domenica 22 giugno 2014

Televideo 22.6.14
Civati: “Serve un’altra agenda politica

“Un’altra agenda politica è possibile”. Lo ha detto lesponente del Pd Civati, in videocongerenza durante un evento della rivista LEFT a Udine.
“Bisogna passare dalle promesse a qualcosa di diverso, che abbia un solido valore in sé e non serva solo ad ammaliare”, ha affermato ancora. “Dobbiamo concentrarci sulle cose che non abbiamo visto fare”, haaggiunto Civati, ricordando la “Leopolda di sinistra”, in programma dall’11 al 13 luglio a Livorno.
Le affermazioni di Civati e l’evento, si inseriscono nel contesto determinato dalla spaccatura di Sel.

l’Unità 22.6.14
Ai lettori
IL CDR


Ecco i giornalisti che hanno realizzato il giornale oggi in edicola. La redazione continuerà la sua battaglia in difesa del giornale e dei posti di lavoro fino all’incontro con i liquidatori della società editrice. In quell’occasione, chiederemo certezze sul futuro del quotidiano e sul pagamento di tutte le spettanze maturate. Senza queste certezze dovute, lo sciopero sarà inevitabile così come iniziative di carattere legale a tutela della testata e dei nostri posti di lavoro.

l’Unità 22.6.14
Senato, accordo blindato «Non si torna indietro»
La ministra Boschi ai Cinquestelle che attaccano Forza Italia: «È un partito che rappresenta milioni di cittadini»
Legge elettorale il nodo delle preferenze


Leali con il governo e la maggioranza del partito, di più, «collaborativi», ma senza per questo rinunciare a dire la propria, dalle riforme costituzionali, alla legge elettorale, alla forma partito. Roberto Speranza, capogruppo alla Camera, chiude così la due giorni di Area riformista riunita in un suggestivo resort sulle colline toscane. Un punto di partenza, spiega, «da riempire con contenuti», un’occasione per dire alla ministra Maria Elena Boschi, ospite dell’iniziativa, che sulla legge elettorale, per esempio, la battaglia non finisce qui perché su tre punti il discorso deve considerarsi ancora aperto: questione di genere, soglie di sbarramento e rapporto tra eletto e elettore, «tanto più che ci sarà un sistema monocamerale di rappresentanza». E Gugliemo Epifani che oggi definisce coerente «il disegno costituzionale» comprendente la riforma del Senato e il Titolo V, ritiene «storico» il passaggio che sta per compiersi ma ribadisce che in quel disegno l’unica nota stonata è proprio l’Italicum, se resta così come è.
L’appuntamento è anche l’occasione per affermare il giovane capogruppo Speranza come punto di riferimento di questa area del partito che raccoglie Pier Luigi Bersani, Stefano Fassina, Alfredo D’Attorre, Guglielmo Epifani, e Enzo Amendola, tanto per citare storie e nomi. In prima Alfredo Reichilin ascolta. Il suo concetto di partito della Nazione è più volte citato, lo ha fatto proprio lo stesso Renzi. Bersani scappa via presto per impegni personali. Nico Stumpo parlando di Area riformista spiega che «ha l’ambizione di rappresentare un punto di vista politico che sente come sua la responsabilità di quel40%di elettori a cui si devono dar risposte concrete».
Speranza ricorda il ruolo decisivo di Area riformista per l’ascesa a Palazzo Chigi di Matteo Renzi, lo fa raccontando quanto «difficile e doloroso» sia stato quel passaggio, «per quello che Enrico Letta rappresentava per noi. Ma in quel frangente noi abbiamo capito che rischiavamo di non farcela e abbiamo indicato Matteo Renzi presidente del Consiglio perché abbiamo deciso che una leadership più carismatica riusciva ad alzare un argine rispetto al populismo montante ». C’è chi ricostruisce le drammatiche ore che prepararono la direzione che segnò la fine del governo Letta. «Massimo D’Alema si disse contrario, Gianni Cuperlo propose l’astensione, Speranza disse che bisognava dare un segnale di cambiamento e che era giusto che andasse Renzi a Palazzo Chigi, Orfini condivideva, ma quando chiamarono Bersani l’ex segretario sostenne che era un errore - racconta un deputato -. Si mise ai voti la decisione e D’Alema e Bersani furono messi in minoranza». E oggi che il posto di capogruppo alla Camera fa gola ai renziani, qui c’è chi tenta di rimettere le caselle al posto giusto.
Ma a Massa Marittima è il tema delle riforme a tenere banco, compresa quella sul lavoro. Cesare Damiano torna a chiedere cosa sarà dell’articolo 18, «non si tocca», dice rivolto anche al ministro Poletti. Che presto replica: «La delega che è stata presentata è quella che vogliamo, non sarà il Governo a cambiarla. Poi, il Parlamento dirà la sua». E sulla legge elettorale è Boschi a dire che il governo è pronto a ridiscutere tutto, purché non salti l’accordo su cui si fonda il lavoro degli ultimi mesi di governo e Parlamento. «Quello delle preferenze - dice - è un punto aperto nel nostro partito. La cosa più importante, però, è quella di fare una legge elettorale, dopo averne avuta una dichiarata illegittima. Si può discutere di tutto, ma spesso i soggetti che appoggiano una scelta diretta dei cittadini, riconoscono anche ai partiti una capacità di selezione di chi va in parlamento, come dimostrato dall'esito delle primarie ». Quanto agli aut aut di Beppe Grillo che ha definito Fi un partito fondato da chi se la faceva con la mafia, risponde «il Pd è al governo. Lega e Forza Italia sono all’opposizione e fanno il loro lavoro. Sulle riforme e sulla legge elettorale si cerca di lavorare oltre la maggioranza. Stiamo facendo un processo di riforme con un partito che rappresenta milioni di cittadini e che siede in Parlamento». Per questo pur se si apprezzano le aperture del M5s c’è grande cautela perché il sospetto che Grillo stia soltanto cercando di rallentare i lavori per spaccare il fronte che si è creato è fortissimo. Un gioco a cui Renzi non intende prestarsi, malgrado la disponibilità che la ministra mostra. Boschi ribadisce che non si procederà a colpi di maggioranza, «saranno riforme largamente condivise», ma nessuno provi a rallentare il processo. E al suo partito: «Noi siamo il partito della Nazione, non della fazione», per questo invita all’unità. Annuncia che a giorni sarà presentata la nuova segreteria, unitaria, (tranne Civati) e Speranza spiega che Area riformista entrerà a farne parte perché sente tutto il peso di quella enorme responsabilità che il voto del 25 maggio ha messo sulle spalle del partito. I nomi fatti arrivare al visegretario Lorenzo Guerini, che segue da vicino la pratica, sono quattro: Enzo Amendola, Micaela Campana, Danilo Leva e Francesco Laforgia.

Il Sole 24Ore 22.6.14
Le incognite del nuovo Senato
di Roberto D’Alimonte


La riforma del Senato ha fatto un altro passo avanti grazie all'accordo tra Pd, Fi e Lega sulle modifiche da apportare al progetto originale del governo Renzi. Gli emendamenti concordati tra i due relatori, Finocchiaro e Calderoli, disegnano un Senato che è per molti aspetti simile a quello della proposta originale, ma allo stesso tempo integrano quel modello con innovazioni in certi casi molto significative. Del modello originale restano alcuni caratteri essenziali. I senatori non saranno eletti direttamente dai cittadini e non daranno la fiducia al governo. Questi sono i punti fermi. Ma molti sono i cambiamenti. Cominciamo dalla composizione della nuova camera.
Scompare la parità tra le regioni. Che la Valle d'Aosta avesse gli stessi senatori della Lombardia era un non senso che non si capisce come sia venuto fuori. Scompare anche la parità tra consiglieri regionali e sindaci. Ed è stata drasticamente ridotta la pattuglia dei senatori nominati dal presidente della repubblica. Ventuno erano oggettivamente troppi. I senatori saranno 100: 74 eletti dai consigli regionali tra i loro membri, 21 scelti dai consigli regionali tra i sindaci della regione, 5 nominati dal capo dello stato. L'insieme di queste disposizioni tende a fare delle regioni il fulcro del nuovo Senato. Non solo i tre quarti dei seggi totali saranno appannaggio dei consiglieri regionali, ma saranno gli stessi consigli regionali a scegliere i sindaci. Come vedremo, non è il solo modo in cui si vuole rafforzare il ruolo delle regioni all'interno della nuova camera.
La distribuzione dei 74 seggi spettanti alle regioni verrà fatta in base alla popolazione, ma la proporzionalità insita in questo criterio è fortemente ridotta dalla combinazione del numero relativamente limitato di seggi e dalla previsione che a tutte le regioni (tranne Molise, Valle d'Aosta e province autonome di Trento e Bolzano) sia assegnato un minimo di tre seggi. Dopo aver distribuito i 55 seggi vincolati ne restano solo 19 per assicurare una rappresentanza delle regioni in proporzione al loro peso demografico. Non sono molti. Per questo la Lombardia avrà solo sei seggi contro i tre della Basilicata. È poco ma è meglio della parità.
Non è ancora del tutto chiaro come verranno scelti i 74 senatori spettanti alle regioni. Si parla di elezione fatta in proporzione alla composizione politica dei consigli. Dunque, non potranno essere tutti componenti della maggioranza che governa la regione. Dovranno essere rappresentate anche le minoranze. Con quale sistema elettorale non si sa ancora. Basta questo per distinguere il nuovo Senato dal Bundesrat tedesco. In Germania i membri del Bundesrat rappresentano i Länder e sono direttamente nominati dai rispettivi governi. Tanto che i voti spettanti a ciascun Land sono espressi in modo unitario. Da questo punto di vista si tratta di un modello profondamente diverso da quello che si vuole introdurre da noi.
Dal punto di vista delle funzioni invece il modello italiano si avvicina a quello tedesco. E su questo piano vale la pena di esprimere qualche dubbio e una richiesta di chiarimento. Rispetto al modello originale previsto dal governo, le materie su cui le due camere eserciteranno collettivamente la funzione legislativa sono aumentate. In altre parole si è allargato il perimetro del bicameralismo paritario. Oltre alle leggi di revisione della Costituzione si sono aggiunte in particolare quelle relative ai referendum popolari e alla ratifica dei trattati relativi alla appartenenza dell'Italia all'Unione europea. Ma nel testo si fa riferimento anche agli «altri casi previsti dalla Costituzione». È un riferimento ambiguo che fino a quando non sarà chiarito lascia adito a dubbi.
Quello che invece è chiaro è che sono state ampliate le materie su cui la Camera potrà avere l'ultima parola solo esprimendosi a maggioranza assoluta. Sono soprattutto materie di interesse regionale. E a questo proposito occorre tener conto dei limiti dell'Italicum. Perché alla fine tutto si tiene. Così come è stato approvato dalla Camera dei deputati, il nuovo sistema elettorale garantisce a chi vince 321 seggi, vale a dire solo 5 seggi sopra la soglia di 316 che è la maggioranza assoluta dei suoi componenti. È un margine esiguo che potrebbe rendere difficile la vita di un governo che dovesse affrontare un'opposizione decisa in Senato.

Repubblica 22.6.14
Senato, scontro sull’immunità CinqueStelle all’attacco “Così è un favore ai corrotti”
Il civatiano Casson: assurdo creare nuovi privilegi mentre impazzano le inchieste sulle tangenti
di Liana Milella


ROMA. Immunità anche per i futuri senatori, alias sindaci, governatori e consiglieri regionali. Tanto per intenderci, significa che famosi presidenti di Regione coinvolti negli scandali per i reati di corruzione o per quello di finanziamento illecito come Formigoni, Scopelliti, Polverini, o sindaci come Orsoni e Alemanno, o consiglieri regionali come Penati e Fiorito, ovviamente se eletti senatori, godrebbero dell’immunità e vedrebbero la magistratura costretta a fermarsi di fronte a una richiesta di arresto, di perquisizione o di intercettazioni. Basta dire che ci sarà anche questo nella prossima riforma del Senato per scatenare la rivolta tra chi, come l’ala civatiana del Pd, ha un brivido alla schiena non appena si ipotizzano guarentigie che legano le mani della magistratura.
Quasi non ci crede l’ex giudice istruttore di Venezia, e oggi senatore del Pd Felice Casson, già protagonista dell’auto sospensione dal Pd per via della sostituzione del collega Mineo in commissione Affari costituzionali. Dice ora Casson: “Ma stiamo scherzando? Reintrodurre l’immunità è una decisione molto grave e preoccupante, soprattutto se la si mette in collegamento con il ripetuto rinvio delle nuove norme sulla corruzione”. Prosegue Casson: “Mentre si stanno scatenando indagini come quelle sul Mose a Venezia e sull’Expo a Milano è veramente assurdo poter pensare di creare nuovi privilegi per qualsiasi categoria di politici”. Il suo è un no deciso. Come quello dello stesso Pippo Civati: “Non è proprio un aiuto al contrasto ai numerosi episodi di corruzione cui purtroppo assistiamo (anche) a livello locale”.
A sentire quanto ha detto ai suoi il premier Matteo Renzi par di capire che l’immunità non è questione su cui certamente lui punti i piedi. Tutt’altro. Ieri, con più di un interlocutore della maggioranza, Renzi ha sottolineato che quella dell’immunità “non è una proposta del governo”. E ha aggiunto con molta nettezza: “Per me, può essere tolta anche alla Camera”. Giusto quello che ipotizza il leghista Calderoli, ma che potrebbe mettere in crisi il voto di Forza Italia e potrebbe contrariare Ncd, partiti da sempre favorevoli agli “scudi” protettivi per i parlamentari.
Casson, invece, la pensa proprio all’opposto: “Piuttosto che estenderla, l’immunità andrebbe eliminata per tutti, anche per i deputati. Per i parlamentari dovrebbe restare solo l’insindacabilità per le opinioni espresse connesse al mandato”. In pratica, deputati e senatori sarebbe “coperti” solo per le opinioni che esprimono e non certo per gli eventuali reati comuni che commettono. Per quelli, secondo Casson, “devono valere le regole che valgono per tutti gli altri cittadini”. L’ex toga passa in rassegna i casi che hanno fatto scandalo in questi anni: “Non è pensabile che vicende come quelle di Scopelliti, Formigoni, Orsoni, Fiorito, Penati, possano essere sottratte alla pienezza delle indagini, come accade per qualsiasi altro cittadino”. Non sembrano pensarla così noti costituzionalisti, come Giovanni Guzzetta, Beniamino Caravita, Cesare Mirabelli che, interrogati sul punto dalle agenzie di stampa, dicono sì all’immunità, all’insegna del principio che si tratta “di una scelta politica”, che il beneficio “è collegato alla funzione”, che è giusto trattare senatori e deputati nello stesso modo.
Al Senato la battaglia è garantita. Dal M5S si fa sentire il senatore Nicola Morra: 'Naturalmente questo emendamento nasce dall'imposizione di Fi e di Silvio, perché questo è da sempre l'obiettivo dichiarato di chi non accetta trasparenza e controlli». E Casson già prevede grossi ostacoli: “Lanciare l’immunità, per giunta alla vigilia delle norme anti-corruzione annunciate dal governo, mi pare proprio un autogol. Si rischia solo di creare ulteriori polemiche contro la riforma costituzionale e di mettere a rischio anche gli aspetti positivi che pure ci sono, come la fine del bicameralismo e la riduzione del numero dei parlamentari”.

Corriere 22.6.14
Serracchiani difende l’asse con Forza Italia: il Movimento 5 Stelle? Avanti con chi ci sta
di Virginia Piccolillo


ROMA — «È una riforma che cambia il volto del Paese. Una riforma vera, corposa. Un fatto epocale». È uno scampanio più che festoso quello di Debora Serracchiani, mentre illustra i meriti del «gran lavoro svolto dal governo, andato a buon fine». E attende con ottimismo l’incontro con i Cinquestelle: «Mi aspetto che sia spinto non dalla necessità di uscire dall’angolo ma da vera voglia di dialogo, altrimenti il primo ad essere deluso sarebbero il loro popolo».
«Fatto epocale», non è esagerato questo giudizio?
«Dopo trent’anni che ne parliamo siamo arrivati a superare il bicameralismo perfetto. E questo si deve al lavoro fatto da tutto il partito. Perché ne abbiamo discusso, e il risultato rispecchia la sintesi di tutte le opinioni».
Quali sono i punti qualificanti dell’accordo?
«Innanzitutto la composizione. Mi piace che siano 100 e abbiano una forte rappresentanza regionale. Avevo idea che fosse necessaria la presenza delle autonomie locali, ma fosse importante che le Regioni avessero la loro parte. Ed era anche l’esigenza degli altri presidenti di Regione. E poi sono contenta della non eleggibilità».
Perché?
«Che il Senato non fosse eleggibile era il paletto posto da Matteo Renzi. E io concordo. I consiglieri regionali sono comunque degli eletti dal popolo. Quindi, diciamo così, il loro giro democratico la hanno già fatto. Non sono nominati. È un modo per avvicinare il territorio a Roma».
Sull’immunità ai senatori ci sono polemiche, anche da parte di esponenti del Pd.
«Nel testo del governo non c’era, è stata aggiunta dai relatori. Non mi sono fatta un’opinione sul tema, se ne potrà discutere in seguito».
Ora vi attende la riforma elettorale. Come ha preso l’apertura dei Cinquestelle?
«Penso che sia dovuta al risultato elettorale di Renzi, con il 40,8%. Ora ci è stata affidata una grande responsabilità dal Paese e noi dobbiamo portarla a termine».
Ma cosa vi aspettate dall’incontro di mercoledì con Beppe Grillo?
«Che non sia tatticismo, ma vero confronto. È il suo popolo che lo chiede».
Il vostro però non preferirebbe un accordo con lui a quello con Berlusconi?
«Credo siano considerazioni superate. Ricordo bene quali perplessità e preoccupazioni accompagnarono l’incontro tra Renzi e Berlusconi che addirittura varcò la soglia del Nazareno. Io credo che gli italiani sono oltre questo limite. Vogliono un governo che dia risposte e speranze future. Abbiamo un accordo con Forza Italia, Nuovo centrodestra e Scelta Civica, auspichiamo la volontà di tutti, compreso il Movimento 5 Stelle, a partecipare».

Corriere 22.6.14
Dal Pd a FI, le manovre dei ribelli in attesa della prova dell’Aula
Chiti: non ci spostiamo di un millimetro dalle nostre posizioni
di Tommaso Labate


ROMA — «Abbiamo iniziato a lavorare bene sulla strada di un accordo che, comunque, è ancora lontano. Ma non è affatto detto che, una volta trovato, la prova del voto in Aula sarà una passeggiata. Anzi…». Nelle confidenze notturne che Paolo Romani ha fatto ad alcuni colleghi di partito subito dopo l’incontro col ministro Maria Elena Boschi, e siamo a venerdì sera, c’è una storia che va molto al di là dei comunicati congiunti, dell’euforia di Palazzo Chigi, delle fughe in avanti del leghista Roberto Calderoli. Perché, a prendere per buono il timore confessato agli amici dal capogruppo di Forza Italia a Palazzo Madama, la strada delle riforme è ancora in salita. «In commissione, una volta trovato l’accordo sul testo, filerà tutto liscio», è stato l’adagio del presidente dei senatori azzurri. «Ma tutti i “ribelli”, tutti coloro che dentro il centrosinistra e tra di noi vogliono ancora il Senato eletto direttamente dal popolo, tutti questi non sono sconfitti in partenza. In Aula può cambiare tutto…».
La lunghissima partita che comincerà il 3 luglio è tutt’altro che scritta. E la sorte dell’eterogeneo fronte di chi si oppone alla «madre di tutte le riforme» non è ancora segnata. Corradino Mineo risponde da una Palermo dove è già estate piena. «Posso dirla con una battutaccia di quelle che mi hanno rovinato la vita?». La battuta arriva dopo mezzo secondo. «Sicuramente nell’ultima formulazione del testo ci sono dei passi in avanti. Ma il punto centrale della nostra battaglia rimane ancora là. Stiamo passando da un Senato di Razzi (nel senso di Antonio, ndr ) a un Senato di Fiorito (nel senso del Batman del vecchio Consiglio regionale del Lazio, ndr ). Un’Aula non eletta direttamente dal popolo, che comunque conserva dei poteri costituzionali per cui non avrebbe la legittimazione necessaria, produrrà solo danni. Noi non arretriamo di un millimetro».
Nel «noi» citato da Mineo ci sono tantissimi colleghi senatori che ancora si nascondono nell’ombra. Oltre a chi, dentro i confini del Pd renziano, aveva finito addirittura per autosospendersi, una settimana fa. Come Vannino Chiti. Che infatti dice: «Mi creda, sull’elezione diretta del Senato poi porteremo avanti la nostra battaglia con fermezza e lealtà. Da quella posizione non ci spostiamo di un millimetro». Tra l’altro, aggiunge l’ex ministro e governatore della Toscana, «sono molto inquieto rispetto a certe frasi che i giornali hanno attribuito a Renzi sulla riforma elettorale. Anche perché, per quanto mi riguarda, delle due l’una. O torneranno i collegi uninominali oppure che si rimettano le preferenze. Altrimenti, una volta riformato il Senato, non ci sarebbero praticamente più dei parlamentari eletti dal popolo».
Non ci sono solo i niet di un pezzo del Pd. Anche dentro Forza Italia il tema della ribellione dei senatori agli «ordini di scuderia» del partito comincia a farsi largo nella nebbia. «Lo dico da adesso, così nessuno potrà far finta che non lo sapeva. Io, se la riforma del Senato rimane questa, non la voto», scandisce Augusto Minzolini. «E come me, immagino, anche tanti altri miei colleghi», aggiunge. D’altronde, ricorda l’ex direttore del Tg1, «la proposta che ho presentato, e che prevede l’elezione diretta del Senato, era stata firmata da trentasette colleghi di Forza Italia. La maggioranza di noi. E visto che quel testo è in antitesi rispetto a quello che sta confezionando il governo, e soprattutto visto che la gente di solito legge prima quello che firma, tutto questo qualcosa vorrà dire, no?».
In fondo, basterebbe un voto secco. Basterebbe che la maggioranza dei senatori confermasse l’elezione del Senato così com’è per far crollare il castello di carte. «Non siate così sicuri che il pressing dei capipartito faccia presa su tutta la maggioranza dell’Aula. Altrimenti avrete delle sorprese», è la profezia di Mineo. «Non so quanti parlamentari siano disposti a votare una riforma che trasforma la Camera dei Deputati in un qualcosa di molto simile alla Duma sovietica», sottolinea Minzolini. Anche Renato Brunetta, che sta alla Camera, sente puzza di bruciato. «Dieci euro di tasca mia sul fatto che questa riforma sarà approvata non me li gioco di certo. Non me li gioco io come credo che non se li giocherebbe nessun altro», sorride il capogruppo forzista a Montecitorio. La clessidra scorre inesorabile. I ribelli affilano le lame. Il timer del 3 luglio è già stato innescato.

Repubblica 22.6.14
Area riformista
“Basta D’Alema e Bersani, siamo diversamente renziani”
di Giovanna Casadio


MASSA MARITTIMA. Bersani lascia il seminario della corrente riformista presto: deve andare a un matrimonio. Nessuno diffonde il discorso che l’ex segretario del Pd ha fatto qualche ora prima. A Massa Marittima, riunita in una due giorni di seminario quella che fu la sinistra bersanian-dalemiana - ribattezzata ora Area riformista - cambia pelle e archivia i “padri”. Basta con Bersani e D’Alema. Addio ai leader di riferimento, si volta pagina. Ora ci sono Roberto Speranza, che della nuova corrente è il leader. Ha accanto Stefano Fassina, Alfredo D’Attorre, Maurizio Martina, Nico Stumpo, Paola De Micheli. Per i “giovani turchi”, che a Roma in contemporanea convocano una loro assemblea, a trainare sono Andrea Orlando, Matteo Orfini, Francesco Verducci.
Speranza ricorda il giorno fatidico in cui si consumò la brutale staffetta a Palazzo Chigi tra Enrico Letta e Matteo Renzi. Ebbene fu allora, il 13 febbraio scorso, che sia D’Alema che Bersani vennero sconfitti. In una riunione precedente allo strappo, furono proprio il bersaniano Speranza e l’ex dalemiano Matteo Orfini a voler sostenere Renzi e non più Letta. D’Alema e Bersani erano contrari. Gianni Cuperlo tentò una mediazione proponendo l’astensione. La fotografia della mutazione genetica del Pd è tutta qui: un partito in mano a una nuova generazione, forte del 40,8% dei consensi alle europee grazie a Renzi e su cui vogliono salire in tanti, dai fuoriusciti di Sel a Scelta civica. Un Pd che rimescola le correnti e contemporaneamente sancisce la fine dell’opposizione interna. I non renziani sono diventati “diversamente renziani”. Non faranno mancare il loro appoggio al PdR, il Pd di Renzi, anzi entreranno attivamente nella segreteria. Già pronti tre nomi: Michela Campana, Danilo Leva, Enzo Amendola. Ma si aspetta di vedere come va a finire con deleghe e sostituzioni per completare il quadro.
È vero che Speranza rivendica l’autonomia. Perciò elenca le questioni su cui la corrente riformista batterà un colpo, sull’articolo 18 e sulle modifiche dell’Italicum. Tuttavia premette: «Non saboteremo Renzi, saremo utili, lo renderemo più forte ». E aggiunge: «Fu giusto scegliere Renzi leader anche se è stato difficile e doloroso lo strappo per quello che Enrico rappresentava per noi. Però in quel frangente abbiamo deciso per una leadership più carismatica». Blinda così anche se stesso, Speranza, nel ruolo di capogruppo alla Camera che vacillava nelle settimane passate sotto le ambizioni dei renziani. Il dissenso duro e puro è affidato solo alla pattuglia dei civatiani. Atteso con insofferenza il probabile arrivo di Gennaro Migliore, l’ex capogruppo vendoliano, e della pattuglia di compagni ex Sel. Potrebbero intestarsi la rappresentanza della sinistra in un sodalizio con Cuperlo che fonda una sua corrente “Sin dem”, sinistra democratica. Speranza a Massa ringrazia Alfredo Reichlin, omaggio al passato monumentale.

il Fatto Lettere 22.6.14
Corte dei conti su Renzi, l’erede di Bettino Craxi
di Giovanni Andreassi


Sono sempre più numerosi gli spettatori che di sera ascoltano le domande di Lilli Gruber sugli schermi de La7. Mercoledì era il turno di Graziano Delrio al quale toccava il compito di esaltare le magnifiche sorti dell’operato del governo. Proprio nei giorni dell’intervista viene messo a punto il testo di un decreto legge contenente misure urgenti per la Pubblica Amministrazione, il quale - secondo taluni organi di stampa - doveva contenere una specie di sanatoria per i procedimenti di danno erariale aperti dalla Corte dei conti a carico di quegli amministratori locali che hanno assunto collaboratori in posizione di staff e senza concorso attribuendo loro una categoria d’inquadramento superiore a quella di riferimento. Proprio Renzi è stato tratto a giudizio, per una fattispecie del genere, davanti alla sezione regionale toscana in relazione ad assunzioni di personale eseguite quando il premier era presidente della Provincia di Firenze. Lilli Gruber che ha chiesto al sottosegretario spiegazioni. A questo punto l’ex sindaco di Reggio Emilia si è prima rabbuiato poi, con un imbarazzo insostenibile, ha detto che lui non sapeva niente di questa clausola e che Renzi non aveva niente di cui vergognarsi. Delrio ha sostenuto che i procedimenti per danno erariale rappresentano un inconveniente assai diffuso per gli amministratori locali che si trovano a firmare montagne di provvedimenti che i loro segretari e funzionari gli preparano. È facile trovare un personaggio la cui arroganza e tracotanza si avvicina al modo di comunicare di Renzi e questo personaggio non può che essere Bettino Craxi. Il potere di Bettino Craxi ha conosciuto vette altissime negli anni ‘80 e un prestigio internazionale mai più eguagliato dai successivi presidenti del Consiglio. Quando la sua parabola politica ha intrapreso la fase discendente tanti amici gli anno voltato le spalle. In fondo il rapporto che Craxi aveva con la magistratura non era poi tanto diverso dal rapporto che Renzi si trova ad avere con la magistratura di oggi. E non va dimenticato che gli attacchi più feroci subiti da Craxi negli anni del suo declino sono partiti dall’interno di quella sinistra italiana che lui aveva invano cercato di modernizzare.

l’Unità 22.6.14
La polemica
Radicali contro la soglia di 300 mila firme: «È la fine delle leggi di iniziativa popolare»


