lunedì 23 giugno 2014

La Stampa 23.6.14
Ricattavano il sacerdote. “Filmati di festini-gay”
Vigevano, 2 romeni arrestati da carabinieri vestiti da preti
di Claudio Bressani

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La Stampa 23.6.14
"Chi sa parli. Da Francesco aspettiamo verità e giustizia su Emanuela Orlandi"
In piazza San Pietro la marcia per l'anniversario della scomparsa della "ragazza con la fascetta"
di Giacomo Galeazzi

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il Fatto 23.6.14
Bossetti e l’omicidio di Yara
Il parroco: “Spero che l’assassino non sia lui perchè è un papà”


“Spero che l’assassino non sia lui perchè è un papà”. Così don Corinno Scotti, parroco di Brembate, nel corso della messa celebrata ieri in ricordo di Yara Gambirasio, si è augurato che Massimo Giuseppe Bossetti non c’entri nulla con l’omicidio della tredicenne perchè padre di tre figli. Sabato, secondo quanto riportato da L’Eco di Bergamo, l’uomo sarebbe stato colpito in carcere da una leggera forma di tachicardia, probabilmente causata dal forte stress di questi giorni. Bossetti è stato sottoposto ad una serie di accertamenti medici. Il principale sospettato continua a proclamarsi innocente.

Repubblica 23.6.14
L’omelia
Le parole pronunciate ieri da don Corinno Scotti, parroco di Brembate
«Siamo in presenza di una persona normalissima, padre di tre bambini: oso sperare che non sia lui, appunto perché è un papà»


Repubblica 23.6.14
Polemica nel Pd ma la norma resta
Immunità, niente modifiche il governo vuole andare avanti “Non è un nodo determinante”
Renzi: “Non si può compromettere un obiettivo storico” Scontro nel Pd. Forza Italia: “Non l’abbiamo chiesta noi”
di G. D. M.


ROMA. Troppo vicini al traguardo per fermarsi o peggio ancora per tornare indietro, anche sullo scudo ai senatori. «Sta per andare in porto una riforma storica. Nasce un Senato veramente nuovo e finisce il bicameralismo. Senza indennità per i parlamentari. Il tema dell’immunità non mi sembra centrale», dice Matteo Renzi ai suoi collaboratori. Dunque, il premier ha tutta l’intenzione di non rispondere alla marea che monta contro quel punto che mantiene un privilegio per la categoria dei politici.
Nel disegno di legge del governo l’immunità era stata cancellata. Quando è rispuntata negli emendamenti dei relatori è scattato l’allarme negli uffici del ministro Maria Elena Boschi. Erano proprio i giorni dello scandalo Mose che vedeva coinvolti amministratori locali in carica o ex. Tutti potenziali componenti del Senato riformato. Ma alla fine si è scelto di andare avanti e gli emendamenti Calderoli-Finocchiaro sono stati depositati, non prima del vaglio finale dell’esecutivo. Anche perché dai costituzionalisti è arrivato un sostanziale via libera. E gli stessi tecnici del Senato, in un documento scritto ad aprile quando sul tavolo esisteva solo la proposta del governo, avevano invitato tutti a valutare bene , di approfondire, l’abolizione dell’immunità: «Alla luce di un principio di ragionevolezza» per il corretto equilibrio tra le due Camere.
Oggi però tutti rinnegano la proposta, la sua paternità è un giallo. L’esecutivo ricorda che nel suo disegno di legge non c’era. «Il nostro progetto andava in direzione opposta - spiega la Boschi - e la mia idea personale sullo scudo è contenuta nel disegno di legge che ho firmato». Ossia, niente immunità. La presidente della commissione Affari costituzionali Anna Finocchiaro aveva presentato una norma diversa che valesse per la Camera e il Senato. Roberto Calderoli gioca ancora con le provocazioni e rilancia: «Aboliamo lo scudo per l’intero Parlamento, così non se ne parla più». È un caos di voci, di smentite e controsmentite che suggerisce a Palazzo Chigi una tattica estremamente prudente. È il segnale che la riforma, seppure all’ultimo metro con l’accordo blindato di Pd, Forza Italia, Ncd e Lega e con i voti sufficienti a una facile approvazione, può sempre incagliarsi in extremis. Bisogna ora reggere fino al 3 luglio, giorno in cui la riforma comincerà l’esame dell’aula. Reggere al pressing dei 5stelle che in attesa di vedere il Partito democratico nel vertice di mercoledì attaccano a testa bassa: «È una vergogna», dice il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio. Lascia capire che i grillini useranno l’incontro in chiave polemica e puntano a bloccare il percorso. Ma il problema c’è anche nei sostenitori del patto se il capogruppo di Fi Paolo Romani scarica qualsiasi responsabilità: «Gli emendamenti li hanno firmati Calderoli e Finocchiaro. Noi siamo contrari allo scudo ». Anche la Boschi è stata chiara: «Io non volevo quella norma». I pericoli si annidano nei principali alleati delle riforme, Forza Italia e Pd, i firmatari del patto del Nazareno. Nel partito di Berlusconi si fronteggiano due partiti che riflettono l’umore altalenante del leader. L’ex Cavaliere è combattuto tra il rispetto dell’accordo e la possibilità di rendere la vita un po’ meno semplice al premier. Nel primo gruppo c’è sicuramente Denis Verdini, l’artefice dell’intesa. Al secondo appartengono Renato Brunetta e lo stesso Romani che nel suo gruppo al Senato ha non pochi problemi a tenere l’unità. «In effetti c’è qualcuno che spinge più di altri per arrivare al traguardo », dice il presidente dei sena- tori forzisti e si riferisce chiaramente a Verdini che punta alla vittoria interna. Lo confermano le parole di Daniela Santanchè: «La polemica sull’immunità è strumentale. Viene da chi vuole bloccare tutto». L’altra sponda, il Partito democratico, è già in agitazione di suo. La questione dello scudo però allarga il solco tra dissidenti e favorevoli alla riforma. La rabbia dei 14 ex autosospesi è ben espressa dalle dichiarazioni di Vannino Chiti: «Adesso la fiducia è azzerata. Sono scandalizzato. Renzi rende noti tutti i punti del patto del Nazareno così ci togliamo il sospetto di scambi indicibili». È una dichiarazione di guerra in piena regola. Felice Casson allarga il discorso: «Il tema dell’immunità è strettamente legato alla questione giustizia. Nel momento in cui il governo si appresta a varare una riforma che investe la magistratura, quell’emendamento è pericoloso». Va oltre, il senatore ex pm, sventolando il fantasma di un accordo scellerato con Berlusconi: «Non vorrei che ci fosse un’intesa in materia di giustizia con Forza Italia di cui nessuno è a conoscenza ». Cita gli esempi di Orsoni e Scopelliti: «Cosa sarebbe successo alle indagini su di loro se fossero stati senatori oltre amministratori locali?».

Repubblica 23.6.14
Finocchiaro: sono disgustata dallo scaricabarile ma è stato il governo ad autorizzare tutti gli emendamenti
intervista di Goffredo De Marchis



ROMA. Parla il presidente della Commissione Affari Costituzionali: “L’esecutivo ha vistato due volte i nostri testi, sapeva tutto, e ora mi fanno passare per quella che protegge i corrotti e i delinquenti. Non c’è più gratitudine in politica. Di tutto quello che abbiamo fatto è rimasta alla fine soltanto la storia dell’immunità, ma se attribuisci a una Camera alcune funzioni sulla politiche pubbliche, così com’è nella riforma emendata, non ci può essere disparità con l’altro ramo del Parlamento. Lo sostengono anche i costituzionalisti. Io ero per fare decidere la Corte costituzionale sulle richieste di arresto, ma il governo ha detto di no, perché in questo modo si sarebbe appesantito il lavoro dei giudici. Io ne ho preso atto, però dopo tutte queste polemiche mi domando: ora cosa vogliono da me?”.
«Cosa vogliono da me? Vogliono dire che la Finocchiaro protegge i corrotti e i delinquenti? Ma stiamo scherzando. È questo il loro giochino? Sono disgustata. Allora racconto com’è andata davvero la storia dell’immunità». Anna Finocchiaro ha la voce affilata di una persona furibonda, che vorrebbe spaccare tutto. Al telefono si sente che accende una sigaretta prima di cominciare la ricostruzione. La presidente della commissione Affari costituzionali del Senato è in Sicilia dov’è tornata dopo il lavoro sugli emendamenti che hanno in parte riscritto la riforma di Palazzo Madama. «Di tutto quello che abbiamo fatto è rimasta soltanto la storia dell’immunità. Questo mi dispiace». Ha capito che è in corso uno scaricabarile da parte del governo sui relatori e sulle loro proposte di modifica: Renzi e Boschi, nel disegno di legge originale, avevano tolto lo scudo, i relatori lo hanno rimesso. «La gratitudine non è di questo mondo e so che in politica è ancora più vero. Ma non riesco ad abituarmi a questo andazzo barbaro».
L’immunità per i senatori porta la firma sua e di Calderoli, è un dato di fatto.
«Mettiamo subito in chiaro. La riforma dell’immunità dopo Tangentopoli, nel ’93, porta la mia firma.
L’ho scritta di mio pugno, dall’inizio alla fine. C’è la mia firma anche nella battaglia contro i reati ministeriali che la destra voleva allargare. Questa sono io».
Adesso però gli emendamenti del Senato che reintroducono l’immunità portano il suo nome. Nel testo del governo quella norma non c’era.
«Noi il Senato lo abbiamo ridisegnato. Il Senato del governo era completamente diverso. Non aveva le stesse funzioni, le stesse competenze... ».
Sta dicendo che il ddl Boschi era un guscio vuoto quindi era normale che non ci fosse lo scudo?
«Lasciamo perdere. Questo lo dice lei».
Perché i nuovi senatori devono avere delle garanzie?
«Se attribuisci a una Camera alcune funzioni sulle politiche pubbliche, così com’è nella rifornocchiaro ma emendata, non ci può essere disparità con l’altro ramo del Parlamento. E non lo dico io, lo dicono tutti i costituzionalisti. Stamattina in televisione per esempio l’ho sentito affermare con precisione dal professor Ainis. Ciò detto, i relatori non scrivono gli emendamenti di testa loro. Raccolgono le indicazioni che emergono durante il dibattito e hanno il dovere di valutarle quando scrivono le loro proposte. Ma se mi chiede come la penso io, allora rispondo: la Fi- pensa che l’immunità non va bene così neanche per i deputati. Si figuri».
Aveva elaborato un emendamento diverso?
«Avevo proposto che a decidere sulle autorizzazioni all’arresto e alle intercettazioni dovesse essere una sezione della Corte costituzionale e non il Parlamento. Valeva sia per il Senato sia per la Camera. È una proposta di legge che ho presentato in questa legislatura e anche nella precedente. È chiara la mia posizione? Stavolta l’avevo scritta in un emendamento».
Poi che è successo?
«È sparito dal testo perché il governo ritiene che non si debba appesantire il lavoro della Corte costituzionale».
Quindi il governo sapeva. Difficile che torni indietro.
«Non lo so. Ma so che l’esecutivo ha vistato due volte i nostri emendamenti, compreso quello sull’immunità. Conosceva il testo, sapeva tutto. Ha fatto una scelta».
Così si crea una disparità tra consiglieri regionali e sindaci. Ci saranno quelli con lo scudo e quelli senza.
«I senatori avranno funzioni di controllo che vanno difese dalla limitazione della libertà. I costituzionalisti sono d’accordo su questo punto. Come lo sono i partiti, da Forza Italia al Pd, alla Lega, all’Ncd e anche M5S. E noi abbiamo raccolto i loro pareri. Io però penso che l’articolo 68 non deve coprire gli atti svolti da sindaco o da consigliere regionale. Per quei fatti l’autorizzazione a procedere non dovrebbe essere necessaria. Fermo restando che la mia proposta è un’altra: rimettere il tema dell’immunità alla Consulta. Ma il governo mi ha risposto di no, motivandolo con la necessità di non pesare troppo sui giudici costituzionali. Ho preso atto. Perciò mi chiedo: cosa vogliono da me?».
Che farà adesso?
«Sto pensando di proporre addirittura un emendamento al mio emendamento per far passare l’idea del rinvio alla Corte. Sono favorevole anche a uno scudo valido solo per le espressioni e i voti dati in aula. Risponderò così a questo fastidioso scaricabarile su di me. Però è incredibile che tutto si riduca all’immunità ».
Perché?
«Abbiamo fatto un lavoro pazzesco tutti insieme. Ne è venuto fuori un Senato vero ma innovativo. Non può rimanere solo la vicenda dell’immunità».

il Fatto 23.6.14
Riforme
Senato, scontro sull’immunità
di Sara Nicoli


Un conto è dire che la questione “non è centrale”, come ha fatto il ministro Maria Elena Boschi, per sfumare la polemica. Un altro è, invece, sostenere che la questione dell’immunità dei senatori, nel testo di riforma di Palazzo Madama, non ponga, soprattutto, un bel problema di legalità. Il nuovo Senato, infatti, dovrebbe essere composto, nella quasi totalità, da sindaci. E come poter escludere, a breve, il ripetersi di scandali come quelli de Mose o dell'Expo o anche peggio? Riflessioni che fanno tremare l’accordo appena siglato di nuovo tra il Nazareno e Forza Italia. Ostenta ottimismo il vice segretario del Pd, Lorenzo Guerini, per il quale il patto “reggerà perché nessuno si vuole intestare la responsabilità di far saltare le riforme”, ma chissà. Se, insomma, il Pd si mostrerà compatto e Forza Italia rispetterà le promesse, non ci sarà bisogno di nessun piano B. Ovvero: cercare un accordo con i 5 Stelle. Un’eventualità che tutti, ora, rifuggono, facendo sembrare l’incontro di mercoledì tra Renzi e la delegazione grillina quasi una formalità. Eppure, tante cose scricchiolano. Ieri, Paolo Romani, capogruppo arcoriano al Senato, ha declinato ogni responsabilità sulla reintroduzione dell’immunità: “Noi non c’entriamo. È una norma messa dai due relatori Roberto Calderoli (Lega) e Anna Finocchiaro (Pd)”. Ora la questione dell’immunità è sul tavolo, il vicepresidente stellato, Luigi Di Maio, dice che si tratta di “un colpo da brividi”, ma non per Maria Elena Boschi, che in un’intervista a Repubblica non ha mostrato alcun rossore sulla questione: “È emersa durante i lavori ed è stata sollevata da diverse forze politiche”. Capitanate dal leghista Calderoli. Che mentre tutti litigavano su un’altra questione chiave, ovvero l’eleggibilità o meno dei futuri senatori, che ha spaccato il Pd e ha puntato i riflettori per giorni sul caso Mineo, infilava l’emendamento sull’immunità, complice anche una Finocchiaro che sulla questione ha fatto subito produrre uno studio dei tecnici del Senato. Tanto per chiarire che non è cosa da poco. Nella riforma, infatti, sembra che Palazzo Madama sia destinato a rimanere un “organo immediatamente partecipe ‘del potere sovrano dello Stato’”. Quindi, se si ritiene che “il Senato conservi questa funzione, l'equiparazione dei suoi componenti, in tema di prerogative, ai componenti dei consigli regionali potrebbe ritenersi da approfondire”. Il dilemma verrà portato oggi davanti al Capo dello Stato per una valutazione “super partes”, ma a questo punto l’iter della legge scandito da Renzi potrebbe avere qualche contraccolpo. Il premier ha detto di volere il testo in aula al Senato per il 3 luglio, con approvazione entro il 18 luglio, ma il Colle potrebbe dare uno stop. O, forse, potrebbe ripensarci Berlusconi.

Repubblica 23.6.14 
Vannino Chiti
“Scelta inaccettabile ecco gli emendamenti per abolire un privilegio”
intervista di L. Mi.


ROMA. Senatori coperti dall’immunità? «Per come l’hanno proposto, assolutamente no». Chiederà di cancellarla? «Sì, sia per i deputati che per i senatori». Definitivamente? «Sì, se non cambia il nuovo modello elettorale per il Senato». Non ha dubbi il Pd Vannino Chiti che sta già lavorando agli emendamenti.
La sua è una bocciatura senza appello?
«L’immunità per sindaci e consiglieri regionali non solo non ha senso, ma diventerebbe anche molto rischiosa perché si estenderebbe all’attività amministrativa, all’azione di quel consigliere regionale- senatore, di quel sindaco-senatore. Così, in un Paese come l’Italia, si amplia la sfera della non trasparenza e aumenta il rischio dell’illegalità».
Manterrebbe l’immunità per l’elezione diretta?
«In questo caso sì, ma con profonde modifiche dell’attuale meccanismo».
Solo modificata o eliminata completamente?
«In primo luogo, non può esserci una differenza tra deputati e senatori. In secondo luogo, il punto fondamentale è il comma 1 dell’articolo 68 della Costituzione che garantisce l’insindacabilità e il voto. In terzo luogo, con leggi fortemente maggioritarie, come ormai sono quelle elettorali, il secondo comma dell’articolo 68, e cioè l’autorizzazione delle Camere sulla privazione della libertà personale, appare sempre più affidato a una ragione politica, cioè ai rapporti di forza. Se proprio si vuole mantenere l’autorizzazione, essa dovrebbe essere lasciata a una sezione speciale della Corte costituzionale che dovrebbe nascere appositamente».
Con un gruppo di colleghi del Pd, lei ha già protestato contro l’esclusione di Mineo dalla commissione Affari costituzionali. Ora chiederete di cancellare l’immunità?
«Nelle condizioni date dai relatori, sì. L’immunità non può essere estesa a consiglieri regionali e sindaci, non può esserci una differenza rispetto all’immunità tra deputati e senatori, quindi l’unica via è superare il problema abolendo il secondo comma dell’articolo 68».
Questo significa eliminare l’autorizzazione per l’arresto o per perquisire e mettere sotto intercettazioni tutti i parlamentari?
«Sì, mantenendo ovviamente l’insindacabilità delle loro opinioni e del loro voto. Per questo non ci potrà essere un intervento da parte dell’autorità giudiziaria. Se cambia il modello elettorale per il Senato, allora l’autorizzazione prevista per le richieste della magistratura può essere ricondotta a una valutazione e decisione finale della Consulta».
Lei prevede comunque di eliminare l’immunità nel caso dell’elezione indiretta dei senatori?
«Sì, perché in questo caso essa non sarebbe attiva solo quando si è dentro palazzo Madama, ma anche quando si svolgono attività amministrative. In ogni caso, anche se dovesse passare il nostro modello di elezione diretta dei senatori da parte dei cittadini, l’immunità dovrebbe cambiare radicalmente ed essere affidata in ultima istanza alla Consulta».
Farà emendamenti in questo senso?
«Con altri colleghi, non solo del Pd, abbiamo già presentato proposte di modifica che affidano la decisione sull’immunità alla Corte. Ora, vista la sortita dei relatori e del governo, dovremo presentarne altre anche per l’abolizione del secondo comma dell’articolo 68 sia per i deputati che per i senatori».

Repubblica 23.6.14
L’ex presidente della Consulta Ugo De Siervo
“O per tutti o per nessuno Le stesse garanzie a deputati e senatori”
intervista di Liana Milella



ROMA . L’immunità è sempre una brutta parola? «Non sempre, come tante cose bisogna sempre andare a vedere come viene usata». Lei l’abolirebbe? «Andrebbe sicuramente molto ridotta». L’ex presidente della Consulta Ugo De Siervo non ha dubbi, immunità «o per tutti o per nessuno ».
Immunità sì o no anche per i senatori?
«La cosa fondamentale è che deputati e senatori, essendo entrambi componenti dello stesso Parlamento, devono avere le medesime garanzie. Si può ipotizzare di togliere ogni immunità anche ai deputati, ma non è pensabile che solo i senatori debbano rispondere, allorché i deputati non debbono farlo».
Lo status differente, e l’elezione di secondo grado per sindaci e consiglieri regionali, può giustificare il trattamento diverso?
«No, perché l’articolo 68 garantisce, o meglio dovrebbe garantire, la piena libertà di manifestazione del pensiero dei parlamentari e le loro libertà personali. Si garantisce l’esercizio della funzione parlamentare, a prescindere dai meccanismi elettorali diversi».
In queste ore sono in rivolta una parte del Pd, M5S e Sel contro l’immunità. Abolirla del tutto è possibile?
«Purtroppo no. Ma la si potrebbe opportunamente ridurre o adattare ai tempi attuali, ma fintanto che esiste non può che riguardare deputati e senatori”.
Ma l’ipotesi del Pd Casson di lasciare solo l’insindacabilità?
«Può essere una soluzione, ma il mutamento dev’essere generale. Certo, sarebbe paradossale non garantire la piena manifestazione del pensiero, perché il primo comma dell’articolo 68 della Costituzione recita testualmente: “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”. Mi sembrerebbe grave se questa norma di garanzia elementare scomparisse, perché ne verrebbe diminuita la libertà dei parlamentari nell’esercizio delle loro funzioni. Tutt’altra cosa sono le autorizzazioni che l’articolo 68 prevede per limitare le loro liberta personali dinanzi alla magistratura. Qui sono possibili delle parziali innovazioni, ma dovrebbero riguardare sempre tutti i parlamentari».
A che limiti pensa su arresto, perquisizioni e intercettazioni oggi sottoposte ad autorizzazione e spesso negate?
«Si potrebbe incidere permettendo un’attività a posteriori della Camera di appartenenza, ove vi siano elementi ritenuti sufficienti a dimostrare un intento persecutorio da parte dell’autorità giudiziaria. Non più un intervento preventivo obbligatorio in ogni caso, ma solo eccezionali poteri successivi dinanzi ad elementi di fatto che facciano temere un uso improprio dei poteri dell’autorità giudiziaria. È una delle tante soluzioni che, almeno in parte, migliorerebbe la disciplina attuale, ma, ripeto, dovrebbe valere per entrambe le Camere».
In tempi di grandi inchieste sulla politica, l’immunità non rischia di incidere sulla selezione dei futuri senatori, perché ci potrebbero essere accordi per favorire chi è inquisito e fornirgli uno scudo?
«Mi sembra un po’ razzista la distinzione tra i senatori eletti dai consiglieri regionali che passerebbe per loschi figuri e i deputati, anch’essi eletti in collegi territoriali naturalmente, che sarebbe invece per definizione ‘anime belle’... ».

