia per sei mesi, da luglio a dicembre, alla guida dell’Unione europea.
La novità più consistente è l’apertura del Movimento 5 Stelle, e per certi versi anche della Lega, a una possibilità di collaborazione sulle riforme, fin qui negata, in nome di una presunta illegittimità di Renzi in quanto non votato ma arrivato a Palazzo Chigi solo per una decisione di partito. Quel quasi 41 per cento delle europee (e i dissensi interni) hanno portato i grillini a compiere un primo passo su quella strada, fin qui contestata, di un cammino comune delle forze politiche per arrivare a riforme, il più possibile condivise, nell’interesse del Paese anche se il camminare da soli affascina ancora Forza Italia che domani presenterà una proposta di presidenzialismo. Una strada, quella del cammino comune, da sempre indicata, e sollecitata, dal presidente della Repubblica fin dall’inizio del suo primo mandato e che, condizionando a esso il secondo, non aveva mancato di sottolineare la positività di una rappresentanza allargata. A ogni occasione, pur nel rispetto delle diversità. Tanto più quando si decide di affrontare modifiche alla seconda parte della Costituzione. D’altra parte lo stesso Renzi, condividendo il progetto di riforme oltre che con gli esponenti della maggioranza di governo anche con Berlusconi e il suo partito che dall’esecutivo sono fuori, ha fin dall’inizio del suo mandato dimostrato di avere ben chiaro il valore delle scelte condivise. L’unico percorso per non incorrere negli errori del passato che hanno poi mostrato nei fatti tutti i limiti di un tale atteggiamento.
Dallo stesso Quirinale si fa sapere che quello di ieri è stato «un ampio giro di orizzonte sui temi della riforma costituzionale all’esame del Senato e del possibile coinvolgimento del più ampio arco di forze politiche in vista della conclusione dell’iter in quel ramo del Parlamento» dato che da domani cominceranno a essere affrontati in commissione gli emendamenti. Manon solo. È stato fatto anche il punto «sulla definizione dei provvedimenti legislativi discussi nel Consiglio dei ministri» dello scorso venerdì, a cominciare dagli interventi nella Pubblica amministrazione e i poteri attribuiti a Raffaele Cantone per una azione incisiva di anticorruzione. Senza tralasciare i temi del prossimo Consiglio europeo, quello in cui ci sarà la staffetta tra la Grecia e l’Italia, che saranno al centro di un nuovo incontro previsto per oggi e a cui parteciperanno, com’è consuetudine, tutti i ministri titolari degli argomenti che si tratteranno a Bruxelles.
Sembra aprirsi una stagione di dialogo che dovrebbe superare quella delle offese che hanno visto accomunati, pur per “difetti” diversi, legati oltre che alle idee anche all’aspetto fisico e all’età, sia il presidente della Repubblica che quello del Consiglio. Sembra essere arrivato il tempo di un confronto che appariva impossibile solo fino a pochi giorni fa, quando il risultato delle europee sembrava dovesse essere un altro. Un impegno a collaborare tutto da verificare ma che comunque apre orizzonti imprevedibili.
All’atto del suo secondo insediamento, nell’aprile dell’altro anno, Giorgio Napolitano si era rivolto su questo tema a tutte le forze politiche. A quelle che erano andate al Colle chiedendogli di interrompere la prassi del mandato unico, in nome dell’interesse di un Paese in preda a una crisi economica e della politica senza precedenti. Si rivolse anche ai rappresentanti dei 5Stelle il Presidente, non ricevendo che un no senza appello a qualunque forma di collaborazione. Ma a poco più di un anno qualcosa deve essere cambiato nella sostanza. Arrivando a far sperare che, almeno per le riforme, com’è accaduto ieri ci possa essere «il possibile coinvolgimento del più ampio arco di forze politiche».
Nell’aprile del 2013 Napolitano non mancò di sottolineare che «negli ultimi anni, a esigenze fondate e domande pressanti di riforma delle istituzioni non si sono date soluzioni soddisfacenti ». Se qualcosa sta davvero cambiando saranno già i prossimi giorni a dirlo.

l’Unità 17.6.14
Il centrodestra teme il ribaltone sull’Italicum


Se Renzi gongola - almeno ne fa mostra -, la sua maggioranza di governo fibrilla e fa scintille. Perché l’offerta-invito di Grillo al Pd di sedersi al tavolo della riforma elettorale è l’elemento imprevedibile che in questo momento, a ben vedere, fa certamente comodo ai Cinque stelle che cercano di scongelare i propri voti ma non piace affatto a Ncd, centristi per non parlare di Forza Italia che si potrebbero ritrovare tutti insieme scavalcati da una nuova maggioranza. Anche il premier però deve stare attento. «Sarebbe veramente eccezionale che una forza antisistema come i Cinque stelle diventi improvvisamente forza di sistema» avverte Sergio Pizzolante (Ncd). Più probabile, data la situazione, un ruolo da guastatore oltre le linee nemiche.
La proposta M5S al momento riguarda solo la legge elettorale. La scorsa settimana c’è già stato un tentativo, passato abbastanza inosservato, di tavolo comune con il ministro Guardasigilli sul pacchetto di leggi anticorruzione. Ancora non si parla di riforme costituzionali, la vera urgenza nell’agenda del Parlamento e del governo visto che il premier punta a portare a casa il primo dei quattro voti del Parlamento prima della pausa estiva.
È chiaro però che se il tavolo Pd-M5S dovesse partire sulla legge elettorale, «è come se tornassimo alla scorsa estate, ai tempi del Comitato dei 40, quando il dibattito era a 360 gradi» osserva Gaetano Quagliariello, ex ministro delle Riforme e coordinatore di Ncd, forza di governo. Che subito dopo avverte: «L’apertura di Grillo è un’ottima notizia. A patto che la maggioranza di governo proceda su un’idea comune relativa ai contenuti, ai tempi e ai vari step».
Ecco, l’incubo per tutti, si chiama maggioranze variabili. Anche perché, con il centrodestra in frantumi, i numeri più importanti, e più utili, in Parlamento sono sicuramente quelli dei Cinque stelle, cento alla Camera. Che se entrassero veramente in gioco, renderebbero quasi inutili le poche fiches in mano a Berlusconi e solo decorative quelle in mano ad Alfano.
Così, nonostante il pensiero ai processi e il rosso in bilancio del partito, Berlusconi parlerà domattina in una annunciata conferenza stampa dove rilancerà il presidenzialismo e dirà la sua sulla riforma del Senato e del sistema di voto dopo la batosta elettorale. Il faccia a faccia con Renzi continua a slittare: da oggi si arriva ormai a giovedì. Chissà. Sull’apertura dei Cinque stelle, il capogruppo al Senato Paolo Romani mette le mani avanti: «Questo rilancio di Grillo è il tentativo di rimettersi in gioco dopo la batosta dei tre milioni i menomale distanze sono altissime. Grillo è per il proporzionale, mentre Renzi e noi di Forza Italia siamo per una legge maggioritaria. Eanche sul Senato: i grillini hanno firmato l'odg Calderoli sull' elezione diretta dei senatori, cosa che Renzi non vuole ». Della serie che la posizione di Renzi e quella di Grillo è come il diavolo e l’acqua santa, una blasfema rispetto all’altra. Forza Italia, quindi, va avanti sulle riforme come promesso. «Ci sono alcuni punti che non ci piacciono e stiamo aspettando una risposta del governo nel merito» aggiunge Romani. Che invece prende tempo sull’Italicum: «Alla Camera è passato grazie ai nostri voti. Renzi ha voluto posticipare la legge elettorale a dopo le riforme. Vediamo come va sulle riforme. Noi tra l'altro proponiamo il presidenzialismo ». Aver fatto slittare la legge elettorale a dopo le riforme costituzionali, garantisce adesso un buon tempo per riflettere, valutare e capire. L’allusione di Renzi al fatto di avere adesso a disposizione i famosi e vecchi «due forni» garanzia di maggioranza variabili, è un bel vantaggio per il premier. Fino a un certo punto però.
Dopo Forza Italia i più preoccupati sembrano proprio gli alleati di governo di Ncd. «Ben venga il confronto » avverte la portavoce del partito di Alfano, «Renzi però stia attento: l'affidabilità di Grillo va e viene nel giro di un blog. Affidare le riforme del Paese a chi crede che le regole della democrazia si scrivano a colpi di click può essere rischioso».
Certo che Grillo o chi per lui l’ha pensata bene. A molti non sfugge infatti che la proposta di un propozionale con preferenze, stuzzica molto quelle forze politiche che - compreso una fetta di Pd - continuano a pensare che sia la soluzione migliore. Sul tema, ad esempio, si fa sentire Pierferdinando Casini. «È positivo se Grillo si vuole aggiungere all'accordo tra Forza Italia e la maggioranza».

l’Unità 17.6.14
Riparte il processo Ruby Forza Italia allo sbando. Partito senza strategia
Nessuno sa se il patto del Nazareno reggerà o no


Il tavolo delle riforme, pur avendo molte gambe, comincia a traballare. L’incontro tra Renzi e Berlusconi è al momento congelato, con l’ex premier sospettoso e poco disponibile a trattare da una netta posizione di debolezza. L’ingresso in campo di Grillo complica lo scenario: «È una mossa intelligente - analizza uno degli sherpa di Forza Italia sulla legge elettorale - Se Renzi è furbo coglierà l’assist e cavalcherà la proposta per indebolire il nostro potere contrattuale».
Ad Arcore, però, al netto del polverone sollevato dal nuovo corso pentastellato, considerano la proposta grillina, a impianto proporzionale, poco più di una provocazione: «Per Renzi è invotabile perché è un sistema che non fa vincere nessuno. La trappola poi è nel modello assembleare, inaccettabile per uno che vuole un governo forte e un premier centrale».
PAURA AD ARCORE
A restringere il cammino delle riforme, però, al punto che nessuno - né il capogruppo al Senato Paolo Romani, né la vice Anna Maria Bernini, né i senatori in ordine sparso - sa dire se davvero il patto del Nazareno terrà o meno, è un’altra variabile. Venerdì comincia a Milano il processo di appello per il caso Ruby. In primo grado, esattamente un anno fa, l’ex Cavaliere è stato condannato a 7 anni per concussione e prostituzione minorile con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Un anno più di quanto chiesto dall’accusa. Una pena severa che se venisse confermata troncherebbe ogni futuro politico per Berlusconi, facendo impallidire l’interdizione dai pubblici uffici per due anni comminata come pena accessoria alla condanna definitiva per frode fiscale nel processo Mediaset.
La questione, in realtà, è politica più che giuridica. Nel senso che il processo davanti alla Corte d’Appello - che si prevede duri diverse settimane, forse un mese - si concluderà con una sentenza di secondo grado, non definitiva. Per mettere fine a questa storia bisognerà aspettare il sigillo della Corte di Cassazione. Solo allora la sentenza diventerà esecutiva, ed è chiaro che con un simile cumulo di condanne il rischio di pena detentiva - altro che servizi sociali - diventerebbe concreto. «Al momento, invece - spiega un deputato - trasformare i servizi sociali in arresti domiciliari o peggio sarebbe solo una misura cautelare. Ma dato che Silvio non ha più il passaporto, è difficile che i magistrati sentano il bisogno di applicarla ».
Di prigione, insomma, dalle parti di San Lorenzo in Lucina si parla soprattutto per esorcizzarla. Con un certo ottimismo. Berlusconi però è preoccupato. Come sempre quando c’è di mezzo la sua «agibilità» politica e personale. Immediate o meno che siano, nuvole nere minacciano il suo futuro di uomo libero. Da padre costituente, ex partecipante ad un governo di larghe intese a imputato per crimini infamanti il passo gli sembra brevissimo. E ingiusto. Tale da togliergli il sonno e anche la voglia di sedersi al tavolo del nuovo assetto istituzionale dell’Italia. E dunque, tutto in stand-by. Con Renzi deciso ad andare avanti come un panzer. Per chiudere sull’Italicum prima dell’estate e portare a casa la prima lettura dell’abolizione di Palazzo Madama. E Forza Italia convinta, sottovoce, che finirà per accettare il Senato non elettivo con le correzioni offerte dal premier, dalla platea con meno sindaci all’eliminazione dei senatori di nomina quirinalizia. Ma sui poteri e sulle competenze Renzi non recede: niente leggi né bilancio dello Stato, fine del bicameralismo perfetto.
L’IRA DELLA ZARINA
Intanto, prosegue intatta la querelle nel partito tra cerchio magico e seguaci di Raffaele Fitto. Maria Rosaria Rossi, in un’intervista al «Corriere», nega di essere la «zarina» del partito e attacca il neo eurodeputato pugliese: «È lui il peggior nemico di se stesso, è un professionista della politica che si oppone al rinnovo della classe dirigente». Da parte sua, Fitto continua il suo tour al Sud che lo ha consacrato recordman di preferenze, aiutato dai suoi (Romano, Galati, Santelli, Capezzone, Polverini, Carfagna).
Berlusconi lascia fare. È convinto che il silenzio e la mancanza di reazioni toglieranno al «carrierista» la visibilità e l’aura di “ribelle”. Per il momento pensa alla conferenza stampa con cui lancerà, mercoledì a Montecitorio, il semipresidenzialismo e l’elezione diretta del capo dello Stato come ingrediente delle riforme. Per tornare in partita, per togliere la scena (almeno un pizzico) a Renzi e Grillo, per rinvivire la sua base ancora sotto choc dopo il voto. «Il presidente avrà bisogno di un partito compatto al suo fianco» sospira una fedelissima.
Fatto sta che la linea dura di Fitto dopo le Europee se paga in termini di consenso elettorale gli ha alienato parecchie simpatie all’interno del partito. Dove anche chi lo stima si chiede quale sia «il punto di ricaduta». Ma cosa voglia l’ex governatore della Puglia, che finora ha rifiutato incarichi e offerte, lo sa soltanto lui. E la guerra fredda va avanti: primarie versus congressi, nomenklatura contro nuovi volti, cerchio magico contro ala meridionalista.

il Fatto 17.6.14
Il piano di Fassino e Renzi per avere il tesoro degli ex-Ds
di Stefano Feltri e Carlo Tecce


Ora che Matteo Renzi ha i voti e il controllo pieno sul Partito democratico gli manca solo una cosa: il patrimonio. Quando è nato il Pd, nel 2007, il grosso dei beni (e dei debiti) sono rimasti alle formazioni che lo avevano fondato, cioè Democratici di Sinistra e Margherita. Dei post-democristiani abbiamo saputo molto, di come i soldi dei rimborsi elettorali andavano a finanziare singoli dirigenti, il tesoriere Luigi Lusi è è finito in carcere. I Ds erano ricchi e indebitati, lo storico tesoriere Ugo Sposetti e il presidente Piero Fassino hanno costruito un muro giuridico che ha tenuto il ricco patrimonio (eredità comunista) lontano dal Pd. Perché non si sa mai, meglio evitare di mettere in comune i beni in un matrimonio con durata incerta. In questi anni Sposetti ha amministrato quel tesoro di oltre 2mila immobili (circolano anche leggende su azioni, obbligazioni e opere d’arte di cui si sono perse le tracce, valore da mezzo miliardo di euro) come se il Pd attuale non avesse alcun diritto a toccarlo. Ma adesso qualcosa è cambiato.
I SEGNALI SONO DUE: Renzi che dichiara di voler rilanciare il marchio delle Feste de l’Unità e la nomina a presidente di Matteo Orfini, esponente di una mai rottamata (per resistenze e convenienze reciproche) cultura diessina nel partito. Dopo aver conquistato ed esposto in assemblea il 40,8 per cento, Renzi pare avere forza per fondere davvero le due anime democratiche. E mettere le mani sulla cassa. L’attuale tesoriere Francesco Bonifazi ne avrebbe molto bisogno, avendo appena chiuso un bilancio con un rosso di oltre 10 milioni e parecchi dipendenti in cassa integrazione. L’irriducibile Sposetti oppone resistenza: “So che puntano a questo, conosco le idee di Fassino, se vogliono discutere io sono pronto, ma devono ricordarsi che mi hanno lasciato una montagna di guai quando è nato il Pd”, dice al Fatto. Ma l’altro erede legale dei Ds, l’ultimo segretario Piero Fassino, è uno dei maggiori sostenitori di Renzi (il premier è anche tentato di indicarlo come commissario europeo). E quindi in queste settimane è stato raggiunto un accordo, ancora segreto, tra il sindaco di Torino e il segretario del partito: gli immobili che furono dei Ds devono entrare nella disponibilità almeno formale del Pd che ha bisogno di usarli come garanzia per ottenere credito dalle banche (prestare soldi ai politici, in un’epoca di rimborsi elettorali in calo, è sempre meno allettante). Contattato dal Fatto, il sindaco torinese non ha risposto. Non è facile ma neppure impossibile: gli oltre 2mila immobili sono stati sparpagliati sul territorio, affidati a fondazioni locali imbottite di politici di un’altra epoca, spesso nominati a vita, che su carta tutelano la memoria storica del Pci e nei fatti tengono il suo patrimonio al riparo dai creditori (il metodo Sposetti è perfetto: i debiti in capo ai Ds nazionali e i beni affidati alle federazioni locali). Fassino, Renzi e Bonifazi hanno una via abbastanza semplice: rifare il trucco di Sposetti in senso inverso. Accorpare le fondazioni locali in un unico ente che poi possa, in qualche modo, mettere gli immobili nella disponibilità del Pd così da rassicurare le banche creditrici. Un’operazione complessa, ma l’intenzione politica non manca. Complessa perché i vecchi creditori tornerebbero alla carica.
A OTTOBRE, PER ESEMPIO, dovrebbe esserci il nuovo confronto tra presidenza del Consiglio e banche creditrici della vecchia Unità. La storia è ingarbugliata: il quotidiano di partito, prima della liquidazione, era pieno di debiti. Nel 1999 una provvidenziale norma del governo D’Alema (guidato, guarda caso, da un ex direttore dell’Unità) istituisce una parziale garanzia pubblica su quel debito. Risultato: oggi c’è un contenzioso tra le banche creditrici (che vantano spettanze per quasi 200 milioni di euro) e palazzo Chigi. “Abbiamo ottenuto tre decreti ingiuntivi dal tribunale di Roma, poi ovviamente l’avvocatura di Stato si è opposta”, spiega l’avvocato Girolamo Bongiorno che rappresenta il gruppo di banche. Se ne riparla a ottobre. Ma nel frattempo potrebbe verificarsi una situazione paradossale: se Renzi riesce a mettere le mani sul patrimonio dei Ds, la presidenza del Consiglio potrà opporsi alle banche con maggiore efficacia suggerendo di rivalersi sugli immobili riemersi dalle nebbie locali. Viceversa, il premier può cedere agli istituti di credito saldando i debiti pregressi – almeno in parte – con le fideiussioni a spese del contribuente italiano, lasciando intonsa la ricchezza del partito. Renzi sta facendo leva sull’inchiesta Mose per dare il colpo definitivo all’intreccio tra imprese, coop rosse e lato sinistro del partito. Grazie al lavoro dei pm, il segretario democratico ha la strada spianata e può puntare anche al tesoro degli ex comunisti, visto che i più autorevoli custodi di quella tradizione sono decaduti o nei guai con la giustizia. Resta solo un ultimo reduce a difendere la trincea: Ugo Sposetti, col suo baffo sovietico. E non è un ostacolo da poco.