«Facendo salire dalle attuali50mila a 300mila le firme necessarie per presentare proposte di legge di inziativa popolare, senza nemmeno garantire tempi certi per la calendarizzazione, l’emendamento dei relatori al disegno di legge di riforma costituzionale assesta un colpo definitivamente mortale al già moribondo istituito delle leggi di iniziativa popolare». Lo dichiara il radicale Marco Cappato il giorno dopo che sono stati depositati a Palazzo Madama i 20emendamenti a firma Calderoli e Finocchiaro che di fatto disegnano l’accordo raggiunto sul nuovo Senato dalla maggioranza di governo ed a Forza Italia e Lega. Dice l’esponente del Partito radicale che innalzandoda50a300mila il numero delle firme necessarie per presentare proposte di legge di iniziativa popolare di fatto si dà un colpo mortale a tale strumento. «Accade oggi, infatti, che leggi popolari come la nostra per l’eutanasia legale restino mesi o anni in attesa di essere calendarizzate. La fissazione di un termine preciso entro il quale una delle Camere, auditi i promotori, sia obbligata ad esprimersi con dibattito pubblico e voto palese è la condizione per qualsiasi modifica del numero di firme necessario. Altrimenti - insiste Cappato - ogni riforma sul tema avrà gli effetti di una controriforma, realizzata per negare alla radice il diritto dei cittadini ad attivare l'iniziativa legislativa, pur previsto dall'articolo 71 della Costituzione».

l’Unità 22.6.14
È scontro sull’immunità Calderoli: «Leviamola a tutti»
Negli emendamenti sono state estese al Senato le tutele dei deputati
Contrari M5S e Civati


Torna l’immunità parlamentare anche per i «nuovi» senatori. Detta così, viene subito in mente la vecchia immunità che salvaguardava anche dalle indagini i parlamentari, poi abolita nel 1993 sull’onda di Tangentopoli e ridefinita nell’articolo 68 della Costituzione. Ora l’arresto e la possibilità di intercettare i parlamentari devono essere autorizzati dal voto della Giunta per le autorizzazioni e poi dell’aula; perché si indaghi su un parlamentare, invece, non serve alcuna autorizzazione
La polemica cresce, soprattutto sui social network. Nel testo originario del governo l’immunità per i senatori non era prevista, mentre è tornata, equiparata a quella dei deputati. In uno dei 20 emendamenti depositati dai relatori in commissione Affari Costituzionali a Palazzo Madama, la presidente Anna Finocchiaro, Pd e il leghista Roberto Calderoli, si chiede di «sopprimere l’articolo 6» del testo originario che modificava le «Prerogative dei parlamentari» nell’art. 68 della Carta («Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza»).
Ieri la ministra per le Riforme, Maria Elena Boschi, ha prevenuto le polemiche tirandosi fuori: «È una proposta dei relatori. Vedremo quello che accadrà poi in seguito». Tutto da ridiscutere, insomma. Provocatorio invece il leghista Calderoli: «Se suscita perplessità il fatto che deputati e senatori abbiano la medesima forma di immunità», come relatore «mi sento di fare una proposta e di verificare l’eventuale condivisione: togliamo l’immunità sia a deputati che a senatori. Tutti siano trattati come cittadini comuni».
Curiosamente ieri non è stata esplosiva la reazione del Movimento Cinque Stelle, forse più impegnato a preparare l’incontro di mercoledì con il Pd, nel quale, oltre alla legge elettorale, vuole discutere di riforme. Sul suo profilo Facebook si fa sentire Nicola Morra, ex capogruppo 5 Stelle al Senato: uno degli emendamenti Finocchiaro-Calderoli «consegna ai futuri senatori delle autonomie il privilegio più odioso, l’immunità parlamentare». Un emendamento che «nasce dall’imposizione di FI e di Silvio», è convinto il senatore, «perché questo è da sempre l’obiettivo dichiarato di chi non accetta trasparenza e controlli ». E il «nuovo Renzi glielo concede ». Ironico il tweet del grillino Carlo Sibilia: «Boschi su legge elettorale “Il testo non si tocca perché già c’è un percorso con Berlusconi” . Non si può mancare di rispetto a Don Silvio».
Molto critico, sul suo blog, anche il deputato della minoranza Pd, Pippo Civati in un post dal titolo: «Il sindaco immune ». Estendere l’immunità ai «senatori- sindaci e ai senatori-consiglieri regionali », secondo Civati comporterebbe che «un sindaco nei confronti del quale si procedesse per fatti commessi durante il suo mandato amministrativo (tristemente noti) potrebbe usufruire, in quanto senatore, delle immunità di cui all’articolo 68». Quindi, «non proprio un aiuto al contrasto ai numerosi episodi di corruzione cui purtroppo assistiamo (anche) a livello locale». Molti pensano ai consiglieri regionali, spesso saliti alla ribalta per fatti di corruzione. Civati infine ricorda che nella scorsa legislatura è stata sancita «l’incompatibilità tra la carica parlamentare e quella di sindaco».
La scelta di reitrodurre l’immunità nasce comunque da un accordo con il governo della maggioranze e degli altri partiti che seguono la pratica riforme (Forza Italia e Lega), perché, spiega il sottosegretario alle Riforme e ai Rapporti col Parlamento, Luciano Pizzetti, «era opportuno, nella parte che riguarda le norme bicamerali - delle riforme costituzionali - equiparare le guarentigie dei senatori che si occupano di materie costituzionali a quelle dei deputati, sarebbe stato innaturale prevedere diverse forme di guarentigie». Difficile garantire l’immunità solo a quando un consigliere regionale svolge le funzioni di senatore, quindi è stato deciso di estenderla a tutti i senatori (nell’esercizio del mandato), «perché le guarantigie esistono in tutti i parlamenti».
Reintrodurre l’immunità è positivo, invece, per il forzista Malan: averla esclusa era «un errore grammaticale da matita rossa».E prosegue, «non è immaginabile un Senato che ha importanti poteri di intervento sulla Costituzione - poteri eguali a quelli della Camera - possa venir dimezzato dagli arresti con un semplice foglietto di un pm».

l’Unità 22.6.14
Vendola, c’è la carta delle dimissioni
I fuoriusciti pensano a un gruppo a sé nel Misto con i socialisti di Nencini ed ex Scelta Civica
Mercoledì resa dei conti alla direzione di Sel
Il leader: «Mio mandato a disposizione»
Mussi agli scissionisti: «Ripensateci»
Il veneto Zan lascia. Fratoianni nel mirino


Nichi Vendola si presenterà mercoledì alla direzione di Sel mettendo a disposizione il suo mandato di presidente del partito. Dunque l’annuncio fatto nel giorno della scissione sembra destinato a concretizzarsi nella riunione che sta assumendo un significato molto più rilevante rispetto alla semplice presa d’atto dell’uscita di una fetta di parlamentari. Anche perché in queste ore si stanno tenendo molte assemblee territoriali, che hanno un peso non indifferente nella scelta di chi potrebbe ancora lasciare.
Se infatti il deputato veneto Alessandro Zan ha confermato che domani lascerà il gruppo (e con lui anche Nazzareno Pilozzi) seguendo Gennaro Migliore, l’abruzzese Gianni Melilla, dopo l’assemblea regionale di ieri, ha cambiato idea: «È possibile ancora concepire Sel come un luogo di passione e cultura politica in cui condividere la ricerca in mare aperto di una sinistra autentica che rifiuta le ammucchiate estremiste e la confluenza nel renzismo». Anche altri parlamentari dati in uscita potrebbero ripensarci. Come Fabio Quaranta, che non lesina dure critiche a Vendola: «In Sel si sta consumando una brutta pagina, frutto innanzi tutto dell'incapacità del gruppo dirigente di discutere apertamente oltre che di decidere». Secondo Quaranta, «aver drammatizzato il voto nel gruppo sul decreto Irpef, solo perché ha messo in minoranza Vendola, accusando i compagni che la pensano diversamente di essere in sostanza dei venduti a Renzi e al governo, oltre che essere falso sta distruggendo Sel».
Anche altri eletti come Martina Nardi e Fabio Lavagno potrebbero aspettare la direzione di mercoledì. Dove le scelte del gruppo dirigente e la linea politica di questi mesi saranno messe in discussione da un fronte più ampio di quello dei possibili fuoriusciti. «C’è da ricostruire il centrosinistra, no a improponibili costituenti ritagliate sulla lista Tsipras. L’assunzione di responsabilità e l’efficacia dei nostri gruppi dirigenti è una questione che mai come ora si pone », spiega Ciccio Ferrara, uno dei pontieri, probabile nuovo capogruppo. Alcuni dei “dubbiosi” aspettano mercoledì per capire se ci sarà o meno una svolta: di linea politica e anche di persone.E del resto a votare a favore al decreto sono stati in 17, molti di più degli scissionisti. E tra loro ci sono varie persone che non vogliono andare nel Pd ma chiedono a Sel di uscire dall’ambiguità tra sinistra radicale e sinistra di governo. E sono molto critici con i vertici. Come il deputato sardo Michele Piras: «Il confronto in Sel è stato gestito in modo sconcertante ».
Insomma, la questione è politica, e non solo una contabilità degli scissionisti. Nel mirino dei “dubbiosi” c’è il coordinatore Nicola Fratoianni, uno dei fautori della lista Tsipras, anche lui pronto a mettere il mandato a disposizione del partito. Ma, mentre nel caso di Vendola è assai probabile che la direzione sia praticamente unanime nel chiedere che resti al suo posto, la posizione di Fratoianni è più in bilico. «Un suo passo indietro e una correzione della linea potrebbero evitare nuove uscite», spiega una fonte di Sel. Il senatore Peppe De Cristofaro spiega: «Il gruppo dirigente non può chiudersi a riccio, bisogna fare chiarezza sulla linea politica e ribadire che noi non vogliamo partecipare a una nuova sinistra radicale, ma costruire un nuovo centrosinistra».
Le acque, dunque, sono agitate. E Fabio Mussi, uno dei padri nobili, lancia un appello agli scissionisti: «Lasciare Sel è più che un crimine, è un errore. La questione ha nome e cognome: si chiama Pd e governo. Non trovo legittimo rappresentare Sel come un covo di estremisti; trovo legittimo proporre che Sel sostenga il governo Renzi e magari confluisca nel Pd, anche se non lo condivido. Mi sarebbe piaciuto discuterne apertamente, magari al nostro recente congresso». «Ma voi, cari compagni continua Mussi - avete fatto tutt'altro: trasformando una normale valutazione del gruppo su un provvedimento (il decreto degli 80 euro) in un’Autodafè, avete innescato un esodo di parlamentari verso la maggioranza. E alla Camera, dove i numeri sono per il governo abbondantissimi. Il fatto è politicamente ininfluente. Il risultato più probabile è che contino zero quelli che vanno e quelli che restano». La conclusione: «La legislatura durerà probabilmente fino al 2018. C’è tempo. Uniti e all’opposizione possiamo esercitare una funzione, con testa e cultura di governo. Potendo infine trarre un bilancio più serio e meditato dell’azione del governo e del Pd. Posso sperare di convincervi a prendere almeno una piccola pausa di riflessione?».
Impossibile che l’appello possa fare breccia in chi, come Migliore, è già uscito. Loro già studiano un sottogruppo nel Misto, insieme ai socialisti di Nencini e a qualche transfuga di Scelta civica. Ma dentro Sel la partita è ancora aperta.

La Stampa 22.6.14
Sel, continua la diaspora: anche Zan verso le dimissioni
Il deputato veneto, cofondatore del partito: “Faremo un nuovo gruppo”
Mussi: “Serve una pausa di riflessione, non prendete decisioni affrettate”

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l’Unità 22.6.14
Orfini agli ex Sel: «Nel Pd porte aperte»


Un Pd più «contaminato» e migliore di 5 anni fa, con «Renzi che invoca politiche keynesiane in Europa» e noi che «gli riconosciamo di aver saputo cogliere una voglia di cambiamento radicale nella società che nel 2013 non avevamo saputo interpretare». I giovani turchi, uno delle componente di sinistra del Pd, celebrano la loro assemblea nazionale a Roma e rivendicano di aver saputo imporre primi di altri alcuni temi nell’agenda del partito: «Uguaglianza, redistribuzione, no alle politiche di austerità: fino a qualche anno fa venivamo definiti “eretici” per queste idee», sorride Matteo Orfini dal palco. Leali e Renzi ma «incalzanti», rincara Francesco Verducci, eletto ieri presidente di Rifare l’Italia. Su due temi; in particolare: «Giustizia sociale e costruzione del partito, perché non si può vivere di sole primarie ». C’è tra i turchi, che pure festeggiano il successo del Pd a trazione renziana al 40% e rivendicano di aver attivamente collaborato alla staffetta tra Letta e Renzi a palazzo Chigi, il timore per un partito troppo leaderista: «Dobbiamo avere la religione della collegialità », incalza il ministro Andrea Orlando, che invoca un «partito riformista moderno e plurale» che sappia «organizzare la domanda di cambiamento che si è espressa nelle urne» e propone forme di partecipazione dal basso «più efficienti». «Per primi a dicembre abbiamo detto che il congresso era finito, lavoriamo all’unità del Pd, non della minoranza Pd», spiega Orfini. Con i “cugini” di Area riformista riuniti ieri in Toscana le distanze restano molto forti. E se Bersani e Fassina invitano alla prudenza sui fuoriusciti da Sel e Scelta civica che bussano alle porte del Nazareno, Orfini e Orlando spalancano le porte a Gennaro Migliore e ai suoi. «Bisogna stare attenti agli opportunismi », avverte l’ex segretario. «Il nostro non può diventare un partito contenitore indifferenziato, non reggerebbe, in questo affollamento non ci sono motivazioni nobili...». Il neopresidente Pd è di diverso avviso: «Se qualcuno guarda a noi bisogna dire “evviva”. Il fatto che Sel subisca il travaglio che sta subendo è il frutto dell’ambiguità di aver scelto la lista Tsipras alle europee quando un pezzo di Sel si sentiva rappresentato dal Pse e un pezzo da altri. Mi spiace, ma l’errore non è stato di Gennaro Migliore ma di Nichi Vendola che aveva deciso di aderire al Pse e poi ha rinnegato quella scelta preferendo una soluzione ambigua legata alla contingenza elettorale», «Sono molto contento per la scelta di Migliore», gli fa eco Andrea Orlando.
Dura la replica di Massimiliano Smeriglio, di Sel: «Trovo ingeneroso il commento di Orfini nei confronti del dibattito sofferto che attraversa Sel. Non è scritto da nessuna parte che l'unica strada possibile per i giovani turchi di tutte le epoche sia quella di finire per forza alle dipendenze del sultano Maometto V».
SINDACATO DA RINNOVARE
Nel dibattito tra i Giovani turchi ha tenuto banco anche il rapporto col sindacato. «Dobbiamo promuovere un rinnovamento dentro il sindacato», dice Orlando. «Un pezzo della battaglia contro le oligarchie riguarda anche il sindacato», dice Orfini. «Oggi non tutti i cittadini si sentono rappresentati dai sindacati, e dei permessi si è fatto un abuso».

l’Unità 22.6.14
L’uscita da Sel di Gennaro Migliore
Ora si può riprendere un cammino insieme
lavorare affinché il PD diventi sempre di più il nuovo soggetto politico di una nuova nazione, il campo unitario di tutti
di Goffredo Bettini


L’USCITA DA SEL DI GENNARO MIGLIORE NON È UN FULMINE A CIEL SERENO. Così come l’attenzione di moltissimi socialisti al PD. Di tanti amici dell’API, dell’ex IDV, dell’arcipelago delle liste civiche. Si potrebbe dire: semplice ricollocazione di gruppi dirigenti. Non credo sia così. Piuttosto avverto che qualcosa di profondo sta accadendo nella politica italiana. L’idea che si può riprendere, insieme, un cammino. Da anni mi batto per la costruzione di un campo democratico ampio, inclusivo, contendibile, e fondato sulle persone e non sulle correnti e sulle intercapedini burocratiche. E da anni, nello stesso tempo, purtroppo ho visto prevalere gli steccati, gli ideologismi, l’uso rituale e vuoto di parole importanti come «sinistra» e «riformismo», o l’enfasi di annunci epocali volti a nascondere politiche incerte, rinunciatarie, «neutre», paralizzate da vincoli e da compatibilità ritenute invalicabili. Il «campo» in cui ho sperato e spero, va dalle componenti più radicali a quelle più moderate del centro sinistra. Oggi vedo con soddisfazione che Andrea Romano dice di poter convivere in uno stesso partito con Gennaro Migliore. Cos’è accaduto di nuovo? Sono accadute tante cose. Ma la più importante è che ha preso vita, grazie a Renzi, un PD a vocazione maggioritaria, consacrato da più del 40% di consensi nelle ultime elezioni europee. Si è cercato di sminuire la portata di questo evento. Si è parlato di pura immagine e di un talento spettacolare. Di parole suadenti, pronunciate da un bravo pifferaio (Scalfari). Molti che nel passato hanno esaltato e costruito teorizzazioni su innumerevoli fallimenti, sembrano sperare in un nuovo fallimento; per dire: avevamo ragione. E, invece, ci sono le premesse per una svolta. Altro che fumo e superficialità. Se c’è una cosa che i questo mesi mi ha colpito di Renzi è, al contrario la sua sobrietà (si veda la reazione alla vittoria) e la sua essenzialità. Anzi, penso che egli abbia sfondato nell’elettorato perché ha azzerato la montagna di chiacchiere dentro le quali era sparita la politica e ha proposto una scarna ed efficace visione delle cose: che l’Italia ha un disperato bisogno di incoraggiare, proteggere, valorizzare le energie creative di cui abbonda e che hanno resistito a questi anni durissimi di crisi; che per far questo occorre battere le rendite, dovunque esse siano; che occorre innovare in ogni campo, riducendo privilegi e aiutando chi davvero è più debole ed indifeso. Da questa visione sono scaturite azioni coerenti, coraggiose, rapide e difficili. Molte appena all’avvio. E si avverte la forza di una prospettiva e che è tornata la politica, che non si accontenta di accompagnare le cose, ma tenta di muoverle.
Le partite aperte sono tante: le riforme istituzionali ed elettorali, la trasparenza e l’efficacia della pubblica amministrazione, una giustizia libera da ogni condizionamento, ma umana, garantista e rapida. Un fisco più equo e leggibile, l’occupazione ed un’Europa che lotti per una crescita di qualità, la dignità della scuola e la priorità dell’educazione. Potrei continuare ma la questione decisiva è che si è dispiegata di nuovo una sfida, ideale e allo stesso tempo praticata concretamente nei suoi capitoli fondamentali. Questo il motivo per il quale gli elettori ma anche pezzi importanti della politica democratica sono attratti da noi. Si sentono a loro agio nel superare gli steccati del passato per costruire qualcosa insieme. Il voto, con la sua ampiezza, ha già definito un campo largo, anzi larghissimo. Ma il senso di quel voto, per contenere le possibili mareggiate future, va maggiormente strutturato nella società, va insediato e mediato culturalmente, va reso stabile con forme di partecipazione e decisione dal basso. Il partito, non solo a parole deve sbarazzarsi dei suoi vampiri interni, che succhiano il sangue alla buona politica attraverso le correnti, gli esasperati personalismi e i trasformismi. Occorre mischiare le persone, i democratici, per farli sentire vivi e utili nelle prove che stiamo vivendo. Per questo, dico, a tutti coloro che oggi si sentono inquieti o insoddisfatti nei vecchi involucri del centro sinistra: avete due strade. Quella di entrare alla spicciolata nell’attuale PD; rispettabile, ma politicamente povera. O, invece, quella di lavorare affinché lo stesso PD diventi sempre di più il nuovo soggetto politico di una nuova nazione, il campo unitario di tutti, in grado di interagire e rafforzare quel miracolo elettorale che soprattutto Renzi ci ha permesso di realizzare, portando la sinistra e i democratici ad un consenso mai raggiunto nella storia della Repubblica. Sarà quest’ultimo il mio impegno principale negli ultimi mesi.

il Fatto 22.6.14
Diaspora da Sel, si dimette Zan ”Decisione matura”


CONTINUA LA DIASPORA da Sinistra e Libertà. Dopo le dimissioni di Gennaro Migliore, Claudio Fava, Titti di Salvo e Ileana Piazzoni, arrivate giovedì, anche il deputato Alessandro Zan è intenzionato a lasciare il partito. “La decisione ormai è matura - ha detto Zan - Ho chiesto per oggi la convocazione di un’assemblea provinciale per parlare col territorio, mentre lunedì ci sarà la riunione del gruppo parlamentare per le decisioni definitive”. Oltre a lui, si parla di un’altra decina di fuoriusciti che potrebbero annunciare le loro dimissioni dal partito durante la riunione del gruppo. “La situazione politica dentro Sel impedisce l’agibilità politica per stare nel partito”, ha detto Zan, spiegando che la rottura è maturata durante il congresso, quando il partito ha deciso di non sostenere il Pse. La scelta di appoggiare la lista Tsipras avrebbe fatto crollare la possibilità di un appoggio di Sel al governo Renzi sulla base di una valutazione sui singoli provvedimenti. In questo modo, ha aggiunto il deputato di Sel, si passa “dall’essere sinistra di governo a diventare forza identitaria e minoritaria di opposizione, producendo per alcuni l’impossibilità di restare nel partito”.

il Fatto 22.6.14
Orfini: “L’errore è di Vendola, non di Migliore”


L’ERRORE NON lo ha fatto Gennaro Migliore ma Nichi Vendola, che aveva deciso di aderire al Pse e, invece, per le contingenze della campagna elettorale ha fatto una scelta diversa e contraddittoria”. A dirlo è il neopresidente del Pd Matteo Orfini, intervenendo ieri all’Assemblea Nazionale di “Rifare l’Italia”, la componente del partito che fa capo ai cosiddetti giovani turchi. Orfini ha anche dato una sua interpretazione di ciò che si sta muovendo all’interno di Sinistra e Libertà. Il partito di Vendola, infatti, sta vivendo una fase difficile dopo le dimissioni di Migliore da capogruppo alla Camera di Sel. “Il fatto che Sel subisca il travaglio che sta subendo è il frutto dell’ambiguità di aver scelto la lista Tsipras alle europee quando un pezzo di Sel si sentiva rappresentato dal Pse e un pezzo da altri”. A rispondere a distanza a Orfini è Massimiliano Smeriglio, della segreteria nazionale di Sel, che ha definito “ingeneroso” il commento di Orfini e ha aggiunto che Sel valorizza il dissenso meglio di come fa il Pd, aggiungendo che “non è scritto da nessuna parte che l’unica strada possibile per i giovani turchi è quella di finire per forza alle dipendenze del sultano Maometto V”.

Lettera 43 22.6.14
Sel, Vendola: «Non trattengo chi sale sul carro dei vincitori»
Il governatore della Puglia contro Migliore

qui

il Fatto 22.6.14
Damiano: “Tutti sul carro, moriremo demorenziani”
di Tommaso Rodano


Si può morire “demorenziani”, nel Pd. E vivere pure senza troppe angosce. Cesare Damiano, ex ministro del lavoro e “fiero erede della tradizione comunista”, lo ha detto con una battuta: “Se il Pd è la nuova Dc, io allora sono Carlo Donat-Cattin” (storico esponente della sinistra sociale democristiana, ndr).
Damiano, il carro del Pd di Renzi è stracolmo. Salgono tutti: ex vendoliani, ex montiani...
Si sta un po’ stretti. Il rischio, al di là delle battute, è di trasformarci davvero nella nuova Democrazia Cristiana. Un partito contenitore, senza un’identità politica centrale. Gli esuli di Scelta Civica e di Sel hanno identità politiche profondamente diverse.
Qual è la direzione quindi? Il carro del vincitore svolta a sinistra o a destra?
In fondo il renzismo è una variante del blairismo. Con Blair si diceva che il centrosinistra fosse l’unico ad avere il diritto di fare politiche di destra. Con Renzi potremmo dire che si fanno contemporaneamente politiche di sinistra e di destra.
A lei e agli altri “compagni” però tocca votarle tutte.
Finché si tratta degli 80 euro o della tassazione delle rendite finanziarie, lo faccio volentieri. Quando si aumenta la precarietà del lavoro con il Jobs Act, sono contrario.
C’è una disciplina di partito...
Ma c’è anche un’autonomia parlamentare. Il primo Renzi decideva a maggioranza, “prendere o lasciare”. Ora mi pare abbia cambiato atteggiamento e che dica: “Nelle riforme ci sono dei punti fermi, tutto il resto lo possiamo discutere”. Con il “nuovo” Renzi si possono portare correzioni importanti.
In sostanza c’è un grande “centro renziano” e poi ci sono le correnti a destra e a sinistra, stile Prima Repubblica?
Non è proprio così. Non c’è dubbio che prendere il 40,8 per cento abbia segnato una svolta: ora c’è un partito egemonico, come non lo conoscevamo dagli anni ‘50. L’importante è che la “vocazione maggioritaria” che sognava Veltroni non si trasformi in “vocazione totalitaria”. Ma le aree come la nostra non sono micro partiti all’interno di un grande partito unico. Noi (la cosiddetta “Area riformista”, ndr) abbiamo l’ambizione di essere una “componente culturale”, giochiamo la nostra sfida sui contenuti: il nostro obiettivo è mantenere il Pd a sinistra.
Le cito in breve la definizione di “partito pigliatutto” secondo la Scienza Politica (Otto Kircheimer, 1966): è caratterizzato da una drastica riduzione del bagaglio ideologico, non ha una classe sociale di riferimento e assicura rappresentanza a diversi gruppi d’interesse. È un ritratto spiccicato del Pd, non trova?
Penso che anche in un partito pigliatutto ci sia margine per una scelta. In un Paese come il nostro dove i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, io voglio stare dalla parte degli ultimi. Penso che anche il Pd debba rappresentare loro.
Quindi si può vivere (e morire) serenamente “demorenziani”?
Spero che Renzi ce la faccia: è davvero l’ultima spiaggia e ha avuto il merito di sconfiggere il populismo di Grillo. Il “demorenzismo” può essere utile in questa fase storica. L’importante è che non ci sia un uomo solo al comando.

Italia Oggi 22.6.14
Renzi il magnifico

Già sbaragliati i partiti di centro e estrema sinistra
di Sergio Soave 

qui

Corriere 22.6.14
L’importanza di cambiare regole per «non morire democristiani»
di Piero Ostellino


«Il problema non sono le  regole; sono i ladri». La frase, pronunciata da Renzi a commento dello scandalo del Mose, avrebbero potuto dirla Antonio Di Pietro o qualsiasi altro uomo politico della Prima Repubblica. È figlia della convinzione che, dopo Tangentopoli e Mani pulite, la politica la si possa fare solo delegandone la gestione alla magistratura e ai carabinieri. Che piaccia o no, è la definitiva trasformazione del Partito democratico nella vecchia Democrazia cristiana o, se si preferisce, in una specie di neoberlusconismo di sinistra. L’occupazione del potere per, poi, non usarlo che per conservarlo.
Le chiacchiere sulla rottamazione delle generazioni precedenti, sul loro ricambio con le nuove e sulla politica di cambiamento — che Renzi continua a ripetere anche ora che è segretario del Partito democratico e sta al governo come se non lo fosse — sono state un’operazione di marketing per pervenire al ricambio di una classe dirigente postcomunista, logorata dal consociativismo con la Dc e ormai esausta, che non aveva più nulla da dire. Nel Paese, quelle chiacchiere sono state la forma che il trasformismo inaugurato nel 1876 con la caduta della destra storica e l’avvento della sinistra (liberale) ha assunto nell’era della comunicazione, che conta più della realtà effettuale e la crea e col quale, nel passato, si erano sempre mascherate, con doppiezza controriformista, operazioni di puro potere personale, politicamente legittime sotto il profilo formale, ma discutibili sotto quello degli interessi reali del Paese.
Con Matteo Renzi — cui pare piaccia più essere capo del governo che farlo — la politica italiana registra il ritorno ai metodi della vecchia Dc. L’ex sindaco di Firenze — che è ambizioso e non lo nasconde — ha capito che prendersela con i ladri e promettere demagogicamente un futuro luminoso solletica il moralismo e il pressapochismo populista e non costa; anzi, rende, purché non si metta mano alle condizioni strutturali che generano i ladri. La frase che il problema non sono le regole, sono i ladri, è una riproposizione di quella sul «mariuolo Chiesa», che Craxi aveva usato per tenere fuori il Psi dallo scoppio di Tangentopoli. Ma quando Craxi chiamò, in Parlamento, le forze politiche ad assumersi collettivamente la responsabilità del finanziamento illecito dei partiti e a fare i conti con le degenerazioni del «sistema», fu isolato; Dc e Pci si spartirono il potere — l’una, quello istituzionale e economico; l’altro, quello culturale e politico — decretando, con la fine del Partito socialista come forza potenzialmente riformista, il trionfo del peggior conservatorismo. Il segretario del Psi sarebbe morto in esilio, mentre in Italia, con il compromesso storico, si sviluppava il progressivo degrado del Paese. Renzi ha fatto astutamente tesoro del fallimento del tentativo riformista craxiano per scalare, riuscendoci, sia la direzione del Pd, sia quella della politica nazionale. Se non toccherà gli interessi consolidati dalla struttura sociale corporativa ereditata dal fascismo — in altre parole, se non farà nulla di più di «promettere che molto, non tutto, è già stato fatto», come sta dicendo incessantemente, è probabile resti a lungo a Palazzo Chigi.
Certo, qualcosa farà — una (parziale) riduzione della spesa pubblica, ormai fuori controllo, e una (relativa) razionalizzazione della Pubblica amministrazione perché la stessa forza delle cose glielo impone — ma non ridurrà l’eccesso di intermediazione politica rispetto alla sfera privata, che è la vera causa della corruzione. Non darà, come sarebbe auspicabile, più spazio al mercato, e al merito, rispetto al familismo e clientelismo amorale sul quale si regge l’intero Ordinamento politico e giuridico dal 1948.
Le regole — in un Paese dove per costruire un nuovo capannone per la fabbrichetta, malgrado tutto felicemente in espansione, o per convertirla, ci vogliono decine di permessi, licenze, concessioni, si perde molto tempo per districarsi nella giungla burocratica e si spendono molti soldi in avvocati e consulenti, e dove il cittadino-contribuente non riesce più a orientarsi nel mare di una legislazione fiscale disordinata e invasiva, finendo regolarmente con essere trattato come suddito — contano caro Renzi, e come contano ! Sono esattamente le regole che lei dovrebbe cambiare. Ma che, temo, non cambierà perché ha capito che sarebbe defenestrato all’istante. Da vecchio democristiano, lei sa, andreottianamente, che il potere logora chi non ce l’ha. Perciò, dal governo, sta logorando il suo stesso partito, come la Dc aveva fatto, a suo tempo, sempre dal governo, col Pci e le stesse capacità di resistenza del Paese. Non è detto sia necessariamente un male; ma è altrettanto lecito dubitare, non solo da sinistra, che «morire democristiani» sia un bene.