Repubblica 23.6.14
M5S attacca: immunità, favore alla casta
di Matteo Pucciarelli



ROMA. L’immunità è sempre una brutta parola? «Non sempre, come tante cose bisogna sempre andare a vedere come viene usata». Lei l’abolirebbe? «Andrebbe sicuramente molto ridotta». L’ex presidente della Consulta Ugo De Siervo non ha dubbi, immunità «o per tutti o per nessuno ».
Immunità sì o no anche per i senatori?
«La cosa fondamentale è che deputati e senatori, essendo entrambi componenti dello stesso Parlamento, devono avere le medesime garanzie. Si può ipotizzare di togliere ogni immunità anche ai deputati, ma non è pensabile che solo i senatori debbano rispondere, allorché i deputati non debbono farlo».
Lo status differente, e l’elezione di secondo grado per sindaci e consiglieri regionali, può giustificare il trattamento diverso?
«No, perché l’articolo 68 garantisce, o meglio dovrebbe garantire, la piena libertà di manifestazione del pensiero dei parlamentari e le loro libertà personali. Si garantisce l’esercizio della funzione parlamentare, a prescindere dai meccanismi elettorali diversi».
In queste ore sono in rivolta una parte del Pd, M5S e Sel contro l’immunità. Abolirla del tutto è possibile?
«Purtroppo no. Ma la si potrebbe opportunamente ridurre o adattare ai tempi attuali, ma fintanto che esiste non può che riguardare deputati e senatori”.
Ma l’ipotesi del Pd Casson di lasciare solo l’insindacabilità?
«Può essere una soluzione, ma il mutamento dev’essere generale. Certo, sarebbe paradossale non garantire la piena manifestazione del pensiero, perché il primo comma dell’articolo 68 della Costituzione recita testualmente: “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”. Mi sembrerebbe grave se questa norma di garanzia elementare scomparisse, perché ne verrebbe diminuita la libertà dei parlamentari nell’esercizio delle loro funzioni. Tutt’altra cosa sono le autorizzazioni che l’articolo 68 prevede per limitare le loro liberta personali dinanzi alla magistratura. Qui sono possibili delle parziali innovazioni, ma dovrebbero riguardare sempre tutti i parlamentari».
A che limiti pensa su arresto, perquisizioni e intercettazioni oggi sottoposte ad autorizzazione e spesso negate?
«Si potrebbe incidere permettendo un’attività a posteriori della Camera di appartenenza, ove vi siano elementi ritenuti sufficienti a dimostrare un intento persecutorio da parte dell’autorità giudiziaria. Non più un intervento preventivo obbligatorio in ogni caso, ma solo eccezionali poteri successivi dinanzi ad elementi di fatto che facciano temere un uso improprio dei poteri dell’autorità giudiziaria. È una delle tante soluzioni che, almeno in parte, migliorerebbe la disciplina attuale, ma, ripeto, dovrebbe valere per entrambe le Camere».
In tempi di grandi inchieste sulla politica, l’immunità non rischia di incidere sulla selezione dei futuri senatori, perché ci potrebbero essere accordi per favorire chi è inquisito e fornirgli uno scudo?
«Mi sembra un po’ razzista la distinzione tra i senatori eletti dai consiglieri regionali che passerebbe per loschi figuri e i deputati, anch’essi eletti in collegi territoriali naturalmente, che sarebbe invece per definizione ‘anime belle’... ».

l’Unità 23.6.14
Senato, Mucchetti contro Boschi: «Perché fai così?»


«Cara Boschi, ma perché fai così? Potresti portare al premier la maggioranza dei due terzi abbondante del Senato accelerando il corso della riforma, e invece sguaini lo spadone e obblighi tutti alle quattro letture, e cioè a tirare in lungo fino alla primavera del 2015. Non ti capisco».
È la lettera aperta alla ministra Boschi che Massimo Mucchetti ha scritto sul suo blog. Riguardo all’iter delle riforme costituzionali, il senatore Pd si chiede: «Hai ricavato dal ddl Chiti il numero dei senatori, hai aumentato le competenze del nuovo Senato. Bene. Ma perché poi ti perdi via e lasci ai relatori Finocchiaro e Calderoli la responsabilità dell’immunità per sindaci e consiglieri regionali che faranno anche i senatori? Combinazione, questa brillante idea viene dopo l’ennesimo incontro con il senatore Verdini», scrive il senatore invitando la ministra a «difenderla», se
ci crede, altrimenti si crea un problema con la relatrice Pd, Anna Finocchiaro.
E ancora, Mucchetti chiede a Boschi di entrare nel merito della elettività del Senato, ma la accusa: perché «chiudere la bocca a chi non la pensa come te?». «Mi sbaglierò continua ma se aumenti le competenze del Senato, avrai bisogno di senatori autorevoli», quindi invece di nominare il «migliaio di consiglieri regionali», non sarebbe meglio «lasciar scegliere i senatori ai cittadini tra tutti i cittadini senza intermediari che oggi sono in larga parte indagati dalla magistratura?». Poi Mucchetti chiede perché «il numero dei deputati non possa essere tagliato come si deve?».
Il senatore critica la «piramide di potere» in costruzione e alla fine è molto polemico con la «pecorella smarrita»: «So bene di non contare nulla. Non ho milioni di voti alle spalle, e nemmeno crac di banche di credito cooperativo come un certo tuo conterraneo. Eppure, due chiacchiere, finito il lavoro, farebbero bene. Sarebbero le prime... ».

La Stampa 23.6.14
L’eterno balletto dell’immunità
di Marcello Sorgi


Malgrado l’accordo fatto, o quasi fatto, tra Pd e Forza Italia per votare la riforma del Senato a partire dal prossimo 3 luglio, le polemiche non si fermano. E non solo perché il Movimento 5 stelle ha interesse ad alimentarle, in vista dell’incontro di mercoledì con la delegazione del partito del presidente del Consiglio.
E neppure perché i dissidenti interni dello stesso Pd, che erano arrivati quasi alla scissione dopo l’esclusione dei più battaglieri del loro gruppo, Vannino Chiti e Corradino Mineo, dalle votazioni in commissione sul testo della riforma, confermano che daranno battaglia anche in aula. Lo scontro si sta concentrando su due punti: l’immunità, che dovrebbe esser ridata ai senatori depotenziati della futura Camera delle autonomie, e le preferenze.
Le preferenze al momento sono escluse dal progetto di legge elettorale, ma rischiano di aprire una crepa nella maggioranza di governo, perché Ncd ha deciso di farne la propria bandiera.
Ora, intendiamoci: tutto è discutibile, specialmente in una materia così delicata come quella degli assetti fondamentali dello Stato, e proprio mentre si sta per decidere di abbandonare uno dei capisaldi della Costituzione, il principio-chiave del bicameralismo perfetto.
L’immunità per i nuovi senatori, che non saranno eletti direttamente, ma scelti tra consiglieri regionali e sindaci, potrebbe effettivamente rivelarsi sbilanciata, visto che il loro ruolo e i loro poteri diventeranno molto differenti da quelli dei deputati. Ma il diritto di eleggerli con le preferenze, se davvero dovesse passare la linea di sceglierli nelle assemblee locali, con un’elezione di secondo grado a cui i cittadini non parteciperebbero, sarebbe semplicemente un non senso.
Più che il quadro in cui il doppio restauro di immunità e preferenze verrebbe a inserirsi, colpisce il modo in cui la discussione si sta sviluppando. Invece di ricordare che l’una e le altre facevano parte legittimamente della Carta costituzionale, e vennero abolite, tutte o in parte, nel bel mezzo della rivoluzione italiana (l’immunità sull’onda di Tangentopoli, come si trattasse di un privilegio incomprensibile, le preferenze, ma solo quelle multiple, con il referendum del 1991), e invece di valutare se entrambe quelle cancellazioni appaiano ancora oggi motivate, o possano essere ripensate, si è delineato un fronte dei contrari che porta argomenti opposti alla realtà delle cose.
Così, per questo fronte, che annovera in prima linea Movimento 5 stelle, Lega e dissidenti Pd, l’immunità, che i Padri costituenti vollero come garanzia della separazione tra il potere legislativo e quello giudiziario - e la cui abolizione ha fatto sì che qualsiasi magistrato possa indagare senza vincoli su qualsiasi parlamentare, con l’unica limitazione di dover chiedere un voto parlamentare in caso di arresto -, viene presentata, tout court, come un privilegio di casta, la reintroduzione del quale andrebbe contro il desiderio dell’opinione pubblica di vedere i politici pagare lo scotto dei loro imbrogli nelle patrie galere.
E poco importa che tutte, o quasi tutte, le ultime volte in cui le Camere hanno votato su casi che riguardavano membri del Parlamento, la scelta è sempre stata quella del carcere, per la pesantezza della accuse a cui gli accusati erano sottoposti e per lo scandalo provocato dalle inchieste. La sola idea che venga reintrodotto un filtro, specie in presenza di un inasprimento della macchina anti-corruzione e di leggi più severe per questo genere di reati, fa saltare per aria il folto partito trasversale dei magistrati in Parlamento e i suoi alleati che pensano così di ingraziarsi l’opinione pubblica. Tutto, ovviamente, con buona pace dei Costituenti e del dettato costituzionale.
Un analogo capovolgimento riguarda le preferenze, presentate da Ncd e dalle frange centriste che le vorrebbero reintrodurre, per rimettere gli elettori in condizione di scegliersi i propri parlamentari, ribellandosi alla dittatura dei capi partito e delle liste bloccate con cui imporrebbero solo parlamentari di loro stretta fiducia. A questo aggiungono che le preferenze sono in vigore sia nelle elezioni europee che in quelle regionali e comunali: perché dunque escludere il Parlamento da una scelta di libertà? Naturalmente i nostalgici del voto multiplo si guardano bene dal ricordare le ragioni del plebiscitario voto referendario (affluenza 95 per cento, più o meno il doppio di quella attuale) con cui le preferenze furono cancellate nel ’91. I vituperati partiti della Prima Repubblica, che pure avevano ancora un barlume di regole democratiche al loro interno, erano stati completamente sopraffatti da bande autonome, locali e trasversali, che si scambiavano, e talvolta rivendevano, pacchetti di voti; con l’aggravante, al Sud, che questo mercato era chiaramente infestato dalla criminalità organizzata. Senza nessuna esagerazione, funzionava così: il senatore di un dato partito diceva ai suoi galoppini di convincere gli elettori a votare per il deputato di un altro partito. Un assessore regionale, con l’ausilio di un paio di sindaci di paesoni meridionali (ma anche al Nord, purtroppo, avveniva lo stesso) era in grado di condizionare l’elezione di candidato e l’esclusione di un altro. La regola era questa. E la risposta degli elettori ai quali Craxi, con una battuta rimasta famosa, aveva consigliato di «andare al mare» (se non avesse votato almeno la metà più uno degli italiani il referendum sarebbe stato invalido), fu una rivolta, imprevedibile, a un sistema divenuto soffocante.
Sarà anche vero che il Porcellum, consentendo ai capipartito di scegliersi uno per uno i parlamentari, lo era diventato altrettanto. Ma attenzione a scegliere un rimedio peggiore del male: per ridare agli elettori il diritto di decidere, basta guardare a sistemi che funzionano in Paesi democratici a noi vicini: le liste brevi, i collegi uninominali (tra l’altro sperimentati con il Mattarellum) e tutto ciò che può consentire a chi vota, se il candidato proposto non gli piace, di votargli contro. Per limitare il potere dei capipartito, basta già questo: non c’è affatto bisogno di tornare alle preferenze.

Repubblica 23.6.14
Ecco gli ex di Sel e M5S
Con maggioranze variabili Renzi si allarga al Senato
Il governo ora conta su una dozzina di deputati in più e due senatori
E il “gruppone centrista” può calamitare gli insofferenti di Forza Italia
di Francesco Bei e Giovanna Casadio


ROMA. Una nuova maggioranza a geometria variabile. Un mese dopo quello strabiliante 40,8%, la calamita renziana sta ridisegnando i confini di tutti i gruppi parlamentari. Dodici deputati e quattro senatori in più, tra quelli appena usciti e quelli in procinto di mollare le vecchie imbarcazioni.
Non è solo un fatto numerico, si assiste a un vero e proprio smottamento delle vecchie appartenenze. Alla Camera il dato è eclatante, benché il premio di maggioranza garantito dal Porcellum renda le nuove adesioni politicamente ininfluenti. Da Sel sono già andati via in sei - capitanati dal capogruppo Gennaro Migliore - attratti dal Pd ma per il momento in transito nel Misto. Altri sei vendoliani li dovrebbero raggiungere nei prossimi giorni. La scomposizione di Scelta Civica è inarrestabile. Andrea Romano è ormai già fuori e molti altro lo seguiranno.
Ma dove il dato diventa significativo è al Senato, finora luogo infido per Renzi. La transumanza è cominciata. Tra i sette senatori di Sel i più insofferenti sono Dario Stefàno, protagonista nella fase della decadenza di Berlusconi, e Massimo Cervellini. Se andassero via Vendola perderebbe quasi un terzo della sua mini-pattuglia. D’altra parte i senatori vendoliani, insieme a tredici epurati grillini, stanno progettando un gruppo comune. Tanto che hanno preso a rilasciare dichiarazioni congiunte. Certo, il nuovo gruppo resterà all’opposizione, ma potrebbe costituire comunque una sponda politica per alcuni provvedimenti del governo. Se davvero dovesse costituirsi, questo neo gruppo avrebbe come ambizione di attirare anche quei dem dissidenti sempre più lontani dall’orbita governativa, da Corradino Mineo a Felice Casson, da Massimo Mucchetti a Erica D’Adda. Tra gli ex M5S c’è poi la senatrice Fabiola Anitori, in avvicinamento direttamente al Pd.
Nel caos di Scelta Civica, a palazzo Madama è la fase dell’attesa: si è mosso soltanto uno, il senatore Gianpiero Dalla Zuanna, per andare tra i dem. La scomparsa improvvisa di ogni punto di riferimento ha infatti paradossalmente congelato gli esodi, ma è solo questione di tempo. «A ottobre decideremo - confida Renato Balduzzi, il “saggio” a cui i montiani si sono affidati - , potrebbe nascere un soggetto politico nuovo, più ampio». Tutta l’area centrista in effetti è in fermento dopo il successo di Renzi alle europee. Il Nuovo centrodestra di Alfano sta lavorando per stabilizzare il cartello elettorale con l’Udc e i Popolari per l’Italia. Intanto due giorni fa Ncd ha guadagnato da Gal il senatore campano Pietro Langella (figlio e nipote di due boss uccisi in agguati di camorra), nominandolo persino coordinatore del partito a Napoli. Il “supergruppo” centrista in gestazione è destinato tuttavia a perdere due elementi, ormai in totale contrapposizione a Pier Ferdinando Casini. Sono Mario Mauro, fatto fuori dalla commissione affari costituzionali, e il suo fedele amico Tito Di Maggio (entrambi in direzione Forza Italia).
Ma la frana più vistosa potrebbe prodursi proprio nell’universo berlusconiano, specie se altre condanne dovessero appesantire la leadership dell’ex Cavaliere. I più sospettati sono quella mezza dozzina di senatori vicini a Raffaele Fitto, da tempo nel mirino del cerchio magico. Se nascesse un nuovo polo d’attrazione popolare Fitto potrebbe andarsene. L’interessato per ora smentisce seccamente: «Questa corsa verso Renzi ha già fatto registrare il tutto esaurito. Sono rimasti solo posti in pedi. No grazie, io resto in Forza Italia con buona pace di chi alimenta questi retroscena solo per attaccarmi».

Repubblica 23.6.14
Vendola dimissionario “Ma pronto a dare battaglia”


ROMA. L’appuntamento è per l’ora di pranzo di mercoledì. E’ per allora che Nichi Vendola si presenterà dimissionario alla direzione di Sel, «ma pronto a dare battaglia». Dopo il voto finale sul decreto legge Irpef si susseguono gli addii al partito di parlamentari, almeno una decina, ed esponenti regionali. «Una fuoriuscita di parlamentari» che può essere una «occasione di rilancio» del partito, viene chiarito, ma da cui si guarda con interesse dall’esterno, soprattutto dal Pd di Renzi che nella diaspora di Sel intravede la possibilità di incrementare i suoi numeri in Parlamento, anche in chiave riforme. «Sono dimissionario, ma non sono in fuga», ha precisato Vendola in un’intervista al Manifesto.

l’Unità 23.6.14
La diaspora di Sel agita il risiko delle correnti nel Pd
Il premier incoraggia tutti: «Chi guarda a noi troverà porte aperte»
Mal di pancia nell’area sinistra


L’approdo, se approdo ci sarà, non sarà immediato. Se ne parla, nessuno ne fa un mistero tra i fuoriusciti di Sel, ma i tempi non sono ancora maturi. Eppure nel Partito democratico, dove si guarda con grande attenzione a quanto sta accadendo in Sel, la questione è calda. Il segretario Matteo Renzi è molto attento, si rende conto che l’ingresso di nuova linfa nel partito potrebbe avere i suoi aspetti positivi, ma questo è un pensiero
che non riserva soltanto a sinistra. Il segretario guarda con grandissima attenzione anche a quanto accade nell’elettorato del M5s, è a loro che punta in vista delle elezioni politiche, a tutto coloro che non hanno apprezzato la linea di chiusura totale di Grillo e il suo posizionamento in Europa con la destra oltranzista e xenofoba. Quello è un elettorato che potrebbe tornare a guardare al Pd, come mostrano i sondaggi, soprattutto se Renzi riesce a portare fino in fondo alcune riforme epocali, dal superamento del bicameralismo alla pubblica amminsitrazione, al fisco. Quindi, il partito della Nazione a cui pensa Renzi ha grandi ambizioni e confini pronti ad ampliarsi, ma senza tirar dentro tutto ciò che arriva indistintamente da Sel o Sc.
Eppure è proprio dallo smottamento del partito di Nichi Vendola che la costola sinistra dei democratici potrebbe vedere un proprio rafforzamento interno, riuscendo a captare quella parte di elet-
torato di sinistra che in qualche modo si sente «minacciata» da un posizionamento troppo al centro del più grande partito italiano. D’altro canto Gennaro Migliore con la base Pd ha sempre avuto un grande feeling, tanto che anche se nessuno lo dice apertamente, proprio nella sinistra del Pd si registra qualche preoccupazione. La principale è che proprio Migliore possa in qualche modo insidiare lo sforzo che i trenta-quarantenni del partito stanno facendo per la definizione di nuovi leader. Fervono a tal fine le iniziative dem: venerdì e sabato Area riformista si è incontrata a Massa Marittima ed è stata anche l’occasione per investire Roberto Speranza della guida di questa che non vuole definirsi una corrente ma allo stato lo è, così come i Giovani turchi che sabato scorso si sono incontrati a Roma attorno alla loro big di riferimento, il ministro Andrea Orlando, mentre Gianni Cuperlo battezza proprio nei prossimi giorni la sua Sindem a Milano, in progamma sabato prossimo.
I Giovani turchi hanno espressamente detto che è un bene per i lPd e per il socialismo europeo l’eventuale approdo. «Sarebbe un fatto positivo in sé e perché guai se il Pd diventasse un campo ossificato. Noi per nostra struttura dobbiamo essere un partito inclusivo e aggregante», dice Francesco Verducci, coordinatore di Rifare l’Italia.
Anche Roberto Speranza, parlando da Massa Marittima, pur ribandendo rispetto per il drammatico confronto che si sta consumando in Sel, dice che «è normale, poi, che un partito che prende
il 40% diventa il vero, grande partito della nazione a cui tutti guardano per il futuro del Paese. Penso che sia un po’ naturale».
Claudio Fava dal canto suo, rispondendo a Fabio Mussi che ha duramente criticato la scelta di rompere, dice che non intende entrare nel Pd. Questione di tempo, per ora ci sarà un ingrossamento del gruppo misto, ma in futuro è possibile che inizi la migrazione verso il Pd. Di sicuro si apre per la maggioranza e per Matteo Renzi un fronte parlamentare importante che in vista delle riforme che approderanno alle Camere potrà rendere più importanti i numeri.
Il segnale da parte del segretario Pd nei giorni scorsi è stato chiaro: «Chi guarda al Pd troverà un partito aperto, attento alle diverse sensibilità, intenzionato a lavorare avendo come obiettivo la giustizia sociale, ma che si pensa come un vero e proprio partito della nazione»

La Stampa 23.6.14
Immigrati, boom di sbarchi, ma pochi restano in Italia
Ecco i dati degli ultimi 10 anni: i 290 mila irregolari quasi tutti dispersi in Europa
di Guido Ruotolo


