giovedì 19 giugno 2014

l’Unità 19.6.14
Riforme, blitz del governo. Renzi: «Presidenzialismo? Non ora»
Il testo sul nuovo Senato in aula il 3 luglio
Aumentati i poteri rispetto alla bozza precedente
Oggi l’incontro tra la ministra Boschi e il capogruppo Fi Romani


Il governo ha deciso. La conferenza dei capigruppo del Senato esegue. Spaccandosi, lamentandosi, ma esegue. Il 3 luglio l’aula del Senato comincerà la discussione sulla riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione. È una data molto vicina, due settimane da oggi, quando in commissione Affari Costituzionali non si è ancora neppure cominciato a votare gli emendamenti. È il segnale chiaro che un accordo è stato trovato. Con Forza Italia, prima di tutto. «Voteremo le riforme anche se non prevedono il presidenzialismo» ha detto ieri Silvio Berlusconi tornato a Roma, e in pubblico, per lanciare il disegno di legge che rimette in campo un suo vecchio cavallo di battaglia, l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. L’ex Cav non ne fa una questione di principio. Non tratta e non è in condizione di farlo, soprattutto dopo l’insidiosa apertura di Grillo e del M5S. In ogni caso il premier in serata chiarisce ogni dubbio: «Ora bisogna completare il percorso su cui c’è l’accordo: aprire la questione del presidenzialismo è inopportuno e intempestivo. Siamo a un passo dalla chiusura, inutile infilarci in un dibattito sul presidenzialismo».
E infatti l’accelerazione del governo non spiazza il capogruppo di Fi Paolo Romani che oggi deve incontrare il ministro Boschi per trovare finalmente la quadra sul modo di eleggere il Senato. Se poi non dovessero trovare la sintesi, aggiunge l’ex Cavaliere, allora «incontrerò personalmente il premier Renzi». Ma lo stato maggiore di Fi è convinto che non ce ne sarà bisogno.
Dura un quarto d’ora la riunione dei capigruppo. Le riforme non sono in agenda. Prima di loro ci sarebbe, tanto per fare un esempio, il disegno di legge anticorruzione che doveva andare in aula prima del voto per le Europee. Ma a palazzo Madama si presenta il sottosegretario Luciano Pizzetti che cala la carta del 3 luglio. Non è un’offerta. È un’indicazione senza chance di essere rivista. E che è uscita dal vertice di martedì sera a palazzo Chigi tra il premier, i sottosegretari Delrio e Lotti, il ministro Boschi, i capigruppo del Pd Zanda e Speranza e la presidente della Commissione Affari costituzionali Anna Finocchiaro. «Inutile perdere tempo a cincischiare», avrebbe concluso Renzi. «Andiamo avanti in ogni caso, il momento è adesso». Adesso che tutte le forze politiche, compreso Lega e M5S si dicono disponibili, per tattica o sul serio, ad appoggiare il percorso. La decisione è presa a maggioranza. Non ci stanno Sel eM5S. La capogruppo Loredana De Petris esce furiosa dalla riunione. «Siamo ancora all'illustrazione degli emendamenti e si è voluto fare precipitare la situazione pensando di forzare i lavori». Buccarella, capogruppo M5S, attacca sul disegno di legge anticorruzione. «Ho provato a farlo inserire all’ordine del giorno del 15 luglio, ma il parere della maggioranza è stato negativo ». Sel e M5S possono solo, a questo punto, decidere di appoggiare quello nei fatti ha tutta l’aria di essere un accordo a tre: Pd-Ncd, Fi e Lega più i cosiddetti piccoli. È la conferma delle tenuta del patto del Nazareno.
Sulla composizione, nei colloqui tra il ministro Boschi e Romani (Fi), si è concordato che il numero senatori di ciascuna Regione sia proporzionale rispetto al peso demografico (anziché stesso numero per Lombardia e Molise). C’è da lavorare ancora un po’ sulla modalità di elezione dei senatori e sul peso che avranno i sindaci. Berlusconi ha dato il via libera al principio dell’elezione indiretta (di secondo grado). Perde quotazioni il sistema francese (con i sindaci tra i grandi elettori). Avanza invece un sistema tedesco per cui sono i consiglieri regionali e non anche i sindaci gli unici grandi elettori dei senatori. Berlusconi vede malissimo una massiccia presenza di sindaci a palazzo Madama visto che sono a netta maggioranza Pd. Oltre al fatto che non è giusto «far coincidere il ruolo di amministratore con quello di senatore». Il governo insiste. La mediazione sarebbe di «fissare a un terzo la loro presenza in ciascuna delegazione regionale». Percentuale che però potrebbe scendere ulteriormente. Sarà, questo, oggetto del lavoro delle prossime ore.
Strada spianata, invece, per le funzioni del Senato. Che non dà, ovviamente, la fiducia, ma aumenta i suoi poteri. Oltre al voto sulle modifiche costituzionali e la legge elettorale, avrà funzioni di controllo sull’attuazione delle leggi, sulle politiche pubbliche e la pubblica amministrazione. Vigilerà sull’impiego dei fondi strutturali europei. Via libera anche alle Commissioni parlamentari. Gli oltre 5000 emendamenti che ancora oggi giacciono in Commissione, saranno sostituiti da un pacchetto di circa venti scritti a quattro mani dai due relatori, Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli. La prossima settimana il voto in Commissione. Poi l’aula. Dove Chiti e gli altri continueranno la loro battaglia.

Il Giornale 19.6.14
Il Cav dà il via libera a Renzi. Sulle riforme ormai è fatta
Affidato a Verdini il compito di appianare le ultime divergenze
di Francesco Cramer

qui

Corriere 19.6.14
Incontri ravvicinati tra governo e FI
di Massimo Franco

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Repubblica 19.6.14
Riforme, ecco l’accordo addio al bicameralismo Senato di regioni, meno sindaci
Renzi: “Ora tutti mangino questa minestra o si salta dalla finestra”
di Francesco Bei


ADDIO al Senato, «la svolta» finalmente è arrivata. «Ognuno di noi dovrà rinunciare a qualcosa», ha chiarito Matteo Renzi a tutti gli interlocutori sondati anche attraverso il ministro Boschi. E, alla fine, anche sul punto più complicato, ovvero sulla composizione della nuova assemblea, la quadra è stata trovata.
TUTTI i tasselli stanno andando al loro posto e persino sull’Italicum il lavoro è ormai avanzatissimo, tanto da far ipotizzare a Renzi di vederlo approvato a palazzo Madama
entro la pausa estiva.
Ma intanto la riforma costituzionale. «L’accordo è vicino», conferma Giovanni Toti a denti stretti. Il nuovo Senato della Repubblica, disegnato dagli emendamenti messi a punto dai relatori Finocchiaro e Calderoli, recupera molte funzioni, pur perdendo quella fondamentale di poter dare o togliere la fiducia al governo. Insomma, non è più un «dopolavoro per sindaci», per dirla con Berlusconi. Ha competenza sulla legislazione regionale e su quella europea, co-elegge il presidente della Repubblica, il Csm e i giudici costituzionali, ma soprattutto recupera voce sulle leggi elettorali e su quelle costituzionali. Crescendo le funzioni, cambia anche la composizione. Renzi ha dovuto rinunciare al suo Senato dei sindaci. I primi cittadini saranno invece pochi, circondati da una stragrande maggioranza di consiglieri regionali- senatori. Il premier ha trattato partendo da 1/3 di sindaci e 2/3 di consiglieri regionali, ma alla fine Forza Italia è riuscita a strappare la quota simbolica di un sindaco per ogni regione (non sarà automaticamente il primo cittadino del capoluogo di regione, a Roma andrà invece un sindaco eletto dai suoi colleghi). Il cocktail finale è dunque più vicino a 1/4 di sindaci - una ventina - e 3/4 di rappresentanti regionali, un mix che rassicura il centrodestra, preoccupato di un’eccessiva rappresentanza del Pd nella Camera alta.
Comunque nella notte si tratta ancora. Sono tornati ad esempio i senatori di nomina presidenziale scelti nella società civile, anche se non quanti ne avrebbe voluti il capo del governo. «Siamo all’ultimo, delicatissimo, miglio», si lascia sfuggire a tarda sera Debora Serracchiani. Il diavolo, si sa, si nasconde nei dettagli, e dopo averci lavorato così a lungo anche a palazzo Chigi qualche timore resta. «Sono abbastanza ottimista - ha detto Renzi ai suoi - ma con quelli là è sempre un’incognita ». Certo, la conferenza stampa di Berlusconi ha confermato il premier nella sensazione di avercela fatta davvero. Che il leader di Forza Italia abbia presentato le sue proposte sul presidenzialismo non è stato considerato un ostacolo. A colpire di più è stata l’affermazione, ripetuta da Berlusconi, che l’accettazione del presidenzialismo non era «assolutamente» una conditio sine qua non per chiudere l’accordo sul Senato e sul Titolo V. Quanto al merito della proposta forzista, Renzi per il momento non ritiene di poterla accogliere: «Ora bisogna completare il percorso su cui c’è accordo. Per cui aprire la questione del presidenzialismo è inopportuno e intempestivo. Siamo a un passo dalla chiusura, inutile infilarci in un dibattito sul presidenzialismo ». Più avanti si vedrà, non ci sono pregiudiziali.
Se l’intesa c’è perché dunque non annunciarla subito? In realtà l’incontro di oggi tra Paolo Romani e Maria Elena Boschi - oltre ai ripetuti contatti di Denis Verdini con palazzo Chigi - servirà a stabilire con precisione come dovranno essere scelti i futuri senatori. Il problema su cui si stanno scervellando gli sherpa in sostanza è questo: visto che ogni regione ha una legge elettorale con un premio di maggioranza che schiaccia le minoranze, come garantire che le opposizioni siano rappresentate adeguatamente nel futuro Senato? La soluzione, suggerita da Roberto Calderoli, sta nel «voto limitato». Ovvero i consiglieri regionali avranno una scheda con un numero di opzioni inferiore al numero dei senatori da mandare a Roma. In questo modo, giocoforza, anche le opposizioni potranno avere i loro rappresentanti ponderati sul voto reale preso in regione. Al di là dei tecnicismi, quello che conta è che Renzi è convinto di aver strappato l’intesa solo dopo aver mostrato i muscoli. Non solo il sorprendente risultato elettorale, ma anche «la determinazione che abbiamo avuto con i casi Mauro e Mineo» hanno fatto la differenza. Da ultimo, per blindare l’accordo, Renzi ha voluto chiamare a sé tutto il Pd. È successo la sera di martedì, quando a palazzo Chigi il premier ha siglato quello che, scherzando, definisce «un patto di sangue dentro il partito». Assicurate le retrovie, è potuto andare avanti. tenendo per sé la regia della trattativa finale.
«Con Calderoli abbiamo fatto un gran lavoro - racconta la presidente Anna Finocchiaro - e siamo pronti a presentare i nostri emendamenti. Abbiamo registrato l’apprezzamento di tutti. Ora aspettiamo che Renzi sciolga gli ultimi nodi politici e poi li depositiamo in commissione ». L’intenzione del premier è arrivare all’approvazione del pacchetto più presto che mai. «A questo punto prendere o lasciare, o mangiano questa minestra o si buttano dalla finestra... ». Per palazzo Chigi il nuovo traguardo è arrivare al voto finale in commissione entro il 2 luglio, ovvero prima che Renzi si presenti a Bruxelles avviare il semestre italiano di presidenza. «Andare lì con la riforma approvata - ha spiegato il premier durante il vertice con i dem - per me cambia molto. Quando vado in Europa a dire che abbiamo cancellato le province e che supereremo il bicameralismo, rimangono tutti a bocca aperta. Questa partita in casa ci consentirà di vincere anche la partita in Europa».
Del pacchetto fa parte anche l’Italicum, che il capo del governo vorrebbe vedere approvato dal Senato «entro la pausa estiva ». L’intesa anche su questo sarebbe molto avanti, con alcune significative correzioni: soglie di sbarramento portate al 4% sia per chi si coalizza che per chi resta fuori; soglia alzata al 40% per aggiudicarsi il premio di maggioranza. Ma la vera novità sarebbe il superamento delle liste bloccate con l’introduzione delle preferenze o dei collegi. Su questo però si tratta ancora.

il Fatto 19.6.14
Riforme avanti tutta. L’anticorruzione può attendere
Renzi e i berlusconi procedono assieme su Italicum e Senato
Il premier, l’ex Cavaliere e Calderoli hanno trovato l’intesa
Senato, quasi accordo Renzi-B. e in cambio sparisce l’Anticorruzione
L’ultima versione della riforma è stata scritta due sere fa a Palazzo Chigi
La discussione sul testo contro i ladri scivola ancora a fine luglio
di Wanda Marra


Il testo della riforma del Senato è stato praticamente scritto martedì sera nel vertice di Palazzo Chigi. Ci hanno lavorato un po’ tutti, nel governo e nel Pd (erano presenti Matteo Renzi, Maria Elena Boschi, Luca Lotti, Graziano Delrio e poi Lorenzo Guerini, i capigruppo di Camera e Senato, Roberto Speranza e Luigi Zanda). Ma come, non era tutto appeso a un incontro con Berlusconi? Ieri l’ex Caimano, in una conferenza stampa dai toni particolarmente accondiscendenti, ha confermato che “l'impegno preso sul Titolo V, la legge elettorale e la riforma del Senato”, rimandando dettagli e ratifiche a un abboccamento tra la Boschi e il capogruppo di Forza Italia a Palazzo Madama, Paolo Romani. Che forse si vedranno oggi.
IN REALTÀ, DA FORZA Italia in questi giorni raccontavano che Renzi e Berlusconi si sono già sentiti tra domenica e lunedì. Riaggiornando il Patto del Nazareno. Nel frattempo, ieri è sparita la legge anti corruzione dal calendario di Palazzo Madama. Coincidenze? Fatto sta che la riforma del Senato sarebbe pronta ad essere approvata con i voti di Forza Italia. Voti necessari, anche perché sul sì dei 14 senatori Dem ex auto-sospesi in realtà nessuno è disposto a scommettere. Ieri la conferenza dei Capigruppo ha calendarizzato l’inizio dell’iter della riforma in Aula per il 3 luglio. Senza prendere in considerazione l’anticorruzione. Quando si discuterà? Nessuno lo sa. Un paio di settimane fa in Commissione Giustizia era apparso il Guardasigilli, Andrea Orlando, per chiedere una sospensione del ddl in questione. Motivazione: il governo sta preparando un suo testo, che dovrebbe essere varato nel Cdm del 27 luglio. Che magari sarebbe stato inserito nell’iter parlamentare già previsto. E allora, cosa è successo? Da via Arenula fanno sapere che il governo non ha ancora deciso come procedere. Negli scorsi giorni, deputati molto vicini a Renzi avevano anche parlato della possibilità di portare il testo alla Camera, dove i numeri della maggioranza sono migliori. “Siamo fermi - spiega Loredana De Petris, capogruppo di Sel a Palazzo Madama- in attesa di un provvedimento del governo che neanche loro sanno più se è un ddl o un decreto”.
Intanto, la legge rischia di slittare a dopo l’estate. E questo alimenta sospetti di scambi sulla giustizia, che quando si parla di Berlusconi sono sempre all’ordine del giorno. La voce più forte che circolava in questi giorni a Palazzo Madama insisteva sulla richiesta arrivata da B. sul falso in bilancio: l’accertamento parte solo su querela di parte, prossimamente dovrebbe diventare automatico. Una cosa che l’ex Cavaliere proprio non vuole. Cosa ci sarà o non ci sarà dentro la legge lo scopriremo nei prossimi giorni, di certo la coincidenza dei tempi è sospetta.
NEL FRATTEMPO, si lavora a chiudere sui contenuti della riforma del Senato. Ieri Berlusconi ha ritirato fuori l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Stoppato subito da Renzi: “Siamo a un passo dalla chiusura, inutile infilarci in un dibattito sul presidenzialismo”, è stato il ragionamento fatto dal presidente del Consiglio con i suoi fedelissimi. B. non si è scomposto più di tanto. Si tratta, poi, sulla modalità di elezione del Senato: l’intesa ancora non c'è. Il ddl del governo dà troppo spazio ai sindaci (che in questo momento sono quasi tutti di sinistra). L’intesa a cui si lavora è che ciascuna Regione abbia un numero si senatori proporzionato al numero di abitanti (e non un numero uguale per tutti come dice il ddl del Governo). Inoltre i sindaci non sarebbero più la metà, ma un terzo o anche un quarto. Resta da definire la platea degli elettori: se fossero i consigli regionali il centrosinistra sarebbe ancora maggioritario, mentre Fi chiede una “proporzionalizzazione” sui voti dei cittadini per le elezione dei Consigli e non sul numero dei consiglieri. “A nessuno interessa davvero il merito della questione - spiegava in questi giorni un senatore molto dentro la questione - il punto è politico”.
E che politicamente si sia praticamente sciolto, lo dice anche un segnale in Giunta del Regolamento: Mauro aveva presentato un ricorso contro la sua esclusione dalla Commissione Affari costituzionali. Azzurri e Carroccio ieri non hanno sostenuto il suo ricorso. E questo dice dentro l’accordo c’è pure la Lega: non a caso con la Finocchiaro a emendamenti condivisi sta lavorando Calderoli.

l’Unità 19.6.14
Cantone: «Tangenti? Via l’appalto»
Il presidente dell’Anticorruzione favorevole al ritorno della legge sul falso in bilancio
L’ipotesi di estrarre a sorte i membri delle commissioni che decidono l’assegnazione dei lavori


Prima audizione in Parlamento per Raffaele Cantone, nominato la scorsa settimana dal governo presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. Il magistrato ha parlato ai membri della commissione Ambiente della Camera e si è dilungato sulla revisione della normativa degli appalti pubblici, sottolineando in particolare che quando si tratta di società private con capitale interamente pubblico, lo standard di trasparenza dovrebbe essere pari a quello di un singolo comune, di una regione, di un ente locale. Il presidente dell’Anac si è detto anche favorevole al ritorno di una norma sul falso in bilancio e ha messo sul piatto l’ipotesi di estrarre a sorte i componenti delle commissioni di gara per gli appalti pubblici «per evitare accordi». Un'’altra osservazione fatta nel corso dell’audizione alla commissione parlamentare è che se nel contratto di un appalto ci fosse scritto che chi paga le tangenti perde l’appalto stesso la realtà sarebbe ben diversa dall’attuale: «Se chi paga le tangenti per l'appalto lo perde e questo fosse stabilito nel contratto, non ci sarebbe più il problema».
Ha detto Cantone parlando ai deputati della commissione Ambiente: «Sono favorevole al ritorno di una norma sul falso in bilancio che abbia un senso », così come serve una norma «autoriciclaggio » che però «non è una norma salvifica». Occorre poi «intervenire sui termini di prescrizione» perché nei reati contro la pubblica amministrazione, con le ultime leggi, «sono stati abbattuti».
Il presidente dell’Autorità anticorruzione ha sottolineato che la scelta dei componenti delle commissioni di gara per l’assegnazione degli appalti pubblici è uno degli aspetti più complicati da affrontare. E tra le possibili soluzioni, Cantone ha proposto quella di estrarre a sorte i componenti al fine di impedire «accordi» tra i soggetti che potrebbero essere coinvolti nell’operazione.
Cantone si è detto convinto che «dovrebbe essere specificato nel contratto che ci vince l’appalto pagando tangenti perde l’appalto stesso». Quanto alla chiusura degli osservatori regionali sugli appalti, Cantone dice: «Avrebbero dovuto implementare la banca dati che è uno strumento fondamentale, main alcuni casi sono funzionati in modo non corretto.
Ha infine annunciato il magistrato che dalla scorsa settimana è stato investito dal governo di poteri speciali per contrastare la corruzione: «Nei prossimi giorni pubblicheremo un rapporto su Infrastrutture lombarde sul nostro sito».

il Fatto 19.6.14
I milioni di Matteo alla Firenze di Pitti


L’annuncio lo aveva già fatto il sottosegretario Calenda nel maggio scorso. Il governo Renzi ha deciso di stanziare 2 milioni di euro per Pitti Immagine Uomo, la kermesse che anche in questi giorni è di scena a Firenze. Sul Corriere Fiorentino si accenna che Pitti si candida “a diventare il maggior centro d’Italia per il mercato, lasciando a Milano il primato del glam”. Lo fa tenendosi stretti i “buyer” che arrivano da mezzo mondo per conto proprio o delle aziende di moda per cui lavorano. “Molti di loro, i più importanti, sono arrivati qui, ospiti di Pitti, in forza del finanziamento straordinario” arrivato da Renzi. Forse non sapeva che ieri, da Pitti, era ospite Piero Pelù.

il Fatto 19.6.14
Mazzette sulle chiese: un “corvo” avvertì Bertone
Interessi poco chiari all’interno della Chiesa
di Antonio Massari