Corriere 22.6.14
La partita in casa di Matteo: «occupare» il campo grillino
di Maria Teresa Meli


ROMA — Rafforzato a Parigi il ruolo di mediatore tra Hollande e Merkel, che Renzi ha deciso di ritagliare per sé, il premier è tornato a occuparsi degli affari di casa nostra.
La prossima partita sarà quella con Grillo. Importante, sul breve e sul lungo periodo. Per quanto riguarda il primo aspetto, il presidente del Consiglio vuole mandare un «messaggio politico» forte e chiaro all’elettorato grillino, ma anche a quei parlamentari che non hanno approvato l’alleanza con Farage: «Il Pd è un campo aperto a tutti, perché come ho avuto modo di dire più volte non esistono più per nessuno rendite di posizione stabili».
A Renzi non interessa fare del Pd «un assemblaggio di classi dirigenti, ma una cosa nuova». Benché siano ormai molti i parlamentari che si stanno dirigendo verso la sua maggioranza. Tra un po’, grazie all’apporto di una quindicina di deputati di Sel, dei socialisti e di altri innesti si formerà un nuovo gruppo alla Camera. Un gruppo più spostato a sinistra che consentirà al premier di giocare anche su quel tavolo quando si tratterà di convincere Alfano e Casini ad accettare le unioni civili dei gay o nuove norme sulla cittadinanza degli immigrati. Ma nei confronti del Movimento 5 Stelle è un altro il vero obiettivo del premier, anche se è chiaro che non gli dispiacerebbe rinnovare la vecchia classe dirigente del suo partito con nuovi innesti, come per esempio, quel Luigi Di Maio di cui in molti nel Pd parlano bene. L’obiettivo, invece, come ha confidato ad alcuni parlamentari amici lo stesso Renzi, è dimostrare all’elettorato di quel movimento che mentre «Grillo urla, io faccio». Del resto, «far capire agli italiani che c’è anche una politica in grado di produrre fatti è l’unico modo per arginare la protesta».
C’è poi un obiettivo di lungo periodo, che nasce da un preciso interrogativo: «Quanto è veramente stabile il Movimento 5 Stelle»? In soldoni: è destinato a durare fino alle prossime elezioni politiche o no? Perché se così non fosse per il premier sarebbe «un imperdonabile errore» regalare quell’elettorato a qualcun altro, o, peggio, abbandonarlo a forme di protesta estrema. Sono questi i motivi per cui Renzi vuole vedere le carte di Grillo, magari dimostrando nel merito che il suo è solo un bluff, ma non certo negando un confronto.
D’altra parte, il presidente del Consiglio sa di attirare su di sé le simpatie di una parte dell’elettorato pentastellato. Un sondaggio riservato commissionato dal Partito democratico prima delle elezioni europee rivelava un particolare molto interessante: il 60 per cento degli elettori che dichiaravano di votare per il Movimento 5 Stelle il 25 maggio, preferiva però Matteo Renzi a Beppe Grillo come presidente del Consiglio.
Un dato che potrebbe anche apparire paradossale a tutta prima, ma che in fondo così non è. Come spiega Paolo Gentiloni: «Quella parte di elettorato dei 5 Stelle che non vuole solo la protesta per la protesta ma aspira a un cambiamento radicale vede in Renzi la possibilità che questo avvenga. Per questo il premier potrebbe, per modo di dire, “vampirizzare” il movimento di Grillo, cioè, portargli via i voti». Già, perché come osserva un altro renziano, il sottosegretario Angelo Rughetti: «Renzi ha abolito il finanziamento ai partiti, ha messo da parte la vecchia classe dirigente, ha respinto la casta, sta arginando lo strapotere della burocrazia e con gli 80 euro ha avviato la redistribuzione sociale... Sono tutte cose che all’elettorato grillino piacciono, il loro leader le predica, ma Matteo le sta facendo sul serio».
Insomma, dopo aver terremotato Sel e Scelta civica, il presidente del Consiglio potrebbe incrinare il muro grillino? Difficile rispondere ora a una domanda del genere. Di una cosa, però, Renzi è convinto. L’ha detta in privato, prima ai fedelissimi e poi ai suoi interlocutori internazionali, se si fosse «rimasti nell’immobilismo e nell’inerzia del precedente governo sarebbe stato dannoso per l’Italia, la crisi di sarebbe aggravata e Grillo non sarebbe stato arginato». Vedremo ora quale sarà la prossima mossa del premier: «L’incontro con i 5 Stelle non sarà a Palazzo Chigi, perché così hanno chiesto loro, per cui io potrei non andarci. O esserci in quanto segretario del Pd. Deciderò martedì». Cioè, l’ultimo giorno utile, un classico di Renzi.

Corriere 22.6.14
Gradimento record per il premier. Dubbi sull’efficacia del governo
di Nando Pagnoncelli


Dopo i fatidici cento giorni dall’insediamento di un nuovo governo solitamente viene misurato il giudizio dei cittadini sul suo operato.
L’opinione pubblica è molto divisa in proposito. I giudizi positivi prevalgono su quelli negativi riguardo alla riduzione della burocrazia e della spesa pubblica (53% contro 45%), al contenimento dei costi della politica (51% contro 45%) nonché alle riforme costituzionali e alla nuova legge elettorale, sia pure di poco (49% contro 45%). Al contrario prevalgono i giudizi negativi relativamente al contrasto della disoccupazione (i critici sono il 55%, mentre il 42% apprezza quanto realizzato finora) e alla diminuzione della pressione fiscale (58% negativi contro 40% positivi).
Tra gli elettori del Pd, com’era lecito attendersi, le opinioni sono nettamente più favorevoli, con l’eccezione della riduzione delle tasse che vede una polarizzazione dei giudizi. Prevale il segno negativo invece tra gli elettori di Forza Italia e, più marcatamente, del M5s.
Nel complesso il 37% degli italiani ritiene che il governo abbia mantenuto del tutto o in larga misura gli impegni assunti, il 45% pensa che abbia rispettato le promesse solo in minima parte e il 17% è del parere che non le abbia rispettate per nulla. Eppure l’apprezzamento dell’operato di Matteo Renzi si mantiene su livelli molto elevati e trasversali: il 69% esprime un giudizio molto o abbastanza positivo. Il premier è apprezzato da oltre il 90% degli elettori del Pd, da quattro quinti di quelli centristi (80%), da circa tre quarti di quelli di FI (72%) e perfino dalla maggioranza assoluta dei grillini (59%) e degli astensionisti (60%).
Come si spiega questa contraddizione tra l’elevato gradimento del premier e i giudizi non del tutto positivi, quando non esplicitamente critici, nei confronti dell’azione del governo? Da tempo, infatti, i cittadini sono sempre più critici e disillusi, pragmatici, impazienti di verificare i fatti e severi nel giudicare i risultati dell’esecutivo. Eppure non fanno venir meno il sostegno a Renzi.
Ricondurre tutto alla sua conclamata capacità di comunicare appare riduttivo, anche se il linguaggio spigliato e la battuta pronta lo aiutano molto e lo fanno apparire diverso dai politici più paludati e tradizionali, accentuando la distanza tra vecchio e nuovo. Ma la comunicazione non è tutto e la sua efficacia non dipende solo da «come» comunicare, ma da «cosa» comunicare. In tal senso Renzi appare dotato di una non comune capacità di sintonizzarsi con il Paese, «fiutando l’aria», cogliendo il comune sentire, individuando i temi e i toni a cui i cittadini sono più sensibili.
A ciò si aggiunge la grande determinazione e l’assunzione in prima persona della responsabilità del cambiamento. Non a caso una delle sue espressioni più riuscite è «metterci la faccia».
Un ultimo aspetto, non meno importante, riguarda il tipo di relazione che Renzi ha instaurato con i cittadini: è una relazione immediata, cioè non mediata, diretta. Abitualmente quando si utilizza il termine «disintermediazione» si fa riferimento agli atteggiamenti svalutativi espressi da molti cittadini nei confronti dei partiti, delle istituzioni di rappresentanza e di molti dei corpi intermedi della società che, pertanto, appaiono screditati e «delegittimati». Vengono messi in discussione «dal basso». In realtà Renzi sembra adottare lo stesso atteggiamento ma calato «dall’alto».
Emblematico risulta in tal senso il discorso pronunciato al Senato nel giorno dell’insediamento del governo, quando si ha avuto la netta impressione che quanto stava dicendo fosse rivolto non tanto ai senatori in aula ma ai cittadini; e quando mette in soffitta la concertazione e risulta disinteressato al coinvolgimento dei sindacati o delle associazioni imprenditoriali nei processi decisionali mostra di privilegiare la relazione diretta con gli elettori ed è solito utilizzare un’altra espressione-simbolo a fronte del comprensibile risentimento degli esclusi: «se ne faranno una ragione».
La forte empatia con i cittadini sembra metterlo al riparo da possibili rischi di impopolarità. Se le riforme procedono a rilento e il Paese fatica a cambiare, se il Pil stenta a crescere e la disoccupazione a calare, secondo i suoi sostenitori la responsabilità è della burocrazia, di chi si oppone per difendere i propri privilegi o della «palude» rappresentata dalla vecchia politica.
Ed è largamente diffusa la convinzione apocalittica che Renzi rappresenti l’ultima spiaggia per l’Italia e un suo eventuale fallimento determinerebbe il fallimento del Paese. Se il premier incarna l’idea di cambiamento è probabile che la luna di miele con i cittadini sia destinata a durare a lungo, anche in presenza di risultati più modesti di quelli auspicati.

La Stampa 22.6.14
Camusso: “Da Fiat posizione pericolosa”
Il segretario Cgil critica Marchionne: «Bisogna capire il futuro industriale»

qui

l’Unità 22.6.14
Una sinistra post-ideologica
di Michele Ciliberto


Uno dei tratti più tipici della storia italiana è la mancanza di un partito in grado di raccogliere e di organizzare tutte le forze di ispirazione riformatrice. Specie la storia della sinistra storica è punteggiata di divisioni, lacerazioni, contrapposizioni che in alcuni momenti hanno assunto carattere addirittura tragico.
Non che siano mancati tentativi di unificare il fronte riformatore - penso, ad esempio, ai tentativi di un grande dirigente del movimento operaio italiano come Giorgio Amendola -ma in generale sono falliti: sulla esigenza dell’unità è prevalsa sempre la divisione, con la conseguenza che le forze riformatrici non sono mai andate alla guida del Paese, con poche eccezioni.
Sarebbe interessante cercare di capire le ragioni di questa situazione e, certo, fra le altre, bisognerebbe far riferimento al rapporto tra le forze della sinistra riformatrice e lo Stato, sulle tendenze massimalistiche presenti nella loro storia, sulla incapacità di accogliere e far proprio un orizzonte limpidamente riformistico in grado di incidere effettivamente sui rapporti di forza reali nel nostro Paese. Naturalmente occorrerebbe, simultaneamente, fare una analisi altrettanto lucida delle posizioni - e delle ideologie - delle classi dirigenti italiane che in generale hanno scelto, per governare, la strada della forza e non quella del consenso. Nella storia nazionale italiana figure come quelle di Giolitti, De Gasperi o Aldo Moro costituiscono l’eccezione e non la regola - come confermano anche le loro vicende politiche e umane. Prima di essere trucidato dalle Brigate rosse, Moro era stato lungamente in minoranza nel suo partito, dove aveva subito «inutili» (il lemma è suo) prevaricazioni. Forse, per gettare luce su questa lunghissima storia, bisognerebbe concentrarsi in primo luogo su ragioni di tipo materiale, sui caratteri della borghesia italiana, sui suoi limiti strutturali. Ma non è questa la sede per una analisi di questo tipo. Basta ribadire il punto dal quale siamo partiti: l’assenza nella nostra storia di un partito in grado di raccogliere tutte le forze interessate al cambiamento come avviene in altri Paesi europei - un arco di forze necessariamente molto ampio, da quelle di ispirazione più marcatamente moderata a quelle che si rifanno al filone popolare e socialista.
In questo senso, l’orientamento di una parte di Sel a confluire nel Pd a me appare significativo. E non per il numero di quelli che stanno facendo questa scelta, ma perchè essa è sintomo di alcuni processi di fondo che stanno investendo la società italiana e che cominciano a rifrangersi anche a livello di sistema politico. Anzitutto si sta formando nel nostro Paese una sinistra di tipo post ideologico che favorisce la fine di vecchie divisioni e crea le basi di una confluenza delle forze riformatrici in un partito che si definisce sul piano strettamente programmatico, al di fuori quindi di opzioni ideologiche che presso di noi hanno avuto effetti solamente divisivi. In secondo luogo, c’è l’affermazione della dimensione europea come orizzonte imprescindibile, con la crisi e anche la fine di vecchie divisioni, rotture, contrapposizioni che hanno potuto avere senso nella cornice dello Stato-nazione ma perdono qualunque significato considerate dal punto di vista dell'Europa. Essa infatti spinge all’unità, non alla divisione. Infine - ed è il dato forse più importante - c’è la spinta che viene dal profondo della società italiana a superare le barriere delle vecchie storie e a incamminarsi per nuovi sentieri, liberi da pregiudizi di carattere ideologico sentiti ormai come un inutile residuo del passato. Se le consideriamo in prospettiva le ultime elezioni, e la vittoria del Pd, hanno un valore effettivamente periodizzante nella storia della Repubblica. Da molti punti di vista, una nuova storia può effettivamente cominciare . Questo carica di molte responsabilità il Pd che si deve configurare come un moderno partito riformatore di carattere europeo, capace di attrarre nelle proprie fila tutti coloro che sono interessati a una profonda prospettiva di cambiamento del nostro Paese, a cominciare dalle sue classi dirigenti. Un partito plurale, di tipo federale, modernamente interclassista: cioè capace di trovare un punto di convergenza, e di equilibrio, fra gli interessi delle forze che esso sceglie di rappresentare. Forze di area moderata e forze di matrice popolare e socialista. Un partito che individua come propria «ideologia» le politiche riformatrici e le prospettive di cambiamento da mettere in campo per cambiare il Paese.
Certo, un partito di questo genere ha oggi bisogno di un leader, come si è visto anche alle ultime elezioni amministrative. E deve sapersi servire della Rete. Ma necessita anche di forme organizzative flessibili, ricche, articolate e diffuse sul territorio. Machiavelli dice nei Discorsi che il regno è superiore alla repubblica se la moltitudine è disorganizzata; ma se essa si organizza non c’è dubbio sulla superiorità della repubblica sul regno. È vero anche oggi: forse ci sono finalmente le condizioni per costruire quel partito riformatore che è sempre mancato in Italia e che potrebbe contribuire anche a una soluzione in termini bipolari della crisi italiana, aprendo una nuova epoca della nostra storia. I movimenti che si stanno aprendo nel sistema politico sono, forse, un primo indizio di trasformazioni più profonde che iniziano a venire alla luce.

Repubblica 22.6.14
Tre domande al premier sull’Europa, l’Italia e la riforma
di Eugenio Scalfari


COMINCIO con una citazione di papa Francesco dal discorso da lui pronunciato nella chiesa di Santa Maria in Trastevere dinanzi a diecimila persone radunate nella basilica e nella piazza antistante alla Comunità di Sant’Egidio.
Sembrerà una bizzarria tirare in ballo il Papa come “incipit” di un articolo dedicato alla politica italiana ed europea; invece è pertinente a quanto accadenel nostro Paese.
Il Papa, dopo aver a lungo esaminato i problemi della pace, compromessa in molte parti del mondo, ha parlato dei vecchi e dei giovani e ha detto (cito letteralmente perché l’ho scritto mentre Francesco parlava): «I vecchi hanno memoria di quanto è accaduto durante la loro vita ed esperienza di quanto hanno personalmente vissuto. Quella memoria e quella esperienza debbono essere trasmesse alle generazioni di giovani venute dopo di loro. Se quella trasmissione non avviene, i giovani non saranno creativi. Ci sarà qualche genio che potrà farne a meno ma questo non basta a far proseguire la storia d’un Paese e del mondo».
Non è un programma politico ma un esempio prezioso; non predica l’immobilità della storia, al contrario ne indica la mobilità essenziale affinché la storia si svolga creando nuove situazioni che però non possono essere inventate da marziani sbarcati da altri mondi nel nostro. I vecchi debbono raccontare, i giovani debbono aggiornare e perfino rivoluzionare se fosse necessario, ma partendo dal racconto del passato, senza il quale non c’è futuro, non c’è vista lunga e si rimane schiacciati sul presente del giorno per giorno.
uesto Papa è molto saggio ed anche molto audace, non solo per la sua Chiesa ma per tutti gli uomini di buona volontà, consapevoli di non essere angeli ma neppure animali.
* * *
Il racconto di queste settimane, visto da un italo-europeo quale sento di essere, ha ancora una volta Matteo Renzi come protagonista. Lo è dal marzo scorso e ne ha fatta di strada nel bene e nel male.
L’ho incontrato il 7 giugno scorso a Napoli al Festival delle Idee promosso ogni anno dal nostro giornale. Era in programma quella mattina un dialogo tra lui ed Ezio Mauro al teatro San Carlo, gremito in ogni ordine di posti e lui con il direttore di Repubblica aspettavano in una stanza vicino al proscenio che si facesse l’ora per cominciare.
Sapendo che anch’io ero in sala mi fece chiamare e li raggiunsi. Abbiamo fatto chiacchiera per una ventina di minuti, poi io sono tornato in sala e loro sul palcoscenico hanno scambiato idee e affrontato i temi d’attualità per oltre un’ora e mezzo.
Racconto questi particolari di scarsa importanza solo per dire che ora lo conosco più di prima e mi è apparso in più giusta luce. Abbiamo anche deciso di darci del tu e chiamarci per nome. Quel pomeriggio scrissi l’articolo pubblicato domenica scorsa e intitolato “Il pifferaio magico di Hamelin”; il pifferaio naturalmente era lui, Matteo. Capace col suono del suo strumento di farsi seguire da chi è stregato dal suo piffero. Talvolta quel corteo di gente affascinata produce risultati ottimi o buoni, talaltra mediocri o cattivi.
Così è la vita, al di là delle intenzioni. Ma un punto voglio qui notare: bisognava nominare il presidente del Partito democratico e dopo rapidi pensamenti Renzi ha suggerito e la direzione unanime approvato Matteo Orfini.
Tutto si può dire di quest’altro Matteo salvo che sia un vecchio che trasmette memoria ed esperienza al Matteo segretario del partito e presidente del Consiglio. Stavolta il pifferaio ha sbagliato e di grosso.
* * *
L’Europa deve rinnovare tutte le cariche in scadenza: il presidente della Confederazione (chissà perché si chiama Unione); il presidente della politica comune verso l’Estero (che non conta nulla perché non c’è stata alcuna cessione di sovranità da parte dei governi nazionali); la Commissione europea a cominciare dal suo presidente; il presidente del Consiglio europeo (che conta poco o niente perché si limita ad emettere qualche parere); il presidente del nuovo Parlamento eletto lo scorso 25 maggio, dove il Partito popolare europeo ha avuto, pur arretrando rispetto a cinque anni fa, la maggioranza relativa: quindi spetta a loro designare il candidato alla presidenza della Commissione che di fatto è il governo dell’Unione sempre che, oltre alla fiducia del Parlamento, abbia quella ben più determinante del Consiglio dei primi ministri membri della Ue.
Juncker era ed è il candidato a quest’ultima carica sempre che abbia la maggioranza assoluta del Parlamento che gli può venire solo da un accordo con il Partito socialista e il «veni mecum» dei governi confederati. Avrà (ormai è certo) sia l’uno che l’altro con l’appoggio risolutivo di Angela Merkel e quello controvoglia dell’inglese Cameron che sembrava deciso a mettere l’ultimatum contro Juncker minacciando l’uscita dall’Unione. Ora pare ci abbia ripensato ottenendo qualche compenso politico e qualche carica ambita nella Commissione.
Il candidato socialista per la presidenza della Commissione era Schulz, ma ha fatto buon viso restando presidente del Parlamento. Si deve ancora trovare il nome del presidente della Ue al posto di Van Rompuy; al Consiglio d’Europa, su proposta del nostro Renzi, andrà una dinamica finlandese. I nomi dei membri della Commissione sono ancora tutti da fare. Uno spetta certamente all’Italia ma non si sa quale e chi sarà.
Ma lo sceglieranno i governi o il Parlamento? Questo ora è il breve tema che bisognerebbe discutere; ma in realtà nessuno ha voglia di farlo salvo forse Schulz.
Eppure è un tema fondamentale: il Parlamento, eletto dai cittadini europei, ha una sua sovranità, sia pure mediata con i governi degli Stati membri, oppure è un simulacro i cui sì o no contano come il due di picche? Cameron ovviamente non vuole un Parlamento sovrano. Idem la Francia e così gran parte dei paesi confederati. E l’Italia? Vuole o no perseguire, sia pure gradualmente, le cessioni di sovranità politiche oltreché economiche? E la Germania?
La Germania è consapevole che, fin quando l’Europa non sarà uno Stato federale, i suoi staterelli - Germania compresa - saranno politicamente e quindi anche economicamente irrilevanti. Ma ha bisogno di tempo e di gradualità.
L’ostacolo inglese è insormontabile. Quello francese anche, almeno per ora.
Ma l’Europa così com’è non ha destino. Cito ancora papa Francesco di domenica scorsa: «L’Europa è stanca, bisogna che i suoi cittadini tornino a sperare».
Giusto, ma i suoi cittadini non contano niente e il Parlamento che hanno eletto conta assai poco. Quindi emergono a Strasburgo minoranze tutt’altro che irrilevanti di xenofobi, reazionari e ultranazionalisti.
L’Italia, attraverso la clamorosa vittoria del nostro Pd il 25 maggio, ha nettamente aumentato il suo peso sia nel Partito socialista europeo sia nel concerto dei governi confederati. Dunque mi chiedo (e lo chiedo a Renzi se avrà l’amabilità di rispondermi): l’Italia che avvenire vuole per l’Europa e come intende perseguirlo?
Sappiamo che cosa vuole oggi Renzi, questo sì. Vuole che la Merkel sia una sua tifosa e questo l’ha ottenuto. Vuole che dia al suo governo maggiore flessibilità per favorire la crescita e l’occupazione. Anche questo obiettivo l’ha ottenuto ma «nel rispetto degli impegni europei». Quindi poca roba. Vuole che la Merkel non stia con gli occhi puntati sul nostro debito sovrano. E va bene, non ci starà.
Però ci starà il Fondo monetario internazionale e anche Juncker e i suoi commissari.
Insomma a giudicare da lontano, non sembra ci sia molta trippa per gatti.
Siamo stati denunciati per infrazione perché paghiamo i debiti nuovi a 90-120 giorni dalle fatture anziché a 30-60 come previsto. Intanto i Comuni e le Regioni aumentano le sovrattasse di loro pertinenza. Ci sono - è vero - segnali di ripresa della produzione; nei consumi ancora no. Aspetta e spera, ma fino a quando?
Comunque il nostro Matteo a Bruxelles sta facendo il possibile. Forse è in Italia che sbaglia.
* * *
Breve premessa. Le leggi di riforma costituzionale dovrebbero essere presentate dal Parlamento e non dal governo perché la competenza in questa caso spetta al potere legislativo e non all’esecutivo il quale, appunto, esegue e non può cambiare le regole. Questa osservazione è attendibile ma non unanime. È invece unanime che su una legge di riforma costituzionale non possa essere chiesta la fiducia del governo. Questo no, è implicitamente esplicito nell’ordinamento costituzionale. Fine della premessa.
Il Senato, secondo gli accordi ormai definitivi tra Renzi, Berlusconi, Alfano e Lega, si dovrebbe comporre di 74 membri eletti dai Consigli regionali, 21 assegnati ai Comuni ma sempre eletti dai Consigli regionali e 5 nominati dal presidente della Repubblica (norma già esistente).
Il Senato dunque rappresenta gli Enti locali negli eventuali conflitti con lo Stato; vigila sui poteri dei suddetti enti e sulla loro efficienza; partecipa - come già avviene - al plenum del Parlamento per le nomine che gli spettano; alla ratifica dei trattati internazionali e alle riforme costituzionali.
Se un terzo del Senato, composto da cento membri, chiede di discutere una legge ordinaria entro dieci giorni dalla sua approvazione alla Camera, la partecipazione è accordata purché entro trenta giorni si arrivi all’approvazione definitiva, altrimenti resterà invariato il testo approvato dalla Camera.
Quest’ultima disposizione è un gioco del pifferaio perché non ha alcun valore pratico. Quanto al resto il Senato della Repubblica cessa di esistere e si instaura un regime monocamerale.
Niente di grave, il monocamerale esiste in molti paesi europei a cominciare da Francia, Gran Bretagna, Germania, dove il cancellierato o la premiership non aboliscono la democrazia. Ma il cancellierato (e il monocamerale altro non è perché i deputati della maggioranza seguono sempre il pifferaio di turno) comporta una riscrittura della Costituzione.
Tanto più quando, con altro provvedimento, il governo legifera sulla messa a riposo anticipata dei magistrati e di conseguenza all’elezione di un altro Csm.
Tutto fa prevedere insomma che i poteri dell’esecutivo aumenteranno; la magistratura e il suo organo di autogoverno ringiovaniranno e l’esperienza dei vecchi sarà anche qui messa in soffitta o in cantina.
Caro Matteo, tu sei bravo e seducente. A volte ottieni risultati utili al Paese, a volte fai errori o persegui il rafforzamento del tuo potere.
Riconosco la bravura, il potere di seduzione, le buone intenzioni. Ma un governo autoritario francamente non lo voglio. Non lo vogliamo.
Quanto al fatto che un Senato vero farebbe perdere tempo prezioso, si tratta d’una totale bugia. Dai dati ufficiali dell’Ufficio del Senato risulta che l’approvazione d’una legge ordinaria avviene mediatamente in 53 giorni (meno di due mesi), la decretazione di urgenza è convertita in legge in 46 giorni e le leggi finanziarie in 88 giorni (meno di tre mesi). Non sono colpe del bicameralismo ma della burocrazia ministeriale i ritardi ed è lì che bisognerebbe colpire. Finora non si è fatto. Il bicameralismo funziona a dovere e i ritardi non provengono affatto da lì.

il Fatto 22.6.14
Roma pronta a interrompere la missione di salvataggio dei migranti: mancano gli aiuti europei
di Silvia D’Onghia


