mercoledì 25 giugno 2014

l’Unità 25.6.14
Ai lettori
IL CDR

Ecco i giornalisti che hanno realizzato il giornale oggi in edicola. La redazione continuerà la sua battaglia in difesa del giornale e dei posti di lavoro fino all’incontro con i liquidatori della società editrice. In quell’occasione, chiederemo certezze sul futuro del quotidiano e sul pagamento di tutte le spettanze maturate. Senza queste certezze dovute, e da troppo tempo negate, lo sciopero sarà inevitabile così come iniziative di carattere legale a tutela della testata e dei nostri posti di lavoro.
Il CDR [seguono firme]

l’Unità 25.6.14
Bianca Guidetti Serra
Addio Bianca «la rossa»
Si è spenta Guidetti Serra partigiana, avvocata, politica
È morta ieri a Torino a 94 anni. Cominciò il suo impegno nella Resistenza poi la militanza nel Pci e le lotte al fianco dei deboli

«DA SOLA NON AVREI MAI PENSATO A SCRIVERE UNA MIA AUTOBIOGRAFIA. HO SEMPRE PREFERITO ESPRIMERMI DAL PUNTO DI VISTA DEL NOI ANZICHÉ DELL’IO, ATTENERMI AI FATTI PIUTTO STO CHE ALLE IMPRESSIONI E ALLA SOGGETTIVITÀ». Scriveva così Bianca Guidetti Serra nella sua autobiografia uscita qualche anno fa per Einaudi. E appena ieri, che si è spenta nella sua casa torinese a quasi 95 anni, quel «noi» appare ancor più pieno di significato. Bianca «la rossa», come la chiamavano (e come recita il titolo dell’autobiografia), a dire di una vita da combattente, il «noi» l’ha sempre sentito come una priorità. Nelle lotte in difesa dei più deboli, delle minoranze, delle donne, dei lavoratori, dei detenuti.
Così ha sempre inteso la sua professione di avvocata penalista seguita all’esperienza di partigiana, alla militanza nel Pci, fino alla fuoriuscita nel 1956, in seguito ai fatti di Ungheria. Per approdare poi a Democrazia Proletaria, essere eletta nel consiglio comunale torinese e poi arrivare in parlamento come indipendente nei Ds. Così ha inteso il suo impegno nella Resistenza, da dove tutto è partito, quando ragazza scelse la lotta contro il nazifascismo, condivisa con gli amici Primo Levi, Ada Gobetti e le migliaia di donne dei «Gruppi di difesa», istituiti proprio con Ada a Torino. Ma anche stampando e diffondendo clandestinamente i bollettini partigiani e organizzando comizi clandestini. Un passo obbligato, quello della Resistenza, ha raccontato più volte, per il quale fu decisiva l’indignazione di fronte alle leggi razziali. Qualcosa che la scosse «passionalmente» e che la spinse a scegliere la «parte giusta» e a rinsaldare i rapporti con gli amici ebrei, compreso colui che sarebbe diventato suo marito: Alberto Salamoni.
La scelta dell’avvocatura arriva poco dopo la fine della guerra, nel 1947, decisa a proseguire così il suo impegno sociale. Scelta non comune per una donna. Sono gli anni delle battaglie in difesa dei diritti dei lavoratori, delle donne e anche della tutela dell'infanzia. Sono gli anni, per capirci, delle schedature Fiat, quando i «padroni» picchiavano giù duro contro gli operai impegnati nel sindacato o con la fama di comunisti e facinorosi, facendoli spiare senza mezzi termini per metterli all’angolo. Ecco, Bianca cominciò nei tribunali in difesa di quei lavoratori. Come anni dopo raccontando le cronache dei processi contro le «fabbriche della morte» a difesa dell'ambiente e della salute: dall'Ipca di Ciriè all'Eternit di Casale Monferrato. Tra le sue difese più celebri quelle alle Brigate Rosse e alla banda Cavallaro.
Durante la sua attività di parlamentare partecipa ai lavori delle Commissioni giustizia e antimafia proseguendo nel suo impegno in difesa della legalità e dei diritti. Nel 1990, insieme a Medicina Democratica e all'Associazione Esposti Amianto (Aea) partecipa alla presentazione, come prima firmataria, di una proposta di legge per la messa al bando dell’amianto, approvata poi nel 1992. «Non sono scontenta della mia vita, non ho particolari rimpianti o rammarichi - scrive Bianca nella sua autobiografia -. Ne ho raccontato il percorso, tra le tante storie di giustizia e ingiustizia, che mi hanno coinvolto non solo professionalmente e in cui ho trovato un senso da dare al tempo che mi è toccato in sorte. Mi è piaciuto il fare, e ho fatto quel che ho potuto, cercando sempre di essere me stessa. Nel mio operare, ho anteposto i fatti concreti ai discorsi, la moralità delle persone alle idee».
Bianca Guidetti Serra ad agosto avrebbe compiuto 95 anni. Di lei ci resta l’esempio di un’intera esistenza. «Una figura di altissimo rigore morale e intellettuale - la ricorda in una nota di cordoglio Sergio Chiamparino, presidente della Regione Piemonte -, uno dei pilastri della Torino della Resistenza e della Costituzione, di quella Torino che non si è voluta piegare di fronte ai poteri forti e alle ingiustizie sul piano politico e sociale».

il Fatto 25.6.14
Vuoi lo status di rifugiato? Paga in natura
Arrestato per ricatti sessuali il sacerdote che guida la Caritas

Chiedeva prestazioni sessuali in cambio dell’aiuto a ottenere lo status di rifugiato politico. Per questo don Sergio Librizzi, direttore della Caritas di Trapani, è stato arrestato ieri con le accuse di estorsione, tentata estorsione e concussione. Sarebbero almeno dieci le vittime del parroco, tutti extracomunitari maggiorenni. Gli agenti della guardia forestale hanno raggiunto Don Librizzi poco prima che celebrasse messa. Dopo l’arresto hanno sequestrato vari computer e 5 mila euro, parte dei quali nascosti dietro al tabernacolo della chiesa di San Pietro. Agghiaccianti i dialoghi captati dalle cimici: “Io sono una persona importante, faccio parte della commissione per il rilascio dei permessi di soggiorno. Posso farti avere tutto facile o posso rendere tutto più difficile. Ma tu che mi dai? Ma non capisci che cosa voglio?”. Le telecamere l’hanno ripreso in compagnia di giovani extracomunitari a bordo della sua Fiat Punto mentre ricattava, prometteva a chi, per vedersi riconosciuto il diritto di risiedere in Italia, era disposto a tutto.
LA CURIA, già travolta dallo scandalo per la vicenda dei conti dello Ior gestiti da don Nini Treppiedi, ha commentato tramite una nota: “Esprimiamo la nostra ferma condanna verso comportamenti gravi e riprovevoli, inammissibili non solo perché reati, ma soprattutto perché offendono la dignità della persona e ledono gravemente la dignità del servizio sacerdotale”. La procura sospetta che don Librizzi avesse dei complici: “Forse qualcuno era a conoscenza di quello che stava accadendo e avrebbe potuto parlare prima. Ci stiamo accertando se sia o meno così”, ha spiegato il procuratore di Trapani Marcello Viola.

Repubblica 25.6.14
“Sesso con i migranti in cambio dell’asilo” arrestato il prete a capo della Caritas
Trapani, a Sergio Librizzi contestati otto episodi
ntercettato: “Sono uno che conta, tu che mi dai?”
di Laura Spanò


TRAPANI. «La mia vita è finita», ha detto quando si è trovato davanti gli agenti della sezione di polizia giudiziaria della Forestale che dovevano notificargli un ordine di custodia chiesto dalla procura. Don Sergio Librizzi, direttore - ormai sospeso - della Caritas trapanese, si stava preparando per celebrare la messa. Adesso è accusato di violenza sessuale e concussione. La città è sotto choc. Don Sergio è un’autorità nel campo dell’accoglienza e degli aiuti agli immigrati. Ormai da decenni. Ora gli contestano di aver preteso tangenti, sotto forma di rapporti sessuali, nella sua qualità di componente della commissione territoriale di Trapani per il riconoscimento della protezione internazionale. Un incarico che aveva avuto in rappresentanza del Comune di Trapani.
«Era un componente supplente », tiene a precisare la prefettura, ma l’indagine della Procura di Trapani ha messo in evidenza che don Sergio «era un componente molto influente». Sono otto le persone che hanno ammesso di essersi rivolte al sacerdote per ottenere il nulla osta di rifugiato dalla commissione. E tutti e otto hanno ammesso di aver ceduto al ricatto sessuale.
I primi episodi risalgono al 2009, l’ultimo a maggio scorso. «Io sono una persona importante - diceva lui, e non sospettava di essere intercettato - faccio parte della commissione, posso farti avere tutto facile o posso rendere tutto più difficile… tu che mi dai?». Parole ripetute anche in altre occasioni. Qualcuno non ha ceduto. Un iracheno ha raccontato di essere fuggito via. «All’improvviso mi toccò nelle parti intime e mi baciò sul collo ». Un altro episodio sarebbe accaduto addirittura nei locali del Cie di Milo, il centro dove vengono trattenuti gli immigrati, durante una delle audizioni a cui vengono sottoposti i richiedenti lo status di rifugiato. Un interprete non poté fare a meno di notare un gesto curioso commesso dal sacerdote, una carezza e poi un dito poggiato sulla bocca di un tunisino. Infine, anche una sorta di palpeggiamento.
Sesso e tangenti. Ma c’è anche il capitolo denaro. Durante la perquisizione, in canonica e nell’abitazione del sacerdote, è stato trovato denaro contante che don Librizzi teneva ben nascosto, sembra in uno dei contenitori usati per la raccolta delle offerte. Tante offerte. Oltre al denaro sono saltati fuori incartamenti relativi alla gestione di alcune cooperative di lavoro. Erano custodite nei locali di Villa Sant’Andrea, a Valderice, una struttura messa a disposizione dalla diocesi per l’accoglienza agli immigrati. Poi è iniziata la perquisizione della canonica della Chiesa di San Pietro, don Sergio era lì da circa un anno. Dagli uffici sono stati portati via computer e stampanti.
L’atto d’accusa dei pubblici ministeri Paolo Di Sciuva, Andrea Tarondo e Sara Morri dice che vittime sono giovani maggiorenni stranieri, ma anche un italiano. I rapporti venivano consumati nell’auto del sacerdote. «Facendo pesare il proprio ruolo in commissione – dice il procuratore capo Marcello Viola – avrebbe compiuto una serie di abusi sessuali costringendo i destinatari a prestazioni sessuali lasciando intendere di poter agevolare od ostacolare il riconoscimento dell’asilo. Un comportamento che assume particolare gravità per la posizione di dominio che esercitava su soggetti deboli per estrazione e provenienza».
Dalla Curia fanno sapere che don Librizzi è stato «sollevato da tutti gli incarichi pastorali» in attesa che la magistratura faccia il suo corso.

il Fatto 25.6.14
Cosenza, le offerte per San Francesco sperperate in Borsa

I FEDELI riempivano il cesto delle offerte per preparare le celebrazioni del loro patrono, ma quei soldi finivano a finanziare speculazioni in Borsa e bonifici ai suoi parenti. Per questo Massimo Cedolia, un consulente finanziario cosentino di 45 anni, è finito in manette con l’accusa di truffa ai danni dei frati del santuario dedicato a San Francesco di Paola. In totale gli erano state affidate elemosine per quasi un milione e mezzo di euro. Oltre alla truffa aggravata, a Cedolia vengono contestati i reati di riciclaggio, falsità in scrittura privata, favoreggiamento ed esercizio abusivo della professione . Le indagini sono iniziate grazie alla denuncia dell’economo del santuario, che aveva scoperto i consistenti ammanchi sul fondo patrimoniale in cui confluivano le offerte dei fedeli. Il promotore avrebbe ignorato le raccomandazioni di prudenza impartitegli dai frati e, senza autorizzazione, avrebbe iniziato una dissennata attività di trading online ad altissimo rischio, celando la vera natura e il rischio degli investimenti effettuati ai titolari del conto. È accusato inoltre di avere usato i soldi del fondo per fare bonifici ai suoi parenti che, a loro volta, provvedevano a restituirgli il denaro.

il Fatto 25.6.14
Il devoto Mazzacurati e gli “oboli” del Mose
Dalle fondazioni del cardinale Scola alle suore clarisse:
il Consorzio Venezia Nuova ha distribuito fondi pubblici per 5 milioni
di Antonio Massari e Davide Vecchi

La visita nel maggio 2011 di Benedetto XVI, la riunione ministeriale dell'Ocse nel 2010 presieduta dall'allora ministro Renato Brunetta. Qualunque cosa accadesse in Laguna veniva finanziata dal Consorzio Venezia Nuova. Bastava chiedere. E Giovanni Mazzacurati, “grande burattinaio” della cricca del Mose, elargiva. Il calcolo delle “liberalità” è ancora approssimativo ma in base ai documenti in possesso del Fatto negli anni tra il 2010 e il 2013 il Cvn ha distribuito oltre cinque milioni di euro. Tra i maggiori beneficiari della disponibilità di Mazzacurati c'è il cardinale Angelo Scola. Non solo riceve fondi per Marcianum, da lui fortemente voluta e già finanziata per 300 mila euro dal Consorzio più altrettanti nel corso del 2012 come liberalità, ma anche per la fondazione internazionale Oasis – sempre da lui fondata e ancora oggi presieduta – e per la rivista.
IL 28 SETTEMBRE 2012 Mazzacurati scrive direttamente a Scola. “In riferimento all'iniziativa di cui Lei mi ha portato a conoscenza (…) sono lieto di comunciarle che, data l'importanza che riveste la Fondazione Internazionale Oasis, il Consorzio Venezia Nuova si propone di intervenire a sostegno della rivista Oasis con un contributo di 25 mila” euro. E conclude: “Colgo l'occasione per rinnovarle la mia più profonda devozione”. Nel 2013, l'anno successivo, il Consorzio rinnova il finanziamento e stanzia a budget per la fondazione Marcianum 600 mila euro. Devoto, il re del Mose, è devoto. Finanzia la diocesi del Patriarcato, la parrocchia San Nicola Tolentino, la comunità Papà Giovanni XXIII, le suore Clarisse, il convitto Foscarini. Alle Suore di San Francesco di Sales, che il 18 giugno 2010 gli scrivono facendo presente la necessità di ristrutturare alcune aree del loro istituto, Mazzacurati risponde dopo tre settimane elargendo un “contributo di 20 mila euro”. Nella lettera però, questa volta, il re del Mose palesa la necessità fiscale del Consorzio. “Tale contributo verrà versato, dietro presentazione di fattura o altra documentazione in regola con le vigenti norme tributarie, sul conto corrente che gentilmente ci segnalerà”. Una formula che si ripete in quasi tutte le missive con cui Mazzacurati comunica la donazione, con le suore così come con l'associazione “Vedrò” di Enrico Letta, che per tre anni ha ricevuto contributi dal Consorzio. Dicitura che invece non trova spazio nelle lettere destinate a realtà probabilmente ritenute più rilevanti. Come nella lettera inviata alla Conferenza Episcopale il 19 settembre 2011 con oggetti “concessione contributo”. Testo: “Con riferimento alla vostra lettera con la quale ci veniva prospettata l'opportunità di concorrere all'importante evento per le due giornate della visita del Papa, vi comunichiamo che siamo lieti di partecipare alle spese per tale evento con l'importo di 100 mila euro”. Il Papa è il Papa e Mazzacurati, come scritto, è devoto.
ANCHE ALLA POLITICA, come noto: l'inchiesta che ha portato all'arresto di 35 persone, tra cui l'ex sindaco di Venezia Giorgio Orsoni e il fu ministro e governatore Giancarlo Galan, ruota attorno alla creazione di fondi neri finalizzati anche al finanziamento delle attività politiche per facilitare, fra l'altro, l'approvazione dei fondi per il Mose da parte del Cipe. Quando nel 2010 il ministero per la pubblica amministrazione e l'innovazione presieduto dal veneziano Renato Brunetta organizza la riunione ministeriale dell'Ocse uno tra i primi ad esserne informato è Mazzacurati. A cui vengono chiesti fondi. E lui, ovviamente, elargisce. Amministra soldi pubblici, che lui, ricordiamolo, già usa per assumere il filippino, pagare l'affitto di casa della moglie negli Stati Uniti, distribuire consulenze ad amici e parenti, oltre a varie altre finalità personali. Fino al 2010 le “liberalità” si limitavano a qualche centinaia di miglia di euro. Ma da quando il Consorzio comincia a ricevere i fondi dal Cipe (i primi 430 milioni arrivano a metà 2010) i conti cambiano radicalmente: 450 mila, che nel 2011 raddoppiano e arrivano nel 2013 a quasi due milioni. Con esattezza 1.815.300 euro. Con una differenza rispetto all'anno precedente, annotano gli stessi amministratori del Consorzio, di 848.750 euro. In più, ovviamente. Tutto firmato Mazza-curati. L'ultima elargizione che il re del Mose sigla è la sua liquidazione: 7 milioni di euro. È il giugno 2013. Dopo appena sei giorni la magistratura lo arresta. Scola, a quanto è dato sapere, non gli ha più scritto.

Repubblica 25.6.14
I centomila euro pagati per la visita di Ratzinger
di Fa. To.


VENEZIA . «Sono Giovanni Mazzacurati, risolvo problemi”. Doveva presentarsi un po’ così, ai veneziani, l’uomo del Mose. Perché tutto si poteva pensare di lui, tranne che non fosse un uomo generoso. Con i soldi pubblici pompati nel Consorzio dallo Stato, però. Tutti si rivolgevano a lui e lui a tutti dava. Pure alla Chiesa di Papa Benedetto XVI. «In riferimento alla vostra lettera, vi comunichiamo che lo scrivente Consorzio è lieto di partecipare con l’importo di 100.000 euro alle spese da voi sostenute per le due giornate di visita del Pontefice». Lettera firmata da Mazzacurati, indirizzata a sua eccellenza Beniamino Pizziol, amministratore apostolico di Venezia, e datata 19 settembre 2011.
Di fronte a questa cifra, impallidiscono un bel po’ i 750 euro offerti nel 2013 all’Anffas, l’Associazione delle famiglie di persone con disabilità, quando quell’anno il budget totale riservato dal Consorzio alle “liberalità” ammontava a 828.000 euro. Nella lista dei beneficiari 2013 figurano tra gli altri la fondazione Marcianum del Patriarca Angelo Scola (300.000 euro), la Banca degli occhi onlus (200.000), la Fondazione Teatro la Fenice (35.000), la Biennale (10.000), la Fondazione Camillo Cavour (5.000), la Reale società canottieri Francesco Querini (5.000), pure la Corte di Appello (6.000).
Andando un po’ indietro, nel 2010, si scopre che Mazzacurati ha contribuito con 40.000 euro all’organizzazione della riunione ministeriale del Comitato Public Governance dell’Ocse, lavori presieduti dall’allora ministro Renato Brunetta. Il 12 luglio di quello stesso anno gira alle suore S. Francesco Sales 20.000 euro per il restauro della scuola materna. E nel 2012 trova 25.000 per la rivista della Fondazione internazionale Oasis, «strumento di integrazione e dialogo tra le culture e testimonianze orientali e occidentali». Facendo un calcolo sommario, tra il 2008 e il 2013 il Consorzio ha speso, «dietro presentazione di fattura e in regola con le normative fiscali vigenti», come Mazzacurati amava ricordare nelle sue lettere, circa 5 milioni di euro in contributi. Denaro pubblico, elargito dal “governo ombra” di Venezia.

La Stampa 25.6.14
Senato, il governo blinda l’intesa con Fi
Berlusconi benedice l’accordo. I forzisti non porranno problemi
Maria Elena Boschi, ministro delle Riforme del Pd, ha trattato il dossier con Verdini di Forza Italia
di Ugo Magri
qui

La Stampa 25.6.14
E nel Pd ora si temono contrasti alla Camera sul nodo dell’immunità
di Carlo Bertini

E ora nel Pd si comincia a temere l’effetto domino che può innescare anche alla Camera la grana dell’immunità. Quello che sembra essere un lodo utile a placare le tensioni, demandare le richieste di arresto dei parlamentari alla Consulta, come proposto da Finocchiaro e Calderoli, potrebbe infatti creare contraccolpi quando la riforma approderà a Montecitorio. Dove potrebbero sorgere resistenze tra i deputati contrari a lasciare la palla ad un organismo terzo, resistenze tali da far cambiare di nuovo la norma con tutte le controindicazioni del caso. Ecco perché un diavoletto si aggira nei Palazzi, una tentazione così riassunta da una fonte del Pd che segue la vicenda: «Certo, in termini di popolarità, sarebbe utile per Renzi lasciare le cose come stanno e far dare un parere negativo del governo alla norma dell’immunità in aula. Per poi magari essere battuto da un voto trasversale dei senatori...». Una boutade forse, ma che svela la grande insofferenza con cui il governo vive questa vicenda. Insofferenza parzialmente sopita dalle parole dell’azzurro Paolo Romani, che lascia al governo e alla maggioranza l’onere di dipanare la matassa: facendo così intendere che non vi sia stato alcun accordo sottobanco con Forza Italia.
Ma non è un caso se fino a ieri la Finocchiaro non aveva ancora ricevuto nessun via libera governativo sulla riformulazione del testo della discordia. Al di là dall’annuncio di Calderoli che i relatori avrebbero presentato una nuova proposta sull’immunità per demandare tutto alla Consulta. E se Massimo D’Alema, pur senza pronunciarsi sul Senato, sostiene che bisogna mantenere le garanzie per i deputati, «per restringere la libertà personale serve un pronunciamento della Camera»; se i grillini infiammano il terreno di un Pd già in ebollizione, si capisce perché per il governo è dura tirarsi fuori d’impiccio sposando senza remore la soluzione della Consulta. «Sull’immunità vediamo cosa farà il governo visto che scade il termine per gli emendamenti, certo potrebbe pure finire con un parere contrario a quella norma e un voto in aula che spacca i gruppi...», dicono gli uomini del Pd dal Senato. Riportando così il clima di massima incertezza in cui ogni soluzione ha le sue controindicazioni. Stamattina la Boschi tirerà comunque le fila in un giro di tavolo con i relatori per mettere a punto gli ultimi emendamenti.

