venerdì 27 giugno 2014

l’Unità 27.6.14
Il dramma ignorato dei veri «ragazzini autistici»
Sul left in edicola domani con l’Unità la copertina è dedicata a una disabilità spesso incompresa (anche dalla sinistra)
di Giovanni Maria Bellu
direttore di LEFT


Esiste un’area politico-culturale – convenzionalmente indicata come “la sinistra” – che ha nella difesa dei deboli, dei sofferenti, dei diseredati, la sua mission. E, contemporaneamente, esiste una vasta categoria di persone (600mila, si stima) che vive una condizione permanente di difficoltà e di disagio: i cittadini italiani colpiti da disturbi della sfera autistica e i loro familiari. Verrebbe da pensare che le due realtà – quella della sinistra e quella dell’autismo – si conoscano e collaborino. Invece no. Si parlano così poco che per metterle in relazione c’è voluta la gaffe del senatore del Pd Corradino Mineo che, polemizzando con Matteo Renzi, l'ha paragonato a un bambino autistico. Per poi correggersi, e peggiorare la situazione, precisando che per lui un ragazzino autistico è uno che magari «ti sorprende per la straordinaria capacità di risolvere un’equazione (in questo caso politica) complessa». Battuta rivelatrice di una certa diffusissima idea dell'autismo che è stata plasmata da un film molto bello ma per questo aspetto fuorviante come Rain Man.
L’autismo è un mondo completamente diverso da quello immaginato dalla maggioranza degli italiani, anche di quelli più colti, sensibili, informati e, appunto, di sinistra. È un mondo dove lo Stato è molto poco presente, dove l’assistenza varia così tanto da Regione a Regione che per i malati è come vivere in Stati diversi all’interno dello stesso Paese.
È un mondo dove sostanzialmente ci si deve arrangiare. Anche perché, col compimento della maggiore età, l’assistenza pubblica specifica quasi scompare. Come se gli autistici fossero eterni “ragazzini”, mentre invece – in questo sono perfettamente “normali” – diventano adulti e anche vecchi. E molti di loro, per l’intero arco della loro vita, hanno bisogno di essere sempre affiancati da qualcuno. Al punto che – è quanto scrive per noi lo scrittore e giornalista Gianluca Nicoletti – un padre diventa prigioniero del proprio figlio. Ma da cosa è determinata tanta disinformata indifferenza? Chissà, forse dall’idea che l’occuparsi di questi temi non ha a che fare con la politica ma con l’assistenza sociale, la solidarietà. Che, insomma, si tratta di roba che non riguarda i raffinati strateghi della politique politicienne, ma le associazioni del volontariato cattolico, i boy scout e le dame di carità. E, in effetti, la politica si interessa della disabilità soprattutto quando può in qualche modo farne uno strumento di propaganda.
Denuncia Ileana Argentin con spietata lucidità: «Per molti politici il disabile è chi sta in carrozzina, non chi ha un ritardo mentale. La politica poi si muove sul consenso. I “carrozzati”, i ciechi, vanno in piazza e hanno più forza rispetto alle famiglie dei ragazzini con difficoltà di autismo o problemi cognitivi».
Non deve stupire dunque che, nel loro eterno “arrangiarsi”, i familiari dei “ragazzini autistici” creino tra loro reti di solidarietà trasversali. E che fondino le loro speranze di cambiamento, più che sulle riforme legislative, sulla presenza diretta di loro “rappresentanti” nei luoghi dove si prendono le decisioni.
In questo momento l’elemento che dà maggiori speranze è il fatto che uno degli uomini più vicini a Matteo Renzi, Davide Faraone, abbia una figlia autistica. Dunque conosce bene il problema, lo affronta senza pietismi e ipocrisie. Il collante più forte è la condivisione del disagio, non la politica.
Ognuno mette a disposizione quello che ha. Per esempio, in questo numero di left, si era pensato di chiarire qual è la realtà pubblicando in copertina l’immagine di un vero “ragazzino autistico” in un momento gioioso della sua perenne libertà vigilata. Naturalmente ci voleva l’autorizzazione dei genitori. Così, d’accordo con la mamma, ho pubblicato la foto di Ludovico, mio figlio.

l’Unità 27.6.14
Il Cdr ai lettori

Vogliamo riaffermarlo con orgoglio. Se il valore della testata Unità non si è depauperato nel corso di questi mesi è solo grazie al nostro impegno, alla nostra professionalità, al nostro attaccamento a un giornale che per tutti noi, giornalisti e poligrafici, rappresenta molto di più di un posto di lavoro. Ci sentiamo parte di una comunità, un sentimento condiviso con i nostri lettori che non hanno fatto mai mancare il sostegno alla nostra lotta in difesa del giornale fondato novant'anni fa da Antonio Gramsci. Questo stesso orgoglio, questo forte senso di responsabilità, lo chiediamo, lo esigiamo da coloro da cui dipende se l'Unità sarà ancora in vita. Giovedì prossimo le rappresentanze sindacali incontreranno i liquidatori della società editrice. Non sarà, non potrà essere un incontro di facciata.
Da mesi i giornalisti lavorano senza stipendio e chiedono certezze sull'occupazione.
La situazione non è più tollerabile, risposte evasive o ennesimi rinvii vedranno l'immediata risposta dei lavoratori.
Per questo, e fino all'incontro del 3 luglio, proseguirà lo sciopero delle firme. E se l'incontro sarà deludente, l'astensione dal lavoro diverrà inevitabile. Ne va del nostro presente.
E del futuro del nostro e del vostro giornale.
IL CDR

il Fatto 27.6.14
La Chiesa in analisi: “I fedeli non ci capiscono”
Un’indagine dei vescovi elenca i ritardi della dottrina ecclesiastica su matrimoni, omosessualità, controllo delle nascite
di Mar. Mar.


La dottrina ecclesiastica è lontana dalla famiglia nelle forme in cui oggi è conosciuta”. È la stessa Chiesa ad ammettere questa distanza definita “preoccupante” all’interno dell’ Instrumentum Laboris, documento preparatorio in vista del Sinodo straordinario sulla famiglia voluto da Papa Francesco, in programma in Vaticano dal 5 al 19 ottobre.
Il testo, basato su un questionario diffuso in parrocchie, diocesi e associazioni ecclesiali, mostra apertura e ascolto alle nuove esigenze del mondo laico. Sono gli stessi fedeli, si legge, a “manifestare difficoltà ad accettare integralmente l’insegnamento della Chiesa intorno a matrimonio e famiglia”.
Gli argomenti sensibili, secondo il documento, sono controllo delle nascite, divorzio, omosessualità, convivenza, fedeltà, relazioni prematrimoniali, fecondazione in vitro.
Se da un lato le unioni gay sono lontane dall’essere accettate, l’Instrumentum laboris apre al battesimo per i figli di genitori omosessuali. “Il figlio di due genitori dello stesso sesso – si legge nel testo del documento – va accolto con la stessa cura, tenerezza che ricevono gli altri bambini”. Chiusura netta invece alla teoria del ‘gender’, secondo la quale il genere sessuale di ciascun individuo risulta essere solo “il prodotto di condizionamenti e di bisogni sociali, cessando, così, di avere piena corrispondenza con la sessualità biologica”. Ma il documento sostiene anche che “ gli uomini e le donne con tendenze omosessuali devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione".
A PROPOSITO di matrimonio, il documento sottolinea che la Chiesa non deve essere “giudice che condanna”, riferendosi in particolar modo alla questione della comunione per i coniugi divorziati, formalmente non ammessa, ma ampiamente praticata in maniera non ufficiale. “La sofferenza causata dal non ricevere i sacramenti è presente con chiarezza nei battezzati che sono consapevoli della propria situazione. C’è chi si domanda perché gli altri peccati si perdonano e questo no, oppure perché i religiosi e sacerdoti che hanno ricevuto la dispensa dai loro voti e dagli oneri sacerdotali possono celebrare il matrimonio, ricevere la comunione e i divorziati risposati no. In questo caso molti fedeli hanno la percezione che sia colpa della Chiesa che non ammette tali circostanze”, si legge ancora. Non meno importante la ferma condanna contenuta nel documento alla violenza, sia fisica che psicologica , nei confronti di donne e bambini, considerata la prima causa di “frammentazione e disgregazione” delle famiglie. “Si tratta – si legge nel documento – di un fenomeno purtroppo non occasionale”. Ne è testimonianza “il terribile fenomeno del femminicidio, spesso legato a profondi disturbi relazionali e affettivi, e conseguenza di una falsa cultura del possesso”, conclude. Per questi motivi quello che emerge dalla redazione di questo documento è la necessità da parte della Chiesa di “uno sguardo compassionevole e comprensivo” nella lettura di queste situazioni. “La Chiesa deve accompagnare la famiglia durante tutta la sua esistenza, deve aiutarla a guarire le ferite e a riprendere il cammino all’interno e non all’esterno della Chiesa”.

il Fatto 27.6.14
Forlì, 16enne suicida
Il parroco Enzo Zannoni: "Più conosco i genitori più sono scettico sulle loro responsabilità"
di David Marceddu

qui

il Fatto 27.6.14
Il satiro necro-pedofilo della BBC
Neanche la morte fermava Savile
di Caterina Soffici


Londra. Uomini, donne, bambini, bambine, ragazzi e ragazze. Non buttava via niente, Jimmy Savile. Neanche i morti, si scopre ora. Le vittime avevano dai 5 ai 75 anni, rivelano le indagini sul defunto dj di Top of the Pop, il popolare programma britannico della Bbc, morto nel 2011. Si era parlato finora di uno dei casi più clamorosi di pedofilia mai scoperti al mondo. Ora arrivano altri dettagli agghiaccianti che rivelano anche la passione per i morti. Un predatore sessuale insaziabile, lo definiscono i giornali britannici, che non risparmiava nessuno. E anzi, sfruttava la debolezza delle vittime e la sua posizione di potere e notorietà, per molestarle.
GLI ULTIMI sviluppi dell’indagine raccontano particolari inediti e terribili. Noto per le sue attività di filantropo e benefattore, Savile entrava e usciva dagli ospedali pubblici britannici senza nessun tipo di controllo. Avrebbe compiuto atti osceni e molestie in ben 28 strutture, senza distinzione di genere ed età. Pazienti, visitatori e membri dello staff, per lui era lo stesso. Ma la cosa ancora più scioccante è quanto è accaduto all’obitorio di Leeds, dove Savile era molto amico del capo della camera mortuaria, oggi pure lui defunto. Grazie alla sua protezione, Savile entrava indisturbato nell’obitorio e “interferiva” con i cadaveri dei pazienti. Una ex infermiera ha raccontato agli investigatori che il dj si vantava di aver fatto sesso con i morti e di averli messi in posa per foto in posizioni oscene. Particolari raccapriccianti che rivelano una mente perversa e cattiva, a tal punto spavaldo e sicuro della propria impunità che ha anche rubato gli occhi di vetro dei cadaveri e ne ha fatto dei gioielli. Un altro testimone racconta di avergli chiesto una volta cosa fossero quei grossi bulbi montati sugli anelli d’argento che sfoggiava nel suo colorito abbigliamento e ha risposto: “Sono occhi di vetro dei cadaveri della camera mortuaria di Leeds”. I risultati delle indagini sono stati resi noti in un rapporto presentato ieri al Parlamento di Westminster dal ministro della Sanità, Jeremy Hunt. “Siamo profondamente scioccati”, ha detto un portavoce di Downing Street. E come se tutto questo non bastasse, un patologo del ministero dell’Interno si è addentrato nella dinamica degli atti sessuali con i cadaveri, sul rigor mortis e sulla possibilità di scattare foto da solo. Secondo la sua ricostruzione, tutto sarebbe stato più facile con l’aiuto di qualche complice. Il che fa presupporre che le rivelazioni non si fermeranno qui.

l’Unità 27.6.14
Riforme, avanti tra le tensioni
Cresce la fronda sul Senato
Trentacinque senatori firmano l’emendamento Chiti, diciotto sono della maggioranza
Per la proposta Chiti sul Senato elettivo,tra gli altri Mineo, Casson, Mauro e il socialista Buemi
Italicum, Forza Italia sbarra l’ipotesi preferenze dopo le aperture di Renzi ai grillini


Sono 18 i senatori della maggioranza che hanno firmato un emendamento alla riforma costituzionale che prevede l’elezione diretta del nuovo Senato. Tra questi, 16 sono del Pd, guidati dai “ribelli” Vannino Chiti, Corradino Mineo e Felice Casson, ma c’è anche il popolare Mario Mauro che descrive la riforma Renzi-Boschi come una «deriva autoritaria».
Nel complesso, sono 35 i senatori che hanno firmato l’emendamento che conserva l’elezione popolare sgradita al governo: tra questi anche gli ex M5s, Sel e il socialista Buemi. Lunedì partono le votazioni in commissione, e i numeri non sono particolarmente favorevoli: di fronte ai 20 emendamenti dei relatori Finocchiaro e Calderoli (che recepiscono l’accordo Pd-Forza Italia-Lega) sono stati presentati ben 580 subemendamenti, che rischiano di allungare il percorso. «Si procederà secondo la direzione e i tempi previsti», assicura il vicesegretario democratico Lorenzo Guerini. E dunque il voto finale di palazzo Madama dovrebbe arrivare entro luglio. Ma Forza Italia è divisa (circa due terzi del gruppo è per l’elezione diretta), e se dovessero mancare molti voti azzurri, sommati ai 18 dissidenti della maggioranza, i numeri per la riforma potrebbero vacillare.
La maggioranza ha in Senato 169 voti su 315, e i dissidenti potrebbero rendere determinante il sì dei berlusconiani. Forza Italia ha presentato alcuni sub-emendamenti che però si inseriscono nel solco dell’impianto dei relatori: chiedono una maggior proporzionalità all'interno dei Consigli regionali al momento di eleggere i senatori. Emendamenti che Finocchiaro ha definito «seri». Paolo Romani ha parlato di «accordo vicino» e comunque ha radunato i suoi 59 senatori alla presenza di Giovanni Toti e Denis Verdini, inviati da Berlusconi per blindare l’intesa con Renzi. Mal di pancia ci sono, ha ammesso Romani, ma solo 4 senatori «azzurri» hanno presentato sub-emendamenti in dissenso. «I senatori sono 315, 35 di loro sono per un Senato elettivo. Se aggiungiamo 40 parlamentari del M5S, arriviamo a 75. Numeri insufficienti per fermare le riforme del governo Renzi», spiega il senatore Pd Andrea Marcucci, renziano ortodosso.
I 35 pro elezione diretta hanno spiegato ieri in una conferenza stampa che la battaglia perché il Senato resti elettivo non verrà fatta solo all’interno del Parlamento ma anche nel paese, tra le associazioni e la società civile. «Qui si discute di Costituzione e noi ci siamo trovati d’accordo su aspetti di merito. Siamo tutti favorevoli a fare una buona riforma e a superare il bicameralismo paritario ha spiegato Vannino Chiti ma alcuni aspetti non ci convincono». «Il principio che vogliamo difendere e che ci unisce ha proseguito Loredana De Petris di Sel è che la sovranità è del popolo perciò entrambe le camere devono essere elette direttamente anche se vogliamo ridurre i costi, e infatti proponiamo di ridurre il numero dei deputati oltre a quello dei senatori». «Vogliamo che tutte le forze politiche, le associazioni sappiano qual è la posta in gioco ha aggiunto Chiti perciò dalla prossima settimana faremo una serie di incontri». I 35 senatori “ribelli” propongono anche di ridurre il numero dei deputati (a 315 o a 470) e sono contrari al cumulo delle funzioni di senatore e consigliere regionale come vorrebbe il governo. «Questa non è innovazione, non è coraggio contro conservazione ha detto Chiti è la ripetizione di esperienze già fallite in altri paesi».
Trai 580 subemendamenti presentati, 80 sono del Pd, una ventina di Forza Italia, 16 di Ncd, 14 quelli presentati dal “fronte dei 35”. A creare tensione tra Pd e Forza Italia anche l’incontro di Renzi con i Cinquestelle. E il tema delle preferenze, chieste a gran voce dai grillini. «Per noi si parte e si finisce obbligatoriamente con l’Italicum», ha detto il capogruppo di Fi al Senato paolo Romani. «È la soluzione migliore possibile. Le preferenze non esistono. In realtà non ne parla nemmeno il Pd...».
Sulla proposta di Senato elettivo, la presidente della commissione Affari costituzionali Anna Finocchiaro getta acqua sul fuoco: «Nessun allarme, si tratta di una questione seria, non strumentale. Io penso che ciascun argomento vada approfondito e discusso nel contraddittorio fra opinioni diverse. È la fisiologia del Parlamento».
Il M5s, dal canto suo, ha presentato emendamenti per un Senato elettivo, ma anche per fissare sotto i 4mila euro netti al mese lo stipendio dei senatori.
Sul tavolo resta poi il tema dell’immunità: tra i subemendamenti presentati, per chiederne l’eliminazione per i nuovi senatori, ci sono non solo quelli di M5S ma anche quelli di esponenti di maggioranza, e in pole tra i firmatari ci sono sempre Chiti e Casson. L’obiettivo è togliere ogni ostacolo all’azione della magistratura, fatta salva l’insindacabilità delle opinioni e dei voti espressi dagli eletti nelle loro funzioni.

La Stampa 27.6.14
Chiti: rapporto squilibrato tra Camere e governo
“Pronto a dire sì se sarà come quello tedesco altrimenti voterò no”
Chiti: rapporto squilibrato tra Camere e governo
intervista di Francesca Schianchi


Io non avrei problemi a votare un Senato rigorosamente uguale al Bundesrat tedesco. Alternativa a questo modello è un Senato eletto direttamente dai cittadini in concomitanza con i consigli regionali».
Senatore Chiti, di Senato elettivo ne avete già discusso nel Pd, la linea è quella del no all’elezione…
«Ne abbiamo discusso, e la risposta che ci è stata data è che il Senato deve essere un mix di consiglieri regionali e sindaci perché questo è un pilastro insormontabile del governo. Può essere una risposta?».
Avete firmato in 35 l’emendamento. Altri lo voteranno?
«Non so se il numero si allargherà o si restringerà, so però che parlamentari di Fi e Ncd mi dicono che il Senato elettivo è la soluzione giusta ma che, obtorto collo, devono obbedire ai patti. Sono rimasto molto colpito quando ho letto che i relatori, prima di presentare gli emendamenti, li hanno mandati al governo: questa non è la procedura corretta. Il governo ha un suo ruolo ma non è esclusivo, deve essere di regia. Sulla Costituzione, centrale è il Parlamento e l’ultima parola è dei cittadini».
Ma non rischiate di mettere in pericolo la riforma?
«Se il governo dicesse “l’elettività non è un pilastro invalicabile, decida il Parlamento purché si superi il bicameralismo paritario”, il Senato come lo proponiamo noi sarebbe una riforma innovatrice che si potrebbe approvare in 7 giorni. Lo dico perché ho visto gli emendamenti degli altri partiti».
Quel paletto c’è: non rischiate di passare per quelli che vogliono bloccare tutto?
«Non è così. Rispetto al testo iniziale del governo, ci sono molte cose che sostenevamo noi, come il numero dei senatori, segno che le nostre proposte andavano nella giusta direzione. Mi spiace che 80 franchi tiratori sulla responsabilità civile dei magistrati non turbino, e chi fa una battaglia alla luce del sole sia bollato come sabotatore in cerca di visibilità».
E’ d’accordo sulla definizione “deriva autoritaria” del testo data da Mauro?
«Con Mauro non ci siamo sposati, in comune abbiamo la condivisione di un obiettivo. Io dico che se passa una riforma che dà al Senato competenze con senatori che lo fanno come secondo impegno, non eletti dai cittadini, con la Camera che ha prerogative come la libertà religiosa, certamente c’è uno squilibrio nel rapporto tra cittadini, Camere e governo».
Lei in Aula come voterà?
«O c’è una proposta uguale al Bundesrat, o l’elezione diretta, oppure io su quell’articolo voto contro. Voterò a favore del mio emendamento: se non ci saranno voti sufficienti avrò perso, se saranno sufficienti ognuno prenderà atto del risultato».
E sul voto finale della legge come si comporterà?
«Non posso dire cosa farò perché devo prima vedere cosa avviene, come sarà il testo finale».

Corriere 27.6.14
Riforma del Senato, tensione nel Pd Cresce la fronda

Trentacinque senatori, di cui diciotto della maggioranza (sedici del Pd, più Mario Mauro e Salvatore Buemi) hanno depositato un sub-emendamento che ripropone il Senato elettivo. A rischio non è tanto il voto in Commissione quanto quello in Aula. Il renziano Andrea Marcucci ostenta sicurezza: «I senatori sono 315, trentacinque di loro sono per il Senato elettivo. Se aggiungiamo quaranta parlamentari del Movimento 5 Stelle arriviamo a settantacinque. Numeri insufficienti per fermare le riforme del governo Renzi».

Corriere 27.6.14
La minaccia dei 35 dissidenti sul Senato Il fronte bipartisan dei malpancisti: sì all’elezione diretta. Ora i numeri in Aula vacillano
di Dino Martirano


ROMA - Il governo fa la conta a Palazzo Madama, dove lunedì si inizia a votare in commissione sulla riforma costituzionale del Senato e del Titolo V (federalismo). Ma a un primo sguardo, le insidie e i trabocchetti potrebbero nascondersi quando il testo passerà in aula dato che la maggioranza al Senato non ha i margini bulgari conquistati alla Camera. I numeri potrebbero ballare. E devono per forza tenere conto dei 35 dissidenti trasversali, di cui 18 della maggioranza, oltre ai 4 di Forza Italia guidati dall’ex direttore del Tg1 Augusto Minzolini convinto di trascinarsi dietro almeno 30 colleghi azzurri, alla massa di manovra assicurata da Sel e dagli ex grillini e, infine, ai 40 del M5S che pur essendosi seduti al tavolo con Renzi non si sottrarrebbero agli agguati in Aula.
Il renziano Andrea Marcucci ostenta sicurezza: «I senatori sono 315, 35 di loro sono per il Senato elettivo. Se aggiungiamo 40 parlamentari del M5S arriviamo a 75. Numeri insufficienti per fermare le riforme del governo Renzi». Parla anche il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini, che vede già l’ultimo chilometro all’orizzonte della prima delle quattro letture (più eventuale referendum confermativo) della riforma costituzionale: «Siamo a un passo dalla riforma del Senato... Il percorso procederà secondo la direzione e i tempi previsti».
Secondo i tempi previsti, si sarebbe dovuti andare in aula prima delle Europee, poi entro il 10 giugno e infine il 3 luglio ma anche questa ultima calendarizzazione è subordinata alla formula «ove concluso il lavoro in commissione». E nella I commissione (Affari costituzionali), presieduta da Anna Finocchiaro, si inizia a votare solo lunedì nel pomeriggio. Sono 581 i sub emendamenti al testo dei relatori Finocchiaro e Calderoli che già aveva dato uno scossone all’impianto del ministro Boschi. Ma a far dormire sonni poco tranquilli agli strateghi del Pd non è tanto il numero delle votazioni quanto i contenuti delle stesse.
Infatti si potrebbe consolidare nell’ombra una potenziale maggioranza trasversale capace di colpire clamorosamente in aula (in commissione sono stati sostituiti i dissidenti Corradino Mineo del Pd e Mario Mauro dei Popolari per l’Italia) su alcuni temi sensibili. Sono a rischio, dunque, non solo i voti sui subemendamenti riguardanti l’elezione diretta dei senatori (già ci sono le 35 firme trasversali di cui 16 del Pd, 4 firme e molti proseliti in FI tra cui Caliendo e Lettieri, i 40 senatori grillini, Sel, gli ex grillini e altri che rimangono in disparte) .
C’è poi il tema dell’immunità che attira come una calamita due maggioranze trasversali non proprio governative: quella che punta all’abolizione del I e del II comma dell’articolo 68 della Costituzione (lo scudo per intercettazioni, perquisizioni e arresti) e quella che, con diverse sfumature, mira a trasferire le decisioni sulle prerogative dei parlamentari alla Consulta: in questo secondo caso ai 35 trasversali, al M5S, al blocco Sel e agli ex grillini si aggiungono 14 senatori del Pd (tra i quali Russo, Maturani, Fabbri, Esposito). Insidiosi, per il governo, sono poi anche gli emendamenti di Antonio Azzolini (Ncd) che puntano a far rientrare tra le competenze del governo le leggi di bilancio così come fanno la senatrice Bonfrisco (FI), il gruppo della Lega, Sel, M5S e 18 senatori del Pd tra cui Gotor, Lo Moro e Migliavacca. Insomma, le maggioranze a geometria variabile potrebbero scandire il percorso in aula della riforma del Senato .
Mentre i grillini e i non renziani del Pd lanciano l’esca di dimezzare il numero dei deputati. Francesco Indrizzi (M5S) spiega: «Se il Pd vuole trattare con noi deve ragionare su due punti. Numero dei deputati ed elezione diretta dei senatori». Tra 581 sub emendamenti spiccano poi quelli della senatrice a vita Elena Cattaneo che porta da 5 a 7 o da 5 a 9 i futuri senatori nominati dal capo dello Stato. E c’è anche una proposta, inviata per mail, dell’ex premier Mario Monti, contrario alla formula secondo la quale ogni parlamentare «rappresenta la Nazione» e favorevole invece al «vincolo di mandato» .