Quando guardi l’immagine di quel bimbetto in lacrime - potrà avere due anni al massimo - tra le braccia forti del nostro marinaio, la sensazione che ti consola è quella della sicurezza. Anche gli occhi stanchi di tragedie del mare si affidano a quelle braccia, nella speranza che le bare di Lampedusa siano solo uno sbiadito ricordo di cronaca. Comunichiamo al mondo che salviamo le vite, e lo facciamo attraverso gli occhi di quel bimbo, siriano o profugo di chissà dove, raccolto su una carretta del Mediterraneo e portato a terra da una delle nostre fregate. L’hanno chiamata “Mare Nostrum” quest’operazione, partita a ottobre dopo l’eccidio di Lampedusa, nella speranza che il “nostro mare” scuotesse le coscienze dell’Europa spaventata dalle invasioni dei richiedenti asilo. Non è servito a molto, se anche la cancelliera Merkel ha ribadito che il problema dell’immigrazione è comune, ma nel senso che poi alla fine questi disperati li devono sfamare loro, Germania e Paesi scandinavi.
E ALLORA impallidiscono i 21,440 milioni di euro per il 2014 stanziati da Bruxelles per le operazioni marittime in tutta l’Unione europea di fronte ai quasi nove milioni al mese che il nostro Paese ha speso per salvare le vite dei disgraziati. Oltre 40mila, quelli raccolti e portati sulla terraferma. In sei mesi quest’anno ne sono arrivati quanti tutto il 2013. “E almeno 5mila di loro sarebbero morti”, ha dichiarato l’altro giorno a Malta il rappresentante italiano dell’Unhcr (l’Alto commissariato Onu per i rifugiati), Riccardo Clerici. Nove milioni di euro sono una cifra “non più sostenibile” per il governo italiano, pronto ad abbandonare la nave. Anzi, le navi.
I mezzi della Marina militare suonano imponenti solo a pronunciarli. Una nave anfibia con funzione di comando e controllo dell’intero dispositivo e disponibilità di mezzi da sbarco e gommoni a chiglia rigida. Due fregate classe Maestrale, ognuna con un elicottero a bordo. Due pattugliatori. Due elicotteri pesanti. Un velivolo P180, con capacità di dispositivi ottici a infrarosso. Tutta la rete radar costiera della Marina militare con capacità di ricezione dei Sistemi automatici di identificazione delle navi mercantili. Una nave per il supporto logistico e quasi mille uomini impiegati.
E poi c’è l’Aeronautica, che partecipa alla missione con un mezzo a pilotaggio remoto (un Predator), con capacità di ricognizione e sorveglianza aerea per oltre 20 ore consecutive. C’è anche un aereo con equipaggio misto (Aeronautica/Marina) che garantisce il pattugliamento delle aree interessate.
NON RIUSCIAMO a salvarli tutti, non sarebbe possibile. Lunedì scorso, 40 miglia al largo delle coste libiche, sono stati recuperati i corpi senza vita di 10 naufraghi e altre 40 persone risultano disperse. Il 9 giugno, durante una manovra di salvataggio, la scaletta di soccorso di una nave militare buca la camera d’aria di un gommone che si rovescia causando tre morti e due dispersi. E questo solo per ricordare le vittime di giugno (come sempre, il sito Fortress Europe tiene il conto tristemente aggiornato).
I nostri ministri, presenti e passati (da Alfano a Maroni), gridano allo scandalo, perché gli immigrati sono un problema europeo e l’Europa se ne frega, lasciandoci soli ad affrontare il mare. È vero. Ma nessun trattato obbliga Bruxelles a darci una mano. Ed è chiaro che, potendo, i Paesi del nord si girano dall’altra parte, perché il dopo-sbarco è un problema loro. I marinai, tutti, continuano a ripetere che in mare vige la legge del mare, e cioè salvare le vite umane, indipendentemente dal loro colore e dallo Stato in cui vorranno andare a vivere. E poi l’Europa ha già il suo programma, che non si chiama “Mare Nostrum” ma “Frontex” e ha come scopo non il salvataggio , ma il coordinamento del pattugliamento delle frontiere aeree, marittime e terrestri di tutti gli Stati dell’Ue e l’implementazione di accordi con i Paesi confinanti per la riammissione dei migranti respinti. È su Frontex che l’Italia può giocarsela, anche in vista del nuovo assetto europeo e della presidenza, al vertice del 26 e 27, laddove si discuterà di “istituire un sistema europeo di guardie dei confini, per aumentare le capacità di controllo e sorveglianza”. “Uno dei provvedimenti indispensabili - chiederà il ministro Mogherini - è quello di estenderne il mandato, visto che oggi Frontex non può fare salvataggio in mare”.

il Fatto 22.6.14
Corruzione male incurabile ma con sintomi troppo noti
di Furio Colombo


Ci dicono che la corruzione è un male italiano, non esclusivo, certo, ma molto diffuso. Tra Paesi tormentati dal male ci si scambiano informazioni su come scoprire, come colpire, come punire. L’analogia con certe malattie e certe pratiche mediche è inevitabile. Ma, per esempio, ci sono malattie incurabili. La corruzione è incurabile? Le storie che si moltiplicano e continuamente ci vengono incontro, fanno pensare due cose. La prima è che ciò che i giudici scoprono e i giornali enunciano è sempre un meccanismo troppo perfetto per essere un fatto isolato. Evidentemente incappano nella giustizia soltanto alcuni detriti di un immenso fiume in piena che continua a scorrere, nutrendo un’economia ignota, sostenendo masse di italiani che non si vedono (o risultano in altre colone delle statistiche) e sono “criminali” nel senso giuridico della parola soltanto quando sono criminali gli autori e gestori della vicenda a cui partecipano.
ALTRIMENTI si può anche trovare il meglio (di tanto in tanto) di onorate professioni e di cittadini per altri versi eccellenti, esempio molti indagati del Mo-se. Essi certo non erano, non sono tecnicamente criminali. Le cronache ci hanno parlato di risvegli stupiti. “Ricevevo i soldi. E allora?”. Diciamo la verità: tranne un grande pagatore (definito e ammirato come tale anche dalla sua attivissima segretaria) di cui si sarà detto “se paga tanto avrà dei piani”, tutti gli altri appaiono come dei maxi dirigenti la cui remunerazione (stipendio regolare più tot) viene improvvisamente messa in discussione dai giudici tra lo stupore di tutti. Li vedi mentre guardano cronisti e poliziotti al momento della retata e sembrano sul punto di chiedere alla gente che si è radunata: “Perché?”.
È chiaro che tutti si sentivano assunti, apprezzati e valutati -nell’ambito della grande opera - per il valore aggiunto che ciascuno portava a quel progetto due volte benefico: perché riceveva (molte presenze di valore) e perché dava in modo francamente confortante: “Pagano così perché valgo”. Se esistesse un film dei giorni prima delle indagini, voi non vedreste persone che si allontanano furtivamente guardandosi le spalle, ma piuttosto padri e mariti, pronti con figli, cani e compagne a un gradevole fine settimana compiacendosi ad alta voce: “Anche questa volta abbiamo fatto un buon lavoro”.
Molte volte senti dire che la lotta alla corruzione si fa nelle coscienze ed è un percorso culturale. Temo che, a questo punto, il danaro sia troppo, la distribuzione troppo diffusa, la cultura offuscata. Nessuno si risveglia da solo, e non restano che le indagini. Ma le indagini, per forza, cominciano sempre dopo e colpiscono sempre la coda dei grandi fenomeni di corruzione già avvenuti. È chiaro che è necessario imparare a farsi domande molto prima, e a interpretare come indizi fatti che invece vengono scambiati per necessarie scelte politiche. Per esempio un bel numero di “grandi opere”, viste e volute (ma solo da alcuni, non dai cittadini) con troppa ostinazione, immensi e costosi manufatti troppo ovviamente inutili, in luoghi senza domanda, e sempre improvvisamente trasformati da opzione imprenditoriali a doveri per l’Italia. È accaduto e continua ad accadere.
Ma adesso c’è una Authority contro la Corruzione. Potrà, per esempio, formulare domande che, se fatte in tempo, possono contenere rivelazioni essenziali. Immaginiamo che ci sia una “grande opera” che si dichiara privata ma è stata, ed è tuttora, l’impegno principale di ogni ministro di ogni partito che si alterni negli anni alle Infrastrutture.
Per esempio un’autostrada in luogo non necessario, non richiesto dai cittadini e che richieda il taglio in due di un intero paesaggio. Il progetto è privato. Ma quanti governi di partiti diversi si sono alternati confermando sempre la necessità dello stesso progetto? Ci sono politici che, dall’impresa in questione, sono passati in politica, o politici, responsabili del settore, che siano diventati dirigenti dell’impresa privata che cova la grande opera? È accaduto che, a un certo punto, la grande opera, che era l’impegno di un progetto aziendale, sia improvvisamente diventata bandiera di un partito o magari dei due maggiori partiti contrapposti in quanto “bene del territorio” o “indispensabile alla Nazione”?
Significa niente se il ministro delle Infrastrutture, chiunque sia negli anni, non risponda mai a domande, anche precise e circostanziate , sulla “grande opera” in discussione? Fa differenza se il politico diventato manager quereli prontamente chi ricorda il passaggio dalla vita politica a quella manageriale, ed esiga un risarcimento sproporzionato, visto che in tal modo ammonisce tutti gli altri cittadini a non provarci? Cambia qualcosa se l’impresa privata in questione sia diventata titolare della costosissima “grande opera” senza gara e mantenga la sua esclusiva, senza gara, nei decenni? Dovrebbe attrarre attenzione che per tutti i lavori finora iniziati intorno alla grande opera, si siano moltiplicati gli appalti sempre senza gare, violando le norme europee? Fa differenza se la società è privata ma dispone di un sostegno rapido, immediato, completo, multipartito, nelle commissioni parlamentari, nelle aule delle due Camere, nelle Conferenze dei Servizi e nelle rapida puntuale, ripetuta convocazione del Cipe, ogni volta che c’è da ratificare un cambiamento di progetto?
NIENTE DA DIRE se un’antica strada romana viene scelta dalla azienda privata come percorso della sua nuova autostrada, e lo Stato la dona senza ragioni e senza condizioni? Che sintomo è che la società privata, che aveva promesso orgogliosamente il completo autofinanziamento (sia pure dopo avere avuto un immenso territorio in regalo) improvvisamente esiga soldi pubblici (come gli avversari avevano predetto rischiando querele) per molte decine di milioni (ai nostri giorni)? Sappiamo che si tratta di un fervido incrocio di voci, ma sono voci fra sindaci e responsabili locali di tutta l’area invasa dal progetto, però devono essere abbastanza informati se indicano persino la cifra e probabilmente aspettano che qualcuno chieda loro notizie che, per gentilezza dei media, al momento non circolano. È possibile che i cittadini italiani e i nuovi guardiani della verifica senza sosta possano accettare di sentirsi dire dal presente ministro Lupi (uno che non risponde a dettagliate e motivate lettere aperte, come quella, sul Fatto Quotidiano di Nicola Caracciolo) che “le grandi opere non si possono fermare”, come se si discutesse del destino e non del governo?

l’Unità 22.6.14
Le truppe scelte dell’evasione Quei milionari privi di reddito
Il Paese vive su un’enorme montagna di evasione e di elusione, una fuga dai controlli che spazia dallo scontrino illegale a chiare forme di criminalità


Periodicamente le Fiamme Gialle diffondono bilanci dettagliati delle attività antievasione sul tutto il territorio italiano. Ed è sempre sconcertante verificare quanta parte della ricchezza nazionale venga nascosta e sottratta al fisco, così compromettendo la tenuta del nostro sistema tributario e distorcendo l’intera economia reale. Solo nel corso dei primi cinque mesi del 2014, ad esempio, la Guardia di Finanza ha recuperato oltre 10 miliardi di evasione fiscale internazionale, ha scoperto frodi, truffe e sprechi di denaro pubblico per 2,1 miliardi ed appalti irregolari per 1,1 miliardi, ha denunciato 1.435 responsabili di reati contro la pubblica amministrazione, ed ha smascherato 3.070 evasori totali.
IL GEOMETRA E IL PENSIONATO
Ma più dei numeri, la cui incidenza è comunque parziale rispetto all’enorme montagna di nero su cui si reggono i pilastri meno nobili di questo Paese, sono le storie dei personaggi che in modo più o meno fantasioso sono finora sfuggiti al fisco a raccontare le dimensioni del fenomeno evasione. E le distorsioni sociali ed economiche che si porta dietro. Esemplare, da questo punto di vista, è il caso del nullatenente geometra 64enne romagnolo che all’erario avrebbe nascosto 1,15 milioni di euro, tra appartamenti, terreni, conti correnti, auto e moto. Oppure quello del povero pensionato che formalmente risiedeva in Venezuela da quarant’anni, ma che gli agenti hanno scoperto vivere agiatamente a Castellanza, in provincia di Varese: luogo molto più comodo, rispetto al lontano Sudamerica, per svolgere un’attività imprenditoriale nella vicina Svizzera, ovviamente senza pagare un euro di tasse in Italia.
Questa ed altre vicende simili sono emerse grazie al «pieno di interventi voluti dal comando provinciale della guardia di finanza di Varese per individuare i casi di estero-vestizione, ossia della fittizia localizzazione all’estero della residenza fiscale delle persone, siano esse fisiche o giuridiche». Una pratica purtroppo molto diffusa nei territori vicino alla frontiera svizzera, da cui spesso partono i proventi poi depositati a Lugano. Ma se qualcuno si ferma ai Paesi limitrofi, le Fiamme Gialle hanno altresì rintracciato soldi mai dichiarati in Italia anche negli Stati Uniti e in Venezuela.
Raramente l’astuzia e la creatività di chi vuole frodare il fisco si fermano ai confini noti. Non a caso ammonta ad oltre 460 milioni di euro il valore dei beni sequestrati agli evasori fiscali nei primi cinque mesi del 2014. Una cifra che sale fino a 914 milioni, se ai sequestri eseguiti a garanzia della pretesa erariale si aggiungono anche quelli proposti all’autorità giudiziaria. Ancora. Dall’inizio dell’anno la Guardia di Finanza ha recuperato a tassazione 10,3 miliardi di euro sul fronte dell’evasione fiscale internazionale, attuata attraverso la fittizia residenza all’estero, le stabili organizzazioni non dichiarate ed altre manovre ritenute elusive. Ad esempio, solo rispetto a «scatole vuote » e società di carta, le cosiddette frodi carosello, sono state denunciati 193 responsabili con evasione dell’Iva per oltre 235 milioni di euro.
Sul fronte di un’evasione meno fantasiosa, ma certo non meno dannosa, i controlli in materia di scontrini e ricevute - oltre 163mila da gennaio a maggio di quest’anno - hanno riscontrato irregolarità ben nel 32,5 per cento dei casi, portando anche alla scoperta di 9.400 lavoratori in nero irregolari scoperti e alla sanzione di 1.935 datori di lavoro.
CRIMINALITÀ E REATI FINANZIARI
Un capitolo fondamentale delle attività delle Fiamme Gialle riguarda il sequestro e la confisca di beni alla criminalità economica ed organizzata, che ha raggiunto quota 2,8 miliardi di euro. In particolare, dall’inizio dell’anno sono stati eseguiti accertamenti patrimoniali antimafia nei confronti di oltre 5.500 persone che hanno portato al sequestro di beni per 2,4 miliardi di euro, mentre a 413 milioni di euro ammonta il valore dei beni confiscati, quindi definitivamente entrati nel patrimonio dello Stato. La lotta al riciclaggio di capitali sporchi ha poi portato ad individuare 542 milioni di euro oggetto di riciclaggio, a denunciare 717 persone e ad arrestarne 36. Inoltre sono stati denunciati 2.060 responsabili di reati bancari, finanziari, societari e fallimentari, e 257 usurai, di cui 51 tratti in arresto.
Un tema doloroso, molto presente in queste settimane di cronaca giudiziari, è quello degli appalti pubblici: la Guardia di Finanza ha trovato procedure di affidamento viziate per oltre 1,1 miliardi di euro, denunciato 374 responsabili, di cui 34 finiti in carcere. Infine, sono stati segnalati danni erariali da cattiva gestione del denaro pubblico per oltre 1,6 miliardi di euro, con 1.435 denunciati e 126 arrestati.

il Fatto 22.6.14
Franceschini, via i vecchi dai musei
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, non ho capito “l’innovazione” di Franceschini, strano ministro dei Beni culturali, che raramente ha un’idea. Ma questa volta l’idea è di privare gli anziani di sconto o ingresso gratuito nelle visite ai musei. Paghino il prezzo pieno, loro che si sono già goduti la vita, e lascino l’ingresso gratuito a festose scolaresche. Ben vengano le scolaresche. Ma non vedo il rapporto con l’espulsione degli anziani. Quale tribù si è mai comportata così?
Lorenzo

SENZA DUBBIO, l’idea di Franceschini, annunciata con una certa enfasi la sera del 19 giugno, è la combinazione di due cattive idee: la prima è che sia una stranezza unica al mondo riservare un trattamento di favore ai visitatori anziani, aggiungendo l’informazione falsa che nessuno in altri paesi fa sconto agli anziani o li ammette gratuitamente. La seconda è di aprire gratis ai bambini, ragazzi e giovani, senza stabilire un piano, un modo, un giorno, un tipo di accordo che raduni orde di bambini guidati (succede) da cattivi insegnanti, che impediscano la visita calma, accurata, a prezzo pieno, di tanti adulti che, per ragioni di vero rapporto con la cultura e l’arte, si muovono dal mondo per vedere tesori italiani. A qualunque persona sensata appare evidente che non c’è relazione fra ingressi scolastici gratuiti e cacciata degli anziani. Ma il senso stravolto e furbesco di questa decisione diventa dolorosamente chiaro quando la trasmissione “Tutta la città ne parla” di Radio Tre (giugno 20) apre con il messaggio di una persona indignata e offesa (anziana, naturalmente) che, in modo logico e motivato, spiega l’immoralità dell’idea Franceschini, (un minuto e venti secondi). E poi siamo costretti ad ascoltare, per quasi venti minuti, la mega-burocrate Anna Maria Buzzi, entusiasta seguace del suo ministro. La signora dei Beni Culturali rende omaggio al suo ministro con la bugia più diffusa, in tutte le epoche e partiti e governi degli ultimi venti anni: “Finalmente facciamo come l’Europa”. Non era vero quando te lo dicevano per la separazione delle carriere dei magistrati, non è vero quando te lo dicono sulla questione del Senato. E non è vera la seguente affermazione, tranquillamente ripetuta dalla signora Buzzi, senza essere incrociata da alcuna correzione. Ha detto: “Non esiste nel mondo alcuna riduzione o ingresso libero per gli anziani nei musei”. Il servizio reso della funzionaria al suo ministro è stato tristamente facilitato dal giornalista ospite, che non l’ha mai interrotta benché le affermazioni fossero prolungate molto al di là del formato della trasmissione, e vistosamente non vere. Esempio uno: Al Metropolitan Museum di New York non esiste una tariffa di ingresso. La persona allo sportello ti chiede quanto vuoi o puoi contribuire per la tua visita. Esempio due: al Guggenheim Museum il giovane o la ragazza della biglietteria ti presentano, per far prima, una lista plasticata: Sei in una di queste categorie? Si va dai disabili agli anziani ai bambini sotto un certa età, alle persone che, pur camminando, hanno bisogno di un’altra persona accanto. Leggendo la lista, la persona indica il suo caso o paga il prezzo pieno. Altri Musei, come il Moma (Museum of Modern Art) riservano gli sconti all’amplissimo pubblico dei sostenitori con tessera - abbonamento. Non è uguale il costo di un abbonamento al Moma, dipende dall’età (sia in basso che in alto), dalla scuola, da fatti professionali (sei un artista?), dalla condizione di disabile. I musei inglesi sono tutti gratuiti. Gli sconti del Louvre per età, disabilità o scuola, dipendono dall’iscriversi ad associazioni che trattano e organizzano le visite, l’orario delle visite, e le condizioni speciali. In definitiva Franceschini e la sua funzionaria hanno torto in modo ovvio e sgradevole. Solo nella Germania degli anni Trenta fare spazio ai ragazzi voleva dire togliere di mezzo i vecchi. Ma lo spettacolo più triste è stato il libero comizio pro-ministro della funzionaria dei Beni Cultuali E il silenzio (forse obbligato) del giornalista Rai, di solito bravo, che conduceva la trasmissione.

Repubblica 22.6.14
Tagli ai finanziamenti e pubblico in calo la notte della cultura
di Luisa Grion


ROMA. Questione di soldi, certo, ma anche di una mentalità che stenta a cambiare. La crisi economica sta soffocando la cultura: lo Stato taglia gli investimenti, i privati lesinano i fondi, l’offerta langue e il pubblico scema. Si va meno al cinema, si trascura il teatro, resistono - a sorpresa - solo i concerti di musica classica. Per il secondo anno consecutivo - e dopo dieci d’ininterrotta crescita - calano i consumi culturali degli italiani. L’ultimo rapporto Federculture (l’associazione delle aziende pubbliche e private che operano nel settore) mette in fila una lunga serie di numeri negativi, ma ce n’è uno, positivo, che dimostra che non tutto è ineluttabile: il pubblico è tornato alla musica classica, la fruizione ai concerti è aumentata - fra il 2012 e il 2013 - del 16,7 per cento. «Merito della gestione dell’offerta » spiega Roberto Grossi, presidente di Federculture «il mondo è cambiato, è finito il tempo in cui la cultura poteva vivere d’investimenti pubblici. A livello nazionale il consumo di musica classica è aumentato non solo perché il pubblico che l’ascolta ha maggiore disponibilità economica, e quindi risente meno della crisi. Ma anche perché molte fondazioni liriche e sinfoniche hanno ampliato l’offerta, hanno sviluppato la stagione estiva, hanno proposto pacchetti di biglietti. In altre parole hanno sconfitto la crisi con scelte gestionali: è un modello che dovrebbe essere importato in tutto il settore». Una felice eccezione perché nella maggior parte dei casi - scrive Grossi nella prefazione al rapporto - «crollano gli investimenti, la politica culturale stenta a decollare, ma permane inossidabile il peso di un apparato burocratico sempre meno efficiente e produttivo». Musica classica a parte, la crisi ha fatto cadere la domanda: nel 2013, rispetto al 2012, la vendita dei biglietti teatrali è diminuita dell’8 per cento, gli ingressi a mostre e musei del 7,5, le presenze al cinema del 5,6 per cento. In calo anche la lettura, già non brillante: nel 2013 le persone con oltre 6 anni d’età che nel corso dell’anno hanno letto almeno un libro sono diminuite del 6,5 per cento. La crisi economica pesa: l’anno scorso la spesa delle famiglie italiane per attività culturali e ricreative è stata pari a 66,6 miliardi, per una media mensile di 225 euro. Il 3 per cento in meno rispetto al 2012 che già aveva tagliato il 4,4 per cento rispetto al 2011. Pesano anche i tagli agli investimenti pubblici e privati: gli stanziamenti a favore del Ministero dei beni culturali sono diminuiti negli ultimi dieci anni del 27,4 per cento e un ulteriore calo del 3 è messo in conto per il prossimo trennio; gli investimenti che i Comuni dedicano alle attività culturali fra il 2011 e il 2012 (ultimi dati disponibili) hanno subito un taglio del 9,4 per cento, quelli delle Province del 25. Ma le cose non vanno meglio sul fronte privato: fra il 2008 e il 2013 le sponsorizzazioni sono diminuite del 41 per cento, anche se si segnala una lieve ripresa negli ultimi mesi, le fondazioni bancarie hanno stretto i cordoni della borsa (meno 9 per cento fra il 2011 e il 2012), le erogazioni da parte di persone, imprese o enti sono crollate del 26,6. Ma visto che il Paese riparte solo se riparte la cultura - sostiene il rapporto - «lamentarsi non basta». Federculture propone un rilancio in tre punti: investire sulla scuola; migliorare l’offerta grazie ad una netta svolta gestionale; favorire la spesa delle famiglie incidendo sul fisco

La Stampa 22.6.14
Yara e le altre
Rosa, Olindo e gli altri
Quelle confessioni mai rese
Tra vergogna e calcolo processuale, l’arte di negare l’evidenza
di Marco Neirotti


Nel reticolo di dolori che percorre l’indagine sulla fine di Yara lascia due gocce di stupore e di tenerezza la voce della madre di Giuseppe Bossetti, in carcere perché accusato dell’omicidio: «La scienza ha sbagliato». Difende il figlio, la famiglia di ieri e di oggi, il proprio passato e il proprio onore.
L’ostinato negare è una costante del processo, per innocenza o per fede nell’effetto del dubbio, per un attimo d’ombra della mente o per vergogna sociale.
L’Italia televisiva ha seguito - spaccata in due certezze opposte - la tenacia dolorosa, le lacrime talora strazianti talora invadenti di Annamaria Franzoni, accusata d’aver ucciso il 30 gennaio 2002 a Cogne il figlio Samuele e condannata a 16 anni dalla Corte di Cassazione nel 2008. Annamaria ha sostenuto la propria innocenza durante l’indagine, poi in aula, su tutte le reti televisive. Si è sottoposta a diverse perizie e una di queste, pur non incidendo sul giudizio attraverso una seminfermità o una infermità temporanea, ha avanzato la possibilità di uno «stato crepuscolare», un disturbo della coscienza al momento del fatto, diverso dalla rimozione. Ma lei stessa ha rifiutato sempre di rifugiarsi in un vizio di mente.
Hanno ammesso durante un interrogatorio ma hanno poi ritrattato e negato per tutte le fasi del processo Olindo Romano e Rosa Bazzi, ai quali la Cassazione nel 2011 ha confermato l’ergastolo per la strage di Erba dell’11 dicembre 2006 che a colpi di spranga e coltello lasciò a terra morti la vicina di casa, il suo bambino Youssef e la nonna, una coinquilina e, ferito alla gola, il marito di lei. Olindo e Rosa furono oggetto di un’indagine minuziosa, il castello dell’accusa costruito senza porre al centro la confessione che l’imputato sostenne d’aver rilasciato dopo un lavaggio del cervello operato dai carabinieri sfruttando la esasperata e disperata simbiosi del rapporto di coppia: stare insieme sempre o salvare almeno Rosa.
Omicidio colposo (sei anni) e favoreggiamento (due anni) arrivarono in un ultimo grado nel 2003 a Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro per l’omicidio di Marta Russo, studentessa ventiduenne all’Università La Sapienza di Roma, raggiunta da un colpo di pistola in un vialetto della Cittadella. Dopo ipotesi su una strategia del terrore, all’incrocio di perizie, a ricostruzioni con apparecchiature sofisticatissime si sposavano le testimonianze di studenti che sostenevano d’aver sentito più volte i due, ricercatori dell’ateneo, teorizzare il delitto perfetto. Nell’inseguirsi di interrogatori, di personaggi anche di spicco ritenuti possibili colpevoli di favoreggiamento, Scattone e Ferraro negarono sempre con assoluta determinazione.
A Torino, nel maggio 1996 scomparve Marina Di Modica, 39 anni, logopedista. Scartato subito un allontanamento volontario senza la più flebile ragione, gli inquirenti concentrarono l’attenzione sull’uomo con il quale aveva un appuntamento, il filatelico quarantenne Paolo Stroppiana. Della donna nessuna notizia, su di lui sempre più riscontri di quelle che apparivano cascate di menzogne e - come ora, su altri versanti, per i Bossetti - crescenti verità private. Dopo cinque processi (il primo nel 2006) Stroppiana, che continua a negare, riceve in Cassazione la conferma della condanna a 14 anni (tre condonati) pur nell’assenza del corpo della vittima (nello stesso periodo scomparve ancora a Torino Valentina, transessuale il cui cadavere fu fatto ritrovare dallo stesso assassino, Roberto Prinzi, soltanto dopo la condanna definitiva).
Anche i nomi della cronaca più recente si muovono tra accuse e dinieghi totali, come nei casi di Meredith, Sarah Scazzi, Melania Rea, per i quali manca la parola ultima. Oggi è spesso elemento importante, spesso fondamentale il Dna, si impone la scienza cui non crede la madre di Bossetti: «La scienza sbaglia». Le fa eco l’incredulità a doppio binario del figlio, che ricusa i laboratori laddove indagano la macchia per lui inspiegabile sui leggins di Yara, ma sgomento ne riceve il responso quando gli rivelano il più intimo dettaglio d’inizio della sua storia.

il Fatto 22.6.14
“Jihad come anti-depressivo” Gli spot della Guerra Santa
L’ISIS recluta giovani arabi in occidente. Ed è ormai divenuto un brand
di Giulia Merlo


La guerra santa degli anni Dieci è diventata un brand, e non è mai stata così seducente. Ha i suoi fan, viene finanziata e sponsorizzata sui social network e soprattutto ha il suo logo: Isis, scritto in arabo a caratteri bianchi su fondo nero. Il suo richiamo sta diventando pericolosamente irresistibile per i mussulmani di seconda generazione, cresciuti in Occidente e per questo più sensibili al messaggio antico della Jihad se filtrato in chiave pop.
“There is no life without Jihad”, non c’è vita senza la Jihad, è il titolo di un video di 13 minuti diffuso su Youtube, in cui compaiono 3 giovani combattenti inglesi e spiegano le ragioni della loro scelta di unirsi ai guerriglieri dell’Isis. Sono nella foresta, con il kalashnikov appoggiato alla spalla e la barba ancora corta sul viso. Parlano in inglese, con gli occhi puntati alla telecamera e si rivolgono ai loro coetanei musulmani nel Regno Unito: “Lasciate i vostri grassi lavori, la vostra grande auto”. E aggiungono: “La cura della depressione è la Jihad. Venite a provare l’onore che stiamo provando noi, venite a provate la gioia”. Tradotto: la guerra cura tutto e fa sentire vivi, elimina quell’invenzione moderna che è la depressione, una malattia dell’Occidente molle, pigro e drogato di ricchezza.
UNA SFIDA LANCIATA all’Occidente, spiegata nella sua lingua e con i suoi stessi codici di comunicazione, che è ancora più forte se a lanciarla è un ventenne musulmano cresciuto a Cardiff, che fino a qualche mese prima voleva diventare un medico ed era stato accettato da 4 università, come racconta il padre disperato.
E sembra davvero un’altra epoca, quella delle riprese sgranate di Osama Bin Laden diffuse da Al Quaeda e trasmesse da Al Jazeera, buie e con l’audio scricchiolante. Allora, il destinatario era l’Occidente, il nemico da intimorire con un leader fantasma di cui bisognava dare prova dell’esistenza. Oggi, Al Quaeda è quasi scomparsa e i video dell’Isis sono girati con telecamere ad alta definizione, nitidi, sottotitolati e dati in pasto ai media mondiali attraverso i social network.
Ma soprattutto, i destinatari di questa massiccia campagna di comunicazione sono i musulmani stessi, quelli trasferiti in America e in Europa e che imborghesiscono cullati dal consumismo. L’obiettivo: richiamarli alle armi a combattere per l’Islam oppure convincerli a finanziare la guerra santa, per creare un grande Califfato islamico che si estenda dall’Iraq alla Siria.
E sembra che la campagna pubblicitaria sia riuscita: secondo fonti internazionali, il “brand” Isis è il nucleo terroristico più ricco del mondo e anche quello che ha ingaggiato il maggior numero di combattenti non iracheni, con oltre l’80% di reclute straniere. Gli jihadisti europei sono già circa 2.300, buona parte dei quali originari di Francia e Regno Unito. 30 di loro vengono anche dall’Italia e almeno 8 sono già morti in Siria, come ha riferito il ministro dell’interno Angelino Alfano.
L’ATTIVITÀ MEDIATICA e sul web di Isis continua a crescere, con trovate sempre più simili a quelle dei marchi delle grandi aziende, che cercando di rendere virale la pubblicità del loro prodotto. L’ultima, in ordine di tempo, è il tweet bombing con l’hashtag #AllEyesOnISIS (tutti gli occhi puntati su Isis). Il blitz telematico lanciato dall’Isis attraverso il suo sito internet ha chiamato a raccolta migliaia di cybersupporter della Jihad, che hanno inondato il social network con tweet di sostegno ai terroristi. I messaggi provengono da tutto il mondo, dall’Italia all’Australia fino al Nepal. La maggior parte sono in inglese, spesso aggiungono anche una foto con il simbolo dell’Isis, e sembrano messaggi da cartolina delle vacanze più che attestati di partecipazione a una guerra religiosa che ha già provocato migliaia di morti. Uno di questi, proveniente da @truthsMaster residente a Roma, dice solo “supporto da Roma!!!”, con la foto del Colosseo e davanti un cartello scritto in arabo. Oggi, la guerra santa si combatte anche con lo smartphone.