Il Sole 25.6.14
Riforme. In un incontro Boschi-Romani-Verdini il via libera di Fi al Ddl
Resta il nodo immunità, tempi a rischio
Le due ipotesi: lasciare lo scudo solo per le funzioni di senatore o demandare alla Consulta
di Emilia Patta

ROMA «Anche se Renzi a Bruxelles potrà dire che le riforme sono in calendario dal 3 luglio noi non andremo in Aula prima della seconda metà di luglio, nessuno ha mai pensato che i tempi potessero essere più rapidi di così. Io credo che il testo verrà esaminato in commissione fino al 15 luglio e poi andrà in Aula». A Roberto Calderoli, si sa, piace seminare zizzania. Ma quello che dice il leghista correlatore (assieme alla democratica Anna Finocchiaro) del Ddl sulle riforme costituzionali lo pensano in molti in Senato, anche se dal Pd si continua a tenere ferma la barra del 3 luglio («volendo si può fare»). E certo l'ultima grana scoppiata – quella dell'immunità per i senatori introdotta con gli emendamenti "condivisi" a firma Finocchiaro-Calderoli depositati venerdì – non aiuta il progetto di una rapida approvazione della riforma in commissione Affari costituzionali del Senato.
Il premier Matteo Renzi, alla vigilia del delicato incontro di oggi pomeriggio tra le delegazioni del Pd e del M5S a cui deciderà se partecipare o meno solo all'ultimo momento, ostenta una sorta di indifferenza sull'argomento: l'importante, ripete ai suoi, è andare avanti con l'iter della riforma. Con o senza immunità.
Le possibili soluzioni a cui si sta ragionando in Senato sono tre. La meno probabile, ma pur sempre possibile proprio per non rallentare la riforma, è quella di lasciare lo scudo per i consiglieri e i sindaci che andranno a ricoprire la carica di senatori così come è stato introdotto negli emendamenti dei relatori. Ossia come è ora anche per i deputati secondo l'articolo 68 della Costituzione: oltre al fatto che i parlamentari «non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni», la Carta prevede l'autorizzazione a procedere della Camera di appartenenza per l'arresto e per le intercettazioni. La soluzione mediana è quella di demandare la decisione su arresto e intercettazioni alla Corte costituzionale con la creazione di un'apposita sezione per "giudicare" i parlamentari, così come proposto inizialmente dalla stessa Finocchiaro e come rilanciato ieri dal capogruppo democratico Luigi Zanda con un'intervista al Sole 24 Ore. Una soluzione, quella della Consulta, che piace anche a Calderoli e che avrebbe il pregio di togliere alle maggioranze politiche il giudizio su questioni delicate che riguardano loro compagni di partito. Tuttavia, proprio per la delicatezza della materia, il rischio paventato è che in questo modo si politicizza la Consulta... La terza soluzione, in queste ore data come più probabile in Senato e che andrebbe anche incontro alle richieste dei grillini, è quella di lasciare per i neo senatori la non sindacabilità per le opinioni e i voti espressi nell'esercizio delle loro funzioni togliendo del tutto la parte relativa all'autorizzazione a procedere per arresto e intercettazioni.
Intanto ieri un incontro tra la ministra Maria Elena Boschi e il capogruppo azzurro in Senato Paolo Romani, accompagnato dal plenipotenziario di Forza Italia Denis Verdini, ha sbloccato le ultime resistenze del partito di Silvio Berlusconi sulla riforma. Come ha spiegato lo stesso Romani le riserve di Fi riguardano il sistema per eleggere in secondo grado i senatori all'interno dei consigli regionali: gli emendamenti dei relatori parlano di sistema proporzionale, ma gli azzurri hanno insistito affinché ci si basi sui voti ottenuti alle elezioni regionali e non sui seggi. L'altra richiesta di Fi, più difficile che venga accolta, riguarda il potere del nuovo Senato di partecipare all'elezione del presidente della Repubblica, della Corte costituzionale e del Csm.
Oggi, in ogni caso, scade il termine per presentare i subemendamenti. E dal loro numero si capirà se l'intesa tra Pd e Fi, alla quale si è aggiunta anche la Lega, reggerà al punto di sbloccare l'impasse in tempo per l'approdo in Aula il 3 luglio come auspicato da Renzi. Intanto, per il premier e per il Pd, c'è da superare indenni il confronto con i grillini.

Il Sole 25.6.14
E Grillo attacca: da Boschi una «porcata»
di Nicola Barone

ROMA Vigilia di attacchi a testa bassa alla regia delle riforme e alla stampa. Malgrado l'apertura per un «percorso comune» inaugurata da Beppe Grillo sotto la spinta dell'exploit di Matteo Renzi, al dunque, nel momento chiave del confronto con i dem, i Cinque Stelle mostrano di non aver voglia alcuna di sotterrare l'ascia di guerra. E ha tutte le sembianze di un'ipoteca sul risultato la presa di posizione formale con cui ieri i gruppi del M5S di Camera e Senato hanno preso di mira il testo del ministro Boschi che, a loro dire, «costruisce un Senato di nominati, sindaci e consiglieri regionali a cui, solo come contentino al popolo, si toglie l'immunità per rendere più passabile la porcata».
Il concetto su cui si insiste è appunto la contrarietà del Movimento, mai rimessa in discussione, a considerare guarentigie per i membri delle Camere, visto che, da anni, vengono promosse iniziative in favore di un «Parlamento pulito». Indirettamente però la sortita dà la stura a un elenco di insulti a sfondo sessista verso Maria Elena Boschi sulla bacheca Facebook del leader come commenti al post pubblicato in parallelo sul blog, in cui si evidenzia come il ministro abbia «accusato pesantemente il Movimento». Dalle parole dell'ex capogruppo pentastellato Riccardo Nuti nel merito delle riforme si capisce lo spirito dei grillini riguardo il faccia a faccia di questo pomeriggio con la delegazione Pd (annunciata la diretta streaming). «È una proposta ancora molto monca, una fuffa perché non è ancora chiaro a cosa si voglia arrivare. Sembra che si voglia togliere di mezzo il ruolo del Senato senza capire come sopperire al suo ruolo. Sono le solite cose fatte all'italiana, far finta di cambiare per poi fare o male o non fare nulla», dice il deputato a Radio 24. «Domani illustreremo la nostra legge elettorale e faremo vedere come è costituzionale e permette una certa governabilità».
A meno di inaspettate sorprese Beppe Grillo guarderà a distanza la prova dei suoi, cui ha comunque dettato le linee guida nei fitti contatti avuti lunedì con il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio e il deputato Danilo Toninelli, estensore della proposta di legge elettorale del M5S, ai quali si aggiungeranno nella sala della commissione Esteri di Montecitorio gli attuali capigruppo di Camera e Senato Giuseppe Brescia e Maurizio Buccarella. Data la distanza che c'è tra le rispettive ipotesi di modifica dei meccanismi elettorali scarsissime sono le possibilità di punti di intesa concreti. Più verosimile è invece che l'M5S punterà a inserirsi in alcune, limitate, divisioni nei dem cavalcando il tema delle preferenze. Con quali effetti, è tutt'altro discorso.
Nel mirino finisce intanto anche la stampa che secondo Grillo avrebbe trasformato l'Italia in un Paese semilibero per l'informazione. L'ex comico immagina una legge ad hoc che obblighi i giornalisti a rivelare le proprie fonti o per loro «va fatto scattare in automatico il reato di diffamazione».

Corriere 25.6.14
Senato, l’asse Pd-Forza Italia regge
Ma è caos sul nodo immunità
di Dino Martirano

ROMA — L’accordo tra Partito democratico e Forza Italia tiene ma la riforma del Senato e del Titolo V (federalismo) va avanti a piccoli passi. I tempi, innanzitutto, non sarebbero più quelli immaginati dal governo per coronare l’apertura del semestre italiano di guida della Ue: «Andare in aula il 3 luglio è un’illusione, ci vorrà almeno il 10 luglio per chiudere in commissione e poi due settimane per il voto finale», avverte Roberto Calderoli (Lega) che insieme ad Anna Finocchiaro (Pd) è relatore del provvedimento. Un piccolo slittamento ci sarà anche domani perché è stato posticipato di alcune ore il termine per la presentazione dei subemendamenti che arriveranno a migliaia perché, osserva sempre Calderoli, «il pacchetto di emendamenti scritto dai relatori di fatto riformula il testo base voluto a tutti i costi dal governo».
Migliaia di emendamenti in assenza di un accordo blindato con Forza Italia significano, per la maggioranza, votazioni a raffica ad alto rischio. I dissidenti Mineo (Pd) e Mauro (Popolari) sono stati sostituiti ma senza gli azzurri i numeri potrebbero ballare lo stesso. Per questo è stata data grande visibilità all’ennesimo faccia a faccia tra il ministro Maria Elena Boschi (Riforme) e la delegazione di Forza Italia composta dal capogruppo Paolo Romani e dal senatore Denis Verdini. «Sono per la politica dei piccoli passi e ora ne abbiamo fatto uno», ha detto Romani che sulla grana dell’immunità da togliere o lasciare ai futuri senatori regionali ha aggiunto: «Decidano relatori e governo, ma l’immunità ha un senso solo se il Senato rimane elettivo».
Dunque i toni tra Pd e FI si mantengono «garbati e positivi» ma sul tappeto rimangono molte questioni aperte. Per esempio, sul tema delle prerogative parlamentari (immunità, insindacabilità) affidate al vaglio della Consulta ci sono già controindicazioni: primo, i deputati non vorrebbero essere trascinati su questa strada; secondo, eminenti giudici della Consulta avrebbero già fatto sapere a chi di dovere nel governo la loro contrarietà a tale gravoso compito. E poi c’è un problema di «architettura costituzionale che riguarda la terzietà e il ruolo di garanzia della Corte», osserva il senatore Dario Stefàno (Sel), presidente della giunta per le immunità e le autorizzazioni di Palazzo Madama: «Attribuire alla Consulta decisioni in materia di arresti, intercettazioni e perquisizioni, sia per i senatori sia per i deputati, rischia inevitabilmente di trascinare il supremo organo di garanzia nella polemica politica».
Resa difficile la strada della Corte, dunque, dai colloqui Pd-FI riemerge un «mini scudo» per i futuri 100 senatori: potrebbero essere tutelati solo per quanto riguarda l’insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Ma se a qualcuno venisse in mente di estendere il «mini scudo» anche ai deputati scoppierebbe un caso politico difficilmente gestibile dalla maggioranza. Per cui, è opinione diffusa anche a Palazzo Chigi, la soluzione più indolore sarebbe quella di non toccare l’articolo 68 così come è scritto oggi. Forza Italia, poi, è diffidente su un Senato tutto composto da amministratori locali provenienti da un terreno tradizionalmente favorevole alla sinistra: «Al governo abbiamo presentato la questione della proporzionalità della rappresentanza politica del nuovo Senato...», conferma Romani (FI). Ma anche nel Pd qualcosa ribolle sui nuovi numeri del Senato che manderebbe a casa 210 parlamentari mentre la Camera li manterrebbe tutti e 630. Spiega infatti Miguel Gotor: «Quando si tratterà di eleggere il capo dello Stato, a un solo partito basterà vincere il premio di maggioranza alla Camera e controllare il 33% dei grandi elettori del Senato (100 membri effettivi più 63 delegati regionali). Per questo sarebbe ragionevole diminuire a 500 il numero dei deputati in modo da evitare che il Senato conti poco o niente nell’elezione del capo dello Stato».

l’Unità 25.6.14
Immunità, si torna all’ipotesi Consulta
Incontro Boschi con Verdini e Romani di Forza Italia

Arriva come una doccia fredda sulla tabella di marcia illustrata dal premier Matteo Renzi alle Camere, l’affermazione secca di Roberto Calderoli, uno dei relatori del testo di riforme in commissione Affari Costituzionali a Palazzo Madama. «Anche se Renzi a Bruxelles potrà dire che le riforme sono in calendario dal 3 luglio noi non andremo in Aula prima della seconda metà di luglio, nessuno ha mai pensato che i tempi potessero essere più rapidi di così». Prova ne sia, sembra dire il senatore leghista, che il termine per presentare gli emendamenti e i sub emendamenti è slittato dalle 12 alle 18 di oggi, quando l’ufficio di presidenza fisserà il calendario dei lavori.
In attesa di vedere se l’incontro con il Movimento Cinque Stelle possa spostare un po’ gli equilibri, cosa poco probabile viste le premesse («La riforma è una porcata»), il governo ha voluto fare una messa a punto con l’alleato finora certo (se pure con la poca convinzione berlusconiana) nella partita delle riforme. Così la ministra Maria Elena Boschi ieri ha incontrato i forzisti Paolo Romani, capogruppo al Senato, e Denis Verdini. Un «buon incontro», commenta Romani, «è durato un'ora e mezza, noi abbiamo posto il problema del rispetto della proporzionalità della rappresentanza politica nel nuovo Senato », perché Berlusconi ha sempre visto con sospetto un Senato con il numero dei sindaci a favore del centrosinistra. E un’altra questione posta da Fi è stata quella «dell’elezione del presidente della Repubblica, del Csm e della Consulta » perché «se il Senato viene derubricato non può eleggere tre organismi di garanzia della Repubblica», spiega ancora Romani, che comunque è soddisfatto del pur piccolo «passo avanti».
Forza Italia comunque si tira fuori dalla guerra sull’immunità (Romani si era detto contrario). Renzi non vuole arenarsi certo su un tema così impopolare e lascia la palla al Parlamento (nel testo originario del governo infatti non c’era). Qui prende corpo l’ipotesi che sia la Corte Costituzionale a valutare, caso per caso, le richieste dei magistrati per l’arresto, le intercettazioni o le perquisizioni nei confronti dei senatori. Su questo presenteranno un emendamento proprio i relatori Calderoli e Anna Finocchiaro, Pd, presidente della commissione Affari Costituzionale. Lo ha annunciato lo stesso leghista: «Non si può affidare ad una maggioranza politica il destino di un parlamentare, meglio rivolgersi a un giudice terzo », ha detto il vicepresidente del Senato. Si tratta di una proposta di modifica sull’immunità parlamentare che affiderebbe a una sezione speciale della Consulta il giudizio sui parlamentari coinvolti in vicende giudiziarie, quindi sia senatori che deputati. Fare decidere la Corte è una soluzione possibile, come ha scritto su l’Unità il costituzionalista Stefano Ceccanti, che vede come «una soluzione ragionevole» lo spostamento «della competenza su organi terzi alla cui composizione contribuisca lo stesso Parlamento, come la Corte Costituzionale ». Una decisione che sarebbe «non meno garantista», afferma Ceccanti.
La soluzione Consulta non dispiace, ma «a titolo personale» a Luciano Pizzetti. Il sottosegretario alle Riforme sbotta contro la «demagogia» di tanti parlamentari che, pur mostrandosi contro l’immunità, secondo lui volevano mantenerla. Quindi «se vale deve valere per tutti oppure per nessuno, e allora, se si vuole togliere del tutto l'immunità, che è una questione delicata e che tocca temi sensibili, vuol dire che hanno ragione i cinquestelle. Alla fine spiega: «Non si deve confondere l’impunità con l'immunità, se il parlamentare è preso in flagranza viene arrestato comunque, negli altri casi viene sottratto ai forconi».
Romani non si sbraccia più di tanto: sulla questione dell’immunità «decidano governo e relatori, noi non ci opporremo», ha commentato entrando nella Prima commissione a Palazzo Madama dove si esaminavano i 20 emendamenti dei relatori, «se si parla di Senato elettivo è un conto, ma nel caso che sia un Senato per le autonomie - con sindaci e consiglieri regionali - tutto diventa più complicato».
Non demorde, invece, la minoranza Pd sull’abolizione dell’immunità: «Abbiamo fatto un incontro con alcuni dei senatori con i quali stiamo conducendo una battaglia per la riforma costituzionale », ha affermato Vannino Chiti: «Abbiamo deciso di ripresentare i nostri emendamenti fondamentali e tra questi inserire l’abolizione del secondo e terzo comma dell’articolo 68 della Costituzione. In altri termini, riteniamo essenziale garantire l’insindacabilità dei parlamentari per le opinioni e i voti espressi nell’esercizio del loro mandato, mentre siamo persuasi che sia venuto il tempo di abolire l'immunità. Al di fuori delle loro funzioni, infatti, deputati e senatori devono essere considerati normali cittadini in uno Stato di diritto », ha spiegato il senatore Pd.

l’Unità 25.6.14
Riforme, il nodo della scelta dei membri della Consulta
Si continua a non tener conto della «storica» sentenza che annullò il Porcellum
di Lanfranco Turci

IN ITALIA, LA STABILITÀ E L’EFFICIENZA DEL SISTEMA POLITICO SONO STATE RICERCATE ATTRAVERSO IL MITO DI UNA GOVERNABILITÀ ASSICURATA FORMALMENTE DALLE LEGGI ELETTORALI, quasi che le maggioranze artificiali derivanti da abnormi premi in seggi o dalla elezione diretta dei vertici esecutivi degli Enti Territoriali o delle Regioni potessero sostituire l’omogeneità politica e la coerenza programmatica delle coalizioni, e potessero ovviare alla progressiva scomparsa dei partiti politici intesi come soggetti in grado di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», libere associazioni di cittadini e non oligarchie di politici di professione o appendi-
ci di un capo, padre e padrone del suo partito. Malgrado l’obiettivo fallimento delle artificiali scorciatoie maggioritarie nel 2006, nel 2008, e nel 2013, si prosegue l’errore con progetti di riforma elettorale che non tengono conto dei chiari principii affermati nella «storica» sentenza n°1/2014, con la quale la Corte Costituzionale ha annullato le parti più importanti della legge n°270/2005 (il famigerato Porcellum); cioè il premio di maggioranza e le liste bloccate. L’approvazione dell’Italicum in tempi stretti viene spacciata come «democrazia dell’investitura», che darebbe una forma più moderna ed adatta ai tempi della democrazia rappresentativa, quando la risposta più consona alla crescente disaffezione della popolazione verso il processo democratico è, invece, l’estensione di forme di democrazia partecipativa e diretta, da innestare nella struttura rappresentativa.
L’invadenza dell’esecutivo nel processo di revisione costituzionale, del tutto inusuale in una forma di governo parlamentare, è preoccupante; tanto più quando si combina con un Parlamento di nominati, cui si vuole togliere il divieto di mandato imperativo sancito dall’art. 67 Cost., e che sarà ancora composto da designati di partito in assenza di una compiuta ed organica legge sui partiti politici, come in Germania, Francia, Spagna, e come richiesto dal combinato disposto degli artt.2, 39 comma3, e 49 della Costituzione.
La consapevolezza della forzatura costituzionale della legge elettorale all’esame del Senato comporta di modificare gli equilibri della Corte Costituzionale approfittando della scadenza di mandato di 4 giudici: 2 di nomina parlamentare, e 2 di nomina presidenziale, con una procedura assolutamente non trasparente, in assenza di proposte di candidatura.
Se è comprensibile che i partiti che stanno trattando l’accordo istituzionale ed elettorale, ed anche i nomi dei futuri giudici funzionali agli accordi, votino scheda bianca o non partecipino alle votazioni con la maggioranza qualificata dei 2/3, non è giustificabile l’inerzia o l’indifferenza di chi è estraneo o addirittura contrario agli accordi.
Per iniziativa del gruppo 5 Stelle è stata formulata una rosa di candidati tra i quali è possibile individuare un candidato di bandiera, sul quale far convergere i voti, a far tempo dalla prossima votazione. Anche come segnale e monito che non vi è unanimità sulle riforme elettorali ed istituzionali volute dal governo, a cominciare da quella del Senato, se non per la sottrazione del voto di fiducia.
Tra di loro, si segnala, per il carattere simbolico della scelta, quella dell’avvocato Felice Besostri, difensore della legalità costituzionale delle leggi elettorali, avendo contribuito, con l’avvocato Bozzi, a portare davanti alla Corte Costituzionale prima il Porcellum, e successivamente, con propria iniziativa, la legge elettorale lombarda e, di recente, la legge elettorale italiana per l’elezione dei parlamentari europei spettanti all’Italia. Perché non cogliere questa occasione?