E adesso che sta per iniziare il semestre italiano di presidenza europea, davvero convinceremo gli inquilini della casa europea a moltiplicare Mare nostrum, a finanziare le operazione di trasferimento di irregolari, richiedenti asilo, rifugiati economici? E a prendersi una quota di cittadini dell’Africa subsahariana, del Corno d’Africa. E poi della Siria? E a ridiscutere il Trattato di Dublino che impone che la richiesta d’asilo sia fatta nel paese europeo dove si arriva? E di potenziare Frontex, la polizia europea di frontiera?
Nell’estate in cui si stanno polverizzando tutti i record di sbarchi, con quasi 60.000 arrivi (58.487 al 20 giugno, venerdì scorso), 300 in media al giorno dal primo gennaio, l’Italia è sempre più sola (e disperata) nel fronteggiare un esodo che non sembra arrestarsi.
È questa l’angoscia romana, e cioè la consapevolezza, la certezza che gli arrivi continueranno fino a quando non si stabilizzerà la situazione politica e dell’ordine pubblico in Libia. Ma la schizofrenia italiana che fa innervosire l’Europa è il passaggio da un estremo all’altro senza che nell’uno e nell’altro caso Roma abbia concordato il da farsi con Bruxelles, con Strasburgo.
Ricordate i respingimenti in mare? Con la consegna dei barconi di irregolari alle autorità libiche ai tempi di Gheddafi? Uno scandalo internazionale, censurato dal Tribunale internazionale dei diritti dell’uomo. E adesso c’è Mare nostrum, il dispositivo di salvataggio di irregolari in atto nelle acque internazionali molto vicine ai confini libici, attuato all’indomani della ecatombe di immigrati a pochi metri dalla costa italiana. Prova a ricordare in questi giorni il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che Mare nostrum è a tempo, come se i naufragi saranno poi scongiurati per qualche misteriosa congiuntura astrale.
Al di là della dimensione umanitaria dell’intervento (la vicinanza del Vaticano, della Chiesa si fa sentire), la questione Mare nostrum è terreno di scontro ideologico-politico. Un vecchio ministro dell’Interno amava ripetere che l’Italia doveva adottare nei confronti dell’immigrazione la politica «del cane che abbaia e non morde». Insomma, far vedere che i confini nazionali esistono e che non tutti possono superarli come se nulla fosse. E nello stesso tempo dare opportunità di accoglienza, di lavoro per chi ne ha bisogno.
E’ giusto rivendicare con orgoglio che l’Italia non è la Spagna che spara contro gli immigrati che provano a sfondare le porte d’ingresso in Europa delle enclaves di Ceuta e Melilla. O Malta che fa finta di non vedere i barconi inzuppati di acqua o la Grecia che si ritrova sotto osservazione e in punizione (sospeso Trattato di Dublino).
No, l’Italia è un’altra cosa. Accoglienza, lavoro. E una terza opportunità, il transito, che è la più praticata. Se provate a chiedere dove sono finiti i 60.000 sbarcati dal primo gennaio ad oggi, troverete delle risposte stupefacenti o imbarazzate.
Ricordate i Cie? I Centri di identificazione ed espulsione? Più che dimezzati oggi. Erano 11 sono diventati 5. Prima potevano ospitare fino a 1200 immigrati, oggi sono disponibili solo 450 posti letto. Inizialmente ospitavano persone da identificare per 30 giorni, poi raddoppiati e infine portati a sei mesi. Un carcere, nei fatti. Un terzo dei profughi sbarcati nel 2014, circa 22.000 persone, ha fatto richiesta di asilo politico. Non i 17.000 eritrei che puntano dritti alla Svezia, e che per il Trattato di Dublino non chiedono asilo politico in Italia perché dovrebbero rimanere poi nel nostro Paese, preferendo «evadere» per raggiungere parenti e amici nel Nord Europa. E chissà se i comuni solidali della rete Sprar effettivamente assistono tutti e 18.000 immigrati, così come risulta ufficialmente. Insomma, qualcuno suggerisce una inchiesta a campione, magari scoprendo poi che qualche comune prende i fondi anche se non ci sono più gli «assistiti».
Il paradosso della situazione italiana è che non esistono più le sanatorie. Le ricordate? Dini, Martelli, Turco-Napolitano, Bossi-Fini. Negli ultimi trent’anni tra sanatorie ed emersione dal lavoro irregolare, ci ritroviamo con un milione e mezzo di extracomunitari regolarizzati. Nell’86, 140.000; 1990, Martelli, 220.000; con il decreto Dini del 1995, 246.422; Turco-Napolitano del ’98 216.000. Con la Bossi-Fini, 693.937. Trent’anni, un milione e mezzo di clandestini regolarizzati. Oggi (31 maggio 2014) i soggiorni validi sono 73.590, un dato che non comprende i soggiorni scaduti in attesa di rinnovo.
Le sanatorie dunque. Gran parte dei beneficiari sono stati gli «overstayers», cioè stranieri entrati con un visto turistico o temporaneo e poi si sono inabissati. A fronte di questo dato, dall’ultima sanatoria (2004) ad oggi, via mare sono arrivati complessivamente 288.891 irregolari (dal primo gennaio del 2004 al 20 giugno del 2014). Che fine hanno fatto? Negli ultimi anni le espulsioni si sono ridotte a poche centinaia. Quanti hanno varcato i confini italiani per raggiungere gli altri Paesi della Unione europea? E l’Europa come reagirà a un nuovo programma che il governo Renzi presenterà a Bruxelles, e che vede aiuti economici ai paesi d’origine dei flussi migratori condizionati al blocco dei flussi? E la programmazione di interventi umanitari nei paesi di transito e la trasformazione di Mare nostrum da mero soccorso a una Frontex rafforzata?

Corriere 23.6.14
I miliardi scomparsi che il fisco non incassa
Multe, irregolarità e accertamenti, il fisco deve riscuotere 620 miliardi
Le verifiche dell’Agenzia delle Entrate e i magri bottini di Equitalia
di Sergio Rizzo


Domandona: che cosa si potrebbe fare con 620 miliardi di euro? Per esempio dare una botta pazzesca al debito pubblico: dal 137,5 al 97,8 per cento del Prodotto interno lordo. Oppure non far pagare l’Irpef agli italiani per quattro anni. O ancora, avviare un gigantesco piano di opere pubbliche del valore di 110 Mose. Siamo ai confini della realtà, penserete. Invece no. Perché 620 sono esattamente i miliardi di crediti da riscuotere che Equitalia aveva in carico alla fine del 2013.
Dentro quella incredibile montagna c’è di tutto, compresi gli 80 miliardi dovuti all’Inps e una quindicina di miliardi di multe e tasse comunali non pagate. Soprattutto, ci sono 500 miliardi di crediti dell’Agenzia delle Entrate: dei quali almeno 350 rappresenterebbero l’evasione fiscale vera e propria accertata.
Una cifra mostruosa, che va considerata ovviamente al lordo degli errori, accumulatasi a partire dal 2000 a un ritmo di una cinquantina di miliardi l’anno, salita a 75 nella media degli ultimi tre, perché la società creata nove anni fa non riesce a incassarne che una frazione. Il dieci per cento, sì e no. Al punto che questo è diventato il problema più grosso del Fisco italiano. Continuando a questo ritmo, nel 2018 i crediti fiscali potrebbero raggiungere la somma astronomica di 950 miliardi.
Stop alle banche, nasce Equitalia
Ma facciamo un passo indietro. Un tempo il recupero delle imposte non pagate era affidato ai concessionari privati, quasi sempre di emanazione bancaria. Come la cronaca si è incaricata di dimostrare, era un autentico disastro. Riscuotevano soprattutto il loro aggio, e qualcuno faceva sparire anche i soldi destinati al Fisco. Così nel 2005 si decise di fare una società pubblica, Riscossione spa (che sarebbe poi stata ribattezzata Equitalia). Azionisti, l’Agenzia delle Entrate e l’Inps. Sembrava l’uovo di Colombo. Ma pieno di zavorra. Intanto i dipendenti: Equitalia dovette assorbire quelli delle ex concessionarie, dove le banche proprietarie non avevano di sicuro collocato il personale migliore. Ritrovandosi sul groppone 8.240 buste paga. Poi le regole: privatistiche per il conto economico della società, pubbliche per la riscossione. Non solo. La legge gli aveva consegnato poteri enormi nei confronti dei piccoli debitori, come le ganasce alle auto e l’ipoteca immobiliare, ma assolutamente inadeguati a incassare dai grandi evasori, anche se scoperti con le mani nel sacco. Se sia stata una scelta deliberata o soltanto una serie di tragici errori lo dirà la storia. Sappiamo però che in tutti questi anni nessun governo ha mosso un dito per cambiare l’andazzo.
Tra piccoli e grandi evasori
I numeri sono sotto gli occhi di tutti. Mentre a partire dal 2007 gli accertamenti dell’Agenzia delle Entrate decollavano, e il ricavo della lotta all’evasione con i pagamenti «spontanei» direttamente alla medesima Agenzia salivano da 1,9 ai 5,6 miliardi del 2013, gli incassi di Equitalia crescevano a un ritmo medio decisamente inferiore: 2 miliardi e mezzo l’anno. Grazie solo agli introiti delle partite di importo più modesto. La dimostrazione sta nei numeri. La riscossione per conto dei Comuni ha sfiorato il 40%, quella delle cartelle Inps il 20% e quella dei crediti fiscali appena il 6%. E di questo 6%, la quasi totalità riguarda il recupero di tasse già dichiarate dai contribuenti. Restano l’evasione fiscale vera e propria accertata a partire dal 2000, dove non si arriva neppure al 3%. Dieci miliardi su 350, che hanno riguardato anche in questo caso prevalentemente le partite minori.
Risultato: piccoli debitori imbufaliti, l’immagine di Equitalia ammaccata, grandi evasori al sicuro. Di più. La cattiva fama che circonda la società ha indotto i politici a ridurne sempre più i poteri. Dunque il tetto minimo di 20 mila euro alle ipoteche, i limiti alla pignorabilità dei beni e dei salari nonché alle ganasce, il divieto all’esecuzione forzata sulla prima casa, la moltiplicazione delle notifiche, le facilitazioni concesse al debitore nella sospensione della riscossione. Con la conseguenza di ridurre i già magri incassi di Equitalia di un miliardo l’anno.
Come si è arrivati a questo è stato in parte già spiegato. Pressata dall’esigenza di far tornare i conti aziendali, Equitalia riscuoteva dov’era più facile incassare facendo la voce grossa con le ganasce e le ipoteche. Anche perché l’obbligatorietà della riscossione coattiva per tutte le pratiche, indipendentemente dall’ammontare, faceva sì che la burocrazia divorasse tutte le energie relegando le posizioni più difficili da aggredire sempre in fondo al mucchio. Tanto più che gran parte del personale non ha neppure le competenze necessarie per scovare il malloppo sottratto all’Erario.
Più poteri all’Agenzia?
È stato calcolato che l’80% dell’evasione accertata dall’Agenzia e affidata per il recupero a Equitalia fa capo a soggetti falliti o presunti nullatenenti. Innumerevoli sono i casi in cui i beni finiti nel mirino del Fisco magicamente passano di mano. Inutile scovare gli evasori se poi non si intascano i soldi. Ragion per cui servirebbero un know how investigativo e poteri coercitivi assai diversi. Così c’è chi ha ipotizzato di affidare i dossier più scottanti all’Agenzia delle Entrate che può mettere in moto la Guardia di Finanza per inseguire le tracce del denaro. Intervenendo magari anche su certe regole della riscossione coattiva, finora fallimentari.
La partita delle nomine
La morale? Diciamo pure che quei 620 miliardi non si potranno prendere proprio tutti. Ma anche se riuscissimo a recuperarne un decimo, ci pensate?
Tutta materia per il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, come pure per il nuovo direttore dell’Agenzia: Rossella Orlandi, toscana di Empoli, stimata direttrice delle Entrate in Piemonte che ha subito promesso guerra ai grandi evasori. Prima donna a ricoprire un incarico tanto importante è stata nominata da Matteo Renzi al vertice operativo del Fisco con la benedizione dell’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco, al termine di una vicenda che non ha precedenti. Perché la scelta di Padoan, che ha il potere di proporre il nome al Consiglio dei ministri, era caduta invece sul numero due di Attilio Befera: Marco Di Capua, ex finanziere, corresponsabile di una gestione dell’Agenzia che aveva portato a quei risultati in termini di accertamenti. La proposta era stata regolarmente formalizzata e si attendeva soltanto la ratifica del decreto da parte di Palazzo Chigi. Ma non era stata messa nel conto la freccia al curaro che ha colpito Di Capua sul più bello: quando alcuni giornali lo hanno qualificato come tremontiano nonché amico di Marco Milanese, ex deputato del Pdl sotto inchiesta per corruzione e già braccio destro di Giulio Tremonti. Amicizia fatale, ancorché tutta da dimostrare. Fatale almeno quanto questa dichiarazione pubblica dell’ancora influente Visco: «Un governo di destra ha organizzato l’amministrazione finanziaria più repressiva. Non a caso ci sono tutti questi ufficiali della Guardia di Finanza». Di Capua, appunto. D’obbligo ricordare che pure Luigi Magistro, attuale capo di dogane-monopoli ed ex collega di Di Capua e di Rossella Orlandi, fresco di nomina nel consiglio di amministrazione di Equitalia con la prospettiva di assumerne la presidenza in vista della sua riorganizzazione, viene dalle Fiamme Gialle.
Sergio Rizzo

il Sole 24.6.14
Diritto di famiglia, riforma-puzzle
Dalle unioni civili al divorzio, gli interventi di Consulta e Parlamento
di Valentina Maglione


Unioni civili e coppie di fatto. Fecondazione eterologa. Divorzio breve. Filiazione senza distinzioni tra naturale e legittima. Sono le tessere che stanno componendo il mosaico della riforma del diritto di famiglia.
A posizionarle non è una mano unica, anzi. L'ultima ad avere innestato principi innovativi è stata la Corte costituzionale con due sentenze depositate il 10 e l'11 giugno scorsi (rispettivamente, la 162 e la 170). Con la prima pronuncia la Consulta ha cancellato dalla legge 40 del 2004 il divieto di procedere alla fecondazione eterologa, nei casi in cui è stata diagnosticata una patologia che provoca sterilità o infertilità assolute e irreversibili. E questo per tutelare il diritto ad avere figli, riconosciuto come «incoercibile» dalla Corte.
Nella seconda sentenza i giudici costituzionali hanno affrontato il caso di due coniugi, che, nonostante il cambio di sesso del marito, hanno chiesto di restare sposati. Una possibilità che la Costituzione non ammette, ha affermato la Consulta. Che però ha chiesto al legislatore di introdurre «con la massima sollecitudine» una «forma alternativa» di unione, «diversa dal matrimonio», che consenta ai coniugi di «evitare il passaggio da uno stato di massima protezione giuridica a una condizione di assoluta indeterminatezza». Del resto, la necessità di offrire una cornice giuridica alle unioni omosessuali è già stata affermata dalla Consulta nel 2010: nella sentenza 138, i giudici hanno sostenuto che a due persone dello stesso sesso che convivono stabilmente spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendo «nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri».
Sulla palla alzata dalla Corte costituzionale si è lanciato il Parlamento, che ha accelerato l'esame delle proposte di legge sulle unioni civili. A partire dai numerosi Ddl in materia al vaglio della commissione Giustizia del Senato, già lo scorso 8 aprile la relatrice, Monica Cirinnà (Pd), ha presentato due testi unificati: il primo è dedicato alle unioni civili tra persone dello stesso sesso e apre a un legame simile a quello che si crea con il matrimonio; l'altro disciplina i patti di convivenza e le convivenze di fatto, aperti sia alle coppie eterosessuali, sia a quelle omosessuali. Ma Cirinnà ha annunciato per domani un nuovo testo unificato, che comprende sia le regole sulle unioni civili, sia quelle sulle coppie di fatto.
D'altra parte, a chiedere una disciplina sulle unioni civili, prima ancora della Corte costituzonale, è l'evoluzione della società. Infatti, mettendo a confronto le rilevazioni del censimento del 2011 con quello del 2001, emerge che mentre le coppie sposate sono in calo, quelle non coniugate sono aumentate in media di oltre il 140% a livello nazionale, passando da 510mila a 1,2 milioni. È vero che la quasi totalità delle coppie è formata da marito e moglie. Ma il dato sulle coppie di fatto è sottostimato, perché non tutte si dichiarano, sia quando i partner sono di sesso diverso, sia, soprattutto, quando sono dello stesso sesso: il censimento del 2011 ha rilevato appena 7.513 coppie omosessuali.
Nella direzione di tutelare le famiglie di fatto sono andate anche le norme già varate, vale a dire la legge 219 del 2012 e il decreto legislativo 154 del 2013 (quest'ultimo in vigore da febbraio), che hanno fatto cadere le discriminazioni tra i figli nati da marito e moglie e quelli nati fuori dal matrimonio.
Non solo unioni civili. All'esame della commissione Giustizia del Senato c'è anche il Ddl sul divorzio breve, che, nella versione già approvata dalla Camera, permette a marito e moglie di dirsi addio dopo sei mesi di separazione, se è consensuale, o dopo un anno, se è giudiziale: si riducono così di molto i tempi rispetto ai tre anni previsti oggi. Rosanna Filippin (Pd), relatrice insieme con Maria Elisabetta Casellati (Fi), assicura che la commissione intende fare presto: «Cercheremo di licenziare il testo per l'Aula entro la pausa estiva – afferma – anche se sui tempi pesa l'incognita delle modifiche». Non è esclusa, tra l'altro, la possibilità di recuperare il divorzio diretto, vale a dire l'opzione di finire il matrimonio senza passare per la separazione. Si profila, così, il ritorno del testo alla Camera in terza lettura.
In cantiere, quindi, non c'è un riordino complessivo. Piuttosto, è stata imboccata la strada di interventi distinti, che però, sommati l'uno all'altro, compongono una vera e propria riforma del diritto di famiglia.

Repubblica 23.6.14
Il prefetto della frase shock “Sulla droga ho sbagliato volevo dare una scossa”
Reppucci e l’uscita (“Certe madri dovrebbero suicidarsi”) che l’ha fatto cacciare
“Non volevo dire che la colpa è loro. Se ho offeso qualcuno è giusto che paghi”
intervista di Maria Elena Vincenzi



ROMA. «Ho sbagliato, non c’è molto altro da aggiungere. Non volevo dire quello che ho detto. Meglio, volevo dirlo ma non intendevo in senso letterale, era solo un modo per scuotere le coscienze». Antonio Reppucci, già ieri era l’ex prefetto di Perugia, rimosso nel giro di 24 ore per avere detto, durante una conferenza stampa, che le madri che non si accorgono che il figlio si droga sono delle fallite e farebbero bene a suicidarsi. Parole riprese dalle telecamere che sabato hanno fatto il giro del web e, in poche ore, scatenato l’indignazione del premier e l’immediato annuncio del ministro Alfano: «Prenderò immediati provvedimenti. Quel prefetto non può stare né lì né altrove».
Signor prefetto. Una brutta giornata.
«Guardi, oggi non ho nemmeno letto i giornali, per cui non so bene cosa è stato scritto. So che ieri le mie parole sono state interpretate nel modo sbagliato e che questo ha creato un po’ di confusione».
Beh, dire che una madre che non capisce che il figlio si droga si deve solo suicidare come altro deve essere interpretato?
«Allora, innanzitutto sono frasi estrapolate dal contesto. Io non ho detto questo. Anzi, l’ho detto ma non volevo dire quello che lascia intendere il senso letterale. Io sono cattolico e praticante, figuriamoci se posso mai davvero istigare una persona a suicidarsi. Non mi passa nemmeno per l’anticamera del cervello. Mentre le parlo ho qui accanto mia moglie, figuriamoci se posso mai dire che una madre si deve togliere la vita. È una cosa assurda. Un paradosso per essere incisivo, per farmi capire, per scatenare una reazione. In Umbria la droga è un problema molto serio e molto diffuso. E forse per questo ero così infervorato».
Ma lo ha detto, prefetto, è stato ripreso dalle telecamere. Nessuno si è inventato nulla.
«Sì, ma è un modo di dire. Che peraltro a Napoli si usa spesso per esprimere disappunto».
E quindi lei crede che la colpa della tossicodipendenza sia solo delle madri?
«Assolutamente no. Sono state prese delle frasi. Io so come si fa il vostro mestiere, me ne intendo di comunicazione. E voi avete preso qualche parola e ricostruito un pensiero che non corrisponde al mio. Io ho parlato di fare squadra, di lavorare insieme. Mi sono rivolto alle scuole, alle istituzioni. Non credo, e non lo ho detto perché non lo credo, che la colpa sia solo delle mamme».
Lo ha detto, in realtà.
«Senta, io mi occupo di droga da tanti anni. Quando stavo in Calabria frequentavo anche alcune comunità per il recupero dei tossicodipendenti. So bene quali sono i problemi e le dinamiche. E so bene che la colpa non è solo delle famiglie ma di tutta la comunità. Lo ho anche detto ma nessuno lo ha registrato ».
Prefetto, ma è stato registrato tutto.
«Non è vero. E se è così è stato tagliato».
Quella frase le è costata cara. Ora che cosa succede?
«Non lo so. Sono a disposizione del ministro che farà quello che vuole di me. Sono come i carabinieri: usi obbedir tacendo. E forse è giusto così: ho sbagliato».
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha definito le sue parole «inaccettabili per un servitore dello Stato».
«Lo capisco e ha ragione. Chissà come sono rimbalzate a Roma».
Ma signor prefetto, era una registrazione.
«Sì ma tagliata ad arte. Avete fatto il vostro mestiere e lo avete fatto bene. Io vi ho fornito l’occasione. Ma io sono così. Sono una persona appassionata in tutto quello che faccio».
Alfano dice che la rimuoverà.
«Ha ragione. Ho sbagliato. È la vita. Una volta sei incudine e una volta martello. Ora io sono incudine. Nonostante la mia carriera parli per me».
Signor Prefetto, come si sente oggi?
«Ho ricevuto tante chiamate di persone che mi conoscono e mi stimano. Gente che ha lavorato con me e ha capito il senso delle mie parole perché mi conosce e sa come la penso. Certo, sono arrabbiato. Deluso. Come mi devo sentire secondo lei?».
Vorrebbe tornare indietro?
«Magari. Ma purtroppo non si può».