Corriere 22.6.14
Yasmina Khadra: «E’ il suicidio di una generazione L’Occidente ha creato solo caos»
intervista di Francesco Battistini


Yasmina Khadra, fra Iraq e Siria sta nascendo una specie di Jihadistan?
«No. Per quanto pericoloso, il jihad è un fenomeno limitato nel tempo. La gente che l’ha scelto è gente che nel suo Paese non aveva via d’uscita, futuro. E’ il suicidio entusiastico d’una generazione intera di giovani arabi senza più sogni, trasformati nella peggiore mostruosità».
Questi dell’Isis sembrano perfino peggio di Al Qaeda...
«Io non vedo differenze: l’unica è che questi hanno acquisito esperienza attraverso le guerre. Ma la dottrina, l’obbedienza, la volontà di fare del male sono esattamente le stesse. Forse, prima non conoscevano le reazioni e i punti deboli dell’Occidente. Oggi, li hanno scoperti. E sono loro a imporre il gioco al mondo».
E’ lo scontro finale tra sunniti e sciiti?
«Non è ancora la guerra mondiale dei musulmani. Quest’offensiva irachena non accende gli animi, perché è una rabbia che non ha seguito nelle idee. Il progetto del califfato è utopico. E la capacità di resistenza è comunque minima, di fronte all’arsenale dell’Occidente. Tutto quel che fanno i jihadisti serve solo a preparare la controffensiva occidentale».
Se c’è uno scrittore che anticipò il disastro iracheno, e poi lo descrisse con «Le sirene di Bagdad», è questo ex ufficiale algerino che si chiama in verità Mohammed Moulessehoul e che tanti anni fa rubò alla moglie il femminile nom de plume Yasmina Khadra (gelsomino verde), per evitare la censura dei suoi generali. Da militare in congedo, Yasmina non si stupisce troppo dei fantaccini iracheni in rotta: «Quello non è più l’esercito iracheno: un esercito, non lo metti in piedi in cinque anni. Quello vero è scomparso nel 2003. Il problema è che molti militari di allora stanno coi ribelli. E oggi abbiamo i vecchi ufficiali addestrati da Saddam contro i nuovi pagati dagli americani. E’ difficile che questi pivelli tengano testa a combattenti più esperti e motivati». Anche il nuovo romanzo di Khadra, «Gli angeli muoiono delle nostre ferite» (Sellerio editore), attraversa un’Algeria fra gli anni 20 e 40 che spiega molto delle tensioni di oggi fra Occidente e mondo arabo: «Mi sono chiesto se quel mondo uscito dalla Grande guerra non avesse un po’ cambiato le mentalità, se la gente non avesse cominciato a trovare un po’ più preziosa la vita. La risposta è no: le guerre, allora come oggi, non rendono più intelligenti le persone».
In questo infinito dopoguerra, molti se lo chiedono: non era meglio tenersi Saddam?
«Certamente sì. Se tu America hai una politica e non sai come farla, se ignori la cultura altrui e vuoi dare lezioni di modernità a gente che non ne ha bisogno, se vai a occupare per ritirarti subito, beh, non hai più il diritto di dare la democrazia agli altri. Se la Coalizione fosse davvero intervenuta in Iraq per farla finita con un tiranno, io avrei applaudito. Ma sono venuti a seminare il caos, se ne sono andati e hanno lasciato un popolo abbandonato a queste atrocità. L’unico che ha titolo di decidere la propria sorte e di rovesciare un tiranno, è il popolo. Non c’è bisogno d’un Robin Hood, d’un Tarzan o d’un Terminator. Qualche mese prima della Libia, m’intervistò Der Spiegel : voi andrete a rovesciare un dittatore, dissi, a distruggere un Paese perché avete già in mente i progetti per ricostruirlo, ma non troverete più niente da ricostruire perché la Libia è un Paese tribale e sarà spezzettata, come l’Iraq. Gli occidentali calcolano sempre l’arsenale del nemico, non si chiedono mai che cosa pensi: mentalità, cultura, tradizione, cose essenziali che pesano più delle armi che ha».
Tony Blair non si pente: fosse per lui, bombarderebbe ancora...
«Tutti cercano di giustificare un crimine, per addomesticare i rimorsi. Ma a un leader oggi si chiede la capacità di testimoniare quel che dice: se un giorno i Blair manderanno i loro figli a combattere in terra straniera, forse comincerò ad ascoltarli. E’ venuto il momento di non dare più retta ai politici, ma ai poeti. E il poeta dice che c’è un’unica causa suprema: il diritto alla vita e continuare a vivere, malgrado tutto».
E’ per questo che lei s’è candidato contro Bouteflika, alle ultime presidenziali algerine?
«E’ perché amo il mio Paese: se oggi ne sono emarginato, è perché mi rifiuto d’abbandonarlo. Quando hai fatto otto anni di guerra — queste mani che vedi, e che oggi scrivono, hanno portato dei neonati assassinati —, allora ti senti in colpa. Ti chiedi: perché sono morti gli altri e tu no? E’ l’unico modo che ho di meritarmi la mia sopravvivenza. Forse dipende dall’essere nato nel Sahara: noi del Sahara siamo gente mistica. Da noi, la mancanza di rispetto verso il prossimo è mancanza di rispetto verso Dio. Perché l’essere umano è il capolavoro di Dio».
L’Algeria è stata la prima a finire nel caos jihadista e la prima a uscirne...
«Siamo stati sotto embargo, sono morti 15 mila soldati e 200 mila civili, c’è stato un milione di vittime fra desaparecidos, orfani, vedove... Cifre irachene. Nella lotta al terrorismo, americani ed europei oggi non hanno la nostra stessa capacità ed esperienza. L’esempio algerino sta nel fatto che, dagl’integralisti, ci siamo difesi da soli. Senza aiuti o coalizioni».

Repubblica 22.6.14
Errori e incidenti, il flop dei droni americani
di Alberto Flores D’Arcais


NEW YORK. Si sono schiantati in 400, in ogni parte del mondo. Per guasti o cattivo funzionamento, per errori umani o semplicemente per il maltempo. I droni, gli aerei senza pilota orgoglio dell’esercito Usa (e della politica estera militare di Obama), finiscono nel mirino del Washington Post, che in un lungo reportage (due puntate e un anno di lavoro dei reporter) riassume 50mila pagine di indagini, inchieste e documenti vari, sugli innumerevoli incidenti - quasi sempre sconosciuti - che hanno visto come protagonisti i grandi o piccoli aerei che hanno ridisegnato la guerra al terrorismo.
Fra un anno negli Stati Uniti entra in vigore la nuova legge che regolarizza l’uso commerciale e civile di droni. Il boom di vendite (ed uso) è scontato, con le grandi società che si scontrano nel nuovo ricco mercato (Google ha soffiato a Facebook la Titan Aerospace, la società del New Mexico che produce aerei senza pilota in grado di volare per anni) e i singoli cittadini pronti a farsi il proprio drone personale per gli usi più diversi. Con conseguente allarme, cosa succederà nei cieli degli States ?
Ecco allora rivelato il lungo elenco di incidenti, distruzioni ed errori, nei teatri di guerra ma anche negli Usa (durante esercitazioni e addestramenti). Droni militari che hanno finito anzitempo il loro volo sbattendo su case, fattorie, piste, autostrade, corsi d’acqua, senza fare morti ma con costi di milioni e milioni di dollari. Catastrofi sventate per pochi metri o pochi secondi, sempre per una gran botta di fortuna. C’è quello caduto in Pennsylvania l’aprile scorso a pochi passi dal parco giochi di una scuola elementare, pochi minuti dopo che i bambini erano usciti per tornare a casa; c’è quello precipitato nello Stato di New York e affondato nelle acque del lago Ontario; c’è quello schiantatosi nel Maryland provocando un incendio.
Moltissimi, la stragrande maggioranza, si sono persi nelle operazioni di guerra (Iraq e Afghanistan) e operazioni contro Al Qaeda e altri gruppi del terrore (in Yemen, in Africa). Diversi sono semplicemente scomparsi, qualcuno senza una plausibile spiegazione. Non mancano gli errori umani, come quando il ‘pilota’ di un Predator dalla sua base in Afghanistan ha premuto il tasto rosso sbagliato sul joystick facendo fare all’aereo un testacoda. Errori umani che possono costare vite umane e milioni di dollari (3,8 quelli buttati per un drone armato con missili Hellfire).

La Stampa 22.6.14
Terrorismo e giustizia
Londra rivive i fantasmi della sporca guerra all’Ira
Morto Gerry Conlon, 15 anni in carcere da innocente: la sua vita divenne un film
di Alessandra Rizzo

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La Stampa 22.6.14
Amos Gitai, regista, sceneggiatore, attore e architetto israeliano, 63 anni
“Israele deve trovare un senso oltre la Shoah”
Il regista e il suo prossimo film: «Tzili», dal racconto di Aharon Appelfeld
intervista di Alain Elkann

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Corriere 22.6.14
I presbiteriani Usa boicottano Israele
di Guido Olimpio


WASHINGTON — Le organizzazioni ebraiche americane le hanno provate tutte. Appelli, una lettera firmata da 1.700 rabbini in rappresentanza di cinquanta Stati, l’offerta di un incontro con il premier israeliano Bibi Netanyahu. Non è servito. La Chiesa presbiteriana Usa ha deciso di disinvestire i propri fondi da tre grandi società Usa che forniscono materiale usato da Israele nei territori occupati. Una mossa forte: sono circa 21 milioni di dollari garantiti a Motorola, Caterpillar, Hewlett-Packard.
Il movimento protestante è arrivato al verdetto dopo discussioni per nulla distese in quanto una parte era contraria. Una spaccatura evidenziata dal voto finale: 310 contro 303. Inevitabile che fosse così, visti la sensibilità del tema e il confronto andato avanti per molto tempo negli Usa ma anche all’estero. In Europa, altre chiese protestanti hanno adottato la stessa iniziativa mentre in America già un paio di anni fa c’era stato un primo tentativo, ma che era poi rientrato.
I presbiteriani, convinti che debba essere aperta una breccia che porti finalmente ad un negoziato vero, hanno elaborato la loro posizione fissandola in un documento approvato dall’assemblea. Questi i punti: disinvestimento delle risorse dalle compagnie che di fatto aiutano a mantenere l’occupazione; riconoscimento del diritto di esistere per Israele; soluzione dei due Stati, con quello palestinese al fianco dell’israeliano; azione per migliorare la vita dei due popoli; impegno a favorire i viaggi verso la Terra Santa.
Il voto segue un periodo non facile nelle relazioni con Israele. A parte i tradizionali rapporti tra i protestanti e i palestinesi, ha fatto discutere l’iniziativa dello «Israel/Palestine Mission Network» che ha attaccato i principi del sionismo innescando reazioni dure da parte di Gerusalemme. Poi, con l’avvicinarsi del voto, le comunità ebraiche sono passate all’offensiva cercando di convincere i presbiteriani a cambiare idea. L’attività di lobby — come ha sottolineato il New York Times — si è rivelata in realtà controproducente. La Chiesa protestante ha considerato le pressioni come un’ingerenza grave. Infine la mancanza di aperture da parte di Gerusalemme sulla questione delle colonie in Cisgiordania — il punto cruciale — ha certamente aiutato i fautori di un segnale deciso.
«Continuiamo a essere impegnati per Israele e per il suo diritto di esistere, ma siamo preoccupati per l’occupazione e riteniamo che Israele possa fare meglio», ha affermato uno degli esponenti della Chiesa sottolineando l’importanza di una svolta. Che ha mandato su tutte le furie Israele. In un commento affidato a Facebook, l’ambasciata israeliana a Washington è insorta contro il voto dell’assemblea definito «vergognoso».

Corriere 22.6.14
Londra, la visita di Li finisce per scivolare sul «tappeto rosso»
di Guido Santevecchi


PECHINO — Dal punto di vista economico la visita del premier cinese Li Keqiang a Londra è stata un successo completo: ha portato alla firma di accordi per oltre 14 miliardi di sterline (circa 18 miliardi di euro). Ma la grande intesa industrial-commerciale sino-britannica ha rischiato di inciampare nel tappeto rosso che è il simbolo delle accoglienze agli ospiti importanti. Ora che Li è ripartito alla volta della Grecia, dove i cinesi hanno comperato mezzo porto del Pireo e puntano ad acquistare un aeroporto vicino ad Atene, i funzionari di Downing Street hanno rivelato che i delegati del cerimoniale venuti da Pechino hanno protestato per la misura del «red carpet» preparato a Heathrow per il capo del governo della Repubblica popolare. Secondo la contestazione il tappeto era tre metri troppo corto.
I cinesi hanno osservato che il tappeto srotolato ai piedi della scaletta dell’apparecchio di Air China non era sufficiente per consentire a Li Keqiang di entrare nella sala vip senza posare i piedi sull’asfalto invece che sul soffice manto rosso. Sarebbero mancati tre metri. Protesta ufficiale, dunque, hanno raccontato i funzionari inglesi al Financial Times . La questione è stata presa tanto sul serio da arrivare fino alla scrivania di Ed Llewellyn, capo di gabinetto del premier David Cameron. Non è chiaro però se alla fine il cerimoniale inglese abbia allungato il tappeto rosso.
Di sicuro Li Keqiang è stato accontentato in un’altra sua richiesta. Il premier cinese desiderava un invito dalla regina: lo voleva tanto da aver minacciato di far saltare la visita se le porte del castello di Windsor, dove Elisabetta trascorre l’estate, non si fossero aperte per lui e la moglie al seguito. Anche questa vicenda è stata rivelata dalla stampa inglese. Il problema qui era che secondo l’etichetta reale, di norma solo i capi di Stato e i sovrani in visita ufficiale ricevono un invito a palazzo: Li Keqiang è solo capo di governo. Ma qui è intervenuto David Cameron che, in nome dei 14 miliardi di sterline di accordi commerciali Londra-Pechino, ha ottenuto l’invito a Windsor per un tè con Elisabetta. D’altra parte la royal family costa cara ai contribuenti britannici e quindi è giusto esibirla per fini di interesse nazionale (la loro agenda ufficiale è decisa dal governo).
Alla fine, quella di Li è stata una visita redditizia e soddisfacente per entrambe le parti: i cinesi volevano investire e i britannici sono stati lieti di aprire ai capitali di Pechino i loro progetti di alta velocità ferroviaria e nucleare civile. Ma il quasi incidente del tappeto e l’autoinvito a Windsor hanno creato imbarazzo. Gli inglesi hanno fatto sapere che «i cinesi sono negoziatori molto duri», confermando la doppia impuntatura degli ospiti. L’ambasciatore cinese a Londra ha commentato che «la diplomazia cinese è molto sottile». Il Global Times , giornale in lingua inglese pubblicato dal partito comunista a Pechino, invece ha usato toni da Guerra fredda: in un editoriale ha scritto che «la Cina ha eclissato la Gran Bretagna come superpotenza, anche se alcuni britannici cercano di nascondere il declino dietro la nobiltà». Il giornale comunista ha spiegato che ormai la Cina è molto rilassata nei rapporti con Londra, mentre gli inglesi sognano ancora i vecchi tempi imperiali. C’è qualcosa di vero in questa analisi; ma allora, perché darsi tanto da fare per ottenere un invito per il tè dalla vecchia sovrana e spuntare tre metri di tappeto rosso in più?

l’Unità 22.6.14
La Fortuna in volo è sempre donna
Guido Reni e quel dipinto realizzato nel 1637: tra storia e metafora
di Melania G. Mazzucco


LA FORTUNA È UNA DONNA. ANZI, UNA FANCIULLA BELLISSIMA. È UNA CONVENZIONE CHE I PITTORI NON DISCUTONO. ANCHE SE VIVONO IN UN’EPOCA IN CUI IL FATO SI È ARRESO ALLA PROVVIDENZA, E NEL CIELO REGNA SOLO DIO. Le allegorie classiche sono un repertorio di figure, il pretesto dei collezionisti che bramano contemplare nelle loro stanze nudità muliebri senza commettere peccato.
Così, bionda e bella come una dea pagana, un roseo pudico drappo a coprirne la nudità, la dipinse Guido Reni. Intorno al 1639 Luca Assarino, avventuriero della penna e romanziere pronto a tutto, anche a farsi tromba della gloria dell’eminentissimo cardinal Sacchetti, la vide sul cavalletto del pittore, a Bologna. Il cugino del cardinale gliela aveva commissionata quell’anno, l’anno prima, o prima ancora: Reni aveva preso l’abitudine di incassare la caparra, abbozzare subito l’opera richiesta, e poi dimenticarla. Le tele incompiute si ammucchiavano nello studio, a centinaia. La Fortuna, però, era quasi pronta.
Il cardinal Sacchetti, per la seconda volta legato pontificio a Bologna, era un ammiratore di Reni. I due si frequentavano dalla giovinezza, ormai remota per entrambi. Nel 1639, il pittore aveva sessantacinque anni, e gliene restavano solo tre da vivere. Il cardinale ne aveva quarantasei, ma il meglio dell’esistenza lo aveva già alle spalle. Sacchetti amava presentarsi all’improvviso nello studio del pittore. Reni si concedeva volentieri. Ambasciatori e principi di passaggio gli facevano visita - come fosse, di Bologna, il monumento più illustre. Col mantello poggiato con noncuranza sul braccio sinistro, si lasciava guardare mentre intingeva il pennello nella tavolozza che l’assistente di turno gli porgeva, gongolando per essere stato preferito agli altri duecento allievi del maestro. Reni offriva al pubblico l’artista, per proteggere l’uomo. Quello lo conosceva solo Dio - e i suoi servitori.
Forse la Fortuna che Assarino vide nello studio - volante sul globo, arbitra del destino dei mortali - era proprio quella destinata al Sacchetti. O forse no. Quando un’idea gli piaceva, o piaceva al committente, Guido la replicava, o la faceva replicare ai suoi scolari, ancor prima che il quadro lasciasse la bottega. Il cugino regalava al parente una Fortuna per un motivo assai ovvio. Il cardinale ne aveva bisogno.
Non per guadagnar denaro, come la maggior parte degli stolti che la invocano. Il cardinale era già ricchissimo e infatti nel quadro la Fortuna non ha per attributo una volgare borsa per le monete. La Fortuna tiene fra le dita una corona. È lei che assegna capricciosamente il potere a questo o quello: senza la Fortuna, nessuno salirà sul trono. E il cardinale sognava di diventare papa alla morte di Urbano VIII. Guido serviva i cardinali della corte, ma non ne aveva soggezione. Per fare un cardinale basta un papa, diceva. Per fare uno come me, ci vuole Iddio.
Tuttavia col tempo fra il cardinale e il pittore si era creata un’insolita familiarità. Una volta che Sacchetti si presentò senza preavviso nello studio dell’artista, ci trovò il barbiere, intento a rasargli il mento. Reni fece per alzarsi in piedi, ma il cardinale lo prevenne e afferrò il rasoio. Mortificato, il pittore tentò di riprenderselo. Sacchetti gli ordinò di rimettersi seduto, altrimenti avrebbe continuato a tenere in mano il rasoio. Ai servitori di entrambi, il comportamento del cardinale parve eccessivamente deferente. Non a Guido. In fondo l’imperatore Carlo V si era chinato a raccogliere il pennello di Tiziano, quando gli era caduto.
Reni dipinse dunque la Fortuna in volo. Coi capelli al vento e la pelle di seta. Era famoso in tutta Europa per la bellezza delle sue madonne, sante ed eroine. Le sue femmine piene di grazia e tenerezza apparivano sublimi. Ma i suoi ammiratori sarebbero rimasti delusi se avessero saputo il nome della modella che posava per lui. Immaginavano una costumata fanciulla, o una gentildonna. Invece si chiamava Pierino, era il ragazzaccio col ceffo da criminale che gli macinava i colori. La bellezza bisogna averla in testa, e non sotto gli occhi.
Non entravano donne, nello studio di Bologna. Né in casa. Se vecchie e brutte, Reni le aborriva. E le temeva, reputandole tutte streghe. Se giovani e belle, lo lasciavano di marmo. La Fortuna però la rispettava. Era la vera padrona della sua vita. Non perché gli aveva donato il talento, o il successo. Quello lo aveva sviluppato con lo studio, e questo guadagnato col lavoro e la fatica.
Tutte le sere, dopo l’Ave Maria, il pittore si inabissava nei vicoli tenebrosi di Bologna. Solo. Oppure scortato dal fido Marchino, l’ambiguo tuttofare che gli faceva da maggiordomo, governante, cuoco, copista e mediatore. Reni andava al ridotto - e giocava a carte fino all’alba. Il rischio leniva l’ansia e la malinconia che lo divoravano. Il gioco era la sua malattia, il suo vizio, e il suo peccato. Puntava cifre sbalorditive, e quasi sempre perdeva. Arrivò a perdere in una notte l’equivalente di cinque mesi di lavoro, e in due notti 8500 scudi: una somma che un altro pittore avrebbe impiegato dieci anni a guadagnare. Era sfortunato al gioco, ma non perché fortunato in amore. L’amore non faceva parte del repertorio della sua vita. Nessuno lo aveva mai visto con una donna. Era vergine. Molti lo paragonavano a un angelo. Amore per lui era solo un puttino biondo. Grazioso e perfetto come chi esiste solo nei sogni. Se era sfortunato, è perché doveva continuare a dipingere.
Infatti, se avesse vinto ogni sera, non avrebbe più avuto bisogno della pittura. Alla lunga l’opulenza spegne la sete. Avrebbe dipinto per diletto, o per compiacere qualcuno. E poi si sarebbe goduto la ricchezza, come gli suggerivano i borghesi suoi amici, che gli consigliavano di investire il capitale acquistando case e terreni. Invece lui preferiva abbandonarsi senza ritegno al piacere dello sperpero. A un amico aveva confessato: «godo solo quando spendo». Così perdeva. Perdeva i denari che aveva portato con sé, quelli che teneva a casa o in banca, quelli che non aveva ancora guadagnato. Un altro si sarebbe sparato, o disperato. Lui si buttava sul letto, e si addormentava di schianto, sereno come un cherubino. Il giorno dopo il fido Marchino fronteggiava legioni di avidi creditori, e poi pellegrinava per la città, chiedendo prestiti per pagare i debiti. Amedici, cavalieri, speziali, preti, devoti e delinquenti. Tutti erano pronti ad aprire la borsa per il divino Guido. Ma in cambio volevano quadri. E quadri ricevevano - come caparra. Così lui dipingeva per giocare, e giocava per dipingere, e le carte lo illudevano e poi lo tradivano, e la fortuna sfuggiva alla presa dell’amore, un sorriso ineffabile sulle labbra.
La Fortuna non si lasciò sedurre né dal pittore né dal cardinale. Reni, che aveva guadagnato come Rubens, e avrebbe potuto essere ricco come un principe, morì povero di tutto. Tranne che di quadri e disegni: ne aveva fatti talmente tanti che centinaia di persone si mantennero per anni vendendoli uno a uno. Il cardinale fu sfiorato dalla Fortuna, che gli mostrò la corona d’oro, e passò oltre. Al Conclave del 1644 Sacchetti era il candidato papa favorito - e gradito dai romani e dagli artisti che lo sapevano munifico. Ma gli Spagnoli misero il veto sul suo nome. Reni non poté vantarsi di aver avuto per barbiere un papa. Non lo avrebbe fatto per superbia,maper umiltà. Sarebbe stata, per la pittura, la più grande vittoria. Sul denaro, sul potere, sul privilegio del sangue. La Fortuna, però, non glielo concesse.Donna, bellissima: Reni non l’aveva amata abbastanza.
Nota Il quadro di Guido Reni qui citato è: «La fortuna che reca in mano una corona», 1637, collezione privata Usa (pubblicato da Denis Mahon)

il Sole24ore 22.6.14 domenica
L'urna della dea bendata
Dalle belle pagine di Giordano Bruno dedicate alla Fortuna si possono trarre riflessioni critiche sul mondo attuale
di Nuccio Ordine