Repubblica 25.6.14
Massimo Luciani, costituzionalista della Sapienza
“Pericoloso affidarsi alla Corte costituzionale mancano criteri chiari”
intervista di Liana Milella

ROMA. Immunità alla Consulta? «No, se non a condizioni molto precise». Massimo Luciani, costituzionalista della Sapienza, semina dubbi molto forti sull’ipotesi di affidare alla Corte la “patata bollente” dell’immunità.
Perché è così perplesso?
«Già ora la Corte ha l’ultima parola sull’insindacabilità dei parlamentari. Ma questa dev’essere sollecitata dal ricorso del giudice che non è convinto della decisione delle Camere. Ed è guidata da precisi parametri costituzionali, perché l’articolo 68 dice che le opinioni insindacabili sono quelle nell’esercizio delle funzioni e la Corte controlla proprio questo».
Ma i relatori andrebbero verso una Corte che decide sulle richieste del giudice dopo l’istruttoria delle Camere.
«Vedo due serie difficoltà. Mentre la Costituzione chiarisce quali sono i presupposti dell’insindacabilità, su quelli del diniego di autorizzazione arresti o intercettazioni si limita a sottintendere l’intento persecutorio. Un po’ poco. E non basta: queste sono garanzie dell’indipendenza del Parlamento e su di esse è il Parlamento che deve pronunciarsi. Non mi sembra il caso che la Corte lo faccia direttamente ».
La Consulta può o non può decidere la sorte giudiziaria di un deputato o senatore?
«Ripeto, si tratta di garanzie importanti e, se si vuole cambiare la situazione, si deve limitare l’intervento della Corte alla sanzione degli abusi: si dovrebbe precisare in Costituzione quando c’è l’abuso e far intervenire la Corte solo a posteriori».
Lei boccia d’un colpo l’intervento diretto?
«Effettivamente non mi convince. Ma prima di parlare di bocciatura, sarebbe bene vedere come lo si concepisce».
L’ipotesi è chiara, istruttoria delle Camere, relazione alla Corte, che decide in una sua sezione speciale.
«Se fosse solo questo, le condizioni di cui parlavo non mi sembrerebbero soddisfatte. Meglio allora lasciare tutto com’è o intervenire solo sull’autorizzazione alle intercettazioni. Ma meglio ancora sarebbe se la politica prendesse atto dell’assoluta necessità di usare le tutele costituzionali di cui gode per quello che sono: garanzie dell’istituzione e non privilegi personali. Se lo avesse sempre fatto, il problema non si sarebbe posto».

l’Unità 25.6.14
Renzi rilancia: «Mille giorni per cambiare il Paese»

Un patto col Parlamento e uno con l’Europa. Renzi prima alla Camera e poi al Senato, alla vigilia del Consiglio europeo di domani e dopodomani e dell’avvio del semestre di presidenza italiana della Ue, (ri)disegna il profilo del suo mandato. Niente di troppo differente rispetto agli obiettivi fissati, oramai quasi quattro mesi fa, nel discorso con cui chiese la fiducia al proprio neo-nato governo. Anche allora ad esempio fissò come scadenza del proprio mandato la fine naturale della legislatura, il 2018. E ieri l’ha confermato dandosi i prossimi tre anni, da settembre 2014 a luglio 2017, mille giorni (è noto che al premier piacciano i numeri tondi), per vedere le riforme fare effetto. Ma questa volta a differenza di febbraio, l’ha fatto con una determinazione molto diversa. E cioè con la consapevolezza che se a febbraio la strada indicata poteva apparire un po’ velleitaria (all’interno e fuori i confini nazionali), oggi invece è se non in discesa almeno tratteggiata con nettezza.
Il che per chi deve mettersi in cammino e seguire il tuo passo è oggettivamente un incentivo non trascurabile. Certo poi le buche non possono essere tutte prevedibili, come testimoniano il nodo decreti col Capo del Governo, ma intanto ci sono tutte (o quasi) le condizioni per stendere l’asfalto per bene.
Il motivo? I numeri del 25 maggio. Quegli 11 milioni di voti che l’hanno fatto diventare l’unico capo di governo europeo (affiancato forse solo dalla Merkel) capace di prendere un bel po’ di vento in poppa e di diventare «mister 40%». «Oggi l’Italia è più forte» scandisce Renzi di fronte al Parlamento. E lo è, spiega, incassando l’applauso dei banchi Pd prima a Montecitorio e poi nel pomeriggio (con l’intermezzo amaro dell’eliminazione italiana dai mondiali) di Palazzo Madama, perché ha il partito più votato di tutta Europa (il suo Pd appunto) e perché ha recuperato «auto-stima» e «orgoglio».
Per il premier c’è cioè una forza oggettiva (il voto) che ha rafforzato l’Italia, anche soggettivamente. Il che gli consentirà di andare a Bruxelles «non a prendere lezioni». Magari a darle, alcune. Ad esempio come leggere il voto del 25 maggio che secondo Renzi non può essere visto come una tornata elettorale normale. L’elevato astensionismo, l’accresciuta forza degli euroscettici, e lo stesso ottimo risultato del Pd che tocca un dato storico sulla base della parola d’ordine di cambiare verso all’Europa, dicono che la strada fin qui seguita, monetarista e tecnocratica, è stata sbagliata. Quindi va cambiata.
Come? Renzi ricorda che la Germania (e la Francia) nel 2003, anche allora c’era la presidenza italiana, chiesero e ottennero di non rispettare il tetto del 3% tra deficit e pil. Gli fu concesso e da lì la Germania con le riforme di Schröder mise le basi che l’hanno portata a diventare la locomotiva europea. Renzi vuole fare lo stesso percorso, ma senza toccare i patti europei. Il che significa che non punta a cambiare le regole, ma interpretarle in maniera più elastica. La flessibilità nelle regole c’è, conferma il ministro il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, ma «bisogna solo usarla bene». «Senza la diminuzione della disoccupazione, se non torniamo a creare ricchezza non ci sarà stabilità» avverte Renzi. Così come non basta avere una moneta unica per dare un senso comune, un valore all’Europa per Renzi che nella festa del patrono di Firenze, San Giovanni, ricorda come il fiorino e la finanza di allora servirono anche per creare un grande patrimonio culturale e di valori. Patrimonio che ora l’Europa non ha se lascia sola l’Italia ad affrontare il tema dell’immigrazione e non assume l’operazione Mare Nostrum, e quindi i propri rapporti col Mediterraneo, come una priorità comune. «Tenetevi la vostra moneta, ma lasciateci i nostri valori», alza la voce il premi e Certo per fare come la Germania ci sarà da fare quelle riforme di struttura di cui sin qui, avvisa Renzi, si sono visti solo gli accenni. Da qui il patto-sfida col Parlamento («se volete potete mandarmi a casa anche domani mattina») per i prossimi mille giorni («un arco di tempo sufficiente») per cambiare l’Italia. E quindi aprire un confronto per cui entro il prossimo 1 settembre non si dica cosa si vuol cambiare (elementi oramai abbastanza noti), ma come cambiare fisco, pubblica amministrazione, giustizia, welfare. Riforme da fare non perché contenute nelle raccomandazioni della Commissione, ma perché, necessarie all’Italia perché è indecente che ad esempio un cittadino debba prendere un giorno di ferie per farsi un certificato.
Quella del premier quindi è una richiesta di cambio di marcia che riguarda l’Italia e che inevitabilmente investe l’Europa e va a toccare anche la questione delle nomine. Perché più del pilota conterà che direzione dovrà imboccare l’auto.
È il “metodo Renzi”, nomina sunt consequentia rerum, che il premier rivendica di aver fatto passare con gli altri colleghi in Europa. Questo almeno dice il voto del 25 maggio che segna «un gap di democraticità» che non sarà recuperabile dalla nomine di questo o quel nome, Junker compreso. Ed è per questo che per il premier italiano va evitata (un auspicio più che un diktat) la logica del carciofo: fare le nomine uno alla volta, foglia dopo foglia. Meglio un pacchetto completo: Commissione, Consiglio, Parlamento.
Un pacchetto dentro cui, «a pieno titolo » c’è anche il nome della ministra degli esteri Federica Mogherini per il posto di alto rappresentante per la politica estera della Ue, che annota il sottosegretario Sandro Gozi «può benissimo spettare all’Italia». Il che, inevitabilmente, darebbe avvio a un rimpasto nel governo.

il Fatto 25.6.14
Renzi usa l’alibi Bruxelles per rinviare il Jobs Act
La riforma del lavoro ci sarà solo alla fine del semestre europeo
Intanto promette di governare “mille giorni” arrivando a fine legislatura
di Stefano Feltri

Bisogna sforzarsi per cogliere qualcosa di concreto nel duplice discorso europeo di Matteo Renzi davanti a Camera e Senato. Il premier non parla alle aule semivuote, ma al pubblico che da casa vedrà la sintesi nei telegiornali e quindi è tutto un “tenetevi la vostra moneta ma lasciateci i nostri valori” e “L’Europa non può impedirti di saldare i debiti della pubblica amministrazione perché violi il patto di stabilità e poi sanzionarti perché non li hai pagati”. E così via. Spazio anche per qualche citazione, tipo la necessità di “civilizzare la globalizzazione” (Edgar Mo-rin).
LA SOSTANZA POLITICA dietro gli slogan è da decodificare. Primo punto: Renzi trasforma il lancio del semestre europeo a presidenza italiana (180 giorni circa) nell’occasione per evocare un programma di legislatura (“1000 giorni, dal primo settembre 2014 al 28 maggio 2017). Messaggio a uso interno: per ora niente elezioni anticipate. Ma c’è anche un uso europeo: tranquilli che le riforme che vi prometto le farò io. Comprensibile che debba rassicurare, visto che la cancelliera tedesca Angela Merkel, da quando è al potere, ha avuto a che fare con cinque diversi presidenti del Consiglio italiani, ognuno con la sua agenda di riforme, sempre meno credibile.
Il secondo punto concreto che emerge dal discorso di Renzi riguarda la riforma del lavoro: finora si è visto soltanto un decreto legge dalle ambizioni limitate, la cosiddetta “riforma Poletti” che liberalizza i contratti a termine, prima o poi arriverà un disegno di legge delega. Più poi che prima: Renzi annuncia che il vertice europeo (convocato dalla presidenza italiana) dedicato al tema della disoccupazione non si terrà più l’11 luglio, cioè all’inizio del semestre, ma verso la fine. Così da avere il tempo di approvare anche la legge delega (che richiede diversi mesi).
Anche qui c’è un doppio livello di lettura: non si ha traccia alcuna che il governo abbia le idee chiare su cosa vuole fare sul mercato del lavoro e sugli ammortizzatori sociali, già la riforma della pubblica amministrazione sta causando più problemi del previsto, anche con i sindacati. Meglio non offrire adesso altri spunti polemici. Poi c’è un piano europeo: Renzi – come Mario Monti ed Enrico Letta prima di lui – sa che l’unico modo per strappare qualcosa alla Germania è fare leva sulle politiche contro la disoccupazione. Funzionava quando la Cdu della Merkel era al governo con i liberali, ancora meglio ora che è in coalizione con i socialisti. Finché Renzi tiene aperta la riforma, può sperare di approfittare del nuovo clima europeo per ottenere qualche margine di manovra sul bilancio. sarebbe stupido chiudere subito la riforma e chiedere poi a Bruxelles e Berlino di aumentare la spesa corrente, il diniego sarebbe garantito.
LA DISOCCUPAZIONE elevata è servita anche a Renzi e al suo ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan a giustificare il rinvio di un anno, dal 2015 al 2015, il pareggio di bilancio strutturale. In teoria per questo l’Italia rischia una procedura d’infrazione per debito eccessivo, ma ora il premier è convinto di poter stare tranquillo, dopo che sia il presidente uscente del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy, che Angela Merkel hanno parlato di “flessibilità” nel rigore. “Viola i trattati chi parla soltanto di rigore dimenticandosi la crescita”, dice Renzi, che si riferisce al fatto che il famoso “patto di stabilità” in realtà si chiama “patto di stabilità e crescita”. Complice la fumosità dei contenuti, il doppio discorso di ieri di Renzi sarà però ricordato soprattutto per il problema partita. Il premier arriva al Senato e consegna il testo scritto per la Camera, “sarò breve, visti gli appuntamenti del pomeriggio”. Poi, tra primo e scondo tempo, dice ai cronisti: “Ho un impegno istituzionale da seguire”. Il suo tifo non basta a Mario Balotelli e compagni.

Il Sole 25.6.14
Lavoro, maggioranza divisa sull'articolo 18

Venerdì scade il termine per la presentazione degli emendamenti al ddl delega sul Jobs act; e tra i partiti di maggioranza proseguono le schermaglie con il presidente della commissione Lavoro, e relatore, Maurizio Sacconi (Ncd) che chiede al governo «coraggio» e, soprattutto, di incidere «anche sulla regolazione del contratto a tempo indeterminato». E quindi sulla tutela reale della reintegra dell'articolo 18, da sterilizzare. Ma dal Pd, con Cesare Damiano e la capogruppo in commissione, Annamaria Parente, frenano e invitano a «non utilizzare la delega per interventi surrettizi», spingendo piuttosto per una «drastica riduzione dei costi a carico delle imprese».
Oggi a palazzo Madama è previsto un comitato ristretto per cercare una sintesi. Nei giorni scorsi il ministro Poletti ha chiesto al parlamento di non modificare sostanzialmente il ddl per consentirne un rapido via libera e poi, successivamente, concentrarsi sui decreti delegati.
L'esecutivo presenterà un solo emendamento al ddl per istituire l'agenzia unica sui controlli alle aziende (oggi sparsi tra più soggetti, Inps, Inail, Asl e fisco). Tra gli altri nodi da sciogliere c'è anche la prevista costituzione dell'Agenzia nazionale per riordinare le politiche attive. Qui il braccio di ferro è con le Regioni che a titolo V invariato invocano il rispetto delle proprie competenze. Quanto invece al salario minimo l'orientamento sembra quello di provare a sperimentarlo, seppur circoscritto a determinate fattispecie (voucher e lavoro a progetto).

Repubblica 25.6.14
Sanatoria in arrivo per gli evasori
Il provvedimento sul rientro dei capitali all’estero regolarizzerà la posizione di chi ha nascosto capitali in Italia
La maggioranza: non è un condono
di Roberto Pietrini


ROMA. Sanare, oltre al rientro dei capitali dall’estero, anche le posizioni, indirettamente connesse all’operazione, di chi ha evaso esclusivamente redditi in Italia. E’ questa l’ultima novità del disegno di legge sul rientro dei capitali, prevista da un accordo della maggioranza, contestato da grillini e Sel, pronta oggi alla ripresa dell’iter del provvedimento in Commissione Finanze della Camera. Il meccanismo farà perno sul nuovo istituto del «ravvedimento speciale»: si tratterà di una norma ad hoc che utilizza lo schema del «ravvedimento operoso», già in vigore nel nostro ordinamento e in base al quale ci si può ravvedere con sanzioni ridotte entro un anno dall’evasione. Il «ravvedimento speciale», che consentirà di sanare le posizioni dei contribuenti che hanno evaso esclusivamente redditi prodotti in Italia, avrà invece un arco temporale più ampio e consentirà di regolarizzare più annualità.
Un varco per un nuovo condono? Dalla maggioranza si assicura di no. L’emersione non sarà anonima e per sanare si pagherà l’intera imposta anche se con sanzioni fortemente ridotte. Inoltre la regolarizzazione dell’evasione, i cui proventi sono rimasti in Italia, dovrà avere un collegamento indiretto con l’esportazione di capitali. La misura, del resto, è stata pensata per non creare disparità tra i contribuenti e favorire l’adesione. In molti casi, i vari soci di aziende o componenti di una stessa famiglia, dopo la costituzione della provvista di denaro evaso, potrebbero aver fatto scelte diverse: dirottare le risorse all’estero o mantenerle in patria. In questa ipotesi chi denuncia l’estero denuncia anche il partner che ha mantenuto il denaro in Italia, che si troverebbe senza protezione.
L’arrivo della volontary disclosure è imminente e si dà per certa l’approvazione entro i primi giorni di luglio. Non è un condono perché le imposte evase si pagano interamente, ma certo di sanatoria si tratta. Anche se i paletti sono rigidi: le imposte non versate e gli interessi si pagano per intero, le sanzioni invece vengono ridotte (e l’atteso emendamento del governo dovrebbe alleggerirne ancora di più il peso). Naturalmente, per consentire l’emersione, le sanzioni penali vengono o cancellate o alleggerite. Viene stabilita la non punibilità per omessa dichiarazione e il dimezzamento della pena per frode fiscale: l’emendamento del governo potrebbe estendere la non punibilità anche ai casi di omesso versamento Iva e alle ritenute non operate come sostituto d’imposta. Per incoraggiare gli imprenditori, ci saranno anche benefici fiscali per chi impiega i capitali rientrati nell’azienda collegando le misure alla nuova tassazione Ace sugli utili reinvestiti.
Come si sanerà? Coloro che non hanno dichiarato nel quadro RW della dichiarazione dei redditi la somma esportata, ma sulla quale sono state già pagate le tasse in Italia, potranno limitarsi ad una sanzione. Un secondo caso è quello dei capitali detenuti all’estero dove non si sono pagate le tasse sui rendimenti: in questo frangente si calcola un rendimento presuntivo del 5% dell’investimento finanziario all’estero e una aliquota forfettaria del 20% che un emendamento del Pd porterà al 27. Infine il caso dell’evasione e del trasferimento all’estero di fondi più clamoroso: risorse prodotte dall’evasione e trasferite all’estero. Se il contribuente non è in grado di dimostrare che provengono da un attività già tassata in Italia si presume che siano frutto di evasione e dunque ci si dovranno pagare tutte le tasse, più interessi e sanzioni.

l’Unità 25.6.14
Ma quando si rinnovano i contratti di lavoro?
Sono quasi otto milioni i dipendenti in attesa, ma i ritardi si allungano
Ben quarantaquattro sono scaduti, 15 nella Pubblica amministrazione

Nel giorno in cui perfino papa Francesco twitta «Quanto vorrei vedere tutti con un lavoro decente! È una cosa essenziale per la dignità umana», arrivano le oramai solite brutte notizie per i lavoratori italiani.
29 MESI DI ATTESA MEDIA
Sono sempre di più - ben 7,9 milioni nel mese di maggio - i lavoratori in attesa di rinnovo contrattuale. L'attesa media, per chi ha il contratto scaduto, è salita a circa due anni e mezzo: è in media di 29,3 mesi per l'insieme dei dipendenti e di 15,5 mesi per quelli del settore privato. I numeri dell’Istat certificano e confermano una china sempre più pesante per lo strumento del contratto nazionale. Tra i contratti monitorati dall'indagine si è registrato il recepimento di un solo accordo (radio e televisioni private), mentre nessun accordo è venuto a scadenza.
E se ieri mattina sembrava che fosse stato firmato il contratto dei giornalisti, nel pomeriggio la notizia è stata smentita: la trattativa fra editori - Fieg - e sindacato giornalisti - Fnsi - è tornata in alto mare anche per le polemiche proprio sull’equo compenso previsto - e considerato troppo basso - per i lavoratori precari. Pertanto, alla fine di maggio, sono in vigore 31 contratti che regolano il trattamento economico di circa 5 milioni di dipendenti che rappresentano il 37,7% del monte retributivo complessivo. Nel settore privato l'incidenza è pari al 51,6%, con quote differenziate per attività economica: nel settore agricolo è del 6,8%, mentre è dell'80,6% nell'industria e del 27,4% nei servizi privati. Complessivamente i contratti in attesa di rinnovo sono 44 (di cui 15 appartenenti alla pubblica amministrazione) relativi a circa 7,9 milioni di dipendenti (di cui circa 2,9 milioni nel pubblico impiego).
Alla fine di maggio i contratti collettivi nazionali di lavoro in vigore per la parte economica riguardano il 38,5% degli occupati dipendenti e corrispondono al 37,7% del monte retributivo osservato.
Sul comparto pubblico, che attende dal 2009 il rinnovo, ora alle prese con la riforma varata dal decreto Renzi, si spera che arrivino buone notizie dalla legge di Stabilità: lì il ministro Marianna Madia si è impegnata a trovare le risorse necessarie per sbloccare gli stipendi dei 3,3 milioni di lavoratori statali, che a legge vigente sarebbero bloccati fino al 2017.
Non va meglio sul fronte degli stipendi. Amaggio l'indice delle retribuzioni contrattuali orarie aumenta dello 0,1% rispetto al mese precedente e dell'1,3% nei confronti di maggio 2013. Complessivamente, nei primi cinque mesi del 2014 la retribuzione oraria media è cresciuta dell'1,4% rispetto al corrispondente periodo del 2013. Con riferimento ai principali macrosettori, a maggio le retribuzioni contrattuali orarie registrano un incremento tendenziale dell'1,6% per i dipendenti del settore privato e una variazione nulla per quelli della pubblica amministrazione. I settori che a maggio presentano gli incrementi tendenziali maggiori sono: telecomunicazioni (3,1%); gomma, plastica e lavorazione minerali non metalliferi (3,0%) ed estrazione minerali (2,9%). Si registrano variazioni nulle nel settore edile e in tutti i comparti della pubblica amministrazione.
Tornando alle parole del Papa, sempre su twitter sono state riprese dal segretario generale della Cgil Susanna Camusso, che ha commentato: «Viva le parole di Pontifex_it #lavorodecente per tutti».

l’Unità 25.6.14
Il boom degli sfratti è un’emergenza sociale
Nel 2013 emesse 73.385 ingiunzioni (+8%), di cui oltre 31mila eseguite
Allarme Cgil: pochi i soldi stanziati nel fondo, serve più programmazione