La Stampa 23.6.14
Il ministero accorpa
Casale Monferrato, il record di un liceo scientifico
Nell’aula-pollaio si ritrovano in 42
In molte scuole si ripropone il problema del «sovraffollamento»
di Mauro Facciolo

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Repubblica 23.6.14
Giovani senzatetto, emergenza europea
di Tito  Boeri



FRA una settimana inizierà il nostro turno di presidenza dell’Unione Europea e il primo luglio si riunirà per la prima volta il nuovo Parlamento europeo, uscito dalle urne un mese fa.
SAREBBE bello che nei discorsi programmatici all’inizio del semestre italiano e, ancor di più, nei primi atti pubblici dell’organismo oggi più democratico di cui disponga l’Unione venisse dato un qualche segno di attenzione agli ultimi degli ultimi, a coloro che non sono registrati nei seggi elettorali semplicemente perché non hanno una residenza.
I senza dimora sono ormai come una città nella città, una popolazione di 50.000 persone nelle sole città europee su cui si hanno dati disponibili. Questi cittadini che dormono accampati in qualche modo nelle strade, anche nei mesi invernali, o trovano occasionalmente rifugio in qualche centro d’assistenza, sono aumentati in media in Europa del 45% durante la Grande Recessione. Non solo nei paesi della crisi del debito (in Italia sono triplicati), ma anche in Germania e nel nord-Europa. Cambia, tra il Nord e il Sud, ma anche tra Est e Ovest dell’Europa, la loro composizione. Più immigrati al Nord, più autoctoni, soprattutto giovani, al Sud dove è esplosa la disoccupazione giovanile. A Est sono soprattutto gli emigrati di ritorno a gonfiare le fila dei senza casa: avevano cercato fortuna in Spagna e Italia, ma la mancanza di lavoro li ha spinti a tornare a casa, più poveri di prima. Aumenta ovunque la percentuale di donne, una conseguenza dell’aumento del numero di famiglie monoparentali.
Sono questi alcuni dei principali risultati di uno studio, coordinato da Michela Braga per la fondazione Rodolfo Debenedetti, che verrà presentato venerdì prossimo a Roma (vedi riquadro). Si basa sulle ricerche di tre gruppi di studiosi, australiani, statunitensi ed europei, che da anni monitorano e analizzano il fenomeno dei senza casa, oltre che sui censimenti, organizzati dalla fondazione, in tre città italiane (Milano, Roma e Torino). Quello di Roma, i cui risultati verranno anticipati oggi in un incontro presso l’Aranciera di San Sito con le associazioni del volontariato che hanno contribuito a questa iniziativa, ha coinvolto più di 1500 volontari che hanno per tre notti setacciato le strade all’interno del grande raccordo anulare, contando e intervistando i senza fissa dimora.
Perdita del lavoro e rottura del nucleo famigliare, due eventi tra di loro correlati perché lo stress legato alla perdita del lavoro deteriora le relazioni affettive, sono le cause maggiormente ricorrenti di questo stato. Tutto avviene nel volgere di pochi giorni e ci si ritrova, quasi senza accorgersene, senza casa e senza una famiglia cui fare riferimento. Si perdono pressoché del tutto i contatti umani, dato che ci si fida poco delle altre persone con cui si condivide questa esperienza. È una condizione che può durare a lungo, in media 3 anni a Milano e 6 anni a Roma. Contrariamente a credenze diffuse, non si tratta di persone destinate comunque alla marginalità perché alcoolizzate e comunque affette da gravi patologie psichiche, ma di persone in grado di reintegrarsi perfettamente nel tessuto sociale, una volta trovato un lavoro e, grazie a questo, una casa. Le politiche di prevenzione e di aiuto nella ricerca di lavoro, condotte nei loro confronti in paesi come la Finlandia e la Germania, hanno in queste realtà effettivamente portato al dimezzamento del loro numero dal 2000 al 2007, anche se poi la Grande Recessione e la crisi dell’Eurozona hanno nuovamente peggiorato la situazione.
Servono anche le politiche della casa. Noi abbiamo smesso di investire in edilizia sociale proprio quando i grandi flussi d’immigrazione cominciavano a prendere come obiettivo il nostro paese. Lo abbiamo fatto destinando al pagamento di pensioni, spesso a persone con meno di cinquant’anni e perfettamente in grado di lavorare, i contributi obbligatori originariamente devoluti alla Gescal, il fondo per l’edilizia popolare. E le Regioni, divenute titolari dal 1998 dei programmi di edilizia popolare, hanno pensato di vendere 150.000 alloggi (un terzo dello stock nel Nord-Italia) proprio mentre il numero di immigrati cresceva a tassi del 25 per cento all’anno.
Abbiamo così uno stock di alloggi di edilizia popolare e convenzionata pari a un quarto di quello di Francia e Regno Unito in rapporto al totale degli alloggi disponibili. Ci vogliono, così, mediamente 15 anni per avere un alloggio in una casa popolare, una volta maturati i requisiti. Se le Regioni manterranno le competenze in materia di edilizia popolare dopo la riforma del Titolo V, bene che siano loro (e non i Comuni) a finanziare i centri di assistenza e i dormitori per i senza casa. Avranno così gli incentivi giusti per affrontare un problema che rischia di sfuggirci di mano, nonostante da noi le relazioni famigliari siano più forti che in altri paesi e contribuiscano a contenere il fenomeno, e nonostante lo straordinario contributo del volontariato nel gestire questa emergenza sociale.

Repubblica 23.6.14
Petrolio, tasse e riscatti tutti gli affari del Califfato
di VIincenzo Nigro



Mohammed Al Awali adesso fa il capo commesso in una piccola catena di negozi elettrodomestici. Prima ha lavorato in una ditta di trasporti, camion su e giù per tutto l’Iraq, da Bassora al Kurdistan iracheno fin dentro la Turchia. Il commercio è un sismografo infallibile, registra tutto quello che accade in un paese. «Noi gestivamo decine di camion con i nostri associati in varie città del paese, avevamo doppio equipaggio, autisti sciiti e sunniti, sapevamo dove fare i cambi, dove salivano i sunniti e scendevano gli sciiti e viceversa, perché era impossibile entrare in aree nemiche. So che adesso i miei amici si stanno adattando, stanno cercando di capire. Ma una cosa è certa: con questi dell’Isis gli affari riprenderanno, e anzi stanno continuando. Perché loro vogliono fare affari, vogliono fare soldi e ci vogliono far pagare le tasse».
Mohamed è una fonte di informazioni indiretta su quello che l’Isis ha fatto e sta facendo al Nord, vicino al confine con la Siria, e su quanto inizia a fare in città come Falluja o Tikrit che sono più vicine a Bagdad. «Secondo quello che so io è vero che prima hanno rapinato le banche, ma poi spesso hanno richiuso i forzieri e le casseforti per rimetterci dentro un po’ di danaro. Il grosso se lo sono portato verso la Siria, ma quello che serve a gestire le città lo lasciano al controllo dei capi locali». Soltanto l’assalto alla banca centrale di Mosul, una città di 2 milioni di abitanti, ha fruttato all’Isis più o meno 400milioni di dollari. Qualcuno ha raccontato a un giornalista occidentale che quando un tassista ha chiesto a un miliziano “perché ti hanno messo a guardare la banca che avete conquistato?”, quello ha risposto che lì dentro ci sono i soldi con cui vogliono governare l’Iraq».
Sono ambiziosi i pianificatori dell’Isis. L’assalto alla raffineria di Baiji è stato ben organizzato. Hanno fatto saltare un paio di cisterne piene di petrolio, così per terrorizzare le guardie dell’esercito iracheno. Poi hanno sparato solo sul corpo di guardia, sui soldati terrorizzati, senza danneggiare l’impianto. Hanno sequestrato alcuni operai iracheni e turchi, ma non hanno torto loro un capello. Anzi hanno portato le famiglie che vivevano fuori dalla raffineria a parlare con gli assediati per convincerli ad arrendersi. Non ci sono più notizie ufficiali dal governo iracheno, quindi a questo punto è chiaro che l’Isis controlla una raffineria da 300 mila barili di petrolio lavorato al giorno. «Sembra che la produzione non sia ripresa, ma lo faranno presto: stanno cercando i tecnici, ne faranno venire di nuovi».
Mosul è una delle città del Nord Iraq in cui negli anni si erano spostati i cristiani in fuga dal Sud. Invece di crocifiggerli e massacrarli come avrebbero fatto d’impeto in Siria i qaedisti di Al Nusra, quelli dell’Isis hanno usato violenza, ucciso qualcuno, violentato molte donne ma poi si sono fermati. Li hanno terrorizzati e rimandati ai loro lavori, ai loro commerci. «Chiedono una tassa, un’estorsione a tutti i commercianti, a chiunque abbia un’attività», dice il capo-commesso. D’altronde da queste parti la prima cosa che fa chi prende il potere con i fucili è far pagare le tasse.
Una mafia sotto il segno dell’Islam? «Loro si chiamano governo, vogliono uno “Stato” dell’Iraq e della Siria, come farebbero tanti altri. Nei primi giorni l’Isis ha imposto una tassa di 200 dollari a ciascun camion di passaggio, ma adesso stanno abbassando a 150 dollari: sono pieni di soldi, ora vogliono solo consolidarsi e governare mentre combattono più a Sud».
Torniamo al petrolio: da un paio d’anni fra Siria e Nord Iraq gli uomini dell’Isis anche nelle zone che non controllavano perfettamente foravano gli oleodotti e spillavano petrolio che poi rivendevano all’incredibile contrabbando che avvia ogni giorno decine di autobotti a raffinerie compiacenti. Secondo il New York Times a Raqqa avrebbero anche degli impianti di raffinazione rudimentale. Il petrolio pare che venisse anche venduto da bande di intermediari a pezzi dello stesso regime siriano che l’Isis combatte.
Un’altra fonte di reddito sono i rapimenti, le estorsioni. Piccoli episodi contro piccoli commercianti e famiglie ricche nelle zone finite sotto controllo; colpi grossi quando si riesce a mettere le mani su un gruppo di 40 turchi come è successo la settimana scorsa a Mosul nell’assalto al consolato. Non se ne sa più nulla: è probabile che i turchi verranno liberati (se non lo sono già stati) a suon di milioni di dollari.
«Questo ha una logica ben chiara », dice il professor Abdul Jabar della facoltà di Scienze politiche dell’università di Bagdad: «Il loro non è un progetto terroristico: dopo aver fatto terrorismo contro gli americani ed essere stati sconfitti dalla mobilitazione delle tribù sunnite organizzate da Petraeus, l’Isis ha combattuto in Siria e adesso vuole uno Stato ». Usano la violenza per un progetto politico.
Per conquistare Mosul sono stati necessari molti soldi: «Con l’aiuto dei baathisti che sono sul terreno accanto a loro, i capi dell’Isis si sono comprati i generali dell’esercito, i capi della polizia della regione. Gli hanno detto «questi sono i soldi, andatevene, oppure arriviamo noi a sterminarvi». Con milioni di dollari e con centinaia di morti nelle fosse comuni (postate immediatamente su Internet perché tutti sappiano) il movimento terroristico più ricco del mondo si sta costruendo il suo stato: un Califfato petrolifero.

Corriere 23.6.14
Prove di Califfato l’Avanzata Jihadista Dissolve le Frontiere
Fra Iraq e Siria nasce uno «Stato» islamico
di Lorenzo Cremonesi


BAGDAD — In Medio Oriente sta nascendo una nuova entità politica che aspira a farsi Stato. Non piace quasi a nessuno, ma era nell’aria già da molto tempo, almeno due anni, e nel concreto si è fatto poco per fermarla. I suoi territori stravolgono i confini «tracciati nella sabbia» da Francia e Inghilterra dopo le intese segrete del 1916 (i cosiddetti accordi Sykes-Picot). L’Iraq è ora diviso in tre parti: sciita nel sud, sunnita nel centro-ovest e curda a nord. Un paradosso della storia, mentre commemoriamo il centenario della Prima guerra mondiale vengono stravolti assetti geopolitici frutto diretto di quel conflitto.
Il nuovo califfato
La nuova entità ha confini ancora imprecisi, compresi tra Aleppo, Homs e Hama in Siria, sino a nord di Bagdad in Iraq. È guidata da una meteora confusa di movimenti, ideologie e gruppi. Ma, a causa dal caos traumatico del suo stato nascente, al momento prevalgono le componenti più estremiste. Alla sua origine stanno le avanguardie sunnite della guerriglia cresciuta sempre più virulenta dal 2011 in Siria, ma forgiata da almeno un decennio di combattimenti in Iraq seguiti all’invasione anglo-americana del 2003. Vi si trovano elementi qaedisti, ex baathisti figli al vecchio regime di Saddam Hussein incattiviti con l’Occidente, oltre a gruppi di volontari jihadisti immigrati da Europa, Stati Uniti, Cecenia, Algeria, Palestina, Libia, Egitto, Tunisia…
Si valuta che a dominare la sua forza bellica (sino a 40.000 uomini, il loro numero è in costante crescita) siano i combattenti dello «Stato Islamico dell’Iraq e del Levante», un gruppo di 10.000 volontari che non nasconde il desiderio di imporre l’utopia wahabita. Il loro sogno guarda infatti al ritorno dell’età dell’oro del sunnismo: i primi califfi seguiti alla morte del Profeta e scelti tra i giusti nella comunità dei fedeli. Esaltano il Califfato dunque, lo reputano un modello di perfezione, semplicità, giustizia e purezza islamica. E rispolverano le antiche diatribe teologiche con gli sciiti, i quali sostengono invece che il successore di Maometto vada scelto tra i suoi discendenti di sangue.
Vittorie militari
Nelle ultime due settimane le colonne sunnite hanno completamente sbaragliato l’esercito del primo ministro sciita iracheno Nouri al Maliki. Dal confine meridionale e orientale della Siria sono scesi nel cuore del sunnismo iracheno nella provincia di Al Anbar lungo l’Eufrate, quindi sono saliti verso le regioni autonome curde nel nord per occupare Mosul, infine sono ridiscesi paralleli al Tigri, hanno preso Tikrit, tengono il controllo quasi totale di Baiji e stanno mirando a Bagdad. Da venerdì hanno scelto di consolidarsi nelle province occidentali. Hanno fatto irruzione nella cittadina di Qaim aprendo del tutto il passaggio con la Siria. Poi sono corsi a folle velocità verso il confine giordano ad espugnare il nucleo urbano di Rutba, per infine prendere Rawa e Ana più a sud. Occorre però ricordare che queste avanzate non sono un fulmine a ciel sereno. Già un anno fa le milizie sunnite erano riuscite a scacciare i militari iracheni da Ramadi e Falluja. Nel novembre scorso si erano attestate ad Abu Ghraib, luogo del famoso carcere, posto a 20 chilometri da Bagdad. La capitale vede con preoccupazione l’accerchiamento, che ora arriva anche dalle zone sunnite nelle sue periferie meridionali. I militari americani stimano che l’esercito iracheno non sia affatto in grado di riconquistare il territorio perduto. Manca di aviazione, non ha più missili, è demoralizzato. Ed è anche per questo motivo che i sunniti hanno spostato in Siria una larga parte del materiale bellico catturato in Iraq. Lo utilizzeranno per cercare di bloccare l’esercito di Bashar Assad, che invece si è dimostrato molto più efficiente.
Le donne e la legge dei wahabiti
Le cronache contraddittorie che giungono dalle zone occupate dagli estremisti sunniti danno comunque un quadro preoccupante. Dopo i video diffusi sulla rete delle esecuzioni di massa dei prigionieri sciiti, ora arrivano quelli di decapitazioni in puro stile afghano. Pare vi siano anche stati casi di attacchi contro le donne che non accettano di indossare il velo. Il britannico Independent riporta che a Beiji alcuni jihadisti sarebbero andati casa per casa a cercare «mogli per alleviare i loro impulsi sessuali». A Mosul sarebbe comparsa la formula del «Jihad Niqab», che invita le ragazze a «donare il loro corpo» ai guerriglieri della guerra santa. Non è chiaro se si tratti di casi isolati o di una politica sistematica. È da pensare però che queste pratiche siano destinate a fomentare forte ostilità tra i capi tribali sunniti e i baathisti. Tanto da far credere che l’unità apparente del fronte sunnita sia invece fortemente minata da forti contraddizioni interne, destinate presto ad esplodere.

Corriere 23.6.14
Califfo significa «Vicario»
Dal primo «Vicario» a oggi Il simbolo dell’unità sunnita
di Roberto Tottoli


l termine «califfato» deriva da califfo, che significa «vicario». È uno dei termini usati per designare i sovrani successori di Maometto a capo della comunità islamica. I primi quattro califfi furono compagni del Profeta, seguiti dalle dinastie degli omayyadi e degli abbasidi, che regnarono tra il VII e il XIII secolo. I mongoli posero fine al califfato abbaside nel 1258. La figura del califfo ricomparve in seguito in Egitto, prima di essere ripresa dai sultani ottomani di Istanbul. La riforma laicista di Kemal Atatürk nel 1924 la cancellò ufficialmente.
Il significato religioso della carica è sempre stato per la maggioranza sunnita alquanto ridotto. Il califfo esprime l’unità ideale della comunità, e incarna il bisogno di un’autorità che garantisca ai credenti il libero esercizio della fede. Ma non ha nessun ruolo religioso attivo, diversamente dall’imam sciita. Il potere effettivo del califfo abbaside andò scemando dal IX secolo. L’unità fu infatti più spesso ideale che non praticata. Tutta la storia del mondo islamico è attraversata da frammentazione politica, califfati di breve durata e pretese scarsamente ascoltate di legittimità religiosa.
Il califfato è ben presto scomparso nei dibattiti politici dell’ultimo secolo, e ritorna solo nelle rivendicazioni dell’islam politico, a partire dai Fratelli Musulmani. Anche Al Qaeda ha sempre proclamato di agire per l’instaurazione di un califfato. Il califfato è oggi poco più di uno slogan, ma evoca un’unità ideale di facile presa, e un’istituzione fortemente sunnita e invisa agli sciiti.

Repubblica 23.6.14
Fermare la disintegrazione di Siria e Iraq
di Thomas L. Friedman



SI PARLA molto in questi giorni di una possibile alleanza tra America e Iran per respingere la coalizione di milizie sunnite che hanno preso il controllo di Mosul e di altre città sunnite nell’Iraq occidentale e in Siria. Per il momento, io direi di starcene fuori da questo conflitto - non perché è l’opzione migliore, ma perché è la meno peggio.
Dopo tutto, qual è l’ambito nel quale interverremmo? Iraq e Siria sono gemelli: sono società multietniche e multisettarie governate, al pari di altri stati arabi, sempre in modo gerarchico. Noi abbiamo rimosso il dittatore dell’Iraq. La Nato e i ribelli tribali quello libico. I popoli di Tunisia, Egitto e Yemen si sono sbarazzati dei loro despoti; e alcuni in Siria hanno cercato di fare altrettanto per destituire i loro. Ogni paese oggi si trova alle prese con la sfida di cercare di amministrarsi in orizzontale, facendo sì che le varie sette, i partiti, e le tribù definiscano contratti sociali di convivenza, per vivere come cittadini alla pari che si avvicendano al potere.
I paesi ad aver ottenuto i migliori risultati in questa transizione sono Tunisia e Kurdistan. Gli egiziani ci hanno provato, ma quando hanno scoperto che l’insicurezza era insostenibile, hanno dovuto ripristinare il pugno di ferro delle giunte militari. La Libia è precipitata in un conflitto intertribale. Lo Yemen fatica a trovare un malfermo equilibrio tra le varie tribù. In Siria la minoranza sciita/alawita insieme a cristiani e alcuni sunniti pare preferire la tirannia di Bashar Assad all’anarchia dei ribelli capeggiati dagli islamisti. I curdi siriani si sono ricavati una propria enclave, così che il paese ormai è una scacchiera.
In Iraq il primo ministro sciita Nouri al-Maliki, dal momento stesso in cui gli americani se ne sono andati ha preferito invece conferire maggiore potere agli sciiti iracheni e toglierlo ai sunniti. Non c’è da stupirsi di conseguenza se i sunniti iracheni hanno deciso di agguantare da soli la loro fetta settaria del paese.
E così oggi sembra che un Iraq unito e una Siria unita non possano più essere governati verticalmente o orizzontalmente. I loro leader non hanno più il potere di far arrivare il loro pugno di ferro a ogni confine, e la popolazione non ha più la fiducia necessaria a tendersi reciprocamente una mano. Sembrerebbe proprio che l’unico modo di restare uniti potrebbe presentarsi nel caso in cui arrivasse una forza internazionale, che destituisca i dittatori, sradichi gli estremisti e dia vita a un consenso politico dal basso verso l’altro. Si tratta di un progetto generazionale per il quale non sembrano esserci volontari.
Potrei dire che prima che il presidente Barack Obama lasci cadere da un caccia militare statunitense anche solo una lattina vuota di Coca-Cola sulle milizie sunnite in Iraq, dobbiamo insistere affinché al-Maliki si dimetta e si formi un gabinetto di unità nazionale del quale facciano parte leader sciiti, sunniti e curdi inclusivi. Potrei dire che questo è il requisito fondamentale per la riunificazione dell’Iraq. E potrei dire che non è assolutamente nel nostro interesse, né in quello del mondo, assistere allo sgretolamento dell’Iraq e all’insediamento in una delle sue parti di un governo di milizie sunnite assassine.
E invece devo dire questo: mi sembra a uno stesso tempo troppo tardi e troppo presto fermare la disintegrazione. Troppo tardi perché qualsiasi fiducia ci sia mai stata tra le varie comunità è ormai sparita, e al-Maliki non si cimenta neppure nel tentativo di ricostruirla. Troppo presto perché prima che le varie sette possano coesistere pacificamente sembra quasi inevitabile che gli iracheni debbano apprestarsi a vivere divisi, a capire quanto sia folle tutto ciò e quanto si impoveriranno ancor più.
Nel frattempo, è innegabile che il terrorismo potrebbe essere esportato da noi dal nuovo “Sunnistan” iracheno radicalizzato. Ma per contrastare questa minaccia ormai onnipresente noi abbiamo l’Agenzia per la Sicurezza nazionale, la Cia e i droni.
Il pluralismo si è affermato in Europa soltanto dopo molti secoli nei quali una o l’altra controparte nel corso di guerre di religione pensava di poter avere tutto, e soltanto dopo che grandi pulizie etniche hanno dato vita a nazioni più omogenee. L’Europa ha vissuto anche l’Illuminismo e la Riforma. I musulmani arabi adesso devono percorrere questa stessa strada. Accadrà quando vorranno farlo o quando avranno esaurito tutte le altre opzioni. Nel frattempo, cerchiamo di fortificare le oasi di rispettabilità - Tunisia, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Libano e Kurdistan - e di rafforzare le nostre stesse democrazie per proteggerci nel migliore dei modi. Traduzione di Anna Bissanti

Corriere 23.6.14
Israele, raid aereo su obiettivi siriani
I ribelli islamisti sui confini
L’aviazione e l’artiglieria israeliane hanno colpito nove obiettivi temuti dal regime in Siria nell’area di Quneitra
di Guido Olimpio

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Repubblica 23.6.14
Israeliani rapiti raid dell’esercito uccisi 2 palestinesi
di Fabio Scuto



GERUSALEMME. Una notte di scontri a Ramallah, sparatorie a Nablus e Hebron. Due palestinesi uccisi e una quarantina i feriti. Sale la tensione in Cisgiordania, dove le operazioni militari di ricerca dei tre seminaristi israeliani scomparsi da dieci giorni si sono allargate a macchia d’olio. Le case perquisite sono ormai migliaia mentre cresce il risentimento della popolazione contro il presidente Abu Mazen “colpevole” di collaborare con l’esercito israeliano nella ricerca dei rapiti.
Alle due di sabato notte i soldati israeliani sono entrati nel centro di Ramallah con decine di mezzi militari e hanno iniziato a perquisire uffici e negozi in due palazzi commerciali vicino alla centralissima piazza Al Manara. Porte abbattute, grida, spari di avvertimento. Centinaia di palestinesi sono scesi in strada lanciando pietre e vasi di fiori dalle finestre contro i soldati che hanno risposto con lacrimogeni, proiettili veri e palline di acciaio ricoperte di gomma. Quando i militari israeliani si sono ritirati, la rabbia si è spostata sulla stazione di polizia palestinese: distrutte le finestre e auto. Gli agenti palestinesi hanno poi cercato di disperdere la folla sparando. Dopo gli scontri su un tetto di fronte alla stazione di polizia è stato ritrovato il corpo di un giovane. Era stato colpito da un proiettile di mitra M-16, in uso all’esercito israeliano. A Nablus l’altra vittima, un giovane che non si è fermato all’alt dei militari né ai colpi di avvertimento.
Sono evidenti i segnali di una crescente rabbia palestinese contro Abu Mazen, che difende la decisione di continuare il coordinamento con Israele per la ricerca dei ragazzi, ma denuncia la deriva di queste operazioni militari e la tensione che scatenano. Al decimo giorno di ricerche i palestinesi uccisi sono 4 e quasi cento i feriti. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ribadito ieri di avere la “prova inequivocabile” del coinvolgimento di Hamas nei rapimenti. Ma dei ragazzi dopo dieci giorni ancora nessuna traccia.
Intanto sulle alture del Golan, al confine fra Siria e Israele, un 15 enne israeliano è rimasto ucciso nell’esplosione dell’auto in cui viaggiava con il padre e un’altra persona, entrambi feriti. Non è ben chiaro se l’auto sia stata colpita da un razzo o da un ordigno esplosivo. Il giovane è la prima vittima sul Golan da tre anni.

