venerdì 20 giugno 2014

l’Unità 20.6.14
Left: De Luca a giudizio per delle parole. E Borghezio?
di Giovanni Maria Bellu


Il prossimo numero di left, domani in edicola con l’Unità, è dedicato alla fiction. Alla fiction in senso stretto (ci occupiamo della serie televisiva “Gomorra” e delle perplessità che ha suscitato appunto nella terra dei Casalesi) e a quella che viene stabilmente rappresentata nei luoghi della politica con la rimozione del significato delle parole. L'immagine di copertina è un ritratto di Erri De Luca. Il titolo è «Dei delitti e delle penne», è un gioco di parole che ci è parso ben sintetizzare la curiosa vicenda del rinvio a giudizio dello scrittore per «istigazione a delinquere».
Non ci occupiamo della complicatissima questione tecnico-giuridica - che lasciamo ai commenti di costituzionalisti quali Gaetano Azzariti, di penalisti come Roberto Lamacchia e alla riflessione di Gianrico Carofiglio - ma rileviamo che è sorprendente la sproporzione tra il trattamento riservato a Erri De Luca per la sua uscita a proposito della Tav e quello di cui nel tempo hanno goduto esponenti politici, in particolare della Lega Nord che, senza subire alcuna conseguenza, hanno detto cosine come «ributtiamo a mare gli immigrati» o - l’inimitabile Mario Borghezio - hanno pubblicamente apprezzato il pensiero politico di Anders Behering Breivik, che non è un filosofo scandinavo ma l'uomo che in Norvegia un paio d'anni fa fece fuori una settantina di persone in poche ore.
È vero, ci si abitua a tutto. E in Italia siamo purtroppo assuefatti a considerare come pura fiction le iperboli, le metafore e, con rispetto parlando, le scemenze, a volte sanguinarie, che punteggiano il dibattito politico.
Eppure è davvero curioso che le parole pronunciate da soggetti che rappresentano moltitudini di elettori abbiano così poco peso, e quelle dette da privati e liberi cittadini possano essere trattate come se fossero armi improprie. Secondo Gianrico Carofiglio - che pure non è affatto indulgente nei confronti del collega De Luca - è venuto il momento di ribellarsi perché l'uso di termini violenti «avvelena la democrazia». E, purtroppo, è un veleno che scorre abbondante anche nel dibattito a sinistra.
L'altra fiction che abbiamo visionato questa settimana è quella che ormai da più di un anno è in via di registrazione negli studios del Movimento 5 Stelle. Non ci occupiamo però delle star Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, ma di quei tanti giovani che, assoldati nel web come comparse, si sono stufati delle parole violente e dei metodi dittatoriali e se ne sono andati via: o perché sono stati espulsi o perché hanno fatto in modo di farsi espellere.
Alcuni di loro sono impegnati nel tentativo di costituire una nuova formazione politica per ritrovare quella a cui credevano di aver aderito. Dopo l’alleanza con Farage - protagonista di una cupa fiction xenofoba prodotta in Inghilterra - essere stati cacciati dal Movimento 5 Stelle è diventata una medaglia al merito.


l’Unità 20.6.14
Ai lettori

Dopo più di un mese di sciopero delle firme, torniamo con i nostri nomi in prima pagina. Per ricordare ai lettori che questo giornale resta in edicola grazie allo sforzo collettivo di una redazione che continua a lavorare senza ricevere da mesi lo stipendio. Abbiamo scelto questa formula per ribadire che l’Unità è una comunità e non una somma di singoli giornalisti. E ne siamo orgogliosi. Domani avremmo dovuto essere assenti dalle edicole. Abbiamo deciso di sospendere lo sciopero in vista dell’incontro con i liquidatori della società editrice. In quell’occasione, chiederemo certezze sul futuro del giornale e sul pagamento di tutte le spettanze maturate. Senza queste certezze dovute, lo sciopero sarà inevitabile così come iniziative di carattere legale a tutela della testata e dei nostri posti di lavoro.
IL CDR

l’Unità 20.6.14
Bentornate Feste dell’Unità
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Ho appreso che il segretario del Pd Renzi rivuole dare il bellissimo nome di Festa dell’Unità alle feste del Partito democratico. Questo da vecchio Pci mi fa piacere ma una cosa vorrei chiedere a Renzi. Sa il segretario che parte degli introiti delle feste de l’Unità, se non tutti, il Pci li versava nelle casse del giornale?
MANLIO MENICHINO
Per anni ed anni sono partito, fra agosto e settembre, per le feste de l’Unità dove mi chiedevano i compagni di parlare di droga e di psichiatria, di sanità e di cultura, di disabilità e di politica. I tempi erano quelli del Quando c’era Berlinguer e di quando con lui si apriva, il Partito Comunista Italiano, dalle tematiche del lavoro e della lotta di classe ai temi delle diversità e dei diritti. Dall’interno di un nuovo Umanesimo, progressista e gonfio di entusiasmi. Negli anni in cui la solidarietà nazionale si traduceva in leggi di progresso (dalla 180 di Basaglia alla 104 sui diritti degli handicappati, dalla legge di riforma sanitaria alla legge che sanciva il diritto alle cure dei tossicodipendenti) e portava allo sviluppo di elementi di socialismo (nel senso che dava a questa parola Enrico Berlinguer). Ispirandosi, in tempi non semplici per l’economia del Paese, a quell’«ottimismo della volontà» di cui l’Unità di Gramsci era insieme il testimone e il portavoce più attendibile, letto a casa da chi se lo poteva comprare e sui muri nei luoghi (le sezioni e le bacheche sindacali) in cui i compagni la affiggevano perché parlasse anche agli altri. Al numero più grande possibile di persone perché mai setta siamo stati con l’Unità e con il partito e perché aperta sempre a tutti e alle idee di tutti sono state le feste che ricominceranno a chiamarsi, finalmente, feste dell’Unità dove Unità sta per giornale e per auspicio di un futuro migliore. Per noi e per tutti.

l’Unità 20.6.14
Incontro tra il ministro Boschi e il capogruppo di Forza Italia Romani
Cento eletti e più poteri. C’è l’accordo sul Senato


In questi numeri - 74-21-5 - ci dovrebbe essere la soluzione di trent’anni di tentativi andati a vuoto, commissioni, seminari, disegni di legge, crisi di governo, alleanze velenose, ribaltoni. La somma fa 100 e dovrebbero essere i componenti del nuovo Senato. Dietro ogni cifra ci sono scelte, decisioni, confronti. Non è esagerato dire che ognuna si porta dietro una precisa idea di Stato. E quindi: 74 saranno i consiglieri regionali; 21 i sindaci; 5 i senatori nominati dal Presidente della Repubblica. Tranne quest’ultimi, saranno eletti dai consigli regionali (elezioni di secondo grado) e un sindaco per ogni regione. Finisce, dopo quasi settant’anni, il bicameralismo perfetto, il rapporto politico del nuovo Senato con il Governo a cui non darà più la fiducia. Palazzo Madama conserverà però ampi poteri: il voto sulle leggi di revisione costituzionale e sulla legge elettorale e poteri di controllo e ispettivi sull’attuazione delle leggi, sulle politiche pubbliche, sulla pubblica amministrazione, sull’impiego dei fondi strutturali europei. Il cane da guardia del governo e della camera dei deputati.
 C’è la cornice. Manca ancora «qualche dettaglio». Ma la cornice c’è. Ed è «condivisa» dalla maggioranza di governo più Forza Italia e Lega. Una cornice che va a comprendere anche la riforma della legge elettorale. Perché poi, come è sempre stato chiaro, tutto si tiene. L’ha capito anche Grillo che adesso che sente puzza di isolamento, corregge l'ultima offerta (domenica), la affranca dalla legge elettorale e la allarga a tutte le riforme costituzionali. Conviene partire dai fatti. E dalle dichiarazioni. «L’accordo è vicino, forse è la volta buona» dice il premier Renzi mentre il ministro Maria Elena Boschi passa la giornata, ieri ma anche oggi, ad incontrare i delegati dei vari partiti. Prima il capogruppo di Forza Italia Paolo Romani, poi il coordinatore di Ncd Gaetano Quagliariello. «Ci sono positive modifiche rispetto alle proposte iniziali, ma per noi sono ancora necessari approfondimenti e valutazioni per determinare la posizione del partito nel suo complesso» dice Romani alle quattro del pomeriggio mentre lascia la Commissione Affari costituzionali. Una cautela più di forma che di sostanza, anche per rispetto al leader, Berlusconi, in tutt'altre faccende affaccendato: ieri ha testimoniato al processo Lavitola a Napoli dove per la prima volta nella sua vita ha dovuto, imprecando, rispondere alle domande di un giudice; stamani sarà alla casa famiglia di Cesano Boscone con i malati di Alzheimer mentre a Milano inizierà il processo di Appello per Ruby. «Nel fine settimana ci incontreremo - annuncia Romani - e finiremo le limature che ancora sono necessarie». Una cosa è chiara: il presidenzialismo rilanciato in queste ore può attendere.
Soddisfatto anche Quagliariello che quando era ministro ha tenuto per un anno le riforme pronte nel cassetto senza riuscire però, perché non era mai il momento, a portarle neppure in Consiglio dei ministri. Ncd porta a casa l'inserimento dei costi standard in Costituzione, meno sindaci di quanto fosse previsto all’inizio (erano il 50 % dell’assemblea, ora sono un terzo), «una base di legittimazione comune» e la «proporzionalità della rappresentanza delle regioni» (la Lombardia ha diritto ha più senatori del Molise).
All’ora di pranzo il sottosegretario Luciano Pizzetti, mattatore di lunghe e estenuanti trattative, s’aggira nel corridoi della Commissione Affari Costituzionali e parlotta con il relatore, il leghista Roberto Calderoli, e Donato Bruno di Forza Italia. C’è un tema di cui si è scritto e parlato meno ma che più tutti è stato oggetto di trattative: la riforma del Titolo V della Costituzione, ovverosia quali funzioni- attenzione, non più poteri - per le Regioni. Il primo testo del governo le aveva praticamente spogliate di tutto. Il federalismo in questo caso ha avuto il sopravvento: il Carroccio ha fatto il suo e il governatore Vasco Errani, presidente della Conferenza Stato-Regioni tutto il resto.
Alle sei del pomeriggio il ministro Boschi twitta «Al lavoro sulle riforme #italiariparte». È la volta buona, forse per davvero, se anche Romani ammette che «non ci sono problemi di tempi, la prossima settimana il voto sugli emendamenti e il 3 in aula».
La tabella di marcia sembra segnata. Tra oggi e domani i relatori Anna Finocchiaro (che è anche il presidente) e Roberto Calderoli dovrebbero depositare i circa 20 emendamenti al ddl del governo che contengono le modifiche. Mercoledì (25) scadono i termini per i subemendamenti, poi una settimana di votazioni prima di arrivare in aula. «Sto lavorando con Calderoli ma credo che le obiezioni che ancora esistono possano essere facilmente superate » ha spiegato il presidente Finocchiaro nel pomeriggio dopo un lungo colloquio con il sottosegretario Pizzetti che, ha tenuto a precisare, «ha portato opinioni e non carte». Rivendicando il ruolo del Parlamento in questa delicatissima fase.
Sei ore, oggi, domani, a questo punto poco importa quando arrivano gli emendamenti «condivisi» - è questa la parola magica - da Calderoli e Finocchiaro. La strada imboccata sembra quella giusta.
Quello che sta prendendo forma è un Senato modello Bundesrat tedesco ma con i senatori nominati dai consiglieri regionali. Sulla legge elettorale, che non può prescindere dalla forma del Parlamento, l’accordo sarebbe stato trovato alzando dal 37,5 al 40% la soglia di accesso al premio di maggioranza.

La Stampa 20.6.14
Il Cavaliere ormai costretto all’accordo
di Marcello Sorgi


L’accordo sulle riforme tra Pd e Forza Italia è maturato sull’onda del nuovo quadro politico che sta nascendo dopo le elezioni europee del 25 maggio. La ministra Boschi, incontrando il capogruppo berlusconiano al Senato Romani, ha confermato la volontà di Renzi di accogliere le richieste che venivano dal Cavaliere, a cominciare dal numero minore di sindaci che saranno eletti nel nuovo Senato. Ma è fuor di dubbio che ciò che ha spostato il pendolo del leader del centrodestra verso l’intesa è stata la sensazione che, anche nel caso in cui avesse fatto saltare il patto con il premier, le riforme si sarebbero fatte lo stesso, con il voto probabile di una parte degli alleati del centrodestra, Lega compresa, che il Cavaliere vorrebbe riconquistare.
Nel giro di poche settimane, infatti, il consenso attorno a Palazzo Chigi si è allargato e Renzi si è trovato ad avere a disposizione non più i soli due forni della maggioranza politica con Alfano e i centristi e di Forza Italia, ma anche, a sorpresa, quelli di una parte consistente di Sel, che ieri, capeggiata dall’ex capogruppo Gennaro Migliore, ha preso il largo e ha deciso di separarsi da Vendola, e di Scelta civica, che ha già esponenti di rilievo come l’ex capogruppo Andrea Romano in marcia di avvicinamento verso il Pd.
Se a questo si aggiungono le aperture della Lega e le insistenze del M5s per ottenere un incontro sulle riforme, al quale Renzi ha dato il suo assenso, è evidente che le prime votazioni sui cambiamenti della Costituzione a partire dal 3 luglio al Senato avverranno in una cornice completamente mutata rispetto a quella del patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi: non c’è più in pratica nessun partito che escluda di partecipare al processo riformatore. Ed anche se questo potrebbe complicare il voto degli emendamenti, e aprire la strada ad alleanze parlamentari inedite sui singoli punti, la novità è evidente. Occorrerà vedere, semmai, se il sì condizionato di FI resisterà ai nuovi difficili passaggi che attendono Berlusconi: per il quale è cominciata un’altra estate calda nelle aule di giustizia.

Il Sole 20.6.14
Intesa Pd-Fi: ecco il «Senato dei 100»
Lo sblocco della trattativa nell'incontro Boschi-Romani
Da Renzi sì al M5S: mercoledì l'incontro
di Emilia Patta


ROMA Il Senato dei 100 comincia a prendere forma concreta, nero su bianco, negli emendamenti che i relatori Anna Finocchiaro (Pd, presidente della commissione Affari costituzionali del Senato) e Roberto Calderoli (Lega Nord) stanno predisponendo e che saranno presentati forse già stasera. Come anticipato ieri dal Sole 24 ore, il nuovo Senato delle Autonomie sarà più snello di quanto previsto inizialmente dal testo del governo, nel quale i nuovi senatori erano in tutto 143, e sarà rigorosamente non elettivo come da sempre vuole Matteo Renzi.
Dei 100 senatori 75 saranno consiglieri regionali, 20 sindaci e 5 nominati dal capo dello Stato tra personalità illustri della cultura e della scienza. Va da sé che i nuovi senatori, essendo già consiglieri regionali e sindaci, non percepiranno alcuna indennità aggiuntiva. Il premier ha dunque ceduto sulla richiesta di maggior peso alle Regioni rispetto ai Comuni, richiesta avanzata in primis da Fi nel timore che con tanti sindaci il centrosinistra potesse essere sovrarappresentato, ma ha tenuto fino alla fine sul punto della non elettività: i senatori saranno eletti in secondo grado dai consigli regionali, che dunque sceglieranno la loro quota sia di consiglieri che di sindaci. È in sostanza il modello tedesco del Bundesrat, ed ha «il grande vantaggio – spiega la stessa Finocchiaro – di unificare le fonti di legittimazione tra consiglieri regionali e sindaci». Quanto alle competenze del nuovo Senato, resta il bicameralismo solo per le modifiche costituzionali e – aggiunta di queste ore – per le leggi elettorali e i referendum. Per il resto legifera la Camera dei deputati, ponendo fine a decenni di bicameralismo perfetto. Rimane da definire nei dettagli il delicato capitolo delle modifiche al Titolo V chieste dalla Lega nell'intento di riportare alle Regioni alcune delle competenze che nel testo del governo erano passate allo Stato. Ad esempio in materia di turismo e beni culturali. Gaetano Quagliariello, ex ministro e coordinatore del Nuovo centrodestra, ha esposto ieri i dubbi su questo punto in un lungo incontro con la responsabile delle Riforme Maria Elena Boschi. Il rischio è che le materie "concorrenti" tra Stato e Regioni, che hanno determinato una serie di contenziosi davanti alla Consulta, siano fatte uscire dalla porta per rientrare dalla finestra. Ma non si tratta di «ritorni di competenze, solo organizzazione», assicura il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Graziano Delrio, uno dei padri della riforma. Previsto infine, ed è una richiesta del Ncd, l'inserimento in Costituzione dei costi standard.
Lo sblocco della trattativa è avvenuto ieri in un incontro tra la ministra Boschi e il capogruppo azzurro in Senato Paolo Romani. Il patto del Nazareno, che comprende anche la legge elettorale con ballottaggio nazionale chiamata Italicum, regge e reggerà. E il governo tira dritto su questa strada. La quadratura del cerchio, che già c'è, sarà tuttavia ufficializzata solo nelle prossime ore (e c'è chi insinua che Silvio Berlusconi stia facendo tirare la corda ai suoi per ottenere di incontrare di persona Renzi, che invece lascerebbe volentieri la palla alle seconde linee). Ma il segno che l'asse con Fi è ormai rinsaldato è il nervosismo di Beppe Grillo, che ieri è tornato a sollecitare un incontro con il premier sulla legge elettorale criticando proprio il faccia a faccia tra Boschi e Romani («Perché non hanno fatto lo streaming? Che cosa hanno da nascondere?»). La risposta di Renzi arriva tramite una lettera ai capigruppo del M5S: «C'è molto da fare e non c'è tempo da perdere. Vediamoci mercoledì in un orario da concordare insieme. È importante che le forze politiche più rappresentative provino a scrivere insieme le regole del gioco. Nessuno ha la verità in tasca, tutti possono dare una mano». Renzi chiede solo se dovrà vedere i grillini come premier o come segretario del Pd: nel primo caso l'incontro avverrà a Palazzo Chigi con una delegazione del governo, nel secondo caso «organizziamo una delegazione del partito e dei gruppi parlamentari».


il Fatto 20.6.14
La politica lenta che aiuta gli evasori
di Stefano Feltri


Secondo voi perché ci stanno mettendo così tanto tempo ad approvare le norme sul rientro dei capitali? Perché così chi vuole mettersi al riparo ha modo di riuscirci, per un italiano che vuole continuare a sottrarsi al fisco basta prendere la cittadinanza svizzera o meglio ancora di Panama”, racconta al Fatto Quotidiano un banchiere svizzero che da Lugano osserva il dibattito parlamentare che si trascina da oltre un anno sul rimpatrio dei capitali dai paradisi fiscali. Prima la norma sulla voluntary disclosure, cioè sull’autodenuncia di chi rivela al fisco i soldi custoditi all’estero prima che scattino i nuovi accordi che spingeranno le banche a dare tutte le informazioni, era in un decreto legge del governo Letta. Poi è stata stralciata, ufficialmente perché il decreto rischiava di decadere senza approvazione. E allora si ricomincia come disegno di legge alla Camera, in commissione Finanze, qualche emendamento lo migliora, qualche altro (del Pd e avallato dal governo) cerca di trasformare una misura concepita per sanzionare gli evasori in un condono. I tempi restano incerti, chi ha i soldi su un conto svizzero o li ha affidati a un trust ha tutto il tempo per prendere le sue contromisure.
UN LIBRO APPENA uscito della giornalista Nunzia Penelope, Caccia al tesoro (Ponte alle Grazie), ci rivela i retroscena della “legge morta due volte”, cioè quella sulla voluntary disclosure che prevede un’aliquota del 27 per cento sulle somme che si autodenunciano al fisco più una certa protezione legale sui reati connessi (almeno quelli fiscali, non quelli che hanno permesso di accumulare la somma, tipo traffico di droga o frodi finanziarie). Nel libro di Nunzia Penelope si racconta di cosa sta succedendo in Svizzera mentre noi perdiamo tempo, come dimostrano i brani riportati dell’audizione in Parlamento della Unione Fiduciaria, una società costituita da otto banche popolari che offre servizi di “protezione di patrimoni”, quelli di cui ha bisogno che vuole mantenere una certa discrezione sull’esistenza e la provenienza di somme consistenti. I rappresentanti della Unione Fiduciaria, il direttore generale Filippo Cappio e l’avvocato Fabrizio Vedana, spiegano ai parlamentari che per come era concepita nella prima versione la voluntary disclosure avrebbe creato parecchi problemi agli evasori in Svizzera che avessero fatto emergere le loro somme, perché rischiavano di trovarsi subito imputati per riciclaggio, “il tema non è semplice, è una bomba che gira e che rischia di scoppiare in mano all’ultimo che la maneggia”. E spiegano anche che “se al contribuente si chiede troppo c’è il rischio di non ottenere niente: invece di aderire alla sanatoria, se ne andrà a stare all’estero anche lui, trasferendo la residenza oltre ai soldi. Ci risulta che lo stiano facendo già in tanti”. Se poi il modulo da compilare, com’era previsto, ha 40 pagine e basta un errore per essere accusati di falso, allora gli incentivi a partecipare all’operazione trasparenza si riducono ancora. Insomma: una norma troppo tenera è un regalo agli evasori, una troppo dura rischia di spaventarli e di farli rimanere nell’anonimato. Ma la cosa peggiore è una norma troppo dura adottata con enorme lentezza che permette ai titolari di depositi di origine illecita di organizzarsi per essere sicuri di farla franca quando scatteranno le nuove regole. E anche le banche, costrette controvoglia a cooperare, hanno modo di individuare quelle scappatoie che permettono di rispettare formalmente la trasparenza senza perdere i capitali degli evasori, magari trasferendoli in una filiale di Singapore o nascondendoli in un trust blindato.
“NON SI SA ESATTAMENTE quale parte di 42 minuti circa di audizione dell’Unione Fiduciaria abbia colpito maggiormente i parlamentari; sta di fatto che il 29 marzo 2014 il decreto sulla voluntary disclosure viene lasciato morire. Una forma pietosa di eutanasia, tanto era già chiaro che il Parlamento non lo avrebbe mai approvato”, commenta Nunzia Penelope nel suo libro. E a proposito delle alternative ora sottoposte alla Camera, dopo l’abbandono del decreto originario, la Penelope nota anche che “uno dei disegni di legge, tra l’altro, recepisce perfettamente tutte le richieste di ‘sconto’ avanzate dei fiduciari, e un secondo propone addirittura di allargare il beneficio ai capitali evasi ma rimasti in patria, lasciando cinque anni di tempo per decidere se aderire o meno”. Insomma, siamo passati da una norma forse troppo dura al progetto di un condono. È la lotta all’evasione secondo i politici italiani.