Un vero e proprio «bollettino di guerra ». Così il sindacato degli inquilini della Cgil, il Sunia, definisce il boom degli sfratti per morosità registrati nel 2013, lanciando l’allarme e spronando il governo a un intervento immediato e risolutivo.
I numeri diffusi dal Ministero degli Interni, del resto, lasciando davvero poco spazio all’ottimismo. L’anno scorso, infatti, sono stati emessi ben 73.385 sfratti, in crescita dell’8 per cento rispetto al 2012, quando se ne contavano 67.790. Del totale, le ingiunzioni per morosità rappresentano l’89% del totale, in assoluto 65.302, contro i 60.244 di due anni fa. Questo significa che quasi nove inquilini su dieci hanno ricevuto l’avviso perché morosi, ovvero «perché non potevano più permettersi di saldare l’affitto», aggiunge Laura Mariani, responsabile delle Politiche per la casa della Cgil nazionale.
SOFFRONO TUTTI I TERRITORI
Oltre agli sfratti notificati, crescono anche le richieste di esecuzione con l’ufficiale giudiziario che dalle 120.903 del 2012 passano a quasi 130mila (+6,7 per cento), e quelli effettivamente eseguiti, che nel 2013 sono stati 31.399 (+12 per cento rispetto ai 27.695 dell’anno precedente).
Nessun territorio sembra essere risparmiato. “Ben 22 province hanno incrementi degli sfratti per morosità di oltre il 20% - si legge nel comunicato di Sunia e Cgil -, tra gli aumenti più consistenti delle città capoluogo si segnalano Napoli (+22%), Catania (+26%) e La Spezia (+43%)». In termini assoluti è Roma, di gran lunga, la città con il maggior numero di sfratti per morosità: sono 7.042, in aumento del 14% rispetto ai 6.191 dell’anno precedente. Seguono poi Milano e Napoli. Anche a Bologna la situazione non è rosa: dall’inizio dell’anno, spiega il sindacato felsineo, sono già stati eseguiti ben 900 sfratti, e l’emergenza abitativa riguarda intere famiglie, che si trovano da un giorno all’altro senza un tetto dove stare, con gli assistenti sociali che non sempre riescono a trovare una soluzione adeguata, anche se temporanea. Non è un caso che le occupazioni e i momenti di protesta, anche molto dura, si moltiplichino in molte città italiane, in primis nella Capitale.
Cosa fare di fronte a una marea montante, anzi a uno tsunami che rischia di travolgere le vite di migliaia di persone? Innanzitutto accelerare sui provvedimenti promessi dal governo. «Non sono state ancora ripartite a livello regionale le risorse per il fondo per la morosità incolpevole prevista dal decreto messo a punto dal ministro Maurizio Lupi (nel maggio scorso è divenuto legge, ndr), che pure per la prima volta riconosce questa condizione come una fattispecie con caratteristiche proprie», ricorda Mariani. Al di là del fatto che i 266 milioni da qui al 2020 «sono una cifra ancora insufficiente per affrontare un disagio di questa portata », rimarca la sindacalista, bisogna fare presto, «perché in questo periodo gli sfratti non aspettano e vanno avanti. E, come si vede, sono aumentati».
Ma c’è anche la necessità che «lo Stato ritrovi la sua funzione di programmazione - continua Mariani -, e per farlo deve lanciare un piano pluriennale di edilizia davvero sociale, a canoni sostenibili e che punti sul recupero di aree ed edifici dismessi senza ulteriore consumo di suolo. E che, inoltre, abbia stanziamenti certi e prolungati nel tempo e sia chiara e trasparente».
Cgil e Sunia chiedono anche all’esecutivo guidato dal premier Matteo Renzi «una revisione della legge sulle locazioni che punti, attraverso contrattazione collettiva e leva fiscale, ad abbassare il livello degli affitti provati e ad aumentare l’offerta», oltre a una dotazione finanziaria «certa e programmata per permettere sostegno diretto agli inquilini in difficoltà». Al momento, il Fondo per il sostegno all’affitto, già ripartito, è di 200 milioni di euro fino nel biennio 2014-2015.

il Fatto 25.6.14
Pinotti e gli F-35: “Rischi industriali se li tagliamo”

Nel caso in cui l’Italia dovesse decidere di non confermare le commesse relative all’acquisto degli F-35 ci potrebbe essere “un peggioramento sostanziale della competitività dell’intero sito produttivo” di Cameri, “ciò determinerebbe che le commesse internazionali provenienti da altri Paesi che hanno deciso di acquistare gli F35 sarebbero inesorabilmente dirottate verso lo stabilimento statunitense”. Lo ha detto la ministra della Difesa, Roberta Pinotti, in audizione davanti le commissioni Difesa di Camera e Senato sul documento programmatico pluriennale per il triennio 2014-16, annunciando l’intenzione di “chiedere la collaborazione con gli Usa affinché sia incrementato nei prossimi anni il carico di lavoro per lo stabilimento di Cameri, in modo da compensare la riduzione delle attività produttive connesse con le esigenze italiane. Nei prossimi giorni - ha precisato - mi recherò negli Stati Uniti. Altri Paesi in Asia e in Europa stanno investendo risorse per acquisire capacità produttiva - ha aggiunto - Se ci fermiamo ora gli altri potranno sorpassarci”.

il Fatto 25.6.14
Il decreto fantasma sparito subito dall’orizzonte

DOVE ERA FINITO il decreto sulla Pubblica amministrazione opera di Matteo Renzi e Marianna Madia? Il Fatto Quotidiano da diversi giorni indaga sulla promessa uscita dal Consiglio dei ministri di due settimane fa. La riforma della Pubblica amministrazione, spacchettata in due provvedimenti (uno sulla Pa e uno sulla crescita) è stata finalmente firmata dal capo dello Stato solo ieri, dopo essere uscita dal Consiglio dei ministri il 13 giugno scorso.

il Fatto 25.6.14
Responsabili
Promesse vane: “Marianna vi dirà tutto”
di Antonello Caporale

Poi Marianna vi dirà tutto”. Anzi, di più: “Con il ministro Madia entrerete nei dettagli, fatemi spiegare solo quelle quattro o cinque cose che credo vi servano...”. Quel grandissimo caporedattore che è Matteo Renzi dieci giorni fa impostò i giornali (come sempre più spesso gli succede) e indicò ai giornalisti titoli e sommari per l’ultima rivoluzione di casa Italia, quella grandiosa riforma della pubblica amministrazione che tutti aspettiamo, e, per non perdere tempo che l’ora delle rotative era prossima, puntò lo sguardo su Marianna e affidò a lei le curiosità di rito: quanti articoli contiene la legge, di quante pagine, e con che corpo è scritta. Dettagli utili ma non fondamentali. Chi avesse voluto avrebbe comunque potuto farci una chiacchierata: “Domattina credo che il ministro vi convocherà”.
IL MINISTRO alla Curiosità è una donna di trentatrè anni che nel 2008 fu impiccata alla più bella, soave e giusta considerazione che la gioventù possa autorizzare. “Porto in dote la mia inesperienza”, disse quando dovette spiegare con quale spirito sarebbe entrata nella Camera dei deputati dove Walter Veltroni l’aveva condotta in trionfo, nominandola sul campo capolista del Pd nel Lazio. Inesperienza non vuol dire incompetenza né ingenuità. E Marianna, mamma di un bimbo di due anni e una bambina praticamente partorita al ministero (era all’ottavo mese di gravidanza quando Renzi la chiamò al governo), ha dimostrato di saperci fare. Amica di Veltroni per via di papà (giornalista e consigliere comunale prematuramente scomparso), e di Giovanni Minoli per la stessa via. Amica di Enrico Letta per via di Veltroni, amica di Bersani per via di Letta, e amica di Renzi per via di Bersani. Come se non bastasse anche simpatica a Massimo D’Alema, al quale ha dato una mano alla Fondazione Italianieuropei, Marianna è l’unica che ha mostrato di navigare tra le correnti senza guastarsi mai. Pulita è entrata in politica con la sua figura botticelliana, il viso incoronato da lunghi capelli intrecciati, la vocina sempre stupita, come se scendesse dal pero ogni volta che c’è chiasso, e pulita è rimasta. Felice in amore, e anche un pochino fortunata, diciamolo. Prima una love story con Giulio Napolitano (“Ma al tempo di quel flirt il papà era solo un illustre ex dirigente del Pci”, precisò), poi un legame coronato dal matrimonio con Mario Gianani, produttore cinematografico e socio – guarda un po’ tu - di Fausto Brizzi, il regista della Leopolda, la cupola renziana. Insomma, Marianna è un crocevia di conoscenze e un deposito di opportunità. Che ha saputo mettere a frutto come una formichina.
SI È SPECIALIZZATA nelle materie del lavoro, affinate durante un’esperienza all’Arel, il centro studi di Letta, che ha poi sfruttato in Parlamento, quando ha presentato la legge sul contratto unico del lavoro. Sgobbona anche. Si è diplomata col massimo dei voti alla scuola francese di Roma, laureata con lode in Scienze politiche, master in economia del lavoro all’Imt di Lucca. Vogliosa di mostrarsi, espandere amicizie, e fare carriera. Si è fatta largo sgommando un po’, si è fatta sentire quando si accorse che il partito la stava consegnando all’oblio: “Esistono in questo partito tante piccole associazioni a delinquere”. Ma guarda un po’. Si è poi guadagnata la ricandidatura con un buon successo alle primarie. Poi è giunto Matteo. Che (ariguarda un po’ tu), l’ha subito convocata al governo. “Stavo guardando con mio figlio Peppa Pig”, esclamò stupita.
Invece... E certo non finisce qua la storia di Marianna. Promettente, coccolata, ambiziosa e previdente.

il Fatto 25.6.14
Idee confuse dal Cdm, Napolitano firma la Pa
Il testo era stato licenziato dal governo ben undici giorni fa, ma al Quirinale erano arrivate solo delle bozze imprecise
di Wanda Marra

Non provvedimenti finiti più o meno da correggere o da limare, ma sostanzialmente delle “idee”: dai Cdm dell’era Renzi è questo che esce. Ed è questo che arriva al Quirinale, con Giorgio Napolitano che si vede recapitare bozze, brogliacci, pezzi di testi giustapposti dai vari ministeri. E a quel punto il suo ruolo diventa quasi in automatico quello di co-autore delle leggi, piuttosto che di firmatario. La questione è esplosa col testo della Pa, un decretone omnibus, che conteneva di tutto, dalla magistratura alle mozzarelle di bufala: licenziato ufficialmente il 13 giugno, Re Giorgio l’ha rimandato indietro 10 giorni fa chiedendo di spacchettarlo. Alla fine, il decreto si è diviso in due: uno con le norme più importanti sulla Pa e un altro con quelle sulla crescita. Il Capo dello Stato li ha firmati ieri sera, 11 giorni dopo la data in cui erano stati teoricamente licenziati.
Il punto è che non c’è niente di “normale” nel modo in cui Palazzo Chigi a guida Renzi fa le leggi. Il premier ha abolito i pre-consigli, quelli in cui i testi in genere vengono scritti. E i Cdm si riducono a un’approvazione della volontà del premier. Tutto ciò che prima era prassi tecnica è totalmente sparita. Saltate le regole che governano la politica, è rimasto solo il fare politica. Che poi si traduce nel tentare di applicare quello che vuole il presidente del Consiglio. Il quale peraltro non si fida quasi di nessuno, non si avvale dei consiglieri che ha ereditato a Palazzo Chigi, né ne ha nominati di suoi. E ha investito un’unica persona, Antonella Manzione, l’ex comandante dei vigili urbani di Firenze, che ora guida il Dagl, del potere politico di decidere in fase di stesura dei decreti. Ovvero di tradurre in leggi le sue volontà. La quale Manzione, che tutti descrivono come una macchina da guerra, è però evidentemente sempre alla rincorsa della cosa giusta da fare. Anche perché non c’è programmazione, non c’è crono-programma. Chi la vede in positivo, spiega che Renzi ha una sorta di furor creativo: entusiasmo genuino e fretta di andare a smantellare le burocrazie e i poteri forti. Ma se alle idee non segue l’applicazione, finisce che la volontà diventa tutto, e la realtà resta sullo sfondo. L’effetto annuncio, per capirci: Renzi è bravissimo a raccontare , a capire qual è la strategia da seguire, a individuare le linee guida di un processo. Ma quando si tratta di realizzarle, di riempirle di contenuti, tutto diventa molto più difficile.
IN QUESTO contesto, Napolitano ha gioco più facile a rimpossessarsi del ruolo di guida politica che ha esercitato con gli ultimi esecutivi. Quando gli sono arrivati davanti i brogliacci della riforma della Pa ha ingaggiato una vera e propria battaglia con il governo, su pressione soprattutto della magistratura. Che si è battuta strenuamente contro alcuni cambiamenti contenuti nella riforma originaria, dalla possibilità di assumere doppi incarichi (l’esecutivo è riuscito ad imporre il fuori ruolo per chi li riceve, invece dell’aspettativa) all’età pensionabile. Nell’ipotesi originaria del governo, i magistrati sarebbero dovuti andare in pensione a 70 anni (e non a 75 come ora), con unica deroga fino a 75 anni per i capi, già a partire da inizio 2015. Nella norma finale l’età pensionabile è di 70 anni a partire dal 31 dicembre 2015. Fino all’ultimo, si parlava del 31 dicembre 2016, quello che i giudici avrebbero voluto ottenere. Almeno. Mediazione condotta direttamente dal Capo dello Stato, paventando il rischio caos per la macchina giudiziaria, con oltre 400 posizioni, anche di vertice, scoperte senza un periodo adeguato di transizione.
Napolitano a Renzi in queste settimane ha cercato di far passare l’idea che i pre-consigli li deve ripristinare e i decreti devono essere meno generici. Ma intanto interviene anche nell’attività del Parlamento: non c’è legge importante sulla quale non ci siano contatti informali tra Quirinale e Palazzo Chigi. Anche per l’idea di affidare alla Consulta il compito di giudicare i senatori, protetti da immunità, tra le perplessità che pesano c’è quella del Colle. Come reagisce Matteo? Per ora fa finta di niente, va avanti per la sua strada e quando si trova davanti al muro fa buon viso a cattivo gioco. E cerca di fare di necessità virtù. Come nel caso della eventuale nomina di Federica Mogherini come Mrs Pesc: il ministro degli Esteri piace molto a Napolitano, ed essendo donna e giovane risponde a una serie di requisiti importantissimi per lui. E poi è l’arma fine di mondo per mettere all’angolo D’Alema e Letta

Corriere 25.6.14
Statali, via ai trasferimenti obbligatori
di Lorenzo Salvia

La riforma con due decreti dopo le osservazioni del Quirinale Magistrati e militari in pensione più tardi. Escluse le forze di polizia ROMA — Undici giorni dopo la discussione in Consiglio dei ministri il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha firmato. Arriveranno sulla Gazzetta Ufficiale di oggi il decreto legge sulla Pubblica amministrazione, che contiene anche la parte sull’anticorruzione, e quello sulla competitività, che contiene il taglio delle bollette elettriche per le imprese, oltre alle norme su agricoltura e ambiente. La Presidenza della Repubblica si dice «del tutto estranea» ai contenuti dell’articolo del Corriere della Sera di ieri, che dava conto delle osservazioni sui testi presentati dal governo.
Confermate le ultime modifiche allo stop del trattenimento in servizio, cioè la possibilità di restare al lavoro dopo aver raggiunto l’età della pensione. Non saranno più possibili dopo la fine di ottobre di quest’anno, con l’eccezione di magistrati, avvocati dello Stato e militari, che potranno arrivare fino al dicembre 2015. Restano fuori dalla deroga, polizia, corpo forestale e guardia di finanza. L’obbligo di mettersi fuori ruolo, invece che in aspettativa, per i magistrati che accettano un posto di vertice nella Pubblica amministrazione non riguarda gli incarichi già affidati.
Scatta la mobilità obbligatoria per i dipendenti entro i 50 chilometri dalla sede di provenienza. Il taglio del 50% dei distacchi sindacali non partirà più dal primo agosto, il decreto potrebbe essere convertito dopo quella data, ma dal primo settembre. Si procede anche all’accentramento delle sedi delle autorità indipendenti, con il taglio del 20% dello stipendio per tutti i dipendenti e del 50% delle consulenze. Sulle consulenze del resto della P.a., invece, il decreto non prevede modifiche: in alcune bozze c’era l’ipotesi di tagliare la spesa possibile nell’anno in corso dall’80% di quanto speso nel 2013, come già previsto, al 70%. Ma nel testo finale questa accelerazione non c’è.

il Fatto 25.6.14
Nomine
Mogherini e il posto inutile in Europa
di Giampiero Gramaglia

Se lo ha fatto, per cinque anni, in modo impalpabile, Catherine Ashton, lo può fare
– e meglio - Federica Mogherini. Ma che il gioco sia chiaro: in quel posto dal nome sonoro, Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune, i governi che contano dell’Unione non vogliono qualcuno che possa fare valere peso e prestigio, ma qualcuno che non dia fastidio.
SE I LEADER DELL’UE avessero voluto un vero e proprio “ministro degli Esteri” europeo, lo avrebbero chiamato così, invece di inventarsi quell’Alto Rappresentante che suona funzionario e che nessuno capisce né chi è né cosa fa. E se poi ci aggiungete che dirige il Seae è peggio: la sigla sta per Servizio europeo di azione esterna, oltre 2000 addetti (con la prospettiva di arrivare a 7000), provenienti da ministeri nazionali, Commissione europea e Consiglio dei Ministri.
Quando Lady Ashton fu nominata nel 2009 non aveva quasi nessuna esperienza di diplomazia internazionale: a 51 anni, era stata per un anno commissario al Commercio internazionale nella prima Commissione presieduta da Manuel Barroso. Appena assunse l’incarico, si capì che avrebbe fatto rimpiangere Javier Solana, il suo predecessore, che, senza avere tutti i poteri conferitigli dal Trattato di Lisbona, era stato capace di rendere l’Europa presente in molte crisi internazionali. L’Alto Commissario è anche vice-presidente della Commissione e presiede i Consigli dei ministri degli Esteri dei 28: occasioni per farsi valere e per farsi notare ne ha. Lady Ashton ne ha colte ben poche, anche se col tempo qualche risultato positivo, nei Balcani o nei negoziati con l’Iran sul nucleare con la formula dei 5 + 1, l’ha magari ottenuto.
Ora, la Mogherini sarebbe, negli intenti dei leader dell’Ue, una scelta alla Ashton: ministro junior rispetto ai suoi colleghi, il più junior del lotto dei Grandi dell’Ue, senza l’autorità né l’esperienza per imporsi loro. Non sarebbe una scelta per cambiare le cose, ma per lasciarle come sono. E questo a prescindere dalle qualità della Mogherini, che è coscienziosa e preparata e alla cui credibilità non giova la carriera rapidissima: 41 anni, eletta deputata nel 2008 e rieletta nel 2013, presidente per pochi mesi della delegazione italiana all’Assemblea atlantica, poi responsabile esteri del Pd di Matteo Renzi per due mesi, quindi ministro degli Esteri a sorpresa. Il posto pareva sicuro per Emma Bonino (lei sì, a Bruxelles cambierebbe le cose).
ORA, I GIOCHI non sono ancora del tutto fatti e suona persino strana la disinvoltura con cui lei stessa e altri esponenti del governo italiano parlino della candidatura. Ieri, Sandro Gozi, sottosegretario agli Affari europei, diceva a Bruxelles che la carica può “benissimo spettare all'Italia”. In palio, ci sono le presidenze della Commissione –c’è un consenso sull’ex premier lussemburghese Jean-Claude Juncker, candidato dei Popolari - e del Parlamento europeo – si va verso una riconferma del presidente uscente Martin Schulz, socialdemocratico tedesco - e quelle del Consiglio europeo e dell’Eurogruppo. L’insieme deve tenere conto d’un mix di nazionalità, provenienze politiche, genere. Nei calcoli degli equilibri, entra che l’Italia ha la presidenza della Bce con Mario Draghi.
Interpellati dal Fatto, un ex rappresentante permanente presso l’Ue e un ex alto dirigente Bce commentano allo stesso modo l’ipotesi Mogherini: “Per l’Italia, non sarebbe un affare. O metti lì qualcuno che conta, oppure non conti lì e perdi peso in Commissione, perché l’Alto Rappresentante è spesso assente per i suoi impegni internazionali”. E in Commissione transitano, ogni settimana, decisioni delicate per l’Italia, dalle raccomandazioni economiche alle procedure d’infrazione (che non sono rare).

Repubblica 25.6.14
D’Alema: “Non sono in corsa contro la Mogherini ma Matteo non è un buon segretario del Pd”
di Francesco Bei


ROMA. Sembrava fatta e invece, proprio sul finale, arrivano i primi intoppi. La nomina di Federica Mogherini a “ministro degli Esteri” dell’Unione è infatti ancora una partita da giocare per Renzi e, nel suk europeo, si sa che nulla è mai scontato. Per questo la strategia italiana, in vista del summit Ue di domani sera a Ypres, è puntare tutto su quello che a Roma chiamano «package deal»: un accordo complessivo sul pacchetto di nomine al vertice, non solo la presidenza della Commissione. «Package deal» contro metodo Van Rompuy, che invece vorrebbe limitarsi alla designazione di Jean Claude Junker a presidente della Commissione. Poi sul resto si vedrà. Un’impostazione inaccettabile per il premier italiano. Che non a caso, parlando in Parlamento, ieri ha scoperto le carte sugli obiettivi italiani: «Chi oggi immagina che il gap di democraticità in Europa si colma semplicemente indicando Juncker o un altro, vive su Marte. Prima di decidere chi guida, decidiamo dove andiamo. E poi facciamo una discussione su un accordo complessivo: non solo il presidente della commissione, ma quello del parlamento, l’alto rappresentante per la politica estera, il presidente del consiglio, quello dell’eurogruppo».
Eppure l’intesa su questo «pacchetto», che consentirebbe a Renzi di tornare da Ypres con in mano la nomina di Mogherini, è lontana dall’essere chiusa. Ieri sera Massimo D’Alema, escludendo di essere in corsa contro Mogherini, ha aggiunto un dettaglio importante: «Mi risulta che giovedì e venerdì faranno soltanto il presidente della Commissione, anche perché la Merkel non vuole parlare delle altre nomine». Il timing dovrebbe essere questo: giovedì la designazione di Junker da parte dei leader, poi il 16 luglio il voto di fiducia del parlamento europeo sul presidente della Commissione e solo a seguire l’indicazione dei singoli commissari.
Vera o meno che sia la versione di D’Alema, è un fatto che rimandare a data da destinarsi le altre nomine mette oggettivamente a rischio la candidatura del ministro degli Esteri italiano. E la espone ai rischi di una trattativa con gli altri paesi. Con la Francia e la Germania che litigano su chi debba prendersi il commissario all’Energia (Hollande vuole piazzarci Pierre Moscovici), il gioco delle prese e delle rimesse potrebbe aprire una fase molto incerta per le sorti della Mogherini. Oltretutto la candidatura della titolare della Farnesina è insidiata anche da un rivale interno. Nonostante la smentita di rito, nei corridoi romani tutti danno per scontato che D’Alema sia (o ritenga di essere) pienamente in corsa. E sembra che stia cercando sostegno nella famiglia dei socialisti europei. Oggi, guarda caso, sarà a Bruxelles insieme al socialista Pascal Lamy per annunciare la sua nomina a suo vicepresidente nella Fondazione Feps. E alla Festa dell’Unità di Roma non ha rinunciato a tirare un calcio al premier: «Non è un buon segretario, sta facendo soffrire il Pd».
Intanto, se le ambizioni di Renzi su “Mr. Pesc” vanno incontro alle prime nubi, sul piano dei contenuti il premier italiano può dirsi soddisfatto. Armando Varricchio, il suo sherpa a Bruxelles, ieri gli ha comunicato che l’ultima versione del documento programmatico da far approvare al Consiglio europeo è oggi molto più vicina all’impostazione italiana «più crescita, più flessibilità». Anche il sottosegretario Sandro Gozi, che in Lussemburgo ha partecipato alla riunione del consiglio affari generali, conferma che «si sta andando nella giusta direzione». Quello che palazzo Chigi chiama il “metodo Renzi”, ovvero prima le cose da fare e poi i nomi, sembra insomma abbia fatto breccia. Tanto che ieri anche Hollande ha voluto far uscire una sua «agenda per la crescita» seguendo l’esempio di quella italiana.
A Montecitorio e palazzo Madama, nel giorno del dibattito sul semestre europeo, ieri erano invece in molti a chiedersi perché Renzi, anziché puntare su un portafoglio di peso, si sia incaponito nel chiedere la poltrona che fu dell’evanescente Catherine Ashton. Alto rappresentante di politica estera di un’Unione che non ha una politica estera. Una spiegazione la fornisce il ministro Maurizio Lupi: «Avendo passato vent’anni con Berlusconi ho imparato a capire Renzi. Visto che l’Italia, per evidenti ragioni, non poteva ottenere un commissario economico, ha preferito puntare sulla poltrona più prestigiosa in termini di visibilità. Così nessuno potrà rinfacciargli di aver portato a casa meno del governo precedente».