Corriere 23.6.14
La ricerca dei 3 israeliani rapiti diventa un’operazione anti-Hamas
Indignazione della gente contro lo Stato ebraico ma anche contro il proprio presidente
I giovani protestano: «Così ci massacrano»
Ramallah in lutto, monta la rabbia da Terza Intifada
I palestinesi piangono i loro morti. E la piazza comincia a sollevarsi
di Cecilia Zecchinelli


RAMALLAH — Avvolto nella bandiera nera della Jihad islamica, su una barella d’acciaio, il corpo di Mohammad Tarifi è portato in alto da un gruppetto di uomini: tra i negozi e i caffè chiusi per lutto, girano intorno a piazza Manara, il centro della «capitale» palestinese occupato nella notte, per ore, dall’esercito israeliano accolto con lanci di pietre e vasi da fiori. Tarifi, 30 anni, è stato centrato da un cecchino, è morto dissanguato. Vicino a Nablus un 27enne diretto in moschea, disabile mentale, non si è fermato all’alt dei soldati che gli hanno sparato. È la quarta vittima dall’inizio dell’«Operazione Guardiano del fratello», lanciata il 13 giugno dal premier Netanyahu per ritrovare i tre studenti ebrei scomparsi nella colonia di Gush Etzion a nord di Hebron. Di loro non c’è traccia né si conoscono le «prove inoppugnabili» con cui Israele accusa Hamas di averli rapiti. Le ricerche continuano ma soprattutto continua la repressione del movimento islamico, secondo obiettivo dichiarato che pare ora preponderante, della stretta sui Territori: irruzioni in 1.600 case, oltre 400 arresti, villaggi e quartieri «sigillati», raid su Gaza. La mobilitazione israeliana, iniziata a Hebron, è la più ingente dalla seconda Intifada.
«Anche qui in centro a Ramallah gli israeliani non sparavano così da almeno dieci anni», dice il 27enne Muaffa, guardando il funerale che fa l’ennesimo giro in piazza Manara, dove nel 2002 un soldato uccise il fotografo italiano Raffaele Ciriello. «Ma la rabbia della gente è anche contro il presidente Abbas, che non fa niente. Questa notte le pietre se le è prese pure la polizia palestinese che non è intervenuta». Alla domanda se ci sarà una terza Intifada, cosa che molti pensano, risponde che «è possibile, non siamo pronti ma peggio di così…». Haya, universitaria, è d’accordo: «Io ne ho paura ma con la scusa del rapimento, che tutti pensiamo sia stato orchestrato da Israele, Netanyahu ci sta massacrando. E riuscirà a dividere Hamas e Fatah che hanno appena formato il governo d’unità. La gente reagirà». Tra le tante persone intervistate in questi giorni sono soprattutto gli anziani a frenare. «Abbiamo visto i bei risultati della seconda Intifada, ora siamo stanchi e senza speranze», dice Abu Ali, avvocato 70enne. «Israele ci ha preso tutto ma ha il mondo con sé, America, Europa, gli Stati arabi. Vuole espellerci tutti anche se ci metterà 50 anni. E in queste condizioni parliamo di Intifada? Senza una leadership?».
Al di là dei morti, delle decine di prigionieri in sciopero della fame, delle nuove colonie, è la leadership il problema chiave dei palestinesi. Mahmoud Abbas ha condannato tre volte pubblicamente il rapimento dei giovani ebrei, pur dicendo di non aver visto prove su Hamas, e ha sottolineato la sua collaborazione nelle ricerche e per la sicurezza nei Territori dove i servizi dell’Autorità lavorano a fianco degli israeliani. Dichiarazioni e azioni che gli hanno rivoltato contro la piazza palestinese, non solo di Hamas o della Jihad, ottenendo in risposta da Netanyahu altri attacchi personali e l’escalation antipalestinese. Una risposta velatamente condannata dagli Stati Uniti, dall’Onu. Ma pure dall’opposizione israeliana, politici e intellettuali: il ministro della Giustizia Tzipi Livni ha condannato «la reazione eccessiva» al rapimento la cui soluzione resta «il primo obiettivo dell’operazione», ha chiesto che «il coraggio di Abbas sia riconosciuto» e il dialogo riprenda per nuovi negoziati. Sui media israeliani, intanto, emergono indiscrezioni sul fatto che la stretta contro Hamas fosse in preparazione già dalla nascita del governo d’unità palestinese a inizio giugno.
«Abbas ha sbagliato nelle parole, più “tenere” con Netanyahu perfino di quelle della sinistra israeliana», dice Qaddura Fares, capo dell’Organizzazione per i prigionieri palestinesi, membro di Fatah, noto per non risparmiare critiche al partito. «Ha agito così per evitare un’escalation ulteriore e dimostrare al mondo che il vero ostacolo alla pace non siamo noi ma il governo israeliano. Abbas non ama la violenza, ma cosa può pensare la nostra gente quando lo sente condannare il rapimento di tre israeliani mentre i soldati uccidono, distruggono case, e su Facebook la proposta di ammazzare un palestinese ogni ora fino a quando non troveranno i ragazzi ha avuto 20 mila adesioni?». Fares non esclude che i rapitori siano palestinesi, anche di Hamas. «Ma non con l’approvazione dei leader, in caso una cellula indipendente», dice, mentre in Fatah altri pensano che i responsabili siano criminali comuni, arabi o ebrei, per riscatto o vendetta. «Non so se il governo di unità reggerà, ma spero che al prossimo congresso di partito ci sia un cambio di dirigenti e di strategia, meno remissiva. Per ora Hamas si sta rafforzando e c’è il serio rischio di un’Intifada che l’Autorità farà di tutto per evitare. Ma che nemmeno Netanyahu vuole. Per lui è meglio una "mezza guerra” come questa. La calma, come una vera sollevazione, lo esporrebbero a troppe critiche da parte della comunità internazionale».
La calma ora sembra però lontana e nuovi fronti potrebbero aprirsi per Israele: sulle alture del Golan, occupate dal 1967, è avvenuto ieri l’incidente più grave dall’inizio della guerra in Siria. Un arabo israeliano di 15 anni è stato ucciso, il padre e un uomo feriti, su un'auto del ministero della Difesa israeliano vicino al confine siriano dove lo Stato ebraico sta erigendo un muro. Non è chiaro da chi sia partito il colpo, se dai ribelli o dai lealisti a Assad che in marzo avevano già ferito quattro soldati israeliani, causando un raid aereo sulle postazioni dell’esercito siriano. Ma Israele è convinta che quello di ieri sia stato «un attacco intenzionale».

UNO SLIDE SHOW DI IMMAGINI SULLE AZIONI DELL’ESERCITO ISRAELIANO IN CORSO IN CISGIORDANIA - PUBBLICATO DAL CORRIERE DELLA SERA - È DISPONIBILE QUI

il Fatto 23.6.14
Israele e i tre ragazzi scomparsi
Ancora scontri, morti due palestinesi


La ricerca, da parte dell’esercito, dei tre studenti israeliani rapiti, non ha dato ancora esito, ma sono aumentati gli scontri. Il bilancio di ieri è di due palestinesi morti, il primo è stato colpito vicino ad un posto di controllo a Nablus in Cisgiordania, e un altro è rimasto ucciso nei disordini a Ramallah. I tre adolescenti israeliani sono scomparsi dieci giorni fa mentre tornavano da una scuola religiosa ebraica in Cisgiordania. Nessun gruppo ha chiesto riscatti o formulato rivendicazioni. Da allora, Israele ha arrestato oltre 350 palestinesi, la maggior parte dei quali affiliati ad Hamas a cui imputa la responsabilità del rapimento.


il Fatto 23.6.14
Palestina - Israele
Un fiore di timo vince la guerra dell’acqua
di Roberta Zunini


Il miracolo di un fiore di timo che sboccia nei Territori palestinesi, vale il doppio. Nonostante sia stato annaffiato con acqua nera, perché quella buona la possono usare solo i coloni di Ariel, l'insediamento vicino al campo di Ezdehar Mohammad Haj Al, nel villaggio cisgiordano di Jamain, provincia di Nablus.
Ezdehar Mohammad Haj Al è una signora di 38 anni, invecchiata anzitempo, sposata e madre di 3 figli. La incontriamo in una giornata torrida e ventosa, con l'aria offuscata dalla terra sabbiosa che mulinella e ci finisce, a turno, negli occhi e nella gola. Con la differenza che loro non hanno gli occhiali da sole né una bottiglia d'acqua, grazie a cui io e la fotografa che mi accompagna ci ripuliamo la bocca dai granuli roventi. “L'acqua è troppo preziosa qui, la dobbiamo conservare per farla bere ai nostri bambini, lavarci, pulire i loro vestiti e cucinare oltre che per lavorare il timo”, ci spiega Ezdehar, che sogna ancora di andare all'università per studiare psicologia e capire come funziona la coscienza degli esseri umani, “capaci di ogni forma di brutalità”. Ma intanto, ogni mattina del mondo, del suo mondo ristretto a pochi chilometri, con le altre donne velate del villaggio, pie verso Allah trasfuso nel timo e nei frutti degli olivi che gli crescono accanto, va a scegliere le piantine migliori lo scelgono, per poi pulirle, essiccarle e quindi vederle al mercato, anche in forma di focaccine dal profumo squisito.
Fiori e proiettili
Il timo cresce spontaneamente nei terreni aridi, soleggiati e sassosi, così come gli ulivi, ma, rispetto a queste piante nodose e centenarie, il timo ha bisogno di più acqua. Così come il pomodoro e il cetriolo, gli altri vegetali usati nella cucina palestinese. “Ma Israele mantiene il controllo su tutte le nostre risorse idriche sotterranee e superficiali. A noi palestinesi, in tutte le aree (A, B, C, ndr) è permesso estrarre solo il 20 % del potenziale stimato della falda acquifera che si trova sotto i nostri piedi, a circa 40 metri di profondità mentre Israele ne estrae ben l'80%, ci dice con la voce roca di rabbia e un sorriso amaro stampato sul volto Malek Allam (è un nome di fantasia perché l'uomo teme la ritorsione dei coloni vicini), ex agricoltore che vive a Wadi Fouki, l'ennesimo villaggio su cui incombe l'espansione quotidiana di un insediamento colonico. In questo caso, Betar Ellit. “Prima dell'occupazione io e la mia famiglia avevamo 20 ettari di terreno, ereditati dal mio trisnonno, tutti coltivati, negli anni sono scesi a 10, e ora, come vedi è una landa piena di erbacce, abbandonata. Non posso coltivare un terreno senza acqua . Gli israeliani della Joint water mi hanno negato i permessi per costruire i pozzi e quelli che già avevo me li hanno distrutti i soldati della Civil Administration perchè sostengono siano illegali. Anche se c'erano già prima che loro occupassero la nostra terra nel 1967, quando gestivamo noi la vena che scorre qua sotto”. Ora l'agricoltore, all'età di 49 anni deve ricominciare da capo e cercarsi un altro lavoro per sostenere la famiglia composta dalla moglie e 4 figli, tra i quali due bambini di 6 e 8 anni. “Mia moglie si è ridotta a lavorare nelle piantagioni dei coloni finché non troverò un lavoro, dobbiamo pur far crescere i nostri bambini e mandarli all'università. Per questo ora sono disposto anche ad andare a fare lo spazzino a Betar Illit, come alcuni miei amici, ex agricoltori come me, hanno fatto. Non abbiamo alternativa. L'unica speranza per uscire da questo incubo è che i nostri figli studino e si affranchino, anche a costo di andare all'estro, ma se continua così non sarà facile”. Camminiamo, pestando gli arbusti aguzzi, risultato dell'occupazione e del conseguente abbandono involontario dei campi di proprietà di tanti agricoltori. Perché i palestinesi sono, anzi erano, prevalentemente agricoltori, non latifondisti però, piuttosto contadini di piccoli appezzamenti ereditati a fatica nei secoli del dominio ottomano e quindi del mandato britannico. Dobbiamo tenere la suola dei sandali il più possibile parallela ai rovi che dobbiamo inevitabilmente schiacciare, come serpenti tentatori, per procedere verso il nulla. Verso l'abbandono progressivo della terra e della speranza di una vita dignitosa. Un puntino piccolo, poi sempre più grande, nella foschia dello zenith, prende a poco a poco le sembianze di Dror Etkes. Un professore ebreo israeliano che ha fondato l'Ong Kerem (giardino in ebraico, ndr) Navot. Mi dà una stretta di mano forte, poi arriva subito al punto: “Da anni seguo da vicino la ripugnante violenza fisica e psicologica che i nostri governi hanno pianificato per costringere i palestinesi dei Territori ad abbandonare i loro campi, la loro terra, su cui volano come avvoltoi i coloni, pronti a scendere in picchiata per ghermirla. E sono sempre di più, perché anche loro, come i nostri ultraortodossi usano i figli come arma, l'arma demografica”. Con la complicità del recente governo, che ha tra i suoi ministri più importanti l'ultranazionalista giovane miliardario Naftali Bennet che ha fatto il pieno di voti proprio tra i coloni. Bennet sostiene che l'area C debba essere annessa allo Stato israeliano. “Di fatto è come se lo fosse già - sottolinea Etkes mentre abbraccia Mohammad Mustafa, un altro ex agricoltore che ci ha appena raggiunti su quello che era il suo appezzamento di terreno- perché la guerra dell'acqua, in tutte le sue diaboliche declinazioni, è quella più efficace per costringere i palestinesi ad abbandonare le proprie terre, a diventare dipendenti dalle colonie ebraiche, che sono la causa principale dei loro problemi, e infine ad andarsene, se non fisicamente, perché l'amministrazione israeliana rifiuta loro non solo i permessi per scavare i pozzi, ma anche i permessi per spostarsi da una area all'altra dei Territori occupati, certamente mentalmente”, conclude Etkes. La maggior parte dei civili palestinesi è disillusa e stanca delle finte promesse, dei processi di pace che, come ha scritto il grande scrittore israeliano Abraham Yeoshua - in lotta da sempre con i suoi colleghi Amos Oz e David Grosmann, contro l'occupazione e il regime di apartheid conclamatosi definitivamente con il recente secondo esecutivo Netanyahu -è diventato un guscio vuoto. “ Siamo stanchi al limite del collasso per questo camminare a vuoto, per questo ruotare sul posto senza un risultato, come criceti in gabbia, sono stufo di vedere i soldati israeliani che guardano indifferenti, e spesso complici, i coloni gettare la spazzatura e i loro liquami nei nostri campi, del loro sonno tanto pesante, quanto finto, che protegge gli squadroni dei coloni quando di notte escono dalle loro case, sorvegliate dai militari e da barriere con il filo spinato collegato alla corrente, per bruciarci i nostri raccolti”, dice Mustafa con gli occhi pieni di lacrime. Da tre mesi lavora come cameriere in un bar di Ramallah, la capitale provvisoria dell'Autorità Nazionale Palestinese. Il sole è ancora accecante alle quattro del pomeriggio mentre beviamo tè alla menta per rinfrescarci dentro la casa di sua madre, a 40 chilometri da dove questo giovane uomo di 29 anni lavora. “Non so quando mi potrò sposare perché il mio lavoro è incerto e i miei campi sono irrecuperabili. Non ho avuto il permesso per scavare nuovi pozzi e quelli che c'erano sono diventati aridi”. Alle cinque mettiamo la testa fuori dalle spesse mura che costituiscono di fatto la casa, con tre mobili, tre, della signora Jasmine, vedova perché il marito è morto l'anno scorso d'infarto, un mattino all'alba, dopo aver visto tutto il suo raccolto carbonizzato dal fuoco dei coloni. Il sole è ancora caldo, sembra impossibile che prima o poi si spenga dietro la collina. I passanti sudati non vedono l'ora che arrivi la brezza fresca del crepuscolo, quando il deserto, che ci circonda, traspira e rovescia la temperatura fino a obbligare tutti a indossare il maglione di lana non appena arriva la notte.

il Fatto 23.6.14
Disputa senza fine
Quando i militari decidono a chi aprire i rubinetti
di R. Zun.


Il poco oro blu che scorre a vari metri di profondità sotto il terreno dei Territori palestinesi occupati, è da sempre ostaggio della politica israeliana, di ogni governo che si è alternato alla guida dello Stato ebraico, indifferentemente dal suo colore: bianco, rosso o nero. Sia i partiti di sinistra, sia quelli di centro, i conservatori così come i nazionalisti e gli utranazionalisti, che oggi siedono al governo di Gerusalemme, hanno usato l'acqua come un'arma per distruggere la vita degli abitanti dei Territori e piegare la loro lotta per ottenere uno Stato dove vivere da cittadini liberi e indipendenti. Ma dopo la firma del trattato di Oslo, vent'anni fa, la situazione è andata peggiorando anno dopo anno, come testimonia il lavoro di coraggiose e indipendenti Organizzazioni non governative israeliane. Che non hanno esitato e non esitano a denunciare i propri governi per la politica di sfruttamento volutamente intensivo delle risorse idriche dei Territori occupati a partire dalla fine della guerra dei Sei giorni, nel 1967.
DOPO L'USCITA forzata dei coloni israeliani dalla striscia di Gaza, ordinata da Ariel Sharon nel 2005, la guerra dell'acqua, caldeggiata soprattutto dall'ultranazionalista ministro degli esteri israeliano, Avigdor Lieberman -alleato di ferro del premier conservatore Netanyahu- che peraltro vive nella colonia di Nokdim, si è concentrata in Cisgiordania (chiamata West Bank nei trattati di diritto internazionale). Una politica che ha contribuito all'aumento esponenziale della desertificazione dei campi palestinesi, quelli delle colonie invece hanno acqua in abbondanza. All'interno dei territori occupati, abitati da 2 milioni e mezzo di palestinesi e da 600mila coloni ebrei, anche l'acqua è stato ed è uno strumento dirimente nelle mani di Israele per sviluppare la logica dell'apartheid, soprattutto in quella zona che porta il nome di Area C. L'idrologo israeliano Youval Arbel dell'Organizzazione Non Governativa FoEme, sottolinea una distinzione cruciale per comprendere chiaramente la questione: “Il territorio occupato cisgiordano è suddiviso in tre zone: A, B, C. La C, la più vasta, con la maggior parte dei terreni agricoli, contiene tutti gli insediamenti israeliani, le strade di accesso utilizzate esclusivamente dai coloni, zone cuscinetto, e quasi tutta la Valle del Giordano e il deserto di Giudea". Dato che la C copre il 67 % della Cisgiordania ed è sotto il completo controllo dello Stato di Israele, è gioco forza per la maggior parte degli agricoltori palestinesi attendere il permesso delle autorità israeliane per scavare pozzi. "Ed è una procedura lunga, complessa e quasi sempre frustrante, poichè il permesso non viene quasi mai accordato, dato che la Joint Water Commitee, a cui gli agricoltori palestinesi si devono rivolgere, è costituita solo da due entità: il ministro dell'acqua israeliano e il suo omologo dell'Autorità Nazionale Palestinese, ma l'entità israeliana ha potere di veto. Non ci sono contrappesi pertanto". Nell'area C, proprio perché la più vasta e proprio perchè sotto il completo controllo di Israele , c'è un ulteriore passo da compiere per poter scavare un pozzo o connettersi a un acquedotto: avere il permesso della Israeli Civil Administration. "La Israeli civil administration è l'osso più duro della trafila perché è composta esclusivamente da membri dell'esercito: dal soldato semplice, che ha il compito di andare a distruggere i pozzi e gli allacciamenti illegali (molti agricoltori palestinesi hanno cercato di bypassare il rifiuto dell'Ica irrigando i campi attraverso collegamenti di fortuna alle condutture delle colonie ebraiche vicine) fino agli ufficiali più alti in grado".
SOLDATI, senza competenze in materia, hanno dunque l'ultima parola sui permessi che determinano non solo la sussistenza di intere famiglie che vivono di ciò che raccolgono nei propri campi, ma anche sulla salute di tutti i cittadini palestinesi perché i permessi, quando vengono concessi, riguardano solo pozzi non più profondi di trenta metri. Solo i coloni possono scavare fino a 50 per trovare l'acqua pulita, non contaminata dalle fogne a cielo aperto che impestano la Palestina sotto occupazione. FoEme, il cui nome è l'acronimo in inglese di "Amici della terra mediorientale", ha sede in tre città: Tel Aviv, in Israele; Betlemme in Cisgiordania; Amman in Giordania. "Il nostro obiettivo è la protezione dell'ambiente che coinvolge queste tre Nazioni confinanti. Anche se la Palestina non è ancora una Nazione riconosciuta dall'Onu, noi speriamo lo sarà presto.
NEL FRATTEMPO I PALESTINESI devono affrontare una realtà sempre più difficile. Uno dei principali problemi è la mancanza d'acqua, l'elemento fondamentale per la sopravvivenza", ribadisce Arbel. Sul sito dell'organizzazione si possono vedere video che testimoniano le difficoltà quotidiane anche delle madri di famiglia che non hanno l'acqua per preparare il cibo e lavare i panni dei propri figli, costrette a comprarla in bottiglia dalla Mekorot, la società pubblica israeliana dell'acqua, che gestisce l'oro blu palestinese. Del resto, si sa, le cose più sono preziose, più costano. Anche quelle che per il diritto internazionale sono considerate beni comuni, diritti non negoziabili dell'essere umano. Ma non per i palestinesi.

