mercoledì 18 giugno 2014

l’Unità 18.6.14
Un brand è un brand
Ma l’Unità è un super brand
di Bruno Gravagnuolo


RENZI HA DETTO CHE L’UNITÀ È UN «BRAND». INCASSIAMO E PORTIAMO A CASA Già, essere un «brand» è meglio di niente. È già qualcosa, benché la parola in passato non ci ha portato molta fortuna (quante volte l’abbiamo sentita, tra paper, questionari, creativi arroganti che ne sapevano meno di noi e restyling vari!). E forse Renzi ha voluto far digerire l’Unità a chi non la ama affatto. Ma che cos’è un brand? È un marchio commerciale che corrisponde ad un «target», a un obiettivo di mercato: un bersaglio a cerchi concentrici. Con dentro segmenti diversi di consumatori. Quel marchio deve colpire e coprire il bersaglio. Con la capacità di offrire elementi di fruizione disparati - ma congiunti nel medesimo prodotto - a singole unità di fruitori. Che poi messi insieme fanno massa.
La logica del brand è vendere, simulando la capacità di soddisfare la domanda. Anticipando il desiderio del fruitore, persino inventandolo, o portandolo alla luce dell’immaginario. Di qui calcoli complicati e previsioni. Da impacchettare semiologicamente in un messaggio pubblicitario. Da questo punto di vista il brand è un algoritmo, che include memoria e istruzioni: fatta base X tutti quelli che hanno comprato Y, come far sì che X divenga X più Delta? Mutando i caratteri di Y e ampliando la base di X? O magari restringendo X, con una modifica qualitativa e di prezzo di Y? E qui nascono le diverse strategie aziendali. Che accorpano e sminuzzano, dividono e prevedono statisticamente. Bene, ma con tutto il rispetto per gli algoritmi, che c’entra l’Unità con tutto questo? Poco, se non per vendere qualche buon collaterale. Infatti l’Unità, non è (solo) un brand. È un simbolo, un significante. Un segno di identità collettiva attraverso le generazioni. Insomma è un’anima sociale ben precisa: è l’indole di sinistra del Pd e dintorni. Un super brand: perché chi la compra dovrebbe scegliersi. Scegliere se come persona. Se così non sarà più, resterà solo un bel ricordo. Con valore commerciale. Come le figurine Panini

l’Unità 18.6.14
Le Feste della verità
il Cdr


Noi ci saremo. Saremo presenti alle Feste che, ha annunciato giorni fa Matteo Renzi, torneranno ad essere, ovunque, le Feste de l’Unità. Ci saremo per raccontare la battaglia di una redazione che sta difendendo quel patrimonio di valori e di professionalità che appartiene al giornale fondato da Antonio Gramsci. Ci saremo per denunciare una infinita serie di atti irresponsabili, compiuti nel corso degli anni da azionisti e amministratori, che hanno colpito pesantemente il giornale, i suoi lavoratori, i lettori. Le Feste de l’Unità saranno per noi le «Feste della verità». Una verità scomoda per alcuni, ma necessaria se si vuole davvero garantire un futuro al giornale.

Repubblica Lettere 18.6.14
Se Francesco scavalca la sinistra
risponde Corrado Augias


Caro Augias, leggo su “Repubblica” il messaggio di papa Francesco alla comunità di Sant’Egidio. Chiede aiuto per l’Europa ormai stanca: “Dobbiamo aiutarla a ringiovanire e a ritrovarsi. Ha dimenticato la solidarietà, ha rinnegato le sue radici”. Ricorda che la cultura dello scarto propria della modernità è “una forma di eutanasia nascosta”. Prega per giovani e anziani, i meno considerati nelle nostre società. Tutto parte dalla preghiera che, dice Francesco, “preserva l’uomo da tentazioni che possono essere le nostre, quelle dell’egoismo, dell’indifferenza e del vittimismo”. Troppo spesso invece, la stessa Europa serve altre logiche, scartando “i bambini ma anche gli anziani e a causa della crisi economica anche il giovani”. Era necessario un Papa che viene “dalla fine del mondo” per sentire parole che le pseudo sinistre europee, egemonizzate dall’ideologia neoliberista non sono più in grado di esprimere? È una sconfitta storica (e lo dico con amarezza!) per la cultura laica, egemone in Europa nei due ultimi secoli.
Luigi Urettini

Era necessario un papa? Sì, anzi, era necessario precisamente questo papa. A mia memoria diretta, che risale fino a Pio XII, nessun papa aveva mai detto cose del genere. Tutti i papi che si sono succeduti fino a Francesco hanno dato grande rilievo al ruolo politico che un pontefice (capo di Stato) riveste. Il ruolo politico e quello pastorale si sono mescolati e confusi, non di rado è stato il ruolo politico a prevalere o, quanto meno, a sembrare più evidente. Ciò che distingue Francesco dai suoi predecessori è nella netta prevalenza del ruolo pastorale e, all’interno di questo, nel continuo richiamo che egli fa al tema - tipicamente evangelico - degli “ultimi”. Il signor Urettini mette in relazione questo forte impegno con quello più pallido delle sinistre europee preda, scrive, dell’ideologia liberista. Credo e spero che si tratti d’una sconfitta non storica ma contingente. Mi aiuta a pensarlo un libro uscito un paio d’anni fa: “Guasto è il mondo” di Tony Judt (Laterza ed.). Lo studioso lamentava la scomparsa dall’orizzonte politico europeo di una sana “socialdemocrazia”, vale a dire quella società socialmente coesa che s’era affermata nel continente dopo la fine della guerra.
Per qualche decennio, fecero allora da guida gli ideali keynesiani di un mercato temperato dall’intervento dello Stato. Poi è venuto l’abbandono del modello con una società in cui i ricchi sono più ricchi che in qualunque altra epoca della storia e i poveri sempre più poveri. Francesco se n’è accorto, i partiti politici meno. Prima o poi comunque dovranno rimediare. Come scrive Judt: la disuguaglianza non è solo fastidiosa moralmente: è inefficiente.
L’egoismo è scomodo perfino per gli egoisti. Corrado Augias

il Fatto 18.6.14
Polemiche
L’harakiri della sinistra che non c’è
di Paolo Flores d’Arcais


Paolo Flores d’Arcais è stato uno degli ispiratori e promotori della lista Tsipras, percorso che ha abbandonato ben prima della consultazione elettorale, non condividendone più l’impostazione. Nel numero di MicroMega in edicola, da cui vi riproponiamo un estratto del suo saggio, “La sinistra che non c’è”, torna sulla questione e spiega il suo punto di vista.

È comprensibile che dopo il patema del quorum a repentaglio, i militanti (della Lista Tsipras, ndr) gioiscano. E ancor più i dirigenti, che parlano di “splendido risultato” (così il comunicato ufficiale del sito) e possono evitare di commentare quella che, sotto il quorum, sarebbe stata una disfatta certificata. Come altrimenti qualificarla lo decida il lettore, meditando sui numeri. Un anno fa Sel prendeva il 3,2 per cento e Rivoluzione civile (Ingroia+Comunisti italiani+Rifondazione) il 2,25 per cento. Il 4,03 per cento della Lista Tsipras è perciò l’1,42 per cento in meno delle percentuali raccolte lo scorso anno e considerate da tutti fallimentari. In termini assoluti va ancora peggio: 1.854.420 lo scorso anno (senza la Val d’Aosta che ha liste sue), 1.009.643 oggi (sempre senza la Val d’Aosta): un’emorragia di 754.786 suffragi, il 40,7% del proprio (e già fallimentare) zoccolo duro. Nel frattempo, quasi metà dei voti M5S dello scorso anno hanno cambiato indirizzo, come evidenziato dalle indagini sui flussi, mentre Renzi malgrado il vento in poppa non raggiunge i consensi di Veltroni nel 2008, per non parlare dei milioni e milioni in più di renitenti alle urne. Il potenziale reale per una lista di sinistra della società civile era gigantesco, è rimasto invece al pugno di mosche. Eppure, per vendemmiare bastava essere coerenti: presentarsi come “antipolitica”, per usare l’espressione con cui le larghe intese e il loro Lord Protettore insolentiscono chi vuole invece un’Altra-politica, che rifiuti tutta la partitocrazia, riconoscendo bensì che i partiti non sono tutti eguali, ma sottolineando come anche i meno osceni non siano più recuperabili a una politica di “giustizia e libertà”. “Antipolitica” concorrenziale a quella di Grillo, sul piano della serietà (che non significa plumbea incapacità di comunicare, anzi: la serietà può essere entusiasmante, e perfino glamour, se non si è inetti) e del rigore programmatico. Che viene meno, però, se si vuole procedere “con juicio”, come il cancelliere Ferrer di manzoniana memoria, senza chiamare i nemici dell’irrinunciabile svolta “giustizia e libertà” con nomi e cognomi, e dunque, in ordine di alfabeto politico, cominciando con Napolitano Giorgio. Napolitano il politico, non l’essere umano, all’opposto dei lazzi lazzaroni del grillismo da Sanremo (...) L’ignorato sirtaki nella galleria di piazza Duomo sarebbe stato gesto politico vero, oltretutto amplificato da tutti i media (presenti in massa, nazionali e internazionali), se organizzato a Cesano Boscone per “accogliere” con doverosa indignazione la scampagnata del reo presso i malati di Alzheimer. O sui terreni dell’Expo, all’annuncio dell’ennesima retata ed ennesima riconferma di vertici che se non furono complici (per chi crede ancora alla befana) furono totalmente incapaci di scegliere i manager.
DI OCCASIONI DI LOTTA politica “giustizia e libertà” la Lista Tsipras ne ha avute a dir poco una al giorno. Non ne ha colta nessuna. E non coglierà le enormi chance che il futuro continua a offrire, e che nascono dalla diaspora probabile in settori crescenti di elettorato cinque stelle (la svolta di cui parliamo sopra non è nelle corde di Grillo e Casaleggio, e non si vedono leader capaci di realizzarla malgrado o contro i due), dalla delusione che progressivamente invaderà la parte di elettorato che ha votato Renzi ma resta con l’anima a sinistra, dalla continuità dei vizi che strutturano l’establishment italiano in tutte le sue componenti e riproducono in forma costantemente allargata baratri di diseguaglianza, prepotenza, favoritismi, cattiva amministrazione quotidiana. Quello che si profila invece come continuazione della Lista Tsipras è una volta di più il mito di “unire le sinistre”. Modestissimo cabotaggio, se mai realizzabile. Mettere insieme Vendola, Ferrero, magari Civati, e altri pezzi di ceto politico decotto (anche Cuperlo “manifesta interesse”!) con i protagonisti di tante manifestazioni, al massimo darebbe vita a una versione italiana di Die Linke, ma anche un 8 per cento, ragguardevole nel proporzionale, risulterebbe del tutto innocuo nell’Italia del prossimo futuro.

Il Sole 18.6.14
Riforme, vertice tra Renzi e il Pd Il premier vuole l'asse con Fi-Lega
Il premier «stringe» sulla riforma del Senato
Ieri incontro a Palazzo Chigi con i vertici Pd sui contenuti del Ddl e sui numeri a sostegno in Parlamento
Renzi punta sull'asse con Fi e Lega. Forse sarà lui stesso a incontrare la delegazione del M5S sulla legge elettorale
di Emilia Patta


ROMA Mentre il tavolo della trattativa su riforme costituzionali e legge elettorale continua ad affollarsi con l'aggiunta di posti anche per il M5S e la Lega Nord, Matteo Renzi prova a chiudere almeno all'interno della sua maggioranza e riunisce lo stato maggiore del Pd in un lungo vertice notturno a Palazzo Chigi (nei prossimi giorni analoghi incontri ci saranno con esponenti di Ncd e Scelta civica). Presenti tra gli altri la responsabile per le Riforme Maria Elena Boschi e i sottosegretari alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio e Luca Lotti, i vice del Pd Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani, il presidente delle Regioni Vasco Errani, la presidente della commissione Affari costituzionali Anna Finocchiaro e i capigruppo di Senato e Camera Luigi Zanda e Roberto Speranza. Una riunione nello studio del premier, testi e penne alla mano, con l'intento di definire i dettagli della riforma all'esame della commissione per votarla e portarla in Aula la prossima settimana. E già venerdì, ha annunciato Finocchiaro durante il vertice, i relatori (lei stessa e il leghista Roberto Calderoli) saranno in grado di presentare gli emendamenti condivisi, una ventina, al testo di legge del governo. Forza Italia o non Forza Italia, l'accordo con la Lega sembra fatto: più peso alle Regioni rispetto ai Comuni nella composizione del nuovo Senato e ritorno alle Regioni di alcune competenze nell'ambito della riforma del Titolo V. In cambio il premier manterrebbe fede alla "promessa" di non avere più un Senato elettivo: l'elezione dei nuovi senatori sarà di secondo grado, nell'ambito soprattutto dei Consigli regionali.
Il governo e Renzi puntano ancora sull'asse privilegiato con Forza Italia, e il movimento portato dall'apertura di Beppe Grillo può paradossalmente giocare in favore del Patto del Nazareno costringendo Silvio Berlusconi a rinnovare l'intesa di gennaio. Sicuramente il premier prende con la massima serietà l'offerta di dialogo avanzata dal M5S, tanto che ieri si è detto con i suoi «tentato» di sparigliare incontrando lui stesso la delegazione grillina la prossima settimana (probabilmente mercoledì). Eppure l'asse con Fi resta l'architrave della strategia renziana. Anche perché la tenuta di quell'asse è l'unico modo certo per garantire una legge elettorale maggioritaria e bipolarista, dal momento che il Democratellum proposto dai grillini – e non a caso lodato dalla Lega – è un proporzionale solo lievemente corretto in senso maggioritario tramite l'introduzione di circoscrizioni più piccole delle attuali. Senza Forza Italia, insomma, Renzi si ritroverebbe un Parlamento prevalentemente proporzionalista. Eppure l'incontro con Berlusconi ancora non è stato fissato e sembra che l'ex Cavaliere sia preda dell'indecisione e sia tentato di aspettare l'incontro con il M5S per decidere il da farsi (si veda l'articolo in pagina).
Da qui l'importanza del ruolo che sta svolgendo la Lega di Matteo Salvini in questi giorni. Di nuovo Senato e riforma del Titolo V Renzi ha discusso in Veneto lunedì con il governatore Luca Zaia. E lo stesso Salvini ha dato il via libera a un attivissimo Calderoli per trovare l'accordo in Senato con il Pd. Proprio la Lega, nelle intenzioni del governo, può fare da "traino" per tenere dentro Forza Italia. I cui voti sarebbero comunque aggiuntivi e non indispensabili. La maggioranza va avanti in ogni caso, è il messaggio che Renzi ha voluto mandare in casa azzurra con la sostituzione del dissidente Corradino Mineo in commissione. Magari con l'apporto di qualche dissidente grillino o di Sel o della stessa Lega. Intanto i 14 senatori del Pd autosospesisi dopo la sostituzione di Mineo hanno fatto rientrare ufficialmente ieri, come annunciato, la loro protesta. Ma nessuno può sapere ora come i 14 voteranno in Aula, dal momento che è stato loro garantito che potranno votare secondo propria convinzione senza incorrere in sanzioni da parte del partito. La coperta è sempre un po' troppo corta, da qualunque parte la si giri.

il Sole 18.6.14
Fi. L'ex Cavaliere ora teme l'isolamento: Grillo vuole emarginarci
Oggi il referendum sul presidenzialismo
E Berlusconi aspetta le mosse del premier
di Barbara Fiammeri


ROMA Aspetta Silvio Berlusconi. Aspetta per verificare se davvero Matteo Renzi, come continua a garantirgli Denis Verdini, manterrà il Patto del Nazareno o se invece utilizzerà le aperture di Grillo e del leader della Lega Matteo Salvini sulle riforme per emarginare e rendere residuale Fi. Per questo l'ansia del faccia a faccia con Renzi, che fino a una settimana fa era in cima ai pensieri di Berlusconi, è scemato anche perchè i preliminari via telefono sono già in corso.
L'ex premier oggi rilancerà il presidenzialismo, su cui Maurizio Gasparri ha presentato un emendamento al ddl sulla riforma del Senato. Ma è solo una mossa di disturbo, niente di più. La conferma è arrivata anche dall'incontro con Fdi, il partito di Giorgia Meloni e Guido Crosetto da sempre sponsor del presidenzialismo, con il capogruppo al Senato di Fi Paolo Romani e il consigliere politico del Cavaliere Giovanni Toti. «Interlocutorio» l'ha definito Crosetto. Un modo elegante per far capire che in realtà tra gli azzurri non si hanno ancora le idee chiare. «Dipende da Renzi», è la risposta più ricorrente. E da Berlusconi. Il leader di Fi al momento non ha ancora preso una decisione. Certo il nuovo attacco sferratogli ieri da Grillo («appoggia Renzi per salvare le sue aziende») è la conferma che il leader pentastellato, non potendo più permettersi lo scontro frontale con Renzi, ha messo lui nel mirino con l'obiettivo di mandare all'aria l'accordo stretto con il segretario Pd.
In altri tempi Berlusconi avrebbe inviato segnali assai più belligeranti. Ma la batosta elettorale, condita dalla guerra interna a Fi (Fitto terrà il 27 giugno una manifestazione a Milano in contemporanea con un'altra di Toti), gli suggeriscono di volare basso. Anche perché deve fare sempre i conti con le sue vicende personali: domani è stato convocato a Napoli per testimoniare nel processo contro Valter Lavitola sui presunti ricatti a Impregilo per gli appalti a Panama. Lo conferma anche la decisione di ritirare il ricorso alla Corte di Strasburgo contro la sua incandidabilità presentato dai parlamentari di Fi. La motivazione ufficiale è che ormai, con le elezioni alle spalle, non aveva più alcuna utilità. Forse però a suggerire il passo indietro è stato anche il rischio di una decisione sfavorevole, che lo avrebbe ulteriormente indebolito. Nel giro di una decina di giorni il quadro si chiarirà. A breve sono attesi gli emendamenti dei relatori (Finocchiaro-Calderoli) sulla riforma del Senato. Passaggio chiave anche per capire l'orientamento della Lega che ieri, proprio con Calderoli, ha definito «ottima» la proposta di legge elettorale grillina anti-Italicum. Un altro segnale al Cavaliere e naturalmente a Renzi. E Berlusconi vuole capire anzitutto quale sarà la posizione del premier. E non solo sulle riforme. In ballo ci sono anche i provvedimenti sulla giustizia (a partire dalla reintroduzione del falso in bilancio) e non è certo sfuggita a Berlusconi la disponibilità manifestata al ministro Orlando dai grillini. Certo anche il M5s è in una posizione tutt'altro che facile. La svolta di questi giorni continua a destare molte perplessità tra i parlamentari, soprattutto per come è maturata, per l'assenza di qualunque confronto in rete e tra i gruppi di Camera e Senato che l'hanno appresa a cose fatte.