Repubblica 27.6.14
Rivolta in Forza Italia in 37 per il Senato elettivo Nel Pd 19 dissidenti
Oltre la metà del gruppo contrario alla riforma Renzi Presto l’assemblea con Berlusconi. Allarme preferenze
di Giovanna Casadio e Carmelo Lopapa


FORZA Italia sulle riforme mette a repentaglio il patto del Nazareno. Il big bang matura nella riunione di gruppo a Palazzo Madama, che sfugge al controllo di Berlusconi. La maggioranza dei senatori, 37 su 59, firma emendamenti per chiedere l’elezione diretta del Senato.
L’ESATTO contrario di quanto prevede il pacchetto Renzi, pur blindato da Verdini e Romani.
Alla base c’è il panico da rielezione di molti parlamentari. Ma ha funzionato da miccia l’incontro in streaming del premier coi Cinque stelle e quell’apertura alle preferenze nella legge elettorale che a parecchi forzisti proprio non va giù: «Se passano, facciamo saltare tutto » è la minaccia che nel centrodestra sta prendendo corpo. Al Senato ma anche alla Camera, dove il capogruppo berlusconiano Brunetta chiama in gran segreto i colleghi nemici del “patto delle riforme” e con loro invoca e ottiene una riunione plenaria per la prossima settimana, alla presenza dell’ex Cavaliere. All’assemblea del gruppo a Palazzo Madama invece ieri mattina Berlusconi non si è presentato. Verdini e Romani lo avevano raggiunto a Grazioli con Giovanni Toti e Maria Rosaria Rossi prima di chiamare a rapporto i senatori, rassicurandolo sulla tenuta. E invece salta tutto. Verdini e Romani puntano a chiudere in poche battute la riunione: «Dunque, la riforma va approvata così com’è, al più con qualche modifica, ma il patto deve reggere su tutto, altrimenti rischiamo di veder saltare anche l’Italicum », mette in guardia coi consueti metodi spicci il senatore toscano, gran tessitore dell’intesa. Toti e la Rossi nemmeno parlano. Ma a quel punto si scatenano i senatori. Parte Augusto Minzolini, e a seguire Razzi, Caliendo, Zuffada e altri ancora. Tutti a favore del Senato elettivo e dunque intenzionati (con una quarantina di emendamenti) a stravolgere il testo del governo. L’ex direttore del Tg1 è il più agguerrito, primo firmatario delle proposte di modifica. «Io non voto questa riforma. Non cadiamo nel tranello di Renzi - alza i toni - Lui minaccia il voto ma non può fare nulla, non andrebbe mai alle elezioni col “Consultellum”. I senatori devono essere eletti dal popolo». Dopo, è un coro. Altri come Cinzia Bonfrisco stanno per intervenire per rincarare. Al punto che Verdini e Romani sono costretti a sospendere i lavori e rinviare tutto a martedì prossimo. A Silvio Berlusconi toccherà presentarsi di persona per far rientrare i “ribelli”, se ne avrà ancora il potere e la forza.
È un leader dimezzato, fiaccato e in attesa di una nuova pesante sentenza. Già, proprio la sentenza Ruby in appello, che segue la condanna in primo grado a sette anni per prostituzione minorile. A partire dal 18 luglio è atteso il pronunciamento del secondo grado di giudizio. Ed è qui che l’ennesima vicenda giudiziaria di Berlusconi si intreccia con l’agenda delle riforme. Il Pd punta ad accelerare e non poco. Da lunedì iniziano le votazioni in commissione sul testo Boschi. Il capogruppo Zanda e i dem vorrebbero chiudere nel giro di una settimana per approdare in aula il prima possibile per strappare il primo “ok” alla riforma proprio entro la data fatidica del 18. «Fino a quel giorno, il capo forzista manterrà i toni bassi, dopo, tutto potrebbe succedere» è il tam tam nel Pd.
Sul Senato elettivo del resto cresce la fronda anche tra i democratici. Ieri scadeva il termine per presentare i sub-emendamenti e 19 senatori pd, guidati da Chiti, Casson, Tocci hanno firmato proposte in favore dell’elezione diretta e del mantenimento a certe condizioni dell’immunità. Con loro, anche il popolare Mario Mauro, i sette di Sel capeggiati da Loredana De Petris e i 14 fuoriusciti dal M5s. L’ex ministro Mauro parla di «deriva autoritaria» nella strategia delle riforme. Come se non bastasse, è stato depositato un emendamento pd con una cinquantina di firme per ridurre il numero dei deputati.
Fibrillazioni che tuttavia al Nazareno vengono minimizzate. Che il premier sia intenzionato ad andare dritto per la sua strada lo si capisce dalla sortita del vicesegretario dem Lorenzo Guerini: «Il percorso procederà secondo la direzione e i tempi previsti». Convinti che anche le mine interne a Forza Italia saranno disinnescate da qui a qualche giorno. In ogni caso, un conto sarà la partita con numeri più risicati - anche se ormai blindati dal Pd - che si giocherà da lunedì in commissione Affari costituzionali, altra cosa in aula. Se pure il Carroccio e il M5s dovessero schierarsi con il “partito del Senato elettivo”, l’asticella si fermerebbe più o meno intorno ai 134 senatori. Mentre la maggioranza pro-riforme è compresa in una forbice variabile tra i 163 e i 186. Il premier resta convinto di poter andare anche oltre. Non si raggiungeranno comunque i due terzi necessari per evitare il referendum confermativo, ma questo ormai Renzi lo ha messo nel conto.

il Fatto 27.6.14

I ribelli del Pd vogliono incontrare B.
 che si dichiara pronto a trattare anche con il pregiudicato di Arcore. Che, da parte sua, gioca su più tavoli per aggiudicarsi il ruolo di “padre costituente”. Un possibile viatico per la grazia sul caso Ruby
di De Carolis e d’Esposito  

il Fatto 27.6.14
La rivolta del Senato. La fronda di Palazzo Madama
Un manipolo di Forza Italia (capitanato da Minzolini), esponenti di Sel e fuoriusciti M5S convergono sulle posizioni di Vannino Chiti
I dissidenti pronti a incontrare anche Berlusconi
di Luca De Carolis


La rivolta degli scomunicati del Senato. Uniti contro il rottamatore che non vuole consigli. Aiutati dalla bufera dentro Forza Italia, così forte da scuotere perfino il patto del Nazareno. A Palazzo Madama, dissidenti del Pd, Sel, ex M5S e Popolari per l’Italia siglano l’intesa contro le riforme renziane e aprono a incontri “con i leader”. Compreso quel Berlusconi che può diventare un perno fondamentale. La loro controriforma la mettono nero su bianco in 14 sub-emendamenti al ddl del governo (nel dettaglio, agli emendamenti dei relatori Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli). Proposte che vogliono un Senato eletto su base regionale e con competenze più ampie, il taglio dei parlamentari in entrambe le Camere, il ripristino della circoscrizione Estero, l’abolizione delle immunità (o in alternativa l’affidamento della decisione sull’arresto alla Consulta). L’opposto della riforma del premier, che disegna un organo di non eletti e con poteri limitati. I sub-emendamenti vengono illustrati in una conferenza stampa che è una chiamata alle armi “contro la deriva autoritaria”. Grandi cerimonieri, i democratici Vannino Chiti e Felice Casson, rappresentanti del gruppo Pd scomunicato da Renzi, con tanto di cacciata del civatiano Corradino Mineo dalla commissione Affari costituzionali . Assieme a loro Loredana De Petris (Sel), Francesco Campanella (Italia Lavori in corso, gli ex 5 Stelle) e Mario Mauro (Pi).
PARTONO con 35 firme agli emendamenti, 18 da senatori della maggioranza. Pare poca roba, a fronte di un totale di 320 senatori (315 eletti più i senatori a vita). Ma il tempo e soprattutto i guai altrui giocano a favore dei ribelli. A partita in corso, potrebbero prendersi i 40 voti di Cinque Stelle. La variante su cui puntano forte però è Forza Italia, nave dalla rotta sempre più ubriaca. Dentro il partito del Condannato ci sono almeno 30 senatori per il Senato elettivo. C’è chi è uscito allo scoperto con sub-emendamenti appositi, come Giacomo Caliendo e Augusto Minzolini. Ed è proprio l’ex direttorissimo a farsi portavoce degli scontenti, nella riunione mattutina con Denis Verdini e Giovanni Toti. Berlusconi li aveva mandati a Palazzo Madama per sostenere la linea: avanti con il patto del Nazareno. Ma in riunione si balla. Poi arriva l’annuncio del capogruppo alla Camera, Renato Brunetta: “Con il presidente dei senatori Paolo Romani convocheremo per la prossima settimana una riunione dei gruppi congiunti di Camera, Senato e Parlamento europeo, alla presenza di Silvio Berlusconi, per delineare in maniera chiara e unitaria la posizione di Forza Italia sulle riforme”. Incontro fissato per giovedì 3 luglio. Proprio il giorno in cui il ddl dovrebbe sbarcare in aula. Chiti e gli oppositori sono consapevoli della maretta tra i forzisti, alimentata anche dallo streaming Renzi-M5S. In conferenza stampa la buttano lì: “Disponibili a discutere con associazioni e leader politici”.
Berlusconi è nella lista. Lo conferma indirettamente Chiti, che nel corridoio del Senato aggancia Romani. “Perché nella riforma non avete tagliato il numero dei deputati?” gli chiede in sostanza. Confermando la voglia di dialogare con i forzisti. Lo stesso senatore in giornata manda una email a tutti i colleghi, invitandoli a riflettere e a confrontarsi.
UN AUTOREVOLE PARLAMENTARE di Fi va oltre. E racconta: “Chiti ha chiesto un incontro a Berlusconi, per discutere faccia a faccia sulle riforme”. Dallo staff del senatore smentiscono: “Nessuna richiesta al leader di Fi, siamo pronti a dialogare con tutti come detto in conferenza stampa”. A margine, Casson ricorda: “I numeri per approvare il ddl del governo non sono affatto certi”. Sono invece sicuri quelli dei sub-emendamenti presentati ieri in commissione, 581. Nella calca, anche quelli dell’M5S: per il senato elettivo, e per il taglio delle indennità (massimo tre volte un salario medio). Per ora però i 5Stelle guardano il gioco, anche perché hanno aperta la partita sulla legge elettorale con il premier. Ieri però hanno fatto muro contro la fretta della maggioranza. “Il ddl deve arrivare in aula per il 3 luglio ” hanno ripetuto i senatori renziani in commissione. Ovvero, i sub-emendamenti vanno discussi e votati tutti la prossima settimana. Opposizioni e ribelli ovviamente non ci stanno. E anche qui il gioco di sponda è con Forza Italia. Perché i berlusconiani, tutti, vogliono comunque aspettare per il sì definitivo alla riforma il 18 luglio. La data della sentenza di appello sul caso Ruby. In caso di esito nefasto per Berlusconi, l’accordo con Renzi potrebbe evaporare in un attimo. Il rottamatore lo sa benissimo. E infatti vuole correre, chiudendo prima della sentenza. Perché i ribelli sono un problema. Ma il calendario di più.

il Fatto 27.6.14
Il condannato
Riforme? Dipende da Ruby
di Fabrizio d’Esposito


Denis Verdini glielo ripete come un mantra in questi giorni cupi: “Silvio stai tranquillo che Matteo manterrà i patti”. Verdini è toscano, è senatore, è plurinquisito, è amicissimo del premier ed è la faccia impresentabile del patto del Nazareno. Per un po’ di tempo è stato emarginato, anzi epurato dal cerchio magico, ma da quando si è staccato da Raffaele Fitto, l’anti-Toti con l’eterna faccia da bimbo che vuole le primarie, è ritornato con più frequenza alla corte del Condannato.
Il mantra di Verdini è una sorta di palliativo per l’umore nerissimo di Silvio Berlusconi. La svolta c’è stata la scorsa settimana dopo lo scontro in aula al processo napoletano a “Valterino” Lavitola, il faccendiere dei due mondi. Il botta e risposta con il presidente del tribunale, culminato con quella frase che potrebbe costargli cara, “la magistratura è incontrollata, incontrollabile, irresponsabile e ha l’immunità piena” ha generato un’ossessione che sul lungo periodo potrebbe seriamente logorare il patto sottoscritto con Renzi sulle riforme: “Com’è possibile che un giorno faccio il condannato a Cesano Boscone e l’altro invece sono un padre della patria?”. Atroce dubbio che adesso si riverbera su un’altra scadenza fatidica: la sentenza d’Appello del processo Ruby, prevista per il 18 luglio e che potrebbe confermare la condanna a 7 anni di B. per concussione e prostituzione minorile. L’ex Cavaliere non parla d’altro e fa riunioni su riunioni con il suo pool di avvocati: Franco Coppi e Filippo Dinacci e anche Niccolò Ghedini e Pietro Longo, che però non possono stare in aula per l’Appello essendo indagati nel cosiddetto Ruby ter per corruzione di testimoni.
L’OBIETTIVO di Coppi, che nel suo prestigioso curriculum vanta esperienze e pubblicazioni nel campo dei reati sessuali, è arrivare all’assoluzione del suo assistito almeno per l’infamante reato di prostituzione minorile. Ma Berlusconi, pur partecipando alla riunioni con flebilissimo ottimismo, alla fine è convinto che sarà condannato per la solita “persecuzione politica”. Ed è qui che s’innesta il balletto sulle riforme, dall’Italicum al Senato. Il Condannato vuol trasformare l’accordo del Nazareno (sempre che non l’abbia già fatto in quei famosi sette minuti segreti in cui rimase da solo con “Matteo”) in una polizza anti-Ruby, legando ancora una volta il suo destino giudiziario alla vicende politiche. Per farlo è pronto a cavalcare i mal di pancia trasversali (compresi quelli di Forza Italia) sul Senato non elettivo. Si ripeterebbe in pratica lo stesso schema che sia con la condanna per Mediaset sia con la successiva decadenza ha portato Forza Italia a lasciare l’allora governo Letta.
Questo nuovo processo di logoramento è di fatto iniziato e avrà un primo significativo test il 18 luglio (per la cronaca va aggiunto che prima ci sarà la sentenza Mediatrade su Pier Silvio B.) e a quel punto l’onere della prova su Berlusconi delinquente o padre della patria inizierà a essere scaricato sul premier e sul Quirinale. Questo il percorso profetizzato nella corte berlusconiana: “Noi certamente il primo voto alle riforme da qui a una settimana lo daremo, poi dopo è tutto da vedere, il primo voto, da solo, non significa nulla”.
È il segnale che la partita delle riforme incrocerà l’ennesimo guaio giudiziario del Condannato. Senza dimenticare che un verdetto di colpevolezza in Appello potrebbe essere confermato dalla Cassazione entro la fine dell’anno. E l’ossimoro del delinquente padre della patria potrebbe rimettere in pista il tormentone della grazia, stavolta per concussione e prostituzione minorile. In questo scenario, poi, non è detto che al Quirinale ci sarà ancora Napolitano. L’eventuale tormentone sulla nuova grazia potrebbe essere gestito da lui ma anche da un altro capo dello Stato. Chissà.

La Stampa 27.6.14
Possibile un compromesso per salvare le riforme
di Marcello Sorgi


Chi ne conta 16 e chi 18, tra Pd e centristi: ma chi può dire veramente quanti saranno i senatori che a partire dal 3 luglio, approfittando delle votazioni sugli emendamenti, cercheranno di affossare la riforma voluta da Renzi? Ad alzare la bandiera del salvataggio dei senatori elettivi - un punto che da solo vanificherebbe l’impianto voluto dal premier, mirato a una Camera delle autonomie composta da consiglieri regionali e sindaci, eletti in secondo grado e non scelti direttamente dai cittadini -, ci sono in prima fila i 14 del Pd che si erano autosospesi dopo la decisione di Renzi di sostituire in commissione Vannino Chiti e Corradino Mineo, il primo firmatario di un testo alternativo di riforma, che prevede una riduzione simmetrica di Camera e Senato e non la sostanziale abolizione del secondo, e il secondo che con il suo voto avrebbe bloccato la prima approvazione del disegno di legge. A loro si affiancano un gruppetto di centristi guidati dall’ex-ministro Mario Mauro, i parlamentari del M5s, favorevoli al Senato elettivo malgrado l’apertura di una fase di confronto con il governo con l’incontro di mercoledì con la delegazione Democrat, e una discreta schiera di senatori di Forza Italia, renitenti a sostenere il patto del Nazareno, malgrado il loro capogruppo Romani abbia confermato che Forza Italia è su quella linea. I voti berlusconiani e quelli della Lega, in sostanza, diventano decisivi per far passare la riforma, o se si preferisce per bocciare gli emendamenti che puntano a farla saltare. Ma trattandosi di votazioni a scrutinio segreto, nessuno può dire come andrà a finire.
Circolano due ipotesi su cosa potrebbe accadere di qui a giovedì, quando il Senato comincerà a votare. La prima: con un supplemento di mediazione, passa l’idea di far eleggere i senatori ai cittadini, sia pure in occasione delle elezioni regionali, prendendoli da un listino di candidati che formalmente sarebbero proposti come consiglieri regionali, ma di fatto riceverebbero il mandato di insediarsi a Palazzo Madama, che a questo punto verrebbe ridimensionato, ridotto nel numero degli eletti, ma non cancellato. Seconda ipotesi: Renzi tiene duro e sfida i dissidenti, tentando di costruire a sua volta un fronte trasversale a suo favore tra i senatori, e ovviamente minacciando, in caso di affossamento della riforma, di tornare ad elezioni prima possibile.
Difficile dire quale prevarrà. Anche se all’inizio del semestre europeo, e con un premier che ha appena annunciato alla Camera che si assegna un tempo di tre anni per fare tutte le riforme necessarie, non solo quelle istituzionali, l’ipotesi di un salvataggio della riforma al prezzo di un ennesimo compromesso rimane la più probabile.

La Stampa 27.6.14
Ma i renziani sono convinti che la fronda si sgonfierà
Il vicesegretario Guerini: chi vota contro si assume le sue responsabilità
E se per ora non si parla di espulsioni, se la fronda dovesse montare nel voto finale in aula, il tema verrebbe risollevato, eccome
di Carlo Bertini


«È una questione che ci trascineremo fino in aula», sospira Anna Finocchiaro accendendo una sigaretta nel cortile della Camera in una pausa delle votazioni per i giudici della Consulta. «Ma per noi il patto del Nazareno resta valido. Se Forza Italia è tentata di far saltare il tavolo ci pensi bene, vogliono che facciamo le riforme con i 5Stelle? Non è detto che non siano disponibili...», avverte a scanso di equivoci Lorenzo Guerini.
Dalle parole del vicesegretario del Pd si capisce che Renzi non è affatto preoccupato e non teme un dietrofront dell’ex Cavaliere, «tiriamo dritto e siamo a un passo dal traguardo». Tutto lo stato maggiore del partito insomma fa spallucce, la convinzione è che al momento clou, tra due settimane in aula, la fronda si sgonfierà. Neanche il rischio che in aula possano mancare i due terzi di voti necessari a evitare un referendum confermativo smuove gli animi. Perché anche se si tramuterebbe di fatto in un referendum su Renzi, «il nostro disegno di riforme è in linea col pensiero dei cittadini...», fa notare Guerini. Tradotto, se gli italiani fossero chiamati a pronunciarsi su un Senato elettivo sarebbe facile prevedere percentuali bulgare a favore del premier.
Certo l’allarme che gli azzurri stiano facendo il doppio gioco risuona ai piani alti dopo l’avviso del capogruppo Paolo Romani, «se in aula vi fosse una maggioranza per il Senato elettivo ne prenderemmo atto». Da dentro Forza Italia qualcuno insinua addirittura che Chiti avrebbe chiesto un incontro con Berlusconi. Di certo ieri mattina ha avuto un breve colloquio con Romani sotto gli occhi dei cronisti, ma a quanto pare per parlare di una riduzione anche del numero di deputati.
Fatto sta che ai dissidenti arriva dal numero dal Pd un appello che suona come un avvertimento: «Al momento del voto in aula ciascuno si assume le sue responsabilità, sapendo che se vota in modo difforme dal gruppo viene meno ad una comune appartenenza».
E se Guerini non vuole minacciare sanzioni, c’è chi invece lo fa senza mezzi termini. Perfino Giorgio Tonini, veltroniano noto per la sua moderazione, attribuisce al comportamento dei dissidenti una gravità tale da configurare «un profilo disciplinare. Il regolamento del Pd dispone infatti la possibilità di dissenso individuale e non di gruppo, solo per questioni etiche e principi costituzionali. E le modalità di elezione dei senatori non rientrano in queste fattispecie».
E se per ora non si parla di espulsioni, se la fronda dovesse montare nel voto finale in aula, il tema verrebbe risollevato, eccome. «Se votano contro, vuol dire che sono loro per primi a volersene andare via dal Pd», ragionano nelle stanze del gruppo al Senato. Dove la pratica più in voga però è gettare acqua sul fuoco: perché già «l’accordo con gli autosospesi del Pd prevedeva che gli fosse riconosciuta la possibilità di presentare emendamenti in dissenso, quindi nessuna sorpresa, tutto come da copione...».
E anche se Forza Italia volesse giocare allo sfascio, a chi converrebbe andare ora a votare, a Renzi o a Berlusconi? Insomma, nessuno crede in uno show down, però nel Pd la tensione si taglia a fette. E non da ieri. Nel clima di veleni, i riflettori sono puntati da settimane sui bersaniani, che pure se a parole sono critici con i dissidenti, in realtà sono sospettati di un sostegno occulto ai compagni...


il Fatto 27.6.14
Immunità senatori ecco la prova che il governo sapeva
Il relatore leghista Roberto Calderoli, carte alla mano, dimostra che il ministro per le riforme conosceva perfettamente il provvedimento licenziato
di Carlo Tecce


Stringe la sigaretta accesa con la mano destra, con la sinistra ne tira una seconda dal pacchetto: “Calma, non manca il tempo”, dice Roberto Calderoli. Tra un’ora e mezza la Commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama verrà inondata da emendamenti di qualsiasi estrazione e tipologia: 581, scalpitano i Cinque Stelle e i democratici di maggioranza e di Chiti&Mineo.
IL RELATORE Calderoli, che fa coppia e sponda con Anna Finocchiaro, deve sbrogliare esigenze politiche e pressioni governative e deve, soprattutto, osservare il destino di un’immunità - Costituzione, articolo 68 - applicata ai futuri senatori non eletti, delegazione di consiglieri regionali, sindaci e nominati: niente arresti, niente intercettazioni, niente perquisizioni. Come i colleghi di Montecitorio, i deputati. Il paravento per i prossimi senatori resiste, ma ancora non s’è capito chi l’ha messo, chi l’ha voluto e chi, sornione, non lo vuole rimuovere: “Per me, chi deve finire in galera non deve aspettare”.
Il leghista Calderoli, politico tattico e autore di “porcate” per sua stessa ammissione (la legge elettorale), non vuole passare per il vigile distratto o per il protettore di una nuova casta: “Io posso giurare, e adesso le prendo le prove, che giovedì 19 giugno – l’orologio segnava le 19:30 – dal ministero di Maria Elena Boschi, per la seconda e definitiva volta, ci arriva un documento con l’approvazione di quel contestato, e giustamente, articolo 68”. Ma non l’avete chiesto voi, Calderoli&Finocchiaro? “Noi ci siamo posti il problema. All’inizio, non ce n’era bisogno perché Palazzo Madama diventava un guscio vuoto, adesso abbiamo ripristinato dei poteri legislativi, di controllo e di garanzia e abbiamo riformulato la domanda”. Quale e come? “Caro governo, cara ministro, l’immunità va estesa ai senatori? Noi pensavamo di coinvolgere la Consulta, un arbitro imparziale e competente”. E invece? “Non ci hanno seguito, non ci hanno risposto, anzi posso dire che lo stesso Pd ha compulsato la commissione per introdurre e confermare l’immunità”.
Il primo commento di Maria Elena Boschi bandiva le libere interpretazioni: “La proposta del governo non prevedeva l’immunità per i senatori, non per una facile risposta al giustizialismo, ma per una valutazione di merito: non ci sembrava giusto dare una tutela ad alcuni consiglieri regionali nominati senatori e non agli altri”. Calderoli, come risponde? Il leghista scatta in piedi e va verso la scrivania ricoperta di faldoni e adornata da vignette che lo ritraggono ora a Pontida con la spada e ora con Berlusconi al guinzaglio: “Guardi qui, questo è il testo – che trovate in pagina, ndr – che ci è stato spedito dal ministero della Boschi. In rosso ci sono le ultime nostre modifiche. E come vede, le correzioni, che il dicastero fa in verde, non ci sono. Ecco, prendiamo un altro articolo a caso, il 55, e troviamo le puntualizzazioni in verde”. Cosa vuol dire? “La Boschi sapeva, poteva correggere subito, se riteneva. Di più: ha avuto due occasioni per farlo. E forse doveva anche coordinarsi meglio con la segreteria del Nazareno”. E se la Boschi la smentisce, fa una brutta figura: ne è consapevole, Calderoli? “Questo che le faccio vedere è il contenuto di una doppia email arrivata in commissione.
Ci sono le tracce, e non si possono cancellare”.
IL GOVERNO sostiene che l’immunità non è un capitolo dirimente, ma sarà eliminata? “Vediamo, io non ci capisco più nulla, da Forza Italia a Nuovo Centro Destra, passando per il governo, tutti cambiano versione. Soltanto io e Anna stiamo seguendo le indicazioni iniziali”. Ma voi leghisti non siete al governo. “Appunto, vede come sono ridotti”.