La Stampa 23.6.14
Svolta Usa, la maggioranza dei lavoratori ispanici è nata in America
Secondo i dati del Pew Reserarch Center, la svolta è legata alla crisi economica:
nel 2007 il 56,1% erano immigrati, ora sono 22 milioni, il 49,7%
di Paolo Mastrolilli

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Corriere 23.6.14
Giappone, addio alla Costituzione pacifista
«Dobbiamo contenere la minaccia cinese»
Domani il premier Abe presenta la sua riforma: ma non tutti lo seguono
C’è chi teme il risorgere del militarismo nipponico del passato
di Luigi Ippolito


TOKYO — I colpi di tamburo risuonano nell’aria immobile che circonda il santuario di Yasukuni, nel centro di Tokyo. Di fronte all’altare vecchi e giovani, madri e figlie adolescenti, tutti vengono a rendere omaggio ai due milioni e mezzo di caduti nelle guerre combattute dal Giappone. Due inchini, due battiti a mani giunte, attimi di raccoglimento, nuovo inchino. All’interno, il gran sacerdote introduce il visitatore nel sancta sanctorum . Tre novizie vestite di bianco e rosso guidano nel rituale di purificazione, poi di nuovo l’omaggio, la preghiera, la benedizione.
La stessa scenografia che ha accompagnato la visita del primo ministro Shinzo Abe nel dicembre scorso: un gesto che ha rotto con una prassi decennale, che vedeva i leader giapponesi tenersi alla larga da Yasukuni. Perché nel santuario sono iscritti anche i nomi di 14 criminali di guerra, considerati responsabili delle atrocità commesse dalle armate nipponiche nel secondo conflitto mondiale. Una decisione, quella di Abe, che ha scatenato le ire dei vicini asiatici, in primo luogo la Cina, vittime nel passato dell’imperialismo giapponese. I cui fantasmi ancora si agitano nel museo annesso al santuario.
Qui il visitatore è accolto da uno Zero, l’aereo protagonista delle missioni kamikaze, e dalla locomotiva del ponte sul fiume Kwai, la ferrovia costruita dai prigionieri di guerra inglesi. Fra antiche spade e armature di samurai, dopo una mappa che illustra le aggressioni coloniali occidentali in Asia, si spiega la necessità di combattere la Seconda guerra mondiale per procurarsi le risorse bloccate dalle sanzioni e l’inevitabilità del conflitto di fronte all’intransigenza americana. Il dopoguerra è stato il «tribunale dei vincitori», commenta amaro il monaco che fa da guida.
Uno sfondo inquietante, quello di Yasukuni, nel momento in cui il governo Abe è impegnato nel far approvare una reinterpretazione della Costituzione pacifista imposta dagli Usa al Giappone sconfitto: una revisione che punta a consentire un impegno più attivo delle forze armate di Tokyo, finora costrette a un limitatissimo ruolo di auto-difesa.
«Yasukuni è un santuario privato, non è un’organizzazione governativa — ci tiene a precisare Tomohiko Taniguchi, consigliere speciale del premier e uno degli uomini chiave del governo giapponese —. Dobbiamo chiederci: Abe aderisce alla versione della storia raccontata nel museo? Abe vuole riportare indietro l’orologio della storia? Se la risposta è sì, allora è un leader pericoloso. Ma la risposta è no».
Ancora più netto, perché fuori dall’ufficialità, il giudizio del professor Kuni Miyake, direttore di ricerca al Canon Institute for Global Studies: «Abe non è un estremista di destra come lo descrive la stampa occidentale. È un conservatore patriottico, ed è anche un realista pragmatico, che sa che deve compiacere i suoi sostenitori, fra i quali c’è pure la destra xenofoba. Ma sa tenere sotto controllo quegli idioti. Yasukuni non rappresenta né il governo né la maggioranza silenziosa del Paese. La Cina ha sollevato la questione solo per ragioni politiche».
Ma non tutti sono sulla stessa lunghezza d’onda. Il principale quotidiano giapponese, lo Asahi Shimbun , è critico verso Abe. In redazione, accusano apertamente il premier di aver creato ad arte le tensioni con la Cina e la Corea, con provocazioni come la visita a Yasukuni, per avere un’arma in più a favore della revisione della Costituzione. E sottolineano che sull’argomento l’opinione pubblica resta divisa: un sondaggio pubblicato ieri mostrava il 55 per cento dei giapponesi contrari all’adozione di una nuova politica di difesa. Il progetto si è scontrato anche con le perplessità di deputati dell’opposizione e della stessa maggioranza, in particolare del partito buddhista Nuovo Komeito, che appoggia il governo. Ad ogni modo, Abe intende presentare domani la bozza di revisione costituzionale, puntando a una sua approvazione in una riunione di Gabinetto il primo luglio .
Ma perché ripudiare decenni di pacifismo inscritto nella Legge fondamentale e resuscitare agli occhi dei Paesi vicini lo spettro del militarismo giapponese? «La reinterpretazione della Costituzione è una salutare mossa geopolitica — sostiene il professor Miyake —. La versione finora accettata poteva andar bene per la Guerra Fredda, ma ora per la prima volta dal conflitto mondiale il Giappone deve fronteggiare un pericolo fisico, una minaccia che viene dal mare. Al governo sanno benissimo che la Cina sta arrivando nelle nostre acque territoriali. Pechino non conosce le regole del gioco, sono nuovi al mondo e xenofobi».
«La crescita pacifica della Cina non è pacifica affatto – conferma Morio Matsumoto, direttore del desk cinese al ministero degli Esteri – Dobbiamo convincere Pechino, attraverso un mix di dialogo e pressioni, a entrare nel sistema di regole di sicurezza internazionali. Vogliamo che la Cina sia un partner responsabile. Non c’è ragione per un conflitto armato, ma potrebbe sempre verificarsi uno scontro accidentale». Il riferimento è alla contesa per le isole Senkaku (Diaoyu per i cinesi), il gruppo di scogli disabitati la cui sovranità è rivendicata sia da Tokyo che da Pechino.
«La Cina sta mettendo in atto azioni provocatorie per cambiare lo status quo — denuncia Takehiro Kano, direttore per sicurezza nazionale al ministero degli Esteri —. Non diciamo che si tratta di una minaccia, ma siamo sicuramente preoccupati per la crescita di un budget militare che è 3-4 volte maggiore del nostro. Per noi la diplomazia deve venire prima di tutto, ma la difesa è l’ultima risorsa».
Ecco allora perché Tokyo intende prepararsi, come spiegano i documenti ufficiali, «per situazioni imprevedibili che potrebbero verificarsi nell’ambiente di sicurezza che circonda il Giappone, che sta diventando sempre più severo».
In che modo questo stia avvenendo, lo spiega sempre il consigliere Taniguchi: «Per anni abbiamo avuto “incontri ravvicinati” in mare fra vascelli cinesi e giapponesi, praticamente ogni giorno. Ora questo accade nei cieli, i caccia di Pechino sfiorano i nostri ricognitori. La Cina sta mandando chiari segnali di allarme. Malgrado ciò, le forze di Tokyo stanno dimostrando estrema disciplina: senza, un incidente potrebbe essere già avvenuto».
Una situazione di estrema criticità, quella che si è creata in Asia orientale, che rimette in questione le vecchie certezze e abitudini e chiama in causa le alleanze internazionali. «Il tempo è maturo per un ruolo proattivo del Giappone — afferma Taniguchi — Finora siamo stati fortunati a essere protetti dall’ombrello Usa, durante la Guerra Fredda il Giappone non aveva bisogno di uscire dai suoi confini. Ora gradualmente stiamo venendo fuori dal guscio».
Per farlo, Abe sta tessendo una fitta rete di rapporti internazionali, a partire dalle democrazie dell’Asia-Pacifico, come India, Indonesia o Australia. Ma senza trascurare i Paesi europei. In particolare l’Italia, fanno notare i diplomatici della nostra ambasciata a Tokyo, riveste un ruolo centrale come interlocutore interessato al rispetto della legalità internazionale: la recente visita a Roma del leader giapponese è servita a dare linfa a quest’asse. «Insomma, preferite dar retta a un regime comunista autoritario o a una democrazia? — sintetizza Taniguchi —. Dopotutto, siamo noi quelli senza prigionieri politici...».

La Stampa 23.6.14
La Svezia sotto choc
Sessanta bimbe mutilate
Le infibulazioni scoperte a scuola. Scricchiola il modello d’integrazione
di Monica Perosino


I sistemi sanitario e scolastico svedesi sono in allarme: molte infibulazioni vengono praticate nei Paesi di origine durante le vacanze estive

Un altro strappo, inatteso e doloroso. Proprio nel Paese, la Svezia, in cui le regole, la legge e la difesa dei diritti sono ormai talmente interiorizzati da essere dati per scontati. Eppure la spaccatura tra la società-stereotipo e quella reale sembra essere sempre più profonda.
Dopo le prime aggressioni neonaziste a una manifestazione di pacifisti a marzo, le «schedature» segrete dei Rom, gli scontri delle «banlieu» dell’anno scorso, i raid degli estremisti di destra contro gli immigrati, ancora una volta la patria del benessere viene risvegliata dai colpi della realtà.
I servizi sanitari di Norrköping, città di 80 mila abitanti della Svezia orientale, hanno scoperto che 60 bambine e ragazze dai 4 ai 14 anni hanno subito mutilazioni genitali, 30 di loro sono nella stessa classe. La maggior parte è stata vittima della peggiore forma di mutilazione «rituale», con l’asportazione totale di clitoride e grandi labbra e l’area genitale cucita quasi completamente.
In Svezia la pratica è illegale già dal 1982 (in Italia solo dal 2006), e viene punita con quattro anni di prigione, dieci nei casi più gravi. Dal 1999 è reato anche se praticata in altri Paesi. E ora l’allarme è altissimo, visto che molte mutilazioni vengono fatte all’estero, durante le vacanze estive, quando molte famiglie tornano ai loro Paesi d’origine dove sono ancora oggi un rito di passaggio all’età adulta diffusissimo. Secondo l’Eige, l’agenzia europea per l’uguaglianza di genere, la diffusione delle Fmg in Svezia ha coinciso con l’enorme flusso migratorio dall’Africa subsahariana - soprattutto dalla Somalia - negli Anni 80. Per questo i legislatori scandinavi, ancora una volta, hanno tentato di prevenire il danno con una regola. Ma non è bastato.
Gli effetti sulla ragazzine sono devastanti: infezioni gravissime, infertilità, disturbi psichici, emicranie, crampi e, naturalmente, l’annientamento completo e definitivo della vita sessuale. «Abbiamo scoperto le mutilazioni durante i colloqui periodici con gli studenti: è stato uno choc – dice Juno Blom, direttrice del Dipartimento di sostenibilità sociale dell’Östergötland – . Questo è un risveglio vergognoso per tutti noi». «Vergogna», è questa la parola che corre di bocca in bocca, sui giornali, in televisione, nelle eterne riunioni che caratterizzano tutte le pieghe della società fondata sul confronto. Vergogna e senso di colpa. Per questo nessuno osa fare differenze tra i membri della società-stereotipo e quelli più reali della società multirazziale, nessuno allude all’origine delle vittime. Sono svedesi, punto. Svedesi da proteggere. «Il caso Norrköping - spiega Blom - potrebbe essere strumentalizzato da forze xenofobe. Esacerbare ancora di più le tensioni. Non deve succedere. Qui in Svezia è incredibilmente importante che tutti siano trattati allo stesso modo».

Repubblica 23.6.14
Quel fenomeno chiamato Mark Twain
Ecco perché il grande scrittore a un secolo dalla morte scala ancora le classifiche
di Irene Bignardi



SECONDO Ernest Hemingway «prima non c’era nulla. E non c’è mai stato niente di altrettanto grande da allora». E certamente Le avventure di Huckleberry Finn è
stato sempre uno dei più forti candidati al titolo di Grande Romanzo Americano - il premio di una gara possibile ma non reale che, sulla scia del titolo inventato in pieno Ottocento da William De Forest, ha visti impegnati a superarsi nel raccontare in maniera esemplare il loro paese i grandi romanzieri americani, da Melville a Fitzgerald, da Faulkner a Margaret Mitchell, da Dos Passos a Salinger, da Harper Lee a Jack Kerouac, da Roth a De Lillo.
E le avventure di Huckleberry Finn, con l’America del Mississippi, con Jim l‘eroe nero, con il suo linguaggio colto dalla vita, non è solo il vincitore più probabile di questa gara non scritta alla grandezza letterario/patriottica. In qualche misura, assieme al suo dioscuro, Le avventure di Tom Sawyer, resta “il” romanzo di Mark Twain, nato Samuel L. Clemens, il baffo più amato d’America, il prolifico scrittore, il giornalista anticonvenzionale, la penna brillante, l’umorista arguto e corrosivo sempre “contro”, l’icona americana quanto i presidenti del Mount Rushmore. Universalmente noto, tuttavia, e amato soprattutto per il suo dittico e per un paio di altri libri ( Un americano alla corte di Re Artù ? Il principe e il povero ?) a dispetto di un imponente, denso corpus di opere. Così denso da farci chiedere quando mai Mr Clemens dormisse o si desse ad altre pratiche di vita.
Una parziale risposta sulle pratiche di vita di Clemens/ Twain viene da uno dei volumi a sua firma che sono usciti recentemente. La monumentale Autobiografia (Donzelli, pagg. 468, euro35, a cura di Salvatore Proietti). Un librone che, per desiderio di Twain, doveva essere (e così è stato) pubblicato solo «cent’anni dopo la sua morte», arrivata nel 1910, così da garantirgli la libertà di raccontare tutto quello che solo la sparizione dei testimoni dell’epoca gli consentiva, e che, anticipando i tempi e le tecnologie, Twain volle dettare a una serie di aiutanti, proprio per conservare il tono del racconto orale ai suoi ricordi. Che si accumulano ad altri ricordi propri ed altrui, a battute, aneddoti, nuove versioni di storie già raccontate, descrizioni di case in cui ha vissuto, cronache familiari e pubbliche, dolori, lutti, in un fascinoso, comico, drammatico, ondivago racconto a ruota libera che perTwain rappresentò il divertimento di scoprire un nuovo tipo di scrittura e che qualcuno, meno convinto, sul New Yorker ha definito «un mostro».
Certo, un mostro per gli studiosi che, lungo cent’anni, hanno dovuto fare i conti con questa minacciosa assenza/presenza, questo oggetto sconfinato e inclassificabile - autobiografia, divagazione, storia patria, storie personali - che è stato trionfalmente accolto in America, dove il libro, curato dalla University of California Press, è rimasto per 42 settimane in classifica e ha venduto 400mila copie.
Anche Il pretendente americano ( per la prima volta tradotto ora in Italiano da Mattioli, che da anni si occupa di recuperare i testi meno battuti dello scrittore) fa parte, si vantava Marc Twain, dei libri che, anticipando i tempi, aveva scritto con dettatura fonografica: un romanzo satirico costruito sullo sfondo del supercorrotto mondo di Washington. E al mondo della politica di Washington è dedicato anche L’età dell’oro, un romanzone di oltre 430 pagine, edito da Elliot, presso cui esce in contemporanea allo smilzo (61 pagine) e strampalato noir campagnolo Un omicidio, un mistero e un matrimonio , che faceva parte di un progetto ideato da Twain (e andato a monte) per cui vari scrittori, tra cui Henry James, dovevano inventare un finale diverso per la stessa storia. L’età dell’oro , da cui è nata la locuzione che indica in America il periodo di prosperità e di crescita selvaggia seguito alla Guerra di Secessione, come l’autobiografia, come Un omicidio, un mistero e un matrimonio , è stato anch’esso scritto secondo modalità curiose: nel 1873 Twain, rispondendo a una sfida lanciata dalla sua consorte e dalla moglie del suo amico Charles Dudley Warner, che lo invitavano a scrivere un romanzo migliore di quelli che leggeva di solito, buttò giù i primi undici capitoli del romanzo, per cedere poi i successivi dodici a Warner, e alternarsi con lui nella scrittura per i rimanenti quaranta capitoli. I critici del tempo non esultarono (della reazione delle mogli non si hanno notizie). Ma il libro resta una divertente ed eloquente testimonianza su un’epoca cruciale della nascente democrazia americana, oltre che uno sberleffo d’autore all’idea di autore.
Si potrebbe maliziosamente pensare che tanto interesse per i testi meno noti e, secondo una certa ottica, meno importanti di Mark Twain, che vanno ad affiancarsi ai suoi classici continuamente ristampati da Feltrinelli come da case editrici minori per ragazzi, dipenda dalla liberazione dei diritti. Non è così, spiegano i suoi editori. Twain è di pubblico dominio dal 1980. Si continua a ristamparlo perché non è solo l’autore di un Grande Romanzo Americano, ma fa parte, con i suoi tre o quattro libri più amati, della categoria degli “evergreen”. Perché ha un suo pubblico. Perché è uno sperimentatore, un affabulatore, un meraviglioso bugiardo che sa mescolare la risata al dramma. Perché è un inventore sempre giovane che parla da coetaneo - indisciplinato, spregiudicato, ribaldo - anche ai lettori giovani di oggi.

il Fatto 23.6.14
Luca Canali, il genio che consigliava Cicerone
di Furio Colombo


Ci sembrava di essere giovani, allora (diciamo, dieci anni fa) quando Luca Canali, il grande latinista appena scomparso, mi ha proposto di presentare un manualetto di regole e istruzioni per la buona politica elettorale, che Quinto Tullio Cicerone dedicava al fratello, quando Marco Tullio si apprestava a candidarsi al consolato. Vedo che ho cominciato così la mia introduzione di allora: “Se si deve parlare di prima repubblica, eccola. È quella descritta in questo manualetto , Commentariolum petitionis di Quinto Tullio Cicerone. Tradotto da Luca Canali con la qualità e la lingua che il lettore potrà godere, questo testo ci guida nei percorsi abili e astuti della repubblica romana. Ma ci offre anche indicazioni preziose per capire da quale mondo, da quale moralità, da quale visione della vita pubblica, così come la conosciamo, la apprezziamo o la disprezziamo noi, ai nostri giorni. Stiamo parlando della repubblica romana dell’anno 64 A.C. e della repubblica italiana nei giorni in cui i lettori scorreranno questa nota.
NEL RILEGGERE QUESTE RIGHE, oltre a ricordare quanto sono stato felice di ricevere da Luca Canali l’invito a collaborare a questo suo progetto, non posso non notare che mi ero sbagliato, nella frase iniziale. Quinto Tullio Cicerone illustra, con i suoi consigli, i suoi pettegolezzi e la serie di benevolenze e malignità, di finta fede e di grande cinismo, di cui esorta il celebre fratello a valersi, non solo la repubblica romana. E non solo la “prima repubblica” della democrazia italiana. Ma anche, e perfettamente, i nostri giorni. Infatti, se voi riprendete il Commentoriolum, vi accorgete che non una riga andrebbe sprecata per Matteo Renzi. Ma qui il discorso è sui due Cicerone, soprattutto per far notare il genio del latinista Luca Canali. Scegliere che cosa tradurre era il suo primo grande talento, capacità di mettere faccia a faccia due epoche e costringerle a riconoscersi. La lingua era il secondo e, credo, il più grande, per la straordinaria modernità con cui faceva rinascere la storia attraverso il parlato, in modo da far capire, con la ricchezza di una narrazione nuova, quanto ci riguarda e quanto ci somiglia il nostro passato.
Eppure Luca Canali non può essere ricordato come “un traduttore”. Le sue sono tutte opere d’autore, sia quelle di fiction, a cui si è dedicato volentieri, sia l’opera “apparentemente” di altri e grandi autori che la lingua di Canali, filologicamente perfetta, trasformava in un nuovo grande lavoro di narrazione. È lungo l’elenco delle cose di cui dobbiamo essere grati a Canali: la scena vasta su cui si muove, la capacità esplorativa e avventurosa con cui sceglie autori e opere, epoche e materie, la mano sicura con cui connette con esattezza ma anche con straordinario gusto narrativo, dati ed eventi dei suoi personaggi, trasformandoli in narrazioni bellissime in cui tutto è rigorosamente cercato, trovato, vissuto e fatto vivere. Ma il tesoro che ci lascia è la lingua perfetta, quel latino-italiano (struttura, sintassi, brevità profonda) che lo ha reso scrittore unico.

il Fatto 23.6.14
Quella finestra aperta sul mondo
Paolo Veronese, Il sogno di sant’Elena, 1570 circa. Londra, National Gallery
di Tomaso Montanari


LA PITTURA È COME IL SOGNO
In questo quadro meraviglioso non succede niente. Non succede nemmeno che il pittore - che si chiamava Paolo Veronese - abbia l'idea del quadro. Perché questa composizione strepitosa l'ha inventata un altro pittore: Raffaello, come noi (e Veronese) sappiamo da una stampa incisa e fatta circolare da un suo allievo, che si chiamava Marc'Antonio Raimondi.
Ma di chiunque sia, questa idea è bellissima, perché è semplicissima. Una bella donna seduta su una panca di pietra davanti ad una finestra spalancata, si è addormentata. Così: senza un perché. Perché succede. Perché è estate, è pomeriggio e fa caldo: e questo ce lo dice Veronese, con il suo colore dorato. A Raffaello l'idea doveva essere venuta pensando a Danae, la ragazza chiusa in una torre che Giove visitò come pioggia d'oro, entrando dalla finestra. E chissà che la croce in volo non sia stata un'aggiunta di Marc'Antonio: perché la posizione di questa donna torna più con una Danae che con una Sant'Elena.
Ma questo è un problema secondario. Tutto è secondario di fronte alla meraviglia del vestito di Elena: un colore inzuppato nella luce fa vere queste stoffe. Vere che verrebbe voglia di toccarle, di carezzarle, di sentirle frusciare. E anche Elena è vera: verrebbe voglia di tirarle la treccia. Di spostarle il gomito: così, come farebbe un fratellino minore dispettoso. Per il gusto di farla svegliare.
La vera protagonista di questo quadro è una finestra. D'altra parte Leon Battista Alberti, che di quadri se ne intendeva, l'aveva scritto: la pittura è come una finestra spalancata sul mondo. La finestra del sogno, sembra dirci Veronese: quella che rende tutto visibile. Ma tutto evanescente. In sogno puoi vedere tutto, ma senza poter toccare nulla. Proprio come nella pittura.
In questo sogno Elena vede due bambini grassottelli. Hanno le ali, sono due angioletti: fanno una fatica d'inferno (di paradiso, volevo dire) a sostenere una croce grande, molto più grande di loro. Sembrano degli uccellini minuscoli che vogliano farsi un nido con degli stecchi enormi. La trascinano fino alla finestra, perché Elena la veda. Ma come può vederla, se dorme? Ma forse sono nel sogno? E allora perché li vediamo?
Veronese gioca con i nostri sensi, i nostri occhi, i nostri limiti. Ma Veronese sa che Elena, sant'Elena imperatrice, si sveglierà e andrà a cercare la croce: quella con la c maiuscola, quella vera, quella di Gesù. La troverà, e la storia del mondo cambierà.
A volte succede: per questo è importante tenerle aperte, le finestre.