Corriere 25.6.14
Sel, oggi la direzione Vendola dimissionario
Assemblea dei gruppi parlamentari ieri, direzione del partito oggi. Per Sel i giorni difficili continuano: oggi il presidente Nichi Vendola si presenta dimissionario, mentre non sembra arrestarsi l’emorragia di parlamentari: le fuoriuscite di Zan, Lavagno e Pilozzi sembrano ormai cosa fatta. Ma tra i partenti potrebbero esserci anche Martina Nardi e Luigi Lacquaniti. Dopo che la scorsa settimana aveva già lasciato Gennaro Migliore. Che, per il momento, non entrerà nel Pd: «L’interesse non è a entrare nel Pd, ma a capire con loro quali possono essere le possibili convergenze sui temi di governo». Vendola, intanto, cerca «nuovi orizzonti» e stasera sarà alla festa Sel di Roma con Pippo Civati.

Repubblica 25.6.14
La polemica. Sel, fuga continua
Altri tre esponenti abbandonano il partito di Vendola “Tsipras un errore”


Salgono cosi a nove gli addii: via anche Lavagno, Pilozzi, Zan Nel misto con Migliore
ROMA . Non c’è pace per Sel, né si arresta l’emorragia di parlamentari. Anzi, tre deputati - Fabio Lavagno, Alessandro Zan e Nazzareno Pilozzi - invieranno stamane una lettera ai vertici del partito per comunicare le dimissioni irrevocabili dalla forza politica di Nichi Vendola. Salgono così a nove, in poche settimane, gli addii.
La lettera, limata fino all’ultimo dai tre, non lascia spazio a dubbi: «Lasciamo il gruppo. Abbiamo fatto tutti gli sforzi per trasformare Sel in una forza di sinistra moderna, invece è diventato un partito di opposizione a prescindere ». Ma non basta, perché Zan, Lavagno e Pilozzi bocciano senza appello l’idea stessa di Sinistra ecologia e libertà: «Il massimalismo ha cancellato il progetto di una sinistra di governo. Avevamo fondato Sel con questa idea, ma l’accelerazione della lista Tsipras ha cancellato l’idea di rafforzare un partito saldamente nel campo del socialismo europeo». Sempre lì si torna, all’abbraccio con il leader greco che ha però consentito di superare di un soffio la soglia del 4% alle Europee.
I tre parlamentari, che seguiranno l’ex capogruppo Gennaro Migliore per dar vita a un gruppo autonomo impegnato nel dialogo con il Pd, guardano adesso all’area della maggioranza. La sfida, giurano, è sui contenuti: «Dobbiamo stare nei processi per migliorare le condizioni della gente e dare una mano al cambiamento, noi siamo nati per questo. Altrimenti scegliamo un orizzonte di opposizione testimoniale». Per questo dicono addio a Nichi e “snelliscono” ancora un gruppo partito con 36 deputati e ridotto adesso a 27.
Non saranno gli ultimi a lasciare. Il governatore pugliese, intanto, si prepara a presentarsi dimissionario alla direzione che si terrà oggi a Roma. Poi, a sera, spazio al confronto pubblico con Pippo Civati, dopo quello privato con Gianni Cperlo ieri in Transatlantico. C’è da scegliere un nuovo capogruppo e rivedere gli assetti del partito, ma la votazione si terrà solo lunedì prossimo. Per adesso il ruolo è occupato dal “reggente” Nicola Fratoianni, che è anche coordinatore di Sel.

Repubblica 25.6.14
Lotti, braccio destro di Renzi
“Assunzioni e sgravi per rilanciare i giornali”
di Goffredo De Marchis


ROMA. «Dobbiamo dare un’occasione ai giovani, rompere il soffitto di cristallo che ha impedito loro di entrare nel mondo del lavoro». Luca Lotti, 32 anni, braccio destro del premier Renzi, firmerà oggi il decreto della Presidenza del Consiglio sul Fondo straordinario per l’editoria (120 milioni di euro in tre anni). «Aiutiamo le aziende con i pre-prensionamenti in un momento di crisi profonda del settore ma le sfidiamo a fare di più sul fronte dell’occupazione», dice il sottosegretario con delega all’editoria. Per la prima volta il decreto prevede il vincolo delle assunzioni per le imprese editoriali che accedono ai soldi pubblici: ogni 3 pre-pensionati ci dovrà essere un neoassunto. «È una sfida che lanciamo agli editori. Finora il fondo forse era troppo sbilanciato a loro favore». E se la regola non viene rispettata, si chiude il rubinetto dei soldi pubblici.
C’è una stima sui possibili neoassunti nei giornali?
«Abbiamo fatto dei calcoli sulla base dei dati dell’Inpgi, l’istituto di previdenza dei giornalisti. Alla fine del 2014 stimiamo 300 assunzioni. Circa 1000 entro il triennio di validità del decreto. Abbiamo bisogno di un piccolo Jobs Act anche nel mondo dell’editoria. Il nostro è un esempio che spero possa essere utile al tema complessivo e più ampio del mondo del lavoro. Ovviamente, prepensionamenti e nuovi contratti devono avere tempi contestuali. Nel decreto si dice anche che se un’azienda editoriale pre-pensiona con fondi pubblici un giornalista, questo non può essere poi riassunto con un contratto di collaborazione. Anche così si cambia verso con il passato».
Basterà il vincolo di un assunto ogni 3 pensionati per risolvere la crisi occupazionale?
«Infatti siamo andati oltre: abbiamo aggiunto gli sgravi fiscali. Al 100 per cento, per tre anni, in caso di contratto a tempo indeterminato. Al 50 per cento nei contratti a tempo determinato. E sgravi del 100 per cento retroattivi per il passaggio dal contratto precario a quello fisso. Sono 11 milioni di euro solo per il 2014. Ci sono poi 7,5 milioni per investimenti in nuove tecnologie e incentivi per le start up. Una misura quest’ultima allargata anche all’editoria libraria».
Il ‘Fondo Lotti’ in cosa è diverso dalle precedenti versioni?
«Abbiamo portato avanti e completato un lavoro avviato con la manovra 2014. Di nostro ci abbiamo messo l’idea di incentivi contro il precariato e per i giovani che vogliono fare il mestiere di giornalista. Guardiamo a tutti gli occupati ma soprattutto a loro».
Sul precariato c’è una rivolta in corso per l’equo compenso. I free lance avrebbero diritto a  soli 250 euro al mese. È una miseria.
«Equo compenso è una definizione sbagliata. Quella giusta, a mio parere, è compenso minimo garantito. Fino a oggi non c’era e su questo la commissione ha lavorato: il governo ha avuto un ruolo di mediazione. Prima gli articoli erano pagati da alcune aziende 5 euro e anche meno. Adesso il minimo è 20. E non sono mensili come ho letto sui social: 250 euro è il compenso per 12 pezzi di 1600 battute, ossia 26 righe. I giornalisti free lance ne scrivono molti di più. Sono soddisfatto? No, è poco, questo è vero, ma 15 euro più di prima possono essere considerati una vittoria soprattutto per chi ha ingaggiato la battaglia come il presidente dell’Ordine Iacopino. Si può fare meglio e ci impegneremo a farlo, ma rispetto alla situazione attuale sono stati fatti passi in avanti».
Arriveranno ancora fondi ai giornali di partito e delle cooperative?
«Stiamo preparando una rivoluzione per settembre. Se mi chiede “è ora di finirla coi soldi a giornali che non esistono” la risposta è sì. Se mi chiede “è ora di finirla con stanziamenti senza criteri” la risposta è ancora sì. Per il resto, è una partita aperta: così come abbiamo fatto per questo decreto stiamo valutando tutte le opzioni. Entro l’autunno saremo pronti a illustrare le nostre idee, che sottoporremo all’attenzione di tutti, anche del M5S».

Corriere 25.6.14
Media. Regole per il periodo 2013-2016
Editori e giornalisti siglano l'accordo sul nuovo contratto
di Andrea Biondi

MILANO Editori e sindacato dei giornalisti hanno sottoscritto un accordo per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro giornalistico (Cnlg) per il periodo compreso fra il 1° aprile 2013 e il 31 marzo 2016. Con questo accordo le parti si rivedranno oggi dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all'Editoria, Luca Lotti, come riportato in una nota della Fieg, «per la firma del protocollo d'intesa con il Governo, finalizzato alla destinazione delle risorse previste per il settore dell'editoria dal comma 261, articolo 1 della legge n. 147/2013 "Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014)». Insomma, trovato l'accordo i soldi del Fondo straordinario per l'editoria starebbero per arrivare.
Quanto ai contenuti di questo accordo che è l'ossatura del nuovo Cnlg, dopo la firma, una settimana fa, del documento sul lavoro autonomo che introduce minimi di pagamento e coperture sociali per i collaboratori esterni, sul fronte occupazionale il contratto conterrà la nuova tipologia dell'apprendistato professionalizzante, con il praticantato e un ulteriore periodo di formazione regolarmente retribuito. Ci saranno anche temporanee misure di salario d'ingresso con riduzioni contributive e retributive per le nuove leve per 36 mesi dall'assunzione.
Viene poi introdotta un'aliquota straordinaria dell'1% a carico degli editori per per supportare il finanziamento degli ammortizzatori sociali. Sul fronte del trattamento retributivo, è invece previsto un aumento di 120 euro in due anni, con prima tranche a partire dal 1° luglio, ma sotto forma di elemento distinto della retribuzione (e quindi nella parte bassa della busta paga, senza "scaricarsi" perciò su festivi o straordinari).
Viene infine riformato l'istituto della cosiddetta ex-fissa che rimarrà per chi l'ha maturata o è in attesa di andare in pensione; rimarrà in forma contenuta e nuova per chi andrà in pensione nei prossimi 15 anni, mentre per i nuovi assunti ci sarà un percorso parallelo di previdenza integrativa.

l’Unità 25.6.14
Partito della Nazione: cosa vuol dire
di Alfredo Reichlin

SULL’ESPRESSIONE UN PO’ ENFATICA DI «PARTITO DELLA NAZIONE» SI STA FACENDO CONFUSIONE. IO LA USO PER UNA RAGIONE MOLTO SEMPLICE e molto chiara: perché è dalla crisi della nazio- ne italiana che bisogna partire. Una crisi senza precedenti che riapre molti problemi che l’Unità ha lascito irrisol- ti. Il fatto nuovo è che proprio su que- sto terreno, molto più vasto rispetto ai tradizionali conflitti sociali, le forze del progresso e quelle della reazione giocano oggi una partita decisiva e la sinistra italiana rischia la sua stessa esistenza.
Altro che rinuncia al cambiamento e alla lotta contro la destra rispolverando l’inganno di un «partito unico». Significa non aver capito la natura di una lotta che ormai travalica i vecchi confini dello Stato e delle classi e non rendersi conto a che cosa si riducono i diritti e i poteri degli italiani e soprattutto dalle classi subalterne se non si ferma il processo disgregatore della trama sociale, degli assetti democratici e dello stare insieme di questo paese.
È una questione nuova rispetto a una vecchia cultura politica della sinistra. Si tratta essenzialmente del problema di come rappresentare e dare potere a una umanità che si confronta con una realtà che, insieme a nuove opportunità presenta rischi inediti e quindi bisogni e domande diverse dal passato. Le risposte sono difficili ma una cosa mi sembra chiara: non basterà affidarsi al mercato che si autoregola né alla tradizione socialdemocratica. Bisognerà andare più nel profondo dei problemi sociali e culturali. Muovere da essi in nome di una visione più alta dell’interesse generale, e quindi di una nuova idea del progresso. Dopo molto tempo e a fronte dell’avvento al potere di una nuova generazione è molto importante che tornino in campo i grandi temi.
Sono sommarie riflessioni. Le faccio non per nostalgia di «sinistrismo» oppure in nome di non so quale nuova «narrazione» ma come necessità di una risposta al modo come nel tessuto democratico occidentale ha fatto irruzione questa forma di economia a dominanza finanziaria che obbedisce non solo a logiche di profitto (questo è ovvio) ma tali da distruggere il legame sociale, a rompere quei compromessi e quei valori che sono il necessario presupposto dei regimi democratici. So che questo tema è molto ostico al pensiero «liberal» di questi anni. Tuttavia è un fatto che gli effetti sono stati catastrofici. E non solo quelli economici (la bolla speculativa) ma quelli perfino antropologici: un sistema economico basato sull’azzardo morale, sul debito che genera debito e sul denaro che produce denaro, non può che condurre alla devastazione delle risorse naturali e all’impoverimento dei ceti laboriosi. Al dilagare della corruzione. Tutto quindi spinge a pensare che la questione più concreta su cui far leva è il destino e il ruolo del lavoro. È vero che nella società moderna il lavoro non è tutto ma ciò che sembra venire meno è il grande edificio storico della modernità. Quell’Europa nella quale la storia fece un salto. Cessarono di essere centrali le figure del non lavoro (nobili, soldati, sacerdoti, avventurieri mentre il lavoro era solo il sottosuolo della società, il mondo dei servi) e diventavano protagoniste le nuove grandi forze produttive. La borghesia e il proletariato. Ed è attraverso il loro conflitto, che il mondo occidentale intraprese la costruzione di un nuovo ordine civile: i diritti e i doveri universali, la libertà e la democrazia.
Non siamo oggi di fronte a un problema di questa natura? Servono allora nuove idee. Noi da anni non inventiamo niente. Ci flagelli a mo con la crisi della sinistra ma forse non si rendiamo conto che puri n presenza di società parcellizzata si è aperta anche una nuova grande domanda: l’esigenza di un nuovo «noi». Un «noi» che guardi oltre i singoli territori, (e basterebbero le sfide ormai ineludibili dei diritti umani e della protezione dell’ambiente per rendercene conto). Un «noi» che ci chiede di pensare una forma nuova della politica come il luogo delle grandi scelte collettive. Perciò i partiti sono più di prima necessari. Ma a differenza del passato dovrebbero poggiare su una pluralità di organismi intermedi, il cui tratto comune sia il protagonismo della gente ispirato dalla consapevolezza che il mondo è a rischio e che governarlo è una impresa comune. Insomma un orizzonte di valori moderni all’interno dei quali ogni formazione politica e culturale si colloca a suo modo.
La questione sociale non è più riducibile alla contesa tra l’impresa e gli operai. È l’insieme del mondo dei produttori, cioè delle persone che creano, pensano, lavorano e fanno impresa che subisce una forma nuova di dominio e di sfruttamento. Ma se è così ci sono le condizioni per alleanze più larghe. Sia il modello socialdemocratico come il paradigma neo- liberista sono obsoleti. La politica deve rappresentare la ricchezza della vita sociale. Deve offrire soluzioni ai problemi collettivi che sfuggono alle vecchie identità. Torno così all’Italia. È perfino ovvio che il complesso di ristrutturazioni che ormai attendono il nostro Paese, sicuramente non potranno essere portate avanti in un clima di guerra di tutti contro tutti. Ed è qui che si ritrova la ragione fondante del partito democratico. Un partito che non ha nulla a che vedere con una forza personalista e autoritaria.

l’Unità 25.6.14
No left senza critica al Capitale
di Bruno Gravagnuolo

TUTTI AL CAPEZZALE DEL GRANDE INFERMO: la sinistra. Con i medici incapaci di una diagnosi. Giovedì su “Repubblica” Marc Lazar, Alain Touraine, Massimo Salvadori, Marco Revelli e Guido Crainz si chiedevano che fine abbia fatto la sinistra. Solita disputa tra post-ideologici ed egualitari. Touraine, Lazar, e Crainz, vogliono una sinistra liberale dei diritti, non statalista né lavorista. Salvadori e Revelli denunciano le diseguaglianze e invocano la redistribuzione. In comune c’è il rifiuto dell’austerity e l’appello a un altro ruolo dello stato. Ciò che manca però è la critica del capitalismo. Monetario manageriale, globale, digitale. Ma pur sempre capitalismo. Certo, l’eguaglianza è cruciale come discrimen tra destra e sinistra. Ma il punto è: come mai l’ineguaglianza si è così estesa? E perché anarchia finanziaria globale e crisi di domanda? Risposta: il Capitale senza freni ristruttura sé stesso. Delocalizza, e insegue la finanza per rilanciarsi. La finanza colonizza il capitale industriale e vi si mescola. Alcuni stati nazionali dominano il processo e dettano le regole agli altri. Gli stati deboli le patiscono e subiscono l’assalto al loro debito sovrano, contratto per allargare la loro gracile domanda. Da una parte il Capitale/finanza. Dall’altra miliardi di lavoratori flessibili, tassati e indebitati. In mezzo, ceto medio dei paesi emergenti e piccole imprese. Incalzati da competitività e tagli di spesa. Poi c’è il caso italiano: sprechi e privatismo statale (perché non viene sciolto il Consorzio Venezia Nuova?). Ma il cuore del problema è la critica del capitalismo. Non avercene una fa della sinistra un ente inutile. O un repertorio di buoni sentimenti.

l’Unità 25.6.14
Ustica, dopo 34 anni la Francia dà risposte
Dalle rogatorie la conferma della presenza di una portaerei americana e di una squadra francese che partecipava alle esercitazioni

Sì, quella notte l’aeroporto Nato di Solenzara, in Corsica, sembrava proprio un alveare impazzito. Caccia intercettori F 104 e Mirage di diverse nazionalità atterravano e decollavano in continuazione: chiamati a svolgere una missione sconosciuta proprio nelle stesse ore in cui il Dc 9 Itavia, volo I-TIGI, partito in ritardo da Bologna e diretto a Palermo con 81 persone a bordo, spariva dai radar e si inabissava nel mare di Ustica. La coincidenza fu rivelata da un testimone, il generale dei carabinieri Nicolò Bozzo, l’uomo che avrebbe descritto dall’interno presenze e deviazioni piduiste nell’Arma, e che il 27 giugno 1980 si trovava in vacanza con la famiglia vicino a quella base operativa.
Trentaquattro anni dopo, ormai accertato che il Dc 9 fu abbattuto nel corso di un’operazione di guerra, un altro piccolo strappo si sarebbe prodotto nel silenzio che per troppo tempo ha avvolto la strage come un pesante sudario istituzionale. Facendo in un primo momento passare il disastro aereo come l’esito di un grave quanto inesistente “cedimento strutturale” del velivolo. Per lacerare quel tessuto i magistrati Erminio Amelio e Maria Monteleone hanno avviato elaborate rogatorie internazionali, cercando di capire di che nazionalità fosse l’aereo militare che quella notte cancellò le vite di 77 passeggeri e 4 membri dell’equipaggio imbarcati sul volo I-TIGI. L’unico Paese a rispondere almeno parzialmente alle richieste dei Pm è stata la Francia, che in un primo tempo ha fornito lumi sulle posizioni di due sue portaerei, la Clemenceu e Foch. Poi il governo d’Oltralpe avrebbe rintracciato una decina di avieri che quella notte erano in servizio a Solenzara. Impossibile sapere, visto il riserbo che avvolge l’indagine, cosa questi abbiano dichiarato ai magistrati italiani, ma la ricostruzione di cosa accadde in Corsica non sarebbe più affidata solo a un testimone attento e competente come Bozzo. Altre voci parlerebbero di una base attiva fino a ore insolite, tanto da togliere il sonno a turisti e residenti. Voci che ora dovrebbero essere confermate risalendo la catena di comando, cioè rintracciando, se dopo tanto tempo sono ancora vivi, anche gli ufficiali superiori.
Fu il presidente emerito Francesco Cossiga, nel 2007, a chiamare pesantemente in causa la Francia. L’ex picconatore mise a verbale che ad abbattere il DC9 con un missile aria-aria «a risonanza e non a impatto» sarebbe stato un caccia decollato da una portaerei francese nel tentativo di intercettare e colpire un aereo libico con a bordo il colonnello Gheddafi. Cossiga si dichiarò scettico sulla possibilità che Parigi battesse un colpo sull’argomento. Ora però quel colpo sarebbe arrivato. In due passaggi. Il primo, oltre un anno fa, con l’ammissione che, seppure in epoca diversa dal 27 giugno 1980, due portaerei francesi incrociavano nel Mediterraneo. La Clemenceau e la Foch, secondo le risposte francesi, quella notte erano nei dintorni o addirittura nel porto di Tolone, quindi molto distanti dalla zona di Ustica. Dal diario di una fregata che di solito scortava i due giganti della flotta, risulterebbe però, proprio nel giugno ‘80, la partecipazione a una missione di squadra e a un’esercitazione con la portaerei americana Saratoga. Si sa inoltre che tra il 7 e l’8 giugno la Foch era alla fonda in un porto della Corsica. Questo fornisce un contesto importante e una conferma almeno parziale a un fatto ormai ritenuto assodato; la presenza di una portaerei nella zona in cui il Dc 9 fu abbattuto. La circostanza è dimostrata dai tracciati radar che “fotografano” aerei che decollano e atterrano in mare e da testimonianze di piloti civili che nelle ore precedenti il disastro avevano sorvolato quel tratto di mare.
Ed è proprio questo il punto su cui finora si sono registrate le maggiori resistenze a livello internazionale. La presenza di un aereo Awacs, in pratica un gigantesco radar volante, è sempre stata negata dagli americani, anche se fonti Nato hanno detto che quell’aereo non poteva portare che una targa Usa. Lo stesso dicasi per i movimenti della Saratoga, che secondo Washington era ferma, a radar spenti per non disturbare le frequenze televisive, al largo di Napoli: circostanza abbastanza singolare, viste le tensioni che in quel momento attraversavano il Mediterraneo. Ultimamente gli americani avrebbero offerto all’Italia una sorta di rassegna stampa su Ustica, ma la proposta sarebbe stata garbatamente respinta al mittente. «Di articoli di giornale ne abbiamo molti di più noi», avrebbe commentato uno degli uomini impegnati nelle indagini.
Esito deludente anche dalle rogatorie in Belgio, che oltre trent’anni dopo i fatti rifiuta di rispondere - «per motivi di sicurezza» - alle domande dell’autorità giudiziaria italiana. Eppure ci sarebbero stati anche aerei belgi tra quelli che il 27 giugno ‘80 decollarono da Solenzara.