Mentre le indagini puntano al “livello romano”, e viene indagato anche Fabrizio Magani ex direttore regionale del Mibac, si scopre che un prete scrisse al Vaticano, annunciando lo scandalo-ricostruzione. Era il 2012 e un prete aveva già capito che a L’Aquila, sugli appalti delle chiese distrutte dal terremoto, s’erano accesi molti appetiti: era anche convinto che si consumassero truffe e si elargissero mazzette.
Il prete si trasformò così in “corvo”, e scrisse un esposto anonimo, convinto che anche all'interno della curia, tra i sacerdoti, qualcuno brigasse con gli imprenditori per scopi personali. Annunciava uno scandalo all’interno della Chiesa, il prete – corvo, e pensò di spedire l’esposto anonimo al comando generale dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, alla procura aquilana e – soprattutto – di informare un importante carica del Vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone, anch’egli tra i destinatari dell’anonimo. Il misterioso sacerdote, tra gli uomini indicati nell’esposto, menzionava l'imprenditore Graziano Rosone, imprenditore arrestato – con l'accusa di millantato credito – due giorni fa dalla procura aquilana. Al di là dell'episodio di millantato credito, che nulla c’entra con la ricostruzione, Rosone era interessato alla ricostruzione della parrocchia di San Marco. Ed era frequentemente in contatto con Luciano Marchetti e Alessandra Mancinelli - ex vice commissario alla ricostruzione e funzionaria del Mibac - arrestati, sempre due giorni fa, con l’accusa di aver intascato mazzette per pilotare la ricostruzione delle chiese aquilane.
LA MATASSA dipanata dalla Procura de L’Aquila, con le indagini condotte da Squadra Mobile e Guardia di Finanza, è fitta e complessa. Un fatto però – nel leggere l’ordinanza d'arresto, richiesta dai pm David Mancini e Antonietta Picardi, coordinati dal procuratore Fausto Cardella – sembra chiaro: Marchetti e Mancinelli incassarono 10mila euro, l’uno per cento d’una tangente da 190 mila euro, legata alla ricostruzione della chiesa di Santa Maria in Paganica. I due puntavano tutto su una norma, da inserire in un decreto firmato dall'ex premier Enrico Letta, che rendesse la curia aquilana il “soggetto attuatore” per la ricostruzione delle chiese. Interessarono il “livello romano”, una sorta di “cerchio magico” vicino a Enrico Letta, composto da Antonello Antonellis e Amedeo Piva. “La Mancinelli – dice Antonellis a il Fatto Quotidiano – mi contattò perché sapeva che ero molto amico di Letta, mi chiese quale fosse la strada più facile per ottenere quell'emendamento, ma alla fine, con l’ex premier, io non ne parlai. Non ne ebbi l'occasione”.
L’EMENDAMENTO rimase una bozza e non fu mai attuato. Intercettato con Mancinelli, però, Antonellis spiega che, per agevolare l'iter, era necessario convincere il premier che la richiesta arrivava dalla Cei. E in effetti la curia aquilana, per spingere il decreto, spedì una lettera a Gianni ed Enrico Letta. Dice Antonellis nell'intercettazione: “Mercoledì alle tre vedo il premier e Ferrara che è il Vice Segretario Generale di Palazzo Chigi, è quello che fa la legge... lo vedo insieme ad Amedeo (Piva, ndr) ... facciamo vedere che... una cosa che viene proprio dal Vaticano e che non è una questione politica. Ad Enrico gli diciamo che questa cosa è venuta direttamente dalla Cei... Se la fai uscire dalla Conferenza Episcopale... ha maggior forza! ... gli facciamo avere il testo in modo tale che mercoledì, quando andiamo da... non tanto da Letta, da Ferrara che è il Vice Segretario Generale... gli dà la legge. ... Amedeo (Piva, ndr) ce lo porto io.... perché … tu hai capito che è l'uomo del Vaticano Piva... È lui che presenta... come dire... quella massoneria cattolica... che comanda... anche se qualche ministro vuole fare lo stronzo, quando gli dice che viene dalla Cei... non può dire nulla! Chiaro?”. Talmente chiaro che, di lì a poco, Monsignor D'ercole e i vescovi aquilani firmano la lettera indirizzata a Gianni ed Enrico Letta. “Non potevo immaginare – dice al Fatto Monsignor D’Ercole – che Mancinelli e Marchetti fossero implicati in una storia di tangenti e, comunque, la curia chiedeva di diventare soggetto attuatore della ricostruzione, sì, ma non di gestirne il denaro”.

il Fatto 19.6.14
Scandali e mazzette
La Chiesa al gran ballo della corruzione italiana
di Marco Politi


Si potrebbe già pubblicare un libro con gli interventi di Francesco contro la “dea tangente”, i ladrocini e il “pane sporco” della corruzione. Due giorni fa è stato del tutto esplicito, elencando le tribù dei corrotti: “Il corrotto politico, il corrotto affarista, il corrotto ecclesiastico”. Tutti e tre fanno male ai cittadini innocenti, “perché sono i poveri che pagano la festa dei corrotti!. Il conto va a loro”. Per essere ancora più chiaro si è riferito a quanto “leggiamo sui giornali... questo è corrotto, quest’altro ha fatto un atto di corruzione... e la tangente va di qua e di là... e anche tante cose di alcuni prelati”.
Le sue parole si scontrano però con grandi silenzi. Voce che grida nel deserto, è l’impressione. Perché mentre la gente capisce benissimo e ritiene papa Francesco “pazzescamente positivo” (l’espressione è rubata a un pellegrino in piazza San Pietro), non pare che dalla struttura ecclesiastica intorno a lui vengano grandi incoraggiamenti ad andare avanti su questa strada e meno che mai si coglie una mobilitazione per fare pulizia in tante realtà locali, dove il “sistema Mose” si annida nei mille progetti pubblici, che non hanno notorietà nazionale, ma che per gli infiniti sperperi di favore finisco per pesare sulla collettività nazionale. “Paga Pantalone”, di diceva una volta. E Pantalone sono i cittadini che pagano le tasse, perché notoriamente gli evasori non hanno di questi problemi.
“Corriamo il rischio – affermava recentemente il vescovo Giancarlo Bregantini in una sede associativa cattolica, parlando in generale – di una Chiesa che ammira papa Francesco e non lo imita”.
E invece i risvolti, che toccano ambienti ecclesiastici nell’esplodere a ripetizione degli scandali, dovrebbero far riflettere la Chiesa italiana. In molti suoi settori si è infiltrata da anni l’idea che lo Stato sia una vacca da mungere senza andare tanto per il sottile. O, nel migliore dei casi, che sia giusto accaparrarsi soldi pubblici “a fin di bene”.
Si prenda il caso di Venezia. Perché il Patriarcato – come viene riferito dalle indagini – accetta soldi dal Consorzio Venezia Nuova per il suo centro studi Marcianum? Dice il cardinale Scola in un comunicato ufficiale che tutto è trasparente ed è stato messo in bilancio e utilizzato nella maniera più rigorosa per le finalità della Fondazione Marcianum. Non c’è da dubitarne. E si può aggiungere che il Marcianum è un’ottima istituzione di studi superiori.
Ma il punto è un altro. Il Consorzio Venezia Nuova non è un’impresa privata e neanche un ente di stato che fa profitti (come l’Eni, per dire) e che quindi può permettersi di fare beneficenza. Il Consorzio Venezia Nuova era ed è una società che opera con soldi pubblici con un unico obiettivo legittimo: fare le dighe del sistema Mose. È evidente che se si mette a distribuire finanziamenti “benefici” di qua e di là, le finalità sono fuori dai binari e hanno lo scopo di creare “consenso” per fini molto privati e poco nobili.
E QUI CHE UNA CHIESA, che voglia assorbire la lezione di Francesco e imitarlo concretamente, deve saper opporre argine da subito a “doni” che puzzano. Meno che mai sollecitarli direttamente o implicitamente. Larghi settori della Chiesa italiana si sono invece abituati a scambi di favori con il mondo politico e con gli “impresari” di progetti finanziati dallo stato e ritengono normale allacciarsi al rubinetto dei denari pubblici in un modo o nell’altro. A livelli alti o a livelli minimi.
Di questo peccato di “mondanità” si trovano le tracce anche nelle storie opache dell’Aquila. Convince poco, pochissimo la posizione dell’allora vescovo ausiliare dell’Aquila, mons. Giovanni d’Ercole, che briga perché la ricostruzione del duomo aquilano colpito dal terremoto venga affidata direttamente all’autorità ecclesiastica come “soggetto attuatore”. Perché è evidente che se la Chiesa si fa imprenditore, si mette in moto tutto il giro degli appalti e si mobilita la cricca degli “amici degli amici”. Illuminante è la frase, che risulta dalle intercettazioni: “ Fa fatica però anche l’Arcivescovo ad accettare questa linea, perché lui ritiene che noi non siamo all’altezza di poter essere soggetti attuatori”.
Ecco, l’arcivescovo titolare della diocesi (mons. Petrocchi) pasticci di intreccio politico-affaristico chiaramente non ne voleva. È su questo crinale, che si gioca il riorientamento della Chiesa auspicato papa Francesco. La differenza tra chi si attiene alla dimensione religiosa e chi pensa di poter trafficare con il “mondo”.

il Fatto 19.6.14
Il libro
“Caso Orlandi, una centrale della pedofilia con 15 mila foto nel palazzo del Vaticano”
di Fabrizio Peronaci


Un enorme archivio di foto pedopornografiche, in un ufficio del Vaticano. Ne scrive “Il Ganglio”, libro di Fabrizio Peronaci edito da Fandango, che racconta di un gruppo di potere dietro il sequestro di Mirella Gregori ed Emanuela Orlandi, nel 1983. Il testo è imperniato sul memoriale di Marco Fassoni Accetti, fotografo e superteste, che sostiene di essere il telefonista del gruppo che rapì la Orlandi. Di seguito, un estratto dal libro.
Ma che genere di filmato realizzò il creativo Marco Fassoni Accetti? (...) “Il video mostra la Gregori minacciata da un’arma calibro 357”. Dunque alla povera Mirella non fu risparmiato neanche questo, simulare la propria morte. Va notato il calibro: 357, usuale rimando alla data di Fatima (13-5-17). Come andò esattamente? “La scena non era così drammatica. Si faceva vedere la pistola, poi la ragazza, la targa di Castel Porziano, in modo da rendere riconoscibile l’obiettivo. Alla fine c’era lo sparo, sì, ma fuori campo... Lasciando in sospeso se fosse o no ferale.” E Mirella? Era spaventata? “Ma no, lo sapeva che era una finta.” La minaccia, in ogni caso, funzionò: il presidente Pertini, lo vedremo, a meta ottobre interverrà per la prima volta sul caso Gregori, con un’importante intervista. A suggello di quel settembre da incubo, giunse, il 24, l’ultima telefonata al bar. L’Amerikano elencò i vestiti di Mirella: maglieria Antonia, jeans, scarpe Saroyan... “Vuoi sapere degli abiti? A entrambe, ovviamente, chiedemmo di cambiarli, per non essere riconosciute. I vecchi, eccetto la biancheria, furono presi dalla tedesca e rimasero in possesso del nostro gruppo. Li collocammo in certi posti, come messaggi dalla valenza intimidatoria nei confronti di prelati avversi”. Marco Fassoni Accetti sta svelando qualcosa di grave, attenzione. La sfida si degradò al piu abietto dei ricatti , lasciare capi d’abbigliamento di Emanuela e Mirella in uffici di monsignori? Finora è emerso che il “ganglio” usò la pedofilia come arma di pressione, un monito ad alto potere di convincimento, certo, ma comunque differente dall’utilizzo doloso e criminale di corpi di reato (la maglietta, i pantaloni, la cintura delle ragazze scomparse) per annientare, con prove false e schiaccianti, i propri avversari (...) In questo viaggio scandito da eventi tragici e riprovevoli, di vizi ne abbiamo incrociati più d’uno (...) La lussuria ancora no, è stata solo agitata, evocata. Invece, in uno degli interrogatori... “Ricordo che un capo d’abbigliamento della Gregori fu nascosto nei locali della Pontificia commissione dei Migranti, ove vi era la segreteria del pro-presidente. Questa collocazione risale al 1985.” Ai magistrati ha fatto un nome che già conosciamo: monsignor Cheli, nunzio apostolico alle Nazioni Unite, esponente dell’osteggiata fazione opusiana, in quei mesi rientrato a Roma e incaricato di seguire le problematiche del nomadismo. Il prelato, morto all’età di 94 anni nel febbraio 2013, pochi giorni prima delle dimissioni di Benedetto XVI, che salutò in lui “lo zelante pastore fedele al Vangelo”, subì pesanti ricatti? Fu costretto a compromessi, o qualcosa di peggio, in conseguenza della spada posata dal “ganglio” sopra la sua testa? Non è tutto, purtroppo. “Ricordo altresì che un secondo capo d’abbigliamento della Gregori fu posto nell’edificio di via dell’Erba, dove aveva sede una organizzazione in passato presieduta dal cardinale Sergio Pignedoli e poi da monsignor Jadot. La collocazione in quell’ufficio ecclesiastico intendeva essere un monito” (...) La faccenda è scabrosa, spieghiamo bene. Marco Fassoni Accetti non produce prove, ma quanto dichiara finisce agli atti. Al termine dell’interrogatorio del 24 luglio 2013, quando oltre le imposte del Palazzo di giustizia è già sera, firma il verbale in calce a ogni pagina. Sta parlando di un palazzo vaticano a 300 metri da piazza San Pietro, in una traversa di via della Conciliazione, sulla destra provenendo da Castel Sant’Angelo. Qui, in via dell’Erba civico 1, aveva sede il Segretariato per i non cristiani, il cui nome è in seguito mutato in Pontificio consiglio per il Dialogo inter-religioso, a capo del quale lavorò fino alla morte il cardinale Pignedoli, figura di rilievo, sostenuto dall’ala progressista, papabile nel conclave che elesse Luciani. Nel 1980, in seguito al lutto improvviso, la presidenza passò a un altro prelato postconciliare, Jean Jadot, richiamato dagli Stati Uniti, dove, da nunzio apostolico, si era imposto come artefice della Chiesa pastorale sui temi della giustizia e del rispetto delle culture diverse, attirando a sé strali conservatori. Via dell’Erba 1... “In tali locali o comunque altri di spettanza del cardinale Pignedoli vi erano conservate numerose fotografie, circa 15 mila diapositive, che riprendevano ragazze e ragazzi, adolescenti e giovani. L’età andava dai 16 ai 30 anni. Qui inserimmo alcune diapositive della Orlandi e della Gregori”. La rivelazione è questa: esplode come una sventagliata. Marco Fassoni Accetti, dopo averci girato attorno, decide che è il caso di dirla tutta. Sta parlando di un archivio di migliaia di immagini la cui custodia e il cui utilizzo configurerebbero l’esistenza di una sorta di centrale pedopornografica a due passi da San Pietro. Il superteste se ne rende conto? Come conta di argomentare? I progressisti Pigne-doli e Jadot, il secondo morto nel 2009, a 99 anni, erano complici del traffico? Oppure – ricorrente doppia faccia, tipica in certe realtà – le immagini erano state artatamente poste in quelle “pertinenze” per incastrarli, per sconfiggere le forze favorevoli al rinnovamento in una Chiesa combattente sì, ma a senso unico, solo contro l’“impero del male” comunista? Le domande sulle presunte 15 mila foto di adolescenti stipate in armadi di proprietà ecclesiastica mettono ansia, spalancano dubbi. Ce n’è un’ultima, sul tema. “I vestiti della Gregori furono collocati in quattro sedi: due religiose, come ho messo a verbale, e due laiche”. Quali? “Non lo ricordo”.

L’imputato per l’assassinio di Yara era tutto casa e parrocchia
La Stampa 19.6.14
Il prete: “Pregate e non parlate”
E il paese intero difende Bossetti
Consegna del silenzio a Mapello. In strada: “Non è bello vengano fuori certe storie”
di Niccolò Zancan

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La Stampa 19.6.14
Yara tradita dalla cortesia del killer
Gli inquirenti: caduta in trappola perché lo conosceva poi lui l’ha uccisa con particolare crudeltà
di Paolo Colonnello

qui

La Stampa 18.6.14
Accoltella i passanti nel Milanese:
“Mi sono difeso, erano peccatori”

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il Fatto 19.6.14
La tradizione orale di Renzi: così l’Italia cambia verso
Solo promesse su lavoro, scuola, debiti della pubblica amministrazione
di Salvatore Cannavò


La tradizione orale di Matteo Renzi si riassume nella politica delle slide. Nella convinzione che il tempo, per chiunque governi, sia un nemico spietato, il premier fin dal suo insediamento ha puntato sempre sull’impatto degli annunci più che sulle norme esatte. Queste, del resto, devono passare per mille mediazioni parlamentari, hanno bisogno della materia scarsa, il tempo, e non danno gioia.
Meglio alludere, descrivere, tramandare ai posteri con la forza della parola. Certo, non tutto è “fuffa”. Proprio ieri, con il voto di fiducia della Camera, il decreto-immagine del governo Renzi, quello degli 80 euro, è stato approvato.
I DEBITI NON SI PAGANO
Ma, sempre ieri, l’Italia è stata colpita da una procedura di infrazione europea sui mancati pagamenti alle aziende da parte della Pubblica amministrazione. Una prova di come molti degli annunci fatti finora siano stati pensati più per riempire Twitter e schermi tv di disegni e grafici colorati (ricordate il pesciolino rosso?) che per “cambiare verso” all’Italia.
Con sprezzo del pericolo, lo scorso 7 marzo, a pochi giorni dall’insediamento del governo, Renzi dichiarava che “entro luglio paghiamo 68 miliardi” con lo “sblocco totale e immediato” dei crediti incagliati. Ieri, invece, la Ue ha sanzionato l’Italia proprio per il ritardo nei pagamenti.
Ma a smentire il premier basta il sito del ministero dell’Economia su cui è pubblicato l’aggiornamento dei pagamenti erogati: 23,5 miliardi. Si tratta, poi, di risorse stanziate dai governi Monti e Letta di cui, oralmente, Renzi si è abilmente appropriato.
IL LAVORO CHE VERRÀ
La tradizione orale la si rintraccia anche nel primo “manifesto” politico dell’ex sindaco di Firenze, quello del Jobs Act. Renzi può, certamente, rivendicare la conversione in legge in Parlamento del decreto-Poletti che deriva da quel provvedimento. Ma quel progetto, però, è stato spacchettato approvando di corsa la maggior flessibilità e relegando a una legge-delega il simbolo del Jobs Act, il contratto unico a tutele crescenti. La legge-delega, che a sua volta va tramutata in tanti decreti attuativi, non è stata ancora nemmeno presentata. I più ottimisti dicono che qualcosa si vedrà nel 2015. Per ora, accontentiamoci delle promesse.
Anche la riforma della Pubblica amministrazione, fino a ieri, era affidata alle parole. Anzi, ai “44 punti”, come i gatti, che il governo aveva redatto dopo l’immancabile “campagna di ascolto” (leggi, ricezione di 40 mila mail dai cittadini). Renzi è anche riuscito a convocare una conferenza stampa, la sera del 13 giugno, per illustrare la riforma senza che il testo fosse pronto. Ma anche in questo caso è andato in scena il “trucco” dello spacchettamento. Subito, nel decreto, le misure più appariscenti – dimezzamento dei permessi sindacali, maggiore flessibilità per annunciare 15 mila posti ai giovani, etc. – mentre le misure “oggetto della consultazione pubblica” sono finite in un disegno di legge-delega da realizzare “nei dodici mesi successivi all’approvazione della legge”. Probabilmente a legislatura finita.
SCUOLE CERCANSI
Altro tema, altro giro di giostra: la scuola. Il premier aveva annunciato 3,5 miliardi di risorse per 10 mila scuole d’Italia con “2 milioni di studenti più sicuri”. Così, pochi giorni dopo essersi insediato a Palazzo Chigi, ha scritto a tutti i sindaci per farsi inviare lo stato della situazione. Solo la settimana scorsa, però, Renzi “ha informato il Consiglio dei ministri” di aver firmato un Dpcm che individua i Comuni esclusi dal Patto di stabilità interno, per gli anni 2014 e 2015, per le spese destinate a edilizia scolastica.
I fondi utilizzati al momento, quindi, sono degli enti locali. Ai quali il governo aggiunge 300 milioni ma solo “per finanziare interventi agevolati”. Poi c’è il progetto “scuole belle” con 450 milioni destinati a piccola manutenzione in 17.959 plessi scolastici. Altri 400 milioni, infine, sono destinati a “scuole sicure”. Con quali soldi? I fondi, secondo il sottosegretario Reggi, provengono dalla riprogrammazione del Fondo coesione 2007-2013 con interventi tra il 2014 e il 2020 compresi tra i 2,4 e 4 miliardi di euro. Sembra il gioco delle tre carte e onestamente è difficile capire se, come e quando i soldi arriveranno alle scuole.
IL SENATO CHE NON C'È
Altro simbolo della “rivoluzione” renziana è la legge elettorale e la riforma del Senato. Su questo punto, alle intenzioni sono seguiti i fatti: l’incontro con Berlusconi, la legge elettorale approvata l’Italicum alla Camera, la spinta per riformare il Senato con lo scontro interno al Pd. Ma, a quattro mesi dalla formazione del governo, nessuno sa cosa davvero sia la riforma, cosa diventerà l’Italicum e cosa c’è dentro la riforma del Senato, moderna tela di Penelope scritta di giorno e cancellata di notte.
Approvata dal Parlamento, invece, la delega fiscale, redatta dai governi precedenti, servirà al ministro Padoan per preparare i decreti attuativi, le riforme concrete. Renzi parla, e annuncia, dichiarazioni dei redditi pre-compilate, “scontrini telematici” e “fatture elettroniche”. Visioni di un’Italia immaginaria buona per le slide e per vincere le elezioni. Parole che, spesso, restano scritte sull’acqua.