il Fatto 20.6.14
Falso in bilancio, quella norma non s’ha da fare
di Fabrizio d’Esposito


Tra rinvii, slittamenti vari e annunci sul ddl anticorruzione, sarà la vera cartina di tornasole del patto del Nazareno tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Ossia il falso in bilancio. Ieri il Guardasigilli Andrea Orlando ha rispolverato la questione in un’audizione alla commissione Giustizia della Camera: “O presenteremo un emendamento al ddl anticorruzione in Senato oppure faremo un disegno di legge nel consiglio dei ministri”. In teoria, cioè sempre in base agli annunci, i tempi dovrebbero essere stretti. Entro la prossima settimana, al massimo per il 27 giugno, il governo Renzi dovrebbe offrire un po’ di chiarezza sulla delicata materia che tanto spaventa il Condannato, allergico per tradizione ai provvedimenti legalitari. Del resto, lo stesso Orlando nella sua audizione ha rimesso in campo anche l’autoriciclaggio e la prescrizione. Guarda caso sono le stesse materie che rimasero fuori dal primo patto inciucista delle larghe intese di Mario Monti. Erano i tempi di ABC, alias Alfano, Bersani e Casini e nel vertice immortalato da una foto pubblicata dal leader dell’Udc fu concordato un pacchetto anticorruzione (quello della Severino, allora alla Giustizia) senza falso in bilancio, autoriciclaggio, prescrizione e pure voto di scambio. Scontato ricordare che a pretendere l’esclusione fu Berlusconi che impose la linea ad Alfano, all’epoca ancora nel Pdl.
Oggi, a parole, il tema ritorna e già la doppia opzione prospettata da Orlando, emendamento o ddl, genera dubbi sulla volontà reale della maggioranza di andare avanti. Ancora non si sa quando l’anticorruzione si discuterà in aula al Senato e i grillini da tempo hanno esplicitato il loro sospetto. Questo, nella versione di Vito Crimi, ex capogruppo del Movimento 5 Stelle al Senato: “La legge è già pronta? Oppure c’è un accordo con Berlusconi, per eliminare il falso in bilancio dal pacchetto anticorruzione in cambio dell’appoggio alla riforma costituzionale?”. Il rischio è che tutto finisca in un binario morto, travestito magari da ddl approvato con enfasi mediatica nel consiglio dei ministri della prossima settimana. Ancora una volta la politica sarà costretta a scegliere tra i diktat e gli interessi personali del Condannato e la lotta all’eterna corruzione del Paese, come dimostrano gli scandali Expo e Mose. Berlusconi infatti non accetterà mai un ritorno al falso in bilancio. Grazie alla depenalizzazione del reato, a cominciare dal 2001, l’ex Cavaliere ha usufruito dell’ennesima legge ad personam in ben cinque processi. Per lui era talmente un’emergenza prioritaria, che non si fermò nemmeno di fronte alla tragedia dell’Undici Settembre. Il 12 settembre 2001, il centrodestra andò spedito, al Senato, sulla riforma del diritto societario, dov’era stata inserita l’abolizione del falso in bilancio. Dalle cronache di quei giorni, per bocca del senatore Nando Dalla Chiesa: “Mentre il mondo trema , inorridisce e si interroga di fronte agli attentati-massacri compiuti ieri dai terroristi islamici, nel Parlamento italiano, il Senato, come se niente fosse, continua a risolvere a tappe forzate i problemi personali del presidente del Consiglio. La giustificazione addotta per legittimare questo atto di insensibilità è perfino offensiva: onorare, attraverso il lavoro, la memoria dei morti di ieri”.
Il falso in bilancio è stato una costante dei governi Berlusconi (nel 2005 fu messa la fiducia al ddl sul risparmio che ritornava sulle norma) e la previsione fatta negli ambienti della maggioranza è che in ogni caso non sarà mai possibile ripristinare il reato così com’era prima dell’avvento del Berlusconi edizione 2001. Anzi. Il testo eventuale del governo potrebbe essere una versione light anche per le pressioni del ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi. In capo a lei s’incrociano interessi letali per una stesura “forte” del ddl o dell’emendamento: quelli berlusconiani, ovviamente, (la Guidi è amica del Condannato), e quelli di Confindustria.


il Fatto 20.6.14
Caccia al decreto: la riforma Madia non si trova più
di Stefano Feltri

Si è svolta a Palazzo Chigi la riunione del Consiglio dei ministri. Via libera al disegno di legge delega per la riforma della Pubblica amministrazione”. Ecco: via libera, una formula che trasmette il senso di efficienza renziana senza impegnare troppo. A una settimana da quegli annunci, tecnici, parlamentari (e perfino alcuni ministri) si chiedono: ma cosa diavolo avete approvato?
IL TESTO è un mistero: non c’è. Qualcosa è stato mandato al Quirinale, per la firma. “Una volta che lo mandi al Colle poi ci pensano i loro uffici, noi non sappiamo più nulla”, dicono da un ministero coinvolto. I tecnici quirinalizi hanno una lunga lista di perplessità e stanno facendo saltare decine di articoli: per prima cosa smontano in due il provvedimento, che in alcune versioni intermedie era arrivato ad avere oltre 120 articoli, dalla riforma del pubblico impiego alle infrastrutture alla difesa della mozzarella di bufala e alla tutela del parco delle Cinque Terre. D’accordo che da capo dello Stato Giorgio Napolitano ha firmato di tutto, ma questo decreto era un po’ troppo sporco per essere costituzionale. Allora: da una parte la Pubblica amministrazione con un po’ di appendici, dall’altra Ambiente e Agricoltura. Ma che c’è scritto dentro? Mistero.
Il ministro più coinvolto, Marianna Madia (Pubblica amministrazione ) è preoccupata: riformare la burocrazia è già complicato e in Parlamento sarà battaglia, ma se nel decreto ci finisce di tutto i problemi nelle commissioni di Camera e Senato si moltiplicano. Peccato che i colleghi della Madia, a cominciare dal ministro dei Trasporti Maurizio Lupi, hanno assoluto bisogno di infilare nel decreto misure economiche (si parla di finanziamenti a infrastrutture per 1-2 miliardi, Expo inclusa) o rischiano di dover aspettare settembre. Quindi il merito è un problema, grosso. Ma il metodo è peggio.
CHI DECIDE cosa c’è scritto in un decreto legge? “Il presidente del Consiglio e i ministri”, risponde l’ingenuo. Sbagliato. In teoria c’è un pre-Consiglio dei ministri in cui si affrontano i dettagli tecnici e poi si lascia ai ministri il compito di prendere le decisioni politiche, scegliendo tra opzioni coerenti e definite. Ma nell’epoca di Matteo Renzi i pre-Consigli o non si fanno o discutono cose diverse da quelle che poi entrano in Consiglio. Venerdì sera i dirigenti dei vari ministeri coinvolti hanno cercato di parlare con la responsabile dell’ufficio legislativo, Antonella Manzione, ma lei era già tornata a Firenze, dove è stata capo dei vigili urbani (e per quello Renzi l’ha voluta). Niente, non si sa cosa è stato approvato. Nel caos di questi mesi, ogni ministero manda dei pezzi di provvedimenti all’ufficio legislativo di Palazzo Chigi che poi li assembla e riformula come crede, nessuno - neppure Renzi o il suo braccio destro Graziano Delrio - ha il pieno controllo politico della scrittura delle norme, per la gioia dei lobbisti e professionisti dei commi che hanno maggiore facilità a influenzare qualche dirigente pubblico che un ministro o un premier.
Nelle redazioni dei giornali girano bozze, come quella datata “12 giugno ore 24” che pare ormai siano diversissime dai testi in mano al Quirinale. In quella bozza c’è anche un’apposita norma che cancellerebbe la condanna subita da Renzi come presidente della Provincia di Firenze per aver assunto con contratti troppo generosi quattro segretarie. Ma tutto scorre, anche le norme dei decreti. E chissà cosa è rimasto.
ALLA CAMERA, da dove partirà l’esame del decreto, aspettavano il testo per stasera, in commissione Bilancio. Più probabile che tutto slitti a dopo il weekend, cioè a martedì. Se andrà così, saranno passati oltre dieci giorni tra il Consiglio dei ministri e la presentazione di un testo. Neanche ai tempi di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti, quando i consigli duravano nove minuti, succedevano queste cose. I testi si approvavano “salvo intese”, cioè con l’impegno di negoziare in un secondo momento i dettagli più tecnici, ma qualcosa c’era. Adesso ci sono soltanto gli annunci.

Repubblica  20.6.14
Tutti gli ostacoli del governo Renzi

di Franco Cordero

A TRE settimane dal voto europeo numeri ed eventi suggeriscono rilievi irrispettosi: gli 11.202.231 di voti raccolti dall’esordiente, pari al 40.8% dei votanti, erano un exploit inaudito nelle fiere elettorali italiane ( adde L’Altra Europa, 4%); i 4.614.364 (16.8%) racimolati da Forza Italia riflettono un leader ormai fiacco ma, issato a cavallo, può ancora guidare la carica, se qualche espediente meccanico lo tiene ritto (capitava in un vecchio film sul Cid Campeador); e inclusi i presumibili confluenti nel cartello (Ncd, Udc, FdI, Lega Nord), l’armata variopinta conta 9.997.02 teste (31.1%), in vista del tête-à tête finale, potendo pescare nel 21.11% sterile accumulato dai pentasiderei (qualora viga l’Italicum). Votassimo domani, la vittoria sarebbe ancora più larga, sennonché l’ex sindaco fiorentino vuole un’intera legislatura, fino al 2018 e qui ha gioco meno facile. Glielo complicano degli handicap.
Vediamoli cominciando dalla mistica delle riforme costituzionali; le promuoveva il Quirinale, tale essendo l’obiettivo della «larghe intese»: le quali erano veicolo d’un regime consortile dove il Pd sarebbe stato junior partner, perché nella XVI legislatura Re Lanterna era padrone, ma in 42 mesi dilapida il capitale, fino alle squallide dimissioni, sabato 12 novembre 2011. Furioso e gemebondo, lamentava le maglie strette d’una Carta obsoleta e i lunghi percorsi legislativi, imputabili alla struttura bicamerale, ululando ogniqualvolta la Consulta dichiarasse invalide norme disegnate sulla sua anomala misura. Il Colle guardava, indifferente all’immane conflitto d’interessi e coinvolto in manovre d’abusiva immunità. L’eclissi dura un anno: redivivo, sfiora la clamorosa rivincita; nasce un governo bicolore guidato da Letta nipote, la cui storia familiare e politica vale un programma; e chi elabora le novità supreme, ministro competente? Gaetano Quagliariello, centurione berlusconiano. Marchiate dall’oligarchia partitica, le Camere attuali erano le meno idonee a rifondare lo Stato. Così tengono banco questioni artificiose su cui il governo s’impegna a vuoto.
L’urgente sta nell’economia infestata da mafie, camorra, corruzione: mancavano due spanne alla bancarotta; il morbo italico è debito pubblico straripante, declino produttivo, disoccupati, rendite parassitarie, caduta dei consumi, istruzione deficitaria, atonia morale. Molto cambierebbe appena fossero snidati i vampiri e l’uomo nuovo parla chiaro ma i consorti coltivano interessi nella cui gestione “garantismo” significa impunità: ad esempio, aborrono le intercettazioni, in ossequio alla privacy delittuosa; intendono la difesa come ingegnoso perditempo; difendono meccanismi perversi della prescrizione, affinché almeno un processo su tre finisca in scandalosi proscioglimenti. Nella casistica a colletto bianco è raro che scatti la pena: quando avviene, benefici penitenziari la convertono, tagliano, diluiscono; vedi Silvius Magnus, caso Mediaset. Che nell’Italia 2014 “mercato” sia parola vuota, lo dicono notizie Expo e Mose scoperchiando malaffari miliardari dall’effetto notorio: un km d’alta velocità costa sei volte la stessa opera in Francia; vi mangiano impresari, intermediari, “facilitatori”, funzionari, pseudoconsulenti, parassiti dal vario colore sotto trasversale ombrello politico. Le procure ottengono misure cautelari. Qui gli oligarchi battono un colpo strepitoso.
Mercoledì 11 giugno Montecitorio votava norme comunitarie sulla responsabilità civile del magistrato. L’emendamento del solito leghista contempla azioni dirette contro l’autore dell’asserito «danno ingiusto» ossia liti tra imputato e chi lo giudica: idea da manicomio; l’arnese intimidatorio inquina il giudizio e lo ostruisce perché ogni chiamato in causa diventa incompatibile; l’Olonese li fulminerebbe uno dopo l’altro. L’emendamento riscuote 187 sì contro 180 e se Palazzo Madama, ripetesse l’impresa, navigheremmo sulla Nave dei folli (l’aveva incisa Dürer, 1494). Naturali i trionfi a destra ma il Pd conta 293 teste sotto la cupola montecitoria e ne erano presenti 214; chi se ne intende calcola 57 traditori. Il capogruppo, pupillo dal emobersaniano, non se ne stupisce: fioriscono i « garantisti » Pd, eccome, primus quorum ipse; lo esclamava un anno fa, memorabile outing, e intavola la candidatura al patronato dei perseguibili o già imputati (corruttori, corrotti e simili); voci confraterne chiedono una «svolta storica» dal «giustizialismo» al virtuoso contrario. Il Quirinale emette una vaga frase equidistante ( l’anno scorso esortava tribunali e corti al rispetto dello «statista » indaffarato). Lo sconfitto 2013 grida d’avere votato contro l’emendamento e solleva dubbi sul gruppo M. R. Sono lunghi i quasi 4 anni residui d’una legislatura completa, con innumerevoli occasioni d’imboscata. La vecchia guardia include vescovi atei, pasticheur postmarxisti: non vinceranno mai partite elettorali ma sono temibili nei giochi d’inerzia e fuoco amico. Il premier in carica è colpevole d’avere vinto due volte, alle primarie e nelle europee. Insomma, quanto meno dura la mésalliance, tanto meglio, ed è auspicabile un trasloco al Quirinale. Scontiamo ancora i 101 voti Pd tolti a Romano Prodi: l’avevano appena acclamato; nella versione ipocrita Napolitano rieletto scongiura catastrofi. Nossignori, volevano larghe intese oligarchiche; Berlusco Felix canta al microfono «meno male che Giorgio c’è». Il disegno consortile lo presupponeva ancora una volta salvo dal processo. Era scena da teatro nero lo stupore rabbioso giovedì 1 agosto 2013, h. 19.38: la lunga caduta dell’impero forse comincia lì, dalla lettura del dispositivo d’una sentenza; staremmo assai peggio se il tempo avesse estinto anche quella frode fiscale.

Corriere 20.6.14
Sel si sfalda, la fuga dei deputati verso il Pd
In quattro lasciano, altri tentati. Vendola: è il giorno più difficile. Renzi: noi aperti
di T. Lab.


ROMA — Se ne va Gennaro Migliore, rimarcando di essere «stato accusato di sequestro della linea politica e di essere un sabotatore», per cui «per me si è rotto un vincolo di fiducia». E se ne va anche Claudio Fava, che invece saluta tutti parlando di «scelta dolorosa e insieme inderogabile», anche «per la distanza che ormai separa Sel dal suo progetto originario». Abbandona Titti di Salvo e divorzia anche Ileana Piazzoni. E non è che l’inizio, visto che qualche manciata di parlamentari stanno riflettendo se seguire i fuoriusciti verso gli orizzonti della maggioranza, e quindi verso il Pd.
In sole ventiquattr’ore, anche se il focolaio del dissenso interno covava sotto la cenere da mesi, la scissione di Sel è servita. Il partito di Nichi Vendola non ha retto alla rissa che s’è aperta nel gruppo parlamentare sul voto al decreto Irpef. E non ha tenuto al lacerante dibattito sulla collocazione internazionale, innescato da chi — come Migliore o come Fava — puntava e punta sull’approdo nel Pse.
Il governatore pugliese ci prova con un tentativo in extremis, a tamponare la ferita. Poco prima che abbia inizio il coordinamento del partito, Vendola offre un saggio della sua narrazione. «Spero che Gennaro Migliore torni sui propri passi perché gli voglio bene e l’ho considerato come un figlio». Qualche ora dopo, a frattura consumata, anche il leader si abbandona alla più classica delle annotazioni di maniera. «Auguri a chi lascia ma questo è un errore politico», sottolinea. «Ai compagni che vanno via facciamo gli auguri», scandisce. «Per noi oggi è il giorno più difficile», dice. E comunque, avverte, «il mio ruolo di leader è sempre a disposizione».
Non c’erano più toppe, però, a poter tappare il buco. Ieri l’altro, dopo la divisione interna sul voto sul decreto Irpef, Migliore incontra due renziani doc, Lorenzo Guerini e Francesco Bonifazi. Le malelingue sussurrano di qualche contatto (non confermato) diretto con Renzi. E si bisbiglia di un Migliore pronto a lanciare con grande anticipo la sua corsa a prossimo sindaco di Napoli. Agli atti, però, rimane un faccia a faccia che l’ormai ex capogruppo, di buon mattino, ha col compagno-rivale Nicola Fratoianni, che rappresenta la linea opposta alla sua.
«Gennaro, se il problema è il mio ruolo da coordinatore del partito, sono disposto a fare un passo indietro. Fermiamoci tutti prima che sia troppo tardi», dice Fratoianni. «M’avete accusato di aver sequestrato la linea del partito. È troppo tardi», risponde Migliore. Partita chiusa. L’altra che sta per aprirsi, invece, rimanda ai parlamentari che seguiranno i fuoriusciti. Di Salvo e Piazzoni sono già fuori. Con un piede sull’uscio, invece, ci sarebbero Nazzareno Pilozzi e Stefano Quaranta, Alessandro Zan e Fabio Lavagno, Michele Piras e Martina Nardi, Gianni Melilla e Luigi Laquaniti, Lara Ricciatti e Toni Matarrelli. Qualcuno forse si fermerà prima, altri se ne andranno. In marcia verso Renzi e il Pd, magari transitando da un gruppo cuscinetto composto insieme ai socialisti di Riccardo Nencini e a qualche eletto di Scelta Civica. Ma in maggioranza, comunque.
Difficile parlare di scouting renziano (in serata il premier dichiara: «Massimo rispetto per il travaglio di Sel, chi guarda al Pd troverà un partito aperto»). E difficile, in ogni caso, ricomporre i tasselli impazziti di un puzzle che s’è smontato dopo le Europee. Ma c’è un dettaglio nascosto, in tutta questa storia. E sta nel rapporto coltivato da due ambasciatori. Il renziano calabrese Ernesto Carbone e il primo fuoriuscito di Sel, un altro calabrese, Ferdinando Aiello. Da lì, dal voto del 25 maggio, sarebbe partita «l’operazione». «Credo che i deputati usciti da Sel, più che dalla politica, siano attratti dalle politiche di questo governo», è l’unica cosa che si lascia scappare Carbone. Qualche divanetto più in là, il vendoliano Fratoianni mastica amaro. «Ci hanno accusato di fare costituenti con Ferrero, cosa falsa. E ci hanno messo in croce per la lista Tsipras. Ma questa avventura ha o non ha consentito a Sel di rimettere piede nel Parlamento europeo? No, ditemi se sbaglio…». Il resto è già storia, più che cronaca.