Repubblica 23.6.14
Se il mecenate è uno straniero che ama l’Italia
Sono giapponesi, americani, capitani di industria, filantropi
Aiutano a conservare e restaurare il nostro patrimonio culturale. Ma non vogliono pubblicità
di Francesco Erbani



SI CONTANO sulle dita di una mano. Forse di due. Il più celebre è David W. Packard, appartenente alla famiglia che ha dato vita a un colosso mondiale della tecnologia informatica. Da quindici anni spende un sacco di soldi - siamo a una ventina di milioni - per la manutenzione del sito archeologico di Ercolano. Un altro è Thomas Pritzker - suo padre fondò la catena alberghiera Hyatt e il premio d’architettura - che ha donato agli Uffizi 500 mila dollari. E poi Yuzo Yagi, giapponese, imprenditore tessile: sono suoi i due milioni elargiti alla Soprintendenza archeologica di Roma per il restauro della Piramide Cestia. Oppure Tetsuya Kuroda, che ha versato 1 milione 130 mila euro all’Opificio delle Pietre dure per il restauro della Leggenda della Vera Croce di Agnolo Gaddi in Santa Croce a Firenze.
Chiamiamoli mecenati o filantropi: pochi, tanti che siano è a loro, benefattori stranieri, che si guarda quando, con la norma che innalza al 65 per cento lo sgravio fiscale per chi dona soldi ai beni culturali, ci si attende che una messe di quattrini scivoli dalle tasche di imprenditori italiani e dia ossigeno al nostro disastrato patrimonio. Per il quale i fondi pubblici sono scandalosamente scarsi (come ha certificato anche il rapporto di Federculture sui consumi culturali). E sul quale vigilano soprintendenze mortificate dai tagli, con un personale bistrattato che quando, fra poco, andrà in pensione lascerà uffici sguarniti e apprezzatissime competenze senza eredi.
Che il modello sia più Packard o più Yagi non è chiaro. Il ministro Dario Franceschini, però, ha portato entrambi ad esempio e non Diego Della Valle che ha fornito 25 milioni per il restauro del Colosseo. E ha aggiunto, il ministro, che avrebbe chiamato amministratori delegati di aziende pubbliche e private dicendo loro che da adesso, con gli sgravi accresciuti, non hanno più alibi. Strada in discesa dunque per una sana partnership Stato-imprese, una strada spesso tortuosa, dove privati erano gli introiti, pubbliche le perdite? Intanto c’è differenza fra elargizione e sponsorizzazione. La prima è una donazione senza altri fini, agevolata dallo sgravio fiscale. Per la seconda c’è un ritorno d’immagine, c’è la pubblicità: chi finanzia una mostra mette il proprio logo nel catalogo, sulle locandine, ha uno stock di biglietti omaggio e altri vantaggi. Fino ai paradossi. Su molti edifici storici campeggiano gigantografie di orologi e di auto: sono il prezzo pattuito per un restauro che talvolta è immotivato oppure tirato per le lunghe pur di occupare con un marchio preziosi spazi.
Nel 2012 le donazioni da parte di imprese italiane hanno raggiunto i 28 milioni e mezzo (sono calate: nel 2010 erano 32). Ma oltre la metà, 16, vanno allo spettacolo, e 12 alla cultura. Inoltre la sproporzione fra Nord, Centro e Sud è vistosa: 13 milioni sono destinati alla Lombardia e 33 mila alla Basilicata, quasi 3 milioni al Veneto 0 ad Abruzzo e Molise. Grandi beneficiate sono le fondazioni: la Scala (6,8 milioni), l’Aem (1,5), la Bracco (1,2), la Brunello Cucinelli (1). Fra i benefattori ecco A2a, Intesa San Paolo, Banca Popolare di Milano, Tod’s... A 16 milioni, invece, ammontano nel 2012 le donazioni di persone fisiche o di enti non commerciali, in primo luogo le fondazioni bancarie (l’anno precedente, però, erano 26 milioni).
C’è inoltre differenza anche fra Packard e Yagi. «Yagi venne da noi perché voleva donare un milione per la tutela di un’opera d’arte del paese, l’Italia, dove la sua azienda aveva guadagnato molto», racconta Rita Paris, direttrice della Soprintendenza archeologica di Roma. «Gli indicammo alcuni restauri già progettati. E lui scelse la Piramide. Non la conosceva, gliela facemmo visitare e gli preparammo un dossier». Il restauro è iniziato nel marzo del 2013 ed è finito in ottobre, sei mesi prima del previsto. Una parte della Piramide era tornata alla sua candida lucentezza. «Il lavoro andava proseguito», aggiunge Paris, «allora gli abbiamo chiesto se era disponibile a finanziare il restauro completo. Un mese dopo ci ha donato un altro milione: contiamo di finire entro ot- tobre prossimo». In cambio Yagi non ha voluto nulla. A lavori conclusi una piccola targa ricorderà la sua elargizione.
Packard ha settantatré anni. È approdato a Ercolano nel 2000 creando insieme alla soprintendenza (e dal 2003 al 2013 anche alla British School of Rome) l’Herculaneum Conservation Project, una struttura formata da una quindicina di persone di ottime e diversificate competenze che si occupa della manutenzione del sito, redige progetti, compie indagini scientifiche e interviene nelle urgenze. Ne è responsabile Jane Thompson, un’architetta gallese, che Franceschini ha incluso nel Consiglio superiore dei beni culturali. Fondamentale è stato il ripristino dell’antico sistema fognario che raccoglie le acque piovane e mette Ercolano in gran parte al riparo dai guai che affliggono la vicina Pompei. Packard non ama che si parli di sé, l’unico logo che compare sui pannelli, piccolissimo, è della fondazione. A Ercolano non tutto fila liscio. Ci vogliono anche due anni di trafile burocratiche perché un progetto diventi un cantiere. Ora però si lavora per riqualificare l’area di confine fra gli scavi e la città moderna, che, verso il mare, è terribilmente degradata. D’accordo ministeri, Soprintendenza, Comune e Fondazione Packard, si esproprieranno edifici e alcuni verranno demoliti. Sorgeranno una piazza e un parco con vista sugli scavi: quasi 6 milioni il costo, 3 li metterà Packard.
Durante una cerimonia pubblica, un anno fa, Packard con pragmatismo americano ha spiegato una delle condizioni del buon rapporto pubblico-privato: che ci sia un privato disponibile e non orientato a lucrare e che ci sia un pubblico forte e che funzioni bene. Ma qui cominciano i dolori. Tranne le poche speciali (Pompei o i Poli museali), le soprintendenze non possono incassare direttamente contributi. Occorre avviare complicate procedure o creare associazioni di Amici dei musei che facciano da intermediari. E questo non facilita il rapporto con il donatore. E poi si aggiungono la scarsità di mezzi e di personale, le incombenze burocratiche che complicano nelle soprintendenze la gestione delle donazioni. Franceschini invoca il manager per le grandi strutture museali. Ma forse, si legge in un appello al ministro dei soprintendenti storico- artistici, basterebbe dotare gli uffici di «strumenti contabili e gestionali che consentano di introitare denaro» sul modello dell’Opificio delle Pietre dure, «che dialoga con il mondo intero e si autosostiene, in parte, dal punto di vista economico».
In un articolo sulla rivista online Aedon, Stefano Casciu, soprintendente a Modena, aggiunge un altro elemento: il privato italiano, a differenza dell’americano, fa fatica a «pensare in termini di partecipazione e restituzione alla collettività». Insomma, lo sgravio fiscale aiuta, ma da solo non basta. Eppure Casciu non è sospettabile di prevenzioni essendo protagonista di una positiva eccezione: il finanziamento da parte della Fondazione Cassa di risparmio di Modena (quasi 300mila euro) della messa in sicurezza in un centro di raccolta a Sassuolo di 1.700 opere danneggiate dal sisma emiliano del 2012. Una donazione per un’operazione poco vistosa e non per il restauro di un singolo capolavoro, operazione da rivendersi sul mercato pubblicitario. Invece è del capolavoro che si va a caccia. Del Guercino, del Caravaggio o del Guido Reni. Della celebrata fontana. Senza considerare che le priorità ispirate da criteri di tutela potrebbero essere altre. Ma - è sempre Casciu a sollevare la questione - in Italia sono molto diffuse «idee sulla cultura e su tutela e valorizzazione del patrimonio in termini di entertainment, e non come funzione fondamentale e come attività tecnico-scientifica propria dello Stato, garantita dalla Costituzione, generatrice di identità e collante sociale e di conseguenza di miglioramento economico generale».


Corriere 23.6.14
Pompei, Italia ultima vergogna
di Antonio Polito

qui

Repubblica 23.6.14
Quando la mente batte il bisturi
Niente anestetico meglio l’ipnosi la nuova strada della chirurgia
di Michele Bocci


SEPARARE da sé una parte del proprio corpo, fino a non sentirla più, fino all’estremo di non aver bisogno dell’anestesia per farla operare. L’ipnosi è entrata nelle sale chirurgiche, per allontanare il dolore senza usare farmaci. Bisogna scordarsi l’immagine della spirale bicolore piazzata davanti agli occhi di persone che cadono in trance fino a diventare pupazzi nelle mani del santone di turno. Uno stereotipo da programma televisivo di serie B. La vera ipnosi è un’attività introspettiva che ha dei punti in comune con le tecniche di meditazione, un modo per sfruttare la potenza della mente, spesso con l’aiuto di un’altra persona. Rende possibile raggiungere obiettivi importanti in sala operatoria, anche se ovviamente non per i grandi interventi invasivi che possono durare ore. In quel caso i farmaci restano una scelta obbligata.
L’ipnosi può essere più istintiva di quanto si pensi. «Tutti hanno sperimentato casi di autoipnosi, ad esempio capita di guidare la macchina per 20 chilometri sovrappensiero, tanto da non ricordarsi la strada che si è fatta». A parlare è Enrico Facco un anestesista dell’Università di Padova che l’anno scorso ha aiutato una donna allergica agli anestetici ad addormentare la parte inferiore del suo corpo per permettere al chirurgo di toglierle un tumore della pelle dalla gamba. Pochi giorni fa invece all’ospedale di Creteil, vicino a Parigi, una cantante è stata operata alle corde vocali da sveglia grazie all’ipnosi. Ha potuto parlare e fare alcune note per permettere ai medici di capire in tempo reale come andava l’intervento.
In Italia ci sono un migliaio di medici, raccolti in tre società scientifiche, che usano l’ipnosi. Buona parte di loro sono psichiatri che affrontano problemi come ansia e depressione. Poi c’è chi porta questa pratica dentro gli ospedali. Facco lavora abitualmente con il servizio odontoiatrico. «Si può sostituire l’anestesia ma siccome i farmaci utilizzati sono ben tollerabili, molti la chiedono anche per superare la paura del dentista». Quando si è sdraiati a bocca aperta davanti a un trapano il dolore non è sempre l’unico problema e riuscire a rilassarsi per molti è una conquista. Alle Molinette di Torino, l’ipnosi è usata tra l’altro in cardiologia, oltre che in gastroenterologia e ortopedia. Il dottor Carlo Budano la fa a un’ottantina di pazienti all’anno dei 300 ai quali innesta pacemaker. Evita così di usare l’anestetico locale per il dolore e i farmaci cosiddetti, per l’appunto, “ipnotici” per tranquillizzare il malato quando si fa il taglio sotto la clavicola per inserire il catetere che serve a posizionare il pace maker. «I farmaci hanno comunque effetti collaterali - spiega - ad alcuni pazienti il braccio resta bloccato per un po’ o peggio si manifestano problemi respiratori. Per questo proponiamo l’ipnosi quando troviamo il soggetto adatto».
Non tutti sono portati per questa pratica, dipende dalle persone. «Devono essere in grado di concentrarsi bene - spiega di nuovo Facco - non ci sono percentuali precise, l’analgesia chirurgica si ottiene nel 25-45% delle persone. Eliminare la paura è più semplice, raggiungiamo questo obiettivo in oltre l’80% dei casi». Potenza della mente umana, sostenuta nel modo giusto. «Incontriamo il paziente prima dell’intervento per delle sedute preparatorie - spiega Facco - In sala lo facciamo rilassare, lo invitiamo a focalizzare una parte del suo corpo ed escluderla da se stesso, fino a non farci più caso. Lo aiutiamo parlando ma possiamo anche stare in silenzio a lungo, l’importante è che sappia che c’è qualcuno vicino mentre si concentra. Molte persone hanno paura che l’ipnosi faccia perdere loro il controllo, invece è l’esatto contrario».

Repubblica 23.6.14
Il profesor Rabboni
“Ma per indurre la trance il rapporto col dottore deve durare da tempo”
intervista di Cristiana Salvagni



ROMA. «In sala operatoria l’ipnosi non può essere una tecnica ordinaria ma si rivela efficace in alcuni casi particolari e a certe condizioni». Secondo il professor Massimo Rabboni, direttore del dipartimento di Salute mentale all’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo, il presupposto fondamentale è che «ci sia una conoscenza pregressa tra il medico e il paziente, un rapporto di cura già avviato da tempo».
Quindi non è che chiunque debba sottoporsi a un intervento può scegliere tra anestesia o ipnosi.
«Certo che no, è per un uso sporadico, sperimentale».
Quali sono i vantaggi e gli svantaggi?
«Il vantaggio è che non usando farmaci non presenta alcun tipo di controindicazione. Lo svantaggio è che richiede tempi più lunghi e un impegno notevole da parte dell’operatore, perché non c’è un metodo standard».
Ci sono dei casi in cui risulta particolarmente utile?
«Funziona molto bene come analgesia leggera sui bambini, nei pronto soccorso. Per esempio se bisogna cucire due punti su un dito: è rapida, ci mette un 10-15 minuti a diventare efficace, e dà quel tanto di anestesia che ci vuole».
È preferibile in altri casi?
«Quando c’è bisogno di non usare i farmaci oppure in alcuni tipi di interventi neurochirurgici dove è meglio che il paziente collabori. O ancora nell’ortodonzia, se serve un rilassamento muscolare perfetto, difficile da ottenere con le medicine».

Repubblica 23.6.14
La scomunica come arma contro l’eresia criminale
di Vito Mancuso


PAPA Francesco ha dichiarato in Calabria nella piana di Sibari che «i mafiosi sono scomunicati ». Finalmente, viene da dire, sia per la lotta della Chiesa contro la criminalità organizzata che diviene sempre più ferma, sia per l’uso ora decisamente più appropriato della più grave delle sanzioni del diritto penale ecclesiastico. Ma che cosa succede, di fatto e di diritto, a un cattolico
che viene scomunicato?
Prima di rispondere ritengo sia opportuno ricordare i secoli di utilizzo del tutto improprio dello strumento della scomunica da parte dei predecessori di papa Francesco. I papi infatti ne fecero spesso un uso politico, per nulla religioso, funzionale al loro potere e non alle ragioni della spiritualità e della giustizia: si pensi alle scomuniche che colpirono regnanti come gli imperatori Enrico IV (poi costretto ad andare a Canossa) e Federico II, la regina Elisabetta I, Napoleone, il re Vittorio Emanuele II, oppure l’intera Repubblica di Venezia con tutti i suoi abitanti.
OPPURE ancora nel 1949 tutti gli appartenenti al Partito comunista (scomunica che, a quanto mi risulta, non è stata mai formalmente ritirata). La durissima arma del bando dalla comunità ecclesiale fu usata anche contro la libertà di coscienza in materia di teologia con le scomuniche che colpirono teologi e predicatori come Ian Hus e Girolamo Savonarola (entrambi finiti sul rogo), oppure il patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario e qualche secolo dopo Martin Lutero e a seguire tutti i protestanti. A questo proposito penso sia doveroso ricordare quanto avvenne nel 1561 proprio in Calabria, sempre in provincia di Cosenza, a solo un’ora di macchina dal luogo in cui papa Francesco ha celebrato la Messa, cioè il massacro di circa 3000 valdesi da parte delle truppe inviate dal grande inquisitore fra Michele Ghislieri, divenuto in seguito papa Pio V (anzi san Pio V!). Ed è impossibile non menzionare le scomuniche che colpirono due sacerdoti come Romolo Murri ed Ernesto Buonaiuti.
Ma non è solo storia di ieri, è anche cronaca di oggi. La chiesa di papa Francesco ha scomunicato di recente, il 18 settembre 2013, un sacerdote australiano, Greg Reynolds, per aver promosso l’ordinazione sacerdotale delle donne e il riconoscimento sacramentale delle coppie gay, e sempre sotto Francesco si è avuta un mese fa la scomunica di Martha Heizer, teologa cattolica austriaca, presidente del movimento internazionale “Noi Siamo Chiesa”, sostanzialmente per gli stessi motivi.
Due giorni fa in Calabria il papa ha detto che «la ‘ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune», aggiungendo che «questo male va combattuto, va allontanato, bisogna dirgli di no». E ha comminato la scomunica. Ora io chiedo però se sia giusto accostare nella stessa pena criminali che adorano il male e sinceri credenti che cercano (magari anche forzando i tempi) di rendere la Chiesa davvero una casa accogliente per tutti. Me lo chiedo e sento che sia giusto rispondere che non lo è.
All’inizio di questo articolo ho posto il problema di che cosa succede a un essere umano che viene scomunicato. La risposta è molto semplice: dipende dall’uomo e dalla donna colpiti dalla condanna. Un tempo non era così, un tempo quando un papa lanciava l’anatema della scomunica succedeva per tutti qualcosa di concretamente serio, all’interessato venivano a mancare tutti i rapporti sociali necessari all’esercizio del suo ruolo, oppure, nel caso fosse già nelle mani del potere ecclesiastico, veniva consegnato al braccio secolare che comminava la pena, non di rado capitale. Ancora nella prima metà del ‘900 Ernesto Buonaiuti dovette soffrire la fame per essere stato scomunicato a causa delle sue ricerche storiche e delle sue tesi teologiche, anche alla luce del fatto che, essendo stato uno dei pochissimi docenti universitari a non giurare fedeltà al regime fascista, aveva perso anche la cattedra presso l’università statale.
Oggi la scomunica è ben lontana dal produrre effetti come questi. Oggi essa semplicemente prevede che lo scomunicato non possa prendere parte alle celebrazioni liturgiche e assumere incarichi ecclesiali. Fine della trasmissione. Ovvero il massimo della pena per sinceri credenti come il presidente di “Noi siamo Chiesa”.
Ovviamente l’effetto delle parole di Francesco su criminali incalliti come gli affiliati alle cosche è diverso: è improbabile che ne soffriranno le loro coscienze. Però il peso simbolico della scomunica colpirà la narrazione pseudoreligiosa che la mafia fa di se stessa, aiuterà a recidere i rapporti che i boss hanno avuto con le chiese locali, metterà parroci e curie davanti alle loro responsabilità, renderà sempre più difficile il consenso sociale che la criminalità organizzata cerca di creare intorno a sé.
Sono parole coraggiose perché trasformano la scomunica in un’arma importante. Per questo Papa Francesco fa benissimo a pronunciare l’anatema contro i mafiosi, ma sarebbe bello anche che impedisse ai suoi collaboratori di utilizzare quell’arma con lo stesso stile di un passato non proprio radioso.
  
