giovedì 26 giugno 2014

l’Unità 26.6.14
Ai lettori

Ancora una settimana per avere risposte sulle retribuzioni dei giornalisti e sul futuro della testata. Questo l’impegno preso da uno dei liquidatori della società editrice de l’Unità. Prendiamo atto del segnale voluto inviare alla redazione, ma resta il fatto che un impegno verbale è ancora troppo poco. Da mesi i giornalisti lavorano senza stipendio e chiedono certezze sull’occupazione.
La situazione non è più tollerabile. Se il valore della testata non si è depauperato è solo grazie all’impegno di giornalisti e poligrafici, che hanno mantenuto la presenza del giornale in edicola, nonostante la latitanza della proprietà e del management uscito di scena con la liquidazione. L’incontro della prossima settimana dovrà dare risposte esaustive rispetto a retribuzioni e livelli occupazionali. Non è più tempo di promesse, rassicurazioni, mai seguite da fatti. Per questo prosegue lo sciopero delle firme. Resta sospesa l’astensione dal lavoro, su cui sarà presa una decisione dopo l’incontro con i liquidatori della prossima settimana.
IL CDR

il Sole 26.6.14
Un piccolo secondo forno e due segnali
di Stefano Folli


Forse è un piccolo secondo forno, quello aperto ieri da Renzi con i Cinque Stelle. Un secondo forno in cui non si cuocerà molto pane, ma che serve anche a mettere in guardia il titolare del primo forno, ossia il partito berlusconiano.
Fuor di metafora, è chiaro che l'incontro in "streaming" di ieri pomeriggio non va valutato per i risultati concreti, bensì per i segnali politici trasmessi nell'etere e via Internet. Segnali molteplici. A cominciare dalla disponibilità del premier, il quale non solo ascolta e discute, non solo non si offende per l'assenza di Grillo, ma si confronta con Di Maio, il vice-presidente "grillino" della Camera, e gli fissa pure un secondo appuntamento. Arrivando ad aprire una finestra sul tema delle preferenze, tema inviso a Forza Italia. Cortesia alla quale Di Maio replica affermando di non avere nulla in contrario, in via di principio, all'ipotesi di un ballottaggio fra coalizioni (ossia il punto centrale del cosiddetto "Italicum").
Segnali, appunto. Da non prendere troppo alla lettera, ma utili a entrambi gli interlocutori. Renzi se ne serve, come detto, per ricordare a Berlusconi che il famoso patto comprende sia la riforma del Senato sia la legge elettorale, il cui impianto ha già le sue radici in Parlamento. Ma il segretario-premier tiene anche d'occhio l'elettorato di Grillo: se la crisi del movimento dovesse approfondirsi, è già pronto un ampio paracadute per accogliere i pentastellati delusi nel grembo del Pd "renziano".
Quanto a Grillo, la sua iniziativa fa ovviamente parte della strategia inaugurata dopo la mezza delusione del voto di maggio. Per quanto non paragonabili fra loro, l'accordo con Farage in Europa e questo profilo istituzionale in Italia appartengono alla stessa logica. Basta urla e contumelie, avanti con proposte che hanno un senso compiuto. L'ipotesi di riforma elettorale elaborata dal tecnico Toninelli magari sarà astrusa e controversa, magari arriva fuori tempo massimo, però rappresenta un salto nella realtà del dibattito politico, non è solo un modo di ululare alla luna.
I Cinque Stelle possono sperare di aver aperto una sottile breccia nel muro dell'accordo consolidato fra Renzi e Forza Italia (intesa che in buona misura comprende anche la Lega). In parte hanno ragione, nel senso che hanno toccato un nervo sensibile: non a tutti piace l'Italicum, come è noto. Il fronte dei dubbiosi è largo e trasversale e in teoria l'operazione grillina offre un gancio a cui appendere il malcontento. Ragion per cui nel partito berlusconiano si sono un po' allarmati, specie per quell'accenno alle preferenze. Non a caso Romani, a nome del leader, ha tenuto a precisare che Forza Italia è fedele agli accordi ed è pronta a votare il testo della legge elettorale al Senato.
In fondo è una partita a scacchi che si sta svolgendo sullo sfondo del Parlamento. Non tutte le mosse sono comprensibili, alcune non avranno seguito, altre daranno esiti diversi da quelli attesi. Ma tutte rientrano nel grande gioco delle riforme, un gioco dal quale nessuno vuole restare escluso, nemmeno i Cinque Stelle. Per Renzi la riforma del Senato va attuata in connessione con la legge elettorale e con una maggioranza più larga, è ovvio, di quella di governo. Per Grillo la questione politica cruciale riguarda il modello elettorale e su questo non ha torto. A Forza Italia preme aprirsi uno spazio politico per risalire la china. Berlusconi non ha intenzione di abbandonare Renzi, oggi il suo unico punto di riferimento. Si preoccupa piuttosto di riorganizzare il centrodestra perché le elezioni potrebbero arrivare molto prima del 2018. Ed è un'idea non campata in aria.

l’Unità 26.6.14
Sel, lascia pure il tesoriere E Vendola accusa il Pd
Si aggrava la crisi del partito: salgono a dieci i fuoriusciti dal gruppo parlamentare
La direzione respinge le dimissioni del leader che attacca i democratici: «Basta shopping»


E dieci. Non sarà una scissione, «sono loro che se ne vanno, non si è mai vista una scissione parlamentare», come insiste a dire Nicola Fratoianni, coordinatore di Sel, ma il partito di Nichi Vendola a questo punto è sotto choc. Ieri infatti hanno lasciato altri quattro parlamentari, ma la botta più pesante è l’uscita del tesoriere, Sergio Boccadutri, uno dei fondatori. Una migrazione che lo porterà al Pd, ma a lui ieri si sono aggiunti Fabio Lavagno, Alessandro Zan e Nazzareno Pilozzi, che lasciano il gruppo della Camera.
«Qualcuno nel Pd sta provando a fare campagna acquisti ed è meglio che smetta subito», afferma Vendola alla fine della riunione di direzione, lanciando una frecciata ai fuoriusciti: «Il richiamo del vincitore è forte...», ma, avverte, «il renzismo è fatto di fumo, nebbia, un carosello di parole quando avremmo bisogno di risposte». Tamponate le ferite, si ricomincia. Dalle alleanze col Pd per le prossime regionali, ma non a Palazzo Chigi: «Se al governo c’è Alfano io non ci posso stare», ha detto il leader di Sel, che non può «stare al governo con Renzi che dice di voler cambiare verso all’Europa e il giorno dopo non dice niente quando Merkel afferma che l’Europa avrà il senso dell’austerità».
Le facce, al Centro congressi Cavour, sono fra il preoccupato e l’allibito. La domanda è quella storica del «che fare?». Il mandato di Vendola e di tutto il gruppo dirigente è sul tavolo, ma, come comunica Fabio Mussi alla fine, le dimissioni sono respinte. Il gruppo dirigente sarà votato all’Assemblea nazionale il 12 luglio. In questi giorni la discussione sarà sul territorio, poi a ottobre la «conferenza programmatica». L’emorragia sembra ferma, Piras lo ha dichiarato, altri in bilico, si sarebbero ravveduti, ma c’è chi «annusa» altre uscite.
Gli ultimi tre deputati in una lettera («Caro Nichi, non senza tristezza....») hanno motivato la loro scelta per le «molte inversioni di rotta» e «l’atteggiamento politico minoritario» del partito che si sarebbe allontanato da una visione di «sinistra di governo». La diaspora covava sotto la cenere, ed è scoppiata dopo l’esclusione di Sel dai seggi di Strasburgo, fatto che potrebbe ripercuotersi sulla cassa del partito. Ma il punto è il rapporto con Renzi, tra chi ne è attratto, chi vuole confrontarsi e chi, come Mussi e Franco Giordano, avverte che non può esserci posto per una sinistra nel Pd di Renzi, con il rischio di essere annientato. Semmai il tentativo è «attrarre» la sinistra Pd, infatti alla fine della giornata a San Giovanni Vendola parla in piazza con Pippo Civati, in una iniziativa organizzata da Ida Dominejanni.
Boccadutri ha comunicato martedì a Fratoianni la sua uscita, «penso che la base naturale dove approderà sarà quella del Pd», spiega il neo capogruppo alla Camera, che la giudica una scelta «coerente, legittima, ma sbagliata». Ma non si parli di scissione, perché, come dice Paolo Cento, «da Migliore e gli altri non è stato presentato un documento programmatico». Secondo Fratoianni «Sel non ha cambiato pelle» (su di lui le critiche per il matrimonio con Tsipras) «né si è spostata, è chi se ne è andato ad aver cambiato idea».
Adesso il dilemma è: ripensarsi, essere sinistra «nel centrosinistra», aprirsi di più alla società e ai movimenti. La gestione Vendola sarebbe stata criticata per il «cambio repentino tra Schulz e Tsipras», ma al momento di una nuova leadership non se ne vede l’ombra.
Il giovane Marco Furfaro misura la distanza con Renzi, (politica e poco «di sinistra») ma anche i pregi da non sottovalutare: «Sì, sì, facciamo la conferenza programmatica, ma senza innovazione non andiamo da nessuna parte», dice lui che si è visto scippare il seggio a Strasburgo da Barbara Spinelli, «Renzi ha davvero rotto col passato, non dobbiamo avere la puzza sotto al naso quando vediamo la Boschi che ti cambia la Costituzione, o la Mogherini al posto di Letta o D’Alema. Facciamo qualcosa anche noi, ministro del Lavoro un precario, non so...».

La Stampa 26.6.14
Sel respinge le dimissioni di Vendola
. Ma l’esodo dal partito continua
Il tesoriere Boccadutri lascia per andare al Pd. Lavagno, Pilozzi e Zan:
«Non ci riconosciamo più». Convocata l’assemblea nazionale il 12 luglio

qui

La Stampa 26.6.14
Sel, Vendola alla fine resta però la scommessa è fallita
di Riccardo Barenghi


Si presenta dimissionario insieme al suo gruppo dirigente (o a quel che ne resta) ma poi ovviamente la Direzione del suo partito lo incorona di nuovo leader. E lui rilancia l’azione politica di Sel, spiega che una sinistra radicale ma di governo è necessaria in Italia, che loro sono all’opposizione e non saliranno sul carro del vincitore ma con Renzi vogliono dialogare sui contenuti: insomma. Sel ha ancora parecchie ragioni per esistere.
Non poteva fare altro, Nichi Vendola, se non decretare la fine politica della sua creatura e intonare il “tutti a casa”. Ma nonostante la tenacia nel resistere, la sua scommessa l’ha persa, così come l’aveva persa qualche anno fa Fausto Bertinotti. La scommessa era quella di riuscire a costruire in Italia una sinistra che restasse fuori dal grande calderone (ormai enorme con Renzi) rappresentato dal Pd ma che non fosse residuale e minoritaria. Che insomma si ponesse il problema di stare al mondo, ovvero di governare il Paese, pur mantenendo le sue posizioni critiche nei confronti di un’epoca che va in una direzione diversa rispetto a quella sognata dalla sinistra radicale.
La fuoriuscita di Gennaro Migliore, Claudio Fava, addirittura del tesoriere Sergio Boccadutri e di altri parlamentari e dirigenti di Sel non è che l’ultimo episodio di una parabola che nel corso degli ultimi tre anni ha preso una curva discendente, un declino che appare inesorabile.
Eppure Vendola ci aveva provato. E contro tutte le aspettative era riuscito, dopo aver lasciato la casa madre di Rifondazione finita nella mani di un leader come Paolo Ferrero (così radicale da non essere spendibile sul mercato politico), a costruire un nuovo partito. Sempre di sinistra ma non settario, con in testa l’idea che il governo non è un tabù dal quale rifuggire. Tutt’altro. Con la sua Sel, Vendola ha lavorato per costruire un partito di sinistra pronto ad assumersi responsabilità di governo, pronto a scommettere sull’alleanza col Pd diretto da Pier Luigi Bersani, pronto infine a giocare la partita in prima persona mettendo in campo propri ministri in quel governo “del cambiamento” che poco più di un anno fa sembrava cosa fatta. Non è andata così. Bersani è arrivato primo ma ha perso, Vendola si è fermato al 3.2 per cento, e i suoi compagni sono entrati in Parlamento solo grazie al premio di maggioranza garantito dal Porcellum.
E pensare che solo una paio di anni prima i sondaggi attribuivano al suo partito addirittura il 7 per cento. Se allora, ossia all’epoca della caduta di Berlusconi e dell’avvento del governo Monti, fosse passato il treno delle elezioni, oggi forse avremmo un governo di centrosinistra legittimato dalle elezioni. Invece quel treno non è passato e Sel è stata costretta ad aspettare. In Parlamento ma contro il governo di larghe intese di Letta. In Parlamento ma contro il governo di piccole intese di Renzi. In Parlamento ma aspettando che il governo cadesse e che Renzi all’improvviso guardasse alla sua sinistra. Finora nulla di tutto questo è accaduto e nulla fa pensare che possa accadere un domani.
Tanto più che ormai il presidente del Consiglio non ha alcun interesse a rincorrere quei pochi voti di Sel, può permettersi di guardare dall’alto del suo 40,8 per cento le convulsioni dei piccoli partitini alla sua sinistra o alla sua destra (quel che resta di Scelta civica). Aspettando che uno dopo l’altro i transfughi vengano a lui. I primi stanno già arrivando, altri seguiranno. Lui ovviamente li accoglierà a braccia aperte.

