martedì 24 giugno 2014

l’Unità 24.6.14
Ai lettori
IL CDR

Ecco i giornalisti che hanno realizzato il giornale oggi in edicola. La redazione continuerà la sua battaglia in difesa del giornale e dei posti di lavoro fino all’incontro coni liquidatori della società editrice. In quell’occasione, chiederemo certezze sul futuro del quotidiano e sul pagamento di tutte le spettanze maturate. Senza queste certezze dovute, lo sciopero sarà inevitabile così come iniziative di carattere legale a tutela della testata e dei nostri posti di lavoro. Il CDR [seguono firme]

l’Unità 24.6.14
«Convivere è peggio che uccidere», bufera su un parroco di Novara

Convivere è peggio che uccidere. Questa l’opinione del parroco di Cameri, in provincia di Novara. Don Tarcisio Vicario con il bollettino consegnato durante la messa della domenica, ha fatto saltare dalla sedia non pochi parrocchiani. Per il sacerdote, l’omicidio è un «peccato occasionale», che può essere cancellato con «un pentimento sincero»; diverso invece il caso di chi convive come anche chi «si pone al di fuori del sacramento contraendo il matrimonio civile», perché secondo il parroco «vive in una infedeltà continuativa». Sul caso è intervenuto il vescovo di Novara Franco Giulio Brambilla con una lettera pubblicata sul sito della diocesi ha parlato di «inaccettabile equiparazione» e ha chiesto «sinceramente scusa a tutti coloro che si sono sentiti offesi dalle fuorvianti affermazioni del testo pubblicato sul bollettino parrocchiale».
Secondo monsignor Brambilla, «l’esemplificazione, anche se scritta tra parentesi, risulta inopportuna e fuorviante e quindi errata. Inopportuna e sbagliata nei modi, perché semplifica una realtà che è complessa, che tocca le coscienze di ognuno, le sofferenze e le fatiche di moltissime famiglie. Inopportuna e errata nei contenuti, perché dalle parole di quello scritto, non emerge il volto di una Chiesa che è madre, anche quando vuole essere maestra di vita». Il sacerdote non parla. In paese dicono che è partito giovedì scorso per l'Irlanda. Tornerà nel fine settimana. E Cameri vuole voltare pagina il più in fretta possibile. Anche il sindaco, Valeria Galli, spera che tutto rientri nella normalità «al più presto».

Repubblica 24.6.14
Novara, per don Tarcisio Vicario è “un’infedeltà continuativa” Lo scrive nel bollettino della chiesa
Le coppie conviventi peggio degli assassini” Bufera sul parroco
di Gabriele Guccione


TORINO. Se uccidere è «un peccato occasionale», convivere o essere sposati solo civilmente è molto peggio, «un’infedeltà continuativa ». La classifica del “peccato più peccato” l’ha tracciata sul bollettino parrocchiale di giugno, distribuito la domenica all’uscita dalla messa, nella sua parrocchia a Cameri. Don Tarcisio Vicario, parroco della città-officina alle porte di Novara, dove si fabbricano i caccia F35, ci aveva riflettuto sopra qualche domenica prima, durante le prime comunioni, quando «due papà, uno sposato soltanto in comune, l’altro convivente, sono venuti a confessarsi» per fare la comunione insieme ai loro figli. E l’ha scritto nero su bianco sul ciclostilato: «Chi contrae un matrimonio civile vive in una infedeltà continuativa». E «non si tratta di un peccato occasionale», come «per esempio un omicidio». Un paragone che è quasi una depenalizzazione morale dell’omicidio, glossata su un nuovo «manuale del confessore».
Su quel ciclostilato scoppia la bufera: convivere è davvero peggio che uccidere? Montano le polemiche e dal disorientamento dei parrocchiani di Cameri, nelle cui mani è finito il bollettino a inizio giugno, il caso rimbalza su Internet, sui siti delle cronache locali. Fintanto che, ieri, è dovuto intervenire in prima persona il vescovo di Novara, Franco Giulio Brambilla, un passato da ausiliare del cardinale Tettamanzi nella “martiniana” Milano. «Chiedo sinceramente scusa a tutti coloro che si sono sentiti offesi dalle fuorvianti affermazioni del testo pubblicato» ha scritto in una nota pubblicata sul sito della Curia. Fa riferimento al cammino aperto nella Chiesa da papa Francesco, con cui «la chiesa di Novara è in profonda sintonia ». E giudica senza mezzi termini le parole di don Tarcisio: «Inopportune, fuorvianti, errate ». A Repubblica monsignor Brambilla riconosce: «Sono intervenuto perché il meccanismo dei nuovi media ha amplificato la cosa oltre il suo contenuto. Se dovessi intervenire su tutti i bollettini... ». E però prende le distanze: «sia dai toni che dai contenuti del testo per una inaccettabile equiparazione», che «semplifica una realtà complessa, che tocca le coscienze di ognuno, le sofferenze e le fatiche di moltissime famiglie». E parla di «parole da cui non emerge il volto di una Chiesa che è madre, anche quando vuole essere maestra di vita».
Il vescovo si scusa, ma il parroco non lo segue sulla stessa strada. In mezzo alla bufera è partito giovedì per un pellegrinaggio in Irlanda. Sabato ha fatto predicare nella sua parrocchia una «messa di guarigione» a quello stesso don Gregorio Vitali, rettore del santuario Madonna della Bozzola di Garlasco, finito sotto ricatto da due romeni per lo scandalo dei festini hard. E domenica ha fatto leggere in chiesa una nota, che ricalca da molto vicino, ma senza scuse, la presa di posizione del vescovo: «È vero - ammette don Tarcisio - le parole scelte nella lettera sono state inopportune e sbagliate nei modi». Lo stesso riferimento alla «realtà complessa» e al «volto della chiesa madre». Ma niente scuse. Anche Famiglia Cristiana, interpellata da un lettore, che chiedeva una presa di posizione, su facebook ha risposto: «Certe affermazioni si commentano da sole, non possiamo e non vogliamo fare da megafono a qualsiasi scemenza. Anche se a dirla è un sacerdote».

Repubblica 24.6.14
Diritto d’untore
A chi appartiene il nome di Dio l’eterna battaglia fra le religioni
di Guido Ceronetti


UNO Stato religiosamente intollerante, che voglia respingere ai margini la presenza cristiana, non può che proibire l’uso del termine Allah in invocazioni o citazioni della Divinità. Come è successo in Malaysia, la cui Corte Federale ha vietato a un giornale cattolico di utilizzare la parola Allah.
LOha fatto sostenendo che «non è parte integrante della fede cristiana». Nei monoteismi non ci può essere pace: tra loro e nel loro interno la pace non può essere che provvisoria, o creazione politica, regola di convivenza. Dai secoli della loro prevalenza, la loro eredità è la guerra.
Dio e Allah sono un incontro di étimi diversi: l’origine del latino Deus è persiana; l’origina di Allah, termine fisso della rivelazione coranica, è nei deserti semitici. Quando diciamo bethél (termine biblico) dobbiamo tradurre Casa di Dio; in una semplice pietra ritta in mezzo a una pietraia, dei visionari lontani videro l’abitazione di un Dio che escludeva ogni altra divinità, e addirittura la porta del cielo. EL, il Forte, è per alcune tribù Eloàh (compare nel libro di Giobbe); nel profeta Mohámmad (Maometto da noi, ma ha cattivo suono; nel poema dell’Ariosto diventa addirittura Macone) discende immutabilmente come Allah.
Tra le versioni occidentali del libro sacro dell’Islam, numerosissime, Allah, nominato infinite volte nelle sûre coraniche, è tradotto solitamente Dio; in verità è intraducibile. Soltanto la versione bellissima di Régis Blachère, nel francese del XX secolo, usa Allah per creare, se mai fosse possibile, un legame tra le nostre lingue romanze e una irriducibile realtà linguistica semitica. La versione italiana, classica, quella del Bonelli (Hoepli) usa, secondo la nostra tradizione, Dio. Linguisticamente, e in profondità, Allah e Dio non sono la stessa entità divina, come il Deus dell’Etica di Spinoza non è il Dio della sinagoga di Amsterdam della sua infanzia. Terrorizzati dal ricordo delle guerre intercristiane e di quelle col mondo islamico i cristiani si sono convinti che lo stesso Dio li accomuna con quello dell’Inviato di Allah ( rasulullàh ) ma erano più nel giusto i guerrieri di Poitiers e il monco di Lepanto, Miguel de Cervantes, nel tenere distinte le due Scritture sacre. Allah e Dio sono reciprocamente inassimilabili

l’Unità 24.6.14
Lazio, «no all’obiezione nei consultori familiari»
Decreto di Zingaretti: i medici non potranno rifiutarsi di prescrivere la pillola del giorno dopo o di aiutare le donne nella certificazione per l’aborto


Niente più obiezione di coscienza nei consultori familiari per la prescrizione della pillola del giorno dopo, per la attestazione di gravidanza, per la certificazione della richiesta di interruzione di gravidanza volontaria e per l’inserimento della spirale. È una rivoluzione destinata a far discutere quella varata dalla Regione Lazio nel decreto del commissario ad acta, il governatore Nicola Zingaretti, «Linee di indirizzo regionali per le attività dei Consultori Familiari» dello scorso 12 maggio. Si legge infatti nell’allegato 1 del decreto: «In merito all’esercizio dell’obiezione di coscienza fra i medici ginecologi, che dati recenti pongono a 69,3% in Italia (Relazione Ministeriale sullo Stato di attuazione della Legge 194/78 anni 2011-2012, Commissione Affari Sociali - XVII Legislatura - Esame della Relazione sullo stato di attuazione della Legge 194/78 2011-2012), si ribadisce come questa riguardi l’attività degli operatori impegnati esclusivamente nel trattamento dell’interruzione volontaria di gravidanza. AI riguardo, si sottolinea che il personale operante nel Consultorio Familiare non è coinvolto direttamente nella effettuazione di tale pratica, bensì solo in attività di attestazione dello stato di gravidanza e certificazione attestante la richiesta inoltrata dalla donna di effettuare interruzione volontaria di gravidanza. Per analogo motivo, il personale operante nel Consultorio è tenuto alla prescrizione di contraccettivi ormonali, sia routinaria che in fase post-coitale, nonché all’applicazione di sistemi contraccettivi meccanici, vedi I.U.D. (lntra Uterine Devices)». Gli obiettori di coscienza, quindi, non potranno più rifiutarsi di prescrivere la pillola del giorno dopo (contraccettivo ormonale post-coitale) né di inserire la spirale.
Ma c’è di più, stando almeno alla segnalazione dell’associazione Onlus «Vita di Donna» per la tutela della salute femminile. La legge 194, infatti, prevede che la donna che vuole abortire debba parlarne con un medico che esamini con lei i motivi della decisione, le rilasci un certificato che attesti la sua richiesta e l’esame effettuato insieme dei motivi per potersi poi recare in una struttura autorizzata per richiedere l’aborto. «Ma la legge 194 consente ai medici obiettori di non partecipare a questa attività - spiegano i responsabili di «Vita di donna» - La Regione Lazio introduce invece il principio che questi medici, qualora siano in servizio presso i consultori familiari, non possano sottrarsi a questa incombenza». Un contrasto, quello fra legge 194 e decreto del commissario ad acta, che secondo alcuni pareri potrebbe aprire un importante contenzioso giuridico.
Di certo, la decisione di Zingaretti rappresenta una novità assoluta che potrebbe segnare la strada ad iniziative analoghe in tutta Italia. L’unico precedente in qualche modo assimilabile almeno nei fini, infatti, risale al marzo del 2010 quando il presidente della Puglia cercò con una delibera di autorizzare i consultori familiari a selezionare per l’assunzione solo medici non obiettori.
«A nostra memoria, nessun governatore, anche delle Regioni guidate da amministrazioni di centro sinistra, è riuscito a ribadire con tanta forza il diritto delle donne ad essere assistite per la documentazione necessaria per l’aborto nei consultori familiari - prosegue «Vita di donna» - L’obiezione deve essere ammessa, contrariamente a quanto la legge prescrive, solo per le procedure “attive” dell’interruzione volontaria di gravidanza. Se un ginecologo del Lazio lavora in un consultorio familiare è tenuto, anche se obiettore, ad effettuare il colloquio con la donna e a rilasciarne il relativo documento. Bravo Zingaretti». Soddisfatta per la decisione del presidente della Regione anche Filomena Gallo, segretario nazionale dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica. «Non ritengo che in questo decreto ci sia conflitto con la legge 194 - spiega - è una sorta di pugno duro ma è un atto dovuto dopo alcuni drammatici fatti di cronaca degli ultimi mesi. Nel Lazio c’è una situazione molto particolare con un gran numero di obiettori, e questo potrebbe generare di fatto una sorta di interruzione di servizio. Occorre garantire il diritto all’obiezione di coscienza ma al tempo stesso va difeso il diritto delle donne di scegliere di ricorrere all’interruzione di gravidanza o ai contraccettivi ormonali se le condizioni lo richiedono. Del resto, su questo punto, anche l’Aifa ha chiarito che la pillola del giorno dopo è un medicinale contraccettivo e non abortivo. Credo che la scelta del presidente Zingaretti vada nella giusta direzione »

l’Unità 24.6.14
Scelta corretta, ora anche le altre Regioni la seguano
di Maria Elisa D’Amico

Professore ordinario in Diritto Costituzionale, Direttore della Sezione di Diritto Costituzionale Dipartimento di Diritto pubblico italiano e sovranazionale dell’Università degli Studi di Milano

TROVO CHE IL DECRETO DEL PRESIDENTE ZINGARETTI SIA DEL TUTTO CORRETTO e in linea con il contenuto dell’art. 9 della legge n. 194 del 1978, che garantisce l’obiezione di coscienza ai medici, limitatamente al momento dell’interruzione della gravidanza, entro limiti rigorosi e che assegna alle stesse Regioni il compito di assicurare l’erogazione della prestazione anche attraverso la mobilità del personale. Negli anni un’applicazione illegittima di questo diritto ha portato non soltanto a un numero eccessivo di medici obiettori, ma anche a una pratica che estende il diritto a momenti ulteriori, come appunto quelli dell’attività all’interno dei consultori, o degli stessi farmacisti. Nel decreto non si fa che ribadire quanto la legge prescrive, una legge, va ricordato, che la Corte costituzionale ha definito «a contenuto costituzionalmente vincolato» (sent. n. 35 del 1997), in quanto fondata sulla tutela dell’autodeterminazione e della salute della donna.
Va ricordato che l’Italia è stata condannata dall’Europa proprio in relazione alle modalità di applicazione dell’art. 9 della legge 194 e il provvedimento regionale trova una propria giustificazione anche in ottemperanza a tale condanna. Si tratta della pronuncia del Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa, il quale, a seguito di un reclamo collettivo dell’associazione non governativa «International Planned Parenthood Federation European Network», ha rilevato una violazione dell’art. 11 della Carta sociale, affermando che l’Italia viola i diritti delle donne che alle condizioni prescritte dalla legge 194 del 1978 intendono interrompere la gravidanza, a causa del crescente ed elevato numero di obiettori di coscienza. La decisione è stata resa nota nel marzo di quest’anno e da quel momento le istituzioni italiane devono dimostrare, anche attraverso gli annuali rapporti europei, di aver messo in atto tutte le misure utili per modificare questa situazione. Da questo punto di vista, anche pensando che la pronuncia del comitato europeo concorre a definire quei principi internazionali ed europei che, ai sensi dell’art 117, comma 1, Cost., vincolano il legislatore italiano, ritengo che il decreto del Presidente Zingaretti apra una strada utile per modificare una situazione profondamente lesiva dei principi costituzionali e soprattutto della dignità delle donne e degli stessi medici non obiettori.
Ricordo infine che proprio a garanzia del diritto del lavoro dei medici non obiettori, nonché della salute delle donne, pende un reclamo sollevato dalla Cgil nazionale, in relazione al modo in cui l’obiezione di coscienza viene praticata, paralizzando di fatto l’applicazione delle legge: attendiamo anche su questo una pronuncia di condanna dell’Italia. Nel frattempo sarebbe utile se anche altre Regioni seguissero la strada aperta dal Lazio.

il Fatto 24.6.14
Riforme alla Renzi: il governo disse sì ma la Boschi non lo sa
Garanzie ai senatori, i relatori a Palazzo Madama Finocchiaro e Calderoli accusano il ministro: “non è vero che non sapeva niente, ha vistato il testo due volte”
di Wanda Marra


Sono disgustata dallo scaricabarile. È stato il governo ad autorizzare tutti gli emendamenti”. Così diceva Anna Finocchiaro ieri in un’intervista a Repubblica. Oggetto del contendere, l’immunità ai senatori. Una prerogativa che non c’era nel disegno di legge originario presentato da Maria Elena Boschi nel Cdm del 12 marzo, ma che c’è nell’insieme degli emendamenti complessivi. Chi l’ha voluta? E perché? A sentire i primi commenti a testo consegnato dai relatori, sembrerebbe nessuno. La Boschi si è affrettata a dichiarare (anche lei a Repubblica) che nel suo testo non c’era e che il governo non lo voleva. Lo ha chiesto Forza Italia? A poche ore dalla sconfessione del ministro, arriva pure quella di Paolo Romani (Fi). La stessa Finocchiaro dichiara che lei avrebbe preferito che a decidere sulle autorizzazioni fosse la Corte costituzionale.
E ALLORA? Allora, la realtà è tutto sommato semplice. Da un certo punto in poi tra Palazzo Chigi e la Prima Commissione del Senato, soprattutto con i relatori, Finocchiaro e Calderoli, è iniziata una collaborazione strettissima. Mentre Renzi e Boschi stringevano l’accordo politico con Berlusconi e Verdini, gli altri due lavoravano a “riempire” la riforma (parola della presidente della Commissione). E così arrivavano per il nuovo Senato competenze che non c’erano nel testo originale. E con le competenze pure l’immunità. Obbligata, secondo molti costituzionalisti, per evitare la disparità tra due Camere vere e proprie. Il governo lo sapeva, ha dato il suo assenso? Non una, ma più e più volte, raccontano i senatori coinvolti. Perché la riforma è stata fatta così: bozze successive, presentate al Ministro, che il governo approvava. Già nel vertice di esecutivo e Pd di martedì scorso la questione era sul piatto. “Per due volte - secondo Calderoli - il governo avrebbe vistato gli emendamenti”. Un visto ufficiale: ci sarebbe una mail, mandata ai relatori, in cui si diceva di sì al pacchetto complessivo delle modifiche. Il governo forse l’immunità “non la voleva”, come ha detto la Boschi. Ma di certo, sapeva che ci sarebbe stata. E ancora, chi ha voluto, chi ha inserito la modifica ? A scriverlo materialmente sono stati i due relatori. Ma tutti, da Pd a Fi, a Cinque Stelle, avevano presentato emendamenti in tal senso. Spiega il senatore Pd, membro della Commissione Affari costituzionali, Francesco Russo: “Se il capogruppo al Senato M5s Buccarella assieme a 10 senatori grillini presenta un emendamento per ristabilire l’immunità parlamentare forse significa che non c’è nulla di cui indignarsi. È una garanzia per i deputati ed è normale che esista anche per i senatori”. E ancora: “Tra i firmatari degli emendamenti volti a ristabilire l’immunità c’è anche il nome di Paolo Romani”. Dalle parti di Palazzo Madama sono momenti di panico. “Il Movimento 5 Stelle vuole l’abolizione dell’immunità parlamentare in entrambi i rami del Parlamento. L’emendamento 6.5 a prima firma Fattori e sottoscritto anche da altri nove portavoce al Senato fa parte di una serie di proposte in difesa del ruolo elettivo di Palazzo Madama”: diramano una prima nota i senatori grillini. E per tagliare la testa al toro in un’altra annunciamo un nuovo emendamento con cui si propone che i membri del nuovo Senato eletto dalle Regioni possano contare solo sulla garanzia di non essere perseguiti per le opinioni espresse (la cosiddetta “insindacabilità”), cancellando invece l’immunità per l’arresto e le perquisizioni. Ecco anche l’autodifesa di Romani: “L’immunità la prevedevamo solo per un senato elettivo”.
E ora? Calderoli lancia la sua provocazione: “Togliamola pure alla Camera”. Finocchiaro annuncia un emendamento all’emendamento, per far sì che a decidere sia la Corte.
E il governo? Parla il fedelissimo di Renzi, il senatore Andrea Marcucci: “La riforma del Senato non può essere fermata per l’emendamento che prevede l’immunità. Sul tema è sovrana l’aula, che potrà sostenerlo o votare contro”.
DALLE PARTI di Palazzo Chigi si riflette su come modificarlo, magari restringendo l’immunità ai rappresentanti di Regioni e Comuni solo nell’esercizio delle loro funzioni di senatori e non, per esempio, se accusati di abuso d’ufficio in veste di amministratori. Renzi non parla ufficialmente, ma fa filtrare la sua indifferenza sprezzante: se è un problema, la norma si può eliminare. Per adesso non pare che si vada in quella direzione. Con i costituzionalisti pronti a difendere autonomia dei poteri e uguaglianza delle due Camere. Oggi c’è un altro mini-vertice Boschi-Romani-Verdini e fioccano gli annunci di sub emendamenti. La tela di Penelope delle riforme continua.
 
il Fatto 24.6.14
Nemiche democratiche
Il “disgusto” di Anna e Maria Elena
di Wa. Ma.