l’Unità 17.6.14
Caso Mineo, Zanda prova a ricucire Più vicino il rientro degli autosospesi
Ieri l’incontro con il capogruppo Pd di Palazzo Madama
Chiti: «Non siamo dei sabotatori»


Tre ore di confronto serrato e alla fine il clima sembra leggermente più sereno, dichiarazioni di cauto ottimismo e probabilmente stamattina una decisione su cosa faranno i quattordici senatori che si sono autosospesi dal gruppo Pddopo la sostituzione in Affari costituzionali di Corradino Mineo e Vannino Chiti, i più critici verso la riforma del Senato. È probabile che lo strappo si ricucia, che l’autosospensione rientri, questo l’orientamento ieri sera, ma l’ultima parola si saprà soltanto stamattina quando le consultazioni tra i quattordici saranno completate, visto che ieri pomeriggio quando il capogruppo Luigi Zanda li ha incontrati insieme ai vicepresidenti Tonini, Lepri e Martini, non erano tutti presenti.
«Le decisioni prese dalla presidenza del gruppo sulla composizione della commissione, ferma restando la più assoluta stima nei confronti di tutti i senatori, rimangono quelle deliberate nei giorni scorsi», annuncia Zanda al termine dell’incontro, lanciando un appello affinché «nei tempi più rapidi possibili l’autospensione cessi e tornino nella normalità delle attività del gruppo». Chiti apre una porticina, spiega che il gesto eclatante dell’autospensione è nato dall’esigenza di «sottolineare che l’articolo 67 (che prevede la libertà di mandato, ndr), non poteva essere interpretato in modo discrezionale», ma definisce positivo l’incontro di ieri e aggiunge che è servito a fare chiarezza. A dire, cioè, come hanno fatto a rotazione tutti i presenti (Chiti, Corsini, D'Adda, Dirindin, Gatti, Lo Giudice, Micheloni, Mineo, Mucchetti, Ricchiuti,Tocci, Guerino Turano, assenti Casson, che è in missione e Giacobbe) che non vogliono essere considerati come coloro che bloccano il processo delle riforme, né tantomeno accettano i toni ultimativi usati in questi giorni. Hanno chiesto rispetto per la loro autonomia, che a loro detta vale in Aula come in Commissione, e per le loro posizioni. È lo stesso Chiti a dire che «l’articolo 67 della Costituzione non è abrogato né rimesso alla discrezionalità di un partito né alla presidenza di un gruppo, perché altrimenti le commissioni parlamentari diventerebbero sezioni di partito». Poco convincente, inoltre, per i dissidenti, la spiegazione sulla sostituzione dei due colleghi in Commissione, «ci è stato detto che le decisioni che riguardano la commissione Affari costituzionali, la sostituzione di Mineo e anche mia, non dipendono da una violazione dell'articolo 67 della Costituzione ma obbediscono ad altre logiche di funzionalità: a noi questo sembra francamente meno convincente ». Sgombrato il campo dell’ipotesi di uno strappo definitivo, dunque, «nessuno di noi ha mai pensato di cercare casa fuori. Noi siamo nel Pd e le nostre battaglie le vogliamo portare avanti nel Pd», ma sul ruolo dei senatori in commissione la storia non finirà qui. Tanto che Luigi Zanda durante la riunione ha preso l’impegno di indire un’assemblea ad hoc sul tema con tanto di documento da votare su articolo 67 e regolamento del gruppo, con interpretazioni annesse, ovviamente, proprio per evitare che si creino episodi analoghi in futuro e per ribadire che ci sono sì i diritti della minoranza ma anche quelli della maggioranza e che un partito se vuole andare avanti deve darsi delle regole e rispettarle. Un gruppo parlamentare anche.
Lo stesso capogruppo, d’altra parte, durante l’incontro è stato chiaro: il Pd non può permettersi spaccature né tantomeno può rischiare di andare sotto in commissione e vedersi bocciare quella che è la posizione della maggioranza stessa del partito. Zanda ha ammesso che i toni sono usciti di controllo da parte di tutti, ribadisce che l’autonomia del gruppo non è in discussione, che sarà possibile presentare emendamenti al testo a cui stanno lavorando i due relatori della riforma costituzionale, ma il processo delle riforme non può subire battute d’arresto. Walter Tocci ha ascoltato, non è intervenuto e poi è andato via prima della fine dell’incontro. Ricchiuti, che l’altro giorno è intervenuta durante l’Assemblea nazionale del partito, ieri ha preferito restare in silenzio. Ma Chiti, parlando con i giornalisti, ribadisce: «Non siamo una palude, non siamo sabotatori». Mineo sceglie una linea più soft, più defilata, soprattutto dopo le sue dichiarazioni contro Matteo Renzi che hanno provocato non solo l’ira del premier ma dei suoi stessi compagni di battaglia. Quel «bambino autistico » detto all’indirizzo del premier, malgrado la richiesta di scuse pubblica, pesano ancora parecchio.
E per mandare un segnale distensivo dalla presidenza del gruppo fanno sapere che l’Assemblea prevista per stamattina non ci sarà, anche alla luce dell’esito dell’incontro di ieri sera che dovrebbe rendere più vicina la fine della protesta, senza precedenti nel Pd, dei quattordici senatori. Si incontreranno loro, invece, per la decisione finale. Matteo Renzi dal canto suo, pur nel rispetto dell’autonomia dei gruppi parlamentari, sul punto ha fatto sapere senza troppi giri di parole come la pensa. Non intende far rallentare il percorso delle riforme e quindi sulla sostituzione di Mineo e Chiti non intende tornare indietro.

il Fatto 17.6.14
Non si muore per Mineo
Ai dissidenti Pd basta Zanda per ricredersi
Il presidente del gruppo non ci ripensa sull’espulsione del senatore
I 14 “dimessi” soddisfatti del “chiarimento”
di Wanda Marra


Non siamo palude, non siamo sabotatori e non siamo ostacolo alle riforme. Abbiamo sollecitato un chiarimento sull’articolo 67 della Costituzione e la riunione è stata positiva. L’articolo 67 non può essere rimesso alla discrezionalità di un gruppo o di un partito. Questo chiarimento, basilare, c’è stato”. Le parole di Vannino Chiti - dopo una riunione con Luigi Zanda durata 3 ore - certificano la fine di quella che a questo punto passerà alla storia come la rivolta del week-end. Giovedì scorso 14 senatori si sono auto sospesi. Oggi sono pronti a fermare la protesta.
IL CAPOGRUPPO del Pd a Palazzo Madama ha confermato la sostituzione di Mineo in Commissione Affari costituzionali, tenendo fermo il principio che a decidere è il gruppo. Però ha anche ribadito che “l’articolo 67 della Costituzione, che assicura la libertà di mandato, è un articolo sacro così come è sacro in democrazia il principio di maggioranza e sono sacri tutti i principi che riguardano il funzionamento del Parlamento”. Dunque, concessa quella legittimità politica che i 14 auto-sospesi chiedevano. E adesso, “ho fiducia che le questioni si risolvano e questa fase di autosospensione finisca celermente”. La fine della rivolta sembra essere talmente nell’aria che oggi è stata sconvocata l’assemblea dei senatori. E i 14, che si vedranno in giornata, sembrano decisi a rientrare nei ranghi. D’altra parte, la capacità “asfaltatrice” del premier si è vista sabato, quando ha costretto Mineo a scusarsi per avergli dato del “bambino autistico”.
La partita delle riforme rimane tutta da giocare. Ieri Renzi è andato da Napolitano: hanno parlato molto dei decreti in arrivo in Parlamento. Il Presidente ha invitato il premier a riflettere sulle scadenze. E che dunque è il caso di lavorare sui tempi, altrimenti rischia di non riuscire a convertirli. E - con l’ingorgo - di non riuscire a portare a casa nulla. Discorso particolarmente efficace, visto che dal Cdm di venerdì sarebbero in arrivo altri due decretoni omnibus. Al centro dell’agenda, comunque, riforma del Senato e Italicum. L’apertura di Grillo sulla legge elettorale ha suscitato diffidenza soprattutto tra i suoi, che sanno che è il caso di usare prudenza. Non c’è nessun incontro con i Cinque Stelle per ora: potrebbe entrare in agenda mercoledì prossimo. Sicuramente senza il premier, che probabilmente manderà il vice segretario Guerini, e in streaming. Prima si aspetta l’incontro con Berlusconi, che non è in agenda, ma dovrebbe arrivare dopo dopodomani: ma sia il premier che Napolitano sono consapevoli dello stato confusionale in cui versa Forza Italia. In molti dentro al Pd sono convinti che alla fine saranno comunque Berlusconi e Renzi a trovare (o non trovare) un accordo.
Il renziano Matteo Richetti esprime a voce alta una posizione che rimmbalza tra i dem: “Grillo apre a Renzi perché ha capito che gli italiani non l’hanno votato non per i toni urlati in campagna elettorale, ma perché non è lui la soluzione. Perché si annuncia lo scardinamento del sistema e non ci si prende le responsabilità di governo. E allora apre al dialogo con un sistema proporzionalissimo che non solo Renzi non si può permettere, ma che condannerebbe alle larghe intese per sempre. Il suo obiettivo è dimostrare che Renzi vuole Berlusconi”.
COMUNQUE SIA, Renzi andrà a vedere. Ha intenzione di prendere sul serio l’apertura di Grillo, anche se il patto del Nazareno rimarrà la via maestra. Per evitare affossamenti, al Colle ha ribadito che “la proposta di partenza è la nostra” e se c’è qualcuno che deve inseguirei sono i grillini. Ieri a Vicenza ha parlato con Zaia, delle aperture della Lega: anche queste dipendono da B. Ma in generale, nonostante l’ammuina del momento dovuta al fatto che all’improvviso tutti vogliono le riforme, confida sull’elemento di “resilienza” del percorso: una volta messe in cantiere le riforme, gli altri o rompono, o è difficile fermarle. Intanto prosegue l’operazione “spacchettamento” del gruppo M5s in Senato.

Corriere 17.6.14
Tregua nel partito: rientrano i 14 autosospesi
di Monica Guerzoni


ROMA — «È meglio che parliate con Vannino Chiti, noi siamo un gruppo bolscevico...». La battuta con cui Corradino Mineo si congeda dai giornalisti al termine dell’incontro tra i «ribelli» del Pd e il presidente dei senatori democratici, racconta al tempo stesso il sollievo e il disappunto. La tragicommedia dei senatori autosospesi è a lieto fine: salvo colpi di scena, oggi i «quattordici» si vedranno al completo e scioglieranno la riserva. L’appello di Luigi Zanda ha colpito nel segno e il loro rientro nei ranghi è pressoché scontato. Ma la sostituzione dell’ex giornalista Rai in commissione Affari costituzionali resta: Renzi non ha cambiato idea.
Due ore e mezzo. Tanto è durato il «chiarimento» con il capogruppo, che ha visto anche momenti di tensione. Mineo ha minacciato l’addio: «Il premier ha enormi capacità... Io ho voluto dare un contributo al dibattito sulla riforma del Senato, ma se sono di impiccio per il Pd lascio Palazzo Madama e chiedo ai senatori di votarmi le dimissioni». Alla fine, però, un compromesso si è trovato. Zanda ha riabilitato i dissidenti a parole e il resto lo farà un documento nel quale il presidente scolpirà nero su bianco, tra i diritti e i doveri dei senatori dem, l’affermazione che l’articolo 67 della Costituzione vale sempre, sia in aula che in Commissione.
Questa era la ferita da sanare, la norma in difesa della quale era scattata l’autosospensione di Chiti e compagni. E Zanda per chiudere «celermente» il caso l’ha sanata, affermando con un certo grado di solennità che «l’articolo 67 sulla libertà di mandato è sacro, così come è sacro in democrazia il principio di maggioranza». Il secondo punto su cui i ribelli hanno preteso il dietrofront è la loro agibilità politica. Uno dopo l’altro gli autosospesi hanno chiesto a Zanda di sgombrare il campo dagli epiteti con cui sono stati apostrofati. «Non siamo conservatori, né frenatori — è la formula con cui Chiti ufficializza l’avvenuta riabilitazione — Non vogliamo la palude. Non abbiamo usato il partito come un taxi e respingiamo il paragone con Turigliatto». Dove il riferimento è al senatore della sinistra che contribuì a minare alle fondamenta il secondo governo Prodi.
Ecco, a detta degli autosospesi «Zanda si è rimangiato» questi giudizi e ha restituito al gruppetto piena dignità politica. Con tanto di dichiarazione di stima, la «più assoluta» possibile. «L’amarezza resta — confessa Chiti — Ma dobbiamo andare avanti. Il Pd è la nostra casa e non abbiamo mai pensato di lasciarla». La tentazione era venuta a più d’uno. Claudio Micheloni, eletto all’estero, aveva evocato lo strappo e ieri con Zanda è stato tra i più duri. Con l’animo gonfio è intervenuta la lombarda Erica D’Adda: «Se mi dicono che nel Pd non devo starci più io me ne vado, tanto un lavoro ce l’ho...». Insomma, in questa vicenda la difesa della Costituzione si è incrociata talvolta con casi e umori personali. Per allentare la tensione Zanda ha sconvocato l’assemblea del gruppo in agenda per oggi e aspetta che i 14 rientrino a pieno titolo.
Per Massimo Mucchetti il chiarimento è solo all’inizio: «Il principio dell’epurazione continua non è passato, ma la vicenda non è ancora del tutto finita». Quando arriverà il testo base, gli emendamenti dei dissidenti non si faranno attendere. Per Chiti resta «un elemento di contraddizione e ambiguità. Se l’articolo 67 è sacro, perché Mineo non può riprendere il suo posto?». «Logiche di funzionalità...», ha spiegato Zanda. E Chiti: «Su questo rifletteremo».

Repubblica 17.6.14
Gli “autosospesi” firmano l’armistizio
Rientra la protesta dei senatori del Pd per la sostituzione di Mineo nella commissione riforme. Chiti: mai pensato di cercare un’altra casa, rassicurati dal capogruppo Zanda sulla libertà di mandato. Ma alcuni vogliono tenere duro

di Goffredo De Marchis


ROMA. Non sono più autosospesi i 14 senatori del Pd. Almeno non tutti. Lo comunicheranno stamattina dopo una nuova riunione tra di loro. Il capogruppo del Pd al Senato Luigi Zanda considera chiuso il caso. Ha annullato infatti l’assemblea del gruppo prevista per oggi. Corradino Mineo non rientrerà nella commissione Affari costituzionali. La sua esclusione aveva scatenato il gruppo dei 14, ma ieri, durante l’incontro con Zanda, nessuno di loro ha chiesto il reintegro. Hanno invece domandato l’onore delle armi, il riconoscimento di un’autonomia prevista dalla Costituzione all’articolo 67 e l’hanno ottenuto. Questo è bastato a Chiti, a Paolo Corsini e ad altri pontieri. Non è detto sia sufficiente per altri, magari pochissimi. Walter Tocci, per dire, è ancora molto amareggiato per la vicenda e per l’atto di imperio di Matteo Renzi.
Zanda è convinto che il suo appello sia andato a buon fine. Ovvero di aver messo in sicurezza la maggioranza che senza i 14 non sarebbe più stata tale a Palazzo Madama dove il governo si regge su sei voti di vantaggio. Tanto più dopo l’apertura di Grillo sulle riforme, i dissidenti sono apparsi senza sbocchi politici concreti, come aveva detto fin dall’inizio il vicesegretario Lorenzo Guerini. In questo senso fanno fede le parole di Chiti: «Nessuno di noi ha mai pensato di cercare casa fuori. Noi siamo nel Pd e le nostre battaglie le vogliamo portare avanti nel Pd». Affermazioni definitive sulla collocazione dei dissidenti, che non lasciano il partito e rientrano nel gruppo.
Resta in sospeso la posizione di alcuni. Tocci e Ricchiuti, vicini a Civati. Lo stesso Massimo Mucchetti si è preso una notte di riflessione, prima della riunione di stamattina. «Non siamo una corrente, non siamo un’area. Siccome in 14 abbiamo preso la decisione di sospenderci per sollecitare un chiarimento sull’articolo 67 della Costituzione, ci vedremo per dare una risposta», spiega Chiti. L’obiettivo è una risposta comune. Non è detto che sia a portata di mano.
Chiti tuttavia si fa portavoce di tutti. «Ci sentiamo rassicurati dall’appello di Zanda». Il caso Mineo è stato tolto dal tavolo della discussione, questo ha aiutato il confronto. «Noi non abbiamo chiesto il reintegro di Corradino Mineo in Commissione -- ha detto Chiti -- ma abnali biamo chiesto se per il gruppo del Pd il principio della libertà di mandato, stabilito dall’articolo 67 della Costituzione, vale solo in Aula o anche in Commissione. Perché altrimenti la Commissione diventerebbe un organo di partito e non un organismo parlamentare». Durante l’incontro con Zanda molti hanno insistito sulle offese perso- ricevute in questi giorni. Sugli attacchi ricevuti da Renzi, dai renziani e dallo stesso capogruppo. Le accuse di una caccia alla visibilità, di volere la testa del capo. Qualcuno ha ricordato a Zanda le sue critiche alla sostituzione del senatore Amato (Pdl) nella Vigilanza Rai, due anni fa. Una vicenda molto diversa, ha spiegato Zanda, perché quell’atto fu deciso addirittura dal presidente del Senato di allora, Schifani.
L’impressione è che la frattura sarà ricomposta formalmente, ma avrà ancora degli effetti. I tre senatori degli italiani all’estero (Turano, Micheloni e Giacobbe) vengono da Paesi (Usa, Svizzera, Australia) che hanno un Senato elettivo. Gli altri considerano una forzatura la riforma Boschi e continueranno a contrastarla. Chiti però rinvia la battaglia all’aula ormai. Giudica sufficiente l’incontro con Zanda, non c’è bisogno di un vertice con Matteo Renzi. la pace si può siglare anche così. Con un appello e con il riconoscimento dell’autonomia di ogni singolo senatore secondo la Costituzione: «Direi che va bene il capogruppo. A meno che domani Renzi non smentisca Zanda »

Repubblica 17.6.14Pippo Civati
“Dal leader una chiusura totale, in aula tornerà lo scontro”
intervista di G. D. M.