Corriere 26.6.14
Sel, Vendola resiste alla diaspora dei suoi «Opa ostile dal Pd»
Ma il tesoriere Boccadutri va con i dem
di Tommaso Labate


ROMA — Prima accusa implicitamente Matteo Renzi, dicendo che «qualcuno nel Pd sta provando a fare campagna acquisti, ed è meglio che la smetta subito». Poi passa oltre. «Sia Gennaro», e cioè Migliore, «che Barbara», e cioè la Spinelli, «mi hanno paradossalmente mosso la stessa accusa. Hanno detto che siamo ambigui, che non sappiamo scegliere». Pausa. Quindi Nichi Vendola guarda uno per uno i membri della direzione di Sinistra ecologia e libertà che stanno per respingere all’unanimità le sue dimissioni. Poi infilza il coltello della narrazione nella carne viva del dibattito. «Ecco, io questa ambiguità la rivendico. La rivendico rispetto alla ricerca della terra di mezzo, alla terra che sta tra Schulz e Tsipras. Sel può essere il lievito di questa ricerca».
Alle sette di sera, quando cala il sipario sulla riunione del parlamentino chiamato a fare «il punto» dopo l’uscita di un pezzo di gruppo parlamentare (10 a ieri gli addii), Vendola tira il fiato. Era entrato al summit (a porte chiuse, no streaming ) agitando contro i fuoriusciti il vecchio adagio di Bertolt Brecht, quel «ci sedemmo dalla parte del torto perché gli altri posti erano occupati». E, soprattutto, era entrato da dimissionario. Ne esce con un dispositivo che all’unanimità respinge la sua uscita di scena e che gli riaffida il rilancio del partito. «La fase nuova di Sel», come viene chiamata in un testo che contempla una «road map» in due punti. Un’assemblea nazionale in programma a luglio. E, soprattutto, la conferenza programmatica in calendario a settembre.
Nega che sia stata «una scissione», Vendola. Anche perché, quando cita l’addio di Migliore e compagnia, evoca un qualcosa che «non c’entra con la linea politica, bensì con l’idea di stare o meno al governo. E poi, scusate, fosse stata una questione di dissenso, qui da noi non c’è sempre stato rispetto, per il dissenso?». E aggiunge, sia nella relazione che nelle conclusioni, che «adesso c’è bisogno di una sinistra che non si accontenta delle battute». Di una «sinistra da rifondare, perché se non si rifonda la sinistra non ci sarà mai di nuovo un centrosinistra al governo». Lo ascolta compiaciuto Massimo Zedda, il sindaco di Cagliari. E lo ascoltano anche i deputati Piras e Quaranta che, smentendo i boatos degli ultimi giorni, pronunciano all’unisono il loro «noi rimaniamo qui, non ce ne andiamo». Al contrario dei parlamentari Zan, Pilozzi e Lavagno, che invece fanno le valigie. Al pari di Sergio Boccadutri, il tesoriere, pronto non solo a passare armi e bagagli nel Pd. Ma anche – dicono fonti del Nazareno – a collaborare con l’uomo della cassa dei Democratici, il renziano Bonifazi.
Ma se nei confronti di Boccadutri il leader di Sel spende pure belle parole (e lo ringrazia per il lavoro svolto), l’acredine nei confronti del Pd ormai è palese. «Io non posso andare al governo se nel governo ci sono Alfano e le politiche di austerity», scandisce Vendola sia durante la Direzione che una volta uscito. Ma è l’Opa ostile, sono quegli «strani movimenti» che – secondo lui – avrebbero contribuito a portare fuori dal gruppo di Sel i parlamentari che hanno lasciato la settimana scorsa, a turbarlo di più. «Negli anni scorsi», sottolinea il governatore pugliese, «molti esponenti del Pd si erano avvicinati o stavano per avvicinarsi a Sel. Io, a differenza di qualcun altro, non ho mai sollecitato questo genere di movimenti». Difficile non individuare nel «qualcun altro» proprio Renzi e i suoi. Che, secondo Vendola, «sarebbero impegnati in un’Opa sul corpo di Sel».
Già, Sel. La forza politica che punta al rilancio, secondo il suo leader riconfermato, è «viva». Impegnata nella ricerca di «quella terra di mezzo». Financo orgogliosa di quell’«ambiguità» che ieri, Vendola, ha persino rivendicato. Rispondendo a chi, come Migliore o Spinelli, o non c’è mai stato, o se n’è andato.

il Fatto 26.6.14
Furbetti a Strasburgo. Pensione integrativa nel paradiso fiscale
Molti parlamentari europei, fino al 2009, hanno aderito al fondo che opera in Lussemburgo
Tra gli italiani Pannella, Borghezio, Bertinotti, Bossi, Mauro e Albertini
di Alessio Schiesari e Leonardo Vilei


Tassazione ai minimi, opacità e sede in Lussemburgo. Non stiamo parlando dell’ennesima multinazionale che aggira legalmente il fisco, ma del fondo pensione complementare dei parlamentari europei. Dal 1994 al 2009, eurodeputati di tutte le formazioni politiche e nazionalità hanno aderito a un piano pensionistico legale, ma assai discutibile. Nella lista (tenuta segreta per anni, ma rivelata dal giornalista tedesco Hans-Martin Tillack e da successive inchieste giornalistiche riprese da Open Europe), ci sono anche molti italiani: dal leader radicale Marco Pannella a quello leghista Umberto Bossi, passando per l’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini e il segretario di Rifondazione Comunista Fausto Bertinotti. Nonostante il fondo volontario nasca nel 1989 su iniziativa di alcuni europarlamentari e dal 2009 i nuovi eurodeputati non possano più aderirvi, in questi giorni è tornato di attualità in Spagna, dove sta provocando un terremoto politico nella sinistra radicale. Questo perché tra privilegi insensati, investimenti scellerati e buchi di bilancio, il fondo continua a creare danni. Pur trattandosi di uno strumento volontario, i contributi che fino al 2009 lo alimentavano erano pagati per i due terzi dal Parlamento europeo e solo per il restante 33 per cento dagli eurodeputati. Inoltre, il trattamento percepito era ed è troppo generoso , tanto che, stando a quanto scritto da tutta la stampa britannica, ha creato un buco di 233 milioni di euro nel bilancio dell’Europarlamento che verrà tappato attingendo al bilancio comunitario. La gestione avviene attraverso una Sicav, sigla dietro cui spesso si celano capitali in cerca di alti rendimenti e poche tasse. Anche l’impiego delle riserve desta qualche perplessità: secondo il think tank inglese Open Europe, 131 milioni di euro sono andati in fumo perché investiti in strumenti finanziari proposti dal broker-truffatore Bernard Madoff. Buco che dovrebbe essere ripianato dalla Ue.
MARTEDÌ SCORSO, lo scandalo è riscoppiato in Spagna grazie al quotidiano indipendente Info-Libre, e ha già provocato dimissioni eccellenti. Il partito più colpito è la formazione di sinistra radicale Izquierda Unida, nel cui programma elettorale figurava l’abolizione delle Sicav. Il suo leader in Europa, Willy Meyer, aveva però aderito al fondo dieci anni fa. Dopo avere provato a giustificarsi spiegando di “non essersi reso conto delle sue implicazioni”, è stato costretto dalla base a rassegnare le proprie dimissioni. L’imbarazzo maggiore è però del Partito Socialista, già orfano della sua cupola, dimessasi all’indomani delle elezioni del 25 maggio, e coinvolto in questo nuovo scandalo a partire dalla sua capolista alle europee, Elena Valenciano. La sua ritrosia è controbilanciata dal Partito Popolare, che in una nota ha dichiarato , apertamente, che così fan tutti.
Così facevano in tanti anche in Italia: ben 50 eurodeputati su 78 (il dato si riferisce alla legislatura terminata nel 2009, l’unica per cui è disponibile la lista completa). Il fondo pensionistico integrativo con zero tasse e finanziato dall’Europarlamento faceva gola a molti: tra gli altri, il forzista Jas Gawronsky, l’ex finiana (oggi Ncd) Roberta Angelilli, il leader no global Vittorio Agnoletto, i leghisti Mario Borghezio e Francesco Speroni, Nello Musumeci de La Destra, Marco Rizzo dei Comunisti Italiani, Pier Antonio Panzeri del Pd, la leader verde Monica Frassoni, l’ex ministro in quota Cl Mario Mauro e perfino il radicale Marco Cappato. Contattati per spiegare perché abbiano aderito al piano, ognuno si giustifica come può. Borghezio ci mette un po’ a capire: “Intende la pensione normale?”, poi quando mette a fuoco il problema ammette di avere fatto “un’interrogazione o forse delle dichiarazioni contro quel fondo, ma quando ho aderito non sapevo di cosa si trattasse”. La Angelilli non si sente chiamata in cause perché “ancora non percepisco la pensione, chissà cosa succede tra quindici anni”. Agnoletto chiede mezz’ora di tempo per verificare i documenti e poi stacca il telefono, mentre Cappato spiega che “dopo l’eurodeputato ho fatto il volontario per tre anni senza percepire una lira”, poi promette una battaglia “per riformare questo meccanismo che non conoscevo” ma, quando gli si fa notare che basterebbe lasciare individualmente il fondo contrattacca: “Quello serve solo a fare bella figura”. Bruxelles, in un comunicato, giustifica l’affiliazione del fondo in Lussemburgo in quanto lì ha sede legale la Segreteria Generale dell’Europarlamento. Le prestazioni ottenute devono essere poi dichiarate nei Paesi d’origine e sottoposte al regime fiscale corrispondente, una volta ritirato il succulento premio pensionistico, al compimento del 63 anni di età. Le Sicav, Società di investimento a capitale variabile, sono strumenti di gestione di patrimoni e risparmi introdotti anche in Italia dal decreto legislativo 84/1992, come attuazione di una direttiva europea, su imitazione di prodotti finanziari già esistenti proprio in Lussemburgo, campione di sotterfugi per chi è alla ricerca di molta discrezionalità e scarsa imposizione. Al di là delle precisazioni di Bruxelles resta il fatto che nel Granducato questi prodotti versano solo lo 0,01% annuale sul valore netto degli attivi, oltre ad essere esenti da ogni imposta societaria.

l’Unità 26.6.14
Editoria, è polemica sul piano del governo


«Chiediamo al sottosegretario con delega all’Editoria di ritirare la delibera nata dall’accordo tra il sindacato dei giornalisti e gli editori, perché anticostituzionale e contraria ai principi della legge sull’equo compenso». È il primo squillo di tromba in risposta all’intervista a Repubblica con cui Luca Lotti, braccio destro del premier Matteo Renzi e sottosegretario con delega all’editoria, ha annunciato provvedimenti per il rilancio del settore.
A lanciarlo è stata Sinistra Ecologia e Libertà, con una dichiarazione di Marco Furfaro che definisce l’accordo siglato dagli editori e dalla Fnsi fortemente iniquo e palesemente anticostituzionale. Dopo la giusta legge sull’equo compenso ha dettol’accordo siglato stabilisce tariffe minime per autonomi e precari che offendono la dignità dei lavoratori e il diritto all’informazione».
Ma la reazione di Sel non è l’unica: a mobilitarsi sono in particolare i diretti interessati, i lavoratori freelance dell’informazione, che sul sito di change.org lanciano una petizione che ha raccolto in poche ore un migliaio di firme. A Lotti chiedono di ritirare «la delibera attuativa della legge sull’equo compenso per i giornalisti freelance e atipici» definendolo un primo passo per sgomberare il campo da “pacchetti” velenosi e pericolosi per la democrazia. «Ridurre il 60% dei giornalisti italiani – questo è il numero dei freelance e non contrattualizzati – alla fame, significa attaccare la qualità dell’informazione, un bene fondamentale per la stessa democrazia».
Lotti ha firmato ieri il decreto della Presidenza del Consiglio sul Fondo straordinario per l’editoria. «Aiutiamo le aziende con i pre-pensionamenti in un momento di crisi profonda del settore ma le sfidiamo a fare di più sul fronte dell’occupazione», ha detto Lotti, annunciando un vincolo delle assunzioni per le aziende che accedono ai soldi pubblici, e cioè un’assunzione ogni tre prepensionamenti. Da più parti l’iniziativa viene vista come un aiuto ad aziende coi bilanci in surplus più che a quelle, e sono la maggioranza, che versano in pesantissime crisi. Solo gli editori più forti possono infatti permettersi di bilanciare pre-pensionamenti e nuove assunzioni. Ma a fare discutere molto sono le norme sull’equo compenso: un minimo di 3000 euro lordi annui per i giornalisti non contrattualizzati che collaborano dall’esterno con le testate giornalistiche. Che diventano 250 euro lordi al mese. «Sono soddisfatto? No, è poco dice Lotti ma 15 euro più di prima (ad articolo di 1600 battute ndr) possono essere considerati una vittoria».
La vicenda si incrocia con quella del contratto di lavoro giornalistico, per cui la Federazione degli editori (Fieg) e quella dei giornalisti (Fnsi) hanno firmato due giorni fa un’intesa. «Si tratta di un atto che spinge sull’innovazione, vuole stimolare la ripresa, riconosce figure come quelle del lavoro autonomo finora escluse dalla negoziazione», dichiarano il segretario generale e il presidente della Fnsi, Franco Siddi e Gio-
vanni Rossi. «L’intesa premettono è un punto fermo essenziale che concorre a mettere in sicurezza la validità del contratto collettivo di lavoro della categoria e l’istituto di previdenza e protezione sociale, sotto stress a causa della grave crisi che da anni colpisce il settore dell’editoria». Ma non mancano le voci critiche, come quella dell’Associazione stampa romana e dell’Associazione stampa Emilia-Romagna, che mettono in discussione, ad esempio, proprio la questione del lavoro autonomo, i cui contenuti sono definiti «inaccettabili». «Quello che è certo scrive Paolo Butturini, presidente di Stampa Romana è che nonostante i piccoli miglioramenti strappati coi denti, si profila un pasticciaccio a danno della categoria. Il sottoscritto come segretario della Asr e i membri di giunta di Roma, Elena Polidori e Ezio Cerasi, hanno espresso parere contrario».
Sul punto del lavoro autonomo Sel picchia duro, ricordando l’articolo 36 della Costituzione: «Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».
«Le tariffe stabilite nell’accordo secondo Sel vanno nella direzione contraria e sanciscono una condizione di precarietà inaccettabile». «I freelance e gli atipici rappresentano la maggioranza assoluta dei giornalisti attivi. Sono il cuore dell’informazione italiana, tra i meno pagati al mondo, si pagano di tasca propria le necessarie spese del lavoro di inchiesta, lavorano spesso in condizioni di ricattabilità. E l’accordo non fa altro che ribadirlo».