Corriere 20.6.14
Migliore, il groppo in gola «Affidiamoci a Matteo»
di Tommaso Labate


ROMA — «Lo sapete che non sono uno troppo incline ai sentimentalismi, no?». Ma visto che in una chiacchierata ci sono delle pause che non si possono nascondere all’interlocutore, ecco che la verità viene a galla. Con una confessione. «No, non ho pianto. Ma il groppo in gola c’è, quello non si può nascondere».
Montecitorio, ore 18. Da qualche ora Gennaro Migliore ha formalizzato con una lettera il suo addio a Sinistra, ecologia e libertà. Lascia il partito e il posto da capogruppo alla Camera. Dice addio a «compagni con cui sono cresciuto, negli ultimi vent’anni». E chiude dietro di sé quella porta che Nichi Vendola ha provato a sbarrargli in extremis, con un appello rivolto come lo si rivolge «a un figlio».
«Un figlio, un figlio…», ripete Migliore come se parlasse da solo. Poi mette in fila un pensiero senza nemmeno prendere fiato. «Non è questo il momento di lanciare delle accuse. E forse non sarebbe neanche il caso di parlare degli errori fatti. Ma una cosa che m’ha fatto inc…re di Nichi c’è stata. È stata la frase in cui mi ha accusato di “sequestro di linea politica”. Una cosa ingiusta». Anche perché, e l’ex capogruppo lo rimarca come se in mano avesse la penna rossa, «io sono sempre stato ai doveri che il mio ruolo mi imponeva. Vede, io a stare in minoranza sono anche abituato, e la cosa neanche mi dispiace. Ma con quella frase, Vendola di fatto ha detto che ero d’intralcio, che per Sel ero come un impedimento. E, se permettete, dai posti in cui sono d’intralcio, me ne vado».
Nel corpicino di quella sinistra che un tempo si sarebbe detta «radicale», la scissione prodotta da Migliore sarà una di quelle ferite cha sanguineranno assai. Claudio Fava l’ha seguito fuori dai confini di Sel. E lo stesso faranno Titti Di Salvo, Ilenia Piazzoni e un’altra decina, forse qualcuno in meno. Andranno verso Matteo Renzi. Anche se, scandisce l’ex capogruppo di Sel, «non entriamo domani mattina nel Pd o nel gruppo parlamentare del Pd».
Già, Renzi. Da ex nemico il premier s’è trasformato — parole di Migliore — «nella persona a cui il consenso ha consegnato il ruolo di maggiore responsabile delle sorti della sinistra europea». Nell’uomo «a cui la sinistra europea può e deve affidarsi per superare questa fase segnata dalle politiche di austerità». Giura di non parlare col premier da tempo, Migliore. Certo non può nascondere di aver incontrato Lorenzo Guerini e Francesco Bonifazi, all’hotel Bernini, l’altra sera. E non ammetterebbe di aver discusso del suo futuro, cosa che i maligni pensano. Un futuro in cui «Gennaro» vedrebbe benissimo una corsa a sindaco della sua Napoli, per il dopo de Magistris.
Allievo prediletto di Bertinotti, che l’aveva designato come suo successore, col corso vendoliano Migliore non si è mai sentito a suo agio fino in fondo. Anche per il dualismo con Nicola Fratoianni. Ma ha tenuto botta, fedele allo «spirito di squadra» assorbito negli anni in cui giocava nelle giovanili dell’Afragola basket, «uno sport nel quale se non passi la palla sei fuori». Nel 2005, e la leggenda è sepolta negli archivi polverosi delle memorie della sinistra radicale, Bertinotti gli chiese di accompagnarlo a Pechino. Durante una riunione tra la delegazione dell’allora Rifondazione Comunista e quella del Partito comunista cinese, rappresentato nell’occasione dal responsabile esteri Wang Jiarui, si udì un tonfo. La seggiola su cui era seduto «il compagno Migliore» crollò. Né Bertinotti né il suo Delfino fanno più parte di quella storia. Forse, dietro quella sedia di Pechino, si nascondeva un segno del destino. O almeno, dopo ieri, così sembra.

Il Sole 20.6.14
Dal debole antagonismo di Vendola alla sinistra «renziana» di governo
La secessione di Migliore è l'effetto, non la causa della crisi. Il premier oggi come una calamita
di Stefano Folli


Va rispettato il «profondo dolore» di Nichi Vendola, ma la vera causa della sua amarezza non può essere l'addio di Gennaro Migliore e di altri tre che hanno abbandonato Sinistra&Libertà. Il dolore di Vendola va riferito alla chiusura di un ciclo. Perché di questo realmente si tratta. Il capogruppo Migliore che se ne va è l'effetto, non la causa della crisi. E se ci sono «errori politici», come pensa il leader storico della sinistra ex antagonista, è un po' ingeneroso attribuirli tutti agli scissionisti di oggi. Gli errori li hanno commessi in tanti negli ultimi anni, a cominciare da Vendola stesso.
In fondo l'ambizione iniziale era generosa, nutrita di utopia, ma aveva un senso: creare una sorta di movimento "arcobaleno" alla sinistra del Partito Democratico in cui far confluire diversi filoni, ciascuno con le proprie delusioni e frustrazioni. Ecologisti e verdi di varie sfumature, ex comunisti (ma non tutti), pacifisti, una parte dei seguaci di Fausto Bertinotti, l'uomo che per anni aveva dato spessore e una prospettiva a quell'area politica e il cui abbandono aveva provocato, esso sì, uno strappo doloroso.
Tutto doveva essere filtrato e rigenerato dal leader Vendola con le sue qualità di affabulatore, padrone di un linguaggio forbito e narcisista, certo un po' fumoso. Si avvertiva un'ambiguità di fondo che partiva dal modo di comunicare e arrivava in un attimo alla linea politica. Pochi possono dire di aver capito con precisione cosa volesse Sel. Negli enti locali il partito vendoliano è stato ed è un partner del Pd in innumerevoli giunte. Ma sul piano nazionale è rimasto a metà strada. Né realmente antagonista né davvero determinato a far valere le sue proposte al tavolo del governo.
L'Italia cambiava, ma il leader sembrava prigioniero dei suoi schemi astratti, senza riuscire a dar voce a una classica sinistra «di classe» e tanto meno a una sinistra riformista. E il fatto che il caso dell'Ilva di Taranto sia esploso proprio nella Puglia di Vendola vuol dire qualcosa, anche sul piano simbolico. Si è accreditato il capo di Sel di un rapporto sotterraneo con Renzi, e magari sarà vero, ma i risultati non devono essere granché soddisfacenti, se si è arrivati alla spaccatura di ieri.
Ora Migliore e il gruppetto che lo segue, forse destinato a ingrossarsi nel tempo, tenteranno di costituire la sinistra del «renzismo». Non è importante se entreranno o meno nel Pd (probabilmente non lo faranno adesso), è interessante capire se riusciranno a occupare uno spazio politico che in effetti esiste. Perché se Renzi vuole essere una specie di Tony Blair all'italiana e quindi tende a rappresentare i ceti moderati, nonostante la presenza del Ncd di Alfano nel governo, è evidente che ci sono margini per un'ala sinistra che serva anche a coprire il "renzismo" su quel versante.
L'operazione può riuscire o forse no, vedremo. Quel che è certo, qualcosa si è messo in moto nel campo della sinistra. Soprattutto quella che un tempo vedeva se stessa come antagonista e oggi si è accorta che, almeno in questa fase storica, lo spazio si è ristretto: a meno di non andare sul terreno dei populismi, il cui sbocco però è a destra, come si vede nel caso Grillo-Farage. Il fenomeno Renzi è un'enorme calamita che attira a sé vecchi e nuovi soggetti, scompaginando gli schieramenti precostituiti. Di questa ondata Vendola è la vittima più recente, ma forse non l'ultima.

l’Unità 20.6.14
Bufera Sel: via Migliore e Fava
In quattro lasciano il partito. Altri sei pronti a seguirli
Vendola: una ferita dolorosa ma sostenere Renzi è sbagliato


Sel si spacca. In segreteria si consuma la rottura dopo il sì dei deputati al decreto Irper. Lasciano il partito il capogruppo alla Camera Migliore, Fava, Titti Di Salvo e Ileana Piazzoni. «Posizioni inconciliabili », dicono. Altri pronti a seguirli. Vendola parla di «ferita dolorosa» ma avverte: noi siamo all’opposizione.
Per Sel è «il giorno più difficile, la nostra comunità è ferita», dice Nichi Vendola. Il gruppo alla Camera perde non solo altri 4 deputati (dopo i due che già avevano lasciato nei giorni scorsi). Ma tutto il suo vertice, da Gennaro Migliore alla vice capogruppo Titti Di Salvo, passando per Claudio Fava, uno dei fondatori, e la segretaria d’Aula Ileana Piazzoni. Una diaspora che non è affatto finita, visto che almeno altri 6-7 deputati stanno ragionando sull’uscita, tra i 17 che da tempo sostengono la linea di dialogo col Pd e nel gruppo hanno votato a favore del sì al decreto degli 80 euro. Si fanno già i nomi di Nazareno Pilozzi, Guido Quaranta, Alessandro Zan e Fabio Lavagno.
«Quello su cui ci dividiamo è il renzismo. E il dolore per me è grande», ha commentato Vendola al termine di una difficile riunione della segreteria in cui Titti Di Salvo, nonostante gli appelli, ha ribadito la sua decisione di lasciare, unica dei ribelli a partecipare alla riunione. «La discussione riguarda cosa debba essere la sinistra e la bussola deve essere la libertà e la giustizia sociale. Sostenere l’area del governo Renzi è per me andare fuori strada, e non rispetta l’identità di questo partito», dice il leader. Verso i compagni che lasciano Vendola non usa la mano pesante: «Per me Gennaro Migliore è un figlio. Speriamo che questi compagni e compagne si faranno bandiere della sinistra». Ma la linea non cambia: «Noi pensiamo, con tutta la nostra comunità, che Sel debba restare all’opposizione, per costruire un dialogo con il Pd. Per sfidare Renzi a fare ciò che è necessario: cambiare agenda politica, combattere contro la crisi contrastando le politiche di austerità ». «Penso che una forza di sinistra debba essere una forza anticonformista, che non smarrisce mai la bussola», dice Vendola. «Immaginare che questa bussola possa portare oggi a sostenere l’area del governo Renzi mi pare uno sbandamento».
Ora i transfughi puntano al gruppo Misto, dove potrebbero tentare di costituire un gruppo autonomo con i socialisti, dialogando anche con gli ex M5s. Ma servono almeno 20 deputati. «Valuteremo, ora è il momento di elaborare il lutto», spiega a l’Unità Ileana Piazzoni. «Non entreremo nel gruppo Pd, non si passa da un partito all’altro in un giorno. Serve il tempo per una riflessione adeguata. Per ora è giusto costruire un nostro luogo autonomo». Dal leader Pd Renzi arriva una netta apertura: «Massimo rispetto per il travaglio dentro Sel, chi guarda al Pd troverà un partito aperto, attento alle diverse sensibilità, intenzionato a lavorare avendo come obiettivo la giustizia sociale, ma che si pensa come un vero e proprio partito della nazione», ha detto il premier ai suoi più stretti collaboratori.
Claudio Fava che, come leader di Sinistra democratica (la componente Ds che non entrò nel Pd) è stato uno dei fondatori di Sel, motiva così la sua scelta: «Permeè una scelta dolorosa e insieme inderogabile, per la distanza che ormai separa Sel dal suo progetto originario ». «La scelta congressuale e le decisioni di questi mesi - aggiunge Fava - ci hanno portati ad abbandonare il terreno della nostra sfida politica naturale che era quello del socialismo europeo: abbiamo preferito una collocazione in Europa e una pratica politica in Italia di forte arroccamento identitario». «Una marginalità - prosegue - che ci rende inadeguati rispetto all’ambizione che c’eravamo dati: costruire una forza autonoma della sinistra impegnata in un cambiamento del paese e nella ricostruzione di uno spazio politico largo, plurale, responsabile».
«Aspettiamo che si fermino questi annunci per tirare una linea e decidere insieme il da farsi», spiega Nicola Fratoianni, coordinatore della segreteria, che annuncia per mercoledì una riunione della direzione. Mentre lunedì sarà scelto il nuovo capogruppo alla Camera. Girano i nomi di Ciccio Ferrara e Arturo Scotto, due dei pontieri che nelle scorse settimane avevano tentato una ricucitura tra le due anime del partito. Scotto è molto amareggiato per lo strappo: «Vedo una coazione a ripetere nella storia della sinistra, e cioè dividersi ad ogni passaggio stretto. Evidentemente la calamita di un Pd al 40% è fortissima, ma è sbagliato dire che Vendola ci stia trascinando in una deriva identitaria». Prosegue Scotto: «Tutto il gruppo di Sel ha votato a favore degli 80 euro, non c’erano gli estremi per uno strappo del genere. Ma a me pare una scissione parlamentare e non di popolo».
«Sel non rischia di scomparire», ribadisce Vendola, annunciando che «il mio mandato è a disposizione del partito». «La mia linea politica è stata approvata a stragrande maggioranza dal congresso ». Migliore intanto ha incontrato il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini. Per ora, solo uno scambio di opinioni. Al Senato, almeno per ora, non ci dovrebbero essere strappi. «Tendo ad escluderlo», dice Peppe de Cristofaro, uno dei pontieri. Proprio a palazzo Madama ieri il senatore montiano Giampiero della Zuanna ha lasciato il gruppo di Scelta civica per approdare nel Pd. Anche alla Camera Scelta civica è divisa tra chi guarda al Pd e chi ad Alfano.E la nomina del nuovo capogruppo, al posto del dimissionario Andrea Romano, rischia di dar vita a un replay di quanto accaduto in Sel. Uno scenario che Romano smentisce: «Auspico la creazione anche in Italia di quella che Blair chiamava la “tenda dei riformismi”. Ma escludo l’adesione di singoli deputati di Sc al gruppo Pd».

l’Unità 20.6.14
Gennaro Migliore
«Uno spazio unico col Pd, in cui la sinistra conti di più»
«Misto o Pd? Vedremo»


«Non ho mai avuto problemi a essere minoranza. Ma quando il presidente del partito dice che stiamo “sequestrando la linea politica di Sel” è evidente che lamia presenza è incompatibile». Gennaro Migliore, dopo aver lasciato la guida del gruppo alla Camera, ieri è uscito da Sel insieme ad altri tre parlamentari.
Vi seguiranno altri? Cosa farete adesso?
«Altri stanno riflettendo sull’ipotesi di uscire da Sel, se andare nel Misto o entrare nel gruppo Pd sarà una decisione che prenderemo collettivamente».
Perché questa decisione? All’assemblea di sabato la linea di Vendola era stata approvata a larghissima maggioranza...
«Sul no alla fiducia eravamo tutti d’accordo, e mi sono attenuto a quanto deciso dall’assemblea. Ma sul merito degli 80 euro, un intervento a sostegno delle fasce più deboli, mi è parso incredibile che una forza di sinistra come Sel si tirasse indietro. La mia presenza è stata considerata un ostacolo, e ne ho preso atto. Ho tirato una riga e ho deciso che non era giusto né per me stesso e neppure per Sel restare se venivo additato come un problema. Sui social network si è scatenata, e non da oggi, una violenza verbale e una aggressività fortissima contro le nostre posizioni».
Nella votazione nel gruppo la sua linea ha prevalso. Perché allora andarsene?
«Appena abbiamo votato, è stato detto da Vendola che il nostro era un colpo di mano. C’è stata una sanzione di incompatibilità. Io sono per un riavvicinamento all’area di governo, per spingere a una trasformazione del quadro politico e, in prospettiva, di un unico campo democratico. Tutto questo veniva visto come un ostacolo da chi ha fatto una scelta identitaria che si era incarnata nella lista Tsipras».
Claudio Fava aveva proposto un congresso straordinario. Non era una strada praticabile?
«La sua proposta non è stata neppure presa in considerazione».
Ora andate verso un Pd al40%,che non pare bisognosi di ulteriori innesti. Così non svendete la vostra autonomia di forza di sinistra?
«Per me la parola “svendere” va bandita da ogni discussione politica. Il punto è come esercitare la tua influenza: in un luogo identitario e ideologico o in un luogo dove puoi cercare di diventare maggioranza. Quando abbiamo candidato alle primarie sindaci come Pisapia e Zedda siamo partiti da posizioni di estrema minoranza, così anche col referendum sull’acqua. Auspico un soggetto politico democratico in cui anche le idee di chi oggi è minoranza possono diventare maggioranza. Noi non vogliamo chiuderci in un recinto, ma dare un contributo di sinistra dove si possono davvero cambiare le cose».
Altri due vostri ex colleghi di Sel sono già entrati nel Pd..
«Quelle sono due uscite individuali, che non c’entrano con la nostra discussione».
Vendola ha detto che lei è «come un figlio».
Che effetto le fa questo strappo dopo tanti anni di battaglie insieme?
«Una separazione non è mai indolore, io non ho niente da rimproverare a Vendola, ho solo ricordi positivi con lui. La mia stima e il mio affetto per lui non cambiano, ma c’è anche una laicità nei rapporti».
Qual è l’errore politico che attribuisce a Vendola in questi mesi?
«Io non attribuisco errori. Ci sono due visioni differenti».
Voi stavate lavorando da tempo a questo strappo...
«Non veniamo da Marte. Ci sono stati mesi che hanno caratterizzato le scelte di Sel e io sono stato minoranza fino a quando non si è parlato di un sequestro della linea».
Lei pensa a un ingresso nel Pd?
«Penso a uno spazio unico. Spero che Renzi, dopo tante innovazioni, ragioni anche su una profonda riforma della forma partito, integralmente democratica e inclusiva. E spero che con Sel si torni a fare la stessa strada».
La vostra viene definita una operazione solo di palazzo, senza radici nella base...
«Lo vedremo. Sto ricevendo telefonate da tutta Italia, avverto un malessere diffuso nel corpo del partito». Renzicoidissidentinonèmoltotenero.RischiatediessereisolatianchenelPd?
«Non ho questo timore, sono sempre stato abituato a ragionare in termini di allargamento della democrazia e delle regole di partecipazione. E comunque non stiamo entrando nel Pd».

Repubblica 20.6.14
Sel a pezzi, quattro dimissioni e altri dieci vanno verso il Pd
Renzi: da noi porte aperte
Con Migliore escono Fava, Di Salvo e Piazzoni. “No alla deriva minoritaria”
L’ex capogruppo: “Basta opposizione sterile, serve l’intesa con i democratici”


ROMA. «La mia decisione era già presa». Gennaro Migliore, il capogruppo che ha sbattuto la porta di Sel, nega che la cena all’Hotel Bernini con il vice segretario dem Lorenzo Guerini sia stata decisiva. Ma la diaspora di “Sinistra ecologia e libertà” è stata squadernata a quel tavolo, mercoledì sera. E ieri Vendola non è riuscito a ricucire. La segreteria, convocata in fretta e furia, ha solo preso atto dell’esodo.
Decapitato il vertice del gruppo a Montecitorio. Lasciano Sel, oltre a Migliore, il vice presidente vicario Titti Di Salvo, il segretario Ileana Piazzoni, il vicepresidente del Copasir Claudio Fava. Nei giorni scorsi avevano detto addio altri due deputati, Michele Ragosta e Ferdinando Aiello. Nella prossima settimana dovrebbe lasciare Sel in dieci almeno, tra i quali potrebbero esserci Stefano Quaranta, Nazzareno Pilozzi, Alessandro Zan, Fabio Lavagno, Luigi Lacquaniti. È un terremoto. Nichi Vendola cerca di limitare i danni e lancia l’ennesimo appello a Migliore - «per me è come un figlio» - perché si fermi, ci ripensi. Ma è inutile. Poco prima del redde rationem della riunione, è Fava per primo a dare alle agenzie la lettera del congedo: «È una scelta dolorosa ma inderogabile. C’è una deriva minoritaria in cui non mi riconosco più». Arriva a stretto giro di posta la lettera aperta di Migliore «ai compagni e alle compagne »: «Le posizioni sono incompatibili, si è rotto il rapporto di fiducia». Ma è «l’opposizione sterile», che si è incagliata sullo scoglio del voto sul provvedimento renziano degli 80 euro per i redditi medio- bassi ad avere divaricato le differenze fino alla frattura. Migliore non partecipa alla segreteria.
“Sinistra, ecologia e libertà” è in piena tempesta. Chi resta accusa i fuoriusciti. Circolano veleni, allusioni, accuse. Titti Di Salvo parla della sofferenza di trarre il dado: «Però la nostra scelta è in linea con la cultura di sinistra di governo che noi ci siamo dati. Abbiamo tutti l’amaro in bocca, tuttavia è un percorso lineare». Il Pd di Renzi non ha certo fatto campagna acquisti. Ed è proprio il premier-segretario che, con i suoi collaboratori ragiona: «Massimo rispetto per il travaglio dentro Sel. Chi guarda al Pd troverà un partito aperto, attento alle diverse sensibilità, intenzionato a lavorare avendo come obiettivo la giustizia sociale, ma che si pensa come un vero e proprio partito della nazione». In pratica i Democratici sono pronti ad accogliere gli ex vendoliani.
Il drappello di fuoriusciti dovrà però decidere se confluire subito nel gruppo dem o puntare a una fase di passaggio. Migliore è orientato a entrare nel Pd, mentre Fava sarebbe più propenso a un gruppo di riformisti. Le ipotesi sono tante. Potrebbe costituirsi un gruppo anche con chi è andato via da Scelta civica e con i socialisti. Riccardo Nencini, il segretario del Psi, commenta: «Il sistema politico italiano post-elezioni europee genera sismi quasi quotidiani. Non gioisco quando nei partiti si consumano divisioni. Sta di fatto che dei partiti nati dopo il 1992 solo un pugno sopravvive ». Anche in Senato manovre in corso. Se un paio di senatori di Sel potrebbero lasciare per andare nel Pd, gli altri sono pronti invece a un gruppo con i fuoriusciti del Movimento 5Stelle. Nelle ultime settimane sono state già fatte dichiarazioni comuni a indicare la volontà di un matrimonio. Per Loredana De Petris, senatrice vendoliana, il partito è «sotto choc». Franco Giordano, ex capogruppo, in Transatlantico scherza sull’overbooking nel Pd di Renzi: «Ormai ci sono posti solo in piccionaia... ». Beppe Fioroni, dem, popolare e anti renziano, aveva ironizzato proprio sull’overbooking nel PdR. «L’unico overbooking di Renzi è quello di elettori... », stoppa Migliore. La diaspora si sposta anche a livello locale. Dall’Emilia l’assessore regionale Massimo Mezzetti chiede l’azzeramento di tutte le cariche del partito, mettendo gli amministratori provvisoriamente come traghettatori verso un nuovo congresso: «Il clima che si respira nei territori è quello dell’8 settembre del 1943».