Repubblica 18.6.14
Rush finale del premier “Serve il sì del Senato entro la fine di giugno”
I dubbi di Berlusconi
L’ex Cavaliere teme che il processo Ruby possa far saltare definitivamente il patto del Nazareno
di Francesco Bei



IL PREMIER vede l’obiettivo a un passo. E accelera. «Voglio il voto definitivo al Senato entro giugno», è l’input che consegna alla vasta delegazione del Pd impegnata sulle riforme. Un vertice serale a palazzo Chigi serve a fare il punto sulla linea politica.
INVISTA di quello che Renzi definisce «il rush finale» nella prima commissione di palazzo Madama.
Ci sono tutti nello studio al primo piano: dal ministro Boschi ai capigruppo Zanda e Speranza, la presidente Finocchiaro, i sottosegretari Delrio, Lotti, Pizzetti, i vice di Renzi, Guerini e Serracchiani, oltre al presidente delle regioni Vasco Errani.
Si passano al vaglio tutti gli emendamenti che (forse venerdì) i relatori presenteranno al testo base. Questioni tecniche ma anche politiche, visto che ogni virgola deve tenere conto dell’intesa con Forza Italia e con la Lega. Il problema «ancora aperto», come ammette una fonte al termine della riunione, è come eleggere i futuri senatori. Che debba essere un’elezione di secondo grado, ovvero non diretta, è un principio pacifico per tutti i contraenti del patto. Ma sul «come» esistono molte strade diverse. Renzi insiste perché i senatori siano scelti tra i consiglieri regionali, la Lega è contraria e teme una eccessiva rappresentanza del Pd. Ci sarebbe anche un problema legato agli attuali senatori, Calderoli e gli altri, che per rientrare a palazzo Madama non vorrebbero essere costretti a misurarsi in elezioni regionali.
Durante il summit il ministro Boschi stupisce tutti presentandosi con delle slide che riguardano il voto europeo. Nelle simulazioni, sulla base dei risultati conseguiti il 25 maggio, si fanno i calcoli sul peso di ciascuna forza politica con le varie leggi elettorali: l’Italicum, il Consultellum, ma anche la legge dei 5Stelle. Segno che a palazzo Chigi «l’opzione zero», il ritorno alle urne, viene sempre presa in considerazione in caso di «impaludamento » sulle riforme. Per misurare la reale volontà di chiudere un accordo, nelle prossime ore Renzi consulterà anche Ncd e Scelta civica, poi si preparerà all’appuntamento più difficile, quello con i grillini. E la novità emersa dalla riunione è che, a differenza di quanto aveva commentato a caldo, il premier starebbe pensando di spiazzare tutti e presentarsi di persona al confronto in streaming. Proprio per chiedere ai “portavoce” 5stelle di impegnarsi intanto sulle riforme costituzionali.
Quanto all’incontro con Berlusconi, ancora non è stato fissato. Oggi Forza Italia presenterà la sua proposta di referendum sul presidenzialismo, ma ieri sia Augusto Minzolini che Maurizio Gasparri hanno fatto sapere che non ritireranno i loro emendamenti “presidenzialisti” in commissione. Quindi il Pd dovrà bocciarli, a meno che la presidente Finocchiaro non li dovesse ritenere inammissibili per materia. Ma la realtà è che Berlusconi in questo momento a tutto pensa tranne che alle riforme. Sull’ex Cavaliere incombe infatti l’apertura del processo d’ap- pello per Ruby e la sua angoscia cresce con l’approssimarsi di venerdì. In un corridoio di palazzo Madama ieri ne discutevano ad alta voce i senatori Mario Mauro (ex Pdl) con il forzista Minzolini e l’alfaniano Viceconte. Minzolini: «Venerdì è il giorno clou». Mauro: «È un processo sulle carte, potrebbe durare anche un giorno solo». Viceconte: «Nella migliore delle ipotesi entro luglio lo condannano».
Intanto nel Pd si calmano le acque. I 14 dissidenti hanno deciso di rientrare nei ranghi dopo averne discusso con il capogruppo Zanda. Ma se la questione Mineo-Chiti ormai è superata, con l’accettazione della loro sostituzione in commissione, resta aperto il tema degli emendamenti non concordati. «Noi li ripresentiamo pari pari in aula», annuncia Paolo Corsini. L’altra questione calda è il caso Mauro. Oggi a palazzo Madama ci sarà la riunione della giunta per il regolamento che dovrà esprimersi sul ricorso presentato dal senatore di Popolari per l’Italia. Sulla carta la giunta è spaccata a metà e potrebbe essere decisivo il voto del presidente Grasso. Un caso molto delicato, che potrebbe costituire un precedente discutibile. Per questo ieri sera si parlava di un rinvio della riunione.

Repubblica 18.6.14
A Piacenza il Pd imbavaglia le critiche via web
di Valerio Varesi


PIACENZA. Il fantasma di Zdanov, l’inflessibile custode dell’ortodossia staliniana, dev’essere balenato tra gli iscritti del Pd piacentino alla lettura del nuovo regolamento varato dalla direzione provinciale, che introduce il divieto di critica al partito e ai suoi rappresentanti tramite i social network e i mezzi di comunicazione. Vietato “cinguettare” e “postare”, ma anche rilasciare interviste, non importa se online o sui mezzi tradizionali, se prima non sarà stata chiesta «idonea convocazione del circolo di riferimento» per discutere «le tematiche che pongono in conflitto l’iscritto col partito». Un tentativo di lavare i panni sporchi in casa che si scontra con l’indominabile mondo della comunicazione di oggi e si trasforma in una battaglia donchisciottesca col nuovo universo mediatico dal quale, per ironia, arrivano gli attacchi corali di militanti e iscritti. Al punto che il segretario provinciale Gianluigi Molinari ora cerca di innestare la retromarcia rassicurando: «Nessun dogma, accettiamo la discussione - si affretta a dire - ma vorremmo invitare gli iscritti a riportare la dialettica in seno agli organi di partito». Tuttavia, l’onda d’indignazione, una volta partita, non si ferma. «È una norma che, di fatto, istituisce il reato di opinione» s’arrabbia il capogruppo in consiglio provinciale Marco Bergonzi. «Tra l’altro inapplicabile perché in conflitto col codice etico nazionale. Paradossalmente - aggiunge - si potrebbe attaccare il segretario nazionale, ma non quello di un circolo piacentino».
La polemica rinvigorisce uno scontro interno nella città di Pierluigi Bersani e dell’ex sindaco, ora sottosegretario, Roberto Reggi, renziano della primissima ora. La contrapposizione deflagrò in autunno quando fu eletto Molinari dopo infinite accuse che approdarono persino di fronte ai probiviri, gli stessi che il nuovo regolamento vorrebbe chiamare in causa in caso di critiche al partito tramite i mezzi di comunicazione. Il segretario tenta di smorzare ciò che porterebbe il Pd piacentino ad assomigliare ai metodi grillini: «Non abbiamo nessun intento epurativo - si difende - . Noi accettiamo la critica e la discussione anche se ammetto che la forma scritta del regolamento è un po’ secca e perentoria ».
Insomma, quel che nel testo appare netto e insindacabile, nell’interpretazione si tradurrebbe in un semplice invito a ricondurre la discussione all’interno del partito. «In ogni caso - promette Molinari - se la formulazione della norma fosse troppo rigida, potremmo anche cambiarla e in questo senso do la massima disponibilità ».

l’Unità 18.6.14
«L’art. 67 non si tocca, da Zanda un chiarimento importante»
Vannino Chiti
Il senatore Pd: «La nostra sospensione è rientrata ma la scelta di sostituire me e Mineo resta un grave strappo. Continueremo
a dire la nostra»
«Non capisco perché Renzi voglia trasformare la dialettica interna in una guerra permanente»


«La nostra autosospensione non era una scorciatoia per uscire dal Pd», premette Vannino Chiti. «Se uno vuole abbandonare il partito lo dice chiaramente - aggiunge il senatore democratico - ma non era il nostro caso». È rientrata la decisione dei 14 senatori che avevano deciso di sospendersi dal gruppo di Palazzo Madama per contestare la decisione di sostituire Corradino Mineo e lo stesso Vannino Chiti nella commissione Affari Costituzionali del Senato. «Poi per uscire dal Pd qualcuno ci dovrebbe cacciare, perché questo è il nostro partito», ribadisce Chiti.
Senatore, ma a cosa era dovuto il vostro strappo?
«Noi volevamo un chiarimento dal momento che era stato detto che l’articolo 67 della Costituzione valeva per l’aula e non per la commissione, questione che non sta né in cielo né in terra. Questo articolo costituzionale dice che un parlamentare rappresenta la nazione senza vincolo di mandato, è il fondamento della responsabilità e della libertà del parlamentare, del ruolo del Parlamento, della democrazia rappresentativa. Abbiamo chiesto un chiarimento duro su questo aspetto, non sulla riforma, questo chiarimento c’è stato con il presidente Zanda, il quale ha detto che l’articolo 67 della Costituzione vale sempre, dalle commissioni all’aula, quindi è rientrata l’autosospensione. Sottolineo che se questo articolo fosse abrogato per le commissioni, allora le commissioni parlamentari diventerebbero un circolo o una sezione di partito, il che ovviamente non è giusto».
Lei però, insieme a Mineo, resta fuori dalla commissione Affari Costituzionali.
«Questo è l’aspetto negativo. Noi abbiamo chiesto il chiarimento sul punto che dicevo prima, non abbiamo chiesto riammissioni, ma certamente consideriamo quelle misure in contraddizione con il valore dell’articolo 67. Le consideriamo tali anche per la sostituzione del senatore Mauro dei Popolari per l’Italia. È la prima volta che questo accade nella vita della Repubblica e del Parlamento, su questo manteniamo un giudizio negativo. Il tutto è ancora più grave perché sono state misure preventive, in quanto il testo che sarà in commissione sulla riforma costituzionale non è ancora noto. I due relatori Finocchiaro e Calderoli hanno dichiarato che c’è un’intesa sull’insieme della proposta, quindi ci sarà un nuovo testo su cui si può essere d’accordo su tutto, parzialmente, o dare un contributo per migliorarlo. Ripeto, si è trattato di sostituzioni preventive e sbagliate».
Anche nel suo caso?
«Nel mio addirittura preventiva due volte. Perché se mi fossi dimesso da presidente della commissione Politiche dell’Unione Europea sarei tornato a quella degli Affari costituzionali. Io non mi sono dimesso. Quindi era due volte preventiva e offensiva, perché certamente ho avuto varie volte nella mia vita politica posizioni diverse, ma sempre alla luce del sole. Sulla legge elettorale toscana nella direzione regionale ho votato contro, non ero più in consiglio regionale, altrimenti questa legge non ci sarebbe stata, quando il Pd ha sostenuto il referendum Segni-Guzzetta io ero tra quelli contrari, sempre alla luce del sole, nessuno può dire che da sindaco o da presidente di Regione, da ministro o da parlamentare, abbia operato una trappola in modo sleale nei confronti dei gruppi parlamentari a cui facevo riferimento, quindi, è doppiamente preventiva e offensiva rispetto alla storia che mi porto dietro».
Si è sentito chiamare in causa quando Renzi ha detto che il Pd non è un taxi?
«Se l’ha detta nei miei riguardi, certamente la riterrei offensiva. Però non voglio fare polemiche, anche se in tutta questa vicenda mi è stato detto che volevo 15 minuti di visibilità, conservatore, parte della palude, non ho mai risposto perché non voglio stare su questo terreno. Rivendico il valore del pluralismo nel Pd e dico attenti al pericolo che nel nostro partito ci sia un pensiero unico, se fosse così ci costerebbe caro, rivendico il contributo che lealmente ogni parlamentare deve dare».
Ora che fine fanno i vostri emendamenti al testo base del governo sulla Riforma del Senato?
«Continueranno a esserci. Non è che decadono perché non si è in commissione. Poi il testo base del governo non c’è più, c’è il testo nuovo dei relatori Finocchiaro e Calderoli e quando lo conoscerò dirò cosa mi convince e cosa no. Nell’incontro che abbiamo avuto con Zanda è stato anche detto che il contributo che abbiamo dato e le nostre posizioni possono non essere condivise, ma non sono un ostacolo o un sabotaggio alle riforme, legittimamente le abbiamo portate avanti e continueremo a portarle avanti sugli aspetti che potrebbero non convincerci, ma l’intento non è di frenare».
L’asse Pd e Forza Italia deve essere allargato anche a chi ci sta a fare la riforma del Senato?
«Noi abbiamo sempre sostenuto che non deve essere esclusivo e che ci vuole un rapporto anche con la Lega Nord, Sel, e con chi è stato espulso dal Movimento 5 Stelle e con Grillo ora che ha capito che chi ha il 25 per cento deve dare il suo contributo. Noi siamo per il confronto, senza diritto di veto, e l’abbiamo sempre detto».
Quindi la battaglia sui temi della riforma costituzionale continua.
«Chiamiamola come vogliamo, noi continueremo a dire di sì agli aspetti che ci convincono, daremo il nostro apporto per migliorarla. Non capisco perché Renzi voglia trasformare la vita interna del partito in una sorta di guerra permanente, non ci sono battaglie, ci sono proposte e noi abbiamo il dovere di farle, altrimenti siamo qui a scaldare solo le sedie».

il Fatto 18.6.14
Pubblica amministrazione
Nel decreto Madia il “cavillo” ad personam per il caro premier
Renzi prova a cancellarsi la condanna per decreto
di Tommaso Rodano


Una norma per “sanare” le assunzioni senza titoli nelle amministrazioni, vicenda per cui Renzi è stato condannato dalla Corte dei conti quando era presidente della Provincia di Firenze. Palazzo Chigi: “Nel testo definitivo non ci sarà”.
Un articolo “salva-Renzi”. Nel decreto legge Madia sulla pubblica amministrazione, c’è una norma che potrebbe risolvere i problemi del premier con la giustizia amministrativa. Ma da palazzo Chigi assicurando: “È un errore, la faremo sparire”.
Per spiegarla, serve un passo indietro. Tre anni fa l’attuale presidente del Consiglio è stato condannato in primo grado dalla Corte dei Conti di Firenze per danno erariale. La sentenza è del 4 agosto 2011: secondo i giudici contabili, quando era presidente della Provincia di Firenze (tra il 2004 e il 2009), Renzi è stato responsabile dell’assunzione irregolare di quattro persone nello staff della sua segreteria, con contratti a tempo determinato.
I QUATTRO ASSUNTI (con chiamata diretta) sono stati inquadrati in una categoria contrattuale incompatibile con i loro curricula: nonostante non fossero laureati, sono entrati nella segreteria del presidente della Provincia con un contratto di categoria D invece che C. E quindi con stipendi eccessivi, rispetti al grado di preparazione. Di conseguenza è stato rilevato il danno erariale: la Corte dei Conti ha condannato in primo grado Renzi al risarcimento di 14 mila e 535 euro, il 30 per cento della cifra complessiva di circa 50 mila euro, divisa con gli altri 20 condannati (tra cui figura l’ultimo presidente della provincia di Firenze, Andrea Barducci). In attesa della sentenza d’appello prevista in autunno, però, l’illecito amministrativo imputato a Renzi potrebbe essere cancellato grazie a una norma del governo. Nel testo del decreto legge Madia (“misure urgenti per l’efficientamento della pubblica amministrazione e per il sostegno dell’occupazione”), c’è un articolo tagliato su misura per i guai del premier.
L’articolo 12 della riforma (“Disposizioni sul personale delle regioni e degli enti locali”) introduce un paragrafo da aggiungere all’articolo 90 (secondo comma) del Testo Unico degli Enti Locali del 2000. Recita così: “In ragione della temporaneità e del carattere fiduciario del rapporto di lavoro si prescinde nell'attribuzione degli incarichi dal possesso di specifici titoli di studio o professionali per l'accesso alle corrispondenti qualifiche ed aree di riferimento”. Traduzione: con questa norma negli enti locali (comuni, province e regioni), le assunzioni a tempo determinato possono essere decise in modo discrezionale a prescindere dal percorso professionale e dal titolo di studio dei candidati.
TRA PRIMO GRADO e appello, quindi, scomparirebbe la fattispecie che è costata la condanna amministrativa a Renzi.
Una condanna che il premier, ai tempi della sentenza, definì il frutto di una “ricostruzione fantasiosa e originale”. L’indagine nacque da una denuncia anonima sull’assunzione di Marco Carrai. L’“uomo-ombra” del renzismo, all’epoca ventinovenne, fu sistemato nella segreteria del presidente della provincia di Firenze, nonostante privo del diploma di laurea. Alla fine la nomina di Carrai non sarà ritenuta illegittima dai giudici, ma nel frattempo le indagini avevano fatto emergere le irregolarità in altri quattro contratti a tempo determinato. L’ex sindaco di Firenze esultò per il forte sconto della sentenza (un risarcimento di “soli” 50 mila euro a fronte degli oltre 2 milioni richiesti dalla procura) e attribuì ai funzionari della provincia la responsabilità delle assunzioni incriminate: “Non si tratta di amici e parenti– commentò Renzi – e se un dirigente ha sbagliato l’inquadramento ce ne assumeremo le responsabilità, ma è difficile accettare l’idea che siano gli amministratori e non i funzionari i responsabili di questi eventuali errori tecnici”.
Non c’è dubbio, in ogni caso, che un’eventuale conferma in appello della condanna della Corte dei Conti per il presidente del Consiglio sarebbe motivo di forte imbarazzo.
Da Palazzo Chigi garantiscono che non c’è nessun trucchetto e spiegano: il presunto aiutino a Renzi è presente solo nella bozza del decreto legge e verrà fatto scomparire dal testo definitivo della riforma del ministro Madia.

l’Unità 18.6.14
Made in Italy, il governo: «Investimenti a tappeto»
All’inaugurazione di Pitti Uomo, il viceministro Calenda annuncia nel 2015 uno sforzo straordinario per sostenere i marchi nostrani della moda e del cibo


Pitti Uomo rilancia. L’edizione straordinaria di questo giugno, che ha visto l’impegno del Governo a sostegno del salone di moda maschile con un supporto economico pari a 2 milioni di euro, diventerà la norma. Ad annunciarlo in Palazzo Vecchio, in occasione dell’inaugurazione dell’86ª edizione della fiera alla presenza del premier Matteo Renzi, è il viceministro allo sviluppo economico Carlo Calenda, che fin dallo scorso anno ha fortemente sostenuto la manifestazione fiorentina.
ITALIA PROTAGONISTA IN 15 FIERE
«Questa edizione di Pitti Uomo per il sessantesimo anno del Centro di Firenze per la moda italiana è stata un test - spiega Calenda -. Quella che abbiamo speso, in fondo, è una cifra ridicola se comparata all’importanza del settore, meno di quanto si investe nel salvataggio di un’azienda decotta. Il prossimo anno, Pitti avrà lo stesso sostegno da parte del Governo e diventerà il modello per 15 eventi fieristici che sosterremo per promuovere a tappeto il made in Italy nel mondo. Lo faremo invitando centinaia di compratori stranieri nel nostro Paese per far toccare loro con mano la qualità e la bellezza del nostro lavoro. Ci impegneremo anche a far conoscere le nostre Igp dell’agroalimentare italiano in America lavorando a stretto contatto con la grande distribuzione internazionale ».
L’idea che anima il governo Renzi, e che lo stesso premier ha illustrato con chiarezza ieri mattina nel Salone dei Cinquecento, è che «il mondo chiede bellezza e l’Italia ha una qualità della vita e una capacità di attrazione che spesso sottovalutiamo e disperdiamo in mille polemiche». Ci vuole coraggio, insomma, ma anche consapevolezza dell’enorme patrimonio del quale il nostro Paese dispone. «Dobbiamo avere il coraggio di dire che la crisi può essere vinta perché tutti gli strumenti possono essere messi in campo », continua Renzi, che ha lanciato anche un appello alle banche per sostenere il credito alle imprese.
E la moda è uno dei settori che più hanno sofferto e si sono ristrutturati con grandi difficoltà puntando soprattutto sulla ricerca e l’eccellenza. Troppo spesso, però, anche in un recente passato, la politica ha visto il settore come una nicchia, un mondo a parte da non considerare più di tanto. Non è dello stesso avviso il premier Renzi, uno dei primi politici (forse l’unico) ad aver assistito a sfilate di moda e pronto a confrontarsi con il settore.
Lo stesso presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, spiega che «se questa Regione ha tenuto è stato anche grazie al lavoro delle imprese della moda, la loro capacità di stare nella crisi con creatività ci ha permesso di andare un po’ meglio. Da parte nostra dobbiamo attrezzarci con le infrastrutture e lo stiamo facendo. Una grande compagnia argentina è diventata proprietaria di due aeroporti toscani, quello di Firenze e quello di Pisa. È un grande salto per la Toscana: da qui potremo raggiungere il mondo». E il mondo potrà arrivare meglio alle straordinarie piccole e medie imprese toscane che sono l’anima della moda internazionale, dall’abbigliamento alla pelletteria di lusso.
Può stupire, ma non troppo, questa improvvisa attenzione della politica e delle istituzioni per il settore tessile- abbigliamento e dintorni.
Per chi non lo sapesse, la moda in Italia è un’industria da quasi 500mila posti di lavoro ed è il secondo settore manifatturiero del Paese. A ricordarlo è Claudio Marenzi, presidente del Sistema Moda Italia, che annuncia i primi dati positivi del tessile-abbigliamento dopo sei anni di nubi e segni meno. «Nel primo semestre del 2014 il settore ha registrato il +2,3% e a fine anno arriveremo a un incremento del 3,6% - spiega Marenzi -. Il che ci riporta a superare i 52 miliardi di turn over e a raggiungere i 10 miliardi di euro di bilancia commerciale. Non parlerei di ripresa, ma di un momento positivo per l’Italia. C’è grande voglia di prodotti italiani nel mondo, dobbiamo approfittarne ». E infatti le vendite sono crescite del 3% in Italia e dell’8% all’estero. Rispetto a un anno fa, in cui i mercati erano tirati dall’America e dall’Asia, quest’anno sta tornando con forza l’Europa, mentre Usa e Canada sono andate meno bene. Per quel che riguarda l’Asia, si distinguono soprattutto Malesia, Singapore, Corea. Meno bene, purtroppo, per l’occupazione: continua la contrazione di aziende ed addetti. Secondo Smi, infatti, e aziende dovrebbero registrare su base annua una contrazione dell’1%, corrispondente a 500 unità. Sul fronte del mercato del lavoro, gli occupati dovrebbero invece calare a circa 414.000, in flessione del 2,2% rispetto al 2012, cui corrisponde una perdita occupazionale di 9.300 lavoratori.