ROMA. Pippo Civati è il punto di riferimento di tre dei 14 senatori autosospesi del Pd: Tocci, Ricchiuti e Casson. La minoranza di una minoranza. È convinto che nessuno uscirà dal gruppo del Pd, ma considera la questione tutt’altro che chiusa. «Quei senatori saranno chiamati a votare in aula. Non credo che Renzi li abbia messi nella migliore disposizione d’animo».
Il capogruppo del Pd Zanda ha annullato la riunione del gruppo fissata per stamattina. Considera il caso chiuso?
«Io temo di sì. Che ci sia una chiusura dei vertici del Pd è sicuro, c’è il tentativo di rivendicare una posizione molto dura. Ho cercato una mediazione prima del- l’assemblea nazionale, ma non è andata a buon fine».
Cosa rimprovera al segretario?
«È stato un errore drammatizzare. Oltre tutto senza avere un testo definitivo su cui discutere, come dice Bersani. Sarebbe il colmo se alla fine si arrivasse al punto posto da Chiti e dagli altri».
I 14 però sono apparsi ancora più isolati dopo l’apertura di Grillo.
«Semmai è vero il contrario. Quella del M5S è un’apertura alle nostre proposte sulla legge elettorale e sul Senato sono d’accordo con Chiti».
Ma adesso vogliono trattare con Renzi.
«Certo e fanno bene. Ma partono dalle loro proposte».
Però non vogliono creare una maggioranza alternativa.
«I fuoriusciti avevano firmato il testo Chiti sul Senato elettivo. Gli altri no, ma hanno espresso idee simili alle nostre. Sono curioso di vedere questa trattativa ».
I problemi personali sono comunque cancellati?
«Con Renzi sì. Con Zanda, non lo so. È un tipo sorprendente, due anni fa fece una battaglia contro Schifani quando fu sostituito il senatore Amato nella commissione Rai. Lo potremmo ribattezzare SmemoZanda. I renziani dicono: state facendo una guerra per indebolire il capo. È vero il contrario: è Renzi che vuole raffor- zarsi approfittando del Senato».
Alla fine uscirà qualche senatore.
«Nessuno vuole fare la fine di Fini. Ma è sbagliato impostare il dibattito “o così o fuori”. In aula quei senatori trattati a pesci in faccia voteranno. Con quale spirito?
Insomma, non è una pace quella di ieri.
«La tensione in quel gruppo è aumentata, non è una mossa intelligente per chi vince le elezioni. Senza contare che si vota una riforma costituzionale non un provvedimento del governo. Quindi, cambierà anche l’atteggiamento dei senatori».

Repubblica 17.6.14
Michele Ragosta
Un altro deputato lascia Sel “Un inutile partito del ‘900 ora darò una mano a Renzi”
di Tommaso Ciriaco


ROMA. Non sono più autosospesi i 14 senatori del Pd. Almeno non tutti. Lo comunicheranno stamattina dopo una nuova riunione tra di loro. Il capogruppo del Pd al Senato Luigi Zanda considera chiuso il caso. Ha annullato infatti l’assemblea del gruppo prevista per oggi. Corradino Mineo non rientrerà nella commissione Affari costituzionali. La sua esclusione aveva scatenato il gruppo dei 14, ma ieri, durante l’incontro con Zanda, nessuno di loro ha chiesto il reintegro. Hanno invece domandato l’onore delle armi, il riconoscimento di un’autonomia prevista dalla Costituzione all’articolo 67 e l’hanno ottenuto. Questo è bastato a Chiti, a Paolo Corsini e ad altri pontieri. Non è detto sia sufficiente per altri, magari pochissimi. Walter Tocci, per dire, è ancora molto amareggiato per la vicenda e per l’atto di imperio di Matteo Renzi.
Zanda è convinto che il suo appello sia andato a buon fine. Ovvero di aver messo in sicurezza la maggioranza che senza i 14 non sarebbe più stata tale a Palazzo Madama dove il governo si regge su sei voti di vantaggio. Tanto più dopo l’apertura di Grillo sulle riforme, i dissidenti sono apparsi senza sbocchi politici concreti, come aveva detto fin dall’inizio il vicesegretario Lorenzo Guerini. In questo senso fanno fede le parole di Chiti: «Nessuno di noi ha mai pensato di cercare casa fuori. Noi siamo nel Pd e le nostre battaglie le vogliamo portare avanti nel Pd». Affermazioni definitive sulla collocazione dei dissidenti, che non lasciano il partito e rientrano nel gruppo.
Resta in sospeso la posizione di alcuni. Tocci e Ricchiuti, vicini a Civati. Lo stesso Massimo Mucchetti si è preso una notte di riflessione, prima della riunione di stamattina. «Non siamo una corrente, non siamo un’area. Siccome in 14 abbiamo preso la decisione di sospenderci per sollecitare un chiarimento sull’articolo 67 della Costituzione, ci vedremo per dare una risposta», spiega Chiti. L’obiettivo è una risposta comune. Non è detto che sia a portata di mano.
Chiti tuttavia si fa portavoce di tutti. «Ci sentiamo rassicurati dall’appello di Zanda». Il caso Mineo è stato tolto dal tavolo della discussione, questo ha aiutato il confronto. «Noi non abbiamo chiesto il reintegro di Corradino Mineo in Commissione - ha detto Chiti - ma abnali biamo chiesto se per il gruppo del Pd il principio della libertà di mandato, stabilito dall’articolo 67 della Costituzione, vale solo in Aula o anche in Commissione. Perché altrimenti la Commissione diventerebbe un organo di partito e non un organismo parlamentare». Durante l’incontro con Zanda molti hanno insistito sulle offese perso- ricevute in questi giorni. Sugli attacchi ricevuti da Renzi, dai renziani e dallo stesso capogruppo. Le accuse di una caccia alla visibilità, di volere la testa del capo. Qualcuno ha ricordato a Zanda le sue critiche alla sostituzione del senatore Amato (Pdl) nella Vigilanza Rai, due anni fa. Una vicenda molto diversa, ha spiegato Zanda, perché quell’atto fu deciso addirittura dal presidente del Senato di allora, Schifani.
L’impressione è che la frattura sarà ricomposta formalmente, ma avrà ancora degli effetti. I tre senatori degli italiani all’estero (Turano, Micheloni e Giacobbe) vengono da Paesi (Usa, Svizzera, Australia) che hanno un Senato elettivo. Gli altri considerano una forzatura la riforma Boschi e continueranno a contrastarla. Chiti però rinvia la battaglia all’aula ormai. Giudica sufficiente l’incontro con Zanda, non c’è bisogno di un vertice con Matteo Renzi. la pace si può siglare anche così. Con un appello e con il riconoscimento dell’autonomia di ogni singolo senatore secondo la Costituzione: «Direi che va bene il capogruppo. A meno che domani Renzi non smentisca Zanda».
La Stampa 17.6.14
Governo
Sì alle unioni civili, ma non riguarderà le coppie etero
A settembre la legge Pd. Scalfarotto: i conviventi di fatto? Possono sposarsi
di Francesco Grignetti

qui

Repubblica 17.6.14
Il Gotha delle toghe a casa per decreto

di Liana Milella



BEN 445 toghe su 9.410 oggi in servizio. Tante, con il decreto Renzi sul taglio dell’età pensionabile, se ne andranno a casa in tre anni. Quasi il 5 per cento, numero certamente significativo. È il Gotha della magistratura. I capi più prestigiosi degli uffici.
IVERTICI più famosi di Milano, Torino, Venezia, Bologna, Firenze, Genova, Napoli, Bari, Palermo. I nomi? Uno più noto dell’altro: Maddalena (Torino), Canzio con Minale, Pomodoro e Bruti Liberati (Milano), Calogero (Venezia), Lucentini e Branca (Bologna), Drago e Tindari Baglione (Firenze), Bonajuto (Napoli), Savino (Bari), Guarnotta (Palermo). Ma via anche famosi magistrati di sorveglianza, l’uscente del Dap Tamburino, il giudice dell’esecuzione di Berlusconi Nobile De Santis, quello del caso Franzoni Maisto. E tanti altri in città più piccole.
Poi un colpo alla Suprema Corte che ha fatto gridare alla decapitazione il sempre prudente e ovattato presidente Santacroce. Lì, i freddi numeri del Csm, che da ieri figurano in bell’ordine nelle tabelle dell’ufficio statistica di palazzo dei Marescialli, dicono che solo quest’anno vanno a casa 42 super toghe con funzioni direttive, parliamo praticamente di quasi tutti i presidenti di sezione, quelli che oggi decidono sentenze che segnano la giurisprudenza in Italia. Non basta, sempre in Cassazione, ci sono anche 26 giudici col piede sulla porta. E nei prossimi due anni, se il tetto resta a 70 anni senza deroghe per chi non è un capo, vanno in pensione altri 30 magistrati del “palazzaccio”. Per la Corte, se le sostituzioni tardano come inevitabilmente tarderanno ad arrivare, potrebbe essere la paralisi. Per gli altri uffici italiani c’è il rischio serio di vederli senza dirigenti per un bel po’.
I numeri, innanzitutto. Oggi, in Italia, i palazzi di giustizia sono “comandati” da 427 magistrati con funzioni direttive e 730 vice. Bene. Con il decreto Renzi - stop all’ingresso in pensione a 75 anni, ci si va a 70, unica deroga per i capi attuali fino al dicembre 2015 - sono costretti a lasciare la toga, tra chi compie 70 anni quest’anno, 142 capi e 68 vice, oltre a 96 giudici con funzioni ordinarie. Ovviamente, bisogna guardare anche a chi compie 70 anni il prossimo anno e quello successivo. Nel 2015 arrivano al tetto della nuova età pensionabile 23 capi e 20 vice (27 gli ordinari). L’anno successivo ecco altri 26 capi, 16 vice, 23 magistrati ordinari. Che sommati ai primi 308 ci porta alla cifra totale di 445. Di questi solo 210 potranno usufruire della speciale per rimanere in servizio l’anno prossimo.
Ma, per la magistratura, non è solo una questione di numeri, ma soprattutto di facce. E di procedure complesse non solo per diventare una toga, ma per essere promosso. Per questo la categoria è in profondo allarme. La speranza delle toghe è che il decreto, durante la fase di conversione alla Camere, sia cambiato. Il primo referente è il Guardasigilli Andrea Orlando che, durante la fase di discussione sul decreto, si è dimostrato una colomba rispetto ai falchi. Lui ipotizzava quella gradualità nell’entrata in vigore - ogni anno, da qui in avanti, ne aumentava uno dell’età pensionabile - che avrebbe evitato «la brusca decapitazione ». Di questo parlano al Csm, mentre guardano le tabelle fresche degli uffici, i presidenti della commissione per gli incarichi direttivi Roberto Rossi e di quella per le riforme Riccardo Fuzio. Dice il primo: «Il principio è giusto, ma realizzato così pone dei problemi organizzativi che rischiano di paralizzare il Csm e la stessa macchina della giustizia ». Rossi si è concentrato soprattutto sui capi delle città più importanti e il prospetto che ha sotto mano è desolante. Città come Torino, Milano, Bologna, vedono cadere d’un colpo presidente di corte di appello, procuratore generale, presidente del tribunale, capo della procura. Nel decreto è scritto che la sostituzione deve essere accelerata. Rossi lo ritiene impossibile: «Innanzitutto ho già dovuto bloccare concorsi in attesa che il decreto sia convertito. Poi questo consiglio sta per scadere e dovrà arrivare quello nuovo. E poi, con una norma del genere il contenzioso amministrativo salirà alle stelle».
L’unica speranza è che il decreto “ammazza uffici”, com’è ormai stato ribattezzato qui al Consiglio, venga cambiato. Il presidente della Cassazione Giorgio Santacroce, che di diritderoga to fa parte del Csm, ha già avviato un monitoraggio. Una mano importante potrebbe arrivare dal Quirinale, visto che il presidente della Repubblica è il capo del Csm e che al Colle lavorano toghe che conoscono bene sia la Cassazione, come l’ex presidente Ernesto Lupo, oggi consigliere giuridico del capo dello Stato, e Stefano Erbani, ex dell’ufficio studi del Csm. Dove il battage anti- decreto è molto forte. Si è mosso Fuzio, che ha chiesto e ottenuto di poter esprimere subito un giudizio tecnico sul decreto. Lui è di Unicost, ma lo appoggia tutta la sinistra di Area (Cassano, Borraccetti, Carfì, Vigorito, Rossi)che ieri ha sollecitato una discussione rapidissima del decreto, visti anche i tempi ormai stretti che restano al Consiglio. Da Milano, una toga esperta di organizzazione giudiziaria come Claudio Castelli, per anni in via Arenula e ora al vertice dell’ufficio dei gip, scrive nelle mailing list che «un obiettivo in astratto condivisibile viene perseguito in modo gravemente sbagliato». Lui vede solo conseguenze negative, le stesse che a Roma enuclea Rossi, «l’improvvisa scopertura degli organici dove già oggi c’è un deficit del 12,4%, un concorso accelerato che non consentirebbe una seria selezione, comunque una pensione che resta un miraggio per le giovani toghe». Per questo, a Roma, Fuzio non dà tregua sul decreto: «Devono cambiarlo, non può restare così, c’è anche il rischio di una ricaduta sui processi in corso». Una frecciata alla politica e a Renzi che, in questa veste, sarebbe un normalizzatore.

il Fatto 17.6.14
L’Anticorruzione con le mani legate
di Bruno Tinti


L’anticorruzione e la sorveglianza sulle amministrazioni pubbliche non le ha inventate Renzi. L’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici esisteva dal 1994 e la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche dal 2009. Averle unificate nella nuova Autorità affidata a Raffaele Cantone è la dimostrazione della loro inutilità (d’altra parte, con quello che la magistratura ha scoperchiato…); e dell’inefficacia del controllo attribuito a persone provenienti dal mondo della politica o della pubblica dirigenza. Era necessaria, si è capito, una personalità esterna al mondo da controllare: un Cincinnato o, se volete, un Ambrosoli. Un buon inizio dunque. Naturalmente non si va alla guerra senza armi. E la creatura di Cantone, l’Anac, ne ha ricevute due importanti.
1) Può ricevere notizie e segnalazioni di illeciti, il che sembra ovvio e in effetti lo è; ma il denunciante può essere mantenuto anonimo e, nei casi in cui sia assolutamente indispensabile farlo venire allo scoperto, non può essere licenziato dalla società denunciata. Una sorta di testimone della regina che sarebbe bellissimo esportare in ambito penale, magari con l’“immunizzazione” del corruttore o del corrotto che denuncia per primo il reato. Nessuno ci proverebbe più sapendo che, al primo accenno di indagine, scatterebbe la gara a chi denuncia l’altro. Va da sé che, se la denuncia è calunniosa, 10 anni di prigione non glieli leva nessuno.
2) Propone la procedura di commissariamento per le imprese i cui amministratori siano indagati per corruzione, concussione e turbativa d’asta. Ma non tutte, e questo è il primo punto critico. Solo quelle che hanno avuto appalti per l’Expo. Il Mose non è degno di altrettanta attenzione? E altri grandi appalti (magari da limitare con una soglia di rilevanza economica)? E poi proporre non vuol dire ottenere: non è l’Anac che adotta il provvedimento, è il Prefetto a cui l’Anac lo propone. Però la nuova legge dice che il Prefetto “può” nominare il commissario, “valutata la particolare gravità dei fatti oggetto dell’indagine”. E qui si aprono molti buchi neri.
SE C’È UN’INDAGINE penale la “proposta” dell’Anac è obbligata, non discrezionale: la legge dice “propone”, non “può proporre”. Ma la decisione del Prefetto è discrezionale: dispone il commissariamento “valutata la particolare gravità dei fatti oggetto dell’indagine”. Quindi chi deciderà di commissariare questa o quella impresa non sarà Cantone ma qualche sconosciuto Prefetto. Al di là del dato formale, i Prefetti dipendono dal Ministro degli interni e l’Anac da quello dei trasporti, si può essere certi che Cantone non dipende da nessuno e che lo stesso non può dirsi con sicurezza per ogni Prefetto.
Certo, un conflitto Anac-Prefettura sarebbe imbarazzante per il Governo; ma di Autorità – magari senza Cantone – finite come reggicoda della politica (vi ricordate le conversazioni tra B e Innocenzi dell’Agcom?) ce ne sono state molte.
E poi c’è il problema Tar. Il provvedimento del Prefetto è ricorribile in via amministrativa. I presupposti del ricorso sarebbero: la qualità di indagato dell’amministratore, e qui c’è poco da discutere; e “la particolare gravità dei fatti”. E qui ogni avvocato potrà riempire volumi. Al ricorso può seguire la sospensiva: il commissario potrà essere messo in stand-by fino alla sentenza. E poi comunque c’è il Consiglio di Stato.
INSOMMA, questo inciso puzza tanto di sistemi ben conosciuti dalla politica: si fa finta di costruire e si apprestano i sistemi per distruggere. Era molto meglio condizionare il commissariamento alla sola iscrizione nel registro degli indagati; così com’è si rischia una tela di Penelope.
Infine c’è un altro problema non da poco. Sarebbe meglio parlare di amministratori dell’impresa e non dei “componenti degli organi di amministrazione”. In questo modo il commissariamento potrebbe scattare anche se indagato è l’amministratore di fatto e non il semplice prestanome sbattuto in CdA e che non sa nulla di nulla. Si sa bene che i “padroni” di una società spesso non hanno nulla a che fare con gli “organi di rappresentanza legale o di amministrazione”.
Detto questo, l’Anac potrebbe essere una buona cosa. Perché c’è Cantone. Ci avessero messo il solito grand commis, si può esser certi che sarebbe stato fumo negli occhi. Il che ci riporta al grande pensiero di Snoopy sdraiato sul tetto della sua cuccia: “Se la mente del giudice funziona, la legge è sempre buona.”