il Fatto 26.6.14
Agli editori regali, ai giovani precarietà
Firmati il decreto Lotti che sblocca il fondo per l’editoria e il contratto, contestato dai giornalisti
di Salvatore Cannavò


Chi volesse capire meglio quale sia il “modello Renzi” per il mercato del lavoro può leggere la combinazione tra il Protocollo sull’editoria siglato ieri a Palazzo Chigi e il rinnovo del contratto giornalistico che a quel decreto è collegato. Agli editori italiani arriveranno nuovi incentivi - 120 milioni in tre anni - “per dare un’occasione ai giovani”. In cambio, gli editori, garantiscono generici impegni a “monitorare” il mercato del lavoro usufruendo però di dosi massicce di nuova precarietà. Per l’istituto di previdenza si profilano giorni complicati .
IL PROTOCOLLO che sblocca i fondi stanziati dalla legge di Stabilità è stato siglato ieri dal sottosegretario Luca Lotti, la Fieg, la federazione degli editori, la Fnsi, il sindacato dei giornalisti e l’Inpgi, l’istituto previdenziale. Il fiore all’occhiello di Lotti, illustrato non casualmente ieri, in un’intervista a Repubblica, del gruppo De Benedetti, tra i principali beneficiari della misura, è che le imprese editoriali che accedono ai soldi pubblici devono garantire per ogni 3 pre-pensionati almeno un neoassunto. “Alla fine del 2014 - aggiunge - stimiamo 300 assunzioni. Circa mille entro il triennio di validità del decreto”. La proposta sembra allettante ma rischia di creare un pesante passivo per l’Inpgi che vedrà crescere la quantità dei pensionati a fronte di insufficienti nuove assunzioni.
Per cogliere meglio la portata delle modifiche, però, occorre guardare dentro il nuovo contratto di categoria. I fondi del protocollo, infatti, saranno utilizzati per favorire le riduzioni dei contributi previdenziali a carico degli editori – circa il 10% in meno – anche per i contratti a tempo determinato. Inoltre, si potrà assumere con una “retribuzione di ingresso” per 36 mesi, a tempo determinato, con retribuzioni inferiori al 25% ma anche al 35% di quanto previsto dai minimi contrattuali. Non solo, il nuovo contratto prevede, per i giovani dai 18 ai 29 anni, la formula dell’“apprendistato professionalizzante” di 36 mesi che si aggiungerà al praticantato (18 o 24 mesi) consentendo agli editori di erogare stipendi poco sopra i mille euro per almeno 5 anni.
Agli editori, invece, è richiesto il generico impegno di “monitorare l’andamento del mercato del lavoro” e viene dato appuntamento alla “data del 31/12/2015” (la sera di capodanno) “per una valutazione dell’efficacia di tali misure”. Da subito però potranno godere di 7,5 milioni di euro per investimenti in nuove tecnologie e incentivi per le start up. Quello che nel contratto fa più discutere, però, è l’accordo sul “lavoro autonomo”, cioè i co.co.co. Dietro la promessa di un quadro normativo più stabile per un settore che ormai rappresenta il 60% della categoria, si fissano dei compensi di base - Lotti li chiama “compenso minimo garantito” - che prevedono 20 euro lordi per un articolo su quotidiano. Il compenso scende a 6,25 euro per ogni “segnalazione e informazione” per agenzie e web (250 euro al mese).
SECONDO il segretario della Fnsi, Franco Siddi, intervistato anche lui dal gruppo l’Espresso, stavolta sull’Huffington, “la domanda da porsi è: rispetto all’esistente si va avanti o no? La nostra risposta è sì”. Ma l’accordo ha avuto il sì di 8 componenti della giunta Fnsi mentre 3 hanno votato contro e 3 si sono astenuti. Contro il contratto si stanno mobilitando i precari mentre all’interno della Fnsi sta per nascere un’assemblea nazionale per il 5 luglio a Roma. Tra i promotori, il segretario di Stampa romana, Paolo Butturini, secondo il quale la firma del contratto “rappresenta una sconfitta per il sindacato dei giornalisti e un arretramento per l’intera categoria”.

Corriere 27.6.14
Permessi sindacali dimezzati: saranno 1.200
Duello interno alle sigle
di Lorenzo Salvia

ROMA — Sguardi che si abbassano lungo i corridoi, liste più o meno segrete, incontri riservati e primi sondaggi. Ma soprattutto una domanda: e adesso, a chi tocca? Con la riforma della pubblica amministrazione il governo Renzi ha regalato ai sindacati e ai suoi dipendenti il gioco della pagliuzza: chi pesca quella corta viene eliminato. La prima norma che produrrà effetti concreti nel corposo pacchetto che ha finalmente superato il traguardo della Gazzetta ufficiale è il dimezzamento dei famosi distacchi sindacali. Cosa sono? Ad oggi circa 2.400 dipendenti pubblici hanno lasciato il loro ufficio per lavorare a tempo pieno nel sindacato ma continuano ad essere pagati dallo Stato. Distaccati. E forza lavoro gratis per Cgil, Cisl, Uil e tutte le altre sigle. Il decreto appena entrato in vigore dice che dal primo di settembre di quest’anno il numero dei distacchi deve essere tagliato del 50%. Metà di quelle 2.400 persone dovrà lasciare il sindacato per tornare a lavorare nel suo vecchio ufficio. E devono essere gli stessi sindacati a decidere chi rispedire verso la scrivania di provenienza e chi invece trattenere in sede. Lui va, lui resta, lei va, lei resta. Un grande torneo della pagliuzza corta da chiudere in due mesi appena. Con il rischio di gelosie, cordate, vendette. Con l’elevata probabilità di spaccare lo spogliatoio come nemmeno Balotelli e Cassano in Nazionale. Nel sindacato c’è chi pensa che il governo abbia scelto questa strada apposta, proprio per dividere e imperare con tanti saluti alla concertazione che fu.
Dal punto di vista dei soldi non ci saranno grandi risparmi, almeno non diretti. I distaccati costano 117 milioni di euro l’anno ma quei soldi continueranno ad essere pagati anche una volta che gli ex sindacalisti torneranno al loro ufficio di una volta. Vero che verrebbe meno una parte dei soldi che lo Stato spende per sostituirli. Vero che, almeno teoricamente, torneranno a «produrre» per la pubblica amministrazione. Ma in qualche caso l’effetto immediato potrebbe essere contrario. «Chi è distaccato presso il sindacato — dice Antonio Foccillo, responsabile pubblico impiego per la Uil — prende solo lo stipendio base. Una volta tornato al ministero prenderà anche straordinari e buoni pasto. Costerà di più non di meno. Davvero non capisco che senso c’è».
Qualche battaglia potrebbe arrivare anche fuori dal recinto dei sindacati, con le nuove norme sulla mobilità previste per i normali dipendenti. Per far partire davvero quei trasferimenti di truppe sempre annunciati e mai realizzati, il governo ha creato un fondo «destinato al miglioramento dell’allocazione del personale presso le pubbliche amministrazioni». Per quest’anno ci sono 15 milioni di euro, l’anno prossimo il doppio, che vengono presi recuperando anche vecchi stanziamenti per la stabilizzazione dei precari. Ci sarà un portale «finalizzato all’incontro tra la domanda e l’offerta di mobilità». Per evitare la corsa verso gli uffici che pagano meglio, come le agenzie, si stabilisce che «l’amministrazione di destinazione abbia una percentuale di posti vacanti superiore all’amministrazione di appartenenza». Il fondo potrebbe essere utilizzato anche per compensare eventuali differenze di retribuzione in caso di trasferimenti forzosi. Ma, almeno in prima battuta, sarà usato per consentire di spostare dalle province alle cancellerie dei tribunali i 300 dipendenti che hanno partecipato al bando lanciato quasi un anno fa. Le province battono in ritirata, i tribunali non riescono a star dietro alle cause, i dipendenti vogliono spostarsi. Ma tutto è rimasto fermo perché, secondo la Ragioneria generale dello Stato, con il passaggio di risorse da un ente locale ad un’amministrazione centrale si sballerebbe la programmazione economica e la sua divisione fra centro e periferia. Il fondo serve a rimettere in equilibrio i conti e superare le perplessità della Ragioneria. Succede anche questo.

l’Unità 26.6.14
Cannabis terapeutica, il ministero faccia in fretta
di Luigi Manconi


Gentile signora Ministro Beatrice Lorenzin, qualche settimana fa, a Roma, un importante convegno, promosso dalle associazioni Luca Coscioni e A Buon Diritto, ha affrontato il delicatissimo tema dell’uso terapeutico della cannabis. O meglio, del suo mancato uso, pure in presenza da tempo di una normativa che lo consentirebbe. A ostacolare il ricorso ai farmaci cannabinoidi sono resistenze di diversa natura: lentezze amministrative e pregiudizi culturali, macchinosità burocratiche e diffidenze del personale sanitario. Nella sua lettera inviata al convegno, lei ribadisce quanto già dichiarato. Ovvero che in Italia la cannabis è già utilizzabile, al pari degli oppiacei, per motivi farmacologici e terapeutici. E tuttavia, il convegno ha evidenziato che nell’intero 2013 appena 40 pazienti hanno potuto far ricorso a quei medicinali. E la ragione risiede tutta nella tortuosità della procedura di accesso. Questo il percorso: medico curante, farmacia ospedaliera, ministero della Salute, mercato estero, ancora farmacia ospedaliera, e, infine, paziente. Dunque, una procedura farraginosa e irta di ostacoli e blocchi che spesso ritarda di molti mesi l’inizio della terapia. Contribuiscono a ciò, e in misura rilevante, la disinformazione del personale sanitario e le resistenze che tuttora condizionano la classe medica nella scelta di prescrivere quella tipologia di farmaco.
Da qui l’urgenza di adottare alcune misure necessarie a rendere l’erogazione dei farmaci più rapida e meno costosa. Misure che riguardano l’informazione di medici e pazienti sulla possibilità di ricorrere a tale terapia, modalità semplificate di prescrizione e possibilità di produzione sul territorio nazionale.
Il ministero, di conseguenza, dovrebbe fornire a medici e farmacisti una specifica informazione; e predisporre, sul proprio sito internet, un’apposita sezione, magari corredata da un servizio telefonico, per garantire ai pazienti una consulenza e un supporto adeguati. Ancora, occorrerebbe semplificare le modalità di prescrizione, esattamente come già avviene per i medicinali a base di oppiacei, prevedendo la possibilità di somministrazione dei medicinali cannabinoidi per il trattamento del dolore severo, indipendentemente dalla sua natura, e non solo per alcune patologie.
Fatta salva la necessità di condurre opera di informazione, conoscenza e semplificazione, si devono in via prioritaria superare le difficoltà determinate dall’importazione dei farmaci, consentendone la produzione in Italia. Ciò permetterebbe una più agevole disponibilità degli stessi, una reperibilità più immediata e costi notevolmente ridotti.
La soluzione da me proposta, e che ha già avuto la convinta approvazione del ministero della Difesa, prevede la possibilità di incaricare lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze di produrre medicinali cannabinoidi per i pazienti italiani.
Ed è per questo, signora Ministro, che mi rivolgo a lei, con la speranza che, d’intesa con il ministro della Difesa, si accelerino le procedure necessarie a intraprendere la produzione di quei farmaci cannabinoidi all’interno dello Stabilimento chimico farmaceutico di Firenze. È la risposta che si deve alle migliaia di pazienti italiani oggi costretti in una condizione umiliante, tra la mortificazione di sofferenze non lenibili e l’illegalità del ricorso al mercato nero.
Infine, per rispetto verso quel valore del dialogo che è fondamento della democrazia, voglio esporle il punto di maggior dissenso tra noi. Non riesco proprio a comprendere perché nella sua lettera lei abbia dedicato tanto spazio alla questione dell’uso ricreativo della cannabis. Nel corso del convegno non vi abbiamo fatto il minimo cenno. Sono stati trattati, invece, i possibili effetti benefici dell’uso terapeutico di quella pianta. Dunque, da parte sua insistere tanto sulla contrarietà all’uso ricreativo mi è sembrato se posso permettermi improprio. Come se il ministro dell’Agricoltura, invitato all’inaugurazione di Vinitaly a Verona, tenesse una lunga dissertazione sui possibili effetti (anche mortali, come si sa) del consumo di alcol.
Ultima questione, solo apparentemente di dettaglio e di linguaggio: lei continua a parlare di "liberalizzazione" e a dirsi totalmente e incondizionatamente contraria. Ma è certa che stiamo parlando della medesima cosa? Un vero e proprio regime di liberalizzazione, sia pure illegale, è quello che domina oggi in Italia. Ovvero, la possibilità per chiunque, a qualunque ora del giorno e della notte, in qualunque via o piazza di qualunque città di rivolgersi a uno degli innumerevoli esercizi commerciali (illegali) per acquistare una qualsivoglia sostanza. In alternativa a questo io ho sempre parlato di legalizzazione. Ovvero di un sistema di regolamentazione di produzione, commercio e distribuzione della cannabis e dei suoi derivati, attraverso un meccanismo di concessioni e di vincoli, di controllo e fiscalità. Un sistema, cioè, perfettamente uguale a quello che regolamenta sostanze altamente nocive (certamente più nocive della cannabis) come l’alcol e il tabacco. Quando vorrà, signora Ministro, sarò lieto di poterne discutere con lei.