«Ecco l'eccellente stupidità del mondo. Quando siamo vittime della fortuna, incolpiamo delle nostre sciagure il sole, la luna, le stelle, come se fossimo canaglie per necessità, furfanti, ladri e traditori per il dominio di quelle sfere»: nel Re Lear, Edmund distingue in maniera chiara le responsabilità degli uomini da quelle della Fortuna. Non serve a nulla dare la colpa alla dea bendata, al fato, alla malasorte se noi siamo dei «malfattori, dei ladri, delle canaglie». 
Sarebbe impossibile voler ripercorrere in un breve intervento ciò che gli esseri umani – nella letteratura e nell'arte, nel mito e nella filosofia – hanno voluto rappresentare sotto le spoglie della dea Fortuna. Dispensatrice della cattiva o della buona sorte, antagonista per eccellenza della virtù, ministra della provvidenza divina, espressione della casualità, messaggera delle disposizioni dei pianeti e delle stelle, occasione (kairòs) per mettere alla prova la virtù, impietosa dominatrice della ruota delle vicissitudini, alla dea bendata sono stati attribuiti, nel corso dei secoli, ruoli opposti e contraddittori. 
E per evitare di scivolare nelle sabbie mobili delle infinite occorrenze, ho voluto limitare il mio intervento alle bellissime pagine che Giordano Bruno dedica al tema della Fortuna nel suo dialogo Lo spaccio de la bestia trionfante, pubblicato a Londra nel 1584. Qui la dea bendata smonta con molta finezza tutte le accuse. E spiega che il suo ruolo incarna una necessità: nessun essere umano può scampare, infatti, all'urna della mutazione. Ma solo pochi, purtroppo, saranno favoriti da una mano che non può commettere ingiustizie, perché proprio la cecità garantisce la totale uguaglianza di tutti gli uomini di fronte alla sorte («Non veggio mitre, toghe, corone, arti, ingegni ...; e però quando dono, non vedo a chi dono»).
All'interno di questo meccanismo naturale non c'è possibilità di infliggere torti. La comune radice degli esseri umani viene rispettata. Nell'urna ogni «schedula è uguale a quella di tutti gli altri». Ma se la Fortuna estrae una moltitudine di ladri e di inetti la colpa non è sua. Non può esserle attribuita una responsabilità che riguarda la Virtù o la Verità. Come sarà possibile estrarre uomini virtuosi e onesti se nell'urna vengono depositati, assieme a «otto o nove» individui di valore, «otto o novecentomila» esseri bestiali e imbroglioni?
La dea bendata riconosce all'uomo la possibilità di poter condizionare gli eventi. Alla necessità che siano pochi a governare («Non è errore che sia fatto un prencipe: ma che sia fatto prencipe un forfante»), segue la possibilità che sia l'umanità stessa a determinare in maniera positiva questa scelta: «Or non è possibile che un principato sia donato a tutti; ma l'errore consiste che quel l'uno è vile, che quell'uno è forfante». Bruno aveva pensato già due anni prima, nel Candelaio, a teatralizzare la sua visione tutta umana della Fortuna. Gioan Bernardo – che con la sua astuzia conquista la bella Carubina – si vanta di esser riuscito a «apprendere pe' capelli l'occasione»: un'espressione che allude all'atteggiamento «impetuoso» di un famoso passaggio del capitolo XXV del Principe, in cui Machiavelli invita a non essere «respettivo» (cioè a non procedere con cautela) perché «la Fortuna è donna, e è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla». 
Sempre nel Candelaio, il tema della Fortuna come occasione, come irripetibile opportunità che bisogna afferrare al volo, si manifesta anche nella favola dell'asino e del leone. I due animali, infatti, decidono di andare a Roma e di passare un fiume montando, a turno, l'uno sull'altro. All'andata spetta all'asino. E il felino, temendo di cadere in acqua, «sempre più e più gli piantava l'unghie ne la pelle di sorte che gli penetrorno in sin all'ossa». 
Otto giorni dopo, il leone prende su di sé l'asino: «Il quale essendogli sopra, per non cascar ne l'acqua, co i denti afferrò la cervice del leone: e ciò non bastando per tenerlo su, gli cacciò il suo strumento (o come vogliam dire, il tu-m'intendi), per parlar onestamente, al vacuo sotto la coda, dove manca la pelle». Alle vibrate proteste del felino, l'asino risponde: «vedi ch'io non ho altr'unghia che questa d'attaccarmi». La favola, insomma, insegna che «nisciuno è tanto grosso asino, che qualche volta non si serva de l'occasione».
Le pagine eloquenti dello Spaccio e del Candelaio dedicate alla Fortuna, mi sembra inutile dirlo, non hanno niente a che fare con il nostro presente. Eppure, a rileggerle bene, finiscono per stimolare – come ogni buon classico dovrebbe fare – una riflessione critica sul mondo che ci circonda. Non possiamo considerare ingiusto che ci sia un principe, ma è profondamente ingiusto che quel principe sia un furfante. 
I recenti eventi di cronaca legati all'Expo 2015 o al Mose, al Monte dei Paschi di Siena o alla Carige, alle mutande di un ex governatore o ai gratta e vinci di anonimi consiglieri regionali non fanno certo pensare al cattivo influsso della Fortuna.
L'orazione della dea bendata non ammette eccezioni: se dall'urna vengono estratti furfanti è solo perché la Virtù, la Sapienza o la Giustizia sono state bandite dalla nostra società fondata sulla folle avidità del guadagno. Solo a noi spetta, insomma, riabilitare quei valori positivi in grado di disinfestare l'urna da ladri e da furfanti e di consentire alla Fortuna di estrarre un principe virtuoso.
Per cui, se non saremo capaci di promuovere quella radicale rivoluzione morale suggerita dalla dea bendata nello Spaccio di Giordano Bruno, sarà perfettamente inutile, come ci ricorda pure Shakespeare, continuare a lamentarci e a imprecare contro l'ingiusto Fato o contro il terribile Destino. Quel Fato e quel Destino contribuiamo a costruirlo noi stessi, stando insieme, giorno per giorno, anche con i nostri gesti e con le nostre azioni più umili.

il Sole24ore 22.6.14 domenica
Machiavelli e il Nobel North
Gli argini alla sfortuna
di Paolo Legrenzi


Cinquecento anni fa, nel capitolo XXV de Il Principe, Niccolò Machiavelli cerca di rispondere alla domanda: «Quanto conta la fortuna nelle umane vicende e in che modo ci si può opporre ad essa». Per Machiavelli la fortuna è quella che oggi chiameremmo sfortuna. Lo chiarisce bene paragonandola «a uno di quei fiumi Rovinosi che, quando si adirano, allagano le pianure, travolgono gli alberi e gli edifici... tutti fuggono davanti a loro, ognuno cede al loro dominio senza potervisi opporre in nessun modo». Bisogna costruire argini e prevenire il debordare dei fiumi: «la fortuna dimostra la sua potenza dove non è stata predisposta virtù che le resista». Armando Massarenti spiega nell'elegante riedizione de Il Principe curata dal Sole 24 Ore, che le virtù di Machiavelli sono le virtù epistemiche, quelle che «hanno a che vedere con la reale capacità di sapere, e di conseguenza prevedere, di che pasta sono fatti gli uomini, come si comportano nelle mutevoli e imprevedibili vicende che li vedono coinvolti».
Settanta anni fa, Douglass North non si unì ai suoi compagni che venivano a liberare l'Europa. Scelse invece di fare l'obiettore di coscienza. S'imbarcò su un cargo portando con sé molti libri e sessanta anni dopo, diventato premio Nobel dell'economia, scrisse Capire il processo del cambiamento economico. North interpretò gli ultimi cinquecento anni come una progressiva limitazione del domino della fortuna sul nostro destino. Machiavelli pensava che la fortuna fosse «arbitra della metà delle nostre azioni», e che ne lasciasse «governare l'altra metà, o quasi, a noi». Noi siamo riusciti ad aumentare molto questa seconda metà. Parte dell'incertezza l'abbiamo domata inventando le assicurazioni, cioè il calcolo dei pericoli: «Ad esempio – dice North – nel XV secolo lo sviluppo dell'assicurazione marittima, che comportava la raccolta e il confronto d'informazioni, circa le navi, i carichi, le destinazioni, i tempi di viaggio, i naufragi e i relativi risarcimenti, ha trasformato l'incertezza in rischio». Un'altra buona parte è stata eliminata grazie ai progressi delle scienze naturali e umane, e delle tecnologie. Tutto a posto, allora? Non proprio. Oggi non abbiamo di fronte un principe da convincere, bensì dei decisori pubblici. Spesso, pur di suscitare facili consensi, trascurano la necessità di dialogare con gli esperti. Oggi sapremmo come evitare che i fiumi debordino, ma talvolta sembra che non si voglia farlo.

l’Unità 22.6.14
I sentimenti fragili secondo Amadeus
«Così fan tutte» alla Scala con la moderna regia di Claus Guth e la direzione di Barenboim


NON È UN’OPERA CONTRO LE DONNE: IN «COSÌ FAN TUTTE» SI GETTA UNO SGUARDO DISINCANTATO E INQUIETANTE non sulla «fede delle femmine», ma sulla fragilità dei sentimenti, e Mozart scrive una musica la cui sublime bellezza è ricca di interrogativi e di insondabili ambiguità, che si prestano a molteplici letture. Nello spettacolo in scena alla Scala la regia di Claus Guth sottolinea con coerenza gli aspetti più cupi e amari della commedia. La ambientazione è contemporanea (scene di Christian Schmidt e costumi di Anna Sofie Tuma), in un appartamento moderno con un soppalco e, sulla destra, una scala. A un certo punto la parete di fondo si apre su un bosco, che nel secondo atto invade parte del salotto (vediamo due alberi davanti al divano): un simbolo dello scatenarsi di oscure forze della natura, messe in moto dall’incauto, insidioso gioco. Per Guth non ci può essere lieto fine nella vicenda della stupida scommessa del cinico Don Alfonso e dei due maschi vanesi, che mettono alla prova le loro amanti travestendosi e corteggiandole a coppie scambiate (forse più felici). Nella scena conclusiva, uno dei vertici dello spettacolo, il regista ci fa vedere i due sciocchi cornuti e le fanciulle sconvolte, ferite e disilluse in uno stato di smarrita desolazione, reso con rara intensità. La sua regia, come le scene, si basa, con qualche ritocco e ripensamento, sullo spettacolo realizzato al Festival di Salisburgo, dove tuttavia l’immagine dell’invasione del bosco si collegava alla regia di Guth del Don Giovanni, interamente ambientato in un bosco.
Alla Scala dirigeva Daniel Barenboim: ben consapevole della straordinaria ricchezza di questa partitura di Mozart, egli staccava tempi piuttosto lenti, mettendone in luce ogni poetica sfumatura; ma talvolta eccedeva, riusciva semplicemente troppo lento, e anche in modo poco comprensibile, come nella brillante aria di Despina, «Una donna a quindici anni». In complesso efficiente, ma non più che dignitosa la compagnia di canto, se si eccettua il bravissimo Michele Pertusi nella parte di Don Alfonso. Va ricordata anche la discreta prova di Maria Bengtsson, che nell’arduo ruolo di Fiordiligi sapeva spesso proporre raffinati pianissimo. Disinvolti e un poco rozzi Katija Dragojevic (Dorabella) e Adam Plachetka (Guglielmo), Rolando Villazon (Ferrando) è oggi purtroppo vocalmente l’ombra di ciò che era. Asprigna la Despina di Serena Malfi.

Repubblica 22.6.14
Barenboim e tutta la voluttà di Mozart
Milano, Teatro alla Scala fino al 18 luglio
di Angelo Foletto


“Fortunato l’uom che prende ogni cosa per buon verso”? Il finale del regista Klaus Guth smentisce ciò che fanno cantare Da Ponte e Mozart nel sestetto conclusivo di Così fan tutte . Uomini e donne, tetri in volto, sono seduti lontani: disillusi, furiosi con se stessi e con i partner. Alla fine di una giornata in cui hanno messo in gioco molte loro certezze, hanno perso. Nella perfida e veritiera lettura scenica, il crollo psicologico, già chiaro da come il demotivato Ferrando si sforza di sedurre Fiordiligi, è ribadito dalla svogliata complicità dei maschi al finto matrimonio e alla burlasmascheramento risolutivo. Netto come un teorema, lo spettacolo d’ambientazione moderna di Schmidt/ Guth (Salisburgo 2009) per la Scala è stato ripulito nei caratteri banalmente giovanilistici di Despina e in quelli troppo mefistofelici di Alfonso.
Concentrata su gesti, tic, occhiate, trepidazioni di pelle oltre che di cuore delle cavie d’amore, la vivida partitura registica rimane volutamente catastrofica nella “morale” finale. Daniel Barenboim s’è abbandonato a Mozart con voluttà incondizionata.
Tempi larghi e respirati con quieta beatitudine, concertazione capace di incantarsi, e farci incantare, su colori, disegni interni solitamente inavvertiti, timbri segreti che velavano turbamenti erotici.
Il maestro ha così rilevato la densità armonico- orchestrale enigmatica e stupefacente che sta sotto la levigata scorza sonora settecentesca. Culmine della sua idea interpretativa lo sfinito languore del brindisi: due minuti di vertigine assoluta. Sufficienti, purtroppo, anche per capire che il diligente quartetto vocale (Maria Bengtsson, Katija Dragoievic, Adam Plachetka e Rolando Villazon) non era all’altezza. Mentre accenti e stile italiano naturale davano un marcia in più a Serena Malfi e Michele Pertusi.

Repubblica 22.6.14
Il test del Dna ci cambierà la morale
di Piergiorgio Odifreddi


LE INDAGINI che hanno portato a un fermo per l’omicidio di Yara Gambirasio segnano una svolta nel campo giudiziario: l’avvento, cioè, dell’uso massiccio di prove scientifiche per guidare le indagini e trovare un colpevole. Sono state controllate decine di migliaia di persone, alla ricerca di una legata in qualche modo alle tracce lasciate dall’assassino. Trovato un appiglio, si è risaliti fino a suo padre. Discesi ai figli legittimi, li si è esclusi, e s’è scoperta l’esistenza di uno illegittimo. Centinaia di donne sono state controllate, alla ricerca di una che avesse avuto un legame col padre naturale.
Trovatala, si è incastrato il figlio.
Cronaca a parte, qui preme sottolineare come i test sul Dna abbiano rivoluzionato non solo la biologia, ma anche la vita privata delle persone. La madre del presunto assassino può negare quanto vuole di non aver avuto i due gemelli da una relazione extramatrimoniale, quasi mezzo secolo fa: il fatto che il Dna dei figli non combaci a metà con quello del marito la inchioda.
Scoperte come queste, che possono sconvolgere una famiglia, diventeranno sempre più frequenti. I medici degli ospedali già sanno che la percentuale di figli con genitori biologici diversi da quelli legali è significativa, e raggiunge numeri a due cifre. In futuro il concreto rischio di un test cambierà la morale più delle astratte minacce dell’Inferno.

Repubblica 22.6.14
Dove nascono le storie
Dalla realtà o dall’inconscio? Dall’esperienza o dall’infanzia? Dalla paura o dal piacere? Viaggio alla ricerca dell’origine dell’ispirazione
di Zadie Smith


SPESSO, i miei soggetti sono le cose più semplici del mondo: la gioia, la famiglia, il clima, le case, le strade. Niente di fantastico. E quando mi siedo al tavolo con questi soggetti, il mio obiettivo è la chiarezza. Cerco di eliminare un po’ della confusione che ho in testa (in effetti, c’è un grande disordine nella mia testa). A volte penso che tutta la mia vita professionale si sia basata su questa intuizione che ebbi all’inizio, e cioè che molte persone si sentono confuse come me, e potrebbero essere felici di seguirmi in questa ricerca della chiarezza, della precisione. È un aspetto che amo della scrittura.
Niente mi rende più felice di sentire un lettore che mi dice: «È proprio quello che ho sempre provato anch’io, ma tu lo hai detto in un modo chiaro». Sento, allora, di aver fatto qualcosa di utile. Spesso, però, tutto ciò mi è sembrato lontano dalla vera narrativa e, a dire la verità, ci sono stati dei momenti, negli ultimi dieci anni, in cui mi sono sentita piuttosto distante dalle storie, e incerta su come raccontarle. Avevo dimenticato (come i rapper amano dire) che cosa mi avesse spinto a cominciare. Poi ho avuto dei figli. Che storia noiosa “poi ho avuto dei figli”! Però, devo essere sincera. E la verità è che è accaduto qualcosa quando ho avuto dei figli. Sono passata dal non riuscire a inventare una sola storia, al non riuscire più a smettere di vedere delle storie praticamente ovunque mi girassi. Ora, io non sono un’essenzialista biologica, né una di quelle persone convinte che, con la placenta, ci arrivi anche il dono dell’empatia. La spiegazione, a mio parere, è più semplice, e sono i libri di favole. Per la prima volta dalla mia infanzia, sono tornata nel regno delle storie e dei libri che raccontano storie (tre storie lette ad alta voce a un bambino di quattro anni, ogni sera, pena la morte) e questa pratica ha risvegliato in me qualcosa che credevo di aver smarrito molto tempo fa, forse durante la presentazione di un libro, o nell’ultima fila di un’aula universitaria.
Questa sensazione delle possibilità narrative e dello stupore, questa idea che ogni persona è un mondo. Come avevo potuto dimenticarla? Ero davvero quasi scivolata in quell’anemico percorso intellettuale in cui narrare una storia è considerato volgare e i personaggi macchie sulla purezza di una frase? Quasi, per fortuna. Oggi sono così grata di poter rientrare in contatto con storie come Il dito magico di Roald Dahl. Mi sdraio sul letto con mia figlia, le leggo ad alta voce questo racconto kafkiano di una famiglia di cacciatori di anatre, che si svegliano una mattina con le ali al posto delle braccia, e torno alla mia scrivania con una facilità e fluidità che non avevo più provato da quando ero bambina.
La storia più inverosimile della mia vita è quella di una ragazza di Willesden, (un quartiere operaio nel distretto londinese di Brent, ndt). C’era una volta, che avevo nove anni. Era estate in Inghilterra, il cielo era blu, ma anche pieno di nuvole. Non ero - come dire - stracarica di amici. Faceva caldo, ma la scuola non era ancora finita, e questo ripresentava l’irrisolto problema della ricreazione, perché non puoi aggirati all’infinito per il cortile facendo finta di cercare i tuoi compagni. Per nascondere la mia solitudine, passavo un sacco di tempo a guardare le nuvole, e una strana torre coperta di edera che si trovava accanto alla nostra scuola. Decisi che, in cima a quella torre, una giovane donna viveva la sua tragedia, prigioniera di un dio che voleva impedirle di sposare il suo vero amore, Superman. Non aveva senso, ma era una storia e diventai brava a raccontarla. Per attirare l’attenzione su di me, cominciai a raccontarla ai bambini nel cortile. Diventava più complessa ogni volta che la raccontavo, e finivo sempre col giurare sulla testa di mia madre che era tutto vero. Ve lo giuro! Vi giuro che c’è una giovane donna lassù, e manda in cielo segnali di fumo, sotto forma di nuvole: se ne vedi una che assomiglia a Superman, mettiti una puntina sotto la scarpa.
Più persone avranno delle puntine sotto le scarpe, più rumore faranno camminando, e più rumore faranno camminando... oh, non mi ricordo! Doveva avere una sua logica, ma non ricordo più quale. In ogni caso, il messaggio era: puntina sotto la scarpa. Devi metterti una puntina sotto la scarpa o quella poveretta morirà! È vero! Lo giuro su mia madre! È un miracolo che mia madre sia sopravvissuta a quell’estate.
Bene, la gente sembrava appassionarsi alla mia storia, sembrava che tutti ci si appassionassero, davvero; tutti tranne una bambina - si chiamava Anupma - che si mostrò scettica. Era molto intelligente, Anupma, il che era parte del problema. La retorica non la commuoveva. Aveva un problema logico fondamentale con la tripletta segnali di fumo/nuvole/Superman. E un giorno, di punto in bianco, venne verso di me, in cortile, e mi disse: «La tua storia non è vera. È una bugia. Lo voglio dire a tutti». E si mise a correre verso le aule. Mentre la guardavo correre, provai la versione per bambine di 10 anni di una disperazione profonda. Tutto ciò che avevo costruito, tutti i miei nuovi amici, e la mia stessa autostima, tutto sembrava dipendere da questa storia ridicola. E ora lei minacciava di rivelare quello che era: una bugia. Dovevo impedirle di raggiungere l’aula. Le corsi dietro. Era veloce, non era facile. Ma proprio vicino al recinto della sabbia, misi una gamba davanti alle sue come un calciatore italiano e la feci cadere violentemente: subito, il suo ginocchio lacerato insanguinò il cemento.
Giaceva a terra piangente, sporca, sconfitta, e mi rivolse uno sguardo che non ho mai dimenticato. Vi era una domanda inorridita: che razza di persona è questa? Arrivò l’infermiera; portarono Anupma nell’ambulatorio scolastico per medicarla, e per quanto ne so non disse nulla contro di me, né riguardo alle mie bugie, né alla mia noncurante brutalità. Almeno, mi lasciarono andare via indisturbata perché rientrassi in classe. Raggiunsi i miei compagni nell’atrio. «Che cos’è questo rumore?», chiese l’insegnante mentre entravamo nell’aula. Tap tap tap. Ci misi poco a riconoscerlo. Puntine sotto tutte le scarpe.
Narrare storie è una disciplina magica, spietata. Chi racconta storie è spesso tentato di creare una gerarchia nella sua vita, in cui le storie vengono prima di ogni altra cosa, comprese le persone. Parte della mia ansia, rispetto alla narrazione, sta nella consapevolezza di quella parte monomaniacale di me che è disposta a bloccare a terra una bambina pur di preservare l’integrità di una storia. So che questa parte di me esiste, ma cerco davvero di sopprimerla, perché voglio trovare un compromesso tra il raccontare storie sulla vita e viverla bene. The Independent Newspaper 2-014 (Traduzione di Luis E. Moriones)

Repubblica 22.6.14
Il grande mistero dai sogni di Stevenson ai giornali di Flaubert
di Alberto Manguel


UNA notte, una delle tante notti in cui giacque nel letto sputando sangue, febbricitante e senza fiato, Robert Louis Stevenson, aveva allora 38 anni, sognò una terrificante tonalità di marrone. Fin dalla sua prima infanzia, Stevenson aveva definito i suoi frequenti terrori notturni come «le visite dell’Arpia della Notte», che solo la voce della sua bambinaia poteva calmare con fiabe e canti scozzesi. Le apparizioni dell’Arpia della Notte, tuttavia, continuarono a ripetersi, e Stevenson scoprì che poteva trarle a suo vantaggio esorcizzandole con le parole. L’orrendo colore marrone del suo incubo si trasformò dunque in un racconto. E fu così, ci dice, che nacque la storia del Dr. Jekyll e del signor Hyde.
Gli scrittori si stupiscono quanto i loro lettori dell’esistenza di creazioni letterarie di successo. Dante, riconoscendosi colpevole del peccato di superbia, implora prima le muse e poi Apollo di ispirarlo, ma sebbene ponga queste invocazioni all’inizio del Purgatorio e del Paradiso, il lettore sente che si tratta di riflessioni successive, che i primi barlumi di quel viaggio prodigioso vengono da qualcosa di meno elevato e di molto più banale, forse dal primo giorno in cui si rese conto che non avrebbe mai più rivisto la sua amata Firenze, forse dal primo momento in cui mandò papa Bonifacio all’inferno. La storia del cavaliere errante in cerca di giustizia venne in mente a Cervantes, come egli racconta, mentre l’autore languiva ingiustamente in prigione; il racconto delle tragiche conseguenze, per Madame Bovary, del sogno di una vita diversa fu ispirato a Flaubert, si dice, dalla lettura di un articolo di giornale. Bradbury spiega che i primi indizi dello spaventoso mondo di Fahrenheit 4-51 si affacciarono nella sua mente nei primi anni Cinquanta, dopo aver visto una coppia camminare mano nella mano su un marciapiede di Los Angeles, ciascuno intento ad ascoltare la sua radiolina con l’auricolare.
Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il momento della creazione letteraria ci è sconosciuto quanto quello dell’universo. Siamo in grado di studiare ogni istante dopo il Big Bang perché possiamo leggere (gli scrittori una volta le conservavano) ogni stesura di un libro come A la recherche du temps perdu o le varie versioni dell’ Amleto , ma il momento della nascita della maggior parte dei nostri libri più amati è ancor più misterioso. Che cosa fece balenare la prima idea dell’ Odissea o dell’ Iliade nella mente del poeta o dei poeti che noi chiamiamo Omero? Come ha fatto un narratore, incurante di metterci il suo nome, a ideare l’atroce storia di Edipo che avrebbe poi ispirato Sofocle e Cocteau? Quale triste amante in carne e ossa ha prestato il suo carattere all’irresistibile figura di Don Giovanni, dannato per l’eternità? Dovremmo leggere la dichiarazione dell’evangelista Giovanni, «in principio era il Verbo », come una confessione d’autore? E se sì, quale era quella magica parola iniziale?
Le confessioni degli autori raramente suonano veritiere. Edgar Allan Poe spiegò, in un lungo saggio, che Il corvo nacque dall’intenzione di scrivere una poesia su quello che lui giudicava «senza dubbio, l’argomento più poetico del mondo», la morte di una bella donna, utilizzando per il suo ritornello le sillabe più risonanti della lingua inglese, ere ore. Le parole never e more (“ mai - più”) si suggerirono subito per il ritornello e, per fare in modo che potessero essere ripetute, scelse non una persona, ma un uccello in grado di pronunciarle: non un pappagallo, poco poetico ai suoi occhi, ma un corvo, più consono al suo cupo immaginario. La spiegazione di Poe è logica, presentata in modo brillante e del tutto incredibile.
Forse dovremmo accontentarci di ammettere che i miracoli sono possibili, senza chiederci come. E poiché crediamo ancora nella relazione di causa ed effetto, pretendiamo una spiegazione per ogni cosa: vogliamo sapere come sia avvenuta, che cosa abbia permesso che accadesse, quale fu il primo battito del cuore che mise in movimento la bestia, da dove venga questa cosa che ora abbiamo davanti.
Fortunatamente per noi, fortunatamente per la sopravvivenza dell’intelligenza umana, gli abomini si possono spiegare, anche se forse troppo tardi per porvi rimedio, attraverso l’analisi storica e psicologica. Altrettanto fortunatamente, per le creazioni letterarie non è così. Possiamo venire a sapere ciò che un autore ci dice sulle circostanze che circondano l’atto della creazione, che libri ha letto, quali fossero le minuzie quotidiane della sua vita, il suo stato di salute, il colore dei suoi sogni. Tutto, tranne l’istante in cui le parole apparvero, luminose e distinte, nella mente del poeta, e la sua mano cominciò a scrivere: «Nel mezzo del cammin di nostra vita...» (Traduzione di Luis E. Moriones)

Repubblica 22.6.14
Territori della psiche
Territori della psiche
a cura di Doriano Fasoli


IL CERVELLO AUTISTICO
Un aggiornato resoconto di progressive acquisizioni cliniche, che ci aiuta a percepire l’autismo come modalità esistenziale alternativa, con peculiarità sociali e percettive semplicemente diverse da quelle dei neurotipici che, adeguatamente trattate e valorizzate, possono condurre a una vita del tutto coerente, persino straordinaria.
DI TEMPLE GRANDIN, RICHARD PANEK, ADELPHI, PAGG. 272, EURO 22

RIPENSARE L’INCONSCIO
L’inconscio è il concetto centrale della psicoanalisi.
Le ricerche più recenti spostano l’attenzione dai suoi contenuti alle leggi che regolano il funzionamento dei processi psichici al di fuori della coscienza, per cui l’inconscio è pensabile come un sistema semiotico e semantico e definibile come un processo psichico creatore di segni e di significati.
DI FRANCESCO CONROTTO, FRANCO ANGELI, PAGG. 111, EURO 18

MAPPE PER LA MENTE
L’autore realizza un collegamento tra i differenti domini della conoscenza, creando un testo che si può leggere per “mappe” o “percorsi guidati”, rispecchiando la naturale modalità di apprendimento del cervello.
DI DANIEL J. SIEGEL, RAFFAELLO CORTINA, PAGG. 450, EURO 28

LA DERIVA INTELLETTUALISTICA DELLA PSICOANALISI
Propone riflessioni su fondamentali funzioni o componenti della struttura della psiche umana (ragione, fantasia, comprensione, emozioni) e critica il concetto corrente, anche nella cultura, che il processo di conoscenza sia un fatto di pura ragione.
DI ADRIANO VERDECCHIA, ALPES, PAGG. 309, EURO 27

Repubblica 22.6.14
Michelangelo e le tre età dell’uomo
di Carlo Alberto Bucci


LA TORSIONE della testa è potente, intensa l’espressione del viso, morbido il trattamento del marmo come se, al posto dello scalpello, una matita avesse vergato la carta. Un non-finito che sa di infinito nelle mani di Michelangelo. Il Bruto reicida, e antimediceo, di Buonarroti, si gira ora verso la testa dell’omonimo eroe romano fusa nel bronzo nel IV secolo avanti Cristo: il Bruto capitolino.
Ed è la stessa torsione, la medesima bellezza, che ritroviamo nel terzo busto esposto ai Musei capitolini: la testa ricciuta di Caracalla (212-217 d.C., dai Musei Vaticani) che certamente Michelangelo tenne presente per il suo capolavoro del Bargello.
Il confronto a tre proposto dalla mostra “1564/2014, Michelangelo: incontrare un artista universale” (fino al 14 settembre) propone una sorta di tre età dell’uomo: tra arte romana, rivisitazione dell’antico e creazione di una modernità nel segno del michelangiolismo. Nella sala degli Orazi e Curiazi dei Capitolini, tra gli affreschi manieristi del Cavalier d’Arpino e al cospetto dell’Urbano VIII di Bernini, questo è certamente il momento più emozionante di una esposizione realizzata per celebrare il genio toscano a 450 anni dalla morte. Portando da Firenze a Roma (le sue città) quanto più possibile, e prestabile. Accanto al Bruto (1538 circa) del Bargello, infatti, ecco lo splendido “stiacciato donatellesco” della Madonna della scala di Casa Buonarroti in cui verso il 1490, a soli 15 anni, l’artista fa già vedere, negli snodi plastici e nel chiaroscuro, di che pasta è fatta la sua visione drammatica della vita.
Siamo sempre nella sala degli Orazi e Curiazi, dove campeggia anche il potente, e al contempo languido, Cristo portacroce (da una chiesa di Bassano Romano, nel Viterbese). Il Cristo cosiddetto Giustiniani (1514-16, studiato da Silvia Danesi Squarzina) è la prima versione, autografa, di un capolavoro presente a Roma in Santa Maria sopra Minerva, ma fortunatamente privo del panneggio bronzeo, e posticcio, che nella chiesa dei domenicani di Roma ne copre i genitali: il Cristo adulto è nudo, caso rarissimo, come fosse un dio pagano ma per dimostrare che Dio si è fatto davvero uomo.
Sacro e profano, antico e moderno. In un faccia a faccia tra opere certe che fa dimenticare il cattivo gusto di una copia in vetroresina, del celeberrimo David che la soprintendente di Firenze Cristina Acidini, curatrice con Elena Capretti e Sergio Risaliti, della mostra di Roma, ha voluto piazzare nel cortile del palazzo dei Conservatori (e non basta la giustificazione che il maestro per il “gigante” del 1501 si sarebbe ispirato ai frammenti della statua colossale presenti proprio tra queste mura romane).
La seconda parte della mostra (nell’annesso palazzo Caffarelli) ci porta, soprattutto grazie agli splendidi disegni, dentro la sintesi del dualismo dionisiaco-apollineo. Sono fogli e modelli lignei che ci portano a spasso nell’arte sua forse meno celebrata, l’architettura: dalla stessa piazza del Campidoglio a Porta Pia, dal tamburo di San Pietro a San Giovanni dei Fiorentini.
Inopportuna appare infine la scelta di esporre il piccolo Crocifisso del Bargello, al centro di una contestata attribuzione e di una vertenza giudiziaria per il prezzo pagato dallo Stato all’antiquario Giancarlo Gallino.