Anna viene da Modica, è nata nel 1955, di professione farebbe il magistrato, e nella vita sognava di salire al Colle, come primo presidente della Repubblica donna. Maria Elena è nata nel 1981, è cresciuta in provincia di Arezzo, faceva l’avvocato, e adesso veste i panni del padre (anzi della madre) costituente. Finocchiaro & Boschi, bruna, orgogliosa e altezzosa nei modi la prima, bionda, con fattezze angeliche e volontà di ferro, la seconda, sono la strana coppia delle riforme costituzionali. Nemiche acerrime, poi unite in un matrimonio di convenienza, ora lì a minacciare divorzi e rivelazioni di certo se avessero potuto non si sarebbero mai scelte.
La Finocchiaro si vide bruciare la sua corsa al Quirinale proprio da Matteo Renzi, allora ancora “solo” sindaco di Firenze. “La ricordiamo per la splendida spesa all’Ikea con il carrello umano”, disse lui al Tg5. Affondata. La Boschi è una delle poche nelle quali il premier ripone la sua fiducia assoluta. L’ironia della sorte vuole però che la Finocchiaro sia la presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, crocevia inevitabile e centrale dal quale passano le riforme alle quali Matteo ha legato più volte il prosieguo della sua attività politica. E dunque partner inevitabile del ministro delle Riforme.
ALL’INIZIO non è andata proprio bene. Che il testo del governo non fosse - secondo la senatrice più navigata - esattamente adeguato, lei lo andava dicendo senza troppi peli sulla lingua. “In Commissione è stato preso a pallettoni da tutti, tranne che da Zanda”, per citare una frase scelta. L’altra, Maria Elena, che parla poco e le parole le pesa, ha fatto passare un semplice principio: la riforma costituzionale sarebbe stata la riforma Boschi, punto e basta.
E così, a un certo punto, la bionda e la bruna, hanno trovato un punto di accordo. La più giovane e inesperta ha “graziosamente” concesso all’altra di collaborare. E l’altra si è accontentata del ruolo di “riformatrice ombra”: e allora, eccola lì a correggere, suggerire, se necessario riempire i vuoti. A ragionare con Calderoli, trattare con i dissidenti del Pd, mediare con le altre forze politiche. Meglio di niente. E poi, domani chissà. Una pax armata immortalata in una foto del 6 maggio scorso, durante una riunione in commissione a Palazzo Madama . Sorriso accennato e soddisfatto, quello di Maria Elena, piglio determinato, ma dolce, Anna. Era ancora mattina: la sera sarebbe successo di tutto. Con la Boschi pronta a minacciare le dimissioni, per difendere il principio che il testo base doveva essere il suo. E la Finocchiaro che aveva accarezzato il sogno di poter firmare la riforma insieme a Calderoli - costretta non solo a cedere, ma anche a lavorare per evitare che dopo l’ok avuto sul suo odg del collega leghista, il governo andasse in crisi davvero. Poi ci sono state le europee. E le due sono andate avanti insieme tra un vertice e l’altro, una telefonata e l’altra, una proposta e un assenso. Fino a ieri, quando di fronte alla dichiarazione della bionda Ministra sull’immunità (“Il governo aveva fatto la scelta opposta”), la bruna presidente di Commissione è sbottata: “Sono disgustata dallo scaricabarile, è stato il governo ad autorizzare tutti gli emendamenti”. Sarà rottura?

il Fatto 24.6.14
Imbarazzo Pd: “La vogliamo, anzi no”
di Alessandro Ferrucci


Decisi nel sentimento immediato, contorti sulla media-lunga riflessione, a volte contraddittori nella conclusione; in altre difficili da interpretare. È la sintesi puntellata dalle risposte ottenute dai senatori democratici dopo la domanda: mi scusi, cosa ne pensa dell’immunità per i prossimi inquilini di Palazzo Madama?
Giorgio Tonini, nato a Roma nel 1959, di veltroniana carriera. “Sarei per il modello tedesco”. Quindi? “Alla Camera sì, al Senato no. Però sull’argomento c’è un eccesso di eccitazione, forse comprensibile... ma non ne faccio una questione di principio. Ripeto, con i toni bassi”. Giseppina Maturani detta Pina, romana classe 1950, (ex) impiegata in un ente locale. “No guardi, il tema non è se essere favorevoli o contrari. La questione è più articolata... Mi può chiamare tra quindici minuti?”. Ci mancherebbe... “Eccomi qui, scusi il rumore ma sono sul tram 8”. Non si preoccupi, ha riflettuto? “Penso che se l’immunità riguarda i deputati, deve toccare anche ai senatori che svolgono un compito costituzionale. Comunque l’immunità non è un privilegio, illustri costituzionalisti hanno espresso lo stesso punto di vista... (silenzio) ci devono essere delle garanzie”.
Corradino Mineo, siciliano di Partanna classe 1950, oppositore renziano. “Contrario! C’è un uso smisurato del principio dei costituenti. Questa storia è una follia, se devono farmi una perquisizione io devo essere al pari degli altri cittadini”.
Valeria Fedeli, Treviglio 1949, ex sindacalista ora vicepresidente del Senato. “Contraria. Ma posso dirla tutta?”. Volentieri. “Ero fuori, la vicenda l’ho seguita solo attraverso i giornali. Però se è alla Camera deve stare anche al Senato . Oppure va tolta ad ambo i rami del Parlamento. Non amo lo slancio di pancia...”. Monica Cirinnà, Roma 1963, ultra-analimalista. “Toglierla a tutti, i cittadini sono tutti uguali. Ma è stata fatta un po’ di fuffa, il mio amico e collega Russo ha pubblicato su facebook un documento nel quale anche i grillini e Romani hanno presentato emendamenti simili”.
Stefania Pezzopane, L’Aquila 1960, ex presidente della provincia dell’Aquila. “Favorevole. Se sta alla Camera... o tutto o niente. Io penso che vada lasciata nello spirito dei padri costituenti. Eppoi con le modifiche apportate oramai è un proforma”. Non proprio. “Sì, è un proforma”.
Laura Puppato, veneta 57enne, ex sfidante alle primarie democratiche. “Contraria. In assoluto credo sia sbagliata in un paese democratico”. Josefa Idem, Goch (Germania) 1964, ex canoista, si è dimessa dal governo Letta dopo una polemica sulle sue tasse. “Non intendo rispondere”. Perché è d’accordo con l’immunità? “Perché ho avuto problemi con la stampa”. Ma neanche una risposta su una domanda precisa? “(sale il tono della voce) Io ho fatto le mie scelte. Lei faccia le sue...” tuuuuu, tuuuu
Bruno Astorre, romano classe 1963, ex democristiano e indagato per i rimborsi nel Lazio, poi archiviato. Ci fa rispondere dalla sua assistente. Richiamiamo “ma è in aereo, atterra alle otto, magari le telefona”. Niente da fare. Sarà per la prossima volta.

Repubblica 24.6.14
La terza via dei relatori “Deciderà la Consulta”
E la Boschi tratta con Forza Italia
di Goffredo De Marchis


ROMA. I relatori della riforma del Senato vogliono cancellare la norma sull’immunità. Non solo a parole, ricostruendo nei dettagli la storia dell’emendamento che ripristina lo scudo, chiesto da tutti i partiti e sostenuto dal governo. Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli si sono consultati al telefono per tutta la giornata di ieri. Oggi si metteranno a tavolino per scrivere un nuovo testo. Per allontanare sospetti e dietrologie. «Possiamo tornare alla proposta originaria. Deputati e senatori oggetto di una richiesta di autorizzazione a procedere verrebbero sottoposti all’esame di una sezione della Corte costituzionale», ha confidato la presidente della commissione Affari costituzionali a chi l’ha contattata ieri. L’immunità rimane ma il segnale all’opinione pubblica è chiarissimo: mai più giochi di potere e scambi sottobanco nelle aule parlamentari sulle inchieste e sulle domande di arresto per un singolo parlamentare. Decide un organo terzo, salta invece il giudizio “corporativo”. In fondo, il punto centrale è questo.
Matteo Renzi vuole evitare che la riforma s’impantani sulla questione dello scudo e soprattutto che i frenatori utilizzino questo argomento per far saltare un impianto ormai deciso e che può veramente arrivare al traguardo entro luglio. Per questo il premier preferisce non intervenire a gamba tesa nel dibattito. Sostanzialmente, la decisione «è rinviata al Parlamento. Sono sicuro che troveremo una via d’uscita». Una terza via, tra la cancellazione e la regola attuale. Il trasferimento della scelta alla Consulta potrebbe essere proprio la soluzione gradita dal governo che in un primo momento l’aveva esclusa per non appesantire il lavoro dei giudici. L’importante è non provocare rinvii o slittamenti. Perché siamo alla stretta finale. Maria Elena Boschi vedrà oggi Denis Verdini e il capogruppo di Forza Italia al Senato Paolo Romani. È la riunione decisiva. Il partito di Berlusconi chiede ritocchi non difficili: la proporzionalità dei senatori per regione in modo da non penalizzare le aree più grandi, qualche modifica sull’elezione dei sindaci-senatori, togliere a Palazzo Madama il potere di elezione del capo dello Stato, del Csm e dei giudici costituzionali. E i dubbi dell’ex Cavaliere? I suo tentennamenti su un Senato non elettivo? «Sull’elezione diretta dei senatori dele ciderà l’aula. I voti sono a scrutinio palese se si trova una maggioranza alternativa su quel punto, il Parlamento è sovrano e decide», spiega Romani.
Se oggi la Boschi chiude con Forza Italia e verifica che Berlusconi non si metterà di traverso all’ultimo momento, il Pd affronterà con uno spirito diverso il vertice fissato con 5stelle per domani. A palazzo Chigi attendono perciò la conferma ufficia- del patto del Nazareno per decidere la delegazione che incontrerà Luigi Di Maio. Renzi non esclude la sua presenza. Ma potrebbe delegare Boschi o i capigruppo. Con il mandato di evitare trappole. Ovvero di verificare seriamente la disponibilità del Movimento soprattutto sulla legge elettorale senza offrire sponde che Grillo potrebbe rivendersi come un successo personale.
Per questo il pasticcio dell’immunità va risolto al più presto. Il premier si fida dell’accordo con Fi, Lega e Ncd ma sa che la prova dell’aula non è affatto scontata. «È un passaggio mai realizzato prima, un’intesa maggioranza-opposizione per una modifica fondamentale della Costituzione - ha spiegato Renzi ai suoi collaboratori invitandoli a non mollare di un millimetro -. Ed è la riforma del Senato che corrisponde alla sua abolizione, votata dagli stessi senatori. Una vera impresa. Dobbiamo stare vigili fino all’ultimo ».
Non lascia tranquillo l’esecutivo il silenzio della pattuglia di senatori democratici contrari alla riforma. Nel caos dell’immunità, i 14 dissidenti del Pd stanno affilando le armi e scrivendo gli emendamenti da presentare entro domani in commissione. Pippo Civati invita Renzi «a non sottovalutare un quinto del gruppo parlamentare, ad ascoltare le ragioni di chi ha dei dubbi». Felice Casson ha già annunciato il suo voto contrario «se non cambia il testo».. Vannino Chiti insiste per l’elezione diretta. E Massimo Mucchetti ha messo nel mirino la Boschi accusandola di stringere accordi segreti con Verdini. È un gruppo in ebollizione, quello del Pd. In Forza Italia, con i ribelli guidati da Augusto Minzolini, emerge una fronda possibile e non è detto che Berlusconi non la copra. «Il patto del Nazareno è composto al 90 per cento della legge elettorale e per il 10 della riforma del Senato - avverte il presidente dei deputati Renato Brunetta -. Non è un caso che sulla revisione del titolo V e sulla trasformazione di Palazzo Madama arriviamo al dunque con un testo pasticciato, improvvisato e senza contrappesi». Come dire: se Forza Italia si tira indietro non ci sarà da stupirsi. Non sarebbe uno scandalo perché nel faccia a faccia Renzi-Berlusconi la riforma costituzionale è stata esaminata solo in superficie.

Repubblica 24.6.14
Il vizio dell’impunità
di Massimo Giannini


COME tutte le norme impopolari, l’emendamento sull’immunità dei futuri senatori è orfano. È scritto nero su bianco, nel testo della riforma della «Camera alta». Ma non ha né padre né madre. Finocchiaro e Calderoli lo disconoscono, anche se giurano di averlo «concordato col governo». La Boschi cade dalle nuvole, anche se l’ha letto e l’ha vistato: «Io non lo volevo ». Renzi sorvola, anche se non può essere all’oscuro dei fatti: «La questione non è centrale» .
SBAGLIANO tutti. Per dolo? Per colpa? Per semplice leggerezza? Qualunque sia il movente, la politica non può affrontare un tema di questa portata in modo eticamente ambiguo e politicamente irresponsabile. Meno che mai può farlo in un’Italia nuovamente funestata dagli scandali che travolgono i partiti e dalle inchieste che coinvolgono i parlamentari. Se siamo davvero agli albori di una stagione nuova, e se questa è davvero una fase costituente, bisogna avere il coraggio di compiere in ogni campo scelte nette, qualunque esse siano. Bisogna avere l’onestà di spiegarle al Paese, e la forza di rivendicarle a viso aperto. Sia di fronte alla reazione delle Caste, sia di fronte all’indignazione delle opinioni pubbliche.
C’è una verità che va detta con chiarezza. L’immunità parlamentare non precipita all’improvviso, in un ordinamento che non l’ha mai conosciuta. Nella Storia, la introdussero addirittura i giacobini, nel 1790: com’è noto, gente che in nome del popolo faceva rotolare teste coronate in piazza, e non cercava certo guarentigie di Palazzo. In Occidente, con articolazioni diverse e fatte salve l’Olanda e la Gran Bretagna, la prevedono grandi democrazie come la Spagna, la Germania, la Francia. In Italia, l’hanno introdotta i costituenti nel ’48, in ossequio al principio costituzionale della separazione del potere legislativo da quello giudiziario. L’hanno abusata indegnamente i politici della Prima Repubblica, che gestirono la famigerata «autorizzazione a procedere» come garanzia perpetua di totale impunità.
Per questo, sull’onda dello sdegno di Tangentopoli, l’immunità è stata riscritta nel ’93. Il «nuovo» articolo 68 della Costituzione prevede l’autorizzazione della Giunta solo nei casi di arresto e di utilizzo delle intercettazioni telefoniche. Questa norma costituzionale è tuttora vigente. Quindi oggi non si tratta di «reintrodurre l’immunità» (che già esiste e continuerà ad esistere alla Camera). Ma semmai di decidere se debba essere conservata anche per il futuro «Senato dei 100» (che il governo vuole far approvare in prima lettura entro la metà di luglio). Una precisazione non inutile, di fronte agli «indignados» a Cinque Stelle che, dopo aver contribuito al pasticcio con i loro emendamenti, ora agitano il drappo rosso di fronte a una società civile già legittimamente arrabbiata di suo.
Chiarito questo, resta un fatto oggettivo. Conservare l’articolo 68 della Costituzione anche per i senatori che comporranno l’assemblea di Palazzo Madama dopo la «grande riforma» si porta dietro due giganteschi problemi.
Il primo problema è giuridico, ed è evidente. Se togli l’immunità, crei una disparità di trattamento tra i deputati (che continueranno a beneficiare dell’articolo 68) e i senatori (che invece perderanno quel beneficio). Se invece la mantieni, crei una disparità di trattamento tra i consiglieri regionali e i sindaci «normali» (che non avranno alcuna «tutela») e quelli che saranno «nominati» senatori (ai quali la tutela sarà invece garantita). E vale a poco il codicillo secondo il quale la «copertura» dell’articolo 68 varrebbe solo per gli atti compiuti con il laticlavio «da senatore», e non per gli eventuali reati commessi nella veste di «amministratore locale»: come dimostrano le cronache, nei casi di corruzione e concussione è spesso impossibile distinguere una funzione dall’altra. Il secondo problema è politico, ed è dirimente. È giusto, di fronte al malaffare che dilaga ovunque, che la politica si rinchiuda nelle mura del Palazzo e tiri su il ponte levatoio, rifiutandosi di accogliere fino in fondo e senza scudi protettivi il principio dell’«accountability», del «rendere conto» sempre e comunque del proprio operato? O non è invece più giusto, di fronte alle procure che indagano chiunque, proteggere dal rischio del «fumus persecutionis» la nobile funzione del parlamentare, sia pure di un Senato ridimensionato in quantità e qualità?
Nel migliore dei mondi possibili, la scelta più sensata e più scontata sarebbe quella di eliminare l’immunità, sia alla Camera che al Senato. E non per «arcaismo belluino», come scrivono i sedicenti “liberali”. Semplicemente, per rendere davvero tutti i cittadini uguali di fronte alla legge. Per evitare che, com’è purtroppo già accaduto in passato, l’istituto dell’immunità finisca per coprire il vizio dell’impunità. Per impedire che dietro lo schermo del «garantismo » si giustifichi qualunque tentativo di rimettere in riga i magistrati, e con il marchio del «giustizialismo » si condanni qualunque tentativo di difendere l’obbligatorietà dell’azione penale e il principio di legalità.
Questo è il nodo da sciogliere. Il governo ha il dovere di farlo. Ma deve farlo in modo trasparente e vincolante. L’idea di un “filtro” affidato a un organo terzo come la Consulta può essere un buon compromesso. Sull’immunità come sulla riforma complessiva della giustizia, Renzi deve assumersi la piena responsabilità di una scelta, quale che sia. Deve motivarla al Paese e poi portarla avanti in Parlamento. Senza silenzi imbarazzati e senza zone d’ombra, che non fanno altro che riaccendere gli odiosi sospetti su oscuri «patti scellerati» sottoscritti con Berlusconi nelle stanze del Nazareno. L’unica cosa che il premier non può fare è lasciare che l’immunità passi così, nel caos ipocrita dello scaricabarile istituzionale. Salvo poi dire, alla fine, che l’assassino è il solito maggiordomo. Siamo una Repubblica parlamentare, non un giallo di Agatha Christie.