La Stampa 26.6.14
Liceale si ammazza indagati i genitori: “Istigazione al suicidio”
Forlì, la 16enne ha lasciato una lettera e un filmato sul cellulare: “Mi maltrattavano, fate giustizia”
di Franco Giubilei


R. era una studentessa modello: 17 anni ancora da compiere, era stata appena promossa al quarto anno del liceo classico con una media altissima e l’anno prossimo avrebbe voluto partire per la Cina, per un progetto di studio all’estero.
Invece 10 giorni fa ha imboccato la scala antincendio della sua scuola già chiusa per le vacanze, è salita sul tetto e dopo qualche ora si è lasciata cadere di sotto. Nel suo zainetto, i carabinieri hanno trovato una lettera di accuse pesantissime ai genitori, scritte poco prima di suicidarsi, oltre al telefonino con un filmato in cui la ragazza spiegava i motivi del suo gesto. Dopo una perquisizione nella casa della famiglia, in cui sono stati sequestrati il diario della 16enne e altri fogli, oltre al pc, il padre e la madre, entrambi 50enni, sono stati iscritti nel registro degli indagati: per maltrattamenti con l’aggravante della morte della persona offesa e per istigazione al suicidio.
Indagine delicatissima quella del pm di Forlì Marilù Gattelli, perché sondare i motivi che spingono un’adolescente a togliersi la vita, entrando nelle dinamiche dei rapporti fra genitori e figli, è impresa più che ardua. I carabinieri però si sono ritrovati fra le mani dei messaggi che chiamano direttamente in causa padre e madre, indicati come responsabili di una serie di mortificazioni, e che invocano esplicitamente l’intervento delle forze dell’ordine perché «facciano giustizia». La ragazza poi scrive di aver manifestato più volte ai genitori l’idea del suicidio senza che ne tenessero conto, di qui l’accusa di istigazione. La famiglia di R. non ha problemi economici: il papà è libero professionista. Non lavora da qualche anno ma pare avere buone disponibilità finanziarie. La mamma insegnante, poi c’è un altro figlio più grande. La vita della ragazzina, così come esce dalla lettera scritta sul tetto della scuola e dagli altri fogli esaminati dagli inquirenti, sembrava molto difficile: liti continue coi genitori, mai contenti dei suoi pur ottimi risultati a scuola (aveva la media del 9,75, fa sapere un investigatore) e critiche dure, umiliazioni, divieti di uscire con gli amici, una sensazione generale di essere prigioniera in casa, come confermano in procura precisando che il materiale raccolto finora, in questa fase ancora fluida delle indagini, ha una sua univocità.
Anche una pizza fuori con i coetanei diventava un problema, poi rimproveri ingiustificati e ingiurie, sempre secondo i racconti lasciati nei fogli e nei post it, tutti elementi che provocavano frustrazione e che hanno originato l’accusa di maltrattamenti di natura psicologica. Fino alla all’ultima litigata la domenica prima della tragedia, quando la famiglia avrebbe negato alla figlia la possibilità di trascorrere un anno di studio in Cina, a coronamento del suo percorso scolastico così brillante. Un’altra delusione che, stando agli scritti della ragazza, negli ultimi tempi impegnata anche nel volontariato con un’associazione del Forlivese, le avrebbe fatto prendere la decisione di farla finita. La partenza era fissata per agosto, quando R. avrebbe compiuto 17 anni. I genitori non hanno celebrato i funerali, la salma è stata fatta cremare. Ora la città romagnola è sotto choc, per stasera i compagni di classe della ragazza hanno organizzato una fiaccolata: dalla chiesa di S. Filippo Neri al liceo Morgagni.

Corriere 26.6.14
Quell’incubo che paralizza le famiglie
di Fulvio Scaparro


Nessuno, di fronte a casi tragici come quello della ragazza suicida a Forlì, si dovrebbe sentire rassicurato per il fatto che forse, ripeto forse, sarebbero stati individuati i due colpevoli. Sappiamo che una comunità spaventata ha bisogno, se c’è una vittima, di trovare il carnefice su cui riversare la propria aggressività nell’illusione di alleggerire la propria angoscia. Meglio riflettere prima di condannare. I due genitori hanno visto realizzarsi il peggiore degli incubi: una figlia che, sentendosi incompresa, per gridare ai genitori «io esisto», cessa di esistere. Per di più accompagnando il suo gesto con l’accusa nei loro confronti di non aver compreso e condiviso i suoi sogni. Immaginiamo il carico di sensi di colpa che padre e madre devono sostenere in questi giorni, il rimorso per non aver dato la dovuta importanza alle minacce di suicidio della ragazza, il dolore lancinante per la perdita subìta. La giustizia farà il suo corso e se ci saranno stati maltrattamenti, i responsabili ne pagheranno le conseguenze. Ma in attesa degli accertamenti, proviamo a pensare che questi genitori non sono maltrattatori ma simili a tanti altri, simili a noi stessi, talvolta troppo rigidi, talvolta non attenti ai segnali di sofferenza e depressione dei figli, spesso sinceramente convinti di far bene. E stringiamoci attorno a loro perché la tragedia è grande e la comunità è tale perché non passa sotto silenzio la morte di una ragazza ma partecipa unanime al lutto. Non solo la famiglia ma tutti coloro che appartengono agli stessi ambienti frequentati dalla ragazza dovrebbero interrogarsi sul perché non abbia sentito il bisogno o avuto la possibilità di condividere le sue pene con qualcuno, prima di decidere di farla finita. Qualcuno che condividesse anche i suoi sogni di un futuro di studio in un paese lontano e non li scartasse a priori come irrealizzabili fantasie adolescenziali. Molti, troppi, genitori oggi sono quasi paralizzati dall’idea che se si rifiutano di fare ciò che i figli vogliono, i ragazzi potrebbero ricorrere a misure estreme. Non è il «no» che i figli temono ma l’indifferenza, l’avvertire che i genitori non hanno voglia e tempo di conoscerli, di ascoltarli. La piaga dei suicidi adolescenziali non è una novità dei nostri giorni e non potrà mai essere totalmente debellata, anche se sembra crescente il numero dei ragazzi fragili che non possono contare sulla guida di adulti troppo spesso distratti e fragili a loro volta. L’esperienza ci ha insegnato che qualche forma di prevenzione funziona: stare vicini ai figli, ascoltarli e guidarli, anche con fermezza quando occorre, prestare particolare attenzione ai sintomi di depressione che in adolescenza possono tradursi in un’insostenibile sofferenza. L’adulto dovrebbe essere disponibile senza attendersi che l’adolescente faccia altrettanto: disponibilità vuol dire «presenza non intrusiva», vuol dire essere pronti a dare, consigliare, accogliere, raccontare le proprie esperienze, i propri sogni, dare esempio, dire «no», ma anche sostenere, incoraggiare, quando occorre, evitando di sostituirsi al giovane. Un’età della vita spesso descritta, a ragione, come ricca di sogni, speranze e prepotenti energie può trasformarsi, a seguito di una depressione non riconosciuta e curata, nel suo contrario: mancanza di futuro, disperazione, e purtroppo anche desiderio di farla finita con un dolore così grande.

l’Unità 26.6.14
Francia, assolto medico che praticò l’eutanasia


In Francia una nuova sentenza, la seconda in neppure 24 ore, potrebbe orientare l’ordinamento giuridico in senso più favorevole all’eutanasia. La Corte d’Assise di Pau, capoluogo dei Pirenei Atlantici, ha «assolto da tutte le imputazioni» Nicolas Bonnemaison, medico di 53 anni, accusato di aver volontariamente avvelenato sette pazienti fra il marzo 2010 e il luglio 2011. Le vittime erano tutte in età avanzata e malati terminali e Bonnemaison, scoperto e denunciato da alcuni infermieri, era stato licenziato dal suo posto nel pronto soccorso dell’ospedale di Bayonne.
La nuova sentenza fa seguito a quella con cui martedì il Consiglio di Stato francese aveva disposto l’interruzione delle terapie che tenevano artificialmente in vita dal 2008 il 38enne tetraplegico Vincent Lambert, ridotto da un gravissimo incidente stradale in stato semi-vegetativo irreversibile: decisione, quest’ultima, peraltro immediatamente bloccata dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo di Strasburgo, cui si sono rivolti il padre, la madre, un fratello e una sorella di Lambert, cattolici ultra-convinti, ottenendone l’ordine di sospensione in attesa di un approfondimento istruttorio.
A Pau la decisione che ha mandato assolto Bonnemaison è stata accolta con sollievo dall’interessato che, sopraffatto dall’emozione, non è riuscito a profferire parola: si è limitato a sorridere e a stringere forte la mano di uno dei propri difensori, Benoit Ducos-Ader. «Qui non ci sono eroi e non ci sono martiri», ha commentato dal canto proprio l’avvocato. «Questa è una sentenza enorme». Applausi scroscianti dall’aula gremita di folla, che ha sempre seguito con passione e partecipazione il processo, iniziato l’11 giugno scorso. La stessa pubblica accusa nelle argomentazioni finali aveva assunto un atteggiamento benevolo nei confronti del «medico pietoso» per il quale, anziché l’ergastolo, si era limitata a chiedere una condanna quasi simbolica a cinque anni di carcere, per di più con la condizionale. «Lei non è un assassino né un avvelenatore nel senso comune che si attribuisce a termini del genere», aveva riconosciuto il pm Marc Mariee. «Lei ha agito da medico, ma è da medico che ha sbagliato». Lo stesso imputato non si è mai sottratto alle sue responsabilità, riconoscendo di aver somministrato sistematicamente forti dose di potenti anestetici ai pazienti affidati alle sue cure, cinque donne e due uomini.
Soddisfatto anche Jean Leonetti, il deputato conservatore promotore a suo tempo della legge sul fine vita, che ne porta il nome, vigente dal 2005. L’attuale normativa, pur vietando l’eutanasia in senso stretto, è nella sostanza contraria all’accanimento terapeutico. Come ha chiosato lo stesso Leonetti, adesso però ci sono «domande da porsi».

il Fatto 26.6.14
Assolto il “dottor morte”, la Francia riconosce l’eutanasia
Aiutò 7 pazienti in stato terminale a porre fine alle sofferenze
Ora il presidente Hollande prepara la legge
di Luana De Micco


Parigi Assolto. La Corte d’Assise di Pau ha creduto alla buona fede di Nicolas Bonnemaison, il medico francese che ha ammesso di aver aiutato a morire 7 pazienti in fin di vita somministrando loro dosi di sedativi e farmaci tra il 2010 e il 2011. Di averlo fatto senza consultare né le famiglie né i colleghi, solo per abbreviare le loro agonie. Decidendo l’assoluzione i giudici transalpini si sono spinti molto al di là della legge Leonetti sul fine vita, in vigore dal 2005, che vieta l’accanimento terapeutico, e autorizza il “lasciar morire”, ma non legalizza l’eutanasia. Una parola che la Francia non osa utilizzare. Anche se la sentenza di ieri scagiona nei fatti l’atto di un medico che, solo di fronte alle sofferenze dei suoi pazienti, ha iniettato loro la morte. Bonnemaison, 53 anni, ex capo reparto del pronto soccorso di Bayonne (sud-ovest), non ha mai negato: “Ho agito da medico fino all'ultimo. Fa parte dei doveri di un medico accompagnare i pazienti fino alla fine”, ha detto prima di essere assolto. Contro di lui la pubblica accusa avrebbe potuto chiedere l’ergastolo e invece aveva chiesto solo 5 anni di reclusione (con la condizionale) perché aveva riconosciuto in lui “non un assassino, ma un medico che ha sbagliato”.
In meno di 24 ore la Francia fa un grosso passo verso il diritto alla “dolce morte”. Il governo riconosce ora “la necessità di far evolvere il quadro legislativo”. Alcune associazioni chiedono la legalizzazione dell’eutanasia. Altre, contrarie, promettono conflitti sociali.
POCHE ORE PRIMA della storica sentenza di Pau, c’era stata quella del Consiglio di Stato che, annullando precedenti verdetti, aveva autorizzato i medici dell’ospedale di Reims a lasciar morire Vincent Lambert, il tetraplegico di 38 anni inchiodato ad un letto da sei anni in stato vegetativo.
Secondo i giudici della suprema giurisdizione amministrativa, continuare ad alimentare artificialmente il paziente senza speranza vuol dire ostinarsi al di là del ragionevole e del legale.
Ma la sentenza è stata sospesa d’urgenza dalla Corte europea dei diritti umani, alla quale hanno fatto ricorso i genitori di Vincent, che si battono perché il figlio resti in vita. Adesso la vita di Vincent è di nuovo sospesa all’ennesima decisione giudiziaria. “Un’altra prova per lui”, ha reagito la moglie Rachel, che invece vorrebbe lasciarlo andare .
Per il deputato Jean Leonetti, che ha dato il nome alla legge sul fine vita, e al quale il governo ha chiesto di presentare delle misure per riformare il suo testo, non c’è più solo accanimento terapeutico, ma anche giudiziario.