il Fatto 19.6.14
Madia la riformista e il maestro Bassanini
Dopo l’ennesimo richiamo europeo per l’inefficenza della PA il Quirinale attende per oggi il decreto


Il decreto per riformare la Pubblica amministrazione è ormai cosa fatta: il Quirinale attende per oggi il testo approvato dal governo, seguirà pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e immediato vigore di legge.
Il decreto non risulta rivoluzionario, ma sarà un buon test per il Renzi-power: mettere le mani intorno ai colletti bianchi è sempre un’operazione delicata, e i sindacati hanno già espresso un verdetto negativo. Eppure un passaggio radente sul tema gigantesco del pubblico impiego e delle esauste casse statali andava rischiato. Anche stavolta, il premier cammina sul filo dei cambiamenti che piacciono molto e costano – relativamente – poco: ricambio generazionale, dirigenti a tempo, limiti alle funzioni extra dei magistrati, tagli agli sprechi e ai privilegi di casta.
IL MINISTRO competente, Marianna Madia, ha scritto una lettera ai dipendenti pubblici elencando le 44 novità messe in cantiere, ma difficilmente il decreto potrà realizzarle tutte: come per altri decreti già licenziati, gli aspetti più complessi verranno messi da parte e affidati alle cure del Parlamento, però intanto la casella di giugno avrà la sua bella stellina nel calendario della rottamazione. Il tentativo insomma è di giocarsela al meglio davanti agli italiani stanchi di tasse, e all’Europa che ieri ha piazzato l’ennesimo bollo d’inaffidabilità sulla bandiera tricolore: se non cambia qualcosa entro due mesi, partirà la procedura d’infrazione contro l’Italia per il ritardo cronico dei pagamenti della Pa. Le aziende italiane aspettano 75 miliardi di euro dallo Stato, e vogliono capire se la promessa di saldare rapidamente il conto abbia un briciolo di credibilità. Per questo il decreto sulla Pa diventa più importante, oggi. Per questo tutti si chiedono fino a che punto il governo potrà spingersi senza spezzarsi.
Il ministro Madia ostenta serenità. C’è chi giura di averla vista in un locale di Prati, qualche sera fa, in festa con gli amici più cari, incluso l’ex compagno Giulio Napolitano, esperto di diritto pubblico. Un consulente speciale per la prima grande riforma di Marianna? I meglio informati indicano altre dinamiche, legate alla pura tattica renziana: il premier ha puntato tutto sul vice della Madia, Angelo Righetti, suo fedelissimo, e sui tecnici interni (da Palazzo Chigi al capo dell’ufficio legislativo alla Pa, Bernardo Mattarella, hanno lavorato tutti come pazzi negli ultimi giorni).
Ma un ausilio superiore c’è stato, un riscontro contabile di alto valore era indispensabile: Franco Bassanini, presidente della Cassa depositi e prestiti, ha seguito passo passo il decreto. “Raccomandazioni Ue: rientrano tutte nel programma di riforme di Renzi, spingono ad attuarlo senza indugio, aiutano a vincere veti e resistenze” twittava Bassanini il 2 giugno.
Aggiungendo il 13: “Riforma Renzi-Madia: molte coraggiose innovazioni + rilancio di buone riforme rimaste inapplicate. Pochi punti da correggere: lo farà il Parlamento”. E ancora, per incoraggiare direttamente la Madia: “Riforma Pa: Madia da Lilli Gruber, semplificazione + digitalizzazione, buona scelta di priorità” fino a esclamare un sonante “Forza Matteo!”. Così i conti sulla riforma tornano meglio: è la Cdp a garantire i pagamenti della Pa.

Corriere 19.6.14
Effetto Pd su Sel
Si dimette Migliore. Scissione vicina
di Monica Guerzoni


ROMA — Scappano. Lasciano Sinistra Ecologia e Libertà e chiedono asilo a Matteo Renzi. E al leader di Sel, Nichi Vendola, non resta che parafrasare Susanna Tamaro: «Escono? Va’ dove ti porta il cuore...». La scissione a sinistra, nell’aria da settimane, è sempre più vicina e si annuncia corposa. Le dimissioni del capogruppo Gennaro Migliore hanno aperto le dighe alla Camera e, anche al Senato, l’esile maggioranza numerica del governo potrebbe rafforzarsi con qualche nuovo arrivo: per ora si parla di un senatore e di una mezza dozzina di deputati. Il Pd non sembra attendere i fuggiaschi a braccia spalancate. Anzi, a Montecitorio ieri qualche democratico ridacchiava, considerando che la riforma costituzionale ridurrà di molto gli spazi per le candidature. «Il percorso di avvicinamento tra Sel e Pd è maturo — prende tempo Pier Luigi Bersani — Mi auguro che avvenga in modo ordinato e che si rispetti l’autonomia di entrambi i partiti».
La frattura appare insanabile. Vendola ha convocato d’urgenza la segreteria all’ora di pranzo di oggi, ma per ricucire lo strappo ci vorrebbe un miracolo. A spaccare il partito nato nel 2009 dalla scissione di Rifondazione comunista sono stati gli 80 euro del decreto Irpef. Dopo un dilaniante dibattito, due giorni fa, la maggioranza ha deciso di seguire Migliore e di votare, ieri, a favore del provvedimento. Martedì sera il confronto era finito sul filo, 17 per il sì (con il capogruppo) e 15 per l’astensione (con il presidente Vendola). Spaccatura profonda, che ha spinto il presidente dei deputati a presentare le dimissioni in contrasto con il coordinatore della segreteria Nicola Fratoianni, che spingeva per l’astensione. Ieri il colpo di scena. Nel pomeriggio Vendola convoca il gruppo parlamentare e gioca l’ultima carta per contenere la diaspora: «Migliore non è stato in grado di trovare una sintesi, di tessere una tela per salvaguardare la nostra comunità... Le sue dimissioni sono un gesto di grande onestà, responsabilità e correttezza e io le accolgo». L’assemblea finisce senza dibattito alcuno, Vendola riappare in Transatlantico e si sfoga con i cronisti. Assicura che non c’è stata alcuna «censura o repressione» nei confronti dell’ex capogruppo, conferma che Sel resta all’opposizione come ha deciso l’assemblea nazionale («non saremo mai renziani») e sferza i compagni che, dal suo punto di vista, sbagliano: «Correre in soccorso dei vincitori non è proprio una cosa innovativa. Capisco il fascino che esercita l’egemonia renzista sull’Italia, perché è una narrazione forte e vincente... Ma resto critico e penso di essere immunizzato dal virus del conformismo».
Il punto politico, per Vendola, è che la linea la decide il congresso e il gruppo parlamentare non può cambiarla in corsa. Sta di fatto che la mediazione proposta dal presidente della Puglia per bocca di Fratoianni, cioè astenersi in Aula sugli 80 euro, è fallita. Alla fine tutti hanno votato a favore, tranne Giulio Marcon e Giorgio Airaudo, che si sono astenuti in segno di dissenso.
Il tema adesso è quanti parlamentari lasceranno Sel per entrare nel Pd, dopo il passaggio di Ferdinando Aiello e Michele Ragosta. Sabato è in agenda l’Assemblea nazionale e lì si faranno i giochi. Vendola rischia grosso e ironizza: «Non credo che Renzi stia facendo dello scouting su Sel. E comunque, non credo gli convenga». L’attenzione dei renziani è puntata su Palazzo Madama, dove però Loredana De Petris giura che colleghi in uscita non ce ne sono: «E comunque, perché Migliore e gli altri non hanno formalizzato l’avvicinamento al governo nell’assemblea nazionale di sabato scorso? Dovevano metterci la faccia invece di usare surrettiziamente la questione degli 80 euro».

Repubblica 19.6.14
Dimissioni accettate del capogruppo Migliore Vendola: “Non ci sarà una Opa di Renzi”
Sel vota gli 80 euro ma si spacca scissione in vista
di Tommaso Ciriaco



ROMA. Sel si spacca. E lo fa nel modo più fragoroso e doloroso possibile, lacerandosi sul decreto Irpef. Una conta interna sancisce il sostegno agli ottanta euro di Matteo Renzi e in Aula il gruppo tiene, ma un minuto dopo incomincia il redde rationem. Il prezzo pagato è altissimo: Nichi Vendola accetta le dimissioni da capogruppo di Gennaro Migliore, il solco tra le due anime si allarga ancora. Con la formazione di sinistra a un passo dal precipizio, solo un miracolo potrà evitare nuove singole defezioni, o peggio, una consistente scissione. Quando va in frantumi una storia, la cornice è un mix di grida e silenzi. Come la fotografia del Transatlantico, teatro per l’intero pomeriggio di mille capannelli e altrettanti duelli. L’ala dialogante - che punta a un progressivo avvicinamento al Pd - prova a difendere la linea politica. Vendola, però, stavolta non media. La riunione di gruppo trasformata in corrida ha lasciato il segno, per questo accetta il passo indietro di Migliore. E rilancia: «La differenza tra essere renziani e non renziani è quella che passa tra combattere ed arrendersi. Sel, nonostante il fascino dei vincitori, non può dichiararsi filo-renziana».
Il momento di massima frizione risale a qualche ora prima. Migliore riunisce i deputati e propone di votare per il dl del governo. L’aria è tesissima, con un sms Vendola chiede al capogruppo e a Nicola Fratoianni di favorire la mediazione, spendendosi per l’astensione in Aula. Il presidente dei deputati rimette il mandato, vuole combattere la battaglia fino in fondo. Tutti, pure Fratoianni, gli chiedono di ripensarci. Con uno scrutinio al fotofinish (17 o 18 sì, 15 no e un’astensione) prevale la linea “migliorista”. È il caos.
La linea del gruppo, ormai, non ricalca quella del partito. Vendola non lo nega, anzi a porte chiuse è durissimo: «Non possiamo far sequestrare la linea politica a un gruppo parlamentare, non potete disporre a piacimento del mandato di una comunità - quasi urla - e trovo inaccettabile fare battaglia politica sui giornali». Il nodo, secondo il leader, è lo «scivolamento » progressivo nell’area di governo.
Le “colombe” non ci stanno. Sottovoce c’è chi traccia paralleli sproporzionati, evocando il Pcus o addirittura lo stalinismo. A registratori accesi i toni sono comunque duri: «Accettare le dimissioni non è stato un buon passo verso la ricomposizione - si lamenta Fabio Lavagno - noi abbiamo solo discusso nel merito e scelto democraticamente». Ragionamenti simili a quelli di Alessandro Zan e Ileana Piazzoni: «Siamo tutti attoniti, dobbiamo capire se è garantita al gruppo la libertà di esprimersi». Di di- verso avviso Massimiliano Smeriglio: «È stato meglio così, non potevamo morire di eutanasia... ».
Oggi inizia la “fase due”. Toccherà alla segreteria nazionale indicare un nuovo capogruppo - c’è già chi fa il nome di due “non allineati” come Arturo Scotto e Celeste Costantino - anche se tutti gli scenari restano aperti. Anche un clamoroso reincarico a Migliore, a patto che rispetti la linea del partito. «Nella chiarezza si può ripartire perfino con il ritorno di Gennaro », sostiene Fratoianni. I malumori, però, attraversano i dialoganti. Ormai non escludono nulla, neanche una scissione che traghetti un gruppetto di 10-12 deputati nel Misto, primo passo verso il Pd. Vendola non si scompone, comunque: «A tutti dico “va dove ti porta il cuore”, ma spero che la comunità rimanga il più possibile integra». Intanto si confronta per un’ora con Gianni Cuperlo e saluta le parole di Pierluigi Bersani, quando dice: «Un percorso di avvicinamento tra Sel e Pd è maturo, spero solo che avvenga in modo ordinato».

l’Unità 19.6.14
Sì al decreto Irpef. Sel si spacca
Guerra nel partito sul dialogo col Pd. Il capogruppo Migliore si è dimesso
Vendola: «Sequestro di linea politica, noi restiamo opposizione. Non siamo renziani»


Il decreto Irpef ottiene il via libera definitivo alla Camera anche con i voti di Sel: 322 sì, 149 no, 9 astenuti e una bufera nel partito di Vendola. Il capogruppo a Montecitorio, Gennaro Migliore, si dimette. Vendola convoca la segreteria: Sel non è renziana.
A sorpresa, è anche con i voti di Sel che il decreto Irpef ottiene il via libera definitivo alla Camera. Il bilancio finale conta 322 sì, 149 no, 9 astenuti e una bufera dentro il partito di Vendola che esplode con violenza insieme al voto di ieri pomeriggio. Il capogruppo di Sinistra ecologia e libertà a Montecitorio, Gennaro Migliore arriva a dimettersi per poter votare «sì» sul provvedimento del governo, contro l’indicazione di astenersi, arrivata la sera prima del voto attraverso un sms di Vendola.
Sul dialogo col Pd, di cui proprio Migliore è convinto fautore, Sel è spaccata. Il voto sul decreto è andato ma subito dopo Nichi Vendola incontra i suoi e convoca per oggi la segreteria: invita tutti a una «riflessione» da svolgere nei prossimi giorni perché «è evidente che così non funziona», a breve ci sarà anche una direzione del partito. E intanto infoltisce le dichiarazioni che, immediatamente dopo il sì al testo del governo, puntano ad allontanare qualsiasi prospettiva di avvicinamento al Pd.
«Sel non è renziana», ripete il leader del partito, che accetta le dimissioni di Migliore come un gesto di «responsabilità «, «noi dobbiamo continuare a spronare il governo sulla strada della redistribuzione della ricchezza e della equità sociale», ma restando all’opposizione. E ora va «chiarito il rapporto tra gruppo e partito», perché il «pluralismo non può trasformarsi nel sequestro di una linea politica».
Tanto per essere ancora più chiari, «io non credo che Renzi sia la sinistra e tanto meno che esaurisca il campo della sinistra in Italia», aggiunge parlando con i giornalisti Vendola che - nel mezzo di una piccola diaspora, col passaggio al Pd di Michele Ragosta e Ferdinando Aiello - a chi gli chiede se ritiene che Renzi abbia fatto scouting dentro Sel, avverte: «Non credo che gli convenga ».
Alle spalle della difficile giornata di ieri, una notte scontro durissimo tra i deputati di Sel, fra i quali alla fine era prevalsa la decisione di votare a favore del decreto Irpef, nonostante il messaggino di Vendola, arrivato in nottata, che chiedeva l’astensione e la posizione contraria del coordinatore Nicola Fratoianni. In piccolo, e con numeri invertiti, una contrapposizione che rispecchiava lo scontro registrato giusto sabato scorso all’assemblea nazionale di Sel, dove il partito aveva confermato a larga maggioranza di voler restare all’opposizione del governo, lasciando più che interdetto il pezzetto del partito capitanato da Migliore, che aveva dichiarato di volersi esprimere a favore del decreto Irpef.
Un «sequestro», come lo chiama Vendola, o una decisione presa a maggioranza, che arriva fino in aula alla Camera, dove a esprimere la posizione del gruppo è Titti Di Salvo, che durante le dichiarazioni di voto parla degli 80 euro come di «una scelta che va nella direzione giusta», tanto che «sarebbe stata una linea politica di centrosinistra, ma questo non è un governo di centrosinistra ma di larghe intese. Lo si vede dal Lavoro. Per questo abbiamo votato contro la fiducia al governo Renzi e fatto ostruzionismo sul decreto Lavoro », rivendica, avvertendo però che il «sì» al decreto Irpef «non consentiamo a nessuno di leggerlo in modo diverso » dal merito. Poco dopo, sui 17 deputati di Sel in 15 si esprimono a favore del decreto e due, Airaudo e Marcon, si astengono. «Quasi la metà del gruppo non ha condiviso la scelta di votare a favore del provvedimento - spiega in aula Marcon - che contiene tagli ai servizi pubblici, al welfare e agli enti locali. Noi siamo all’opposizione del governo, nessuno si sogni di usare questo decreto per rimettere in discussione questo orientamento».
Con lo strappo del gruppo ormai consumato, attraverso le agenzie di stampa, Vendola segna di nuovo gli argini: niente di strano se c’è una convergenza su singoli provvedimenti, ma «noi restiamo all’opposizione», «a un sì al dl Irpef che sia uno scivolo per progressivamente avvicinarsi all’area di governo io dico no», e ancora, Sel «dovrebbe praticare un’opposizione costruttiva e lavorare per far saltare la gabbia delle maggioranza di piccole e grandi intese», «essere catturati nel cono d’ombra del governo non è il destino di Sel».
A margine di un appuntamento pubblico, l’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani commenta fiducioso: «Credo che un percorso di avvicinamento tra Sel e Pd sia maturo, mi auguro solo che che si rispetti la storia e l’autonomia di entrambi i partiti».
I 17 deputati protagonisti dello strappo, nel frattempo, sconvocano una loro riunione, in attesa della segreteria di oggi e con l’intenzione di cercare un dialogo «civile». Una separazione consensuale è lo scenario sui cui scommette la maggioranza dei parlamentari di Sel. Troppo distanti le linee politiche, misurate in termini di distanza-vicinanza dalla galassia Pd. Ma in quanti potrebbero seguire Migliore? Vendola in serata twitta il suo appello: «Spero naturalmente Sel rimanga più possibile integra, ma dico a chi è andato via che andare in soccorso vincitori non è proprio innovazione».

il Fatto 19.6.14
Sinistrati
Sugli 80 euro Sel si spacca e Vendola “dimissiona” il capogruppo Migliore
di Sa. Can.


La forza magnetica del governo Renzi continua a mietere vittime tra le forze politiche. Ieri è toccato a Sel, il partito di Nichi Vendola, in preda a una crisi interna che ha portato alle “dimissioni” del capogruppo alla Camera, Gennaro Migliore, in realtà “dimissionato”. Oggetto dello scontro: i mitici 80 euro approvati definitivamente a Montecitorio con il voto di fiducia al decreto Irpef su cui, pur votando a favore, Sel si è spaccata.
LA DIVISIONE è andata in onda l’altra notte, nella riunione di gruppo, che ha deliberato, 17 contro 15, a favore della misura renziana. Vendola ha chiesto di rispettare il voto facendo votare tutto il gruppo a favore del decreto (tranne le astensioni di Giorgio Airaudo e Giulio Mar-con) ma subito dopo ha dato il via alla crisi, “accettando” le dimissioni di Migliore. “Io mi ero dimesso – ha scritto il capogruppo uscente su Twitter – poiché in dissenso con proposta di astensione su #irpef (avanzata da Vendola, ndr) per votare liberamente sì. Oggi Vendola accetta dimissioni”. Chi ci ha parlato racconta di un Vendola furibondo per quanto avvenuto. Lui stesso ha dichiarato che “l’ex capogruppo ha avuto tra le mani una mancata ricomposizione dell’unità del gruppo”. La linea dell’astensione, secondo il presidente di Sel, poteva tenere uniti tutti. Ma, spiegano nel suo entourage, “si è scelta la prova di forza”. E invece, continua Vendola, “il luogo che ha il potere di decidere sulla linea politica di un partito è il Congresso e un gruppo parlamentare non può essere in alcun modo un impedimento a questa linea”. Da qui, la scelta di annunciare al gruppo, in modo “gelido e senza ipocrisie” che il partito “si riprendeva” l'incarico. “
Ora, la palla è nelle mani di Migliore che dovrà decidere se fare l’opposizione interna o se, come prevedono in molti, staccarsi per andare verso il Pd.
NEL PARTITO, che ha recentemente scelto di costruire la lista Tsipras, hanno visto con sospetto le interviste, a cadenza settimanale, con cui alcuni deputati di Sel hanno già lasciato il partito per andare nel Pd. La scelta del nuovo capogruppo sarà fatta entro lunedì e verrà decisa su indicazione della segreteria, che si riunisce oggi pomeriggio. “Potrebbe anche essere di nuovo Migliore” dicono in Sel ma “deve adeguarsi alla linea che abbiamo deliberato”.
Il capogruppo dimissionato si era pronunciato nei giorni scorsi per un’ipotesi di partito unico con il Pd e ormai confessa apertamente che il futuro della sinistra si gioca a stretto contatto con il mondo e l’elettorato democratico. Su questo punto, però, Vendola ribadisce: “Non saremo mai renziani, sarebbe una resa”. E sull’ipotesi di ulteriori abbandoni del partito risponde: “A tutti dico, ‘va dove ti porta il cuore’, andare in soccorso del vincitore non è proprio innovativo della politica”

l’Unità 19.6.14
Roberto Speranza
«Il Pd vuole il dialogo non alza muri a sinistra»
«Molti punti di contatto con Sel. Sulle riforme andiamo avanti, è la nostra missione storica Grillo? Non c’è da fidarsi né di lui né dei suoi modi»