Il Sole 24.6.14
Seggi, meglio la proporzionalità
di Roberto D'Alimonte


Composizione e funzioni sono le due questioni principali intorno a cui ruota la riforma del Senato. C'è chi dice che sono strettamente intrecciate. In parte è vero, ma spesso chi sostiene questa tesi lo fa per dire che se il Senato ha poteri rilevanti deve anche essere eletto direttamente. E questo non è vero. Un Senato può non essere eletto direttamente e avere poteri importanti. È il caso della Germania. Ovvero può essere eletto direttamente e non avere reali poteri. È il caso della Spagna. In ogni caso, che l'elezione sia diretta o indiretta, uno dei nodi da sciogliere è la distribuzione dei seggi tra le regioni.
Come è noto nel progetto originale del governo era stato fissato il principio della parità. Era una idea sbagliata che metteva la Valle d'Aosta sullo stesso piano della Lombardia. Questa idea fa ancora parte del testo base che giace in commissione affari costituzionali del Senato, ma da tempo il governo ha dato la sua disponibilità a modificare questo punto della riforma. Si è arrivati così alla proposta contenuta in uno degli emendamenti presentati dai relatori Finocchiaro e Calderoli.
I senatori assegnati alle 19 regioni e alle due province autonome di Trento e Bolzano sono complessivamente 95. Ogni regione ha diritto a un senatore-sindaco, cioè un senatore eletto dal consiglio regionale tra i sindaci della regione. In totale saranno 21 (19 + Trento e Bolzano). Poi ci sono 74 senatori-consiglieri eletti dai consigli regionali e dalle due province autonome tra i loro membri: uno ciascuno a Molise, Valle d'Aosta, Trento e Bolzano, tre fissi alle altre 17 regioni. Il totale fa 55. Ne restano 19 per arrivare a 74. Sono troppo pochi per assicurare in misura accettabile il rispetto del principio di proporzionalità tra seggi e popolazione. Nella tabella in pagina la soluzione indicata con la lettera A è quella che deriva dalla proposta contenuta negli emendamenti Finocchiaro-Calderoli. Come si vede, la Lombardia, con i suoi 9 milioni di abitanti, avrebbe 6 seggi mentre la Basilicata con poco più di 500.000 ne avrebbe 3. Neanche a farlo apposta è il rapporto all'interno del Bundesrat tedesco tra la città-stato di Amburgo e il Lander più popoloso che è il Nord Reno-Westfalia. Ma la Germania è un caso molto diverso.
È la quota fissa di tre seggi per regione che non va bene. Assegnare un seggio (quello del sindaco) a ciascuna regione rappresenta già una deviazione – accettabile – dal principio di proporzionalità. Non c'è bisogno di aggiungere una ulteriore quota fissa di 3 senatori-consiglieri. Lo si potrebbe fare solo se il numero dei seggi da distribuire fosse più elevato. Ma nel nostro caso si parla di 74 seggi da dividere tra 19 regioni e 2 province autonome. Per questo la soluzione che a noi sembra più corretta è quella indicata con la lettera B nella tabella. Senza alcuna quota fissa, se non il seggio del sindaco, l'uso del criterio di proporzionalità rispetto alla popolazione produce una distribuzione che certamente non è perfettamente proporzionale, ma che in ogni caso rispetta più da vicino il peso relativo delle varie regioni. In questo modo la Lombardia avrebbe 10 seggi e la Basilicata 2. Dato che non siamo la Germania, ci sembra un rapporto più equilibrato.

Corriere 24.6.14
La simulazione
Gli effetti di Italicum e nuove regole. Al Pd maggioranza solida per il Colle
di Renato Benedetto


Certo, i 101 franchi tiratori nel voto per il capo dello Stato dello scorso anno, scolpiti nella memoria del Pd, suggeriscono che i numeri «sulla carta» non sempre bastano. Fatte le dovute premesse, però, il quadro che esce dalla simulazione di una possibile assemblea post-riforme (combinando nuovo Senato e Italicum) per l’elezione del capo dello Stato è quello di una solida maggioranza in mano al Pd: 424 tra deputati, nuovi senatori e delegati regionali. Il partito di Matteo Renzi da solo potrebbe eleggere alla quarta votazione, dove serve la maggioranza assoluta (395), il nuovo inquilino del Quirinale con un margine di 29 voti. L’assemblea conterebbe 788 seggi: 630 deputati, 100 senatori (è il numero previsto dagli ultimi accordi sulla riforma), 58 delegati nominati dai consigli regionali. Il Pd, stando ai voti delle Europee (40,8%), sarebbe oltre la soglia del 37% prevista dall’Italicum per il premio elettorale e otterrebbe 340 seggi alla Camera. Il nuovo Senato sarà composto da sindaci e consiglieri eletti dalle assemblee regionali: il Pd conterebbe la maggioranza sia dei primi cittadini (15 su 21) che dei consiglieri (39 su 74), se si considera il suo peso nelle Regioni. Ad esempio, in Emilia-Romagna, a cui spetterebbero 4 senatori-consiglieri regionali, almeno 2 si presume vadano al Pd, che conta la metà dei seggi in assemblea. Considerando sempre i rapporti di forza nelle Regioni, si può stimare anche un numero di delegati di 30 su 58.

Repubblica 24.6.14
Pubblico impiego, i dubbi del Colle
Per giorni trasmesse al Colle solo bozze informali
Misure spacchettate in due decreti.
di Umberto Rosso


ROMA. Il giallo del decreto fantasma. Che il governo dà per pronto da una decina di giorni e alla firma del Colle, ma che sul tavolo di Napolitano in realtà non arriva. Un balletto che ha provocato l’irritazione del capo dello Stato. Così, solo ieri sera, dopo le sue insistenze su Palazzo Chigi, uno dei due decreti in cui è stato spacchettata la riforma della pubblica amministrazione, si sarebbe finalmente materializzato sulla scrivania del presidente della Repubblica. Ma non ancora il secondo, che sarebbe stato anticipato dal governo al Quirinale soltanto attraverso una mail. Dunque, ancora in via del tutto informale. Per la firma dell’intera riforma ci sarà ancora da aspettare, visto che Napolitano non dispone ancora del testo completo e definitivo. Un parto travagliato, che ha provocato malumori sul Colle. Colpa di un effetto-annuncio del governo, lanciato per bruciare i tempi sulla riforma di un architrave sensibile come la pubblica amministrazione, ma senza un testo tradotto in norme precise varate dal Consiglio dei ministri, con relazioni tecniche e soprattutto con la bollinatura di approvazione della Ragioneria generale. Dunque, per giorni all’esame del capo dello Stato non è arrivato un decreto legge formalmente degno di questo nome. Al Quirinale sono giunte via via informalmente alcune bozze, con i punti chiave del ministro Marianna Madia, peraltro corrette in corsa di continuo. Un tira e molla che ha finito per infastidire il capo dello Stato, che si sarebbe trovato davanti una sorta di “canovaccio”, più che un testo di legge, in cui peraltro alcuni nodi assai delicati – come i poteri di controllo per l’Anticorruzione di Cantone o l’età pensionabile dei magistrati – venivano “scekerati” con i temi specifici della riorganizzazione della macchina dell’amministrazione pubblica. Un ennesimo convoglio-omnibus, un testo farcito di “portate” troppo diverse, cosa che ha innescato la contrarietà del presidente della Repubblica. Napolitano – informalmente, così come informalmente gli era stato preannunciato il decreto – lo ha fatto sapere a Palazzo Chigi. Dove si sono rimessi all’opera e hanno rimesso mano alla riforma, per sfornare l’ultima versione. O meglio, le due ultime versioni, visto appunto che il testo è stato spacchettato in due diversi provvedimenti.
Il governo però, col sottosegretario Delrio, getta acqua sul fuoco e rassicura. Niente polemiche, tantomeno col Quirinale, il cammino della “rivoluzione” della pubblica amministrazione procede. «Non ci sono contrasti, non è assolutamente vero che il capo dello Stato ci ha rimandato indietro il testo, vedrete: la riforma fra qualche giorno sarà promulgata». Anche se, alcuni giorni fa, nel suo colloquio col presidente al Colle, proprio Matteo Renzi si sarebbe “scusato” e avrebbe fatto mea culpa col capo dello Stato per la gestione pasticciata dell’iter della riforma. Se infatti è prassi da parte del governo anticipare “testi-civetta” dei decreti al Quirinale, per tagliare i tempi, stavolta Napolitano si è trovato di fronte una bozza “cangiante” da un giorno all’altro, anche per via delle tante e diverse dichiarazioni di vari esponenti di governo. Un balletto al quale ha dato lo stop, chiedendo a Palazzo Chigi la versione “autentica” della riforma: quella con il “bollino” del Tesoro sulla copertura delle spese.

l’Unità 24.6.14
Sel, Fratoianni capogruppo pro-tempore


Per poter permettere una serie di adempimenti tecnici e regolamentari, utili al prosieguo dell’attività parlamentare in questa settimana, ieri si è riunito il gruppo parlamentare di Sel della Camera per indicare il capogruppo protempore che sarà Nicola Fratoianni, coordinatore nazionale del partito. È quanto fa sapere l’ufficio stampa di Sel annunciando che nei prossimi giorni si terrà l’assemblea dei gruppi parlamentari di Camera e Senato per approfondire il confronto e la direzione nazionale del partito. «Sarà avviata in tempi rapidissimi una consultazione tra i deputati di Sel per giungere nella prossima settimana all’elezione del nuovo capogruppo e dell’ufficio di presidenza del gruppo di Sinistra Ecologia Libertà a Montecitorio», conclude la nota.

il Fatto 24.6.14
Il fascinoso Fratoianni e quello che resta di Sel
di Fulvio Abbate

Il telegenico Nicola Fratoianni, volto “new fashion” dell’assai vaga stella dell’Orsa del partito di Nichi Vendola, sta cercando in ogni modo di dimostrare, soprattutto dopo la fuoriuscita degli impeccabili Gennaro Migliore, Claudio Fava e altri ancora, che Sinistra ecologia e libertà non è un indirizzo provvisorio o, peggio ancora, non deve essere ingiustamente ritenuta il beauty-case del Pd.
IL FASCINOSO Fratoianni è nato a Pisa nel 1972, il medesimo anno in cui Sant’Enrico Berlinguer succedeva a Luigi Longo alla segreteria generale del Pci, dunque non gli possiamo in alcun modo imputare una compromissione con la polvere di marmo del tempo politico trascorso a sinistra, dunque neppure le proverbiali traversie post-Cominter care a Rifondazione comunista - Trockij sì, Trockij no - dalle cui stanze il giovane tuttavia giunge. Fratoianni, insomma, potrebbe presto rappresentare nell’ambito della sinistra tout court il corrispettivo umano ed esistenziale di ciò che Matteo Renzi riassume invece rispetto alla vincente Democrazia renziana, ossia a se stesso. Ogni considerazione ulteriore sul pongo politico reale del nuovo personale sarebbe qui una inutile perdita di tempo meno che dialettica.
Accanto a Matteo R., spalmato dai suoi supporter della sciolina del consenso nel pieno della discesa libera con vento in poppa, l’altro, Nicola F., deve invece innalzare, mattoncino dopo mattoncino Lego, la camera con vista di una più che minoritaria forza politica assediata per giunta dalla crudeltà di molti commentatori, accreditati e non, tutti comunque pronti a ritenere Sel una sorta di franchising di Vendola destinato a dissolversi insieme al titolare unico. Un partito circondato da un mandale di cuori ingrati: il caso di Laura Boldrini, miracolata da Nichi, con il suo recentissimo “Sel chi?”, appare più che esemplare. Insomma, sia l’uno, sia l’altro, merito della giovane età, possono vantare tempo e piste a disposizione. Francobollato nel collegamento esterno di Agorà, su Rai3, Fratoianni prova adesso a dimostrare che l’oggetto politico fantasmatico, che lo vede sempre più frontman, esiste per davvero. Nicola prova a piazzare nel gioco mediatico una faccia da ex militante, megafono in mano, pronto a imboccare, sotto le bandiere del che dio ce la mandi buona, il tratto di strada che da piazza Esedra scivola verso via Cavour, a Roma, il punto esatto dove a giudicare dalla consistenza del corteo la sinistra cerca di intuire a occhio la propria esistenza. Numerica, politica, forse perfino magica.
BLAZER d’occasione e cravatta, capelli corti e tuttavia spettinati con grazia attoriale, a Fratoianni manca forse ancora qualche numero televisivo per finalmente esistere con certezza. Tuttavia il piglio, una dose di sobrio narcisismo, tutte queste prerogative che servono a rendersi riconoscibili al telespettatore di talkshow politico, nell’uomo sembra già di intravederle, c’è da sperare che presto sappia anche imparare un po’ di pubblica rabbia che non fa male in un contesto segnato dalle facce di bronzo.

l’Unità 24.6.14
Agenda digitale, Madia: ora una rivoluzione educativa
La ministra: entro 15 giorni la nomina del direttore dell’Agid
Violante: rendere pubblici tutti i dati


Che la Pubblica amministrazione italiana sia rimasta indietro nella famigerata digitalizzazione, che ogni governo abbia annunciato a vuoto questa rivoluzione, non è una novità. Ma la ministra Marianna Madia non si aspettava che la Pa fosse rimasta così indietro, con le difficoltà persino di capire quante sono le società partecipate, o con quei compartimenti stagni nei quali rimane bloccato il cittadino.
Comunque oggi, dopo essere stata «bollinata» dalla Ragioneria di Stato che quindi dovrebbe dare il via libera accertando che ci sono le dovute coperture, la riforma della Pa presentata da Madia dovrebbe andare al Quirinale per la firma del Capo dello Stato. La ministra Madia ha parlato ieri concludendo il convegno «Rivoluzione digitale: pronti? Via!» organizzato a Montecitorio da Italiadecide, la fondazione presieduta da Luciano Violante, al quale hanno partecipato anche la ministra dell’Istruzione, Stefania Giannini e molti esperti del settore (Telecom, Google, Vodafone, Poste Italiane, Mibac, Miur, Mit, ItCore Spa, Nuvola Verde, Società Geografica Italiana) con una relazione introduttiva di Mariangela Di Giandomenico.
Una novità annunciata dalla ministra Madia sarà, nel 2015, l’introduzione di un unico Pin del cittadino, un solo codice personale con il quale entrare, cercare, conoscere la propria posizione sia per la scuola che per la sanità, piuttosto che perdersi nei labirinti della Pa. È stata creata l’anagrafe digitale nazionale della popolazione residente e, entro 15 giorni, sarà nominato il direttore per l’Agenzia per l’Italia digitale, anche in vista del semestre europeo.
L’ex presidente della Camera Violante, in apertura del convegno, ha bandito il «lamento, come alibi per conservare l’esistente», e ha invece invitato a rendere utilizzabili tutti i dati pubblici, per «sostituire la cultura pubblica del segreto della pubblica amministrazione con la cultura pubblica della trasparenza » della Pa. Perché i dati «sono della Repubblica, cioè delle istituzioni e dei cittadini», spiega Violante, come indica anche una direttiva europea adottata il 26 giugno 2013, «che rende chiaro l’obbligo di tutti gli Stati della Ue di rendere riutilizzabili tutti i dati pubblici, ad eccezione di quelli il cui accesso sia limitato o escluso». In questo senso Violante ha chiesto alla ministra dell’Istruzione di rendere pubblici «i dati Invalsi perché siano a disposizione delle famiglie» così da poter scegliere più facilmente le scuole o le università.
Stefania Giannini ha risposto che «i dati Invalsi, come quelli Anvur - l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema dell’università e della ricerca - sono già pubblici», spiegando che non sono gli unici dati utili per valutare una scuola e per sceglierla. La ministra si propone di fare una «rivoluzione educativa» sul digitale, a partire dalla «formazione permanente per i docenti anche rivedendo il contratto», con più investimenti sul territorio, ancora troppo «a macchia di leopardo» nell’evoluzione digitale (la Lombardia è in testa).
Giannini, però, sull’obiettivo richiesto da Italia decide risponde che «sarei più cauta», ma accoglie la proposta «perché scuola aperta significa anche questo».
Marianna Madia ha spiegato che digitalizzare la Pa significa «semplificare » ed evitare duplicazioni, non solo trasformare la carta in pixel. Quindi nella Pa si deve «passare dalla cultura del documento alla cultura del dato che deve essere disponibile a cittadini e imprese», unificando il più possibile le banche dati. Per il governo la semplificazione della Pa è «un pilastro», quindi prevede di «unificare i database del Mef e del Ministero della Pa sulle società partecipate per avere contezza delle stesse e avviare un processo di consolidamento all’insegna dell’efficienza».
Il principio illustrato da Madia è quello di limitare le moltiplicazioni: «Basta super esperti di nicchia sulla materia, serve una squadra di dirigenti capace di affrontare i problemi concreti. Digitalizzare la Pa non significa scrivere al computer quello che scrivevamo a macchina. Se non semplifichiamo, trasferiamo le complicazioni dalla carta alla Rete».
Perché Open data, la diffusione digitale dei dati della pubblica amministrazione si realizza solo se salta il criterio della proprietà dei dati che non sono di questa o quell’amministrazione, ma come diceva Violante, della Repubblica. Quindi non solo trasparenza dei dati, ma «trasparenza delle procedure».

l’Unità 24.6.14
Franceschini: «Precettazioni in musei e siti»
La decisione dopo le chiusure a Pompei, l’ultima ieri mattina
Il ministro: «Sono servizi pubblici essenziali, una risorsa per combattere la crisi»
Apertura del Garante per gli scioperi: «Possibile»