il Fatto 17.6.14
L’intervista a Massimo D’Alema
“Lobby e partiti? I nostri pm negli Usa arresterebbero tutti”
di Alan Friedman

Questa intervista a Massimo D’Alema è stata registrata il 20 agosto 2013
GIOVEDÌ in seconda serata, alle 23.15, esordirà su La7 il nuovo programma di Alan Friedman, che prende il titolo dal suo recentissimo libro: “Ammazziamo il Gattopardo: il Gioco del Potere”. Nella prima puntata c’è un’intervista a Massimo D’Alema, registrata nell’agosto di un anno fa. L’ex premier sfodera il meglio del suo antico repertorio: il primato dei partiti e l’idiosincrasia per la società civile. La parte relativa al finanziamento della politica è antecedente alla nuova legge che prevede di destinare il 2 per mille ai partiti e D’Alema fa un parallelo con gli Stati Uniti. Per la serie: “Lì i magistrati italiani arresterebbero tutti”. Per D’Alema il declino del Paese è iniziato con il crollo dei partiti, sostituiti dai movimenti personali, compreso il Movimento 5 Stelle (Renzi non c’era ancora).
Questa intervista a Massimo D’Alema, nella sua tenuta umbra di Otricoli, è stata registrata il 20 agosto 2013.
Lei nel ’97, a marzo, a Gargonza, disse che l’Ulivo non era il modello che ci voleva.
A Gargonza dissi una cosa sacrosanta. Siccome dissero “abbiamo vinto le elezioni per merito dell’Ulivo”, dissi “bah, abbiamo vinto le elezioni innanzitutto perché siamo riusciti a fare in modo che Berlusconi e Bossi arrivassero divisi alle elezioni” sennò avrebbero vinto loro, Ulivo o non Ulivo. E tutta questa esaltazione della società civile contrapposta ai partiti aveva un che di retorico. Che cos’è la società civile? Quelli che votano Berlusconi non sono civili?
Sono quelli che votano Grillo oggi?
È una espressione carica di ambiguità, la società italiana. Sono quelli che hanno votato Berlusconi, che ha rischiato persino di vincere le ultime elezioni dopo tutto quello che aveva fatto. Quindi, questa esaltazione acritica della società civile, come se ci fosse una società civile buona e i partiti cattivi, è una ideologia cattiva, cioè che non ha nessuna verità, non aiuta a capire niente. Semplicemente alimenta il qualunquismo contro i partiti. Il dramma dell’Italia non è l’invadenza dei partiti, è che i partiti non ci sono più, dove sono i partiti?
Cosa è il partito di Grillo?
Sono dei movimenti personali, diciamo le cose come stanno.
Ma sono nove milioni di italiani.
Sino a quando il nostro paese è stato guidato dai partiti, prima che iniziasse la crisi dei partiti democratici - che secondo me inizia alla fine degli anni ’70 con la morte di Moro e con il fallimento della solidarietà nazionale - in quel periodo che va dalla Resistenza fino alla morte di Moro, l’Italia, che era un Paese distrutto dalla guerra, è diventata la quinta potenza industriale del mondo. Finché il Paese è stato guidato dai partiti, è cresciuto.
Quell’espressione, “la quinta potenza”, fui io a coniarla sul Financial Times, ricorda?
Esatto. Quindi, finché l’Italia è stata guidata dai partiti è andata bene, quando i partiti sono andati in crisi per la corruzione, per la caduta dei valori, dei principi, delle ideologie, è cominciato il declino, negli anni ’80, non negli anni ’90.
Già con il pentapartito?
Sì, perché la crisi dei partiti comincia 10 anni prima del loro crollo. Se si arriva al crollo all’inizio degli anni ’90 è perché la struttura ormai è marcita, ma fino a quando i partiti popolari hanno mantenuto una loro vitalità, una loro forza, e hanno guidato il Paese, lo hanno trasformato in senso moderno, ognuno nel suo ruolo. La Dc da una parte, i comunisti dall’altra parte, in un modo straordinario. Quindi il male dell’Italia non sono i partiti.
La mancanza, piuttosto.
Finiti i partiti, le istituzioni sono state occupate da una neoborghesia che non ha nessuna ideologia, nessun valore, nessuna cultura politica, nessuna formazione se non quella di vedere nella politica un modo per sbarcare il lunario e per arricchirsi personalmente.
Ma questa borghesia si trova solo nel Pdl (oggi FI, ndr) o anche nel Pd?
Non c’è dubbio che il Pdl ne è l’emblema. È il partito che la rappresenta in modo organico.
Mentre nel Pd?
Anche il Pd è esposto a questi fenomeni di opportunismo, di carrierismo, di gente che salta sul carro del partito che va al potere.
Annullare il finanziamento ai partiti?
Dunque noi saremmo l’unico paese al mondo che non avrebbe una forma di finanziamento ai partiti , se si annulla quello pubblico bisognerà agevolare quello privato.
Con trasparenza, come in America che le banche di settore, le lobby, contribuiscono ma sono pubblicamente identificate come contribuenti.
L’America non è un grande modello, perché il peso di quelle contribuzioni è tale da condizionare la vita politica in modo impressionante. Quando il presidente degli Stati Uniti nomina ambasciatore uno di quelli che hanno contribuito
alla sua campagna elettorale è normale. Se lo facessi io, primo ministro italiano, verrei arrestato dal procuratore, perché sarebbe voto di scambio e immediatamente sarebbe un grave reato. Quando io vado alla Clinton Global Initiative e mi guardo intorno penso che se ci fosse pm arresterebbe tutti, praticamente è una specie di reato di massa. Perché lì ci sono industriali e politici che si incontrano.
Si chiama networking. Il vostro networking è più privato, più intimo. Vi vedete a cena, a Capalbio.
Io non vado a Capalbio, non vado più a cena con queste persone però non deve pensare che queste persone tirino fuori molti soldi. Io penso che la politica ha bisogno di essere finanziata, poi si trova un sistema in cui si decide che anziché essere un trasferimento fisso dello Stato decidono i cittadini come per la Chiesa cattolica, si stabilisce un 8x1000, un 5x1000...
Non rischia di identificarsi all’Agenzia delle entrate, politicamente, a quel punto?
Ho capito ma noi siamo un Paese nel quale se io voglio, posso finanziare la chiesa degli avventisti del settimo giorno e non il mio partito? Ci sarà un sistema? Io capisco che i partiti devono essere messi fuorilegge secondo qualcuno. Verranno i militari come in Egitto, non lo so?

l’Unità 17.6.14
Il mondo virtuale di un padre killer

di Luigi Cancrini
Allucinante, nella vicenda di Motta Visconti dove un uomo ha confessato di aver ucciso la moglie e i due piccolissimi figli, sembra soprattutto la freddezza, la lucidità apparente della sequenza, la distanza che separa la percezione di quello che la persona fa o sta facendo dalle emozioni, sue e degli altri. Ma allucinante sembra, ugualmente, la povertà incongrua delle motivazioni, mogli e figli uccisi perché di ostacolo ad una relazione che non c’è, cui l’altra persona, quella di cui lui si è “innamorato” non è disponibile.
Anche nel momento della confessione che arriva al termine di un lungo confronto, quando Carlo crolla di fronte «all’evidenza dei fatti », come dicono gli investigatori, il “crollo” avviene senza pianti e senza sconvolgimenti perché quella che resta attiva, anche nel momento della confessione, è la capacità difensiva di negare, prima di tutto a se stesso, la portata di quello che è accaduto.
Come se assomigliasse, Carlo, ad uno di quei personaggi del mondo virtuale, dei giochi violenti cui troppo spesso si gioca oggi, cui basta premere un bottone per eliminare le persone sentite come ostacolo alla propria “felicità” o al proprio “trionfo” ed in cui a muoversi sono personaggi negativi privi di una qualsiasi storia con cui dolorosamente si identificano a volte i più soli e i più sfortunati dei nostri ragazzi.
È per tutti questi motivi, credo, che in una clinica psichiatrica, quello cui naturalmente si pensa di fronte a questo terribile triplice omicidio, è il disturbo “psicotico”, fatto di “scissione” fra i ragionamenti e le emozioni e di debolezza sconnessa del pensiero che dà motivazioni fatue e solo apparentemente logiche ad un gesto palesemente fuori controllo. Ispirato ad una logica delirante in cui l’altro da Sé può diventare il Male assoluto se il dolore vissuto, fra presente e memoria, è troppo grande e se quella che si perde nel momento dello smarrimento è la dimensione del rapporto fra ciò che accade dentro di sé e ciò che accade fuori. Caratteristico della psicosi è proprio infatti il modo in cui, concentrata sul suo mondo interno e sul gioco oscuro delle paure che lo attraversano, la persona perde il contatto con il principio di realtà e con la realtà degli altri.
Che cosa c’è, tuttavia, alle origini di una situazione folle come quella che ha coinvolto Carlo, Cristina e i loro figli? La prima osservazione, la più semplice, è quella che riguarda il modo in cui dei disturbi psichiatrici gravi non vengono intercettati dal modo attuale di funzionamento del nostro sistema sanitario. Credo di poter dire qui con una certa sicurezza che esplosioni come quella di Carlo sono sempre precedute da segnali che ne indicano la possibilità e che vengono troppo frequentemente sottovalutati. Di tensioni nella coppia già qualche cosa trapela nella cronaca di oggi e quello che possiamo dire con relativa sicurezza è che un sistema di cura più attento alle difficoltà vissute dalle coppie e dalle famiglie avrebbe potuto intercettare in tempo il percorso del disturbo di Carlo.
Quello che d’altra parte andrebbe valutato con attenzione è il rapporto che c’è fra malattie come quella di Carlo e le esperienze vissute nel corso dell’infanzia. La violenza agita dell’adulto è spesso violenza, psicologica o fisica, subita nell’infanzia, la diffidenza con cui ci si tiene lontani da tutte le richieste di aiuto è il risultato non obbligato ma frequente di situazioni in cui il bambino non ha avuto la possibilità di avere fiducia nelle sue figure di riferimento.
Non sapremo mai se tutto questo è accaduto davvero nel caso di Carlo ed è sicuramente onesto dire qui che quella da me affacciata altro non è che una ipotesi di spiegazione. È però certo che ci sono situazioni, nella vita, in cui un’infanzia infelice prepara degli adulti gravemente malati che riversano sui loro bambini e sulle persone cui si legano affettivamente la rabbia vissuta un tempo in una situazione di totale impotenza.
Il dovere che ne consegue e che dovremmo sentire di più è quello di un grande rispetto per la sofferenza dei bambini di oggi oltre che per la sofferenza dei bambini malati che sopravvivono nel cuore, nell’anima e nei comportamenti degli adulti che stanno male e che del loro male si vergognano al punto da non saper chiedere aiuto.

Repubblica 17.6.14
La parrocchia, la bici, gli amici al bar la vita perfetta di Carlo “il represso”
di Massimo Pisa



Ci vogliono quelle dieci righe, quella pagina scarsa di verbale, per far crollare il muro del bravo ragazzo dell’oratorio. Aveva retto, come gli avevano insegnato, se l’era tenuto dentro quel racconto dell’orrore, stava ancora aggrappato a quella inverosimile storia messa giù coi carabinieri a cadaveri ancora da raccogliere in casa. Non lo avevano piegato le 16 ore consecutive nella caserma di Motta Visconti, con il padre e il fratello in sala d’attesa, non il paio d’ore con indosso la tuta dei Ris, perché i suoi jeans e la sua maglietta li stavano passando al microscopio i carabinieri della Rilievi, non il fermo per la strage della sua famiglia firmato alle 22 dagli investigatori ormai certi di averlo incastrato. Sereno, quasi sollevato, si era concesso una pennica dopo la pizza ai funghi e la coca cola con cui aveva pranzato, chiacchierando coi marescialli. Ma non un fiato nel viaggio verso l’altra caserma, quella di via Moscova a Milano. Poi, quel foglio. Lei. Che conferma nero su bianco quello che in paese pensavano, ma della persona sbagliata.
No, non la collega della moglie, quella che lavorava fianco a fianco di Maria Cristina Omes alla Sai di Motta, al primo piano di piazzetta Sant’Ambrogio dove ieri pomeriggio le persiane facevano muro dagli sguardi e dalle chiacchiere dei bar. Ma la collega di lui alla Wolters Kluver di Assago, dove ogni giorno Carlo Lissi portava il suo grumo di voglie inghiottite tra i giardini di via Ungaretti («il represso », lo chiamano ora gli amici, quasi a lavarsi via l’ombra del mostro con cui sono cresciuti) e lo riversava sulla vicina di computer. Lui, il ragazzo della parrocchia di don Gianni Nava dove ancora ieri i catechisti scacciavano come presenze demoniache i cronisti a caccia di qualche dettaglio su quel ragazzo pio, la domenica a messa e dopo in bici per gli sterrati e le case di corte di Motta, piccolo borgo antico a una fiondata dal Ticino e dai campi di pannocchie che lo separano da Casorate, il paese dove Lissi era nato. Tutto in un chilometro il suo mondo, tanto dista la villetta gialla di mamma e papà, tanto quella al Villaggio Nuovo dove da due settimane si era trasferito l’amico Carlo fresco di matrimonio e dove le urla ai gol e i pali di Italia-Inghilterra, troppo euforici, saranno il primo e fragile alibi di Lissi a sterminio già consumato. Esageratamente rilassato, a pensarci dopo, quel ragazzo che non era alla prima stranezza di serata, se è vero «ne abbiamo viste di partite insieme - come dirà l’altro amico Simone, quello prescelto per vedere la partita al pub di Besate e che per poco non fa involontariamente saltare quel piano di morte - ma sempre a casa sua. Non mi ha mai chiesto di andare a vedere le partite di calcio in un locale o in una piazza».
Stavolta aveva deciso di rompere, Carlo Lissi, e non era la prima volta. La ricordano ancora in tanti la scenata che Maria Cristina, l’amica di adolescenza, la promessa sposa di sette anni più grande e di personalità debordante, gli fece quando lui, a una settimana dal matrimonio, a chiesa e ristorante prenotati, e regali già pronti e smoking cucito, si presentò in via Ungaretti - allora casa degli Omes, mamma Pina Redaelli la lasciò a figlia, genero e nipoti dopo la morte del marito - per dire che lui non se la sentiva. «Tu non mi rovini la vita», gli urlò prendendolo per il colletto, ed eccole le foto sorridenti che ancora oggi si affacciano sulla bacheca di Cristina, Carlo ancora coi capelli in testa, Giulia che cristianamente allieterà la nuova famiglia dieci mesi dopo, agosto 2009. Tutto risolto? Solo per un po’, il tarlo si ripresenta nella testa di Carlo (una rara e sibillina frase postata sulla sua bacheca Facebook il 29 aprile 2011 recita «il mondo finirà di esistere quando vedrò un uomo normale sposare una multimiliardaria; ad oggi ho visto solo il contrario»), altra crisi, altre valigie fatte, altra scenata. E altro figlio, ecco Gabriele, tre anni dopo la sorellina.
Quadretto ricomposto. Il bravo papà salutista che si porta la mela per la merenda in azienda e cucina le torte coi pinoli. La piscina e il gazebo costruiti in giardino. Le vacanze sulle Dolomiti e in Liguria. I piccoli dolori domestici come quando Zeus non abbaia più sul prato, piaceri e preoccupazioni da genitori come il primo fidanzatino di Giulia e la foto della torta per il quarto compleanno («Tanti auguri alla mia piccola stellina»), ancora postata sui social network, le notti insonni per Gabriele e quella volta che si era mangiato una pastiglia di detersivo ed era finito di corsa al pronto soccorso. Ma era una scatola da cui Carlo Lissi voleva, doveva, uscire. Un mese fa aveva pubblicato una foto col suo nuovo look, testa rasata e sguardo ammiccante dritto in camera, verso una nuova evasione. Forse Cristina aveva intuito. Non mamma Pina, che appena domenica giurava ai carabinieri che «andavano d’accordo, si volevano bene ed io non ho mai assistito a litigi particolari tra i due, a parte qualche scambio di opinione normale tra i coniugi». Sul cancello di via Ungaretti ora c’è un foglietto a scacciare i curiosi: «La mamma e i parenti di Cristina e dei piccoli Giulia e Gabriele chiedono il rispetto per quanto accaduto alla loro famiglia. Chiedono di essere rispettosi del loro silenzio e del profondo dolore che stanno vivendo».