«Prima di iniziare questa intervista c’è una cosa che voglio dire». Roberto Speranza, capogruppo Pd alla Camera, è chiuso nel suo ufficio, fra un po’ inizierà l’Ufficio di presidenza che voterà per l’ingresso nel gruppo Pd di due deputati ex Sel, Ferdinando Aiello e Michele Ragosta.
Prego, cosa vuole premettere?
«Vorrei esprimere la mia solidarietà a l’Unità. Beppe Grillo da una parte mostra di aver capito che stare sui tetti non basta e apre al dialogo, dall’altra è il solito Grillo che fa dichiarazioni scomposte e inaccettabili come quella che ha fatto su l’Unità. Stiamo parlando dello stesso Grillo che ha appena siglato il patto con Farage, leader inglese xenofobo e di estrema destra, dimostrando di essere un vero nemico della democrazia e della libertà quando afferma le cose gravissime che ha affermato oggi sui media».
Le chiedo come fate a fidarvi di Grillo, che ora vuole un’interlocuzione sulle riforme?
«Dobbiamo contare prima di tutto sulle nostre forze, sul Pd e i suoi alleati di governo e ragionare con chi dall’inizio ha detto sì al percorso delle riforme, cioè Forza Italia. Come facciamo a fidarci? Diciamo che un partito che per dodici mesi ha tenuto milioni di voti nel congelatore decida di aprire una finestra non può che essere un fatto positivo. Ma noi guarderemo con grande attenzione le carte perché è chiaro, almeno dal mio punto di vista, che di Grillo e dei suoi modi non c’è da fidarsi».
Un lungo vertice notturno a Palazzo Chigi ha messo il sigillo sulle riforme? Siamo davvero al rush finale, come dice il premier Matteo Renzi?
«Abbiamo fatto una discussione nel Pd, perché il premier dopo aver incontrato Napolitano ha ritenuto opportuno un confronto con i vertici del partito che stanno seguendo questa delicata fase. Abbiamo tutti riconfermato la nostra volontà di andare fino in fondo, cercando di mettere a punto alcuni passaggi sui quali era ancora aperta la discussione. È chiaro che il Parlamento è sovrano e quindi il testo dovrà passare al vaglio delle Camere, ma è altrettanto chiaro che noi come Pd ci arriveremo con una posizione forte e determinata: stavolta il percorso arriverà sicuramente alla meta».
Altrimenti si torna a votare? È questa la pistola fumante sul tavolo?
«Il Pd ha una missione storica: fare le riforme in questo Paese. Una missione che ci deriva, come ha detto Alfredo Reichlin, dal fatto che siamo un partito della Nazione, che siamo stati investiti di un carico di fiducia da parte di milioni di italiani che non possiamo deludere. Sta a noi rappresentare questa enorme sfida di sistema che ci è stata lanciata. Alla Camera abbiamo oltre il 40% di rappresentanza, assolutamente in sintonia con il dato elettorale uscito dalle elezioni europee, c’è un allineamento tra rappresentanza parlamentare e rappresentanza politica. Quindi, basta con i dibattiti astratti e i segnali interni tra partiti».
Lei dice: “si parte dai nostri alleati e da chi ha detto sì fin dall’inizio alle riforme”. Berlusconi ha appena rilanciato il presidenzialismo. Che cosa risponde alla proposta di Fi?
«L’impianto della riforma non prevede il presidenzialismo. Parlarne in questo momento significherebbe indebolire il percorso avviato. Ad oggi la riforma sta dentro l’impostazione che ci siamo dati. Continuiamo il confronto, già molto serrato, sulle basi già poste. Il presidenzialismo non è all’ordine del giorno».
Passiamo alla legge elettorale. Davvero ritiene possibile discutere del Democratellum proposto da Grillo?
«Noi abbiamo un modello, l’Italicum approvato dalla Camera che lo ha già migliorato in maniera sensibile e mi auguro che al Senato si faccia un ulteriore salto in avanti. La pretesa dei 5stelle di iniziare a discutere di un loro testo quando un ramo del Parlamento ha già approvato la riforma mi sembra davvero singolare e fuori luogo».
Non crede che lo stesso Berlusconi, dopo le elezioni europee, sia poco interessato ad un sistema elettorale che lo vedrebbe terzo in campo?
«Questo è tutto da vedere, sarei cauto a fare le classifiche. Noi per il momento siamo concentrati a portare a termine la riforma del Senato, dopodiché sono convinto che in Parlamento ci siano ancora margini significativi di miglioramento dell’Italicum, dalla rappresentanza di genere, alle quote di sbarramento fino al rapporto eletti-elettori ».
Come valuta quanto sta accadendo in queste ore in Sel? Ci sarà la diaspora verso il Pd?
«Ho molto rispetto per la loro discussione interna, l’ufficio di Presidenza ha dato il via libera all’adesione di due parlamentari che hanno chiesto di passare da Sel al Pd. La diaspora? Sel con la lista Tsipras alle elezioni europee ha superato la soglia del 4%, noi del Pd dobbiamo assolutamente mantenere il dialogo con questo partito, ci sono molti punti di contatto e non posso dimenticare che durante l’ultima campagna elettorale per le politiche eravamo nella stessa coalizione. Non si possono alzare muri solo perché in questa fase noi siamo al governo e loro all’opposizione ».
Domani e dopodomani Area riformista si riunisce a Massa Marittima. Quale è il segnale che mandate al partito?
«Di un Pd largo e plurale in cui ciascuno deve sentirsi protagonista e dare un contributo a questa sfida straordinaria che il Paese ci ha messo sulle spalle. C’è una grande voglia di discutere in questo partito e il nostro è uno spazio entro il quale è possibile farlo».

Formiche.net 18.6.14
Renzi, Vendola e le “anguille sul bancone” di Sel
di Fabrizia Argano

qui

l’Unità 19.6.14
Il Pd tra alleanze e vocazione maggioritaria
Giorgio Merlo


TRA I TANTI TASSELLI CHE COMPONGONO IL MOSAICO DI UN GRANDE PARTITO SVETTA ANCHE QUELLO DELLA COALIZIONE CHE METTE IN CAMPO PER GOVERNARE IL PAESE. E questo anche perché in Italia la politica è sempre coincisa con la «politica delle alleanze». E cioè, dall’immediato dopoguerra, quando la Dc di De Gasperi veleggiava stabilmente oltre il 40% dei consensi, si è sempre privilegiata la cultura delle alleanze nel costruire la coalizione di governo. Certo, i tempi cambiano e sarebbe fuorviante pensare che i processi storici semplicemente si ripetono. Ma è indubbio che alcune costanti storiche, politiche e culturali rimangono nel dna di ogni Paese e non si può prescinderne a piacimento.
Ecco perché il Pd, oggi, soprattutto dopo lo straordinario risultato ottenuto alle recenti elezioni europee, non può non affrontare questo tema con la dovuta attenzione. E cioè, come si può conciliare la tentazione - del tutto giustificata - della vocazione maggioritaria di veltroniana memoria con la necessaria e sempre consigliabile cultura delle alleanze? Perché un dato è certo: in Italia è sempre molto difficile governare da soli. La società, e quindi la politica, è talmente stratificata e pluralistica che la costruzione di una coalizione quasi si impone per poter governare con la dovuta tranquillità e responsabilità. Un compito a cui deve rispondere tanto il centrosinistra quanto il centrodestra. Un tema che non si pone invece un movimento antisistema come quello di Grillo e Casaleggio perché persegue l’obiettivo di sfasciare, appunto, l’intero quadro politico e pertanto vuol centrare questo traguardo in perfetta solitudine.
Ma per il Pd questo nodo politico va sciolto. Certo, governare «da soli» è molto meglio. Soprattutto se si ha un controllo quasi totale dei gruppi parlamentari. È ovvio che un programma di governo si persegue meglio quando viene meno la faticosa mediazione con altre forze politiche e altri movimenti. Ma è possibile centrare questo obiettivo tranquillamente e senza sconti? Siamo certi che il responso dell’elettorato è sempre massiccio e largamente maggioritario? Sono, queste, domande legittime perché soprattutto nell’attuale fase politica l’elettorato è molto mobile e i cambiamenti, anche repentini, sono all’ordine del giorno. Ma, oltre a questo dato contingente, c’è una ragione politica di fondo a cui la miglior cultura democratica si è sempre ispirata. E cioè, attraverso la cultura delle alleanze e la costruzione di una coalizione si garantisce anche quel necessario pluralismo che resta un punto costitutivo di ogni sistema politico democratico e partecipativo. Perché di questo, alla fine, si tratta. La coalizione, che non può ovviamente trasformarsi in una sorta di anarchia ingestibile e ingovernabile, garantisce anche e soprattutto quella rappresentatività sociale e culturale che continuano a essere indispensabili e necessarie anche in una stagione politica dominata dalla personalizzazione e dalla spettacolarizzazione. Certo, il tutto richiede fatica, pazienza, disponibilità alla mediazione e al confronto democratico continuo. Mala democrazia, piaccia o non piaccia, ruota proprio attorno a questi presupposti. È l’antica e sempre moderna lezione morotea che respinge l’arroccamento e l’autosufficienza e coltiva il pluralismo a partire dalla ricerca della convergenza ampia e condivisa dei problemi che man mano si affacciano sul tappeto.
E il Partito democratico, forte del consenso ottenuto dai cittadini e forte anche per il progetto politico che incarna, non può che perseguire questa cultura delle alleanze.
Certo, molto dipende anche dal sistema elettorale che viene scelto. È ovvio che con un sistema elettorale che spinge verso una corretta e trasparente democrazia dell’alternanza, la costruzione di una coalizione è quasi d’obbligo. Mentre con un sistema rigorosamente proporzionale il problema è drasticamente diverso. Comunque sia, questo delle alleanze è un tema che attiene alla scelta della politica. Anzi, mi permetto di aggiungere, che questo è un tema che attiene alla «bellezza» e alla «profondità» della politica. Forse è giunto anche il momento di dare la priorità a questa dimensione rinunciando, almeno adesso, ai soli organigrammi e al solo posizionamento. Per il tatticismo c’è sempre tempo. Mentre per la «politica pensata» il tempo va sempre recuperato.

Corriere 19.6.14
L’identità del Pd e le riforme da fare
L’ombra lunga dell’era Berlinguer
di Michele Salvati


Ad alcuni di coloro che nelle scorse settimane hanno commemorato il trentesimo anniversario della morte di Enrico Berlinguer non sarà piaciuto l’articolo che Claudio Petruccioli ha dedicato al mitico segretario del Pci il 6 giugno scorso su Europa : «Berlinguer: o l’identità, o il governo». Al contrario, io lo trovo un tributo commovente alla tragica nobiltà dell’uomo. Petruccioli ricorda il Comitato centrale del luglio 1979. Moro era stato rapito e assassinato un anno prima; le elezioni politiche anticipate avevano registrato una severa sconfitta del Pci; la fase del compromesso storico si avviava a una rapida conclusione; con le vittorie di Thatcher e Reagan, di lì a pochi mesi, il capitalismo avrebbe voltato corso, passando dalla benigna fase dei trent’anni gloriosi a quella assai più aspra del neoliberismo. E il problema d’un mutamento di strategia politica, dall’alleanza con la Democrazia cristiana a quella con i socialisti, era nell’aria.
Il rifiuto di Berlinguer fu netto: «... Se decidessimo di puntare su una tale soluzione, la conseguenza immediata e sicura sarebbe una serie di richieste incalzanti da parte dei socialisti per farci spostare, passo dietro passo, dalle nostre posizioni politiche e ideali, e finire su un terreno — diciamolo pure — socialdemocratico. Ma se ci muovessimo davvero in questa direzione il Pci perderebbe ogni sua autonomia ideale e politica, cancellerebbe quella sua peculiarità di un partito che vuole lottare e lotta per il socialismo, anche se secondo una sua propria concezione e seguendo una propria via...». Dunque, un’alternativa secca — o identità, o governo — e Berlinguer sceglie l’identità, che poi lo porterà all’opposizione dei governi di pentapartito nei pochi anni che gli restavano da vivere. Gli era del tutto estranea l’idea di ottenere un consenso elettorale maggioritario come sinistra unita, una sinistra non comunista, adatta alle condizioni di un Paese di capitalismo avanzato: dunque, se il Pci voleva andare al governo, lo doveva fare insieme a forze di diverso orientamento, che gli consentissero di conservare in se stesso i tratti che lo rendevano minoritario.
Riavvolgiamo la moviola. Che cosa c’entrano queste vicende antiche con la situazione del Pd di oggi? La conventio ad excludendum è caduta assieme al comunismo, che era il grande problema identitario di allora. È in vigore da più di vent’anni un sistema elettorale maggioritario e l’idea d’alternanza s’è radicata nell’elettorato, di destra e di sinistra. Di fatto gli eredi del Partito comunista hanno governato, assieme a quelli della sinistra democristiana, per due legislature della Seconda Repubblica. Di più, Veltroni, un ex comunista, nel 2008 ha affrontato le elezioni rivendicando un’esplicita «vocazione maggioritaria» e, anche se alla fine ritenne conveniente allearsi con l’Idv di Di Pietro, il vecchio tabù berlingueriano era stato superato. Ieri e oggi: si tratta di due situazioni inconfrontabili? No, resta anche oggi una notevole resistenza a pagare i costi identitari legati a una vera vocazione maggioritaria, a una convinzione profonda di saper governare il Paese così com’è, e non come si vorrebbe che fosse. Nanni Moretti è quello che confessa, in «Caro Diario », che si sentirà sempre d’accordo con una minoranza. Ma è anche quello che, a piazza Navona nel 2002, gela i leader della sinistra di allora con la frase famosa «con questi leader non vinceremo mai!». Ma per «vincere» in democrazia bisogna «convincere» una grande maggioranza: come la mettiamo?
Mi ha ricordato Nanni Moretti un libro appena uscito di Claudio Cerasa, «Le catene della sinistra », che elenca un insieme di tratti identitari — o meglio, di convinzioni ideologiche e di pratiche politiche — che il Pd dovrebbe dismettere se vuole veramente diventare un partito a vocazione maggioritaria. Un partito legato ai valori fondamentali della sinistra, sì, e però «votabile» dalla maggioranza degli italiani, così come sono. Un «partito della nazione». Cerasa è un bravo giornalista politico e il suo libro è ricco di valutazioni e di riferimenti di fatto sui quali i politici della sinistra farebbero bene a riflettere. Questa non è però la sede per una recensione e mi limito a due osservazioni che si legano all’argomento trattato sinora. La prima è di ordine storico: come mai la sinistra non è riuscita a risolvere i suoi problemi identitari, a diventare un vero partito a vocazione maggioritaria, nella lunga fase della Seconda Repubblica? Parte della risposta, e parte importante, sta nell’avere incontrato sulla sua strada un fenomeno come Berlusconi, che ha rinfocolato invece d’attenuare concezioni e politiche inadatte a un partito riformista: da Cerasa ci attendiamo dunque un libro dal titolo «Le catene della Destra». La seconda osservazione è più importante. Cerasa manifesta simpatia per Renzi, a cui riconosce una vera vocazione riformista e maggioritaria. Mi pare però che non si renda conto appieno dei problemi che Renzi deve affrontare. Per ottenere un consenso durevole, Renzi deve dare alla maggioranza degli italiani l’impressione di saper rimettere in moto un Paese avviato al declino, di saper contrastare una disoccupazione grave e crescente. Come ho osservato tante volte, le riforme che adotterà non potranno avere esiti immediati e il ristagno potrà continuare: un’inversione dell’atteggiamento favorevole nei suoi confronti che le elezioni europee hanno rivelato è, dunque, una minaccia seria e incombente. Di qui la velocità, l’urgenza, e dunque anche il rischio di errori o sbavature nel processo riformatore. A mio avviso non è questo il caso del progetto di riforma del Senato, che alcuni senatori del Pd hanno invece avversato sino a giungere alla decisione di autosospendersi dal gruppo. Sono sicuro che gli «autosospesi» siano onestamente convinti che la proposta da loro favorita sia migliore di quella del governo. Ma qui è in gioco un aspetto fondamentale della strategia del segretario del loro partito e una dissociazione così clamorosa, e che potrebbe ripetersi in altri casi dove «le catene della sinistra» sono ancora più forti, solleva qualche interrogativo sulla possibilità di Renzi di tenere lo stesso ritmo che è riuscito a imporre sinora.

l’Unità 19.6.14
Grillo agita il manganello: «L’Unità chiude? Bene»
Vergognoso attacco ai lavoratori de l’Unità. Il leader M5S attacca il giornale e chi ci lavora: «Senza di voi più informazione, una buona notizia»
Il Pd: «Insulti che offendono la democrazia»
Fnsi: «Parole che sanno di olio di ricino


L’Unità chiude? «Un’ottima notizia». Il senso del macabro ha caratterizzato la comunicazione sul blog di Beppe Grillo, ma arrivare a contare i giorni aspettando con ansia la chiusura di un giornale fa venire i brividi. Naturalmente il giornale in questione è l’Unità e, con particolare livore, sul blog di Grillo ieri mattina è apparso un grande post rosso con la testata de l’Unità «in liquidazione», seguita da un sarcastico hashtag #unitàstaiserena, tanto per dare modo ai militanti di moltiplicare commenti sprezzanti, quando va bene. E l’interesse di Renzi per il «brand» Unità, sarebbe «il bacio della morte». «Il nuovo vento della Rete e della fine, lenta ma implacabile, dell’editoria assistita sta producendo i suoi effetti: la scomparsa dei giornali», inizia il post, «un’ottima notizia per un Paese semilibero per la libertà di informazione come l’Italia. Meno giornali significa infatti più informazione», prosegue nella logica per cui ciò che non passa dalla Rete sarebbe fonte di disinformazione, soprattutto la stampa che riceve finanziamenti pubblici (ormai dimezzati), dei quali il blog documenta l’entità in dieci anni, senza pensare che si tuteli il pluralismo. Quanto al fatto che giornalisti e tipografi se ne vadano a casa, poco male. C’è chi dice, «ben gli sta...».
«Licenziamenti sono in corso un po’ ovunque da tempo», prosegue il blog, «ma il caso più drammatico è quello dell’Unità che ha ormai solo appassionati lettori (forse collezionisti), 20.200 copie vendute nel mese di maggio». Informatissimo (dai giornali che hanno scritto di noi), Grillo o chi per lui continua: «I 57 giornalisti hanno preso l’ultimo stipendio ad aprile e hanno terminato in questi giorni i due anni di solidarietà. Un augurio per una nuova occupazione va a loro e in particolare alle colonne portanti Oppo e Jop. L’Unità è stata messa in liquidità». L’attacco a Maria Novella Oppo inaugurò la black list dei giornalisti critici, permettendo che nei commenti si scatenasse ogni tipo di insulto, anche sessista; un’altra volta è toccato a Toni Jop. Il post 5 Stelle non trascura le novità: «C’è però una buona notizia per i trinariciuti, Renzi ha dichiarato “Dobbiamo tutelare un brand, abbiamo bisogno di ripartire...”. Non ha detto però con quali soldi. Insomma “Unitàstaiserena”, il bacio della morte». Si riporta poi la dichiarazione del direttore, Landò, sui rapporti «british» con Renzi, per attaccare ancora un giornale che, con altri governi avrebbe detto: «caccia la grana» e ora invece sarebbe diventato «british e meno attento ai finanziamenti pubblici pagati dalle tasse dei cittadini».
Molti attestati di solidarietà sono arrivati da sinistra e da destra, anche via twitter con l’hashag #iostoconlunità, con parecchi selfie. Matteo Orfini, neo presidente Pd: «Dispiace per Beppe Grillo, ma se ne dovrà fare una ragione: l’Unità continuerà a vivere #iostoconlunita». Franco Siddi, segretario della Federazione nazionale della Stampa dichiara che l’attacco a l’Unità «ha il sapore dell’olio di ricino. Se questo è il segno di una nuova politica sarà bene che qualcuno gliene chieda conto»; perché «la libertà di Grillo passa attraverso la diminuzione o la chiusura delle voci libere » così più scompaiono «più lui si ritiene libero di promuovere e fare, con la sua piattaforma tecnologica, propaganda sulla rete».
Il parlamentare del Pd Stefano Fassina twitta: «#iostoconlunità con Oppo e Jop x libertà di info. Il milionario Grillo rispetti lavoratori e lavoratrici da mesi senza stipendio». Solidarietà anche da Rosy Bindi, Pd: «Il disprezzo per libera stampa, la buona informazione e il pluralismo delle idee fa male alla democrazia », scrive la presidente della commissione Antimafia. E ancora dalla ex ministra Carrozza, da Marina Sereni, Paola De Micheli, Walter Verini: «L’Unità venne chiusa anche dal fascismo e quel regime salutò quella sopraffazione come una buona notizia».
Solidarietà dalla Cgil, anche Flp e Spi: «Perché l’Unità sta dalla parte giusta. Quella delle lavoratrici e dei lavoratori ». E dal centrodestra con Deborah Bergamini e Elvira Savino, Fi: esultare per la chiusura di un giornale è lontano «dal rispetto del ruolo democratico della stampa e dell’informazione, dalla tutela della democrazia stessa». Pisicchio, di Cd, a Grillo: «Rilegga Voltaire».

il Fatto 19.6.14
Il blog: “Evviva, chiude l’Unità”
Rivolta bipartisan in rete contro l’attacco dell’ex comico ai giornalisti
di Giulia Merlo