l’Unità 25.6.14
Bonfietti: «Ora il governo deve pretendere delle risposte»

«Dobbiamo pretendere che ci rispondano ». La senatrice Daria Bonfietti insiste su quel verbo. Ora che su Ustica qualcosa si muove a livello internazionale, l’associazione dei familiari delle vittime rilancia con ancora più forza il suo pungolo alla politica, a poche ore dal 34° anniversario di quello «scenario di guerra in tempo di pace» che si consumò la sera del 27 giugno 1980. «Oggi la Francia sta collaborando, davanti a questo chiediamo al governo e al premier - detta la presidente dell’Associazione - di considerare una grave mancanza di dignità nazionale, se non riuscissimo a farci rivelare dai paesi amici e alleati le loro responsabilità. Bisogna chiederlo con più determinazione. Siamo alla vigilia del semestre italiano di presidenza in Europa credo che a lì potremo chiedere con più forza atteggiamenti diversi agli altri paesi ».
La determinazione del resto è stata il punto di forza dell’Associazione, di cui anche il presidente della Repubblica ha elogiato la costanza nella ricerca della verità sull’inabissamento di un aereo civile nel mare di Ustica. Ma appunto «c’è ancora bisogno di verità - spiega Bonfietti -, sappiamo quello che è successo ma mancano autori e responsabili della strage, mancano le “targhe” degli aerei» coinvolti quella sera in una battaglia nei cieli italiani.
E allora si guarda alla Francia che «sta facendo ascoltare il personale di Solenzara, a differenza di quanto sostenuto per anni e cioè che la base chiudeva alle 17 oggi sembra ci siano altre dichiarazioni, abbiamo un coinvolgimento reale della Francia. Sappiamo che Cossiga ha detto che i responsabili del missile che ha colpito il Dc 9 erano i francesi, che volevano abbattere l’aereo su cui viaggiava Gheddafi, anche questo non è da sottovalutare.
Intanto l’Associazione in collaborazione con l’Istituto storico Parri dell’Emilia Romagna lancia la prima raccolta video di testimonianze sulle ore e i giorni successivi al disastro: verranno intervistati (domani e dopo) parenti delle vittime e personale Itavia, ma anche chiunque vorrà farsi avanti per ricostruire «sensazioni, impressioni, informazioni » su quel momento così drammatico della storia italiana, per arricchire l’archivio raccolto presso il Parri.

Repubblica 25.6.14
Quei turisti per motivi di famiglia
Ora si va all’estero per la riproduzione assistita per sposarsi con una persona dello stesso sesso o per ottenere un divorzio in tempi brevi
di Chiara Saraceno


NEGLI anni Sessanta e Settanta si andava all’estero per abortire. Ora si va all’estero per effettuare la riproduzione assistita con donatore o donatrice - che fino a poche settimane fa era proibita in Italia anche alle coppie ed ora continua ad esserlo alle donne sole - o per fare un Pacs o un matrimonio con una persona dello stesso sesso, o per avere un figlio con la mediazione di una donna che accetta di fare da gestante.
Ci si va anche per ottenere un divorzio in tempi più brevi (cinque anni in media, secondo gli ultimi dati Istat) e con costi inferiori a quelli richiesti dalla macchinosa e punitiva legge italiana. Basta digitare su un motore di ricerca “riproduzione assistita”, “madre surrogata” o “divorzio breve” per essere inondati da offerte “chiavi in mano” dai paesi più vari, molti dell’Est europeo, spesso con la mediazione di agenzie e studi italiani. Non sono più i divi ad andare ad Hollywood per sciogliere un matrimonio finito. Basta recarsi in Romania per ottenere un divorzio a costi contenuti e in tempi brevi, con il vantaggio della garanzia offerta dal Regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio del 27 novembre 2003, che garantisce che un divorzio (come un matrimonio tra persone di due sessi diversi) ottenuto in qualsiasi Paese membro sarà automaticamente trascritto nel Paese di appartenenza.
La globalizzazione è anche questo: la possibilità, in alcuni casi informale, ma nel caso del divorzio formalizzata in regolamenti comunitari e internazionali, di ottenere in un altro Paese ciò che non è possibile ottenere nel proprio. Non occorre emigrare, come succede per la ricerca di lavoro. Basta recarsi all’estero per il periodo di tempo strettamente necessario alla procedura, per poi farsene riconoscere gli esiti nel proprio Paese.
Certo, possono rimanere delle zone d’ombra, dei rapporti non riconosciuti automaticamente, come nel caso del matrimonio omosessuale non riconosciuto come tale in Italia, ma che sempre più apre a diritti di coppia anche nel nostro Paese (ad esempio al diritto al ricongiungimento famigliare), o ancora del non riconoscimento dello status di genitore a quello che non lo è biologicamente, sempre nella coppia omosessuale. Tuttavia la possibilità di ottenere in un altro Paese ciò che non è possibile in Italia ha aperto opportunità un tempo sconosciute e riservate a pochi molto ricchi.
La regolazione della famiglia è uno degli ambiti più gelosamente custoditi dagli stati nazionali sul piano formale. Ciò causa non poche difformità da un Paese all’altro su che cosa e chi è riconosciuto come famiglia, con l’Italia che ha, tra i Paesi democratici, una delle legislazioni più restrittive. Eppure, sono molte e inarrestabili le brecce in questa rigidità prodotte sia dai regolamenti comunitari e internazionali, sia dalla capacità delle persone di utilizzare la mobilità geografica e la difformità delle leggi nazionali.
Anni fa l’Irlanda aveva provato ad impedire che le sue cittadine si recassero nella vicina Inghilterra per ottenere un aborto, proibito nel loro Paese. Alla fine dovette cedere. Sarebbe opportuno che anche in Italia la regolazione della famiglia fosse meno ipocrita, negando ciò che invece riconosce se avviene altrove. Eviterebbe così anche di avallare una inedita forma di disuguaglianza tra chi può pagarsi un viaggio, prendersi ferie, informarsi, e chi invece non può. Giacciono in Parlamento troppe proposte di legge, o leggi approvate da una sola Camera, sulla complessa materia famigliare che, dopo una prima fiammata di attenzione, rimangono nel limbo: dalla legge sul doppio cognome a quella sul divorzio breve, alle molte sulle unioni civili ed altre ancora. La corte Costituzionale, pur con qualche ambiguità, ha mandato più volte segnali al legislatore perché si muova. Lo stesso ha fatto la corte di Cassazione ed anche entrambe le corti europee. Se davvero si è preoccupati che ciascuno si faccia il proprio diritto di famiglia à la carte , scegliendo nel menu delle leggi dei vari Paesi, sarebbe il caso che il legislatore italiano assumesse un atteggiamento meno ottusamente, e ipocritamente, difensivo.

il Fatto 25.6.14
La Franzoni chiede di tornare a Cogne per i domiciliari

ANNAMARIA FRANZONI, condannata 12 anni fa per l’omicidio del figlioletto Samuele, spera di poter tornare a Cogne per scontare la pena ai domicilari. La donna ha già scontato 6 dei 16 anni di pena comminata. Secondo il perito a cui il tribunale di sorveglianza di Bologna ha chiesto di esprimersi sul rischio di recidiva della donna, “si può sostenere che non vi sia il rischio che si ripeta il figlicidio”. La procura generale, però, ha dato parere contrario. L’istanza di detenzione domiciliare speciale per la Franzoni è stata presentata con la motivazione di assistere il figlio minore, nato nel 2003, un anno dopo l’omicidio di Samuele. Il perito ha ritenuto che la donna possa essere “risocializzata attraverso la psicoterapia e un percorso coi servizi sociali, due strumenti che possono contenere la pericolosità sociale che ancora sussiste”, e ha aggiunto di sperare che venga dimenticata, perchè la tranquillità sarebbe per lei un enorme giovamento. La difesa della Franzoni si è detta fiduciosa che l’istanza venga accolta, perchè la recidiva è stata “categoricamente esclusa” sia dal perito che dal consulente di parte.

La Stampa 25.6.14
Il perito: “La Franzoni è cambiata. Tornare a casa sarebbe una terapia”
Richiesta di domiciliari, a breve la decisione del giudice
di Franco Giubilei

Ci vorrà qualche giorno perché il tribunale di sorveglianza di Bologna decida sull’istanza di detenzione ai domiciliari avanzata dai legali di Anna Maria Franzoni, ma la perizia richiesta dai giudici e presentata ieri dal criminologo Augusto Balloni suona come un buon assist alle ragioni della difesa (anche se la procura generale ha dato parere contrario): intanto perché esclude il rischio che l’omicidio di un figlio si ripeta, e poi perché la psicoterapia, indicata per la depressione di cui soffre la donna, può inserirsi in un percorso alternativo al carcere. Un percorso da prendere in considerazione, secondo la relazione. Il professor Balloni, che ha basato la sua indagine su una dozzina di incontri con la Franzoni avvenuti in carcere, commenta così: «Sono partito dalla sentenza della corte d’assise d’appello di Torino: per me è impossibile che le condizioni di quel momento (la morte del piccolo Samuele, ndr) si ripetano: nel 2002 c’erano elementi che non esistono più, sia per le caratteristiche della vittima che per quelle dell’autrice del gesto. Lei è cambiata, non ha più un bambino di 3 anni. Il fatto che è avvenuto si è concluso e non ci sono elementi per cui possa ripetersi, quanto meno io mi sento di escluderlo». La relazione dell’esperto dichiara superata la perizia del 2008, per cui la donna era in uno stato di «vulnerabilità psicologica tale da poter innestare potenziali recidive»: «Da quella perizia sono passati 6 anni, ora è giusto dire che quello è un capitolo chiuso e che bisogna guardare ad altri elementi, come il fatto che in questo periodo sia stata molto seguita dai servizi. Dunque quella relazione non offre più elementi utili da poter utilizzare ora». Quanto alla depressione di cui soffre la Franzoni, il criminologo aggiunge: «Si è fatto sempre riferimento a una forma di depressione reattiva, propria di qualcuno che non rielabora il lutto, una sofferenza che ogni tanto riemerge. La psicoterapia è opportuna e anche utile da qualsiasi punto di vista, ed è conciliabile col percorso alternativo alla detenzione (oltre a “neutralizzare i rischi di future condotte devianti e/o antigiuridiche e quindi la pericolosità sociale generica”, come si legge nella perizia, ndr)».
L’ultimo colloquio con la Franzoni risale al 14 giugno, quando Balloni l’ha trovata «in fiduciosa attesa e con molta speranza», opinione condivisa dal legale della donna, Paola Savio, che la definisce «speranzosa e ottimista» riguardo alla decisione del giudice di sorveglianza. «Credo che a livello psicologico la speranza sia importante - aggiunge il criminologo -, quindi speriamo che i media si dimentichino di lei, soprattutto per suo figlio di 12 anni». Sull’esito dell’istanza di scarcerazione non si sbilancia, limitandosi a sottolineare: «La perizia dice che la via della detenzione ai domiciliari è da prendere in considerazione».

il Fatto 25.6.14
La Roma di Marino caput monnezzae
di Oliviero Beha

ALLA VIGILIA del voto per Roma nel 2008, in Italia l’anno del Berlusconi trionfante tra le ghirlande e del Veltroni primo segretario recessivo del Pd, sentivi fare sui taxi ragionamenti all’apparenza paradossali. Lo so, il tassista parlante giornalisticamente è il principe dei luoghi comuni, ma non è detto che non sia significativo. Allora capitava che molti di loro entrati nel discorso dicessero: ”Dotto’, so’ de sinistra, ho sempre votato a sinistra”, oppure e spesso, “so’ de’ Rifondazione”, per concludere però all’unisono “ma stavolta nun gliela do vinta, voto Alemanno, me fa schifo ma li devo punì, Roma nun è loro, Rutelli a Veltroni, Veltroni a Rutelli, bisognerà pure farla finita, Roma è nostra, dei romani, dei turisti, di chi ce vive e c’affonda”. L’ho fatta subpasoliniana, ma credetemi era così e rispecchiava molto del sentire o dissentire comune della Capitale. E infatti vince Alemanno e non ci facciamo mancare neppure il sindaco post-fascista, di una modestia e di un colabrodo penale nelle nomine da mettere paura.
Dopo cinque anni di tal fatta o malefatta sale al Campidoglio Ignazio Marino, medico discusso, ma politico ortodosso, con il suo bravo iter da (sedicente) outsider del Pd. In mancanza di reali requisiti, si presume o si desume che abbia vinto le elezioni semplicemente perché “non” era Alemanno, e quindi conseguentemente perché fare peggio del missino dall’occhio vivido sembrava francamente impossibile. Ebbene, tra sei giorni ricorre il quinto complemese da quando una bomba d’acqua, il 31 di gennaio, rese parzialmente inservibile un fianco della collina sulla tangenziale Olimpica, una delle strade più importanti di Roma. Da allora incredibilmente si viaggia in doppio senso su un’unica corsia per un lungo tratto, non si vede quasi mai nessuno al lavoro, i fastidi e i danni sociali ed economici sono enormi mentre Marino ha affidato alla pedonalizzazione dei Fori e alla bicicletta (con scorta) il segno della sua stagione capitolina. Una specie di De Gaulle alla Ridolini…
Questa dei lavori, del traffico, delle lentezze ecc. è solo una delle nefandezze di cui siamo testimoni a Roma, da un anno di marinismo (anche se ovviamente eredita un disastro pieno di debiti dai predecessori: ma glielo ha forse ordinato il dottore?). Poi ci sono le nomine sbagliate, la poca efficienza della macchina comunale, i crocchi alle fermate dei mezzi pubblici, il suk dei pronto soccorso ospedalieri e uno splendido e inedito sciopero incazzereccio dei dipendenti comunali. Ecc. ecc. Sono tutti scontenti, e addirittura di recente stava per essere messa in discussione la bontà dell’assunto cardine, cioè “come si può far peggio di Alemanno?”, quando domenica sono arrivati i Rolling Stones al Circo Massimo per una cifra irrisoria di affitto (7 mila euro, un centesimo al confronto di quello che costano le altre Capitali europee), grandi incassi della band e dulcis in fundo il mare di monnezza lasciata dai 70 mila urbanissimi supporter. Caput monnezzae, appunto.
MARINO, leggermente tronfio e respingente quanto pareva killer il precedente, obietta che se i romani sono così non è colpa sua. Può essere, ma pare proprio che il problema sia lui oggi, per il partito che lo ha espresso, Renzi in primis, e il suo stesso king maker che lo ripudia. Il commissariamento sembra sempre più vicino e il danno alla città, più che alla sinistra o a chiunque altro, sembra irreparabile. Il tassista romanaccio suggerisce una soluzione, “A Marì, datte malato…”, e il cerchio d’infamia si chiude così con una domanda: dunque il sindaco lo possono fare davvero tutti ?

Il Sole 25.6.14
Calcio & Business
La débâcle del calcio europeo nel mondo
Nonostante la supremazia economica, fuori dal torneo anche l'Italia dopo Spagna e Inghilterra
Marco Bellinazzo

Il Calcio europeo resiste alla crisi economica, ma si scopre sempre meno centrale nel panorama internazionale. Il fatturato complessivo dei cinque principali campionati è cresciuto del 5% nel 2012/13, attestandosi a 9,8 miliardi di euro: poco meno della metà dei ricavi dell'intero movimento del Vecchio Continente pari a 19,9 miliardi, in crescita del 2%, a dispetto della recessione che ha azzoppato i sistemi industriali di molti paesi dell'area.
Nonostante queste cifre, il Mondiale brasiliano però sembra segnare la fine di un'epoca sportiva caratterizzata dal predominio dell'Europa (inframmezzato solo dai successi sudamericani di Argentina e Brasile). L'eliminazione delle potenze "coloniali" Inghilterra, Spagna e Portogallo, come quella dell'Italia, e l'ascesa di realtà come Cile, Costa Rica, Stati Uniti, Messico, Costa d'Avorio e Nigeria, in attesa di quella dei team del Golfo, testimoniano un mutamento strutturale degli equilibri del calcio globale nel quale, se non saranno fatti investimenti mirati e scelte chiare sulla "cittadinanza" di società finanziarie e fondi, così come sulla gestione dei vivai nazionali sempre più impoveriti dalla circolazione di giovani talenti stranieri, ancora per poco lo scettro economico resterà in mani europee. Il costo per acquisire i cartellini dei giocatori extra-europei infatti è sempre più alto è questo sta minando pericolosamente la salute dei bilanci dei club del Vecchio Continente.
La vivacità delle principali Leghe europee come si evince dai dati pubblicati dalla Annual Review of Football Finance 2014 di Deloitte dipende, peraltro, da un numero sempre più ristretto di super-squadre e dalla cessione dei diritti televisivi che frutta il 46% dei ricavi complessivi delle principali cinque leghe europee con 4,5 miliardi.
La Premier League comunque resta per distacco leader mondiale in termini di ricavi, con un fatturato di circa 2,9 miliardi di euro, in aumento del 7% nel 2012/13. Oltre il 60% di questa crescita è da attribuire a Liverpool, Manchester City e Manchester United. La svalutazione della sterlina ha però fatto sì che il divario dalla rivale più vicina, la Bundesliga, si sia ridotto a soli 928 milioni di euro. Per la prima volta, il giro d'affari del torneo tedesco ha superato i due miliardi di euro (+8%). Solo Bundesliga e Premier League hanno generato un utile operativo nel 2012/13. I tedeschi hanno aumentato i profitti operativi di 74 milioni (+39%) attestandosi a 264 milioni.
Il gap tra Bundesliga e Liga spagnola è salito di 159 milioni, nonostante i ricavi cumulativi di quest'ultima siano aumentati a 1,86 miliardi. La crescita iberica di 77 milioni è dovuta ai nuovi accordi per la cessione dei diritti tv e alle prestazioni delle squadre spagnole in Champions. In aumento anche i ricavi della Serie A nel 2012/13: i ricavi aggregati arrivano a 1,68 miliardi (+6%) e anche per le società italiane continuano ad essere di importanza capitale i ricavi dovuti alla cessione dei diritti televisivi, che rappresentano il 59% del totale dei ricavi. Una percentuale da record nei cinque principali campionati europei. La Ligue 1 ha invece mostrato il più rapido tasso di crescita, ampliando i propri ricavi del 14% e raggiungendo quota 1,3 miliardi. A guidare i club francesi è il Paris Saint-Germain, il cui reddito è cresciuto di 178 milioni di euro, mentre i restanti 19 club della Ligue 1 hanno subito un calo di 17 milioni.
I rapporti tra monte stipendi e fatturati sono migliorati nel 2012/13 per tre dei cinque principali campionati europei. La Bundesliga si conferma il campionato col maggiore controllo dei costi, con un rapporto stipendi-fatturati stabile al 51 per cento. In Serie A si registra un aumento del costo degli stipendi dell'1%, portando il rapporto tra salari e fatturato dal 74% al 71. Situazione simile in Francia, dove gli stipendi della Ligue 1 salgono del 2% ma, grazie ai maggiori ricavi, il rapporto stipendi-fatturato scende dal 74% al 66. In calo gli stipendi della Liga, anche se solo dell'1%: un risultato che permette al massimo campionato spagnolo di avere un rapporto tra stipendi e ricavi del 56%, dato più basso dal 2000. In controtendenza, invece, la Premier League, che vede aumentare i costi salariali dell'8%, con un rapporto salari-fatturati che si attesta al 71%, il più alto livello di sempre nella storia del calcio inglese.
Russia (896 milioni), Turchia (551) e Olanda (452) infine generano i maggiori ricavi al di fuori delle prime cinque leghe europee. La Football League Championship si conferma la migliore seconda divisione europea, nonostante un calo dei ricavi nel 2012/13 a 508 milioni di euro. Al di fuori dell'Europa, il leader è la Serie A brasiliana, con 850 milioni di ricavi.