Repubblica 20.6.14
Vendola sotto shock “Ma non siamo morti e non finirò renzista”
di Giovanna Casadio


ROMA. «Non ho pensato di dimettermi. Anche se il mio mandato è sempre a disposizione. Per me è stato un grande sacrificio in questi anni correre su e giù, tra il governo regionale della Puglia e il governo del partito. Ma mi ribello al conformismo nei confronti di Renzi e del suo ambiente...». Nichi Vendola ha appena concluso la riunione della segreteria che ha sancito la diaspora di “Sinistra ecologia e libertà”. È amareggiato, davanti alla frantumazione del “suo” partito. «Io che sono un sentimentale - dice - per una volta più che al sentimento, penso vada fatto prevalere la razionalità politica, non solo il cuore ma anche il cervello».
Vendola, si sente tradito?
«Non ci sono traditi né traditori, ci sono scelte politiche».
A quattro anni dalla nascita, Sel è naufragata, finita?
«No. Sel non è finita. C’è una spaccatura, una frattura, ma ricominciamo. E ricominciamo da un milione e 200 mila voti che sono frutto dell’investimento nell’Altra Europa con Tsipras. In questi anni siamo stati anima di un centrosinistra efficace e vincente. Abbiamo vinto in Puglia, a Milano, a Genova, a Cagliari. Abbiamo fecondato il centrosinistra. Dentro Sel la divisione maturava da lungo tempo. Per chi pensa che la vera innovazione sia Renzi, capisco sia difficile sottrarsi all’attrazione. Non posso che dire bene di Gennaro Migliore, della sua acutezza e intelligenza. Se parlassi male di Gennaro, parlerei male di me stesso. Siamo in una fase di terremoto per tutto il sistema politico italiano ».
Renzi pigliatutto?
«C’è uno sfondamento culturale che il renzismo e Renzi producono anche nel nostro mondo».
La cosa è negativa?
«Lo constato: Renzi ha una attrazione forte e vincente perché quel 41% è un monumento alle abilità del nostro premier. Ma noi alle primarie eravamo in contrapposizione alle idee di Renzi, che sono sempre organiche a un impianto liberista. Quando il premier squaderna il suo programma, con Blair come riferimento, ebbene noi siamo nati contro quelle tesi».
Il suo errore è stata la Lista Tsipras? Avete donato sangue per portare quel movimento alla vittoria e poi siete stati messi fuorigioco nell’europarlamento da Barbara Spinelli?
«I problemi relativi alla rappresentanza a Bruxelles non possono oscurare il dato politico che abbiamo ottenuto. Una vittoria, che è il contrario del ripiegamento identitario».
Quale prospettiva avete? Andate verso la creazione di un movimento tipo “Altra Italia”?
«Ci muoviamo sul sentiero scelto nell’ottobre del 2010, con la costruzione di battaglie comuni sia con il Pd che alla nostra sinistra».
Ma quale è la differenza tra lei e Migliore?
«Io voglio essere una sinistra di governo e lui vuole essere una sinistra al governo. Sel continuerà a incalzare e stimolare il governo sulla questione sociale e l’uscita dalla crisi. Renzi rompa la gabbia dell’alleanza con la destra e in questo Parlamento ci possono essere le forze disponibili a ricomporre un’area di centrosinistra. Ma basta con il conformismo generalizzato, che prima ancora che politico è culturale. È nocivo. Occorre più che mai una sinistra critica, che faccia domande impertinenti e chieda conto ad esempio, delle coperture con cui si finanziano gli 80 euro».
Quelli che vanno via, pare saranno oltre una decina, sono compagni che sbagliano?
«Hanno fatto la loro scelta. Sel non ha affatto esaurito la sua funzione e il Pd di Renzi ha bisogno di avere fuori da sé un forte presidio di sinistra. Ma più in generale è l’Italia ad avere bisogno di sinistra».

Repubblica 20.6.14
La polverizzazione della sinistra-virus
di Filippo Ceccarelli


I GRANDI animali come il leone non fanno più paura a nessuno - faceva dire Corrado Guzzanti al suo irresistibile Bertinotti qualche anno fa -. Spaventano invece i virus, microrganismi che non si possono neanche vedere. E allora, compagni, noi dobbiamo continuare a scinderci sempre di più».
«DOBBIAMO creare migliaia e migliaia di minuscoli partitini comunisti indistinguibili gli uno dagli altri che cambino di continuo nome e forma, nome e forma, nome e forma...» Questo proponeva dunque il Bertinotti di Guzzanti. Ma forse non è un caso che per affrontare l’estrema e presente crisi della sinistra radicale, Sel e dintorni, ci si debba rifare alla commedia grottesca, sia pure nella sua più profetica accezione.
Perché Bertinotti non c’entra più, ma da quelle parti è esattamente quello che sta accadendo. La polverizzazione, l’irrilevanza, il vuoto di qualsiasi consapevolezza sull’effetto che tutto questo girare a vuoto trasmette all’opinione pubblica - ed è un peccato, anche grave.
Non che prima, un anno, un anno e mezzo fa, fosse tutto così chiaro. Ma da un po’ non si capisce davvero più nulla: né chi, né come, né dove, né soprattutto perché. Risulta faticoso, per non dire defatigante, anche solo affacciarsi sul dibattito in corso.
Debbono entrarci quelle che un tempo si definivano «alleanze». Nel gennaio scorso, al congresso di Rimini, Renzi non venne: la platea di Sel subissò di fischi il povero emissario del Pd, Bonaccini, mentre sui maxischermi scorreva un’elementare considerazione: «Un’altra occasione persa». Adesso quasi la metà dei parlamentari ha l’aria di aver cambiato giudizio sul premier e sul suo governo.
Gli impicci con la lista Tsipras, non proprio edificanti, risalgono a un paio di settimane orsono. L’infezione della discordia è notoriamente contagiosissima, per cui nemmeno i potenziali separatisti sono d’accordo tra loro. E tuttavia mai come in questo caso il virus - anticipatorio, satirico o post-bertinottiano che dir si voglia - sembra dispiegarsi a scapito non solo della ragionevolezza, ma della stessa ragion d’essere di Sinistra e libertà.
Renzi infatti non è comunista, forse perciò ha preso voti al centro e a destra, e in più continua strenuamente a tenersi buono Berlusconi. Nel gioco dei pieni e dei vuoti che di nor- ma regola la politica si aprirebbe dunque un’autostrada, una pista d’aeroporto, o una prateria. E invece, o forse proprio per questo, per Sel si fa notte prima che faccia sera e il suo gruppo dirigente, come d’istinto, va a infilarsi nel classico ginepraio fitto di spine.
Per forza di cose i protagonisti, senza troppo personalizzare, hanno volti e modi e linguaggi da talk-show e a volte, specie di primo mattino o a notte fonda, si rischia colpevolmente di confonderli. Difendono o almeno presidiano un’area di valori e credenze che di sicuro esiste nella società, però è anche molto forte la tentazione di chiedersi quanto veramente incidono gli eletti nella realtà e nella vita dei loro stessi elettori e spettatori; e se non stiano lì, in Parlamento e nei salottini televisivi, un po’ per inerzia, o per abitudine, o per pigrizia, o per mestiere, o per virtù di quelle clausole di sbarramento che tanto li appassionano; o se, addirittura, non siano inutili. L’inutile Sel.
D’accordo, la parola suona sferzante - e tanto più nel momento in cui la fila per salire sul carro impennacchiato del giovane vincitore sembra superare, come spesso in Italia, ogni decenza. Ma mentre andava svolgendosi la titanomachia fra gli onorevoli Fratoianni e Migliore, si è consumata anche l’autorità, oltre che la leadership di Nichi Vendola.
Il carisma infatti non è dato per sempre e ogni stagione ha il suo termine. Comprenderlo, purtroppo, è quasi impossibile. Ma concentrarsi sul proprio originario impegno, cioè restare il più possibile in Puglia, amministrare, trovare umili soluzioni di governo e quindi rinunciare alle luci del proscenio, ecco, tutto questo allunga il tempo del comando e riduce di parecchio i rischi.
Le telefonate vere (Ilva). Le telefonate fasulle (almeno tre casi nell’ultimo anno). Ma Vendola sta sempre a Roma, e sta sempre in tv, e alla radio, e in foto sui manifesti, e con le strisce arcobaleno sulla faccia, e con il compagno, e inaugura e brinda alla nuova sede davanti ai suoi ritratti, e per forza di cose sempre più è condannato a esprimersi per fumisterie, contorsionismi, suggestioni.
L’altro giorno, alla ricerca di animali totemici, ha detto: «Forse potremmo essere un’anguilla». Il Bertinotti di Guzzanti puntava ai piccoli roditori.

il Fatto 20.6.14
La sinistra in frantumi. Sel, addio di 12 "riformisti"

Rottura sugli 80 euro
Renzi: "Porte aperte nel partito della Nazione"
di Salvatore Cannavò

Per Nichi Vendola è “un grande dolore”, oltre che “un errore politico”. Renzi lascia “le porte aperte”. Ma quella di Gennaro Migliore, di dodici deputati e un senatore di Sel è in realtà solo l’ultima di una serie infinita di scissioni. Il sintomo di una crisi strisciante che si trascina da tempo e che riapre ferite non sanate nel corpo martoriato della sinistra italiana.
LA SCELTA DI MIGLIORE di abbandonare il partito che, insieme a Nichi Vendola, Nicola Fratoianni, Elettra Deiana, Massimiliano Smeriglio, Francesco Ferrara, Franco Giordano e molti altri - tutti provenienti dal vecchio gruppo dirigente bertinottiano - è stata comunicata ieri da una lunga lettera del deputato napoletano. Una lettera in cui si respinge l’accusa di aver voluto, con la scelta di sostenere il decreto Irpef del governo, quello degli 80 euro, “sequestrare la linea politica del partito”, come gli era stato rinfacciato da Vendola. “Non ci sto a passare per un sabotatore” scrive Migliore, e “mi fermo prima che qualcuno chieda improbabili riallineamenti” e prima che “alla prossima occasione di dissenso riparta il processo mediatizzato e le accuse di sequestrare la linea”. Migliore definisce la propria posizione “incompatibile con quella di Sel” e quindi rassegna le dimissioni “da tutti gli incarichi e dal partito”. Non dal Parlamento dove punta a formare un nuovo gruppo, “riformista”, cercando di raccogliere consensi che permettano di arrivare al minimo indispensabile di venti. Tra la dozzina, circa, di deputati di Sel che lo seguiranno ci sono Claudio Fava, e Titti Di Salvo, ex segreteria Cgil. Incerte le posizioni di altre figure importanti come il tesoriere Sergio Boccadutri o l’ex coordinatore nazionale Francesco Ferrara. Dalle scelte che alcuni di loro faranno, tra l’altro, dipenderà anche la nomina del nuovo capogruppo . “Massimo rispetto per il travaglio dentro Sel, dice Matteo Renzi, chi guarda al Pd troverà un partito aperto, attento alle diverse sensibilità, intenzionato a lavorare avendo come obiettivo la giustizia sociale, ma che si pensa come un vero e proprio partito della nazione”. Un richiamo più che esplicito anche se, per ora, non ci sarà nessun ingresso. Migliore pensa soprattutto a un nuovo partito riformista, un Pd allargato. Intanto il nuovo gruppo vedrà i socialisti di Nencini mentre si è aperto il dialogo con deputati di Scelta civica come Andrea Romano: “Rispetto molto la scelta di Gennaro Migliore - spiega quest’ultimo al Fatto - e credo che il suo possa essere un passo verso la grande tenda dei riformismi che Renzi dovrebbe costruire”.
“LA SCISSIONE è un lusso che possono permettersi solo i parlamentari” commenta velenoso il responsabile organizzativo di Sel, Massimiliano Smeriglio, che accusa il colpo e parla di “vera maledizione della sinistra”. “Non c’è dubbio, per noi è un colpo, di immagine e non solo, come tutte le scissioni ci indebolisce. Però la ‘maledizione’ di cui parlo è quella del rapporto ossessivo con il governo”. Nella lunga nota con cui Vendola commenta la separazione si mette l’accento sul nodo politico: “Sel nasce dall’idea che tra il radicalismo testimoniale e il riformismo senza riforme, c’è un’altra strada. Io penso che noi dobbiamo continuare su questa, lo dobbiamo a tante e tanti che costruiscono giorno per giorno Sel”.

il Fatto 20.6.14
Il fuoriuscito Claudio Fava
“Via dal partito del capo Nichi”
di S. C.


Claudio Fava è tra coloro che hanno scelto di abbandonare Sel, il partito che ha contribuito a fondare. Di origine diessina, fu tra coloro che formò con Fabio Mussi Sinistra democratica, in alternativa al Pd. Oggi si ritrova al punto di partenza.
C’era proprio bisogno di una scissione?
Se l’abbiamo fatta, sì. Sel era un partito che aveva l’ambizione di costruire una sinistra per contribuire al cambiamento del Paese con un atteggiamento laico e critico. Invece c’è stato un lento scivolamento verso una ridotta identitaria-
Si riferisce alla scelta della lista Tsipras?
Al di là del giudizio, positivo, sulla persona, tutto quello che ha riguardato questa scelta ha tolto fiato al nostro progetto. La discussione sugli 80 euro l’ha rivelato. Le critiche al governo restano intatte ma se Sel mantiene un pregiudizio di posizione io che c’entro? Non ho rinunciato a entrare nel Pd per finire in Rifondazione.
Non avete resistito al fascino di Renzi?
No, quello che ho spiegato a Vendola nella mia breve e cortese lettera è che ridurre tutto alla caricatura “Renzi sì, Renzi no”, non serve. C’è una terra di mezzo, lo spazio per una sinistra autonoma dal Pd che sappia entrare nel merito di ciò che accade giorno per giorno. Ho un giudizio complesso e articolato sul governo. Nessun altro sarebbe stato capace di valorizzare un uomo stimato e perbene come Cantone ma ho un giudizio negativo sulla riforma del lavoro.
Può giurare che non andrete a finire nel Pd?
Chi di noi avesse voluto scegliere il Pd lo avrebbe fatto cinque anni fa. Io sono tra i quattro che hanno fondato Sel e non mi vedo costretto a rinnegare una scelta di cinque anni fa. Vedo invece che alcuni elementi di laicità interna, di democrazia, di superare l’idea di un partito del capo e vivere con franchezza il conflitto, non ci sono più.
Cosa rimprovera a Vendola?
Non solo di aver accettato un profilo minoritario ma di aver postulato che non c’era spazio per la discussione nel partito. Se ci fosse stata una discussione nei tempi legittimi e non ci fossimo trovati una conclusione del congresso preparata il giorno prima non saremmo arrivati a questo punto.
Farete un gruppo “riformista”? Puntate a raccogliere i malumori interni al Pd?
Vogliamo dare un riferimento chiaro all’area del socialismo europeo che, secondo me, resta uno spazio di critica e di libertà. In questo senso c’è un buon dialogo con i parlamentari socialisti che furono con noi all’inizio dell’avventura di Sel. Siamo una quindicina e spero di poter arrivare ai venti necessari. Ma non sto partecipando alla fondazione di una fronda esterna al Pd. Questo politicismo esasperato non mi appartiene.

il Fatto 20.6.14
Il garante Guido Viale
“Il futuro adesso è la lista Tsipras”
di S. C.


Guido Viale è stato uno dei “garanti” della lista Tsipras e anche uno di coloro che ha sostenuto con forza la decisione di Barbara Spinelli di accettare, ripensandoci, il seggio europeo. In questa veste è tra quanti sono stati accusati da Paolo Flores d’Arcais, in un lungo saggio su Micromega, di essere responsabili dell’ennesimo fallimento a sinistra. Accusa a cui reagisce con nettezza. “Non lo chiamerei fallimento. Certo l’obiettivo potenziale era ed è molto più ambizioso. Ma occorre scontare le difficoltà di un progetto del genere. Difficoltà con cui Flores non ha la minima capacità di misurarsi tanto è vero che si è ritirato fin dall’inizio aggiungendo difficoltà ulteriori come l’impuntatura sulla candidatura di Sonia Alfano”.
Eppure, al risultato della lista consegue l’ennesima scissione a sinistra.
La divisione di Sel mi pare fosse nella logica delle cose. La lista Tsipras è nata con una nettissima demarcazione nei confronti delle politiche di larghe o piccole intese del governo Renzi, e soprattutto, nei confronti di un partito pigliatutto come è diventato il “partito-governo” di Renzi che però nella sua impostazione di fondo non ha né la volontà né la possibilità di scostarsi dalle politiche di austerità. E quindi lascia alla sua sinistra uno spazio molto ampio.
Spazio che finora non avete occupato.
La lista Tsipras è nata per creare un punto di riferimento per quanti pensavano che i partiti tradizionali della sinistra radicale non fossero più strumenti adeguati per un elettorato molto ampio che comprende una parte anche consistente dell’elettorato Pd, una parte molto consistente del M5s e soprattutto una parte amplissima di coloro che si astengono per una natura e comprensibile ritrosia a riconoscersi nelle pratiche politiche correnti. Il progetto ha intercettato una parte minima di costoro ma le ragioni di fondo restano tutte.
Il dopo elezioni è stato monopolizzato dal “caso Spinelli”. Pentito di come si è svolta la discussione?
Sì. Non ho il minimo dubbio nell’aver sostenuto la scelta di Barbara Spinelli perché considero il suo contributo alla creazione di questa lista e alla sua vittoria fondamentali. Però, questa decisione avrebbe potuto essere comunicata meglio. Per quanto mi riguarda non ho niente da rimproverarmi ma questa discussione poteva essere condotta meglio da chi ha ritenuto opportuno entrare nel merito ma anche da chi non l’ha ritenuto.
Come andrà avanti la lista Tsipras?
Si stanno riunendo i comitati che hanno gestito la campagna elettorale e stanno mettendo a punto i programmi di azione. Il progetto si baserà essenzialmente sui comitati locali e con una struttura aperta e leggera ma indispensabile di coordinamento.

l’Unità 20.6.14
Sempre più bambini nei barconi della speranza
Il rapporto Save The Children: «Nel 2014 sono sbarcati oltre novemila minori
Più della metà viene dalla Siria e ha subito fame e molestie»