Corriere 17.6.14
Il Battistero vestito
Un foulard di Pucci come opera d’arte
L’installazione avvolge l’intero monumento
Da Canova a Bill Viola, non solo Rinascimento
di Matteo Persivale


FIRENZE — C’è il Battistero tutto vestito Pucci, Palazzo Spini Feroni (il palazzo privato più antico della città) che ospita opere da Canova a Rodin, da Picasso a Bill Viola, c’è Francesco Vezzoli con una mostra in tre luoghi «segreti» di una delle città meno segrete del mondo, il Museo Gucci (a fianco di Palazzo Vecchio) illuminato da una delle «poesie di luce» di Mario Nanni, suoni (la voce di Andrea Bocelli) e luci a Ponte Vecchio, il design delle auto anni 50, al Museo Marino Marini il design di 60 anni di borse Braccialini, i costumi meravigliosi di 50 anni della sartoria Tirelli nel foyer dell’Opera, il film su Napoli con Raffaele La Capria cicerone. Sembra il piano delle mitiche «vacanze intelligenti» di Alberto Sordi con signora, il programma di quest’edizione di Pitti: che per una volta ha voluto stupire flettendo i muscoli della cultura oltre a quelli della moda.
È il Pitti dell’arte: antica ma anche — per una volta nella città così spesso accusata d’essersi fermata, per quanto meravigliosamente, al Rinascimento — contemporanea. Un programma di quattro giorni ad alto tasso intellettuale, lo slogan sarà anche «Firenze città della moda» ma più che altro è la città dell’arte anche durante Pitti, mescolando le carte con abilità.
Perché se Palazzo Pucci è esattamente a 130 metri in linea d’aria dal Duomo, è stato naturale pensare alla più spettacolare novità di questo Pitti, «Monumental Pucci», installazione artistica che ha «vestito» il Battistero di Piazza San Giovanni con un disegno tratto dagli infiniti archivi della maison fiorentina, quello del foulard chiamato, evidentemente, Battistero. Un disegno del marchese Emilio Pucci in persona, del 1957, un’esplosione di luce gialla e arancione come quella che filtra sulla città al mattino e al tramonto, come già raccontava Henry James, con l’aggiunta del fucsia di casa Pucci e del rosa. Il Battistero resterà «fasciato» fino al fine settimana: sarà invece aperta fino al 12 aprile 2015 la mostra che viene inaugurata oggi e apre da domani a Palazzo Spini Feroni, sede di Ferragamo, dedicata all’equilibrio, e ispirata alla tecnica che segnò il lavoro del geniale fondatore, Salvatore Ferragamo («Ho potuto fabbricare le mie forme che, sostenendo l’arco plantare, permettono al piede di muoversi come un pendolo. Le articolazioni del metatarso e il tallone non sorreggono più alcun peso e in tal modo le scarpe guidano l’equilibrio del corpo che cammina»). La mostra «Equilibrium» curata da Stefania Ricci e Sergio Risaliti fa l’elogio del camminare, del danzare, attraverso media diversi — pittura, scultura, fotografia, video, cinema — con opere di Canova e Degas, Rodin e Bourdelle, Matisse e Picasso, Lipchitz e Severini, Klee e Calder. I video di Bill Viola e Marina Abramovic, i ritratti di Nijinsky e Martha Graham. Una mostra eccentrica come il fondatore della casa che emigrò a Hollywood portando la fantasia al potere nel design della scarpa femminile (potevano soltanto essere sue le scarpette rosse di Judy Garland ne «Il mago di Oz»).
Viola e Abramovic per Ferragamo, Vezzoli per Fondazione Pitti Discovery, con mostra una e trina a cura di Francesco Bonami inaugurata ieri sera e visitabile fino al 20 luglio. Un omaggio eccentrico a Firenze e ai suoi musei, «Vezzoli primavera-estate» è una personale dell’artista in tre luoghi generalmente poco noti al turismo di massa come il Museo Bardini, il Museo di Casa Martelli e il Museo Bellini, case museo appartenute a grandi collezionisti e famiglie nobili. Tre case dell’arte dove Vezzoli come è nel suo stile infiltrerà — come «impertinenti violazioni» — una serie di sue opere, tra cui alcuni lavori realizzati espressamente per questo progetto. Un cortocircuito molto vezzoliano, con il Museo Bardini che nella «Sala delle Madonne» vedrà il Quattrocento «contaminato» da due Madonne di Vezzoli, «Crying Portrait of Stephanie Seymour as a Renaissance Madonna with Holy Child» e «Crying Portrait of Christie Brinkley as a Renaissance Madonna With Holy Child», le due supermodelle come Madonne. Al Museo Bellini Sophia Loren «mixata» con De Chirico, e nella Cappella del Museo di Casa Martelli, tra le Madonne attribuite alla scuola di Filippo Lippi, l’autoritratto di Vezzoli.
E per festeggiare i 60 anni del marchio Braccialini ha inaugurato la mostra «Il giardino incantato» trasformando in giardino tropicale il Museo Marino Marini, a pochi passi da Santa Maria Novella.

Il Sole 18.6.14
Pitti Uomo 86. Il premier elogia i risultati del settore all'inaugurazione della rassegna internazionale
Renzi: moda centrale per crescere
Calenda annuncia un piano straordinario nel 2015 per il made in Italy
di Silvia Pieraccini


FIRENZE La moda italiana cambia marcia e umore e punta con decisione a dribblare la crisi più insidiosa che il settore ricordi. Il nuovo clima, meno cupo e più propositivo, si è visto bene ieri all'inaugurazione del Pitti Uomo numero 86, che per la prima volta si è tenuta nel Salone de' Cinquecento di Palazzo Vecchio, alla presenza del premier Matteo Renzi, ex sindaco di Firenze e dunque ex "padrone di casa", che ha sparso ottimismo e spronato le banche a finanziare le piccole e medie imprese della moda. Presenti anche il viceministro allo Sviluppo economico Carlo Calenda, che ha annunciato un piano straordinario per il made in Italy nel 2015, di cui sarà pilastro strategico il finanziamento di 30 milioni diretto a "spingere" 15 eventi-fiere in tutta Italia. Mentre il presidente di Smi (Sistema moda Italia) Claudio Marenzi ha confermato un 2014 col segno più per il tessile-moda (+3,6% la previsione di fatturato a 52,5 miliardi) trainato ancora dall'export. Resta la flessione del mercato interno e, soprattutto, degli stimoli creativi che da questo sprigionano.
«La crisi non è finita ma può essere vinta se tutte le forze in campo faranno la propria parte», ha detto Renzi invitando gli imprenditori del settore a non abbattersi. «La moda può diventare sempre più centrale nelle strategie della politica», ha aggiunto elogiando la più importante rassegna internazionale di moda maschile, che si tiene alla Fortezza da Basso fino a venerdì, e che in questa edizione conta 1.090 marchi, per il 40% provenienti dall'estero, che presentano le collezioni per la primavera-estate 2015 cercando di "catturare" i circa 18mila compratori attesi (30 di loro, considerati i più importanti al mondo nella moda uomo, sono stati premiati ieri mattina proprio da Renzi). Un'edizione ricca di eventi, anche grazie a quelli ideati per festeggiare i 60 anni di attività del Centro di Firenze per la moda italiana, che hanno goduto di un finanziamento straordinario di due milioni del ministero dello Sviluppo economico.
«Questo finanziamento diventerà ordinario – ha annunciato il viceministro Calenda – perché continueremo a mettere soldi anche il prossimo anno, sul Pitti che ha rappresentato un test e su altri eventi: ne sceglieremo 15 in tutta Italia, e ci investiremo per promuovere i nostri prodotti». In tutto si tratta di una trentina di milioni, che rappresentano un tassello del piano di promozione del made in Italy che presto andrà in Consiglio dei ministri. «Mai prima d'ora era stato messo in campo un progetto così grande per la promozione del made in Italy», ha aggiunto Calenda spiegando che non si tratterà solo di andare a promuovere i nostri prodotti all'estero, ma anche e soprattutto di portare i compratori in Italia per far vedere il know how e le fabbriche dei nostri territori. Raccontare cosa sappiamo fare, e come, sarà la chiave per aprire le porte internazionali con la speranza, invocata da Marenzi, di poter contare sull'etichetta di origine obbligatoria. «Siamo vicino al traguardo storico del "made in", che è fondamentale per difendere un settore come la moda ad alto impiego femminile», ha detto il presidente di Sistema moda Italia, riferendosi alla norma europea in approvazione che dovrebbe introdurre l'obbligo dell'indicazione di provenienza sui prodotti extra-Ue non alimentari.
Sul gioco di squadra che ha dato vita a questo appuntamento particolarmente ricco del Pitti Uomo ha insistito il sindaco di Firenze, Dario Nardella, mentre il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, ha sottolineato il passo avanti fatto sul terreno delle condizioni di contesto, e in particolare delle infrastrutture, col gruppo Corporation America, che è appena diventato socio di maggioranza degli scali di Firenze e Pisa.
«La forza del made in Italy è fatta dal lifestyle – ha aggiunto Gaetano Marzotto, presidente di Pitti Immagine, società organizzatrice della fiera – ed è per questo che accanto agli abiti Pitti Uomo propone anche accessori e, da questa edizione, occhiali. Se le nostre antenne sono buone, cominciamo a vedere la luce in fondo al tunnel, soprattutto sui mercati internazionali». «La speranza è che questa edizione del Pitti segni anche la ripresa del mercato italiano», ha aggiunto Stefano Ricci, presidente del Centro di Firenze per la moda italiana.

Corriere 17.6.14
Tangenti per ricostruire le chiese L’Aquila, 5 arresti e 17 indagati


L’AQUILA — Sono in totale 17 gli indagati (tra cui cinque agli arresti) nell’ambito dell’inchiesta su presunte tangenti nella ricostruzione post terremoto per ottenere appalti per il recupero di beni culturali ed ecclesiastici. Si tratta di
funzionari della direzione regionale dei beni culturali, professionisti, tecnici e imprenditori. I reati che sono stati contestati a vario titolo sono corruzione aggravata per un atto contrario ai doveri d’ufficio, falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico, distruzione e occultamento di atti veri, uso di atto falso, turbativa d’asta, millantato credito, emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Nel corso dell’operazione sono state effettuate 25 perquisizioni. Tra i soggetti destinatari di perquisizione architetti, ingegneri, imprenditori, faccendieri, ma anche avvocati del foro romano e bolognese.

il Fatto 18.6.14
Senza fine. Arrestati dirigenti del Mibac e imprenditori
La nuova cricca dell’Aquila rubava sulle chiese
La lettera del vescovo a Gianni ed Enrico Letta per “agevolare” gli appalti
di Antonio Massari


Una ricostruzione di almeno 700 milioni di euro. È questo il valore delle chiese aquilane distrutte dal terremoto. Una cifra che ha ingolosito molte persone, a partire dal vice di Guido Bertolaso, Luciano Marchetti, vice commissario per la ricostruzione. La cricca puntava a condizionare – senza riuscirci
– l’ex premier Enrico Letta per spingerlo ad affidare l’intero affare alla Curia. E come vedremo, anche la Curia – sebbene non conti indagati – in questa vicenda vede parecchio sporcata la sua immagine.
MA LA CHIAVE di questa storia è tutta in un’intercettazione di appena nove mesi fa. Si parla di un decreto, di una chiesa, di una mazzetta da 180 mila euro e di un misterioso Antonello. “Noi stiamo a tirare con Antonello per il fatto del decreto... fosse altro che va in porto... e... per Santa Maria Paganica... che sono... 180.000 euro”. A parlare – intercettata nella sua auto – è Alessandra Mancinelli, funzionario della Direzione Regionale dei Beni Culturali e Paesaggistici per l’Abruzzo, arrestata ieri dalla procura di L’Aquila. Santa Matia Paganica è una storica chiesa aquilana da ricostruire, un affare da 19 milioni di euro, che aveva ingolosito a tal punto , i protagonisti di questa storia, da spingerli a raggirare un anziano sacerdote, ormai “demente”, facendogli firmare atti che verranno persino retrodatati. I 180 mila sono invece il prezzo della mazzetta per affidare i lavori, l’uno per cento preteso secondo l’accusa dalla Mancinelli, che viene persino filmata e perquisiti dopo averne intascati 10 mila. Resta il misterioso “Antonello” e il “decreto” in questione. La spiegazione è a pagina 22   dell’ordinanza di custodia cautelare: parliamo di Antonello Antonellis, uomo molto vicino all’ex premier Enrico Letta, al quale – stando alle parole di Mancinelli – viene affidato il compito di “tirare” per realizzare un decreto. La Mancinelli si riferisce a un “decreto” fondamentale per la costruzione della sua mazzetta: sarà più semplice ottenere i 180mila euro se la Curia aquilana potrà gestire in maniera diretta i lavori di ricostruzione delle sue chiese, come avviene in Emilia Romagna e in Umbria. Ma per ottenere il risultato è necessario un decreto firmato da Enrico Letta ed è per questo motivo che la “cricca” - come rivelato da Il Fatto Quotidiano sei mesi fa – avvia una “trattativa” tra Stato e Chiesa. Il principale ambasciatore, per conto della Mancinelli, è quindi Antonello Antonellis, fedelissimo di Letta junior, mentre monsignor Giovanni D’Ercole – come vedremo - scrive a suo zio Gianni, pregandolo di intervenire per modificare la legge. Ad agosto 2013 il monsignore affida due lettere, in busta chiusa, alla Mancinelli: “Una diretta al Presidente del Consiglio Enrico Letta e l’altra diretta all’On. Gianni Letta”. “Gentilissimo dottor Gianni Letta – scrive D’Ercole – profitto della sua cortesia per trasmettere questo plico e questo piccolo dossier... e reiterare la richiesta … di essere le nostre diocesi soggetti attuatori della ricostruzione... al riguardo ci sia permesso allegare una proposta di possibile aggiunta dell’articolo 2 della legge del 4 febbraio 2013: un comma bis”.
NEL FRATTEMPO l’imprenditore Nunzio Massimo Vinci commenta con la Mancinelli: “Se fanno sta cosa, là, con Marchetti facciamo Bingo! Eh! Abbiamo Vinto!”. Vinci mira all’affare della ricostruzione e sottolinea che con “Marchetti” avrebbe fatto “bingo”. Il motivo, secondo l’accusa, è semplice: Marchetti brigava con Vinci per fargli ottenere l’incarico con trattativa diretta. Ed è per questo che Vinci consegna una tranche di 10mila euro a Marchetti che, a sua volta, la gira alla Mancinelli, ritenuta dall’accusa la referente di Marchetti. I tre – Vinci, Marchetti e Mancinelli – sono finiti ieri agli arresti domiciliari , dopo l’indagine condotta da Squadra Mobile e Guardia di Finanza, sotto la guida dei pm David Mancini e Antonietta Picardi, coordinati dal procuratore capo Fausto Cardella. Nel corso delle indagini gli investigatori scoprono persino che – pur di chiudere l’appalto della chiesa di Santa Maria in Paganica – gli imprenditori sfruttano l’incapacità del parroco, prossimo a morire e privo di lucidità. È Vinci, amico del vice parroco Stefano Rizzo, che “sfrutta la malattia” del parroco Renzo Narduzzi e il 27 luglio 2011 si fa firmare un atto che gli consente di aggiudicarsi i lavori. A giudicare dagli atti don Stefano Rizzo è consapevole dell’operazione, visto che Vinci viene intercettato mentre decide di retrodatare la scrittura: “…il prete mi diceva se potevamo mettere una data almeno antecedente ad un mese fa... quindici venti giorni fa... siccome è dissociato... quindi lo abbiamo quasi accompagnato con la mano a firmare... quindi... la Curia sa... che ha questo problema... mentre un mese e mezzo fa... non ce lo aveva...”.
L’AFFARE di Santa Maria in Paganica, però, non era l’unico nel mirino della cricca. C'era anche la ricostruzione della chiesa Anime Sante e, in questo caso, Marchetti secondo l’accusa si supera: mentre da funzionario riesce a condizionare la gara, pilotandola verso alcuni costruttori, si auto-nomina “direttore dei lavori”, appena due giorni prima di lasciare l’incarico di vice commissario per la ricostruzione. Un incarico – dice Marchetti all’imprenditore che deve assumerlo - che “però ...non deve essere superiore a 40mila euro ...”. cioè la soglia massima di un affidamento diretto.

il Fatto 18.6.14
Giovanni D’Ercole
Il vescovo, i soldi a sua insaputa e la messa per Rauti
di Ant. Mas.


È il 14 aprile scorso, quando Papa Francesco nomina nuovo vescovo di Ascoli Piceno, scegliendo monsignor Giovanni D’Ercole. L’uomo di chiesa che era il tramite di una tangente a sua insaputa. Non disdegna i piani alti della politica per ottenere i suoi scopi, come l’affidamento diretto della ricostruzione del Duomo, nonostante il suo stesso arcivescovo sia in disaccordo. Parlando con Luciano Marchetti spiega che intende premere sul governo per modificare la legge: “... se viene modificata ... se il piano superiore accettano, il problema non sussiste più... per noi è l’unica strada, ma fa fatica però anche l’Arcivescovo ad accettare questa linea, perché lui ritiene che noi non siamo all’altezza di poter diventare soggetti attuatori...”.
D’ERCOLE non si scoraggia, scrive a Gianni ed Enrico Letta, giungendo a ottenere – come ha rivelato il Fatto Quotidiano – che la bozza della modifica di legge giungesse sulla scrivani dell’ex premier. Enrico Letta, però, lasciò cadere la bozza in un cassetto e non se ne fece nulla. D’Ercole non è indagato e quindi, a giudicare dagli atti, possiamo immaginarlo come “l’utile idiota” della “cricca” che, anche attraverso le sue lettere, mirava a modificare la legge e incassare così una mazzetta dal 190 mila euro per la ricostruzione della chiesa. In passato il vescovo è stato indagato - e poi assolto con formula piena - nell’inchiesta sulla tentata truffa da 12 milioni di euro sui fondi messi a disposizione attraverso l’ex sottosegretario Carlo Giovanardi dal governo Berlusconi. Anni dopo, mentre esplode lo scandalo romano delle baby escort dei Parioli, D’Ercole - ovviamente senza far nomi - rivela alla procura dell’Aquila che un medico, che s’era confessato da lui, gli aveva parlato di alcune minore costrette a prostituirsi. L’ultimo episodio che lo vede protagonista riguarda la celebrazione della liturgia esequiale dello storico leader del Msi Pino Rauti: era il 6 novembre scorso e Monsignor D’Ercole era stato invitato - secondo indiscrezioni direttamente da Gianni Alemanno - a tenere l’elogio funebre.
UNA MESSA QUESTA che divenne un caso perchè non appena entrò Gianfranco Fini nella chiesa, partirono urla al suon di “Traditore”. Da sempre vicino alla politica che conta, insomma, D’Ercole questa volta punta su Gianni ed Enrico Letta. E per fare l’interesse della sua Curia, s’affida a Marchetti e Luciana Mancinelli, una coppia che – filmata dagli investigatori – si spartiva mazzette in auto, puntando a una tangente, proprio per la ricostruzione delle chiese aquilane.

il Fatto 18.6.14
L’uomo di Bertolaso e la casa di Propaganda Fide
di Val. Pa.