La Stampa 25.6.14
Eutanasia, la battaglia legale
Sentenza storica in Francia “Lasciate morire Vincent”
In stato vegetativo da 6 anni, i medici potranno interrompere le cure
di Paolo Levi


È una decisione senza precedenti che riaccende il dibattito sull’eutanasia. A Parigi, il consiglio di Stato si è pronunciata a favore dell’interruzione dei trattamenti che tengono artificialmente in vita Vincent Lambert, trentanovenne tetraplegico in stato vegetativo, inchiodato da sei anni nel suo letto d’ospedale.
La decisione segna una svolta nella battaglia giudiziaria dei genitori, cattolici tradizionalisti, che chiedono di andare avanti con l’alimentazione e l’idratazione artificiale del figlio, contrariamente alla moglie Rachel e all’équipe medica dell’ospedale di Reims. Ieri, i diciassette Saggi della Corte hanno ritenuto legale l’orientamento dei medici: «Bisogna interrompere i trattamenti». Per loro il paziente versa in uno stato «irreversibile» e continuare a mantenerlo in vita è «irragionevole ostinazione».
Nell’assumere la decisione, il Consiglio di Stato si è anzitutto basato sulla volontà espressa dallo stesso Vincent, che prima dell’incidente in moto di cui è rimasto vittima nel 2008, espresse più volte «l’auspicio di non essere mantenuto in vita artificialmente». Per l’alto organismo, «anche lo stato medico più grave, inclusa la perdita irreversibile di coscienza, non può bastare a giustificare l’interruzione di un trattamento. Ma un’attenzione particolare va riconosciuta alla volontà del paziente». Da parte sua, la moglie Rachel plaude alla decisione: «Certo la parola sollievo non è la più appropriata. Ma era una tappa cruciale ed effettivamente la volontà di Vincent è stata ascoltata. Ora bisogna lasciarlo andare». Di parere opposto i genitori dell’ex infermiere psichiatrico, che denunciano il tentato assassinio di un «disabile».
I coniugi Lambert hanno già presentato un ricorso d’urgenza alla Corte europea dei diritti umani, affinché si pronunci al più presto sulla sorte del figlio. In Francia, il caso è diventato emblematico del dibattito sul fine vita, rilanciato in queste ultime settimane da diverse vicende giudiziarie. Per l’avvocato Jean Paillot, la sentenza inserisce nel diritto francese «una possibilità di eutanasia». Mentre il medico di Vincent, Eric Kariger, aveva auspicato che la decisione fosse «sufficientemente esplicita per fornire una risposta chiara a tutti i pazienti che sono o saranno nella stessa situazione».
La legge francese sul fine vita, in vigore dal 2005, vieta l’accanimento terapeutico, e pur non autorizzando l’eutanasia, permette in certi casi che i trattamenti vengano sospesi. La decisione dei Saggi «rientra nell’ambito di questa legge», ha spiegato il vice presidente del Consiglio di Stato, Jean-Marc Sauvé. François Hollande ha più volte promesso la riforma della legislazione per una norma che favorisca «la dolce morte», ma senza mai tradurla in fatti concreti. Nei giorni scorsi il governo ha incaricato due deputati di presentare entro fine anno una serie di proposte per una revisione legislativa.

l’Unità 25.6.14
Bruxelles, il flop Le Pen: «Non faremo il gruppo»
Smacco per la leader del Front National
Costretta a sedere nel gruppo misto dopo aver ottenuto il 25% dei voti alle elezioni


Sono stati i primi ad allearsi per formare un gruppo di populisti euroscettici al Parlamento europeo e ora sono rimasti a piedi. La leader del Front National francese, Marine Le Pen, e il leader della Lega Nord, Matteo Salvini, non sono riusciti a raggiungere la quota minima di 25 eurodeputati di 7 Paesi diversi per formare un gruppo parlamentare a Strasburgo. Nella nuova legislatura quindi i due partiti, insieme agli altri tre alleati separatisti fiamminghi, xenofobi olandesi ed estremisti austriaci, siederanno tra i non iscritti, senza ruoli delle commissioni parlamentari e senza fondi aggiuntivi, circa tre milioni di euro per gruppo.
«Siamo un poco in ritardo, ma siamo tutti convinti che presto costituiremo un gruppo parlamentare realmente alternativo a tutti gli altri», ha assicurato Salvini. A mettere i bastoni fra le ruote ai quattro partiti populisti è stato il gruppo concorrente formato dall’euroscettico britannico Nigel Farage insieme al Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Rispetto all’ambiziosa dominatrix fascista Marine Le Pen, Farage ha avuto l’accortezza di assicurare totale libertà ai suoi alleati, riuscendo così ad attirare i diversi gruppuscoli di estrema destra che avevano da spendere qualche seggio a Strasburgo. A decidere la partita poi è stato proprio l’acquisto di un dissidente francese del Front National e di un populista bulgaro. Per Marine Le Pen lo smacco è bruciante. Dopo aver conquistato il 25% dei consensi e aver portato il partito neofascista del padre a diventare la prima formazione politica di Francia, Le Pen era stata incoronata dalla stampa la vera vincitrice delle elezioni europee.
Il biondo xenofobo olandese Geert Wilders ha cercato spiegato che a far fallire i negoziati è stata la sua scelta di non allearsi con gli estremisti polacchi, il Congresso della nuova destra. Troppo antisemiti e misogini, ha spiegato Wilders. «Il Partito della libertà (è il partito xenofobo olandese, ndr) vuole un gruppo parlamentare ma non a qualsiasi prezzo». Non sembrano invece turbare i sonni del leader olandese le sparate del padre di Marine, l’eurodeputato Jean-Marie Le Pen, presidente onorario del Front National, che auspica di riaprire le camere a gas per i giornalisti di origine ebrea che lo criticano. LALEGANORD Salvini, che sostiene che l’Italia starebbe meglio senza la moneta unica nonostante tutti gli studi che dimostrano il contrario, è invece convinto di aver pagato il prezzo della sua onestà intellettuale e ha accusato Farage di populismo. «Diciamo un bel grazie al duo Grillo- Farage – ha detto il leader leghista – al primo basta sparare qualche castroneria irrealizzabile» che «a Beppe piace, mentre Nick ha la sterlina e se la tiene stretta». Anzi, ha rincarato, il fallimento del gruppo di Marine Le Pen è dovuto al fatto che «evidentemente non tutti hanno il coraggio di sfidare i poteri davvero forti di finanza, banche e massoneria».
Eppure Salvini era quello che più di tutti era passato sopra a ogni esigenza di coerenza pur di resuscitare la moribonda Lega Nord e trasformarla in un partito euroscettico, fotocopiando programmi e slogan in giro per l’Europa.
Dopo vent’anni a parlare di questione settentrionale la Lega è diventata il partito anti-euro per eccellenza. E dopo vent’anni a calpestare il tricolore e a sostenere che la Padania poteva essere indipendente in un nuovo contesto europeo, l’ex partito di Bossi non ha esitato a stringere un patto d’acciaio con la formazione ultra-nazionalista di Marine Le Pen. Tutte le giravolte però, anche se hanno fruttato cinque seggi a Strasburgo, non sono bastate a trovare una nuova casa in Europa. E in più ora Salvini deve subire l’onta di vedersi strappare la patente di euroscettico ufficiale da movimento come quello di Beppe Grillo che fino a pochi giorni fa non sapeva da che parte andare nell’aula del Parlamento europeo.
Florian Philippot, braccio destro di Marine Le Pen, ha assicurato che il gruppo «si può fare nei cinque anni» della legislatura. Se però non ci sarà una deflagrazione del gruppo di Farage gli eventuali alleati per ripartire vanno trovati tra i neonazisti greci di Alba Dorata, i neonazisti tedeschi della Npd o gli antisemiti ungheresi dello Jobbik. Buona fortuna!

il Fatto 25.6.14
Parlamento europeo
Lega e Le Pen, ma il gruppo non c’è
di Andrea Valdambrini


Bruxelles. Farage e 5 Stelle fanno il gruppo, Le Pen e Salvini no. Non sarà la quadratura del cerchio, ma chi vince si compatta e chi perde (almeno temporaneamente) può solo parare il colpo. Il segretari della Lega Nord fa buon viso a cattivo gioco e si dice ancora convinto che la formazione di un gruppo euroscettico al Parlamento europeo sia possibile. Nonostante il fallimento del primo tentativo - entro il 23 giugno dovevano essere raccolte le adesioni di almeno 25 eurodeputati di 7 diversi paesi dell’Ue - Salvini e il Front National di Marine Le Pen proveranno ancora confidando in possibili future fuoriuscite da altri gruppi: “Come ci sono state in questi 15 giorni, ce ne saranno anche nei prossimi”, è la sua previsione. Non nasconde però alcune riserve per il modo in cui il Front national ha condotto le trattative: “Abbiamo detto tanti no, siamo stati molto selettivi, io sarei stato più aperto”, dice senza nascondere la sua delusione.
Intanto il gruppo creato da Nigel FA-rage aggiunge la parola “democrazia diretta” al suo nome (in origine: Europa per la libertà e la democrazia). Conta 48 eurodeputati, al momento il più piccolo tra i gruppi parlamentari. Ma la notizia è che esiste, o meglio rimane in vita, soddisfacendo di un soffio il criterio delle sette nazioni diverse che devono comporlo. “Non è stato facile”, sottolineava infatti Nigel Farage aprendo una conferenza stampa che ha rischiato un imbarazzante incidente diplomatico, quando il responsabile della comunicazione di Ukip voleva lasciar entrare solo alcuni giornalisti. Ne è nato quasi un alterco con l’ex presidente dell’associazione della stampa internazionale di Bruxelles Lorenzo Consoli, che si è imposto perché entrassero tutti, come alla fine è stato.
SUL PALCO CON IL LEADER Ukip c’erano per i 5 Stelle il capo-delegazione Ignazio Corrao, siciliano di 29 anni e il 41enne trevigiano David Borrelli, che proprio con Farage sarà co-presidente del gruppo parlamentare.
Il leader inglese ha lasciato la guida della delegazione del suo partito a Roger Helmer in vista, si dice, di una candidatura a Westminster nella primavera 2015. Rispondendo alle domande del Fatto ha negato di voler imbarcare un domani la Lega Nord se dovesse avere problemi a causa dei numeri strettissimi. Le sette nazioni tecnicamente ci sono, ma che succede se qualcuno dovesse cambiare idea nei prossimi mesi? In fondo, Farage è appeso al filo di Joelle Gurpillon Bergeron, uscita dal Front National dopo essersi dichiarata a favore del voto agli immigrati. E poi ha dentro due esponenti dei Democratici Svedesi, partito dalle imbarazzanti radici naziste.
Ora che l’accordo è fatto si capisce meglio cosa i 5 Stelle hanno guadagnato con questo apparentemente innaturale matrimonio politico. Ukip lascerà spazio agli italiani su tutto quello che non riguarda strettamente i temi euroscettici (ad esempio l’euro, le istituzioni europee, e forse l’immigrazione). Questo vuol dire che i grillini, oltre alla totale libertà di voto in aula, saranno in grado di ottenere posizioni importanti all’interno delle commissioni parlamentari, dove potranno seguire quei temi energetici e ambientali che li dividono di più dai loro alleati.

Corriere 25.6.14
«L’epidemia di Ebola è fuori controllo»


PARIGI — Il virus di Ebola continua a diffondersi in Guinea, Sierra Leone e Liberia dove «si contano ormai 60 focolai attivi e l’epidemia è fuori controllo», ha dichiarato ieri Bart Janssens, direttore delle operazioni per l’organizzazione internazionale Medici Senza Frontiere (Msf). «Nonostante le risorse umane e gli equipaggiamenti dispiegati da Msf nei tre Paesi colpiti — ha aggiunto Jaanssens — non siamo più in grado di inviare team nei luoghi in cui si verificano nuovi casi della malattia». Secondo l’Ong, che ha finora attivato nell’area colpita circa 300 persone tra stranieri e locali (nella foto Ap un suo medico in Guinea) , tenere il virus sotto controllo richiederà un «massiccio dispiegamento di risorse» da parte dei governi dell’Africa occidentale e delle organizzazioni umanitarie, altrimenti «il reale rischio che l’epidemia si diffonda in altre aree si concretizzerà».
Il virus, che prende il nome dalla valle nella Repubblica Democratica del Congo dove nel 1976 scoppiò la prima epidemia, dall’inizio dell’anno ha già causato nei tre Paesi oltre 330 morti su 520 casi di contagio. Viene trasmesso da animali selvatici, e quindi da uomo a uomo, e non esistono vaccini né cure specifiche; secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità è mortale tra il 25% e il 90%, a seconda dei ceppi. L’epidemia attuale, la più grave dalla scoperta del virus, era scoppiata inizialmente in Guinea, e si era poi allargata a partire da maggio alla Sierra Leone e alla Liberia, con una velocità inattesa dagli esperti. «La situazione epidemica non ha precedenti», ha dichiarato Saverio Bellizzi, epidemiologo di Msf appena rientrato dalla Guinea. «In alcune zone del Paese siamo riusciti a contenere il contagio, ma in altre abbiamo ancora un tasso di mortalità dell’80%. Una cosa è sicura: l’epidemia andrà ancora avanti per alcuni mesi. Per questo chiediamo l’aiuto di tutti per aiutarci a portare avanti questa sfida».

l’Unità 25.6.14
Nigeria, Boko Haram rapisce altre 60 giovani donne


Un altro sequestro in Nigeria. Più di 60 donne e ragazzine sono state rapite nel Nord-Est del Paese. Il sequestro è stato attribuito al gruppo Boko Haram, sebbene non vi sia stata ancora alcuna rivendicazione. Nell’incursione sono state uccise almeno 30 persone, secondo quanto riferito da alcuni testimoni scampati alle violenze. Le donne sono state prelevate la scorsa settimana dal villaggio di Kummabza, nel distretto di Damboa, Stato di Borno. La notizia è resa nota da un alto funzionario del Governo del distretto di Damboa. Le forze di sicurezza hanno però negato i rapimenti: il ministero della Difesa di Abuja ha riferito con un tweet di essere ancora in attesa di una conferma ufficiale del nuovo sequestro. «Non possiamo confermare neppure ora le notizie circa il rapimento di ragazze nel Borno », ha poi spiegato il portavoce della Difesa nigeriana. Un altro rappresentante anonimo del Governo locale di Damboa ha confermato alla testata Leadership la notizia del sequestro. Secondo un portavoce delle pattuglie di zona, Aji Jalil, i sequestrati sarebbero 91, di cui 60 donne e ragazze. Non ci sono stati modi di verificare in modo sicuro e indipendente la notizia proveniente da Kummabza, a 150 chilometri da Maiduguri, capitale dello Stato di Borno. Aji Khalil, membro di un gruppo locale anti-Boko Haram, ha detto che i rapimenti sono avvenuti sabato, nel corso di un attacco nel quale 30 abitanti sono rimasti uccisi. Khalil fa parte di uno dei gruppi di vigilanti che hanno avuto qualche successo nel respingere gli attacchi di Boko Haram con armi primitive.
L’esercito nigeriano si è messo sulle tracce del gruppo terroristico e non meno di 70 presunti miliziani di Boko Haram sono stati uccisi ieri con un raid aereo dell'aviazione nigeriana. La notizia è stata confermata dal portavoce della Difesa, Chris Olukolade, e da testimoni locali. I miliziani avrebbero partecipato lo scorso weekend agli attacchi contro i villaggi di Chuha e Korogilim nello Stato del Borno. Uno dei testimoni locali, Joshua Yakubu, afferma di avere visto, dopo il bombardamento, un centinaio di corpi senza vita. Un blitz delle forze di sicurezza del Camerun contro i miliziani ha portato alla morte di altri 8 guerriglieri di Boko Haram.
LA REAZIONE
L’area è comunque la stessa, nello scorso aprile, Boko Haram aveva già preso in ostaggio oltre 200 liceali, ancora trattenute contro la loro volontà. I terroristi avevano diffuso un video in cui le liceali rapite venivano presentate coperte integralmente dal velo.
Il ministro degli Esteri italiano, Federica Mogherini, ha condannato il rapimento: «Nel colpire bambini, giovani e madri si vuole colpire un intero Paese e condizionarne il futuro. La comunità internazionale si è mobilitata e continuerà a sostenere gli sforzi del presidente Goodluck Jonathan».

La Stampa 25.6.14
La Cina vuole una sua Banca Mondiale
Obiettivo, Via della Seta, l’antica strada degli scambi commerciali fra Europa
e Cina. Fra i progetti anche una ferrovia diretta da Pechino a Baghdad

qui

Repubblica 25.6.14
Il voto agli studi umanistici
di Maurizio Bettini


RECENTEMENTE all’Università italiana sono stati assegnati dei parametri “oggettivi” per la valutazione della ricerca anche in campo umanistico. È stata definita la tipologia delle pubblicazioni (libri, articoli su rivista, capitoli su libro, etc.); e soprattutto le riviste sono state divise in tre fasce di valore decrescente, a partire dalla A: di modo che a un certo articolo viene già assegnato un peso “oggettivo” ancor prima di essere letto, solo in base alla rivista su cui è apparso. Il problema è che questa parametrazione non viene utilizzata, come accade in molti altri Paesi, semplicemente per valutare la ricerca e migliorarne la qualità: ma per determinare la carriera delle persone. Di essa ci si serve infatti in occasione delle Abilitazioni scientifiche nazionali.
Per esservi ammessi i candidati debbono presentare un numero di pubblicazioni, rispondenti ai suddetti parametri, tale da superare alcune “mediane” predeterminate. Sorprendentemente, però, per presentarsi alle abilitazioni da ordinario in qualità di commissario, è sufficiente superare le medesime “mediane” richieste anche ai candidati: fra gli ordinari in possesso di questi requisiti, viene poi fatta una scelta tramite sorteggio. Dato che le mediane in questione sono spesso basse, a valutare chi è idoneo o meno per l’ordinariato possono dunque essere persone che hanno una produzione meno significativa di coloro che valutano, come in effetti è accaduto. In più, visto che ormai i settori concorsuali raggruppano (spesso sciaguratamente) discipline remote fra loro, molti candidati finiscono anche per essere valutati da commissari che non hanno competenza sulle loro ricerche, perché si occupano di altro. Facile constatare che l’adozione di parametri “oggettivi”, specie se associati al principio dell’estrazione a sorte all’interno di gruppi eterogenei, non risolve il problema della qualità delle commissioni. Come si sa, le recenti abilitazioni sono state un disastro (fonti autorevoli parlano di 2.200 ricorsi già in atto). Concentrare l’attenzione solo su questo problema, però, rischia di oscurarne un altro, che incide direttamente sulla sostanza della ricerca in campo umanistico. Parliamo ancora di parametri “oggettivi”. Sempre ai fini dell’abilitazione, infatti, il peso di una monografia equivale spesso a quello di un articolo pubblicato in fascia A. Ma chi scriverà più libri, sapendo che valgono quanto una noterella purché in A? Se mai ci si preoccuperà di “affettare il salame”, segmentando cioè la progettata monografia in più articoli. E ancora: una monografia originale ha lo stesso valore della traduzione di un testo straniero. Qualora non si disponga di salami da affettare, si potrà dunque tradurre la monografia scritta da un altro.
L’effetto peggiore sulla ricerca umanistica, però, lo produce la classificazione gerarchica delle riviste (peraltro spesso scientificamente infondata). Il fatto che pubblicare in una certa sede non sia più questione di prestigio, ma di carriera e spesso (ahimè) di sopravvivenza, provoca una corsa a pubblicare nelle riviste più quotate. Questo però implica uniformarsi alle linee di ricerca proprie di tali riviste e gradite a chi le gestisce. Ma che accade se si seguono metodi e prospettive originali? Li si abbandona. Come se non bastasse, le riviste riconosciute come A in una certa area concorsuale, possono non esserlo in un’altra, pur scientificamente contigua: di conseguenza si tenderà a pubblicare il più possibile all’interno del proprio ristretto settore di studi. Questo significa che i ricercatori - soprattutto i giovani, accademicamente più fragili - si rinserreranno sempre più nei loro “paeselli” disciplinari. Solo che negli studi umanistici la ricerca non si fa continuando a portare una pietruzza dopo l’altra al glorioso edificio costruito da chi ci ha preceduto, ma con il continuo incrocio dei metodi e dei modelli di pensiero, insomma con l’apertura interdisciplinare. Proprio ciò che la valutazione così com’è stata concepita tende nei fatti a scoraggiare, quando non a punire. La classica formula: «Le pubblicazioni del candidato esulano dal presente settore concorsuale» - usata spesso per eliminare gli studiosi più indipendenti e originali - attraverso la classificazione gerarchica delle riviste riceve una sorta di sigillo legislativo. In realtà dovremmo sapere che l’unico metodo per valutare, come meritano, le pubblicazioni di qualcuno, consiste nel farle leggere a studiosi che siano competenti dello specifico filone di ricerca in cui queste si collocano; non a un commissario estratto a sorte, all’interno di un gruppo composito, e che parte da parametri “oggettivi”.
È dunque indispensabile ridiscutere tutti i criteri utilizzati per la valutazione degli studi umanistici. Se vogliamo che essi abbiano un futuro, ne deve essere promossa - e non depressa - l’interdisciplinarietà. Come minimo è indispensabile attribuire lo stesso valore a tutte le riviste di area umanistica, indipendentemente dai vari settori e sotto-settori a cui afferiscono, per impedire la progressiva chiusura degli orizzonti. E anzi, ai requisiti da valutare al momento delle abilitazioni, è auspicabile aggiungere esplicitamente la “interdisciplinarietà” della produzione come coefficiente positivo. Al termine di un affollato dibattito in Sapienza su questi temi, una giovane ricercatrice mi ha detto: «Invece di studiare quello che dovrei, studio i settori scientifico-disciplinari ». Purtroppo aveva ragione. Da quella riunione è emerso però un documento, proposto da Antonio Pioletti, che affronta questi e molti altri problemi relativi alla valutazione della ricerca in campo umanistico. Il testo sta circolando fra le varie consulte di studi, e ci auguriamo che susciti presto una risposta da parte di chi ci governa.