Corriere Io Donna 17.6.14
Dietro l’orrore
Vittorino Andreoli sulla strage di Motta Visconti: "Carlo Lissi non è matto. È incapace di gestire i sentimenti"
Secondo lo psichiatra l'omicida ha voluto "liberarsi di un ostacolo" nell'illusione di poter avere una relazione con la donna di cui si era invaghito. E quando è andato a vedere la partita, non aveva dimenticato. È un uomo amorale e anaffettivo: la donna per lui è una preda Leggi lo speciale sulla strage delle donne
di Anna Maria Speroni

qui

il Fatto 17.6.14
Vittorino Andreoli
“Per lui la famiglia era un ostacolo da superare”
intervista di Alessio Schiesari


No, Carlo Lissi non è matto. Nessuno schizofrenico, depresso si sarebbe comportato così. È solo un uomo banale, incapace di provare senso di colpa”. Non ha dubbi Vittorino Andreoli, psichiatra e scrittore (quarantacinque libri pubblicati con Rizzoli) nel dare un’interpretazione del triplice omicidio di Motta Visconti. Parla di trionfo della superficialità, una storia che ricorda da vicino un altro giovane sanguinario e incapace di provare sentimenti: Pietro Maso.
La dinamica di questo triplice omicidio lascia sbalorditi. Prima fa sesso con la moglie, poi uccide lei e i figli, infine va a gustarsi la partita al pub. È sempre la stessa persona a compiere questi gesti?
Oltre a queste tre fasi ce n’è una precedente, quella che ha realmente scatenato il resto della storia. È il rifiuto della collega di cui si era invaghito. È lecito supporre che questa donna gli abbia detto: “Non se ne parla, hai una famiglia”. Anche se a livello inconsapevole, l’assassino si è convinto che moglie e figli fossero l’ostacolo che gli impedivano di arrivare all’oggetto del desiderio. Quando fa l’amore con la moglie, il suo è un desiderio spostato: non vuole lei, ma la collega. Poi la uccide con un coltello, e lo stesso fa con i figli. Qui il tempo gioca un ruolo fondamentale: per uccidere tre persone così ci vuole tanto tempo, almeno dieci, quindici minuti. Un’enormità per una persona che soffre. Avrebbe potuto fermarsi.
E invece?
E invece a lui il senso di colpa, cioè la sensazione di malessere che si prova quando si commette qualcosa di sbagliato, manca completamente. Una volta finito il “lavoro”, va a vedere la partita. Ve lo immaginate mentre esulta per i gol?
Poi torna a casa e tenta goffamente di costruirsi
un alibi. Ma, anche vista la sua posizione sociale, ci si poteva aspettare avesse gli strumenti cognitivi per tentare un depistaggio migliore.
Ho appena terminato di studiare il caso di Udine, in cui un signore ha ucciso una ragazza che faceva jogging. Anche lì il piano era ridicolo: sarebbe bastato avere letto un giallo per organizzarlo meglio. Ma è un argomento che non regge: questi sono uomini passionali, che vivono solo di pulsioni. Lissi ha 31 anni, ma è un adolescente ritardato, un uomo – anzi un quasi uomo – privo di logica. Ormai le forze dell’ordine prendono quasi tutti gli assassini come questi perché fanno cose stupide. Io ho vissuto tra gli scimpanzé: si comportano allo stesso modo. Come negli animali, in questi uomini domina solo la gratificazione.
Perché il teatro di questi delitti è spesso una villetta di provincia?
La dinamica appena descritta avviene tra persone che stanno bene economicamente, quelle gratificate dalla vita. In passato si diceva che certe cose avvenivano nel degrado sociale, oggi non è più così. Il povero ha un contatto con la propria coscienza perché è angustiato dalla propria condizione sociale. Questa invece è una società amorfa, senza drammi, carenza e dolori. Si vive in funzione dell’acquisto della prossima macchina.
Si tratta di casi isolati?
No, questo è un caso estremo di una tendenza che esiste nella nostra società. Prendiamo la corruzione dilagante: una volta ci si vergognava di essere ladri. Oggi è diventata la norma. Il cervello ha due funzioni fondamentali: comprendere e provare emozioni. Si trovano in sedi diverse, ma nell’uomo normale sono collegate. Nel contatto tra le due funzioni si sviluppano i freni inibitori. Ma, nella società binaria del computer, in tanti ne sono sprovvisti.
Si è trattato di un raptus o di un omicidio premeditato?
C’è una terza categoria: l’omicidio della banalità. Da cinquant’anni frequento assassini in carcere: un tempo cercavamo spiegazioni profonde, scavavamo nel loro dolore. Qui non c’è niente da scavare, solo superficie. Per questo Lissi infierisce sui bambini anche se è inutile: anche loro sono un ostacolo al suo desiderio, l’altra relazione. Ne ha fatti fuori due, ma se avesse avuto cinque figli, li avrebbe uccisi tutti.

La Stampa 17.6.14
Vittorino Andreoli
Lo psichiatra: “Ha eliminato tutti perché li riteneva un ostacolo a una nuova vita”
intervista di Egle Santolini


«Un delitto banale. Si ricorda di quando noi psichiatri tiravamo in ballo, in casi del genere, i traumi e l’inconscio? Ora è tutto di una semplicità sconcertante. Basta la cronaca a riassumerlo».
Lo psichiatra Vittorino Andreoli ha eseguito perizie su alcuni dei casi di cronaca più efferati degli ultimi anni, tra cui l’omicidio di Pietro Maso e il caso Annamaria Franzoni. Gli abbiamo chiesto un parere sulla strage familiare di Motta Visconti: «Ovviamente si tratta di pura ipotesi, perché non conosco i particolari della vicenda», è la premessa. «Ma mi occupo di delitti da 55 anni e posso dunque attingere alla mia esperienza sul campo».
Fatta questa precisazione, professore, che cosa potrebbe essere successo sabato notte nella testa di Carlo Lissi?
«L’elemento scatenante mi pare possa essere stato il rifiuto di quella collega che gli piaceva. Poniamo che lei l’avesse rifiutato dicendogli che era un uomo sposato e con dei figli: ecco, in un soggetto incapace di reggere alla frustrazione, la famiglia potrebbe essere diventata soltanto un ostacolo da rimuovere. Secondo questa logica aberrante, quando figli e moglie non ci fossero più stati sarebbe potuto tornare da lei finalmente libero e dirle che si sarebbero messi insieme. Badi bene, neppure gli importa che l’altra non lo voglia: ma la riduzione della donna a oggetto è un altro filo conduttore. Seguendo questa ipotesi, troverebbe una spiegazione anche il rapporto sessuale con la moglie prima dell’omicidio: faccio con te quello che non riesco a fare con l’altra».
Questo è uno degli elementi che più genera raccapriccio. Insieme a quella partita seguita con gli amici, come se niente fosse.
«Ma tutta la sequenza è terribile. Uccide la moglie con un coltello. Sgozzandola, quindi scegliendo il punto giusto, sapendo quello che faceva: e comunque possiamo immaginare un massacro di una decina di minuti. Eppure quello che è successo non lo turba: al punto che passa nella cameretta della figlia e lo ripete. Lo fa infine una terza volta, sul bambino di venti mesi. L’orrore non l’ha fermato: durante questo percorso non avverte il senso di colpa».
Poi simula la rapina ed esce per andare a vedere la partita.
«Anche qui: senza turbamento, per crearsi un alibi. Vede, è l’assoluta mancanza di senso di colpa a segnalarci la mancanza di pentimento».
Eppure, quando crolla durante l’interrogatorio Lissi chiede per sé «il massimo della pena».
«Nella mia esperienza, chi si pente è ammutolito e vuol punirsi soltanto da solo: e infatti spesso subito dopo la strage si toglie la vita. Ma la domanda a questo punto è un’altra: come fa un semplice rifiuto, una vicenda così banale nella vita quotidiana, a scatenare una carneficina? ».
Oppure, se preferisce, come mai qualcuno diventa assassino e molti, per fortuna, no?
«Perché succeda occorre che s’instauri la completa mancanza di senso di rispetto per l’altro: che cioè importino soltanto i propri desideri, le proprie pulsioni, nell’assoluta assenza di leggi morali, di qualsiasi tipo esse siano, e di freni inibitori. Purtroppo questi casi sono la manifestazione estrema di una mutazione antropologica molto presente nel mondo contemporaneo».
Che cosa intende?
«Mi riferisco al sempre più radicale scollegamento fra la sfera razionale e la sfera affettiva che presiede alle pulsioni, alle emozioni e ai sentimenti: oggi molti individui dotati di intelligenza, di razionalità, sono sempre meno capaci di gestire le proprie emozioni e se ne lasciano sopraffare. A questo aggiunga l’assoluta svalutazione della morte, che in molti casi non è più il dramma finale, il limite o, per chi ci crede, la via al paradiso. Oggi viene considerata soltanto come uno spettacolo. E, nella sostanza, non conta più nulla».

l’Unità 17.6.14
I vicini increduli: «Una persona tranquilla»


Via Piana di Sopra, a Mapello, è un budello a senso unico che scende fra le case in muratura, vecchie cascine di montagna ristrutturate. Un pugno di abitazioni in cui tutti conoscono tutti. Per questo quando ieri la macchina dei carabinieri ha portato via Massimo Bossetti, la notizia si è sparsa in un attimo fra i vicini che sono subito scesi in strada, prima increduli poi quasi spaventati all’arrivo dei primi cronisti. Dietro al portoncino a vetri, la famiglia di Bossetti chiusa in un silenzio choccato. «Un bravo ragazzo, un muratore in proprio che conduceva una vita tranquilla», le uniche parole dei pochi vicini disposti a parlare. Non ci credono, non riescono a pensare che Massimo sia l’assassino di Yara come invece dicono i carabinieri. «Non è di qua», dice un altro passante camminando in fretta. «È arrivato qui e si è sposato con una ragazza del posto - aggiunge - Speriamo solo che non sia vero ». La moglie di Bossetti è uscita ed ha raggiunto la caserma dei carabinieri di Bergamo, dentro assieme ai tre figli della coppia ci sono il cognato e la suocera dell’uomo, Fuori un’auto dei carabinieri controlla con discrezione.
Quarantaquattro anni, Bossetti era nato e cresciuto a Clusone, una quarantina di chilometri più su verso le Alpi Orobiche. «Un lavoratore serio», dicono da una macchina di passaggio che si ferma allo stop in fondo alla strada. Un padre di famiglia che, secondo l’accusa, in questi tre anni e mezzo avrebbe celato il più orribile dei segreti fra la passione per l’aliante e l’amore per i cani le cui foto riempiono la sua bacheca Facebook in mezzo a quelle dei tre figli. Un maschietto, il più grande, e due femminucce. Capelli chiari e occhi azzurri, così uguali a papà Massimo da sembrare quattro gocce d’acqua. «Le mie majorette», commentava lui il 17 maggio sotto una foto che ritrae le bambine. «Eccoli i miei veri amori» sotto un altro scatto che ritrae i bimbi con la moglie di Bossetti.
Yara aveva tredici anni quando sparì nel nulla, inghiottito nel buio delle campagne di Brembate, più o meno l’età delle due figlie di Bossetti.
Nel paese della famiglia Gambirasio l’atmosfera è diversa: c’è cautela nelle parole delle persone, ma c’è anche la sensazione che forse un incubo è finalmente ferito. «Speriamo che giustizia sia fatta - dicono alcuni dei vicini -, e speriamo che la persona arrestata sia il colpevole: in questo modo la famiglia potrà avere delle risposte ». A dare la notizia della svolta del caso ai genitori di Yara, Fulvio e Maura, è stato il pm Letizia Ruggeri che in questi tre anni e mezzo non si è mai arresa e ha continuato ad indagare in silenzio spesso sopportando le critiche di chi sembrava ormai convinto che il mostro, l’assassino, non avrebbe mai avuto un nome e un volto. Ha voluto essere lei a telefonare in casa Gambirasio, lei a dire a Maura e Fulvio che forse stavolta è finita davvero. Pochi minuti e sotto casa dei Gambirasio c’era già una piccola folla di cronisti. Ancora telecamere, ancora carabinieri. Questa volta, però, la notizia arrivata è quella che più si era attesa.

il Fatto 17.6.14
L’inverosimile vero del male assoluto. I particolari in cronaca
di Daniela Ranieri


Da quando la cronaca nera ha scoperto lo storytelling, di ogni fatto di sangue che trapela dalle questure veniamo a sapere protagonisti, dettagli, progressione nelle indagini, svolte. Si scatena la sociologia, i telefoni degli psichiatri bollono, moventi e alibi fanno man bassa delle sottili disquisizioni tra garantisti e giustizialisti.
Così domenica mattina apprendiamo che a Motta Visconti (toponimo che non potremo più ignorare, come Cogne), un uomo, tornato a casa nella notte dopo la partita (la stessa che noi abbiamo guardato fino a tardi), vi ha trovato moglie e figli sgozzati.
La scena del delitto è descritta come “angosciosa”. La nostra attenzione spossata dal caldo e dalla nevrosi politica si allerta. Si promettono “foto”, ma sono immagini di macabra normalità edilizia. Andiamo in cerca di dettagli, presto confezionati per quel voyeurismo in cui il kitsch si mischia al sentimentalismo di Facebook, da cui peraltro provengono le foto della famiglia, bambini compresi. Lunedì arriva, puntuale, la svolta: il marito e padre confessa l’orribile delitto. Il tema del mistero estivo si complica, si fa shakespeariano.
La sete di cronaca tradisce un bisogno un tempo coperto dalla letteratura, che oggi non si fa più carico di sondare gli abissi del male; la spietatezza calata in un ambiente domestico e familiare rinfocola in noi quella vocazione ad essere contemporaneamente “carnefici e spettatori”, come dal saggio omonimo di Alessandro Dal Lago. I media accelerano quel mix di insensibilità e moralismo che ci fa consumare moduli di orrore quotidiano nelle forme previste dallo spirito del tempo.
Nell’800 il feuilleton si incaricò di romanzare il male sui quotidiani cittadini; correndo verso il Grand Guignol, fece un’epica a puntate del sangue versato nelle strade di Londra e Parigi, finché non si seccava e una nuova ferita veniva aperta su un altro corpo innocente. Ciò che colpiva, allora come ora, era la commistione tra l’elemento sensuale e quello familiare, che generava la sensazione del perturbante.
MA SE OGGI la letteratura è un levigato racconto della decenza, dei buoni sentimenti, del narcisismo banale del bene, e sui social media avvampano stimoli da un minuto, il pubblico ha nondimeno diritto ad essere divertito. Non è vero che la vita è più piatta e non romanzesca. Al posto dei romanzi di Dickens abbiamo i plastici delle villette; invece del tragico e del lombrosiano, gli appostamenti in paese delle tv del pomeriggio.
L’infanticidio reitera una figura mitologica e letteraria che ci chiama in causa: come scrive Pietro Citati ne Il Male Assoluto, Dickens e Dostoevskij sapevano che la “tetra furia sadica” racchiusa nel cuore degli uomini si scatena soprattutto contro i bambini, “come se il mondo volesse colpire la propria parte più tenera e indifesa, e così offendere meglio sé stesso”.
Qui il “comportamento lineare” tenuto dal padre “a delitto scoperto” sposta tutto verso l’ossessivo, lo psicologico. Sotto interrogatorio, l’uomo avrebbe trasmesso agli inquirenti la sensazione di "un’enorme stanchezza" per la vita familiare. Si allude a un’altra donna: l’elemento sessuale si insinua nel mostruoso, a sua aggravante.
Il sospetto di una vita alternativa a quella appena annientata apparenta l’uomo al protagonista del romanzo di Emmanuel Carrére L’avversario, basato sulla vicenda di Jean-Claude Romand, che nel ’93 uccise la moglie, i due figli e il giorno dopo i genitori: per 18 anni aveva finto di essere medico e ricercatore dell’OMS a Ginevra, e temendo di essere scoperto decise di annientare quella vita simulata che per lui era la sola vivibile.
Anche l’abisso umano toccato a Motta Visconti poggia su un quadro di normale patologia quotidiana, ottima base per quel genere che un tempo appassionava le donne isteriche. Il dettaglio banale della partita, tramite incredibile tra lo sgozzamento di moglie e figli e la confessione, dice che l’omicidio non è frutto di un raptus ma è stato premeditato da tempo, “magari quando sono usciti i calendari delle partite in Brasile”. Così per un attimo i pensieri dell’omicida si sono incrociati coi nostri, che hanno preso tutt’altra direzione per poi essere catapultati dallo storytelling nell’inverosimile vero del male assoluto.