Sono quasi tutti siriani, arrivano dopo viaggi che durano anni, con tappe forzate in Libia o in Egitto e spesso hanno subito molestie. Quasi tutti i minori sbarcati in Italia dal 1 gennaio al 31 maggio 2014 sono bambini in fuga. Hanno un’età media di 5 anni, a volte meno, e non tutti sono accompagnati. È quanto emerge da un rapporto di Save the Children. 1.542 bimbi su 2.124 arrivati nel 2014 provengono dalla Siria. Un viaggio terribile iniziato nella maggior parte dei casi 1 o 2 anni fa per sottrarsi a combattimenti che non risparmiano città e villaggi e che colpiscono la popolazione civile e soprattutto loro, i bambini, uccisi, torturati o armati, esposti ad amputazioni o malattie gravi per mancanza di cure, spesso senza cibo sufficiente e senza acqua. A loro è dedicato «L'Ultima Spiaggia. Dalla Siria all'Europa, in fuga dalla guerra», il rapporto presentato da Save the Children alla vigilia della Giornata mondiale del rifugiato per dare loro un nome e un'identità, dare voce alla loro ultima speranza di futuro rivolta all'Italia e all'Europa, e che racconta le loro storie.
Gli arrivi dei profughi siriani sono andati ad intensificare gli ingenti flussi già provenienti dagli altri Paesi: secondo i dati ufficiali e le stime di Save the Children, dal 1 gennaio al 17 giugno 2014 sono arrivati via mare in Italia più di 58.000 migranti, di cui più di 5.300 donne, più di 9.000 minori, di cui solo 3.160 accompagnati. La presenza di bambini e adolescenti sulle imbarcazioni soccorse da Mare Nostrum è oramai una costante. Basti pensare che il 24 maggio, a bordo di una sola imbarcazione soccorsa vi erano 488 migranti tra cui 171 minorenni. La maggior parte, ben 141, erano bambini e bambine siriane che viaggiavano con uno o entrambi i genitori. Nel 2013 l'arrivo dei profughi siriani si è intensificato fino a raggiungere solo tra agosto e ottobre 9.365 persone (805 donne e 1.405 minori), mentre quest'anno la Siria è il secondo principale Paese di provenienza dei migranti arrivati in Italia (6.620 su 41.243 tra il 1/1 e il 31/5), preceduta solo dall'Eritrea. La maggioranza di queste famiglie appartengo alla classe media. Sono professionisti, imprenditori, commercianti, agricoltori o allevatori e sono fuggiti dalla Siria 1 o 2 anni fa per intraprendere un lungo e costoso viaggio, spesso passando per il Libano e l'Egitto. Raccontano che in Libia hanno provato a vivere cercando una casa e un lavoro, ma sono stati esposti a persecuzioni, furti, minacce e violenze. Passano dall’Italia, ma la loro metà sono i Paesi del nord Europa, in particolare, Svezia, Norvegia, Germania e Svizzera.
Esemplare è la storia di Hassan che ha appena 28 anni ed è sbarcato con la moglie, un figlio di 2 anni e mezzo e una bimba di 16 a Lampedusa il 15 ottobre 2013. Appena trasferiti in Sicilia hanno dovuto lasciare le loro impronte digitali anche se non volevano: «Mi hanno detto che le impronte erano solo per l'anticrimine e sarei potuto comunque entrare dove volevo in Europa». Non era così, dopo aver raggiunto l'Austria e aver fatto la domanda di asilo è risultato che erano già registrati come richiedenti asilo in Italia, e sono stati rinviati a Roma. Quella della Siria è una delle più grandi crisi umanitarie del nostro tempo. «Sono 4,3 milioni i bambini intrappolati nel Paese e in grave bisogno di aiuto, ma siamo a 3 mesi dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu sulla facilitazione dell'accesso degli aiuti umanitari e non abbiamo visto cambiare di una virgola la situazione sul campo - ha denunciato Valerio Neri, direttore generale di Save the Children. L'Italia e l'Europa hanno la responsabilità imprescindibile di accogliere questi bambini. «Chiediamo ai Paesi europei di riconoscere la propria responsabilità e predisporre programmi di reinsediamento e altre forme di ammissione umanitaria».

l’Unità 20.6.14
Oggi il documentario alle21
La vita in Transito dei rifugiati vittime del regolamento di Dublino

di Flore Murad-Yovanovitch

Che cos’è un limbo? Che cos’è vivere in un limbo giuridico? Tra pareti di Stati che ti respingono, ti deportano e ti fanno rimbalzare come un pacco tra loro. Essere un Dubliner: costretto a risiedere nel primo paese dove ti sono state prelevate le impronte digitali, al tuo ingresso in Europa  o se si migra a avanti e sceglie un altro stato, viverci, con il rischio di venir deportato indietro. Sono le vite spezzate di ragazzi richiedenti asilo imprigionati tra stati nel cuore del nuovo film di Paolo Martino, Terra di Transito, prodotto da A Buon Diritto con l’Istituto Luce-Cinecittà e proiettato ore 21 a Roma, nella sede del MAXXI, Museo nazionale delle arti del XXI secolo. In particolare la storia di Rahell, profugo curdo, bloccato in Italia dalle impronte nonostante abbia tutta la famiglia in Svezia. La fuga, Rahell, la conosce da bambino, quando nel 1988 fu costretto a trovare riparo a Damasco assieme alla famiglia, a seguito dell’attacco chimico orchestrato da Saddam Hussein sulla città di Halabja. Poi da giovane, costretto nuovamente a lasciare la Siria e a tentare il viaggio attraverso la Turchia, mesi di sopravvivenza sulle colline di Atene a frugare tra i rifiuti per nutrirsi, come altri decine di profughi chiusi nella prigione a cielo aperto della Grecia. Non poter tornare indietro, essere costretti ad andare avanti, a rischio della propria vita Sotto i tir Bari, i binari della stazione Ostiense, la tenda di Tor Marancia a Roma. Costretti alla mendicità, all’assistenza.


l’Unità 20.6.14
L’Italia cambi il sistema d’asilo
E nel 2014 può farlo
di Luigi Manconi e altri


La settimana scorsa la Camera dei Deputati ha bocciato per mancanza di copertura economica alcuni importanti articoli della Legge di Delegazione Europea 2013-bis, contenenti misure significative a sostegno dell’accoglienza e dell’integrazione dei rifugiati. Se fossero passati, il Governo sarebbe stato delegato dall’Unione Europea a modificare (e possibilmente migliorare) il sistema d’accoglienza per i rifugiati e le procedure per il riconoscimento della protezione internazionale.
Attualmente le persone che sbarcano in Italia sono per lo più gestite con provvedimenti di carattere emergenziale, nonostante il fenomeno degli arrivi via mare sia strutturato. Le politiche di accoglienza si rivelano spesso inefficaci rispetto alle esigenze e sicuramente non sono «lungimiranti». Ciò ha fatto sì che la maggior parte dei fondi economici destinati a questo tema viene per lo più spesa per soluzioni che oltre a garantire vitto e alloggio non offrono altri servizi. Sarebbe necessario - come è stato in questo contesto più volte ribadito - aumentare i fondi per altre forme di accoglienza che, in Italia, consistono nello Sprar (Sistema di Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati) e nel Cara (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo). Un passo del genere è stato di recente compiuto dal governo, ma non è sufficiente a rispondere alle richieste.
Le riforme sono estremamente urgenti e ora spetta al Senato modificare il testo di legge già discusso alla Camera, tenendo presente le norme scartate in quel contesto. Il 2014 è l’anno in cui l’Italia ha l’occasione di cambiare definitivamente il sistema dell’asilo, un’opportunità che non va persa in alcun modo.
Oggi è la Giornata Mondiale del Rifugiato e per quest’occasione sono state organizzate in tutta Italia numerose iniziative. In alcune di queste verranno raccontate le storie di chi fugge dal Paese di origine e cerca di realizzare il proprio progetto migratorio.

Repubblica 20.6.14
Bossetti
Nelle valli dell’omertà “Forse era meglio se stavamo zitti”
di Piero Colaprico


DAL NOSTRO INVIATO BERGAMO. Nel giorno in cui, per la prima volta, un giudice terzo conferma l‘impianto accusatorio della procura, trasformando il fermo chiesto dal pm in un’ordinanza di custodia cautelare, e inchioda Massimo Giuseppe Bossetti a quel 26 novembre 2010, quando Yara Gambirasio sparì nel nulla, il presunto killer ha tentato di difendersi su tutta la linea. «Yara non l’ho mai vita, né conosciuta. Dopo il delitto, ho incontrato il padre una volta sola, per motivi di lavoro», ha detto Bossetti, interrogato in carcere dal gip di Bergamo Ezia Maccora. «Con lui non ho mai parlato, ho capito che era il padre perché era uscito in tv, altrimenti non l’avrei riconosciuto». Anche alcuni suoi colleghi impegnati nel cantiere vicino a Brembate Sopra, assicurano di aver visto lavorare il padre della vittima col presunto assassino, proprio nei giorni in cui la ragazzina è scomparsa.
PERICOLO DI REITERAZIONE
Bossetti deve rimanere in carcere non perché può fuggire, ma perché può uccidere ancora, per la “gravità intrinseca del fatto” che ha commesso, “connotato da efferata violenza'. Nell’ordinanza che conferma il carcere, il gip scrive che la personalità dell’arrestato è “capace di azioni di tale ferocia, su una giovane ed inerme adolescente abbandonata in un campo incolto dove per le ferite ed ipotermia ha trovato la morte”. Il fermo non viene disposto perché “non si evince alcun elemento concreto e specifico dal quale desumere il pericolo di fuga”. Bossetti, infatti è “soggetto regolarmente residente in Italia” e “non si è allontanato dopo l’omicidio, avvenuto nel 2010”. Tantomeno durante le indagini: quando la madre, nel luglio 2010, si è sottoposta all’esame del Dna, o quando gli investigatori lo hanno sottoposto all’alcol test confrontare il suo profilo genetico col Dna dell’assassino.
RETICENTE
Per due volte, davanti al pm Letizia Ruggeri, il muratore di Mapello è sempre rimasto in silenzio. Ieri invece, nell’interrogatorio di garanzia ha parlato, negando tutto e tentando di spiegare perché non è lui l’assassino. Un atteggiamento giudicato “poco collaborativo” dagli inquirenti. Bossetti dice di non aver mai visto la ragazzina, e quando gli si contesta che il suo cellulare aveva agganciato la stessa cella di Mapello a cui si era agganciato quello di Yara, prima di rimanere inattivo per 14 ore, Bossetti dà una spiegazione molto semplice: “Il mio telefono era scarico, l’avevo messo in carica”'. La sera del delitto, è l’alibi dell’indagato, “ero a casa con la mia famiglia. Io sono totalmente innocente – ha detto più volte Bossetti, indagato per omicidio aggravato da crudeltà e sevizie -. Non c’entro niente con questa storia”.
LE TRACCE GENETICHE
Ma a incastrare Bossetti, a collocarlo sul luogo del delitto e sul corpo della vittima, sono le tracce organiche rinvenute sul corpo della ragazzina. Perché il suo Dna era sui leggins di Yara, isolato dai tecnici della Scientifica quando la ragazzina venne ritrovata cadavere, tre mesi dopo, in un campo di Chignolo d'Isola? «È una cosa assurda, non me lo so spiegare» è stata l’unica risposta di Bossetti. Quel Dna che ha fatto luce sul delitto e ha sconvolto la storia misteriosa di due famiglie - quella di Giovanni Bossetti, il marito di Ester Arzuffi, e quella di Giuseppe Guerinoni, il vero padre dell’indagato che avrebbe avuto un relazione con sua madre Ester - è per gli investigatori “una prova schiacciante”. «Sono rimasto sconvolto quando l’ho saputo», ha detto Massimo. Ieri è stato anche disposto l’esame del dna su Giovanni Bossetti, che non farà che confermare che per 44 anni ha allevato un figlio non suo.
LE INDAGINI NON SI FERMANO
Il provvedimento di ieri, notificato a Massimo Bossetti direttamente in carcere, è per gli inquirenti la migliore conferma del lavoro svolto finora. Ma per blindare ancor di più l’indagine, polizia e carabinieri continuano a ritmo serrato a scavare nella vita dell’uomo. Gli uomini che per quattro anni non hanno mai smesso di dare al caccia all’assassino di Yara, hanno partecipato a un vertice in procura. Insieme al pm, Letizia Ruggeri, e al questore di Bergamo, Fortunato Finolli, c’erano il capo dello Sco Raffaele Grassi, quello del Ros Mario Parente, il comandante provinciale dei carabinieri Antonio Bandiera. Poi le indagini sono ripartite dalla casa di via Piana di Sopra, a Mapello, dove fino all’arresto Bossetti viveva con la moglie, i tre figli e la suocera.
Dalla villetta gli uomini della Scientifica avevano già prelevato computer, arnesi da lavoro e taglierini. Ora altri oggetti sono stati portati via in due sacchettini, la struttura è stata posta sotto sequestro, e le forze dell’ordine hanno setacciato anche un vecchio deposito di famiglia, adiacente alla villetta, poi posta sotto sequestro. L’ultimo a entrarci, mercoledì, è stato Fabio, il fratellastro di Massimo. Di buon mattino, è entrato nell’appartamento dov’erano ancora rinchiusi i tre cani della famiglia. Sullo zerbino ha trovato una copia di un quotidiano con il volto del fratellastro in prima pagina. L’ha scaraventato lontano ed è andato via.

Repubblica 20.6.14
Motta Visconti
Nel paese dell’uomo nero che si faceva chiamare papà
Un bravo ragazzo tutto casa e chiesa ha accoltellato i figli nel sonno e la moglie “perché voleva cancellare gli anni del suo matrimonio”
Così un omicida freddo e infantile ci ha precipitati nell’orrore
di Carlo Verdelli


MOTTA VISCONTI. VIETTE e villette, impiegati e contadini, un benessere ragionevole e una pace quasi svizzera. Il fulmine che ha disintegrato la beata comunità di Motta Visconti è di quelli che neanche immagini possano esistere e tantomeno arrivarti addosso, proprio lì, dove persino la natura è piatta e il Ticino va pianissimo. Don Giovanni Nava, parrocco di questa comunità stordita: «Siamo in 7mila, più o meno ci conosciamo tutti. Ecco, provi a trovare una persona, anche una sola, che dica: c’era da aspettarselo. Nessuno, glielo assicuro. Su Carlo, chiunque avrebbe messo la mano sul fuoco. Educato, attento, delicatissimo coi figli, suoi e degli altri. Sabato, ai funerali, chiederò di pregare anche per lui. Ha distrutto tre famiglie in un colpo solo: due nell’anima, i genitori suoi e della moglie, e una, la sua, sterminata
in proprio. Io prego e so che anche il Papa lo sta facendo: per i morti, i sopravvissuti e perché Carlo sia redento».
Ditelo ai bambini che l’uomo nero esiste davvero e che è diventato molto bravo a travestirsi, a ingannare la loro fiducia. Capita persino che l’uomo nero abiti addirittura in casa, viva con loro, si faccia chiamare papà, e poi d’improvviso una notte, mentre dormono, strazi la mamma, li raggiunga nella cameretta, affondi la punta di un coltello nel loro collo e poi spinga, spinga forte, finché la vita scivola via e il sogno che stavano facendo finisca annegato nel sangue di un cuscino.
Non fosse per la saga sconvolgente e tragica che sta srotolandosi intorno al povero corpo intirizzito di Yara, sarebbe Motta Visconti la nostra nuova capitale dell’orrore. In questo paese piccolo e ordinato tra Milano e Pavia, sabato scorso, una partita dell’Italia fa, il signor Carlo Lissi, 32 anni, incensurato e incensurabile dottore in economia, il figliopadre- marito che tutti sognerebbero, ha trasformato una villetta color salmone su due piani in uno di quei gironi infernali che già ospitano località marchiate in eterno come Novi Ligure, Cogne o la Montecchia di Pietro Maso.
«Vederli sgozzati nei lettini è la scena più brutta che abbia mai visto. L’aggressione alla moglie è stata di una ferocia spaventosa, ma i corpi di quei bambini non me li toglierò più dalla testa». Al generale Maurizio Stefanizzi, 54 anni, comandante provinciale dei Carabinieri di Milano, è toccato di sbrogliare il più in fretta possibile il caso di Motta Visconti, prima che qualcuno incautamente pasticciasse la scena del crimine come a Garlasco o Cogne, prima che montasse la caccia ai fantasmi venuti da chissà dove.
Lui e suoi uomini ci hanno messo 24 ore. Non era facile, non era neanche così difficile. L’assassino è stato implacabile ma non impeccabile. Il problema era e resta il movente, ma è un problema che sfonda il muro della nostra ragione e va molto oltre.
È la sera di sabato 14 giugno, intorno alle 23. In casa della famiglia Lissi, l’ultima prima di un boschetto, niente lascia presagire niente. Giulia, la figlia di quasi 5 anni, dorme nella cameretta al piano di sopra, e così Gabriele, 20 mesi, parcheggiato nel lettone dei genitori. Carlo e la moglie Maria Cristina stanno sul divano a vedere la tv. Sono sposati dal 2008, lei ha 6 anni più di lui, pare che alla vigilia delle nozze l’imminente sposo avesse provato a fermare tutto dicendo di non sentirsela più ma lei tenne duro, gli disse che così le avrebbe rovinato la vita: finì con un album nuziale vecchio stile, sorrisi e dolcezze a ogni scatto, lui sbarbato e ben curato come si conviene, mentre adesso, 6 anni dopo, porta i capelli rasati e un pizzetto malandrino, ma dicono che lo fa a ogni inizio estate perché va in moto, fa sport e non gli piacciono i capelli appiccicati.
Fuori piove forte, Carlo e Maria Cristina fanno l’amore lì dove sono, in salotto. Poi lui si alza, si infila le mutande, va in cucina dove c’è un tavolo coperto da una cerata multicolore e una palla di Peppa Pig tra le sedie, prende un coltello a lama lunga, torna alle spalle della moglie e affonda il primo taglio. Lei lancia un urlo: “Carlo! Ma perché? Carlo, no!”.
I vicini di villetta, una coppia più anziana, sentono qualcosa ma pensano siano gli schiamazzi dei ragazzi che si radunano al boschetto, e poi viene giù tanta acqua, magari si sono sbagliati. La moglie di Carlo, intanto, cerca di scappare verso la porta ma lui l’atterra con un pugno in faccia e la finisce con altre 5 pugnalate. Poi sale dai figli. Dal verbale della sua confessione: “Sono entrato da Giulia. Era a pancia in su. Le ho dato una coltellata alla gola. Dopo che ho estratto la lama, si è girata di lato e così è rimasta. Poi sono andato in camera da letto dove c’era Gabriele e anche a lui ho dato un’unica coltellata alla gola”.
Al pm Giovanni Benelli prova anche a spiegare che non era più innamorato della moglie ma che non riusciva a dirglielo. E all’obiezione del magistrato “comunque, non era meglio divorziare?”, l’irreprensibile signor Lissi dà una risposta che è una botola su un baratro: «Il divorzio non avrebbe risolto, perché i figli sarebbero comunque rimasti. E io volevo cancellare gli ultimi 6 anni della mia vita». Dal matrimonio a sabato 14 giugno.
Finita la mattanza, quel sabato sera, Carlo fa una doccia, si veste (e i vestiti sono e resteranno puliti perché quando ha agito era nudo, tranne che per le mutande) e raggiunge la casa di un amico dove si autoinvita con un sms: “Il Maffi mi ha paccato per andare allo Zimè a vedere l’Italia a mezzanotte, Vale mi ha detto che vengono da te, posso fare lo sfacciato e aggregarmi?”. L’amico, che non vedeva e non frequentava da tempo, gli risponde di sì: con lui sono in 17, non porta buono ma la nazionale batte lo stesso l’Inghilterra e l’assassino esulta ai gol come se niente avesse alle spalle. Per strada, si è anche liberato del coltello, gettato tra le grate di un tombino.
Al ritorno a casa, ritrova la scena che ha lasciato. Chiama disperato il 112, viene portato dai carabinieri, che intanto cominciano a indagare e scoprire che qualcosa, anzi molte cose non tornano. La cassaforte ha la combinazione ed è aperta ma senza scasso, la porta non è stata forzata, Lissi racconta che prima cosa si è buttato sulla moglie per vedere se era viva, dovrebbe avere le mani piene di sangue e invece sugli interruttori della luce che preme per andare a controllare le stanze dei figli non ci sono tracce ematiche.
Il raggio si allarga in fretta, si allunga sulla Wolters Kluver di Assago, dove Carlo è assunto nel ramo informatica. Spunta una ragazza di 24 anni, che è lì da poco e che lui avrebbe corteggiato negli ultimi mesi con sempre più insistenza. È in Svizzera, weekend col fidanzato. Viene convocata e spiega che sì, lui le sbavava dietro, era arrivato ai paroloni d’amore, nessuna molestia né abbozzo di storia però, perché lei gli aveva detto e ripetuto che stava bene con il suo ragazzo e che mai si sarebbe messa con uno sposato e con figli.
Nelle lunghe ore in caserma, i carabinieri sono abili a creare un clima informale, si chiacchiera, uno accenna a dei suoi problemi in famiglia, l’assassino comincia a fidarsi e confidarsi, e invece di disperarsi per quel che è accaduto, come farebbe qualsiasi innocente, e pretendere di essere lasciato andare, chiede una pizza. Ai funghi, se possibile.
Verso mezzanotte, quando il puzzle, per quanto pazzesco, è composto, le guardie danno un ultimo colpo alla ricostruzione di Carlo Lissi. Gli dicono che hanno rintracciato la collega di cui si è invaghito, che le hanno parlato. Gliene chiedono conto. E lui, a quel punto, si prende la testa tra le mani, tace qualche secondo e poi dice «voglio il massimo della pena» e in venti minuti racconta tutto. Li porta anche a ritrovare il coltello nel tombino. No, non dà segni particolari di disperazione. È lucido, giusto qualche lacrima, forse più da sfinimento che da reale coscienza del dolore.
La domanda, non l’unica, è se il massacro dell’uomo nero sia stato programmato o piuttosto sia il frutto irrefrenabile di un raptus. Chi gli è stato vicino nel percorso tutto sommato breve tra la finzione e la confessione propende per la prima ipotesi. Un matrimonio non per passione. Anche i figli, più subìti che scelti. E una moglie forte, o vissuta come tale. Si erano conosciuti ai tempi dell’oratorio, lei cantava nel coro, era una leader, era più grande in tutto. Lui giocava nella squadra di pallavolo, bravo come a scuola, come sempre, con tutti. Ma nella coppia era lei, almeno secondo lui, che guidava, che amava, che lo richiama alle responsabilità crescenti di marito prima e di padre poi. Invece Carlo Lissi si sentiva ancora un ragazzo, curava molto il proprio corpo, si piaceva e gli piaceva piacere.
Un divorzio, sfasciare la famiglia con due figli piccoli, gli sarebbe costato la disapprovazione di tanti, avrebbe macchiato la sua immagine perfetta. Invece una cosa come quella che è successa lo avrebbe trasformato in una vittima da coccolare (poverino, con quel che ha patito), lo avrebbe liberato da ogni legame, gli avrebbe ridato una vita di cui covava un desiderio sempre più selvaggio dentro e sempre ben mascherato fuori. Come la punta di un iceberg, sul suo profilo Facebook spunta una foto di “Walking Dead”, una serie tv piuttosto violenta, con il protagonista che punta dritto la pistola verso l’obiettivo.
Ecco il piano, e se così fosse, per quanto maldestra sia stata la realizzazione, aveva bisogno di tempo per essere varato: un’occasione per uscire la sera, lui che non usciva mai (la partita); il sesso con la moglie, a riprova che tra loro non c’era alcuna tensione; la casa messa sotto sopra da furibondi ladri-omicidi; magari anche un po’ di calmante ai bambini (ma questo lo potrà chiarire solo l’autopsia) perché non si svegliassero alle probabili grida della madre. E se invece fosse tutto e solo uno sbocco di incalcolabile follia, cambierebbe forse qualcosa dal punto di vista processuale ma niente da quello della possibilità di umana comprensione.
Nel 2013 a Motta Visconti c’è stata un’epidemia di suicidi: 8, di cui 2 di persone venute da fuori a impiccarsi nel parco del Ticino e 6 di abitanti del posto. Otto storie diverse, la crisi economica, una vecchiaia troppo malata, il picco di una depressione. Don Gianni Nava ne ricorda un’altra, quella di un ragazzo di 17 anni di buonissima famiglia: l’ultimo giorno prima delle vacanze natalizie, salta la scuola e manda ai compagni più cari una lettera in cui annuncia che si butterà da un ponte il primo di gennaio. Le lettere arriveranno dopo i suoi funerali. «Perché l’ha fatto e perché con questa pianificazione macabra? La verità, come per Carlo Lissi, è insondabile. Il cuore che ti diventa di ghiaccio, un granellino per volta, neanche te ne accorgi, ma a un certo punto ti ritrovi davanti una montagna insormontabile. O uccido o mi uccido. E agisci come un automa».
Davanti alla villetta a due piani dell’uomo a due facce, appoggiati al cancello ci sono tanti mazzi di fiori, candele colorate, peluche di tutti i tipi, e cartelli commossi scritti e disegnati da bambini. C’è un’antica tradizione a Motta Visconti. Il 24 giugno, giorno della festa del patrono San Giovanni Battista, la sera prima si mette un vasetto pieno d’acqua in giardino, poi si aggiunge l’albume di un uovo. La mattina dopo, se c’è stata una buona rugiada, l’albume prenderà la forma di una barca. La speranza è che ci salgano sopra Giulia, Gabriele e mamma Cristina, e poi volino in cielo, o comunque lontano da qui.