il Fatto 27.6.14
Nella proposta di riforma della PA presentata dal ministro Madia
Ad personam
Altro che “errore”, il salva-premier c’è
di Tommaso Rodano


L’articolo “salva Renzi” nella riforma Madia c’è ancora. La norma è stata riscritta, ma non eliminata, come aveva garantito Palazzo Chigi pochi giorni fa.
Il decreto legge pubblicato mercoledì in Gazzetta Ufficiale introduce una piccola modifica al Testo Unico degli Enti Locali del 2000.
Il testo (articolo 11, comma 4) è sibillino: “Resta fermo il divieto di effettuazione di attività gestionale anche nel caso in cui nel contratto individuale di lavoro il trattamento economico, prescindendo dal titolo di studio, è parametrato a quello dirigenziale”.
Proviamo a spiegare. Mentre la prima parte dell’articolo (il “divieto di effettuazione di attività gestionale”) stabilisce un principio ovvio (lo staff delle segreterie di sindaci e presidenti, assunto a tempo determinato, non può svolgere compiti dirigenziali), la seconda parte estende quel divieto anche a quei contratti “parametrati a quelli dei dirigenti, prescindendo dal titolo di studio”. Si ammette, in sostanza, che i componenti dello staff possano ricevere lo stesso trattamento economico dei dirigenti, senza tener conto dei loro curricula.
SI TRATTA di una fattispecie molto simile a quella che tre anni fa è costata a Matteo Renzi una condanna in primo grado per danno erariale.
Il 4 agosto 2011 la Corte dei Conti di Firenze ha giudicato l’attuale premier responsabile dell’assunzione irregolare di quattro persone nello staff della sua segreteria, quando era presidente della Provincia di Firenze (da 2004 al 2009). I quattro sono stati assunti a chiamata diretta con un contratto di categoria D invece che C, nonostante non avessero mai ottenuto il titolo di studio (la laurea) necessario per essere inquadrati in quella fascia e con quello stipendio. I giudici contabili fiorentini, quindi, hanno condannato in primo grado Renzi a risarcire lo Stato: la multa per l’attuale presidente del Consiglio è stata di poco meno di 15 mila euro, il 30 per cento della cifra complessiva (circa 50 mila euro) divisa con gli altri venti condannati.
Ai tempi, Renzi si consolò sottolineando il forte sconto rispetto alle richieste della procura (che chiedeva un risarcimento superiore ai 2 milioni di euro), ma ricorse comunque in appello per ribaltare una sentenza considerata “fantasiosa e originale”.
Quando arriverà il secondo grado di giudizio, però, la norma incriminata potrebbe non esserci più, visto che l’articolo 11 comma 4 del decreto legge Madia riconosce la possibilità di “trattamenti economici parametrati a quelli dirigenziali, prescindendo dal titolo di studio”.
Già in una delle bozze precedenti della riforma della pubblica amministrazione era comparso un paragrafetto che (in modo ancora più esplicito) avrebbe reso lecite le assunzioni incriminate di Renzi.
SI TRATTAVA dell’articolo 12 della riforma e stabiliva che “in ragione della temporaneità e del carattere fiduciario del rapporto di lavoro si prescinde nell’attribuzione degli incarichi dal possesso di specifici titoli di studio o professionali per l’accesso alle corrispondenti qualifiche ed aree di riferimento”.
Lo staff del presidente del Consiglio aveva assicurato che si trattasse di “un errore” e che la norma sarebbe stata cancellata dal testo definitivo del decreto legge. Così è stato. Al suo posto, però, è stato inserito il nuovo articolo trattato sopra, che interviene ancora sulla fattispecie che è costata al premier la condanna amministrativa in primo grado. Rimane intatta, con la nuova formulazione, la possibilità di assumere dipendenti (nelle segreterie degli enti locali) con uno stipendio equiparato a quello dei dirigenti. Rimane intatta, soprattutto, la possibilità di farlo “prescindendo dal titolo di studio”, come fece Renzi quando era presidente della provincia di Firenze. Anche se da Palazzo Chigi, stavolta, garantiscono che la nuova norma non riguarderà il caso specifico del presidente del Consiglio.

Repubblica 27.6.14
Il caso/ Lasciano Nardi e Lacquaninti
Sel, altri due addii. Migliore fa il gruppo
di Tommaso Ciriaco


ROMA. Per dare vita a un mini-gruppo autonomo - componente nel Misto - mancavano due parlamentari. E da oggi Gennaro Migliore può tirare un sospiro di sollievo: i deputati Martina Nardi e Luigi Lacquaniti annunciano a Repubblica l’addio a Sel. Con loro salgono a 12 le defezioni, in una pattuglia di 36, anche se tre hanno traslocato direttamente nel Pd. L’ultima frana consente comunque a Migliore di toccare quota nove deputati. Nei prossimi giorni costituirà la nuova componente, con il sostegno della deputata eletta all’estero Renata Bueno o “recuperando” uno dei tre ex Sel finiti tra le file dem.
Questo, però, è ancora il momento delle separazioni. Doloroso e tormentato quello di Nardi, forse l’ultima a non arrendersi allo strappo: «Ho cercato fino alla fine di capire la direzione scelta da Sel. Per non avere rimorsi non ho lasciato nulla d’intentato». Saluta Vendola soprattutto per una ragione: «Vado nel Misto e mi impegnerò per costruire un soggetto unico del centrosinistra. Renzi lo chiama partito della nazione, altri parlano di campo largo o polo riformista, di un soggetto federato o di un partito vero e proprio. Questa, comunque, è la strada. Come in Europa, penso al Labour. Certo è che dovremo lavorare con il Pd in questa direzione».
Anche Lacquaniti trasloca nel Misto, seguendo Migliore. «È un momento dolorosissimo », spiega. Non è tanto - o non solo - l’ultimo congresso ad averlo spinto fuori da Sel: «Socialismo europeo o lista Tsipras sono parole, a me interessano i problemi della gente. Ecco, voglio poter valutare i provvedimenti del governo volta per volta, non votare contro a prescindere». A Vendola, sottolinea, «dobbiamo tutto, ma negli ultimi tempi la sua leadership si è appannata». In attesa di capire se altri ancora lasceranno, Migliore ultima i preparativi per il nuovo gruppo. E anche a Palazzo Madama, sia pure sotto traccia, qualcosa si muove, anche se nell’immediato nessuno dei sette senatori si spingerà fino a strappare.

il Fatto 27.6.14
La lettera
Cari amici di Sel, a forza di giravolte si rischia la labirintite
di Luisella Costamagna


Cari compagni di Sinistra Ecologia e Libertà, anzi no, “chiamarsi compagni è una stronzata, meglio amici”, come disse il vostro leader Nichi Vendola. Anzi no, perché gli amici con la A maiuscola sono quelli della De Filippi, frequentati dal “berluschino” Renzi, e pure Vendo-la e SEL non stanno così bene, dopo l’uscita del capogruppo Migliore, di Fava e di altri dal partito (pure il tesoriere se n’è andato, speriamo non con i soldi). Diciamo che l’unica cosa certa è “Cari”, qualunque cosa voi siate adesso.
Provo a riepilogare. Eravate alleati del Pd di Bersani, ma dopo le elezioni siete andati all’opposizione del governo Letta. Poi arriva Renzi – quello che, per il Vendola antirenziano (uno dei suoi più riusciti travestimenti insieme al Vendola renziano), “non profuma di sinistra” – e prende il 40,8% alle Europee, e voi che fate? Alla faccia dell’opposizione, v’inebriate del “profumo di potere” e gli votate gli 80 euro, che prima del voto erano “una buona notizia, ma non basta”. I vostri elettori pensano: ci sarà una parte del partito a favore e una contro. Invece no, vi scindete tra chi sostiene gli 80 euro ma non il governo e chi entrambi, tra semi-renziani e renziani tout court. Sui social sempre Vendola perora la prima opzione con una narrazione degna del Teatro dell’Assurdo, dando il colpo di grazia ai sellini agonizzanti: “La sinistra può essere forza di governo anche quando frequenta la trincea dell’opposizione”, “Non saremo uno scorpione sulle spalle del Pd e neppure un grillo parlante o un camaleonte. Semmai un’anguilla che sguscia nelle mani di Renzi (…). Dialogo e sfida, ma in completa autonomia di giudizio”. Cioè? Uno vi vota e poi non sa dove sguscerete?
CARI, METTIAMO qualche punto fermo in questo bordello incomprensibile: 1) in altri paesi la sinistra è piuttosto florida (vedi Tsipras in Grecia), mentre voi offrite uno spettacolo sconfortante; 2) Migliore, Fava e gli altri che se ne vanno verso Renzi non si sa cosa faranno/otterranno, ma nel frattempo gli offrono la figurina “sinistra” finora mancante all’album del governo; 3) l’unico che se ne sarebbe dovuto andare davvero, dal partito e dalla politica (e invece le dimissioni sono state respinte in direzione), è Vendola, che ha perso qualunque credibilità dopo le risate col portavoce dei Riva sui tumori dell’Ilva; 4) l’animale a cui sembrate assomigliare adesso è piuttosto la remora, quel pesce con ventosa che si attacca ai pesci più grossi o alle navi e si fa trasportare, rallentandoli.
Come spiegare altrimenti parabole come quella, per esempio, della presidente Boldrini, che abbiamo – ahimè – imparato a conoscere e, tempestiva, si stacca ora dalla barca Sel ma resta ben attaccata a quella di Montecitorio; o dell’indimenticato Bertinotti (ma la presidenza della Camera è una maledizione?) passato dagli operai di Mirafiori alle nozze di Valeria Marini, ma rimasto fedele a scorta e auto blu? Certo, dopo 5 anni alla deriva fuori del Parlamento passa il transatlantico Renzi e mica puoi fartelo scappare, no? Ed eccovi a fare a gara a chi si attacca per primo. Voi tutti salvi, la sinistra a mare. Un cordiale saluto.

il Fatto 27.6.14
D’Alema ri-rottamato sull’altare della Mogherini
A lungo favorito per la politica estera, ancora non si rassegna al flop
di Ste. Fel. inviato a Ypres


I vincitori di questo estenuante negoziato europeo sulle poltrone saranno chiari a metà luglio, quando i leader si riuniranno per scegliere i commissari della squadra guidata da Jean-Claude Juncker, che da oggi sarà il candidato ufficiale alla Commissione, previa fiducia del Parlamento.
Gli sconfitti invece cominciano a essere ben identificati. Il più famoso è Massimo D'Alema: per mesi si è detto che la poltrona di Alto rappresentante per la politica estera (il ministro degli Esteri dell'Unione) era prenotata per lui: ex premier, ha guidato la Farnesina, si è costruito un solido rapporto con i socialisti europei guidando la Feps, la fondazione culturale del Pse. Invece niente, dimenticato da tutti, celebrato più per la sua attività di vignaiolo che per la presa sugli affari globali, D'Alema è stato davvero rottamato.
Il vertice dei socialisti di sabato scorso, a Parigi, ha dato il consenso a Renzi per mettere su quella poltrona Federica Mogherini, giovane, con poca esperienza, ma sostenuta dal premier e ben vista a Bruxelles. Se per qualche ragione saltasse, c'è Radoslaw Sikorski, il ministro degli Esteri polacco anti-Russia che è stato indebolito ma non azzoppato dalle intercettazioni clandestine che hanno rivelato il turpiloquio dell'esecutivo di Varsavia e l'eccessiva vicinanza tra il premier Donald Tusk e il governatore della banca centrale. La dimostrazione del declino di D'Alema si è vista martedì: l'ex premier ha convocato a Bruxelles i giornalisti per un imperdibile dibattito sulle “sfide globali” con Pascal Lamy, ex commissario francese e, lui sì, papabile per ruoli di peso nell'Europa che verrà. Ma i giornalisti erano tutti a seguire Federica Mogherini, anche lei a Bruxelles per impegni istituzionali. Non fosse per la registrazione di Radio Radicale, di quel dibattito non resterebbe traccia. “Non è che adesso scrivete che D’Alema si sente in corsa per qualcosa, vero?”, dice la sua portavoce. L’ex premier sembra però tenerci a lasciar intendere che niente è deciso, che lui potrebbe essere comunque destinato a un ruolo, magari all'immigrazione. Sperare è lecito. La lista dei delusi però è lunga. La premier danese Helle Thorning-Schmitt, alla domanda del Fatto, ha risposto ieri di non sentirsi in corsa per il Consiglio europero: “La Danimarca è un bellissimo Paese e sono concentrata sulle prossime elezioni”. Era data per favorita al posto di Herman van Rompuy, probabilmente resterà a Copenhagen. Il premier finlandese Jyrki Katainen ha addirittura lasciato la guida del partito conservatore e del governo al suo ministro Alexander Stubb perché da Berlino gli avevano fatto intravedere la presidenza della Commissione europea. Ben che vada sarà commissario, ma forse non di prima fila (la Finlandia è troppo rigorista per avere un portafoglio economico). Anche Martin Schulz ha perso: da candidato alla Commissione per i socialisti si sarebbe accontentato di fare l’Alto rappresentante della politica estera, o perfino il commissario agli Affari economici al posto di Olli Rehn, invece rimarrà presidente del Parlamento per un paio d'anni, poi si prospetta – come da tradizione – la staffetta con il popolare Manfred Webber, l'uomo forte della Merkel a Bruxelles.
Intanto il governo italiano è pronto a mandare a Bruxelles come commissario provvisorio, visto che Antonio Tajani si deve dimettere perché eletto all’Europarlamento, l’ex ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, in attesa della nuova Commissione.
 
l’Unità 27.6.14
Editoria, tre anni di sgravi e incentivi per chi assume
Il Fondo da 120 mln per il settore in crisi
Lotti: niente contributi se il 20% dei contratti non si stabilizza


Un provvedimento innovativo e che punta sull’occupazione. Il sottosegretario con delega all’Editoria Luca Lotti definisce così il testo appena firmato, che porta in dote 120 milioni di euro. È il decreto sul Fondo straordinario per gli interventi di sostegno all’editoria per il triennio 2014-2016 in attuazione della legge 147 del 2013 che stabilisce per cosa e con quali criteri saranno concesse le risorse disponibili per quest’anno, circa 45 milioni di euro, e che Lotti presenta come «il punto di arrivo di un lavoro durato diverse settimane», mirato «innanzitutto al sostegno della nuova occupazione, passaggio fondamentale per dare nuova energia a un settore oggettivamente in crisi». «Il decreto spiega il sottosegretario prevede infatti sgravi fiscali al 100% per 36 mesi per le assunzioni a tempo indeterminato, al 50% per le assunzioni a tempo determinato e ulteriori incentivi per la trasformazione del tempo determinato in indeterminato che a quel punto avrà sgravi retroattivi. Si prevede anche l’obbligo di trasformare il 20% dei contratti a tempo determinato in indeterminato, pena lo stop all’erogazione dei contributi».
Secondo questa logica, le aziende editoriali potranno ricevere dei sostanziosi contributi, a patto che ogni tre prepensionamenti ci sia almeno una nuova assunzione a tempo indeterminato. Se un’azienda ha ricevuto sostegno attraverso il Fondo straordinario, inoltre, le sarà vietato riutilizzare i giornalisti andati in prepensionamento. Parte minima del Fondo viene poi destinata agli ammortizzatori sociali, a condizione che vi sia un intervento di pari valore da parte delle imprese. «Sono particolarmente soddisfatto per la misura sull’innovazione tecnologica sottolinea ancora Lotti attraverso la quale da una parte sarà possibile concedere una garanzia per chi investe in innovazione tecnologica e digitale, dall’altra premiare le migliori start up». Garanzie che varranno anche per l’editoria libraria.
Niente contributi, però, a chi non rispetta la norma sull’Equo compenso e per le aziende che introducano bonus o premi collegati a risparmi sul costo del lavoro giornalistico, a favore dei propri dirigenti. Condizioni, queste, rivendicate esplicitamente dal sottosegretario, che ribadisce l’attenzione avuta per i giovani, «per chi ha meno garanzie» e si sofferma sull’accordo raggiunto per introdurre «un compenso minimo garantito che finora non c’era: purtroppo, come ha spesso denunciato l’Ordine dei giornalisti, oggi ci sono alcune aziende editoriali che pagano tre o quattro euro per un articolo, mentre con questo accordo un pezzo di 1600 battute dovrà essere pagato 20,8 euro. Mi sembra un primo passo significativo», dice il sottosegretario, aggiungendo che «non ci fermiamo qui e andiamo avanti».
Ma proprio l’Equo compenso resta un nodo contestato da precari e collaboratori esterni. Per Felsa Cisl, Nidil Cgil e Uil temp la nuova norma «cela lo sfruttamento legalizzato», con un tariffario «ben al di sotto dei minimi stabiliti da qualsiasi contratto collettivo nazionale» e «che lede la dignità dei lavoratori, il principio di equità e lo stesso diritto all’informazione». Contestazioni dello stesso tenore di quelle arrivate dal Coordinamento precari, freelance e atipici della Stampa Romana all’indirizzo del segretario generale della Federazione nazionale della stampa, Franco Siddi, che ieri ha presentato in conferenza stampa il nuovo Contratto nazionale di lavoro, appena firmato da Fnsi e Fieg, e che ha salutato con soddisfazione gli interventi previsti dal decreto sul Fondo straordinario per l’editoria, che in tre anni «possono garantire l’assunzione di 1.500 giornalisti». Un Siddi contestato anche da quattro consiglieri della Fnsi, Pierangelo Maurizio, Marco Ferrazzoli, Massimo Calenda e Paolo Corsini, che parlano di «contratto scempio» e di «ultimi regali agli editori».
Annunciato per settembre, infine, il lavoro che dovrebbe portare a breve alla riforma delle agenzie di stampa, perché «un sistema plurale va bene ha detto Siddi ma undici agenzie di stampa generaliste con convenzione sono tante, occorre quindi andare nella direzione delle specializzazioni tematiche».

l’Unità 27.6.14
«Stop austerità Sì alla crescita»
In estate parte il referendum


Stop all’austerità, sì alla crescita, sì all’Europa del lavoro e di nuovo sviluppo. Questo lo slogan scelto dal comitato promotore dell’iniziativa referendaria che vuole modificare in quattro punti la legge 243 del 2012, quella con cui durante il governo Monti si recepì il Fiscal compact nella Costituzione italiana, con vincoli addirittura più rigidi di quanto chiesto in Europa. La campagna è ancora in rodaggio, ma il motore marcerà a pieni giri durante l’estate: dal 3 luglio al 30 settembre in tutte le feste delle diverse formazioni politiche a cominciare da quelle dell’Unità e in tutte le occasioni pubbliche si raccoglieranno le firme necessarie per avviare la consultazione popolare.
Il comitato promotore ha presentato i quattro quesiti in una conferenza stampa a Montecitorio a cui hanno partecipato molti parlamentari di diverse aree politiche (da Stefano Fassina e Alfredo D’Attorre, Pd a Giulio Marcon di Sel fino a Mario Baldassarri, Futuro e libertà). Così come gli economisti che aderiscono all’iniziativa provengono da diverse scuole di pensiero. Iniziativa trasversale, dunque, che «nasce dai numeri di un fallimento ormai sotto gli occhi di tutti, quello dell’austerità ottusa praticata dall’Europa», ha spiegato l’economista Gustavo Piga. Poco convincenti anche le ultime rassicurazioni dei leader europei su una «austerità flessibile». Nei fatti il rigorismo resta, magari con qualche sporadica deroga, che non consentirà una vera ripresa.
Spetta al giurista Giulio Salerno spiegare i quattro quesiti sottoposti al volere dei cittadini. «Nella legge si prevedono modalità attuative del Fiscal compact aggravate rispetto al Fiscal compact spiega Salerno Si consente infatti a governo e Parlamento di stabilire obiettivi più gravosi di quelli stabiliti dall’Ue. Il secondo punto riguarda la regola che fissa l’esatta corrispondenza tra l’obiettivo di medio termine europeo e quello nazionale. In realtà l’Europa prevede flessibilità nei passaggi intermedi. Il terzo quesito vuole eliminare le disposizioni sull’indebitamento, che è possibile solo in casi straordinari previsti per legge. Il quarto punto è sui meccanismi di attivazione automatica che scattano quando c’è lo scostamento tra gli impegni e gli obiettivi realizzati». La partita è solo all’inizio, ma è importante che si giochi, proprio in nome dei principi costituzionali «che richiedono disposizioni semplici e omogenee», osserva Paolo De Joanna. Bisogna voltare pagina per l’Italia, dove «gli investimenti sono stati tagliati del 12% nel 2013 in nome dell’austerità» osserva Riccardo Realfonzo. E anche per il bene dell’Europa, dove «i dati sono tutti fuori linea e la flessibilità rischia di diventare un suk politico», aggiunge Leonardo Becchetti.

il Fatto 27-6-14
Il “Corriere” per Dell’Utri mafioso
Sul quotidiano gli amici (diversi indagati) comprano una pubblicità. Il CDR: “grave accettarla”
di Sandra Amurri


Mi si nota di più se ci sono o se non ci sono nel gigantesco pizzino di pizzini al condannato Marcello Dell’Utri, pubblicato a pagamento dalla moglie Miranda Ratti sul Corriere della Sera dal titolo “Al tuo fianco”? (E a sua insaputa, precisa il gemello Alberto).
Tra i politici assenti spicca Giancarlo Galan, su cui pende una richiesta di custodia cautelare, per molti anni manager di Publitalia, tra i fondatori di Forza Italia con Dell’Utri, suo testimone di nozze con Berlusconi. Galan che per anni ha continuato a scrivergli iniziando con l’immancabile “Caro Marcello” e quando l’amico venne condannato in primo grado fece sue le parole di Giuliano Ferrara sul Foglio: “Un processo farsesco, basato sul nulla giuridico del concorso in un concorso per commettere delitti, senza l’indicazione puntuale dei delitti e la punizione puntuale dei delitti, in un quadro di responsabilità penale personale, un dettaglio per il nostro sistema di ingiustizia”. Una farsa confermata dalla Cassazione il 19 maggio scorso mentre Dell’Utri era latitante in Libano.
Solidarietà a pagamento. Una scelta per il Cdr del Corriere “molto grave della direzione che non ne ha preso le distanze e che crea un precedente”. All’appello manca anche la firma dell’ex Publitalia, ministro lampo Aldo Brancher condannato per ricettazione nell’ambito del processo sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte della Banca Popolare di Lodi. Il resto è un coro struggente di stima, affetto, riconoscenza per “l’ambasciatore di Cosa Nostra a Milano, fin dagli Anni 70” in cui, tolti pochi amici personali, sono voci di ex arrestati e indagati. Come Sergio Roncucci, primo manager del Gruppo arrestato a Tangentopoli per mazzette pagate dalla Fininvest per discariche, campi da golf... O di suoi compagni di “merende con manette” come Gabriele Buora, dirigente di Publitalia arrestato quando Dell’Utri finì nel carcere di Ivrea per false fatturazioni per le sponsorizzazioni gonfiate, un giro da 12 miliardi che ruotava attorno al campione di off shore Giovanni Arnaboldi che confessò: “Mi dissero di raccontare che li avevo usati per comprare libri antichi da Dell’Utri”. O come il suo autista Giuseppe Mariani a lui grato per essere stato “un Padre Premuroso e un Maestro Attento”. Tanto da accompagnarlo sul litorale di Rimini nel’98 all’incontro - filmato dalla Dia - con il falso pentito Giuseppe Chiofalo per organizzare un complotto contro i veri pentiti che lo accusavano. Non manca Niccolò Querci, altro manager del gruppo condannato poi assolto in appello, per falsa testimonianza in favore di Berlusconi nel pagamento di tangenti alla Gdf. Non manca Riccardo Braglia, direttore artistico della Fondazione Mantova Capitale Europea dello Spettacolo e la sua elegante ironia: “Colluso lui? Certo, e Rosy Bindi è Miss Universo”. E neppure Camillo Langone che scrive sul Foglio, Il Giornale e Libero, intellettuale, termine azzardato se la memoria corre alla famosa lettera di Elio Vittorini in risposta a Togliatti “..lo scrittore ‘rivoluzionario’ non è colui che suona il piffero (fa propaganda) per la rivoluzione ma colui che pone esigenze rivoluzionarie diverse da quelle della politica; esigenze interne, segrete , recondite dell’uomo ch’egli soltanto sa scorgere”. Nel nostro caso trattasi più semplicemente dell'autore dell’articolo Togliete i libri alle donne torneranno a far figli come dire: le donne ignoranti sono più fertili; tralasciando, per rispetto nostro, la sua opinione sugli omosessuali .
E siccome l’ex senatore non è nè donna né gay e non è ateo, ma è stato solo condannato a 7 anni per mafia dategli tutti i libri che chiede e anche un rosario perchè “la mafia non esiste, sono tutte minchiate” parola di Marcello Dell’Utri.

il Fatto 27.6.14
Ustica, finalmente Hollande toglie il segreto militare
A 34 anni dalla strage del DC9, la Francia ammette: “quella sera, nostri caccia in volo”
di G. G.