Repubblica 26.6.14
Gli islamisti dell’Isis avanzano da nord e la capitale già viene colpita da una raffica di attentati. Così migliaia di donne sciite prendono le armi per respingere i jihadisti
Tra le guerriere della città assediata “Bagdad ha paura ma la difenderemo”
di Vincenzo Nigro


BAGDAD. La paura di Bagdad è già dentro la città, già dentro il suo popolo. Nella testa di ogni uomo e donna di questa distesa di asfalto e cemento tagliata dalle acque marroni del Tigri. La paura è figlia di una certezza: la guerra non ha bisogno di entrare dentro la città, i miliziani dell’Isis non hanno bisogno di attaccare con una colonna di blindati, con le bandiere nere al vento. La città ormai è già divisa in due, fra sciiti e sunniti. È la gente è spaventata dall’avanzata dei miliziani jihadisti, che stanno seminando il terrore poco più a nord.
La guerra è già dentro la città, colpita da una raffica di attentati. Il più grave nel quartiere sunnita di Mahmudiyah, a sud di Bagdad, dove un kamikaze si è fatto esplodere uccidendo 12 persone. E per la prima volta da quando è sotto il controllo dei Peshmerga curdi, anche Kirkuk, nel nord del Paese, è stata colpita dagli attacchi degli islamisti.
Gli uomini che ci avevano portato a Sadr City, il mega-quartiere popolare sciita, ci presentano una donna: è venuta da Najaf, dove ha creato una Ong che si occupa di donne nel cuore dell’Iraq sciita. Najaf è una città santa, la base di Moqtada Sadr, il religioso che ha appena ricostituito il suo esercito battezzandolo “l’Armata della Pace”. Lei lavora con donne vedove o divorziate per aiutarle a sopravvivere e mandare avanti le loro famiglie. Shukria Kadum ha 45 anni, la sua fondazione si chiama “El Foudala”. E’ venuta a Bagdad spinta dalla macchina di propaganda dei sadristi per dire che lei e molte sue compagne non hanno paura, sono pronte a imbracciare il kalashnikov per difendere «il popolo (sciita) contro i terroristi (sunniti) che ci minacciano». «Sono quasi professionale nell’uso delle armi leggere», afferma la donna col chador nero senza nessun imbarazzo, «perché quando ero giovane e c’era ancora Saddam, il nostro movimento ci preparò a difenderci dal dittatore».
«Siamo pronte a combattere, nella mia Ong ci sono 3000 donne, e già 45 si sono dette volontarie».
Quindi: una donna vedova, che aiuta le sue compagne a sopravvivere in una società conservatrice dura e difficile come quella sciita. Che viaggia senza paura fino a Bagdad per propagandare la sua voglia di combattere in una guerra civile.
Nella hall del Baghdad Hotel due avvocati sciiti commentano invece i due fatti del giorno, il premier Al Maliki che ha detto di non essere assolutamente disposto a varare un governo di unità nazionale. E poi i terroristi di Al Qaeda in Siria (Al Nusra) che chiedono alleanza ai colleghi dell’Isis vittoriosi in Iraq. Col particolare che fino a ieri Al Nusra e Isis in Siria si combattevano e si tagliavano le teste fra loro peggio di quanto provavano a fare con il regime di Assad. L’accordo sembra essere tattico, e mira a saldare il fronte jihadista nella battaglia contro le forze governative irachene e siriane.
Ebbene, i due civili avvocati sciiti quasi esultano per il “tanto peggio tanto meglio”. «Dobbiamo arrivare alla resa dei conti, dob- biamo preparaci allo scontro finale, non ci sarà altra soluzione, con i sunniti non dobbiamo fare nessun governo, e se il mondo vede che sono tutti inquadrati sotto il segno di Al Qaeda forse ci aiuterà! ».
In sé la sparata di Al Maliki è quella di un politicante prevedibilmente aggrappato alla poltrona: vede che il fallimento dei suoi 8 anni di governo viene denunciato da tutti, innanzitutto dagli altri partiti sciiti, poi dagli americani che lo aiutarono a salire al potere, vede la freddezza e la cautela degli stessi iraniani. Ma anche lui ha paura, di esser fatto fuori, prima politicamente e poi chissà cosa. Per questo attacca, denuncia che «il tentativo creare un governo na- zionale è un golpe contro la Costituzione ». Questo mentre i miliziani dell’Isis continuano a colpire il suo esercito.
Altro segnale che la confusione aumenta è il racconto di due dottori, due specialisti che si occupano di oncologia pediatrica. Sono molto vicini all’Italia, il loro progetto nella Medical City di Bagdad è stato rafforzato dalla Ong italiana Intersos che dopo il 2003 ha mandato qui il suo leader per un progetto di collaborazione anche con strumenti di telemedicina sponsorizzati dalla Telecom. Verificano a distanza le diagnosi del cancro ai bambini e si scambiano informazioni e protocolli sul modo migliore per curarli. «Ringraziamo la Sapienza di Roma, ha aiutato anche me quando sono stata colpita da un cancro al seno », dice la dottoressa Salma Abbas. Parla della cooperazione sanitaria anche il dottor Walid Abdul Kasam che con lei partecipa al progetto di Intersos. Ma improvvisamente il discorso si sposta su Bagdad e sui suoi cittadini. Innanzitutto sul fatto che più della metà degli iracheni da anni avrebbe bisogno di massicce cure psichiatriche. «Abbiamo paura, mille paure. Dal 2003 in poi è stato devastante per tutti noi», dicono i due medici, «e adesso c’è questo ritorno annunciato della guerra settaria che devasta le famiglie, gli amici, le nostre coscienze, i nostri cervelli ».
Da qualche anno la dottoressa Salma si è spostata dalla casa in cui aveva sempre vissuto, da un quartiere sunnita a una zona sciita, che è la confessione a cui appartiene. «Ma noi per anni ci siamo incrociati nei matrimoni, abbiamo vissuto insieme, abbiamo famiglie miste… il fatto è che i sunniti non vogliono accettare di dividere il potere, non voglio accettare che noi siamo il 60 per cento di questo paese, vorrebbero continuare a comandare solo loro come è avvenuto per centinaia di anni… non abbiamo paura che la guerra arrivi da fuori, ma che esploda qui, dentro la città, fra tutti noi».

La Stampa 26.6.14
Cina, la tratta delle vietnamite
Rapite e vendute come mogli ai cinesi
Nelle zone rurali la politica di Pechino del figlio unico e il fenomeno delle bambine non nate hanno portato a una crescente richiesta di donne
Il governo vietnamita avvia un programma per difendere le concittadine: “Non girate da sole nelle zone di frontiera, non seguite gli sconosciuti”
di Ilaria Maria Sala

qui

Corriere 26.6.14
Donne in rivolta contro gli abusi Una breccia nella Muraglia cinese
Li Yan uccise il marito violento: condanna a morte annullata
di Guido Santevecchi


PECHINO —Li Yan ha 43 anni ed è rinchiusa in un carcere di provincia in Cina: condannata a morte per aver ucciso il marito che la picchiava sistematicamente, la umiliava, la minacciava. Ci sono migliaia di donne cinesi in prigione per lo stesso motivo: omicidio o ferimento intenzionale del coniuge. I tribunali della Repubblica popolare non prendono in considerazione la lunga storia di abusi subiti dalle imputate. Ma ora la Corte suprema di Pechino ha annullato la sentenza e ordinato la ripetizione del processo: un avvenimento storico.
Li Yan si era sposata nel 2009 nel Sichuan, ma poco dopo il marito Tan Yong aveva cominciato a colpirla, a sottoporla a una violenza domestica brutale, la chiudeva fuori di casa nelle notti d’inverno, le spegneva mozziconi di sigaretta sulle braccia, le aveva anche rovinato una mano con una coltellata. La donna aveva provato a denunciarlo: inutilmente. Un giorno del 2010 la tragedia annunciata: Tan prende un fucile ad aria compressa e minaccia di sparare; Li glielo strappa dalle mani, lo colpisce alla testa; il marito muore e la donna fa a pezzi il cadavere e lo getta in un pentolone di acqua bollente. Poi confessa. Di fronte ai giudici Li Yan spiega che la polizia le aveva risposto che i suoi erano solo problemi familiari: «Ma lui si ubriacava e mi picchiava sempre, perché la sua non era una colpa?». Nel 2011 fu emessa la condanna a morte, nessuna attenuante per legittima difesa. Il caso era diventato un simbolo in Cina: centinaia di avvocati e attivisti dei diritti civili avevano firmato una petizione per salvarla dal plotone d’esecuzione. La Corte suprema del Sichuan però aveva confermato la sentenza nel 2013 e tutti avevano pensato che la sorte di Li fosse segnata: di solito dopo questi pronunciamenti l’esecuzione segue nel giro di una settimana, in silenzio. Invece l’intervento insperato dei giudici supremi di Pechino crea un grande precedente per la Cina.
Le donne cinesi hanno cominciato a mobilitarsi e organizzarsi alla fine del 1800, con rispettate intellettuali che reclamavano il diritto all’istruzione, al voto, al lavoro, alla sessualità. Nel 1900 hanno avuto un ruolo importante nell’ascesa del Partito comunista e nella conquista del potere e con la proclamazione della Repubblica popolare nel 1949 i loro diritti, la loro eguaglianza sono stati formalmente riconosciuti. Ma la realtà è diversa: i salari sono sempre più bassi rispetto a quelli degli uomini e secondo stime del governo il 25 per cento delle donne in Cina ha subito abusi, aggressioni, restrizioni della libertà personale, controllo economico, sesso forzato nel matrimonio. L’ufficio statistiche ammette che il dato è sottostimato, molte non denunciano. Nelle stanze segrete del Partito comunista le donne sono una rarità: solo due tra i 25 membri del Politburo e mai nessuna accettata nel suo Comitato permanente; meno del 5% tra i 200 del Comitato centrale. Le cinesi però sono eccellenti negli studi e stanno conquistando posizioni di vertice nel management aziendale: sono il 51% nei ruoli senior, secondo sondaggi internazionali. Per le lavoratrici normali invece la diseguaglianza di genere è ancora grave e il gap salariale si allarga: le dipendenti nelle città cinesi guadagnavano il 78% dei colleghi maschi nel 1990, ora sono scese al 67%.
Negli ultimi tempi le donne si stanno riorganizzando: gruppi di attiviste si sono mostrate in pubblico con il capo rasato per protestare contro la discriminazione sul lavoro; altre si sono sporcate di vernice rossa come il sangue della violenza. E i giornali hanno scritto molto di Xiao Meili, che questa primavera ha marciato per 2.298 chilometri da Pechino a Canton per sollevare il problema degli abusi sessuali.

La Stampa 26.6.14
Bolivia, lo sciopero dei bambini “Lasciateci lavorare a 10 anni”
Proteste e scontri a La Paz. E il governo abbassa l’età per l’impiego legale
di Filippo Fiorini


Questa settimana il parlamento boliviano approverà una legge sorprendente. Sarà permesso di lavorare a tutti i bambini di 12 anni che manifestino la volontà farlo, che abbiano il consenso dei genitori e l’ok delle istituzioni di protezione all’infanzia. Inoltre, se invece che lavorare come dipendenti in una fabbrica di scarpe o in una piantagione d’arance, si metteranno in proprio, come fanno i piccoli venditori di caramelle che entrano ed escono dai bar di Santa Cruz, o gli strilloni che brulicano gli incroci di Oruro, impugnando i mattutini di giornata, potranno addirittura iniziare a 10 anni. La riforma, che a prima vista sembra mettere un giogo alla spensieratezza, è invece una vittoria del Sindacato dei Bambini Boliviani (Unatsbo), che negli ultimi tre anni si è mobilitato in scioperi, volantinaggi e proteste, scontrandosi anche con la polizia su quella stessa Plaza Murillo di La Paz, da cui qualche mese più tardi i suoi membri sono entrati al Palacio Quemado, sede del governo, per essere ricevuti dal presidente Evo Morales. In effetti, però, qualche problema di compatibilità tra questa legge e i trattati internazionali firmati dalla Bolivia, è sorto. «Abbiamo previsto delle eccezioni - spiega Henry Apaza, 17 anni e la spilletta dell’Unatsbo sul petto - il limite restano i 14, come chiede l’Onu, ma si scende a 12 o a 10 se è un’iniziativa volontaria. La consideriamo una necessità e parte della nostra istruzione. Poi, sono garantiti gli stessi diritti degli adulti, e, su otto ore, due devono essere per forza spese a scuola». Una formula che, dopo le prime reticenze, ha convinto anche il presidente Morales, che ha sua volta ha passato l’infanzia pascolando i lama sulle Ande o accompagnando il padre a far la stagione agricola in Argentina. «Vietare il lavoro ai bambini è come negargli una coscienza sociale», ha detto, rivelando poi che manda i suoi due figli in campagna a farsi le ossa. «È parte delle nostre tradizioni. Lo so che è difficile da capire, ma la maggior parte dei boliviani sono d’accordo», prova a mediare Julia Velasco, giornalista specializzata nei diritti dei bambini, quando le si fa notare che il suo paese è in controtendenza col pianeta. La sua sarà solo la facile opinione progressista, di chi ha una cultura e un buon posto di lavoro? «No – chiarisce lei – veramente io ho iniziato a 8 anni aiutando mia madre a seminare il mais».