Corriere 22.6.14
Contro il risentimento
Yeats e Camus diffidavano di certezze e facili polemiche
Atteggiamenti di comodo su cui si sono costruite carriere
di Raffaelr La Capria


Tutto inizia per me, come credo per ogni scrittore, con quelle che io ho chiamato le immagini primarie. Cosa sono le immagini primarie? Sono quelle immagini che si imprimono nell’animo quando ancora non è nata la coscienza, e sono immagini tutte sensoriali, legate alla vista, all’udito, all’olfatto, al tatto, al gusto. Le mie immagini primarie si sono formate qui, in questo mare, sono quelle di Palazzo Donn’Anna che si affaccia sul Golfo di Napoli, sono quelle della dolce Posillipo dove ho trascorso la mia adolescenza, e sono però immagini minime: sono il sapore di acido fenico della patella staccata dallo scoglio e mangiata, l’odore di alghe marce che saliva dalle Grotte del palazzo, il contatto della pietra di tufo giallo e tenero che lasciava una polverina sui polpastrelli, il rumore del mare tra gli scogli e naturalmente la luce purissima del nostro cielo mediterraneo. Da queste immagini primarie sorsero e si riprodussero nel tempo, con una reazione a catena, altre immagini di natura diversa, mentali e concettuali, impulsive e creative, come ad esempio l’immagine della Bella Giornata, che include non solo una visione del mondo, ma anche un’idea di scrittura, quella della semplicità che arriva dopo la complessità. Quella che serve a sbrogliare la complessità del mondo, e nel farlo genera uno stile che ho definito lo stile dell’anatra, l’anatra che fila liscia sulla superficie dell’acqua e sembra spinta da una forza astratta, non fisica, e invece è data dal lavoro delle zampette palmate sotto il livello dell’acqua, un continuo lavorio delle zampette che però non si vede, non si deve vedere, come non si deve mai vedere lo sforzo nello stile di uno scrittore. Deve sembrare tutto naturale quello che invece richiede fatica, e che fatica!
Dopo le immagini primarie arrivano per uno scrittore altre immagini, mentre le prime sono soltanto dei sensi queste altre che arrivano dopo sono immagini mentali, come ho detto, e quella predominante è stata per me la «bella giornata». Ed ecco come è nata, basta leggere l’inizio di Ferito a morte . La stanza ancora buia in cui dormivo viene al mio risveglio attraversata da un raggio luminoso che imprime nel muro della stanza un tremante geroglifico splendente. Quel geroglifico di luce è per me un segno, è il segno che fuori è bel tempo, che fuori mi aspetta la bella giornata napoletana, il mare trasparente dove mi immergerò a caccia di pesci, la barca con gli attrezzi per la pesca subacquea, la barca che si fermerà davanti alle ville degli amici, le ragazze, insomma mi attende la diffusa e lieve felicità della giovinezza. Ed è l’attesa della felicità, la speranza della felicità, all’inizio di ogni vita. Ma poi in Ferito a morte tutto il libro racconta l’attraversamento della bella giornata, cioè della vita, della giovinezza. È solo questo che il libro racconta, questa traversata, in cui non accade nulla di speciale, il cielo è sempre azzurro e fermo, non c’è nessun moto nell’aria, ma qualcosa accade mentre non ce ne accorgiamo, perché la nostra vita è così, è quello che ci accade mentre siamo occupati in altre faccende. E da tanti segni vediamo che in Ferito a morte la bella giornata è attraversata da un’ombra, cosi come ogni vita è attraversata dal dolore. Ed è l’agonia del polpo appena pescato, la spigola trafitta che si dibatte, è un bombardamento di fortezze volanti che costringe i ragazzi a rifugiarsi in una grotta, e così via.
L’attesa della felicità, la speranza di ognuno in un destino migliore si scontra con la realtà, questa è la metafora di Ferito a morte , una metafora che coinvolge non solo le persone ma una intera città. E dal chiacchiericcio inconcludente del Circolo Nautico, un chiacchiericcio raccolto da un orecchio dolente per una ferita al timpano, dalla stessa vacuità di quel chiacchiericcio, si capisce che il risultato è il silenzio. Troppe chiacchiere inutili producono soltanto silenzio, il silenzio di una borghesia che non ha saputo essere classe dirigente , ma come si dice in Ferito a morte ha saputo essere solo classe digerente . E questo, ahimè!, oggi possiamo estenderlo a gran parte della classe dirigente italiana e degli episodi di corruzione in cui è continuamente coinvolta.
La vera vita non è quella che viviamo, ma è quella che scriviamo dopo aver vissuto. Quando viviamo siamo troppo distratti dalle mille faccende quotidiane per accorgerci della vita. E infatti qualcuno ha detto che la vita è ciò che accade quando ci occupiamo d’altro. La vera vita dunque non è quella vissuta ma è quella contemplata, e per contemplarla ci vuole distanza. Oppure sono gli occhi di un altro quelli che vedono la nostra vita, e nel mio caso gli occhi di un altro sono quelli di Silvio Perrella, che nell’organizzazione tematica del «Meridiano» sulla mia «vita salvata», ha individuato una struttura circolare, quella che io ho chiamato «la ripetizione differente», e cioè un continuo movimento a spirale dove si ricomincia sempre da capo dallo stesso punto ma in modo diverso.
Sono nato sotto il segno della bilancia, la bilancia sempre oscillante tra molte possibilità, perciò mi definisco un uomo perplesso, sono anche convinto che «i migliori non hanno convinzioni mentre i peggiori traboccano di intense passioni». Questo lo diceva il poeta Yeats, irlandese, e a me sembra abbastanza giusto. E forse lo correggerei così: «La dismisura, cioè l’eccesso polemico, è un comodo, e talvolta una carriera. La misura, al contrario, è pura tensione». Questo lo diceva Camus che come me ce l’aveva con i risentiti che fanno del risentimento una forma di promozione. Oggi il mondo è pieno di risentiti che hanno fatto carriera e trovato successo.

il Sole24ore Domenica 22.6.14 
Evoluzione
Sapore di sapere
L'antenato homo erectus 1,6 milioni di anni fa diventa onnivoro, le mani si liberano, può manipolare oggetti, e poi controllare il fuoco e cucinare
di Anna Li Vigni


Chi ha una certa consuetudine con scimpanzè e primati, sa bene che hanno un debole per le caramelle e le cose dolci. Esprimono in tal modo un loro gusto preciso, una certa attitudine addirittura all'edonismo nel preferire un certo tipo di cibo. Nella storia evolutiva del l'uomo, «la scimmia che cucina», gioca un ruolo importantissimo la trasformazione del basico atto del mangiare per nutrirsi, comune a tutti gli altri animali, in un vero e proprio gusto per il cibo, gusto che si accompagna al l'espressione linguistica delle preferenze e alla condivisione sociale dell'atto del mangiare. Rosalia Cavalieri, nel suo saggio Storia evolutiva del gusto, racconta in maniera appassionata e brillante uno degli aspetti più misteriosi dell'evoluzione della nostra specie.
Nello stesso momento in cui homo assume la postura eretta, che gli consente di avere una visione più aperta dello spazio e di lasciare libere le mani per manipolare oggetti e per trasformarli, egli abbandona la dieta vegetariana, abbraccia definitivamente una dieta onnivora che prevede un consumo cospicuo di carne e, soprattutto, lentamente riesce a esercitare il suo definitivo dominio sul fuoco, cosa che gli permette di cuocere gli alimenti, rendendoli più digeribili, sani e morbidi alla masticazione. Homo ergaster-erectus (1,6 milioni di anni fa), homo di Neanderthal (300mila anni fa) e il nostro vero antenato paleolitico homo sapiens di Cro-Magnon (40mila anni fa) sono i protagonisti di un tale mirabile passaggio evolutivo. Le ricadute sul piano fisiologico e cognitivo sono sorprendenti: la dentatura si assottiglia e si assesta in una posizione di maggiore equilibrio tra mascella e mandibola per una migliore masticazione che non prevede più lo stritolamento di gusci e di ossa di animali; l'intestino si riduce enormemente in virtù di una dieta con cibo più facilmente digeribile; il cervello aumenta di dimensioni, e l'energia risparmiata in una digestione più celere viene utilizzata per sviluppare la cognizione, con l'utilizzo di una gran quantità di glucosio, cosa che rende il cervello l'organo più "goloso".
È in questo periodo che avviene anche una delle trasformazioni più significative della nostra specie: l'abbassamento della laringe e la creazione di una cavità di risonanza nella faringe, che permette l'articolazione di suoni linguistici. L'uomo che cucina è dunque un uomo che parla, un uomo sociale che condivide non solo il momento della caccia e della produzione del cibo, mediante agricoltura e allevamento, ma che fa anche del consumo degli alimenti un'occasione sociale, l'occasione più importante, durante la quale confrontarsi con gli altri membri del gruppo. Il bioantropologo Richard Wrangham definisce questa tappa dell'evoluzione la «cooking hypothesis», sottolineando come l'abitudine a cuocere il cibo sia da considerarsi essenziale nel processo di ominizzazione. Il controllo del fuoco, «questa competenza universale che si riscontra in tutte le società conosciute» – sicché tutte le culture riconoscono il loro Prometeo che ha sottratto il fuoco agli dei per consegnarlo agli uomini –, rappresenta uno degli elementi cardinali che hanno mediato e permesso l'innesto della cultura nella natura.
Da quando il primo cuoco della nostra specie, erectus, ha iniziato a usare il fuoco per arrostire, e anche per riscaldarsi – motivo per cui poco a poco la specie homo ha perso la pelliccia –, le tappe sono state parecchie: fondamentale, però, fa notare Cavalieri, è il momento in cui si inizia a utilizzare la pentola, che consiste inizialmente in grossi gusci di molluschi e carapaci riutilizzati e solo successivamente nella produzione di veri e propri manufatti in terracotta; separando il cibo dal fuoco, l'apporto energetico migliora enormemente, così come anche il sapore. Nasce dunque la cucina, insostituibile tanto quanto il linguaggio, che nei secoli ha saputo trasformarsi in vera e propria arte, e grazie alla quale la ricerca del buon sapore e diventata sapere.

il Sole24ore Domenica 22.6.14 
Lettera dalla Tanzania
Nella savana a caccia con gli Hazda
Attorno al fuoco con gli uomini-cacciatori, in un mondo senza classi sociali e proprietà e dove le donne contano come i maschi
di Carlo Rovelli


È ancora scuro quando lasciamo il lodge. Guido la Land Rover con eccitazione, seguendo le indicazioni a mezze parole di Hassan, ancora un po' addormentato, che ci accompagna. La strada si fa approssimativa e il guado di un torrente mi mette un po' in difficoltà. Lasciamo la macchina sotto un baobab e ci incamminiamo nella savana. Siamo in tre, la mia compagna, Hassan ed io. Poco dopo li vediamo. Cinque o sei uomini accovacciati attorno a un piccolo fuoco. Agli alberi vicini sono appese pelli di babbuino, archi, un piccolo strumento musicale in legno, un'enorme pelle di pitone. Più in là il cerchio delle donne. Meno di una decina di capanne piccolissime. Mi accuccio accanto al fuoco, parte del cerchio degli uomini. Nessun convenevole, cosa inusuale in Africa, ma uno di loro mi allunga un pezzo di tronco su cui sedere e capisco che sono ben accetto. È un ragazzo, pelle nerissima, cranio allungato, occhi lunghi e dolci, sguardo pieno di orgoglio, pelliccetta di babbuino sulle spalle. Accanto a me un uomo intaglia una freccia con un coltello senza filo. Mi tolgo di tasca il mio Opinel francese e glielo porgo. Lui saggia il filo del coltello col dito, ride, cerca per scherzo di tagliare un ciuffo di capelli al vicino; tutti ridono. Mi ridà il coltello ma gli faccio segno che glielo regalo. Più tardi saprò che si chiama Sha-Kua, e mi regalerà un piccolo corno di antilope. Guardo anch'io nel fuoco e mi prende un'ebbrezza strana, una gioia selvaggia, un sentimento incoerente di essere tornato all'origine, ai giochi da ragazzo, a fare quello che noi umani abbiamo fatto per centinaia di millenni, quello per cui ci siamo evoluti. In mezzo a questi uomini neri di cui non parlo la lingua, che conoscono così poco del mio mondo, mi sento stranamente a casa.
Sono Hazda. Una popolazione di cacciatori-raccoglitori. Vivono in una regione nel nord della Tanzania. Non sono rimasti in molti. Le migrazioni dei Masai allevatori di bestiame e poi il dilagare del mondo moderno hanno ristretto il loro territorio. Negli anni Sessanta il governo socialista della Tanzania ha cercato di migliorare il loro stile di vita costruendo loro case. Gli Hazda hanno provato, ma sono tornati alla vita nomade: la preferivano. Nella zona si racconta di giovani Hazda che sono andati a scuola, hanno ottenuto un buon lavoro, cosa preziosa nell'Africa dove fame e miseria sono ovunque, ma poi hanno lasciato tutto per ritornare alla vita di caccia. Seduto con loro intorno al fuoco, mi sembra quasi facile capire perché. E ancora più facile mi sembra poco dopo, partito con loro per la caccia. Camminiamo silenziosi e guardinghi nella savana. Le mani tese sull'arco. Gli uomini si sparpagliano, si tengono in contatto con piccoli fischi, che io non distinguo dai gridi degli uccelli. Sha-Kua colpisce un dik-dik, una piccola antilope. Seguiamo tracce di gocce di sangue e troviamo il povero animale, trafitto dalla freccia, dentro il cespuglio dove si è rifugiato a morire. Gli uomini accendono il fuoco sfregando legni, con la facilità con cui si accende un cerino. Provo anch'io, con poco successo, il ragazzo mi aiuta e mi insegna. La piccola antilope è sul fuoco. La mangiamo tutti insieme. Sha-Kua ha staccato per me uno dei corni.
È ingenuo romanticismo? O forse è la nostra infinita capacità di proiettare sugli altri le nostre fantasie? Non lo so, ma il cuore continua a battermi, mentre torniamo in fila verso il villaggio. Uno degli uomini porta sulle spalle la metà rimasta dell'antilope per le donne, che nel frattempo sono andate a raccogliere frutti, bacche e radici. Mi sento un bambino portato a fare il più bello dei giochi. Una parte di me vorrebbe restare con questi uomini che sorridono, scherzano, mi insegnano cose, camminano a piedi nudi nella savana, sereni e fieri, con l'arco nelle mani. Non è questo che siamo nati per fare? Non è questo che abbiamo fatto per innumerevoli millenni? Pochi amici attorno al fuoco, andare a caccia e tornare a casa dalle donne? Al campo, di nuovo intorno al fuoco, gira una pipa, e questa volta decido di mandare nei polmoni il fumo acre. È una specie di marijuana leggera che cresce nella zona.
Daudi Peterson, antropologo americano cresciuto in Tanzania che ha vissuto a lungo con questa popolazione, ha raccolto in uno splendido libro, Hadzabe, alla luce di un milione di fuochi, racconti e immagini di Hazda che parlano in prima persona della lora vita e la loro visione del mondo. Vivono in piccoli gruppi indipendenti, le decisioni vengono prese in comune e le donne hanno la stessa influenza degli uomini. Quando due ragazzi si innamorano, il ragazzo caccia un babbuino, lo porta al padre della ragazza come segno di riconoscenza e i due giovani cominciano a vivere insieme. L'intero gruppo si prende cura dei bambini. I vecchi sono rispettati, raccontano le storie attorno al fuoco, ma non sono loro che decidono. Non ci sono classi sociali né gerarchie. Non ci sono capi. Chi si dà arie di superiorità viene preso in giro. Chi non è d'accordo, o non si trova bene in una situazione, va per la sua strada. Non c'è proprietà; quello che è cacciato viene subito diviso e regalato, perché il cibo non si conserva. L'antropologia oggi ci insegna che abbiamo vissuto così per per centinaia di migliaia di anni, un tempo infinitamente lungo. Coltivare i campi, allevare bestiame, costruire città, leggere libri, alzare templi e cattedrali e navigare su internet è tutto poi una questione dell'ultimo breve giro di anni. Forse non ci siamo davvero ancora abituati alla novità, al disagio della civiltà?
E loro, gli Hazda? Loro condividono con il resto del mondo, Cinesi, Svizzeri o Veronesi, la convinzione che il proprio stile di vita sia l'unico ragionevole e tutti gli altri siano strani. Osservano che le tribù della regione che vivono di agricoltura o allevamento soffrono carestie e fame (una siccità ha decimato il bestiame dei Masai pochi anni fa e ridotto la popolazione alla miseria). Gli Hazda non conoscono carestie: animali da cacciare e frutti da raccogliere non mancano mai nella savana. Ho provato a chiedere a Hassan, la nostra guida, di domandare a Sha-Kua cosa pensasse di noi. Hassan è nato in un villaggio vicino al territorio Hazda, li conosce fin da ragazzo. Ci racconta che trovava animali colpiti dalle loro frecce avvelenate, e li cercava per portarglieli. Ha un rapporto amichevole con loro. Ma la risposta alla mia domanda mi suona priva di senso: «Pensa che siete interessati a loro perché loro sono bravi cacciatori e volete imparare». Mi sta prendendo in giro? Poi penso: ha mai interessato molto a noi ragazzi di Verona degli anni Sessanta sapere come vivevano i turisti americani che vedevamo passare? Non ce ne importava nulla. Forse a Sha-Kua non importa nulla di come vivono «gli altri». Gli importa dei suoi amici, della sua caccia, della sua donna, come alla maggior parte degli uomini. Forse è addirittura questo che ha permesso a questa gente di non farsi troppo influenzare durante gli ultimi secoli, e restare a vivere come i padri dei padri... Forse Sha-Kua e la sua gente sono meno rosi dalla curiosità, dalla voglia di sapere di più. Quella che ci ha spinto fuori dall'Africa, ci ha fatto spandere per il pianeta, addomesticare animali e le piante, interrogare le stelle, porci mille domande, costruire villaggi, città, metropoli e megalopoli. Forse chi ha lasciato passare la rivoluzione neolitica, e le altre minori che ci hanno portato fin qui, è solo chi ha meno curiosità, meno voglia di guardare oltre la collina? O forse invece chi, lungimirante, vedeva i rischi del disequilibrio? Non lo so.
Ma eccoci qui a guardarci negli occhi, tu e io, Sha-Kua. Guardarci con simpatia attraverso questi pochi millenni di strada diversa, e a me sembra misurare nel tuo sguardo il valore e il prezzo di questa strada percorsa. Io giro il mondo, leggo libri, mi curo se mi ammalo. Tu no. Io ho dentro di me un'inquietudine inappagata e non so stare fermo. Tu non lo so. Ma le cose che contano sono rimaste le stesse, e nella mia ingenua fantasia mi sembra che tu le abbia tutte, perché la nostra biologia si è evoluta per fare quello che fai tu, non quello che faccio io. Io non saprei certo più vivere così. Chiederci se questa altra strada valeva la pena, anche se è irresistibile, non ha senso. Siamo quello che siamo. Ti resta il mio coltello francese. Serve più a te che a me. Mi resta questo piccolo corno di antilope. Che per me è il ricordo di una vita di più di cento milioni di anni. Una vita perduta, di cui tu, Sha-Kua, sei forse fra gli ultimissimi a soffrire, o assaporare.

il Sole24ore Domenica 22.6.14 
Il rigore della letteratura
Da una chiacchierata con l'autore israeliano Abraham Yehoshua, che sarà in Italia per il premio Hemingway, le ragioni ultime e la forza che mantiene lo scrivere romanzi
di Luigi Sampietro


«La riluttanza da parte dei critici ad addentrarsi nelle aspre ragioni dell'etica non giova né alla letteratura né alla morale, poiché, nonostante il loro successo e la loro importanza, né i media né tantomeno i tribunali riusciranno mai a suscitare nel nostro animo un fenomeno di immedesimazione profondo come quello provocato dalla letteratura».
Così scriveva Abraham B. Yehoshua nell'introduzione a una raccolta di saggi, Il potere terribile di una piccola colpa (Einaudi, 2000), che, se a prima vista e in tempi di imperante politically correctness, poteva apparire poco convincente, conteneva tuttavia una grande verità. E cioè che la letteratura è finita in un angolo perché tradita in una delle sue motivazioni più importanti.
Da insostituibile guida morale che era al tempo in cui Tolstoj scriveva Anna Karenina, ha finito per cedere a certi agenti che sono tanto impropri quanto incompetenti: i media, appunto, e i tribunali: entrambi incapaci di quella «suspension of disbelief»" di cui parla Coleridge e che porta il lettore a riconoscere dentro di sé – attraverso un atto di co-inherence o "co-inerenza" con il testo – certe verità profonde altrimenti indimostrabili.
I media, sempre così sensibili a questioni di equità e correttezza politica, che si avvalgono soprattutto di interviste e sondaggi, e che ci espongono al rischio di confondere lo studio dei dilemmi morali sollevati da un testo con le conclusioni che ciascuno di noi può trarre misurandoli con le proprie piccole nevrosi; e i tribunali a cui sempre più si tende a delegare il giudizio su ciò che è giusto o ingiusto, laddove la loro funzione – e il loro ambito! – è invece solo quella di stabilire la legalità o illegalità delle azioni umane.
Devo dire che quando lessi per la prima volta il libro di Yehoshua rimasi un po' perplesso. Ero nel mezzo di una battaglia campale contro i burocrati della critica, ovvero quel modo fin troppo facile di insegnare allo studente a valutare un'opera d'arte sulla base di convinzioni esterne all'opera stessa: sulla base, cioè, di una causa che si aveva in mente e che poteva essere politica, economica, religiosa o sociale, e che divideva facilmente la realtà tra buoni e cattivi, e gli artisti tra "quelli che stanno con noi" e "quelli che sono contro di noi".
Non che avere un'opinione decisa in qualsiasi campo lo ritenessi un male, ma nell'ambito della letteratura era mia convinzione che per rispondere alle domande dello studente desideroso di imparare il mestiere bisognava prima di tutto riflettere su quella frase di Oscar Wilde che tagliava la testa al toro: «Non esistono libri morali o immorali. Ci sono libri scritti bene o scritti male, e questo è tutto».
Sapevo benissimo che "non era tutto", ma quella doveva essere la nostra priorità. Il legittimismo applicato alla critica, da ideologico che era ancora cinquant'anni addietro – e anche cento o duecento o cinquecento anni prima, quando le opere d'arte erano commissionate e patrocinate in base al credo di cui si pensava fossero al servizio –, negli ultimi decenni aveva preso una via che aveva semplificato fino alla beceraggine qualsiasi giudizio. Lo studio della letteratura, che un tempo era nutrimento dello spirito, era diventata una sorta di caccia alle streghe diretta da burocrati con tanto di liste di proscrizione. E il giochino, tanto facile quanto pericoloso, aveva trasformato la critica letteraria in qualcosa in cui non c'era nulla di critico. Mentre il nostro compito era, per il momento, cercar di capire, non a che cosa servisse, ma come funzionasse un libro: entrarvi come se a spiegarcelo fosse chi l'aveva scritto.
Rileggendo Yehoshua, anni dopo, mi sono però accorto che la parola "morale" applicata alla riflessione critica, lungi dall'introdurre una qualsiasi censura di carattere ideologico non aveva nulla di allarmante. Riguardava – riguarda –, piuttosto, la necessaria complessità dei dilemmi che la letteratura deve essere capace di presentare e il lettore di affrontare, inoltrandosi in territori estremi dove difficilmente avrebbe occasione di avventurarsi da solo.
In altre parole, mi sono convinto che, dopo averne soppesato l'efficacia formale e dopo averne ravvisato le tecniche e i trucchi, la letteratura – la grande letteratura –, la si deve poter leggere e valutare vedendola al centro anche di un discorso di carattere etico. Un testo è importante se è in grado non solo di farsi ammirare ma di coinvolgere la nostra intera umanità.
«Cosa che oggi non si fa più», mi dice al telefono lo stesso Yehoshua quando lo chiamo per dargli il benvenuto in vista del Premio Hemingway che gli sarà assegnato la prossima settimana a Lignano Sabbiadoro. «Oggi il dilemma che pone un libro come Anna Karenina finirebbe in fumo. Lo scrittore – e, peggio ancora, il critico – indagherebbe sulla sua infanzia, non sul problema della responsabilità degli individui».
Israeliano ed ebreo sefardita, Yehoshua ha fatto della moderna Gerusalemme, dove è nato e dove la sua famiglia risiedeva da cinque generazioni, quel che sono Praga per Kafka e Dublino per Joyce. Ma a Gerusalemme non vive più da decenni. Il suo modo di scrivere, aderente alla realtà e allo stesso tempo capace di trasfigurarla sul piano simbolico, lo ha reso famoso nel mondo.
Ha pubblicato i primi racconti in un periodo, gli anni Sessanta, in cui una generazione di giovani scrittori appartenenti al cosiddetto "Nuovo Movimento" sostituirono il realismo ideologico – centralizzato –, che aveva celebrato la storia del sionismo, con una narrativa attenta alla complessità dei rapporti personali all'interno della famiglia e soprattutto della coppia.
I suoi primi romanzi – L'amante (1977) e Un divorzio tardivo (1982), entrambi pubblicati in Italia da Einaudi rispettivamente nel 1990 e 1996 – sono costruiti in forma di monologo interiore, mentre nel Il signor Mani (1990) i dialoghi sono ridotti a monologhi in quanto possiamo leggere solo quel che dice una delle voci parlanti, ed è come ascoltare qualcuno che parla al telefono senza sentire chi sta all'altro capo del filo. Una tecnica, questa, che costringe il lettore a usare la propria immaginazione. Ma non provate a chiedere a Yehoshua, come invece ho fatto io, che cosa dica l'interlocutore che non possiamo sentire. Vi risponderà che non lo sa nemmeno lui.
Il signor Mani, pure pubblicato da Einaudi (1994), è ritenuto il suo capolavoro ed è un viaggio all'indietro nel tempo. Iniziato dopo la morte il funerale del padre, non è però un romanzo dettato dalla nostalgia, quanto piuttosto dalla convinzione che «il passato non è morto: non è nemmeno passato», come diceva Faulkner, e che solo contando su questo principio si possa cogliere la complessità del reale e conoscere la propria identità. Che per Yehoshua vuole dire porre al centro di ogni cosa – come mito e come motore della storia ebraica – quella akedah, o minaccia sventata del sacrificio di Isacco, che trova la sua succinta espressione, come lui stesso ha scritto, nella frase: «In ogni generazione, ognuno deve guardare a se stesso come se fosse personalmente uscito dalla schiavitù dell'Egitto».
Yehoshua ha più volte dichiarato che The Sound and the Fury è il grande romanzo americano del Ventesimo secolo, e che il suo punto di riferimento artistico, oltre a Franz Kafka e Shmuel Yosef Agnon, è proprio Faulkner. Gli chiedo pertanto se l'assegnazione di un premio intitolato a Hemingway non lo ritenga inappropriato: sia fuori luogo. «Oh, no, no, no! La mia affinità con Faulkner nulla toglie al rispetto che ho per l'opera di Hemingway, che ho sempre incluso nei miei corsi quando insegnavo a Haifa e poi anche a Chicago. E, in fin dei conti, in Italia, dove vengo sempre volentieri, ho ricevuto altri premi intitolati a scrittori diversi come il "Flaiano" e il "Giovanni Boccaccio". Gli scrittori non si escludono mai a vicenda».

il Sole24ore Domenica 22.6.14 
Dante e il libro di Maometto
Arriva la conferma che nella biblioteca frequentata dal poeta c'era una copia del viaggio nell'aldilà del profeta dell'Islam
di Corrado Bologna