Musei e siti archeologici indispensabili come i mezzi pubblici, treni e aerei. E dunque dipendenti dei Beni culturali precettabili, come quelli di altri «servizi pubblici essenziali». È il ministro Dario Franceschini a rompere un tabù, annunciando un cambiamento di status dai molti significati.
La svolta arriva dopo l’ultima chiusura di Pompei, un’ora di cancelli sbarrati ieri mattina per un’assemblea sindacale convocata in orario di visite. E turisti imbufaliti fuori, come già la scorsa settimana. Da lì era partito il primo messaggio di Franceschini, «la questione non riguarda solo Pompei, c’è un danno di immagine enorme per l’Italia», la nuova interruzione di servizio non getta certo acqua sul fuoco e il ministro promette di «cambiare la normativa », obiettivo la precettazione «in casi eccezionali» per scongiurare scioperi che finiscono per azzoppare il nostro turismo. Un’opzione a cui apre il Garante per gli scioperi. E la Cisl di Raffaele Bonanni sembra avvertire i lavoratori: «La dialettica sindacale non può scaricarsi sugli utenti del nostro immenso patrimonio culturale, che è uno dei settori strategici per la nostra economia». O per dirla con lo stesso Franceschini: «Noi combattiamo contro la crisi, ma investire sulla cultura è fondamentale per farlo».
La necessità di invertire la rotta nella valorizzazione del patrimonio culturale era già in agenda, ma non c’è dubbio che quanto accaduto di recente nel sito di richiamo internazionale abbia convinto sempre più il titolare dei Beni culturali che sul tema occorreva un’accelerazione decisa e netta. Su Pompei Franceschini non usa mezzi termini, l’ultima serrata «è un ulteriore danno in termini di immagine che rischia di vanificare il difficile lavoro che tutti i livelli istituzionali stanno facendo, dall’Europa al governo, al ministero, agli enti locali sino ai lavoratori ». Non è insomma questa la strada con cui si possono affrontare problemi annosi e noti di manutenzione, gestione, rilancio.
Ma in ballo non c’è solo lo splendido sito patrimonio Unesco, «il nodo delle chiusure dei luoghi della cultura deve essere risolto alla radice», aggiunge subito il ministro, «è indiscutibile che i musei e i siti archeologici siano servizi pubblici essenziali di grande importanza ». Perché la cultura è turismo, dunque introdurre «criteri di efficienza ed efficacia nella gestione dei Beni culturali per l’Italia significa ricchezza e sviluppo ».
I numeri stanno lì a dimostrarlo: per rimanere a Pompei, i suoi tesori a Pasqua hanno attirato oltre 25 mila visitatori, in crescita di ben il 28,8% rispetto all’anno precedente. Un esempio tra i tanti che il Belpaese può offrire, per tacere del fatto che «ogni euro investito in cultura ne frutta 1,8 - ricorda il ministro - sotto forma di indotto». E se la cultura è un asset strategico, occorre avere strutture in grado di supportare la sua valorizzazione: ecco allora entro pochi mesi una riforma del dicastero e l’attribuzione di una vera autonomia gestionale ai direttori di grandi musei, come promette il ministro: «Voglio che ciascuno si assuma le sue responsabilità, il lavoro svolto verrà valutato periodicamente da commissioni in cui sederanno anche esperti internazionali ».
La strada dunque sembra tracciata, il presidente dell’Autorità di garanzia per gli scioperi nei servizi pubblici essenziali, Roberto Alesse, dà il suo sostanziale via libera: «Credo che possa essere utile discutere se ampliare le tutele previste per i cittadini-utenti dalla legge 146 del 1990 sull’esercizio del diritto di sciopero. L’Autorità è disponibile all’apertura di un tavolo tecnico con Governo e Sindacati, per affrontare questo tema delicato ed evitare in futuro situazioni come quella verificatasi a Pompei».
Le parole di Bonanni sembrano indicare che la Cisl è pronta a dialogare, «non possiamo che assumere decisioni - precisa infatti il segretario - sempre nell’interesse generale del Paese». Bonanni chiede comunque «un incontro urgente» con Franceschini per avere regole chiare nella gestione di realtà come quella di Pompei ed evitare così che «ogni fisiologico contrasto sfoci nell’interruzione del servizio pubblico ».
DA OGGI APERTURA REGOLARE
Da oggi intanto apertura regolare a Pompei, le assemblee sono state sospese dopo l’incontro con il soprintendente Massimo Osanna («per il futuro ho chiesto di convocarle fuori dall’orario di apertura»). La contrattazione parte venerdì (e a Pompei è atteso lo stesso Franceschini) per discutere soprattutto di riorganizzazione del lavoro. Riapre anche il Teatro Grande, che si prepara a due serate del Forum Universale delle Culture, il 28 e 29.

La Stampa 24.6.14
Salvatore Settis
“Militarizzare non risolve i problemi. Spostiamo i burocrati da Roma”
intervista di Gia. Gal.


Roma «Alla cultura italiana non servono lavoratori militarizzati. Ora mi aspetto che vengano ridotte le direzioni generali del ministero e snellita la burocrazia centrale». Lo storico dell’arte e archeologo di fama mondiale Salvatore Settis, presidente del consiglio scientifico del Louvre, ha guidato il Consiglio superiore dei beni culturali e grandi istituti come il «Getty» di Los Angeles. «Confido che adesso Dario Franceschini faccia una riforma del dicastero in grado di aumentare sul territorio gli addetti dei musei e delle sovrintendenze riducendo invece i dipendenti a Roma».
La precettazione è utile?
«Le soluzioni vanno negoziate. I salari dei dipendenti sono molto bassi rispetto alla Francia e alla Germania. E tra i 28 Paesi europei l’Italia è quella che investe meno in cultura. Tagliare risorse e precettare i dipendenti non risolve i veri problemi e cioè l’errata organizzazione del sistema museale e la scarsità di risorse economiche».
Quali sono le soluzioni?
«Negli ultimi anni non c’è stato turnover. A 5500 pensionamenti è seguito appena qualche centinaio di assunzioni. Intanto si continua a gonfiare il centro impoverendo la periferia. Un Paese senza cultura è un Paese senza futuro e il diritto alla cultura è espressamente garantito dalla nostra Costituzione».
I sindacati contano troppo?
«La questione non è l’eccesso di sindacalizzazione. Non si può procedere a colpi di precettazioni. Bisogna ridistribuire la forza-lavoro. In Italia i beni culturali hanno una testa enorme e un corpo gracile. Abbiamo la rete più capillare di sovrintendenze e musei eppure li svuotiamo di personale a tutto vantaggio di una burocrazia centrale sempre più elefantiaca. I turisti hanno diritto di poter visitare sempre i musei e i siti archeologici però non si risolve la questione degli scioperi militarizzando il settore».
E dove si trovano le risorse?
«L’Italia è il terzo Paese al mondo per evasione dopo Messico e Turchia. Se recuperiamo anche una piccola parte dei 154 miliardi di euro l’anno di tasse non pagate potremmo procedere ad una riorganizzazione efficiente. Da parecchi anni le riforme del ministero della cultura si succedono senza affrontare veramente i nodi cruciali. Siamo ormai a quota sei. In pratica ogni nuovo ministro fa la sua riforma ma poi il risultato è invariabilmente l’aumento del numero delle direzioni generali e di funzionari centrali del dicastero. E invece servirebbero subito almeno 2 mila nuovi dipendenti nelle periferie dove sono custoditi i nostri veri tesori d’arte».
L’età media è troppo alta?
«Sì. Il primo risvolto negativo del blocco delle assunzioni è che nelle sovrintendenze ci sono sempre più addetti la cui età media è 57-58 anni. Anche rispetto alle linee d’intervento dell’Ue, dovremmo saper mostrare che senza nuovi investimenti e una progettazione seria non si fa molta strada».

il Fatto 24.6.14
Pompei fra scioperi selvaggi e crolli: benvenuti in Italia
Attorno agli scavi si amplificano i difetti di un sistema: la burocrazia, i servizi, le lobby, le mancanza di regole
di Tomaso Montanari


Pompei è la nostra grande Prova d’Orchestra, il luogo giusto per capire l’Italia di oggi, con tutto il suo groviglio di contraddizioni. Dopo il rosario di crolli causato dalle piogge monsoniche di questa primavera, dopo i furti a orologeria, ecco che in questi giorni è stato il turno delle agitazioni sindacali selvagge, che hanno lasciato migliaia di cittadini e turisti fuori dai cancelli degli scavi. Un clamoroso autogoal mediatico, che ha costretto Raffaelle Bonanni a commissariare la Cisl di Pompei.
AL TEMPO STESSO, tuttavia, Pompei è l’unico sito italiano che ha tutti i soldi di cui ha bisogno: 105 milioni del cofinanziamento europeo, un decimo abbondante del ridicolo bilancio di tutto il patrimonio culturale italiano. E, ulteriore paradosso, ora Pompei ha una linea di comando che funziona: il direttore del Grande Progetto Pompei è Giovanni Nistri, un generale dei carabinieri che impedisce le infiltrazioni camorristiche. Il soprintendente è Massimo Osanna, un ottimo archeologo con importanti esperienze internazionali. E, sia detto per inciso, non c’è alcun bisogno dei poteri commissariali in stile Protezione Civile previsti dal Decreto Franceschini, ora in Parlamento: poteri pericolosi perché ontologicamente criminogeni, come testimoniano l’Expo e il Mose, e comunque incompatibili con un finanziamento europeo.
Ora a Pompei c’è un piccolo, ma eccezionale, gruppo di giovani archeologi e architetti assunti (grazie all’allora ministro Giancarlo Galan: è giusto riconoscerlo) in deroga allo scellerato blocco del turn over. Ora gli scavi sono puliti, i cani randagi sono spariti, il celeberrimo mosaico del Cave canem è stato restaurato, molte domus sono sul punto di riaprire. Si respira un’aria nuova, a Pompei: e si capisce che basterebbe poco, pochissimo, perché il simbolo dello sfascio italiano si trasformasse nel simbolo della rinascita. E senza
‘mecenati’, sponsor, speculatori, privati for profit, protettori, papponi.
E allora, cos’è che non va? Senza ironia, si potrebbe dire che non va il fatto che Pompei sia in Italia. Nel senso che a Pompei si amplificano e diventano visibilissimi tutti i difetti del nostro sistema. A cominciare da ciò che circonda gli scavi: i trasporti (la Circumvesuviana ha treni e tempi che sarebbero inaccettabili in Bangladesh), la ristorazione (gestita da Autogrill, e in effetti sembra di essere a un casello), i servizi in genere.
E POI LA DINAMICA del lavoro. Certamente la linea scelta dai sindacati è sbagliata, autolesiva, a tratti irresponsabile. Ma è pure vero che non hanno torto quando denunciano un eccessivo carico di lavoro, ritardi nei pagamenti , una gestione assurda degli orari di lavoro. Ora, se Pompei è così importante (anche mediaticamente) è possibile che il ministro per i Beni culturali non trovi il modo di affrontare e risolvere questi problemi, non certo insormontabili? Se, al contrario, si rinuncia a ogni concertazione il risultato sarà inevitabilmente un muro contro muro. E il fatto che ieri Dario Franceschini abbia annunciato di voler ricorrere alla precettazione anche nel patrimonio culturale è davvero un pessimo segnale: abbiamo drammaticamente bisogno di governo, non di repressione.
Tra l’incapace burocrazia ministeriale romana e i sindacati, chi rischia di essere stritolato è il soprintendente, con il suo staff. Per questo Massimo Osanna dovrebbe forse quantificare una volta per tutte il reale fabbisogno di Pompei: di quanti custodi, di quanti turni, di quanti straordinari il sito ha bisogno? E di quanti manutentori qualificati (mosaicisti, giardinieri, operai specializzati...)? E di quanti ingegneri, architetti, archeologi? Qual è l’organico giusto perché Pompei funzioni come si deve? Di fronte a ogni sciopero pompeiano l’opinione pubblica si chiede se siamo di fronte a una specie di racket o alla sacrosanta difesa di diritti violati: ebbene, il soprintendente Osanna può rendere immediatamente noti questi numeri, mettendo così le parti (ministero e sindacati) di fronte alla realtà. Una realtà che non dovrebbe più consentire giochi delle parti e scaricabarile. Qualche mese fa il Mibact ha dovuto ammettere di non sapere nemmeno quanti siano i lavoratori precari cui ricorre per tenere aperto il patrimonio italiano : questo è il contesto drammatico in cui valutare il caso macroscopico di Pompei. Ed è per questo che l’esito della prova d’orchestra in corso a Pompei non riguarda solo il patrimonio culturale, ma tutto il Paese.

Corriere 24.6.14
Pochi fondi alla cultura
Un destino di povertà
di Paolo Di Stefano


A un certo punto, nel suo nuovo libro, Senza sapere (Laterza), Giovanni Solimine scrive che si fa fatica a credere ad alcuni dati sulla cultura in Italia. Prendete questo: «Secondo Save the Children, più di 300 mila ragazzi di età inferiore ai 18 anni, residenti nelle regioni meridionali, non hanno mai fatto sport, non sono mai andati al cinema, non hanno mai aperto un libro o acceso un computer». E questi altri: nel 2011 la quota di italiani tra i 25 e i 64 anni con almeno il diploma di scuola secondaria superiore era del 56% rispetto a una media europea del 73,4%; e solo il 15% degli italiani adulti (25-64 anni) ha raggiunto un livello di istruzione universitaria, mentre nei Paesi Ocse il dato medio è più del doppio. Il paradosso dei paradossi è che i laureati italiani, pur essendo pochi, restano disoccupati e devono trasferirsi all’estero per trovare un’attività degna delle loro aspettative (siamo in quartultima posizione nella graduatoria dell’incidenza dell’occupazione culturale). Ovviamente, se il titolo di studio non serve a trovare lavoro, i giovani che si iscrivono in università diminuiscono: nel 2013-2014 gli immatricolati sono stati quasi 68 mila in meno rispetto all’anno accademico 2002-2003. Tralasciamo l’andamento della lettura di libri e giornali, che continua a declinare persino tra i lettori cosiddetti forti. E lasciamo stare anche il fatto che il museo italiano più visitato (gli Uffizi) figura al ventunesimo posto nella classifica mondiale.
Si sarà capito che il libro di Solimine, che insegna Biblioteconomia alla Sapienza ma è un indagatore attento del nostro «mercato» culturale, è una miniera di informazioni, ma è soprattutto un grido d’allarme: «I dati ci descrivono un’Italia priva di conoscenze e di competenze, un Paese “senza sapere”. Siamo talmente ignoranti da non comprendere perfino quanto sia grave e pericoloso il nostro livello di ignoranza, e da non correre ai ripari».
In questo quadro, si può anche fingere ottimismo sul destino dell’Italia, ma intanto i costi dell’ignoranza si traducono in cifre in rosso dell’economia in un Paese il cui livello di istruzione delle élite si rivela del tutto inadeguato allo sviluppo culturale e tecnologico. È ampiamente dimostrato che il benessere individuale e collettivo dipende dal nostro grado di conoscenza e dal nostro sapere, ma se disponiamo di governanti poco istruiti, non dobbiamo meravigliarci che la spesa sulla cultura incida solo per lo 0,6% sulla spesa pubblica ed equivalga a meno dell’1% del Pil (il che ci colloca al trentesimo posto in Europa). Non sarà un caso se gli investimenti nell’istruzione superiore tra il 2008 e il 2012 sono diminuiti del 14%, proprio mentre in Germania, in Svezia e in Norvegia aumentavano di un quinto. Come potrebbero mai dei politici incolti e dunque poco lungimiranti capire l’utilità della cultura e dell’educazione? È normale che le considerino beni superflui e facoltativi, su cui concentrarsi, semmai, in tempi di vacche grasse. Per il momento, meglio incentivare le lotterie e le slot machine .

l’Unità 24.6.14
Yara, perché non basta il Dna a chiudere il caso
di Emanuele Perugini


IL PROCESSO PER L’OMICIDIO DI YARA GAMBIRASIO, CHE POTREBBE AVVIARSI A BREVE, SI STA GIOCANDO TUTTO, O QUASI, SULL’EQUIVOCO del concetto di prova scientifica, quella cioè del Dna. Sarebbe grazie all’acquisizione di questa prova che il ministro degli Interni, Angelino Alfano ha twittato trionfalmente «individuato l’assassino di Yara». Ed è sempre per merito di questa prova che ieri il il procuratore capo della Repubblica di Bergamo, Francesco Dettori, ha annunciato l’avvio in tempi rapidi di un processo a carico di Bosetti. «Credo ha detto Dettori - che andremo presto a un processo. La decisione di richiederlo spetta al pm Ruggeri, ma ritengo di si, che si possa fare il giudizio immediato. Dopo tanti anni, se si riesce ad arrivare a un giudizio dibattimentale il più rapido possibile significa anche dare un giusto conto del funzionamento della macchina della giustizia». Dettori parla senza mezzi termini di «certezza processuale basata su prove scientifiche praticamente prive di errore». Insomma la Procura avrebbe dalla sua la verità scientifica: «La nostra dice Dettori - è una verità scientifica. Allora, crediamo o non crediamo alla scienza?». Per il ministro e per il procuratore capo di Bergamo la prova del Dna sarebbe una sorta di pistola fumante che metterebbe Bosetti con le spalle al muro.
Purtroppo però le cose non stanno esattamente in questi termini e mai come in questo caso, la prova del Dna non può essere considerata come la prova regina capace di risolvere il giallo «al di là di ogni ragionevole dubbio». Altro che smoking gun. I primi a saperlo sono gli uomini che stanno seguendo le indagini sul territorio e che, guidati dal pubblico ministero, Letizia Ruggeri, si guardano bene dal dichiarare il caso «chiuso» e nei giorni scorsi si sono recati presso l’abitazione di Bosetti nella speranza di poter riuscire ad acquisire nuovi e ulteriori elementi di prova.
Anche dal fronte di chi ha svolto quelle analisi e quei test sul Dna che hanno permesso di arrivare alla identificazione di Massimo Giuseppe Bosetti, arriva cautela. «Questa volta, la prova del Dna spiega Emiliano Giardina dell’università di Tor Vergata - è servita per tracciare un’ipotesi che non esisteva e non per confermare i sospetti di un indagato. Il Dna indica delle presenze e non rivela delle responsabilità». Il Dna non è in grado di raccontare la storia di questo omicidio, e con essa definire il quadro delle responsabilità. Di solito, questo test, viene utilizzato a valle di una indagine, per individuare una persona tra quelle che sembrano essere implicate in un reato, ma solo dopo la ricostruzione di un quadro verosimile supportato da altri elementi di prova. Stavolta invece le cose sono andate in maniera diversa. La prova del Dna è la traccia intorno alla quale va ricostruita l’intera vicenda di Yara. Ed è proprio per questo motivo che potrebbe non essere così infallibile. Ora infatti spetta agli inquirenti, ricostruire a ritroso il quadro esatto degli eventi e le responsabilità eventuale degli inquisiti. Senza questo lavoro, sarà difficile costruire un processo.
Per il pubblico ministero, al momento, l’unica cosa certa è che la prova del dna indica con certezza che tra Bosetti e Yara ci sia stato un qualche tipo di contatto. Le tracce di materiale biologico sulle mutandine e sui leggins di Yara sono le sue e ora spetta a Bosetti darne ragione, cosa che per ora non è riuscito a fare. Questo però non vuol dire che lui sia «scientificamente » il killer di Yara. «Non so come spiegarlo » avrebbe detto ai giudici. Paradossalmente potrebbe dire la verità. Per quanto ne sappiamo quella rilevata dagli investigatori potrebbe essere anche una contaminazione accidentale. Al momento e con le prove fino ad oggi emerse e presentate la contaminazione accidentale può essere una spiegazione plausibile tanto quanto lo sono quelle sostenute dall’accusa. Il problema è che infatti, da quelle analisi non si riesce a capire niente altro. Per esempio, ed è un particolare di non poco conto, non sappiamo con assoluta certezza quale sia il materiale biologico da cui è stato estratto il Dna rilevato sui leggins di Yara, se cioè si tratta di sangue come si presume - o di saliva o di altri liquidi corporei. La prova del Dna poi non ci dice nemmeno quando c’è stato quel contatto (prima o dopo l’omicidio?) e nemmeno dove sia avvenuto (sul prato dove è stata trovata Yara? Fuori dalla palestra? Per strada?). Senza contare che ancora non si è capito il movente di questo omicidio e nemmeno si è trovata l’arma del delitto.
In altri termini, sono ancora troppi i tasselli che mancano in questa storia per poter definire con maggiore chiarezza, il quadro delle responsabilità delle persone coinvolte. Troppi per proclamare Urbi et Orbi di aver chiuso le indagini e di avere già assicurato alla giustizia un assassino.

il Fatto 24.6.14
Non solo Sting, quei ricchi che lasciano figli poveri
Gli eredi del cantante non toccheranno i suoi 180 milioni di sterline
E negli USA Bill Gates e suo padre si battono per la tassa di successione
Lo psicoanalista Luigi Zoia
“Sono d’accordo, devono farcela soli”
di C. D. F.