Come vice commissario la mia attività ha avuto il plauso della Corte dei Conti; non ho partecipato alle gare e gli stessi puntellamenti sono stati seguiti dal Comune. Come privato, ho partecipato a varie gare senza vincerne alcuna. Mi sento più vittima che un soggetto che ne ha potuto trarre benefici”. Era il 13 dicembre scorso quando Luciano Marchetti a Il Messaggero commentava così la sua iscrizione nel registro degli indagati della Procura dell’Aquila.
NON SI PARLAVA ancora di arresto, fino a ieri, quando il gip ha emesso nei suoi confronti e di altri un’ordinanza di misura cautelare ai domiciliari. Proprio a lui che è riuscito a resistere in quell’harem degli imprenditori, che era diventata l’Aquila dopo il sisma. Nominato con Giudo Bertolaso vice commissario per la ricostruzione dell’Aquila dopo il terremoto del 2009, era stato confermato anche quando il capo della protezione civile di quegli anni aveva lasciato ed era diventato presidente della Regione Abruzzo, Gianni Chiodi. Marchetti ha superato anche la bufera di polemiche che si sollevò quando venne pubblicata la notizia che il suo nome era presente nella “lista Anemone”, quell’elenco che raccoglieva tutti gli interventi edili (di ristrutturazione e ricostruzione) fatti dall’imprenditore negli uffici pubblici e case private. “Ho sempre pagato ogni tipo di lavoro” si era difeso allora l’ex vicecommissario, spiegando che “La cosiddetta ‘Lista Anemone’ é composta da 450 clienti, qualcuno ha pagato, qualcuno forse ne ha ottenuto benefici, qualcuno si è fatto comprare l’appartamento, forse. Tutte queste cose vanno prima provate io ho pagato i lavori, a me non interessa nulla degli altri 449”. L’ex direttore regionale per i Beni Culturali nel Lazio viveva e forse vive ancora (sulla posta delle lettere ci sono ancora i nomi di entrambi), con la sua compagna Francesca Nannelli, al secondo piano nella centralissima strada romana, via del Governo Vecchio. L’immobile è di proprietà di Propaganda Fide e Francesca Nannelli nel 2005 era responsabile del procedimento per il finanziamento erogato alla Curia dalla società Arcus Spa, di proprietà del Tesoro ma controllata dai ministeri dello Spettacolo e delle Infrastrutture. Il Fatto ha pubblicato una lettera datata 16 dicembre del 2005 e inviata alla donna da Monsignor Francesco Di Muzio, allora capo dell’amministrazione di Propaganda Fide proprio per giustificare uno dei contributi. Ma questa è un’altra storia. I personaggi, invece, a volte ritornano.

il Fatto 18.6.14
Milano, un altro Kabobo Ma questa volta è italiano
Un 34enne armata di coltello ha ucciso un uomo e ne ha ferito altri due, tutti nei pressi di autolavaggi. È stato arrestato mentre nudo gridava: “sono libero”
di Giovanna Trinchella


Milano. Come Kabobo. È un incubo di follia quello che ripiomba sul milanese a un anno di distanza da quando un cittadino ghanese fece mattanza a colpi di piccone di tre passanti in zona Niguarda. Sembra un copione che si ripete. Ma questa è una storia di cronaca nera tutta nuova che ha un minimo comun denominatore e potrebbe nascondere anche il movente: i luoghi.
Le tre aggressioni, a colpi di coltello, sono avvenute perché c’era un autolavaggio. Le prime due all’interno, la terza in un parco a un soffio da una struttura con annessa pompa di benzina. C’è quella frase gridata e ripetuta: “Sono un uomo libero. A tutto il mondo lo voglio gridare. A tutto il mondo”. La scena è stata ripresa con un telefonino ed è finita subito in mano agli inquirenti.
LA PRIMA tappa dell’aggressore, un uomo di 34 anni, originario di Cinisello Balsamo, è il distributore Shell di via Gramsci a Sesto San Giovanni. Sono le 14 e 30 circa. Il killer entra nel gabbiotto e ferisce Francesco Saponara, 55 anni. Nessuno sente gridare. La vittima resta agonizzante in una pozza di sangue. Poi risale sulla Fiat Punto grigia con una ammaccatura sul fianco destro con la quale è arrivato e riparte.
Ecco la seconda tappa, sono passati poco più di venti minuti. È l’autolavaggio Nuova Sgl di Cinisello Balsamo in via De Amicis il nuovo target. Francesco Mercadante, 51 anni, viene sgozzato. Il suo corpo viene ritrovato da una dipendente. La donna si è allarmata perché ha visto due macchine senza nessuno dentro. Si affaccia all’interno del gabbiotto, chiama, ma vicino alla cassa a due passi dal bagno c’è il suo titolare senza più vita.
Intanto è scattato l’allarme. Al 118 arriva una telefonata di un’altra donna, quella che scopre la prima aggressione. Dopo aver colpito Mercadante, il killer fugge a piedi. Trascorre un’ora in cui il centralino del 118 non riceve più alcuna telefonata.
Intanto la polizia ha scatenato una caccia all’uomo. Si pensa a un rapinatore, ma la pista viene esclusa, perché a un’ora dal secondo assalto un uomo viene aggredito nel parchetto di via Togliatti all’angolo con via Verga di Cinisello Balsamo. A fianco c’è un distributore Ip con un autolavaggio di quelli automatici. Forse il folle non trova nessuno e punta al prato. È lì che trova la sua vittima, un uomo classe 1946. È sulla panchina, accanto c’è la sua bicicletta bianca. È un attimo e anche il terzo bersaglio cade a terra. Forse lotta perché la rete accanto è come abbattuta. L’aggressore fugge via, percorre 800 metri circa fino al Ponte di Bresso.
È lì che in stato confusionale, nudo, viene bloccato dagli uomini della polizia. Viene immediatamente portato negli uffici della questura di Milano per essere interrogato dal pm di turno di Monza, Giulia Rizzo. Chissà se Davide Frigatti, con precedenti per spaccio e per un furto (nel 1998), ha raccontato al magistrato come, quando e perché ha deciso di sentirsi libero impugnando una lama. Di lui, arrestato al termine dell’interrogatorio, si è saputo che vive a Cinisello con la famiglia e aveva un lavoro in prova in una agenzia pubblicitaria.

l’Unità 18.6.14
Ma l’esame dovremmo farlo allo stato della nostra scuola
di Mila Spicola


Quattro le tipologie che il ministero metterà sul tavolo dei maturandi per la prima prova scritta, quella di italiano: analisi del testo, saggio breve/articolo di giornale, tema storico e tema di carattere generale. Tra i 465mila studenti alcuni miei ex alunni. «Prof, secondo lei cosa è più facile?». «Valeria, quel che sai far meglio, no? Leggi tutte e quattro le tracce, fatti uno schemino per ciascuna, se l’argomento lo conosci e lo governi, vai e scrivi. Rifletti, bevi, respira, non ti far prendere dall’ansia..». «Pare facile prof! Lei non si fece prendere dall’ansia?». «Nel tema no, nella versione sì». «Ogge su santo, prof! La versione!».
Negli ultimi giorni i miei ingressi su Facebook sono stati costellati dalle domande e dai dubbi dei miei primi ex alunni alle prese con l’esame di Stato nella Secondaria di Secondo Grado. Quelli almeno che ci sono arrivati. I miei ex pulcini da mesi mi chiedono, mi interrogano, mi raccontano e mi fan ricordare e ritenere come i giorni e i tempi prima degli esami siano sempre identici. Tanto da cadere nell’inevitabile incubo degli esami da rifare anche io. On line i siti, ma anche i quotidiani, in rete o cartacei, sono pieni di consigli, sempre gli stessi, su come affrontare le prove: cosa mangiare, quanto dormire, come studiare. Oppure di dati sui numeri, su quanti sono gli scrutinati, gli ammessi, i sommersi e i salvati.
Non so, io mi ritrovo a riflettere su altro. Cosa faranno e dove andranno i miei ex pulcini, quali competenze stiamo dando loro, quale conoscenza porteranno nel loro percorso di vita? Esame di maturità. Maturità di chi? Che adulti hanno intorno a loro rispetto ai quali misurare l’indicatore della maturità, della competenza, della conoscenza? Cosa stiamo certificando? Osservo e rifletto sulle competenze di un liceale e su quelle richieste a uno studente di istituto tecnico professionale e so perfettamente che il massimo nella valutazione del primo non corrisponde in Italia al massimo della valutazione del secondo. E nemmeno la certificazione delle loro competenze di base. Non è disuguaglianza questa? Dovrei raccontarlo a questi ragazzi? O a noi adulti? O ai miei colleghi docenti? O al «Sistema», così stiamo tutti a posto e va tutto bene madama la marchesa?
La presente e viva e le morte stagioni vo comparando e non so se nella mia stagione le cose andavano allo stesso modo, certo non ci riflettevo allora. Vo comparando ancora le competenze acquisite e da valutare di uno studente siciliano, a cui il «Sistema» ha offerto circa due anni in meno di scuola rispetto al coetaneo trentino, per assenza di tempo pieno nella scuola elementare, a cui si sommano gli anni in meno all’asilo, e tali competenze verranno valutate tali e quali da un esame di Stato Nazionale. Non è disuguaglianza questa? Non è anticostituzionale una tale differenza di offerta d’istruzione, innanzitutto di tempo, di strutture, di occasioni? E mi sovvien l’eterno «fondamentale» problema dell’andar a scuola un anno prima, per uscire un anno prima e «affrontare il mondo del lavoro alla stessa età di altri paesi europei» e mi chiedo: è questa l’emergenza maggiore adesso? Non sarebbe il caso di interrogarci su altro? Un anno prima ma con quali profili? Sempre gli stessi? Con quali programmi? Con quali contenuti? Con quali direzioni di sviluppo professionale certo tracciate? Siano esse immediate o posticipate da un percorso universitario? Cosa stiamo dando e a cosa stiamo preparando questi novelli esaminandi? L’esame di maturità forse dovremmo farcelo noi nel predisporre un cambiamento necessario del percorso della scuola superiore, o sbaglio? Una riqualificazione delle scuole tecnico professionali, che tornino ad essere la fucina qualificata e qualificante del ceto medio e della piccola imprenditoria italiana, aggiornando programmi, percorsi e sbocchi, non il girone infernale dove mandare chi «non ha voglia di studiare». Lo stesso per i licei: interrogarsi sui contenuti ma anche sui metodi. E per entrambi non cedere mai di una virgola su una pari e uniforme offerta di qualità culturale, sia che si tratti del tecnico informatico di Canicattì o del liceo Nazareno di Roma. Che si torni a parlare di attitudini dei ragazzi e non di separazioni di file di destini segnati per altro: per origine, per ceto, per luogo. «Prof, secondo lei cosa è più facile?» Cosa volete rispondere ai nostri ex pulcini? Dirgli di bere, di respirare profondamente, di riflettere, di farsi uno schema chiaro prima di scrivere e di riprendere le fila del loro futuro, in modo più pressante e vivo. Magari col nostro aiuto, non con le nostre resistenze e le nostre gabbie mentali. Cambiare noi intanto, se ne siamo capaci.

l’Unità 18.6.14
Il rapporto Crc
L’asilo nido solo per il 13,5% dei bambini


L'Italia «non è un paese per bambini» ed è ancora lontana dagli obiettivi europei nelle politiche per i più piccoli. Solo il 13,5% dei minori ha avuto accesso ai servizi per l'infanzia e agli asili nido, con opportunità ancor più ridotte nel Sud e nelle Isole. È quanto emerge dal 7° Rapporto annuale su «I diritti dell'infanzia e dell'adolescenza in Italia» a cura del Gruppo CRC (ne fanno parte 87 associazioni e organizzazioni non profit), che auspica «un impegno immediato del Governo a investire nell'infanzia». I numeri: all’1 gennaio 2013 i bambini in età compresa tra gli 0e i 3 anni in Italia erano 2.171.465 e di questi uno su cinque nasce da almeno un genitore straniero. Ma per molti di loro mancano le risorse e dunque i servizi: solo il 13,5% di bambini in questa fascia di età, nel 2012, ha trovato ad accoglierli servizi per l'infanzia e asili nido. Al Sud e nelle Isole la situazione è ancora più difficile: maglia nera per la Calabria con solo il 2,5% di bambini che hanno accesso ai nidi, seguita dalla Campania che raggiunge quota 2,8%.
Il rapporto segnala anche con preoccupazione che in molti Comuni si assiste a un alto numero di rinunce al nido sia da parte di famiglie che non sono più in grado di pagare le rette, sia per il venir meno dell'occupazione della madre.

il Fatto 18.6.14
Librerie, una specie in via di estinzione
Ultimi casi a Roma, la Arion di Piazza Montecitorio
Stessa fine per la storica e poco distante Herder
di Chiara Daina


Il necrologio sulle librerie si allunga. Al numero 59 in Piazza Montecitorio, nel cuore del potere romano, due mesi fa ha abbassato le saracinesche la libreria del gruppo Arion, la cosiddetta “libreria dei politici”, frequentatissima da deputati e senatori. Quarant’anni di attività, cento metri quadrati stipati di volumi quasi elusivamente dedicati alla saggistica politica, alla storia e all’attualità. A pochi civici più in là, due anni fa ha fatto la stessa fine la libreria Herder, specializzata in filologia germanica, teologia e filosofia. “Il costo dell’affitto era diventato insostenibile e abbiamo dovuto restituire le chiavi al proprietario – dichiara Marcello Ciccaglioni, proprietario della Arion, prima catena di librerie indipendenti nella Capitale, e presidente per il Lazio dell’associazione Librai italiani. Il caro-affitti non è l’unica causa. Il potere d’acquisto degli italiani si è abbassato e tra le cose a cui si rinuncia più facilmente ci sono i libri, come dimostra il mercato dell’editoria, che nel 2013, secondo l’Istat, ha registrato un rallentamento del 6,5 per cento nelle vendite rispetto al 2012, e un meno 13,8 per cento sul 2011. In forte calo il numero di lettori, che in un anno sono passati dal 46 al 43% della popolazione. “Pesa anche la concorrenza dei librai-editori, come Feltrinelli o Mondadori – aggiunge – il loro margine di guadagno è superiore a quello dei librai indipendenti, che dall’editore ricevono uno sconto solo del 30%”.
QUINDI se il libro, come capita spesso, è in saldo al 15%, il venditore si mette in tasca appena la metà. Se poi, per attirare i consumatori, la casa editrice abbassa il prezzo di un best-seller a tre euro o addirittura a 99 centesimi, si capisce bene che non si fanno grandi affari. Ciccaglioni allora lancia l’sos: “Serve al più presto una legge che tuteli le librerie! È da anni che sollecitiamo i politici ma nessuno ha mosso un dito. Una settimana fa abbiamo mandato una lettera al ministro dei Beni culturali Dario Franceschini in cui chiediamo di imitare l’esempio francese o tedesco”. In Italia la legge Levi permette uno sconto sui libri fino al 15% del prezzo di listino. In Francia si ferma al 5. In Germania invece è proibito. Una richiesta di aiuto è stata inviata anche al Comune di Roma, a cui l’associazione Librai del Lazio propone tre interventi: decurtare le tasse per i proprietari degli immobili, quelle sull’immondizia e sulle insegne, e la possibilità di allestire dei banchi fuori dai negozi come a Parigi. In Italia vendere libri è diventato un lusso. E il risultato è una moria di librerie senza soluzione di continuità, da Nord a Sud: in tre anni chiuse 500 e sopravvissute duemila. Il gruppo Arion ne conta 14. “La prima che abbiamo eliminato è quella in viale Libia, l’anno scorso – spiega Ciccaglioni – ma abbiamo portato da 100 a 280 metri quadri quella dentro la Galleria commerciale Porta di Roma grazie a un canone d’affitto più basso”. A Roma in tutto ne sono scomparse 80.
Nella lunga lista c’è la Feltrinelli in via del Babuino, la libreria Croce in Corso Vittorio Emanuele, la Giunti in Piazza Santi Apostoli, la Maraldi vicino a piazza del Risorgimento, la Gremese in via Cola di Rienzo. Altro funerale a Napoli: venti librerie perse.
Tante anche a Firenze, tra cui la Marzocco, la Edison e la Chiari. A Milano, addio per sempre alle Librerie Riunite, al Don Bisco e all’Ambrosiana. A Bari, invece, Prada si è mangiata metà della libreria Laterza, oltre cento anni di vita, una delle più antiche del Paese.

l’Unità 18.6.14
Eutanasia clandestina: i media trovino la voce
di Carlo Troilo

Associazione Luca Coscioni

DOPO AVER DENUNCIATO PER ANNI I VENTI MILA CASI DI EUTANASIA CLANDESTINA che si registrano in Italia, finalmente vedo incrinarsi il muro di silenzio e di omertà eretto davanti a questo fenomeno. Due medici, uno del cattolico «Gemelli», Mauro Sabatelli, l’altro del Policlinico Umberto I, Giuseppe Maria Saba, confessano di aiutare da sempre i loro malati più gravi a trovare una morte degna.
Preferiscono parlare di «desistenza terapeutica»: lo fanno in buona fede ed anche perché parlando di eutanasia rischierebbero anni di carcere. Ma la sostanza è questa. «Non ne posso più - ha detto Saba - del silenzio su cose che tutti noi rianimatori conosciamo». E non solo i rianimatori le sanno: io stesso, come tanti, sono stato testimone dell’intervento attivo di medici per assicurare a loro pazienti terminali una morte degna.
Ora faccio appello ai tanti altri medici che compiono - per pietà e per coraggio - lo stesso gesto: escano allo scoperto, costringano il Parlamento a discutere di come si muore in Italia e ad esaminare la legge della nostra Associazione sulla eutanasia ed anche il premier Renzi a rispondere al nostro appello. EXIT ci dice che raddoppiano gli italiani che si iscrivono alla associazione per poter andare a morire in Svizzera. Ci aiutino ad evitare questo «turismo eutanasico». Mentre in tutto il mondo questo tema viene affrontato (in queste due settimane il Quebec e la comunità autonomica delle Canarie stanno approvando leggi sulla «morte degna») facciano sì che l’Italia non resti il solo paese in cui un Parlamento pauroso ed ignavo non risponde nemmeno all’appello del Capo dello Stato e di quanti - Chiara Rapaccini, compagna di Monicelli, Luciana Castellina, compagna di Lucio Magri ed il figlio di Carlo Lizzani, Francesco - hanno vissuto come me il dramma di persone che non potendo ricorrere alla eutanasia sono state costrette, come migliaia di altri malati ogni anno, ad una «morte indegna».
Ci aiutino, i medici, a lenire il nostro lutto così difficile da elaborare ed a concedere alla schiera dei prossimi candidati al suicidio il diritto ad una morte dignitosa.
Amici medici, se non ora, quando? Oltre che ai medici, faccio appello alla stampa che già ci segue e a quella che per lo più ci ha ignorati. Soprattutto mi rivolgo ai conduttori dei programmi televisivi di maggiore ascolto che finora, salvo rarissime eccezioni, hanno nascosto la testa sotto la sabbia, ignorando un dibattito che si fa sempre più aperto e più acceso.
Mi rivolgo a loro con un appello accorato: ci facciano esporre le nostre ragioni; dicano apertamente - quando è così - che sono anche le loro ragioni; ci aiutino a lenire il nostro lutto così difficile da elaborare ed a concedere alla schiera dei prossimi candidati al suicidio o all’eutanasia clandestina il diritto ad una morte dignitosa.

Repubblica 18.6.14
Quella legge che manca sull’eutanasia
di Umberto Veronesi


QUALCHE giorno fa lo Stato del Québec ha approvato la legge che rende legale l’eutanasia. La notizia nel nostro paese è stata del tutto ignorata. Credo che questo silenzio non sia giusto. Nel resto del mondo occidentale le leggi sul fine vita sono considerate interesse di tutti, perché sono espressione di un grado evoluto di civilizzazione. La libertà di decidere come concludere la propria esistenza è considerato uno dei diritti fondamentali della persona, alla stessa stregua del diritto di formare o non formare una famiglia, di procreare responsabilmente, di scegliere il proprio domicilio, di esercitare il voto e così via.
Legalizzare l’eutanasia, va ripetuto, significa autorizzare i medici ad eseguire la volontà di un malato di porre fine alla sua esistenza quando arriva ad essere una mera successione di ore di dolore e sofferenza, a causa di una malattia in fase terminale, senza alcuna speranza di guarigione. Il termine stesso fu coniato da Francis Bacon nel 1506 per invitare i medici ad occuparsi del malato terminale e solo con il nazismo la parola ha acquisito un significato negativo.
Infatti in Québec, così come in Belgio e in Olanda e nella maggior parte dei Paesi dove l’eutanasia è ammessa, la legge rientra nell’area delle cure di fine vita e riguarda solo i malati terminali che esprimono la loro volontà ripetutamente, con lucidità e in autonomia, senza condizionamenti da parte di familiari o altri. Le domande vengono passate al vaglio di un comitato medico scientifico che verifica che tutte le condizioni fisiche e psicologiche che portano alla scelta siano soddisfatte. Tutto l’iter, così come il principio stesso dell’eutanasia, è frutto di un dibattito etico acceso e spesso lacerante, che purtroppo in Italia viene, come abbiamo visto, se possibile ignorato.
Esiste una iniziativa di legge popolare sottoscritta da 500mila italiani che giace in qualche cassetto da anni dimenticata. Capisco che l’argomento sia imbarazzante per il Parlamento, non solo perché ora ha altre priorità di tipo economico e istituzionale, ma perché il nostro Paese è decisamente influenzato dal pensiero cattolico, che è ovviamente contrario al principio dell’autodeterminazione, in base al quale ognuno è responsabile della propria vita, ed è a favore della sacralità della vita, in quanto dono e proprietà di Dio.
Tuttavia si dimentica in questo modo che in Italia ci sono 15 milioni di non credenti e milioni di credenti di religioni diverse dal cattolicesimo che dovrebbero essere tutelati da una legge civile e non religiosa. Capisco anche che il dibattito sulla fine della vita e ancor più sul dolore e il processo del morire è molto impopolare e urta la sensibilità di molti. Eppure il silenzio non è una soluzione. Si consumano ogni giorno senza clamore vicende tragiche, dalle eutanasie clandestine alle interminabili sofferenze di malati che non possono dire basta, come fece papa Wojtyla quando chiese di essere lasciato andare alla casa del Padre.
Purtroppo non c’è un Amnesty International per queste storie di dolore e negazione di un diritto umano fondamentale, il diritto di non soffrire, e per i casi che emergono grazie alla disperata volontà dei protagonisti, - penso a Piergiorgio Welby e sua moglie Mina - non c’è un risposta di rispetto, ma solo violenza ideologica di pareri contrari, che si riversa e si accanisce sulla sfera privata. A Welby furono negati i funerali religiosi e trovo che questa sia stata una forma di autentica crudeltà. Dibattere di eutanasia è questione di civiltà, a cui un Paese avanzato e libero come il nostro non dovrebbe rinunciare.