Una svolta, nell’inchiesta sulla strage di Ustica. Una svolta, se sarà confermata, che cade a 34 anni esatti dall’abbattimento del Dc9 Itavia, inabissatosi con 81 persone a bordo il 27 giugno ‘80. Secondo quanto scrive l’Huffington Post, è caduto il “muro di gomma” francese, che aveva finora resistito a ogni domanda e reso vana la ricerca della verità. Parigi era sempre stata molto meno collaborativa di Washington, offrendo irritazione e silenzio in risposta agli interrogativi italiani. Ora, invece, la Francia avrebbe finalmente deciso di collaborare all’inchiesta. E alcuni ex militari avrebbero ammesso, per la prima volta, davanti a magistrati italiani, che quella sera alcuni caccia di stanza alla base di Solenzara in Corsica, sospettati di essere coinvolti nell’abbattimento del DC9, volarono fino a tarda ora. Non sarebbe un’ammissione di colpa, ma sarebbe una smentita della versione che Parigi aveva finora accreditato, secondo cui la base corsa chiuse quel giorno alle 17, cioè ben quattro ore prima che l’aereo civile italiano esplodesse nel cielo di Ustica. C’è chi attribuisce il mutato atteggiamento francese a una decisione politica al massimo livello, magari del presidente Hollande.
RESTA però da accertare la portata della notizia ed eventualmente da capire fin dove arriverà la disponibilità di Parigi a collaborare, in questa vicenda segnata da depistaggi e reticenze nazionali e internazionali. Mercoledì, due giorni prima dell’anniversario della strage che cade oggi, due deputati Pd, Walter Verini e Enzo Amendola (capigruppo nelle commissioni Giustizia e Esteri) hanno presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia, per sapere “a che punto sono le rogatorie internazionali dell’inchiesta sulla strage che la Procura della Repubblica ha rivolto a Stati amici e alleati e quali iniziative intenda adottare nel caso che alcune rogatorie non ricevano risposte.” Il Parlamento non ha ancora ratificato la “Convenzione sull’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati dell’Ue”, del 2000. La Convenzione semplifica e rende più efficaci le formalità e le procedure delle richieste di assistenza giudiziaria, introducendo forme e tecniche specifiche di collaborazione rafforzata con le autorità giudiziarie degli altri Paesi europei.

l’Unità 27.6.14
Dalla verità su Ustica nasca una nuova politica estera
di Daria Bonfietti
Presidente Ass. parenti vittime strage di Ustica

NEL XXXIV ANNIVERSARIO DELLA STRAGE DI USTICA IL NOSTRO PENSIERO DEVE ANDARE INNANZITUTTO alle 81 vittime innocenti e nello stesso tempo affermare con determinazione che c’è ancora bisogno di verità. C’è bisogno di scrivere l’ultima pagina, la definitiva.
Per questo sento di rivolgermi direttamente al presidente del Consiglio perché l’impegno per la verità su Ustica diventi un tema dominante della politica estera e perché proprio nel semestre di presidenza Italiana, che sta per cominciare, l’Europa, nel suo complesso e nelle sue istituzioni, comprenda che il confine italiano è il confine dell’intera comunità e che quindi, quella notte, sono stati lesi i diritti di tutti i cittadini europei.
Ustica è la storia di una verità immediatamente comprensibile già dai tracciati radar di Ciampino e dalle telefonate nei siti militari di quella stessa notte, ma fatta scomparire, inabissata come il relitto, sottratta, prima con la grande menzogna di un cedimento strutturale in un cielo che si afferma completamento sgombro, poi con una vergognosa catena di falsità, soppressione di prove, depistaggi, false informazioni, occultamenti e distruzioni di documenti.
Dopo tanti anni di impegno civile dell’Associazione dei Parenti delle Vittime della Strage di Ustica, dopo una straordinaria mobilitazione che ha visto coinvolti la società civile, il mondo della cultura, dell’arte e dello spettacolo, esponenti prestigiosi della politica, possiamo ben dire di aver conquistato la verità.
La magistratura, pur con un percorso lungo e pieno di ostacoli, con le sentenze definitive della Cassazione, ha definitivamente affermato: il DC9 Itavia è stato abbattuto e i ministeri dei Trasporti e della Difesa sono responsabili, l’uno per non aver saputo difendere la vita di innocenti cittadini, l’altro, perché i comportamenti di tanti militari hanno ostacolato in ogni modo il raggiungimento della verità.
Ma da oggi l’impegno deve essere quello di creare le condizioni per poterla scrivere tutta la verità, ci vogliono anche i responsabili materiali e lo scenario nel quale ha potuto verificarsi l’abbattimento di un aereo civile in tempo di pace.
In concreto questo significa fare in modo che abbiano successo le indagini che sta svolgendo la Procura della Repubblica di Roma per delineare il quadro preciso degli aerei in volo sul Tirreno e la dislocazione di altri «mezzi» militari (ad esempio portaerei) che possono aver avuto un ruolo determinante nell’accaduto. Ma la momento–al di là di una qualche disponibilità francese si deve denunciare che non hanno avuto la minima risposta le rogatorie rivolte ad altri Stati.
Si tratta, tra gli altri, degli Stati Uniti, che avevano ad esempio in volo nella zona della tragedia un aereo speciale proprio per i rilevamenti radar, del Belgio che aveva aerei in esercitazione in quei giorni nella zona e della Libia, da sempre collegata alla tragedia.
È chiaro che per le sue indagini la Magistratura italiana può avvalersi soltanto di rogatorie internazionali la cui «forza» deve essere affidata alla determinazione della politica estera del governo. E bisogna prendere atto che fino ad ora non sono stati adeguati né l’impegno degli esecutivi italiani nel chiedere né la disponibilità alla collaborazione degli altri Stati.
È questo cambiamento che chiedo al presidente Renzi e alla politica tutta. Prendo atto che su interessamento della presidente Boldrini in questi giorni alla Camera fa passi importanti il provvedimento presentato dagli onorevoli Verini -Amendola e Migliore per la ratifica della Convenzione europea per la collaborazione in materia giudiziaria del 2000. Ma ci vuole davvero un diverso impegno e al Presidente Renzi, che ha messo in atto una apprezzabile iniziativa per la trasparenza sui documenti riguardanti le stragi nel nostro Paese, voglio chiedere un impegno particolare perché sulla strage di Ustica, sulla quale ripeto è in atto un’inchiesta giudiziaria, sia fatto da subito ogni sforzo, per la disponibilità di ogni genere di documentazione in giacenza presso Ministeri e altre Istituzioni dello Stato.
Oggi, mi sento di dire, la verità sulle cause della tragedia è conquistata, ma l’ultima pagina può scriverla la magistratura soltanto con l’aiuto forte e determinato del governo. Ed è quello che chiediamo.

La Stampa 27.6.14
“Paradiso Lampedusa”
Lo spettacolo dei profughi
di Sandro Cappelletto

Sui barconi di profughi che attraversano il Mediterraneo si cantano, in tante lingue diverse, inni a Lampedusa. La si paragona al Paradiso, al luogo dove vive la Madre di Dio, che saprà accogliere. Nell’immaginario di chi sfida la morte per raggiungerlo, questo avamposto d’Italia verso il sud del mondo non è più un’isola: è la terra promessa, un mito universale che strega milioni di persone.
Animisti, cristiani, musulmani, africani, asiatici, uomini e donne che appartengono a popoli ed etnie che si combattono, dimenticano i loro odi e si scoprono soltanto esseri umani, stretti uno all’altro, alla bottiglietta d’acqua consegnata dallo scafista, al figlio che un’onda rischia di travolgere, alla corda che, quando arriva l’ondata, impedirà forse di venire travolti. Più tenace della loro disperazione c’è soltanto la certezza che un Paradiso esiste: si chiama Lampedusa ed è lì, davanti a te, alla fine del mare.
Galghi, nella lingua Wolof dell’Africa occidentale, significa «barca». Ma Galghi ora è anche il nome di uno spettacolo. L’idea è di Badarà Seck, un griot, un cantastorie senegalese che da anni vive nel nostro Paese. A Roma, ha raccolto uomini e donne che il mare lo hanno attraversato e a partire dalle loro vicende ha costruito un racconto parlato, cantato, suonato e danzato che possiede la semplicità inviolabile della verità. Sono in dodici – il numero certo non è scelto a caso – sopra e attorno alla sagoma di una barca collocata nel fondo dei Giardini della Filarmonica Romana, dove Galghi ha debuttato. Sarà replicato il 2 luglio e da settembre dovrebbe iniziare una tournée destinata in particolare ai ragazzi delle nostre scuole.
I dodici stanno sopra la barca, ondeggiano e raccontano, in italiano, perché la nostra lingua è diventata la loro lingua comune, la sola che tutti conoscono: mia madre è orgogliosa di me perché delle quattro mogli di mio padre è l’unica ad avere un figlio che manderà i soldi a casa; quanti anni impiegherai per restituire alla famiglia il denaro anticipato per il tuo viaggio? Ho sentito dire che durante la traversata molti, spesso per la sete, proprio come accade nel deserto, impazziscono e vogliono tuffarsi perché pensano che l’acqua sia una strada, un sentiero. Dopo che sei arrivato in Paradiso, di notte qualche volta vengono a trovarti i demoni e ti fanno rivivere quello che hai già conosciuto: le migliaia di chilometri percorsi, le rapine e le violenze subite, le minacce di morte. Lo sai che i funzionari della mia ambasciata mi hanno negato il visto e sono stati loro a mettermi in contatto con gli scafisti? Avresti mai immaginato che un curdo potesse dormire accanto a un siriano di Aleppo, un marocchino musulmano appoggiarsi ad un burkinabé cristiano?
Non abbiate paura, seguite i miei ordini, intima lo scafista. Il mare si gonfia e prima che una tempesta faccia naufragare tutti, una voce di donna legge i versi della Divina Commedia che chiudono il Canto di Ulisse: «Tre volte il fé girar con tutte l’acque; / A la quarta levar la poppa in suso / E la prora ire in giù, com’altrui piacque, / Infin che il mar fu sovra a noi richiuso».

La Stampa 27.6.14
La Franzoni ritorna a casa
“Che gioia, non me l’aspettavo”
L’abbraccio dei familiari, ma mancano il padre e don Baroncini
di Pierangelo Sapegno

Davanti al cancelletto col numero 5 c’è quella ressa che non vedevano da un po’ da queste parti, con i fotografi arrampicati sulla rete. Ma tutto quello che è cambiato in questi sei anni, da quella sera del 21 maggio 2008 quando i carabinieri vennero a prenderla per portarla in carcere, non sta solo in questo silenzio, ma nelle voci che l’accompagnano mentre Annamaria Franzoni cerca di entrare in casa senza farsi vedere, nascosta da grandi ombrelli, dietro a Gioele che corre davanti a lei, come se giocasse: «La mamma, c’è la mamma!». Lui la abbraccia, la vede. Noi no. Ha la maglietta bianca, porta i jeans e delle paperine nere ai piedi, ma è come se rubassimo un’immagine a una mischia. Ha la frangetta sui capelli. Pensiamo che non è cambiata. Eppure lei stamattina, quando le hanno concesso gli arresti domiciliari, ha detto: «Sono felice, che gioia. Non me l’aspettavo. Non vedo l’ora di riabbracciare i miei figli». Non l’aveva mai detto, non l’aveva mai potuto dire.
Siamo tutti felici, ha raccontato il suo avvocato, Paola Savio. Alle otto di sera, quando i giornalisti sono andati via, lei si affaccia appena alla finestra: Gioele è lì seduto, sotto al porticato, con due suoi amici mangiando un gelato. Ecco cos’è cambiato in questi sei anni, quest’immagine quasi normale, quasi estranea agli ultimi anni di Annamaria. La vita che ritorna.
Augusto Balloni, il perito che l’ha incontrata più volte, ha detto che la sua fortuna adesso sarebbe il silenzio: «Spero una cosa: che Annamaria venga dimenticata. Sarebbe per lei il più grosso regalo. Capisco che i media abbiano le loro esigenze e capisco che certe cose debbano essere raccontate. Però, adesso, la cosa migliore sarebbe lasciarla in pace». Forse succederà, prima o poi. Non oggi.
Quando esce dal carcere di Bologna poco prima delle 16, c’è già qualcuno che le si appiccica addosso. Sale su una Multipla grigia guidata da un assistente di don Nicolini, il parroco della cooperativa sociale dove lei lavora. A Sasso Marconi escono dall’autostrada e si fermano a una rotonda. Sono venuti a prenderla sua cognata e Gioele. Lei sorride, Gioele le corre incontro e l’abbraccia forte. Cambiano macchina e partono sulla Mini, sgommando contromano per sfuggire agli inseguitori. A casa arriva alle 18,34, accompagnata dai carabinieri. Suo marito, Stefano, dice che sono felici ma che adesso nessuno di loro parlerà. Anche Elisabetta Armenti, la sua grande amica, dice la stessa cosa: «Quelli che le vogliono bene non diranno più una parola».
Mancano però alcune figure fondamentali al quadretto. E forse la loro mancanza ha un significato. Non c’è don Marco Baroncini, il prete che l’aveva difesa strenuamente. Dicono abbia bisticciato con lei. E non c’è Giorgio Franzoni, quel padre dal carattere forte molto presente fin dal primo momento. Manca in un certo senso anche Davide, il figlio più grande, quello più chiuso della famiglia e che patisce di più l’assedio dei giornalisti. È in casa, esce con la tuta da motocross, poi rientra. Non va incontro alla mamma come il fratello più piccolo, Gioele.
Adesso li guardiamo, attaccati alla rete sul retro del cortile, un prato in discesa con tre sedie bianche appoggiate al muro e un tavolino con un vaso sopra. La macchina, una Mini bianca guidata dalla cognata, con la maglietta nera senza maniche e i jeans, si ferma lì in mezzo, e il primo che vediamo scendere è proprio Gioele, con i calzoni corti. Corre verso la casa, e quasi saltella di gioia. Attorno alla portiera si mettono un signore anziano, che non riconosciamo, la sua amica Elisabetta e un altro, tutti con gli ombrelli aperti per nasconderla alla vista. Lei, Annamaria dice a Elisabetta di andare ad aprire la porta. «La apro io?». Vai tu. «Dov’è la chiave?» È nella toppa. Schiude la porta lentamente come se avesse paura di rompere un vetro. Entrano circondandola tutti. Anche i due carabinieri che l’hanno accompagnata si sono allontanati. Lei non esce più. Ma è tutto così lontano da sei anni fa, quando vennero a prenderla. C’è la luce che scende sul prato, i bambini che giocano attorno al tavolino. Il cagnone giallo che se li guarda dolcemente. Un perfetto quadretto familiare.

Corriere 27.6.14
Annamaria Franzoni ai domiciliari
Ma non potrà tornare a Cogne
«Dopo più di 12 anni non c’è il rischio che ripeta il figlicidio», assicura la perizia grazie alla quale la mamma di Samuele viene rilasciata dopo sei anni in carcere
qui
http://www.corriere.it/cronache/14_giugno_26/cogne-annamaria-franzoni-ammessa-domiciliari-30add816-fd19-11e3-ab47-248f75b22665.shtml

Corriere 27.6.14
La seconda vita di Annamaria, la donna che ha diviso gli italiani
Il perito ha rassicurato le toghe: non può commettere un altro omicidio
di Marco Imarisio

Ogni sera la famiglia si radunava intorno a un tavolo di legno che sembrava quello di un convento. Anche le panche sulle quali si sedevano tutti avevano qualcosa di monastico. Non c’erano poltrone, nella grande casa di Monteacuto Vallese. Solo sedie di legno, e panche. Fratelli e sorelle parlavano e scherzavano tra loro.
Quando Annamaria cominciava a parlare, calava il silenzio. Succedeva sempre dopo la cena, consumata a orari d’altra epoca, intorno alle 19. «Avanti» diceva Giorgio, il patriarca. «Raccontaci cosa è successo». Lui annotava tutto, con una calligrafia che tracciava ampi cerchi su un grande bloc notes, batteva il pugno sul tavolo per far tacere il brusìo che si levava nei passaggi più scabrosi di quel supplizio che veniva rivissuto e ripetuto come una lezione da mandare a memoria. I Franzoni sono sempre stati una famiglia unita. L’immagine arcigna e aggressiva che li ha contrassegnati durante gli anni dei processi e della sovraesposizione mediatica non ha sempre reso giustizia a una coesione interna rara, a una capacità di stare insieme che oggi, solo oggi, viene riconosciuta come il punto di forza del suo membro più celebre. «Può contare su un contesto familiare coeso», così il giudice motiva, tra le altre cose, l’accoglimento dell’istanza della madre di Samuele. In questi anni, si legge nell’ordinanza, «la Franzoni ha incontrato regolarmente i familiari, sei colloqui mensili». Il sostegno assicurato dai nonni paterni durante la detenzione della madre viene definito «significativo», mentre quello economico garantito dai genitori di Stefano Lorenzi, il marito, «per supportare sia i bisogni quotidiani della famiglia che i costi della vicenda giudiziaria» risulta invece «decisivo».
Anche la perizia definitiva, scritta dal professor Augusto Balloni, evoca spesso il concetto della famiglia d’origine di Annamaria Franzoni, che rimane pur sempre una donna soggetta a depressione e al rischio di «incontrare difficoltà, frustrazioni, contrasti ambientali e altri avvenimenti che potranno incidere sul suo comportamento». La psicoterapia sarà l’aiuto fondamentale, il resto dovrebbe essere garantito dal «contesto», da una rete familiare considerata «sicura».
La perizia psichiatrica si conclude con una presa d’atto, con la certezza che «lei ce la metterà tutta al fine di guardare avanti per il bene della sua famiglia». A posteriori, sembra il riconoscimento dei valori con i quali Annamaria Franzoni è stata cresciuta, un omaggio a quel «contesto» così scandagliato, così ossessivamente studiato negli anni in cui l’Italia si divideva soltanto a quel che era accaduto la mattina del 30 gennaio 2002 in una villetta alle pendici di Cogne, con Annamaria che diventava la nostra Oj Simpson, capace di dividere e far discutere ancora oggi, con i dubbi sollevati sull’opportunità di far tornare a vivere con i figli una donna condannata per avere ucciso uno dei suoi figli. «Si può sostenere che non vi sia il rischio che si ripeta il figlicidio. Una tale costellazione di eventi non è più riscontrabile». La perizia sostiene la tesi dello psicologo tedesco Kurt Lewin, il fondatore della psicologia sociale, secondo cui il comportamento è funzione sia della persona che dell’ambiente. «Sento il bisogno di tornare in quella casa» è uno dei brani riportati dai suoi colloqui con lo psichiatra. «Non sarà facile, perché è dove Samuele ha vissuto felice e dove è stato ucciso». Il tribunale aderisce alle perizia psichiatrica, ma in ossequio ai principi stabiliti dal professor Balloni si cautela negando alla Franzoni il tanto desiderato ritorno nella casa dove si consumò il delitto, fissando «il divieto di allontanarsi dalla provincia di Bologna e quindi di recarsi in altre zone del territorio nazionale con particolare riferimento a Cogne».
Sembra di sentirlo, Giorgio Franzoni. Il capo, il «gallett» di Monteacuto, soprannome che derivava dal cognome di sua madre, una Gallilei, e dal carattere duro e abrasivo. «La bimba non avrebbe mai dovuto andare lassù a Cogne» ripeteva nei giorni confusi che precedevano l’arresto della figlia, quelli dell’isteria nazionale. Sono stati scritti libri e trattati su questo cordone ombelicale mai reciso, su una figlia che di undici fratelli era quella che più somigliava al padre, e anche per questo forse aveva scelto di andare lontano, lasciando il piccolo regno del patriarca, che da muratore è arrivato a creare un piccolo impero, quattro imprese edili e due agriturismi, con tutta la famiglia che ci lavora dentro.
La morte di Samuele ebbe l’effetto di riportare indietro Annamaria e il marito Stefano in quell’ambiente così protettivo, in qualche modo restituì la «bimba» alla sfera di influenza esercitata e dominata dal padre. Chiara, la madre, ex insegnante, una donna dolce e istruita, ha sempre coltivato l’unità della famiglia. Giorgio, decideva, sempre in buona fede, sempre convinto che la ragione fosse dalla sua parte, anche quando imponeva scelte disastrose come la cacciata dell’avvocato Carlo Federico Grosso, che aveva demolito la prima ordinanza di arresto restituendo la libertà ad Annamaria. «Adesso salveremo il salvabile, la aiuteremo in ogni modo» disse dopo che la sentenza d’appello aveva confermato la condanna di sua figlia. Comunque la si pensi sul loro conto, i Franzoni sono sempre stati gente che mantiene le promesse.

Repubblica 27.6.14
Franzoni a casa: “Sono stata perseguitata”
Bologna, dopo sei anni lascia il carcere, sconterà i restanti dieci ai domiciliari. “Ma non potrà avvicinarsi a Cogne” I giudici: “È una madre adeguata, non serve la confessione”. L’aiuterà una “famiglia unita e la psicoterapia”
di Meo Ponte

BOLOGNA. «Negli ultimi dodici anni ne ho passate di tutti i colori, sono stata avvicinata da persone che agivano esclusivamente per il loro interesse personale promettendomi aiuto. I giornali e le televisioni hanno fatto irruzione nella mia vita dicendo e scrivendo cose terribili su di me e il mio povero Samuele...». Dagli otto colloqui di Annamaria Franzoni con il professor Augusto Balloni, lo psichiatra incaricato dal tribunale di Sorveglianza di Bologna di accertare le sue condizioni psichiche emerge il ritratto di una donna dolente che è convinta di vivere «una profonda e doppia ingiustizia»: «Non solo ho subito la perdita violenta di mio figlio ma sono stata condannata per un delitto che non ho commesso».
Ieri Annamaria Franzoni è tornata a casa per scontare ciò che le resta della pena (10 anni sui 16 della condanna) negli ottanta metri quadrati in via Borgo Vecchio 5 a Ripoli. Non è la prima volta: dal novembre 2013 la Franzoni ha avuto 19 permessi premio che le hanno concesso di passare 52 giorni nella casa di Ripoli. Dal 7 ottobre scorso era poi stata ammessa ai lavoro esterno nella sartoria gestita da una cooperativa sociale, “Gomito a gomito”. Ogni volta però doveva tornare in cella. Ieri è tornata per restare.
La perizia ordinata dal Tribunale di sorveglianza ha stabilito che non esiste il pericolo che possa uccidere ancora. Secondo lo psichiatra infatti «il comportamento è funzione della persona e dell’ambiente... al momento dell’omicidio Annamaria Franzoni si trovava in una particolare condizione psicologica ed aveva di fronte una situazione ambientale caratteristica. Ora, a distanza di oltre 12 anni dall’omicidio del figlio, è evidente che una tale costellazione di eventi non è più riscontrabile e ciò consente di sostenere che non ci sia il rischio che si ripeta il figlicidio... ». La Franzoni Non potrà però tornare a Cogne e dovrà seguire una psicoterapia di sostegno perché, come spiegano i giudici: «La donna è ritenuta affetta da disturbo dell’adattamento con umore depresso, facilità al pianto ad ansia, preoccupazione e irrequietezza, egocentrismo, tratti di narcisimo con idee dominanti e problematiche legate all’interazione con il sistema giudiziario».
Dal 4 luglio la Franzoni dovrebbe quindi incontrare ogni 15 giorni uno psicologo per un percorso di sostegno che dovrebbe durare almeno sei mesi. I giudici però sottolineano: «La Franzoni nel corso degli anni ha compiuto rilevanti progressi nel trattamento rieducativo dando prova di un progressivo reinserimento nell’ambiente esterno... ha cercato di partecipare attivamente alla vita familiare con gli strumenti che le erano consentiti: durante la detenzione ha realizzato lavori artigianali che il figlio ha portato a scuola e che sono stati esposti in classe ».
E non importa che non abbia mai confessato l’uccisione del figlio Samuele, anzi abbia continuato a ribadire la sua innocenza perché è un diritto del condannato quello di tacere. In più, la Franzoni può contare finalmente su un ambiente familiare pronto a sostenerla. E che nel tempo si è profondamente modificato. Già durante il processo di appello di Torino si era infatti allentato il rapporto con il padre che aveva voluto sostituire nella sua difesa il professor Carlo Grosso con l’avvocato Carlo Taormina ed era diventato più stretto quello con il marito e il suocero, deceduto poco tempo fa.
«Grande merito del percorso di Annamaria va anche agli operatori del carcere oltre che naturalmente ai suoi familiari» spiega Paola Savio, l’avvocato della Franzoni, che in questi anni si è ostinatamente battuta per ottenere gli arresti domiciliari per la sua assistita. Al presidente del Tribunale di sorveglianza, il 24 giugno, la Franzoni aveva detto: «Se volete farmi uscire, fatelo quando Davide affronterà la maturità ». Il suo desiderio si è avverato. Da ieri, quindi, la Franzoni è casa. Il tribunale ha fissato regole rigide: potrà frequentare solo i familiari conviventi, non potrà allontanarsi dalla provincia di Bologna, soprattutto non potrà mai più tornare a Cogne.