Il nuovo vento della Rete e della fine, lenta ma implacabile, dell’editoria assistita sta producendo i suoi effetti: la scomparsa dei giornali. Un’ottima notizia per un paese semilibero per la libertà di informazione come l’Italia”. Inizia così il post pubblicato sul blog di Beppe Grillo, in cui il leader del Movimento 5 Stelle attacca frontalmente il quotidiano l’Unità, la cui difficile situazione finanziaria è da giorni al centro delle cronache.
Secondo Grillo, che titola il messaggio con un ironico #unitastaiserena, la messa in stato di liquidazione del giornale fondato da Antonio Gramsci è una buona notizia, perché “meno giornali significa infatti più informazione”. Nel post, il comico snocciola i dati dei finanziamenti pubblici all’editoria percepiti dal giornale e considera un “bacio della morte” le dichiarazioni di Matteo Renzi sulla necessità di “tutelare il brand”. Immediata le replica del Partito democratico, che definisce Grillo “uno sciacallo” che specula sui giornalisti, da due mesi senza stipendio e che rischiano di perdere il posto di lavoro. Anche l’Unità risponde al comico, prima con un lapidario “vergogna” via twitter, poi con una nota del Cdr. “A un piccolo uomo senza memoria ricordiamo che la chiusura dell'Unità fu un obiettivo del fascismo”, scrivono, aggiungendo che “gli insulti rafforzano la nostra determinazione a batterci perché non si spenga una voce importante, libera e di sinistra nell’informazione italiana”. La solidarietà al giornale arriva anche dal centrodestra, attraverso una nota della responsabile comunicazione di Forza Italia Deborah Bergamini, secondo cui l’esultanza di Grillo è “una pessima uscita” e “ironizzare sul destino dei giornalisti che potrebbero perdere il proprio posto di lavoro è quanto di più lontano esista dal buon senso”.
LA SITUAZIONE ECONOMICA del giornale si è aggravata nelle ultime settimane, a causa della messa in liquidazione della Nie, la società editrice. Nonostante le rassicurazioni del socio di maggioranza Matteo Fago sul fatto che il quotidiano continuerà a essere pubblicato e anzi è previsto un rilancio della testata, il consiglio di redazione ha denunciato la mancanza di certezze sul futuro. Da giorni, poi, i giornalisti hanno ritirato la loro firma dal giornale in segno di protesta. Il Cdr ha anche annunciato che l’Unità sarà presente alle Feste dell’Unità, rilanciate nell’ultima assemblea nazionale dal segretario Pd Matteo Renzi, e che da lì racconterà “la battaglia di una redazione che sta difendendo il patrimonio di valore e di professionalità del giornale”.
Il dibattito acceso dall’attacco di Grillo si è scatenato soprattutto sui social network, e anche l’opinione pubblica si è divisa tra applausi e sdegno. Il fronte pro-grillino ha twittato usando l’hashtag lanciato dal blog, #unitastaiserenza, a cui hanno risposto i supporter del quotidiano con #iostoconlunita. Il risultato finale, almeno per quanto riguarda il web, è tutto a favore del quotidiano vicino al Partito democratico. L’hashtag di solidarietà è stato utilizzato più di 8mila volte, contro le 1900 di quello grillino.

l’Unità 19.6.14
Grillo e a strategia dell’odio
di Claudio Sardo


NON PENSI BEPPE GRILLO DI INTIMIDIRCI. ALTRI PRIMA DI LUI SI SONO AUGURATI LA MORTE DE L’UNITÀ. ALTRI PRIMA DI LUI HANNO DETTO CHE LA SCOMPARSA DEI GIORNALI È «UN’OTTIMA NOTIZIA». Altri come lui hanno puntato il dito contro singoli giornalisti, cercando di aizzare l’odio degli adepti. «Qualunque persona abbia ancora un briciolo di onore dovrà fare molta attenzione prima di scegliere la professione di giornalista» è una frase celebre del nazista Goebbels.
Grillo, comunque, può stare sereno: noi continueremo sulla nostra strada. L’Unità andrà avanti dopo 90 anni di storia, e speriamo che abbia presto un nuovo inizio. Noi pensiamo che la democrazia si fondi sul pluralismo, sul confronto tra idee diverse, sulla lotta politica (che non esclude la costruzione di regole e valori condivisi). Noi restiamo convinti che il giornalismo e la libertà si alimentino a vicenda, che chi scrive deve per forza scomodare qualcuno, deve dire cose che non piacciono a tutti, deve rischiare la propria parzialità per tentare di raggiungere una verità.
I giornali, come le idee, sono preziosi. E talvolta quando sono fragili sono ancora più preziosi. Nella storia chi ha disprezzato i giornali, ha contrastato la democrazia con ideologie autoritarie e con la violenza. Questo principio vale tuttora. Anche se il mercato dell’editoria è diventato assai più complicato, anche se quella di Internet è una rivoluzione nelle comunicazioni, la più travolgente dopo l’invenzione di Gutenberg. La Rete è una grandissima opportunità, ma non è vero che di per sé è in grado di assicurare un più elevato grado di democrazia, di partecipazione, di potere diffuso. Il pluralismo, la libera circolazione delle idee, i diritti delle minoranze sono problemi oggi più aperti di ieri. Il pluralismo va alimentato, curato, rafforzato. Ovviamente evitando di favorire consorterie e rendite di posizione. Ma la democrazia non è sottomissione al «mercato». Al contrario, la democrazia è ricostruire opportunità nonostante gli squilibri che provoca il mercato. È singolare che, per giustificare il proprio impulso di sopprimere un giornale a lui scomodo, Grillo faccia ricorso al tribunale inappellabile del mercato. E non si chieda se i giornali di idee abbiano le stesse possibilità di accesso alla pubblicità, se abbiano le stesse risorse dei grandi gruppi editoriali per realizzare quei cambiamenti tecnologici e strutturali che la competizione impone. Grillo denuncia i finanziamenti diretti (peraltro l’Italia è il Paese più avaro d’Europa, e non di poco), ma dimentica o finge di non conoscere che ci sono finanziamenti indiretti e che le disparità anche nel mercato dell’editoria tendono a crescere.
Verrebbe da dire che, per le idee che ieri ha manifestato nel suo blog, auspicando la morte del nostro giornale, la collocazione a Strasburgo nel gruppo di estrema destra con Farage e con altri sette-otto impresentabili è ora forse più spiegabile. Grillo, e il suo socio Casaleggio, sono andati dove li ha portati il cuore. In quel gruppo, non ci sono solo i sentimenti xenofobi dell’Ukip inglese: ci sono anche due deputati lituani del Tt, Ordine e giustizia, il partito dell’ex presidente Paksas, destituito per traffici con la mafia russa. Del Tt il terrorista norvegese Breivik, autore della spaventosa strage di ragazzi a Utoya, ha detto che è «uno dei partiti più rispettabili d’Europa». Stiano attenti i grillini: non pensino di lavarsi la coscienza dicendo che quel gruppo è per loro un taxi, il solo sgangherato taxi che ha avuto la pietà di farli salire a bordo. La politica italiana oggi si fa anche a Bruxelles e Strasburgo. E la collocazione nell’estrema destra non sarà irrilevante per il loro percorso futuro, anche se talvolta si prenderanno la libertà di qualche dissenso.
L’Unità vive un momento difficile. Ma la solidarietà che abbiamo ricevuto in questi giorni, e le espressioni di affetto, di vicinanza, di condivisione che ieri sono giunte in redazione con ogni mezzo dopo le vergognose parole di Grillo, ci incoraggiano a proseguire nella nostra battaglia. Dobbiamo innovare, migliorarci. C’è però un grande spazio di buon giornalismo, c’è spazio per le idee di una sinistra democratica e moderna, c’è spazio per chi pensa che l’Italia possa farcela ad uscire dal pantano. E c’è una speranza di cambiamento nel Paese che va alimentata, riempita di contenuti, seguita con passione e anche con la critica. Non abbiamo mai pensato che Grillo sia un fascista perché abusa di un linguaggio violento, sprezzante, carico di auspici di morte. Far roteare il suo manganello sul blog, o nei comizi, è la tecnica che ha usato per catalizzare la sfiducia e la rabbia diffusa nella società della crisi. A parte i tratti originali italiani, non si può non vedere che altri Grillo in altri Paesi europei hanno fatto qualcosa di analogo. Ma neppure Grillo può sottovalutare le conseguenze del suo linguaggio di odio. Le parole possono diventare pietre. E quando accade non si torna più indietro. Avevamo sperato che la sua apertura al dialogo sulle riforme potesse aprire un percorso nuovo. In fondo, fare una proposta concreta e sedersi al tavolo, vuole dire accettare che anche gli altri hanno punti di vista che meritano considerazione. Il nodo è qui. Se Grillo e Casaleggio pensano che la verità sia tutta loro, e che la democrazia si materializzerà solo il giorno in cui avranno il 51 (o il 100%) dei consensi, allora non c’è nulla da fare. E non raccontino la balla che la loro democrazia vale di più perché hanno una rete - la loro rete - da manipolare. La democrazia costituzionale è un discrimine che non accetteremo mai di varcare.

l’Unità 19.6.14
Lo sciacallo


Ci illudevamo che avesse toccato il fondo dell’ignominia. Ma per Beppe Grillo quel fondo non ha mai fine. Calzando l’orbace mediatico l’ex comico ha tuonato: «Meno giornali, significa più informazione», rallegrandosi in particolare della messa in liquidazione de l’Unità. A un piccolo uomo senza memoria ricordiamo che la chiusura de l’Unità fu un obiettivo del fascismo. Irridere i lavoratori de l’Unità che si battono da tempo per mantenere in vita il giornale e indifesa dei posti di lavoro è un atteggiamento miserabile che qualifica la persona. Ma Grillo stia sereno: i suoi insulti, il suo sciacallaggio mostrano ancor di più qual è l’idea di democrazia che lo anima. Quegli insulti rafforzano la nostra determinazione a batterci perché non si spenga una voce libera e di sinistra nell’informazione italiana.

il Fatto 19.6.14
Campagna acquisti, ultimo atto. Grillo a destra in Europa
Farage e Grillo fanno il gruppo, ma grazie a 5 estremisti di destra
Il leader dell’Ukip inglese riesce a racimolare 48 eurodeputati di 7 Paesi
Decisivi due nazionalisti svedesi, una transfuga del Front di Marine Le Pen e due ultrà lituani
di Luca De Carolis


Ce l’hanno fatta, dribblando il purgatorio dei non iscritti. E Grillo celebra: “Ha vinto la democrazia diretta”. Ma partiranno con un gruppo fragile, euroscettico, con il baricentro nettamente spostato a destra. Dove hanno imbarcato una transfuga dal Front National della Le Pen. Ma soprattutto i nazionalisti lituani e i democratici svedesi, uniti dall’ostilità verso l’Unione europea e l’immigrazione. Partiti di estrema destra. È il prezzo pagato dai Cinque Stelle all’alleanza con l’Ukip di Nigel Farage, che ieri ha annunciato la nascita del gruppo dell’Efd nel Parlamento europeo. In tutto 48 eurodeputati, di 7 Paesi diversi, requisito minimo per una formazione autonoma. Metà degli eletti, 24, arrivano dall’Ukip. Poi ci sono i 17 deputati del M5S. A completare il gruppo, una pletora di deputati sciolti e un paio di rappresentanze a due. Basterebbe che un singolo alleato mollasse per far crollare tutto. “Ma stiamo lavorando per attirare altre formazioni, il gruppo si allargherà”, assicura Ignazio Corrao, capogruppo dei 5Stelle a Bruxelles. Convinto che “un gruppo formato sarà sicuramente appetibile”. Una verità, stando ai parametri da calciomercato che regolano la formazione dei gruppi in Europa (c’è tempo fino al 24 giugno). Grillo è già contento: “Per la prima volta in Europa i cittadini hanno scelto i loro rappresentanti e detto loro dove sedere in Parlamento”. Mentre Farage, il grande tessitore dell’operazione, assicura: “Metteremo in allerta la gente a casa spiegando quanti danni fanno le regole Ue alle nostre vite”. Per lui, che ha subìto la dura concorrenza dell’Ecr di David Cameron e della Le Pen, va già bene così. Martedì prossimo, la prima riunione dell’Efd.
Eletta per la Le Pen
Se l’Efd ha visto la luce, lo si deve soprattutto alla francese Joelle Bergeron. Eletta in Europa con il Front National, in cui militava dal 1972, poche settimane fa ha rotto con Marine Le Pen. Sarebbe stata la stessa Le Pen a spingerla alle dimissioni, dopo che aveva dichiarato di essere “favorevole” al diritto di voto per gli stranieri. Aggiungendo di “fregarsene” della linea opposta del partito. Dopo la rottura, la Bergeron si è sfogata: “Ho il ruolo di un kleenex usato, mi avevano candidato solo perché serviva una donna”. Farage è riuscita a convicerla. Vittoria doppia, vista la sua guerra con la Le Pen.
I lituani di Ordine e giustizia
Formazione lituana, nata dalle ceneri del Partito liberal democratico. Euroscettica, è una forza di estrema destra, anti-immigrazione. Nel suo manifesto Anders Breivik, il terrorista norvegese che uccise 77 persone nel 2011, citò Ordine e Giustizia come “un modello di partito nazionalista”. In Europa ha eletto l’ex ministro Valentinas Mazuronis e Rolandas Paksas, il leader del partito. Già primo ministro, nel 2002 Paksas venne eletto presidente. L’anno dopo però venne messo in stato d’accusa per aver concesso la cittadinanza lituana a un finanziatore della sua campagna, e fu costretto lasciare la carica.
Neri scandinavi
Il boccone più difficile da digerire per i 5Stelle sono i due democratici svedesi, Kristina Winberg e Peter Lundgren. I rappresentanti di una formazione fondata nel 1988 per ostacolare l’immigrazione, in particolare quella dai paesi islamici. Ferventi nazionalisti, nei loro inizi avevano chiare simpatie naziste. Nella passata legislatura, i Democratici erano nel gruppo della Le Pen. Farage è riuscito a spostarli. Pesa anche la voglia di maggiore presentabilità del leader degli scandinavi, Jimmie Akesson, definito dalla stampa inglese come esponente “dell’estrema destra 2.0”. Gradevole a vedersi, sempre su posizioni “nere” nella sostanze. Uno dei due neo-eletti, la Winberg (infermiera professionista) ha avuto problemi sui media svedesi nei giorni scorsi. La stampa ha dimostrato che aveva mentito sulla sua esperienza in un’organizzazione di volontariato: mai avvenuta. Corrao spiega: “Sappiamo del passato dei Democratici, ma abbiamo ricevuto ampie assicurazioni sul fatto che romperanno con le loro vecchie tradizioni, e che si asterranno da qualsiasi espressione di estrema destra”.
L’altra lituana
Rappresentante dell’Unione dei Verdi e dei Contadini lituani, Iveta Grigule ha 49 anni. Corrao e David Borrelli l’avevano incontrata due giorni fa, con tanto di foto su Twitter a raccontare l’incontro. Rappresenta una formazione nazionalista, che diffida di Bruxelles e delle sue norme.
Il liberale ceco
Petr Mach, 39 anni, economista, è il fondatore del Partito dei liberi cittadini della Repubblica Ceca. Ex consigliere economico dell’allora presidente Klaus, ha lasciato il Centro Democratico per portare avanti le sue idee contro il Trattato di Lisbona.

il Fatto 19.6.14
Trasparenza, Grasso chiede il 730 a Beppe


IL TESTORIERE di Sel Sergio Boccadutri se ne era accorto nell’ottobre passato: Beppe Grillo risulta essere il responsabile della tesoreria del Movimento Cinque Stelle. Spiegava all’epoca all’Huffington Post: “Non viene definito esplicitamente come tale, ma, oltre alla rappresentanza politica e giuridica , gli spettano l’amministrazione e gestione dei fondi dell’Associazione. E, secondo due leggi italiane (una del 6 luglio 2012, l’altra, richiamata dalla prima, del 5 luglio 1982) i tesorieri devono comunicare al Parlamento la propria situazione patrimoniale e reddituale”. Per questa ragione il Presidente del Senato Piero Grasso chiede a Beppe Grillo di fornirgli il proprio 730. La regola varrà per il tesoriere, ma anche per il responsabile o rappresentante nazionale, per i componenti dell’organo di direzione politica nazionale, per presidenti di organi nazionali deliberativi o di garanzia.

Repubblica 19.6.14
Senza soldi pubblici partiti in profondo rosso
di Ettore Livini



MILANO. È ALLARME rosso per la politica in Italia. E i comunisti, per una volta, non c’entrano. Il rosso, profondissimo, è quello in cui sono precipitati i bilanci dei partiti dopo la sforbiciata al Bancomat del finanziamento pubblico.
I NUMERI parlano da soli: Pd, Forza Italia, Pdl e Lega - il Movimento 5 Stelle, che ha rinunciato ai contributi, non presenta rendiconto economico - hanno chiuso il 2013 in passivo di 55 milioni. E tutto lascia prevedere che la voragine sia destinata ad allargarsi: i 290 milioni di aiuti di stato incassati nel 2010 sono un ricordo del passato. Oggi sono scesi a 91 milioni e nel 2017 spariranno del tutto. La raccolta di fondi privati, destinata a tappare il buco, non ingrana (quella della Lega è scesa addirittura da 6,8 a 3,8 milioni). E a tradire sono pure i parlamentari: il 30-40% degli onorevoli di Forza Italia - per la rabbia dell’ex-Cav. - si sarebbe “scordato” nel 2013 di versare la quota di finanziamento al movimento. Risultato: in attesa del decollo del 2 per mille, l’unico modo per tamponare l’emergenza è tagliare i costi.
Tutto l’arco costituzionale si è messo così a dieta: il Pd ha ridotto del 40% le spese per le forniture. Via Bellerio ha abbassato del 66% i costi delle auto di proprietà. E il Popolo della libertà, destinato a estinzione causa divorzio tra Silvio e Angelino, ha addirittura licenziato a 41 dipendenti. Ma la medicina, per ora, dà scarsi risultati.
IL PD IN SPENDING REVIEW
Il Pd di Renzi ha affidato al tesoriere Francesco Bonifazi, un fedelissimo del premier, il compito di sistemare i conti del partito. Il percorso è però in salita: il 2013 si è chiuso in rosso di 10,4 milioni. Colpa, dicono i consulenti di Dla Piper, del costo eccessivo dei servizi (1,14 milioni di consulenze, 762 mila di manutenzioni), degli affitti d’oro di via Tomacelli e via del Tritone e delle spese-monstre per segreteria (oltre un milione) e per le elezioni politiche (6,9 milioni). Nel 2014 i contributi al Pd scenderanno da 24 a 12 milioni ma l’obiettivo - assicura Bonifazi - è quello di arrivare al pareggio. Come? Tagliando le forniture del 40% («obiettivo già raggiunto »), riducendo le diarie per le trasferte e spendendo meno per le elezioni. Le europee di maggio sono costate 3,3 milioni contro i 13,5 pagati nel 2009. I contratti per Tomacelli e Tritone sono già stati disdetti «e si sta trattando per la risoluzione anticipata». Sperando - garantisce il neo-tesoriere - «di non toccare i livelli occupazionali».
LE SPINE DEL CARROCCIO
Altro che «Basta euro». Gli euro, alla Lega, servirebbero eccome. Il piatto, in via Bellerio, piange: i finanziamenti pubblici nel 2013 sono scesi da 8,8 a 6,5 milioni. Le quote associative sono a - 30%. Tre milioni se ne sono andati per le cause legali del dopo-Belsito, malgrado siano già stati spesati 881mila euro di perdite per «assegni emessi a favore di persone sconosciute» e 417mila euro «per prelievi non giustificati». Souvenir dei tempi gloriosi in cui i quattrini del Carroccio finanziavano le lauree del Trota e hit come “ Kooly Noody”, indimenticabile canzone del fidanzato della pasionaria Rosy Mauro. Oggi queste cose non succedono più e gli organici del partito sono stati ridotti da 80 a 73 dipendenti. Il 2013 però si è chiuso in rosso per 14,4 milioni e il patrimonio è crollato a 16 milioni. «Abbiamo due anni di vita» ha vaticinato un po’ funereo Stefano Stefani, segretario amministrativo del movimento. «Chiederemo soldi ai privati», ha aggiunto Matteo Salvini. Il collegio sindacale è meno ottimista: «Per garantire la sostenibilità del movimento - scrive nella sua relazione - serve senza indugio una riorganizzazione per il risa- namento dei costi di gestione”.
UNA COOP DI NOME BERLUSCONI
Dalle stelle alle stalle. Per anni Forza Italia ha campato grazie al portafoglio di Silvio Berlusconi che per il partito ha impegnato la bellezza di 102 milioni. Ora la pacchia è finita: «La nostra unica Coop era Silvio Berlusconi e la sinistra ha fatto una legge per impedirgli di finanziare Fi», recita lo slogan sulla home page del sito. I risultati si vedono: il 2013 è in rosso di 15 milioni, i debiti sono 88 milioni. «Siamo con l’acqua alla gola, servono soldi» ha detto l’ex - premier, scottato dai 15 milioni che ha appena speso per saldare i debiti di Forza Italia con il Pdl e dagli 87 milioni di fideiussioni con cui ha garantito la sua esposizione. E a San Lorenzo in Lucina è scattata la caccia ai Giuda, i parlamentari che non versano la quota associativa al partito. Nel 2011 questo fuoco amico aveva sottratto 4 milioni alle casse Pdl, l’anno dopo sei e ora le cose andrebbero ancora peggio.
LA BAD COMPANY PDL
Il Popolo della libertà è oggi la “bad company” del centro-destra. Politicamente è una scatola vuota che però ha perso 14 milioni nel 2013 e vanta 18 milioni di debiti. Dei suoi 113 ex dipendenti, 54 sono stati assorbiti da Forza Italia. Poi si è proceduto a chiudere il sito internet, a rottamare i contratti a tempo determinato, a disdire la sede di via dell’Umiltà. Le sforbiciate hanno garantito 5,8 milioni di risparmi. Una goccia nell’oceano delle perdite. E così sono partite le lettere di licenziamento.