La Stampa 18.6.14
Boldrini: “Diremo agli immigrati: benvenuti in un posto sicuro”
La Presidente della Camera: “Tutte le regioni italiane si facciano carico dell’accoglienza di migranti. L’emergenza è nei loro Paesi, non da noi”
intervista di Francesca Sforza

qui

Corriere 18.6.14
I limiti dell’operazione «Mare Nostrum»
Accogliere sì ma ragionare
di Ernesto Galli Della Loggia

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il Fatto 18.6.14
Bianca, cristiana e crociata: ecco l’Europa anti-Islam
La crisi irachena risveglia lo “scontro di civiltà” e le autocritiche contro la mollezza occidentale
di Caterina Soffici


Era dai tempi della Thatcher che a Westminster non si assisteva a una “colazione di preghiera” (in puro stile americano). Il premier conservatore, David Cameron, serra i ranghi della “cristianità” e rispondono in tanti. Ieri mattina presto, tutti riuniti nella medievale Westminster Hall, c’erano anche il leader laburista Ed Miliband, che è un ateo dichiarato, insieme a 80 parlamentari, 20 pari del Regno e quasi 600 fedeli, attivisti e lobbisti. Dopo l’uscita di Pasqua (“L’Inghilterra è un Paese cristiano”) che aveva provocato proteste di intellettuali, scrittori, scienziati e filosofi, il premier ha ribadito ieri che “essere cristiano lo aiuta a essere un politico migliore”. Il tutto avviene dopo che il governo ha proclamato una lotta all’islamismo nelle scuole e da settembre sarà obbligatorio insegnare non meglio precisati “valori britannici” a tutti gli allievi di ogni ordine e grado.
QUALCOSA sta cambiando. E Londra è un buon osservatorio, da questo punto di vista. Perché da sempre è stato il luogo della tolleranza e un laboratorio multiculturale. Si parlano 307 lingue , ci sono 183 sinagoghe e 130 moschee. Prendiamo l’esempio del velo: qui non si è mai posto il problema se vietarlo o no. A differenza della Francia, dove in nome della laicità dello Stato è vietato ostentare qualsiasi simbolo religioso, a Londra, sempre nel nome della laicità e aconfessionalità, ognuno può fare ciò che gli pare. Ma ora è chiaro che qualcosa sta cambiando. E non è solo l’ascesa del Movimento di Marie Le Pen o l’aggressività di piccoli nuclei nazionalisti un po’ ovunque in tutta Europa. Non è solo la rabbia e la paura del diverso che hanno portato al successo l’Ukip alle Europee. Quando nel 2000 uscì un libro come Denti Bianchi di Zadie Smith, che raccontava le difficoltà dell’integrazione di una famiglia bengalese a Londra, nessuno poteva immaginare che di lì a un anno ci sarebbero stati gli attentati alle Torri Gemelle e che tutto sarebbe cambiato per sempre.
ALLORA il mondo occidentale progressista guardava con simpatia ai goffi approcci tra i londinesi e i bengalesi che Zadie Smith raccontava con ironia. Poi sarebbero arrivati gli altri “etnici”, in testa Monica Ali e il suo Brick Lane (anche qui donne dal Bangladesh che approdano a Londra sapendo dire una sola parola: “Scusa”). Non era solo un fenomeno letterario, era lo spirito del tempo: era un’epoca in cui tutti pensavano che sarebbe finita bene. Che tutti i musulmani arrivati nel mondo occidentale si sarebbero adattati alle magnifiche sorti della modernità, che avrebbero abbracciato senza ripensamenti i valori dell’Occidente e che la tolleranza avrebbe vinto su tutto. Chi leggeva bene tra le righe di quei romanzi, capiva che non sarebbe stato così facile. Ma allora il multiculturalismo sembrava una verità rivelata. Ognuno con la sua cultura e i suoi valori, tutti amici e fratelli. Non è andata così liscia. L’aveva capito un po’ meglio il filosofo americano Samuel Huntington quando scandalizzò il mondo con il suo libro sugli scontri di civiltà. Diceva Huntington che la fonte di conflitto fondamentale nel nuovo mondo non sarebbe stata né ideologica né economica, ma di ordine culturale: “Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale”. Lo tacciarono di catastrofismo e di voler armare una nuova crociata contro il mondo islamico. Rileggere quelle frasi oggi, a quasi venti anni di distanza, e dopo l’11/9, gli attentati di al Qaeda, le primavere arabe, la radicalizzazione dell’Islam, le vicende in Siria e gli scontri di questi giorni in Iraq, è chiaro che molti errori – anche di valutazione – sono stati fatti.
Alain Finkielkraut che tuonava contro il relativismo culturale era solo una propaggine europea dei neocon e della rabbia della Fallaci. Oggi, sempre nel laboratorio di Londra, anche i Vip della settimana della moda si chiedono dove stiamo andando e hanno organizzato un boicottaggio del Dorchester e degli altri lussuosi alberghi della catena del sultano del Brunei, reo di aver imposto al suo Paese la Sharia e di mandare a morte gli omosessuali.

l’Unità 18.6.14
Caccia al rom a Parigi: in fin di vita un sedicenne
Sequestrato, linciato e abbandonato in un carrello


Sequestrato, picchiato selvaggiamente e abbandonato in un carrello da supermercato. È toccato a un ragazzo rom di 16 anni, preso di mira da un gruppo di abitanti di Pierrefitte-sur-Seine, nella banlieu di Parigi: dopo un furto in casa subito da un abitante della zona, un gruppo di autonominati giustizieri è partito all’attacco e ha prelevato il ragazzo nel campo rom dove viveva, deciso a fargliela pagare. Il giovane è stato ritrovato nella tarda notte in gravi condizioni, abbandonato lungo una strada statale: ora è in coma. Il caso ha suscitato molte polemiche e ieri è intervenuto lo stesso presidente Francois Hollande, che ha definito l’episodio «abominevole» e «ingiustificabile ».
GIUSTIZIA SOMMARIA
Secondo fonti giudiziarie, il ragazzo era già noto alla polizia per atti vandalici e furti commessi in precedenza, per i quali era stato fermato più volte a inizio giugno. Secondo le prime ricostruzioni il giovane sarebbe stato accusato di un furto avvenuto in un’altra cité, situata a Seine- Saint-Denis. Luc Poignant di un sindacato della polizia ha riferito che, in base alle prime ipotesi, un gruppo di residenti del quartiere venerdì scorso ha sequestrato il ragazzo nell’accampamento di Pierrefitte-sur-Seine, nel nord di Parigi, costringendolo a salire su un’automobile. «Sono andati a prenderlo nel campo e l’hanno portato via con la forza », ha detto Poignant. Il ragazzo sarebbe stato poi segregato e linciato.
Secondo gli inquirenti, le tracce di fango reperite sul corpo del giovane rom farebbero pensare che sia stato tenuto in uno scantinato o addirittura in una discarica. Quando il giovane ha perso i sensi, i suoi aguzzini lo hanno lasciato intorno alle 23.30 lungo la strada Nationale 1, nei pressi della cité des Poètes. Il ragazzo è stato ricoverato in fin di vita all’ospedale parigino della Lariboisière, con fratture multiple e lesioni ad organi vitali. «La prognosi è riservata. È in coma indotto», hanno spiegato i medici.
I suoi aggressori non sono stati ancora individuati, ma si pensa a una spedizione punitiva in piena regola. A denunciare il rapimento del giovane è stata la madre che ha segnalato l’accaduto alla polizia. «Spetta esclusivamente alle forze di sicurezza garantire che l’ordine pubblico venga rispettato», ha tuonato il ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve, condannando l’aggressione. Anche il presidente del Consiglio generale, Stéphane Troussel, ha denunciato «l’aggressione atroce con il pretesto della resa del conti. La Repubblica francese deve proteggere tutti, ovunque vivano e qualunque sia la loro origine». Un risultato gli aggressori l’hanno già ottenuto: la comunità nomade di cui faceva parte il ragazzo - circa duecento persone arrivate a Pierrefitte-sur-Seine alla fine di maggio - ha abbandonato il campo ed è fuggita in tutta fretta.
Nella Francia dove un elettore su quattro ha votato per Marine Le Pen, l’aggressione ha riacceso le polemiche. Le associazioni per i diritti umani avevano già rimproverato al ministro dell’Interno, Manuel Valls, l’espulsione di 20mila rom e altre misure drastiche per limitarne la presenza in Francia. SosRacisme ha parlato dell’«ovvio risultato delle nauseanti tensioni a cui sono sottoposti dei concittadini». «Un cambiamento radicale dei toni sui rom e una chiara denuncia delle violenze a cui sono esposti », sono le richieste di Benjamin Abtan, presidente del Movimento antirazzista europeo di base (Egam).
Ad aprile un rapporto di Amnesty International aveva criticato i Paesi Ue per non aver fatto abbastanza per proteggere i rom e in particolare aveva attaccato la Francia per il trattamento riservato ai nomadi.

il Fatto 18.6.14
La faccia triste degli Usa
L’esercito di baby clandestini che sogna l’America e trova un Cie
di Angela Vitaliano


New York Sono piccoli: questa è la prima cosa che si pensa nel vederli, ritratti in fotografie che raccontano il dolore di quelle storie di violenza e povertà che si sono voluti lasciare alle spalle a tutti i costi, al punto da percorrere chilometri da soli, senza genitori, verso quell’America sconosciuta come la sua lingua, i suoi hot dog e un universo di adulti che devono “tutelare l’ordine” e, spesso, si ritrovano a cambiare pannolini. L’esericito di baby clandestini ha già raggiunto la cifra record di 60 mila e, per la fine dell’anno, diventeranno 90mila. Anzi, sicuramente, di più.
SONO il volto dolente del Texas e del New Mexico, ma stanno scuotendo l’anima di un Paese intero che si scopre impreparato ad affrontare un’emergenza umanitaria senza precedenti e alla quale vanno date risposte subito. Perché subito è già troppo tardi. I centri di accoglienza, infatti, non sono quasi mai adatti a ospitare essere umani. Figuriamoci bambini; figuriamoci poi bambini soli e in numero così elevato. Le “celle” dove si riposano, sfiniti da viaggi clandestini su treni merci o altri mezzi di fortuna, uno di fianco all’altro quasi come se fossero corpi privi di vita, sono chiamate, hieleras o “nidi di ghiaccio” perché, nonostante il calore esterno, sono sempre troppo gelide. Molti di loro vengono messi su bus e trasportati in stati vicini, come l’Arizona, dove dovranno, da soli, presentarsi davanti a un giudice che deciderà del loro destino: un giudice che gli parlerà in una lingua che non capiranno e che qualche avvocato di una qualsiasi associazione di volontariato gli dovrà tradurre, come se tutto ciò fosse “normale” quando sei solo un bambino.
EPPURE , loro non sono qui per cercare un lavoro prima di ogni altra cosa. Fuggire dal Guatemala, dall’Honduras e da El Salvador ha significato per loro, quasi sempre, scappare da una morte certa, dalla violenza delle gang e dal dramma della povertà piu assoluta. Questa terra, persino quella cella gelida e affollata, per loro è una salvezza. Alcuni sono scappati per raggiungere un genitore già residente sul territorio americano, magari clandestinamente. Altri sono arrivati insieme a fratelli o sorelle piu grandi: il 48 per cento racconta di essere stato direttamente “toccato” dall’escalation di violenza che, negli ultimi anni, si registra nei loro Paesi di origine. La legge americana peraltro proibisce di deportare i bambini provenienti da Paesi che non siano il Canada e il Messico, dunque il loro destino passa inevitabilmente sotto la supervisione del Dipartimento della Salute e dei servizi umanitari. La situazione è diventata così delicata che lo stesso Obama è intervenuto sull’argomento pochi giorni fa, dichiarando che “l’attraversamento clandestino dei confini e un’emergenza umanitaria urgente che richiede una risposta dello Stato federale univoca e coordinata”. Il numero dei bambini che arrivano negli Stati Uniti attraverso il Texas, dal 2011 ad oggi, è praticamente raddoppiato a conferma che la vivibilità nei Paesi di origine è crollata in maniera drammatica. I minori, infatti, sono un facile target per le gang perché sono facilmente impressionabili e controllabili e vengono reclutati perché obbediscono senza creare problemi nel tentativo di salvare la propria vita. Non a caso, già nel 2012, Obama aveva annunciato che i giovani “clandestini” arrivati nel Paese in specifiche circostanze, avrebbero potuto fare domanda di cittadinanza e sistemare la loro posizione. In due anni, circa il 60 per cento di loro ha visto cambiare la propria vita in maniera totale, soprattutto grazie alla possibilità di trovare lavoro in maniera legale.

Repubblica 18.6.14
Le notti insonni di Teheran tra l’incubo della guerra e la mano tesa dell’America
di Bijan Zarmandili


DURANTE quel pomeriggio brasiliano di lunedì, con la nazionale iraniana sul campo del Mineirao di Belo Horizonte, doveva essere l’amato bomber iraniano “Gucci” a far dimenticare ai suoi connazionali le minacce degli “uomini neri” dell’Isis, pronti a marciare sul suolo sacro di Karbala, teatro nel 680 del martirio dell’imam Hussein. Certo, non era soltanto la guerra alle loro porte a preoccuparli: pesavano - e pesano - le sanzioni, la galoppante crisi economica, le mancate promesse del presidente Rouhani e non ultima, la paura di un’altra tempesta di sabbia, come quella che il 2 giugno ha devastato la capitale.
Ma la profanazione di Karbala e del Mausoleo dell’imam Ali a Najaf, anticipate dal portavoce dell’Isis, Abu Mohammaed al Shamsi, non sarebbero motivo di collera soltanto per gli ayatollah al potere, ma per centinaia di migliaia di pellegrini iraniani che ogni anno si recano nelle città sante irachene per compiere un loro dovere religioso. “Gucci” invece ha mancato il gol al 34’ quando la palla è piombata sulla sua testa. La partita è finita in pareggio e le preoccupazioni sono tornate.
Le minacce dell’Isis forse sono più che altro un bluff. E la stessa cosa vale per l’eventuale conquista da parte dell’Isis dei territori a ridosso delle frontiere Iran-Iraq. I veri timori sono legati al perdurare del conflitto, con il rischio che si trasformi in una guerra regionale con delle prospettive strategicamente incerte per gli iraniani. Shamsolwaesin, uno dei massimi esperti iraniani della politica estera, dice: «Da qui a una settimana bisogna cacciare l’Isis da Mosul, altrimenti sarà troppo tardi». Poi aggiunge: «Certo, li possiamo cacciare noi in 24 ore, ma una nostra unilaterale operazione militare sarebbe un errore politico: bisogna quindi intervenire con una operazione concordata, con la Turchia, e perché no, con gli americani ».
Ecco, il motivo della fretta con cui nei palazzi di potere a Teheran si cerca di stabilire un piano concordato con gli americani. E questa volta non si tratta di contatti sottobanco, come nei casi precedenti in Afghanistan, oppure, in Iraq: è stato lo stesso Rouhani a chiedere la collaborazione Usa; è stato John Kerry a tendere la mano a Teheran, e i contatti si sono verificati alla luce del sole viennese in questi giorni.
Ma Rouhani, a differenza dei giorni seguiti alla sua elezione, non gode ora di particolari simpatie tra gli iraniani. C’è stato un episodio significativo in questo senso, di nuovo legato alla partecipazione della nazionale iraniana alla Coppa mondiale in Brasile. Alla vigilia della sua partenza, i tifosi avevano organizzato una grande festa alla Stadio Azadi per salutarla, cui avrebbe dovuto partecipare anche il presidente. Lui invece non si è fatto vedere, una assenza senza precedenti in occasione dei mondiali da parte del presidente. Rouhani ha giustificato la sua assenza con il cattivo tempo, ma la delusione è stata forte e persino i giornali sportivi, dove non si parla mai di politica, hanno criticato il poco affetto dimostrato da Rouhani per i “bacheha”, per i ragazzi della squadra nazionale.
Poco dopo, è stato proibito ai cinema di proiettare la partita Iran-Nige- ria e i luoghi pubblici, dove i giovani si sarebbero recati per seguire la partita, sono stati presidiati dai poliziotti. Ovviamente anche la televisione ha rigorosamente censurato le scene dello stadio brasiliano dove si vedevano le donne senza il velo. Insomma, una triste partenza per la squadra alla quale è stato proibito lo scambio della maglia con gli avversari alla fine della partita, mentre la stragrande maggioranza degli iraniani si aspettava dal regime un sostegno più caloroso e con meno proibizioni per i loro beniamini.
L’apertura di Rouhani a Washington è motivo di malumori non trascurabili anche all’interno dello stesso regime. Sono alcune settimane che gli organi dei Pasdaran attaccano la politica nucleare del presidente, costringendo la Guida Ali Khamenei a intervenire, senza tuttavia difendere esplicitamente il presidente: un suo rappresentante ha genericamente detto che «è preferibile non parlare di tali argomenti». Alla vigilia dei colloqui tra Iran e Stati Uniti sull’Iraq, Ali Shamkhani, il segretario generale della sicurezza nazionale, ha comunque sostenuto che qualsiasi collaborazione con gli Usa «è irrealizzabile».
Un percorso quindi non del tutto in discesa per Rouhani: è necessario vedere quale sarà alla fine la decisione di Khamenei. Lui, intanto, ha attivato in Iraq «il generale senza ombra», colui che non si vede, ma c’è, come viene definito il boss delle squadre speciali “Quds”, Ghasem Soleimani, recentemente segnalato nel sud dell’Iraq, nel Kurdistan iracheno e a Baghdad. Il primo ministro del Kurdistan iracheno, Nichirwan Barzani, l’altro giorno in visita a Teheran, ha detto: «La verità è che il dossier iracheno è nelle mani di Soleimani, se l’America vuole parlare con l’Iran dell’Iraq, a mio avviso, deve parlare con lui». Si sa però che il “generale senza ombra” è nella lista nera dei servizi segreti americani.