L’aneddoto è rispuntato fuori ieri, dopo che il cantante inglese Sting ha reso noto di non aver lasciato nulla in eredità ai suoi sei figli. Raccontano le cronache finanziarie che Susan Alice Buffett, figlia del finanziere americano Warren - 44 miliardi di dollari di patrimonio - si sia sentita chiedere un assegno a garanzia di un prestito di 20 dollari chiesto al padre. Ma la leggendaria tirchieria di Buffet non basta a spiegare l’accaduto. C’è un motivo se nessuno conosce i nomi dei figli dei più grandi miliardari americani: molti di loro non erediteranno l’impero del padre. Da Buffett, a Bill Gates, al finanziere greco George Soros, il club dei super ricchi che ha deciso di dare tutto in beneficenza, lasciando solo gli spiccioli agli eredi, conta 57 membri.
Nel saggio “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, Max Weber, indicò la nascita del capitalismo moderno nell’affermarsi della dottrina calvinista. Un’idea religiosa con effetti civili rivoluzionari: Dio premia i suoi prescelti concedendo loro la ricchezza terrena. Il valore personale sta in ciò che si guadagna, non c’è alcun dovere di lasciarla agli eredi, anzi va restituito alla società. Il mondo protestante anglosassone, soprattutto quello puritano statunitense ha fatto propria la lezione. Nel 2001 William H. Gates Senior, padre del fondatore di Microsoft Bill - 77 miliardi di dollari di patrimonio - scrisse un fondo per il settimanale americano di sinistra The Nation contro la proposta, avanzata dal presidente degli Stati Uniti George W. Bush, di abolire la tassa di successione.
PER GATES PADRE, si trattava di una scelta scellerata: “Sarebbe come se volessimo far correre le Olimpiadi del 2020 ai figli di coloro che le vinsero nel 2000 - scriveva - significa sottrarre risorse alla comunità, impigrendo le generazioni senza stimolarle a fare meglio dei genitori”. Il messaggio era chiaro: se basta arricchirsi alle spalle dei genitori, si torna al mondo feudale. Un meccanismo che per l’economista francese Thomas Piketty è la naturale evoluzione del capitalismo: un mondo dove nessuna formazione e competenza può fare meglio di un buon matrimonio. La tassa di successione, anche sulle grandi fortune, fu abolita dall’allora presidente Bush. È toccato a Barack Obama reintrodurla nel 2006, sotto pressione del club dei ricchi, che nell’agosto del 2010 ha firmato un impegno a devolvere metà del patrimonio complessivo in beneficenza. L’appello, intitolato "L’impegno a dare", è stato firmato da 34 nomi di spicco del Gotha del capitalismo americano , quasi tutti straricchi di prima generazione.
L’APPELLO e le firme sono la testimonianza di un aspetto peculiare del capitalismo americano, dove la beneficenza è una costante che accompagna il successo. Due anni fa Buffet e Soros hanno chiesto al presidente Obama un riduzione delle esenzioni per la tassa di successione e l’innalzamento dell’aliquota. Tutto per ridurre il deficit e finanziare i servizi chiave. Nel 2001, mentre anche il presidente uscente democratico Bill Clinton - che aveva addirittura posto il veto su una legge approvata dal Senato nella quale si prevedeva la cancellazione di quella tassa - chiedeva a Bush un ripensamento, il secondo governo Berlusconi, appena insediato, cancellava “la tassa più odiata dagli italiani”. A fine 2000, quando i sondaggi già davano in vantaggio lo schieramento del centrodestra, Giuliano Amato provò a giocare d’anticipo approvando una legge collegata alla Finanziaria, che esentava dal pagamento dell’imposta gli eredi in linea retta. La marcia indietro è arrivata solo nel 2006 con Romano Prodi. “Sarà un’iniziativa più che altro simbolica”, spiegò il leader dell'Unione. E così è stato. Prima della sua abolizione, nel 2001, il gettito non superava i 1.000 miliardi di lire, circa 500 milioni di euro. Non lontano da quello attuale.

il Fatto 24.6.14
L’imprenditore Oscar Farinetti
“Io li ho messi tutti in azienda”
di C. D. F.


L’ossessione di obbligare i figli a guadagnarsi tutto senza aiuti non mi appartiene”. Oscar Farinetti, fondatore e patron di Eataly, non condivide il gesto di Sting. Da qualche anno ha lasciato formalmente la guida del colosso del cibo made in Italy ai figli Francesco e Nicola (il terzo figlio, Andrea, segue le aziende produttive). “Per quanto la scelta del cantante inglese sia comprensibile è il frutto di alcuni valori che non riconosco come miei”.
È per questo che i suoi figli sono al vertice dell’azienda?
Nel mio caso è diverso: loro se le sono guadagnate. Hanno lavorato per la nascita e lo sviluppo di Eataly molto più di quanto abbia fatto io. Da questo punto di vista la mia scelta aveva un senso anche dal punto di vista imprenditoriale: i miei figli sono molto più bravi di me.
E se non fosse stato così, gli avrebbe lasciato comunque tutto in eredità?
Io non ho un grosso patrimonio liquido. Tutto quello che ho guadagnato l’ho reinvestito nelle mie aziende, che sono la mia principale eredità. Ma di certo, se anche non avessero manifestato l’intenzione di seguire le orme paterne, non li lascerei senza un aiuto importante.
Quindi un po’ sarebbero stati avvantaggiati.
Certo, la considero una scelta giusta. I padri devono volere più bene ai figli che alla società, non devono compromettere il rapporto con loro solo per rispettare un dogma. Il più grande fallimento dei padri è litigare e non parlarsi più con i propri figli. Questo conta più di ogni altra cosa. Le aziende spettano di diritto a loro, anche se devono guadagnarsele. Se così non fosse bisogna dargli comunque la possibilità di trovare la propria strada. Non condivido a pieno il gesto di Sting, anche se la filosofia di fondo è condivisibile.
Quale?
Il principio che si debba sempre evitare che i ricchi siano più avvantaggiati degli altri. E questo vale soprattutto per i figli.
Con l’eredità, però, è inevitabile.
Si, ma ci sono modi di ridimensionarla, facendo in modo anche di redistribuire la ricchezza.
Ad esempio?
La tassa di successione. C’è in tutto il mondo ed è uno strumento di giustizia sociale. Non capisco perché la sinistra non ne parli più e quasi se ne vergogni. Prodi ha fatto bene a reintrodurla, purtroppo oggi è ancora troppo bassa, bisognerebbe alzare le aliquote e abbassare la soglia base.

La Stampa 24.6.14
Le Pen flop, niente gruppo euroscettico
La leader del Front National non è riuscita a convincere i partiti di 7 diversi paesi

qui

Repubblica 24.6.14
Il bavaglio di Putin
Dopo l’annessione della Crimea, Zar Vladimir gode in Russia di una popolarità e di un potere mai avuti
Lui ne approfitta per lanciare leggi sempre più liberticide
di Nicola Lombardozzi


MOSCA. Putin ti sorride in camicia hawayana sorseggiando un cocktail su una spiaggia della Crimea riconquistata. Oppure ti guarda torvo in smoking mentre impugna una pistola con posa plastica alla James Bond. Niente a che vedere con l’aria ispirata di Lenin e delle sue statue che ancora popolano Mosca e quasi tutto il resto del Paese, con i loro pugni chiusi protesi verso il cielo e il profilo fieramente rivolto verso un radioso futuro. E’ questo un culto delle personalità riveduto e corretto, strisciante quasi. Ideato e gestito da uno scrupoloso ufficio marketing incaricato di proiettare sempre più in alto la figura del leader ma «in modo moderno e senza darlo troppo a vedere». Sarà per questo che i celebri grandi magazzini Gum sulla piazza Rossa hanno rivissuto in questi giorni l’antico clima delle infinite code sovietiche per la vendita delle vezzose t-shirt con l’immagine del Presidente in tutte le versioni possibili: pompiere, pilota, cavallerizzo. Anche spia certo, ma ovviamente “buona”.
E sarà sempre per questo che le stesse magliette le vedi indossate sulla passeggiata dell’Arbat un po’ da chiunque: griffatissime ragazze sui tacchi a spillo, anziani nostalgici con una rara copia della Pravda sotto al braccio, perfino da quegli stessi studenti che si vedevano esagitati a tutte le manifestazioni di protesta di qualche anno fa quando davvero sembrava che una forma di rudimentale opposizione stesse per nascere. «Non è che abbiamo cambiato idea. - ti dicono con un certo imbarazzo - Ma la cosa va presa con una certa ironia e poi bisogna ammettere che a molti dà un certo senso di protezione».
Protezione è forse la parola chiave di questa ondata di popolarità che ormai supera l’80 percento e che sta consentendo a Vladimir Putin un potere mai goduto in vent’anni di carriera da leader. La Duma continua a sfornare nuove leggi sempre più liberticide, contro i gay, contro i dissidenti, i giornalisti informati, gli scrittori fuori dalle righe. L’eco del diritto, e perfino del lessico, sovietico diventa sempre più forte. Ma lo scandalo non c’è. Perfino quelli che Putin definì i “criceti del computer”, i blogger irriverenti e sarcastici che popolano il web russo, sono quasi muti. Alcuni come Aleksej Navalnyj, bloccati dagli arresti domiciliari e da altre intimidazioni poliziesche; altri, preoccupati dalla segretezza di internet che non è più sicura dopo le nuove censorie proposte di legge e la fuga negli Usa del giovane fondatore del Facebook russo ( Vkontakte) che provava a difenderla; altri ancora, sinceramente convinti del momento di accerchiamento che la Russia starebbe vivendo.
Perché quello che l’Occidente non ha visto nei giorni della rivoluzione ucraina, della annessione della Crimea e in queste ore di tragica guerra civile nell’Ucraina orientale, è quello che accaduto da questa parte della barricata. Ogni mossa, ogni piccola notizia, ogni grossolano errore da parte di Kiev e dei suoi nuovi alleati, sono stati abilmente trasformati da giornali e tv in una minaccia vera e propria alla Russia e ai suoi sacri valori. Cosa che all’inizio ha esaltato gli animi più predisposti come quello del filosofo nazional bolscevico Aleksandr Dughin o come lo scrittore sovietico Aleksandr Prokhanov. E che via via è arrivata nel profondo dell’opinione pubblica russa, offesa dalle sanzioni americane, dall’informazione spesso parziale dei media internazionali sulla rivolta dei fratelli russi d’Ucraina, e soprattutto eternamente rammaricata dall’essere dipinta sempre e soltanto come la parte cattiva.
Ma a questo nazionalismo d’impeto e all’inevitabile rigurgito di teatrale patriottismo, Putin ha saputo aggiungere l’elemento fondamentale per completare l’opera di normalizzazione del Paese: la paura dei traditori. Fiutando gli umori preoccupati ha lanciato già nel suo storico discorso per l’annessione della Crimea il seme del sospetto: «Una Quinta colonna è tra noi per distruggere la Russia». Allusione a tutti gli oppositori, ai non allineati, ai contestatori, condita da una gaffe inquietante. Come chiamarli, si è chiesto se non «nemici del popolo »? Ma il riferimento a Stalin avrebbe potuto portare critiche fuori luogo, per questo ha chiesto ai suoi speechwriter di trovargli un sinonimo. E quelli gli hanno proposto “nazionaltraditori”.
Scelta infelice perché presa pari pari dal Mein Kampf di Adolf Hitler. Ma in fondo ha scandalizzato solo pochi intellettuali. E’ andata benissimo invece ai nascisti, del movimento giovanile filo Putin che due mesi fa hanno appeso su una via del centro la scritta “nazionaltraditori” sotto a sei gigantografie di noti oppositori: il solito Navalnyj, l’ex premier Nemtsov, perfino il cantante gorbacioviano Andrej Makarevich solista del gruppo rock Mashina Vremeni (la macchina del tempo) cautamente critico con Putin e i suoi.
E la caccia ai nemici del popolo continua con zelante impegno dello staff di Putin e dei suoi entusiasti collaboratori. Una nuova mostra intitolata “I demoni di Mosca” espone le foto livide e con giochi di luce che rendono i volti mostruosi, di personaggi apparsi solo leggermente controcorrente, musicisti, scrittori, poeti, ambientalisti.
Alcuni siti di informazione legati al Cremlino stilano le liste dei media potenziali nazional traditori. Una classifica in ordine di pericolosità l’ha appena fatta “Politonline”: in testa c’è Radio Eco di Mosca che adesso ha subito un blitz proprietario, è finita sotto il controllo di Gazprom. La seconda è Tele Dozhd (telepioggia) piccola tv via cavo, divenuta importante quando ha trasmesso, unica tv in Russia, le manifestazioni anti Putin del 2013. Adesso è stata sfrattata dai locali sul lungofiume, abbandonata dalle compagnie che la trasmettevano e sull’orlo del fallimento. La terza, non poteva mancare, e Novaja Gazeta, il giornale della Politkvoskaja che ancora continua a chiedere perché non si cerchi il mandante dell’omicidio della propria giornalista.
E mentre si vara l’equiparazione dei semplici blog a testata giornalistica per chiudere le ultime bocche contrarie, si sfornano leggi e proposte di legge senza pudore. Equiparare i giornalisti ai pubblici ufficiali «per aumentarne il senso di responsabilità verso lo Stato. Aumentare le pene per gli “agenti stranieri”, cioè le ong che riscuotono finanziamenti dall’estero a cominciare dalla gloriosa Memorial, passando per l’istituto di sondaggi Levada center e minacciando perfino Wwf e Greenpeace. Riportare la tecnica militare come materia all’Università e le sedute di indottrinamento ideologico care a Stalin nelle forze armate. Lanciare un testo unico di Storia per le scuole approvato personalmente da Putin che continua da un anno a correggere bozze senza aver ancora trovato il modo giusto di raccontare il passato ai giovani russi. Fino alla soluzione finale: la “legge patriottica” che spedisca in galera chiunque contraddica, a discrezione del giudice, i valori della Patria nell’arte, nel cinema, nella letteratura. Putin interviene il meno possibile, lascia fare ai più scatenati fedelissimi del partito. Continua a ripetere che la libertà non è in discussione e che bisogna solo difendersi dagli attacchi esterni e interni. E sorride compiaciuto da migliaia di magliette colorate.

Repubblica 24.6.14
La nuova ideologia nazionalista che chiude le porte all’Europa
di Viktor Erofeev



I MIEI amici non russi mi chiedono sempre più spesso perché non emigro. Pessimo segno. Io rispondo che vivo nella mia Russia, nel paese di Kandinskij, Pasternak, Shostakovic e Sakharov. Ma loro scuotono la testa. Sakharov? E chi se lo ricorda più, Sakaharov! Il nome che mi fanno è un altro: Stalin.
Di recente Putin ha deciso di fare un bel dispetto ai suoi detrattori occidentali, che per qualche strano motivo ce l’hanno con lui per l’ormai famosa penisola di Crimea e per la guerra al confine orientale dell’Ucraina. E ha proposto un referendum: perché non restituiamo a Volgograd il suo vero nome? Perché non la chiamiamo di nuovo Stalingrado?
Non c’è dubbio che se Putin vuole Stalingrado, Stalingrado tornerà sulle carte geografiche. Metà paese esulterà: per loro Stalin è l’eroe che ha costretto il mondo intero a temere la Russia. L’altra metà - la classe media in genere, l’ intelligencija, chi può contare su una certa istruzione - si spaventerà a morte.
A esultare più di chiunque altro, tuttavia, saranno le infinite schiere dei siloviki che circondano Putin - gli uomini della sicurezza statale e delle forze dell’ordine piazzati nei posti-chiave nel governo. La famiglia dei nuovi falchi per cui i valori liberali europei sono un virus dal quale la Russia va preservata.
È una nuova guerra fredda fra valori antagonisti che però, al confine orientale ucraino, è ormai una guerra, una carneficina vera e propria. Dove sta la differenza col passato? Ricordate James Joyce? «Mi dicono di andare a morire per l’Irlanda, e io rispondo: «Che sia l’Irlanda a morire per me»». A suo tempo questa frase scioccò buona parte dell’Europa, ora invece la maggioranza degli europei la farebbe sua: non è il singolo che si immola allo Stato, ma lo Stato al singolo.
In Russia è l’inverso. Il potere attuale dà sempre maggior risalto allo Stato così che la popolazione gli si sottometta. A questo mira la nuova ideologia nazionalista di Putin, intesa a far sì che la Russia dia le spalle all’Europa e guardi a Est, che si lasci stringere fra le braccia accoglienti della Cina. La Duma - come scherzano amaramente i liberali ormai zittiti - è come una stampante impazzita che sforna una legge ultrapatriottica dopo l’altra. Se i falchi festeggiano, i liberali si sono zittiti. L’entusiasmo per la Crimea annessa militarmente alla Russia è condiviso da non meno del 90% della popolazione, dunque anche da molti di coloro che due anni fa erano scesi a protestare in piazza Bolotnaja.
Siamo, dunque, a una nuova stagnazione, a un ristagno ideologico simile a quello degli ultimi anni dell’Urss. E il tentativo di Gorbaciov e Eltsin (lo Eltsin dei primi anni) di seguire l’esempio di Pietro il Grande e di far guardare la Russia all’Europa si chiude con Volgograd che tornerà a chiamarsi Stalingrado.
Nella misura attuale, le sanzioni che l’Occidente impone alla Russia fanno il gioco del regime di Putin, che le usa abilmente (e agilmente) per spiegare le difficoltà economiche del paese: è l’Occidente - perfido e vile - il vero responsabile.
Come ogni volta, la nuova stagnazione durerà fino a che durerà il potere individuale. I falchi, però, si moltiplicano furiosamente, persino fra le giovani generazioni. E le colombe o volano via, o ci lasciano le penne. Né si vedono cambiamenti, all’orizzonte.
È questa, la stagnazione à la russe.

l’Unità 24.6.14
Raid israeliani sulla Siria. Dieci vittime
Assad protesta


Almeno dieci soldati siriani sono stati uccisi nei raid aerei di Israele, lanciati in risposta all'attacco di domenica sulle alture del Golan in cui era rimasto ucciso un quindicenne israeliano. L'attacco di domenica ha segnato il più grave incidente lungo la linea del cessate il fuoco con la Siria dalla guerra del 1973. Israele ha agito con «grande forza» contro obiettivi in Siria e «se necessario» userà una forza aggiuntiva. Questo l’avvertimento del primo ministro Benjamin Netanyahu in un discorso ai membri del suo partito, il Likud, alcune ore dopo i raid aerei lanciati dall'esercito dello Stato ebraico contro strutture militari in Siria. Israele, ha affermato Netanyahu, continuerà a «colpire energicamente » chiunque cerchi di attaccare il Paese. «L'attacco di ieri (domenica, ndr) è stato un atto ingiustificato di aggressione contro Israele, e una continuazione diretta di recenti attacchi che sono avvenuti nella zona », gli ha fatto eco il portavoce di Tzahal, Peter Lerner. L’esercito, ha aggiunto, «non tollererà alcun tentativo di violare la sovranità di Israele e agirà per proteggere i civili dello Stato di Israele». Non è stato immediatamente chiaro se siano stati i soldati siriani a compiere l'attacco sulle alture del Golan, o uno dei gruppi ribelli che si battono contro il governo di Bashar al-Assad. Israele ha ripetutamente affermato che ritiene il governo siriano responsabile di tutti gli attacchi che provengono dal suo territorio, a prescindere da chi lo abbia effettuato. Per la radio israeliana si è trattato di postazioni e centro di comando della 90ma divisione siriana, responsabile delle operazioni nel settore del Golan da dove domenica è partito il colpo che ha centrato l’auto di un contractor del ministero della Difesa, uccidendo sul colpo il figlio di 15 anni Muhammad Karaka e ferendo altre 5 persone.
Immediata la risposta di Damasco. La Siria ha condannato fermamente «la flagrante violazione» del suo territorio da parte di Israele in due lettere inviate dal ministero degli Esteri all'Onu e al Consiglio di sicurezza. «Le forze di occupazione israeliane hanno compiuto ieri (domenica, ndr) e oggi (ieri, ndr) una nuova aggressione contro delle postazioni all'interno del territorio siriano, cosa che costituisce una nuova flagrante violazione dell’Accordo di separazione delle forze del 1974, della Carta dell'Onu e del diritto internazionale », scrive il ministero di Damasco.