l’Unità 27.6.14
Franzoni esce dal carcere: concessi i domiciliari

Dopo sei anni di reclusione, Anna Maria Franzoni ha lasciato il carcere della Dozza. Alla donna, condannata in via definitiva a 16 anni di carcere per l’omicidio del figlioletto Samuele a Cogne nel 2002, il Tribunale di Sorveglianza di Bologna ha concesso gli arresti domiciliari dopo le valutazioni sul supplemento di perizia realizzata da esperti tra cui il docente e criminologo Augusto Balloni. La perizia, infatti, esclude la possibilità di recidiva: la donna non sarebbe più un pericolo per la sua famiglia, perché non sarebbe tecnicamente in grado di compiere un altro omicidio simile a quello commesso nella villetta di famiglia a Cogne. Per questo motivo i suoi legali hanno avanzato la richiesta di poter scontare la parte rimanente della condanna nella sua abitazione sull'Appennino bolognese.
Anna Maria Franzoni è uscita dal carcere di Bologna, poco dopo le 16 di ieri a bordo di un’auto della parrocchia di don Nicolini dove ha sede la cooperativa sociale in cui era stata ammessa al lavoro esterno. Era seduta sul lato passeggero della vettura (che procedeva a velocità sostenuta) chinata per non essere ripresa dalle telecamere o fotografata. La «mamma di Cogne», dopo una mattinata al lavoro come sarta era tornata nella casa circondariale della Dozza intorno alle 14.30. Esaurite le pratiche burocratiche seguite alla concessione della detenzione domiciliare la Franzoni ha, quindi, lasciato la casa circondariale della Dozza dove era detenuta dal 2008. Ammessa ai domiciliari potrà stare con il marito ed i due figli nella casa dove vivono a Santa Cristina di Ripoli, sull'Appennino bolognese.
«Siamo felici», è stato il primo commento di Paola Savio, avvocato di Annamaria Franzoni, alla decisione del tribunale di Sorveglianza che le ha concesso la detenzione domiciliare. «Si, ho sentito Annamaria ha proseguito È felice. Ci aspettavamo il provvedimento e la speranza era tanta».
Nellìordinanza con cui ha concesso gli arresti domiciliari, il Tribunale di Sorveglianza ha imposto alla Franzoni «il divieto di allontanarsi dal territorio della provincia di Bologna e, quindi, di recarsi in altre zone del territorio nazionale con particolare riferimento a Cogne». Tra le eccezioni (oltre ad esempio al caso di cure mediche) «la condannata si legge nell' ordinanza potrà allontanarsi dal domicilio ogni giorno per ore quattro, da concordare con l’autorità di vigilanza, nell'ambito della Provincia di Bologna al fine di soddisfare esigenze di vita legate esclusivamente alla gestione del nucleo familiare». Per la Franzoni, inoltre, i giudici hanno stabilito l’obbligo di recarsi «una volta a settimana a Bologna per esigenze legate all’attività lavorativa».

l’Unità 27.6.14
Bene Marino, Roma salga sui tram
di Vittorio Emiliani

IL SINDACO IGNAZIO MARINO HA RILANCIATO IERI IN INTERVISTA IL TRAM DI SUPERFICIE COME IL MEZZO COLLETTIVO di trasporto più adatto a Roma. Rilancio importante se sarà presto supportato da un piano pluriennale ben fondato. Da anni sosteniamo che il trasporto in sotterranea, reso difficile a Roma da uno strato archeologico formidabile anche in periferia, è sempre meno praticabile. Pur passando sotto di esso, bisogna poi uscire alla luce con stazioni, scale mobili, servizi, e qui si incontrano tutte le pesanti difficoltà (e i pesantissimi costi) che sta incontrando la Linea C giunta a San Giovanni dove è stata trovata una villa imperiale. Secondo molti esperti, lì si deve fermare proseguendo in superficie, se non si vuole massacrare il centro storico, dai Fori al Tevere.
Marino indica già alcune linee tranviarie (che, specie nella pianeggianti periferie, potrebbe benissimo venire integrata dai filobus, oggi molto più agili di ieri): da piazza Ungheria al Ponte della Musica, sulla Tiburtina, al Pigneto, «e infine quella dei Fori, da piazza Venezia fino a via Labicana». Non tutto è chiaro e però gli annunci sono importanti. Si tratta in realtà di un «ritorno all’antico». Nel senso che Roma è stata nel primo trentennio del ‘900 una delle città più tranviarie d’Europa, La capitale poteva infatti vantare una rete straordinaria: oltre 400 Km di binari e una cinquantina di linee regolari. Mentre oggi nonostante il tram veloce da piazza Mancini al Flaminio e il Tram 8 da Largo Argentina (ora Botteghe Oscure) al Casaletto è ridotta ad appena 40 Km,
contro i 190 Km di Milano (assai più piccola di Roma) e ai 60-70 di Torino. Di chi la responsabilità di questa sostanziale eliminazione dei tram mai compensata adeguatamente quando i costi erano ben più sopportabili dallo sviluppo di linee metropolitane in sotterranea (neppure 40 Km, una miseria)?
Anzitutto di Benito Mussolini che in un tristemente famoso discorso del dicembre 1925 chiese perentoriamente ai responsabili del Governatorato appena insediato: «Voi toglierete la stolta contaminazione tranviaria che ingombra le strade di Roma» e ne offusca «il carattere imperiale». E così la capitale, che – annota Walter Tocci nel prezioso volume «Avanti c’è posto» (Donzelli) scritto con Italo Insolera e Domitilla Morandi fra Nathan e il dopoguerra era arrivata ad avere «una delle reti più estese d’Europa», regredisce rapidamente. Col piano urbanistico del 1931 si sancisce la frattura, anche in materia di trasporti pubblici, fra centro e periferia. Mai più sanata. Nel dopoguerra, pur avendo Roma dismesse le ambizioni «imperiali», si ridurranno le ancora estese tranvie a pochi moncherini, si cancelleranno i filobus, soprattutto per ragioni estetiche (soltanto in centro comprensibili). Sempre senza sviluppare le linee in sotterranea.
Siamo alla esaltazione febbrile dell’auto privata e, in parallelo, ad un trasporto pubblico sempre più depresso pur di fronte ad una estensione delle periferie gigantesca e a macchia d’olio. Si minaccia persino il taglio come «ramo secco» delle ferrovie dei Castelli.
Soltanto verso la fine del secolo scorso il tram riceve di nuovo qualche limitata attenzione col tram veloce per il Mondiale 90 e poi con la Linea 8. Che dovrebbe da Largo Argentina proseguire fino a StazioneTermini ripristinando la tranvia (una delle prime dopo il 1907) in via Nazionale. La giunta Rutelli-Tocci cavalca la «cura del ferro». Dopo, la si pratica molto meno. Ora si rilancia dunque la saggia, non stolta, «contaminazione tranviaria»? Speriamo. A quando il completamento dell’anello ferroviario e l’innesto in esso di un vero sistema di ferrovie suburbane? A Roma esse misurano 195 Km, a Madrid 340, nella assai meno popolosa Monaco di Baviera 442 e tutto funziona meglio.

Repubblica 27.6.14
Marino: non ho colpe sulla cultura a Roma Io ascolto tutti e aspetto i privati
di Concetto Vecchio

Roma. Sindaco Marino, “Repubblica” denuncia il degrado della cultura a Roma, il senatore Zanda la invita a un colpo di reni, e il capogruppo del Pd in Comune dice che bisogna cambiare passo. Lei pensa di essere ancora in sintonia con il suo partito e con la città?
«Sì, assolutamente. Guardi che i romani sono contenti che ci sia un sindaco che vada in giro in bici. Ogni volta incontro un cittadino che mi pianta le mani sul manubrio e non mi lascia andare finché non mi ha raccontato la dimensione della buca davanti a casa sua. Preferivano forse un sindaco in autoblu?».
Veramente le rimproverano di non avere una visione sul futuro della città.
«Forse si dimentica la crisi nella quale ci dibattiamo. I consumi culturali diminuiscono dappertutto, le vendite dei libri sono in calo, la gente risparmia anche sulle cure odontoiatriche. La riprova è che nella notte dei musei, quando si entrava a un euro, abbiamo registrato 250mila presenze: con la mia bicicletta sono andato a controllare la fila alla mostra di Frida Kahlo, beh arrivava a piazza Venezia».
Insomma, è solo colpa della crisi?
«No, non dico questo. Credo, ad esempio, che i privati devono dare di più. Così il sistema non regge. La filantropia è stata troppo trascurata. I donatori del Teatro dell’Opera hanno versato appena 3 milioni di euro su un bilancio di 58. È troppo poco. Però mi reputo soddisfatto: il Teatro l’ho ereditato con un disavanzo di 10,4 milioni euro e quest’anno avremo un attivo di 200mila ».
Sì, ma la sua giunta non ha nemmeno un assessore alla Cultura. Com’è possibile?
«Solo da un mese. Ho lavorato bene con Flavia Barca, ma ora serve una figura di eccellenza, che abbia chiara la dimensione della sfida. Fare l’assessore alla Cultura a Roma è come fare il ministro in un medio paese europeo».
Sarà il professore Andrea Carandini?
«È una persona straordinaria, ma ho una rosa di candidati, e prima di scegliere voglio compiere un’operazione di ascolto».
E quanto ci vuole?
«Il tempo che ci vuole».
Le rimproverano anche il mancato governo. Perché non fa le nomine?
«A quali si riferisce?» Assessore a parte, sono senza vertice il Macro, le biblioteche, la Casa del cinema. Come lo spiega?
«Ma la casa del cinema scade a settembre, sulle biblioteche opereremo a giorni e non perché il tema è stato sollevato dai giornali».
Lei che voto si dà?
«Il voto me lo daranno gli elettori tra quattro anni».
E lei pensa di convincerli?
(Marino si alza e ci invita sul balconcino con vista sui Fori). «Guardi lì, il Foro di Augusto. Fino a settembre la sera c’è una rivisitazione storica con Piero Angela. Abbiamo venduto 30mila biglietti a 15 euro. È un successo, no? E le Scuderie del Quirinale aperte tutta l’estate, vogliamo parlarne?».
Non è troppo poco quel che ricavate dal sistema dei musei? Francesco Merlo si è trovato al Montemartini con altre quattro persone. «Ho controllato: il Montemartini fa 112 biglietti al giorno, 41mila all’anno. Non è tanto, convengo, ma i Musei capitolini fanno 500mila ingressi».
Infatti, sono gli unici. Avete un giacimento enorme e non lo fate fruttare. Non è un delitto?
«I piccoli musei bisognerebbe renderli gratis. Prenda il Carlo Bilotti: ha 18 De Chirico, ma ogni visitatore ci costa 45 euro. Bisognerebbe eliminare la biglietteria, spostare il personale alle Scuderie del Quirinale: dove davvero serve».
Roma è l’unica città al mondo con due soprintendenze. Le sembra sostenibile?
«Non lo è, e ne ho già parlato con il ministro Franceschini. Stiamo lavorando benissimo con lui. Guardi, quello spicchio, il Foro di Cesare: è nostro. Il resto no».
Lei a marzo è andato dagli emiri a proporre il brand Roma. Che ne è stato?
«Ne ho parlato con il sultano Bin Abdulaziz, e poi l’ambasciatore in Qatar e anche con la first lady azera. Sono disposti a restaurare i nostri monumenti, ma in cambio vorrebbero esporre le nostre opere nei loro Paesi».
Il concerto dei Rolling Stones è stato un successo, ma tutti parlano solo dei 7mila euro per il Circo Massimo. Lei sconta un problema d’immagine?
«Io penso che ci sia un po’ di provincialismo. È stata una straordinaria vittoria, tutti i media del mondo hanno celebrato l’evento e noi qua a parlare ancora dei 7mila euro. Mah!».
Ma al suo partito che la critica sulla cultura cosa risponde?
«Che ho portato la cultura nelle periferie. Lo sa che quaranta su 57 eventi dell’estate romana si terranno fuori dal centro storico. Questa è la mia visione».
La sua solitudine non nasce dal fatto che Renzi è freddo con lei? Teme l’ombra della Madia?
«Non è vero. I rapporti sono ottimi. Sono reduce da un importante colloquio con Delrio».
Fare il sindaco di Roma è più difficile che fare il chirurgo?
«Molto di più, in sala operatoria devi salvare una vita umana alla volta. Ma non sono preparato psicologicamente alla sconfitta. Non posso che vincere».

l’Unità 27.6.14
La politica si fa in tre
di Michele Ciliberto

La politica, nonostante le apparenze e tante chiacchiere, ha leggi precise, «obiettive», perché fondate su interessi che, prima o dopo, si fanno sentire. È bene che Grillo e Casaleggio se ne siano resi conto, anche se è stato necessario il duro «farmaco» della loro sconfitta elettorale nella quale ha, certamente, inciso il modo duro, violento, con cui si sono mossi, prima del voto.
Di fronte a un linguaggio minaccioso (si pensi all’evocazione di tribunali popolari sulla Rete) molti hanno preferito altre strade ritenute altrettanto innovative, ma più certe, più sicure e comunque lontane dalla violenza per fortuna solo verbale dei due capi del Movimento.
Un indizio che ci fosse una resipiscenza rispetto ad atteggiamenti e a giudizi del passato, era stata la dichiarazione con cui Grillo aveva riconosciuto che il presidente del Consiglio aveva ottenuto, con il 40.8%, una legittimazione di carattere popolare sanando con il voto la ferita che aveva inferto alla democrazia facendo cadere il governo presieduto da Enrico Letta. Posizione, questa, che in effetti non sorprende se si tiene conto che nella ideologia del M5S il rapporto diretto con il «popolo» è il fondamento ultimo e inalienabile del potere, tipico delle ideologie imperniate sul primato della democrazia «diretta».
L’incontro di mercoledì tra il segretario del Pd e una delegazione del Movimento non è stato né accidentale né improvvisato, ma scaturisce da una scelta politica meditata. Il che ne accentua l’interesse, perché, se così è, da esso possono effettivamente scaturire effetti positivi per il Paese e la democrazia. Tenere bloccata una forza ampia e di matrice, certo, anche popolare come il M5S, non giova infatti a nessuno né al Movimento e agli obiettivi che si propone, né al nostro Paese che ha bisogno, per il processo di modernizzazione che si sta avviando, anche del contributo delle forze che questo Movimento rappresenta nella società e nel Parlamento. Ed è positivo che il segretario del Pd abbia compreso l’entità della posta in gioco e lo sforzo fatto da Grillo e Casaleggio per imboccare una strada diversa intervenendo in prima persona. Non è stato, come qualcuno ha detto, un tatticismo di tipo andreottiano. Quella su cui si sta iniziando ad avviare un confronto è la riforma della legge elettorale, cioè la ristrutturazione del nostro sistema politico: un problema aperto da quasi mezzo secolo e che non può essere risolto d’improvviso, con una bacchetta magica. Coinvolgere tutti in questo processo è un gesto di responsabilità politica, specie se e quando si ha la guida del Paese. Proprio per questo, attendersi in tempi brevi una convergenza su posizioni comuni sarebbe insensato: importante era cominciare a discutere estendendo, e questo è un fatto decisamente positivo, il campo degli interlocutori da coinvolgere in una questione di ordine generale che deve essere affrontata, per la sua stessa natura, da tutte le forze disponibili senza alcuna pregiudiziale conventio ad excludendum. Qui siamo sul terreno dei «vincoli» che tengono insieme una comunità, una nazione.
È stato perciò utile che il segretario del Pd e gli esponenti del Pd abbiano messo sul tappeto le differenti opzioni su punti centrali, senza nascondere i punti di dissenso sui problemi dirimenti. Fare diversamente sarebbe stata, non politica, ma propaganda, tanto più dannosa perché fatta di fronte a milioni di persone. Ha fatto bene, ad esempio, il segretario del Pd ad insistere sulla «governabilità» come punto dirimente e qualificante della riforma elettorale: qualunque sia il sistema che si sceglie, occorre passare attraverso questa cruna, sapendo, quando si aprono le urne, chi è il vincitore al quale è affidato il governo del Paese. A meno di non voler cedere alle sirene dei governi delle «larghe intese» che vanno invece consegnati al passato: se si vuole un compiuto sviluppo della nostra democrazia occorre muoversi secondo prospettive alternative, in un sistema tendenzialmente bipolare.
L’ECCEZIONE E NON LA NORMA
Insisto su questo perché si tratta di un punto decisivo sul piano sia politico che culturale, ed anche su quello dell’etica pubblica. I governi, e le politiche, fondati su forze antitetiche possono essere necessari in momenti eccezionali, di particolare debolezza e fragilità del Paese, come quello che stiamo attraversando; ma devono essere l’eccezione, non la norma. Quando vengono assunte come regola, queste politiche generano processi di carattere trasformistico che screditano la democrazia e non giovano al Paese. Per questo è importante che il segretario del Pd abbia ribadito l’ipotesi del doppio turno, ed è da considerare con particolare attenzione la disponibilità o per lo meno la non-chiusura dei rappresentanti del Movimento rispetto ad una opzione di questo genere: se si vuole imboccare la via del cambiamento, questa è la strada maestra. Su tutto si può discutere, a cominciare dalle preferenze, ma sulla questione della governabilità, no. È il Pd, come Lutero, deve dire: qui sto, non mi muovo. Sulla «governabilità» non ci sono margini di trattativa; si può discutere sulle forme, non sulla sostanza.
Sono molti i punti sul tappeto su cui occorre discutere, come è auspicabile che avvenga. Intanto è positivo che il Pd abbia trovato, su questo terreno delicato, altri interlocutori, oltre Forza Italia e Berlusconi: così si comporta una forza che ha a cuore il destino del Paese e della nostra democrazia. La domanda ovviamente è cosa faranno nei prossimi giorni Grillo e Casaleggio: resteranno sul terreno della politica, che hanno rifiutato in modo pervicace per tanti mesi, o sceglieranno nuovamente la strada della propaganda, della invettiva, dell’insulto personale? È difficile prevederlo, ma ci sono alcuni elementi, e interessi, che lasciano immaginare uno scenario nel quale l’opzione politica possa continuare a giocare un ruolo nelle discussioni e nelle decisioni del Movimento: la sconfitta elettorale e le ragioni che l’hanno provocata; l’importanza della legge elettorale e di ciò che essa rappresenta per la ristrutturazione del nostro sistema politico; il fatto che il Movimento 5S è, nel suo campo e con i suoi modi, espressione di una effettiva volontà di cambiamento, che non può essere compressa oltre una determinata soglia.
Ma c’è un punto di ordine generale che occorre tener presente e che è confermato dal travaglio di altre forze politiche: il sistema politico italiano sta entrando in una nuova fase di scomposizione di vecchi assetti e di riaggregrazione intorno a nuove forze e a nuovi leader, che interpretano l’esigenza e l’ansia di cambiamento che sale dal profondo del nostro Paese. Viene da lontano, dagli ultimi decenni del secolo scorso dagli anni Settanta e non è mai stata soddisfatta. Ha attraversato come un fiume carsico tutta la nostra storia recente, compresa quella della cosiddetta Seconda Repubblica. Ora è risalita in superficie in modo violento, risentito, per certi aspetti incontrollabile. Fenomeni come il «nuovo» Pd e lo stesso Movimento di Grillo e Casaleggio sono espressione, in modi alternativi, di questi sommovimenti profondi, che chiedono di essere riconosciuti, valorizzati ed anche governati. È interesse di tutti, anche del Movimento, cercare di farlo, senza aspettare che si aprano cateratte che possono travolgere ogni cosa. C’è un tempo per nascere e un tempo per invecchiare, dice l’Ecclesiaste: parafrasando si può dire che c’è un tempo per la propaganda e un tempo per la politica. L’auspicio è che anche i dirigenti del M5S leggano, ogni tanto, le sacre Scritture.

Repubblica 27.6.14
Il partito del leader
di Nadia Urbinati

I CITTADINI italiani si fidano di Renzi non dei partiti e, presumibilmente, neppure del suo partito. Quello che Diamanti chiama il Partito di Renzi non è, infatti, la stessa cosa del Partito democratico. Certamente non è politico nel modo in cui questo lo è. Il partito politico, anzi i partiti politici, non sono in declino da oggi, ma oggi il loro declino è ancora più abnorme proprio perché avviene insieme al successo di un partito del segretario. Il paradosso è che pare difficile capire come Renzi possa ridare onore ai partiti (al Pd, in questo caso) anche perché egli ha costruito il suo successo di audience proprio grazie a una martellante retorica contro i partiti, non escluso il suo. Certamente contro le dirigenze logore e attempate. La rottamazione è stata sia un’apertura (ai giovani) che una chiusura (non solo alle vecchie generazioni ma anche) a un modo di essere del partito. Il Partito di Renzi è un partito nonpartito, nato come partito anti-partito. Merita ricordare che l’attuale segretario del Pd ha conquistato l’opinione e il governo del paese prima ancora di conquistare una maggioranza elettorale (o di essere eletto): un’incoronazione ecumenica che è avvenuta fuori del partito a tutti gli effetti e fuori delle istituzioni. Nei media e sotto i gazebo. Ecco perché ha un senso chiamare questo fenomeno plebiscitarismo dell’audience. Come si può ricostruire il partito partendo da qui?
Per tentare di rispondere a questa domanda occorre cercare prima di tutto di capire da che cosa è caratterizzato il Partito di Renzi, ovvero che cosa faccia sì che i cittadini si fidino di esso molto più di quanto non si fidino del Partito democratico. Certo, le continue notizie sulla corruzione sono un fattore potente di sfiducia nella politica ufficiale, anche se non coinvolgono solo le vecchie dirigenze nazionali dei partiti ma anche imprenditori e poteri locali: cioè proprio quella parte d’Italia che sembrava meno esposta alla tentazione del malaffare perché lontana da Roma. E invece vediamo che i poteri radicati sul territorio sono forse ancora più esposti alla corruttela. Ma questa denuncia morale dei partiti tradizionali, locali e nazionali, non basta a spiegare la grande popolarità del Partito di Renzi. C’è dell’altro.
Per esempio, c’è il fatto che il Partito di Renzi ha fatto saltare la struttura della catena di comando propria del partito politico. I partiti (e questo lo si vede soprattutto nel caso del Pd, proprio perché in origine non personalistico) erano strutture collettive, aristocrazie (o oligarchie, se si vuol essere severi) che hanno fatto e condiviso scelte e che ora danno l’impressione al comune cittadino di impedire che emergano responsabilità individuali. Quando emergono, perché la magistratura indica potenziali responsabili di illeciti, è comunque troppo tardi. Al contrario del partito strutturato per collettivo, il Partito di Renzi è identificato con il suo leader e mostra al mondo la dimensione personale. Ciò sembra convincere i cittadini che in questo caso, se non altro, vi è un responsabile individuale, visibile e senza coperture dietro dirigenze collettive. E del resto Renzi stesso ha reso assai popolare questa visione personale di responsabilità dichiarando spesso di “metterci la faccia”. “Ci metto la faccia”: questo un collettivo non può dirlo, sia esso una segreteria o un comitato centrale o un’assemblea nazionale. Solo il singolo può metterci la faccia, enunciare la sua responsabilità senza rete. È evidente che nelle azioni politiche la responsabilità non è mai un fatto semplice da imputare perché tante e complesse sono le condizioni che portano a una decisione, non ultima una larga discussione dentro e fuori del partito, condivisioni di idee e visioni che corresponsabilizzano molti o diversi. Il segretario del partito politico è in questo caso rappresentativo di un progetto, di una narrazione che unisce molti (e idealmente dovrebbe convincere tanti), non però un artefice dell’identità del partito in solitaria responsabilità. Ma anni di corruzione e malaffare ci hanno consegnato un’altra immagine della responsabilità: quella giudiziaria che è comunque del singolo, di colui che risponde direttamente alla legge. Ecco dunque la tensione tra due dominii di responsabilità: quello politico, mai solitario e mai semplice; quello giudiziario, sempre del singolo. Nel secondo caso “metterci la faccia” ha più senso che nel primo caso.
Si può dire quindi che il Partito di Renzi ha preso corpo a partire da una mentalità della responsabilità che è di tipo legale piuttosto che di tipo politico e che ha fatto breccia nell’opinione proprio per il troppo abuso della legge che ha segnato questi anni lunghi e infiniti di politica irresponsabile. È qui, in questa torsione personale (individuale) della responsabilità, in questa espansione della dimensione giuridica (e giudiziaria) che va cercata l’attrazione popolare del leader plebiscitario nell’Italia democratica post-partitica. Un’attrazione che si manifesta sia nel paese che nel Parlamento (dove il Partito di Renzi, non il Pd, fa da calamita che attrae consensi sbaragliando le opposizioni). Il Partito del leader è figlio di un’epoca che ha incenerito la responsabilità politica, la quale in una democrazia è collettiva e complessa, raramente di un leader solo al comando. È figlio di una politica le cui storture hanno portato i responsabili nelle aule di tribunale, un luogo dove ciascuno è costretto a metterci la faccia. Il problema è che questa non è la responsabilità sulla quale il partito politico può rinascere come progetto, compagine collettiva unita da una visione di paese e non solo dal magnetismo del cavallo vincente.