Repubblica 17.6.14
Dostoevskij a Motta Visconti
di Adriano Sofri


BENCHÉ la scena del crimine fosse meticolosamente costruita in modo da far pensare a una rapina “andata a male”, come si dice, era inverosimile che dei rapinatori si prendessero la briga di uccidere un bambino di venti mesi, che non avrebbe potuto testimoniare contro di loro. Questa ragionevole osservazione, pressoché universalmente avanzata, ha una conseguenza: che se è inverosimile che dei rapinatori sgozzino, oltre a una giovane madre e alla figlioletta di cinque anni, il piccolo di venti mesi, è verosimile che lo faccia il loro uomo, marito e padre. Da lui non era ragionevole aspettarsi che risparmiasse nessuno: doveva liberarsi della sua famiglia, dunque di sua moglie e delle due creature che da lei erano venute e con lei dovevano andare. Logica e morale hanno il loro banco di prova in fatti di cronaca nerissima come questo: non è del tutto vero dunque che siano incomprensibili, inconcepibili, pazzeschi.
Il caso è stato risolto rapidamente, come aveva auspicato il capo della procura pavese: nel giorno stesso in cui è stato risolto, a quasi quattro anni di distanza, un altro caso orribile, quello che aveva avuto per vittima Yara Gambirasio. Nel giorno e mezzo che è durato il mistero sul triplice assassinio di Motta Visconti, abbiamo fatto in tempo a sentire un gran numero di testimoni accorati assicurare che quella era una famiglia felice, esemplarmente felice. Ecco un’altra nozione che la cronaca nera dichiara sospetta se non losca: la famiglia felice. Viene voglia di correggere Tolstoj così, che tutte le famiglie felici sono infelici a loro modo. Non è così, naturalmente, e ci sono davvero famiglie felici o semplicemente affettuose, pazienti, rispettose, altruiste. È Dostoevskij, e non Tolstoj, a render conto di un avvenimento come quello del sabato notte di Motta Visconti, la notte di Italia-Inghilterra. Dostoevskij avrebbe ritagliato la pagina di cronaca e l’avrebbe fatta ripetere tal quale da Ivan Karamazov. Un giovane uomo dalla famiglia felice pensa che la notte della partita inaugurale dell’Italia nei campionati del mondo sia l’occasione per liberarsi dei pesi e rinnovare la propria vita. Prima della mezzanotte, quando la bambina, che andrà a scuola dopo l’estate, dorme nella sua stanzetta, e il piccolo dorme nel letto grande, l’uomo ha “un momen- d’intimità”, dicono gli inquirenti, o forse ha detto lui, con sua moglie: “fanno l’amore”, insomma, nel soggiorno della loro casa. Lui va in mutande in cucina, prende un coltello da cucina, un coltello da uxoricidio, torna e la pugnala alle spalle, poi, mentre lei lo guarda e ancora gli parla, la stordisce e la sgozza. Poi va a fare lo stesso coi due bambini, “nel sonno”, dice, benignamente. Poi mette accuratamente in disordine la casa, come avrebbero fatto, secondo lui, dei rapinatori. Poi va a lavarsi e vestirsi, esce, butta il coltello in un tombino, raggiunge gli amici al bar e si unisce ai festeggiamenti nella notte che torna a essere anche per lui la notte di Italia-Inghilterra. Esulta in modo particolarmente acceso per i gol dell’Italia, si commuove, magari. Torna a casa, si attarda in garage - per non far rumore, per non svegliarli - rientra e scopre il disordine e il sangue e i cadaveri e dà l’allarme. Non si può fare niente di più che raccontare come sono andate le cose, come lui le ha raccontate, il primo racconto e poi il secondo. Non si può esercitarsi a rispondere a domande: perché ha fatto l’amore con lei prima? Perché ha pensato di cavarsela? Perché è arrivato a una simile esaltazione e insieme a una simile freddezza? Bisogna fermarsi alle cose come sono andate. “Perché?” - avrebbe potuto chiederlo solo la sua bambinetta, nell’intervallo fra il sonno e la morte, che lui vorrebbe cancellare. “Perché?” - gli ha chiesto sua moglie, mentre lui l’accoltellava: “Perché mi fai questo?”.
Ivan Karamazov avrebbe raccontato quello che scrivono le cronache, e non avrebbe trovato risposta alla domanda: perché tanto male inflitto ai bambini, perché la sofferenza dei bambini? Noi siamo forse più attenti, o almeno possiamo esserlo, al male inflitto a quella madre e alle donne che gli uomini uccidono. Dostoevskij credeva ancora all’inganno tragico degli uomini che uccidono per amore, e il suo Idiota, il sublime principe Myskin, abbraccerebbe forse l’uomo che ha assassinato la sua famiglia come il più bisognoso dei fratelli, senza attenuare perciò il proprio orrore, e anzi scegliendo di uscire di senno per non rassegnarsi a una simile realtà. L’uomo di Motta Visconti - un paese che, come ogni altro, non meritava di farsi un nome così - troverà forse anche lui chi lo abbracci, per generosità o per ottusità. Alla fine della sua confessione, dicono, ha chiesto piangendo: “E ora datemi il massimo della pena”. Frase detestabile, nessun massimo della pena può commisurarsi a quello che ha fatto. Avesse chiesto il minimo della pena, non sarebbe parso più fuori luogo. Ha anche detto, pare, di essere stato indotto a sbarazzarsi della famiglia, a filo di coltello piuttosto che con un comune noioso divorzio, per amore di un’altra donna, peraltro insensibile a lui. Mi è tornato in mente quel marito pakistano di una giovane donna lapidata a Lahore dai suoi famigliari, per essersi sposata “per amore”. A sua volta, l’uomo aveva ucciso la sua prima moglie, per essere libero di sposarla: “per amore”. Tanto vicine sono le infelicità delle famiglie felici, e i loro padri e mariti.

Repubblica 17.6.14
L’amaca
di Michele Serra


LA COSA più impressionante, nel famiglicidio di Motta Visconti e in tanti altri casi simili, è che alla scoperta di quel genere di stragi domestiche oramai scatta, immediato e automatico, il sospetto che ad architettarlo sia stato il marito e padre: come è poi stato puntualmente appurato. Avventurarsi nelle spelonche psichiche dove maturano simili orrori è complicato anche per psicanalisti e criminologi, figurarsi per noi atterriti e sprovveduti osservatori. Viene da osservare, però, che cronache e statistiche indicano nelle famose “mura domestiche” uno dei più diffusi scenari del crimine; e nei congiunti stretti, con larghissima prevalenza dei maschi, gli assassini. Le “mura domestiche” da protettive, in un attimo, diventano un reclusorio che alimenta la pazzia dell'uccisore, occulta allo sguardo sociale crudeltà e violenze, infine, quando tutto esplode, impedisce la fuga degli inermi.
Abbiamo imparato a dubitare della retorica della libertà sessuale, con tutte le facilonerie connesse, i rischi sottovalutati, le cicatrici inferte e subite; ma la retorica della “famiglia tradizionale” come luogo di sole virtù e soprattutto di sole sicurezze: quella, quando è che verrà messa finalmente in dubbio, magari aprendo un varco di salvezza per chi scappa?

Corriere 17.6.14
Caso Orlandi, la verità è un thriller
Marcinkus, Vaticano, trame e sesso: cocktail esplosivo di Pietroni
di Francesco Cevasco


È un’emozione forte già prima di arrivare alla prima pagina; una fascetta rossa con una scritta bianca «strilla» in maiuscolo: «La verità sulla fine di Emanuela Orlandi». Un millimetro sotto c’è la copertina del nuovo romanzo di Paolo Pietroni, Io sono un angelo nero (Barion editore, pp. 514,e 19).
Emanuela Orlandi, cittadina vaticana, figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia, è sparita, trentuno anni fa. Il manifesto incollato sui muri di Roma diceva che aveva 15 anni, era alta un metro e 60, aveva capelli lunghi neri e lisci, indossava pantaloni jeans, camicia bianca e scarpe da ginnastica. La verità su questa ragazzina non l’hanno scoperta (o non l’hanno voluta scoprire) la magistratura vaticana, quella italiana, i servizi segreti vaticani e quelli italiani. Ora Pietroni dà conto in questo romanzo di personali ricerche e propone una tesi molto precisa... (Pietroni è persona affidabile: a 9 anni faceva già un giornalino chiamato «il Pappagallo»; a 23 anni, diplomato all’Accademia dei Filodrammatici, faceva l’attore; poi ha capito che era meglio fare il giornalista e ha inventato dodici nuove testate; ha fatto anche uno scoop sui campi paramilitari fascisti; ha scritto svariati libri, compreso, con lo pseudonimo di Marco Parma, Sotto il vestito niente — tanto bello il libro quanto brutto il film di Carlo Vanzina — eccetera).
Però è pur sempre un romanzo, dicevamo, quindi opera di fantasia. Sì, però Pietroni è ostinato e tenace: insiste che è arrivato (vicino) alla verità. E, allora, prima di parlare del suo romanzo — come sarebbe giusto in queste pagine — parliamo della sua verità. È una verità che gli ha raccontato una fonte attendibile, un uomo di Chiesa. Che gli ha testimoniato di un altro uomo di Chiesa che ha visto una foto della ragazzina insieme con un altro (si fa per dire) uomo di Chiesa (quel «galantuomo» di Paul Marcinkus, ufficialmente allora arcivescovo; in realtà più dedito a giochi finanziari, forse anche erotici; e per distrarsi da soldi e sesso anche al gioco del golf). Insomma, ci sarebbe, c’è, un padre domenicano di Santa Maria delle Grazie, a Milano, dove vive il Cenacolo di Leonardo. (Sappiamo che l’Ultima Cena ha ispirato dietrologie inaudite). Quel religioso ha rivelato — senza svelare i segreti del Sacramento della Confessione — che la piccola Emanuela è stata vittima di un «gioco» più grande di lei; un gioco che all’inizio sembrava innocente, un’avventura da ridere, ma che alla fine è diventato una trappola (forse) mortale.
Nell’intrigo entrano, anche se di tangente, organizzazioni cattoliche che in confronto la massonica P2 è un gioco da ragazzi: i Legionari di Cristo e l’Armata Bianca della Madonna. Ci sarebbe anche una fotografia (Marcinkus ed Emanuela insieme) che confermerebbe il gioco prima innocente, poi complicato, poi torbido, poi letale in cui la piccola Emanuela sarebbe caduta. Innocente nella tela del Ragno Cattivo. Ma tutto questo è un romanzo, vero?
Quindi parliamo del romanzo. Per prendere una boccata d’aria fresca uscendo da quel Morbo che una certa Chiesa diffonde (o speriamo diffondeva, grazie papa Francesco della tua guerra contro il Male che c’è anche nella tua parrocchia), per prendere una boccata d’aria, dicevo, parliamo del libro di Pietroni come «oggetto» letterario. Un noir di 514 pagine spaventa soltanto a vederlo. Apparentemente pesa come una bistecca fiorentina; in realtà è leggero come un’ala di pollo. Pietroni (essere umano) è complicato come un labirinto, ma in questo libro scrive con l’arte di un bambino che ha perso la verginità ma non ha perso la sua ingenua capacità di guardare il mondo — e le vicende che osserva — con il desiderio e il talento di capire, di svelare agli altri e a se stesso quello che ha scoperto.
Il libro, la storia che racconta: prendete una rivista, «Mystère», e il suo direttore, che investiga e si chiama Paolo come Pietroni; prendete una giornalista, Marie Gilles, che si avvicina a scoprire il mistero di Emanuela Orlandi; prendete la stessa giornalista che scompare (sequestrata? volontariamente dissolta nel nulla?); prendete i servizi segreti dei Legionari di Cristo e dell’Opus Dei; prendete un alto prelato che dalla sua ricca villa di Castel San Pietro in Svizzera muove, gioca a muovere, pedine torri cavalli alfieri regine e re, che arrivano fino in Vaticano; prendete preti venduti, laici corrotti, donne appassionate, donne alter ego di se stesse; imbroglioni travestiti da persone per bene, finti scienziati delinquenti; prendete i mitici Bonobo, le scimmie più vicine a noi esseri umani ma che vivono meglio di noi perché il loro sesso è gioia anziché complicazione; prendete marescialli carabinieri investigativi intelligenti; prendete editori interessati ai soldi ma non soltanto; prendete seminaristi che chissà che fine hanno fatto; prendete donne che amano le donne; prendete la gente che scompare: in Italia scompare una persona ogni 24 ore... Frullate e viene fuori questo noir.

La Stampa 17.6.14
Il dramma di una mamma che sapeva
di Ferdinando Camon


Rieccola finalmente Yara, salta fuori dai giornali e dai siti, sempre in quella posizione della «spaccata», che le riesce così bene: porta ai denti l’apparecchio e lo mostra con disinvoltura, ormai s’è abituata, ce l’ha da un po’ di tempo. Ci guarda serena. Infinite volte abbiamo visto quella foto.
Ma fino a ieri la sbirciavamo di sfuggita, con un senso di colpa, e le chiedevamo scusa: «Facciamo quel che possiamo, ma non riusciamo proprio a trovarlo, chissà dov’è, sarà morto anche lui». Adesso la rivediamo, la sua foto balza fuori da tutti i siti, e noi restiamo a fissarla per il tempo di un breve dialogo: «Hai visto? Sei contenta?». Che stupida domanda. Lei voleva ciò a cui aveva diritto, povera ragazza: vivere. Ma è l’ebbrezza del momento, straparliamo tutti, il sindaco del paese ha perfino esclamato: «Sono felice», come se ci fosse un senso, oggi, a parlare di felicità. Ma Yara era un lutto per tutti noi, prendere chi l’aveva uccisa era un desiderio perenne in tutti noi, finché non l’avessimo preso non saremmo stati in pace, chi ha ucciso lei ha colpito una parte della nostra famiglia, ci ha fatto del male «personalmente». Io ho saputo che han trovato l’assassino (diciamo meglio: l’uomo che corrisponde al Dna dell’assassino) praticamente in tempo reale, mentre il ministro dell’Interno lo comunicava a chi di dovere. L’ho detto a due-tre amici. Questi ad altri amici. Si è messa in moto una tempesta di chiamate. Tutti vogliono sapere tutto, o il più possibile. L’han trovato? E chi è? Di dov’è? Poi, sottili aggiunte, che la dicono lunga su come gli italiani s’immaginano questi «assassini d’innocenti», vengono le domande che completano l’identikit: ha una madre? È sposato? Ha figli?
Chi fa queste tre domande, s’aspetta tre risposte negative, perché uno che fa una porcheria del genere non può sapere cos’è una madre, l’ha perduta o non l’ha mai conosciuta; è un nemico della vita perché la vita gli è stata nemica. Non può avere moglie e figli, perché se ha figli sa che perdere un figlio è più tremendo che morire, i figli sono le catene che ti bloccano nella vita e forse ti impediscono di fare le cose gloriose, ma anche e soprattutto le vituperose: avere figli e tendere alla normale moralità vanno insieme. E invece in questo caso non va così. Se l’assassino è questo, egli ha madre, ha moglie ed ha figli. Sono arrivati a fermarlo costruendo un identikit, diciamo così, biologico. Una volta cercavano l’assassino costruendo il suo identikit psicologico. Come dev’essere, psichicamente, l’assassino? Un maniaco? Un represso? Senza donne, senza figli, solo o con la madre vecchia? Consultavano psichiatri, psicanalisti, scrittori. Siamo sinceri: non indovinavamo mai. Non avremmo indovinato neanche stavolta. Pensavamo che non vivesse in zona: troppo pericoloso. Che non sapesse cos’è un figlio, una figlia, di quell’età poi, tredici anni: se ne fa scempio, è perché non sa che cosa distrugge. Qualcuno di noi pensava (mi ci metto in mezzo) che si potesse far leva sulla madre: signora, lei lo sa di aver avuto quel figlio da quel padre, sa che quel figlio ha ucciso una bambina, lo denunci per il suo (di lei) e il suo (di lui) e nostro (di noi tutti) bene. Ridia un senso alla vita di suo figlio. Non sapevamo se la madre serbasse del rancore verso il padre, ma ora scopriamo che ha dato al figlio il nome del padre, Giuseppe: li legava tra loro, uno all’altro, e non con noi. Non le interessava la giustizia di Yara, ma solo la salvezza del figlio. Se le ricerche sono fondate, ci sarà invece la giustizia per Yara, e (mi ripeto) anche la salvezza del figlio, nella forma della redenzione. L’unica salvezza possibile. Yara, è poco, è tardi, ma di più non potevamo fare. (fercamon@alice.it)