Corriere 24.6.14
I raid in Siria: tre fronti aperti per Israele
di Davide Frattini


I raid in Siria: tre fronti aperti per Israele di DAVIDE FRATTINI Un mese fa il Medio Oriente sembrava un posto diverso. Almeno — ricordano gli analisti israeliani — al governo che litigava di tagli alle spese militari con il parlamento e pure con qualcuno dei suoi ministri. La calma apparente rafforzava i sostenitori di una riduzione del budget per l’esercito, i generali sembravano in ritirata.
Sono bastati trenta giorni e lo Stato ebraico deve affrontare tre fronti allo stesso momento. Non che prima fossero tranquilli, piuttosto sopiti o lontani dall’attenzione. Il rapimento in Cisgiordania di tre ragazzi, le ricerche senza sosta, gli scontri con i palestinesi. Il rischio che i fondamentalisti di Hamas rispondano intensificando i lanci di missili dalla Striscia di Gaza. Il razzo che domenica ha ucciso un giovane arabo israeliano al confine con la Siria e la reazione dell’aviazione (nove obiettivi bersagliati, le basi di Bashar Assad bombardate, dieci soldati siriani morti).
Nord, Centro, Sud. La televisione del regime di Damasco ha aspettato ore prima di ammettere che i jet israeliani avevano colpito, il ministero degli Esteri ha minacciato rappresaglie con enfasi ma senza entusiasmo. Bashar è impegnato in altre battaglie, in una guerra per la sopravvivenza, non può permettersi un conflitto più ampio. Anche gli sciiti di Hezbollah — che dal Libano appoggiano militarmente il clan del leader siriano — sono più preoccupati dall’avanzata degli estremisti sunniti nel Levante che dal cercare un altro scontro con Tsahal.
Così la tempesta più minacciosa rischia di arrivare dal fronte palestinese. I colloqui di pace saltati, il sequestro, il ritorno delle incursioni notturne e degli arresti in Cisgiordania. Le vittime collaterali potrebbero diventare l’Autorità di Ramallah e il suo simbolo Abu Mazen. Che ha deplorato il rapimento e ha promesso di cooperare con il governo di Benjamin Netanyahu. Non ha condannato con lo stesso impeto — lo accusano Hamas e i ragazzi che sono tornati in strada a battagliare con gli israeliani — le quattro vittime palestinesi dei raid.
La sinistra (e non solo) avverte Netanyahu. Il presidente è considerato un interlocutore, il leader che può sfatare il pessimismo del «non c’è nessuno con il quale dialogare», alimentato dal doppio linguaggio di Yasser Arafat ai tempi delle trattative: se Abu Mazen crolla, resta la violenza

Repubblica 24.6.14
“Israele rischia una Terza Intifada”
Il Paese spaccato sulle operazioni per trovare i tre ragazzi rapiti
Undici Ong: “Per i palestinesi punizione collettiva”
di Fabio Scuto


GERUSALEMME. L’Operazione “Brother’s Keeper” che da 12 giorni ha messo in stato d’assedio la gran parte dei Territori palestinesi nella ricerca dei tre seminaristi scomparsi a Hebron, sta per cambiare volto. Quasi cinquecento arresti, 6 morti, 118 feriti, più di quattrocento raid militari in uffici privati e pubblici, stazioni radio e tv, giornali, sedi di Ong, ma anche case, negozi, magazzini, aule d’università. Un’intera città, Hebron, è stata dichiarata “zona militare chiusa”: non si entra e non si esce da quasi due settimane. Questa atmosfera e queste cifre non si vedevano da anni. La tensione è altissima, non passa giorno senza violenti scontri fra giovani palestinesi e soldati israeliani: sono rispuntate fuori le kefieh e le frombole per lanciare le pietre. A suggerire un cambio di passo nelle operazioni militari, che dalla zona del rapimento si sono allargate a macchia d’olio in tutta la Cisgiordania, i servizi segreti israeliani e i generali dell’Idf preoccupati per l’aumento del numero delle vittime palestinesi e la possibilità che gli scontri vadano avanti fino all’inizio del Ramadan – mese sacro per i musulmani e sempre carico di tensioni – che inizia tra meno di settimana. Ma anche il crescere nell’opinione pubblica israeliana delle preoccupazioni per i possibili esiti drammatici a questa escalation.
Undici organizzazioni umanitarie hanno scritto una lettera aperta al ministro della Difesa e degli Interni israeliani chiedendo loro di «astenersi dal punire collettivamente » la popolazione palestinese nell’ambito dell’Operazione Brother’s Keeper. Nella lettera – firmata fra gli altri da B’Tselem, Rabbini per i Diritti Umani, l’Associazione per i Diritti civili in Israele, Amnesty International – si sottolinea la «necessità di riportare i giovani israeliani alle loro famiglie» ma anche il timore che «molte delle azioni intraprese dall’esercito danneggino la popolazione palestinese e non siano necessarie allo scopo». Avraham Burg, ex presidente della Knesset e dell’Agenzia Ebraica, ha scritto su Haaretz criticando il dilagare di queste operazioni e avvertendo che «la sofferenza genera sempre resistenza». Ancora più chiaro il generale Israel Ziv – ex capo delle operazioni speciali dell’Esercito – che dice: «Operazioni militari di questo tipo alla vigilia del Ramadan, senza un vero coordinamento con Abu Mazen, rischiano di innescare la Terza Intifada».
Di opinione opposta il vice ministro della Difesa Danny Danon (Likud) invece favorevole ad «un’operazione di ampio respiro contro tutta la popolazione civile: tagliare l’elettricità a tutta la Cisgiordania per qualche giorno servirebbe a focalizzare l’attenzione sui ragazzi rapiti ».
L’aria nella Muqata è tempi peggiori. Il presidente Abu Mazen, che ha condannato da subito il rapimento e ordinato alle forze palestinesi di collaborare alle indagini, sta pagando il prezzo di questa collaborazione. «Il rapimento è un gesto criminale, ma gli israeliani lo stanno sfruttando per metterci in ginocchio », dice il presidente palestinese; ma questo non basta a calmare la piazza. Se le manifestazioni contro Abu Mazen sono represse sul nascere dalla polizia palestinese, sui social network frequentati dai ragazzi dei Territori l’epiteto migliore è “traditore”. Abu Mazen ha deciso di ricorrere al Consiglio di Sicurezza per un vertice straordinario che condanni gli eccessi contro la popolazione palestinese nell’ambito delle ricerche dei tre ragazzi scomparsi. All’Onu si rivolgeranno anche le tre mamme di Gilad, Eyal e Naftali. Andranno a Ginevra per intervenire di fronte al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite chiedendo alla comunità internazionale di intervenire per favorire il rilascio dei ragazzi.

Corriere 24.6.14
Islam politico, corsa alle armi
Il disordine che ignoriamo
di Franco Venturini


È perfettamente comprensibile che le nostre priorità siano la politica interna, la congiuntura economica, l’Europa, insomma tutto quel che ci tocca direttamente. Ma in questa logica selezione d’interessi, che non è soltanto italiana, rischiamo di non accorgerci che nel mondo esterno la classifica sta cambiando con una velocità mai vista dopo la fine della Guerra fredda. Si diffonde ovunque un disordine sempre più pericoloso anche per noi, torna alla ribalta il tema della guerra e della pace che credevamo sepolto sotto le macerie del Muro di Berlino, le aree più instabili del mondo si armano fino ai denti con sommo disprezzo dei buoni propositi sottoscritti all’Onu. E allora diventa opportuno allungare lo sguardo.
Cominciamo da vicino casa. Sul caos libico il Corriere ha da tempo lanciato l’allarme, e gli avvenimenti continuano a dargli ragione. La diplomazia appare impotente davanti alle milizie e ai loro ricatti energetici, alla guerra civile strisciante, alle masse di profughi provenienti da altre crisi che dalle coste libiche partono nella speranza di raggiungere l’Italia. Quanto potrà durare? E poi ci sono i depositi di armi dell’era Gheddafi: lì si riforniscono combattenti d’ogni dove, qaedisti del Sahel, massacratori delle guerre africane, contendenti siriani, terroristi ben finanziati e fanatici islamisti dell’Isis (sigla per «Stato islamico dell’Iraq e del Levante») che sta mettendo a soqquadro l’Iraq.
A ben vedere è proprio l’Isis il simbolo più rivelatore dei nuovi tempi. Sunniti come tutti i qaedisti ma scomunicati dalla vecchia Al Qaeda per eccesso di crudeltà (e ce ne vuole...), gli uomini dell’Isis vogliono ridisegnare quei confini che britannici e francesi imposero quasi un secolo fa con la ben nota lungimiranza delle potenze coloniali. Non soltanto per far nascere il loro Califfato, ma per affermare una dinamica eversiva e rigidamente settaria che è già la regola nella Siria che gronda sangue, che allarma già gli sciiti iraniani e ottiene invece una tacita comprensione dai sunniti sauditi. Davvero crediamo che la grande guerra inter-islamica non ci riguardi, e non riguardi il prezzo o le forniture di greggio? Che la mattanza siriana possa continuare a piacimento, che non possano saltare all’improvviso il Libano e la Giordania, che domani in Afghanistan non possa andare come oggi in Iraq, magari trascinando nella mischia anche il Pakistan e la sua atomica? E le molte centinaia, forse le migliaia di giovani europei che vanno a combattere con l’Isis e poi rientrano nei nostri tranquilli rifugi europei addestrati e fanatizzati, anonimi fino a quando decideranno di colpire?
In Asia è tutto più chiaro. La Cina superpotenza economica investe nella marina per controllare il Mar Cinese meridionale alla faccia degli americani, il Giappone si appresta a reagire, gli Stati Uniti lo fanno già. Qui gli stanziamenti militari sono ufficiali, ma non per questo inquietano di meno. E sulla marina punta anche la Russia (settecento miliardi di dollari nei prossimi vent’anni), il che aiuta forse a capire il ratto della Crimea con il porto di Sebastopoli. Eccoci tornati vicino casa. In Ucraina si spara ancora, ma l’unica cosa sicura sembra essere che servirà un riarmo dell’esercito di Kiev.
Il mondo ha il dito sul grilletto. Il multipolarismo che abbiamo voluto è diventato disordine multipolare con esplosioni regionali. Ma la violenza si muove, e proprio come l’Isis non conosce confini. Forse dovremmo aggiornare le nostre priorità, e anche le nostre politiche.

Corriere 24.6.14
Donne a casa, cristiani tassati: il codice del Califfato
Le 16 regole diffuse dai jihadisti a Mosul «E’ ora di accettare il nuovo ordine»
di Lorenzo Cremonesi


BAGDAD — Donne relegate in casa, cristiani costretti a pagare una tassa minima di 250 dollari mensili, tagli delle mani per i ladri, pena di morte per chi rinnega l’Islam: così i gruppi più radicali del fronte sunnita lanciato alla conquista dell’Iraq fanno rivivere l’utopia teocratica del «Califfato». Sino a qualche giorno fa le voci che in particolare i militanti dello «Stato Islamico dell’Iraq e del Levante» avessero diffuso per le strade della provincia di Ninive e nella città di Mosul (da loro presa il 9 giugno) un «codice di condotta» articolato in 16 punti, e modellato sulla loro interpretazione radicale della legge islamica, appariva più propaganda che realtà. Se è vero che in guerra la prima vittima è in genere la verità, allora occorre stare molto attenti a rilanciare la gigantesca mole di notizie incontrollate riguardanti Iraq e Siria che arrivano da ogni dove, moltiplicate dai social network nell’era di internet.
Ma con il passare del tempo la storia del «Contratto con la Città», come pare abbiano chiamato il documento, sta assumendo consistenza. E i suoi contenuti fanno paura. «Anche noi all’inizio lo abbiamo preso con le pinze. Eppure l’islamizzazione forzata in nome del Califfato è ormai una realtà. E proprio per questo stiamo cercando di fare uscire da Mosul gli ultimi circa 500 cristiani», ci diceva ieri pomeriggio presso il patriarcato caldeo di Bagdad il 35enne padre Tahir Essa. «Il problema più grave che registriamo nelle zone perdute dal governo centrale è che sono adesso occupate da una pletora di gruppi e milizie molto differenti tra loro. Se si è sotto il controllo dei baathisti e delle tribù sunnite locali, non va male. Ma se invece arrivano le brigate straniere dei volontari della jihad allora è una catastrofe. Almeno due chiese di Mosul sono state derubate e vandalizzate. I radicali più cattivi arrivano da Arabia Saudita, Yemen, Cecenia, Afghanistan e si danno alla furia iconoclasta, abbattono statue e sfregiano i quadri dove appare il volto umano. Hanno già detto che distruggeranno le croci sui campanili, elimineranno ogni simbolo pubblico del cristianesimo, come i Talebani in Afghanistan», aggiunge. Tra i sedici punti si leggono la proibizione al politeismo, dell’apostasia dell’Islam, l’obbligo per gli ex poliziotti e militari del governo di Nouri al Maliki di fare una dichiarazione di pentimento pubblica, il dovere per i musulmani di recitare le preghiere alle ore comandate, le amputazioni per i ladri, la crocifissione per i delitti più gravi, il divieto del consumo di droghe, alcool e tabacco. Per le donne le indicazioni sono precise: «Devono restare in casa, uscire solo se necessario, il loro ruolo è provvedere alla stabilità del focolare».
Padre Essa sostiene che per i cristiani la situazione è nettamente peggiorata negli ultimi tre o quattro giorni. Da quando cioè i gruppi radicali hanno rispolverato l’antica formula dei «dihimmi» (come venivano definiti una volta ebrei e cristiani nelle terre dell’Islam) e come tali costretti a pagare la «jizyah», la tassa tradizionalmente imposta ai non musulmani. «La jizyah ha rappresentato la classica goccia che fa traboccare il vaso. Come minimo chiedono 250 dollari per ogni adulto. Una cifra impossibile, specie se si tiene conto che il salario medio supera di poco i 500 dollari, ma soprattutto che oggi nessuno lavora. Come possono pagarla!», esclama. La alternative? La conversione o l’espulsione. Chi resiste rischia di vedersi requisire ogni proprietà. I capi delle comunità cristiane di Bagdad tengono ora canali di comunicazione aperti con i correligionari rimasti nelle terre della guerra e dei tentativi di Califfato. Dalla zona di Abu Ghraib, una ventina di chilometri a ovest della capitale ora i mano alla rivoluzione sunnita, hanno fatto fuggire una quarantina di famiglie. Ma gli spostamenti stanno diventando sempre più difficili. Attorno a Mosul si combatte ancora. E soprattutto appare sempre più evidente il piano sunnita di circondare completamente la capitale. Ieri si sono registrati attacchi sanguinosi anche sulle strade che da Bagdad vanno verso il meridione sciita. La determinazione delle brigate sunnite resta granitica. Recitano nelle ultime righe del loro «Contratto» rivolgendosi alla popolazione irachena: «Avete provato tutti i sistemi di governo laici — monarchia, repubblica, baathismo, Saddam Hussein — e ne siete rimasti vittime: è arrivata l’ora di accettare il Califfato islamico».