La Stampa 27.6.14
Non si fanno più figli,
nascite ai minimi storici
Nel 2013 solo 514mila nuovi nati. L’80% da italiane. Il numero
medio di figli per donna scende da 1,42 nel 2012 a 1,39
qui
http://www.lastampa.it/2014/06/26/societa/non-si-fanno-pi-figli-nascite-ai-minimi-storici-HPdR6zKUQcfVdYZhxF5KGK/pagina.html

Repubblica 27.6.14
Quei medici volontari della pillola del giorno dopo “Così evitiamo gli aborti”
Una task force in tutta Italia è disponibile ogni giorno “È un contraccettivo legale, ma molti si rifiutano di prescriverlo”
di Maria Novella De Luca

«PERCHÉ lo facciamo? Perché altrimenti tutti questi “errori” diventeranno aborti, e spesso di ragazze giovanissime. E io non voglio più vedere quindicenni spaventate che vengono in ospedale per interrompere una gravidanza». Lisa Canitano, ginecologa, una vita “di frontiera” tra consultori, ambulatori e reparti della legge 194, dice con amarezza che oggi è più difficile che mai: «Avere la ricetta della pillola del giorno dopo è diventato un vero e proprio calvario». Anzi il paradosso tutto italiano di un farmaco legale che nessuno vuole prescrivere. Una silenziosa e nascosta obiezione di coscienza. Illegale però. E così per averlo le donne e soprattutto le ragazze, devono tortuosamente cercare vie alternative. Racconta Caterina, 16 anni, di Catania: «Ci è successo di notte, si è rotto il preservativo, era sabato sera. Con il mio ragazzo abbiamo vagato come fantasmi per ore. Nessuno voleva farci la ricetta. Ci trattavano come delinquenti...». Il telefono della dottoressa Canitano, presidente dell’associazione “Vita di donna” squilla in continuazione: «Ciao, come possiamo aiutarti?». «I farmacisti la negano, i consultori chiudono alle due del pomeriggio, i pronto soccorso sono ostili. E più passano le ore più aumenta - spiega Canitano - il rischio di avere una gravidanza indesiderata. Così chiamano noi... ». Dove “noi” vuol dire una rete di quasi cento medici (ginecologi e non solo) che resiste al boicottaggio nascosto contro il Levonorgestrel, nome del principio attivo di quella pillola che presa subito dopo un rapporto a rischio, impedisce di restare incinte. Una rete di volontari che in tutta Italia si rende disponibile e reperibile ogni giorno fino alle sette di sera e il sabato fino a mezzanotte. Eppure quattro mesi fa l’Aifa, cioè l’agenzia italiana del farmaco ha definito con chiarezza la pillola del giorno dopo un “contraccettivo” e non un “abortivo”, rispetto al quale dunque non è lecito alcun tipo di obiezione.
Accade invece, al pronto soccorso del reparto di ginecologia di un grande Policlinico romano, che tutti i medici di turno siano obiettori. Paola ha il cuore in gola: sono già passate dodici ore dal suo incidente... E così, dice Lisa Canitano «senza farsi vedere un’infermiera scarabocchia il nostro numero dell’associazione Vita di donna su un foglietto, e Paola ci trova, corre da noi, e ce la fa». Oppure ci sono i ragazzini, quindici, sedici anni, che magari non hanno un soldo in tasca. «Ci rintracciano su Internet, arrivano con il motorino, spaventati e smarriti, per comprare il farmaco fanno la colletta tra gli amici».
Quasi un gioco dell’assurdo. Perché parliamo di un medicinale perfettamente legale, che previene una tragedia assai più grande e cioè l’aborto. Ma le testimonianze svelano invece un paese oscuro, dove escluse alcune aree felici (Emilia, Toscana, Piemonte) “l’errore” durante il rapporto sessuale, ma soprattutto il non accettarne le conseguenze, viene ancora colpevolizzato. Marina ha 25 e vive a Bari, dove al Policlinico, rivela Canitano, «per avere la prescrizione alle donne viene incredibilmente imposta la visita ginecologica, e il pagamento di un ticket da 80 euro».
Ricorda Marina: «Sono sposata da un anno, ma mio marito ed io siamo ancora così precari che avere oggi un figlio sarebbe una pazzia. L’incidente è avvenuto a marzo: di notte si è rotto il profilattico. Era così tardi che sono andata al consultorio soltanto la mattina dopo. La dottoressa di turno mi ha fatto entrare e sedere, poi quando ha saputo perché ero lì, mi ha fatto uscire dalla stanza dicendomi brutalmente che le pazienti in gravidanza, quelle che davvero volevano un figlio, avevano la precedenza...». Marina viene ricevuta dopo quattro ore, quando finalmente le viene prescritto il Norlevo. «Attenta, si sentirà malissimo», conclude lugubre la ginecologa del consultorio.
Certo, il ricorso sempre maggiore alla “contraccezione d’urgenza”, con un aumento del 60% di confezioni vendute in pochi anni, è la prova indiretta di quanto invece le coppie e i giovani siano inesperti della contraccezione preventiva. Anche se gli ultimi dati dell’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, dicono con chiarezza che il 65% delle donne che si ritrova a dover utilizzare la pillola del giorno dopo, in seguito pianifica meglio la propria vita sessuale. «Il nostro numero di telefono - aggiunge Lisa Canitano - ormai è scritto sulle porte dei consultori, sui vetri dei reparti di maternità, siamo costretti a sostituirci allo Stato semplicemente per aiutare le donne a non abortire. Ed è assurdo che medici e farmacisti che si dichiarano obiettori di coscienza, di fatto spingano proprio verso quella scelta».
Anna ha diciassette anni e la sua testimonianza la scrive su Facebook. «Abito a Imola e sono stata fortunata, all’inizio. Al consultorio mi hanno fatto subito la ricetta e nessuno ha minacciato di chiamare i miei genitori. È andata peggio in farmacia: quando hanno letto la prescrizione mi hanno guardata bene in faccia e mi hanno chiesto i documenti. Minorenne, niente da fare. Per fortuna alla farmacia dopo non cui sono stati problemi. Ma continuo a chiedermi: ci sono forse dei limiti d’età se si vuole evitare un aborto?».

La Stampa 27.6.14
La Libia brucia per la spartizione del greggio
E anche l’Italia rischia di ustionarsi
di Mimmo Càndito

Sì, la Libia brucia. Per un Paese che appena ieri ha tenuto elezioni politiche, sembra insensato. Ma poi conti i voti, e nei seggi è andato appena un decimo dei 6 milioni di libici. Gli iscritti erano poco più d’un milione e mezzo, hanno votato in 600 mila; e comunque i 200 eletti rappresentano solo se stessi, perché – nell’illusione di impedire blocchi di potere – non erano state ammesse liste di partiti.
Brucia, certo. Nelle sceneggiate che accompagnano questi «ritorni alla democrazia», il rappresentante dell’Onu, Tarek Mitri, è perfino andato a congratularsi in una delle sezioni di voto. A Tripoli, naturalmente. Perché a Derna non si è votato, e nemmeno a Sebha. Troppo pericoloso; e lo stesso, in mille altri seggi di villaggi e piccole città (specialmente in Cirenaica e nel Fezzan, dove gli islamisti prima ti sparano e poi ti dicono che non devi votare). Ma lui si è congratulato, e intanto a Bengasi ammazzavano l’avvocatessa Salwa Abugaigis, leader della lotta per i diritti civili.
Viva la democrazia, certo. E però, come può non bruciare un posto dove la legge la dettano 1700 bande di miliziani l’un contro l’altro armati, e lo Stato è solo qualche palazzo istituzionale che ogni tanto viene preso d’assalto da una delle bande insoddisfatte della spartizione del denaro pubblico. Già, perché la gran parte di queste formazioni militari che hanno dato una mano a Francia e Inghilterra (e Usa) per detronizzare Gheddafi viene pagata dallo «Stato» per, diciamo, mantenere l’ordine.
Lo «Stato». Finora, la Libia bruciava dentro. Decine di morti ogni settimana negli scontri per strada, fucilate contro gli avversari, qualche lancio di granate anticarro, e comunque la vita continuava nel suo impossibile equilibrio. Ma ora questo fuoco comincia ad ardere di brutto, e la puzza e il fumo si allargano oltre i confini. Aveva cominciato la «battaglia del petrolio», con pozzi e raffinerie prese d’assalto: da 1 milione 700 mila barili al giorno, la produzione era precipitata a poco più di 130 mila, e quella che appariva una guerra per bande era poi, in realtà, il primo serio segno dell’attacco lanciato all’unità della Libia. Gran parte dei bacini di idrocarburi sono a Est, in Cirenaica; e la Cirenaica si sente derubata dal centralismo di Tripoli. Vuole autonomia, chissà anche indipendenza (ha già nominato un suo primo ministro «locale»), e poi è la regione dove sono acquartierati gli islamisti: Derna ne è la capitale, Bengasi una dépendance, e quella che era una delle primavere arabe si sta contaminando, anch’essa, in una guerra dove logiche tribali e tentazioni fondamentaliste si allargano a coprire il vuoto istituzionale del potere.
Autonomia, dunque, per una «più equa spartizione» dei petrodollari. Però, poi, la Cirenaica confina con l’Egitto, e il suo petrolio libico fa gola al nuovo Faraone del Cairo, al-Sisi; il quale nell’Operazione Dignità che un generale in pensione, Khalifa Haftar, sta conducendo a suon di cannonate contro gli islamisti a Bengasi (ma fino a Tripoli) vede un’ottima occasione per mettere un semaforo egiziano sui pozzi nominalmente libici, oltre che ottenere la pulizia della frontiera da qualsiasi rimasuglio di Fratellanza Musulmana.
Nel ri-disegno di una Mezzaluna che si sfalda dal Maghreb fino al Golfo, la nuova geostrategia regionale intreccia una lotta per l’egemonia che ormai non ha più frontiere. Haftar ha con sé l’Egitto e la Brigata Zintan (che sono 23 milizie dure come la pietra), contro gli stanno gli islamisti di Ansar al-Sharia e la Brigata Misurata (duri anch’essi come pietre, con 200 milizie, 40 mila uomini, e 800 carri armati rubati a Gheddafi).
Potrebbe essere un’altra faccia delle guerre di religione che si combattono nel vicino Oriente, ora che Gheddafi non li tiene più a bada. Ma noi prendiamo dalla Libia il 23% dei nostri idrocarburi, e abbiamo a mal galleggiare in acqua centinaia di migliaia di migranti che partono dalle coste libiche. Se la Libia brucia, rischiamo di ustionarci di brutto.

Corriere 27.6.14
La Ue boicotta le colonie israeliane Anche l’Italia invita a non investire più nei territori occupati
di Davide Frattini corrispondente Gerusalemme

GERUSALEMME - Con lo stop ai colloqui di pace sembra diventare concreta quella che Thomas Friedman sul New York Times ha definito una «terza intifada». Europea. E’ stata delineata con il documento pubblicato un anno fa dall’Unione che indica le linee guida da seguire nei rapporti con Israele e fissa le regole per prestiti o finanziamenti da parte della Commissione. Prescrive che ogni intesa venga accompagnata da una clausola: quei soldi non possono finire a università, società, istituzioni al di là della Linea Verde, «perché - precisa - gli insediamenti in Cisgiordania o a Gerusalemme Est non fanno parte dello Stato d’Israele».
Adesso la sfida diventa pressante. I Paesi più importanti sono pronti a pubblicare avvisi simili per gli imprenditori. La Francia lo ha ufficializzato in questi giorni, Germania e Gran Bretagna lo avevano fatto nei mesi scorsi. Anche l’Italia e la Spagna sono pronte. «E’ l’implementazione tecnica di una decisione politica presa in precedenza», dice Federica Mogherini, ministro degli Esteri italiano, all’Ansa. Le indicazioni alle società e imprese europee erano state congelate per non interferire con i negoziati tra israeliani e palestinesi coordinati da John Kerry, il segretario di Stato americano.
A trattative bloccate, arrivano le regole, anche se non vincolanti. Quelli diffusi dal ministero degli Esteri francese - scrive il quotidiano Haaretz - sono avvertimenti: invitano i propri cittadini a non impegnarsi in «attività finanziarie o investimenti» nelle colonie nei territori occupati. Il punto è informare qualunque operatore economico - spiega Mogherini - dei potenziali rischi «a causa delle natura giuridica indefinita»: il rischio può essere perdere i soldi o affrontare contenziosi sui titoli di proprietà.
Il governo di Benjamin Netanyahu ha reagito chiedendo ai suoi ambasciatori di intervenire nelle nazioni più esitanti. I diplomatici hanno il compito di far notare come l’iniziativa coincida con il rapimento dei tre ragazzi in Cisgiordania: ieri sono stati diffusi i nomi dei due palestinesi sospettati del sequestro e i loro legami con il movimento fondamentalista Hamas.
Yair Lapid, ministro delle Finanze e tra i moderati nel governo di destra, ripete da mesi che il boicottaggio europeo danneggerebbe l’economia israeliana con perdita di posti di lavoro. All’inizio di quest’anno la Pggm (un fondo pensione olandese) ha liquidato le partecipazioni in cinque banche locali per il «loro coinvolgimento nel finanziamento degli insediamenti». La stessa decisione è stata presa dal Fondo petrolifero della Norvegia (valore 810 miliardi di dollari, gestito dalla Banca centrale) che ha escluso due società perché coinvolte in costruzioni nelle colonie.
In Italia i grillini hanno criticato l’accordo tra la romana Acea e l’israeliana Mekorot, la principale azienda idrica del Paese e la quinta al mondo. Prima in consiglio a Roma (il comune controlla il 51 per cento del gruppo) e verso la metà di gennaio alla Camera. «A seguito delle politiche israeliane di gestione dell’acqua - accusa l’interrogazione parlamentare - i palestinesi che vivono in Cisgiordania possono disporre di meno di 60 litri al giorno (rispetto ai 100 litri minimi secondo gli standard internazionali), mentre i coloni dispongono di almeno 300; la Mekorot è attivamente impegnata nel mantenimento dell’occupazione».

La Stampa 27.6.14
L’Italia alza il tiro contro Israele
“Stop agli affari nelle colonie”
Mogherini: entrerà in vigore la decisione presa dalla Ue nel 2012

Con un formale «avvertimento» l’Italia suggerisce ai connazionali di «non impegnarsi in attività finanziarie e investimenti» negli insediamenti israeliani in Cisgiordania compiendo un passo «in sintonia con altri Paesi europei» a cominciare dalla Francia. A farlo sapere è il ministro degli Esteri, Federica Mogherini, parlando di «implementazione tecnica di una scelta politica fatta in precedenza» in occasione del Consiglio Europeo del dicembre 2012.
Allora la misura sanzionatoria nei confronti degli insediamenti dove risiedono 350 mila israeliani venne «decisa ma non comunicata» sottolinea la Mogherini, spiegando che il rinvio de facto si dovette ai «colloqui di pace che John Kerry aveva intrapreso e nei quali non si voleva interferire». Vi è stata dunque una sospensione che ora lascia il posto a una «comunicazione» che, aggiunge la Mogherini, verrà fatta «nelle prossime ore» seguendo l’esempio di Parigi e in coincidenza con analoghe decisioni da parte di altre capitali dell’Ue. Il Quai d’Orsay ha parlato di «atto dovuto» in considerazione del fatto che «le costruzioni in Cisgiordania, Gerusalemme Est e Golan sono illegali trattandosi di territori occupati».
Germania, Gran Bretagna e Spagna - secondo fonti francesi - sono in procinto di adottare passi analoghi. In concreto ciò significa che un gruppo di Paesi Ue suggerisce agli investitori di evitare di sostenere progetti per lo sviluppo degli insediamenti, confermando la posizione Ue che li ritiene un «ostacolo» ai negoziati di pace fra Israele e palestinesi. Era stato proprio il Segretario di Stato americano, al termine dell’infruttuosa maratona negoziale, a far sapere a Gerusalemme che il fallimento dei colloqui avrebbe comportato «conseguenze economiche negative».
L’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen da tempo premeva su Bruxelles affinché l’intesa del 2012 portasse a conseguenze concrete ai danni di Israele. Resta da vedere quali saranno le ripercussioni di questo passo nei rapporti fra Israele e Ue alla luce del fatto che il premier Benjamin Netanyahu ha più volte sottolineato il ritardo europeo nella condanna del rapimento dei tre ragazzi ebrei in Cisgiordania. La Mogherini è attesa a luglio in Israele e nei Territori palestinesi per una visita che potrebbe svolgersi nel segno del rinnovato impegno Ue contro gli insediamenti ebraici in Cisgiordania.[m.mo. ]

Corriere 27.6.14
Libia: il martirio di Salwa, l’avvocata delle donne
di Lorenzo Cremonesi


Era appena tornata a Bengasi per il voto Accoltellata dagli estremisti islamici Cosa poteva fare Salwa contro i suoi assassini? Cosa poteva fare una donna di 47 anni, forte solo delle sue idee, delle sue convinzioni, del suo coraggio morale, contro quattro o cinque giovani uomini armati di coltelli e pistole, ciechi di fanatismo religioso, decisi ad ucciderla? Dall’ospedale di Bengasi i bollettini medici parlano di un’aggressione brutale, senza scampo. Sembra sia stata accoltellata più volte. Ma la ferita letale è stata un proiettile alla testa. Alla camera operatoria è giunta in coma, per spirare subito dopo. Pare che una guardia del corpo sia stata ferita. Invece non si sa nulla del marito, Essam Ghariam: rapito, fuggito o nascosto? A casa non c’è.
Così è morta mercoledì pomeriggio 25 giugno Salwa Bugaighis, solo poche ore dopo aver votato sorridente per il rinnovo del parlamento. E con lei è morta un poco di più anche la speranza di una rivoluzione democratica frutto della «primavera araba», si è ulteriormente afflosciato l’ottimismo di una Libia libera finalmente dai fantasmi del dopo Gheddafi ed emancipata dalla minaccia qaedista. La morte di Salwa è in realtà l’ennesimo grido di dolore che arriva dalla parte migliore, più aperta del mondo arabo. Una richiesta di aiuto e allo stesso tempo un urlo di disperazione. «Guardavamo a voi occidentali. Speravamo di poter diventare come voi. Avere il vostro benessere, i vostri media, la vostra democrazia, la vostra libertà di viaggiare, pensare e vivere. Ma ci stanno uccidendo. Lentamente stiamo morendo»: questo gridano le avanguardie di intellettuali, professionisti, studenti che solo tre anni fa erano pronti a morire in piazza pur di rovesciare le dittature. E Salwa, l’avvocatessa Bugaighis, era una di loro, a pieno titolo. La sua figura troneggia nelle memorie delle giornate concitate della sommossa contro Gheddafi a Bengasi nel febbraio-marzo 2011. Lei con la sorella Iman, docente universitaria appena poco più anziana, sono figlie d’arte. Il padre era stato cacciato in esilio tre decadi fa per la sua critica alla dittatura. Soprattutto Salwa fu parte trainante di quel piccolo gruppo di avvocati e intellettuali legati alla facoltà di legge nella capitale della Cirenaica che nei primi mesi cercò di organizzare e guidare la rivoluzione. «Magari moriremo. E allora? La storia non morirà. E la storia sta con noi. Noi siamo nel giusto», diceva lei convintissima. C’era sempre, a ogni riunione, alle manifestazioni, alle commissioni, a cercare di dare risposte per noi giornalisti stranieri. Bella, alta, il vestito e i capelli sempre curati, il sorriso determinato. Insisteva nel dire che le donne non avevano alcun obbligo di mettere il velo, neppure di fronte al montare dei bigotti islamici.
Venne subito eletta nel Consiglio Nazionale Transitorio. E lei si impegnò immediatamente nel garantire i diritti delle donne, dei più deboli. Meno di tre mesi dopo la sua elezione nel primo parlamento si dimise sostenendo che le donne dovevano avere più voce. Già sentiva che specie dalla Cirenaica gli islamici radicali stavano diventando una minaccia. Ultimamente ne parlava di continuo nel suo nuovo ruolo di vice-presidente del Comitato per il Dialogo Nazionale. Ma era diventata anche più fatalista, consapevole dei pericoli, eppure sprezzante. «Non hai paura di tornare a Bengasi per le elezioni?», le abbiamo chiesto incontrandola due settimane fa nella hall dell’hotel Al Waddan a Tripoli. «Non posso tirarmi indietro. Bengasi è la nostra trincea. Devo esserci». Ora non parlerà più. La sua scomparsa ricorda il senso di disarmante impotenza di cui scrisse pagine memorabili Stefan Zweig, prima di morire suicida nel 1942 di fronte al deserto del nazismo. Salwa: ovvero la forza del coraggio civile, dell’intelligenza critica, tanto preziosa, eppure tanto vulnerabile di fronte alla brutalità dell’intolleranza.

Repubblica 27.6.14
La drammatica richiesta d’aiuto in mandarino ritrovata in un paio di calzoni venduto nella catena Primark di Belfast
Un Sos cucito nei pantaloni “Siamo schiavi cinesi, salvateci”
di Enrico Franceschini corrispondente Londra


INAUFRAGHI affidano le richieste di soccorso a una bottiglia. Uno schiavo o una schiava cinese ha infilato il suo messaggio nella tasca di un pantalone. Le probabilità che arrivasse in mano a qualcuno erano più o meno le stesse di quelle di un uomo abbandonato su un’isola in mezzo all’oceano. Eppure alla fine il messaggio è giunto a destinazione, dopo un viaggio intorno al mondo conclusosi nell’armadio di una casa vicino a Belfast, in Irlanda del Nord.
Karen Wisinska aveva acquistato un paio di calzoni sportivi stile cargo da Primark, una catena di grandi magazzini a basso prezzo, nel capoluogo dell’Ulster tre anni fa, ma non li aveva mai indossati perché la chiusura lampo era difettosa. La settimana scorsa, preparando la valigia per una vacanza, li ha tirati fuori dal guardaroba e ha notato che una tasca era rigonfia, come se ci fosse dentro qualcosa. Ha slacciato un bottone, ci ha messo la mano dentro e ha estratto un biglietto accuratamente ripiegato. Era un cartoncino scritto in caratteri cinesi, per cui non poteva comprenderne il significato, ma in cima c’erano, in alfabeto latino, tre parole che chiunque conosce, in tutte le lingue: «SOS», seguita da un punto esclamativo. Il segnale internazionale di richiesta di aiuto.
Non ancora completamente convinta, ha fotografato il biglietto, lo ha messo sulla propria pagina di Facebook e chiesto agli amici se qualcuno era in grado di decifrarlo. Quando ha ricevuto una prima bozza di traduzione è rimasta scioccata: «Era stato scritto da qualcuno che evidentemente lavorava in condizioni di schiavitù in una prigione cinese».
A quel punto si è rivolta ad Amnesty International e la sua impressione è stata confermata: il messaggio sembra provenire dal Gulag di Pechino, dove apparentemente i detenuti sono costretti a lavorare in condizioni disumane per produrre ara ticoli da vendere poi alle grandi aziende occidentali. Il prigioniero o la prigioniera cinese avrebbe confezionato personalmente i pantaloni per la Primark, rischiando la vita per nasconderci dentro il suo Sos. «Siamo detenuti nella prigione Xiangnan di Hubei, in Cina», afferma il biglietto. «Da molto tempo lavoriamo in carcere per produrre abbigliamento per l’esportazione. Ci fanno fare turni di 15 ore al giorno. Quello che ci danno da mangiare è perfino peggio di quello che si darebbe un cane o a un maiale. Siamo tenuti ai lavori forzati come animali, usati come buoi o cavalli. Chiediamo alla comunità internazionale di condannare la Cina per questo trattamento disumano ». Commenta Patrick Corrigan, direttore di Amnesty in Irlanda del Nord: «È una storia orribile. Naturalmente sarà molto difficile appurare se è genuina, ma abbiamo il timore che sia solo la punta di un iceberg». La Primark ha aperto immediatamente un’inchiesta. «Tre quarti dei pantaloni di quel tipo sono stati acquistati da noi all’inizio del 2009», dice un portavoce dei grandi magazzini alla Bbc.
«Troviamo un po’ strano che il biglietto sia venuto alla luce solo ora, quando i pantaloni sono stati comprati nel 2001. Contatteremo la cliente per farci dare l’indumento e per proseguire le indagini. Dal 2009 ad oggi la Primark ha condotto nove ispezioni dei nostri fornitori per verificare il rispetto degli standard etici in Cina e altrove, e nessun caso di lavori forzati, lavori in prigione o altre violazioni è mai stato riscontrato ». Si tratta tuttavia della stessa azienda coinvolta, insieme ad altre marche d’abbigliamento occidentali, nel crollo di uno stabilimento in Bangladesh in cui morirono più di 1100 persone: criticata per non avere denunciato le insufficienti condizioni di sicurezza dello stabile, la Primark ha finora pagato 12 milioni di dollari (8 milioni di euro) di indennizzo ai familiari delle vittime e sostiene di avere moltiplicato le ispezioni dei suoi fornitori.
Non è la prima volta che un capo d’abbigliamento della Primark viene ritrovato un biglietto con richieste di soccorso da parte di presunti schiavi dell’industria del fashion in Cina o in altri paesi in via di sviluppo. Il boom del settore tessile nel Terzo Mondo è uno dei motori della globalizzazione e sta portando milioni di famiglie fuori dalla povertà. Ma l’altra faccia della crescita è lo sfruttamento. E talvolta per denunciarlo non c’è altro mezzo che un messaggio in una tasca di pantaloni.