l’Unità 17.6.14
La democrazia e l’opinione pubblica
di Michele Ciliberto


SENZA OPINIONE PUBBLICANONESISTE DEMOCRAZIA, MA ESSA A SUA VOLTA PUÒ ESISTERE SOLO SE CI SONO STRUMENTI CHE LA RENDANO POSSIBILE E LAORGANIZZINO. I partiti sono stati anche, per un lungo periodo, una struttura utile per il ruolo e la funzione dell’opinione pubblica, e anche in questo senso sono stati un principio della democrazia moderna. «Opinione pubblica » è infatti un concetto moderno, sviluppatosi in sintonia con lo sviluppo della democrazia di cui è un pilastro essenziale.
Essa rappresenta un elemento di tensione strutturale con il potere e nei momenti di crisi - di indignatio - può diventare un elemento di sovvertimento dello Stato. Democrazia ed opinione pubblica, modernamente intese, sono due aspetti della stessa realtà.
Come stanno oggi le cose nel nostro Paese? Esiste una opinione pubblica? E quali sono gli strumenti attraverso cui essa si organizza e fa sentire, in modo concreto, la sua voce? A me pare che la risposta a queste domande sia difficile. Esiste una opinione pubblica, ma essa non dispone degli strumenti per farsi valere, né questo stupisce se si pensa alla crisi della nostra democrazia. Non mi sto riferendo all’opinione pubblica costituita dalle elites nazionali, ai gruppi dirigenti: mi riferisco all’opinione pubblica diffusa, quella che sostanzia i suoi giudizi ricorrendo anche al “senso comune” che è, al suo livello, una dimensione essenziale della opinione pubblica. Questa “opinione” ha oggi pochi strumenti a propria disposizione: la crisi dei partiti di massa è stata per molti aspetti anche la crisi della opinione pubblica.
Per quanto disorganizzata, e anche disgregata, esiste però una opinione pubblica dai tratti chiari e ben definiti. È una opinione pubblica segnata da due caratteri essenziali: il risentimento da un lato e la voglia spasmodica di cambiamento dall’altro. Entrambi sono ormai a una temperatura assai elevata: un risentimento radicale, profondo, ulteriormente acuito dai fenomeni di corruzione e degenerazione che continuano a invadere, come un fiume avvelenato, l’Italia; un’ansia di mutamento addirittura spasmodica che tende a vedere nell’esistente un ostacolo comunque da eliminare, in una sorta di notte in cui tutte le vacche sono nere. E l’uno e l’altra, se non riescono a far sentire la propria voce, cioè a generare trasformazioni visibili, tendono ad accentuarsi in modo ulteriore, come in un circolo vizioso. Più è delusa, più l’opzione pubblica diventa aggressiva, violenta e si affida a leader politici altrettanto violenti e aggressivi, come avviene quando la politica diventa, senza mediazione, pura “passione”.
In questo senso la velocità che il premier sta imprimendo al governo è assai importante in generale e in modo particolare per la democrazia italiana. Se le istituzioni democratiche non decidono, esse decadono: le derive autoritarie scaturiscono dalla crisi della decisione, non dalla capacità di decidere. Tanto più in un momento di crisi organica come quella che stiamo attraversando. Di fronte a questa opinione pubblica decidere, e decidere in modo veloce, è oggi fondamentale. Chi non lo capisce è fuori del mondo, perché non avverte che siamo seduti su un vulcano.
Questa situazione pone a chi governa, e alle classi dirigenti in senso largo, un problema specifico ma decisivo: devono essere capaci di controllare la marea che sale senza farsene travolgere. Devono, in altre parole, esercitare il potere e al tempo stesso limitarlo, dando un esito positivo al risentimento e alla richiesta di mutamento. Il che significa stabilire un rapporto differente, e non puramente distruttivo, con la situazione in tutti i suoi aspetti, situandosi in un punto di equilibrio tra presente e passato: tra il presente del passato e il presente del futuro, avrebbe detto Agostino.
E qui il compito del governo e di chi lo dirige è davvero essenziale, proprio dal punto di vista della tenuta democratica della Nazione perché il punto di equilibrio è precario, instabile. Faccio due esempi. Personalmente trovo discutibili alcuni aspetti del decreto legge sulla Pubblica Amministrazione che mi pare siano intrisi di demagogia, proprio per venire incontro ai sentimenti della opinione pubblica che va invece diretta e non subita. Ma è uno sbaglio provvedere in questo modo. Mi è sembrato invece notevole il discorso del segretario del Pd quando si è riferito all’Unità rivendicando «l’importanza delle storie», che non devono essere ridotte a un museo delle cere perché, adeguatamente interrogate, sono ancora in grado di sprigionare energia per il nostro vivere civile.
Sono, mi rendo conto, due esempi assai diversi. Faccio però questa osservazione perché mi è sembrato di intuire in quelle parole il senso di una storia che vive anche attraverso rotture e discontinuità, ma svolgendo un filo che non deve essere distrutto, specie quando si intreccia, come in questo caso, a un processo di liberazione individuale e collettiva di milioni di uomini. Il presente del futuro nasce dal presente del passato.
Ma l’opinione pubblica - la democrazia - non possono essere interpretate “dall’alto”, anche quando questo viene fatto in modo positivo e progressivo, come sta in effetti avvenendo oggi. Vorrei essere chiaro su questo. Si possono avere idee molte diverse su punti specifici e anche gravi dissensi; è difficile però negare che in Italia si stia avviando con determinazione “giacobina” un processo di modernizzazione che si sforza di tenere insieme sviluppo e progresso. Da questo punto di vista l’apertura di una nuova stagione riformatrice sui diritti civili è fondamentale: è una esigenza che ha cominciato ad esplodere negli anni Settanta del secolo scorso e che non è mai stata presa in adeguata considerazione sul piano politico e civile. Su questa inversione di rotta rispetto al passato non si discute. Ma proprio perché questa stagione si sviluppi, e non ricada su se stessa, è necessario che l’opinione pubblica si organizzi in modo e con strumenti nuovi, che non possono ridursi alla pur fondamentale funzione della Rete. E qui il discorso si incrocia con la presenza e la funzione dei corpi intermedi, dei partiti, dei sindacati, anche di un giornale come l’Unità. Se queste strutture fossero esistite, e avessero funzionato in modo democratico, i fenomeni di corruzione che abbiamo visto esplodere in queste settimane avrebbero più difficoltà ad imporsi. Se avessero funzionato, sottolineo. Lo so anche io che i partiti, e anche i corpi intermedi, sono stati un luogo di corruzione e non di lotta ai corrotti. Il medico si è trasformato nella malattia. Perciò sto ponendo il problema della “opinione pubblica” e degli istituti in cui essa deve potersi esprimere ed organizzarsi: l’opinione pubblica è un baluardo della democrazia, quando è riflessa, sedimentata; quando cioè si determina e, se necessario, si autolimita. Lasciata a se stessa, vive di risentimento, diventa volatile, fluida, imprevedibile, senza riuscire ad incidere sul vivere civile.
Mi vengono in mente le parole di Croce quando alla fine della Storia del Regno di Napoli si chiede dove erano i savi quando la città era stata dilaniata: dov’era l’opinione pubblica quando i corrotti a Venezia si spartivano le spoglie del potere? La democrazia funziona se è organizzata.

Repubblica 17.6.14L’Europa e il fallimento dell’austerità
di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini

LE ELEZIONI europee hanno certificato il fallimento dell’austerità che ha fatto aumentare i disoccupati e ha prodotto nuovi poveri alimentando rabbia e disperazione nella maggior parte dei Paesi dell’Euro.
I Partiti Socialisti europei non hanno sfondato poiché si sono appiattiti sulla politica del rigore promossa dal Partito Popolare, che ha subito un netto ridimensionamento. E così sono cresciute, anche se molto al di sotto delle clamoro- se previsioni, le forze nazionaliste e le forze favorevoli a un’altra Europa federale e solidale. I gruppi fortemente critici dell’Europa dell’austerità a guida tedesca hanno ottenuto quasi il 20 percento dei seggi, contro il 9 percento del 2009, e, sebbene non riusciranno mai a costruire un fronte unico, hanno, però, la possibilità di sabotare le politiche economiche del blocco di maggioranza costituito da popolari e socialisti. Questi due grandi partiti ora dovranno governare insieme come accade in Germania, e bisognerà vedere se i rapporti di forza cambieranno e se il Partito Popolare Europeo sarà costretto a promuovere nuove politiche economiche per lo sviluppo e l’occupazione.
Il crollo del Partito Socialista francese è impressionante, ma non è affatto sorprendente: la Francia si trova da anni in una crisi da cui non accenna a riprendersi. Hollande ha tradito tutte le promesse che aveva fatto nella campagna elettorale del 2012 e cioè la riforma della Banca Centrale Europea sul modello della Federal Reserve americana e il lancio degli Eurobond. All’epoca Hollande aveva dichiarato: «È inverosimile - che la Bce inondi il mercato di liquidità, con le banche che si finanziano all’1 percento e poi prestano agli Stati al 6 percento. A un certo punto simili posizioni di rendita non sono più accettabili. Sarebbe più giudizioso, più efficace, più rapido che la Bce diventi prestatore di prima e ultima istanza. Com’è peraltro il caso negli Stati Uniti e in Gran Bretagna». E ancora, Hollande era a favore della mutualizzazione del debito pubblico mediante obbligazioni europee considerate come l’unico modo per sostenere i Paesi in difficoltà e per far tornare la fiducia degli investitori internazionali negli Stati più a rischio. Nulla di tutto questo si è realizzato, ma, fatto ancora più grave, non c’è stato neppure l’impegno a sostenere una battaglia su questi fronti.
Ora l’Europa si trova di fronte ad un bivio: o diventa uno Stato realmente federale e adotta politiche espansive con l’obiettivo di una piena occupazione equamente retribuita oppure le forze antieuropeiste sono destinate a crescere mettendo a rischio la sopravvivenza della moneta unica.
Per questo motivo il semestre di Presidenza italiana rappresenta una grande occasione: il successo delle forze critiche dell’Europa dell’austerità potrebbe rappresentare uno stimolo prezioso se sarà utilizzato per attuare una svolta radicale nella politica del Vecchio Continente.

Corriere 17.6.14
Continuano le ricerche
Abu Mazen condanna il sequestro ma anche le violazioni da parte dello Stato ebraico
di Cecilia Zecchinelli


Ragazzi rapiti a Hebron Israele vuole espellere i leader di Hamas DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME — Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ieri ha avvertito che «ci vorrà tempo per ritrovare» i tre giovani coloni spariti giovedì notte, «l’operazione è complicata». E intanto in Cisgiordania la mobilitazione militare è già la maggiore dalla seconda Intifada nel 2005. La stretta su Hamas, accusato da Israele del rapimento in base a «fatti» ancora riservati, si è estesa oltre alla zona di Hebron, dove sarebbero stati portati almeno all’inizio gli ostaggi. Sulla Striscia di Gaza, saldamente chiusa, un nuovo raid aereo in risposta a due razzi da lì lanciati. Blocchi e irruzioni intorno a Ramallah, la «capitale» dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), dove un 19enne è stato ucciso dai militari, e molti arresti. Tra loro il presidente del Parlamento palestinese e altri deputati: sui 30 facenti capo a Hamas, 19 sono in cella. Ma questo pare solo l’inizio: il capo delle Forze armate israeliane ha dichiarato che «le operazioni saranno estese, lo scopo è riportare a casa i ragazzi e colpire Hamas il più duramente possibile». Dal governo si preannuncia una «deportazione a Gaza» dei leader del movimento islamista ora in Cisgiordania e perfino, secondo il ministro della Difesa Moshe Yaalon, la «ripresa degli omicidi mirati di capi dell’organizzazione».
È in questo clima di escalation che ieri, dopo due anni, Netanyahu ha chiamato Abu Mazen, il presidente dell’Anp colpevole agli occhi di Israele di aver formato il recente governo di unità nazionale con Hamas. Dopo le recenti accuse («Abu Mazen è responsabile della sorte dei ragazzi») ieri il premier dello Stato ebraico gli ha comunicato di «aspettarsi collaborazione nelle indagini e nella cattura dei rapitori». Il presidente palestinese ha risposto di «condannare gli ultimi eventi, iniziati con il sequestro di tre israeliani e terminati con una serie di violazioni da parte di Israele». Violazioni che anche sui media e in Rete i palestinesi sottolineano con rabbia, comprese quelle nelle carceri israeliane dove decine di palestinesi detenuti senza accuse e processi sono in sciopero della fame e che Israele vorrebbe nutrire forzatamente.
Ma se Netanyahu sembra aver riunito intorno ai tre rapiti l’intero Israele, Abu Mazen è nell’angolo. Da tempo «garante» della sicurezza in Cisgiordania in coordinamento con lo Stato ebraico, anche per l’impegno assunto con Usa ed Europa, ora non può difendersi dagli attacchi di Netanyahu sottolineando la collaborazione nelle ricerche e nella repressione di Hamas, iniziata venerdì. L’opinione pubblica palestinese è ostile a tale vicinanza, la riconciliazione tra Fatah e Hamas sarebbe a rischio. E Abbas, ha rivelato ieri un leader dell’Anp all’Ap , è ora furioso: con i rapitori che non sa identificare («se fosse Hamas sarebbe inaccettabile»), con Netanyahu che «usa il rapimento per screditare il governo di unità palestinese». Furioso e in seria difficoltà.

l’Unità 17.6.14
Iraq, cade un’altra città
La crisi avvicina Usa e Iran


Tal Afar, città nord-irachena vicino al confine con la Siria, è caduta in mano ai guerriglieri dello Stato Islamico di Iraq e Levante, diventando la terza importante preda, dopo Mosul e Tikrit, nell’offensiva scatenata la settimana scorsa dai seguaci di Abu Bakr al-Baghdadi. L’attacco è iniziato domenica con un martellante bombardamento a colpi di mortaio, che ha spianato la via all’irruzione di ieri pomeriggio. Le bande qaediste sono penetrate nelle strade di Tal Afar a bordo di pick-up, facendosi largo a raffiche di mitragliatrice. Testimoni descrivono la fuga di migliaia di abitanti terrorizzati. «Vanno verso le aree controllate dai peshmerga», racconta Hadir al-Abadi, mentre si prepara anche lui alla fuga insieme alla famiglia. I peshmerga sono le unità armate dell’ormai semi-indipendente Kurdistan iracheno, che in questi giorni cercano con molta più disciplina rispetto all’esercito nazionale di arginare l’avanzata degli integralisti sunniti, e hanno già evitato che finisse sotto il loro controllo la città petrolifera di Kirkuk.
Tal Afar ha una popolazione mista di sunniti e sciiti, oltre a una forte presenza di turkmeni. Ma in questa fase la sua conquista da parte dello Stato Islamico di Iraq e Levante conta perché ora l’organizzazione è padrona di un centro urbano collocato esattamente a mezza via tra le due aree in cui essa è militarmente attiva: il nord dell’Iraq e l’area orientale della Siria. La resa di Tal Afar aggiunge al quadro strategico un ulteriore drammatico elemento di instabilità. Che segue la presa di Mosul, condotta con fulminea rapidità nonostante sia la seconda città del Paese per numero di abitanti, e la capitolazione di Tikrit, ex-roccaforte saddamita, che aveva suscitato allarme sia per la relativa vicinanza a Baghdad sia perché frutto di una probabile intesa fra gli integralisti e le tribù sunnite locali nel nome dell’odio verso il governo dello sciita Al Maliki.
Agli improvvisi e imprevisti sconvolgimenti militari si accompagnano manovre diplomatiche sino a pochi giorni fa, quasi impensabili. Oggi vediamo gli Stati Uniti cercare un alleato nell’Iran pur di sventare la minaccia dell’eversione integralista sunnita in Iraq. Il segretario di Stato John Kerry afferma che Washington è «aperta alla discussione» con Teheran, se gli iraniani possono aiutare a mettere fine alle violenze. Il Pentagono respinge per ora un’azione militare coordinata con il regime degli ayatollah. Da oltre 30 anni c’è un muro di sospetto e ostilità, i due Stati non hanno relazioni diplomatiche normali. Nei momenti di particolare tensione Teheran ha definito gli Usa il «grande Satana », ricevendo in cambio da parte americana l'iscrizione al cosiddetto «asse del male». Ma ieri Kerry a chi gli chiedeva se fosse possibile una collaborazione militare, ha risposto che «nessuna ipotesi costruttiva sarà scartata».
La musica è cambiata l’anno scorso con l’elezione del moderato Rohani alla presidenza iraniana e l’avvio di un cauto dialogo soprattutto sui piani nucleari di Teheran che l’Occidente teme abbiano scopi militari. Ora si profila un salto di qualità di portata enorme. Kerry da un lato sostiene che i contatti con Teheran andranno avanti «passo dopo passo ». Rohani da parte sua si dice pronto, anche se aspetta che a fare la prima mossa siano gli Stati Uniti. Con ogni probabilità di tutto ciò le due parti stanno parlando in queste ore a Vienna, in margine al nuovo round di negoziati sul programma atomico iraniano, iniziato ieri.
Usa e Iran sono entrambi alleati di Baghdad. Sinora le ragioni del loro sostegno erano diverse. Teheran puntava sulla debolezza dell’assetto istituzionale iracheno per estendere la sua influenza oltre frontiera, giocando sull’appartenenza di entrambe le élites dirigenti al ramo sciita dell’Islam. Washington cercava nel nuovo Stato cresciuto a fatica sulle rovine della dittatura baathista una base per non lasciarsi sfuggire il controllo di un’area di fondamentale rilievo strategico ed economico. Ora l’interesse nazionale dell’uno e dell’altro governo trova un punto d’incontro nell’urgenza di scongiurare il tracollo del comune amico al-Maliki.
Intanto Barack Obama, pur escludendo l’invio di truppe di terra, definisce «un’opzione» il ricorso a raid aerei - si parla di droni. Anonimi funzionari dell’amministrazione ipotizzano che vengano prese di mira sia le linee avanzate, più vicino a Baghdad, sia la retroguardia presso il confine siriano. Nelle acque del Golfo già stazionano la portaerei George H W Bush e due navi da guerra. Ma Kerry ha sottolineato ancora una volta ieri che l’assistenza bellica da sola non basterà, se Maliki non prenderà iniziative politiche per includere la componente etnica sunnita nel governo. Da anni l’esecutivo da lui guidato viene criticato dai partiti di marca sunnita per la parzialità delle scelte amministrative a vantaggio della maggioranza sciita. Il partito del premier ha vinto nuovamente le elezioni in aprile ma non è ancora riuscito a dar vita a un esecutivo di coalizione.