Repubblica 18.6.14
Le sfide della Pax Americana
di Ian Buruma



OBAMA è stato accusato di essere un presidente debole, leader di una nazione in ritirata, circospetto nei confronti della guerra e persino nei confronti del mondo. A rivolgergli queste critiche sono i cosiddetti falchi liberal, situati più o meno a sinistra del centro, e i fautori dell’interventismo di destra.
Sia a sinistra che a destra c’è chi crede che agli Usa spetti un ruolo eccezionale: quello di imporre la propria volontà sul resto del mondo. L’unica differenza è che mentre i primi giustificano le proprie opinioni con tesi basate su democrazia e diritti umani, i secondi non hanno bisogno di giustificazioni, dato che, dopotutto, l’America è il più grande Paese del pianeta. Comunque si vedano le cose, la premessa secondo cui gli Usa dovrebbero imporre la propria guida con la forza si basa sull’idea che in assenza di una potenza egemonica benevola che vigili sul mondo tutti vivremmo nel caos e le forze avverse avrebbero il sopravvento.
Tale opinione è stata espressa con chiarezza in un articolo a firma del conservatore Robert Kagan. Senza la leadership degli Usa, argomenta questi, non si può essere certi che gli altri Paesi si comporteranno in maniera responsabile. Al pari di altri falchi, Kagan non solo mette in guardia sul fatto che le dittature, avendone la possibilità, si comporterebbero male ma aggiunge che anche gli alleati democratici vanno tenuti al loro posto con piglio egemonico. Nell’Asia orientale, ad esempio, la Cina deve essere «contenuta» dagli alleati degli Usa. Ma non si potrebbe fare affidamento sul Giappone, se questo fosse «molto più potente e dipendesse assai meno dagli Stati Uniti per la propria sicurezza».
Kagan potrebbe avere ragione nel ritenere che una ritirata dell’America dai suoi doveri di vigilante nell’Asia orientale potrebbe avere conseguenze pericolose. Tuttavia questa argomentazione evoca temi familiari, in quanto è tipica delle ultime fasi di un impero. Le potenze imperiali europee del ventesimo secolo offrivano periodicamente ai loro sottoposti coloniali una remota possibilità di indipendenza, che tuttavia non poteva materializzarsi, prima che questi se ne fossero dimostrati pronti e che i loro padroni avessero potuto insegnare loro a prendersi cura di sé in maniera responsabile. Quanto tempo ci sarebbe voluto non era dato sapere. Questo è il paradosso dell’imperialismo: sino a quando i colonizzati rimangono sottomessi al manganello imperiale non possono mai essere realmente pronti - proprio perché privati del potere di gestire i propri affari. Gli imperi possono imporre a lungo ordine e stabilità, ma gli imperialisti - così come molti americani di oggi - si logorano, mentre i popoli sottomessi alla fine diventano irrequieti. L’ordine imperiale si sfalda, e - ha ragione Kagan - quando il vecchio ordine collassa, quel che ne consegue spesso è il caos.
È quanto accadde in India nel 1947, quando i britannici lasciarono il Paese, il Pakistan si separò e un milione circa di indù e musulmani morirono massacrandosi reciprocamente. Forse il Raj britannico avrebbe dovuto durare di più? E se sì, quanto? Si potrebbe sostenere altrettanto plausibilmente che il protrarsi del governo imperiale avrebbe potuto acuire le tensioni etniche.
Per certi versi oggi accade lo stesso con la Pax Americana: una sorta di ordine mondiale mai formalizzatosi in impero, e che rispetto alla maggior parte degli imperi del passato è stata relativamente benigna - anche se è facile dimenticare la frequenza con cui i leader del Mondo Libero hanno sovvertito leader eletti e sostenuto dittatori: in Cile, Corea del Sud, Salvador, Argentina, Indonesia e via dicendo.
Il tanto celebrato “ordine liberale” di cui gli Usa erano i custodi era un prodotto della Seconda guerra mondiale e della Guerra fredda. Germania e Giappone andavano tenuti a bada, mentre le potenze comuniste venivano contenute e i vecchi Paesi dell’Europa imparavano a convivere all’interno di istituzioni unificanti. Tale compito era reso possibile dal denaro e dalla forza militare dell’America. È così che nell’Europa oc- e nell’Asia orientale il Mondo Libero è stato assoggettato agli Stati Uniti.
Questa situazione non può protrarsi all’infinito. Gli equilibri stanno già venendo meno. Ma ecco che ci si trova di fronte al vecchio paradosso imperiale: più gli altri continueranno a dipendere dagli Usa e meno saranno capaci di prendersi cura dei loro affari - comprese la sicurezza. E malgrado esortino gli alleati a fare la propria parte gli Usa stessi, a mo’ di genitore autoritario, sono riluttanti a lasciar andare i propri sottoposti.
Quando nel 2009 in Giappone salì al potere un governo più liberale, che tentò di sottrarsi all’ordine sorto nel dopoguerra inaugurando rapporti migliori con la Cina e riducendo la dipendenza dagli Usa, Washington fece di tutto per minarne gli sforzi. L’impero informale non ammette simili gesti di insubordinazione.
Nel discorso sulla politica estera che tenne a West Point, il presidente Obama non ha quasi fatto menzione dell’Asia orientale. Eppure, se c’è una regione che potrebbe trarre vantaggio dalla dottrina di Obama - la quale nell’affrontare i problemi di politica regionale si ripromette di abbandonare gli approcci di tipo militare a favore di altri, di natura più politica - è proprio l’Asia orientale. Ma l’istinto di Obama non sbaglia. Egli almeno ha riconosciuto i limiti del potere dell’America nell’imporre con la forza un ordine globale. La sua grandezza di presidente si basa non tanto su ciò che di buono ha fatto (ed è molto), quanto sulle cose stupide che ha evitato, come prender parte a nuove, inutili guerre.
Ciò non risolve il dilemma imperiale su come sia possibile ridurre la dipendenza da una potenza egemone senza causare tirannia e violenza. Prima o poi però andrà fatto. Si tratta di un processo doloroso e pieno di rischi, e l’atteggiamento cauto di Obama è più idoneo a condurlo a buon fine rispetto ai discorsi animosi dei suoi detrattori.
(Traduzione di Marzia Porta)

La Stampa 18.6.14
Iraq, il reclutamento degli innocenti
Bambini arruolati nell’esercito contro l’avanzata dei jihadisti dell'Isil
di Francesca Sforza

qui

La Stampa 18.6.14
La Kirchner agli Usa: è estorsione
Tango bond, la Corte Suprema impone all’Argentina di pagare il debito. Spettro default
di Filippo Fiorini


Non poteva esserci momento migliore per ricevere la peggior notizia politica degli ultimi anni, ma neanche i Mondiali di calcio sono riusciti a distogliere l’attenzione degli argentini dal nuovo pericolo di default. Erano passate 9 ore dalla decisione della corte suprema americana di respingere il ricorso della Casa Rosada contro la sentenza che la obbliga a risarcire due grandi fondi di investimento, per 1,3 miliardi di dollari dovuti dai tempi della crisi, e già i primi manifestanti protestavano davanti all’ambasciata Usa di Buenos Aires e la presidente, Cristina Kirchner, andava in onda a reti unificate.
Elegante, attraente, ma anche dall’aspetto vulnerabile per la raucedine, gli errori di pronuncia e le continue occhiate al discorso scritto, che di rado ha usato in passato nelle apparizioni pubbliche, Cristina ha detto di essere «disposta a negoziare», senza però voler cedere «a un’estorsione come questa, a cui nessun presidente dovrebbe mai sottomettere il suo popolo». Il punto, è che l’Argentina può pagare il denaro che le si reclama, ma così facendo aprirebbe uno spiraglio perché tutti i creditori e gli ex creditori del 2001 pretendano lo stesso trattamento ricevuto dai fondi speculativi coinvolti in questo contenzioso, presentandole un conto da 15 miliardi di dollari.
«È assurdo che un Paese usi più della metà delle sue riserve per pagare un debito», ha precisato la Kirchner, alludendo al fatto che la Banca Centrale ha solo 28 miliardi, che per statuto non può nemmeno usare in queste incombenze, e poi ha aggiunto: «Sono preoccupata». Con lei, lo è anche il suo popolo, che però si divide sulla strategia.
Da un lato c’è chi, quando un lavoro non procede, si sente dire: «Che vuoi che faccia? Che chiami un immigrato italiano a finirlo in fretta?». I discendenti di questa cultura delle sette camicie soffrono e non meritano la fama di truffatori che gli argentini hanno nel mondo e per questo vorrebbero in qualche modo pagare.
D’altra parte, la retorica anti-imperialista di cui Cristina e i suoi ministri hanno abusato nei comizi delle ultime ore, accende gli umori di intellettuali, militanti e scudieri di un’identità nazionale spesso calpestata dalla storia. Per loro, i cosiddetti «fondi avvoltoio» come Nml Capital ed Elliot possono andare al diavolo, anche se in questa discesa agli inferi si porteranno dietro, attraverso gli embarghi che inizierebbe la giustizia americana in caso di mancato pagamento, i conti esteri dello Stato argentino.
Nell’immediato, tuttavia, l’uomo qualunque di Buenos Aires non deve attendersi uno scenario di caos come quello del 2001: l’isolamento finanziario in cui il Paese è stato relegato in seguito all’insolvenza di allora, lo salva dagli scossoni come quello di ieri, in cui però è caduta la borsa e la moneta locale. Al tempo stesso, mancano i finanziamenti esteri per sostenere l’industria e sfruttare le enormi risorse naturali che possiede l’Argentina. Una situazione che il cittadino paga con un’inflazione alta e costante, che vanifica il suo stipendio, e che rende per lui quasi impossibile comprare un oggetto fabbricato all’estero. Allo stesso modo, per le aziende è difficile ottenere le forniture necessarie a creare il prodotto finito.
Quindi, alla Casa Rosada non resta che scendere a patti con gli hold out e tentare di inibire futuri reclami, mettendo le giuste clausole nell’accordo. Poi, sperare davvero che Messi vinca i Mondiali e il popolo scordi, almeno per un po’, le ragioni di malcontento che gli danno i suoi governanti.

Repubblica 18.6.14
La lingua è stanca, il luogo comuna avanza
di Guido Ceronetti


IL LUOGO omune, sciagura a noi, è il linguaggio , ormai, è il parlato italiano della fine. Ne elenco un certo numero: anche un piccolo esito (cento, duecento bravi che lo escludano dalle loro comunicazioni verbali, specie se pubbliche) merita il canto di Simonide per i caduti delle Termopili. Cominciamo dal più logoro, dal più scopino di latrina infetta, dal rifugio di tutti i predicanti: rimboccarsi le maniche!
Posso dire che, nella mia lunghissima carriera scribacchina, non l’ho mai usato: lo scrivo adesso soltanto per svergognarlo, additarlo al disprezzo, schernirlo.
È il re dei luoghi comuni, un non invidiabile trono. È il transito obbligatorio di tutte le scempiaggini politiche. Signore Iddio, sappiamo quanto sei tirchio nell’elargire salvezze, ma dà orecchio a questo granellino di senape di supplica: liberaci dalle maniche rimboccate, dai loro rimboccatori, dall’ideologia rimbocchista, dal rimbocchimento generale dell’italiano medio e universitario.
Tradotta in sermone legittimo la locuzione significa molto semplicemente “lavorare con impegno”, cosa che a nessuno piace, mentre a rimboccarsi le maniche tutti sono pronti sempre. La metafora è di epoca agricola (tra il Gesualdo verghiano e il Doganiere Rousseau) ed è forse ancora perspicua in sopravvissute gare bocciofile. Oggi i benemeriti dei lavori agricoli hanno maniche corte e canottiere di filo di Scozia fragranti. Ma avrete visto il cavalier Mussolini in piedi sulla trebbiatrice, a torso nudo, tra i covoni dorati e le massaie incinte: come si sarebbe rimboccate le maniche, pur operando con tanto impegno per l’Istituto Luce?
Ritagliatevi questa superba colonna e tenete le maniche al loro posto, lontano dalle tentazioni del Maligno.
Ve ne servo altre, tutti ad altissima diffusione mediatica, scolastica, famigliare, buoni per tutte le occasioni, sempreverdi per tutte le interviste, disseminati in tutti i convegni culturali.
Il contesto globale. In quest’ottica. Si assumano le loro responsabilità. A trecentosessanta gradi. Va focalizzato. La piccola e media impresa. È nel nostro Dna. È calato nei sondaggi. Al minimo storico. Su base annua. Fuori dal tuncidentale nel. La locomotiva tira. Giovani e meno giovani. Lo Stato è presente. Si sono chiamati fuori. Un vera chicca. Si sta ancora scavando in cerca di altre vittime. Le sinergie presenti sul territorio. Nel mirino degli inquirenti. La fuga dei cervelli. Vai su WU-WU-WU. Siamo un polo di eccellenza. Subito le riforme. Le soglie di povertà. Spalmati sul territorio. Una gigantesca caccia all’uomo. Le fasce a rischio. La dieta mediterranea. Di tutto e di più. Tutto e il contrario di tutto. Le criticità. Gli uomini-radar. L’emergenza rifiuti. Ci vuole un nuovo soggetto politico. Non abbassare la guardia. La microcriminalità. Non va demonizzato. La stragrande maggioranza. Il colosso mediatico. Il Made in Italy. Pitti Uomo. Poi l’affondo. L’impatto ambientale. Sette chilometri di coda. Incasso record. Pesanti apprezzamenti. Un’Europa che guarda al futuro. Più fondi per la ricerca. È iniziato il controesodo. Stuprata dal branco. Dare un segnale forte. Le sostanze dopanti. Liberalizzare le droghe leggere. Varato il piano. La strada è tutta in salita. Si commenta da sé. Non ho la palla di cristallo. Ci sono luci e ombre. Approcciarsi alle problematiche. Le quote rosa. Bere molta acqua. Gli intrecci mafia- politica. Il presunto assassino. La malasanità. Errore umano. Molta frutta e verdura. A tasso zero. Accetto per il bene del Paese. È un Far West. È un film dell’orrore. L’ospizio-lager. Da lasciare ai giovani. Non arrivano alla fine del mese. Più tecnologia. La stanza dei bottoni. La costituzione più bella del mondo. Sull’orlo dell’abisso. È stato segretato. È stato desegretato. È stato risegretato. Assolutamente sì.
Assolutamente sì.
Mi fermo qui per potermi ricaricare, non ci vorrà molto. Una pausa per non rimboccarmi troppo le maniche.
Purtroppo la prevalenza del luogo comune indica una patologica stranchezza della lingua, un progressivo spegnimento di creatività, di cui non è difficile diagnosticare le cause, comuni a tutta Europa. La classe politica, che parla e predica esclusivamente mediante luoghi comuni, ne è avvelenata e paralizzata, come il tremendo Laocoonte vaticano. Con il popolo parlante il contagio si trasmette incessantemente. Ci vorrebbe un Quebec italofono, da qualche parte - in Mongolia... in Brasile... - perché si ripetesse il miracolo linguistico quebechese, la conservazione del francese del XVIII. La lingua è stanca. Emigrate.

Corriere 18.6.14
All’Europa serve una Cassandra
Ultimo avviso alla Ue: o ritrova se stessa o è disastro per tutti
di Guido Ceronetti


Mah... l’Europa! L’alba di una reale unità europea è lontana...
A Ugo La Malfa, molti anni fa, durante una sua degenza in ospedale, amici in visita domandarono della sua salute. Lui rispose irritato: «Ma come potete pensare che io stia bene, con questa Europa che non si fa!».
Oggi, che c’è l’Unione e la moneta unica, ma non c’è l’unità, la sua risposta, credo, sarebbe la stessa. Peggio: il Qualcosa-che-si-è-fatto dopo il voto europeo del 25 maggio è minacciato da un indecente stuolo di schede nazionalistiche nemiche, perfino smaniose di dissolvimento. Questo hanno in mira i partiti e i movimenti più votati da elettorati scarsi: il dissolvimento dell’Unione, il ritorno alle monete nazionali. Al menù non manca una subconscia o riaffiorante connotazione antisemita; la sintomatologia si accentua nelle esalazioni naziste dei greci di Alba Dorata.
Di cultura monetarista sono in modo eccessivo digiuno, ma sento l’euro come un riparo da benedire contro inesorabili, certi, tracolli catastrofici. La Lira nella quale ho vissuto fino alla svolta del secolo, mi mette i brividi. Quei nostalgici imbecilli aprirebbero le porte a un terrificante spettro: l’inflazione tedesca del Venti!
L’euro è rifugio antiatomico: è scomodo, ci si sta stretti, ma fuori è peggio. Quella che viene denominata, sempre con gravità, l’Economia, è esattamente il Sabato degli ultraortodossi che una parola evangelica denuncia come sopruso e violenza: se l’uomo serve il Sabato (il Riposo), il Sabato non serve all’uomo.
Siamo tutti per l’Economia, perciò, per tutti, l’Economia è fregatura. Occhio alle vacanze, alle ferie eccetera: fanno le statistiche prima che arrivino sul calendario, e tutti in fila rassegnati, lontani dal Sabato-vacanza come Saturno dal Granchio, al servizio della Vacanza inesistente e dell’Economia fregante che occupa tutti i punti del nostro esistere. Prende tutto per sé, a noi non getta che briciole. E sempre deplorerà l’insufficienza del tributo.
L’Europa degli Stati fondatori ha cominciato a perdere la bussola allargandosi sempre più a sud-est, fino a far balenare i suoi eldoradi ad una Ucraina che dormicchiava, col mirabile risultato di servire alla Russia un pretesto per riprendersi la Crimea a prezzo di una crisi mondiale, dal momento che l’America di Obama ha messo fuori il cartello: PLEASE DO NOT DISTURB.
Quale genio ha ispirato all’Unione di sbaraccare con Schengen tutte le sue difese formali a est, porta dell’Asia, e di pretendere che la Serbia andasse a braccetto con un artificiale Kossovo indipendente — indigeribile ai Serbi — che può solo candidarsi come una Tortuga della filibusta, capitano Morgan in testa? (Addirittura Pannella voleva metterci Israele, pressappoco un’Europa Impero Romano!). Con più buon senso la Emma Bonino sosteneva l’inclusione della Turchia, che l’Unione scoraggiò subito ponendo per prima condizione il Mea Culpa per le stragi spaventose di Armeni del 1915: faccenda di ordine morale che ha fatto pendere la Turchia, miracolosamente laica, verso le rivendicazioni islamiche.
Col tempo il riconoscimento sarebbe venuto; ma la Turchia sarebbe stata l’unica frontiera militare dell’Unione, che le armi le vende al resto del mondo, aborrendo qualsiasi idea di mostrare dalle sue smurate mura qualsiasi parvenza di grinta. Ahimè, neanche l’ombra di statisti veri, a Bruxelles! Soltanto droghieri zuccherati di buonismo, che contro il male e il pericolo alzano il ditino.
Tuttavia, ad ogni costo, pro-Europa. Non lo dico a me stesso, scribacchino cassandroide povero di ascolto, ma ai ragionanti senza illusioni di maggioranze immaginarie. Ad ogni costo, ma da snervati come finora è stato, no.
Per brutto e minaccioso che sia, il voto antieuropeo ha un valore di sfida, che va raccolta. L’ossessione ideologica tinta della peggiore Europa del passato, ha un fondamento reale, perché gli sbarchi in Sicilia hanno ormai un carattere preciso di invasione territoriale, che è premessa sicura di guerra sociale e religiosa incombente — e c’è poco da scherzare, è un trabocco di continenti pacifico cui basta l’enormità crescente del Numero a imprimere il carattere di esodo violento.
Mare Eorum ... Abbiamo come civiltà il dovere di restare umani, ma non l’obbligo di giudicare da orbi. Aggiungi l’offensiva qaidista-califfale sull’Eufrate che, se troverà porte spalancate, arriverà dappertutto, non tanto antisciita quanto anticristica, e le convergenze guerrasantiste, al di qua e al di là di sbarchi e sbarcati, non mancheranno.
Ad ogni costo, sì, pro-Europa. Ma finora non si è votato che per uno pseudoparlamento di prebende, incapace di azzuffarsi per qualcosa che urge e che vale. Minacciato di dissolvimento, potrebbe avere un sussulto.