l’Unità 19.6.14
Follia a Milano. Tre uomini accoltellati
«Erano peccatori, andavano puniti»


Erano «peccatori che volevano fargli del male». Per questo andavano aggrediti. Avrebbe detto anche questo durante il suo interrogatorio in Questura, Davide Frigatti,34 anni, l’uomo fermato martedì pomeriggio in preda ai deliri e accusato di omicidio e tentato omicidio per aver accoltellato tre uomini, uccidendone uno, tra Cinisello Balsamo e Sesto San Giovanni. Tutto in un’ora di follia, o poco più. Secondo la ricostruzione della polizia, alle 14 al Parco Nord di Cinisello Frigatti tenta di aggredire Dario Del Corso, 67 anni. La prima volta non vi riesce per l’intervento di un altro signore armato di bastone. Ma al secondo tentativo, Del Corso viene ferito con alcune coltellate. Adesso si trova all’ospedale Niguarda. Qualcuno vede Frigatti lavarsi a una fontanella. Il 34enne rientra in casa con gli abiti sporchi di sangue e incappa nel padre, che vedendolo alterato, tenta di impedirgli di uscire di casa. L’anziano però non riesce a fermare il figlio, e va al commissariato per denunciarlo. Sono le 14,43. Frigatti arriva in macchina al distributore Shell di via Gramsci a Sesto San Giovanni. Colpisce Giovanni Francesco Saponara, 55 anni, ora ricoverato a Monza. Passano40minuti e il 34ennericompare in un autolavaggio di Cinisello Balsamo, dove con un coltello da cucina recuperato in casa uccide il titolare, Franco Mercadante, 52 anni. Quando la polizia ritrova Davide, sta vagando nudo e pronuncia frasi senza senso. Frigatti adesso è in carcere a Monza.

il Fatto 19.6.14
Jihad & Co. Fare soldi con i massacri
Kuwait, sauditi e Qatar sono gli sponsor dei guerriglieri sunniti che pubblicano un report per attirare donatori
di Alessio Schiesari


Un report annuale con statistiche, grafici, illustrazioni e una dettagliata spiegazione delle attività per convincere i potenziali donatori ad mettere mano al portafoglio. Nulla di strano se a farlo è un’ong come Save the children o Greenpeace. In questo caso però a stilare il documento è lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, più conosciuto con l’acronimo Isis, la più potente e ricca organizzazione terroristica al mondo. Mille omicidi, 4 mila ordigni esplosi, 10 mila azioni terroristiche e 15 mila effettivi: sono questi i numeri della multinazionale islamista nel 2013. Fare la jihad, per di più in due Paesi diversi, costa un mucchio di soldi, per questo anche i terroristi hanno bisogno di sponsor. Durante i dieci anni dalla sua fondazione, conseguente a una scissione all’interno di Al Qaeda, il gruppo ha trovato i suoi finanziatori in Arabia Saudita, Qatar e Kuwait, dove facoltosi filantropi e gli stessi governi hanno tutto l’interesse a spalleggiare i movimenti estremisti sunniti in chiave anti-sciita.
PER QUESTO martedì il presidente iracheno Nuri al Maliki ha tuonato contro gli emiri che sostengono i terroristi a colpi di bonifici. Riad nega e il Dipartimento di Stato ha definito le accuse al proprio alleato in Medio Oriente “offensive”, ma anche gli Stati Uniti sono consapevoli dei movimenti di petroldollari dalle monarchie del Golfo ai miliziani. Un meccanismo che, almeno finché l’Isis faceva la guerra solo a Bashar al-Assad, gli andava benissimo. Ora che hanno portato le loro truppe a 60 chilometri da Baghdad e conquistato l’enorme raffineria di Baiji, la cosa è diventata un problema. In realtà il pressing Usa è partito a inizio anno, quando ha convinto i regnanti sauditi a rimuovere il principe Bandar Bin Sultan – che Baghdad considera l’uomo ponte tra la casa reale e l’Isis – dalla testa dei servizi segreti di Riad, e il Qatar a fermare, almeno ufficialmente, il supporto economico. C’è solo un problema: la mossa Usa si sta rivelando inutile perché è arrivata troppo tardi. Secondo la Cia, Isis ha riserve per 1,5 miliardi di dollari. Buona parte di questo denaro è frutto dei proventi dei pozzi petroliferi nella Siria orientale e di quelli conquistati nel nord dell’Iraq, cui si aggiungono quelli delle rapine (una settimana fa un colpo alla banca centrale di Mosul ha fruttato 429 milioni di dollari) e il pizzo chiesto nelle zone controllate.
SECONDO il think tank Washington Institute for Near East Policy, buona parte di questi soldi viene spesa per gli armamenti. Il resto viene impiegato in campagne per la conquista dell’opinione pubblica. La vera forza di Isis non è infatti la semplice organizzazione militare: i territori occupati vengono occupati fomentando la ribellione della popolazione sunnita.
Ieri, il ministro degli Esteri iracheno Hoshyar Zebari ha invocato l’intervento militare degli Usa per fermare l’avanzata jihadista e non ha escluso che un’analoga richiesta possa essere avanzata anche all’Iran.

Repubblica 19.6.14
Tra le strade di Hebron la città sotto assedio in cerca dei ragazzi rapiti
di Fabio Scuto



DAL NOSTRO INVIATO HEBRON. Un sole impietoso flagella la strada, una luce accecante rimbalza dai palazzi di pietra bianca. Auto ferme e strade deserte, i caffè, i negozi, le fabbriche di ceramica e di vetro famose in tutto il Medio Oriente, sono sbarrati. Due cani randagi frugano fra i mucchi di immondizie abbandonate sulla strada. Benvenuti a Hebron, la città sotto assedio da sei giorni. Più di metà degli oltre 250 uomini di Hamas arrestati in risposta al rapimento di Eyal, Gilad e Naftali - i tre seminaristi ebrei scomparsi giovedì scorso in un incrocio alle porte della città - sono stati prelevati dalle case qui attorno. Uomini del Sayeret Matkal, i reparti speciali dell’Esercito, frugano in ogni casa sospetta, magazzino, cantina, negozio, pollaio, dell’abitato.
Nelle colline circostanti si vedono i mezzi militari muoversi nelle campagne. L’Unità 669, specializzata nelle ricerche, e una brigata di paracadutisti stanno cercando in fattorie, grotte, pozzi, granai, mulini e cisterne dell’acqua, la possibile prigione. Perché i generali che comandano le operazioni sono convinti che i tre studenti israeliani siano ancora tenuti prigionieri nell’area urbana o nelle vicinanze, da sempre un caposaldo di Hamas. Soltanto qualche mese fa qui circolava un manuale di Hamas - che considera il sequestro di israeliani l’arma migliore per ottenere il rilascio dei palestinesi detenuti in Israele - di 18 pagine a circolazione interna dal titolo “Guida per il rapitore”, con suggerimenti e consigli ben dettagliati.
Al sesto giorno Israele si consuma nell’ansia di quest’attesa, di un segnale, un indizio, una rivendicazione. I rapimenti degli islamisti non sono una novità, ma il fatto che questa volta riguardi tre giovani seminaristi, usciti dalla yeshiva quasi inconsapevoli dei rischi legati al fatto di attraversare a tarda sera un territorio ostile, pieno di minacce, ha colpito l’immaginario collettivo. Soprattutto i giovani, i ragazzi israeliani hanno reagito con forte emozione. In migliaia stanno postando il loro sostegno all’hashtag “Bring back our boys”, lo hanno fatto anche due giovani arabi israeliani che abitano a Nazareth e che per questo hanno ricevuto minacce di morte.
L’esercito non si fermerà finché «non avrà messo le mani sui rapitori e non avremo riportato a casa i ragazzi», ha promesso ieri il ministro della Difesa Moshe Yaalon, che ha incontrato alcuni parenti dei giovani scomparsi che hanno potuto ascoltare la registrazione della telefonata che uno di loro ha fatto giovedì notte al centralino della Polizia, sussurrando: «Siamo stati rapiti». La Polizia spera che le famiglie, ascoltandola, si rendano conto quanto fosse difficile capire dalla telefonata che si trattava di una richiesta di soccorso reale e non di uno scherzo, come è spesso accaduto in passato e accade in questi giorni.
Negli istituti religiosi, fra gli amici, i parenti, si susseguono le preghiere collettive per un loro rapido ritorno a casa. Tutti si sono stretti a fianco delle famiglie. Ieri i compagni di studi di Eyal, il più grande dei tre, han- no portato ai suoi genitori un filmato girato le scorso Purim ( il carnevale ebraico), in cui si vede Eyal che nella tradizionale recita della festa, che interpreta la parte di un soldato che libera ostaggi rapiti. Certamente non ha mai pensato che un giorno, non lontano, si sarebbe trovato in un contesto simile ma nella parte della vittima.
Il presidente palestinese Abu Mazen, si sente pugnalato alla schiena dal coinvolgimento di Hamas nel rapimento ad appena due mesi dalla “riconciliazione”. «Chi lo ha compiuto vuole distruggerci» ha detto ieri mattina al vertice arabo di Jedda, ricevendo in cambio da Gaza l’accusa di tradimento dal portavoce degli integralisti. Perché anche gli uomini del generale Adnan Al Damiri, il capo dei servizi segreti palestinesi, stanno collaborando alla ricerche dei rapiti e sono stati discretamente sguinzagliati per la città. All’appello degli arrestati in città mancano due boss delle Brigate Ezzedin Al Qassam - il braccio armato di Hamas - che da giovedì, il giorno del rapimento, sono scomparsi nel nulla e potrebbero essere coinvolti.
Ma il “colpo” sarebbe stato fatto da un piccolo gruppo criminale attivo nel furto di auto legato ad ambienti integralisti e salafiti. In città due anni fa è stata sgominata una cellula composta da sei persone, uccisi in due scontri a fuoco. Mohammed Nairuk, il loro leader, era stato espulso due anni prima da Hamas per il suo «estremismo religioso». Questi gruppi di solito operano in cellule molto piccole, non predicano il loro messaggio e non raccolgono fondi dalla gente. Per questo rintracciarli è un compito particolarmente difficile.
«Arriveremo ai rapitori, è solo questione di tempo», promette anche l’ufficiale che comanda il plotone schierato all’ombra del complesso della Tomba dei Patriarchi. Ma di tempo non ne resta molto, fra meno di dieci giorni inizia il Ramadan - mese sacro per i musulmani e sempre già gravido di tensioni - e non sarà possibile fare operazioni militari di questa ampiezza in Cisgiordania senza suscitare la reazione della popolazione palestinese. E anche Israele ha fretta di risolvere il “caso”, nessuno dei suoi politici vuole trovarsi di fronte ad un nuovo caso Shalit, il soldato rapito a Gaza e liberato dopo cinque anni di prigionia in cambio della liberazione di più di mille detenuti palestinesi, buona parte dei quali in questi giorni è tornata in cella.

La Stampa 19.6.14
Scontro tra Abu Mazen e Hamas  sul sequestro dei tre ragazzi israeliani
La condanna dell’Anp: “Chi ha compiuto questo atto dovrà risponderne”.
Nelle ultime 24 ore arrestati altri 65 militanti di Hamas , inclusi 50 che erano stati liberati nel 2011 in cambio della liberazione di Gilad Shalit
di Maurizio Molinari

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Repubblica 19.6.14
Il reportage.
Recife, la coppa e le baby prostitute Quei figli del porto nati per un regalo
Un esercito di operai per i cantieri mondiali. Bambine di 12-13 anni adescate. Sesso in cambio di un telefonino
È la storia di Maite e tante altre. Che ora hanno deciso di ribellarsi
di Concita De Gregorio



RECIFE. CHIAMA il 100, dice il ventaglio di cartone che i ragazzi distribuiscono all’aeroporto di Recife a chi arriva, giocatori e turisti, tifosi. Un triangolo per farsi vento allo stadio, se farà caldo come all’una di domani di certo farà: da una parte è disegnata la faccia di una bambina, dall’altra uno stadio, un pallone, una Coppa. “Durante il Mondiale raddoppia l’attenzione. Se vedi qualcuno che adesca un minore, chiama il 100”.
Maite, per esempio, Maria Teresa, ha 17 anni. C’è anche lei oggi e domani a manifestare all’uscita degli arrivi internazionali, con i suoi ricci lunghi i suoi occhi grandi e un volantino giallo in mano. Sul cartoncino due bambini, maschio e femmina, tengono un fiore, sono davanti allo stadio, sopra c’è scritto: “Facciamo squadra per una Coppa senza abusi sessuali”. Maite è molto di buon umore, oggi. E’ contenta di essere vestita con la camicetta azzurra abbottonata, in mezzo a tanta gente che le dice brava e le sorride, stasera poi c’è una festa si mangia sulla spiaggia e per una volta è solo una festa, non c’è prezzo da pagare dopo. «Ho cominciato cinque anni fa, quando sono iniziati i lavori per le strade e per lo stadio nuovo. Sono arrivati in città tantissimi uomini, operai, da tutto il paese. Vivevano tutti insieme nei prefabbricati accanto alle zone dei cantieri. Una sera ero seduta su un muretto che aspettavo il bus per tornare a casa. Si è avvicinato un ragazzo con la tuta blu da lavoro e mi ha detto hai cenato, vuoi venire a mangiare in un ristorante bello? Io non avevo mangiato niente tutto il giorno, e ho detto sì. Lui era giovane, si chiamava Antonio. Abbiamo mangiato carne. Poi dopo cena mi ha detto adesso però devi essere gentile con me come io sono stato con te. Io ho capito subito ma non l’avevo mai fatto, avevo 12 anni. Mi ha detto non avere paura, è una cosa di un momento. Infatti è stato proprio un momento. Sono arrivata a casa e mi sembrava che non fosse successo niente, non ho detto niente a mia madre. Poi lui è tornato a cercarmi alla fermata e ci siamo visti ancora. Una sera mi ha regalato un cellulare, dopo mi dava i soldi per la ricarica: così ti posso chiamare, mi diceva. Dopo un po’ di tempo è venuto con degli amici del cantiere, e io non riuscivo a dirgli di no, ormai, lui diceva è un mio amico, fammi il favore. Cambiavano sempre, e se devo dire la verità è orribile fare sesso così con persone che non conosci. Però era veloce, e ormai ero abituata. Dopo sono rimasta incinta ».
A Recife le bambine come Maite sono migliaia. I loro figli li chiamano, in città, i “figli di Suape”. Suape è il nuovo porto costruito per la Coppa, un grande cantiere infinito. I figli del porto. Migliaia di uomini soli sono arrivati da ogni parte del Brasile. «Vanno a cercare le ragazzine al mercato all’ora della spesa, di giorno – dice Cleide Pereira, responsabile della sicurezza sulla costa di Cabo Sant’Agostino – le avvicinano con la promessa di una cena, regalano loro un vestito, un cellulare. Ormai anche le ragazzine vanno al mercato sapendo di incontrarli: cercano quelli che hanno la tuta da lavoro, perché se hai un lavoro vuol dire che hai soldi dunque qualcosa regaleranno. La cosa che più mi impressiona è che da qualche anno a questa parte c’è stata una specie di “normalizzazione” della prostituzione. E’ cambiato il modo di percepirla anche da parte di chi soffre gli abusi. Queste bambine di 12, 13 anni non hanno l’impressione di prostituirsi, di subire violenza. Pensano che sia normale dare sesso in cambio di una maglietta o di 100 reais per la ricarica. Anzi quasi se ne vantano, alle volte: pensano di essere loro a decidere, di essere libere. E’ solo quando restano incinta che a volte, ma non tutte, vengono al centro a chiedere di abortire. Vanno a scuola, dicono che stanno solo facendo qualche soldo per comprarsi i vestiti, con gli uomini, che poi andranno all’università. E invece quasi sempre finiscono con malattie terribili, perché nessuno di quelli che vanno con loro usa protezioni. In questa regione abbiamo l’incidenza di cancro al collo dell’utero più alta del Brasile, oltre all’Aids. E poi quasi sempre arriva la droga».
Lungo tutta la costa del Nord Est, da Fortaleza a Salvador, la prostituzione minorile ha percentuali cinque volte più alte che nel resto del paese. Il mare, i gringos in vacanza, la notte tiepida e la caipirinha nei resort. E’ il secondo business della regione dopo l’industria, primo nella classifica occulta delle attrazioni turistiche. Primo fra i business, sì, ripete Alice Oliveira, attivista di un’associazione per la prostituzione sicura. «Non pretendiamo di abolirla, ma che almeno sia sicura per chi la pratica. Qui molte ragazze, anche tra le donne adulte e tra i transessuali, hanno paura degli occidentali, dei gringos, perché quando succede qualcosa che non va scappano, e spesso sono violenti. Però è lavoro, e allora da mesi si stanno preparando per accogliere i turisti del Mundial: studiano inglese, rinnovano il guardaroba e aumentano le iniezioni di silicone».
Studiano inglese per accogliere i turisti. Dediana Souza, transessuale, è in trasferta da Fortaleza per la partita di dopodomani. L’offerta, se può viaggiare, segue la domanda dove è più ricca: «Ci sono dei gruppi che si trovano per fare pratica delle lingue straniere. Anche italiano, che è facile e gli italiani sono tantissimi, e poi il tedesco, che è invece è molto difficile ma coi tedeschi è difficile farsi pagare perché pensano che noi qui lo facciamo per natura, questo, dunque bisogna saper discutere. Io lo so che è un lavoro molto rischioso, il nostro, specie le protesi di silicone industriale portano problemi e malattie. Ma tutte qui sperano che arrivi il principe azzurro a portarle in Europa e qualcuna ci è riuscita. La Gabriela vive in Italia, ora, e la Mariana nella Belgique. Sono una su mille, è vero. Ma una su mille è molto».
Il governatore è andato in tv in giacca e cravatta, l’altro giorno, a dire che qui non c’è piaga di turismo sessuale, è una menzogna, i turisti sono tutti famiglie e gente che viene per lavoro. I giornali diligenti hanno riferito in prima pagina senza commenti. Maite sorride, distribuisce volantini all’aeroporto, dice: «Si vede che il governatore non ha figlie, se no non parlerebbe così. Se no lo saprebbe benissimo cosa succede nei bar di Recife la sera ». Quello che succede, nell’antico centro coloniale, è che in certi bar si entra pagando 50 reais per una bibita: dentro ci sono le ragazze, ai tavoli. Se ne sceglie una, lei per uscire dal bar deve consumare (farsi pagare dal cliente) un’altra bibita. 100 reais per il barista, tutto in regola, nessuno sfruttamento, solo normale consumo. I due escono dal locale e nella porta accanto c’è quasi sempre una casa di appuntamenti a ore. Pagano come una qualsiasi coppia per il tempo che serve. Nessun reato. In Brasile la prostituzione non è illegale, lo è lo sfruttamento e in questo sistema nessuno, apparentemente, forza nessuno. Il problema si pone quando si tratta di bambini e adolescenti, maschi e femmine. Ma i bimbi non stanno nei bar, stanno nelle panchine di fronte, nella piazza e per strada, sul lungomare e nei mercati coperti. Tutti sanno dove cercarli. La polizia passa accanto e li ignora. Maite: «Alcuni dei poliziotti li conosciamo bene, vengono da noi anche loro. La mia amica Patricia te li può indicare. Lei è ancora lì al mercato, la trovi se vai a cercarla dopo le sette di sera. Ha 17 anni come me, eravamo a scuola insieme, e già due figli. Li cresce sua madre, che non le dice niente perché qualche soldo a casa lo porta e alla fine comunque si mantiene da sola. Io no, ho smesso perché ho avuto troppa pena quando Antonio non è venuto più alla fermata, non sapevo dove cercarlo e non ho avuto più voglia di andare con gli altri, poi ero incinta. Il bambino l’ho tenuto, ho pensato di abortire all’inizio ma poi l’ho tenuto. Mi faceva dispiacere toglierlo via, che Antonio era bello e con me era gentile: magari Roberto è figlio suo, magari da grande diventa come lui e se ci penso, non so come spiegarti, sono contenta».