La Stampa 24.6.14
Hong Kong,referendum contro Pechino
“Vogliamo più democrazia”
Boom di affluenza alla consultazione non ufficiale organizzata da Occupy Central nella ex colonia britannica per farsi sentire dalle autorità centrali
Rabbia a Pechino: “Tutto nullo e illegale”
di Ilaria Maria Sala

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Repubblica 24.6.14
Se gli psichiatri si rimettono il camice bianco
Il rischio è che i medici tornino ad avere un mandato solo tecnico come accadeva prima di Basaglia
di Pier Aldo Rovati


Dove sta andando la psichiatria è una domanda ricorrente: essa risuona nei luoghi deputati (se ne è anche discusso di recente a Roma in un convegno sul Centenario del Santa Maria della Pietà), ma rimbalza a tutti i livelli, dalla politica al territorio diffuso del disagio mentale. La psichiatria (quella ufficiale) sta andando avanti oppure – in un modo più o meno esplicito – sta tornando indietro? Avanti o indietro rispetto a che cosa?
A quest’ultimo interrogativo è facile dare una risposta perché il giro di boa è avvenuto nel 1978 con la legge Basaglia (la “180”) che chiudeva i manicomi e restituiva agli ex internati quei diritti che erano già scritti, nero su bianco, nella nostra Costituzione. Un punto fermo, dunque? Non precisamente ed è proprio su questo che si è scatenata la battaglia che arriva fino a oggi. Per averne una conferma, basta solo ripercorrere l’acceso dibattito che ha preceduto e accompagnato (anche in Parlamento) il decreto approvato a fine maggio, con il quale si è spostata di un anno la chiusura definitiva degli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) che ancora sopravvivono in Italia, nonostante tutto. In tale decreto sono stati introdotti decisi miglioramenti con l’obiettivo di evitare la riproduzione di molti piccoli manicomi criminali, di costruire percorsi di cura personalizzati nel territorio e di valorizzare il più possibile i Dipartimenti di salute mentale. E soprattutto si è stabilito un tetto temporale non oltrepassabile che sanasse lo scandalo di veri e propri “ergastoli bianchi”.
Non è qui la sede per scendere in ulteriori dettagli, voglio soltanto ricordare come si è fatta sentire in questo contesto la voce della psichiatria ufficiale attraverso una lettera inviata alla ministra Lorenzin dalla più potente delle sue associazioni. «Facciamo molta attenzione – vi si legge – perché c’è il pericolo di essere trascinati dall’onda dell’emotività e di confondere coloro che rientrano in una diagnosi psichiatrica e devono quindi essere terapeutizzati, da coloro che sono “infermi di mente” e anche da coloro che sono socialmente anomali per via delle loro dipendenze e delle loro incapacità di integrarsi con gli altri». Traduzione: la psichiatria deve occuparsi solo di quelli il cui disturbo rientra nei canoni specialistici della disciplina (e i Dipartimenti di salute mentale non devono fare un lavoro di recupero che non li riguarda). Ecco dunque la risposta. La psichiatria procede spedita verso una restaurazione del suo mandato puramente medico e tecnico-scientifico. Medici del cervello che – per dir così – tornano finalmente a indossare il camice bianco e non vogliono più saperne di mandati sociali o politici. Allora si capisce bene perché le lodi di rito rivolte a Basaglia e alla sua legge siano perlopiù delle finzioni retoriche: Basaglia aveva infatti sconquassato la logica della psichiatria ufficiale non solo mettendo fuori gioco (e fuorilegge) ogni strumento di contenzione ma anche togliendo il camice agli psichiatri, denudandone il potere di controllo e riconfigurando in positivo il loro ruolo sociale e politico.
Nessuno, oggi, potrebbe negare il progresso scientifico (per esempio, nell’ambito dei farmaci), ma non si può neppure nascondere un regresso della psichiatria rispetto al cambio di passo sancito dalla “180”, grazie al quale coloro che sono affetti da disturbi psichici sono diventati “soggetti” nel senso pieno della parola e il compito della psichiatria si è trasformato in un ruolo sociale di rilevante responsabilità. «Si nascondono dietro un dito», mi dice Peppe Dell’Acqua, lo psichiatra triestino che, portando da un capo all’altro della penisola il famoso “cavallo azzurro” di Basaglia, è stato uno dei maggiori protagonisti della lotta contro gli OPG. E aggiunge: «Tutto ciò che toccano diventa terapia». È molto difficile dargli torto. Aggiungo che il nodo da sciogliere resta sempre quello della “pericolosità sociale”, blindato nei vecchi codici penali e che buona parte della psichiatria ritiene – ma solo a parole – ormai obsoleto. Nei fatti, tutto rimane fermo su questo nodo, che forse è proprio ciò che permette agli psichiatri di nascondersi dietro a un dito e impedisce alla società in cui viviamo di diventare davvero civile, perché civile sarà quella società – come ha detto Basaglia – che riuscirà a ospitare effettivamente la follia. Il che significherebbe anche espellere finalmente dalle nostre menti l’idea di manicomio come recinto in cui rinchiudere i diversi. Siamo purtroppo ben lontani da simile traguardo, come gli eventi ci confermano ogni giorno.

l’Unità 24.6.14
Petrosino
Joe, il poliziotto che per primo decifrò l’anti StatoIl tenente della polizia
di New York fu ucciso il 12 marzo del 1909 a Palermo faceva parte dell’Italian Branch, istituita per lottare contro la mafia


Joe Petrosino va face tremmari / e quanti colpi quanti colpi gli dovete sparare / voi picciotti de Brucculino / ma non è ancora natu lu cretinu / che an pietto a mia / mi pote sparari». Così cantava Fred Bongusto in Quattro colpi per Joe Petrosino, sigla di chiusura dello sceneggiato Rai diretto da Daniele D’Anza e trasmesso dall’ottobre al novembre 1972. In apertura c’erano invece i New Trolls, con un pezzo di rock progressivo e jazzato dal titolo Black Hand. L’organizzazione di estorsori siculo-calabro-campani negli Stati Uniti di inizio Novecento e l’ufficiale della polizia di New York che ne fu l’implacabile avversario compongono una mitologia speculare ed inestricabile.
I migranti vedevano nel Nuovo Mondo non solo un’opportunità di lavoro e crescita economica, ma anche l’affrancamento dal tardo feudalesimo padronale di zone dell’Italia dove la contrapposizione di classe era verticale e priva di ogni possibilità dialettica. I popoli che si muovono in esodo portano con loro, oltre alla cultura, alla religione ed al modello di civiltà, i contenziosi. Lo si sarebbe visto con le triadi cinesi, con il gangsterismo irlandese, con quello ebraico, rievocato per immagini dal Sergio Leone di C’era una volta in America, e più di recente con tutte le fasce criminali provenienti dall’Est.
Ma nella New York del primi decenni di un secolo pieno di promesse, le lettere minatorie che tutti gli onesti commercianti italiani ricevevano con la firma della Mano Nera, la richiesta forzosa di una tassa per la “protezione” era un’intollerabile ipoteca sull’economia della libera imprenditoria, del sogno americano e dello sviluppo. Giuseppe Petrosino, da Padula, nato il 30 agosto 1860, incarnava l’indomito carattere di chi sapeva cogliere lo spirito d’iniziativa della nazione ospite e non si rassegnava a subire il sopruso. Doti che non potevano lasciare indifferente l’allora capo della polizia newyorkese, Theodore Roosevelt, destinato a divenire il Presidente dell’orgoglio e del trionfo, che avrebbe trasformato gli Stati Uniti in una potenza mondiale. Sotto la sua direzione, Petrosino compì una carriera esemplare. Da spazzino- informatore delle forze dell’ordine a sergente e quindi tenente dell’Italian Branch, una divisione espressamente istituita per lottare contro la mafia che tartassava gli immigrati.
I molti successi di Petrosino anticiparono di mezzo secolo quelli di un altro italo-americano, Frank Serpico, anche lui leggendario. Li accomunava la tecnica investigativa molto avanzata che si basava essenzialmente sulla frequentazione mimetica degli ambienti nei quali attecchiva la delinquenza. Come Serpico, Petrosino ottenne il permesso di muoversi senza divisa. I capi della Mano Nera si trovarono perciò a fronteggiare un nemico indistinguibile dal resto della comunità italiana. Petrosino non era il solito agente con l’uniforme, il fischietto ed il manganello. Aiutato da un fisico imponente, come quello di Adolfo Celi che lo interpretò nello sceneggiato di D’Anza, il tenente conosceva le abitudini, l’avidità crudele e soprattutto il linguaggio della mafia. Non si trattava solamente di dialetto, ma anche di codici. Gli stessi che sopravvivono oggi. Inoltre, Petrosino comprese alla perfezione che le attività delle cosche non si esauriva nelle estorsioni e negli omicidi connessi. Cominciava a sorgere quello che oggi si definisce anti-stato. E Petrosino l’aveva decifrato. Tanto più che le cospirazioni non erano limitate ai quartieri italiani di New York. Il radicamento con la Sicilia creava una pericolosa congrega intercontinentale, capace di creare una rete che si estendeva già fra le due rive dell’Atlantico. Non fermandosi neppure dinanzi al carisma di Enrico Caruso, ricattato durante la tournée newyorkese e salvato da Petrosino che catturò i colpevoli.
L’ufficiale di polizia avvertì anche i servizi segreti federali di una congiura per assassinare il Presidente William McKinley, che non gli credette e fu eliminato dall’anarchico Leon Czolgosz il 6 settembre 1901.
Fu proprio la necessità di risalire ai grandi manovratori della mafia che culminò nell’omicidio di Petrosino. Il tenente, infatti, era a Palermo per ampliare le sue indagini sulla Mano Nera, quando fu ucciso con i quattro colpi (cantati da Fred Bongusto) il 12 marzo 1909. Aveva dimenticato che la Sicilia non era New York, dove nessuno avrebbe osato sparare ad un poliziotto.
Pochi giorni dopo la sua morte uscirono serie a fumetti su Petrosino. Seguirono romanzi, tra cui uno del ciclo di Nick Carter. E poi, naturalmente il cinema, con il film sui suoi funerali, e la televisione, con lo sceneggiato di D’Anza e quello del 2006 di Alfredo Peyretti, con Beppe Fiorello.
Peccato che occorrano la violenza, il sangue ed il piombo dei proiettili a stampare un eroe nell’immaginario collettivo.

l’Unità 24.6.14
«La mia Africa dei bimbi soldato»
Intervista a Ishmael Beah, lo scrittore che si batte per i diritti dell’infanzia


ISHMAEL BEAH OGGI È UN UOMO DI 33 ANNI, LAUREATO IN SCIENZE POLITICHE A OBERLIN, IMPEGNATO CON LA SUA FONDAZIONE NELLA TUTELA dei diritti dell’infanzia, residente a Manhattan e sposato con Priscillia Kounkou, avvocata anche lei nel campo dei diritti umani, una donna dalla bellezza delicata, nata in Francia da madre iraniana e padre congolese. Priscillia «mia moglie, la mia migliore amica, la mia compagna» scrive, colei che ha portato nella sua vita «tutto l’amore e la gioia» che non sapeva che esistessero. Ishmael è stato prima un soldato bambino, assoldato tredicenne dall’esercito del suo Paese, Sierra Leone, nella guerra civile contro i ribelli, il primo soldato bambino ad avere la possibilità (ed essere capace) di narrare in un libro la sua esperienza: sterminata la sua famiglia, narcotizzato con il brown brown, miscela di polvere da sparo e cocaina o eroina, addestrato a compiere ogni tipo di violenza – al motto nientificante del «no living things» - come ricorda in quella sua prima opera, un mémoir uscito nel 2008 in Italia per Neri Pozza.
Ishmael Beah è stato salvato dall’Unicef ma soprattutto da chi (una madre adottiva) ha saputo indovinare la strada per fargli ritrovare se stesso: la musica. E porta ancora piccole trecce rasta, intorno a un viso luminoso che sembra impregnato del calore della sua terra. È stato in Italia per presentare Domani sorgerà il sole, in uscita per la stessa Neri Pozza: stavolta un’opera di invenzione, dove in un immaginario villaggio sierraleonese tornano gli abitanti e torna la vita, dopo la devastazione della guerra, ma poi arriva la distruzione nuova e più sofisticata , con una multinazionale…
È scritto in una lingua di sofisticata semplicità, forgiata per contenere i due mondi tra cui l’autore si muove: un inglese dove una palla diventa, come nell’immaginario d’origine, un «nido d’aria» e dove, quando arriva la notte, «il cielo si rovescia». Ishmael Beah è un essere umano che, per l’adolescenza in cui è stato segregato e il presente che si è conquistato, ti fa pensare, dell’umanità, prima tutto il peggio e poi un miracoloso meglio.
Questo suo secondo libro è un romanzo. Ma quanto c’è di vero? Quante immagini ha «rubato» al suo Paese quando ci è tornato, nel 2009, con una troupe della Abc News?
«In realtà ritorno di continuo in Sierra Leone. E andandoci ho messo da parte molto materiale con cui ho costruito questo libro. In particolare nel 2009 ho rinunciato a fare quello che fanno tutti, cioè porgere il microfono agli abitanti, perché so che la gente, lì, non ne può più di essere intervistata e quindi ho preferito fare incetta di immagini».
Lei oggi vive tra due culture. Una doppia appartenenza che manifesta nella lingua in cui ha scritto, un inglese che attinge allo straordinario forziere di figure del «mende», la sua lingua madre. Nelle primissime pagine di «Domani sorgerà il sole» c’è una scena che più di ogni altra segnalala differenza tra Stati Uniti e Sierra Leone: Mama Kadie e Pa Moiwa, due anziani, tornati nel villaggio di Imperi raccolgono con le mani le ossa di congiunti e vicini, per onorare quei morti ma anche per impedire che la visione di quei resti uccida la speranza nei più giovani; questa è l’Africa, mentre l’America è il luogo dove trionfa l’idea cosmetica della morte, si imbellettano i cadaveri per farli sembrare ancora vivi…
«E dove, prima ancora, si chiudono i vecchi in luoghi che li sottraggono alla vista, ospizi più o meno lussuosi. Sì, è una cosa che appena arrivato lì mi ha colpito, ho chiesto a un amico “ma dove li tenete i vostri anziani?”. Mi capita spesso di vedere persone che non riescono a riprendersi dopo un lutto. Non sanno che la morte fa parte della vita. In Sierra Leone gli anziani sono dappertutto e sono riveriti per la dignità che l’età conferisce. A New York non vedi funerali e, per trovare un cimitero, devi andare fuori città. Per noi africani la vita invece è un ciclo: infanzia, giovinezza, età adulta, vecchiaia, morte».
Da lettore cosa consuma di più, autori africani o anglosassoni?
«Africani. In Sierra Leone avevo possibilità di trovare libri occidentali mentre non avevo accesso alla nostra narrativa. Così ho voluto riempire questo vuoto e, avendo finalmente anche soldi per comprare libri, mi sono buttato su tutto il disponibile: Coetzee, i neri Wole Soyinka e Chinua Achebe e i più giovani, il congolese Alan Mabanckou e la nigeriana Chimamanda Adichie».
Tocca adesso a lei un uguale destino: essere letto in Occidente ma non nel suo Paese?
«Diciamo che visto lo stato dell’editoria africana e in particolare in Sierra Leone sono dovuto arrivare io stesso lì con scatoloni di miei libri al seguito per distribuirli nelle biblioteche. L’editoria africana è fragile. E c’è in più il problema dei diritti: gli editori anglosassoni li comprano anche per le ex colonie ma poi non investono per pubblicare, giudicano che non gli convenga. Capita che un mio libro arrivi al seguito di un visitatore che lo abbandona in una stanza d’albergo, capita che un sierraleonese lo compri all’estero e lo riporti in patria. Soccorrono le edizioni pirata, che gli editori odiano e che a me vanno benissimo… In Sierra Leone c’è una povertà tale che i libri, se non sono scolastici, sono considerati un lusso. Ecco una cosa che mi piacerebbe trasmettere aimiei connazionali, il piacere di leggere ».
Non capita spesso di avere in testata a proprio nome una Fondazione benefica, a 33 anni e non venendo da una schiatta miliardaria. Qual è il compito più delicato per la Ibf, Ishmael Beah Foundation, nata per aiutare bambini e ragazzi col suo stesso background?
«È molto più facile abituarsi a fare il bambino soldato che disintossicarsi di quella vita e venirne fuori. La cosa più importante è offrire un’opportunità: insegnare sì a leggere e a scrivere, ad avviare una piccola impresa, ma in primo luogo fornire la sensazione di essere in grado di fare qualcosa. Lo so sulla mia pelle, se ti senti inutile sei manipolabile, è così che in Sierra Leone la violenza ha preso piede tra i giovani. La prima domanda da fare a un ragazzino come ero io è: cosa vorresti fare?».

Corriere 24.6.14
Erano sotterrati tra i rifiuti i segreti dell’Egitto romano
Così due studiosi inglesi trovarono i papiri di Ossirinco
di Paolo Mieli