Repubblica 18.6.14
Dilettanti allo sbaraglio la cultura diventa karaoke
Conformista, frenetica, dominata dall’irresponsabilità: la filosofa Dubravka Ugresic demolisce l’era social con ironia impietosa Scatenando un dibattito globale
di Andra Bajani


Grazie all’invenzione del karaoke, a Berlino ogni domenica chiunque può provare il brivido di cantare davanti a una folla di migliaia di persone. Arrivano da tutto il mondo per rovesciarsi lì, i più disposti sull’imponente anfiteatro del Mauerpark e gli altri che a turno scendono in pedana e cantano con abbondanza di amplificazione per il tempo che dura la canzone. Finita l’esibizione il cantante lascia il microfono tra le grida dei presenti.
Quindi, dopo essere stata cancellata con una riga di penna da una lista, si fa avanti un’altra persona. Su quel pezzo di carta - governato da un ragazzo che sa il potere che gestisce - i nomi degli aspiranti cantori si arrampicano in cordata fino a raggiungere la cima, quindi si affacciano oltre la fine del foglio, si guardano intorno, e finalmente, con un po’ di vertigine, cominciano a intonare. Finito di cantare, ritornano a loro volta nel nulla popoloso da cui sono partiti, si arrampicano sulle scalinate e spalancano le bocche insieme agli altri.
Quando si assiste a questo spettacolo, nel cuore dell’ex Berlino Est, è chiaro che solo distrattamente si potrebbe abusare per l’ennesima volta della frase di Andy Warhol secondo cui quindici minuti di celebrità non si negano a nessuno. Chi scende in pedana e afferra un microfono per cantarci dentro I Will Survive, We Are the Champions o Besame Mucho , non vuole essere una celebrità. No. Chi arriva fin lì sa benissimo di non essere nessuno se non un nome scritto sopra un foglio in mezzo ad altri cento nomi. Chi arriva fin lì non solo sa di non essere nessuno ma pretende di non essere nessuno. Chi sale alla ribalta di quel karaoke brandisce il proprio Anonimato di fronte - e insieme - a migliaia di persone come lui, e di quell’Anonimato si fa forza. Il che, se visto in Germania, dopo aver per qualche minuto divertito, impensierisce.
Induce a riflessioni di questo genere Cultura karaoke, della scrittrice e filosofa croata Dubravka Ugresic, appena pubblicato da Nottetempo nella traduzione di Olja Perisic Arsic e Silvia Minetti. Il libro della Ugresic - un saggio scritto con l’inconfondibile piglio sarcastico dell’autrice di Baba Jaga ha fatto l’uovo - è uno dei più feroci e lucidi affondi sulla nuova ventata di conformismo che sta gelando questi anni di entusiasmi posticci, e finte rivoluzioni tecnologiche. Alla ribalta è salito il Dilettante, che «si è sollevato contro la dittatura degli esperti»: ha preso il microfono, ha aperto un blog, ha postato un commento in calce a un editoriale, ha inondato di parole la sua pagina di Facebook, ha twittato instancabilmente giorno dopo giorno la sua bile in 140 battute, sapendo che la sua forza risiede «nell’anonimato, nell’irresponsabilità ».
Il Dilettante, per Dubravka Ugresic, è la personakaraoke, che «sostiene meno l’idea democratica che “tutti possono se vogliono” di quanto non sostenga la prassi democratica che “tutti vogliono visto che possono”». È un viaggio che passa attraverso la disgregazione della Jugoslavia socialista («Dopo la morte di Tito […] persone comuni - parrucchieri, macellai, panettieri - da un giorno all’altro erano diventati artisti »), la prosopopea faraonica della città di Drvengrad, che Emir Kusturica si è costruito nel sud-ovest della Serbia, il racconto dell’isola di Goli Otok (ai tempi di Tito luogo di detenzione per “stalinisti” e oggi set di film pornografici), il racconto del linciaggio pubblico subito dalla Ugresic stessa in Croazia, accusata dai nuovi regimi nazionalisti di essere «delatrice della patria», «ragazzina del comunismo», da cui poi la sua decisione di vivere in Olanda.
La scrittrice croata compone il ritratto di un’epoca messa in posa per un selfie, in cui le rivoluzioni non sono che karaoke, conformismi travestiti da rivolte. «Le persone- karaoke sono tutto tranne che rivoluzionari, innovatori o gente che cambierà il mondo; sono persone normali, consumatori e conformisti. Eppure il mondo cambia e le persone normali contribuiscono a questo cambiamento».
Cos’è d’altra parte il karaoke se non il luogo in cui a ciascuno è consentito - in un mix di devozione, esibizionismo e irriverenza - di prendere il posto del proprio idolo, di venerarlo e detronizzarlo al tempo stesso, di rendergli omaggio e farne sfregio? Che cos’è il karaoke se non la sistematica uccisione - deresponsabilizzata - dell’aura, la cancellazione di ogni Autorevolezza? Che cos’è il karaoke se non quel carnevale perenne in cui tutti di colpo sono uguali a tutti, Obama, Platone e il loro commentatore telematico, il premio Nobel e l’uomo o la donna che sullo stesso argomento si dilettano, e dove per chi ha paura di essersi ammalato il medico e l’ipocondriaco autodidatta hanno lo stesso grado di attendibilità?
D’altra parte siamo tutti insieme nella rete, dentro Internet: «un mega-karaoke con un milione di microfoni che un milione di persone si precipita ad afferrare per cantare la propria canzone di qualcun altro. La canzone di chi? Questo non importa […]. L’importante è cantare ». Solo che il Dilettante «ha i suoi giornali, i blog, la rete dei suoi lettori […], e nessuno può richiamarlo alle sue responsabilità, perché è anonimo. [..] Ed è in maggioranza, in questo consiste la sua forza». E così sta lì - il popolo dei Dilettanti - a urlare parole a squarciagola in un gigantesco karaoke. È lì - è qui - che cantare canzoni di altri è il modo più rapido per prendersi un applauso senza avere la responsabilità delle parole pronunciate, è lì che si può lanciare il sasso e nascondere la mano, linciare e poi tornarsene a casa e non pensarci più.
Perché è con la società del karaoke che è morta ogni idea di rivoluzione. Basta guardare, è sotto i nostri occhi. Lo si vede ogni domenica al Mauerpark, nell’ex Berlino Est. Lì a due passi dal Muro, a venticinque anni dal suo abbattimento. «Abbiamo per caso altra scelta? - scrive Dubravka Ugresic - Volevamo la libertà, abbiamo avuto la libertà di gioco. Volevamo le libertà individuali, abbiamo ottenuto la libertà di imitazione. Tendiamo le corde vocali, da questo gioco non si esce facilmente ».

l’Unità 8.6.14
Grandi paure, scienza e senso comune
di Roberto Vacca


LA SCIENZA AIUTA A CAPIRE IL MONDO – GRANDE E COMPLESSO. PERMETTE ANCHE DI PREVEDERE EVENTI FUTURI,s e le condizioni di partenza sono ben note, e di valutare l’incertezza delle previsioni. La scienza non è un insieme di regole semplici. È fatta di osservazioni, misure, esperimenti, induzioni, deduzioni, analisi con procedure e strumenti matematici. Chi ha una formazione scientifica mezza cotta (half baked) crede spesso di aver raggiunto certezze illusorie. Se su queste vengono basate decisioni importanti, i risultati possono essere tragici.
Il presidente Obama ha presentato le nuove regole della Environmental Protection Agency mirate a ridurre il riscaldamento globale antropico. Pretendono di limitare a meno di 2°C l’aumento della temperatura dell’atmosfera entro il secolo attuale. Consistono nella limitazione delle emissioni di CO2 dovute all’uso di combustibili fossili per produrre energia. Hanno fede nella capacità previsionale (sull’arco di molti decenni) di modelli matematici empirici che trascurano miriadi di fattori astronomici e geo-fisici. Ignorano anche gli aspetti probabilistici degli effetti congiunti di fattori noti e di altri ancora non individuati.
Obama avrebbe fatto bene a parlare con fisici di prim’ordine; Freeman Dyson di Princeton, Henrik Svensmark di Copenhagen, Luigi Mariani di Milano. Gli avrebbero spiegato che nessuno sa fare ancora previsioni di eventi complessi come il clima con decenni di anticipo. Invece Obama ha asserito: «La scienza è scienza. La scienza è davanti a noi. ...Non discutiamo su quel che sta succedendo. La scienza è indiscutibile. I fatti base del cambiamento climatico non sono qualcosa che ci possiamo permettere di negare. ... Si tratta della più significativa sfida a lungo termine che dobbiamo affrontare. ...La gente comincerà ad apprezzare il costo di riparare i danni dell’uragano Sandy e della siccità in California».
Questi ultimi eventi, invece, non hanno rapporto con i cambiamenti climatici.
Non sostengo che ridurre le emissioni di anidride carbonica sia dannoso. (Freeman Dyson ha osservato, però, che l’aumento del tasso di CO2 nell’atmosfera (27% negli ultimi 56 anni) ha favorito lo sviluppo della vegetazione. Il fatto che continui contribuisce a rinverdire il pianeta). Non è un male che cresca la generazione di potenza eolica e fotovoltaica. Sarebbe opportuno aumentare molto gli investimenti in ricerca sul solare. Il rendimento raggiunto è del 43% (in laboratorio) e, fra poco, del 25% su scala industriale. Una diffusione notevole di questa fonte ridurrebbe anche le emissioni di CO2.
Obama ha citato Lincoln: «Con l’opinione pubblica non c’è niente che non riuscirò a fare e senza l’opinione pubblica non c’è niente che io possa fare». Quindi ha detto che nel resto del suo mandato proverà a convincere i cittadini che se non faremo niente per modificare il clima, i nostri figli staranno molto male. Le sue intenzioni sono ottime. I suoi ragionamenti, no.
Non è immediato interpretare le stime fatte dagli scienziati sulle probabilità di eventi futuri relativi a sistemi complessi come il clima terrestre. Non possiamo fare esperimenti e le stesse misure effettuate da alcuni secoli (o da decenni come nel caso dell’anidride carbonica) sono scarse. Talora sono anche discutibili e contraddittorie. Ci sono altre catastrofi letali di cui abbiamo esperienza diretta. I rischi relativi si capiscono con il senso comune. Non siamo costretti a chiedere agli scienziati di fare congetture sui disastri causati dalle esplosioni. Le conflagrazioni di gas naturale nelle gallerie uccidono ogni volta migliaia di minatori. Gli esplosivi tradizionali hanno causato decine di milioni di morti nelle due Guerre mondiali ed alcuni milioni in Medio Oriente negli ultimi anni.
Le armi nucleari sono molto più distruttive. La bomba di Hiroshima aveva un potere distruttivo equivalente a quello di 15.000 tonnellate di alto esplosivo (15 kton). Quella di Nagasaki equivaleva a 21 kton. Nel 1961 i militari americani stimavano in 600 milioni i morti previsti per un loro attacco atomico contro Russia e Cina. Nei primi anni Ottanta il potenziale distruttivo totale degli arsenali atomici mondiali era di oltre 15 Gigaton (15 miliardi di tonnellate equivalenti di alto esplosivo). Le stime del numero dei morti erano di miliardi. Si parlava della maggioranza della popolazione mondiale e di distruzione mutua assicurata.
Dopo i trattati per la riduzione delle armi atomiche, il potenziale distruttivo totale è ridotto a circa 5 miliardi di tonnellate equivalenti. Obama, però, non considera questo rischio come «una significativa sfida a lungo termine che dobbiamo affrontare». Nel 2009 gli diedero il Nobel per la pace «per i suoi sforzi eccezionali per rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione fra i popoli e per essersi espresso a favore di un mondo privo di armi nucleari». Il proposito ha avuto breve durata. Nel 2013 il presidente Usa stanziò 537 milioni di dollari per ammodernare 180 testate nucleari tattiche dispiegate in Europa. Pare, però, che quei 537 milioni non bastino e che in effetti si spenderanno 10 miliardi di dollari. Non miglioreranno solo l’efficacia dei quelle 180 bombe: ne aumenteranno il numero a 400.
Il governo americano ha deciso anche di ridurre del 15% gli stanziamenti mirati a proteggere le armi nucleari da tentativi di impossessarsene da parte di terroristi. Quest’altra misura rende ancora più imminente un rischio gravissimo – l’entità del quale è segreta e, forse, nemmeno valutabile. Una guerra planetaria nucleare farebbe miliardi di vittime: ma non ne parlano i grandi statisti e nemmeno i rappresentanti delle religioni. Nel 1998 l’attuale Dalai Lama, che taluno chiama il «principe della pace », dichiarò che «fin quando ci sono grandi potenze che detengono armi nucleari, non è giusto condannare l’India perché fa test atomici e si arma».
Oggi soffiano venti di guerra e ispirano apprensione. La violenza in Ucraina o Medio Oriente potrebbe far scoppiare la guerra mondiale. Sarebbe un fattore scatenante più micidiale dell’assassinio di Serajevo nel 1914.
È bene parlare di pace, ma bisogna informarsi. Papa Francesco il 24 maggio in Giordania ha detto: «La radice del male è nella cupidità del denaro che c’è in chi è attivo nella fabbrica e nella vendita delle armi. Questo ci deve fare pensare su chi c’è dietro che dà a tutti quelli che sono in conflitto le armi per continuare i conflitti. Pensiamo e dal nostro cuore preghiamo per questa povera gente criminale perché si converta».
È giusto deprecare le guerre in Medio Oriente anche se hanno causato pochi milioni di morti. Allora, però, dovremmo dedicare un tempo mille volte maggiore a denunciare il rischio che la guerra atomica uccida miliardi. Papa Francesco ha parlato in data primo gennaio 2014 a favore del disarmo «cominciando dalle armi nucleari e chimiche». Lo avevano fatto, ma con parole deboli, inadeguate rispetto all’enormità della minaccia, anche i suoi predecessori ed R. Williams, l’Arcivescovo di Canterbury, nel 2009. Questi dignitari religiosi non bollano il peccato di omissione di non smantellare tutti gli arsenali atomici, perpetuando la minaccia che il mondo sia distrutto per caso.
Diciamolo noi, allora: «Le armi atomiche vanno smantellate tutte. Anche se un conflitto si scatenasse per errore, potrebbe estendersi al pianeta e segnare la fine della nostra civiltà». I non violenti, le persone normali e razionali, quelli che hanno imparato a controllare i loro impulsi, dovrebbero parlarne e pensarci tutti i giorni. Dovrebbero esigere che i politici capiscano il rischio finale ultimo e ne discutano nei parlamenti, nell’Unione Europea, alle Nazioni Unite – se non lo fanno, vanno svergognati. Scriviamo lettere, e-mail, blog descrivendo il rischio mortale e la necessità del disarmo nucleare totale. Anche se fosse vero che l’aumento del tasso di anidride carbonica nell’atmosfera causerebbe danni, questi sarebbero trascurabili rispetto alla morte di miliardi.

La Stampa TuttoScienze 18.6.14
“Polimorfismi e computer: così ho letto il Dna dove c’è la firma del killer di Yara”
di Valentina Arcovio


La svolta delle indagini sulla morte di Yara Gambirasio è arrivata lontano dalla scena del crimine. Lontano dalla Val Brembana. Oltre alle forze dell’ordine e all’Università di Milano, a dare un contributo fondamentale sono stati i laboratori dell’Università Tor Vergata di Roma, guidati dal genetista e rettore dell’ateneo Giuseppe Novelli. Lo stesso scienziato che ha permesso, alcuni anni fa, di inchiodare il boss Provenzano e che ora ha dato un contributo decisivo a smascherare l’identità del presunto assassino di Yara. Massimo Giuseppe Bossetti è stato identificato, dopo quasi quattro anni di ricerche, a partire dalla ricostruzione del suo Dna, il codice genetico che si eredita per metà dalla madre e per metà dal padre e che è caratteristico di ogni individuo.
Tutto è iniziato dall’analisi di minuscole macchie, forse di sangue, rinvenute sulle mutandine della vittima. «Tramite i cosiddetti “sistemi di eluizione” è stato possibile staccare quella piccola traccia biologica dal tessuto», spiega Novelli. In pratica gli scienziati hanno trattato il frammento di slip con un «mix» di sostanze chimiche che ha permesso di isolare quella che si è poi rivelata essere la traccia chiave del caso.
Successivamente il campione è stato sottoposto a una serie di procedure «di pulizia». «La traccia è stata purificata, vale a dire separata da altri componenti come proteine, minerali e sali, tramite una resina in grado di legarsi alle molecole di Dna», racconta lo scienziato. Poi il campione è stato misurato: una macchina grande quanto un tablet, che sfrutta particolari sostanze chimiche, ha permesso di quantificare il Dna presente nel campione. «A quel punto ci si è chiesti se la quantità ricavata - continua Novelli - fosse sufficiente per sottoporla a successive analisi che avrebbero permesso di confermare la natura biologica del campione: sangue, urina, sperma e così via. Ma, vista la quantità esigua e il rischio di compromettere quell’unica traccia, si è deciso di proseguire direttamente con le analisi del Dna».
Per rendere l’esame più preciso il campione è stato copiato milioni di volte con una tecnica ormai famosa - la «Reazione a catena della polimerasi» (nota come «Pcr»), messa a punto nel 1983 dal Premio Nobel Kary Banks Mullis - e che oggi vanta numerose applicazioni anche in medicina e in biotecnologia. «Il campione - spiega il genetista - viene utilizzato come una sorta di stampo che, una volta inserito nell’amplificatore - cioè una macchina grande quanto un pc - permette nel giro di appena 4-5 ore di produrre moltissime copie». Il materiale ottenuto può quindi essere «letto chimicamente» tramite il sequenziamento del Dna. La macchina utilizzata per l’operazione - questa volta grande almeno quanto un vecchio computer da tavolo - valeva solo qualche anno fa centinaia di migliaia di euro (quella di Tor Vergata ne è costati 200 mila), ma oggi può essere acquistata a poco più di mille euro.
«Nel caso di Yara - racconta il genetista - sono stati analizzati 16 polimorfismi, cioè 16 punti di lettura del Dna che cambiano da persona a persona». Una volta che il sequenziatore ha svolto il lavoro, sullo schermo dei computer dei laboratori sono apparsi quelli che in gergo si chiamano «picchi», piccole linee distinguibili le une dalle altre per colore, altezza e posizione: a quel punto era finalmente disponibile il profilo genetico dell’individuo che si stava cercando, ovvero la sua impronta genetica digitale.
Passo successivo: si doveva dare un volto, oltre che un nome e un cognome, alla persona, che da quel momento-chiave in poi ricercatori e inquirenti hanno ribattezzato «Ignoto 1». Infatti. mentre gli scienziati lavoravano per amplificare al massimo quella flebile traccia, in Val Brembana è iniziata un’operazione su vasta scala, unica nel suo genere. Squadre di carabinieri e poliziotti hanno contattato 18 mila persone residenti nella zona dove viveva Yara e hanno prelevato piccoli campioni di saliva, dai quali estrarre frammenti di Dna. Senza questi controlli a tappeto le analisi dei genetisti sarebbero state inutili: sarebbe stato impossibile rintracciare eventuali Dna simili o complementari con quello del presunto assassino.
Così, è stato solo dopo avere analizzato questo materiale genetico che è stata trovata un’ulteriore traccia: uno dei profili rivelava una certa compatibilità con quello rinvenuto sui vestiti di Yara. Poteva essere, per esempio, il Dna di un consanguineo del presunto killer. «Si è deciso - spiega Novelli - di concentrarsi sulla famiglia della persona che è risultata avere un Dna molto somigliante con quello delle tracce sul cadavere. Anche tra i familiari di questa persona, due figli e una madre, nessuno è risultato compatibile. Il padre era morto, e quindi è stato escluso, ma ormai era chiaro che ci fosse un collegamento».
Da qui è cominciata a formarsi l’idea che «Ignoto 1» fosse un figlio illegittimo. «E’ stato prelevato il Dna del padre (che era già deceduto), estraendolo dalla saliva usata per attaccare la marca da bollo della sua patente, e, ripetendo le procedure eseguite sulla traccia rinvenuta sul corpo di Yara, abbiamo trovato una compatibilità molto forte», racconta lo studioso. A questo punto sono entrati i calcoli biostatistici messi a punto dai genetisti romani. «Questi sistemi, che consentono di stabilire il grado di parentela tra due diversi profili genetici, ci hanno permesso di ipotizzare che l’uomo poteva essere proprio il padre di Ignoto 1». Per escludere ogni possibilità di errore è stato riesumato il cadavere dell’uomo. «E’ stato prelevato il Dna da un pezzetto di osso, purificato dalla materia inorganica presente, e poi analizzato con le stesse procedure usate per la traccia iniziale», dice Novelli. In poche ore sui computer è apparsa la scritta tanto attesa: «Match».
Giuseppe Guerinoni, l’autista di Gorno, era davvero il padre di «Ignoto 1». A questo punto è partita un’altra battuta di caccia. Ma stavolta il campo di ricerca era più ristretto. «Sono stati analizzati i profili di oltre 700 donne che, in base alle testimonianze, potevano aver avuto contatti con l’autista. Lo scopo - spiega Novelli - era trovare la componente materna del Dna per confrontarla con quella del campione. Sono state individuate alcune possibili sospette e per una di loro si è visto che il Dna combaciava, cioè doveva essere la madre di Ignoto 1».
Gli inquirenti hanno quindi identificato il figlio della donna e, con un controllo con l’etilometro fatto nei giorni scorsi, è stata ricavata la sua saliva e, di conseguenza, il suo Dna. Da una nuova comparazione è emersa la compatibilità totale tra il Dna di «Ignoto 1» e quello di Massimo Giuseppe Bossetti, la persona fermata.
Il lavoro della scienza era a questo punto è concluso. «Gli scienziati hanno trovato i pezzetti di questo puzzle - conclude Novelli -. Ora tocca alle autorità ricomporli e svelare il mistero che celano».