L’Huffington Post 22.6.14
L'ossessione del Fatto quotidiano: risolvere il tragico problema dei fagiolini
di Carlo Patrignani

qui

Formiche.net 22.6.14
Il Fatto quotidiano e l’ossessione Massimo Fagioli
di Carlo Patrignani

qui

il Fatto 23.6.14
I corpi disarmati delle donne soldato
Violenze, gerarchia esasperata, nonnismo che si è trasformato
Il procuratore militare racconta: “Difficile indagare, i casi non emergono”
di Emiliano Liuzzi


I francesi lo chiamano le déshonneur. Lì dove nelle stanze di vita quotidiana si respira il terrore che irrompa qualcuno in camerata al buio, come già accaduto, con le docce che spesso e volentieri non sono separate. Per non parlare di quello che avviene sulle navi scuola della Marina, spazi ristretti, minuscoli corridoi. La facilità di nascondersi davanti ai controlli e quella parola che si pronuncia a voce alta e si traduce in ricatto: sono un tuo superiore, la mia parola contro la tua. Il nonnismo, pratica che si è attenuata nel tempo, solo perché è stato eliminato il servizio di leva, ma che ha avuto trasformazioni perfino patologiche. Vita dura, quella delle donne nelle caserme. Hanno dovuto superare l'imbarazzo di essere considerate una quota minore, hanno combattuto perché anche a loro si aprissero possibilità di una carriera con le stellette, ma molte di loro hanno dovuto lasciare, chiedere il congedo. Non tutte ce l'hanno fatta. Problemi di violenza fisica, talvolta, ma anche psicologica, molto spesso peggiore.
Gerarchia esasperata
Le déshonneur, appunto. Ma la questione degli abusi sessuali nelle caserme esiste. Non emerge nella sua gravità. E questo per tre motivi sostanziali. Il codice penale militare è stato scritto nel 1941, le donne all'epoca non avevano neanche il diritto di votare, figuriamoci se potevano maneggiare armi. Il secondo è che all'interno delle caserme lo strumento della querela non è previsto. Se una soldatessa subisce abusi da un collega maschio può solo rivolgersi al comandante che cerca di risolvere la questione all'interno e si guarda bene dal coinvolgere i magistrati. Terzo, e non ultimo, la difficoltà di definire le competenze tra magistratura ordinaria e militare. “Nel 2013”, dice il procuratore della corte d’appello militare Antonio Sabino, “sono stati ben 96 i casi in cui gli organi di giustizia militare hanno dovuto trasmettere gli atti all’autorità giudiziaria ordinaria e solo 6 i casi in cui si è verificato il contrario”. Una dichiarazione che la dice lunga sul conflitto di attribuzioni che a ogni anno giudiziario viene riproposta anche e soprattutto perché, in clima di spending review, più di una volta ai governi è venuta la tentazione di eliminare i tribunali militari. Eppure l'ambiente è di quelli delicati, come ammette il procuratore capo militare di Roma, Marco De Paolis, perché all'interno delle caserme la “gerarchia è elemento portante della vita quotidiana”. Il superiore può, nella sostanza. “Quando ci siamo trovati a indagare sulla caserma di Ascoli, dopo l'incriminazione del caporal maggiore Parolisi condannato perché colpevole dell'omicidio della moglie, abbiamo scoperto un frammento di vita quotidiana che spesso non affiora. Non è un'emergenza, ma il fenomeno c'è”.
Alla caserma ex Smipar di Pisa la camerata delle donne è a pochi metri da dove morì Emanuele Scieri, in circostanze mai chiarite, sicuramente legate al nonnismo. E solo a revocare il nome Scieri tremano i polsi. Il processo si è concluso con un nulla di fatto, probabilmente verrà chiesta una commissione d'inchiesta, molto più verosimilmente resterà il nome e cognome di un ragazzo e nessun colpevole. La caserma è una delle più rigide, perché i paracadutisti hanno un senso della gerarchia molto spiccato. E il linguaggio usato è appunto quello da caserma. Apprezzamenti, volgarità. Spesso costrizioni a pratiche sessuali perché a chiederlo è un superiore. Tra Livorno e Pisa sui tavoli della polizia giudiziaria ci sono almeno tre fascicoli per violenza che ancora non hanno nomi, perché le indagini sono in fase preliminare, avviate attraverso soffiate. “Un caso come questo, e sappiamo che esistono, potrebbe configurarsi come violenza sessuale”, spiega il magistrato De Paolis, “ma se non arriva una denuncia noi non lo sapremo mai. Sappiamo che c'è il fenomeno. Come ci sono persone che si innamorano e decidono di vivere insieme, ma anche questa ipotesi crea imbarazzo in una comunità come quella. Negli Stati Uniti, per esempio, non è consentito, uno dei due è costretto a congedarsi”.
L'ultima udienza di un processo porta la data di maggio. Tribunale ordinario di Belluno. Un caporal maggiore, cacciato senza troppi complimenti e spogliato della divisa, amava costringere colleghi maschi e femmine a pratiche sessuali davanti ai suoi occhi. Come scrive il Corriere delle Alpi, “costretti a masturbarsi e poi a “portare le prove” del gesto. Insultati, umiliati, puniti con allenamenti massacranti e infine indotti ad abbandonare il Modulo K se non erano all’altezza dei soldati migliori. Puniva tutta la squadra per l’errore di un singolo. Alcuni, i meno bravi, finivano nella stanza dei cani morti”. In questo caso era talmente insostenibile la situazione che la querela è stata fatta e a muoversi è stata la magistratura ordinaria. Più controverso il caso di qualche mese fa, in un paese vicino a Cagliari. Niente nonnismo: fu l'appuntato a palpeggiare la marescialla e a finire sul registro degli indagati per violenza sessuale.
Il caso Parolisi ha fatto scuola: 13 persone rinviate a giudizio e condannate. Tutte estranee all'omicidio, ma condannate, chi per violenza e chi per “violata consegna” che, tradotto, vuol dire sesso tra due consenzienti dentro la caserma e durante il servizio. Episodi emersi perché c'era da indagare su un omicidio, altrimenti nessuno avrebbe saputo niente.
La lista è lunga, e parliamo solo dei casi emersi. In realtà la caserma può trasformarsi in un inferno per i più deboli e per le donne. “L’importante è superare il primo anno”, spiega un’allieva parà, “l’ingresso è traumatico. Poi ci fai l’abitudine e impari a difenderti. Ma se ti rivolgi ai superiori è solo peggio. Devi difenderti da sola, a suon di calci”.
I casi emersi da Avellino a Belluno
È accaduto ad Avellino, poche settimane fa, che un caporale sia stato arrestato. Molestava la recluta: gli contestano stalking e un’altra serie di reati. Sempre a guardare in tempi recenti, basta spostarsi nel Bresciano. In una giornata di servizio di pattuglia al perimetro della polveriera militare, una ragazza di vent’anni resta sola con il sergente, dieci anni più anziano. Erano su un Defender, e il più alto in grado fa i complimenti al soldato. La ragazza, lunghi capelli scuri, intimidita anche dal grado del superiore, resta in silenzio, limitandosi -come ha poi spiegato nella sua denuncia -a girarsi verso il finestrino. Ma il sergente non si era limitato ai complimenti e, accostato il mezzo, ha fatto il resto, baci non graditi e palpeggiamenti. Il sergente finisce in tribunale, prima nega e poi patteggia la pena. La Cassazione respinge il patteggiamento e ora l’uomo dovrà vedersela davanti ai giudici in un dibattimento.
Potremmo andare avanti. Basta spostarsi alle scuole di allievi sottufficiali a Viterbo (atti di nonnismo) e all’Accademia di Modena (violenza sessuale). In quest’ultimo caso era un professore civile a palpeggiare le allieve. E a toccarle, a ogni occasione possibile. Questa volta è intervenuto un processo con sentenza confermata in Cassazione: “È violenza sessuale anche una pacca sul sedere”. Ma era il contesto di umiliazione che ha portato alla decisione. Erano allieve, avevano un sogno nel cassetto, diventare militari. Alcune ragazze hanno dovuto lasciare: meglio continuare a guardare la vita senza abbassare gli occhi.


il Fatto 23.6.14
Lo psicologo
“La vittima rischia anche di perdere l’idoneità”
di Annalisa Dall’Oca


Accade nelle caserme, nelle docce spesso in comune, a bordo delle navi scuola dove le reclute imparano il mestiere militare. La violenza nei confronti delle donne che indossano la divisa in Italia è un problema, di cui però si parla poco. Per il procuratore capo militare di Roma, Marco De Paolis, “non è un’emergenza, ma il fenomeno esiste”. A differenza di altri paesi, come Francia o Stati Uniti, tuttavia, in Italia, dove solo nell’Esercito ci sono quasi 7.500 donne, le denunce si contano sulle dita di una mano. Omertà? Secondo lo psichiatra Marco Cannavicci, ex responsabile del Consultorio Psicologico del Policlinico Militare Celio di Roma e già Direttore della sezione di Psicologia medica militare della Direzione generale della Sanità militare, la risposta è “no”. “L’Italia è un paese virtuoso, i casi di abusi sulle donne in divisa sono pochi perché c’è una forte disciplina nelle caserme ”.
Le è capitato di seguire casi di violenza nei confronti di donne in divisa?
Spesso sono venuto a conoscenza di un inizio di fenomeni di questo tipo, che però venivano disinnescati perché la reazione femminile alle molestie portava all’attenzione del superiore l’accaduto. Il che, peraltro, ha contribuito a evitare che si verificassero problemi simili per emulazione.
Cosa succede quando una donna arruolata denuncia di aver subito una violenza?
La vittima deve essere sottoposta a una valutazione psicologica, perché bisogna capire se ci sono state delle conseguenze, dei traumi, e nel caso le viene tolta l’idoneità al servizio. La donna che fa parte delle forze armate, tuttavia, è molto motivata, e generalmente riesce a superare fatti simili molto più facilmente.
Ma la possibilità di perdere l’idoneità al servizio non disincentiva le denunce?
Secondo la mia esperienza la volontà di mantenere la divisa è una forte motivazione a superare ogni trauma, contrariamente ad altre forme di assistenza o di terapia a lungo termine che il più delle volte tendono a cronicizzare il problema. Una persona motivata incamera l’esperienza negativa come pregressa, e va avanti.
Come mai, allora, si parla così poco di violenza nei confronti delle militari donna?
Le caserme, così come tutti gli altri contesti in cui uomini e donne in divisa convivono a stretto contatto, facilitano la segnalazione di episodi simili. E tuttavia il più delle volte il problema viene affrontato nel silenzio, rimane cioè confinato tra le persone interessate e il superiore chiamato a prendere provvedimenti disciplinari.
Secondo lei, quindi, se in Italia i casi denunciati di violenza ai danni delle donne in divisa sono pochi, non è per una questione di omertà.
No. In Italia i casi ci sono, ma il problema non è epidemico. Prendiamo l’esempio di Ascoli e delle soldatesse che hanno denunciato abusi sessuali: in quel caso c’è stata la tendenza a nascondere quelle violenze, si sapeva che la permanenza in caserma sarebbe stata temporanea, prima dell’assegnazione definitiva. Ma usciti dall’ambito della formazione questa tendenza scompare, rivolgersi al superiore è il più delle volte risolutivo. In più, in tutto il paese esistono consultori con punti d’ascolto dove si può chiedere assistenza in seguito a episodi simili.

il Fatto 23.6.14
Il racconto
“Il mio calvario dopo che ho detto ‘no’ a un superiore”
di Alessio Schiesari


Denunciare una molestia sessuale e il mobbing non è mai semplice. Soprattutto non è facile riuscire a provarlo, vista l’assenza di testimoni. Se avviene all’interno di un corpo militare e a commetterlo è un superiore, lo è molto di più. Il caso che andiamo a raccontare riguarda una soldatessa trentenne, della Marina. In primo grado le persone che ha accusato sono state assolte, nonostante la richiesta di condanna del pm che ha già fatto ricorso in Appello. Il materiale probatorio, secondo il giudice, non era sufficiente. Questo il racconto della donna fatto in aula e alla polizia giudiziaria. Una sera, mentre svolge il turno di guardia, uno dei suoi superiori con le preannuncia che la sera sarebbe andata a trovarla nella sua cuccetta, che tanto è sprovvista delle chiavi, e a bruciapelo le chiede di fare sesso con lui. Lei dice no, si allontana. Lui non ci sta: la afferra la faccia con le mani e la costringe a baciarlo. Lei si divincola e si allontana. A questo punto arriva la minaccia: “Adesso è meglio che ti fai trasferire”. Quando torna in stanza ha paura, ma il regolamento militare proibisce di chiudersi dentro. Per paura di un’intrusione, insieme al compagno di cuccetta mette un armadio davanti alla porta.
Quell’“approccio” è il più pesante subito dalla soldatessa, ma non il primo. Anzi, secondo il suo racconto è una situazione che va avanti da tempo. Un rapporto iniziato come cordiale, di simpatia reciproca, nel corso del tempo diventa difficile da gestire, quasi morboso. Queste le parole della soldatessa in aula: “Era già successo altre volte. Atteggiamenti pesanti di giorno e di notte ” anche se “di notte era più esplicito e (il superiore) faceva cose più gravi”. “Cercava di abbracciarmi, di baciarmi, anche di toccarmi il seno e il sedere ma io con la mano lo allontanavo. Allontanavo la sua mano”. Il superiore non si accontenta di corteggiarla, “vuole e pretende” certe cose.
Dopo avere ricevuto una sanzione militare per un “eccesso di zelo” (la definizione è della procura militare) decide di denunciare un suo superiore. Non quello che l’avrebbe molestata, ma un ufficiale che le rende la vita difficile. Ai magistrati racconta della sua vita da soldatessa: dei rimproveri che, secondo lei, sfociano in mobbing e vessazioni. Delle stato d’ansia perenne in cui vive, delle difficoltà a dormire. Non parla però delle molestie, “per vergogna”.
NEI GIORNI SUCCESSIVI riceve - sempre secondo il suo racconto - la visita di due superiori. Vanno a trovarla per convincerla a rimettere la querela contro il superiore accusato di mobbing. Durante l’incontro lei racconta del sottoufficiale che allunga le mani e “cerca sempre di approfittarsi di me”. La mettono davanti a un bivio: o rinunci e ti trasferiamo in una sede migliore, con un incarico più gratificante e la possibilità di viaggiare, o tu vai avanti per la tua strada, noi per la nostra. Che tradotto significa avrai “dei problemi a superare le visite mediche”. La donna deve aspettare varie settimane prima di tornare in servizio. L’ospedale militare più volte la dichiara “non idonea al servizio”.
Due mesi dopo, si decide a raccontare ai finanzieri anche dell’episodio del bacio “strappato”, delle avances ripetute, dei palpeggiamenti. Il pubblico ministero chiede una condanna a un atto e otto mesi di reclusione per le molestie. Per il giudice mancano le prove e sono tutti assolti. Se ne riparlerà in Appello.


il Fatto 23.6.14
Uomini che fanno paura alle donne
di Ferruccio Sansa


È capitato a tutti noi uomini. A chi scrive, a voi che leggete. Magari ti trovi a camminare in una strada di notte, incroci una donna sola e vedi la paura nei suoi occhi. La senti nel suo passo che accelera, mentre immagini il cuore che le batte forte. In quei momenti te ne accorgi: non c’è niente di più angosciante che provocare terrore in un altro essere umano.
Le donne hanno paura di noi. Non sono soltanto la natura, l’istinto. È, purtroppo, l’esperienza di ogni giorno. La società in cui viviamo. Nelle caserme italiane (ma avviene anche all’estero) centinaia di donne vivono nella paura. Di questo ci parla l’inchiesta di apertura: di molestie, di violenze nelle caserme. Ci sarà, purtroppo, chi ne trarrà spunto per sostenere che la divisa non è fatta per le donne. Quando è vero esattamente il contrario: la sensibilità e la delicatezza femminili (che sono tutt’altra cosa rispetto alla debolezza) possono essere indispensabili per un compito prezioso soprattutto oggi che le forze armate si dedicano sempre più all’assistenza, alla pace. E in questo la presenza femminile, materna, arricchisce la figura dei militari. La rende più umana.
Ci sarà anche chi invocherà una forma distorta di cameratismo, quei riti che gli uomini inventano per vivere in comunità.
Ma le testimonianze inedite delle soldatesse che accusano i commilitoni di violenze ci ricordano anche altro: quanto nella nostra vita, nella psicologia maschile sia presente il bisogno di fare paura. Di usare il timore come surrogato della forza, dell’autorevolezza, della capacità di persuasione.
Tutti noi uomini ci ricordiamo il primo smarrimento dell’adolescenza: dopo essere cresciuto stabilendo le gerarchie sulla forza fisica (chi non porta sul corpo o nello spirito cicatrici di quelle infinite lotte?), d’improvviso scopri l’impotenza dei tuoi bicipiti nel primo confronto con le ragazze. Che esercitano su di te una forza tanto più grande, ma impalpabile. Quasi incomprensibile.
È uno smarrimento che l’uomo si porta dentro tutta la vita, con meraviglia o con rancore. Che piega l’orgoglio, costringe all’umiltà. Non si può imporre sé stessi a un’altra persona con la forza, come fanno gli animali. È esatta-menta il contrario: servono comprensione, delicatezza, dialogo, ironia, intelligenza.
Eppure di fronte alla sconfitta, al legittimo rifiuto, ecco riemergere la tentazione della forza. Quella brutale della violenza (più facile in ambienti come quelli militari dove la forza è elemento del compito che svolgi). Quella sottile e ipocrita del potere nei luoghi di lavoro. Quella ancora più infame del maltrattamento nelle famiglie che prende come pretesto addirittura l’amore.
Dobbiamo fare ancora molta strada. Non solo nelle caserme. Per le donne. E per noi uomini.

il Fatto 23.6.14
In poche nei ruoli di comando


I NUMERI Nell’esercito italiano, su un totale di 7500 donne, ci sono 250 donne ufficiali, fra cui 3 maggiori, 89 capitani e 105 tenenti, con una cinquantina di sottotenenti. Sono 110 i sottufficiali, fra i quali 22 marescialli, mentre le soldatesse sono circa settemila, con 150 donne inserite nella brigata paracadutisti “Folgore”. Ma se è vero che le ricerche hanno evidenziato un forte aumento della presenza delle donne nelle Forze Armate, è anche vero che la maggior parte delle donne resta ancora esclusa dai posti di vertice. I casi di violenza, invece, ci sono, e sarebbero di competenza dell’autorità militare, ma spesso le querele vengono fatte all’autorità di polizia giudiziaria che poi chiama a procedere la Procura ordinaria. Non esistono dati ufficiali sul numero dei casi, mentre sono a disposizione negli altri Paesi. Il problema, in Italia, è che spesso gli abusi restano non denunciati.
ULTIMO PAESE NATO Sono un totale di 7500 circa le donne soldato attualmente arruolate in Italia grazie alla legge del 20 ottobre 1999 numero 380, che ammise la possibilità di arruolamento delle donne. L'Italia è stata l'ultimo paese membro della Nato ad aver consentito l'ingresso delle donne nelle Forze armate

il Fatto 23.6.14
Nel mondo. Francia e Usa: è ormai caduto il muro di omertà
di E.L. - A.S.


Una donna soldato arruolata nell’esercito americano ha più possibilità di subire una violenza carnale che di morire sul campo di battaglia. Sono dati che fanno impressione quelli forniti dal Pentagono: nel 2012, il 23 per cento delle donne e il 4 per cento degli uomini ha ammesso di avere subito un tentativo di violenza sessuale. In totale le vittime sono 26 mila, di cui 12 mila donne e 14 mila uomini. Numeri enormi, che l’ispettorato del Dipartimento della difesa è riuscito a mettere insieme attraverso un’inchiesta che ha garantito l’anonimato alle vittime.
PERCHÉ il problema, negli Stati Uniti come in Italia, è sempre lo stesso: chi viene molestato ha paura di denunciare. Solo una soldatessa su cinque e un soldato su quindici denuncerebbe un superiore che ha tentato un abuso. La ricerca della verità sugli abusi procede per spinte improvvise, nate sulla scorta di scandali episodici, interrotte da lunghi periodi di silenzio. Gli Stati Uniti sono più avanti nella prevenzione rispetto agli altri Paesi perché affrontano il problema da più tempo. La prima volta è stato nel settembre di ventidue anni fa, in un teatro insolito per una gigantesca orgia in divisa: all’Hilton hotel di Las Ve-gas, in quello che è entrato nei libri di storia come lo scandalo di Tailhook.
Come ogni anno migliaia di aviatori della marina impegnati nell’operazione Desert Storm in Iraq sono chiamati a un meeting di due giorni organizzato da un’associazione di reduci. Il simposio si concluderà con la denuncia di novanta casi di stupro (commessi o tentati). In piscina, nel patio, nei corridoi: ovunque le reclute vengono convinte o costrette a partecipare a giochi a base di alcol e sesso sfrenato. Tra le vittime c’è anche il tenente e pilota di elicottero Paula Coughlin, che denuncia ai suoi superiori di essere stata vittima di uno stupro di massa.  Com ’era abitudine, questi tentano di insabbiare tutto, ma lei non si perde d’animo e scrive una lettera alla Casa Bianca.
Il presidente di allora, George Bush padre, decide di incontrarla. Da quel colloquio nascerà la prima grande inchiesta sugli stupri in divisa all’interno dell’esercito. Oltre trecento tra ufficiali e sottoufficiali verranno congedati o puniti.
L’alcol è una costante delle violenze sessuali compiute in divisa. I militari più anziani lo offrono alle reclute più avvenenti. Non, come si potrebbe pensare, per allentare i loro freni inibitori. Ogni shot di bourbon diventa un’arma di ricatto: se tu denunci lo stupro, verrà fuori che avevamo bevuto insieme e verrai congedata con disonore. Una tecnica che ha funzionato fin da quando, il 28 giugno del 1976, l’esercito recluta le prime ottanta soldatesse. Il meccanismo si inceppa però nel 2003 alla base aeronautica di Colorado Springs. Ventidue donne raccontano di essere state violentate con questa tecnica. Il Pentagono indaga, parla con tutte le ex soldatesse uscite dall’accademia e scopre che il 70 per cento aveva subito molestie e un altro 12 per cento una violenza carnale. Due anni dopo il Congresso approverà una legge che permette a tutti i cadetti vittima di violenza sessuale di denunciare il proprio attentatore in forma del tutto anonima, almeno fino alle ultime battute del processo.
Questa la situazione negli Stati Uniti. Non va meglio in Francia: Libération nel marzo scorso ha pubblicato un’inchiesta sugli abusi sessuali in caserma chiamati senza mezzi termini disonore e male assoluto. C’è un particolare, però, che riguarda la Francia: un anno fa il codice militare è stato soppresso e la giurisdizione è passata sotto la magistratura ordinaria. Questo ha permesso in qualche modo di evitare il muro di omertà che spesso si è creato attorno ai casi di violenza sessuale dentro le caserme.
Ma più di ogni altro fattore, decisivo è stato il libro-inchiesta di Leila Minano e Julia Pascual. Un documento che inizia con la storia di Alice, che è stata più volte molestata, costretta a guardare commilitoni che si masturbavano, oppure sculacciata perché aveva disobbedito agli ordini. Un'altra soldatessa che invece ha testimoniato nel libro è stata drogata e violentata diverse volte, diventando la "puttana" della caserma, fino a entrare in depressione ed essere esonerata. Ogni volta che le vittime hanno tentato di sporgere denuncia sono state isolate, derise, con la tecnica, hanno spiegato le autrici, della "pecora nera".
Quando uscì il libro l'allora ministro della Difesa, Michéle Alliot-Marie, aveva commentato: "Non c'è maschilismo nell'esercito francese". Un muro di omertà, anche ai livelli più alti. Ma poi la magistratura ha indagato, con minuzia, e i casi sono emersi. Ora la violenza sessuale nell’esercito non è più nascosta, coperta da un muro di omertà. Ma un nemico da abbattere.
LA SITUAZIONE non è diversa in Germania e nel Regno Unito, neppure nei Paesi scandinavi, tra i primi ad aprire l’esercito alle donne, il problema è superato. Esiste, eccome. E, finalmente, non viene più messo a tacere dai governi di turno.

il Fatto 23.6.14
Obama dice basta: ridurre subito i casi


IL PRESIDENTE degli Stati Uniti, Barack Obama vuole estirpare l'epidemia di violenze sessuali nell'esercito. E detta un termine perentorio: il primo dicembre 2014 vuole avere sulla sua scrivania i resoconti sugli sforzi attuati dalle forze armate per contrastare il fenomeno. Secondo le stime, solo nell'ultimo anno, 26.000 militari avrebbero subito aggressioni a sfondo sessuale. Numeri importanti, che Obama vuole ridurre. Le parole forti di Obama arrivano subito dopo l'approvazione con una maggioranza schiacciante di un disegno di legge che mira a contrastare la violenza sessuale all'interno delle forze armate. "Come comandante in capo - ha detto Obama - sono stato chiaro che certi crimini non debbano avvenire all'interno del più grande esercito del mondo. Abbiamo un obbligo urgente di fare di più per sostenere le vittime e consegnare i responsabili dei crimini alla giustizia".