Per i prossimi anni è programmata la pubblicazione di ben quaranta volumi degli Oxyrhynchus Papyri . Fino ad oggi ne sono già stati pubblicati settantotto, il primo dei quali nel 1898. Di che si tratta? Tutto ha inizio in una discarica. È in una montagna di rifiuti coperta dalla sabbia che si è avuto il più importante ritrovamento di preziosi papiri dell’Egitto. Ritrovamento che ha consentito una svolta nello studio della storia del mondo antico. È questo, cioè il fatto che fossero sepolti come immondizia, quel che ha più colpito Peter Parsons e che fa da filo conduttore di un suggestivo libro, La scoperta di Ossirinco. La vita quotidiana in Egitto al tempo dei Romani , che l’editore Carocci si accinge a pubblicare, in un’impeccabile traduzione e curatela di Laura Lulli. In quella discarica, che era rimasta coperta dalla sabbia per secoli e secoli, furono ritrovati a fine Ottocento «frammenti della letteratura greca classica, in particolare di opere altrimenti perse nella grande distruzione del Medioevo, e frammenti della letteratura cristiana delle origini, soprattutto di opere poi eliminate dal canone ortodosso». I rifiuti appartenevano al villaggio di el-Behnesa, centosessanta chilometri a sud del Cairo e quindici a ovest del Nilo. Fondata ai tempi di Ramses III nel XII secolo avanti Cristo, quella piccola città era stata poi, per mille anni — dai tempi di Alessandro Magno a quelli dell’arrivo dei musulmani, dal 350 a.C. al 650 d.C. (ma anche oltre) —, Ossirinco. Agli inizi del Medioevo vantava ancora un vescovo, trenta chiese, diecimila monaci, ventimila suore. Anche oltre, dicevamo, ben oltre la conquista araba dell’Egitto nel 642 d.C. Tant’è che testimonianze del 917 attestano che, all’epoca, in quel centro si producevano tende di broccato d’oro per il palazzo del califfo di Baghdad. Il declino vero e proprio iniziò molti decenni dopo, dal XIII secolo, allorché, sotto il dominio dei mamelucchi, la città cominciò a trasformarsi in un villaggio.
Ma al centro di questo libro c’è la Ossirinco greca. Per i Greci del III secolo a.C. l’Egitto «era un po’ come il Nuovo Mondo, una California delle opportunità». La città egiziana era nata sotto il regno degli ultimi faraoni, poi divenne una provincia persiana fino a quando fu «liberata» da Alessandro Magno nel 332, quando, conquistate l’Asia Minore e la Palestina, il re macedone attraversò il Sinai (tre giorni di marcia senz’acqua) e fece il suo ingresso in Egitto, dove fondò la città che avrebbe preso il suo nome: Alessandria. Alla sua morte (323 a. C.) l’Egitto passò a Filippo III, ma in realtà al comandante militare Tolomeo, che fondò una dinastia, quella dei Tolomei, che avrebbe governato il Paese per tre secoli, fino alla morte dell’ultima discendente, Cleopatra, nel 30 a.C. All’epoca vivevano in quel Paese trecentomila Greci assieme a sette milioni di egiziani. Tolomeo I si era fatto largo come generale e aveva oltre sessant’anni quando ottenne il titolo di sovrano, «solo di un grado inferiore a quello di un dio». Fu uno stratega assai acuto. Prelevò il corpo mummificato di Alessandro il Grande e lo fece seppellire nuovamente prima a Menfi e poi nella nuova capitale, Alessandria (e «fu un modo, questo, per rivendicare il diritto di ereditare il carisma del conquistatore del mondo»). Ai tempi di Tolomeo Alessandria, pur essendo una città greca, era adorna di sculture egiziane. Le iscrizioni geroglifiche presentavano Tolomeo con tutti i titoli tradizionali e gli attributi del faraone.
Ossirinco visse e prosperò poi a lungo. Allorché i Romani conquistarono l’Egitto, la cultura dei vincitori, scrive Parsons, «si faceva sentire qua e là: Ossirinco si era dovuta dotare di un campidoglio, di un tempio di Cesare e di diverse terme pubbliche». Non era la prima volta «che l’Egitto apparteneva a un impero più vasto, ma questo era un impero molto grande con un imperatore molto assente». I cittadini di Ossirinco affluivano in gran numero per celebrare le rare visite dell’imperatore; altrimenti continuavano «a pregare per lui e per la sua Eterna Vittoria, anche se molte di quelle vittorie erano conseguite a migliaia di chilometri di distanza, sul Reno o sul Danubio». Per sfamare gli abitanti della città di Roma si pagavano delle tasse; per fornire supporto alle operazioni belliche, contro la Persia o altre nazioni, potevano esserci requisizioni di bestiame. I dominatori romani non modificarono il sistema amministrativo che avevano trovato («e del resto non avrebbero avuto nient’altro con cui sostituirlo, dal momento che la Repubblica romana non si era dotata di strutture burocratiche su larga scala», precisa Parsons). In realtà l’impero, con il suo sviluppo, sotto la spinta del dispotismo sempre crescente e dell’urgenza di guerre totali, adottò la complessa burocrazia gerarchica di cui l’Egitto e altri regni del Vicino Oriente avevano fornito esempi precoci. Formalmente l’Egitto restò al di fuori da questo sistema fino a quando Diocleziano (divenuto imperatore nel 284 d.C.) non cominciò a «spingere per un’integrazione attraverso la quale l’impero ormai scricchiolante fu costretto ad una forzata uniformità».
Ossirinco all’epoca era ancora una città di prima grandezza. Alla fine del I secolo d. C., Plutarco «rifletteva sul mondo» dalla sua biblioteca a Cheronea, nel cuore rurale della vecchia Grecia: in Egitto, scriveva, «ai nostri tempi la popolazione di Cinopoli e la popolazione di Ossirinco si sono massacrate reciprocamente, in quanto gli abitanti di Cinopoli avevano mangiato il pesce sacro di Ossirinco e gli abitanti di Ossirinco avevano mangiato il cane sacro di Cinopoli». Segno, questo, che Ossirinco era anche una piccola potenza militare. Poi fu compiuto un passo ulteriore. Gli Egiziani (quantomeno i Greci d’Egitto) divennero nel 212 cittadini romani e in quello stesso anno un «egiziano» divenne, per la prima volta, membro del Senato romano. Nel III secolo dopo Cristo, Ossirinco fu denominata Città Illustre e Illustrissima, a dispetto della peste che aveva prostrato l’Egitto nel 253. Ossirinco fu tra le prime città a riprendersi. Intorno al 255 la città assume un maestro di scuola pubblico, imitando così le istituzioni culturali delle città più grandi. Dal 265 istituisce un «sussidio di grano», una razione gratuita destinata ai singoli cittadini, sul modello di quel che faceva Roma. Nel 283 costruisce una strada centrale del tipo di quella che hanno le città più importanti. Nel 284-286 assume un rilievo tale che il prefetto vi tiene udienza. Nel 273 fu addirittura scelta come sede dei giochi capitolini mondiali; «fu così che i cittadini di un borgo egiziano ospitarono il mondo e le sue celebrità, in occasione del primo festival mondiale capitolino quinquennale sacro e trionfante di teatro, atletica e corsa di cavalli che fosse tenuto in quell’epoca», fa rilevare Parsons.
In seguito «continuò a sopravvivere e a prosperare fino al Medioevo, mentre il mondo intorno era ormai completamente cambiato». L’impero romano pagano aveva poi, a partire dalla svolta di Costantino, ceduto il posto a quello cristiano, con la sua lingua e il suo alfabeto. La scrittura egiziana, ottocento segni, era di impedimento all’alfabetizzazione («un cinese non sarebbe d’accordo», osserva però Peter Parsons), mentre la semplicità dell’alfabeto greco rendeva questa lingua scritta molto più agevole; alla fine le antiche scritture egiziane si estinsero, per essere rimpiazzate nel III e IV secolo dopo Cristo da un adattamento dell’alfabeto greco, il copto. Gli Egiziani che avevano imparato il greco erano stati certamente più numerosi dei Greci che avevano appreso l’egiziano, persone di etnia egiziana potevano prendere i nomi greci, famiglie greco-egiziane potevano adottare nomi doppi, con un elemento tratto da ognuna delle due lingue.
I conquistatori romani avevano poi stabilito una gerarchia quasi ufficiale: al vertice della scala sociale c’erano i dignitari inviati da Roma per occupare le più alte cariche di governo; poi c’erano gli abitanti di quelle città (Alessandria, Naucrati, Tolemaide, più tardi Antinoupolis) che avevano mantenuto le istituzioni basilari di una classica città Stato; quindi le classi dirigenti delle capitali locali che fossero in grado di dimostrare la loro discendenza sociale privilegiata facendo riferimento a un registro stabilito ai tempi di Augusto; infine, il grosso della popolazione. Successivamente, ai tempi dell’Islam, si sarebbe imposto l’arabo. Ma con gli stessi effetti. L’Egitto «rimase sempre uguale, nella sua essenza: i campi e i contadini, le piene e la mietitura, l’eterno problema di come guadagnarsi il pane e — preoccupazione, questa, che ha accomunato i maghi pagani, cristiani e islamici — tenere gli insetti lontani da casa». Gradualmente la «Città Illustre e Illustrissima» si trasformò in un semplice villaggio.
Nel luglio 1798 Napoleone Bonaparte approdò in Egitto, portando con sé un esercito di soldati e una piccola armata (167 persone) di studiosi e artisti. Mentre l’esercito francese liberava il Paese dal potere militare in decadenza che lo controllava formalmente come una provincia dell’impero turco, gli scienziati conducevano ricerche sistematiche e disegnavano schizzi dei monumenti. L’intento politico della spedizione, ovvero attaccare l’impero britannico in India dalla porta posteriore, fallì: la sconfitta navale di Abukir tagliò fuori gli invasori dalla loro patria. Il generale corso lasciò infine l’Egitto nell’agosto 1799 per realizzare un colpo di Stato nel suo Paese, mentre le sue truppe furono battute e rimpatriate nel 1801. Così il Paese tornò sotto l’autorità del sultano e dei suoi viceré.
Sotto il profilo culturale, comunque, quella spedizione fallimentare diede luogo ad una svolta. Che ebbe quasi subito i suoi cantori. Gli splendidi volumi della Description de l’Égypte, dati alle stampe tra il 1809 e il 1826, gettarono le basi della moderna egittologia. Un passo ulteriore fu compiuto in Francia, il 29 settembre 1822, quando Jean-François Champollion lesse la sua Lettre à M. Dacier al cospetto dei saggi dell’Académie Royale des Inscriptions et Belles-Lettres. Champollion, grazie alla stele di Rosetta, riuscì a dimostrare che la scrittura geroglifica era prevalentemente fonetica, in quanto «la maggior parte dei segni rappresentava lettere o sillabe» e che la lingua che trasmetteva (come si sospettava) era la stessa di quella usata dai cristiani egiziani d’Egitto, oggi chiamata copto. Alla fine il codice era stato decrittato e così dal 1822 l’umanità fu in grado di leggere quelle iscrizioni e quei papiri. In seguito una spedizione di Champollion e Ippolito Rosellini fu interrotta dalla precoce morte, nel 1832, dello stesso Champollion. Ma i clamorosi risultati di quell’impresa, raccolti nei Monumenti dell’Egitto e della Nubia , furono dati alle stampe da Rosellini a Firenze tra il 1832 e il 1840. La spedizione di Carlo Richard Lepsius, inviato nel 1842 dal re di Prussia per registrare i monumenti dell’Egitto, produsse un ulteriore resoconto in tredici volumi, pubblicato nel 1849, che resta, secondo Parsons, «un’opera di riferimento».
Gli inglesi avevano vinto la guerra contro Napoleone, ma in Egitto furono i francesi a continuare a dominare. Quantomeno sotto il profilo culturale. Un intraprendente commerciante albanese di tabacco, Ali Mohammed, divenne a tal punto potente che il sultano fu costretto a nominarlo viceré nel 1805. Lui, Mohammed, e la sua discendenza governarono, prima come khedivè (viceré d’Egitto) e poi come re fino al 1953, anno della vittoria della rivoluzione nasseriana. Ma Ali Mohammed e i suoi successori non furono, quantomeno in principio, consapevoli del tesoro che custodivano. Nella prima metà dell’Ottocento, iniziò la stagione delle razzie. Un italiano, Giovanni Battista Belzoni, si servì di un ariete per entrare nella tomba di un faraone; nel 1836 il colonnello inglese Richard William Howard-Vyse fece ricorso alla dinamite per entrare in alcune camere inesplorate della Grande Piramide. Come collezionisti si distinsero l’italiano Bernardino Michele Maria Drovetti (in forza all’esercito francese), che portò a Torino gran parte di quel che aveva trovato, l’inglese Henry Salt e il console generale svedese-norvegese Giovanni d’Anastasi, che trasferì il suo «bottino» in parte a Leida e in parte al British Museum. Le cose cambiarono nel 1850, quando giunse in Egitto un giovane assistente curatore del Louvre, Auguste Mariette, nominato dal khedivè nel 1858 direttore generale di tutti gli scavi. Con Mariette, scrive Parsons, «ebbe inizio nel Paese una vera e propria archeologia sistematica; fu Mariette a concepire il Museo del Cairo, in modo tale che le antichità egiziane potessero avere una loro casa in Egitto… Solo Mariette aveva diritto di scavare e l’esportazione delle antichità fu dichiarata illegale».
Le cose cambiarono ancora una volta nel 1869, al tempo dell’apertura del canale di Suez, collegamento fondamentale tra Inghilterra e India. Erasmus Wilson espresse allora pubblicamente l’auspicio che la Gran Bretagna prestasse maggior attenzione all’archeologia egiziana. E un duo, formato dalla giornalista Amelia Edward e dallo studioso Reginald Stuart Poole, mise in atto la direttiva Wilson. Ciò fu reso possibile dal fatto che nel 1881 Mariette morì e il suo successore, Gaston Maspéro, si rese più disponibile nei confronti degli inglesi. Alla fine, nell’aprile del 1882, fu fondata una nuova società, Egypt Exploration Fund, massima istituzione dell’archeologia britannica, i cui direttori onorari furono Poole e la Edwards. E che è sopravvissuta fino ad oggi, sia pure con una leggera variazione di nome (Society al posto di Fund). Il 1° luglio del 1897 l’Exploration Egypt Fund istituì una sezione speciale chiamata Graeco-Roman Research Account, «per il ritrovamento e la pubblicazione delle vestigia dell’antichità classica e della prima epoca cristiana in Egitto». E fu questa sezione speciale ad attrarre i due giovani studenti oxfordiani protagonisti della nostra storia, Bernard Pyne Grenfell e Arthur Surridge Hunt, che riportarono alla luce, da tumuli di spazzatura sepolta dalla sabbia nei pressi del villaggio di el-Behnesa, i resti di Ossirinco, la «città del pesce dal naso aguzzo». Nel 1895 i due decisero di mettersi alla ricerca di papiri egiziani negli antichi villaggi del Fayyum. Da quel momento trascorsero il resto della loro vita «come pionieri di un nuovo ramo degli studi classici: la papirologia». Si diffuse in seguito la leggenda che Grenfell era diventato cieco per aver violato il sito e aveva riacquistato la vista solo dopo che lo sceicco del luogo si era reso conto che i poveri abitanti del villaggio ottenevano un beneficio grazie ai salari pagati dagli scavatori. Grenfell dirigeva lo scavo, mentre Hunt si occupava di catalogare gli oggetti rinvenuti. «Controllare cento uomini che cercano papiri sotto un vento forte, mentre un miscuglio di sabbia e cenere colpisce il loro viso (questo è uno dei luoghi più ventosi dell’Egitto)», annotava Grenfell, «non è esattamente semplice; Hunt è stato molto occupato nell’ordinare e distendere i papiri, ma c’è ancora una lunga strada da percorrere e non ci sarà tempo per esaminare gran parte di questa regione». I due furono ancora a el-Behnesa negli inverni dal 1903 al 1907.
Le sei stagioni di scavi, che costarono circa quattromila sterline, portarono alla luce papiri che sarebbero stati stipati in settecento scatole, «il cui contenuto può essere stimato in mezzo milione di pezzi e frammenti». Opere di Tucidide, Platone, Isocrate, Pindaro, Euripide, liriche di Saffo, Alceo, Ibico, le invettive di Ipponatte, l’epica lirica di Stesicoro, le commedie di Menandro, le «elegie postmoderne» di Callimaco. Anche se la letteratura rappresentava forse solo il dieci per cento di ciò che si trovava tra quei rifiuti. Il resto apparteneva a un campo allora difficilmente esplorato, la vita e la società dei Greci in Egitto. Finché Grenfell «dal carattere più instabile», nel 1920 soffrì di un esaurimento nervoso che pose fine alla sua vita lavorativa. Hunt andò avanti fino al 1934; i suoi ultimi anni furono resi cupi dalla morte prematura dell’unico figlio. Ma «la loro collaborazione aveva ottenuto risultati straordinari». Dopo la scoperta del tesoro nascosto nella discarica, nel 1897, tre mesi di scavi fornirono papiri per riempire ben duecentottanta scatole. Subito ci si rese conto dell’importanza della scoperta: la «Review of Reviews» paragonò quel ritrovamento ai filoni d’oro rinvenuti nel Klondyke. Successivamente si aggiunsero spedizioni italiane (Ermenegildo Pistelli, Evaristo Breccia) che continuarono a scavare nei primi decenni del Novecento.
Ma torniamo alla fine dell’Ottocento e a Ossirinco. Quando, un secolo prima, era stata raggiunta dagli esploratori di Napoleone, Ossirinco era apparsa loro come «un sito reso pittoresco riconoscibile soltanto dalle palme, da una solitaria colonna antica e da una serie di cumuli». Proprio quei cumuli che avevano preservato, come si sarebbe appreso cento anni dopo, «l’intera storia della città, in una forma più piena di quanto possano fare le rovine di edifici e i monumenti». Il 29 luglio 1898 si poteva leggere sul «Times» di Londra che «la guerra ispano-americana sembrava quasi al termine, il caso Dreyfus era a un’altra svolta, il ginocchio del principe di Galles era stato trattato con i raggi X, nel cricket Rugby e Marlborough avevano pareggiato a Lord’s». Ma anche, nella rubrica «Libri della settimana», che era stato pubblicato il primo volume degli Oxyrhyrinchus Papyri . Cioè dei papiri che erano venuti alla luce, non da case o uffici, ma dalle discariche di rifiuti coperte da coltri di sabbia che erano intorno alla città. I due giovani scavatori di Oxford, Grenfell e Hunt, l’avevano rinvenuta mista a detriti dentro cumuli alti nove metri: tutta la vita di una città avvolta nei brandelli di scartoffie buttate via.
Fino a quel momento non c’era stata un’esatta percezione dell’importanza dei papiri. Pochi anni prima del ritrovamento a Ossirinco, uno studioso danese, Niels Iversen Schow, aveva acquistato un rotolo di papiro originale scritto in greco ad un mercato egiziano in cui gliene avevano offerti altri cinquanta, che poi, una volta rifiutati da Schow, gli abitanti del posto avevano bruciato per «godersi il fumo che ne emanava». E pensare che nel 1847 l’antiquario inglese Joseph Arden aveva acquistato a Tebe un notevole rotolo di papiro che conteneva diversi discorsi dell’oratore Iperide (392-322 a. C.); scoperta che aveva provocato a Londra notevole sensazione: nella primavera del 1851 Arden fece conoscere quel che aveva acquistato in una riunione tra intellettuali a casa di lord Londesborough e successivamente quel papiro fu messo in mostra nelle stanze della Royal Society of Literature. Ma fino a Grenfell e Hunt non si era capito fino in fondo quanto fossero importanti i papiri.
Quando Grenfell e Hunt cominciarono a scavare ad el-Behnesa nel 1897, quella che trovarono fu una «capsula del tempo» di un tipo molto speciale. Pompei conserva un’immagine della vita romana, così come si presentava nel giorno dell’eruzione del Vesuvio, fissata negli edifici e nei corpi di quelli che vivevano lì. Ossirinco offre l’opposto: non corpi o edifici, ma «il nastro cartaceo (un nastro gettato via dai suoi possessori) con la registrazione di un’intera cultura».
Ossirinco, scrive Parsons, «esiste ancora oggi come una città di carte gettate via, un paesaggio virtuale che possiamo ripopolare con persone vive e parlanti: il teatro è svanito, ma abbiamo ancora alcuni dei copioni usati dagli attori; le terme sono scomparse, ma possiamo ricostruire le generazioni degli inservienti che vi lavoravano; il mercato è sparito, ma conosciamo il banco dove si vendeva la zuppa, i mucchi di letame importati e i funzionari seccati che riscuotevano la tassa sui bordelli». Gli abitanti morti da secoli «di cui non abbiamo né ritratto né pietra tombale, comunicano con noi attraverso i loro documenti; di alcuni sappiamo abbastanza per scrivere una soap-opera». E alla fine la loro memoria almeno «sopravvive proprio per una strana ironia della sorte, grazie a quei materiali scritti che essi avevano gettato via». Strani percorsi della storia. Che talvolta passano per una discarica.

Corriere 24.6.14
Le teorie di Dario Fo e l’elogio del Papa
di Aldo Grasso


Beppe Grillo da Bruno Vespa, Dario Fo da Gianka Leone; poi dice che uno non muore democristiano. «Oggi, un Papa appena eletto ha voluto darsi il nome di Francesco, lo stesso del santo di Assisi. Nessuno prima di Bergoglio ha avuto la forza e il coraggio di assumere quel nome, perché San Francesco con quel suo inconsueto mondo di concepire il cristianesimo, non si era certo procurato una vita facile…». Inizia così la nuova fabulazione di Fo, un tentativo di riscrivere la storia del cristianesimo secondo i suoi canoni (Rai1, domenica, ore 21.25).
Prendendo spunto «da leggende popolari, testi canonici del Trecento e documenti riscoperti negli ultimi tre secoli», Fo attiva un doppio processo di identificazione. In quanto giullare si sente molto vicino al santo d’Assisi, «Lu santo jullàre Franzesco»: sottolineando il carisma e l’abilità istrionica di Francesco, Fo parla di se stesso (non è ancora santo ma è pur sempre un premio Nobel).
Ma l’operazione più ardita e arbitraria è un’altra: Fo vede in papa Bergoglio il nuovo «poverello d’Assisi». E giù allusioni, allegorie, attacchi diretti (Rai1 che si trasforma in un tribunale contro la Curia romana, cose d’altro mondo!). Avanti con la teoria del complotto (papa Luciani è stato fatto fuori perché voleva rivelare il marcio del Vaticano). Ecco finalmente la vera vita di Francesco, il sovversivo di Cristo! Fo è bravo a inventarsi una lingua (un italiano medievale in stile Brancaleone), bravissimo quando fa il lupo, ma l’impressione è che questo tipo di teatro funzioni poco in tv (troppo facile spacciarla poi per cultura televisiva!). Tant’è vero che a Fo è stato suggerito di fare un’introduzione pop con Mika per spiegare al pubblico la chiave di lettura: Francesco era un anarchico. Come Fo, aggiunge Mika. Il programma è prodotto da Gianmarco Mazzi e Jacopo Fo, politicamente agli antipodi. Miracoli di San Francesco o della Siae?

La Stampa 24.6.14
FOTOGALLERY
Viaggio nella grotta Chauvet, tesoro Unesco

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