Repubblica 26.6.14
Se Europa e Maghreb si tenessero per mano
Vorremmo scrivere una storia insieme che racconti ai nostri figli e nipoti com’era il vostro continente prima di disperdersi in tanti pezzi
di Tahar Ben Jelloun


LE ULTIME elezioni europee ci hanno fatto venire i sudori freddi, i brividi, la febbre. Partiti di estrema destra sono arrivati in testa. Quando uso la prima persona plurale, parlo di me. Ho sempre avuto paura degli estremi, sia nello sport che nella politica. L’estremo è ciò che ci avvicina alla morte, e in ogni caso flirta con il pericolo e con il sangue.
In Maghreb abbiamo osservato questa evoluzione con inquietudine. Allo stesso tempo, sappiamo che gli interessi degli europei passano avanti a quelli del Maghreb, ed è normale, perché nessun Paese del Nord Africa fa parte dell’Europa. Eppure questa Europa si è ingrandita. Ha acquisito peso, soprattutto a Est. Certi sostengono che avrebbe perduto un po’ della sua anima, in quell’Est tormentato da tante guerre e divisioni. Al Sud ha i suoi piedi, dei graziosi piedi ben curati, dei piedi che si bagnano nel Mediterraneo, proprio di fronte alle coste del Marocco. Quattordici chilometri soltanto separano i due continenti. Da Tangeri, la sera, si vedono le luci delle case lampeggiare, come se ci invitassero a fare la traversata. Qualcuno ci crede e sale su imbarcazioni improvvisate, e a volte annega prima ancora di arrivare sulle spiagge di Almería o di Tarifa. I piedi dell’Europa nelle acque dello stretto di Gibilterra sollevano onde. La cosa ci diverte, diciamo così. È una metafora. Ci sarebbe piaciuto molto divertirci insieme, suonare, ridere, ballare, insomma vivere insieme. Non vi spaventate! Non parlo di condividere la stessa casa, lo stesso bagno. No, solo che ci sia un posticino per noi, una poltrona, una sedia, anche solo uno strapuntino. Non ce l’abbiamo. Eppure vi amiamo. Vi osserviamo con il binocolo di giorno e di notte. A forza di farlo siamo diventati dei voyeur, dei maniaci. Quello che proviamo per voi è amore. Non un amore folle, ma qualcosa che gli rassomiglia. Non vi preoccupate, non intendiamo invadervi, no, vorremmo scrivere una storia insieme, una bella storia che racconti ai nostri figli e nipoti com’era l’Europa della solidarietà prima di disperdersi in tanti pezzi. Disegneremo insieme una grande cartina geografica dove ci sarà posto per tutti, anche per quelli che ufficialmente non fanno parte della vostra Unione. È un sogno, un’utopia. Perché no? Ah, dimenticavo: la Turchia ha voltato le spalle all’Europa, il suo orgoglio non ha sopportato che certe voci si alzassero a chiedere che le fosse vietato l’ingresso. Eppure che bella avventura sarebbe stata! Ma c’è l’islam. Fa paura. Lo so. La Turchia è laica, ma come ha detto un dirigente europeo, «non se ne parla di introdurre in Europa 75 milioni di musulmani », sottintendendo che ce ne sono già abbastanza così. Un ex presidente della Repubblica è stato più chiaro: «La sua integrazione la fine dell’Europa ». Non parliamone più, è meglio. La Turchia è un grande Paese, una bella civiltà. Ma se non ne volete sapere, non si metterà in ginocchio per supplicarvi. Penso che avrebbe perfino riconosciuto il genocidio degli armeni.
Guardate in che stato è il mondo arabo in questo momento: solo il Marocco e la Tunisia sembrano passarsela bene. Gli altri sono sclerotizzati e immobili, oppure alle prese con guerre sempre più atroci: penso alla Siria, all’Iraq, allo Yemen, al Sudan e così via.
Ecco che l’Europa e il Maghreb sono presi di mira da un nemico comune. Finalmente qualcosa che ci riunisce! Ci daremo la mano e faremo un pezzo di strada insieme. Ci sarebbe piaciuto che a unirci fossero dei progetti culturali, di civiltà, dei ponti gettati dall’una all’altra riva del Mediterraneo. No, quello che ci preoccupa tutti in questo momento è la minaccia del terrorismo jihadista, una sorta di fascismo con una spruzzata di religiosità, la cui azione si inscrive nella peggiore delle barbarie, contro il sapere e il progresso, contro la fratellanza e la solidarietà, un fascismo di tipo nuovo la cui principale attività consiste nel distruggere, massacrare e seminare la paura deturpando l’islam e la storia degli arabi. Appena trent’anni fa, i mass media non parlavano di islam, e ancor meno di islamofobia, perché nessuno aveva paura di questa religione monoteista come il giudaismo e il cristianesimo. Con la rivoluzione iraniana e l’apparizione mediatica di Khomeini, nel 1979, l’Occidente fu preso dall’inquietudine. La faccenda si aggraverà ancora di più e l’ideologia totalitaria dell’islamismo radicale troverà orecchie molto attente tra i giovani europei figli di immigrati.
Invece dei ministri della cultura, a Bruxelles si riuniscono i ministri dell’Interno del Maghreb e dei Paesi europei, per coniugare i loro sforzi e scambiarsi informazioni, con l’obbiettivo di lottare efficacemente contro questo terrorismo che affascina così tanti giovani europei. Prima, quegli stessi ministri dell’Interno si riunivano per studiare il problema dell’immigrazione clandestina, quella che sbarca sulle coste di Lampedusa e che ogni volta precipita il mondo in una disignificherebbe sperazione ancora più grande.
Sì, ci sono i drammi di Lampedusa, c’è l’indifferenza della maggior parte degli Stati europei e maghrebini. Tra il Marocco e la Spagna, gli sforzi comuni sembrano riuscire a limitare queste traversate della disgrazia. Ma l’Italia è lasciata sola ad affrontare queste maree umane che vengono da lontano, dai Paesi subsahariani. Le guerre costringono milioni di famiglie a partire. Oggi l’Europa che non ha saputo o potuto venire in aiuto del popolo siriano, massacrato tanto da Bashar al-Assad, sostenuto inflessibilmente dal signor Putin, che dai guerriglieri jihadisti, dovrebbe almeno dare asilo a queste famiglie straziate. Lo so, non è facile né semplice. Ma i risultati delle ultime elezioni europee non incoraggiano i governi ad aprirsi maggiormente e accogliere quelle persone cacciate dal loro Paese dal crimine di Stato. L’Europa ha bisogno di recuperare se stessa, di ripensare la propria storia e scommettere sulle sfide del futuro. Come dice il poeta italiano Roberto Veracini: «Se è vero/ che quando tutto intorno è oscuro, gli occhi/ cominciano a vedere, ora io vedo/ benissimo… ». Io auguro alla presidenza italiana dell’Europa, che comincia il prossimo 1° luglio, di vedere benissimo e che da questa luce nasca un po’ di pace in questo Mediterraneo che amiamo e che a volte ci fa venire l’emicrania.
Testo del discorso tenuto ieri a Montecitorio (Traduzione di Fabio Galimberti)

Corriere 26.6.14
Un cosmo di relazioni tra numeri
La natura si rivela (e si nasconde) nella geometria
Lo scienziato è un decifratore? No, costruisce modelli
di Stefano Gattei


Il mondo è matematico? O per dirla in modo più semplice: le cose che ci circondano e di cui abbiamo esperienza hanno qualcosa a che vedere con la matematica? Per Platone «Dio geometrizza sempre», per Galileo il libro della natura «è scritto in lingua matematica», e con loro molti altri scienziati, nella storia, si sono espressi sulla sorprendente capacità della matematica di descrivere e spiegare il mondo. Il fisico ungherese Eugene Wigner scrisse nel 1960 un celebre articolo intitolato Sull’irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali , dichiarando tale capacità «un fatto che ha del misterioso e che non ammette alcuna spiegazione razionale». E prima di lui un altro protagonista della rivoluzione quantistica, Paul Dirac, si era spinto a sostenere che la natura è scritta in lingua matematica elegante: verità e bellezza sono due facce della stessa medaglia.
Che cosa ha a che fare il linguaggio simbolico di una disciplina che viene spesso percepita come astrusa e arbitraria con la descrizione di fenomeni tanto disparati quanto la caduta delle mele, la simmetria di un fiocco di neve, il movimento degli astri, la divisione cellulare, la dinamica delle popolazioni, l’interazione tra specie in un ecosistema?
La questione rimanda al problema di come sia possibile capire il mondo che ci circonda, un problema che affonda le radici nell’antica Grecia. Semplificando molto, potremmo dire che nel pensiero greco si registra l’opposizione di due concezioni, insieme antitetiche e complementari. Da una parte chi (come Eraclito) ha sostenuto che «la natura ama nascondersi», cioè che la natura resiste ai nostri tentativi di comprenderla. Dall’altra chi (come Parmenide) ha affermato l’unità dell’essere e il potere del logos. In questo senso, come ha sostenuto Karl Popper, Parmenide fu il primo filosofo razionalista: il logos, infatti, è sia la parola sia il ragionamento; ricorrere al logos significa argomentare secondo ragione, discutere soppesando le varie possibilità, circoscrivere discorsivamente la verità per stanarla. Nel pensiero greco, tuttavia, a questa concezione, «socratica», se ne collega un’altra, «pitagorica», secondo cui l’universo è numero e armonia. Quest’ultima viene raccolta da Platone, che si dice avesse posto all’ingresso dell’Accademia il motto: «Non entri chi non conosce la geometria».
Le grandi correnti del platonismo e del pitagorismo — in seguito, più propriamente, del neoplatonismo e del neopitagorismo — hanno influenzato in modo determinante la cultura occidentale. Incidono profondamente su Aristotele (che cerca di confutarle), sono alla base delle idee degli Elementi di Euclide e del successivo commento di Proclo, costituiscono la matrice comune dello gnosticismo e del cristianesimo primitivo. Poi sembrano sparire per quasi un millennio, ma in realtà non vengono mai meno, sopravvivendo nel pensiero cabalistico e nella tradizione alchemica, per riemergere con forza nell’ermetismo rinascimentale. L’aspetto quantitativo e sperimentale della scienza moderna è distante da questa concezione, ma la lettura che ne opera la scienza galileiana le consente di conservarsi virtualmente inalterata per quasi tre secoli, fino all’inizio del Novecento, costituendo una dei cardini su cui si fonda la fisica classica, da Newton a Einstein.
Da questa prospettiva, nell’indagine dell’universo fisico alla matematica spetta un ruolo privilegiato, che non si limita a essere descrittivo, ma riflette precise convinzioni ontologiche: il libro della natura è, almeno in linea di principio, completamente decifrabile dal «filosofo-geometra» (come lo chiama Galileo) che padroneggi la lingua nel quale è scritto, nello stesso modo in cui un messaggio in codice viene decrittato una volta che ne sia nota la chiave.
La «leggibilità (matematica) del mondo» — per usare una felice espressione di Hans Blumenberg — è l’assunto fondamentale su cui hanno poggiato per tre secoli tutte le filosofie naturali incentrate sul meccanicismo e sul determinismo, un assunto che il Positivismo ha esteso ben oltre l’ambito della fisica, fino a includere i fenomeni sociali, economici e politici. Aderendo a tale concezione, non ci si limita a sostenere che il mondo è matematico, ma si afferma che lo è in modo unico e completo: non si ammettono descrizioni matematiche egualmente valide ma non coincidenti, né si ammettono (se non per provvisoria ignoranza) descrizioni matematiche parziali.
La domanda da cui abbiamo preso le mosse ci pone allora di fronte a un bivio: se rispondiamo di sì (il mondo è matematico), dobbiamo abbracciare la concezione platonico-pitagorica, riveduta e corretta in chiave galileiana. In caso contrario siamo costretti ad abbandonare ogni speranza di comprendere e spiegare la realtà in modo razionale.
Ma davvero non c’è altra possibilità? È proprio necessario che il cosmo sia opera di un grande orologiaio o di un sommo geometra, e che esista un libro della natura (o anche un’intera biblioteca di libri della natura) per dare conto del potere esplicativo della matematica? Forse no. A ben guardare, infatti, la consequenzialità che la concezione platonico-pitagorica vorrebbe stabilire tra intelligibilità del mondo e univocità delle descrizioni matematiche non sussiste. L’«irragionevole efficacia» della matematica è spiegabile in modo più semplice, sostituendo all’idea del filosofo-geometra, del decifratore, l’idea molto più modesta del matematico apprendista di verità, inventore di soluzioni ingegnose ma provvisorie, umile costruttore di modelli.
Per quanto a molti possa sembrare paradossale, la matematica non studia oggetti (numeri, o figure geometriche), ma relazioni tra oggetti. La matematica si occupa di strutture: scopre rapporti, costruisce ponti tra ambiti prima considerati separati, ne controlla la solidità. Lo fa ricorrendo all’analogia, così come lo scrittore e il poeta fanno appello alla metafora, o l’artista a nuove tecniche o alla contaminazione fra tecniche diverse.
Ma se l’oggetto di studio della matematica sono le relazioni, non abbiamo ragione di credere che vi sia un modo unico di esprimerle, né di ritenere che le strutture che individuiamo colgano in qualche modo l’essenza ultima del mondo che ci circonda. Con maggiore consapevolezza epistemologica (e modestia filosofica) rispetto al passato, possiamo oggi dire che nessuno è il depositario della chiave universale per decifrare la realtà, nemmeno i matematici. Come ha osservato André Weil, la matematica è solo uno dei tanti specchi in cui si riflette la verità, anche se forse con più purezza che non in altri specchi.