Repubblica 25.6.14
La nostra vita da immigrati “digitali”
Ci troviamo ormai a vivere e ad agire simultaneamente online e offline
Ma lo sdoppiamento può generare rischi. Come spiega il grande sociologo
di Zygmunt Bauman



TUTTI noi a intermittenza, ma anche contemporaneamente, viviamo ormai in due universi distinti: online e offline. Il secondo dei due è spesso definito “il mondo reale”, anche se la questione di capire se questa definizione si adatti meglio al secondo rispetto al primo diventa via via discutibile. I due universi differiscono in modo marcato per la visione del mondo che ispirano, le competenze che esigono e il codice di comportamento che raffazzonano e promuovono. Le loro differenze possono essere superate, ma difficilmente sono riconciliate. Spetta al singolo individuo, immerso in entrambi quegli universi, risolvere i conflitti che sorgono tra di essi e delineare ambiti circoscritti di applicabilità per ciascuno dei due.
L’esperienza acquisita in un universo, però, non può non influire sulle nostre modalità di percezione dell’altro universo, che valutiamo e che attraversiamo. Tra i due universi tende a esserci un traffico frontaliero ininterrotto, legale o illegale, ma pur sempre intenso. I vantaggi di Internet sono molteplici e multiformi. Su Facebook non può accadere che qualcuno si senta mai più solo o messo in disparte, scaricato, respinto, lasciato a cuocere nel proprio brodo avendo come unica compagnia sé stesso. Sempre, ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette, qualcuno da qualche parte sarà sempre pronto a ricevere un messaggio e a rispondere a esso. Grazie a Internet, ormai tutti ricevono una possibilità di vivere il loro proverbiale quarto d’ora di celebrità e l’occasione di sperare di arrivare allo status di celebrità pubblica.
Ma quali sono le perdite, documentate o previste? Tanto per cominciare, ci sono perdite che affliggono le nostre facoltà mentali; prima di tutto le qualità/ capacità ritenute indispensabili per trovare uno spazio fondamentale per la ragione e la razionalità, per dispiegarvisi e realizzarsi appieno: attenzione, concentrazione, pazienza e la possibilità di durare nel tempo. Quando per connettersi a Internet è necessario un minuto, molti di noi si irritano per la lentezza del proprio computer. Ci stiamo abituando ad aspettarci sempre risultati immediati. Desideriamo un mondo sempre più simile al caffè istantaneo. Stiamo perdendo la pazienza, eppure i grandi risultati necessitano di grande pazienza. Il periodo di tempo in cui si è in grado di tenere desta la soglia di attenzione, l’abilità a restare concentrati per un tempo prolungato – in definitiva, quindi, la perseveranza, la resistenza e la forza morale, caratteri distintivi della pazienza – sono in calo, e rapidamente.
Tra i danni meglio analizzati e al contempo teoricamente più nocivi provocati dal calo e dalla dispersione dell’attenzione ci sono il peggioramento e la graduale decrepitezza della disponibilità ad ascoltare e delle facoltà di comprendere, come pure della determinazione ad “andare al cuore della faccenda” (nel mondo online ci si aspetta di “navigare” tra le informazioni convogliate visivamente o acusticamente) – che a loro volta portano a un continuo declino delle capacità di dialogare, una forma di comunicazione di vitale importanza nel mondo offline. Strettamente connesso ai trend descritti è il danno inferto alla memoria, oggi sempre più spesso trasferita e affidata ai server, invece che immagazzinata nel cervello.
L’altra cosa di cui tenere conto è il verosimile impatto di tutto ciò sulla natura stessa dei rapporti umani. Allacciare e spezzare legami online è più comodo e meno imprudente che farlo offline. Non comporta obblighi a lungo termine, e tanto meno promesse del tipo “finché morte non ci separi, nella buona e nella cattiva sorte”; non esige un obbligo così prolungato e coscienzioso come esigono i legami offline. Non stupisce quindi che, avendo collaudato e confrontato le due tipologie, molti internauti, forse la crescente maggioranza, preferiscano la varietà online.
C’è ancora un punto, forse il più discusso tra gli argomenti che saltano fuori nel dibattito su vantaggi e svantaggi del world wide web. Numerosi osservatori hanno accolto la possibilità di assistere in “tempo reale”, in modo universale, facile e comodo agli eventi internazionali – unitamente alla possibilità di fare un ingresso altrettanto universale, ugualmente facile e indisturbato nella scena pubblica – come l’autentica, radicale, effettiva svolta nella storia breve e tempestosa, seppur ricca di avvenimenti, della democrazia moderna. Al contrario delle aspettative abbastanza diffuse secondo le quali Internet rappresenterà un grande salto in avanti nella storia della democrazia e coinvolgerà noi tutti nel processo di dar forma al mondo che condividiamo, si vanno accumulando le prove per le quali Internet potrebbe servire anche a perpetuare e a rafforzare conflitti e antagonismi. Paradossalmente, il pericolo nasce dalla propensione della maggior parte degli internauti a fare del mondo online una zona esente da conflitti. Internet porta alla creazione di una versione perfezionata di “comunità residenziale protetta”: a differenza del suo equivalente offline, ciò non impone ai residenti di pagare un affitto esorbitante e non richiede vigilantes armati o una rete complessa e avanzata di telecamere di sorveglianza a circuito chiuso; è sufficiente disporre di un semplice tasto “cancella”. Il vero problema è che in questo ambiente online, sterilizzato e decontaminato in modo artificiale, è davvero molto difficile poter sviluppare una forma di immunità nei confronti delle velenose controversie endemiche dell’universo offline.
Senz’altro, l’elenco fin qui fatto dei vizi e delle virtù reali e teoriche di una divisione del Lebenswelt (“il mondo vitale”) in un universo online e un universo offline è tutt’altro che completo. Ed è ovviamente prematuro valutare gli effetti aggregati di un cambiamento-spartiacque, così determinante nella condizione umana e nella storia culturale. Per il momento, gli asset di Internet e dell’informatica digitale nel loro complesso paiono tollerare bene una considerevole mescolanza di passività. Oggi il punteggio più alto raggiunto dall’universo online nella scala di misurazione della comodità, della convenienza, dell’immunità dal rischio e della libertà dai problemi che impongono uno scotto, sollecita, di proposito o di default, la tendenza a trasferire le opinioni sul mondo e i codici comportamentali fatti a misura della sfera di vita online nella sua alternativa offline. Ma potrebbero essere applicati a questa soltanto a costo di un grande danno sociale ed etico. A conti fatti, d’ora in poi, faremo bene a tenere d’occhio da vicino le conseguenze della spaccatura online/offline. (Traduzione di Anna Bissanti)

Corriere 25.6.14
Il fascino oscuro dei dittatori attraverso le marce su Roma
di Luciano Canfora


«Tuttavia, alla fine, non resta che accettare il principato, poiché esso, se da un lato abolisce la libertà politica, dall’altro vale a scongiurare la guerra civile e a salvare le classi apolitiche. Libertà o governo stabile: questo fu il dilemma cui si trovarono di fronte i Romani; per parte mia, ho tentato di risolverlo esattamente a modo loro».
Questa è la morale che Ronald Syme, nella prefazione al suo libro più famoso e forse più importante, La rivoluzione romana , trae considerando retrospettivamente, nel giugno 1939, il testo composto nel 1937-38. Arnaldo Momigliano, che scrisse un’importante introduzione alla tardiva edizione italiana di questo libro, apparsa presso Einaudi all’inizio del 1962, mise giustamente in rilievo che tra il 1938 e il ’39 «la situazione era talmente cambiata da creare uno squilibrio fra l’animo dello scrittore e quello del lettore». Nell’impianto di partenza, La rivoluzione romana intendeva smascherare le «sante menzogne della propaganda». «Il libro — scrive Momigliano — afferrava il lettore, stabiliva un rapporto immediato tra l’antica marcia su Roma e la nuova, fra la conquista del potere di Augusto e il colpo di Stato di Mussolini, e forse quello di Hitler». Rispetto ad un tale proposito, che il lettore coglie ad ogni passo, la sconcertante dichiarazione che abbiamo riferito al principio, scritta nel 1939, segna un passaggio ad altra veduta: i Romani tra libertà e governo stabile scelsero il governo stabile, ed io, scrive Syme, ho tentato di risolvere il dilemma «esattamente a modo loro». Non a caso il capitolo finale «Pax et princeps», che risente di questo cambio di prospettiva, si apre con le ironiche parole che suonano anche come assoluzione: «Quando un partito ha trionfato con la violenza e si è impadronito del controllo dello Stato, sarebbe pura follia considerare il nuovo governo come una accolita di personaggi simpatici e virtuosi. La rivoluzione richiede e ingenera qualità più severe».
Ma cosa intendeva Syme quando diceva di aver risolto il dilemma «esattamente a modo loro»? Intendeva riferirsi unicamente all’epilogo quasi obbligato della lunghissima guerra civile romana sfociata nel potere personale, o seguitava a funzionare, nella mente sua, l’analogia con le situazioni moderne alle quali alludeva esplicitamente? Se si considera che, più dello stesso Sallustio, l’autore su cui Syme ha formato le sue coordinate mentali, il suo lessico politico, la sua visione della storia, è Tacito, si può pensare che proprio la rassegnazione, velata di pessimismo, ma non per questo meno acquiescente rispetto alla forza della Realpolitik , che pervade le pagine iniziali degli Annali di Tacito (inevitabilità del potere personale per ottenere la pace civile e degrado morale della classe dirigente), è il sentimento che Syme fa proprio anche in riferimento alla storia europea che ha sott’occhio mentre scrive.
Nel giugno 1939 era ormai caduta Madrid: le cosiddette «grandi democrazie occidentali», Inghilterra in testa, imponendo il «non-intervento», avevano agevolato il trionfo del fascismo in Spagna. Era nell’aria la crisi europea che tre mesi dopo sarebbe diventata guerra, ma fino all’ultimo il retropensiero del governo conservatore inglese era di proiettare Hitler contro la Russia (si veda il bel volume di Finkel e Leibovitz, Il nemico comune , Fazi 2005). Sorge in sostanza la domanda se, al volgere di un anno cruciale, tra l’accordo di Monaco e il trionfo italo-tedesco in Spagna, anche Syme si fosse convinto della inevitabilità del fascismo in casa d’altri, cioè nel mondo, britannicamente considerato inferiore, dell’Europa continentale.
Ma ben altre critiche aveva sollevato Momigliano quando aveva recensito il volume in una grande rivista storica britannica nel 1940. Si era domandato se libri come quello di Syme, incentrati sullo studio dei comportamenti delle classi dirigenti, non prendessero un abbaglio considerando la storia come opera unicamente dei predestinati ad essere schedati nei repertori di antichità classica, con quasi completa dimenticanza delle grandi masse, soprattutto militari, potente fattore di storia anch’esse.
Riproporre oggi il grande libro di Syme (Einaudi, pp. XX-560, e 35), con nuova e puntuale prefazione di Giusto Traina, è un’eccellente idea per molti versi. Innanzitutto perché riporta all’attenzione la forza esplicativa dell’orientamento cosiddetto elitistico, fondato sul presupposto della «forza irresistibile delle minoranze organizzate» (come le chiamava Gaetano Mosca). In tempi, come gli attuali, che vedono appannarsi la differenziazione tra partiti politici, la lettura del grande e unilaterale libro di Syme è sommamente istruttiva.

l’Unità 25.6.14
Le infinite copie dell’«Infinito»
Domani all’asta il manoscritto leopardiano. Dubbi sull’autenticità
di Roberto Barzanti


APPARE POCO CONVINCENTE IL COMMENTO CHE LAURA MELOSI, STUDIOSA DI BEN APPREZZATA SERIETÀ, HA PROPOSTO CIRCA UN PROBABILE, a suo parere, terzo manoscritto dell’idillio leopardiano L’Infinito (cfr. «Infinito, spunta un'altra copia » nel supplemento domenicale del Sole24ore dell’11 maggio scorso). A dire il vero la notizia è stata circondata da circonlocuzioni avvedutamente prudenti. Ieri con un articolo apparso sulla Stampa anche Vanni Leopardi, discendente del poeta, ha espresso forti dubbi, chiedendo «maggiori approfondimenti prima di certificarne l’autenticità. E la solenne (e incauta) presentazione che ne è stata fatta nell’aula magna dell’Università di Macerata il 18 giugno, alla presenza dello scopritore Luca Pernici non ha affatto dissolto perplessità e obiezioni. La studiosa stessa che, in un primo momento, aveva potuto esaminare solo in una foto il manoscritto, rinvenuto a Cingoli all’interno di una collezione privata proveniente dallo smarrito archivio dei conti Servanzi Collio di San Severino, ha esplicitamente ammesso che «perplessità e riserve non possono non insorgere a uno sguardo d’insieme». Altro che perplessità! Bisogna nientemeno ipotizzare, per darlo come autentico, che Leopardi stesso abbia fatto, prima di partire per Roma, una «copia di sicurezza », nel timore che andasse perduto l’originale: sarebbe l’unico caso in cui questo stratagemma viene adottato dal poeta: «un fenomeno eccezionale» riconosce la Melosi nel saggio di cui appresso.
E, guarda caso, soltanto per l’idillio più celebre, quello che più di ogni altro ha subito interessate e maldestre falsificazioni. Tale copia sarebbe talmente fedele a quella nota da riprodurne - anche se non attraverso ricalco - interventi minimi, smagliature e macchie: a che pro? Memorabile è il saggio - un intrigante giallo letterario in piena regola - che Sebastiano Timpanaro pubblicò nel vol. CXLIII , fasc. 441 del Giornale storico della letteratura italiana (Loescher-Chiantore, Torino, 1966) alle pp. 88-119. In esso si dimostrava la falsità di molti autografi attribuiti a Leopardi, dovuti all’intraprendenza dell’abate Cozza-Luzzi e tra gli altri si toglievano di mezzo abbozzi del famoso idillio riprodotti nell’edizione Flora, assai approssimativa dal punto di vista filologico.
Stranamente Leopardi in questo caso avrebbe predisposto una copia trascrivendo con spasmodica diligenza cancellazioni e varianti tutte identiche a quelle che si leggono nell’esemplare conservato a Napoli, uno dei due giunti fino a noi. L’altro è conservato nel municipio di Visso, non ha che una lieve correzione ( «infinità» al posto di «immensità» al penultimo verso) ed è quindi sicuramente posteriore. Che senso avrebbe un perfetto duplicato della prima copia? E poi che la Teresa Teja, moglie di Carlo Leopardi e la Paolina avessero il vezzo di compensare favori ricevuti donando autografi del grande Giacomo non è - mi pare - usanza attestata, tanto più che il gusto antiquariale e mercatistico dell’autografo è assai più recente.
UN PERCORSO BIZZARRO
Farraginosamente s’ipotizza che la carta, indirizzata al priore di Santa Vittoria (provincia di Fermo) Serafino Monti sia pervenuta nella mani di Benedetto Monti, medico di sentimenti liberali di buona fama, affinché si adoperasse - omaggio anticipato - per far ammettere Luigi Leopardi, un nipote del poeta, in un collegio militare. Andata in fumo l’operazione, anche per indisponibilità dell’interessato, il manoscritto sarebbe rientrato in casa Leopardi e quindi tornato in possesso della famiglia: restituito perché la raccomandazione non fu avanzata, e la circostanza pare davvero buffa. Ma - obietta ancora Vanni Leopardi, attento conservatore di cose e documenti - tale manoscritto non risulta registrato in alcun elenco, come invece si usava. E perché avrebbe dovuto essere spedito per posta senza protezione alcuna in un carta ripiegata per farne un plico e imbrattata con un timbro prefilatelico di Montefalcone Appennino, tra l’altro non coevo - a quanto pare - alla data di composizione, fissata più o meno al 1821-22? E come spiegare che un tale prezioso reperto sia tardivamente riapparso in una cartella «di negozio» dell’avvocato di famiglia Federico Matteucci?
Paolina che era stupendamente generosa donò la culla di Giacomo: era utile a chi ne mancava. Ora per fortuna è stata recuperata. Ma quel manoscritto poteva essere un dono apprezzato? Marcello Andria, a lungo Conservatore delle Carte Leopardi custodite nella Biblioteca Nazionale di Napoli, sembra ritenere il reperto autografo del poeta, mentre la Melosi avvisa dell’uscita di un suo saggio in argomento - ho potuto leggerlo in anteprima - nel numero di gennaio-giugno dell’autorevole Rassegna della letteratura italiana, anno 118°, serie IX, n. 1 (Il terzo autografo dell’Infinito. Un manoscritto leopardiano ritrovato e la sua possibile storia). Intanto, anche ad una rapida osservazione della carta trovata, saltano agli occhi elementi che fanno propendere molti per un ennesimo falso. A giudizio di Pasquale Stoppelli, sicuro esperto di grafie e testi leopardiani, sussistono numerose altre incongruenze: come il tipo di carta ruvida di spessa grammatura impiegata, mai usata da Leopardi nella stesura in progress dei suoi componimenti. O l’impaginazione centrale, bizzarra quasi a suggerire un quadretto pronto per la cornice. Per non dire di micragnose imitazioni di punteggiatura. Viene d’acchito pure ai profani il sospetto che si tratti di una copia... copiata: da Leopardi in prima persona? Mah!
Intanto si apprende che il manoscritto verrà battuto all’asta domani dalla casa Minerva Auctions di Roma, partendo da una stima di base di 150.000 euro, secondo quanto ha comunicato alla conferenza pubblicitaria di Macerata il manager della casa Massimo Bertolo. La frettolosità acuisce i sospetti. Ovviamente l’assessore regionale alla cultura della Regione Marche Pietro Marcolini si è affrettato a chiedere che il manoscritto non cada in mano a privati e ha sollecitato una «cordata» per l’acquisto . E il Mibact che fa? Di fronte ad un manoscritto attribuito a Leopardi non può stare a guardare. Intanto si dovrebbe bloccare l’asta perché si compia un esame più accurato e coinvolgendo più esperti? La notifica potrebbe partire da subito? Le copie dell’Infinito son destinate a riprodursi... all’infinito?

il Fatto 25.6.14
L’autografia
Leopardi: infinite patacche d’autore
di Roberto Barzanti


Un terzo manoscritto dell’idillio leopardiano L’Infinito? La strana reliquia è messa all’asta domani dalla casa Minerva Auctions di Roma, partendo da una stima di base di 150 mila euro. In realtà sarebbe necessario approfondire a dovere i caratteri di un testo la cui autenticità appare quanto meno assai dubbia. La frettolosità con cui si vuol procedere acuisce i sospetti. È apparso, infatti, poco convincente il commento che Laura Melosi, studiosa di ben apprezzata serietà, ha proposto circa l’autografia di Leopardi e le peripezie attraversate dalla carta rinvenuta di recente a Cingoli all’interno di una collezione privata proveniente dallo smarrito archivio dei conti Servanzi Collio di San Severino.
BISOGNA nientemeno ipotizzare, per darlo come autentico, che Leopardi stesso abbia fatto, prima di partire per Roma, una “copia di sicurezza”, nel timore che andasse perduto l’originale: sarebbe l’unico caso in cui questo stratagemma viene adottato dal poeta. “Un fenomeno eccezionale” riconosce la stessa Melosi. E, guarda caso, soltanto per l’idillio più celebre, quello che più di ogni altro ha subito interessate e maldestre falsificazioni. Tale copia sarebbe talmente fedele a quella nota da riprodurne – anche se non attraverso ricalco – interventi minimi, smagliature e macchie: a che pro? Che senso avrebbe un perfetto duplicato della prima copia?
E POI CHE la Teresa Teja, moglie di Carlo Leopardi, e la Paolina avessero il vezzo di compensare favori ricevuti donando autografi del grande Giacomo non è usanza attestata, tanto più che il gusto antiquariale e mercatistico dell’autografo è assai più recente. Farraginosamente s’ipotizza che la carta, indirizzata al priore di Santa Vittoria (provincia di Fermo) Serafino Monti sia pervenuta nelle mani di Benedetto Monti, medico di sentimenti liberali di buona fama, affinché si adoperasse – omaggio anticipato – per far ammettere Luigi Leopardi, un nipote del poeta, in un collegio militare.
Andata in fumo l’operazione, anche per indisponibilità dell’interessato, il manoscritto sarebbe rientrato in casa Leopardi e quindi tornato in possesso della famiglia: restituito perché la raccomandazione non fu avanzata, e la circostanza pare davvero buffa.
Ma – obietta Vanni Leopardi, attento conservatore di cose e documenti – tale manoscritto non risulta registrato in alcun elenco, come invece si usava. E perché avrebbe dovuto essere spedito per posta senza protezione alcuna in un carta ripiegata per farne un plico e imbrattata con un timbro prefilatelico di Montefalcone Appennino, tra l’altro non coevo – a quanto pare – alla data di composizione, fissata più o meno al 1821-22?
E COME SPIEGARE che un tale prezioso reperto sia tardivamente riapparso in una cartella “di negozio” dell’avvocato di famiglia Federico Matteucci? Marcello Andria, a lungo Conservatore delle Carte Leopardi custodite nella Biblioteca Nazionale di Napoli, sembra ritenere il reperto autografo del poeta, mentre la Melosi avvisa dell’uscita di un suo saggio in argomento nel numero di gennaio-giugno dell’autorevole “Rassegna della letteratura italiana”, anno 118°, serie IX, n. 1 (Il terzo autografo de L’Infinito. Un manoscritto leopardiano ritrovato e la sua possibile storia).
Intanto, anche a una rapida osservazione, saltano agli occhi elementi che fanno propendere per un falso. A giudizio di Pasquale Stoppelli, sicuro esperto di grafie e testi leopardiani, sussistono numerose altre incongruenze: come il tipo di carta ruvida di spessa grammatura impiegata, mai usata da Leopardi nella stesura in progress dei suoi componimenti. O l’impaginazione centrale, bizzarra quasi a suggerire un quadretto pronto per la cornice. Per non dire di micragnose imitazioni di punteggiatura. Una copia... copiata da Leopardi in prima persona?
INVECE DI implorare la formazione di una cordata pubblico-privata che acquisti il manoscritto e lo sottragga a danarosi collezionisti sarebbe preferibile che si bloccasse l’asta e si promuovesse un confronto critico a più voci per tentar di capire come stanno le cose.