La Stampa 20.6.14
Gli psichiatri: Franzoni può essere “risocializzata”
La nuova perizia disposta dal Tribunale di sorveglianza indica che gli elementi di pericolosità possono essere contenuti tramite un percorso con i servizi sociali
di Giorgio Macchiavello

qui

Repubblica 20.6.14
Fecondazione eterologa al via nel caos
di Michele Bocci


I CENTRI privati partono con i trattamenti, le Regioni studiano linee guida e delibere, il ministero della Salute sottolinea di essere l’unico titolato a fare atti sul tema. Ieri è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la sentenza della Corte Costituzionale che ha fatto cadere il divieto all’eterologa e il sistema sanitario si presenta già disunito. Si sta riproponendo lo schema che accompagna da sempre la procreazione medicalmente assistita (pma), con i privati più avanti per quantità di centri attivi e di casi seguiti rispetto al servizio pubblico. Molte Regioni si stanno attivando per capire come regolare la materia e dare disposizioni ai centri pubblici. La Toscana, ad esempio, mira a inserire l’eterologa nei lea, i livelli essenziali di assistenza per tutti i cittadini. Il ministro Beatrice Lorenzin stoppa subito eventuali scatti in avanti sottolineando come si stia parlando di una legge nazionale. «Non è possibile che ognuno faccia quello che gli pare su questo tema. Saremo noi a predisporre gli atti necessari per il rispetto della sentenza». Ci sono da regolare temi come la gratuità degli esami per i donatori, l’eventuale rimborso spese e l’anonimato di chi mette a disposizione ovociti o gameti. In una mozione bipartisan di senatori Pd e Forza Italia si chiede proprio al Governo di «aggiornare subito le linee guida sulla pma per consentire in sicurezza e trasparenza l’eterologa anche nel nostro Paese. Previo accordo con le Regioni, va inserita nei lea, e deve essere creato un archivio per assicurare la gratuità della donazione». I privati, sulla base della sentenza immediatamente esecutiva vanno per la loro strada. «Nel giro di un mese partiamo con i primi trattamenti», assicurano dai centri che non rispondono ai sistemi sanitari regionali. È il caso dell’Istituto Hera di Catania. Il direttore dell’unità di medicina della riproduzione, Antonino Guglielmino, spiega che ci sono decine di donne che aspettano di fare l’eterologa in Sicilia e saranno chiamate nei prossimi giorni. «Intanto contattiamo le donatrici, tra le pazienti del passato che hanno lasciato ovociti in soprannumero nei nostri congelatori». Stessa cosa avviene a Bologna, al centro Sismer. «Abbiamo 200 ovociti di ex pazienti da parte - spiega Luca Gianaroli, direttore scientifico - Il 60% delle donne hanno già dato il via libera alla donazione. Il costo sarà inferiore ai 3.800 euro dell’omologa. Cercheremo di riproporre uno schema che facevamo prima della legge 40 e prevede l’incrocio di donazioni tra coppie». Elisabetta Coccia presidente di Cecos, associazione che raccoglie 20 centri privati o convenzionati, spiega che ci sono 7-800 coppie che «avranno consulenze per iniziare il percorso dell’eterologa». Ma c’è anche una realtà pubblica che parte subito. Si tratta del centro di riproduzione dell’ospedale di Cattolica in Emilia-Romagna. «Entro fine mese iniziamo le visite - dice il direttore Carlo Bulletti - Abbiamo due coppie, una ha bisogno di gameti maschili e l’altra dell’ovocita. Faranno donazioni incrociate. Il costo? Quello del ticket, tra 4 e 500 euro».

Il Sole 20.6.14
Diritti violati
Il mondo celebra la «Giornata del rifugiato»

« Gli eventi nel vicino Iraq avranno violente ripercussioni in Siria»: la denuncia è arrivata ieri a Ginevra da Paulo Pinheiro, presidente della Commissione Onu d'inchiesta sulla Siria. Oggi il mondo celebra la Giornata Mondiale del Rifugiato, un'occasione che richiama l'attenzione sugli sfollati di tutto il mondo.

Corriere 20.6.14
La «nazione» dei profughi. Oggi sono più di 50 milioni
Mai così tanti dalla fine della II Guerra mondiale
di Alessandra Coppola


Un Paese in più al mondo, popoloso quanto la Colombia o il Sudafrica, poco meno dell’Italia: 51,2 milioni di persone. Per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale, i «migranti forzati» hanno superato la soglia dei cinquanta milioni.
È il primo dato che emerge dal nuovo Rapporto dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), diffuso oggi e anticipato al Corriere . Si riferisce a donne, uomini e bambini costretti a lasciare le proprie case e a mettersi in viaggio, in conseguenza di guerre, persecuzioni, violazioni dei diritti umani. Tiene insieme il conteggio degli «sfollati» — rimasti all’interno dei confini nazionali — 33,3 milioni di persone; quello dei «rifugiati» — che hanno attraversato almeno una frontiera — 16,7 milioni, la metà minorenni; più 1,2 milioni di «richiedenti asilo», che nel 2013 hanno fatto domanda di protezione internazionale.
A spingere i numeri verso l’alto è il conflitto siriano, che ha superato il terzo anno e non promette soluzioni. È da qui che arrivano i flussi che fanno tracimare il Rapporto: 2,47 milioni di rifugiati a fine 2013; 6,5 milioni di sfollati interni. Con conseguenze che si irradiano in tutta l’area euromediterranea. «La crisi si protrae — spiega Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr per il Sud Europa — ed è talmente devastante, con la distruzione di villaggi, di intere città, delle infrastrutture, di tutto il sistema sanitario, da non lasciare ai profughi speranze di rientro». I dati del 2013 dicono anche questo: più guerre, più lunghe, più bassa la quota di chi riesce a tornare a casa (solo 416 mila in tutto il pianeta).
Certamente non i siriani, che si sono al principio allontanati in un raggio breve, Libano, Giordania e Turchia, appena al di là della frontiera, e che adesso, osserva Sami, spesso coi bambini al seguito, partono verso progetti di vita altrove, la maggior parte in Europa, qualcuno negli Stati Uniti. Perché le prospettive di rimpatriare (trovando le condizioni per ricominciare) sono scarse.
Corollario della crisi siriana, la trasformazione — nell’arco di un anno soltanto — del piccolo Libano nel terzo Paese al mondo per rifugiati (856 mila), il primo in assoluto (e con ampio distacco) nella proporzione tra abitanti e profughi: 178 ogni mille. Uno sbilanciamento destinato ad avere conseguenze in un incastro già fragile di minoranze. Qui, come nell’intera regione. Carichi così alti pesano inevitabilmente negli altri Stati confinanti, soprattutto in Giordania (641 mila).
In cima alla lista degli approdi, però, restano Pakistan (1,6 milioni di profughi) e Iran (857 mila), effetto ancora della crisi afghana: benché i riflettori si siano spostati altrove, le violenze in queste valli continuano a obbligare migliaia di persone a mettersi in viaggio. Sono ancora gli afghani i più numerosi tra i rifugiati (2,56 milioni), assieme ai siriani, certo, e ai somali (1,12 milioni): tre nazionalità che assieme rappresentano il 53 per cento di tutti i popoli in fuga.
Crisi lunghe, speranza di rinascita in Europa: è una delle ragioni che spiegano l’aumento degli sbarchi sulle nostre coste. In Italia, indica il Viminale, al 13 giugno sono 53.763. Unhcr fornisce al Corriere la cifra delle richieste d’asilo nello stesso arco di tempo, che dà la misura di chi intende restare: 23 mila. Oltre il doppio delle domande presentate nei primi sei mesi del 2013 (10.900), non lontano dalla cifra complessiva dell’anno scorso (27.000). Molto al di sotto, però, delle quote tedesche (42 mila solo da gennaio ad aprile), che lasciano pensare a un nuovo «record». La Germania, già nel 2013, è in cima alla lista mondiale per richieste d’asilo, con un numero che equivale a una città delle dimensioni di Vicenza: 109.580.

Corriere 20.6.14
Una Lampedusa al confine messicano
di Massimo Gaggi


I disperati che cercano di arrivare a Lampedusa o in Sicilia fuggo- no da guerre, persecuzioni e carestie in Africa. Rischiano la vita per attraversare il Mediterraneo su imbarcazioni stracariche di boat people. «È un problema serio che riguarda tutta l’Europa, non solo l’Italia. L’abbiamo detto ai nostri alleati della Nato. Oggi siamo concentrati sull’Est, la crisi in Ucraina, ma quella sud è la seconda frontiera della quale l’Alleanza atlantica deve occuparsi». Due settimane fa, durante la visita di Barack Obama in Europa, nel dirmi queste cose in un incontro conviviale (e quindi off the record, secondo le regole della Casa Bianca), uno dei più stretti collaboratori del presidente del Consiglio per la Sicurezza nazionale aveva, forse, in mente l’emergenza per certi versi simile che anche gli Stati Uniti devono affrontare da alcuni mesi. Gli Usa d’immigrati clandestini, soprattutto ispanici arrivati dal Messico, dai Caraibi e dall’America Latina, ne hanno tanti: almeno 11 milioni. Ormai sono parte integrante del sistema produttivo: senza di loro si fermerebbero il Texas, la Florida, l’agricoltura della California. Ma tutti i tentativi di regolarizzare la situazione sono falliti nonostante una sanatoria sia ormai richiesta, oltre che dai democratici, anche da molti conservatori (ieri l’appello di Rupert Murdoch). Ma, mentre a Washington si negozia e si litiga, alla frontiera col Messico è esplosa un’emergenza del tutto inaspettata. Dopo anni di relativa calma (effetto della recessione), è arrivata un’improvvisa ondata di disperati: a differenza dei boat peo- ple di Lampedusa, questi nuovi clandestini non fuggono da guerre e carestie ma dalle gang criminali dell’Honduras, del Salvador e del Guatemala. E non sono adulti, ma bambini. A volte accompagnati dalle madri, ma più spesso minorenni che si sono messi in viaggio da soli. Il loro Mediterraneo è il Rio Grande e la prima cosa che segnarsi alla polizia: la comunità ispanica s’è convinta che sia questo il modo più sicuro per far vivere questi ragazzi negli Usa come persone libere, anche se da illegali.
Il meccanismo è questo: i ragazzi scappano perché perseguitati dalle gang o nella speranza di raggiungere genitori o parenti che già vivono negli Usa. Sanno che verranno arrestati, ma anche che il governo Usa ha reso meno severe le norme sulla detenzione e l’espulsione dei minori (in realtà quelle misure riguardano solo giovani arrivati parecchi anni fa, ma nessuno ci fa caso: fa più effetto la propaganda repubblicana sulle frontiere-colabrodo di Obama). I ragazzi arrivano in massa e la polizia non sa che fare: i centri di detenzione sono già saturi e i bambini richiedono cure e una protezione particolare. Per legge possono essere rimandati indietro solo i messicani, ma non chi viene da Paesi più lontani e dovrebbe attraversare diverse frontiere.
Così accade davvero che, una volta arrestati e schedati, questi ragazzi vengano dati in affidamento a chi li vuole e li conosce: cioè i loro familiari negli Usa. Prima o poi un tribunale decreterà la loro espulsione, ma intanto sono liberi negli Usa e questo attira altri ragazzi. Ingigantendo il nuovo problema sociale e i guai elettorali di Obama, in vista del voto di mid term di novembre.

Repubblica 20.6.14
Messico-Usa l’odissea dei bambini di frontiera
di Vittorio Zucconi


I BAMBINI lo chiamano “El Tren de la Muerte”, ma nessuno sa davvero quanti di loro quel treno della morte uccida.
Però tanti. Daniel Zavala ricorda di averne visti scivolare molti dal tetto dei carri merce traballanti lungo i 3mila chilometri di rotaie fra la partenza da El Salvador fino all’arrivo a El Paso, nel Texas, ma il treno non si ferma per raccoglierli, perché i bambini sono figli del nulla. Non esistono. Una notte vide una bambina che si era addormentata rotolare dal tetto e sentì soltanto un urlo allontanarsi nella notte. Qualcuno sparse la voce che le ruote del treno le avevano tranciato le gambe. Magari non è vero.
Anche Daniel, come i 60, o 70, o 80mila minori - duecento al giorno, morto più morto meno - che quest’anno soltanto hanno lasciato o lasceranno l’El Salvador, l’Honduras, il Guatemala, il Messico affidati dalle famiglie ai coyotes , agli sciacalli che li imbarcano nel viaggio verso la “Frontera del Grande Norte”, degli Stati Uniti, deve soltanto guardare avanti. Come la biblica moglie di Lot, mai voltarsi indietro. Per lui, per tutti loro, l’andata è un tuffo nel vuoto, ma il ritorno è impossibile. Se tornano sanno che le gang, i trafficanti, gli “scafisti” del Tren de la Muerte li uccideranno comunque.
Il viaggio che Daniel ha raccontato all Cnn cominciò quando aveva 16 anni e i narcos entrarono a casa sua a San Salvador per spiegare a lui, e alla madre, che ormai era grande abbastanza per entrare nell’organizzazione e non aveva scelte. Tranne una: tuffarsi nei 3000 chilometri di viaggio attraverso Guatemala City, Puebla, San Luis Potosi, Durango, Chihuahua e il Rio Grande, da attraversare naturalmente a piedi. Evitando d’inciampare nei cadaveri, grandi e piccoli, disseminati nei sentieri e lasciati ai coyote, quelli per bene, a quattro zampe. I parenti, che non erano poveri, ma soltanto disperati, raschiarono 7mila dollari dai materassi, fecero debiti, vendettero tutto quello che era vendibile e Daniel si arrampicò sul tetto del primo merci di passaggio verso il nord, sotto gli occhi dei “coyotes” che sparavano, o buttavano giù, quelli che tentavano di salirci sopra senza avere pagato. Naturalmente sotto gli occhi vitrei e indifferenti della Policía ben pagata per non vedere.
L’illusione, la speranza, il “tutto o niente” di questi viaggiatori della notte che sono l’esatto equivalente degli africani e degli asiatici che s’imbarcano sui relitti galleggianti verso Lampedusa, è di trovare, lassù oltre il fiume, quella nazione che ha scolpito ai piedi della Statua della Libertà, le parole della poetessa Emma Lazarus: «Datemi i vostri poveri, i vostri affranti, le vostre folle ammassate... e accenderò la mia lanterna accanto alla porta d’oro». Le loro storie sono tutte uguali. Violenze, botte e reclutamenti forzosi per i maschi nelle gang che hanno bisogno di continui rinforzi e rimpiazzi, per i vuoti lasciati caduti nella loro guerra quotidiana. Violenze, botte e stupri per le femmine, a cominciare da età che preferiscono non quantificare in un numero.
Ma dietro la golden door, la porta d’ora, Daniel, e le altre migliaia di bambini a volte talmente piccoli da dover portare cucita sulla maglia una pezza con il telefono e l’indirizzo di un parente negli Usa ricamato sopra, non trovano la poetessa con la sua lanterna, ma le guardie del Border Patrol. Ogni giorno arrestano decine di bambini e di ragazze, per rinchiuderli in centri di accoglienza dove, ha raccontato Enrique, un quattordicenne, al New York Times , «non ci sono finestre e siamo così tanti da dover dormire a turno sul cemento, perché non c’è posto per sdraiarci tutti».
Se non siete mai stati alla Frontera del Texas e dell’Arizona in estate, non riuscirete a immaginare quali forni possano diventare, casematte senza areazione né finestre, di giorno e quali frigoriferi quando cala il sole sul deserto.
Quella dei migranti bambini - ne arrivano con ancora i resti del pannolino fissato dalla madre e disintegrato nei sei giorni di viaggio - è l’ultima incarnazione della inarrestabile corsa verso il Grande Norte . La speranza è che le autorità della California, dell’Arizona, del Texas dove l’onda di marea arriva, siano mosse a pietà da quei bambini e ragazzi, più di quanto non lo sarebbero con genitori e adulti, ma la pietà si sbriciola nel solvente dell’opportunità politica, come il pannolino sbrindellato di una bambina di quattro anni che se la fece addosso per il terrore della guardia che la interrogava nella base aerea di Lackland in Texas, oggi convertita in centro di raccolta.
La metà di loro sono immediatamente rispediti oltre frontiera, al loro destino e senza neppure l’assistenza, per modo di dire, dei coyotes che alle fermate del treno si arrampicavano con loro per dar loro abbastanza acqua e cibo per farli sopravvivere. Gli altri, come Daniel Zavala, che hanno un aggancio, un nome, un parente legale negli Usa, entrano nel labirinto delle procedure d’immigrazione per asilo politico, dove le probabilità di smarrirsi sono altissime, quasi quanto quelle di incontrare un serpente a sonagli nel tragitto a piedi verso il Rio Grande. Per uscirne con il rettangolino plastificato della “residenza”, un tempo chiamata la “carta verde” che verde non è più, serve il filo di un avvocato che sappia, conosca, riconosca le trappole e le vie giuste. I figli del Tren de la Muerte con assistenza legale hanno nove volte più probabilità di arrivare al permesso di soggiorno rispetto a chi si arrangia da solo, al massimo con un interprete. Ma un avvocato costa almeno 3.500 dollari, tre o quattro volte il guadagno mensile delle famiglie che li accolgono.
Daniel, che ora ha 17 anni, è stato fortunato. Non è rotolato giù, nel sonno, dal tetto dei carri. Non è morto di sete e d’insolazione nelle ore di lento viaggio sotto il sole del Messico sdraiato come un pollo sopra la piastra di lamiera rovente. Non è rimasto impigliato nei campi di concentramento alla frontiera. Dopo pochi giorni, è stato passato al- l’assistenza sociale, molto più umana, poi a un’organizzazione chiama Kind, acronimo di volontariato legale e umano che riesce a raccogliere 3mila avvocati disposti a lavorare pro bono , gratis, come tutti gli studi legali dovrebbero di tanto in tanto fare. Chi lo ha accolto gli ha indicato la strada maestra per uscire dal labirinto: la divisa della Us Army Rotc, l’uniforme dei corsi premilitari al liceo che indossava, tutto tirato e splendente di mostrine e insegne, davanti alla Commissione d’inchiesta parlamentare, per raccontare il suo viaggio.
Per sfuggire alle armi che nel El Salvador lo avrebbero ucciso, Daniel dovrà quindi affidarsi alle armi, sotto la bandiera degli Stati Uniti. Sempre armi, dunque, ma almeno questa volta sarà lui a imbracciarle.