Repubblica 26.6.14
Così nella notte di Roma capitale si aggira il fantasma della cultura
Musei vuoti, tagli ai fondi: il fallimento della capitale
di Francesco Merlo


Ambizioni perdute. Chiudono i musei, muore di degrado il patrimonio archeologico
Si smantella Cinecittà che una volta dava lavoro a 250mila persone. E poi i teatri, anche quelli in via di estinzione.
Il sindaco Marino ancora non nomina l’assessore e forse sogna un console

Si sono spenti almeno cinquanta schermi e il Festival del cinema vive nella mediocrità
Si cerca lo sceicco che investa nel restauro del mausoleo di Augusto, servono 18 milioni
Al Macro gli artisti portano via le opere perché temono i furti, è un bel luogo desolato e ci piove pure dentro
L’unico museo effervescente è in periferia nel rifugio degli immigrati: fuori i murales, dentro artisti di livello

ROMA CINQUE miserabili biglietti al giorno! Se volete capire il magnifico fallimento e sentire anche fisicamente la morte della cultura a Roma andate nel quartiere Ostiense al museo Montemartini che in Italia è forse il più bell’esempio di riuso, anzi di “rammendo”, per usare il tic linguistico alla moda. Le statue antiche nella vecchia centrale elettrica e il frontone del tempio d’Apollo in fondo alla sala macchine sono una convivenza magica e definitiva, come vedere la cupola di San Pietro posata, a cappello, sul Pantheon. Ma l’eccitazione è più potente perché non ci sono visitatori. Ci sono invece i fantasmi: l’archeologia industriale delle turbine e delle caldaie, l’archeologia classica delle Veneri senza testa e della barba di Lisippo, e poi io e quattro americani, archeologia del turismo museale.
La Grande Bellezza sfiorisce nel caos burocratico e nell’oblio dei depositi tra reperti invisibili al pubblico
Tesori nascosti / Sono scomparsi un po’ alla volta molti festival e rassegne d’arte rischiano lo stesso decine di biblioteche mentre la lirica è l’eterna idrovora mangiasoldi
Eppure qualche eccellenza spunta, come il Maam del Prenestino. Un miracolo di vitalità
E non basta il “sogno rock” dei Rolling Stones al Circo Massimo, peraltro con coda polemica, per riaccendere le luci della città
PIÙ frequentato è ovviamente il Mosè, in San Pietro in Vincoli, ma senza mai la folla che ti aspetteresti, la fiumana della Cappella Sistina, e chissà che direbbe Michelangelo di questa disparità di trattamento dei suoi capolavori. Magari chiederebbe al Papa di far pagare l’ingresso nella chiesa, come fanno (solo) a Venezia.
La Cultura che muore a Roma non è un taglio del bilancio, che in Italia è solo una banalità, ma un territorio fisico e mentale sterminato che parte dai 19 chilometri delle mura aureliane, che franano un tanto al giorno - l’ultimo crollo è quello di piazzale Ardeatino - e arriva sino all’industria del cinema che dava lavoro a 250mila persone. Si chiude a Cinecittà. Sono cancellate “Le Notti di Cinema” a Piazza Vittorio e la Rassegna dei film dei grandi festival (Cannes, Locarno e Venezia). Il sindaco si ostina a non nominare il direttore della Casa del Cinema. Vive nella mediocrità il Festival inventato da Veltroni (non più 17 milioni, ma ancora 12). È sparita la Film commission che una volta “vendeva” i luoghi di Roma alle troupe. «Ma Roma non è solo la città “del” cinema, è anche la città “dei” cinema» mi dice Massimo Arcangeli, segretario dell’Agis-Anec. «Si sono spenti almeno 50 schermi».
Per salvare Roma dal fallimento, il sindaco Marino ri-corteggia gli emiri, sogna una “soluzione Alitalia”, uno sceicco per restaurare il mausoleo di Augusto per esempio, 18 milioni per una ferita che fu aperta dal fascismo. C’è il progetto, approvato nel 2006, con l’esposizione del plastico dello studio Cellini ma, ogni volta che cambiano, i responsabili delle Sovrintendenze costringono il povero Cellini a nuove varianti: fino ad ora 20. E chissà a Caracalla cosa farebbe il sultano Mansour dei forni sotterranei dove l’amore divenne “fornicare”: sono «chiusi per mancanza di personale».
Nel prezzario dei monumenti (Economic Reputation Index) stilato dalla Camera di Commercio della Brianza, che Marino portò con sé in Arabia Saudita, la Fontana di Trevi vale 78 miliardi e il Colosseo 91. E però non solo gli emiri, ma anche il potente Emmanuele Emanuele, barone e marchese palermitano, avvocato e banchiere, califfo ed alcalde della Roma bizantina, che fa il bagno nel Tevere ogni mattina, dopo avere promesso di finanziare il restauro del centro barocco con i soldi della sua “Fondazione Roma” pretende ora lo sconto “Rolling Stones” (“il sogno rock” di Marino, come si sa, ha reso solo 7.930 euro per l’affitto del Circo Massimo).
È l’ennesima conferma che la cultura a Roma rimane romanesca - Belli, Trilussa e Rugantino - e le statue sono tutte Pasquino, e persino nelle mascherate ci sono i gladiatori e non i legionari.
E infatti l’assessore alla Cultura, che in teoria avrebbe il potere di un console, qui non ha mai contato nulla e perciò Marino non l’ha ancora nominato dopo avere, un mese fa, costretto alle dimissioni Flavia Barca, famosa sorella di Fabrizio, a sua volta famoso figlio di Luciano. La cultura a Roma è fatta anche di cognomi. Nella classicità erano le gentes: la gens Giulia per esempio. Un cognome è Carandini. «La terra ai Carandini» diceva Maccari in rima satirica con “la terra ai contadini”. Lui, Andrea, il grande archeologo, è l’uomo che Marino sogna alla Cultura. Più che un assessore, un Primo Console Alto Imperiale. Ed è da gens anche l’esposizione al Maxxi del pittore Andrea Boldrini, fratello.
Un altro sogno impossibile di Marino è l’unificazione di tutto, a partire dai musei capitolini che sarebbero forse 22, numero variabile come le 99 cannelle della fontana dell’Aquila che nessuno riesce a contare (il compianto Gianni Borgna nel suo libro scriveva in una pagina che i musei sono 45 e in un’altra pagina 39). E si comincia con i due musei del Campidoglio dove sono esposti la Lupa, il Gàlata Morente, il San Giovannino e la Zingara del Caravaggio. Sono i soli che hanno visitatori.
Tutti gli altri sono deserti, a partire da Palazzo Braschi, pittura, e, di fronte, lo stupendo Barracco con una collezione egizia; non lontano c’è quello napoleonico, e ancora il museo delle mura Aureliane e l’Ara Pacis, il Bilotti, il Canonica, la Galleria nazionale di arte moderna, le 4 sedi espositive di Villa Torlonia con la scuola romana. Non c’è mai nessuno, tranne al caffè del Bilotti: at- tira gli assetati di villa Borghese.
È chiuso lo stupendo museo della Civiltà Romana, all’Eur, un’eccellenza mondiale di plastici e ricostruzioni (è aperto solo il Planetario). E ci sono musei mai esistiti, scatoloni di oggetti come il “museo” degli strumenti medicali che giace in un sotterraneo della Sapienza (nessuno sa dove), e il museo del giocattolo che Veltroni acquistò per 4 milioni e mezzo da un collezionista danese e fu stipato in un capannone di Perugia.
A Villa Pamphilj c’è un museo di statue che non è mai stato aperto al pubblico. E il museo di zoologia è attaccato allo zoo ma senza la possibilità di passare dall’uno all’altro, perché si fanno la guerra di frontiera, come Giappone e Cina, zoologi e zoologisti, proprio come l’Opera e l’Accademia di Santa Cecilia, che sono i Romolo e Remo della musica “ab urbe condita”.
Forse la sola unificazione realizzabile è tra il Macro e il Palazzo delle Esposizioni, che comprende le splendide Scuderie del Quirinale, quelle della recente Mostra del Caravaggio, con più di seicentomila visitatori. Se si esclude la chiusura della Casa del jazz, usata per la festa dell’Unità pur essendo un bene pubblico e per giunta un’espropriazione antimafia, il Palazzo delle Esposizioni ha una gestione d’eccellenza, nonostante Marino l’abbia messa a rischio lasciando per troppo tempo il direttore generale Mario De Simoni solo, senza presidenza (ora c’è Franco Bernabé) .
E il sindaco non nomina il direttore del Macro, il museo di arte contemporanea, che già campicchiava con piccole mostre ma adesso ha perduto pure i soldi dell’Enel e dell’Associazione “Macro-Amici” di Beatrice Bulgari : chiusi bar e ristorante, non ci sono guardiani e gli artisti portano via le opere perché temono i furti. Il Macro è un bel luogo desolato e desolante. E ci piove pure dentro (c’è un drammatico video su youtube).
L’ambizioso Maxxi, che è statale (5 milioni di finanziamento), non è riuscito a diventare il Museo Nazionale dell’arte contemporanea e dell’architettura (i modelli erano la Tate, il Centre Pompidou, il Reina Sofia). Ma nella Roma depressa fa, comunque, molto traffico: incontri, lezioni, cicli, attività multimediali, canzoni, cinema, persino lo yoga. La presidente Giovanna Melandri, che sempre contesta e sempre è contestata, insegue l’idea di “un foro romano” che forse però è solo “la Roma garage” di Moravia o “la terrazza” di Scola che si nutre di materia umana mista e di eterno vernissage. Non è la Tate, ma è già qualcosa.
«Il paradosso dell’arte contemporanea a Roma è che l’unico museo effervescente e attivo è il Maam sulla Prenestina» mi aveva suggerito Umberto Croppi, l’assessore che fu cacciato da Alemanno ma che gode di una rarissima stima trasversale. Sono dunque andato nello stabilimento ex Fiorucci (salumi, non vestiti) dove vivono circa duecento famiglie di immigrati: rom, sudamericani, nordafricani, Est europeo e pure italiani. Fuori ci sono i murales, alcuni molti belli, di Kobra e di Borondo. Dentro realizzano ed espongono artisti di ogni genere. «Vale la pena andarli a vedere — mi aveva detto Croppi — il livello è alto, e tra tutti gli esperimenti di integrazione attraverso l’arte, questo non è retorico ed è condiviso dalla comunità che ospita gli artisti».
Ho trovato straordinaria la trasformazione di un ghetto di rifugiati in un fenomeno sociale. Giorgio de Finis, antropologo, è il direttore artistico, e qui è forse tutto velleitario e naïve come lui; ma di sicuro è questa la periferia che piace a Renzo Piano, quella del pensiero laterale che costruisce razzi con i bidoni per raggiungere la luna. Sono, di nuovo, i poveri che volano di “Miracolo a Milano”, il più bel film di De Sica, proprio perché non neorealista. E ho pure visto cantare i bimbi rom: somigliano ai ladruncoli di Termini, ma sembrano più bimbi e più felici.
Ed è, questo Museo di squatter, l’uguale e il contrario dell’occupazione del teatro Valle che è invece un bene pubblico nel centro di Roma e dunque reclama una gestione pubblica. E infatti non c’è paragone rispetto al risultato artistico del Prenestino. Quando fu sciolto l’Ente teatrale italiano non venne fuori solo l’occupazione del Valle, ci fu anche il passaggio del Quirino ai privati. Ebbene, questo Quirino ha goduto dei finanziamenti del solito Emmanuele Emanuele e, non si capisce perché, anche della Regione Calabria.
Il direttore è un dandy napoletano, un attore con un nome strano, Geppy Gleijeses , di cui tutti mi dicono all’orecchio: «È lui il vero Gep Gambardella» un po’ come, una volta, si diceva del giornalista Victor Ciuffa «è lui il Mastroianni della Dolce Vita». Anche questo eterno ritorno romano, che tanto annoiava Flaiano, è un genius loci culturale: lo stravagante, la maggiorata e, appunto, il tardo vitellone che non riesce ad essere “quel flâneur che a Roma non può esistere” scrisse Benjamin.
Inutilmente a Marino hanno spiegato che i teatri non sono unificabili con i Musei e con le istituzioni musicali. Quelli di prosa sono più di cento, la loro vita è grama anche se le sale non sono mai vuote, forse perché questa è stata la città delle cantine, di Carmelo Bene e di Memé Perlini, ed è la città delle macchiette italiane più ancora che delle maschere: Albertone e Meo Patacca su tutti. Mi dice Massimo Monaci, direttore dell’Eliseo e presidente dei gestori: «Il pubblico di Roma vuole il divertimento e sa riconoscere, come nessun altro, il divertimento di qualità. E però negli ultimi due anni è calato del 20 per cento. Non garantiamo più per la prossima stagione».
Sono comunali l’Argentina, che è lo Stabile, e i 4 teatri di cintura, lottizzati politicamente, Quarticciolo, Ostia Lido, l’Elsa Morante sul Laurentino, e Tor Bella Monaca dove Michele Placido ha fatto un gran lavoro, non pagato. Per mancanza di teatro, chiude, dopo 28 anni, il “Roma Europa Festival”, che era l'unica rassegna di spettacolo contemporaneo (anche danza e musica) e alla quale la Regione ha ora negato l’uso del Palladium. E chiude, dopo 12 anni, il festival della fotografia. Collegato allo Stabile c’è l’India, che è il teatro sperimentale sul Lungotevere: da due anni è chiuso per lavori.
Anche allo Stabile, Marino ha perduto dieci mesi prima di nominare Marino Sinibaldi alla presidenza e, alla direzione, Ninni Cutaia che però è risultato incompatibile: si sa che il sindaco pasticcia con gli amati curricula. Alla fine ha nominato Antonio Calbi ma il teatro vivacchia malamente. Eppure i privati, come mi spiega Monaci, accusano il teatro pubblico di concorrenza sleale.
Ce l’hanno soprattutto con l’Auditorium, cioè con la Fondazione Musica per Roma, che fa solo spettacoli leggeri (l’ultimo è “Luglio suona bene” con Keith Jarrett, Stefano Bollani, Pino Daniele e Patty Pravo). La Fondazione, finanziata anche dal Comune con tre milioni e mezzo, da undici anni ottiene utili (quello lordo del 2013 è di 231.347 euro con 612.851 spettatori per 663 “eventi”). È dunque magnificamente amministrata da Carlo Fuortes, che è stato appena nominato sovrintendente dell’Opera, la Fondazione Lirica presieduta per legge dal sindaco, una nobile idrovora che riceve poco meno di 40 milioni pubblici (20 dal Comune), ha 490 dipendenti con 5 sindacati che scioperano persino per la pausa pranzo e fermano pure la bacchetta di Muti. Il deficit annuale è di 11 milioni, il debito patrimoniale di 30.
Marino ha minacciato di chiudere, non frequenta, non domanda. La sua strategia è «sol chi sa che nulla sa, ne sa più di chi ne sa». Adesso Fuortes, che dovrebbe scegliere tra le due cariche, vuol tenerle tutte e due e proprio mentre porta in scena il rigore, i bilanci, l’etica del lavoro.
«La Scala è Milano, la Fenice è Venezia, il San Carlo è Napoli» mi dice Croppi, «Roma invece non si identifica così immediatamente con il Costanzi, che è il nome del teatro dell’Opera», un goffo edificio sovraccarico: «Questa facciata è un’orrenda oscenità» diceva Bruno Zevi. «Quasi un quarto del bilancio comunale, che è di 70 milioni, va all’Opera» sottolineano ridacchiando gli avversari, i tifosi del Santa Cecilia, che si vanta di una maggiore rilevanza internazionale e prende dal Comune solo 4 milioni e 400mila euro. «Certo — ammette Croppi — due o tre volte l’anno all’Opera dirige il grande Muti, che non ha però cariche esecutive, anche se ha messo il nome e incide su alcune scelte». Si potrebbero unificare Opera e Santa Cecilia? «È giuridicamente molto difficile».
E di nuovo la qualità sbuca dove meno te l’aspetti. Ci sono centinaia di piccole associazioni musicali che organizzano scuole e concerti, qualche volta di ottimo livello. È il caso dell’Associazione “Orazio Vecchi” di Alessandro Anniballi, 31 anni di insegnamento di coro e composizione, esibizioni al Campidoglio, elogi dei critici, premi… Lavorava nelle aule della scuola E.Q. Visconti dove Anniballi insegna musica. Ma i tempi sono cambiati e la nuova dirigente ha disdetto il protocollo. Ora i coristi vagano nel quartiere, costretti nella chiesetta di San Bernardino dove padre Michele, un cinese, li ospita: «È come se avessero sradicato un albero che faceva frutti e fiori. Perché?». Un altro caso di qualità fuori luogo è l’Associazione “Rialto occupato”. Sono squatter che, in supplenza del municipio, propongono un progetto, “Urban Ground”, di riqualificazione dell’area che va da Porta Portese alla Piramide e comprende l’ex mattatoio e il quartiere Testaccio. Penso che i centri sociali si siano meritata la diffidenza che li circonda, ma ho girato questo loro stupefacente progetto alla Quodlibet, la raffinata casa editrice di Macerata specializzata in Architettura.
Roma è l’unica città del mondo che ha due sovrintendenze, una nazionale e l’altra comunale. E non è solo una moltiplicazione di burokrati, carte e bolli. C’è anche la p che diventa v. Quella di Stato si chiama infatti soprintendenza, quella comunale sovrintendenza. Ed è un gioco disperato di vanità. È una pacchia per il Cafonal di Dagospia l’archeologia come parodia di Indiana Jones, «a Roma se non conosci l’archeologia non riesci neanche a fermarti a uno stop» dice uno dei protagonisti del geniale film “Smetto quando voglio”. Dalle buche delle strade, che il Comune non ricopre mai, può sempre sbucare fuori, quanto meno, una lapide di Teodosio il grande. Il sovrintendente di Alemanno era Umberto Broccoli, archeologo e presentatore radiofonico, autore dei dottissimi libri “Voce del verbo amare” e “Telesogni dalla A alla Z”.
Marino, dopo otto mesi, ha nominato Claudio Parisi Presicce, già direttore dei Musei capitolini, che non è un semi vip come Broccoli però è un sovrintendente che dovrebbe puntare ad abolirsi, a perdere la v e a prendere la p. Qualche motivo? I mercati di Traiano e i fori imperiali sono del Comune, ma pochi metri più in là i fori romani, il Palatino e il Colosseo sono dello stato. La Domus Aurea è dello Stato ma le parti esterne, le grotte e il giardino sono del Comune.
Il ministro Franceschini, per completarne la restaurazione, ha fatto un appello ai privati, ma i giardini comunali sono depositi di spazzatura, accampamenti di barboni, un “non luogo” municipale che i soldi non basterebbero a recuperare. E ancora: al Teatro Marcello una parte della base è dello Stato, il corpo centrale è del comune, ma appartamenti e uffici sono privati. Sono comunali le 546 fontane, la trentina di torri medievali, i sedici obelischi egizi. È statale il Colosseo, che frutta 50 milioni l’anno, ma nessuno sa spiegarmi perché la metà dei profitti dei biglietti vanno a un gestore privato, la Coop Cultura associata alla Electa di Berlusconi, gestiscono anche Caracalla e il Palazzo Massimo, in proroga dal 1998, senza gara. È invece comunale il colosseo fuori dal Colosseo, quel posto senza legge degli accattoni-gladiatori e delle camionette dei porchettari, dove si mangia, si frega e se fa subito a cazzotti, come ai tempi del Belli, pe’ schiaffasse in saccoccia li quadrini.
Benché a Roma ci sia il maggior numero di case editrici d’Italia, 371, non ce n’è mai stata una veramente potente. Le più grosse sono comunque piccole: Newton Compton, e/o, Armando, Donzelli, Minimum Fax, Fazi, Nottetempo… E ogni dicembre all’ Eur c ‘è la fiera della piccola e media editoria, “Più libri, più liberi”, ed è la fiera del libro che funziona meglio in Italia e forse proprio perché non ci sono i grandi editori: “less is more”. E però Enrico Jacometti, che è il presidente dei Piccoli Editori, mi dice: «Dieci anni fa Roma era al primo posto, insieme a Milano, nell’indice di lettura, che è il rapporto tra numero di abitanti e numero di libri venduti. Oggi siamo al quinto; al decimo negli ebook ».
Chiudono le librerie anche a Milano e a Firenze, «ma il dato romano è clamoroso e drammatico» mi spiega Marcello Ciccaglioni, il geniale proprietario del gruppo Arion: «Negli ultimi cinque anni hanno chiuso almeno 50 librerie importanti».
Per ogni libreria che chiude si spegne una stella. Ma inaspettatamente c’è una lucciola, ed è il sistema delle biblioteche comunali. Ogni anno due milioni e trecentomila persone utilizzano queste biblioteche, che sono 42, e danno in prestito un milione e mezzo di libri. Sono cifre da capogiro rispetto ai 170mila lettori della Biblioteca nazionale, che è statale. Eppure il sindaco Marino da un anno non riesce a nominare il consiglio di amministrazione, il presidente e il direttore delle 42 biblioteche che rischiano di chiudere, come si legge nell’appello che i dipendenti gli hanno indirizzato.
Forza, dunque, signor sindaco: non spenga anche questa lucciola romana, che non è Pasolini ma è Trilussa: «Luna Piena minchionò la lucciola / - Sarà l'effetto dell'economia,/ ma quel lume che porti è deboluccio ...- / Sì, - disse quella - ma la luce è mia!».