Corriere 17.6.14
Bresci, il regicida che fu «suicidato»
di Arturo Colombo


Il sottotitolo «vita e morte di Gaetano Bresci, l’anarchico che sparò al re» spiega il saggio di Paolo Pasi, (Ho ucciso un principio, Elèuthera, pp. 175, e 14) che ricostruisce con rigore documentario e vivacità narrativa il regicidio avvenuto la sera del 29 luglio 1900, nei pressi della Villa Reale a Monza, da parte di Bresci, nativo di Coiano (frazione di Prato), giunto apposta da Paterson, una cittadina poco distante da New York, dove viveva con altri anarchici (nel disegno). I tre colpi di rivoltella vanno a segno; ma appena i carabinieri lo bloccano, Bresci non smette di ripetere: «Ho agito da solo, l’ho fatto per vendicare le vittime pallide e sanguinanti di Milano», quelle uccise nel 1898.
Questa tesi («non ho ucciso un uomo, ma un principio») Bresci non la ribadirà solo durante il processo, svoltosi in agosto e conclusosi con la condanna all’ergastolo, e «i primi sette anni di segregazione cellulare». Continuerà a ripeterla anche dopo essere stato trasferito in cella d’isolamento nell’isola di Santo Stefano, vicino a Ventotene. Il racconto che Pasi dedica a come Bresci passava le giornate è spietato: «Ferri, catene, pasti minimi, mutismo assoluto, luce dei controlli anche di notte, sonni brevi e spezzati, e tante guardie acquattate dietro gli spioncini», un trattamento che coincideva con «l’anticamera della pazzia».
Le illustrazioni di Fabio Santin coinvolgono il lettore: la sveglia alle 6, il pranzo alle 11, la lunga attesa fino alle 6 di sera, quando il detenuto numero 515 può tornare ad abbassare il letto e stendersi, «anche se addormentarsi è sempre faticoso per via della catena e per le ispezioni». Così fino al 22 maggio 1901, quando viene dichiarato suicida.
Pasi sottolinea come non vada dimenticato Sandro Pertini (pure lui rinchiuso a Santo Stefano durante il fascismo), che parlando nel 1947 all’Assemblea Costituente, aveva voluto precisare: «non è vero che Bresci si sia suicidato: prima l’hanno ammazzato di botte e poi hanno attaccato il cadavere all’inferriata e diffuso la notizia del suicidio».

Corriere 18.6.14
A Fabriano il forum Unesco dedicato alle «Città creative»

Da sabato 21 al 24 giugno, Fabriano ospiterà il Forum Unesco delle «Città creative». La città marchigiana è stata, infatti, riconosciuta come una delle «Città creative» nella sezione «Craft and folk arts ». Si incontreranno i rappresentanti di Santa Fe (New Mexico, Usa), Aswan (Egitto), Kanazawa (Giappone), Incheon (Sud Corea), Hangzhou (Cina), Paducah (Kentucky, Usa) e Bologna, l’altra città italiana che ha ottenuto il riconoscimento. Il network «Città creative» ha come obiettivo l’istituzione di un legame tra centri urbani in grado di sostenere e di fare della creatività culturale un elemento essenziale per il proprio sviluppo economico. Attraverso questa rete, divisa in sette aree corrispondenti a settori culturali (musica, letteratura, folk art, design, media arts, gastronomia, cinema), le «Città» possono valorizzarsi reciprocamente.

Corriere 18.6.14
Numeri, alfabeto del mondo da Platone al bosone di Higgs
È così che si capiscono la natura, l’arte e il virtuale
di Armando Torno


In un discorso amichevole con Guido Tonelli, fisico del Cern di Ginevra, uno dei protagonisti della scoperta del bosone di Higgs, ci siamo resi di nuovo conto che i numeri rimangono il linguaggio migliore per conoscere immediatamente chi siamo, dove andiamo e le nostre coordinate nello spazio e nel tempo. Ci confidava l’illustre scienziato: «Viviamo in un universo (per noi) molto grande che ha una dimensione di 10 alla 28 centimetri e che è piuttosto vecchio perché ha circa un’età di 13,8 miliardi di anni; è anche freddo, giacché ha soltanto una temperatura media di 3 gradi sopra lo zero assoluto. Della sua composizione sappiamo molto poco, dal momento che le nostre conoscenze si riferiscono a malapena al 5 per 100 dell’universo; il 27 per 100 è materia oscura (tiene insieme le galassie ma si ignora di cosa sia fatta), il 68 per 100 è ancora più misterioso perché è energia non nota che spinge tutto lontano da tutto e la cui origine è totalmente sconosciuta. Attraverso pochi numeri è possibile esprimere quello che si sa e quanto, per il momento, ignoriamo».
Sono bastate alcune battute, o meglio poco più di sei cifre, per evocare a nostro giudizio quel che sosteneva l’astrofisico inglese Sir James H. Jeans nel suo fascinoso saggio The Mysterious Universe , pubblicato a Cambridge nel 1930: «Il Grande Architetto dell’Universo ora comincia ad essere considerato un puro matematico». D’altra parte, Platone non aveva asserito che «Dio geometrizza sempre»? Questo detto, tramandatoci da Plutarco nelle Questioni conviviali , possiamo anche considerarlo definitivo per esprimere l’importanza della matematica — e di quei suoi soldati che sono i numeri e gli elementi geometrici — nella cultura non soltanto occidentale.
Già, la matematica. Non si può ignorare, né è possibile studiare filosofia senza tenerne conto; persino taluni argomenti religiosi chiedono di essere chiariti con il suo soccorso. Il primo pensatore occidentale, ovvero Talete, ha legato il nome a un teorema di geometria; Pitagora e la sua scuola hanno sostanzialmente divinizzato i numeri, ponendo i loro rapporti alla base della realtà e di quell’arte fugace (e allora divina) che è la musica. Del triangolo discussero i manichei, per i quali era immagine della Trinità divina, e sull’argomento intervenne Agostino per negare tale attribuzione. Ma già il filosofo platonico Senocrate (morto nel 314 a.C.) aveva considerato «divino» il triangolo equilatero e «demonico» quello isoscele; egli, comunque, non conosceva quanto aveva elaborato la Cabala ebraica nello Zohar , il Libro dello splendore : «In cielo gli occhi di Dio e la sua fronte costituiscono un triangolo, il cui riflesso forma un triangolo sulle acque». Il Sole, la Luna e Mercurio sono i simboli del triangolo alchemico. E, tra i mille fratelli geometrici che si potrebbero cercare in Cina o nel «Cuore di Hrungnir» (simbolo di epoca vichinga costituito da tre triangoli intrecciati), quello rettangolo fa ritornare a Pitagora e forse all’antico Egitto tra piramidi e misteri, a quel teorema che si sconta sui banchi di scuola. A proposito del quale Arthur Koestler ne I sonnambuli (tradotto da Jaca Book) commentava, evidenziando i rapporti tra i cateti e l’ipotenusa: «Fra la lunghezza dei lati di un triangolo rettangolo non sussiste alcun rapporto evidente; se però costruiamo un quadrato su ogni lato, la superficie dei due quadrati più piccoli corrisponde esattamente alla superficie del quadrato maggiore. Se leggi così mirabilmente ordinate e finora celate all’occhio umano potevano essere scoperte sprofondandosi nelle strutture costitutive dei numeri, non c’era forse la fondata speranza che tutti i segreti dell’universo sarebbero stati presto rivelati attraverso gli elementi del numero?».
La matematica non è noiosa, né fredda, né va confusa con gli esercizi che per alcuni anni della vita siamo costretti a risolvere incalzati dalla minaccia dei brutti voti. Non è soltanto calcolo; nemmeno va considerata una «scienza esatta», come amano ripetere i tecnici che la utilizzano per far quadrare le costruzioni di ponti e strade. Ma senza di essa cadrebbero le spiegazioni che tentiamo di dare, per esempio, all’universo di Leonardo, che la utilizzò anche per l’Ultima Cena , collocando apostoli e Gesù in punti topici di figure geometriche; ignorandola non potremmo capire le dimensioni virtuali che abitiamo con sempre più frequenza, grazie a Internet. La corrente formalistica affermò che la matematica è «la scienza del possibile» (per «possibile» va inteso quanto non implica contraddizione) e, se così fosse, questa disciplina non sarebbe parte della logica, né la presupporrebbe. Codesta concezione, sviluppata da Hilbert e dalla sua scuola negli anni Venti del Novecento, sostiene che la matematica si possa costruire come un semplice calcolo, senza altre interpretazioni.
Mai è mancata nei pensieri dei sommi dell’umanità, anzi a volte ha occupato gran parte della loro vita. Da Aristotele ad Einstein, da Newton a Galileo, da Pascal che vi rinunciò per darsi alla teologia a Gauss che desiderava convincere lo zar a tagliare in forme geometriche le foreste della Siberia per lanciare messaggi nell’universo, questa scienza è stata un riferimento indispensabile. Kant la studia, ne tratta in vari scritti e ne lascia una vera e propria filosofia nella Critica della ragion pura . Leibniz è anche un grande matematico oltre che un pensatore di rilievo. Persino Boezio, l’ultima mente speculativa dell’antichità latina, scrive opere di aritmetica e geometria; lo stesso Agostino non riesce a ignorarla e lo si deduce dalle preoccupazioni che gli giungono da taluni riflessi diffusi dagli scritti di Nicomaco di Gerasa, un tardo pitagorico che tra l’altro si interroga sul significato dei numeri primi e di quelli perfetti.
La letteratura degna di memoria la interroga, con essa riflette. Borges chiama i numeri transfiniti di Georg Cantor (estendono al caso di insiemi con infiniti elementi i concetti di numero cardinale e ordinale dell’aritmetica) «i vasti numeri che un uomo immortale non raggiungerebbe neppure se consumasse la sua eternità contando». Gadda, ingegnere, definisce l’ora «l’integrale dei fuggenti attimi». I teoremi di Euclide entrano nelle similitudini di Dante: «o se del mezzo cerchio far si puote/ triangol sì ch’un retto non avesse» (Paradiso XIII, 101-2). È appunto la proposizione che si legge nel libro terzo degli Elementi : «In un cerchio l’angolo (alla circonferenza inscritto) nel semicerchio è retto».
Materia che sarà ancora discussa ne I Fratelli Karamazov di Dostoevskij: il sommo russo, conoscendo la rivoluzione portata dal «Copernico della geometria», ovvero Nikolaj Ivanovic Lobacevskij, ritorna lì angosciato ponendosi quesiti sulla natura euclidea o meno del mondo. Ivan confessa ad Alioša: «Ti dichiaro che accetto Dio, puramente e semplicemente. Ecco però quel che bisogna notare: se Dio esiste e se in realtà ha creato la terra, l’ha creata come ci è perfettamente noto, secondo la geometria euclidea, e ha creato lo spirito umano dandogli soltanto la nozione delle tre dimensioni dello spazio».
Anche in tal caso il discorso diventa infinito, ovvero assume caratteristiche che hanno bisogno a loro volta della matematica per essere spiegate. Chiudiamo questi brevi cenni con una considerazione di Robert Musil, scritta ne L’uomo senza qualità (citiamo dall’edizione Einaudi, tradotta da Anita Rho): «Quasi tutti gli uomini oggi si rendono ben conto che la matematica è entrata come un demone in tutte le applicazioni della vita. Forse non tutti credono alla storia del diavolo a cui si può vendere l’anima, ma quelli che di anima devono intendersene, perché in qualità di preti, storici e artisti ne traggono lauti guadagni, attestano che essa è stata rovinata dalla matematica, e che la matematica è l’origine di un perfido raziocinio che fa, sì, dell’uomo il padrone del mondo, ma lo schiavo della macchina». Cattivo? No, semplicemente attuale.

Corriere 18.6.14
Algebra, fortuna e senso comune i giochi (divertenti) della scienza
Perfino estrarre a sorte non significa affidarsi al cas
di Roberta Cavallotti


Una misteriosa lista di simboli mistici e oscure regole, una delle materie più presenti negli incubi degli studenti, una roba per sgobboni come dice Paperino nella sua avventura nel «Mondo della Matemagica».
Questa è la matematica nell’immaginario collettivo. Eppure giocare con tale disciplina, esplorando con spirito di avventura campi in cui il giocatore non deve essere necessariamente competente, diventa una piacevole ed entusiasmante sfida non solo per la mente ma anche per lo spirito.
Nella quotidianità si celano quesiti intriganti, ed è proprio lì che si attiva la palestra della mente, un terreno fertile dove coltivare la passione per la ricerca e far fiorire le competenze. Il cosiddetto «senso comune» può trovare nella matematica un valido sostegno razionale, ma può, a volte, essere il prodotto dell’incapacità di interpretare la realtà con strumenti adeguati. Destino, Sfortuna o Fortuna sono parole che, una volta evocate, col loro suono, creano un assordante rumore di fondo atto a coprire una verità che ansia e paura rendono incomprensibile.
I ricercatori di neuroscienze educative hanno individuato proprio nell’ansia, e nelle risposte del cervello a questa condizione di disagio, uno dei motivi dell’avversione alla matematica. Durante la risoluzione di un quesito, lo stress da prestazione può persino inibire le capacità logiche innate. Quando la matematica viene utilizzata per dare valore a ciò che si vuole dimostrare, a volte il gioco è leale, a volte no.
L’avversione per questa disciplina è anche causata da esperienze negative e dal senso di disagio che si prova in situazioni nelle quali intuiamo che simboli e regole vengono usati per raggirare, confondere o umiliare. Valga come esempio l’uso strumentale di numeri e formule esibiti sul palcoscenico della crisi finanziaria attuale, dove la matematica viene usata come un fiocco per impacchettare una realtà di cui si vogliono volutamente enfatizzare o celare alcuni aspetti.
La realizzazione di un io consapevole si attua anche attraverso un rapporto con la matematica inteso come esplorazione e scoperta. Dunque un’esperienza umana significativa: la nostra àncora al reale. Provate a chiedere ad una persona se il senso di ciò che è giusto oppure equo ha a che fare con la matematica. Sicuramente vi risponderà di no. L’equità in ambito sociale è una questione estremamente complessa e al tempo stesso molto sentita, che ha radici nei fondamenti filosofici, ideologici e religiosi di ogni cultura. Il legislatore è chiamato a definire norme e criteri che garantiscano questo principio. La propensione all’equità è un’attitudine che dovrebbe determinare significativi effetti quotidiani. Non necessariamente, però, realizza i suoi obiettivi se applicata senza una reale consapevolezza. La matematica può essere un efficace strumento per stabilire se i criteri adottati portano allo scopo prefissato. Nei miei incubi di ex studentessa ricordo ancora l’ansia provata quando il docente di latino voleva accertarsi del grado di preparazione degli alunni e affidava alla sorte la scelta di chi doveva essere interrogato.
Apriva a caso un libro esclamando: «... Pagina 78... sette più otto fa quindici...» e poi, nel silenzio assordante, col dito indice scorreva l’elenco alfabetico del registro, fermandosi al numero quindici e pronunciando il nome dello studente. Questo metodo per decidere chi interrogare era considerato da noi alunni comunque equo, perché si affidava al caso. Ma la matematica giace dormiente tra le pieghe di quel libro, a noi il compito di risvegliarla e farla diventare nostra alleata.
Dice Paul Lockhart in Lamento di un matematico : «Se ciascuno fosse “esposto alla matematica” al suo stato naturale, con tutte le sfide, il divertimento e le sorprese che essa implica, penso che potremmo vedere un radicale cambiamento sia nell’atteggiamento delle persone verso la matematica sia nella nostra idea di ciò che significa essere bravi in matematica». E aggiunge: «Una parte del problema sta nel fatto che nessuno ha la più pallida idea di che cosa facciano i matematici».
Ai matematici piace riflettere sulle cose, anche le più semplici, spinti da una naturale curiosità. Quando gli studenti dicono che le lezioni di matematica sono stupide e noiose hanno ragione. La matematica è un’arte e come tale andrebbe insegnata e ai ragazzi fin dalla tenera età con metodologie che sviluppino la curiosità e l’amore per la creazione.
Torniamo al mio incubo giovanile: se un libro ha 130 pagine, l’alunno numero quattro del registro verrà interrogato quando il libro si aprirà alle pagine 4, 13, 22, 31, 40, 103, 112, 121, 130 e avrà 9 probabilità su 130 di essere chiamato.
L’alunno numero due verrà interrogato quando il libro si aprirà alle pagine 2, 11, 20, 101, 110 e avrà 5 probabilità su 130. Se state leggendo questo articolo, prendete carta e penna e accettate la sfida. Ha più probabilità di essere interrogato l’alunno numero quattro o il numero quindici? E l’alunno numero diciannove quante probabilità avrà?
La risposta a quest’ultima domanda è: nessuna!
Ebbene sì, se un libro ha 130 pagine, nessun numero tra 1 e 130 è costituito da cifre la cui somma risulti diciannove.
I numeri sono chiari e dimostrano inconfutabilmente che lo strumento, ritenuto equo e utilizzato in assoluta buona fede, non lo è stato. A quel tempo, io, pur essendo brava in matematica, non lo avevo capito e credo neppure il mio insegnante di latino.
Roberta Cavallotti insegna Matematica alla scuola media «Italo Calvino» di via Frigia a Milano

Corriere 18.6.14
Teoremi raccontati come un’avventura
Si inizia con Fermat
di Ida Bozzi


Formule chiave che rivelano simmetrie dell’universo, geometrie naturali usate da artisti e architetti, come la sezione aurea, e addirittura enigmi irrisolti intorno ai quali si sono susseguiti studi e ipotesi: quella dei numeri è un’avventura affascinante, alla quale è dedicata la nuova collana del «Corriere della Sera» da oggi in edicola intitolata «La matematica come un romanzo». Ventiquattro volumi (ciascuno al costo di e 7,90 più il prezzo del quotidiano), in cui una disciplina tradizionalmente considerata complicata viene presentata con taglio rigoroso ma divulgativo, e mostra i propri aspetti più curiosi ma anche più profondi e umanistici, tra l’influenza sulla storia del pensiero e i legami con la filosofia. Il volume che inaugura l’iniziativa, in edicola oggi, è «L’ultimo teorema di Fermat» del giornalista scientifico Simon Singh, che racconta proprio una di queste avventure della matematica: un’avventura che comincia con Pitagora e continua nella Francia del ‘600, quando Pierre de Fermat enuncia un teorema bellissimo e misterioso, di cui, assicura, egli possiede la soluzione. Ma la morte lo coglie prima che la riveli, nel 1665, e passano più di tre secoli prima che il matematico Andrew Wiles, nel 1993, riesca a risolvere l’incredibile enigma. Il secondo volume, in edicola dal 25 giugno, sarà L’equazione dell’anima di Arthur Miller, che racconta invece l’ossessione di Wolfgang Pauli, uno dei più grandi scienziati del ‘900: un enigma che lo tormenta al punto da spingerlo a rivolgersi a Carl Gustav Jung. La collana continuerà nelle prossime settimane, fino al 26 novembre, con testi e monografie su temi come i numeri di Fibonacci, la congettura di Poincaré, la sezione aurea, il quadrato magico, addirittura una «prova matematica dell’inesistenza di Dio»: libri che incuriosiscono sulla storia di una scienza basilare e fanno riflettere sugli stessi fondamenti della realtà.

Corriere 18.6.14
Il connubio inscindibile tra geometria proporzioni pittoriche e forme animali


La matematica, la geometria e l’arte, uno dei connubi più importanti della storia della cultura e della natura. Basti pensare, ad esempio, alla «prospettiva» e alle sue diverse codifiche e trattazioni, a partire dal De Pictura (1435) di Leon Battista Alberti fino alla geometria descrittiva di Gaspard Monge e soprattutto del suo allievo Jean-Victor Poncelet (1788 – 1867). Ma una dimostrazione dell’unione tra natura, arte e matematica si trova già nella «sezione aurea», cui è dedicato tra l’altro il volume numero 14 della collana del «Corriere della Sera», La sezione aurea di Mario Livio: si tratta di un rapporto di proporzioni che è noto anche come «costante di Fidia» (il Partenone è stato realizzato proprio sulla base della sezione aurea), o addirittura come «proporzione divina»; codificata già dai pitagorici, non solo si ritrova in natura, nella forma di animali e piante, dalla spirale del Nautilus al corpo arrotondato dei delfini, o nell’universo dei frattali, ma è «nascosta» in molti capolavori artistici, dalla Nascita di Venere di Botticelli alla Gioconda di Leonardo. Anche in opere del cubismo e dell’astrattismo, da Mondrian a Kandinskij (foto grande al centro ), si può trovare il rettangolo della sezione aurea, aggraziato e perfetto.