Repubblica 20.6.14
Quei piccoli detenuti con solo un’ora d’aria
di Fernanda Santos


NOGALES (ARIZONA). IN UN capannone di 11.150 metri quadrati all’estrema periferia di questa città nel deserto, gli agenti della polizia di confine allineano centinaia di bambini che probabilmente non hanno mai visto in vita loro un medico che li abbia vaccinati o abbia prestato loro le prime cure. Distribuiscono qualcosa da mangiare e giocano insieme a loro per un po’ a basket sotto un tendone, come quello dei circhi, che funge anche da spazio ricreativo.
In un centro di elaborazione del tutto improvvisato, i minori fermati mentre attraversavano senza genitori il confine nella Rio Grande Valley in Texas sono ospitati per almeno tre giorni in nove recinti. I maschietti sono separati dalle femminucce, così come i piccoli dai grandi. Le giovani ragazze madri e i loro neonati stanno in un recinto apposito, per conto proprio. Lo spazio per camminare non c’è. Sul pavimento di cemento sono allineati i materassi e sono fissate lunghe panche. I bambini arrivano qui dal Texas in continuazione, perché un centro simile in quello Stato non riesce ad accoglierne di più.
Gli agenti della polizia di confine mercoledì hanno detto che qui sono custoditi circa 900 bambini provenienti da Guatemala, El Salvador e Honduras. Gli ultimi arrivati indossano ancora i vestiti con i quali si sono avventurati in direzione degli Stati Uniti, mentre gli altri indossano magliette bianche e pantaloncini blu, come in riformatorio. Su un materasso una ragazzina piange col viso affondato in un sudicio agnellino di peluche. Poco distante, una bimba di 3-4 anni sorride tenendo per mano un agente della polizia di confine che la accompagna a fare due passi. Quasi fossero detenuti, i bambini non possono uscire all’aria aperta se non per sgranchirsi un po’, tra 45 minuti e un’ora al giorno.
L’agente della polizia di confine responsabile per la zona di Tucson, Manuel Padilla Jr., ha detto che scopo dell’agenzia è tenere i bambini al sicuro, controllando che stiano in salute, che mangino, e restino puliti. E aggiunge che è stato fatto molto «per garantire queste priorità». Quando gli agenti hanno notato che a colazione i bambini rifiutavano i burrito preparati con la farina normale, la mensa ha adottato quella di granoturco, come si usa in America centrale.
Mercoledì la polizia di confine ha offerto ai giornalisti la possibilità di osservare dal vivo questo centro, simile a quello di Brownsville in Texas, entrambi nell’occhio del ciclone nel dibattito in corso nella nazione sull’improvvisa ondata di minori non accompagnati che attraversano illegalmente il confine per entrare negli Stati Uniti. Da questi centri i bambini saranno spediti in strutture detentive per minori sparse in tutto il paese, da dove si cercherà poi di affidarli a parenti che vivono negli Stati Uniti, a condizione che collaborino con le procedure di rimpatrio. Di fatto, però, il numero in rapido aumento di questi minori comporta gravi difficoltà per l’Amministrazione Obama dal punto di vista politico e umanitario, e nel dibattito in corso nella nazione inizia a farsi strada la necessità di una riforma delle politiche sull’immigrazione.
A Nogales le sfide logistiche legate all’accudimento dei bambini sono palesi. In ogni recinto ci sono tre gabinetti mobili, mentre le 60 docce sono all’interno di cinque grossi articolati. Negli spazi recintati non sembra esserci altro intrattenimento fuorché alcune televisioni che sembrano prive di sonoro, o qualche partita di calcio improvvisata in angoli affollati. Art Del Cueto, presidente della zona di Tucson del sindacato degli agenti della polizia di confine, ha detto che gli agenti sono sotto pressione: «Arrestare gli stranieri clandestini rientra nelle nostre mansioni» ha detto in un’intervista. «Occuparci di schedarli e smistarli rientra nelle nostre mansioni. Ma fare da babysitter no, ed è proprio quello che in molti stiamo facendo ».
I minori non accompagnati catturati alla frontiera con il Messico da ottobre 2013 sono circa 50mila. Gli agenti hanno mandato molti di loro nella stazione della polizia di confine di Brownsville. Mercoledì 400 bambini fermati nei giorni scorsi si sono ritrovati in celle fredde e affollate, che hanno soltanto panche di cemento lungo le pareti e nessuna brandina. Il centro ospita anche alcune clandestine adulte con i loro bambini e la popolazione è ben al di sopra della capienza massima di 250 detenuti. A Nogales, l’area di ingresso è piena zeppa di giovani ragazze adolescenti, che hanno appena consegnato tutti i loro averi in cambio di una ricevuta intestata a loro nome. Più tardi, i loro vestiti saranno lavati, asciugati, riposti in sacchi di plastica e sistemati con cura sulle mensole di metallo di una stanza che funge da magazzino, accanto a sacche di mimetica e zainetti riproducenti le principesse della Disney.
Le strutture come questa sono state studiate per accogliere detenuti soltanto per brevi periodi: nel caso di Nogales, il centro non è concepito per ospitare minorenni. Le autorità di confine hanno l’obbligo di trasferire i bambini non accompagnati da adulti entro tre giorni dall’arrivo ai Servizi sanitari e umanitari, che gestiscono centri di accoglienza a lungo termine nei quali i minori sono sottoposti a controlli medici e vivono in ambienti simili a campi, mentre le autorità cercano di rintracciare eventuali parenti che vivono negli Stati Uniti. Quando è stato chiesto agli agenti di Brownsville se riescono a rispettare la scadenza dei tre giorni, un funzionario della Sicurezza interna ha detto: «Ci piacerebbe agire molto più velocemente». (New York Times News Service Traduzione di Anna Bissanti)

il Fatto 20.6.14
Troika e vite in baratto Atene torna al Medioevo
Secondo i sindacati ellenici parte delle paghe dei lavoratori avvengono in natura e sewrvizi
di Roberta Zunini

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Repubblica 20.6.14
L’ultimo guardiano di Auschwitz arrestato a 89 anni negli Stati Uniti


NEW YORK. Ha vissuto quasi indisturbato negli Usa per oltre 62 anni. Ora è stato arrestato a Filadelfia dall’Fbi ed è forse l’ultimo criminale nazista rifugiatosi in terra statunitense dopo la seconda guerra mondiale. Si tratta di un uomo di 89 anni, accusato di essere stato una guardia delle SS nei campi di sterminio di Auschwitz e di Buchenwald. Si chiama Johann Breyer, è nato nella ex Cecoslovacchia e - scrive il New York Times - è la persona più anziana che le autorità statunitensi abbiano mai perseguito per i suoi legami col Terzo Reich L’uomo arrestato si sarebbe unito alle Waffen SS a 17 anni e sarebbe stato assegnato ai reparti di guardia nei campi di sterminio più famigerati. È accusato di aver partecipato nel 1944 alla strage di centinaia di migliaia di ebrei ungheresi, cecoslovacchi e tedeschi. Breyer riuscì a immigrare negli Usa nel 1952. La Germania, dove su di lui pendono ben 158 capi di accusa, ha già chiesto l’estradizione. I suoi legali affermano che l’uomo soffre di demenza senile, ma vista la gravità delle accuse la libertà su cauzione gli è stata negata. All’arresto si è arrivati dopo anni di battaglie legali. Il Dipartimento di Stato lo accusò per la prima volta di avere legami col regime nazista nei primi anni ‘90.

La Stampa 20.6.14
Germania, in trenta rischiano il processo


Era stato il ministro della Giustizia del Baden Württemberg nel settembre dello scorso anno a rilanciare con forza la necessità di processare 30 ex guardie del campo di sterminio nazista di Auschwitz fra cui appunto Breyer (sopra la sua casa a Filadelfia). Una decisione che era arrivata dopo lunghe indagini su 49 persone, quasi tutte novantenni, che avevano prestato servizio nel lager. Nove sono morte, per altre dieci si è deciso di non procedere. «Sono tutte ex guardie del campo e questo le rende colpevoli di complicità nell’eccidio, aveva spiegato il procuratore capo Kurt Schrimm.

Corriere 20.6.14
«Portate i testi di Gramsci all’Istituto per il Restauro»
di Luciano Canfora


Ieri a Roma nell’Auditorium dell’Istituto Centrale per i Beni Sonori ed Audiovisivi, a margine della proiezione del documentario di Paolo Brogi e David Riondino intitolato Le pietre di Gramsci , è stato lanciato un caldo appello affinché il prezioso fondo costituito dai Quaderni di Gramsci e dalle sue lettere (si intende gli autografi) venga collocato presso l’Istituto Centrale per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario sito in Roma in via Milano. Si tratta di uno dei nostri più prestigiosi centri di eccellenza, che ha già lavorato sui Quaderni rivelando la vera successione originaria delle etichette apposte su di essi da Tania Schucht (vedi «Corriere della Sera», 24 maggio 2013).
Nell’Istituto Centrale per il Restauro i Quaderni e le lettere, anziché languire dentro una cassetta di sicurezza di una banca, esposti a disagi inevitabili per quanto recondito sia il luogo, sarebbero conservati con tutti i crismi, ivi compresa la cura dell’adeguamento agli inevitabili sbalzi climatici. Inoltre sarebbe l’occasione di procedere al restauro veramente scientifico che ponga riparo al deterioramento cui è esposto quel materiale, la cui commovente e modesta fisicità contrasta con l’altezza e profondità del contenuto. I quaderni e i fogli per scrivere consegnati al detenuto Gramsci non venivano ricercati tra i pezzi di lusso del mercato, erano dei quaderni qualunque, che hanno sofferto innumerevoli traversie, e la cui salvezza è stata uno dei fatti positivi della cultura italiana del Novecento.
Da molti mesi sono stati avviati contatti con la Fondazione Gramsci che si era dichiarata disponibile a tale trasferimento, dopo che un’attenta visita in loco ha dimostrato la inidoneità dell’attuale sistemazione.
Nel corso dell’incontro di ieri pomeriggio a Roma, la dottoressa Misiti, direttrice dell’Istituto di via Milano, ha ribadito la disponibilità del medesimo ad accogliere — possibilmente prima del catastrofico sopraggiungere dell’umidità estiva — il materiale gramsciano in Istituto. È parso sconcertante che si continui a bloccare questa pratica in nome di interminabili calcoli su quanto pagare di assicurazione per percorrere mezz’ora di strada tra piazza Montecitorio e via Milano! Tutti coloro che hanno a cuore la durevole conservazione del lascito gramsciano sentono l’importanza e l’urgenza di questo passaggio.

Corriere 20.6.14
Gli ebrei tra ragione e rivelazione
La via di Maimonide: sposare Aristotele con la Torah
Esce il primo volume della storia del pensiero israelitico scritto dal rabbino Giuseppe Laras
di Armando Torno


Giuseppe Laras, rabbino capo emerito di Milano, è tra gli studiosi più autorevoli del pensiero ebraico medievale. È presidente del Tribunale rabbinico del Centro-Nord Italia, nonché uno dei massimi specialisti di Mosè Maimonide (Mosheh ben Maimòn). Di questo filosofo ha, tra l’altro, curato dei testi: Gli otto capitoli. La dottrina etica (Giuntina 2001) e Immortalità e resurrezione (Morcelliana 2006). Sta ora uscendo il primo volume — il secondo a fine estate — di un’opera di sintesi che rispecchia i suoi studi, i mille percorsi: «Ricordati dei giorni del mondo». Storia del pensiero ebraico dalle origini all’età moderna (Edb, pp. 272, e 16.50). Nel successivo volume verrà esaminato il periodo dall’Illuminismo al mondo contemporaneo. Non si tratta semplicemente di una storia della filosofia ebraica, ma di una sintesi dell’inesausto pensare che testi biblici, talmudici, intuizioni mistiche della Qabbalah e produzioni vastissime della normativa rabbinica, la Halakhah, hanno accumulato accanto alle congetture filosofiche.
Rav Laras prende il lettore per mano guidandolo dallo shock che il pensiero talmudico sperimentò entrando in contatto con la razionalità greca fino alla grande sintesi scolastica medievale. È un’epoca in cui emergono due figure colossali: Sa’adyah ben Yoséph ha-Gaòn (882-942), primo traduttore della Bibbia in arabo, secondo il quale «per ben credere bisogna ben ragionare»; e Mosè Maimonide (1135-1204), giurista, medico, rabbino, pensatore innamorato di Aristotele, ma che — sottolinea Laras — «sul tema della creazione erige un netto steccato fra la speculazione aristotelica e il dato della Rivelazione». Ecco inoltre l’autore offrire preziose indicazioni sull’epoca successiva all’espulsione degli ebrei dalla Spagna da parte di Isabella e Ferdinando (1492). Da quel momento il loro pensiero anziché interrogarsi su Dio si pose la questione riguardante il popolo d’Israele e il suo destino. Nacque una «identità marranica» che si manifestò attraverso «un’intima e straziante contraddizione all’interno dell’animo e della psiche degli ebrei». È un aspetto della modernità. Laras sintetizza quel che letteratura e filosofia registreranno nei secoli successivi attraverso le opere di eminenti protagonisti: «Essere e non-essere, essere “fuori” ed essere “dentro”, volere e rifiutare, a cavallo tra ebraismo e cristianesimo, tra appartenenza al popolo di Israele e formale adesione al cattolicesimo, tra fedeltà sincera e tenace all’ebraismo e paura del peccato di apostasia: queste le caratteristiche di un vero e proprio sdoppiamento della personalità, che talvolta raggiunse una sorta di para-schizofrenia». Si pensi a Spinoza e al suo maestro, il qabbalista Menasheh ben Israel, che ebbe tra l’altro un ruolo rilevante nelle trattative con il governo di Oliver Cromwell per la riammissione nei territori inglesi degli ebrei, espulsi nel 1290.
In entrambi i volumi (il secondo abbiamo avuto il permesso di vederlo in bozze) si nota il grande contributo dell’ebraismo italiano in seno alla più generale storia del pensiero ebraico e della normativa rabbinica. Lo provano figure quali Elia Delmedigo, maestro di Qabbalah di Pico della Mirandola e prezioso traduttore di Averroè, o Abravanel padre (uomo di Stato e commentatore dei testi biblici) o suo figlio, l’umanista noto come Leone Ebreo, autore dei Dialoghi d’amore (Roma 1535) in cui si fondono in una luce neoplatonica teorie ermetiche, orfismo, mistica ebraica e araba. Per aggiungere un altro protagonista: Leon da Modena, morto a Venezia nel 1648. Anche se fu tormentato dal vizio del gioco d’azzardo, lasciò scritti dottrinali e apologetici di notevole valore, tra i quali Arì Nohèm (Il leone ruggente ), in cui confutava la Qabbalah e si suoi sostenitori.
Il secondo volume si occupa della contrastata penetrazione del pensiero illuminista in seno alla tradizione dei figli d’Israele, dello scontro tra l’ortodossia rabbinica e la riforma ebraica (oggi coincidente con la maggioranza dell’ebraismo nord americano) e della nascita del sionismo. Laras sottolinea che il Novecento presenta una «difficile mappatura», giacché resta il secolo dei Protocolli dei savi anziani di Sion , della Shoah, della nascita dello Stato d’Israele (1948) e della «disfatta della filosofia» (così definisce l’adesione di Heidegger al nazismo).
La prefazione del libro è del cardinale Carlo Maria Martini. Fu scritta a suo tempo per la collana che ospita l’opera, «Cristiani ed ebrei», ma qui assume un particolare significato per l’amicizia che ci fu tra Laras e il porporato. I due, oltre ad avviare il dialogo ebraico-cristiano, si incontrarono poche settimane prima della scomparsa del cardinale. E reciprocamente si benedirono.