La Stampa 18.6.4
Giappone, la legge anti-pedofilia lascia liberi fumetti e manga
Fino ad oggi Tokyo non aveva ancora previsto leggi che limitassero il possesso di materiale pedo-pornografico. oggi è stata approvata, ma con la licenza di utilizzare immagini di minori
di Ilaria Maria Sala

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Repubblica 19.6.14
Viaggio nella sinistra europea Rischia davvero di scomparire?
di Marc Lazar


Ma la sinistra può veramente scomparire? Se lo è chiesto recentemente il primo ministro francese Manuel Valls, davanti al Consiglio nazionale del Partito socialista. Certo, i sintomi di un suo declino appaiono sempre più numerosi: la sconfitta storica alle elezioni municipali di marzo, e quindi quella, altrettanto storica, alle europee (meno del 14% di voti); e poi il record di impopolarità del presidente François Hollande, le lacerazione interne, l’uscita di numerosi membri… Proviamo a ragionare a mente fredda.
Ancora qualche anno fa il Ps era sulla cresta dell’onda: aveva vinto nel 2008 in numerose città, e nel 2010 in quasi tutte le regioni, conquistato il Senato e prevalso alle legislative nel 2012. Una prima spiegazione che sembra imporsi per l’attuale fase negativa è quella del semplice ribaltamento congiunturale di una fascia di elettori versatili. Il presidente Hollande ha deluso, la crisi economica permane, la disoccupazione e le disuguaglianze aumentano. Tutto ciò porta a penalizzare il partito al potere. Non vi sarebbe dunque nulla di allarmante; tanto più che da sempre il socialismo francese ha subito un’alternanza di alti e bassi. Ma in passato, nei momenti difficili poteva almeno contare su due basi di ripiegamento, che servivano poi da trampolini per ripartire: la rete dei comuni e quella dei dipendenti del pubblico impiego. Oggi entrambe sono soggette a una pericolosa erosione, che mette a repentaglio la casa socialista.
Il Ps non ha mai veramente risolto le questioni essenziali che si pongono a tutta la sinistra europea. Che tipo di organizzazione costruire in questo periodo contraddittorio, di disaffezione per la democrazia e di rivendicazioni partecipative? Come riguadagnare credibilità, a fronte della crescente diffidenza verso la classe politica, considerata corrotta e incapace? A quale leader affidarsi, ora che il trionfo della personalizzazione e dell’iper-mediatizzazione ha sconvolto la concezione politica classica della sinistra? A quali elettori fare appello in via prioritaria: ai ceti medi benestanti e istruiti, aperti alla globalizzazione, o alle classi popolari sempre più insofferenti, che si sentono abbandonate e rispondono col no all’Europa e agli immigrati? Quali politiche pubbliche adottare, in campo economico e sociale, a fronte di un capitalismo di tipo nuovo e della crescente europeizzazione, in una situazione in cui il welfare non è più sostenibile in forme identiche a quelle tradizionali? Quale strategia elaborare: alleanza a sinistra o accordo col centro? Infine - questione lancinante - quale significato identitario dare al socialismo e alla sinistra del XXI secolo?
Della scomparsa ineluttabile della sinistra si parla ormai da decenni: dopo la caduta dei partiti comunisti negli anni ‘80 doveva essere la volta dei socialisti. Ma i risultati delle ultime elezioni europee invitano a un giudizio più articolato. La sinistra riformista ha ottenuto il 25,4 per cento dei voti contro il 25 del 2009, ha conquistato sette seggi e ridotto la distanza rispetto al Partito popolare europeo. C’è stato, è vero, il tracollo di alcuni partiti, ovviamente in Francia, ma anche in Grecia e in Spagna. Tuttavia in Germania l’Spd ha guadagnato terreno (anche se il partito di Angela Merkel rimane in testa) come del resto il Labour (superato però dall’Ukip). Infine, e soprattutto, c’è stato il trionfo del Pd. D’altra parte, tranne alcuni casi, la sinistra radicale ha registrato progressi di scarso rilievo.
In verità, l’Europa sta vivendo una metamorfosi politica generale. La destra e la sinistra devono affrontare la sfida dei movimenti populisti e di protesta, che turbano più o meno gravemente - a seconda del tipo di legge elettorale - il sistema dei partiti. Hanno esacerbato e sfruttato la delusione nei confronti dei partiti di governo, il grave disagio sociale e le tante paure di popolazioni in via di invecchiamento, bisognose di protezione. La sinistra deve dunque ripensare i suoi fondamenti, la sua azione, il suo modo di concepire la politica per rispondere alle sfide generate dalle formidabili mutazioni che stanno sconvolgendo e lacerando le nostre società. Data la sua storia, è abituata a queste operazioni di «revisione» che suscitano sempre vivaci polemiche nelle sue fila. L’ultima, negli anni ‘90, fu la Terza via, nata in Gran Bretagna con Anthony Giddens e Tony Blair. Sarà ora la volta dell’Italia, con Matteo Renzi, maestro della comunicazione, pragmatico e iconoclasta? Riuscirà il premier italiano a realizzare tutte le riforme e innovazioni annunciate, che potrebbero allora ispirare altre componenti del Partito socialista europeo? D’ora in poi, è in Italia che si gioca una parte del futuro della sinistra europea. Traduzione di Elisabetta Horvat

RRepubblica 19.6.14idare ai cittadini fiducia nella democrazia
di Guido Crainz



LA CRISI della sinistra - accentuata in queste settimane dal disastro francese, ma attenuata dal successo italiano - ha radici lontane: parte già negli anni Settanta, quando vengono meno alcuni suoi capisaldi come la centralità della classe operaia; e si aggrava negli Ottanta, quando per la prima volta dal dopoguerra la modernità non coincide più con l’estendersi dei diritti collettivi. Da qui lo spaesamento evidente negli ultimi anni della leadership di Enrico Berlinguer. Il successivo tramonto della Prima Repubblica non inverte la tendenza, a causa dell’incapacità da parte della sinistra di proporre modelli di buon governo - che pure sperimenta sul terreno da tempo, ad esempio con l’esperienza dei sindaci. Di fronte a questa crisi così antica, possiamo ancora pensare, oggi, a una politica di sinistra? Un’operazione del genere può riuscire solo se cammina su due gambe. La prima è il ridare fiducia nella democrazia ai cittadini: su questo il nuovo Pd italiano ha fatto un grande lavoro, mentre negli altri paesi europei si è visto poco. Il secondo aspetto riguarda l’equità sociale: e anche qui la sinistra italiana dopo anni di afasia sta tentando di agire. Ma solo recuperando un’idea forte della centralità dell’Europa, condivisa dai progressisti della Ue, ci potrà essere quella rifondazione generale ora più che mai necessaria. (Testo raccolto da Claudia Morgoglione)

Repubblica 19.6.14Basta con il collettivo il centro è l’individuo
di Alain Touraine


STIAMO vivendo una mutazione storica, il passaggio dalla società postindustriale a un’altra ancora in costruzione. In questa fase, non solo la sinistra è in crisi, ma tutto il quadro politico tradizionale. Oltretutto in Francia non è mai stata tentata una vera politica di sinistra. È quindi difficile definire la sinistra, che per altro appare sempre più sconnessa dalla realtà. E la sua classe dirigente pensa solo a riprodurre se stessa. Eppure, di fronte alla crisi delle democrazia che si manifesta in Europa, mi sembra che la sinistra sia maggiormente attrezzata per difendere i principi democratici. Per fare ciò deve però cambiare radicalmente e tornare a dialogare con la società. Ad esempio, deve smettere di pensare che il conflitto centrale sia ancora quello tra i salariati e l’impresa. Oggi non è più così, anche perché il capitalismo industriale è stato soppiantato dal capitalismo finanziario. Oggi il conflitto è tra il mondo della produzione, di cui fanno parte sia i salariati che le imprese, e il mondo della speculazione, della rendite, della corruzione, delle corporazioni, degli interessi locali. La sinistra deve smettere di privilegiare la dimensione collettiva, rimettendo l’individuo al centro. Il che non significa difendere l’individualismo consumistico o gli interessi egoistici, ma farsi carico della difesa dei diritti umani fondamentali. Solo così avrà un futuro. (Testo raccolto da Fabio Gambaro)

Repubblica 19.6.14Combattere l’eterna lotta alle disuguaglianze
di Massimo L. Salvadori


SENTIAMO parlare da oltre un secolo di questa malattia della sinistra. È ricorrente. Alla fine dell’800 si erano messe in discussione anche le tesi di Eduard Bernstein sulla socialdemocrazia tedesca. E poi c’è stata la catastrofe della Prima guerra mondiale, quando la sinistra si è divisa tra socialdemocrazia e comunismo. E ancora, il trionfo del nazismo, il crollo dell’impero sovietico. Però la sinistra è come un malato grave che alla resa dei conti resta sempre in piedi. È davvero inguaribile? O invece la malattia, pur restando tale, non metterà mai in discussione la sua sopravvivenza? Citando Bobbio e il suo saggio Destra e Sinistra ( riedito recentemente da Donzelli con l’introduzione dello stesso Salvadori ndr ) la sinistra è andata incontro a crisi tremende, divisioni profonde, contrasti interni ma è sempre lì, perché è sempre lì il problema delle disuguaglianze. Anche oggi che non esiste più una classe operaia, le disuguaglianze sono abissali. Il problema è affrontare queste disuguaglianze; ma chi ne ha la forza? Ecco allora che la sinistra è malata perché dimostra di non avere la forza, i mezzi, la chiarezza culturale per affrontare un compito di tale portata. Ma, anche se malata, le sue radici non si recidono. Quindi non si può dare per morta. La sua missione è ancora quella di trovare la forza necessaria per risalire la china. (Testo raccolto da Alessandra Rota)

Repubblica 19.6.14Ritrovare l’identità contro il neoliberismo
di Marco Revelli


NON credo che l’Italia sia il terreno dove si decide il futuro della sinistra europea. Piuttosto il contrario: il destino della sinistra italiana si gioca in buona parte in Europa. Se a Bruxelles si confermasse una logica di grandi intese, per il governo Renzi non esisterebbe neppure il minimo spazio per una politica di sinistra, supposto che un barlume di questa rimanga nelle sue intenzioni. Potremmo anche dire che una parte del suo programma è in larga misura quello di un conservatore: la volontà di ridurre al minimo le rappresentanze sociali, la forte personalizzazione, la verticalità del comando politico sono fatte per avvicinare un elettorato di destra. Come pure le “riforme” dettategli dai vertici europei. D’altra parte non è vero che la sinistra radicale è rimasta ferma: laddove è riuscita a contestare la logica dell’austerità, come in Grecia, Spagna e Irlanda, ha ottenuto dei grandi risultati. Mi sembra chiaro che se c’è uno spazio per la sinistra questo è dato dal contrasto frontale alle dogmatiche centriste europee. La sinistra in quanto tale, aldilà delle etichette, sopravviverà solo se riuscirà a fare saltare gli equilibri europei fortemente incentrati sull’asse neoliberista. Deve costruire un polo alternativo a quella logica, non un’ala moderata interna. In caso contrario lascerebbe delle immense praterie ai populisti e sarebbe la vera catastrofe per l’Europa. (Testo raccolto da Stefania Parmeggiani)

La Stampa 19.6.14
La passione per la musica, il cinema, la montagna
In un’intervista del ’99 l’altra faccia del filosofo
Da ragazzo suonavo in un’orchestrina jazz
di Norberto Bobbio


Appartengo a una famiglia da parte di madre di musicomani e melomani dilettanti. Nella vecchia casa di famiglia a Rivalta Bormida c’era non solo il pianoforte che mio zio suonava discretamente, ma anche una specie di armonium da salotto che si faceva agire con due pedali ed emetteva suoni simili a quelli degli organi di chiesa. Lo suonavo, avendo cominciato lezioni di piano da bambino, furtivamente. Quando parlo di musica intendo soprattutto l’opera italiana, e quando parlo di opera italiana, intendo non solo Verdi e Donizetti, ma gli autori allora contemporanei, Puccini, Mascagni (L’amico Fritz), Giordano (l’Andrea Chenier) e Catalani (la Loreley). Si leggevano trasferite sugli spartiti per pianoforte con la terza riga per il canto. Ad ascoltare musica al di fuori dalle pareti domestiche sono stato iniziato subito dopo la prima guerra mondiale, quando riprese la stagione d’opera al Teatro Chiarella, che ora non esiste più, con la Traviata, di cui ricordo ancora il nome (Dolci!) del tenore. Da allora ho riascoltato la commovente vicenda di Violetta non so quante volte. Posso ricantarla dentro di me quasi per intero, sino alla bellissima aria dell’ultimo atto Addio, del passato... e al celebre duetto Parigi, o cara... Ai concerti sono arrivato più tardi, in Liceo. Ricordo ancora il primo, ascoltato nel vecchio conservatorio torinese, oggi diventato un teatro intitolato a Piero Gobetti. Era il concerto del noto pianista Guido Agosti, che si agitava suonando e lasciava trapelare nei movimenti del volto la sua forte emotività. Con alcuni compagni, tra cui il più appassionato di musica era Ginzburg, si facevano lunghe code al Teatro Regio per entrare nei posti non numerati e assistere ai concerti, tra i quali ricordo benissimo le sinfonie di Beethoven dirette da Toscanini, e alla stagione d’opera. Erano gli anni in cui Wagner aveva quasi completamente eclissato Verdi. Ricordo ancora l’enorme impressione che mi fece il Parsifal, cui assistetti, alla fine stanchissimo, in piedi. Da allora il Parsifal, soprattutto l’ultimo atto, è diventato il mio ideale del sublime in musica. 
Cominciai a suonare il piano a sei anni, come era abitudine allora nelle case borghesi. L’ho studiato per anni senza raggiungere una perizia tale da convincermi a proseguire. Lo abbandonai quando entrai all’università. Mi esibivo nella festa di mio padre, il 21 giugno, san Luigi. L’ultimo anno il pezzo presentato fu un noto Notturno di Chopin. Erano anche gli anni in cui aveva fatto strepitosamente apparizione il jazz. La prima orchestrina di jazz l’ascoltai insieme con mio fratello a Parigi, dove eravamo andati da soli durante l’esposizione universale del 1925. Con gli amici delle vacanze tra Rivalta e il paese vicino, Orsara, avevamo dato vita a una piccola orchestrina cui avevamo dato il nome di ‘Dahomey Jazz Band’, che veniva invitata anche a Torino nelle feste danzanti familiari. Un mio cugino, figlio dello zio musicologo, diventò un autore di canzonette, di qualche successo, di cui la più nota fu Negro, povero negro. L’animatore del gruppo era l’amico Riccardo Morbelli, che diventò celebre a Torino dopo qualche tempo per aver scritto e rappresentato insieme con Angelo Nizza I tre moschettieri, le cui figurine venivano ricercate, e ancora recentemente un giornalista ha raccontato la ricerca affannosa di quella che era diventata rarissima, Il feroce saladino. Ho frequentato la stagione d’opera al Regio e i concerti sinfonici dell’Auditorim della Rai sino a pochi anni orsono. Oggi mi debbo accontentare di ascoltare alla sera la musica trasmessa dal Terzo programma e i CD, di cui gli amici mi fanno dono.
Come tu sai, Torino è stata all’inizio del secolo sino a dopo la prima guerra mondiale la patria del cinema italiano. Ne eravamo, da ragazzi, orgogliosissimi. Ricordo bene gli studi alla periferia della città, che da tempo sono stati distrutti. I primi film, quindi, che ricordo sono quelli italiani. Tra i più celebri Cabiria 40, sceneggiato da Gabriele D’Annunzio. Il personaggio che svolgeva il ruolo dello schiavo romano era uno scaricatore del porto di Genova, alto quasi due metri e forzuto, cui era stato dato il nome di ‘Maciste’. Col nome di Maciste recitò film famosi, tra cui subito dopo la guerra Maciste alpino 41. Tra gli attori drammatici di film, che ora si direbbero dell’orrore, il più famoso era Emilio Ghione, che aveva adottato come nome d’arte Za la Mort, la cui inseparabile compagna per contrasto aveva preso il nome Za la Vie42. Degli attori comici i più noti erano Polidor43 e Cretinetti44: la comicità derivava anche dalla accelerazione con cui i movimenti degli attori erano ripresi. La moda del film americano venne qualche anno dopo, tra il 1920 e il 1930, e il film italiano scomparve. Cominciò allora la passione per i film western, tanto lunghi che venivano divisi in diverse puntate. Ogni puntata terminava con una scena che mozzava il fiato e costringeva a vedere all’inizio della puntata seguente come la situazione si risolveva. Ogni film drammatico veniva chiuso dalla comica finale, di cui il protagonista era allora Ridolini45. Esordì in quegli anni un giovane silenzioso, che non rideva mai, e sembrava che nessuna delle gag lo toccassero: diventò noto col nome di Stenterello e celebre col suo vero nome, Buster Keaton. Il cinematografo era l’America, qualche anno prima dell’America dei romanzi che conquistarono il lettore italiano attraverso le traduzioni di Vittorini e di Pavese. [...]
Se ci riferiamo a quegli anni, i film che mi hanno lasciato una più profonda impressione non sono quelli americani, tranne forse, per la straordinaria bellezza e bravura, quelli di Greta Garbo, ma quelli francesi dell’epoca d’oro di attori come Louis Jouvet (che veniva dal teatro) e Jean Gabin. Due film che mi piacerebbe rivedere, Carnet di ballo e Alba tragica 46. Il più amato in quegli anni A nous la liberté, di René Clair47. Non posso però dimenticare lo stupendo film giapponese, che ho visto due volte, L’arpa birmana 48. Da anni, ti ho detto, non entro più in una sala cinematografica. L’ultimo film che ho visto è Schindler’s list 49
Devo la mia passione per la montagna a Valeria, che sin da ragazzina si era esercitata, insieme con sua sorella, accompagnate da una guida, a fare qualche difficile arrampicata. Nelle mie vacanze prima con la mia famiglia e poi da solo preferivo il mare. Una delle mie prime gite in montagna la feci con lei nella prima vacanza dopo le nozze, nell’agosto 1943, salendo a un colle in Valsavaranche, di cui ricordo ancora il nome ‘La Biula’, a più di tremila metri. Ho passato da allora tutte le vacanze in Valle d’Aosta, al Breuil, chiamato ora Cervinia, dove abbiamo dal 1953 un piccolo appartamento nel primo deprecratissimo condominio che, seguito successivamente da molti altri, ha sfigurato la conca da tanti artisti celebrata ai piedi del Cervino. Non escursioni, tanto meno ascensioni, ma gite nella giornata. Tutti i giorni: i primi anni anche coi figli, gli ultimi anni soltanto con Valeria. Una bella abitudine cui ho dovuto rinunciare da qualche anno. 
Ogni anno le stesse passeggiate, tanto da ricordare a memoria ogni tratto dei sentieri percorsi. Ma non ci siamo mai stancati. Gite senza meta precisa, alla scoperta di stagione in stagione, dei fiori che colorano i prati: prima gli anemoni, che in luglio sono già quasi tutti scomparsi, poi i rododendri, a fine stagione compaiono, specie sull’orlo della strada dove il terreno è stato smosso, cespugli interi di epilodii, a grappoli, col loro bel colore tra il rosso e il viola. C’è un piccolissimo spazio, che si raggiunge con una mezzoretta di cammino, dove crescono quegli elegantissimi fiori di colore celeste, che sembrano ad arte coltivati, le aquilegie. Ogni anno una delle nostre prime passeggiate è l’omaggio alle aquilegie. Pochi sanno dove sono, tanto che avendole decantate in un breve libretto pubblicitario di Cervinia qualcuno ha finito per chiamarle «le aquilegie di Bobbio»52. 
Valeria ed io viviamo il più possibile appartati, ma non sono sfuggito a pubbliche cerimonie. Ne ricordo una soprattutto. Nel 1989 ricorreva il secondo centenario della cosiddetta ‘scoperta’ del Breuil. Non già che non vi fossero allora alcune case, dette ‘baite’, di pastori che portavano le mucche al pascolo all’inizio dell’estate, quando si scioglieva la neve. ‘Scoperta’ nel senso che per la prima volta il luogo fu ricordato in un documento letterario. Lo scienziato e alpinista Horace-Bénédict de Saussure, già noto per la prima ascensione sul Monte Bianco, si era trovato con alcuni amici al passo del Teodulo, attraverso cui il Breuil comunica con Zermatt, in Svizzera. Improvvisamente immersi nella nebbia, non proseguirono nel loro cammino e cercarono il rifugio più vicino, che erano appunto le baite del Breuil. Furono accolti, come De Saussure scrisse nel resoconto di quella escursione, dalla famiglia Hérin, che allora era la proprietaria di quell’alpeggio e lo è tuttora. Prima della scomparsa del vecchio Breuil, in seguito alla rapida e incontrollata crescita di Cervinia, i nostri figli, bambini, andavano a pascolare insieme col vecchio pastore Luigi e la sorella, che è stata l’ultima sopravvissuta della famiglia. L’amministrazione comunale di Valtournanche volle celebrare la data con una lapide sulla vecchia capanna ora diventata ristorante, che si riteneva fosse quella in cui De Saussure era stato ospitato. Toccò a me, dinanzi alle autorità del luogo, dopo un concerto della banda musicale, tirar giù il lenzuolo che copriva la lapide, tra gli applausi dei presenti, anche se l’operazione non mi riuscì facilmente e dovetti essere aiutato con una canna da un giovane che mi era vicino.