Corriere 17.6.14
L’intervento dell’Iran contro l’Isis I costi di una guerra di religione
di Farian Sabahi


Quanto ha da guadagnare l’Iran,  e che cosa rischia lasciandosi coinvolgere in Iraq contro i jihadisti dell’Isis (Stato islamico dell’Iraq e del Levante)? Parecchio, nell’uno e nell’altro senso. Innanzitutto, una premessa: quello lasciato in eredità dall’Ayatollah Khomeini nel 1989 è un sistema politico complesso, che non parla a voce sola: da una parte c’è il governo del presidente moderato Hassan Rohani che tesse relazioni diplomatiche e commerciali, dall’altra gli apparati di sicurezza e le Guardie rivoluzionarie (pasdaran ) che rispondono al leader supremo Khamenei.
Cominciamo dai vantaggi di un coinvolgimento in Iraq. In primis , è evidente che l’apertura di Washington a Teheran, giustificata dal comune obiettivo della stabilità regionale, permette ad ayatollah e pasdaran di vedersi finalmente riconosciuto un ruolo positivo in Medio Oriente. Non sarebbe la prima volta che iraniani e americani collaborano: nel giugno 1998, durante la presidenza del riformatore Khatami, il segretario di Stato Madeleine Albright definì critico il ruolo dell’Iran nella lotta contro i Talebani in Afghanistan. Gli iraniani non furono però ricompensati per la collaborazione e il 29 gennaio 2002, nel discorso sullo Stato dell’Unione, il presidente George W. Bush inserì l’Iran nell’Asse del male. Un dettaglio, per molti occidentali, non per la diplomazia e l’opinione pubblica iraniana. Ora, la coincidenza è propizia, perché a Vienna è in corso (fino a venerdì) il quinto round di negoziati sul nucleare e il riavvicinamento con Washington potrebbe portare a un alleggerimento delle sanzioni entro il 2016, permettendo al presidente Rohani di ottenere consensi in patria.
In secondo luogo, andando a dare manforte all’esercito iracheno contro
i jihadisti dell’Isis che minacciano la moschea dell’Imam Ali a Najaf e il mausoleo dell’Imam Hossein a Kerbela, la Repubblica islamica si erge a baluardo dello sciismo. Una minoranza oppressa. Soprattutto in alcune monarchie sunnite del Golfo, in particolare in Arabia Saudita (il 15% della popolazione è sciita, vive nella regione orientale ricca di petrolio ma è discriminata) e Bahrein (la maggioranza della popolazione, sciita, si è ribellata al nepotismo e alla corruzione della dinastia regnante sunnita ma la primavera araba è stata repressa dai mercenari e dai carri armati inviati da Riad).
Quella dell’Isis potrebbe però essere una trappola, mettere piede in Iraq potrebbe costare caro. Perché darebbe il pretesto ai jihadisti di sconfinare in territorio iraniano, obbligando i giovani iraniani ad indossare la divisa e a partire per il fronte. Un incubo per tantissime famiglie, memori della guerra scatenata da Saddam Hussein che nel settembre 1980 attaccò l’Iran approfittando della presunta debolezza di Teheran all’indomani della Rivoluzione islamica. Una guerra imposta, durata otto anni e costata, da parte iraniana, un milione di vite.
I pericoli di un coinvolgimento non si fermano qui, perché si rischia di mandare a monte il lavoro della diplomazia di Teheran che da anni cerca di smorzare
le differenze settarie tra sunniti e sciiti, tessendo legami anche commerciali. Soprattutto con le monarchie sunnite del Golfo che, spaventate dal successo rivoluzionario dell’Ayatollah Khomeini nel 1979, due anni dopo costituirono il Consiglio di Cooperazione del Golfo proprio in chiave anti-iraniana. Per attenuare i toni, per esempio, lo scorso dicembre il ministro degli Esteri iraniano Zarif si era recato in Kuwait, negli Emirati, in Oman e in Qatar (ma non in Bahrein e Arabia Saudita). Ricambiato, a fine maggio, dalla visita ufficiale dell’emiro del Kuwait, a cui i media hanno dato molta enfasi anche perché ripreso dalle televisioni mentre barcollava, ubriaco. Anche se Teheran non dovesse lasciarsi troppo coinvolgere, la crisi irachena costerà comunque parecchio perché gli iraniani esportano miliardi di dollari in beni di consumo a Bagdad e, secondo l’emittente iraniana Press Tv, a partire da questa estate dovrebbe iniziare la vendita di 3-4 milioni di metri cubi di gas al giorno, per un valore di 3,7 miliardi di dollari l’anno.
Infine, una domanda: perché gli estremisti sunniti ce l’hanno a morte con gli sciiti? Certo, il premier iracheno Nouri al-Maliki ha sbagliato escludendo dalla politica i sunniti. Che questo serva da lezione: solo un processo di riconciliazione nazionale e l’inclusione garantiranno la stabilità necessaria. Ad avere un ruolo non irrilevante sono però anche le questioni squisitamente dottrinali: gli sciiti credono in un solo Dio e considerano Maometto profeta, ma a lui associano gli Imam, suoi legittimi successori. Non semplici essere umani, com’era Maometto, ma individui infallibili. Venerati, al punto che gli sciiti si recano in pellegrinaggio ai loro mausolei. Venendo così meno, agli occhi degli integralisti, al vero monoteismo.

l’Unità 17.6.14
Requiem per Brescia
«In memoriam» è un disco per ricordare la strage fascista di Piazza della Loggiadi Marco Buttafuoco

IN UN ARTICOLO SUL QUARANTESIMO ANNIVERSARIO DELLA STRAGE DI BRESCIA, QUESTO GIORNALE RICORDAVA GIUSTAMENTE come quell’orrenda carneficina fascista non avesse lasciato immagini filmate. Di quella fredda giornata di fine maggio restano soltanto le foto scattate subito dopo l’esplosione e il sonoro del comizio del sindacalista della Cisl, discorso interrotto dallo scoppio della bomba. A distanza di tanto tempo, in un periodo storico dominato dal culto delle immagini, qualcuno ha voluto ricordare la morte di quegli otto manifestanti antifascisti con un disco, un vero e proprio requiem laico, una meditazione musicale sul dolore che quegli otto militanti hanno lasciato in eredità ai loro compagni di lotta e, più in generale, a tutti gli antifascisti.
Questo qualcuno non ha un nome. In Memoriam è stato quasi interamente finanziato (con il supporto della Cgil di Brescia) da una persona che era in piazza della Loggia al momento dell’esplosione. Per lui il sangue versato dai morti è il suo stesso sangue. E il sangue di tutti quelli che erano lì. Di più non si sa. La persona in questione non vuole essere nemmeno nominata con il suo nome di battesimo. Un omaggio anonimo da un lato e la riaffermazione, dall’altro, che il dolore e l’orrore della morte di quei compagni sono anche un sentimento collettivo, una piaga nella memoria di tutti gli antifascisti.
A dare vita musicale al progetto, prodotto materialmente da Medulla (singolare realtà culturale della città lombarda, animata da Matilde Brescianini) e dalla libreria Rinascita, sono stati chiamati tre musicisti riconducibili, in maniera forse un po’ grossolana, alla cosiddetta area dell’Ecm, la casa discografica tedesca che da decenni esplora e traccia i confini che separano le musiche della nostra epoca (jazz, contemporanea, world music e via semplificando). Il pianista Stefano Battaglia, autore dei dieci brani presenti nei due cd, il percussionista Michele Rabbia e il chitarrista norvegese Edvin Aarset che insieme allo stesso Battaglia hanno curato gli arrangiamenti.
I tre si conoscono da anni e suonano assieme in progetti diversi. Loro merito principale in questo lavoro è quello di avere messo al servizio della narrazione le caratteristiche principali della loro arte (la ricerca di nuove sonorità, un lirismo piuttosto scabro e asciutto, una notevole capacità d’improvvisazione) senza cedere minimamente a tentazioni declamatorie. Non c’è traccia né di magniloquenza né di retorica nel lungo requiem intonato per quei morti tanto lontani.
In memoriam è una lunga suite, con ampi squarci improvvisati, intrisa di malinconia e consapevolezza, un viaggio nel passato saldamente ancorato a espressioni musicali e artistiche della nostra contemporaneità. È’ un lamento straziato ma sommesso, una sorta di percorso in una memoria che con gli anni sembra oramai, purtroppo, abitare i confini del silenzio. D’altronde gli assassini di Piazza della Loggia non hanno ancora un nome e lo scorso anno, nell’anniversario della tragedia, qualcuno ha scritto, nel luogo esatto dell’esplosione: ”«In questa piazza, il 28 maggio del 1974, non è successo niente».
Magnificamente esemplificativo dell’approccio poetico del trio a questa materia è la breve traccia video che chiude il cofanetto, dove si alternano momenti del concerto di presentazione, immagini della città (fotografo Roberto Cifarelli) sequenze di live painting (Gabriele Amadori) e che viene chiusa dalla straziante immagine di otto sedie vuote, sulle quali è scritto il nome dei martiri. Nel concerto tenuto a Brescia quest’anno, era anche presente la danzatrice Alessandra Bortolato. Una parola va spesa anche su Stefano Amerio, prestigioso tecnico del suono che ha voluto lasciare la sua impronta su questo progetto.
Un lavoro prezioso, quello contenuto in questo disco. Tanto più notevole se si pensa che Michele Rabbia e Stefano Battaglia erano dei bambini nel 1974. Può sembrare singolare, in questo ricordo di una storia italiana, la presenza di un musicista norvegese. Eppure a ben vedere la scelta di coinvolgerlo in un progetto simile è tutt’altro che eccentrica. Suona magnificamente Eivind Aarset, in questo disco. Le sue chitarre raccontano profonde malinconie nordiche. Sicuramente il musicista scandinavo evoca un’altra strage fascista, molto più vicina nel tempo e addirittura più devastante di quella di Brescia: il massacro di Oslo del 22 luglio del 2011, la bomba nelle strade del centro e la mattanza dei giovani socialisti norvegesi sull’isola di Utoya. È proprio questo ricordo che toglie qualsiasi illusione su un fascismo definitivamente morto e sconfitto. La sua intolleranza, la sua violenza selvaggia, strisciano ancora sul suolo dell’Europa.

l’Unità 17.6.14
Io, un’aliena e l’infimo mondo
autoritratto di Maria Ortese


Avrebbe appena compiuto cento anni, Anna Maria Ortese.E non smette di sorprendere questa grande scrittrice visionaria. L’autrice di Il mare non bagna Napoli e di Il cardillo addolorato viene omaggiata da una raccolta di saggi da oggi in libreria: Nessun male può dirsi lontano. Anna Maria Ortese, una scrittrice morale (a cura di Paolo Di Paolo,pp. 100, euro15, richiedibile a info@empiria.com). La scrittura di Ortese è analizzata in testi di Antonella Anedda, Giulio Ferroni e Luigi Fontanella; la sua voce è presente nei colloqui con Paolo Mauri, Luigi Vaccari, Giorgio Di Costanzo. In coda, un suggestivo ricordo di Raffaele La Capria. Anticipiamo un brano di un auto-ritratto di Ortese raccolto da Goffredo Fofi nel 1996, due anni prima della morte della scrittrice.

«IO SONO UNA PERSONA ANTIPATICA. SONO ALIENA, SONO IMPRESENTABILE. SONO ESIGENTE COL MONDO, non vorrei che le cose fossero come sono, ma conoscendo del mondo solo le parti infime e dando giudizi che invece riguardano tutto, finisco per sembrare e per essere ingiusta, e così preferisco non parlare. Io sono in contraddizione continua con me stessa. Per questo quando mi si chiedono notizie su di me mi viene rabbia. I soli che possono amarmi sono coloro che soffrono. Se uno davvero soffre sa che nei miei libri può trovarsi. Solo persone così possono amarmi. Il mondo? Il mondo è una forza ignota, tremenda, brutale. Le creature belle che pure ci sono, noi le conosciamo poco, troppo poco.
Non seguo la letteratura contemporanea, so poco di chi sono gli scrittori che valgono. Non conosco gli altri, degli altri paesi, e questo è sbagliato. E anche questo va messo sul conto dell’antipatia... I poeti? Caproni. E naturalmente Montale: le sue poesie mi vengono incontro, c’è il Nord, c’è il freddo, certo, ma con una radice dolcissima. Mi piaceva molto Gozzano.
Stevenson ha avuto un’influenza su di me? Sì, perché guardava tutto con gli occhi di un bambino, c’era il gioco della vita, i briganti, l’avventura... Il «cattivo » dell’Isola del tesoro, il Capitano zoppo, non è, come ha detto qualcuno, il male odioso, puro, totale.
Dove c’è divertimento, non può esserci il male assoluto, c’è il lato ingenuo del male, il lato infantile. Il male vero è l’industria, è il denaro. Il male è il freddo che essi provocano; se oggi ci fosse più calore, non ci sarebbe tutto questo male. Prima gli uomini avevano a disposizione elementi favolosi di realtà, oggi hanno voluto perderli: non c’è più la campagna, non ci sono gli animali... resta solo il denaro, che chiede e impone un’altra natura, una natura artificiale.
Una volta delle persone in cenci potevano sembrare vestite di tutto lo splendore della terra. (…) Io sono stanca di vedere ricchi, gente che spende troppo per vestire, che vive nell’imitazione di gente ancora più ricca. L’oro, il denaro, hanno tutto questo spazio perché c’è la televisione, non potevano averlo senza televisione. Il desiderio è diventato un veleno. Nessuno consiglia il distacco, nessuno consiglia a nessuno: «ferma il desiderio». Occorre fermare il desiderio. Invidio la libertà che c’era prima dell’industria. Se uno è soffocato da un peso, questi va aiutato a rimuoverlo. Siamo una famiglia, dobbiamo assumerci le responsabilità di una famiglia. Chi soffre deve essere aiutato subito. Dove questo non avviene, non posso considerarlo il mio mondo.
Ognuno è responsabile della caduta degli altri, e deve pagare per loro. Siamo coinvolti non per una nostra colpa, ma come membri di una famiglia. Anche se ne fossimo i membri privi di colpa, abbiamo delle responsabilità».

La Stampa 17.6.14
Fabrizio Gifuni
“Sono un maratoneta con il mito di Volontè”
L’attore, premio David per “Il capitale umano”: “Ora mi do al teatro è il solo luogo dove una comunità si ritrovi davanti a un’emozione”
intervista di Simonetta Robiony


È stato un anno speciale, questo, per Fabrizio Gifuni, premio David di Donatello come miglior attore non protagonista per Il capitale umano di Virzì, dopo quattro candidature e una sola, la prima, da protagonista. «Era il 2000: fui candidato per Un amore di Tavarelli, una grande emozione. Poi c’è stata La meglio gioventù di Giordana, La ragazza del lago di Molaioli, Romanzo di una strage di nuovo di Giordana e adesso il film di Virzi, perfetto perché era il momento giusto per un racconto di una famiglia che si muove nella grande finanza e perché tutti noi attori abbiamo potuto esprimerci al meglio, Bentivoglio, la Bruni Tedeschi, la Golino, io stesso in una storia che è per sua natura corale».
Gifuni non è solo un bravo attore è una persona perbene, uno che vuole essere autentico e coerente e perciò cerca le parole appropriate, spiega con lunghe frasi i concetti, facendo qualche pausa che non dà ansia, anzi aiuta a seguire il suo pensiero. Quest’anno si è diviso tra 18 diversi lavori, teatro, letture, registrazioni, radio con I promessi sposi e due film: Il capitale umano e subito dopo Noi quattro di Francesco Bruni. «Ero così stanco che ho dovuto dire di no a un film che pure mi avrebbe interessato assai. Ma il mio fisico ha detto basta: avevo consumato ogni riserva. Dò sempre ascolto al corpo perché è lo strumento principale del mio lavoro: se non ce la fa non può passare al pubblico le emozioni necessarie, e il lavoro viene male, è ripetitivo, formale, inefficace». Adesso, dunque, una pausa con le due figlie piccole e la moglie Sonia Bergamasco: la Puglia di casa sua, la Sardegna degli amici, la montagna, con una unica interruzione, il 2 e il 3 luglio, per fare al Parenti di Milano che non chiude per ferie Lo straniero di Camus. Poi ci saranno le prove al Piccolo con Ronconi per Lehman’s trilogy di Stefano Massini, storia dei fratelli Lehman, tre ragazzi ebrei che dall’Alabama dove vendevano stoffe sono arrivati a New York per fondare la Lehman’s Brothers, la società che col suo fallimento ha dato inizio all’attuale crisi.
Niente cinema, allora?
«Per ora no. Vedremo».
Dopo vent’anni di lavoro e di premi, che qualità si riconosce?
«Ho il passo del maratoneta. Non mi lascio incastrare nell’immediato. So essere laterale. Ho una visione del tempo che passa. Me l’ha insegnato Giuseppe Bertolucci a non farmi intrappolare dal successo improvviso che nel cinema può spremerti come un limone e poi metterti da parte. Tanto lui come Giordana mi hanno convinto che per fare questo mestiere occorre fare al meglio le cose che piacciono. La mia indipendenza, a volte, può essere scambiata per superbia, ma i no che dico sono necessari al mio equilibrio».
Ormai, spesso, fa anche l’autore dei suoi spettacoli.
«E qualche volta me lo produco anche da solo, il teatro. Ho passato dieci anni con Pasolini prima e poi con Gadda, una ricerca che mi ha fatto ottenere vari premi tra cui l’Ubu. Adesso sto finendo un audio-libro su Ragazzi di vita come ho fatto già con Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Ormai questi due autori sono persone di famiglia che devo tenere a bada nella mia testa quando s’affacciano altri personaggi cui dare la mia attenzione. Il teatro, i libri, le riflessioni sull’oggi e sull’ieri sono la mia passione. Recitare in teatro è magnifico. In una società liquida dove tra la tv e internet il corpo, il sudore, gli sbagli, le emozioni sono spariti filtrati da immagini lontane il teatro è il solo luogo nel quale una comunità possa ritrovarsi insieme davanti a una emozione. Mi sento greco, io, fino in fondo come le mie radici: padre pugliese, madre siciliana, e all’inizio della mia carriera una collaborazione fondamentale con il regista Teodoros Terzopoulos che mi ha legato ancora di più alla Grecia».
Come sceglie cosa fare e cosa no?
«Leggo tutto, anche i copioni che so che non farò mai. Quando accetto studio il linguaggio del regista con cui lavorerò: voglio sapere prima cosa si aspetta da me. Ogni autore ha una grammatica sua e l’attore deve conoscerla. L’ho imparato guardando Volonté che per me, di tutti i grandi del cinema, è stato il più grande. E’ il mio mito».
Quanto conta per il successo di un film l’interpretazione di un attore?
«Un film è un lavoro collettivo: sceneggiatura, regia, costumi, produzione e distribuzione, che ha un peso maggiore di ciò che si pensa. Il capitale umano ha vinto il David come miglior film dell’anno, se non fosse stato il film che è, della nostra recitazione nessuno se ne sarebbe accorto. Io mi concedo il lusso di scegliere. E me lo posso permettere. Ma lo consiglio anche ai giovani: non è vero che facendo tutto ci si fa le ossa. Facendo tutto ci si può anche perdere».
Non tutti i suoi film, però, sono film che hanno incontrato il pubblico.
«Verissimo. L’anno scorso ho girato anche un film che non ha visto nessuno: La leggenda di Kaspar Hauser di Davide Manuli. E’ un film fantastico assolutamente ignorato. Anche Galantuomini di Winspeare meritava di più, così come L’amore buio di Antonio Capuano, o Noi quattro di Bruni. Ecco, se c’è un rimprovero da muovere al nostro cinema è di sottovalutare alcuni autori: non è giusto lasciarli penare e poi rimpiangerli da morti. Dovrebbero essere aiutati anche se al botteghino non fanno soldi, perché la cultura va protetta».

Corriere 17.6.14
Manifestazione alle 16 in Campidoglio
Estate Romana, protesta in Comune
Martedì sit-in contro le graduatorie
Protestano organizzatori, attori, musicisti e maestranze: contestati i criteri di assegnazione dei fondi, i tagli drastici, la «mancanza di una politica culturale»

qui