La Stampa 26.6.14
Marc Augé: è l’emigrante l’eroe dei nostri giorni
L’antropologo francese: “Internet promette una compagnia del tutto illusoria, più si hanno contatti più si è soli”
di Alberto Mattioli


«Alla fine, il mio percorso personale è simile a quello dell’antropologia. Siamo passati entrambi dall’epoca della decolonizzazione a quella della globalizzazione. Io iniziai nel 1965, in Costa d’Avorio. Con determinazione, ma con un po’ di timidezza, studiavo un villaggio fra mare e laguna a un centinaio di chilometri da Abidjan. Però le società indigene di cui si occupavano gli antropologi allora sono in via di sparizione. La riflessione teorica sulla società globalizzata ha sostituito la ricerca etnologica sul territorio».
Parola del francese Marc Augé, per tutti «quello dei non luoghi», uno dei più celebri antropologi viventi, che esce adesso con un libro affascinante, «L’antropologo e il mondo globale» (Raffaello Cortina editore, pagg. 126, euro 15), insieme biografia intellettuale e riflessione sulla disciplina cui Augé ha dedicato la vita.
Chi dice globalizzazione dice Internet.
«E’ una sfida per chiunque si occupi di scienze sociali. E pone diverse domande interessanti. Per esempio, nell’epoca della comunicazione, le relazioni ovviamente si moltiplicano, ma sono le stesse? Paradossalmente, più si hanno delle relazioni virtuali e più si è soli. Il numero di “amici” su Facebook non ha attinenza con il numero di amici veri, anzi spesso sono di più di quanti possa avere un uomo solo. In altri termini: Internet promette la negazione dello spazio e del tempo, ma è un’illusione, perché le relazioni sociali non possono esistere che nel tempo e nello spazio».
Insomma, in rete più si è in compagnia e più si è soli...
«Certamente. E d’altronde ha introdotto molte nuove forme di solitudine e di isolamento. Lo si vede per esempio nei mestieri: quanti lavoratori isolati esistono, soli davanti a un computer. E’ il concetto stesso di solitudine a essere ambiguo: la solitudine può essere una conquista, ma spesso è soltanto una condanna».
Altro capitolo e altro argomento, sempre molto attuale. A un certo punto, lei definisce i migranti «gli eroi dei tempi moderni». Perché?
«Perché la loro avventura è la prova che si può rompere con il territorio, che vuol dire anche liberarsi dei propri radicamenti culturali. In questo senso, partire è eroico. E’ il coté avventuroso dei tempi moderni, uno dei pochissimi rimasti. Per la stessa ragione, è anche talvolta difficile da accettare per chi i migranti li dovrebbe accogliere».
Appunto. Sembra che adesso la Francia stia rinnegando la sua antica tradizione di Paese dell’accoglienza e dei diritti.
«C’è tutta una serie di problemi. Da un lato, chi arriva è sospettato di voler ricreare nel nuovo Paese delle vecchie solidarietà, dunque di promuovere dei comunitarismi pericolosi. Dall’altro, le politiche d’integrazione sono notoriamente difficili, perché si basano su processi educativi che hanno tempi fatalmente lunghi».
Che un francese su quattro voti per il Front national la spaventa?
«Il problema c’è, ma è più complesso per ridurlo a un semplice rifiuto di chi arriva. Io credo che nasca da una diffusa insoddisfazione. E’ vero che negli ultimi anni di crisi i ricchi sono diventati più ricchi e i poveri più poveri, e le cause percepite sono gli immigrati, l’Europa e così via. Non credo che il successo del Front national durerà. Ma quello che è significativo è ciò che esprime: il rifiuto dell’altro e la mancanza di fiducia nell’avvenire. Fenomeni più gravi dei risultati elettorali di madame Le Pen, peraltro ottenuti in presenza di un tasso d’astensione altissimo».
Lei è celebre come teorico dei «non luoghi». E’ sorpreso dal successo della sua definizione?
«In realtà non l’ho inventata io, esisteva già. Io l’ho semplicemente usata per descrivere quei luoghi della quotidianità contemporanea, come aeroporti, stazioni di servizio, grandi supermarket, dove la gente non ha relazioni sociali. Il successo della definizione è il sintomo che forse ne serviva una».
A proposito di definizioni: quella di antropologo della quotidianità le piace?
«Forse non è sbagliata, ma certamente è riduttiva. Ogni antropologo si interessa alla quotidianità».
A 79 anni, è ancora contento di aver scelto l’antropologia?
«Sì, non ho rimpianti. Penso tuttora che sia un ambito intellettuale che permette di comprendere la realtà. O almeno di provarci».
Perché ha scelto di vivere a Torino?
«Per piacere. Sarà un anno ad agosto, poi penso che andrò a Berlino. Mi piace cambiare città. Torino è stata scelta un po’ per caso, non la conoscevo e me ne sono innamorato. Intanto, la trovo bella. Poi c’è un’arte di vivere che è bellissima, il traffico è ragionevolmente risolto, l’architettura splendida. E, come molte città italiane, si capisce subito che non è provinciale. E’ stata una capitale. E si vede».

il Fatto 26.6.14
Manoel de Oliveira, 106 anni, ancora maestro di ombra e luci
Gebo e l’ombra di Manoel de Oliveira, con Michael Lonsdale, Claudia Cardinale
di  F. Pont.


IL VECCHIO contabile Gebo (Michael Lonsdale) è avvolto dall’ombra: che fine ha fatto il figlio João (Ricardo Trêpa)? E quale segreto l’uomo condivide con la nuora Sophie (Leonor Silveira) per proteggere la moglie Doroteia (Claudia Cardinale)? Gli anni passano per tutti, ma qualcuno non se ne cruccia: Gebo e l’ombra (2012) è l’ultimo film del maestro Manoel de Oliveira, 106 anni a dicembre (e sta girando anche il corto O Vehlo do Restelo). Qui siamo nel dramma da camera, con pianisequenza e camera fissa a scandire il tempo del ritorno del figliol prodigo (?): de Oliveira inquadra il crepuscolo degli uomini, dove verità e menzogna si contagiano nell’ombra, avidità e povertà lottano invano. Tratto dalla pièce di Raul Brãndao, costruito nella pulizia formale di una regia senza fronzoli, non è mero teatro filmato, ma commedia umana che restituisce al cinema la sua essenza, la sua forza d’indagine: l’ombra è la vita stessa, per accendere la luce serve un ultracentenario di talento.