Corriere 19.6.14
Oltre il movimento
Quel ritmo corporeo che mima l’armonia dell’universoE il cammino diventa danza per procedere con dignità
L’uomo va avanti nel suo destino. Da interpretare
di Carlo Sini


«Mentre gli altri animali tengono proni lo sguardo verso la terra, gli dèi vollero che gli uomini, eretti, levassero il volto a mirare il cielo e a guardare le stelle»: così Ovidio nelle Metamorfosi (I, 84). L’intuito dei poeti trova qui una conferma, perché l’acquisto della postura eretta fu indubbiamente uno degli eventi decisivi per il destino degli umani sul pianeta. Per una ragione o per un’altra, forse legata ai mutamenti del clima e alla necessità di muoversi rapidamente nelle pianure africane, i nostri antenati impararono a camminare. Liberarono così, in un colpo solo, le mani e la bocca, destinandole a compiti nuovi e straordinari: dalla fabbricazione di armi e di utensili all’articolazione dei suoni della voce, mettendosi letteralmente in cammino verso il linguaggio. A dire il vero non furono i soli. Prima di loro altre specie e varietà di ominidi imboccarono la via della postura eretta e la perfezionarono per lungo tempo anche contemporaneamente a noi, ma non c’è dubbio che della marcia sul pianeta divenimmo poi i campioni assoluti, distanziando tutti gli altri, scomparsi via via nella oscurità di un passato che solo vaghe tracce testimoniano per il sapere dei nostri scienziati: anche loro hanno camminato a lungo e ancora camminano a ritroso con l’immaginazione e la ricerca.
Homo viator : Bruce Chatwin, nei suoi suggestivi racconti, ci ha ricordato che la maggior parte del tempo trascorso ci ha visti impegnati in un nomadismo perenne e che solo molto di recente siamo diventati stanziali. La nostra, secondo Chatwin, è nel profondo un’anima di viaggiatori, dotati di un corpo irrequieto come quello di Ulisse: se resta fermo declina, si ammala, non fosse altro per nostalgia dell’ignoto e del mai conosciuto. E così la metafora del viandante, che tutte le arti hanno frequentato e che nella musica di Schubert trova una realizzazione perfetta, è indubbiamente una delle più efficaci per comprendere la sorte dell’umana vicenda. Non ci siamo accontentati di misurare a grandi passi il giardino di Adamo; abbiamo voluto percorrere i mari e poi addirittura slanciarci nei cieli: non soltanto contemplarli come cantano i poeti.
Questo poi non è tutto, perché è molto riduttivo, o addirittura sbagliato, considerare la deambulazione degli umani solo dal punto di vista del movimento rettilineo di traslazione e dei parametri della velocità e della distanza percorsa. C’è dell’altro, che ci separa nettamente da tutti gli animali e ci rende unici sul pianeta. C’è il fatto cioè che noi e noi soli, per dire la cosa propriamente, danziamo, trasformando l’alternarsi dell’equilibrio e dello squilibrio nel movimento dei piedi in un ritmo corporeo e in un canto spirituale che mima palesemente l’armonia dell’universo e il ciclico corso delle celesti sfere: non si può negare che questo Ovidio l’avesse compreso. La danza è così il primo pensiero degli umani e la matrice di tutte le arti, sicché solo danzando e continuando a danzare, in senso reale e metaforico, testimoniamo di un inizio che nella notte dei tempi ci ha aperto, sulla terra e nel cielo, il cammino della verità e del destino. Molto povera sarebbe una cultura dimentica di questi aspetti, una cultura attenta solo agli esiti pratici e alla efficienza dei nostri mezzi di locomozione, anche se indubitabilmente straordinaria nel percorrere lo spazio che abbiamo reso disponibile alle nostre avventure. Bisogna ricordare che nella misura del chilometraggio il cerchione della ruota viaggia sì sempre più lontano, ma non può mai procedere più di quanto proceda il suo mozzo, l’immobile centro della ruota stessa.
Questa essenzialmente è la verità perenne della danza: ritmo del ritorno e della memoria ricostruttiva e costruttiva, senza la quale il procedere in avanti rischia di assomigliare al folle volo di Icaro, incarnazione sprovveduta dell’arte di Dedalo. Animali autenticamente tecnici, figli di quell’automa semovente che è la cultura, gli umani rischiano il non senso e forse la catastrofe se si dimenticano di danzare, cioè di procedere non solo con efficienza, ma anche con grazia e dignità, come diceva Schiller. Procedere memori di un destino che in ogni tempo va cantato e rappresentato, interpretato e riprodotto in tutti i saperi dell’umano, così che l’enigmatica luce che un giorno si accese continui a illuminare la notte e a dare senso al cammino.

l’Unità 19.6.14
Il giullare torna in Rai
Domenica su Rai 1 Dario Fo celebra i due Francesco
Dopo 15 anni il premio Nobel rientra dalla porta principale e in prima serata con uno spettacolo incentrato sul povero d’Assisi e Bergoglio


DUE UOMINI DI NOME FRANCESCO SULLO STESSO PALCO: IL SANTO «GIULLARE DI DIO» RIVIVE SULLA SCENA «CON LA VOCE DI UN NUOVO PERSONAGGIO, NON PREVISTO». È PAPA FRANCESCO, che Dario Fo fa coincidere moralmente alla figura del «poverello» di Assisi nella nuova versione, dopo 15 anni, di Lusanto Jullare Francesco. Ma la novità è che l’attore e Nobel per la letteratura rientra dalla porta principale alla Rai, con lo spettacolo registrato appositamente e che andrà in onda domenica in prima serata su RaiUno. La censura degli anni 60, nell’era democristiana della tv pubblica, sembra lontanissima per Dario Fo, e anche i difficili rapporti vissuti negli ultimi sette anni. Ora è un amore ritrovato, «mi sono venute le lacrime agli occhi quando abbiamo finito di girare - al centro di produzione tv di Napoli - per aver visto i tecnici che lo applaudivano...».
La censura? «Non è mai esistita, ho avuto completa libertà, è la prima volta che mi capita in televisione », racconta l’attore in una conferenza stampa, e altrettanto orgoglioso è Giancarlo Leone, direttore di RaiUno, per aver riportato il premio Nobel («il sesto...») alla rete ammiraglia, rivendicando «la totale autonomia editoriale da parte dei direttori: un tempo prima di decidere si sarebbe consultato un direttore generale». Anzi, per Leone è «l’occasione per chiedere scusa a Fo se in passato le cose sono andate in un altro modo».
La tappa romana di Dario Fo prevede anche la presenza oggi al Festival delle Letterature con una lettura scenica ispirata al suo ultimo libro, La figlia del Papa, in una serata con Silvia Ballestra nella piazza del Campidoglio alle 21 (al Teatro Quirino in caso di pioggia, ingresso gratuito).
Ad unire le figure dei due Francesco è quella brama di verità, quella lotta alla corruzione e alle discriminazioni, infatti nello spettacolo Fo cita alcuni passaggi del primo discorso di Bergoglio alla Cei, quando invitò i vescovi a prendere le distanze dalla «mediocrità». Perché «Francesco era un uomo del suo tempo», spiega Fo, ma da nuovi testi scritti da seguaci del Santo «ho compreso che quello che noi conoscevamo oggi di San Francesco non era la verità. Proprio in quel momento è arrivato Papa Bergoglio. Nessun Papa ha avuto il coraggio di essere così esplicito e diretto». Mistificazioni e censure che l’attore vuole svelare anche nello spettacolo su Lucrezia Borgia, appunto «figlia di un Papa», in scena a Nepi sabato prossimo. Per il «Jullare Francesco», diretto da Felice Cappa, Fo ha disegnato le bellissime scenografie e ha rielaborato il linguaggio, dal «lombardesco» usato dai giullari della prima versione messa in scena a Spoleto, a una rivisitazione in una sorta di «volgare medievale» che va «dall’umbro al napoletano », ma che è comprensibile. Soprattutto al grande pubblico televisivo al quale concede anche 5 minuti di dialogo con Mika, cantautore anglo libanese che del teatro di Fo sa tutto (la versione integrale dal 23 sul sito Rai.net).
Dario Fo è anche uomo del suo tempo e sull’apertura di Grillo a Renzi commenta: «Stiamo a vedere, mi auguro che ci sia un dialogo chiaro e non dietro le quinte». Quanto alla Rai, l’attore la vede più libera, rispetto a quando «il proprietario della tv concorrente la gestiva e la controllava dal di dentro, ora quel periodo terribile è superato e la Rai deve ritrovare la sua completa autonomia ». Ma, come racconta il figlio Jacopo, sette anni fa furono bloccate le bellissime lezioni d’arte del padre, sempre a tarda ora e di nicchia, «perché Fo, d’accordo con i frati di Assisi, disse che i dipinti della Basilica superiore non erano di Giotto ma di Pietro Cavallini». La cosa «non è piaciuta ai vescovi e da allora ogni proposta è caduta nel nulla».

il Fatto 19.6.14
Su RaiUno
Miracolo di S. Francesco, Dario Fo in prima serata
di Patrizia Simonetti


Pace fatta tra la Rai e Dario Fo che domenica torna in prima serata su Rai1 con la sua opera del 1999 Francesco Lu santo jullare in una versione rivista e corretta e in un nuovo linguaggio che potremmo definire un volgare medievale comprensibile a tutti, realizzata ad hoc nel centro di produzione di Napoli con la regia di Felice Cappa. “L’occasione per chiedere scusa a una persona che merita di essere onorata” dice Leone. “Una delle poche volte che ho la straordinaria sensazione di realizzare un pezzo di televisione in completa libertà, segno che la Rai vuole cambiare” fa eco il Premio Nobel.
Colpo di spugna dunque sulla cacciata da Canzonissima del 1962 della coppia Fo-Rame e del lungo esilio interrotto solo parzialmente 15 anni dopo con Mistero Buffo. Altri tempi. E altri Bernabei.
Ma cosa ci sarebbe poi da censurare nella vita del poverello di Assisi? Pare sia stato già fatto perché in nessun testo italiano si parla di Francesco come di “un uomo del suo tempo – dice Fo – che ha partecipato anche alla rivolta di Assisi e all’abbattimento delle torri, è finito in galera e parlava sempre di aiutare i poveri”. Lo ha scoperto leggendo altri scritti dei suoi seguaci ed è così che lo racconta . Una mano nell’ispirazione gliela dà pure Papa Francesco “arrivato come una meteora” dice lui, l'anticlericale che lo difende a spada tratta perché “nessun Papa è mai stato così esplicito e diretto contro la corruzione, anche nella Chiesa”. E poi c’è Mika, I due sembrano proprio inseparabili da quando a gennaio hanno duettato insieme dalla Bignardi dandosi reciprocamente del “pazzo”: poca cosa per ora, giusto una breve chiacchierata prima che si alzi il sipario, ma “abbiamo già registrato parte di uno spettacolo che faremo insieme” annuncia Fo perché, dice, “è un ragazzo preparato e parlare con lui mi diverte”.
MA NON C'È solo Francesco tra i personaggi distorti dalla storia e dal potere. Stasera al Festival delle Letterature di Roma, ospite anche la scrittrice Silvia Ballestra, Dario Fo presenta una lettura scenica dell'ultimo libro La figlia del Papa (Ed. Chiarelettere) pensato dopo aver visto I Borgia in Tv, che tratteggia una Lucrezia nuova, ricomposta grazie a testi stranieri ritrovati per il mondo, una donna che non accetta “il ruolo di puttana di scambio voluto dal padre e dal fratello – spiega l'autore – che fa visita ai carcerati e che inventa la banca dei poveri contro lo strozzinaggio delle banche”. Pare che se ne farà anche un film.

l’Unità 19.6.14
David Grossman apre «Anteprime in Versiliana»


Sarà David Grossman ad aprire «Anteprime» in Versiliana. Il festival delle anticipazioni dei libri che usciranno in autunno per Mondadori, Electa, Frassinelli, Piemme e Sperling&Kupfer si svolgerà dal4al 6luglio al Parco La Versiliana di Marina di Pietrasanta. Dalle 18.30 fino a tarda sera gli autori si alterneranno nei diversi spazi del Parco e saranno accompagnati dai loro editor per raccontare come si costruisce un libro, romanzo o saggio che sia. Ogni giorno ci saranno anche laboratori per bambini e ragazzi, oltre alla presenza della superstar Geronimo Stilton.

Corriere 19.6.14
Venti poemi inediti di Neruda scoperti in Cile: parlano d’amore


Oltre venti poemi inediti di Pablo Neruda (1904-1973), quasi tutti di tema amoroso, sono stati scoperti in alcune scatole che conservavano manoscritti del poeta cileno. Il ritrovamento è avvenuto durante una revisione degli archivi dello scrittore premio Nobel da parte della Fondazione Pablo Neruda in Cile, diretta da Dario Oses. L’annuncio è stato dato dalla casa editrice Seix Barral, che pubblicherà i poemi, finora sconosciuti, in volume alla fine del 2014 in Sudamerica e agli inizi del 2015 in Spagna. «Si tratta della più importante scoperta di inediti di Neruda», si legge in un comunicato diffuso da Seix Barral.
Nel corso della nuova catalogazione dei manoscritti, i ricercatori hanno riscontrato che alcune poesie manoscritte sono di «straordinaria qualità».

Repubblica 19.6.14
Tre giorni per scoprire arti e tradizioni popolari Dal Giappone a Bologna
“Città creative” Summit Unesco a Fabriano
di Raffaella De Santis



MESTIERI antichi si incontrano a Fabriano, dove dal 21 al 24 giugno si tiene il Forum Unesco delle “Città creative”. La città marchigiana è stata infatti inserita nel network Unesco nella categoria Craft and Folk Arts, artigianato, arti e tradizioni popolari. La nomina ha voluto premiare soprattutto l’antico sapere fabrianese della filigrana e della fabbricazione della carta.
Nei giorni del Forum s’intrecceranno sapienze artigianali da tutto il mondo: la città giapponese di Kanazawa racconterà delle sue decorazioni in lamine d’oro e d’argento; Hangzhou, importante centro tessile cinese, svelerà il segreto della soffice tessitura della sua seta; Santa Fe (New Mexico) parlerà dei manufatti tradizionali dei nativi Pueblo; Paducah (Kentucky, Stati Uniti) delle trapunte fatte a mano. Ci sarà anche Bologna, città creativa Unesco nella sezione musica. Sarà dunque un’occasione per confrontarsi intorno a una parola insidiosa come “creatività”: «Le città sono officine di cultura. È da qui che bisogna ripartire per fondare un nuovo modello di umanesimo», spiega Francesca Merloni, coordinatrice del progetto Fabriano Città Creativa. E infatti una sezione del Forum nella giornata di domenica, coordinata da Oliviero Beha, avrà come titolo proprio “La città ideale”. Nel pomeriggio interverranno Mauro Pagani, Philippe Daverio, Filippo La Porta, Giuseppe Cederna, Ramin Bahrami, Massimo Mercelli. Concerto finale con Cristiano De André. Il network delle Città Creative Unesco è stato lanciato dieci anni fa e conta oggi 41 città nel mondo. Colpisce però il fatto che nella lista, a parte Bologna e Fabriano, non compaiano altre città italiane. In tutte le sezioni (musica, letteratura, folk art, design, media arts, gastronomia, cinema) noi italiani non ci siamo. Neanche nella cucina, vanto intramontabile del made in Italy all’estero.

Il Sole 19.6.14
Terza edizione dell'iniziativa del Sole 24 Ore - Presenti i ministri Franceschini e Giannini
Cultura, Stati generali a Roma
Un ecosistema da rilanciare
di Pier Luigi Sacco


Si tengono oggi a Roma, al l'Auditorium Conciliazione, gli Stati generali della cultura organizzati dal Sole 24 Ore. L'iniziativa, nata dalla pubblicazione sulla Domenica del Manifesto per la cultura, è alla III edizione. I lavori iniziano alle 9,45. Partecipano il ministro della Cultura Franceschini e quello del l'Istruzione e dell'Università Giannini.

Solo cinque anni fa, il giornalista francese Frédéric Martel pubblicava un libro molto influente, Mainstream, nel quale passava in rassegna il panorama mondiale della produzione culturale e creativa.
La sua conclusione era netta: per quanto si stesse assistendo a un'impressionante moltiplicazione dei centri geografici di produzione di contenuti culturali anche in paesi economicamente emergenti, il predominio statunitense sulla scala globale appariva sostanzialmente indiscusso.
Lo scenario di oggi è alquanto diverso. Paesi come la Corea del Sud sono rapidamente diventati giganti della produzione culturale, capaci di penetrare non più soltanto nei mercati asiatici ma in quelli del Medio Oriente (e in prospettiva probabilmente in Europa). La Cina sta aprendo un numero impressionante di nuovi musei e centri di produzione multimediale. Alcuni paesi del Golfo aspirano a diventare i nuovi attrattori del grande turismo culturale con investimenti senza precedenti in strutture museali di ultima generazione. E questi sono solo alcuni degli esempi più eclatanti di un movimento tettonico. La centralità degli Stati Uniti in un simile contesto è sempre più in discussione, e a maggior ragione ciò vale per l'Europa, e quindi per l'Italia. Siamo di fronte a una fase di cambiamento di straordinaria portata, le cui conseguenze possono essere previste solo in parte, ma per la quale almeno una certezza l'abbiamo: per essere competitivi in paesi come il nostro bisognerà saper innovare, produrre e attrarre talenti e competenze, sviluppare nuovi modelli di business e al tempo stesso salvaguardare l'autenticità e il valore di ricerca della sperimentazione culturale contemporanea così come del patrimonio culturale e paesistico.
Ma non è più solo una questione di policentrismo geo-culturale. È anche, sempre più, una questione di senso individuale e sociale dell'esperienza culturale. Per accedere ai contenuti culturali non è più indispensabile (per quanto consigliabile) recarsi negli spazi deputati. L'esperienza culturale può oggi accadere in qualsiasi ambiente e in qualsiasi situazione, con il semplice ausilio di uno smartphone o di un tablet, e presto di tecnologie indossabili. Inoltre, la produzione stessa dei contenuti culturali è oggi sempre più diffusa e generalizzata: tutti noi produciamo continuamente contenuti, più o meno interessanti, più o meno originali, ma in ogni caso questa nuova situazione produce un fondamentale mutamento di prospettiva, nel quale il pubblico «passivo» diventa invece sempre più attivo, consapevole, partecipe, e sempre più co-creatore dell'esperienza piuttosto che semplice utilizzatore.
Non sono scenari futuribili, è quello che accade oggi, sotto i nostri occhi, se soltanto vogliamo vederlo. E le conseguenze sono importanti e profonde: occorrerà sempre più pensare alla cultura non più come un settore specifico dell'economia e della società, per quanto importante, ma piuttosto come un vero e proprio ecosistema che si connette con tutte le principali dimensioni della vita sociale ed economica: dalla salute all'innovazione, dalla sostenibilità ambientale alla coesione sociale, ovvero con tutte quelle dimensioni che hanno un rapporto diretto con la qualità della vita e con le determinanti fondamentali dei comportamenti individuali e collettivi.
In Italia, per quanti sforzi si stiano oggettivamente facendo per dare impulso a un sistema da troppo tempo trascurato nelle priorità delle scelte politiche e mortificato nei suoi ancora grandi talenti e competenze, siamo decisamente indietro, e se davvero vogliamo dare seguito alle nostre ambiziose affermazioni circa un futuro modello nazionale di sviluppo fondato sulla cultura, dobbiamo andare molto al di là di un volonteroso potenziamento di un modello di valorizzazione turistico-culturale del patrimonio che si fonda su una logica di produzione e disseminazione culturale sostanzialmente vecchia di decenni. In particolare, non è sufficiente lavorare su un salto di qualità dei canali digitali di promozione del nostro turismo culturale (che è necessario e che sta fortunatamente avvenendo), ma bisogna appunto lavorare sulla natura stessa dell'esperienza culturale e del suo rapporto con l'intera società e con l'intera economia del nostro paese. Le nuove priorità sono, ad esempio, l'aumento delle competenze culturali e dei livelli di partecipazione attiva dei nostri cittadini, oggi ben sotto la media europea, il raggiungimento di standard di connettività digitale adeguati ai nostri obiettivi di posizionamento competitivo (e anche questi ben sotto la media europea), la digitalizzazione del patrimonio (che è molto, molto di più della semplice scansione digitale dei contenuti, e per capirlo basta una semplice visita al sito di Europeana, la biblioteca digitale europea), lo sviluppo di modelli di business che tengano conto della fisiologica evoluzione (leggi, in prospettiva: dissoluzione) dell'attuale regime della proprietà intellettuale, e in ultima analisi l'elaborazione di una chiara strategia di sviluppo del sistema della produzione culturale e creativa, possibilmente supportata, come accade oggi in tutti i paesi europei più competitivi nel settore, da un'agenzia di sviluppo nazionale che impieghi le migliori competenze disponibili (come ad esempio Nesta nel Regno Unito o Kultur Styrelsen in Danimarca).
Vaste programme, osserverà qualcuno. E magari è vero. Ma se è così, sarà allora il caso di rinunciare anche ai nostri vasti proclami su cultura e futuro, e puntare su opzioni di sviluppo diverse, più realistiche e modeste. Se invece crediamo davvero che la cultura sia uno dei settori chiave per ricostruire la nostra economia, sarà bene rendersi conto che l'asticella è molto, molto in alto, e che sarà bene iniziare ad allenarsi sul serio e prendere una rincorsa bella lunga. C'è chi lo sta facendo da tempo, e non aspetta certamente noi.

Il Sole 19.6.14
Al via gli Stati generali della Cultura: parola chiave, valorizzare il patrimonio
di Armando Massarenti

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