Repubblica 27.6.14
Con l’ascesa al potere della destra nazionalista, nel Paese si è riaperto il dibattito sulla contrapposizione tra “valori asiatici” e “occidentali”. Secondo la scrittrice Nilanjana Roy è però solo un pretesto per minacciare i diritti civili
Il cuore nero dell’ India
di Nilanjana S. Roy


NEW DELHI. DI TUTTE le schede utilizzate nelle scuole indiane come sussidio didattico quella del Bambino ideale è stata l’incubo della mia generazione. Il Bambino Ideale si alzava e si lavava i denti con cura, salutava i genitori, diceva la preghiera, arrivava a tavola puntuale, aiutava, faceva le commissioni e, cosa che lasciava più perplessi, accompagnava «i bambini smarriti al posto di polizia».
Il Bambino Ideale incarnava determinati valori indiani e, nonostante l’aria innocua, nei suoi lineamenti abbozzati, identificabili con il classico aspetto degli indù e degli indiani del nord, e nella sua espressione di compiaciuta santità c’era qualcosa che terrorizzava la mia mente infantile. Ora che sono adulta e che in India la destra è tornata al potere capisco il perché di quel senso di nausea. Era un presentimento, la sensazione che si potesse fare appello a valori indiani tradizionali, altrimenti indiscutibili, come il rispetto per la propria famiglia, l’obbedienza agli anziani, la modestia femminile, al fine di emarginare o reprimere determinati gruppi.
Il nuovo governo del Bharatiya Janata Party pare deciso a ispirarsi all’Asia sotto il profilo politico e culturale. Il primo ministro Narendra Modi si propone come figura autorevole - addirittura autoritaria - in linea con l’ideale regionale dell’uomo forte. Ha sempre curato i contatti con le sue controparti. Ha in calendario visite ufficiali in Bhutan e in Giappone e il ministro degli Esteri cinese ha appena concluso il suo viaggio in India.
L’approccio di Modi non è frutto semplicemente di una scelta personale, ma specchio di un più ampio mutamento in corso in India, soprattutto tra i politici e gli intellettuali di destra, alla ricerca di un insieme di norme culturali asiatiche condivise che possano aiutarli a creare e rafforzare un nuovo senso di identità indiana.
Negli Anni ‘90 l’ex primo ministro di Singapore, Lee Kuan Yew, scatenò un aspro dibattito ponendo un distinguo tra libertà occidentali da un lato e, dall’altro, la visione asiatica dell’armonia dell’esistenza, in cui i diritti individuali possono essere sospesi per il bene comune. In India, il dibattito sui ‘valori asiatici’ portò tra l’altro a discutere sullo sviluppo e a tentativi di screditare gli ambientalisti, accusati di farsi troppo influenzare dall’Occidente.
Le problematiche sono le stesse ora come allora. L’economista Amartya Sen nel 1997 si chiedeva: «Quali possono essere considerati i valori di una regione così estesa e così eterogenea? ». Appellarsi all’identità indiana o asiatica in un paese o in una regione così plurale spesso diventa un pretesto per la maggioranza per tacitare molte minoranze.
Sen si chiedeva anche perché mai i “concetti occidentali” dovessero essere considerati per principio «in qualche modo estranei all’Asia». Qualche settimana fa i media indiani hanno divulgato un rapporto dell’intelligence sull’influsso esercitato dalle ong. Tra l’altro il rapporto conclude che molte ong locali, alcune finanziate da «donatori con sede negli Usa, Regno Unito, Germania, Olanda e paesi scandinavi», avevano utilizzato «argomenti incentrati sulle persone» per bloccare i progetti di sviluppo. Il rapporto sostiene inoltre che l’operato delle ong è in parte «funzionale agli interessi strategici di politica estera» dei governi occidentali.
Questo linguaggio rigido e burocratico non è solo una peculiarità dell’intelligence, ma rivelatore di un atteggiamento di sospetto nei confronti dell’Occidente e della cultura dei diritti umani come opera occidentale, atteggiamento diffuso in India tra politici e imprenditori e, a dire il vero, tra molta gente comune.
Tutti i grandi casi di stupro ad esempio hanno recente- mente scatenato una reazione bellicosa nei confronti delle vittime, spesso espressa in termini che pongono l’India in opposizione all’Occidente. Il 7 giugno S. Gurumurthy, uno dei massimi ideologi dell’organizzazione di estrema destra Rashtriya Swayamsevak Sangh, ha sollevato un piccolo vespaio con un tweet: «Se le donne indiane si occidentalizzeranno gli stupri aumenteranno di 50/60 volte, portandosi ai livelli occidentali, ma la stampa tacerà e non ci sarà alcun intervento delle Nazioni Unite». Nei successivi tweet ha spiegato cosa intende per occidentalizzazione: «Individualismo sfrenato che distrugge i rapporti e le famiglie».
Oggi si tira in ballo l’influenza nefasta dell’Occidente non solo per motivare la violenza sessuale sulle donne, ma anche per spiegare perché la cultura indiana è in pericolo, perché bisognerebbe censurare gli artisti e perché chi mette in discussione i costi dello sviluppo è “contro la nazione”. In altri termini il dibattito sui valori riapertosi in India è già diventato un pretesto per attaccare i diritti civili e politici.
A suo tempo Sen aveva sostenuto che «i cosiddetti valori asiatici a cui si fa appello per giustificare l’autoritarismo non sono prettamente asiatici in alcun senso significativo». Il suo fu un saggio tentativo di superare inguaribili dicotomie. Ma faceva appello alla razionalità e ultimamente la razionalità è un valore che non sembra troppo indiano.
(The New York Times. Traduzione di Emilia Benghi)

Repubblica 27.6.14
L’intervista/Anita Nair
“Le violenze giustificate con la tradizione”
di Valeria Fraschetti


«HANNO paura, gli uomini indiani. Temono che l’emancipazione femminile possa significare la perdita della loro supremazia. E ogni forma di violenza verso una donna che aspiri a essere qualcosa di più di una brava moglie o figlia finisce per essere giustificata con il pretestuoso richiamo della tradizione». Anita Nair ci parla dalla sua casa materna nel Kerala, quello stesso Stato dell’India meridionale verso cui è diretto il treno su cui viaggiano le sei protagoniste del suo romanzo più noto, Cuccette per signora.
Tra loro, ci sono personaggi come Marikolanthu, segnata per sempre da uno stupro, o Akhila che, come single a 45 anni, fatica a sentirsi a suo agio in un Paese dove vige la regola dei matrimoni combinati. Personaggi che sembrano ispirati alle drammatiche cronache locali.
Signora Nair, questa settimana un uomo a Delhi ha ucciso la figlia di tre anni perché avrebbe preferito al suo posto un maschio.
Com’è possibile che un Paese che ha avuto un premier donna, Indira Gandhi, già negli Anni ‘60, che ha manager in sari nelle multinazionali, sia anche uno dei più pericolosi al mondo per le donne?
«È vero, abbiamo donne ai vertici in politica e nell’industria. Ma quante sono? Una parte infinitesimale della società. Per il resto l’India è un Paese dove l’istruzione femminile è al 65% mentre quella maschile all’80. La maggior parte degli indiani ritiene ancora che investire nell’educazione di una bambina sia un investimento a fondo perduto e pericoloso».
Istruire le donne è rischioso?
«Una donna istruita è una minaccia allo status quo , al predominio maschile nella società. Ma soprattutto una donna è vista come un fardello economico, a causa della dote che suo padre sarà costretto a pagare per darla in sposa. Un regalo nuziale esoso, per il quale ci si indebita fino al collo. Perché finanziarle anche gli studi? Tanto meglio avere figli maschi, investire nella loro educazione, così un giorno avranno un buon lavoro e garantiranno una pensione ai genitori. Così ragionano in tanti, così la pensava probabilmente il signore che ha ucciso la sua bimba giorni fa».
La dote è bandita da una legge dal 1961. Perché il governo non la fa rispettare, se questo costume mette a repentaglio persino la vita delle bambine?
«Corruzione e mancanza di volontà dei funzionari pubblici, che hanno la stessa mentalità patriarcale delle persone che dovrebbero punire».
Intanto le donne non si ribellano abbastanza, però.
«Se denunciassero il futuro sposo che chiede loro una dote, nessun altro poi vorrebbe sposarle. Ed essere single in India è una macchia per l’onore della famiglia. Accade persino in Kerala, dove il tasso di alfabetizzazione è tra i più alti dell’India. La figlia della nostra domestica, per esempio, ha ricevuto una proposta di matrimonio da un ragazzo con cui non ha mai scambiato una parola, ma che le ha chiesto in dote 10mila rupie in contanti e 200mila in oro».
E la ragazza accetterà?
«Immagino di sì. Purtroppo le donne finiscono per essere complici dei soprusi che subiscono. Fin dalla loro infanzia si sentono dire che il loro ruolo nella società è diventare mogli devote, che l’uomo va rispettato sempre e comunque perché è un essere superiore. Anche per questo le violenze sessuali resistono così diffusamente».
Com’è possibile conciliare valori simili con l’immagine di modernità che l’India vuole dare di sé?
«Qui il rispetto della tradizione è tiranno, e le brutalità commesse contro le donne vengono giustificate in nome della tradizione. E la destra nazionalista indù al potere è da sempre molto abile nel proporre interpretazioni distorte dei testi sacri che esaltano la sottomissione della donna».
Col risultato che molti indiani accusano l’occidentalizzazione della cultura indiana della diffusione degli stupri.
«Esatto. L’influenza dell’Occidente è un formidabile capro espiatorio. Fa presa sugli indiani delle classi medie e basse, che si sentono minacciati dall’emancipazione femminile».
Da anni si discute della possibilità di riservare il 33% dei seggi in Parlamento alle donne.
Aiuterebbe?
«Assolutamente, sì. Già a livello locale esistono le quote rosa, e le donne elette hanno dimostrato di essere in grado di migliorare i servizi più utili alla comunità femminile».
Cosa consiglierebbe inoltre al governo Modi per rendere l’India un Paese per donne?
«Più istruzione e più welfare. Al momento le indiane non dispongono di alcun aiuto economico se decidono di abbandonare i propri mariti».
Modi proteggerà le donne come ha promesso?
«L’ intellighenzia non lo crede. Io posso solo sperare che le sette donne ministre abbiano un’influenza su di lui. Ma è solo una flebile speranza».

Repubblica 27.6.14
Ritornano le parole di Huizinga: un continente simile a una macchina guidata da un ubriaco
Così incominciò la notte dell’uomo che nessuna storia può raccontare
di Guido Ceronetti


MEDITABILE, circa l’inizio della Grande Guerra, un pensiero di Johan Huizinga in Lo scempio del mondo , che di quella che tuttora, tanto per definire, è detta Belle Époque, frantuma l’essenza: «... la povera Europa si avviava verso la prima guerra mondiale come un’automobile sgangherata in mano di un conducente ubriaco per una strada tutta buche e cunette ». Il conducente ubriaco erano i potenti di allora, i grandi coronati, e dietro di loro i predicanti intellettuali più influenti, Kaiser, Zar, D’Annunzio, Maurras, Marinetti... Ad un certo punto di quella strada tutta buche si trova un giovane bosniaco imbevuto di idee estremiste, Gavrilo Princip, che con due pistolettate contro l’arciduca erede della corona asburgica e la moglie, in visita di Stato a Sarajevo, mette a nudo senza affatto pensarci una inimmaginata degenerazione spirituale della civiltà e della figura umana.
Era cento anni fa, il 28 di giugno, e il Tempo, da allora, si è messo a correre correre, secoli sembrano passati - ma quella guerra è davvero finita? Per la storiografia materialista finisce l’8 maggio 1945; un filosofo fa bene a dubitarne. Anzi a negarlo. Come non è cominciata il 28 giugno 1914, la parola Fine non ce la metterei. L’automobile sgangherata non ha terminato la sua corsa, e al conducente ubriaco è subentrato uno senza volto, la corsa prosegue per tutte le strade del mondo.
Il disfacimento dell’impero danubiano non fu soltanto una decisione punitiva di Versailles perfettamente priva di saggezza: una brama di dissolvimento agiva nella Vienna drogata meravigliosamente dalla musica e dalla bellezza della Secession. Commuove percorrerne gli alfabeti, le supreme visioni erotiche: il grembo del baratro era là, e subito fin dalla dichiarazione di guerra alla Serbia, ingoiò tutto. L’Italia, un anno dopo, credette di far la guerra a un esercito agguerritissimo; in realtà quel che spietatamente lo reggeva non era più che un fantasma.
Già nel 1916, quando noi ci affannavamo per prendere Gorizia, ne fu consapevole l’imperatore Carlo; ma tutto, ormai, era perduto.
Non si indagano che fatti, fatti... Le analisi psicologiche trattano perlopiù del morale delle truppe, dei comportamenti al fronte, del ritorno a casa. La carneficina non riguarda soltanto i corpi materiali dei caduti. L’Europa perdette una quantità incalcolabile di sostanza virile. Uno psicanalista potrebbe vedere nella trincea una vagina con denti di tigre, che attira virilità per maciullarla. Il consumo spermatico nei sospirati bordelli militari è incalcolabilmente sorpassato dalla attenzione spossatrice del Nemico di fronte, di là dalla selva oscura di una Terra di Nessuno infestata da spiriti maligni, col dito sulle mitragliatrici. Quel che ne restava, poco più di venti anni dopo, viene liquidato in cinque anni. La successiva lunga pace, in cui Marte si nasconde dietro la maschera neutra dell’Economia, si caratterizza per la snervatezza dell’ homo pacificus e l’avanzata, su tutto il fronte dell’esistenza, del potere matriarcale. Un verso di Apollinaire, combattente in una batteria di artiglieri, è di una pregnanza infinita della realtà in ombra della guerra in cui il segno maschile è andato in pezzi, quinto (segreto) dei quattro grandi Imperi dissolti: Notte di uomini soltanto . È una notte di vigilia di un assalto e grida come una donna sopraparto, assorbendo nel lamento dei materiali da sparo anche la pena estrema della femminilità esclusa. Verso stupefacente, la verità profonda della guerra di Quattordici, che non è finita ieri né finirà domani.
Già. Il quinto Impero, che ha continuato a dissolversi negli anni. La notte degli uomini non avrà più fine, come quella guerra. Il più grande romanzo di un testimone, in lingua tedesca, All’Ovest niente di nuovo , capolavoro assoluto e inuguagliato, erutta di tutta la smisurata sofferenza di quelle nuit des hommes . In Remarque non c’è che questo, la sofferenza di sette liceali partiti volontari, di cui non sopravvivrà neppure l’Io narrante, caduto poco prima dell’armistizio. In Addio alle armi, di Hemingway, in un insopportabile lezzo di alcolici trincati dall’autore, le donne compaiono, amanti di retrovia, sussulti di giovinezza; ma è più che mai “notte di uomini soltanto” anche negli sfoghi erotici dei permessi. Un poilu di Barbusse in licenza a Parigi, vedendo tante donne sole in giro, osserva soddisfatto: «Bene, ci sono chiappe»: visto e sentito così l’essere umano da desiderare diventa equipaggiamento militare, materiale- chiappe, munizioni di carne.
Il miracolo della resistenza francese alle tremende offensive tedesche (Marna, Verdun), comandi discutibili, è un mistero spirituale, come Léon Bloy si esaltava a vederlo. Perché le classi lavoratrici in uniforme erano ancora quelle dell’ Assommoir, infradiciate d’alcool, più stregate dal vino (detto “il latte dell’operaio”) che da chiappe di bellezza. Nella canzone più popolare del fronte occidentale, la Madelon, il suo lavoro di donna emblematica dei combattenti, è esclusivamente di “versare da bere”. La salvezza da dove sarà mai venuta? Dai decreti del Fato, più forti di ogni Madonna? Dai litri e litri di “quello buono” di certo no. Eppure i formidabili corpi d’armata del Kaiser arretrarono.
Nel 1917, anno di tutti i presagi e le profezie, quarto da Sarajevo, i combattenti sono sfiniti, cedono, perdono disciplina, si ribellano; il vino, il ruhm, il cioccolato sono impotenti a rianimare delle povere brache piene, di dissenterici cronici per cibo via via più scarso e di scarto. Serpeggia la sensazione, specie nel campo inglese, che la guerra si trascinerà all’infinito, che i vecchi e i nuovi combattenti s’incontreranno tra vent’anni sulle medesime posizioni per obbedire da automi agli stessi ordini di un attacco over the top, in una desolazione lunare, mentre dall’est la propaganda bolscevica sussurrava per via subliminale e oratoria: «Mollate il fucile, mollate tutto, sparate sugli ufficiali, revolùtzia, revolùtzia...». No, se devo esprimere un mio succulento pensiero, la Grande Guerra non è finita. Ma per comprendere questo la pura storiografia dei fatti non serve che a rievocare e a fare racconto. Ai cimiteri di guerra sparsi in tutta Europa, in qualsiasi lingua siano scritti quei nomi, fate pellegrinaggi, portate fiori e fiori e fiori. E là, piangete per l’uomo.

Corriere 27.6.14
Sarajevo, il fanatismo dei ragazzi che spinsero l’Europa nell’abisso
Lo storico Smith: «Ma forse il conflitto sarebbe esploso lo stesso»
di Antonio Carioti


Erano sette i giovani appostati a Sarajevo cento anni fa, il 28 giugno 1914, per colpire l’erede al trono dell’Austria-Ungheria, arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo. Ma solo due entrarono in azione. Il primo, Nedeljko Cabrinovic, fallì il bersaglio con una bomba, ma meno di un’ora dopo il secondo, Gavrilo Princip, si trovò casualmente nelle condizioni migliori per sparare all’arciduca e alla moglie Sofia. Li uccise entrambi, avviando la reazione a catena che avrebbe fatto esplodere la Prima guerra mondiale.
Ma chi erano gli attentatori? Lo abbiamo chiesto allo studioso inglese David James Smith, autore del libro inchiesta Una mattina a Sarajevo , pubblicato in Italia dalla Libreria Editrice Goriziana (pagine 339, e 24). «Princip e Cabrinovic - risponde - erano giovani, appassionati estremisti serbo-bosniaci, che credevano in una nazione slava unita, quella che poi sarebbe sorta con il nome di Jugoslavia. In particolare Princip aveva origini molto umili e aveva dovuto dare in pegno il soprabito per partecipare al complotto. Entrambi condividevano il sentimento di oppressione comune a molti serbi bosniaci, assoggettati al dominio straniero fin dai tempi lontani dell’invasione turca. L’Austria-Ungheria aveva offeso i serbi annettendo la Bosnia nel 1908. E gli studenti come Princip e Cabrinovic, organizzati nel gruppo Giovane Bosnia, deprecavano la sottomissione della vecchia generazione serba e la passività del governo di Belgrado, che avevano accettato l’annessione. Invece i giovani in maggioranza provavano odio per l’Austria: l’assassinio politico fu la loro arma di vendetta».
I terroristi di Sarajevo, ricorda Smith, avevano un martire cui ispirarsi, Bogdan Zerajic: «Princip depose fiori sulla sua tomba alla vigilia dell’attentato. Zerajic aveva chiamato i serbi alle armi dicendo: “Dobbiamo liberarci o morire”. Nel 1910 aveva cercato di assassinare il governatore austriaco della Bosnia, generale Marijan Varesanin, con quattro colpi di pistola, andati tutti fuori bersaglio, prima di spararsi in testa. Del cranio di Zerajic si era impadronito il capo degli investigatori imperiali in Bosnia, Viktor Ivasjuk, che lo teneva sulla scrivania usandolo come calamaio».
Fatti del genere infiammavano ragazzi come Princip e Cabrinovic: «Erano ingenui e romantici: Gavrilo descriveva la Bosnia come “una lacrima negli occhi della Serbia”. Li considero degli idealisti, che non capivano le conseguenze delle loro azioni: nemmeno ventenni al momento dell’attentato, inesperti della vita, morirono in carcere senza mai aver fatto l’amore».
Per giunta, aggiunge Smith, la scelta dell’arciduca di visitare Sarajevo il 28 giugno aumentò la loro rabbia: «È difficile dire se Francesco Ferdinando si dimostrò ignorante o volle essere provocatorio. Da secoli i serbi celebravano quel giorno come una ricorrenza eroica e tragica, perché il 28 giugno 1389 il loro debole esercito era stato annientato dalle soverchianti forze turche nella battaglia di Kosovo Polje. Un poema epico racconta che uno dei capi serbi, Milos Obilic, aveva finto di tradire e di unirsi al nemico per penetrare nella tenda del sultano e tagliargli la gola, prima di essere sopraffatto e ucciso. La storia della Serbia è disseminata di martiri. Il 28 giugno, giorno di san Vito (Vidovdan per i serbi), è tuttora ricordato con fervore per la battaglia e il sacrificio di Obilic».
Tornando all’attentato, gli austriaci erano certi che la Serbia fosse coinvolta e le inviarono un ultimatum da cui derivò la guerra mondiale. Avevano ragione? «Sono fermamente convinto - dichiara Smith - che il governo di Belgrado non ebbe nel complotto alcun ruolo che possa essere provato e verificato. La Serbia era uno Stato debole e tutto preso dai suoi problemi territoriali, a parte quelli con l’Austria. Vi erano certamente nell’esercito elementi senza scrupoli, come il colonnello Dragutin Dimitrijevic (detto Apis), capo dell’organizzazione segreta Mano nera, che fornirono le armi e un modesto appoggio agli aspiranti omicidi. Ma non credo che agissero con il sostegno del governo: erano piuttosto ferventi nazionalisti, che vedevano nel terrorismo un’arma legittima contro una potenza occupante».
Poi venne la guerra, che Princip negò sempre di aver causato: senza l’attentato, affermò, austriaci e tedeschi avrebbero trovato un altro pretesto. «Il suo compagno Trifko Grabež riferì che Gavrilo gli aveva detto: dopo di me, il diluvio. Come se avesse capito che la loro azione avrebbe scosso il mondo. È possibile? Mi sono spesso domandato se gli attentatori avessero capito che cosa stavano facendo e ho concluso che non vedevano oltre i confini del loro mondo, della Serbia e della nazione slava a guida serba che sognavano di creare. Semmai anch’essi erano influenzati dal clima dell’epoca, in cui si avvertiva che il vecchio ordine imperiale stava crollando e incombevano grandi cambiamenti. Comunque è difficile scacciare la sensazione che la guerra fosse inevitabile per via delle mire espansioniste della Germania. Il Kaiser assicurò agli austriaci che li avrebbe appoggiati se avessero attaccato la Serbia, sapendo che la Russia si sarebbe fatta avanti, poi Francia e Gran Bretagna non sarebbero rimaste a guardare. Il modo era già sull’orlo della guerra e l’attentato segnò il punto di non ritorno».
Nella Jugoslavia di Tito, Princip era celebrato come un eroe. Ma non certo nella Bosnia di oggi, spiega Smith: «Quando andai a Sarajevo per le mie ricerche, anni fa, constatai che i bosniaci musulmani consideravano gli attentatori dei terroristi. Allora il museo che li ricordava era chiuso e molti cimeli erano stati gettati nel fiume. Il taxista che mi portò al cimitero per vedere le loro tombe mi raccontò che era stato ferito durante la guerra degli anni Novanta, combattendo contro i suoi ex vicini e amici. Sarajevo, un tempo vivace incrocio di etnie e religioni, è stata avvelenata dalla maledizione dell’odio tribale. E la triste verità è che tutto cominciò nel 1914, con gli assalti e le devastazioni che si scatenarono, subito dopo l’attentato, contro le proprietà dei serbi. Fu un’altra conseguenza non voluta dell’azione di Princip» .