Aby Warburg elesse a epigrafe della propria ricerca un motto divenuto celebre: «Der liebe Gott steckt im Detail», «Il buon Dio abita nel dettaglio». Nel dettaglio può nascondersi il buon Dio, ma certo anche il perfido Demonio. In una massa enorme di dati, se si individua con sottile sagacia ermeneutica «il particolare giusto» e si riesce ad aprirlo come un forziere, scaturirà un tesoro inatteso, un'intera visione del mondo. Un piccolo dettaglio, allora, diventerà una cornucopia, una bacchetta magica, una lampada di Aladino.
Le ricerche delle Annales lo hanno dimostrato con dovizia, spesso affidandosi a quell'arte della lettura delle tracce che gli inglesi chiamano serendipity. Abbiamo tutti nella memoria, per evocare un caso luminoso, la straordinaria biblioteca in miniatura del mugnaio cinquecentesco Menocchio, che Carlo Ginzburg dedusse dagli interrogatori dell'Inquisizione, e che permise di restituire un fossile culturale di grande importanza: il "Fioretto della Bibbia", il "libro delle cento novelle del Boccatio", il "cavallier Zuanne de Mandavilla" (cioè i Viaggi di John Mandeville), un perturbante, quasi incredibile Corano. «Ma Menocchio», commentava Ginzburg, «non era Montaigne, era soltanto un mugnaio autodidatta».
Quel Corano tra le mani di un mugnaio del XVI secolo in odore d'eresia brilla come una pepita d'oro nella ganga della miniera. Da un'altra miniera strepitosa, gli elenchi dei libri posseduti dalle biblioteche dei grandi Ordini mendicanti dei secoli XIII-XIV e smarriti lungo i secoli, è stato appena scavato un altro simile diamante rarissimo, dalla forma curiosa, che permette d'essere incastonato alla perfezione in un'elegante collana di ricerche avviate giusto un secolo fa.
Il giacimento è la «piccola ma significativa biblioteca messa insieme da un frate converso domenicano fuori del comune di nome Ugolino, di cui per ora sappiamo soltanto che all'inizio del Trecento svolse il compito prestigioso di "arcarius" e cioè di "guardiano" della celebre arca sepolcrale di san Domenico, eseguita nel 1267 per l'omonima chiesa bolognese da Nicola Pisano e dalla sua bottega». L'elenco dei libri, che in età avanzata Ugolino decise di regalare al proprio convento, Luciano Gargan l'ha ricavato dall'atto di donazione (1312) conservato in una pergamena dell'Archivio di Stato di Bologna che in realtà era già stata pubblicata mezzo secolo fa da due storici dell'ordine domenicano, rimanendo però del tutto inerte in fondo a uno studio per specialisti. A valorizzarlo in una dimensione di storia della cultura, in particolare di cultura dantesca, è oggi la métis di Gargan, cioè il suo fiuto, la sua capacità di riconoscere i dettagli importanti immersi nel magma e di collegarli in una sottile ricostruzione filologica e storiografica. Storicizzati, i dettagli respirano, tornano a parlare di vita, di potenzialità e di realtà.
Tutte le ricerche di Gargan «per la biblioteca di Dante» sono zeppe di materiali interessantissimi. Le raccoglie ora un importante libro dell'Editrice Antenore (che sempre più si conferma faro sicuro nel settore degli studi su Medioevo e Umanesimo): una piattaforma di sintesi e di messa a punto anche bibliografica essenziale per qualsiasi futura indagine sulla cultura dantesca. Piacerebbe avere spazio per illustrare le tante novità che offre, specie sulla presenza dei Vittorini. Ma mi limito all'ultimo fra i 14 libri dell'elenco notarile bolognese del 1312, che mi fa sobbalzare mentre leggo: «Item voluit frater Hugolinus predictus quod huic donationi adderetur liber qui dicitur Scala Mahometti... ». Dunque, fra Ugolino "aggiunse" ai libri di teologia e di filosofia regalati alla biblioteca di S. Domenico di Bologna quel famoso e un po' misterioso Libro della Scala di Maometto che (annota giustamente Gargan, nella sua sobria prudenza filologica) «non è menzionato in nessun altro inventario di biblioteca medievale». Dante, durante i suoi studi bolognesi «nelle scuole delli religiosi», poté quindi leggere, tradotta in latino, la storia del viaggio di Maometto nell'oltretomba, accompagnato dall'arcangelo Gabriele.
«Poté» leggere: non «lesse certamente». È chiaro che su questo punto le polemiche tra i filologi si accenderanno. A me pare tuttavia che questo dettaglio rappresenti una punta di diamante fortissima, incisiva, per stabilire un affidabile paradigma di compatibilità logica, storica, documentaria. Per la prima volta abbiamo la prova sicura che, negli anni stessi in cui Dante scriveva la Commedia, in una delle biblioteche in cui è verosimile che egli abbia studiato si conservava il Libro della Scala, forse nella stessa versione latina approntata nel 1264 nella Toledo di Alfonso X "il Saggio" dal notaio Bartolomeo da Siena. La pubblicò nel 1949 Ernesto Cerulli, traendola da un codice parigino segnalato nel 1944 da Ugo Monneret de Villard, e congetturando che Brunetto Latini, maestro di Dante e ambasciatore di Firenze a Toledo, potesse essere stato mediatore dell'arrivo dell'opera in Italia (un'utile traduzione italiana, con il testo latino a fronte, procurò l'anno scorso un'allieva della Corti, Anna Longoni). Cerulli puntualizzava le acute ricerche del grande arabista spagnolo Miguel Asín Palacios che per primo, nel 1919, con L'escatologia islamica nella Divina Commedia, aveva segnalato l'affinità dell'impianto concettuale e figurale dell'architettura dell'aldilà dantesco rispetto a quello islamico (Carlo Ossola, definendolo «una delle poche opere-guida nella produzione erudita europea del ventesimo secolo», lo fece tradurre nel 1994). Oggi, scoprendo che nel 1312 i domenicani bolognesi possedevano il Libro della Scala, la questione va riaperta con un livello di compatibilità molto più alto.
Mentre leggo Gargan penso al sorriso solare che sarebbe sbocciato, se avesse potuto conoscere questi studi, sul volto di Maria Corti, la grande maestra coraggiosa, generosissima, che negli ultimi anni di una vita intensamente dedicata in particolare alla ricerca su Cavalcanti e Dante riprese con intelligenza l'idea di Asín Palacios, segnalando «un possibile influsso sulla metafisica della luce dantesca» da parte del Libro della Scala, ma ribadendo prudentemente che l'influenza «è più strutturale che puntuale, cioè tale da aver agito soprattutto sull'idea organizzativa del poema, e solo localmente su qualche episodio».
Quel sorriso lo immagina di certo anche Gargan quando proprio a Maria Corti dedica un altro dei suoi capitoli innovativi sui libri di logica, filosofia e medicina «che Dante poté avere occasione di leggere o rileggere mentre soggiornava a Bologna». In un inventario del 1286 (lo scoprì nel 2008 Armando Antonelli), legato a «un singolare processo in cui si trovò coinvolto il medico Tommaso d'Arezzo», per la prima volta si trova una traccia sicura della circolazione bolognese delle opere di Sigieri di Brabante e di Boezio di Dacia, che la Corti, nel suo bellissimo Dante a un nuovo crocevia (1981), propose fossero stati studiati direttamente da Dante, e poi allegoricamente cifrati nella Commedia in «un rapporto simbolico fra la vicenda di Ulisse e il pensiero degli aristotelici radicali» (fra cui Guido Cavalcanti, compagno di studi di Dante proprio a Bologna). Trent'anni fa la polemica divampò, e si disse che non esistevano prove che Dante avesse letto quei testi. L'inventario del 1286, oggi studiato minuziosamente da Gargan, dimostra che «l'incontro di Dante con l'averroismo latino» assai probabilmente ci fu, e «poté avvenire nella facoltà di arti e medicina di Bologna». Il buon Dio, abita nel dettaglio!

il Sole24ore Domenica 22.6.14 
Contro la pseudoscienza
Una crociata vittoriosa
Due scienziati italiani hanno stilato questa settimana per «Nature» un bilancio della dura battaglia fatta per arginare le comunicazioni false di Stamina. Ne pubblichiamo uno stralcio
di Elena Cattaneo e Gilberto Corbellini


Gli scienziati traggono le maggiori soddisfazioni lavorando per ore in laboratorio, con colleghi che ragionano come loro, ma qualche volta il loro dovere è altrove. Anche se questo significa non rispettare scadenze di finanziamenti o ricevere lettere di minaccia. Quando l'abbassamento degli standard clinici ha messo a rischio la salute di pazienti e il sistema sanitario, siamo stati tra coloro che hanno abbandonato il "confort" di laboratori e uffici, battendosi per far prevalere le prove. Sin dalla sua creazione, nel 2009, la Fondazione Stamina ha sostenuto che cellule staminali prelevate dal midollo osseo possono essere trasformate in neuroni esponendole ad acido retinoico, una molecola chiave per lo sviluppo embrionale. Il fondatore di Stamina, Prof. Davide Vannoni, che non ha laurea scientifica o medica, afferma che iniettando queste cellule si possono trattare malattie tra loro diverse come Parkinson, distrofia muscolare o atrofia muscolare spinale. Nessuna sua pubblicazione compare nella letteratura valutata da referee internazionali. Egli ha spostato il laboratorio in giro per l'Italia e all'estero, dichiarando di voler lavorare dove le regole sono meno rigide.
Diversi scienziati e tecnici del governo hanno scoperto che i pretesi protocolli Stamina erano impropri, e che mancava qualunque prova che il trattamento avesse presupposti di efficacia. Nondimeno il servizio sanitario italiano ha pagato per alcune di queste procedure e il Parlamento ha votato il finanziamento di una sperimentazione clinica per tre milioni di euro. Nel corso degli ultimi due anni, insieme a diversi altri colleghi e in modo particolare con gli staminologi Paolo Bianco e Michele De Luca, ci siamo espressi contro questi presunti trattamenti. Abbiamo visto scaderci termini per il finanziamento di progetti e mancato a incontri professionali per impegnarci in questo. Abbiamo imparato ad applicare le nostre capacità investigative al di fuori delle nostre discipline, e abbiamo riconosciuto le abilità nell'aiutare i non-scienziati a cogliere il valore delle prove, il rigore e la valutazione dei rischi. La nostra più recente vittoria è del 28 maggio con la pubblicazione della sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, la quale dice che i pazienti non hanno diritto a ricevere terapie per le quali manchino prove scientifiche. Ma non ci possiamo rilassare. All'inizio del mese il Dr Marino Andolina, vice presidente di Stamina Foundation, è stato nominato commissario ad acta degli Spedali Civili di Brescia da un tribunale che lo ha incaricato di proseguire il "trattamento Stamina" su un bambino.
I pazienti disperati saranno sempre vulnerabili all'abuso. Speriamo che condividere la nostra esperienza – avendo imparato diverse cose a caro prezzo – possa aiutare altri a lottare contro la pseudoscienza predatoria. Questa crociata (svolta per tutelare il paese e i malati da abusi, ndr) ha comportato costi personali. Gli ultimi 18 mesi sono stati delle montagne russe di inquietudine, delusione, trionfo e indignazione. Abbiamo trascorso innumerevoli ore discutendo tra noi o con politici al telefono, di persona e in videoconferenze. Abbiamo preparato e condiviso almeno sei dossier e decine di diapositive (che dimostravano l'infondatezza di quanto Stamina proponeva, ndr). Abbiamo rilasciato interviste a giornali e scritto commenti quasi settimanalmente. Abbiamo scambiato corrispondenza e opinioni con organizzazioni di pazienti, e stabilito rapporti con i medici dell'ospedale pubblico che ospitava Stamina, i quali ora hanno preso le distanze da Vannoni. Abbiamo cominciato a interagire giornalmente con i carabinieri dei Nas che indagavano sul caso (su richiesta, abbiamo fatto ore di deposizioni, ndr).
Ogni mattina passavamo dettagliatamente in rassegna il campo di battaglia. Dovevamo essere pronti a cambiare i piani all'ultimo minuto, quando Stamina vinceva una scaramuccia mediatica, politica o regolatoria. Da giugno 2013 a noi e a colleghi come De Luca e Bianco e altri è stato regolarmente chiesto da studenti, docenti, organizzatori di festival scientifici, associazioni di pazienti e numerosi altri gruppi di tenere lezioni e conferenze sul caso Stamina. Non abbiamo mai detto di no. Quelli di noi (EC, Bianco e De Luca) che coordinano gruppi di ricerca stimano di aver impegnato finora 60-80 settimane di tempo del laboratorio, con seri ritardi nello sviluppo dei progetti e nell'invio di articoli con i risultati ottenuti. Spesso abbiamo svolto i nostri compiti nei riguardi di studenti e collaboratori di notte e via email.
Abbiamo imparato a evitare di apparire in programmi televisivi in cui la ragione è spazzata via da forti messaggi emotivi. Per diversi mesi alcuni di noi hanno ricevuto lettere di minaccia e insulti da persone che percepivano dalla nostra impossibilità a mentire, una mancanza di compassione per pazienti a rischio di morte. Diverse di queste lettere erano gravi al punto che abbiamo ritenuto di doverle inoltrare ai carabinieri. Le nostre istituzioni hanno sporto denunce contro persone ignote che si muovevano intorno ai nostri laboratori. Le nostre caselle email e università sono state fatte oggetto di attacchi informatici (le minacce continuano, ndr).
Abbiamo parlato e informato chiunque del campo anche fuori del nostro paese. Il sostegno della comunità internazionale si è dimostrato essenziale. Ha evidenziato che non eravamo presunti istigatori locali, ma avevamo un mondo alle spalle. L'assegnazione a EC, Bianco e De Luca di un premio per il lavoro svolto a difesa dei pazienti, da parte dell'International Society for Stem Cell Research (consegnato lo scorso 18 giugno al l'apertura del congresso mondiale tenutosi a Vancouver, ndr) ha rafforzato la nostra credibilità in Italia, così come le dichiarazioni del Nobel e pioniere delle staminali Shinya Yamanaka o le pubblicazioni apparse nella letteratura scientifica. In Italia, trovare i giusti alleati e ottenere il meglio da loro è stato cruciale. Serve saper parlare con tutti,a prescindere dalla conoscenza scientifica. Alcune persone apprezzano la mole di documentazione e l'insistenza che caratterizza l'approccio degli scienziati. Altri vogliono discutere di valori e opinioni; è importante rispettare e impegnarsi nel dialogo, spiegando però in modo fermo la differenza tra credenze e fatti. Coltivare i rapporti con i colleghi scienziati coinvolti nella lotta contro la pseudoscienza è anche importante. Abbiamo imparato a essere generosi e a ricordare che condividevamo un solo obiettivo. Nel porgere i nostri argomenti al pubblico, l'atteggiamento da primadonna non aiuta. È fondamentale mostrare un fronte unito, se si vuole che le azioni comunicative e politiche si mantengano valide ed efficaci.
Ma ne è valsa la pena. Ora, grazie alla sentenza della Corte Europea e all'indagine presso la Commissione Sanità del Senato varata tre mesi fa (ma anche all'instancabile lavoro dei NAS, a quella iniziale e ineccepibile ordinanza di blocco di AIFA, ai giornalisti che non si sono mai fatti sedurre da un'informazione comoda ma ingannevole, ai tanti familiari di malati e alle associazioni con cui siamo riusciti a parlare e a spiegare, ai medici che si sono sempre distanziati da Stamina, ai tribunali che hanno studiato il caso e redatto sentenze pertinenti, oltre a quei politici che hanno capito urgenze e gravi errori, ndr) siamo fiduciosi che questi inefficaci trattamenti saranno presto banditi dall'Italia. Consigliamo a tutti gli scienziati di apprezzare e divulgare più efficacemente il metodo scientifico. La scienza dipende dalle istituzioni pubbliche ed è fatta nell'interesse del pubblico. Noi abbiamo il dovere di difendere entrambi.
Università degli Studi di Milano; Sapienza Università di Roma

il Sole24ore Domenica 22.6.14 
Psicologia e diversità
Tapirone sul lettino dell'analista
Vittorio Lingiardi e Nicola Nardelli fissano le linee guida per ogni genere di consulenza psicologica con le persone gay, lesbiche e bisessuali
di Maria Bettetini


«Ci piace di più, Tapirone a testa in giù!», gridavano in classe, a dodici anni, i maschi più scatenati. "Tapirone" era un ragazzino afflitto da una naturale bravura in tutte le materie, unita a una altrettanto naturale scarsa prestanza fisica. Oggi sarà, mi auguro, a veleggiare tra intelligenze alte come la sua, che non gli impedì tanti anni fa di essere oggetto di bullismo crudele, come sanno essere crudeli i ragazzini. Si chiama minority stress, la fatica di sentirsi ed essere considerati "diversi". Alla stessa età può capitare, con conseguenze drammatiche, anche a chi, soprattutto nella patria del machismo, abbia atteggiamenti non abbastanza maschi. Non a chi si presenti come omosessuale, ma a chi manifesti interessi, gestualità, gusti considerati "effeminati". Sul versante opposto, certo anche per reazione, in età più adulta la rivendicazione di una lecita diversità porta a esibizioni colorite, insieme a sensi di colpa nei non-diversi. Sensi di colpa che conducono a forme di scuse non richieste, da manuale della stereotipia: i miei migliori amici sono gay, sono così gentili e cavalieri, se mio figlio mi dicesse una cosa così gli risponderei che voglio solo la sua felicità. Per non essere da meno, tutto è occasione di coming out, lo si fa per indicare una scelta religiosa, un gusto, una passione, ognuno si esercita nel non nascondersi. In questa corsa alla redenzione, nelle scuole elementari da quest'anno è proibito raccontare fiabe dove uomo e donna rivestano ruoli in cui genere e sessualità siano definiti rigidamente, senza rispettare la faticosa costruzione del primo, anche eventualmente in contrasto con la seconda. Corretto, forse troppo. Si sente il bisogno di equilibrio, cui certo contribuiscono le linee guida per ogni genere di consulenza psicologica con persone lesbiche, gay, bisessuali, preparate da Vittorio Lingiardi e Nicola Nardelli. Archiviate le «terapie riparative», che consideravano l'omosessualità alla stregua di una malattia (l'American Psychiatric Association l'ha derubricata dai disturbi mentali nel 1973, ma ancora vent'anni fa la Società psicoanalitica italiana non permetteva agli e alle omosessuali di diventare analista), appurato che i test della personalità non distinguono tra omosessuali e non, ai professionisti della psiche servono competenze per occuparsi di persone che in quanto tali non dovrebbero nemmeno avere diritti speciali, oltre a quelli di ogni essere umano e cittadino o cittadina. Il lavoro di Lingiardi e Nardelli è scientificamente rigoroso, riporta in appendice preziosi documenti e una ricca bibliografia, è estraneo a ogni ideologia, distinguendo con chiarezza tra la necessità di aggiornare la scienza della psiche e le posizioni personali. In paesi lontani e vicini, anche di grandi tradizioni culturali, l'ignoranza più violenta colpisce chi è diverso, e dunque debole: donna, omosessuale, bambino, malato. Studino dunque i medici della psiche, e riflettiamo tutti, per aiutare a difendersi chi non dovrebbe averne bisogno, in una società perfetta.

il Sole24ore Domenica 22.6.14 
E Calamandrei difese i soldati
di Goffredo Fofi


In un numero del marzo 1956 della rivista che aveva fondato e dirigeva, «Il ponte», pochi mesi prima di morire Piero Calamandrei pubblicò un ricordo del suo primo processo che ora le edizioni Henry Beyle propongono in un prezioso volumetto a tiratura limitata (info@henrybeyle.com). Privo al solito di qualsiasi retorica, in una lingua asciutta, essenziale, uno splendido italiano che è tutto fuorché "avvocatesco", si tratta di poche pagine che evocano avvenimenti di quarant'anni prima. Siamo nell'estate del 1916, «all'ombra del Pasubio», sul fronte della prima guerra mondiale. Calamandrei aveva allora 27 anni, si era da poco laureato in legge, era "sottotenente di fanteria" e venne chiamato a difendere dei poveri soldati che non capivano cosa gli stesse succedendo, perfettamente innocenti, e questo pochi minuti prima che un tribunale straordinario si riunisse per giudicare otto fanti accusati di «abbandono di posto dinanzi al nemico». Il processo era stato imposto da un classico generale fanatico e, con gli occhi di poi, ridicolo: «una specie di "puro folle" della guerra», con «una grande barba da apostolo e celesti occhi paterni», che sfidava la morte e «passava nelle trincee a fronte alta, sorridente e patriarcale, e ogni tanto, se gli avveniva di scoprire una testa, vi calava sopra un randellata: senza scomporsi, con aria ispirata, come se compiesse un rito». Al colonnello che aveva convocato Calamandrei, questo generale aveva chiesto che «almeno uno per l'esempio bisogna fucilarlo».
«Per l'esempio» è una formula ben nota ai tribunali militari di tutti i fronti e di tutte le guerre. Gli otto accusati, «tutti meridionali, quasi tutti di classe anziana», erano stati sbarcati tempo prima, quando erano ancora in dodici, da un autocarro nottetempo durante un'avanzata, vicino alla linea di combattimento, e spediti a raggiungere un paese, senza guida e senza mai aver visto quei luoghi. Si erano perduti, ma erano stati ritrovati all'alba, e avevano preso parte a combattimenti durante i quali due di loro erano morti e due erano moribondi. Gli altri otto, «colpevoli di essere rimasti vivi» , erano stati posti sotto processo dal «puro folle» per dare un «pronto esempio di militare giustizia».
È quest'assurdo processo a dei poveri cristi storditi e "trasognati", di fronte a cinque giudici rimediati, che venne celebrato nella convinzione della certa condanna a morte di almeno uno degli accusati – non fosse che il giovane Calamandrei fresco di studi trovò un cavillo che metteva in discussione il «pronto esempio»: i fatti erano successi tre settimane prima, l'urgenza dell'esempio non c'era più, bisognava dunque deferire il processo ad altro tribunale «stabile e regolarmente costituito». È per fortuna quello che accade, grazie alla inattesa complicità del pubblico accusatore, che aveva pratica di leggi militari e che prese le parti di Calamandrei appoggiando la sua tesi, con grande smacco del «puro folle». Il processo venne dunque rinviato a chi di dovere, ad altro luogo e giorno, e lì gli imputati, saprà più tardi il loro difensore, vennero assolti. Ma per il giovane Calamandrei si sarebbe messa male se il suo colonnello non lo avesse difeso di fronte al «puro folle» che, «per ristabilire la disciplina», chiese che venisse messo lui sotto processo, per insubordinazione. Per salvarlo il colonnello, fece passare Calamandrei per una sorta di «malato di mente». «Allora, se è malato di mente, lo porterò con me a fare una giratina fuori dai reticolati, e così rinsavirà». Ma due giorni dopo il reggimento fu trasferito, e il «puro folle» perse di vista il giovane «malato di mente».
Questo racconto perfetto – di straordinaria intensità morale, narrativa, visiva e dove pathos e ironia si compenetrano va messo accanto, in quest'anno 2014 a un secolo dall'inizio dell'assurdo massacro del '14-'18, a quello "inventato" di De Roberto, La paura e a Un anno sull'altipiano di Lussu, alle poesie di Rebora, alle pagine di Addio alle armi sulla ritirata di Caporetto. È una storia da leggere e far leggere proprio per «dare un esempio» – non quello previsto dalla giustizia militare, bensì un esempio dell'assurdo della guerra e di un'idea astratta e fanatica di giustizia.

il Sole24ore Domenica 22.6.14 
Oltre Picasso c'è Dora Maar
Victoria Combalía conobbe la fotografa per telefono nel '93: da allora studia il suo lavoro e presenta i risultati in Italia nella mostra di Palazzo Fortuny
di Laura Leonelli


Dovremmo andare a vedere questa mostra tenendoci per mano, figlie, mogli, amiche, compagne. E insieme, senza età e senza gelosie, dovremmo sentire l'urlo liberatorio di quel titolo, Dora Maar. Nonostante Picasso. Due nomi e una congiunzione che raccontano la storia di una delle artiste più moderne nella Parigi degli anni '30, eppure vittima della violenza più antica che gli uomini, anche quelli di talento smisurato, infliggono alle donne per rabbia, tirannia e in fondo debolezza. Nonostante il suo genio, Picasso ha annientato Dora Maar. E nonostante un lungo periodo di buio e dolore, Dora Maar è tornata a noi come una delle più originali interpreti della fotografia del '900. Non sorprende quindi se a illuminare questo destino fulgente, tragico e di nuovo luminoso sia proprio una donna, Victoria Combalía, storica dell'arte spagnola. Spetta a lei infatti, dopo un invidiabile rendez-vous telefonico con Dora Maar nel 1993 e vent'anni di studio sul suo lavoro, presentare per la prima volta in Italia, nella mostra di Palazzo Fortuny a Venezia, l'opera di quest'artista così complessa, fotomontaggio, come molte sue opere, di tante esistenze.
La prima di queste vede una bambina che sia chiama Henriette Theodora Markovitch, un nome un po' francese, come sua madre, un po' bizantino per augurarle una vita da imperatrice, un po' slavo visto che il padre, Joseph Markovitch, è un architetto croato. Henriette nasce a Parigi il 22 novembre del 1907, all'89 di Rue d'Assas, non lontano dai caffè di Montparnasse che frequenterà insieme ai Surrealisti, e a pochi isolati da boulevard Saint-Germain e dai Deux Magots, dove nel 1936 a 29 anni divenuta Dora, conquisterà Picasso, anni 54, giocando con un coltello tra le dita e offrendo come pegno d'amore, e premonizione del sacrificio, una stilla di sangue. Ma prima di arrivare all'appuntamento con il genio che lei stessa definisce «uno strumento di morte, non è un uomo, è una malattia», Dora si trasferisce a Buenos Aires, dove suo padre realizza il famoso palazzo di Nicolás Mihanovich, armatore croato al servizio dell'impero austroungarico. Il ricordo di «quell'architettura monumentale e della sua valenza oppressiva e inquietante», tutta maschile, racconta la curatrice, lascerà molti segni dell'opera della futura artista.
Le metamorfosi si susseguono velocemente. Tornata in Francia, nel 1923 Dora studia all'École et Ateliers d'Art Décoratifs di Parigi, dove incontra Jacqueline Lamba, poi moglie di André Breton, con la quale stringe un'amicizia profonda. Quindi s'iscrive all'Académie Lhote, e qui conosce Henri Cartier-Bresson. Ma è Marcel Zahar, critico d'arte, a convincerla a dedicarsi alla fotografia e a passare all'École de Photographie de la Ville de Paris. All'inizio degli anni '30 Dora Maar è una fotografa professionista e seguendo le stesse misteriose strutture che appaiono nel suo obiettivo incontra Louis Chavance, cineasta e aiuto regista di Pierre Prévert. Hanno la stessa età, lo stesso amore uno per l'altro. Louis conosce gli artisti di Montparnasse e a tutti presenta quella splendida ragazza, riservata, intensa, dal portamento aristocratico, «un tipo che non si dimentica facilmente, con quello sguardo straordinariamente luminoso, limpido come il cielo di primavera e quella voce unica, singolare, come un gorgheggio nel canto degli uccelli», come dirà di lei James Lord, scrittore inglese, amico di Picasso e autore della biografia Picasso e Dora. Ricordi privati (Archinto). Sono giorni felici. Dora conosce Brassaï, Man Ray, Paul Éluard, Jacques Prévert, André Breton, Luis Buñuel, Méret Oppenheim che posa per lei, e poi Georges Bataille, a cui si lega sentimentalmente. Nelle immagini di quegli anni sogno e realtà, mistero e politica nel senso di vicinanza forte al partito comunista, sono miracolosamente in equilibrio. Ai diseredati della Zone, uno dei quartieri più poveri di Parigi, si affianca il volto di porcellana di Nush Éluard, e così alle oniriche pubblicità per la lozione Hahn, dove un veliero naviga in un mare di chiome ondulate, si avvicinano i celebri fotomontaggi, dall'erotico Jeux Interdits, all'enigmatico Aveugles à Versailles, nel quale Dora ritaglia e riunisce i non vedenti bambini e adulti, ritratti con ossessione fino allora.
«Forma i tuoi occhi chiudendoli», aveva scritto André Breton. La verità s'illumina nel buio dell'inconscio. E nel buio di un cinema Jean Renoir presenta agli amici il suo ultimo film, Il delitto del signor Lange, con sceneggiatura di Jacques Prévert. È il 7 gennaio 1936. Si riaccendono le luci e nella folla degli invitati Paul Éluard introduce Dora Maar a Picasso. Per entrambi è una passione grande, almeno all'inizio. Lui le scrive: «Arrotolate attorno alle caviglie il cuore del vostro umile ammiratore». Lei è la prima, nel senso di prima creatura umana, a seguire Picasso al lavoro, tanto da fotografare la nascita di Guernica, l'immensa tela che l'artista dipinge tra il maggio e il giugno 1937 nell'atelier al numero 7 di Rue des Grands-Augustins. Quasi punendola per aver spiato il Minotauro nelle segrete del suo palazzo, Pablo spinge Dora a lasciare la fotografia, quella cifra stilistica che la rendeva unica, grande, libera, persino troppo alta, in tutti i sensi, e la convince a tornare alla pittura. Il confronto è sadico. «Tanti segni per non dire niente», sentenzia lui, commentando le tele della compagna. Dora piange, dentro e fuori i ritratti che Picasso le dedica. Lui la lascia nel 1943, lei impazzisce. Elettrochoc, solitudine, analisi con Jacques Lacan, e infine il ritorno alla fede, e oggi alla fama. Storia di una sopravvissuta. Come tante donne, nonostante tutto.

Repubblica Le Scienze 22.6.14
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qui segnalazione di Roberto Chimenti