Corriere 20.6.14
Pittori e scrittori: quell’ossessione per il corpo femminile
Céline con Lucette e Toulouse-Lautrec al Moulin Rouge: un filo tra mente e fisico
Il egame ricorrente tra intellettuali e ballerine tra contemplazione e seduzione
di Roberta Scorranse


Era «piccolo piccolo, nero nero» scriveva impietosamente il critico Thadée Natanson parlando di Henri de Toulouse-Lautrec (1864-1901). Piccolo e scuro il pittore di Albi lo era davvero e così, in mezzo a quel frenetico scalpitare di gambe al Moulin Rouge, spiccava come una noce bruna in mezzo ai giunchi. Lo sgraziato Toulouse trovava in quel paesaggio di donne perfette un compimento spirituale, come se la bellezza (lontanissima) del corpo delle ballerine realizzasse la perfezione della sua arte, il contrappasso di un fisico ingeneroso, sordo.
Guardava avidamente le danzatrici parigine ma senza malizia alcuna, piuttosto con l’occhio da entomologo. Corpi d’alta fattura, come quelli delle donne ondeggianti al Crazy Horse: plastici, flessuosi, dall’andamento musicale. Chissà, forse è stata questa sinfonia segreta, nei secoli, a stabilire quel legame invisibile e ricorrente tra l’intellettuale e la ballerina, lo scrittore e la spogliarellista, mente e corpo. Così, se il Crazy Horse ha sedotto artisti e creativi (David Lynch, per esempio, ha composto le musiche originali dello spettacolo «Feu») e Toulouse si pietrificava al Moulin Rouge, Edgar Degas ha trascorso buona parte della sua silenziosa vita registrando ogni minuzia rituale del corpo femminile: l’asciugatura della nuca, il piedino che esce dalla tinozza di acqua saponata, la mossetta della ballerina che aspetta il suo turno, paziente.
Non tutti (anzi, pochi) hanno coltivato quella smania di possesso che induceva Klimt a violare i corpi delle sue modelle: la storia ci restituisce una galassia di intellettuali che nei confronti delle donne di spettacolo si sono cimentati nel difficile esercizio della contemplazione e, in altri casi, dell’identificazione. Jep Gambardella, il cinico giornalista de «La grande bellezza» di Paolo Sorrentino ritrova nella spogliarellista agée (Sabrina Ferilli) una verginità paradossale, dolorosa, perduta. Trascorrono la prima notte insieme semplicemente respirandosi vicini, in quella singolare purezza che nasce dalla corruzione più estrema. Quella che forse cercava Georges Simenon nelle sue ormai leggendarie orde femminili presenti nella vita reale (lui stesso confessò a Fellini di aver «avuto diecimila donne», di cui «ottomila prostitute»), ma anche in certi suoi indimenticabili personaggi — per esempio il candore marcio di Betty, sola e in indecente attesa al bancone del bar. Per non parlare della sua passione per la dea mulatta del canto, Joséphine Baker.
Come combaciavano bene le asimmetrie tra Louis-Ferdinand Céline e la sua ballerina Lucette (di ventidue anni più giovane), la donna che gli è rimasta accanto custodendo le sue lucide manie. Lucette diceva: «Lui aveva bisogno della mia gioventù e della mia allegria, e io della sua testa di uomo che aveva vissuto». Chissà, forse è tutto qui.
Forse è in questo candore da ragazza dell’Opéra che si conserva il segreto di un’ossessione (maschile) ricorrente: è come se lui, l’intellettuale, idealizzasse quel corpo giovane e sodo in un’aura da madonna laica, frutto di un’antica liturgia che nasce dalla contemplazione, dallo sguardo, in un perfetto meccanismo appartenente da millenni al sacro.
Una forma di lolitismo allungato, puntellato, in certi casi, dalla rassicurante lontananza, dall’inaccessibilità: è così bella, desiderabile e distante che un’eventualità coniugale è da scartare (per fortuna). Hans Christian Andersen (1805-1875) corteggiava donne sposate, a volte uomini e comunque persone che non avrebbero potuto intavolare una relazione scorrevole. Ci sono state anche spogliarelliste diventate poi autrici: è il caso di Diablo Cody, premio Oscar per la sceneggiatura del film «Juno», del 2007.
Distanza, insomma, osservazione riverente. La cifra che pervade dal 1951 la storia del locale in Avenue George V: nessuna donna qui si può avere, ma è lei che «possiede», che detta le regole. Con la forza di un corpo così irreale che Toulouse-Lautrec impiegò una vita per renderlo come desiderava, cioè umano. Molto umano.

l’Unità 20.6.14
Maniera che passione
Pontormo e Rosso Fiorentino: percorsi paralleli su un unico linguaggio


HANNO RAGIONE CARLO FALCIANI E ANTONIO NATALI AD ESORTARCI A NON PERDERE LA MOSTRA DEL PONTORMO E DI ROSSO FIORENTINO, da loro curata nelle sale del fiorentino Palazzo Strozzi, avvisandoci che forse non si riuscirà mai più a raccogliere tanti capolavori di quei due artisti, data la loro appartenenza ai musei del polo fiorentino, o ad altre sedi molto vicine. Peccato che un simile indubbio merito sia menomato dalla loro ostilità ad accettare un’etichetta pure ampiamente acquisita dalla migliore storiografia internazionale, quella di Manierismo, verso cui invece la critica fiorentina oppone una prevenuta diffidenza, forse retaggio di un mai cessato crocianesimo, per cui ogni artista si deve presentare in proprio, guai a raccoglierlo sotto sigle di gruppo. O forse è il timore di concedere troppo a idoli dell’arte contemporanea, che fu pronta fin dai suoi inizi ad accogliere a braccia aperte questa schiera di reprobi e di irregolari. Eppure, se di Manierismo si deve parlare, come pare legittimo, esso nasce proprio a Firenze, e con questi due alfieri, cui si deve subito accostare il senese Domenico Beccafumi, mentre solo qualche anno dopo arriveranno gli allievi di Raffaello, capeggiati da Giulio Romano, a incentivare quei riti nell’Urbe. O forse Firenze vuole ancora rivendicare il merito storico di essere stata la capitale della maniera moderna, per dirla col Vasari, suo ardente sostenitore, ospitando l’incontro di Leonardo e di Michelangelo in Palazzo Vecchio, a svolgervi quella che venne detta giustamente la Scuola del Mondo. E il giovane Raffaello, di passaggio da quelle parti, ne trasse ogni beneficio per andare poi a impiantarlo a Roma.
Ma a Firenze erano rimasti altri sicuri cultori della maniera moderna, quali Fra’ Bartolomeo e Andrea del Sarto. Quest’ultimo fa da balia ai due cuccioli Rosso e Pontormo, i quali però, oltre a succhiarne il latte, cominciano già ad azzannarne le mammelle. A dire il vero, il Sarto già annuncia qualche lieve trasgressione rispetto al sacro canone della modernità, per esempio gli occhi delle sue figure sono rialzati con tocchi di nerofumo, e le bocche si atteggiamo a mosse graziose, ma quello che in loro è solo un rictus, diviene un ictus, per esempio, nel Pontormo, ovvero le labbra si allargano in smorfie abnormi, i globi degli occhi escono dalle orbite.
ANORESSIE
E se le anatomie nel Sarto restano dentro le giuste proporzioni, rivestite di morbide carni, i due allievi ribelli allungano i corpi, li smagriscono, come se fossero presi da una disastrosa anoressia, in particolare il Rosso dipinge costati scheletrici, figure smunte, tanto che viene subito allontanato dalla città del Giglio, iniziando una esistenza peregrina che lo porta a Volterra, dove realizzerà il suo capolavoro, la Deposizione, e poi a Roma, in tempo per esservi travolto dal Sacco del 1528, dovendo poi riparare alla corte di Francesco I, portando le sue estenuate magrezze a fare scuola nel Castello di Fontainebleau. Il Pontormo ebbe invece la ventura di piacere ai Medici, che se lo tennero caro, evidentemente gli piaceva quel gusto eccessivo, spericolato, con ritratti che spingono in alto le teste, quasi mettendole in orbita.
Naturalmente, è legittimo il sottotitolo dato alla mostra, «Divergenti vie alla maniera», dove tuttavia il sostantivo, la maniera, deve prevalere sugli indici di diversificazione, come ci insegnerebbe il Saussure: prima viene una lingua comune a tanti parlanti, poi il diritto che ciascuno le imprima una sua personale inflessione attraverso atti di «parole». Ora, la lingua manierista comune sta proprio in una ricerca dell’eccesso, dell’irregolare, dell’artificiale, contro il troppo naturale della maniera moderna. Ma poi, certo, ognuno dei due ha la sua strategia particolare. Il Pontormo intende affidarsi alle cere, quasi in anticipo sui materiali sintetici dei nostri giorni, per cui le sue figure sembrano fantocci simil-organici, separati da noi da un filo di mostruosità. Invece il Rosso preferisce scarnire, rifare i corpi come inchiodando assi asciutte e stagionate, accumulando listelli, distendendo le pelli rinsecchite di giganteschi otri sgonfi. Ma al di là delle parlate personali, i due si tendono la mano, costituiscono un episodio grandioso, una spina nel fianco rispetto a tutti i trionfi del naturalismo che si prolungheranno fino all’Impressionismo, per essere poi contrastati dall’arrivo in forze dei protagonisti del contemporaneo.

La Stampa 20.6.14
Cile, nella cassa del tesoro ventuno inediti di Neruda
Scovati dall’impiegato di una biblioteca a Santiago appartengono al periodo d’oro dello scrittore
di Filippo Fiorini


Sbaglia chi crede che le vite degli archivisti siano solitarie e noiose: ci sono momenti improvvisi, in sotterranei male illuminati, che possono davvero far battere il cuore di un ricercatore e proiettare quel posto dimenticato in cui spende le proprie ore al centro dell’attenzione mondiale. È pronto a giurarlo Dario Oses, lo scrittore sconosciuto che si mantiene con uno stipendio da impiegato in una biblioteca di Santiago del Cile e che nelle ultime settimane ha scoperto 20 e più scritti inediti di Pablo Neruda, colui che molti considerano una delle voci liriche più autorevoli di tutto il Novecento occidentale.
«È certamente il maggior ritrovamento nella letteratura ispanica degli ultimi due decenni e il più importante nella storia del poeta», spiega la manager della casa editrice spagnola Seix Barral, Elena Ramirez, che pubblicherà gli scritti in lingua originale. «Il motivo - aggiunge - e che per già due volte in passato sono emersi inediti del premio Nobel per la letteratura dell’anno 1971, ma nessuno apparteneva alla fase matura, in cui invece si inseriscono questi, che sono tutti posteriori al ’56, quando si entra nella sua stagione di maggior splendore».
In tutto, si tratta di 21 testi per un totale di più di mille versi. Alcuni sono stati scritti su quella carta grezza e gialla che in Cile chiamano «papel roneo». È la più economica sul mercato e Neruda l’adorava, forse proprio perché l’inchiostro si spande tra le fibre e la calligrafia diventa confusa. Altri, invece, sono stati composti sui famosi quaderni, ovvero i normali bloc-notes che l’autore poi assegnava ai vari libri. Due soli sono i testi battuti a macchina, una caratteristica che per Neruda richiama alla prassi compositiva del Canto General del 1950.
Questi in particolare hanno dato molto filo da torcere per comprovare che fossero autentici, così come ancora attendono un responso definitivo altre decine di bozze, piccole prose e frammenti di conferenze che promettono future scoperte. Per ora, comunque, è stato annunciato il ritrovamento e la pubblicazione a fine anno di sette poesie in cui regna il tema amoroso, insieme con altre 14 che variano sulle più diverse questioni della vita, e che compaiono esattamente 90 anni dopo la messa in stampa di un volume della stessa portata: le Venti poesie d’amore e un canto disperato del 1924. «Neruda amava i temi terreni - osserva l’archivista Oses -. Tra quelli che ho trovato io, per esempio, ce n’è uno di otto pagine dedicato alla Cordigliera delle Ande. A los Andes è il titolo originale», mentre altre liriche sono senza titolo e per ora vengono catalogate in base al verso d’apertura.
Il lavoro di quest’uomo pacato si svolge nella penombra dei due caveau in cui la Fondazione Neruda conserva gli originali dell’autore: «La temperatura è stabile, l’umidità è controllata e le porte si aprono solo con un sistema a doppia chiave», spiega orgoglioso. Un giorno del 2011, Dario decise che fosse ora fare ordine nelle decine di casse che contengono i manoscritti. Sono 70 scatole a ph neutro che impediranno alla carta di seccarsi e sgretolarsi «di qui fino alla fine del mondo», e, quando arrivò alla numero 52, notò qualcosa di eccezionale: «L’ultima parola arriva dopo un processo lento e vari controlli incrociati - ricorda - ma sospettai da subito che fossero scritti inediti».
Il riserbo che ancora avvolge la scoperta, e che per ora ha portato alla pubblicazione solo di una parte di una poesia datata 1964 (vedi sotto), è dovuto al timore dei falsari, che cercano continuamente spunti per fabbricare cliché con cui riprodurre esemplari apocrifi. Tra qualche mese, comunque, e prima che scada quel 2014 che segna i 110 anni dalla nascita del poeta, il mistero sarà sciolto. Nel frattempo, resta soprattutto una domanda ancora pendente: perché, quando era in vita, Neruda non reclamò mai la pubblicazione di questi versi perduti? «La cosa più probabile - suppone Oses - è che sia stata una sua distrazione. Era un gran disordinato».

La Stampa 20.6.14
Anche Leopardi faceva back-up
Spunta un nuovo autografo dell’Infinito: il poeta lo realizzò come “copia di sicurezza”, con le varianti che si erano succedute nel tempo
di Andrea Cortellessa


L’infinito non è solo un modo-limite dello spazio (e del tempo). Infinita è anche la vita della poesia: prima del suo apparire, e dopo. Sino a quando noi umani la leggeremo, cioè. E così acquista quasi il valore di un apologo, che la poesia italiana della quale pensavamo di sapere tutto – L’infinito di Leopardi, appunto – all’improvviso riveli, di sé, nuovi e sorprendenti retroscena.
Pubblicato per la prima volta sulla rivista Il Nuovo Ricoglitore alla fine del 1825, insieme ad altri fra quelli denominati dall’autore Idilli, raccolti l’anno dopo dalla Stamperia delle Muse di Bologna (l’edizione definitiva sarà quella Starita del ’31), L’infinito da subito acquista per Leopardi un ruolo-chiave, di «manifesto» quasi, della sua poetica: simbolicamente sempre conservando la data di prima composizione, «1819», anche se diverse sono le varianti che, nel corso degli anni, il poeta vi apporta. Ai due manoscritti autografi sinora conosciuti, conservati l’uno alla Biblioteca Nazionale di Napoli insieme con la maggior parte del corpus e l’altro nella biblioteca marchigiana di Visso, si aggiunge ora un nuovo «testimone» (per dirla col lessico dei filologi): di cui dà notizia Laura Melosi sul nuovo numero della Rassegna della letteratura italiana, in stampa in questi giorni. E che va in asta, a Roma, il prossimo 26 giugno.
A differenza dei due precedenti, nei quali il componimento è inserito appunto nella serie degli Idilli (acquistando in quello di Visso la collocazione simbolicamente incipitaria che manterrà poi nelle stampe), questo è un manoscritto «sciolto»: di quelli di cui – spiega Melosi – dopo la morte del poeta spesso i suoi fratelli, Carlo e Paolina, facevano dono ai corrispondenti (l’autenticità della mano di Giacomo è certificata da Marcello Andria, il conservatore delle carte napoletane). Gli ultimi decenni dell’Ottocento, insieme al crescere postumo della statura di Leopardi, vedono nascere anche il culto, feticistico e quasi morboso, degli autografi dei poeti (cresciuto, nel secolo seguente, sino a farsi fiorente attività commerciale). Nel racconto Il carteggio Aspern, che è del 1888, Henry James mette in scena un critico letterario che assedia l’anziana amante del celebre poeta Jeffrey Aspern (modellato su Shelley), perché gli mostri le sue carte. Così inseguendo, nei confronti del caro estinto, quella che egli chiama una «conoscenza esoterica».
Non stupisce che in questo momento gli stessi poeti comincino a guardare alle proprie carte con sensibilità diversa. Mallarmé e Valéry sono i primi a «considerare la poesia nel suo fare», a «interpretarla come un lavoro perennemente mobile e non finibile». Con queste parole esordiva nel 1942 il Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare di Gianfranco Contini: strategico inizio di quella che venne definita spregiativamente (da Benedetto Croce) «critica degli scartafacci», ma che per noi è l’atto di nascita della filologia moderna. In quegli Anni Quaranta fra i primi ad applicare questa sensibilità alle carte di Leopardi fu Giuseppe De Robertis che, allo stesso tempo, lavorava al fianco di Giuseppe Ungaretti. Sicché di come s’è formata la poesia di Ungaretti – degno allievo, anche in questo, di Valéry – sappiamo oggi pressoché tutto.
Ma Leopardi non era Ungaretti. Come per tutti gli autori del suo tempo, precedenti cioè alla rivoluzione copernicana descritta da Contini, non molte sono le varianti riportate sui suoi autografi. Quelli che ci restano non sono poi veri e propri «abbozzi», ma copie in pulito che il poeta teneva per il proprio archivio o realizzava ad hoc per i suoi stampatori. Il nuovo autografo dell’Infinito, però, risponde a una logica diversa. E pone interrogativi affascinanti. Leopardi lo redasse forse alla vigilia del viaggio a Roma, nel 1822, per conservarne una copia di sicurezza (nel catalogo della casa d’aste Fabio Massimo Bertolo la definisce «copia di back-up»), in quella che da tempo si era fissata come versione definitiva ma in essa riportando, altresì, le varianti «genetiche» (come le definiscono i filologi), cioè le singole lezioni precedenti. Per esempio la parola «infinità», all’inizio del penultimo verso, è soprascritta a «immensitade» (che invece, a partire dal ’31, s’insedierà quale ultima volontà d’autore). Non essendo un vero abbozzo, ma non essendo neppure una copia d’archivio da tenere «aggiornata» (per gli Idilli Paola Italia ha certificato almeno tre distinte fasi correttorie), ci si chiede a quale finalità pratica rispondesse.
Se, come parrebbe, le varianti vennero scritte insieme al resto del testo (e non, come negli altri manoscritti, aggiunte in un secondo momento), sorge l’ipotesi – tutta da verificare, s’intende – che Leopardi abbia inteso ricostruire, magari ai fini del proprio lavoro a venire, una specie di «edizione critica» di sé stesso. Che di fronte al suo componimento-chiave, cioè, abbia sentito la necessità di documentare il tragitto che a quell’esito aveva condotto: così anticipando di quasi un secolo una sensibilità che, sinora, consideravamo tutta novecentesca. Nulla, nel suo pensiero per come lo conosciamo, sembrerebbe andare in questa direzione; ma non sarebbe questa l’unica volta che, nel corpo vivo della sua poesia, si assiste all’invenzione di un pensiero altrove non attestato. Il suo era un «pensiero poetante», non un pensiero poetato.

Corriere 20.6.14
«Bonatti, le Alpi, la tragedia Set su una sfida estrema»
Vicari: non solo azione, scavo nelle coscienze
di Stefania Ulivi


La verità su quanto successe in quei giorni la ristabilì Dino Buzzati proprio sulle pagine del Corriere della Sera . Walter Bonatti lo andò a trovare in via Solferino e gli raccontò dei giorni sul pilone centrale del Frêney, quella verticale di 750 metri a ridosso della cima del Monte Bianco che tentò di conquistare nel luglio 1961 insieme ad altri sei alpinisti, due italiani e quattro francesi. Avevano tra i 22 e i 30 anni, solo in tre tornano a casa: Bonatti, Pierre Mazeaud e Roberto Gallieni. Morì anche Andrea Oggioni, scalatore molto esperto. E amico del cuore di Bonatti che dovette fare i conti con il dolore e anche con molti veleni.
«Una storia senza tempo: sette giovani che provano a sfidare i propri limiti e vengono sconfitti», dice Daniele Vicari (regista di Diaz. Non pulire questo sangue premiato alla Berlinale 2012) che si è imbarcato nell’impresa di trasformare quella storia in un film: Bianco . «Sono alpinisti ma avrebbero potuto essere astronauti, esploratori, avventurieri. Anche il luogo è astratto, quasi magico: le vette così verticali cambiano il rapporto con la superficie terrestre. È la storia di un’impossibilità, un action movie che scava nell’interiorità dei personaggi e chiama in causa sentimenti umanissimi: amicizia fraterna, coraggio, paura della morte, dolore inconsolabile». Fu anche un incontro tra culture. «Italiani e francesi uniti e pronti a dividere i meriti in anni in cui nasceva l’Europa unita».
Un’opera ambiziosa per gli standard italiani, sia in termini economici — budget sui 6 milioni di euro, coproduzione della milanese Mir con la francese Aeternam, sviluppato con Rai Cinema, supporto della Valle d’Aosta Film Commission — che tecnologici. «Sarà tutto girato in montagna, in parte sui luoghi reali, in parte in altre location alpine. Una terza fase in studio: ci serve un’altezza di 15 metri, da noi non esiste. Forse utilizzeremo un palazzetto dello sport. Di sicuro faremo tutto in Italia». Alcune soluzioni arrivano da Gravity di Cuarón che ha aperto nuove strade. «Gravity è costato centinaia di milioni di dollari, noi facciamo la radice quadrata… La sua sfida era l’assenza di gravità, per noi la verticalità. Sarà un po’ fantascientifico, sì. Il digitale permette cose impensabili anni fa».
Ancora da definire il cast. «Tre attori italiani e quattro francesi, sto ancora facendo provini. Più che la somiglianza somatica cerco la credibilità». Di certo servirà anche una certa prestanza. «Eh sì», ride Vicari, «non sarà uno scherzo. Dovranno accettare una lunga preparazione atletica, imparare ad arrampicare. Saranno assistiti da stunt e guide, tutto sarà fatto in sicurezza, ma insomma è la storia di uomini bloccati per giorni sottozero oltre i tremila metri». Anche lui si sta preparando. Sabino di Collegiove, della roccia conosce fascino e insidie. «Arrampicavo da ragazzo. Ho presente i pericoli. La montagna, qualunque scalatore lo sa, non è né amica né nemica. Bonatti riuscì nelle sue imprese perché diventava un pezzo di quell’ambiente: neve, ghiaccio, roccia. Non sfidava mai la montagna, la faceva sua».
Dopo i terribili giorni del G8 di Genova raccontati in Diaz ci si poteva espettare da lui un altro tuffo nella realtà contemporanea. «Un film difficilissimo: 140 attori, migliaia di comparse, Genova ricostruita a Bucarest, grande sforzo fisico e psichico per rappresentare la distruzione psichica e fisica. Per me è stato come ricominciare a fare cinema, ma dopo sono stato male per un anno. Incontrare il dolore delle vittime non è stato facile».
Lo spunto per Bianco è il libro di Marco Albino Ferrari Freney 1961. Tragedia sul Monte Bianco . Vicari ha scritto la sceneggiatura insieme a Massimo Gaudioso. «Ci ha colpito il confronto estremo e continuo con la natura e la morte. Per chi va in parete fa parte delle possibilità». Sarà un film corale, non solo su Bonatti. «Lui era il più esperto, conosceva quei luoghi come le sue tasche. Viste le condizioni — l’improvvisa bufera che li colse a novanta metri dalla cima — fece le scelte giuste, come scrisse Buzzati. Anche i francesi glielo riconobbero, lo decorarono per merito sportivo».
Inizierà a girare in estate, ancora senza attori, poi con il cast. Bianco , confidano Vicari e il produttore Francesco Virga, sarà pronto nel 2015. La preparazione è lunga e accuratissima. «Stiamo cercando il metodo giusto per girare un film impossibile». Sta cercando la via migliore Vicari. Come un vero alpinista.