La Stampa 27.6.14
28 giugno 1914
Franz Ferdinand e Gavrilo l’ultimo viaggio a Sarajevo
Lungo le strade percorse cent’anni fa dalla vittima e dall’attentatore fino alla città bosniaca dove ebbe inizio la Prima guerra mondiale
di Eric Gobetti


Sarajevo, eccoci, siamo arrivati. Domani è il grande giorno. Tutto è cominciato qui, in questo angolo d’Europa, dove un adolescente inquieto, Gavrilo Princip, ha sparato per strada a Francesco Ferdinando, l’erede al trono degli Asburgo, in una fresca mattina d’inizio estate. Era il 28 giugno 1914, cento anni fa.
Quel giorno, terminava la belle époque e prendeva inizio quello che è stato definito «il secolo breve», ma che in effetti è un lungo incubo fatto di guerre mondiali, ideologie totalitarie, massacri terrificanti. Un secolo destinato a finire, per gli storici, di nuovo a Sarajevo, con l’assedio degli anni Novanta, ma che incide ancora, pesantemente, sulla nostra quotidianità.
Per comprendere il senso delle celebrazioni che si terranno questo 28 giugno a Sarajevo, per cercare di capire il mondo di allora ma anche questa nostra Europa di oggi, insieme con lo storico Simone Malavolti abbiamo pensato a un viaggio. Anzi due, quelli affrontati dalla vittima e dall’assassino per giungere a Sarajevo cento anni fa. Siamo in viaggio sulle strade di Franz Ferdinand e Gavrilo Princip anche per realizzare un docufilm dal titolo Sarajevo Rewind 2014>1914 (Potete seguire il progetto e i viaggi sulla pagina Facebook sarajevorewind2014 o sul blog sarajevo14.wordpress.com).
Vienna-Trieste-Mostar-Sarajevo. Franz Ferdinand arriva dal cuore dell’Impero, per dirigere le grandi manovre militari in previsione di una guerra contro la Serbia. Una guerra che doveva essere limitata, regionale, e che si è trasformata invece in una carneficina globale. Vienna conta oggi meno abitanti che nel 1914. Non è più la capitale di un grande impero sovranazionale, dove si parlavano undici lingue ufficiali. Rimane tuttavia un polo d’attrazione regionale, e mantiene la sua bellezza pura e composta. Scendiamo verso Trieste, dove l’arciduca si è imbarcato su una corazzata alla volta della Dalmazia. Qui si respira più che nella stessa Austria la nostalgia degli Asburgo e del loro impero che fece grande Trieste, porto del mondo germanico sul Mediterraneo, ponte verso l’Oriente.
Belgrado-Šabac-Tuzla-Sarajevo. Gavrilo Princip parte da Belgrado, la Torino dei Balcani. Qui si ritrovava - come nella Torino del nostro Risorgimento - chi coltivava il sogno di uno stato che comprendesse tutti gli slavi del sud. L’Italia di Mazzini e Vittorio Emanuele era il modello di riferimento: Piemonte si chiamava la rivista irredentista; Mano Nera (con riferimento alla carboneria) la società segreta più attiva; Giovane Bosnia il gruppo di patrioti a cui apparteneva Gavrilo Princip. A Belgrado domina oggi il senso di emarginazione, di esclusione dall’Europa. Cent’anni fa era la capitale di un regno in espansione, che con le Guerre balcaniche del 1912-1913 aveva raddoppiato il territorio. Era una sorta di hinterland della Mitteleuropa: si andava a studiare a Vienna, si facevano affari a Berlino e politica a Parigi. Cent’anni fa uno dei compagni di Princip aveva passato la frontiera (tra due paesi già quasi in conflitto) con la tessera studentesca di un amico. Oggi è difficile persino per noi, tra controlli asfissianti e difficoltà logistiche dovute alla spaventosa alluvione di qualche settimana fa.
In Bosnia è ancora forte il retaggio delle guerre di vent’anni fa, ma noi ormai guardiamo con gli occhi - arrossati dalla stanchezza del viaggio - dei nostri protagonisti. L’arciduca l’attraversa in treno, sulla ferrovia Mostar-Sarajevo appena inaugurata. L’attentatore compie un lungo tragitto a piedi, dal confine a Tuzla. L’erede al trono e il suo assassino vedono due Bosnie diverse, e così noi. Mostar era allora protagonista di uno sviluppo accelerato, quasi forzato, per opera degli Asburgo, che avevano annesso la regione nel 1908 dopo trent’anni di occupazione. Oggi resta una città divisa: la linea del fronte fra croati e musulmani, che spezzava in due la città, è un confine intangibile ma ancora ben presente nella quotidianità degli abitanti. E le partite delle due nazionali, Croazia e Bosnia, acuiscono le tensioni. Tuzla era un secolo fa un grande centro contadino e tradizionalista; oggi è il simbolo della convivenza fra le diverse nazionalità, ha resistito a ogni forzatura in questa direzione persino durante l’ultima guerra, mettendosi contro avversari e alleati pur di rimanere davvero multietnica
Siamo arrivati infine a Sarajevo, la città dove le contraddizioni della Bosnia si sommano e si intersecano, così come i destini dei nostri viaggiatori. La città centro-del-mondo, simbolo di tutta l’Europa, confusa tra la paura del diverso e l’attrazione per l’alterità. Qui ognuno si può sentire a casa, può ritrovare qualcosa di se stesso e della propria cultura; ma al tempo stesso si sente un visitatore spaesato, disorientato da sinagoghe e minareti, veli e minigonne, palazzoni realsocialisti e insegne della Coca-Cola. Qui si incrociano anche le storie dei nostri due viaggiatori. Franz Ferdinand incontra finalmente la moglie tanto amata, la contessa Sofia. Lei non era di lignaggio sufficiente per un Asburgo, ma lui l’aveva sposata lo stesso con matrimonio morganatico: rinunciava ad ogni pretesa al trono per gli eredi e la moglie non avrebbe dovuto apparire pubblicamente al suo fianco nelle visite di stato. A Sarajevo era la prima volta, e fu anche l’unica. Gavrilo Princip si incontra coi congiurati. Sono in sette quel mattino ad aspettare l’erede al trono lungo il tragitto. Tutti idealisti, sognatori, adepti della religione della patria, votati al martirio. Astemi, casti, appassionati di letteratura, poeti: Princip scrive fino all’ultimo giorno prima di morire di tubercolosi nel carcere di Terezin.
Sono passati cent’anni da quei colpi fatali ma ancora non sembra essersi fermato il vortice di intolleranze, pregiudizi, odi. Domani la biblioteca di Sarajevo - distrutta dalle bombe durante la guerra e finalmente rinnovata – ospiterà il concerto della filarmonica di Vienna. Stavolta i serbi non ci saranno; il noto regista sarajevese Kusturica – che ha convertito il suo nome musulmano, Emir, nel serbissimo Nebojša – ha organizzato le celebrazioni a Višegrad, la città del «Ponte sulla Drina» di Ivo Andric’, che nel 1914 faceva parte della stessa organizzazione irredentista di Princip.
Domani celebriamo un’Europa rinnovata, dopo un secolo di stragi. Festeggiamo; ma non scordiamoci tutti i pericoli, le minacce, i rischi a cui il nostro mondo all’apparenza così sicuro e intoccabile va quotidianamente incontro. Sarajevo ci ha insegnato che bastano due spari per infiammare un continente intero. Facciamo tesoro di questa lezione.

La Stampa 27.6.14
Quel giorno che Marina andò al fronte con i cosacchi
I Diari della Grande Guerra, da oggi su Rai Storia, racconta attraverso storie personali, la carneficina dei popoli europei
di Mirella Serri


Suonano a stormo le campane di un minuscolo villaggio del Caucaso e Marina, figlia quattordicenne del colonnello Yurlov, capo dei cosacchi del Kuban, corre tra i girasoli. Vuole salutare suo padre in procinto di partire: l’Europa è in ebollizione. Il 28 giugno 1914, esattamente cento anni fa, i colpi di pistola di Gavrilo Princip hanno imbrattato di sangue l’uniforme azzurra di Francesco Ferdinando d’Asburgo e dato il via alla prima guerra mondiale.
Il 1º agosto il governo tedesco ha gettato il guanto di sfida alla Russia e Yurlov è stato richiamato. Le donne cosacche, scrive Marina nel suo diario, sono abituate ad accompagnare i loro uomini al fronte e anche lei è pronta a farlo. Negli stessi giorni, a Berlino, la famosa pittrice e scultrice socialista Käthe Kollwitz annota che suo figlio Peter è ansioso di imbracciare le armi. L’artista, ex pacifista, aderisce alla tesi che «la guerra sancirà l’unione tra le genti». Su posizioni ben diverse è il giovane agricoltore austriaco Karl Kasser, arruolato nell’esercito austro-ungarico. Ai familiari scriverà che la confusione regna sovrana: le divise sono a pezzi, le scarpe sfondate e nessuno è addestrato a maneggiar le armi. Cosa pensavano, dunque, con quale amore o con quale furore russi, tedeschi, italiani, inglesi, serbi, croati e altri ancora si avviarono verso la linea del fuoco?
A documentare le vite di 14 protagonisti della mattanza bellica arrivano le bellissime otto puntate dei Diari della Grande Guerra, un progetto della nuova direzione di RaiCultura diretta da Silvia Calandrelli, in onda ogni venerdì da oggi alle 21 e 15 su Rai Storia. La docufiction, ricostruita attraverso le pagine di gente comune o di autori destinati a diventare celebri, come Ernst Jünger, è accompagnata da filmati d’archivio in gran parte inediti. Le immagini a volte dicono più delle parole: hanno infatti un’aria allegrissima i militi del Kaiser che occupano Sedan. Quei sorrisi però non nascono dall’orgoglio per la vittoria ma dai fiaschi che sollevano gioiosi alla salute del ritrattista. Le distillerie funzionano a pieno regime nelle retrovie anche se l’alcol non riesce a placare tanta disperazione: «Abbiamo camminato due giorni con un equipaggiamento che pesava 40 chili», racconta Kassner. «Sono sprofondato in un acquitrino. ‘Rimani fermo’, mi sono detto guardando i corpi dei camerati che galleggiavano lì intorno». Tra le innumerevoli privazioni che affiggono i soldati c’è anche la mancanza di sonno: «Sessanta interminabili ore - registra Jünger - senza dormire, esposti al gelo». Sorpreso mentre è di guardia e schiaccia un pisolino, viene mandato a ispezionare la temibile «terra di nessuno».
Anche i ragazzini sono al centro del conflitto: Yves Congar ha dieci anni, abita a Sedan e crede che la Francia vincerà velocemente. Finché i tedeschi non bussano alla sua porta: «Sono ladri, assassini e incendiari», scrive, «queste pagine dovrebbero essere appuntate sulla schiena dell’imperatore Guglielmo». Nemmeno l’amore, mercenario e non, può sollevare il morale dei combattenti: i tedeschi prescrivono l’uso del «profilattico grigio antistrappo, marca Neosalversan» e sottolineano che «a causa dell’ampia domanda, è possibile che le scorte si esauriscano». Jünger si incontra segretamente con la francese Jeanne. E commenta che tra le lenzuola la lingua straniera si impara meglio che con i versi di Rimbaud. La cosacca Marina, che ha quasi perso una gamba facendo saltare un ponte, viene insidiata dal suo comandante: «I suoi begli occhi si erano fatti vuoti, ed ero stupita di quel sorriso falso e sciocco. Un po’ di saliva gli uscì dall’angolo della bocca, ero spaventata».
Per molti il rombo dei cannoni accompagna la follia: l’italo-americano Vincenzo d’Aquila, che ha lasciato New York per difendere la sua prima patria, finisce a Udine in psichiatria mentre insiste nel proclamarsi Dio.
Cosa accadrà quando il conflitto sta finendo nelle esistenze di questi tartassati eroi? La Kollowitz riceverà la notizia della morte del figlio e vivrà torturata dai sensi di colpa. Il padre di Yves sarà deportato in Germania, mentre l’adolescente trascorre un anno in cantina per poi risorgere a nuova vita. Anche Vincenzo se la caverà. Marina compie 18 anni a Kazan, prigioniera dell’Armata Rossa. I bolscevichi, dopo lo scoppio della guerra civile, mettono al muro i cosacchi. L’11 novembre 1918, alle 11, in tutta Europa s’odono i rintocchi a festa delle campane. Si conclude la Grande Guerra con dieci milioni di morti e tante memorie dei superstiti.

l’Unità 27.6.14
Strategie e silenzio. Stragi nazifasciste senza colpevoli
Eccetto Priebke e Kappler gran parte dei crimini restano impuniti
La Germania si rifiuta di individuare i responsabili e risarcire le vittime forte di un verdetto della Corte Costituzionale dell’Aja del 2012


STRAGI NAZIFASCISTE. UNA LUNGA SCIA DI SANGUE INNOCENTE CHE PUNTEGGIÒ L’OCCUPAZIONE TEDESCA IN ITALIA TRA L’ESTATE DEL 1943 E IL MAGGIO 1945, CON EPICENTRO NEL 1944 IN TOSCANA. Solo furore? O anche metodo nella follia, cioè strategia? I numeri. Nel biennio vi furono 400 stragi e il bilancio fu di 15mila vittime civili, tra massacri di inermi e rappresaglie. Mentre per i partigiani passati per le armi, Carlo Gentile e Heinz Klinkhammer parlano di 10mila persone. Dunque Toscana nel mirino, per la sua posizione al centro dell’Appennino, cruciale per il ripiegamento tedesco verso la linea Gotica dopo lo sfondamento a Cassino e la liberazione di Roma il 4 giugno 1944. In Toscana tra aprile e agosto del 1944 i comuni interessati furono 83 e 280 le stragi, con 4500 assassinati. La più famosa, almeno quanto quella di Marzabotto, fu la tragedia di Sant’Anna di Stazzema, il 12 agosto. In tre ore una divisione delle Ss trucidò 560 persone: anziani, donne e bambini. Tutto documentato e occultato nei famosi «armadi della vergogna». Nel gennaio 1960 il procuratore generale militare Enrico Santacroce impacchetta col timbro «archiviazione provvisoria» 695 fascicoli sulle stragi tedesche, seppellendole in un armadio contro un muro. Solo nell’estate 1994 il giudice Antonino Intelisano, a caccia di prove contro Priebke, trova i fascicoli, in uno sgabuzzino di Palazzo Cesi, negli uffici giudiziari militari a Roma.
E la polemica sulla memoria si incendia. Già, perché oltre al processo contro Priebke, è in corso la discussione sulla «guerra civile» in Italia, sul fascismo non più «male assoluto» a differenza del nazismo. Sui ragazzi di Salò, e le responsabilità della Resistenza. Di lì a qualche anno sarebbe fiorita la saga di Giampaolo Pansa contro la Resistenza rossa e le sue vendette, ben dentro la polemica di destra contro il fondamento antifascista della Costituizione a base della democrazia parlamentare, da rifondare in chiave presidenzialista.
Ma torniamo alle stragi. Chi le perpetrava e perché? Chi ne fu complice? E quanto furono punite nel dopoguerra? Ecco le formazioni più feroci di stragisti. La Leibstandarte Adolf Hitler, presente a Boves, Lago Maggiore e Istria. Le unità SS Karstjaeger, attive in Venezia Giulia e Friuli. La 16ma SS Panzer-GrenadierDivision ReichsFuehrer, colpevole di aver soppresso non meno di 2mila civili tra luglio e settembre 1944 in provincia di Pisa, Lucca, nelle Apuane e nell’Appennino Bolognese. Anche Whermacht e Luftwaffe sono in prima fila. «Uomini comuni» e veterani della pulizia ideologica, unità combattenti e specialisti della guerra etnica, spesso reduci dai massacri orientali. Addestrati per il Bandengebiet, il rastrellamento metodico che devasta villaggi e vallate, deporta e cattura ostaggi. Come sapevano fare i 33 «pacifici» SS Bozen incappati nell’attentato di Via Rasella: volontari altoatesini destinati alla repressione e alla mattanza e a tal fine istruiti.
Perciò collera e furore, vendetta e punizione, contro gli italiani traditori che osavano opporre resistenza, già a partire dalle stragi di Nola, Acerra, Caiazzo dell’estate 1943. E a Cefalonia dopo l’8 settembre. Poi guerra etnica: caccia agli ebrei col supporto della Rsi e delle sue leggi (eredi di quelle razziali del 1938 con relativi elenchi). E infine «strategia»: dissuadere le popolazioni dal fornire aiuto ai partigiani. Con ferocia sistematica. E addossando ai resistenti la colpa delle rappresaglie. Era il risvolto psicologico della contro-resistenza contro l’avanzata Alleata sul fronte italiano, inteso come scudo a favore della Germania. Mossa capace di sottrarre uomini e mezzi alleati dal fronte occidentale. E ritardare l’assedio finale al Reich da Ovest, prima della controffensiva delle Ardenne. Poi c’erano i ragazzi di Salò. Apporto logistico, spionistico e materiale ai tedeschi. In nome dell’«onore». E perciò elenchi di persone sospette, carte toponomastiche, e fornitura di plotoni di esecuzione, come a Piazzale Loreto il 10 agosto 1944. Oltre alle rappresaglie fatte in proprio, con l’avallo dei Tribunali speciali: Ferrara, Lovere, Savona, Reggio Emilia, Genova, Villamarzana, Villa Sesso.
E la punizione dei colpevoli nel dopoguerra? Vendette e giustizie sommarie a parte, per lo più i fascisti se la cavano, tra amnistia di Togliatti, epurazioni soft e sconti di pena. Molto più severa sarà la magistratura coi partigiani, spesso accusati di crimini comuni. Ma la vera sanatoria sarà quella per i tedeschi. Uomini e ditte che si riciclano nella vita civile. Amnistiati, graziati, rilegittimati. Come Kesserling, stratega del terrore in Italia, condannato a morte da un tribunale inglese nel 1947, poi graziato e liberato nel 1952 (e divenuto consulente militare di Adenauer nel quadro del riarmo Nato). O come la Bayer nel consorzio «Ig Farbe» che produceva il gas Ziklon b e come la Krupp, la Thyssen e tante industrie germaniche complici della macchina nazista. Quanto alla giustizia tedesca malgrado le Convenzioni dell’Aja e di Ginevra, Norimberga e la Carta dell’Onu mostra ancora riluttanza nel processare i colpevoli di stragi.
Valga l’esempio di S. Anna di Stazzema, su cui si sono pronunciati i tribunali militari di La Spezia, Roma e la Cassazione. La Procura di Stoccarda il 26 settembre 2012 ha archiviato il processo, pur accettando che si trattasse di crimine di guerra. Ma l’archiviazione si basava sulla tesi pretestuosa che dopo dieci anni di indagini, la giustizia tedesca non poteva accertare il ruolo dei singoli imputati. Né si dichiarava comprovato che il crimine fosse stata un’azione pianificata contro i civili, invece di un’azione avvenuta durante lo scontro con i partigiani. I giudici tedeschi dichiararono che la sentenza italiana di La Spezia del 22 giugno 2005 era fondata sul nulla, e che i dieci imputati erano stati giudicati senza fondamento. Eppure c’erano rei confessi, che avevano dichiarato di aver ricevuto l’ordine di massacrare deliberatamente i civili. Inutile il successivo ricorso sempre a Stoccarda, presentato dall’avvocato Gabriele Heinecke e dallo storico Carlo Gentile. Secondo i giudici mancava a Stazzema «un ordine scritto» per appurare la dinamica del crimine! Come dicono i negazionisti sulla Shoa. Ergo, non processabilità degli imputati: 14 inizialmente, poi ridotti a 5 ultranovantenni nel 2013, e oggi rimasti in tre. Infine nuovo ricorso, alla Corte di Karlsruhe stavolta. Ma la Corte nel novembre 2013 ha già sospeso le indagini contro tre degli imputati superstiti, e dichiarato che le condizioni di salute di un quarto non sono compatibili col processo, mentre un quinto imputato è deceduto. Nel frattempo parole solidarietà e comprensione sono venute dal Presidente tedesco Gauck e da Schulz. Ma il punto resta: la Germania si rifiuta di condannare i colpevoli e risarcire le vittime, forte di un verdetto della Corte Internazionale dell’Aja del 2012, avverso ai risarcimenti richiesti ai tedeschi, in nome del diritto «all’immunità giurisidizionale contro i crimini nazisti». Insomma, la Germania di oggi non risponde per quella di ieri. Anche se poi la Germania di oggi, quella nata nel 1989, ha rivendicato l’annessione dell’est in nome della continuità della nazione tedesca. Applicando, ai comunisti della Ddr, un insieme di leggi risalenti agli anni trenta della sua storia (tradimento, secessione, etc). Morale: a parte Priebke e Kappler (poi fatto fuggire) gran parte dei crimini nazisti restano impuniti.
E i tedeschi di oggi al centro dell’Europa e gonfi di egemonia geoeconomica hanno gravi responsabilità al riguardo. Custodi del rigore come stigma etico della loro idea di Europa, riluttano nel punire i loro colpevoli e retrocedono agli anni 60, al silenzio su Auschwitz, rotto dai processi a Francoforte tra il 1963 e il 1968. Infatti, nonostante la fiammata generazionale del 1968, la consegna giuridica fu in seguito questa: non istruire processi e non pagare risarcimenti. Una ferita aperta. Inaccettabile. Che delegittima la Germania democratica di oggi a vantaggio di rancori e populismi. E ne mina a fondo l’immagine di architrave virtuosa del Continente.

Repubblica 27.6.14
L’amore e i pericoli del mestiere, la necessità di “fallire ogni tanto” Così il grande autore si racconta al festival “Le Conversazioni”
Scrittori, usate ancora la penna È la sola bacchetta magica che fa apparire l’impossibile
di Hanif Kureishi


SONO arrivato ad adorare le mie penne e mi si può sorprendere spesso intento a coccolarle, soprattutto la mia vecchia Mont Blanc modello classico. Ultimamente, però, mi sono invaghito di una nuova Montegrappa nera, con il suo astuccio lucido, la sua pesantezza e il suo pennino flessibile. Una delle mie occupazioni preferite è studiare il catalogo della Montegrappa, voltare adagio le pagine patinate, convincermi che ho bisogno di quella turchese e che non posso sopravvivere un minuto di più senza le St. Moritz in edizione limitata.
Non che le penne costose siano sempre migliori di quelle economiche.
Io uso quotidianamente le stilografiche della Lamy, come pure le sue penne roller, in svariati colori. Muji è eccellente per la leggerezza delle sue penne gel. Ma a volte quel che ci vuole è solo una matita morbida… E comunque, molto dipende dal tipo di carta che si usa e da quale pennino scorre meglio su una certa superficie… Uno scrittore potrebbe arrivare ad amare l’armamentario sempre pieno di novità degli strumenti da scrittura e degli inchiostri, dei colori da scegliere, come i chitarristi amano le chitarre, i fotografi le loro macchine fotografiche e i feticisti la loro cosa. Mi piace che la pagina su cui lavoro sia decorata. Voglio che la mia arte o mestiere – la scrittura – somigli a un’azione fisica come il disegno. Non è solo un ingannare il tempo in attesa del momento in cui dovrò impegnarmi davvero nel travaglio dell’inizio. In termini di frasi e capoversi, mi piace che la pagina presenti una bella composizione; è parte del piacere di ciò che faccio, così come quando scrivo mi piace guardare opere d’arte, piuttosto che leggere le parole di altri.
Questo piacere è, beninteso, solo un edonismo minore, perché come potrei dimenticare che sono cresciuto negli anni ‘60, quando il piacere era ancora clandestino, sovversivo e irreligioso, quando fumare una sigaretta poteva sembrare decadente? [...] Quanto era di moda negli anni ‘60, e soprattutto nei ‘70, non avere cura di sé né di chiunque altro, avvicinarsi il più possibile al pericolo e alla morte, dove la crudezza che prendevano le cose sembrava contare più di tutto il resto: quanto era importante essere una minaccia per se stessi, quando non per gli altri. I Velvet Underground con i loro dolcevita neri e il look da moribondi, ebbero un impatto straordinario. [...] Ma quanto all’edonismo impegnato, c’è sempre il rischio che ve ne sia in eccesso. Se, in determinate circostanze, i farmaci possono nuocere, il lavoro può fare anche peggio. Nietzsche, sempre degno di fede quando si tratti di verità, bolla il lavoro come «il migliore dei gendarmi» e lo contrappone – come tediosa fatica – a faccende molto più importanti come «meditare, sognare, preoccuparsi, amare, odiare», suggerendo l’idea che il puro faticare ci organizzi in modo troppo semplicistico ed escluda troppe cose. Noi usiamo il lavoro come una disciplina per estinguere i nostri impulsi più interessanti e appassionati. Se il testo letterario più significativo del dopoguerra, Aspettando Godot, trattava dell’insostenibile pesantezza del differimento, di quanto si possa ammattire quando non succede niente di importante, noi siamo cresciuti – secondo la modalità del capitalismo allora in voga – in un periodo di gratificazione istantanea. L’attesa e la frustrazione non erano più consentite. Ora volevamo tutto e lo volevamo subito. Quindi attenzione: se c’è solo il piacere, questo richiama comportamenti distruttivi e morte. Immolarsi è sempre una tentazione. I gaudenti esplodono, ammattiscono o altrimenti si rovinano, come fosse il più perverso dei privilegi. La fine naturale del piacere sarebbe l’assuefazione, una strettoia fatale, dove trovare, finalmente, un confine o un limite.
La domanda importante deve essere: come possiamo difenderci dai nostri comportamenti distruttivi, quei capricci con cui ci danniamo da soli? Come facciamo anche solo a capire che siamo distruttivi? Dove potremmo trovare immagini migliori di belle vite?
Il fare arte rappresenta il crocevia dove le cose belle entrano in collisione, dove il dovere, la magia e la creatività si scontrano fruttuosamente. Essere un artista è un modo per interessarsi alle persone senza doverci andare a letto. C’è un’osservazione molto appropriata dell’analista inglese Ella Sharpe: «La sublimazione è nella sua stessa esternazione una presa di coscienza delle capacità che abbiamo dentro sia di amare che di odiare…». Non tutto può essere sublimato; una cosa non può essere trasformata in un’altra indefinitamente. Né possiamo dimenticare l’elemento escluso o rinunciarvi; questo deve incontrare il pericolo e un oggetto o noi ci ammaleremo di mancata realizzazione, diventando insopportabili a noi stessi. L’edonista, il gaudente “mordi e fuggi” e l’assuefatto sono al riparo da ciò; non può succedere niente di nuovo perché hanno cancellato il futuro. Hanno fatto in modo che la cosa brutta sia già successa.
Se mi guardo intorno, vedo che gli amici che resistono con maggiore soddisfazione, se non felicità, sono artisti o artigiani, quelli che continuano a lavorare per quanto futile possa sembrare. Loro vanno avanti: il lavoro può anche essere eccentrico, strampalato o delinquenziale, ma l’artista deve plasmare e tenere sotto controllo le capriole dell’immaginazione per fare qualcosa destinato agli altri, sopportando la frustrazione di trasformare le fantasticherie in significati. Ogni lavoro è produttivo, un saluto, un cenno dall’altra parte dell’abisso, mentre il pubblico percepisce quello che l’artista attraversa.
L’artista deve vivere sull’orlo del fallimento. Non può esserci alcuna onniscienza; qualsiasi lavoro può essere un trionfo, un disastro o un po’ di entrambi. La difficoltà qui deve essere proporzionata e il lavoro non impossibile. La penna è uno strumento molto più che utile; è la bacchetta magica che fa apparire quello che ancora non sai. (Traduzione di Paola D’Accardi)